La saggezza nel sangue 8811685168, 9788811685166

"La saggezza nel sangue" è il primo romanzo di Flannery O'Connor, uscito nel 1952 e definito dalla stessa

199 52 5MB

Italian Pages 246 [254] Year 2002

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

La saggezza nel sangue
 8811685168, 9788811685166

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

gli elefanti

Flannery O'Connor La saggezza nel sangue Prefazione di Fernanda Pivano

Post/azione di Luca Doninelli

Garzanti

In questa collana Prima edizione: giugno 2002

Traduzione dall'inglese di Marcella Bonsanti Titolo originale dell'opera «Wise Blood» © 1949, 1952, 1962, 1968 and 1980 by Flannery O'Connor ISBN 88-11-68516-8 ©Garzanti Editore s.p.a., 1985 ©Garzanti Libri s.p.a., 2002 Printed in ltaly www.garzantilibri.it

P refazione

S ono più i saggi e le monografie usciti su Flannery O'Connor che i suoi pochi, 39, anni di vita: eppure flan­ ' nery O'Connor, che nacque il 25 marzo1925 e morì il 3 a­ gosto1964, scrisse soltanto due romanzi e due raccolte di racconti, una delle quali uscì postuma un anno dopo la sua morte. Postumi uscirono anche una scelta di saggi e un volume che col titolo Collected Stories raccolse tutti i racconti dei due volumi precedenti, le prime versioni dei due romanzi che in parte erano stati pubblicati in forma di racconti, un frammento di un romanzo incompiuto e un racconto inedito: il volume uscì nel1971 e l'anno dopo ricevette il National Book Award. Questa consacrazione coronò una vita sommessa, conformista, severamente divisa tra la devozione cattoli­ ca e gli impegni letterari, dove il solo spiraglio a fare del­ la scrittrice un personaggio fuori dalla casa di campag na e dalle sale per conferenze fu la malattia ter ribile (pro­ babilmente ereditata dal padre) che la colpì a 25 anni e la divorò giorno per giorno senza che i medici potessero aiutarla: una breve vita silenziosa presente come il nega­ tivo di una pellicola nei suoi libri, tanto violenti e ribol­ lenti quanto la sua esistenza quotidiana fu apparente­ mente placida e-calma. I 25 anni prima della malattia la scrittrice li aveva pas­

sati praticamente a studiare. Era nata a Savannah, nella I

Georgia, f iglia unica di Regina Cline e di Edwin Francis O'Connor, entrambi cattolici, e nel 1938 seguì i genitori a Milledgeville, Georgia, dove la famiglia della madre vi­ veva da un centinaio d'anni (il nonno materno era stato a lungo sindaco della città), perché il padre si era amma­ lato di lupus e in previsione della morte aveva portato la moglie e la bambina dove potevano avere maggiore pro­ tezione. La futura scrittrice, che si chiamava Mary Flan­ nery (abbandonò il nome Mary nel1945), passò così l'in­ fanzia nell'orgogliosa casa dei Cline, costruita verso il 1820 e abbastanza rappresentativa da diventare per qual­ che tempo la dimora del Governatore: una casa circon­ data da dogwoods (gli alberi che riempiono di una bellez­ za quasi magica le valli d'America coi loro minuscoli f io­ ri) e dal muro di mattoni costruito dagli schiavi, ancora in uso dieci anni fa anche se un po' smussato e invaso di ragnatele; un tipico ambiente antebellum, sottolineato dalle colonne bianche del portico della casa. In questa casa, nel centro della città, Mary Flannery a­ bitò anche da adolescente; andava a scuola alla Peabody High School, dove già scriveva racconti e illustrava libri: passava il tempo studiando, allevando quaglie, andando a cavallo senza sella e facendo gioielli di masonite. Quando il padre morì, nel 1941, Mary FJannery frequentò il liceo ancora un anpo, si diplomò é�Ì· iscrisse a quello che allo: ra si chiamava il Georgia State College for Women, dove si diplomò nel 1945 in inglese e scienze sociali: all'uni­ versità dirig�va il giornale studentesco, la rivista letteraria trimestrale e l'annuario; collaborava con racconti alla ri­ vista «The Corinthian», ma si considerava soprattutto una disegnatrice di cartoons, che più tardi mandò al «New Yorker» senza vedersene mai comperare nessuno. Mentre era all'università uno dei suoi professori moII

strò alcuni suoi racconti al Writers' Workshop dell'Uni­ versità dello Iowa, che le diede una borsa di studio con la quale la O'Connor fu accolta alla School for Writers di­ retta da Paul Engle. A nche grazie a questa borsa di studio poté continuare a studiare e a scrivere e nel 1946 la rivi­ sta «Accent» pubblicò il suo racconto The Geranium. La O'Connor lavorava già al futuro romanzo Wise Blood: fu­ rono alcune parti di questo a meritar! e nel 194 7 il Fiction Award Rinehart-l9wa di 750 dollari grazie al quale le ven­ ne assegnato un posto a Yaddo, una fondazione filantro­ pica con sede a Saratoga Springs, vicino a New York, che offriva periodi di ospitalità agli scrittori. Così la O'Connor dopo aver frequentato la Iowa State University dal 1945 al 194 7 andò a Yaddo dove rimase fi­ no al l o marzo 1949, quando ritornò in Georgia per un mese andando poi a passare qualche tempo a New York. A New York diventò amica di due letterati cattolici, Ro­ bert e Sally Fitzgerald, seguendoli come loro pensionante nell'estate 1949 quando comprarono una casa a Ridge­ field in Connecticut; ma a Natale andò dalla madre in Georgia e subì un'operazione al rene che la trattenne un paio di mesi nel Sud: nel frattempo continuava un'inten­ sa corrispondenza con l'amica Elizabeth McKee, che poi diventò sua agente. Dalla raccolta di queste e altre lettere, curata da Sally Fitzgerald, risulta che la fortuna letteraria della O'Connor cominciò a Yaddo, dove si trovava anche Alfred Kazin, a quei tempi consulente dell'editore Har­ court, Brace & Co.: fu lui a raccomandare la scrittrice a Robert Giroux, direttore letterario della casa, al quale la O'Connor fu raccomandata anche da Robert Lowell, un altro residente di Yaddo, che nel febbraio 1949 la accom­ pagnò in casa editrice. Ma nel dicembre 1950 la scrittrice si ammalò e ritornò III

in Georgia dove le venne diagnosticato il lupus, le fecero trasfusioni di sangue e le fermarono la malattia con i­ niezioni di un derivato del cortisone, allora in fase spe­ rimentale: convinta d'essere ammalata di artrite, mentre era in ospedale riscrisse Wise Blood e lo mandò il l O mar­ zo 1951 a Robert Giroux della Harcourt, Brace & Co., che lo accettò nel giugno. Quando lasciò l'ospedale E­ mory dell'Università di Atlanta, nell'estate 1951, la scrit­ trice era troppo debole per salire le scale; la madre si tra­ sferì con lei ad Andalusia, una casa di campagna a qual­ che chilometro da Milledgeville, dove la giovane malata lavorava in una stanza a pianterreno a riscrivere da capo Wise Blood seguendo i consigli di Caroline Gordon, mo­ glie di Allen Tate. . Quando il libro uscì la malata viveva con la madre nel­ la casa di campagna e vi sarebbe rimasta 14 anni, coi contadini negri lì accanto, in cima a una collina, su un grande prato in declivio popolato da pavoni e uccelli sel­ vatici di cui la scrittrice amava circondarsi. Flannery scri­ veva la mattina, poi andava con la madre in macchina

a

colazione alla Sanford House, un altro esemplare perfet­ to di architettura antebellum, e il pomeriggio leggeva o dipingeva: da una lettera a Robert Lowell risulta che di­ pingeva soprattutto polli e fagiani, che le ricordavano i quadri di Rousseau. Le forti dosi di cortisone le indebo­ lirono sempre più le ossa finché i fianchi non la sorres­ sero più e dal 1955 in poi la scrittrice fu costretta a ser­ virsi di stampelle. Questo non le impedì di viaggiare, sia pure malvolen­ tieri: la O'Connor accettava di andare a tutte le confe­ renze alle quali la invitavano, anche se la pagavano po· chissimo; le scriveva apposta e le leggeva e quando furo­ no pubblicate postume ci si rese conto della cura con cui _ IV

le avev� composte. Aveva uno humour sardonico, che ri­ sulta dalle sue pagine e anche dalla sua aneddotica: per esempio una volta si fece fotografare senza sorridere sul­ lo sfondo della casa screpolata dei suoi contadini negri e commentò la fotografia dicendo: «Sembra che sia appe­ na passato Sherman.» A proposito del pellegrinaggjo a Lourdes fatto nel 1958 disse agli amici: «Avevo le più bel­ le stampelle d'Europa.» Lo humour che risulta dal suo e­ pistolario è invece brillante e piacevole, tale da cattivarle la simpatia degli amici. Tre anni dopo Wise Blood pubblicò una raccolta di rac­ conti, A Gaod Man Is Hard to Find, e poco dopo, nel 1960, un romanzo, The Violent Bear !t Away; stava lavo­ rando a un terzo romanzo ancora senza titolo quando dovette farsi operare di un tumore all'addome, benigno ma tale da riattivare il lupus, che le colpì un rene. Con­ sapevole della morte imminente riuscì a scrivere abba­ stanza racconti da mettere insieme un volume, che infat­ ti uscì postumo, nel 1965, col titolo Ever ything That Rises Must Converge.

La malattia non le aveva dato tregua ed era stata alle­ v iata soltanto -dalle cure della madre, dall'attenzione de­ gli ammiratori, dall'interesse dei colleghi e dall'amicizia epistolare durata nove anni con una signora che volle restare anonima e viene indicata nella raccolta delle let­ tere come «A»: con lei la O'Connor trattò soprattutto argomenti di carattere religioso, ma fece rivelazioni inte­ ressanti sulle sue letture e sulla sua fo.rmazione. Ad alleviare la sua malattia fu anche l'enorme successo di premi e di onori che accolse subito la sua minuscola produzione. Nel 1953 ricevette una borsa di studio dalla «Kenyon Review», che gliela rinnovò nel 1954; nel 1957 ne ricevette una dal National Institute of Arts and Letters v

e nel

1959

una di

8000

dollari dalla Ford Foundation. I

suoi racconti vinsero il Premio O'Henry tre volte, nel

1957,

nel

1963

e nel

1964

(l'anno della sua morte). Rice­

vette due lauree ad honorem, una nel College e l'altra nel

1963

1962 dal St.

Mary's

dallo Smith College.

Nell'epistolario ne parla poco. Parla poco anche della sua malattia. Parla molto dei suoi pavoni, dei suoi amici, ma soprattutto delle sue ansie esistenziali, che per lei e­ rano costituite dal problema religioso, e delle sue ansie organizzative a proposito della pubblicazione dei suoi li­ bri e delle recensioni che avrebbe potuto ottenere: forse spinta da un inconscio desiderio di lasciare un segno su un mondo che avrebbe abbandonato così presto. Wise Blood, il suo primo romanzo, che la scrittrice inco­

minciò a ventidue anni mentre era ancora all'Università dello Iowa, fu subito accolto nei circoli dell'establishment letterario come una grande promessa. Alcuni capitoli u­ scirono prima della pubblicazione del libro (che av venne nel

1952):

il primo, The Train, sulla «Sewanee Review)>

della primavera

1948,

il quarto, The Peeler, sulla «Ameri­

can Letters» dell'autunno

1948, il sesto sulla «Kenyon Re­

view», The Heart of the Park sulla «Partisan Rev iew», Enoch and the Gorilla sul «New World Writing>).

Il libro fu subito comperato per l'edizione tascabile dal­ la New American Library (che lo pagò

1955 uscì in Inghilterra,

nel

1960 in

4000

dollari), nei

Francia nella tradu­

zione di Maurice Coindreau (il traduttore di Faulkner a­ mico di Carol ine Gordon Tate) e nel

1962 in una seconda

edizione in America con la breve nota introduttiva del­ l'autrice: non diventò mai un best-seller nonostante la ri­ duzione cinematografica di John Huston del

1979,

ma

assicurò all'autrice una solidissima e duratura posizione VI

tra gli scrittori americani, sia quelli cattolici sia quelli del Sud. Questi due poli della sua posizione le erano molto chiari, se in una lettera del 15 settembre 1965 a Andrew Lytle, direttore della «Sewanee Review», scrisse: «Secon­ do il mio modo di pensare l'unica cosa che mi impedisce di essere uno scrittore regionale è il fatto che sono catto­ lica e l'unica cosa che mi impedisce di essere uno scritto­ re cattolico (nel senso stretto della parola) è il fatto che sono meridionale; ma l'elemento religioso del libro per lo più è ignorato e mi ha fatto piacere che tu lo abbia sot­ tolineato. Una parte della tua lettera è stata inclusa nella pubblicità dell'editore.)) Se l'elemento religioso (a quanto dice l'autrice) non è stato abbastanza sottolineato dalla critica certamente lo è stato dall'opinione pubblica della cittadina in cui viveva la O'Connor, dove furono in molti a risentirsi di quella che venne da loro considerata una beffa della fede batti­ sta e metodista (in realtà l'autrice precisa che i predicato­ ri descritti sono un evangelista e un protestante); e forse la O'Connor stessa fu in parte responsabile di questa rea­ zione per avere aggiunto alla seconda edizione del libro una nota nella quale diceva tra l'altro: «È un romanzo co­ mico che tratta di un cristiano suo malgrado e, in quanto tale, serissimo, perché tutti i romanzi comici d'un qual­ che valore debbono trattare questioni di vita di morte)). Il «Cristiano suo malgrado)) è Hazel Motes e la sua sto­ ria tragicomica, che è stata definita «la formazione di un anacoreta dei nostri temph>, si può facilmente leggere in chiave simbolista, a partire dai nomi dei personaggi per arrivare alle azioni importanti o insignificanti da loro compiute. Il protagonista del libro viene chiamato Hazel Motes, detto Haze, dove haze significa «nebbia)) e mole è la pagliuzza che nel detto popolare si vede negli occhi deVII

gli altri mentre non si vedono le trav i negli occhi propri, il suo competitore viene chiamato Hoover Shoats, dove shoat significa «porco», il suo antagonista viene chiamato

Asa Hawks, dove hawk significa «falco>>, e il giovane che ha il «sangue saggio» viene chiamato Enoch Emery, dove il nome biblico «Enoch» indica il patriarca che «ha cam­ minato con Dio». Il potere religioso attribuito al protagonista risulta per esempio dal Noli me tangere detto al camionista sulla stra­ da; mentre il ragazzo dotato di «sangue saggio» compie una serie di gesti rituali quotidiani, per esempio beve tut­ ti i giorni un frullato di cioccolata sacramentale, fa com­ menti osceni alla comparsa degli animali allo zoo e va a pregare una mummia nel museo (secondo una delle mol­ te interpretazioni religiose che sono state fatte del testo, questi gesti possono essere considerati le stazioni della Via Crucis di Enoch, che si considera un apostolo del «Nuovo Gesù Mummificato» e raggiunge il suo adempi­ mento religioso travestendosi da gorilla), la ragazzina che si fa trovare nel letto di Haze diventa la Madonna del Nuovo Gesù e infatti culla la mummia di Enoch tra le braccia. Perf ino l'automobile ha un signif icato simbolico: Haze predica dall'automobile la sua negazione di Gesù come il nonno aveva predicato dalla sua il valore di Gesù; ed è con l'automobile che Haze uccide il falso profeta os­ ser vandola lasciare sulla strada gocce di acqua e benzina simili al sudore del calvario. Il simbolo principale che unif ica tutti gli altri è il «san­ gue saggio» di Enoch. Nella rivalità tra Enoch e Haze che anch'egli è convinto di avere «Sangue saggio» (infat­ ti predica «la Chiesa non insozzata con la Redenzione dal sangue di Gesù»), pare che l'autrice tenda a pensare che il sangue più saggio sia quello di Haze, nipote di un VIII

predicatore e dunque erede della vocazione che lo fa predicare il Sangue di Cristo versato per la Redenzione. Un'interpretazione in chiave simbolista potrebbe conti­ nuare, ma la tentazione di continuarla passa quando si legge una lettera dell'autrice dellO febbraio 1962 a Char­ lotte Gafford a proposito di alcuni studenti: «Cercano di far diventare tutto un simbolo. Non ne posso più. Uno mi ha detto: "Perché ha scritto che quel cappello è nero?" "Be'", dissi, "in Georgia di solito portano il cappello ne­ ro." Gli parve una risposta molto stupida e dopo pochi minuti disse: "Qual è il significato di quel cappello?" "Quello di coprirsi la testa", dissi. Quando la seduta ter­ minò era chiaro che pensavano che non ero abbastanza intelligente per aver scritto il racconto che àvevo scritto.>> Forse farebbe più piacere all'autrice l'insistenza sul si­ gnificato religioso del libro e sulla chiave comica nella quale è stato scritto. In un saggio del 1957la O'Connor af­ fermò: «Vedo le cose dal punto di vista dell'ortodossia cri­ stiana. Questo significa che per me il significato della vita è accentrato nella nostra Redenzione attraverso Cristo e

quello che vedo nel mondo lo vedo in rapporto a questo.» Ricorrono continuamente nelle lettere tracce della sua fede cattolica. Alla sua amica «A» il 20 luglio 1955 scris­ se: «Scrivo come scrivo perché sono cattolica... Tuttavia sono una cattolica posseduta dalla consapevolezza mo­ derna, quella cosa che Jung descrive come astorica, soli­ taria e colpevole. Possedere questo dentro la Chiesa si­ gnifica portare un fardello, il fardello necessario per un cattolico consapevole ... Credo che la Chiesa sia l'unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando; l'unica cosa che rende soppor­ tabile la Chiesa è che in qualche modo è il corpo di CriIX

sto e di questo siamo nutriti... Se si crede nella divinità di Cristo si deve aver caro il mondo nello stesso momen­ to in cui si lotta per sopportarlo. Questo può spiegare la mancanza di amarezza nei miei racconti.» Alla stessa a­ mica precisò il 15 settembre 1955: «Quando mi defini­ sco una cattolica con consapevolezza moderna non in­ tendo ciò che potrebbe venire inteso nella definizione "cattolica moderna", che non ha senso. Se si è cattolici si crede ciò che la Chiesa insegna ... Voglio dire che sono consapevole in modo generale della posizione storica del mondo attuale che secondo Jung è astorica. Credo di a­ ver ricavato quest'idea dal suo libro L'uomo moderno alla

ricerca della sua anima.» Le sue dichiarazioni di ortodossia, ripeto, ritornano frequenti nelle lettere, per esempio in quella del 16 di­ cembre 1955 sempre alla sua amica «A»: «lo credo che lo Spirito Santo sia realmente il Corpo e il Sangue di Cristo e non un simbolo.» Per questo quando dice in una lette­ ra del 9 luglio 1955 a Ben Griffith: «Penso a Haze Motes come a una specie di santo. La sua virtù principale è l'in­ tegrità» dobbiamo crederle; e anche dobbiamo crederle quando scrive ad «A» il 25 novembre 1955: «Non ho mai avuto ripensamenti su Enoch, ma ho lottato molto su Ha­ ze. Tutto quello che diceva e faceva Enoch mi riusciva chiaro come la mia mano. Stavo scrivendo quel libro da cinque anni e fino all'ultimo ero certa che non funzio­ nava. Quando lo finii cominciai a prendere cortisone in grandi dosi e il cortisone fa pensare giorno e notte fin­ ché la mente diventa esausta. A quel punto vivevo più o meno la mia vita e Hazel Motes viveva la sua.)) La sua ortodossia non era soltanto teorica, come risulta da molte lettere, quando chiede a un sacerdote il permes­ so di leggere Gide o quando è convinta che dal pellegri-

x

naggio a Lourdes dipenda il miglioramento nella sua cal­ cif icazione delle ossa; e la sua f itta corrispondenza con sa­ cerdoti e religiose è cosparsa di discussioni tecniche, spes­ so intercalate di citazioni di Jung. Dalle sue posizioni na­ sce il personaggio tragicomico di Wise Blood, il predicato­ re protestante fondamentalista che ha fondato un suo or­ dine monastico ascetico e basato sulla penitenza, deciso a diventare un martire per difendere «la verità»; e non c'è dubbio che quella di Haze è una vocazione nel senso tra­ dizionale della parola, anche se si realizza in forme e i­ deologie così polemiche da diventare comiche nei riguar­ di della tradizione. È la padrona di casa innamorata di lui a pensare che Haze è un monaco quando gli vede buttar via il denaro nel cestino dei rif iuti o quando si accorge che mette le pietre nelle scarpe («Devo pagare», le spiega Haze) o che usa il cilicio («N on ha smesso di farle visto che io le faccio», af ferma quando lei gli dice che queste co­ se la gente non le fa più). Forse ha ragione l'autrice quando si risente dell'accen­ to messo dai critici sulle possibilità simboliche del libro: forse più che simboliche le situazioni e le frasi sono allu­ sive, vagamente misteriose, cariche di signif icati non det­ ti, nella tradizione più rigorosa del romanzo del Sud, quello definito neogotico e quello precedente che fa capo a Poe, infatti amorosamente studiato dalla scrittrice. Quando Haze dice alla sua corteggiatrice che si è acceca­ to perché «gli occhi ciechi possono contenere di più» pa­ re che in realtà il più a cui allude sia il nulla, l'abisso del­ la realtà, l'immensità dell'inconoscibile; e la sua parabola religiosa, dall'evitare il peccato per ev itare Gesù al predi­ care il suo rigetto di Gesù, si conclude in una sottomis­ sione totale, che sarebbe rassegnazione se non fosse vis­ suta attivamente come martirio. Anche il martirio ha una XI

parabola in Haze: va dalle pietre messe da bambino nelle scarpe per autopunizione alla cecità voluta per autopuni­ zione estrema, in un crescendo di violenza che passa at­ traverso il ferimento di Enoch, la distruzione della mum­ mia, l'assassinio del sosia, la distruzione dell'automobile. Della violenza tipica dei romanzi del Sud la scrittrice era consapevole e un po' la ironizzava: in una lettera agli amici Fitzgerald del 1953 riferisce col suo humour gar­ bato che uno zio le portava sempre messaggi di qualche amico che aveva letto il libro, per esempio: «Chiedile perché non scrive storie di persone carine.}} Persone ca­ rine in questo libro non ce ne sono proprio, come se la O'Connor riversasse sulle pagine l'inferno estraneo al paradiso di persone, cose e sentimenti carini nei quali era immersa la sua v ita quotidiana, a f ianco della trage­ dia della sua malattia. Di questa violenza è intriso il comico di cui la scrittrice parla nella sua introduzione, quando dice: « È un roman­ zo comico che tratta di un cristiano suo malgrado.»

È.

una comicità che per l'autrice va dal buffo al grottesco: del buf fo parla in una lettera del 1952 a proposito del travestimento di Enoch in gorilla: «In un primo tempo ho messo il padre di Enoch nel costume da gorillà e mi sembrava enormemente buffo, ma Caroline ha detto N o e aveva ragione. Era un po' troppo logico.» Del grottesco parla in una lettera del 1957 a Caroline Gordon: «Wil­ lard Thorpe ha letto una conferenza sul grottesco nella letteratura del Sud sostenendo che le sue radici sono nel­ la letteratura antebellum sudista, ma che il grottesco del­ la letteratura sudista d'oggi è diverso e ha implicazioni serie che la prima non ha. Ma ha detto di non avere spiegazioni soddisfacenti per questa dif ferenza. I miei aXII

miei hanno deciso che non le aveva perché non conosce abbastanza teologia.» Se l'idea di un uomo travestito da gorilla è per la 0'­ Connor emblematica di comicità, allora il suo libro di co­ micità è traboccante. E comico che i personaggi siano spesso descritti in termini di animali, per esempio la ma­ dre di Haze nel sogno gli sembra un enorme pipistrello, Enoch ha la faccia che ricorda il muso di una volpe, il fal­ so cieco sembra un mandrillo sorridente, il custode delle automobili ha la faccia che ricorda un'aquila e così v ia, in un crescendo che conduce Enoch a vestirsi da gorilla. Comiche sono anche innumerevoli annotazioni, quella che descrive l'automobile semidistrutta, quella di Haze che fende la folla coi gomiti sporgenti «come ali aguzze>> e arriva in cima alla scala del teatro ansante mentre qual­ cuno grida: «Fate largo a questo idiota», quella della don­ na che esce dalla piscina con la faccia lunga e cadaverica e i denti che sporgono dalla bocca; comica è la mummia, comica è l'idea della ragazzina che interrompe una tirata teologica di Haze per chiedergli se un bastardo può es­ sere salvato dalla sua Chiesa, comica è l'idea dell'auto­ mobile che la sera, prima di partire, va avanti e indietro di qualche centimetro, comica è l'avidità affaristica del competitore di Haze, comica è la fuga dei due innamo­ rati alla comparsa del gorilla, comici sono i gesti del po­ liziotto che capovolge l'automobile nel fosso, e si potreb­ be continuare: ma nella comicità l'accento viene sempre messo sulla v iolenza, come nella descrizione del giardi­ no zoologico dove l'orso ha un occhio solo e il falco è senza coda, o dell'uomo sul camion che è monco di un braccio, o della padrona di casa che è quasi cieca e si muove guidata dagli odori, o di Haze che ride con «ra­ pidi rumori», e anche qui si potrebbe continuare. XIII

Dove la comicità rientra nel più puro stampo della tra­ dizione sudista è nel dialetto usato dal la scrittrice: i dia­ loghi del libro, con le doppie negazioni e le storpiature da profondo Sud, sono perfetti sviluppi del linguaggio letterario tradizionale del Sud; e che la scrittrice le ha e­ laborate con g usto e felicità diventa chiaro da un con­ fronto con le lettere, dove spesso le caratteristiche della parlata meridionale vengono usate per gioco fino a sem­ brare spontanee. Ma in realtà la vera comicità sembra contenuta nel mon­ do del libro, insolito fino a essere bizzarro e stilizzato fino a sembrare inaccessibile. La «commedia)) (che in realtà è una tragedia dell'orrore) si svolge laconica, inespressiva, cristallizzata, coi suoi personaggi piatti e i suoi paesaggi o­ stili che sono insieme terribili e buffi. A essere bizzarro comincia Haze molto più col contegno che con l'aspetto; e il suo tragicomico furore religioso nel rifiuto di Gesù e della Redenzione si intreccia con la caricatura rosata delle sue compagne di viaggio o con quella granguignolesca del falso cieco e della giovanissima seduttrice o con quel­ la cinematografica del ragazzo che vuole a tutti i costi di­ ventare suo amico. Bizzarra è la sua blasfema ideologia re­ ligiosa, che a un cattolico suona ben più che grottesca: le pagine traboccano del suo Gesù affamato di ;:mime che Haze vuole evitare a tutti i costi, della sua convinzione che per dimostrare che non crede nel peccato deve prati­ care quello che viene chiamato tale, di affermazioni come: «N on dico che Gesù non fu crocifisso ma dico che non lo fu per voi)) o come: «Non mi serve Gesù)) o come: «Gesù è un trucco per gabbare i negri)) o come: «lo non ho biso­ gno di fuggire davanti a nulla perché non credo in nulla)) o come: «Se esistesse Gesù, io non sarei pulito)) o come: «La coscienza è un trucco e non esiste)) o come: «Un nuoXIV

vo tipo di Gesù non può sprecare il suo sangue per redi­ mere la gente perché è tutto uomo e non ha dentro nes­ sun Dio» o come: «La verità non conta per voi. Se Gesù vi avesse redenti, che differenza farebbe in voi))' e così via. Ma accanto alla bizzarria di questo mondo blasfemo re­ sta l'allusività ad arricchirla di una stranezza da suspense; per esempio quando il predicatore ormai cieco dice che non può più predicare perché «non ha tempo)) o quando ripete come in un ritornello di non essere «pulito)) o quan­ do insegue «la verità)) ostinatamente, furiosamente, fana­ ticamente, non si capisce se trovandola o no, ma predi­ candola con l'ardore di un apostolo: «lo predico che ci so­ no verità d'ogni specie, la vostra verità e quella di qualcun altro, ma che dietro a tutte loro c'è un'unica verità soltan­ to, ossia che non c'è nessuna verità.)) Sono queste «definizioni religiose ridicole)) , come dice la O'Connor, a rendere il libro comico. In una lettera al­ lo scrittore ]ohn Hawkes del 1959 la scrittrice disse. «Cre­ do che non si dovrebbe scrivere una cosa lunga come un romanzo su qualcosa che non è della più grande impor­ tanza e per me questo è sempre il conf litto tra l'attrazio­ ne verso il sacro e l'incredulità verso di esso che si respira con l'aria dei tempi.

È

difficile credere sempre ma anco­

ra di più nel mondo in cui viviamo adesso... Haze è sal­ vato dalla virtù di avere sangue saggio; è troppo saggio perché alla fine neghi Cristo. Il sangue saggio deve esse­ re per queste persone il mezzo della grazia: non hanno sacramenti. La religione del Sud è una religione fatta da sé, qualcosa che come cattolica trovo penosa e commo­ vente e cupamente comica.

È

piena di un orgoglio incon­

scio che conduce la gente a ogni genere di definizione re­ ligiosa ridicola. Non hanno niente per correggere le loro eresie pratiche e così le elaborano drammaticamente. Se xv

questo per me fosse soltanto comico non varrebbe niente, ma io accetto le loro stesse dottrine fondamentali del pec­ cato e della Redenzione e del Giudizio.>> Sulla comicità del libro bisogna dunque andare molto cauti, anche se in una lettera all'amica «A» la scrittrice si riprome tte, dopo esser stata criticata perché Hazel Motes non è abbastanza umano, di scrivere «il nuovo romanzo più umano, meno farsesco»; e parlando in una lettera del 1959 del suo nuovo romanzo dice infatti: «Questo libro è

meno grottesco di Wise Blood e meno buffo.» L'impor­ tanza religiosa del libro le è sempre presente: in una let­ tera del 1955 dice: «Tutti quelli che hanno le tto Wise Blood pensano che sono una nichilista, mentre io vorrei

creare davanti alla televisione l'impressione che sono una tomista.» E in una lettera del 1954 allo scrittore Ben Grif­ fith insiste sulla sua posizione religiosa: «Soltanto un cat­ tolico avrebbe potuto scrivere Wise Blood, anche se il libro tratta di una specie di santo protestante. Riduce il prote­ stantesimo alle due estreme assurdità gemelle della Chie­ sa senza Cristo o della Santa Chiesa di Cristo senza Cri­ sto, cosa che nessun pio protestante farebbe. E natural­ mente nessun miscredente o agnostico avrebbe potuto scriverlo perché è completamente accentrato nel pensie­ ro della Redenzione. Non sono in molti a volersene ren­ dere conto e forse è difficile farlo perché Hazel Motes è un ammirevole nichilista. Il suo nichilismo però lo ricon­ duce al fatto della sua Redenzione, che è ciò da cui gli sa­ rebbe piaciuto tanto fuggire»; una lettera che è anche la spiegazione del «cristiano suo malgrado» def inito nel­ l'introduzione dell'autrice. Radica ta com'era nelle tradizioni della le tteratura del Sud, la scrittrice sembrava preoccupata delle e tichette XVI

che potevano venirle applicate. In una lettera a Cecil Dawkins che doveva fare una riduzione teatrale di un suo racconto scrisse nel 1963: «Ha mai pensato di pren­ dere in considerazione Wise Blood per una riduzione tea­ trale? Se fossimo in altri tempi lo suggerirei, ma temo che sarebbe preso per una specie di supergrottesco sub­ Carson McCullers di cui io non potrei sopportare né la vista né il suono.» Se a uno scrittore del Sud sopportava di essere con­ nessa, questo era Faulkner, di cui riveriva la sapienza for­ male («Probabilmente la vera ragione perché non lò leg­ go è che mi fa sentire che con la mia sintassi dovrei smet­ tere di scrivere e !imitarmi ad allevare polli»). Quando le hanno chiesto quali le pareva fossero le sue fonti scrisse, nel 1954, a proposito di Wise Blood: «Mi imbarazza spes­ so accorgermi che ho letto le mie fonti dopo aver scritto il libro. Qualcuno ha parlato di un'ode di Wordsworth, ma non so dire altro. Ho uno di quei cer velli divoratori dai quali non esce nulla per la stessa via dalla quale qual­ cosa è entrato.

È un po' più giusto parlare dell'affare di

Edipo. Naturalmente Haze Motes non è una figura edi­ pica, ma ci sono delle chiare somiglianze... La mia for­ mazione e le mie inclinazioni sono cattoliche e credo che questo sia molto chiaro nel libro. Di solito si parla di Kaf ka, ma io non sono mai riuscita ad arrivare in fondo al Castello e al Processo.. Le mie letture sono rappezzate... .

Ho letto Henry James pensando che questo poteva in­ f luenzare la mia scrittura senza sapere perché.» A proposito delle letture c'è una lettera all'amica «A» del 1955 troppo lunga perché la si possa trascrivere, dal­ la quale risulta che all'università non aveva ancora né letto né sentito par]are di Faulkner, Kaf ka e Joyce. «Poi», dice, «ho incominciato a leggere tutto insieme, tanto che XVII

non ho avuto il tempo di essere inf luenzata da un parti­ colare scrittore. Ho letto tutti i romanzieri cattolici, Mau­ riac, Bernanos, Bloy, Greene, Waugh; ho letto tutti i mat­ ti come Djuna Barnes e Virginia Woolf; ho letto i mi­ gliori scrittori del Sud come Faulkner e i Tate, Katherine Anne Porter, Eudora Welty; ho letto i russi, non tanto Tolstoj quanto Dostoevskij, Turgenev, Cechov e Gogol'. Sono diventata una grande ammiratrice di Conrad e ho letto quasi tutta la sua narrativa. Ho completamente scartato gente come Dreiser, Anderson e T homas Wolfe. Ho imparato qualcosa da Hawthorne, Flaubert, Balzac e qualcosa da Kaf ka. Ho letto quasi tutto Henry Ma la cosa più grande che compare sempre

conti umoristici di

J ames. sono I rac­

Edgar Allan Poe.» Altrove ha detto che

non ha mai letto Farrell e Steinbeck («O altri di quelli che parlano di aff litti, vale a dire gli aff litti economicamen­ te», dice) né la Beauvoir precisando che non aveva alcu­ na intenzione di leggerla. Leggeva invece Algren, Salin­ ger (che considerava derivato da Lardner), Eliot, Céline, la Murdoch, Malamud, Bellow: tutti nomi che risultano dalle sue lettere. Lesse Bonjour

Tristesse che le ispirò

que­

sto commento: «Mauriac ha dichiarato che il libro era scritto dal diavolo. Be', è un'osservazione molto stupida perché il diavolo scrive meglio di Mademoisellè Saigon» (la grafia è dell'autrice). Intransigente e assolutista sotto la sua veste spiritosa e cordiale (in una lettera dice che non discute mai i suoi li­ bri e in un'altra afferma che «non si lascerà far fretta o dirigere dal suo editore}} ) è poi traboccante di gentilezza quando scrive a un sacerdote o ai suoi protettori o ai suoi recensori, ma sempre dura quando si parla dell'in­ terpretazione dei suoi libri. N el 1961 scrisse alla sua a­ mica «A}} : «In futuro chiunque scriva qualcosa su di me XVIII

de ve aver letto tutto quello che ho scritto per fare una critica legittima.» Il «tutto» al quale si riferisce sono i due romanzi e la rac­ colta di racconti uscita in vita; la seconda raccolta di rac­ conti e quella di saggi uscirono postume. Lo spazio non ci consente di fare un esame particolareggiato di questi vo­ lumi, che sono, come si è già visto, A Good Man Is Hard to Find del

1955,

The Violent Bear /t Away del

1960

(uscito in

Italia per Einaudi col titolo Il cielo è dei violenti nel postumo, Everything That Rises Must Converge del

1965) e, 1965 ( u­

scito in Italia per Einaudi, insieme alla prima raccolta, col titolo La vita che salvi può essere la tua nel A Good Man /s Hard to Find è

1968). costituito da 10

racconti

che sviluppano temi introdotti in Wise Blood. Tutti i pro­ tagonisti hanno l'aria di cercare un loro particolare Gesù, «l'uomo buono difficile da trovare}> del titolo, e quasi nes­ suno ci riesce. Josephine Hending, autrice di una delle migliori monografie sulla O'Connor, disse che i racconti sembrano dei primi piani della scena vista da Hazel Mo­ tes dal finestrino del treno mentre va in città: il nulla e la parentela tra uomini e porci. Anche qui i personaggi o­ scillano fra il senso del nulla e il disgusto per i propri cor­ pi e per il mondo naturale: il dualismo spirito e materia diventa quasi maniche o e i personaggi f luttuano in un cli­ ma di problematica religiosa resa dall'autrice con me­ tafore spesso molto elaborate. Di questi

10 racconti

The Ar tificial Nigger era il prefe ri­

to dell'autrice con la sua storia basata su due boscaioli negri che vanno per la prima volta in città. Un altro rac­ conto della raccolta, Good Country People, è una crudele autocaricatura se nza avere in realtà niente di autobio­ grafico: uno dei pe rsonaggi è un venditore di Bibbie che somiglia molto nell'abbigliamento e nella parlata all o XIX

Hazel Motes di Wise Blood. Il racconto più lungo e ambi­ zioso è The Displaced Person, su un rifugiato cattolico po­ lacco che lavora nella fattoria di una vedova protestante, e ha per vero protagonista un pavone (non si dimentichi che il pavone è un simbolo tradizionale della divinità di Cristo e della Resurrezione) che nella storia fa da test spi­ rituale, caratterizzando i personaggi a seconda del modo in cui lo vedono e lo considerano. Il racconto che dà ti­ tolo al libro ha per protagonista un personaggio chiama­ to Misf it (nell'edizione italiana chiamato Lo Sbagliato), un personaggio famoso nella minuscola galleria della 0'­ Connor, e racconta la storia di un gruppo di galeotti gui­ dati da Misfit che sterminano una famiglia. The River, The Life You Save May Be Your Own, A Stroke of Good FoT­ tune, A Temple ofthe Holy Ghost, A Circle in the Fire e A La­ te Encounter With the Enemy sono gli altri racconti che

completano la raccolta. Sotto il grottesco della superficie anche in questi racconti un'intricata simbologia introdu­ ce l'onnipresenza del trascendente: con ironia e con­ traddizioni il potere divino viene espresso come una for­ za distruttiva e la sofferenza e la morte sono spesso i mezzi per realizzare i personaggi. La tecnica è tale da creare orrore attraverso la violenza; ma orrore e violenza sono sempre al ser vizio dell'incongruenza che sta alla base della comicità del libro. Orrore e violenza, incongruenza e comicità sono di nuovo presenti nel secondo romanzo della O'Connor, The Violent Bear It Away, considerato il capolavoro della

scrittrice e imperniato sul problema della libertà. Anche questo è profondamente intriso di temi religiosi (il titolo è tratto da un passo del Vangelo secondo Matteo) ed è co­

me tutti gli altri libri della O'Connor impastato di ele­ menti simbolici. Il protagonista è l'adolescente Francis xx

Marion Tarwater, del quale si narra la storia dell'inizia­ zione di profeta seguita alla morte del suo prozio Mason Tarwater, profeta un po' pazzo di montagna che vive in una radura isolata nei boschi dopo aver rapito il proni­ pote per farlo diventare profeta; l'adolescente è il f iglio il­ legittimo della sorella di un maestro, Rayber, ed è rima­ sto orfano. Quando Rayber cerca di togliere il ragazzo al vecchio, questi gli spara in una gamba e in un orecchio; Rayber rinuncia, si sposa e ha un bambino def iciente, Bi­ shop, che il vecchio cerca più volte di rapire per battez­ zarlo. Il vecchio profeta prima di morire lascia al ragazzo la missione di battezzare Bishop; il ragazzo si immagina già come un grande profeta secondo la tradizione e si ri­ trova ad avere una voce che non è la sua e che def inisce la voce di un estraneo: è questa la voce che spinge il ragaz­ zo a fare soltanto quello che vuole senza porsi alcun fre­ no; dopo essere cresciuto nella convinzione che la sua li­ bertà fosse limitata alla scelta tra Gesù e il diavolo, la vo­ ce dell'estraneo lo assicura adesso che il diavolo non esi­ ste e che la scelta è fra Gesù e lui stesso. La prima parte del romanzo si conclude col giovane Tarwater che va in casa dello zio Rayber, vede il bambino def iciente e si ri­ fiuta di battezzarlo. La seconda parte si svolge dal punto di vista dello zio-maestro Rayber, che considera il ragazzo «un problema affascinante»; cerca di fargli indossare altri abiti, ma il ragazzo insiste

a

portare i suoi e non si stacca

dal suo cappello neanche quando dorme. Lentamente si convince di dover battezzare il bambino e una notte lo porta in barca in un lago e lo annega; la reazione del pa­ dre è svolta in chiave simbolista ispirata al Vangelo se­ condo Marco. La terza parte ha di nuovo per protagoni­ sta il ragazzo che dopo aver annegato il bambino vuol ri­ ' tornare in città per vivere come vuole : dopo l'uccisione XXI

ha messo gli abiti nuovi conservando solo il vecchio cap­ pello e accetta dallo zio-maestro un apribottiglia. Mentre ritorna in città il ragazzo incontra un giovane che lo fa fu­ mare marijuana, lo fa bere (da una bottiglia di whisky a­ perta con l'apribottiglia dello zio) e dopo averlo drogato lo violenta in un bosco portandogli via il cappello (sim­ bolo dell'antico io ribelle del ragazzo) e l'apribottiglia (simbolo del nuovo io inf luenzato dallo zio-maestro); at­ traverso questa esperienza il ragazzo capisce che l' estra­ neo la cui voce lo ha guidato non è un amico, ma la per­ sonificazione del male. Arriva nella radura dove aveva in­ cominciato a seppellire il prozio e trova che la sepoltura è stata fatta da un vicino; continuando la simbologia il cam­ po vuoto sembra improvvisamente gremito di gente co­ me quella descritta nei Vangeli quando Gesù compie il miracolo del pane e dei pesci. Il ragazzo si stropiccia la fronte con la terra della tomba e si avvia verso la città: il gesto ricorda il pentimento dei fedeli che si stropicciano la fronte di cenere il giorno delle Ceneri e fa pensare al desiderio del ragazzo di entrare nella sofferenza di Cristo commemorata nella Quaresima. Sono state scritte intere monografie sui significati na­ scosti negli ininterrotti simbolismi contenuti nel libro. Simbolismo a parte, questo romanzo, come già Wise Blood, descrive il momento in cui un giovane represso scopre che deve scegliere la propria vita, pur essendo incapace di fare una scelta e restando immerso nell'assurdità e nel­ l'incongruenza. Entrambi i romanzi sono romanzi di ini­ ziazione e descrivono una crisi di crescita; ma, soprattut­ to, in entrambi i romanzi risalta il Sud tragico e comico ca­ ro alla O'Connor con la sua religiosità ignorante e fanati­ ca dominata da predicatori semianalfabeti e da credenti resi quasi pazzi dalla solitudine e dalla miseria. XXII

L'ambiente non cambia nella raccolta di racconti pub­ blicata postuma, Everything That Rises Must Converge. Il ti­ tolo viene dall'opera del filosofo gesuita Pierre Teilhard de Chardin, che sosteneva la tesi che l'evoluzione non si arresta all'Homo sapiens, ma continua nella direzione della pura coscienza che è l'Essere stesso o Dio. Anche questa raccolta è impostata sull'ironia e anche questa rac­ colta è ricca di metafore. L'ultimo racconto che la O'­ Connor scrisse poco prima di morire è Parker's Back, la storia di un giovane che ha la passione dei tatuaggi e per riconquistare sua moglie si fa tatuare sulla schiena l'im­ magine di un Cristo bizantino con gli occhi spalancati co­ me nei mosaici: la moglie lo picchia con una scopa finché sulla faccia del Cristo si formano delle vesciche. The Lame Shall Enter First usa materiale scartato dal secondo ro­ manzo: racconta la storia di un vedovo che trascura un fi­ glio per aiutare un ragazzo criminale fino a condurre il figlio al suicidio; il criminale aiutato è demoniaco, un ti­ po satanico, anche se in realtà nel radicato simbolismo dell'autrice il vero Satana è il padre che trascura il figlio e viene accusato dai criminali di ritenersi Gesù Cristo e di essere dominato da Satana. The Enduring Chill è un racconto comico che narra la storia di un giovane pre­ tenzioso diretto a casa a morire: è una satira della Chiesa nella persona di un vecchio prete irascibile cieco in un occhio e sordo da un orecchio; l'apocalittico lieto fine conclude la vicenda in cui si scopre che la malattia mor­ tale del protagonista è soltanto una febbre intestinale. Il racconto che dà titolo al libro narra di una madre segre­ gazionista e un figlio integrazionista. Greenleaf riprende il tema della vedova di The Displaced Person, qui uccisa a cornate da un toro. A View of the Woods è una storia comi­ ca dei rapporti tra un nonno e una nipotina di nove anni. XXIII

The Comforts of Home, Revelation ejudgement Day (il rifaci­ mento di un vecchio racconto scritto all'Università dello Iowa nel 1946 e dunque non ambientato nella Georgia) concludono il libro. Il grottesco e l'orrore, le due caratteristiche della co­ siddetta «scuola gotica» degli scrittori del Sud, sono on­ nipresenti in tutte le pagine di questa scrittrice della Georgia, travolta dal simbolismo assai più di quanto a­ vesse l'aria di volerlo. Il vestito turchino e il cappello ne­ ro di Hazel Motes e del falso profeta di Wise Blood ritor­ nano nel venditore di Bibbie di Good Country People, ma ritornano anche nel secondo romanzo e injudgement Day al punto di non essere più soltanto uniformi ma emble­ mi. Così ritornano spesso l'immagine del pavone o la tra­ sformazione di identità attraverso la morte e la rinascita, sempre fra uomini stupidi, malvagi e inetti e gente in ge­ nerale deforme o mutilata in quel museo degli orrori che può diventare la galleria tradizionale di personaggi nella letteratura del Sud. Ma (la O'Connor stessa lo ha detto molto bene) la scrittrice non è soltanto una letterata del Sud, è anche cattolica.

È

stata molto contenta quando il « Times» di

Londra l'ha def inita una scrittrice teologica, e sarebbe troppo lungo riportare gli esempi del suo dualismo cri­ stiano, che le fa sdoppiare lo Haze di Wise Blood e ii Tarwater di The Violent Bear It Away o che le fa parlare di due Cristi in Wise Blood o in The Comfort of Home o in The

Lame Shall Enter First. Allevata nel cuore del fondamentalismo protestante non si lasciò mai smuovere dal suo cattolicesimo anche se i cattolici non erano molti nella campagna della Geor­ gia; e comunque nei suoi libri si interessò ai personaggi XXIV

tipici della sua terra più che alle tesi teologiche. In un'in­ ter vista disse: «Non mi interessano le sette come sette; mi interessano gli individui religiosi, i profeti dei bo­ schi.» E in una lettera a una suora disse: «Per molti pro­ testanti che conosco, monaci e monache sono fanatici. E per molti monaci e monache che conosco, i miei profeti protestanti sono fanatici. Per parte mia credo che la sola differenza fra loro sia che se si è cattolici e si ha questa intensità di credo si va in convento; mentre se si è prote­ stanti non c'è convento in cui andare e si va in giro per il mondo cacciandosi nei guai e sollevando il furore della gente che non crede a niente. Per questo scrivo di cre­ denti protestanti piuttosto che di credenti cattolici: per­ ché esprimono il loro credo in azioni drammatiche che individuo abbastanza facilmente.» Anche in questo era una vera cittadina del Sud, che del Sud accettava tutte le tradizioni e tutte le regole in­ frangendole solo quando scriveva libri che una signora del Sud non avrebbe potuto leggere. In una lettera del

1962 scrisse che una recensione di Wise Blood del «Sun» di Chicago le aveva fatto le congratulazioni «per aver prodotto una Lolita cinque o sei anni prima di Na­ bokov»; ma lei disse agli amici che non aveva mai letto

Lolita, quando uscì, perché le signore del Sud non leg­ gono libri simili. Sudista f ino in fondo anche i suoi Negri sono quelli che può vedere una signora bianca del Sud, convenzio­ nali e distaccati e del tutto al di fuori del problema del­ l'integrazionismo. Ma è inutile anche soltanto sf iorare problemi sociali o politici davanti a questi libri. In questi libri si possono apprezzare altre qualità, per esempio la violenza apocalittica, o la visione grottesca, o il rifaci­ mento tradizionale del linguaggio del Sud: assassmn e

xxv

incendi, accecamenti e violenze, situazioni grottesche e comiche fino a essere ripugnanti, tutto riconduce a una ritrattistica del Sud, che mi induce a concludere questi appunti citando una conferenza della scrittrice: «Mi so­ no accorta che qualunque narrativa del Sud viene consi­ derata grottesca dai critici del Nord, a meno che sia grot­ tesca, nel qual caso viene considerata realistica.)) Fernanda Pivano

XXVI

La saggezza nel sangue

A Regina

Nota dell'autore alla seconda edizione

Wise Blood ha compiuto dieci anni ed è ancora vivo. Le mie facoltà critiche sono appena sufficienti a constatare il fatto e mi compiaccio d'essere in grado di dirlo. Il libro fu scritto di gusto e, se possibile, bisognerebbe leggerlo nello stesso umore. t un romanzo comico che tratta di un cristia­ no suo malgrado e, in quanto tale, serissimo, perché tutti i romanzi comici d'un qualche valore debbono trattare que­ stioni di vita e di morte. Wise Blood è l'opera di un autore intrinsecamente digiuno di teorie ma sensibile a certi proble­ mi. Che la fede in Cristo sia per taluni una questione di vita e di morte è stato uno scoglio per quei lettori che preferireb­ bero non attribuirvi gran peso. Secondo loro l'integrità di Hazel Motes consiste nel tentativo così strenuo di sbarazzarsi della figura cenciosa che si sposta d'albero in albero nello sfondo della sua mente. Secondo l'autore l'integrità di Hazel consiste nella sua incapacità di riuscire a farlo. L'integrità di una persona consiste mai in ciò ch'è incapace di fare? Credo che di solito il caso stia proprio così, poiché libero arbitrio non significa un'unica volontà, ma molte volontà a conflitto in un unico individuo. La libertà non si può concepire sem­ plicemente. Essa è un mistero, e di quelli che a un romanzo, anche a un romanzo comico, siamo tenuti soltanto a chiede­ re che lo intensifichi.

9

l

Hazel Motes sporgeva rigidamente il busto dal sedile di felpa verde, guardando un minuto verso il finestrino come se avesse una mezza voglia di saltar giù dal treno, e un minuto dopo in fondo al corridoio all'altra estremità della vettura.

p tr�no sfrecciava tra le vette degl.i alberi che si diradavano a tratti e mostravano il sole in sosta, scarlatto, sul margine

dei boschi a distanza remota. Più vicino, i campi arati s'in­ curvavano e svanivano e i pochi maiali che grufolavano nei solchi parevano grosse pietre macchiate. La signora Wally Bee Hitchcock, seduta di fronte a Motes nel piccolo scom­

partimento a cuccette, disse che a parer suo le prime luci della sera come quelle di allora erano il momento più carino del giorno e gli dòmandò se non la pensava anche lui allo stesso modo. Era una grassona dal doppio colletto e i polsini rosa e le gambe a pera ·che calavano sbilenche dal sedile e non riuscivano a toccare il pavimento. Lui la osservò di sfuggita e, senza rispondere, si chinò in avanti e il suo sguardo spaziò nuovamente sull'intera lun­ ghezza del corridoio. La signora si girò per vedere che cosa c'era laggiù ma tutto quello che vide fu la testa di un bimbo che spuntava da un altro scompartimento e in fondo, alla fine della vettura, l'inserviente che apriva il ripostiglio dove si custodivano i lenzuoli. «Mi figuro che lei stia andando a casa sua,» disse, e si rigi­ rò daccapo verso di lui. Non gli avrebbe dato molto più di 11

vent'anni, ma aveva sulle ginocchia un cappello nero duro dalla tesa ampia, uno di quei cappelli che soglion portare certi anziani predicatori di campagna. Il vestito era di un turchino abbagliante, e alla manica restava ancora attacca­ to il cartellino del prezzo. Hazel Motes non le rispose né distolse gli occhi dal punto imprecisabile che stava osservando. Accanto ai piedi aveva uno di quei sacchi cilindrici vulcanizzati in dotazione dell'e­ sercito e la signora decise ch'era stato sotto le armi e messo in congedo e che ora se ne tornava a casa. Voleva avvicinar­ glisi abbastanza da vedere quanto gli era costato il vestito e invece si scoprì a sbirciargli gli occhi, quasi cercasse di pene­ tradì. Avevano il colore della buccia del pecàn ed erano in­ castrati in orbite profonde. Il contorno d'un teschio sotto la pelle era netto e insistente. La signora s'infastidì e strappò la propria attenzione a quell'esame aguzzando lo sguardo sul cartellino del prezzo. Il vestito gli era costato undici dollari e novantotto centesi­ mi. Sentì che questo dettaglio serviva a inquadrarlo e osser­ vò di nuovo la sua faccia come se ormai si fosse fortificata a sufficienza per affrontarne la vista. Il naso del giovane ricor­ dava il becco di un'averla e due lunghe pieghe verticali sol­ cavano i lati della bocca; sembrava che i capelli fossero stati appiattiti stabilmente sotto il cappello pesante, ma gli occhi furono ciò che attrasse l'attenzione della signora più a lungo di ogni altro connotato. Le orbite erano incassate a tanta profondità da parer quasi, pensò, due androni che sbucasse­ ro chissà dove, e si sporse a metà della distanza tra i loro sedili, nel tentativo di guardarvi dentro. Lui si girò all'im­ provviso verso il finestrino e poi, sempre rapidamente, tornò a girarsi dall'altra parte per fissare lo stesso punto di prima. L'oggetto del suo interesse era l'inserviente. La prima vol­ ta ch'era salito sul treno lo aveva notato ritto in mezzo a due 12

vetture - una figura atticciata dalla testa tonda gialla cal­ va. Haze si era fermato e gli occhi dell'inserviente si erano posati su di lui e poi su un altro punto, a indicargli in quale carrozza dovesse entrare. E quando Haze non si era mosso, l'inserviente aveva detto: «a sinistra», con stizza, «a sini­ stra», e Haze si era incamminato in quella direzione. «Be',» disse la signora Hitchcock, «il tetto natio è il para­ diso in terra.» Haze le diede un'occhiata e vide la superficie piatta della sua faccia, rossastra sotto un berretto di pelo color volpe. Era salita sul treno due fermate prima. Lui non l'aveva mai vista in vita sua. «Devo andar a parlare con l'inserviente,» disse. Si alzò e si diresse verso la fine della vettura, dove l'in­ serviente aveva incominciato ad allestire una cuccetta. Andò a fermarglisi accanto e si appoggiò al bracciolo d'un sedile, ma l'inserviente non lo guardò. Stava tirando più avanti un divisorio dello scompartimento. «Quanto ci metti a prepararne una?» domandò Haze. «Sette minuti,» rispose l'altro, sempre senza guardarlo. Haze sedette sul bracciolo. «lo sono di Eastroad,» disse. «Non si trova su questa linea,» osservò l'inserviente. «Lei ha sbagliato treno.» «Vado nel capoluogo,» precisò Haze. «Ho detto che a Eastroad sono stato cresciuto.» L'inserviente rimase zitto. «Eastroad,» ripeté Haze, più forte. L'inserviente tirò giù la tenda con uno strattone. «Vuole che le prepari il letto adesso, o cosa ci sta a fare qui in pie­ di?» gli chiese. «Eastroad. Vicino a Melsy.» L'altro ribaltò orizzontalmente un lato del sedile. «lo sono di Chicago,» disse. Ribaltò il lato opposto. Quando ci si chi­ nò sopra, emerse la sua nuca in tre escrescenze.

13

«Sì eh, bravo chi ci crede,» disse Haze con un ammicco maligno. «Lei tiene i piedi in mezzo al corridoio. Prima o poi qual­ cuno avrà bisogno di passargli davanti,» protestò l'inservien­ te, e giratosi di scatto si fece largo sfiorandolo e si allontanò in fretta. Haze si alzò e si trattenne lì pochi secondi ancora. Sem­ brava sorretto da una fune impigliatasi a metà della sua schiena e appesa al soffitto del treno. Osservò l'inserviente che percorreva il corridoio con andatura oscillante ben con­ trollata e spariva all'altra estremità del vagone. Sapeva ch'era un negro dei Parrum di Eastroad. Ritornò nel suo scompartimento e si acciambellò scompostamente con un piede appoggiato a un tubo che passava sotto al finestrino. Eastroad gli colmò la testa e poi proseguì e colmò lo spazio che si estendeva dal treno all'orizzonte lungo i campi vuoti man mano più scuri. Vide le due case e la strada color rug­ gine e le poche capanne dei negri e l'unico granaio e il chio­ sco con il cartellone pubblicitario bianco e rosso del tabacco ccc

che si stava staccando per traverso.

«Lei torna a casa?» domandò la signora Hitchcock. Haze le scoccò un'occhiata acida e agguantò le falde del cappello nero. «No, non ci vo,» disse con voce nasale stridu­ la acuta tipicamente texana. La signora Hitchcock dichiarò che non andava a casa neanche lei. Gli spiegò che da ragazza era stata la signorina Weatherman e che si recava in Florida per un soggiorno pressò sua figlia sposata, Sarah Lucile. Sembrava proprio, soggiunse, che le fosse sempre mancato il tempo di fare un viaggio d'una lunghezza così enorme. Da come succedevano le cose, una dopo l'altra, si aveva l'impressione che il tempo passasse così veloce che non si sapeva nemmeno se si era gio­ vani o vecchi. 14

Haze pensò che se lo avesse chiesto a lui sarebbe stato ca­ pace di dirle che era vecchia. Dopo un poco smise di ascol­ tarla. L'inserviente ripercorse il corridoio in senso inverso e non lo guardò. La signora Hitchcock perse il filo del proprio ragionamento. «Se non sbaglio lei sta andando a trovare qualcuno, eh?» gli chiese. «Vado a Taulkinham,» rispose Haze, e si pigiò in fondo al sedile guardando il finestrino. «Non ci conosco nessuno lag­ giù, ma vado a far delle cose.)) «Vado a far delle cose che non ho mai fatto finora,)) pro­ seguì, e le dette un'occhiata di sbieco e increspò leggermente le labbra. La signora disse che conosceva un certo Albert Sparks di Taulkinham. Disse ch'era cognato di sua cognata e che... «Io non sono di Taulkinham,» interruppe Haze. «Ho det­ to che ci vado, punto e basta.)) La signora Hitchcock rico­ minciò a discorrere ma lui le tagliò la parola in bocca dicen­ do: «L'inserviente viene dallo stesso paese da dove vengo io ma sostiene ch'è di Chicago.)) La signora Hitchcock disse che conosceva un tale che abi­ tava a Chi... «Andare in questo o quel posto non fa differenza,)) affer­ mò Haze. «lo non so altro.)) La signora Hitchcock disse insomma come vola il tempo. Erano cinque anni che non vedeva i bambini di sua figlia, continuò, e chissà se li avrebbe riconosciuti a vederli. Ce n'e­ rano tre, Roy, Bubber e John Wesley. John Wesley compiva sei anni e le aveva scritto una lettera: cara Bambolona. Chiamavano lei Bambolona e suo marito Bambolone... «Scommetto che si crede d'esser stata redenta,)) interrup­ pe Haze. La signora arrossì. Dopo un secondo disse già, infatti la vita era un'ispirazione e poi soggiunse che aveva fame e gli 15

chiese se voleva andare nella carrozza ristorante. Haze si mi­ se il bellicoso cappello nero e la seguì nel corridoio. La carrozza ristorante era piena e la gente aspettava di potervi entrare. Haze e la signora Hitchcock fecero la coda per mezz'ora, vacillando nel corridoio stretto, appiattiti ogni due o tre minuti contro la parete per lasciar scorrere poche persone alla spicciolata. La signora Hitchcock aveva attac­ cato discorso con la donna che le stava accanto. Hazel Mo­ tes fissava la parete. La signora parlò alla donna del marito di sua sorella ch'era impiegato presso l'Acquedotto Munici­ pale di Toolafalls nell'Alabama, e l'altra le parlò di un cugi­ no che aveva il cancro in gola. Finalmente arrivarono quasi all'ingresso della carrozza ristorante e poterono vedere nel­ l'interno. Un cameriere indicava i posti ai viaggiatori e di­ stribuiva i menù. Era un bianco dai capelli neri bisunti e il vestito nero d'aspetto bisunto. Si moveva come una cornac­ chia, sfrecciando di tavolo in tavolo. Fece cenno di entrare a due persone e la fila si spostò in avanti, dimodoché Haze e la signora Hitchcock e la donna con cui stava conversando fu­ rono pronti a passare al prossimo turno. Dopo un minuto uscirono altre due persone. Il cameriere ripeté il cenno e la signora Hitchcock e la compagna entrarono e Haze le seguì. L'uomo lo bloccò e disse: «Solo due,» e lo respinse sulla soglia. La faccia di Haze prese un brutto color rosso: prima lui cercò di mettersi dietro alla persona successiva e poi di farsi largo attraverso la coda per ritornare al vagone da cui era venuto ma troppa gente si pigiava nel vano del corridoio. Dovette restare fermo dov'era mentre tutti i vicini gli pian­ tavano gli occhi addosso. Nessuno uscì per un pezzo. Alla fine si alzò una donna in fondo alla carrozza e il cameriere scosse la mano. Haze titubò e vide la mano scuotersi di nuo­ vo. Allora venne avanti barcollando, cadde contro due tavo­ li cammin facendo e si ritrovò con una mano bagnata in una 16

tazza di caffè. Il cameriere gli assegnò il posto a un tavolo dove sedevano tre donne d'aspetto giovanile, vestite come pappagalli. Le loro mani posavano sul tavolo, con aculei scarlatti ai polpastrelli. Haze sedette e si asciugò la mano sulla tovaglia. Il cappello non se lo tolse. Le donne avevano finito di man­ giare e stavano fumando la sigaretta. Quando lui si mise a sedere interruppero il discorso. Haze indicò il primo piatto che figurava sul menù e il cameriere, ritto alle sue spalle, disse: «Lo scriva, figliolo», e strizzò l'occhio a una delle don­ ne, che fece un rumore nel naso. Haze scrisse il nome e il cameriere se ne andò col foglio. Allora lui, cupo e teso, fissò lo sguardo sulla donna che gli sedeva dirimpetto. A regolari intervalli la mano di lei che teneva la sigaretta passava da­ vanti a

una

macchiolina sul collo; usciva dal campo visivo

di Haze e poi vi rispuntava, tornando a posarsi sopra il tavo­ lo; e dopo un secondo una linea retta di fumo gli soffiava in faccia. Quando gli ebbe soffiato addosso due o tre volte, Ha­ ze guardò la donna. Aveva l'espressione sfrontata d'una gal­ lina selvatica e gli occhi piccoli puntati dritto su di lui. «Se lei è stata redenta, io non vorrei esserlo di certo,» disse Haze. Poi girò la testa verso il finestrino. Vide il proprio ri­ flesso pallido col buio spazio vuoto che lo trapassava da fuo­ ri. Un treno merci ruggì nel passare, spaccando in due lo spazio vuoto, e una delle donne rise. «Io credo in Gesù secondo lei?>> domandò Haze sporgen­ dosi verso la donna e quasi parlando come se avesse il fiato grosso. «E invece non ci crederei neanche se Lui esistesse. Neanche se Lui fosse su questo treno.» «Chi ha mai detto ch'è tenuto a crederci?» chiese la don­ na con voce velenosa dall'accento dell'Est. Haze si tirò indietro. Il cameriere gli portò la cena, e lui si mise a mangiare len17

tamente dapprima, poi più presto mentre le donne concen­ travano l'attenzione sui suoi muscoli che risaltavano dalla mascella nel masticare. Stava mangiando della roba con

chiazze d'uovo e fegatini. Quand'ebbe finito e bevuto il caf­ fè, si tolse i soldi di tasca. Il cameriere lo vide ma non ci fu

verso che venisse a fargli il conto. Ogni volta che passava

davanti al tavolo, ammiccava alle donne e poi sbarrava gli occhi in faccia a Haze. La signora Hitchcock e la sua com­

pagna avevano già terminato la cena e se n'erano andate.

Alla fine il cameriere si degnò di venire e fece il conto. Haze

gli gettò il denaro, quindi lo spinse da parte e uscì dalla car­ rozza ristorante.

Per un certo tempo si trattenne in mezzo a due vagoni do­

ve c'era un filo d'aria fresca e si fece una sigaretta. Poi l'in­ serviente passò fra i due vagoni. >

disse Haze, mantenendo la voce sotto stretto

controllo, «vengo per il solito affare.» La signora Watts arrotondò la bocca ancora di più, quasi

che quello spreco di parole la rendesse perplessa. «Accomo­ dati,» disse semplicemente, «fa' come se fossi a casa tua.>> Si fissarono a vicenda per quasi un minuto senza che nes­ suno dei due si movesse. Poi Haze disse con voce più acuta del suo timbro normale: «Voglio che lei sappia questo: io non sono un predicatore del cavolo.,, La signora Watts lo squadrò senza batter ciglio, abboz­

zando appena una smorfia. Quindi gli mise l'altra mano sot­ to il mento e glielo solleticò con fare materno. «D'accordo, figliolo,» disse. «Anche se non sei un predicatore, mammà non ci bada.,,

33

3

La seconda sera dopo il suo arrivo a Taulkinham, Hazel Motes la passò a camminare per le strade del centro, tenen­ dosi vicino alle vetrine dei negozi ma senza guardare nell'in­ terno. Il cielo nero era puntellato da lunghe strisce d'argento simili a impalcature, e sul retro, a una profondità stermina­ ta, c'erano migliaia di stelle che sembravano muoversi tutte lentissimamente come se fossero assegnate a un'immensa opera di costruzione che abbracciava l'ordine intero dell'u­ niverso e che avrebbe impiegato tutto il tempo per comple­ tarla. Nessuno prestava attenzione al cielo. A Taulkinham i negozi rimanevano aperti il giovedì sera affinché la clientela avesse un'occasione di più per esaminare la merce. L'ombra di Haze andava ora dietro ora davanti a lui e di tanto in tanto la spezzavano le ombre altrui, ma quando procedeva per conto proprio, stirandosi alle sue spalle, era un'ombra esile nervosa che camminava a ritroso. E lui spingeva il collo in avanti quasi stesse cercando di annusare qualcosa che ve­ niva immediatamente trascinato via. La luce abbagliante delle vetrine faceva apparire violaceo l'abito turchino. Dopo un poco Haze si fermò in un punto dove un uomo dalla faccia smunta aveva sistemato un tavolino da gioco davanti a un emporio e stava mostrando il funzionamento di uno sbucciapatate. L'uomo portava un cappelluccio di tela e una camicia fantasia a disegni che rappresentavano mazzi 35

di fagiani e quaglie e tacchini bronzati capovolti. Intonava la voce sotto i rumori della strada in modo che giungesse di­ stintamente agli orecchi di tutti come in una conversazione privata. Si era formato un piccolo capannello. Sopra il tavo­ lino c'erano due secchi, uno vuoto e l'altro pieno di patate. Fra i secchi sorgeva una piramide di scatole di cartone verde e, in cima al mucchio, uno degli arnesi in vendita stava aperto per la dimostrazione. Davanti a quell'altare l'uomo puntava l'indice verso svariate persone. «Lei che mi dice?» domandò a un ragazzo foruncoloso dai capelli urnidicci. «Mica vorrà !asciarselo scappare, uno di questi?)) Ficcò una patata marrone in un lato dell'arnese aperto. L'arnese era una scatola quadrata di latta col manico rosso, e quando lui girò il manico la patata entrò nella scatola e poi, dopo un secondo, sbucò fuori dall'altro lato, bianca. «Mica vorrà !a­ sciarselo scappare, uno di questi?)) ripeté. Il ragazzo si mise a ridacchiare guardando gli altri com­ ponenti del crocchio. Aveva i capelli gialli e la faccia volpina. «Com'è che si chiama, lei?)) chiese lo sbucciatore di patate. « Enoch Emery per servirla, » disse il ragazzo, e tirò su col naso. «Un giovanotto con un nome così bellino dovrebbe aver­ celo, uno di questi,)) disse l'uomo, roteando gli occhi, sfor­ zandosi di scaldare gli animi. Nessuno rise fuorché il ragaz­ zo. Poi un tale dirimpetto a Hazel Motes rise, di un riso che non era gradevole ma tagliente. Era alto, cadaverico, indos­ sava un abito e un cappello neri. Aveva gli occhiali scuri e le guance solcate da certe striature che avevano l'aria di esser state dipinte e poi sbiadite con l'andar del tempo e che gli davano la fisionomia d'un mandrillo ghignante. Non appe­ na ebbe riso, cominciò ad avanzare a passi cauti, facendo tintinnare una ciotola di latta in una mano e battendo un bastoncino bianco davanti a sé con quell'altra. Lo seguiva 36

da presso una ragazzuccia, quasi una bambina, che distri­ buiva dei volantini. Era vestita di nero e portava un berretto nero di maglia calcato basso sopra la fronte; dalle tempie spuntava una frangetta di capelli castani; il viso era lungo e il naso corto aguzzo. Il venditore di sbucciapatate si stizzì nel vede� che la gente guardava la coppia invece di guar­ dar lui. «E lei laggiù, non si lascia tentare?)) disse puntando il dito verso Haze. «Un affar d'oro come questo non potreb­ be farlo di certo nei negozi.>> Haze stava osservando il cieco e la bambina. «Ehi!>> escla­ mò Enoch Emery, spingendo da parte una donna per arri­ vare fino a lui, e gli diede un pugno sul braccio. «Dice a te! Dice a te!)) e dovette dargliene un altro prima che Haze guardasse l'uomo degli sbucciapatate. «:Perché non se ne porta uno a casa per regalar!o alla sua signora?>> gli stava dicendo il venditore. «Non sono sposato,)) borbottò Haze, tornando a guardare il cieco. «Be', allora lo regali alla sua cara vecchietta, la mamma ce l'avrà, si spera?)) «No.)) «Roba da chiodi,)) disse l'uomo, curvando la mano intor­ no alla bocca per chiamare in causa i presenti. «A quello gli ci vuole una delle mie macchinette, non foss'altro perché gli faccia compagnia.)) Enoch Emery giudicò la battuta così spiritosa che si piegò in due dal gran ridere e si batté il ginocchio, ma Hazel Mo­ tes non mostrò di aver udito nemmeno questa volta. «Al pri­ mo che si compra una delle mie macchinette gli regalo una mezza dozzina di patate sbucciate,)) continuò il venditore. «Forza, chi è che si fa avanti per primo? Solo un dollaro e mezzo per un arnese che vi costerebbe la bellezza di tre dol­ lari in qualunque negozio!» Enoch Emery cominciò a fru37

garsi nelle tasche. «Ringrazierete il giorno che siete capitati qui da me, non ve lo scorderete mai più. Ognuno di voi che si compra una delle mie macchinette non se lo scorderà fin­ ché campa!» Il cieco camminava lentamente, dicendo in un farfuglio a fior di labbra: «Aiutate un predicatore cieco. Se non volete pentirvi, almeno sborsate un nichelino. Può far comodo a me come a voialtri. Aiutate un povero predicatore disoccu­ pato. Non siete più contenti se chiedo la carità invece di mettermi a predicare? Da bravi, sborsate un nichelino se non volete pentirvi. » Il capannello non era molto numeroso ma cominciava a diradarsi. Quando se ne fu accorto, il venditore delle mac­ chinette si sporse dal tavolino fulminando il cieco con gli oc­ chi. «Ehi tu!» gli strillò. «Cosa ti credi di fare? Chi ti credi di essere, per permetterti di far scappare questa gente?)) Il cie­ co non si curò affatto di lui. Continuò a scuotere la ciotola mentre la ragazzina continuava a distribuire i volantini. Ol­ trepassò Enoch Emery e si diresse verso Haze, battendo il bastone bianco davanti alla gamba. Haze allungò il collo e vide che i solchi sulla sua faccia non erano dipinti: erano ci­ catrici. «Cosa diavolo ti credi di fare?)) sbraitò il venditore di sbucciapatate. «Questa gente l'ho radunata io, che diritto hai d'intrufolartici in mezzo?)) La ragazzina porse un opuscolo a Haze e lui lo afferrò. Le parole sulla copertina dicevano: «Gesù Ti Chiama.)) «Vorrei proprio sapere chi diavolo ti credi di essere b) se­ guitava a vociare l'uomo degli sbucciapatate. La ragazzina tornò indietro e gli porse un opuscolo. Lui lo guardò un istante arricciando le labbra, dopodiché partì a razzo dal ta­ volino, rovesciando il secchio delle patate. «Questi porci fa­ natici di Gesù,)) urlò lanciando occhiate feroci tutt'intorno, 38

alla ricerca del cieco. Sopraggiunse altra gente, nella spe­ ranza di assistere a una zuffa. «Accidenti ai comunisti fore­ stieri,» continuò a strillare. «L'avevo richiamata io, quella folla!» S'interruppe, accorgendosi che una folla c'era per davvero. «Sentite gente,>> disse, «venite uno alla volta, ce n'è per tutti, basta che non spingete, mezza dozzina di patate sbuc­ ciate per il primo che si fa avanti a comprare.» Tornò tran­ quillamente dietro al tavolino e ricominciò a offrire le scato­ le degli sbucciapatate. «Fatevi avanti, ce n'è per tutti,» disse, «inutile che vi pigiate.» Haze non aprì il suo opuscolo; ne guardò la copertina e poi lo strappò a metà. Sovrappose i due pezzi e li strappò di nuovo. E continuò ad ammonticchiare i pezzi e a strapparli finché li ebbe ridotti a una manciatina di coriandoli. Girò il palmo della mano e sparpagliò al suolo i frammenti dell'o­ puscoletto. Poi alzò la testa e vide la compagna del cieco a nemmeno un metro di distanza, che lo spiava. Teneva la bocca aperta e i suoi occhi gli scintillarono addosso come due schegge di vetro verde bottiglia. Dalla spalla le pendeva un

sacco di juta bianca. Haze fece cipiglio e si mise a fregar­

si le mani appiccicose ai calzoni. «T'ho visto, sai,» disse la ragazzina. Poi si allontanò rapi­ damente e raggiunse il cieco, che ora stava fermo accanto al tavolino da gioco, e volse la testa e guardò Haze da laggiù. Quasi tutti se n'erano andati. Il venditore di sbucciapatate si sporse dal tavolino e disse al cieco: «Ehi! La lezione ti è ser­ vita, ci scommetto. Cercare d'intrufolarsi ...» «Dia retta,» àisse Enoch Emery, «io non ho che un dolla­ ro e sedici centesimi però...» «Già,» ricominciò l'uomo, «scommetto che la lezione ti è servita a imparare che non puoi cacciarti avanti a me. Otto ne avevo già venduti, otto...» 39

«Me ne dia uno,>> disse la compagna del cieco, indicando gli sbucciapatate. «Grrr,)) fece lui. La ragazzina stava slegando un fazzoletto: sciolse una cocca e ne cavò fuori due monete da cinquanta centesimi. «Me ne dia uno,)) ripeté, porgendogli il denaro. L'uomo lo sbirciò sollevando un angolo della bocca. «Al­ tri cinquanta, pupa,>> disse. Lei ritrasse la mano in fretta e tutt'a un tratto cominciò a fissare Hazel Motes con aria torva come se le avesse fatto un versaccio. Il cieco si era rimesso in cammino, ma la sua com­ pagna si trattenne un secondo sempre fissando Haze con oc­ chi di fuoco, poi si girò e seguì il cieco. Haze trasalì. «Stia a sentire,)) disse Enoch Emery, «io non ho che un dollaro e sedici centesimi e vorrei comprarmi uno di quei ...)) «Tienteli pure,)) interruppe l'uomo, togliendo il secchio dal tavolino. «In questo locale non si fanno sconti.)) Haze poté vedere il cieco che percorreva la strada a una certa distanza. Restò fermo senza perderlo d'occhio, cac­ ciando le mani nelle tasche e ritirandole fuori quasi tentasse di spostarsi simultaneamente in avanti e all'indietro. Poi al­ l'improvviso spinse due dollari verso il venditore di sbuccia­ patate e strappata una scatola dal tavolino si mise a correre lungo la strada. Di lì a un secondo Enoch Emery sbuffava al suo fianco. «Mammamia, devi averci un mare di quattrini,)) disse. Haze vide la ragazzina raggiungere il cieco e prenderlo per il gomito. I due lo precedevano di circa un isolato. Ral­ lentò un poco il passo e si ritrovò accanto Enoch Emery. Enoch indossava un abito bianco giallastro e una camicia biancorosa con cravatta color pisello. Sorrideva. Sembrava un benevolo cane da caccia affetto da una forma leggera di rogna. 40

«Da quant'è che sei qui?» domandò. «Da due giorni,» borbottò Haze. «Io ci sto da due mesi. Lavoro per il municipio. E te dove lavori?» «Non lavoro.» «Peccato. lo invece lavoro per il municipio.» Enoch saltò un passo per affiancarsi a Haze, e soggiunse: «Ho diciott'an­ ni e sono arrivato appena da due mesi e lavoro già per il muruc1p10. » «Tanto piacere,» disse Haze. Calò il cappello più in basso dalla parte di Enoch Emery e si mise a camminare prestissi­ mo. Il cieco laggiù davanti a loro faceva inchini buffoneschi a destra e a sinistra. «Non ho inteso bene il tuo nome,» disse Enoch. Haze lo ripeté. «Mi sa proprio che ti sei messo dietro a quei buzzurri,» osservò Enoch. «T'interessa parecchio tutto questo affare di Gesù?» «No.» «No, neanche a me, non molto,» convenne Enoch. «Stetti quattro settimane nell'Istituto Rodemill della Bibbia per i Ragazzi, mi ci mandò quella donna che mi portò via dal mio babbo dandogli in cambio dei soldi. Era una dell'Assi­ stenza Sociale. Gesù, quattro settimane e credetti che stavo per ammattire a furia di santificarmi.» Haze camminò fino in fondo all'isolato ed Enoch gli ri­ mase sempre alle costole, trafelato e ciarliero. Quando Haze cominciò ad attraversare la strada, Enoch strillò: «Ma non la vedi quella luce? Vuol dire che bisogna aspettare!» Un vigile soffiò nel fischietto e un'auto lacerò l'aria col clacson fermandosi di colpo. Haze finì di attraversare, senza disto­ gliere gli occhi dal cieco che era giunto a metà dell'isolato di fronte. L'agente seguitava a fischiare: attraversò la strada 41

anche lui e fermò Haze. Aveva la faccia mag�a e gli occhi gialli ovali. «Lo sai a che serve quel piccolo aggeggio attaccato las­ sù?» chiese, accennando al semaforo sopra l'incrocio. «Non lo avevo visto,» disse Haze. Il vigile lo guardò senza dir nulla. Alcune persone si fer­ marono, e lui richiamò la loro attenzione roteando gli occhi. «Magari credevi che le luci rosse fossero per i bianchi e le verdi per i neri,» disse. «Già, credevo proprio questo,» replicò Haze. «Mi levi la mano di dosso.» Il vigile tolse la mano e se la mise sul fianco. Mosse un passo indietro e disse: «Spiegate a tutti gli amici, queste luci. Il rosso è per fermarsi, il verde per andare - uomini e don­ ne, bianchi e neri. Spiegate a tutti gli amici, così quando ver­ ranno in città sapranno come regolarsi.>> I presenti risero. «Gli baderò io, a lui,» disse Enoch Emery, facendosi largo fino al vigile. «Lui è appena arrivato qui da due giorni. Gli baderò io.>> «E

tu

da quant'è che ci sei?» chiese il vigile.

«Io ci son nato e cresciuto,» rispose Enoch. «È proprio in questa città che venni al mondo. Gli baderò io in vece sua. Ehi aspetta!» urlò a Haze. «Aspettami!>> Si aprì un varco tra la folla a forza di spinte e lo raggiunse. «Mi figuro che ti ho salvato, questa volta,» gli disse. «Grazie mille.>> «Lascia perdere. Perché non entriamo da Walgreen a prenderei un gelato col selz? I night club non sono aperti co­ sì presto. >> «Non mi piacciono i drugstore. Ciao.» «Be' pazienza. Ho idea di fare ancora quattro passi e te­ nerti compagnia per un poco.>> Poi Enoch guardò il cièco e la ragazzina alla stessa distanza davanti a loro e continuò: 42

«Non vorrei di certo trovarmi imbrancato con dei buzzurri di sera tardi, soprattutto se sono della razza che traffica in Gesù. Ne ho avuto abbastanza di loro, io. Quella donna del­ l'Assistenza Sociale che mi portò via al mio babbo dandogli dei soldi non faceva altro che pregare. Io e il mio babbo si girava con la segheria dove si era impiegati e un'estate la impiantarono fuori di Boonville e ecco che arriva quella lì.» Agguantò la giacca di Haze. «La sola cosa che non mi va giù a Taulkinham è che c'è troppa gente per le strade,» disse in tono confidenziale. «Sembra che qui non vogliono far al­ tro che pestarti... insomma ecco che arriva quella lì e ho idea che si era presa una sbandata per me. Avevo dodici anni ed ero bravo a cantare degli inni che avevo imparato da un ne­ gro. Insomma ecco che arriva e si piglia una sbandata per me e mi compra dal mio babbo e mi porta a Boonville a stare da lei. Aveva una casa di mattoni ma era sempre la solita lagna su GesÙ.» Un ometto che sguazzava in una tuta sbiadita gli dette una spinta. «Perché non guarda dove met­ te i piedi?» bofonchiò Enoch. L'ometto si fermò e alzò il braccio in un gesto malevolo e gli comparve in faccia un'aria da cane inferocito. «Dicevi qualcosa?» ringhiò. «Lo vedi,» disse Enoch, spiccando un salto per rimettersi al passo con Haze, «qui non vogliono far altro che pestarti. Non sono mai stato in vita mia in un posto nemico come questo. Neanche quando stavo da quella donna. Ci passai due mesi da lei in quella sua casa,» proseguì, «eppoi appena venne l'autunno mi spedì all'Istituto Rodemill della Bibbia per i Ragazzi e credevo di trovarci di certo un po' di pace. Questa donna era difficile da andarci d'accordo- non che fosse vecchia, avrà avuto quarant'anni- ma era una gran racchia. Portava gli occhiali scuri e aveva i capelli così sottili che parevano di lardo sciolto che le sgocciolasse sopra la 43

zucca. Credevo proprio che ci avrei trovato un po' di pace in quell'istituto. Una volta ero scappato di casa sua e lei mi ri­ prese e saltò fuori che aveva delle carte pericolose per me e che poteva mandarmi al penitenziario se non restavo da lei sicché fui contentone di andare in quell'istituto. Ci sei mai stato in un istituto?» Haze non mostrò di aver udito la domanda. «Be', non ce la trovai, la pace. Gesummio no che non ce la trovai: Dopo quattro settimane scappai di lì e quella mi ri­ prese accidentaccio e mi riportò a casa sua. Eppure ce la feci a battermela.» Enoch aspettò un minuto. «Vuoi sapere co­ m'è che ce la feci?» Dopo un secondo continuò: «Le misi in corpo una paura del diavolo, ecco come ce la feci. Studiai e studiai il sistema. Pregai perfino. Dissi: brontolò lei. «E invece lo pigli come ti ho ordinato,» ribatté il cieco. «Lui non seguiva affatto te.» La ragazzina lo prese e lo cacciò nel sacco insieme agli opuscoli. «Non è mio,» disse. «Lo tengo ma non è mio.» «L'ho seguita per dirle che non me la sento di ricambiare l'occhio di triglia che mi ha fatto laggiù,» spiegò Haze, guardando il cieco. «Cosa ti salta per la testa?» urlò la ragazzina. «L'occhio di triglia te lo sei sognato. Sono solo stata a guardarti mentre stracciavi quell'opuscolo. L'ha fatto tutto a pezzetti,» disse, urtando la spalla del cieco. «L'ha stracciato e poi l'ha semi­ nato in terra dappertutto come del sale e si è asciugato la mano sui calzoni.» «Seguiva me,» disse il cieco. «Nessuno ti seguirebbe mai, figliola. Posso sentirgli nella voce la passione che lo trascina a Gesù.» «Gesù,» borbottò Haze. «Gesummio.» Si mise a sedere vi­ cino alla gamba della ragazzina e posò la mano sopra il gra­ dino accanto al suo piede. Vide che portava delle scarpette con la suola di gomma e calze nere di cotone. 46

«Sentilo come bestemmia,»1 disse lei sottovoce. «Mica se­ guiva te, papà.» Il cieco uscì nella sua risata tagliente. «Ascolta, figliolo,» disse, «non si può scappare da Gesù. Gesù è un fatto.» «lo su Gesù ne so più di tutti voialtri messi assieme,» disse Enoch. «Ho frequentato l'Istituto Rodemill della Bibbia per i Ragazzi dove mi mandò una donna. Qualunque cosa vole­ te sapere su Gesù, basta che la chiedete a me.» Era salito in groppa al leone e sedeva di traverso, a gambe incrociate. «Ho fatto un bel po' di strada da quando ho smesso di credere in qualcosa,» disse Haze. «Ho girato mezzo mondo.» «Pure io,» disse Enoch Emery. «Non hai fatto una strada tanto lunga da poterti impedire di seguirmi,» disse il cieco. Ad un tratto buttò le braccia avanti e le sue mani coprirono il volto di Haze. Per un se­ condo Haze non si mosse né emise alcun suono. Poi si strap­ pò violentemente al contatto di quelle mani. «Piantala,» disse con voce debole. «Tu non sai nulla sul conto mio.» «Il mio babbo somiglia tutto a GesÙ,» dichiarò Enoch dalla groppa del leone. «I capelli gli arrivano fino alle spal­ le. La sola differenza è che lui ci ha una cicatrice sul mento. E la mia mamma non l'ho mai vista in faccia.» «Un predicatore ti ha impresso addosso il suo marchio,» disse il cieco con una risatina sorniona. «Tu mi hai seguito perché te lo tolga o perché te ne metta ancora un altro?» «Senti me,» disse improvvisamente sua figlia, «non c'è nessun rimedio per chi pena fuorché Gesù.)) Batté un colpetl II rigorismo di varie chiese riformate - che trova la sua estrema applicazio­ ne nel movimento fondamentalista - porta ad accettare, oltre ai dogmi e all'in­ fallibilità della Bibbia, anche l'ispirazione verbale di essa, cosicché l'osservanza del 2• comandamento impone di considerare bestemmia perfino le espressioni spontanee e consuete come quella del periodo precedente, e come le altre analo­ ghe che si troveranno in seguito. (n.d.t.)

47

to sopra la spalla di Haze, fermo al suo posto col cappello nero inclinato sul volto. «Ascolta,» continuò alzando la· vo­ ce, «c'erano un uomo e una donna che ammazzarono un bimbo piccolo. Era figlio di lei ma era brutto e perciò lei non gli dava neanche un briciolo di affetto. Quel •bimbo aveva Gesù e quella donna non aveva nient'altro che la bellezza e un uomo da viverci assieme nel peccato. Il bimbo, lei lo scacciò e lui ritornò e lei lo scacciò daccapo e lui tornò dac­ capo e ogni volta che lei lo scacciava lui ritornava dove la donna e l'uomo vivevano nel pecc�to. Lo strozzarono con una calza di seta e lo appesèro nel camino. Lui però non le dette pace dopo di allora. Tutto quello che lei guardava era sempre il bambino. Gesù lo fece bello perché la tormentasse: non poteva giacere con quell'uomo senza veder lui che le spalancava gli occhi in faccia dal camino, che scintillava at­ traverso i mattoni nel mezzo della notte.» «Gesummio,» brontolò Haze. ·«Lei non aveva nient'altro fuorché la bellezza,» disse la ragazzina con voce concitata sonora. «E la bellezza non ba­ sta. Nossignore. » «Sento già il loro scalpiccio lì dentro,» disse il cieco. «Tira fuori gli opuscoli, si preparano a uscire.)) «No che non basta,)) ripeté lei. «Cos'è che si deve fare?)) domandò Enoch. «E cosa c'è lì dentro?)) «Diffondere un programma,)) spiegò il cieco. «La mia congregaziOne.)) La ragazzina tolse gli opuscoli dalla sacca e gliene conse­ gnò due fasci, legati con lo spago. «Tu e l'altro ragazzo an­ date su da quella parte e li distribuite,)) ordinò il cieco. «Io e quello che mi ha seguito rimaniamo quaggiù.)) «Lui non ha nessun diritto di toccarli,)) protestò sua figlia. «Non vuole fare nient'altro che stracciarli tutti.)) 48

«Va' come ti ho ordinato,» disse il cieco. Lei indugiò un secondo, corrucciata, poi disse a Enoch Emery: «Vieni se proprio hai da venire,» e Enoch saltò giù dal leone e la seguì dali' altra parte. Haze si buttò nel gradino disotto ma la mano del cieco scattò avanti e gli strinse .il braccio in una morsa. «Pentiti!» gli disse in un bisbiglio precipitoso. «Sali in cima alle scale e rinnega i tuoi peccati e distribuisci questi opuscoli fra il po­ polo!» E gli ficcò in mano un fascio di opuscoli. Haze tentò di liberare il braccio dalla stretta ma riuscì so­ lo a tirarsi il cieco ancora più accosto. «Sappi che io sono pulito quanto te,» gli disse. «Fornicazione e bestemmia eppoi cos'altro?» domandò il Cieco. «Non sono che parole pure e semplici,» ribatté Haze. «Se ero nel peccato ci stavo già dentro prima di averne mai com­ messi. Nessun cambiamento è avvenuto in me.» Si sforzava di staccare le dita che gli imprigionavano il braccio ma il cieco seguitava a serrarle sempre di più. «Non credo nel pec­ cato,» soggiunse, «toglimi quella mano di dosso.» «Gesù ti ama,» disse il cieco con voce opaca beffarda. «Gesù ti ama, Gesù ti ama...» «Nulla conta oltre al fatto che Gesù non esiste,» disse Ha­ ze, svincolando il braccio. «Sali in cima alle scale e distribuisci questi opuscoli e...» «Come no, ce li porto e li butto disotto dove capita!» urlò Haze. «E tu guarda e vedrai se riesci a vedere.» «Io vedo più cose di te!» strillò il cieco, e rise. «Tu hai gli occhi e non vedi, gli orecchi e non senti, ma verrà il giorno che dovrai vedere.» «E tu guarda se riesci a vedere!» ripeté Haze, e partì di corsa su per i gradini. Una folla stava già uscendo dalle por­ te della sala e alcune persone erano scese fino a metà scali49

nata. Haze fendette la ressa coi gomiti

m

fuori come ali

aguzze, e quando fu in cima una nuova ondata di gente lo respinse fin quasi al punto da dove si era mosso. Lottava an­ cora per riaprirsi il varco allorché qualcuno gridò: «Fate largo a questo idiota!» e la gente si scostò al suo passaggio. Allora si avventò in cima alla scalinata e sempre a furia di spinte riuscì a piazzarsi sul lato e lì rimase, ansimante, lan­ ciando intorno occhiate incendiarie. «Non l'ho seguito affatto,» disse a voce alta. «Mai e poi mai seguirei un cieco imbecille come quello. Gesummio. » Si addossò al muro dell'edificio, tenendo il fascio di opuscoli per lo spago. Un grassone si fermò accanto a lui per accen­ dere il sigaro e Haze gli urtò la spalla. «Guardi in basso,» disse. «Lo vede quel cieco laggiù in fondo? Distribuisce dei volantini e chiede l'elemosina. Gesù. Dovrebbe vederlo. E si tiene appresso quella brutta figliola vestita da donna, che li distribuisce anche lei. Gesummio. » «C'è sempre dei fanatici in giro,» disse il grassone, e prose­ guì. «Gesummio,» ripeté Haze. Si sporse verso una vecchia dai capelli azzurri e una collana con i chicchi di legno rosso. «Farà meglio a passare dall'altra parte, signora,» le disse. «Laggiù c'è un imbecille che spaccia degli opuscoli.» La fol­ la dietro la vecchia la spinse avanti, ma lei lo guardò un istante con due occhi vivaci color pulce. Haze le mosse in­ contro fendendo la calca, ma era già troppo lontana e quin­ di si rifece largo e tornò a mettersi dov'era prima, addossato al muro. «Dolce Gesù Cristo Crocifisso,» cominciò, «voglio dire qualcosa a tutti voi. Forse pensate di non essere puri perché non credete. E invece siete puri, lasciate che ve lo dica io. Ognuno di voi è puro e lasciate che vi dica perché avete tor­ to se pensate che ne sia causa Gesù Cristo Crocifisso. Io non 50

dico che non fu crocifisso ma dico che non lo fu per voi. Da­ temi retta, sono un predicatore anch'io e predico la verità.» La folla si moveva veloce. Sembrava una coltre enorme che si sfilacciasse, e i fili separati sparivano giù per le strade se­ mibuie. «Non so forse che cosa esiste e che cosa non esiste?» gridò Haze. «Non ce li ho forse gli occhi nella testa? Sono forse cieco? Ascoltatemi tutti. Sàppiate che mi preparo a predicare una chiesa nuova: la chiesa della verità senza Ge­ sù Cristo Crocifisso. Convertirvi a questa mia chiesa non vi costerà nulla. Non è ancora iniziata ma lo sarà al più pre­ sto.» Le poche persone rimaste lo guardarono due o tre volte di sfuggita. Molti opuscoli erano sparpagliati in fondo alla scalinata, sul marciapiede e lungo la strada. Il cieco sedeva sull'ultimo gradino. Enoch Emery, dall'altra parte, in piedi sulla testa del leone, cercava di mantenersi in equilibrio, e la ragazzina al suo fianco stava osservando Haze. «Non mi ser­ ve Gesù,» disse Haze. «A che mi serve Gesù? Ci ho Leora Watts, io.» Scese calmo la scalinata fin dov'era il cieco e si fermò. Gli si tenne davanti un secondo e il cieco rise. Poi Haze ripartì e cominciò ad attraversare la strada. Era arrivato sul marcia­ piede opposto allorché lo colpì la voce lacerante. Si girò e vide il cieco ritto in mezzo alla strada, che urlava: «Hawks, Hawks, mi chiamo Asa Hawks caso mai tu cercassi di seguir­ mi ancora!» Una macchina dovette sterzare bruscamente per evitar d'investirlo. «Pentiti!» urlò il cieco e rise e corse avanti per un breve tratto, fingendo di voler raggiungere Haze per acciuffarlo. Haze affondò la testa nelle spalle incurvate e proseguì in fretta. Non si girò a guardare finché non ebbe udito altri passi dietro di sé. «Adesso che ce li siamo levati di torno,» sbuffò Enoch ' Emery, «perché non andiamo a spassarcela un po da qual­ che parte?» 51

«Sta' a sentire,» disse sgarbatamente Haze, «io ho da fare per conto mio. Ti ho visto e rivisto a sazietà.» E si mise a camminare prestissimo. Enoch continuò a saltellare per mantenersi al passo con lui. «Sono qui da due mesi,» disse, «e non ci conosco nessu­ no. La gente non ti è amica in questa città. Mi sono trovato una stanza e non c'è mai dentro neanche un cane all'infuori di me. Il mio babbo disse che dovevo venirci. Io non ci sarei mai venuto ma lui mi fece venire per forza. Giurerei che ti ho già visto prima in qualche posto. Non sei mica di Stockwell, per caso?» «No.» «Di Melsy?» «Nemmeno.» «Tempo fa c'impiantammo la segheria. M'era parso che la tua faccia non mi riesciva nuova.» Proseguirono il cammino senza dir nulla finché furono tornati sulla via principale. Era quasi deserta. «Ciao,» disse Haze. «Vado anch'io per di qua,» replicò Enoch con voce cupa. Sulla sinistra c'era un cinematografo dove si stava cambian­ do l'insegna elettrica. «Se non ci s'imbrancava con quei buz­ zurri si poteva essere andati a vedere un film,» brontolò. Marciava gomito a gomito con Haze. Le parole che gli usci­ vano di bocca erano una via di mezzo tra un biascichio e una lagna. A un certo punto lo afferrò per la manica perché rallentasse e Haze si liberò con uno strattone. «Mi ci fece ve­ nire il mio babbo,» seguitò Enoch con voce fessa. Haze gli diede un'occhiata e vide che stava piangendo, la faccia umi­ da e rigata color rosa violaceo. «Ho appena diciott'anni,» gridò, «e lui mi ci fece venire per forza e io non conosco nes­ suno, nessuno vuol aver a che fare con un altro, quaggiù. Non c'è amicizia. Il mio babbo se ne andò con una donna e 52

mi ci fece venire ma non sarà capace di tenersela per un pez­ zo, dovrà picchiarla a sangue prima che quella si adatti a restare appiccicata a una sedia. Tu eri la prima faccia fami­ gliare che vedevo dopo due mesi. Ti ho già visto da qualche parte. Lo so, che ti ho già visto da qualche parte.» Haze guardava dritto davanti a sé con il volto rigido ed Enoch persisteva in quella via di mezzo tra un biascichio e un piagnisteo. Oltrepassarono una chiesa e un albergo e il negozio di un antiquario e infilarono la strada della signora Watts. «Se vuoi prenderti una donna non c'è bisogno che vai die­ tro a certa roba come quella bambina che si è fatta regalare uno sbucciapatate da te,» ricominciò Enoch. «Ho sentito di­ re d'una casa dove si potrebbe divertirci un pochino. I soldi magari te li rendo quest'altra settimana.» «Guarda,» disse Haze, «io vado dove vado: a due porte da qui. Una donna l'ho già. Una donna l'ho già, capisci? E è da lei che sto andando: sono invitato. Non ho bisogno di ve­ .nire con te.» «Potrei renderti i soldi quest'altra settimana. Lavoro allo zoo municipale. Faccio il custode a un cancello e mi pagano tutte le settimane.>> «Vattene.>> «La gente di qui non è amica. Non sei di qui, ma non sei amico neanche te.>> Haze non gli rispose. Tirò di lungo con il collo affondato nelle scapole come se avesse freddo. «E anche te non conosci nessuno,» disse Enoch. «Non ci hai una donna, non hai niente da fare. M'è bastato vederti una volta per capire che non avevi niente né nessuno fuor­ ché Gesù. T'ho visto e l'ho capito alla prima.>> «Io entro qui,» disse Haze, e imboccò il vialetto senza gi­ rarsi a guardare Enoch. 53

Enoch si fermò. «Già,» gridò, «eh già,» e si passò la mani­ ca sotto il naso per bloccare il moccio. «Già,» gridò, «vatte­ ne pure dove ti pare, ma sta' attento.» Si batté sulla tasca e rincorse Haze e lo afferrò per la manica e gli fece tintinnare davanti alla faccia la scatola dello sbucciapatate. «Questo qui me l'ha dato lei. L'ha dato a me, e te non puoi farci nul­ la. Mi ha detto dove stanno di casa e m'ha chiesto di andarli a trovare e di portartici - non te che ci porti me, io che ci porto te - mentre eri te che li avevi seguiti.» Gli sfavillaro­ no gli occhi tra le lacrime e la sua faccia si slargò in un sorri­ so bieco cattivo. «Ti comporti come se credessi di averci il sangue che la sa lunga più di quello degli altri,» disse, «ma ti sbagli! Sono io che ce l'ho. Non te. Io, proprio io.» Haze tacque. Rimase immobile per un istante, piccolo in mezzo ai gradini, poi alzò il braccio e scaraventò il fascio di opuscoli che si era portato dietro e che colpì Enoch in pieno petto facendogli spalancare la bocca. Enoch restò lì imbam­ bolato, a bocca aperta, fissando il punto della camicia do­ v'era stato colpito, quindi si volse e si precipitò per la strada; e Haze entrò nella casa. La notte passata era stata la prima volta in vita sua che dormiva con una donna, e perciò non aveva ottenuto un gran successo con la signora Watts. Quando ebbe finito, sembrava un rottame gettato a riva sopra di lei, e lei aveva fatto dei commenti osceni sul conto suo, dei quali si era ri­ cordato di tanto in tanto nel corso della giornata. Era sulle spine all'idea di tornare da quella donna. Non sapeva cosa le sarebbe uscito di bocca quando si fosse ripresentato sulla soglia di casa sua. Allorché aprì la porta e lei lo vide nel vano, lo accolse di­ cendo: «Hèhè. » Il cappello nero gli stava perfettamente dritto sulla testa. E così entrò in casa, ma se lo tolse quando sbatté contro la 54

lampadina che pendeva dal centro del soffitto. La signora Watts era a letto, occupata a spalmarsi la faccia di grasso. Appoggiò il mento sulla mano e osservò Haze. Lui si mise a girellare per la stanza, esaminando questo e quest'altro. Gli si seccò la gola e il cuore cominciò a stringerlo in una morsa come uno scimmiottino che si aggrappasse alle sbarre della gabbia. Haze sedette sulla sponda del letto, col cappello in mano. Il sogghigno della signora Watts era ricurvo e aguzzo co­ me la lama di una falce. Si capiva subito ch'era così bene assimilata al proprio ambiente da non aver più bisogno di pensare. I suoi occhi assorbivano ogni cosa in blocco, come sabbie mobili. «To', rieccolo, il cappello che vede Gesù!)) disse. Si mise a sedere in letto e tirò la camicia da notte di sotto al corpo e se la tolse. Allungò il braccio, prese il cap­ pello e se lo cacciò in testa e si mise le mani sui fianchi, ro­ teando comicamente gli occhi. Haze la fissò un minuto, quindi scaricò tre rumori di fila che erano risate. Con un sal­ to arrivò al cordone della luce elettrica, gli diede uno strap­ po e si svestì al buio. Un giorno quand'era piccolo suo padre lo aveva condotto a un luna-park che si era fermato a Melsy. Un po' discosto su un lato sorgeva una tenda dove l'ingresso era più caro che alle altre. Un ciarlatano risecchito dalla voce di tromba ar­ ringava il pubblico. Non diceva che cosa c'era dentro, dice­ va solo ch'era così

SENZASSIONALE

che chiunque volesse ve­

derla avrebbe dovuto sborsare trentacinque centesimi, e che era così

RISERVATtSSIMA

che potevano entrarci soltanto quin­

dici fortunati alla volta. Il padre lo mandò a una tenda dove ballavano due scimmie e poi se la batté verso l'altra tenda, andando rasente alle cose. Haze piantò le scimmie e lo seguì, ma non aveva trenta­ cinque centesimi. Domandò al ciarlatano cosa c'era lì dentro. 55

«Passa via,» disse l'uomo. «Non c'è granite e non c'è scimmie.» «Le scimmie le ho già viste.» «Bravo, passa via.» «Ho quindici centesimi. Perché non mi lascia entrare e potrei vedere la metà di quello che c'è?» Dev'essere qualcosa che ha a che fare con un cesso, pensava. Degli uomini in un cesso. Dopo pensò: forse c'è un uomo e una donna in un ces­ so. Lei non sarebbe contenta se vado lì dentro. «Ho quindici centesimi,» ripeté. «Lo spettacolo è più che a metà,» disse l'uomo, sventolandosi col cappello di paglia. «Scappa.» «Allora vale quindici centesimi.» «Sparisci.» «C'è un negro?» chiese Haze. «Stanno facendo qualcosa a un negro?» Il ciarlatano si sporse dalla piattaforma

e

la sua faccia ri­

secchita si corrugò in un cipiglio astioso. «Che razza d'idea ti salta in testa?» «Non lo so.» «Quanti anni hai?» «Dodici,» disse Haze. Ne aveva dieci. «Dammi quei quindici centesimi e va' dentro.» Haze fece scivolare i soldi sopra la piattaforma e si strasci­ cò carponi per entrare prima che finisse lo spettacolo. Sgu­ sciò sotto il lembo della tenda, e dentro ne trovò un'altra e attraversò anche quella nello stesso modo. Non poté veder nulla salvo le schiene degli uomini. Salì sopra una panca e da lassù i suoi occhi sorvolarono le loro teste. Gli uomini sta­ vano guardando una cavità del suolo in cui qualcosa di bianco giaceva entro una cassa foderata di panno nero, di­ menandosi leggermente. Per un secondo credette che fosse un animale scorticato e poi vide che era una donna. Era 56

grassa e la sua faccia sarebbe stata una faccia qualunque se­ nonché sull'angolo d'un labbro c'era un porro che si moveva quando la donna ridacchiava, e sopra un fianco ce n'era un altro. «Se fabbricassero tutte le bare ficcandoci dentro una di quelle, non parrebbe vero di crepare prima del tempo,»· dis­ se suo padre, seduto in una delle prime file. Haze riconobbe la voce senza guardare. Scivolò giù dalla panca e se la svignò dalla tenda in fretta e furia. Uscì carpo­ ni dal lato di quella esterna per evitar di passare davanti al ciarlatano. Entrò nel cassone di un autocarro e si rincantuc­ ciò più in fondo che poteva. Fuori, il luna-park faceva un frastuono di latta. Quando arrivò a casa la madre era nella corte vicino alla caldaia del bucato, e lo guardava. Vestiva sempre di nero e i suoi abiti erano più lunghi di quelli delle altre donne. Stava lì ritta, a guardar lui. Haze si spostò dietro un albero e si nascose alla sua vista, ma dopo pochi minuti poté sentirla che lo spiava attraverso l'albero. Rivide la cavità e la bara, e nella bara una donna magra, troppo lunga in proporzione alla bara medesima; la sua testa sbucava a un'estremità e i ginocchi erano sollevati per farvela entrare. Aveva la faccia a forma di croce e i capelli tirati aderenti alla testa. Haze si appiattì contro l'albero, aspettando. La madre si allontanò dalla caldaia e venne verso di lui con un bastone. Disse: «Che hai visto?» «Che hai visto?» «Che hai visto,» disse ancora, e ogni volta nello stesso to­ no di voce. Gli colpì le gambe di striscio col bastone, ma Ha­ ze pareva una parte dell'albero. «Gesù morì per redimerti.» «Mica gliel'avevo chiesto io,» borbottò Haze. La madre smise di colpirlo ma rimase ferma a guardarlo, a bocca stretta, e lui dimenticò la colpa della tenda nel ricor57

do della colpa innominata indefinita che aveva in sé. Dopo un minuto lei gettò lontano il bastone e tornò alla caldaia, sempre a bocca stretta. La mattina dopo Haze portò le scarpe nel bosco di sop­ piatto. Non le calzava mai tranne che per gli incontri di pre­ ghiera e nell'inverno. Le prese dalla scatola, empì le suole di sassi e pietruzze, e poi se le mise. Strinse i lacci più che pote­ va e quando fu giunto nel bosco seguì un percorso di cui co­ nosceva la lunghezza- un miglio esatto- finché arrivò a un torrente, e allora sedette e si tolse le scarpe e alleviò il male dei piedi immergendoli nella sabbia bagnata. Questo dovrebbe soddisfarLo, pensò. Non successe nulla. Se fosse caduto un sasso l'avrebbe interpretato come un segno. Dopo un poco cavò fuori i piedi dalla sabbia e li fece asciugare, poi si rimise le scarpe, ancora con dentro le pietruzze, e tor­ nò indietro di mezzo miglio prima di levarsele.

58

4

Quella mattina Haze uscì di buon'ora dal letto della si­ gnora Watts, prima che un filo di luce fosse penetrato nella carnera. Al suo risveglio, il braccio di lei gli posava per tra­ verso sul corpo. Si tirò su a sedere, sollevò quel braccio e glielo adagiò lungo il fianco, ma senza guardarla. Aveva in mente un solo pensiero: si sarebbe comprato un'automobile. Quando si destò il pensiero gli era maturato pienamente nel­ la testa, e non pensò a nient'altro. Mai fin allora aveva pen­ sato di comprare un'automobile; e tanto meno desiderato di possederla. In vita sua ne aveva guidata una sola e per poco tempo, e non si era curato di prendere la patente. Aveva ap­ pena cinquanta dollari, ma calcolava che fossero sufficienti per l'acquisto. Scese furtivamente dal letto, senza disturbare la signora Watts, e si vestì in silenzio. Alle sei e mezzo, era già nella zona commerciale della città, in cerca degli auto­ market dove si vendevano le macchine usate. Quei depositi erano sparsi in mezzo a isolati composti di vecchie costruzioni che separavano la zona commerciale da­ gli scali ferroviari. Haze girellò intorno ad alcuni prima del­ l'ora di apertura. Capiva a occhio e croce anche da fuori se era probabile che contenessero un'automobile da cinquanta dollari. Via via che cominciavano ad aprire per iniziare le vendite, li attraversava alla svelta, senza por mente a chiun­ que cercasse di mostrargli la propria merce. Il cappello nero 59

gli calzava in testa con effetto di cautela e stabilità, e la sua faccia aveva l'aria fragile come se fosse stata rotta e riaggiu­ stata alla meglio, o come un'arma carica a insaputa di tutti. La giornata era umida abbagliante. Il cielo sembrava una lamina d'argento lucido con un sole cupo arcigno, appartato in un angolo. Alle dieci Haze aveva setacciato tutti i migliori automarket e andava avvicinandosi agli scali ferroviari. Per­ fino in quella zona gli automarket erano pieni di macchine che costavano più di cinquanta dollari. Alla fine giunse da­ vanti a uno di quei depositi in mezzo a due magazzini deser­ ti. Un cartello sopra l'ingresso diceva: DA SLADE PER IMO­ DELLI PIÙ RECENTI. 'Pna stradina inghiaiata tagliava l'automarket a metà e su un lato presso la facciata sorgeva un baracchino di latta con la parola UFFICIO verniciata sopra la porta. Il resto dello spazio era occupato da vecchie automobili e rottami di mac­ chinario. Un ragazzo bianco sedeva su un bidone di benzina di fronte all'ufficio, con l'aria di star lì apposta per allonta­ nare i compratori eventuali. Portava un impermeabile nero e aveva il viso parzialmente nascosto sotto un berretto di cuoio. Da un angolo della bocca gli penzolava una sigaretta la cui cenere era lunga circa un pollice. Haze si diresse verso il fondo dell'automarket dove aveva notato una macchina particolare. «Ehi!» vociò il ragazzo. «Mica si capita qui dentro come niente fosse. La roba da far vedere la faccio vedere io,» ma Haze non gli badò affatto. Proseguì verso il fondo del deposito dove scorgeva la mac­ china. Il ragazzo gli si mise alle calcagna sbuffando e be­ stemmiando. Quell'auto si trovava nell'ultima fila: era alta color topo e aveva le ruote grandi sottili e i fari sporgenti. Quando vi giunse davanti, Haze si accorse che uno sportello era legato con una corda e che sul retro c'era un lunotto ovale. Ecco l'automobile che avrebbe comprato. 60

«Fammi vedere Slade,» disse al ragazzo. «E perché vuoi vederlo?» chiese il ragazzo con voce stiz­ zosa. Aveva la bocca larga e nel parlare ne usava un lato solo. «Voglio vederlo per via di quest'auto.» «Lui è me,» disse il ragazzo. La sua faccia sotto il berretto ricordava il becco aguzzo di un aquilotto; sedette sul predel­ lino di un'auto dal lato opposto della stradina inghiaiata e seguitò a imprecare. Haze girò intorno alla macchina. Poi vi guardò dentro dal finestrino. L'interno era d'un color polvere smorto verdastro. Il sedile posteriore mancava ma era stato sostituito con una piccola asse incastrata orizzontalmente nel telaio. Sui due fi­ nestrini posteriori c'erano delle tendine verde cupo con la frangia. Haze guardò attraverso i due finestrini anteriori e vide il ragazzo seduto sul predellino dell'auto a] di là della stradina. Si era tirato su un pantalone e si stava grattando la caviglia che spuntava fuori da un calzino giallo molliccio. Imprecava dal fondo della strozza come se si sforzasse di espellere il catarro. I due finestrini lo facevano apparire giallognolo e ne storcevano la sagoma. Haze si allontanò ra­ pidamente dal lato esterno della macchina e venne a fer­ marglisi davanti. «Quanto costa?» domandò. «Gesù in croce,» disse il ragazzo. «Cristo inchiodato.» «Quanto costa?» ringhiò Haze, impallidendo leggermente. «Quant'è che vale secondo lei?» ribatté il ragazzo. «Ci faccia un'istima. » «Non vale i soldi che ci vorrebbero per caricarla su un carro e farla sparire. Io non la vorrei neanche in regalo.» Il ragazzo dedicò tutta la propria attenzione alla caviglia su cui si stava formando una crosta. Haze alzò gli occhi e vide un uomo che avanzava in mezzo a due auto dalla parte 61

del ragazzo. Mentre quello si avvicinava, notò che somiglia­ va esattamente al ragazzo se non che era alto due teste più di lui e portava un feltro marrone macchiato di sudore. Sta­ va arrivando dietro al ragazzo, lungo una fila di macchine; quando gli fu giunto alle spalle, si fermò e attese un secondo, poi in una sorta di ruggito controllato disse: «Togli le nati­ che da quel predellino! » Il ragazzo digrignò i denti e disparve, strascicandosi fra una macchina e l'altra. L'uomo rivolse lo sguardo su Haze. «Cosa desidera?» gli domandò. «Questa macchina qui.» «Settantacinque dollari.» Fiancheggiavano l'automarket due vecchie costruzioni, rossastre, con le finestre nere vuote, e sul retro ce n'era un'al­ tra senza finestre. «Grazie mille,» disse Haze, e ripartì in di­ rezione dell'ufficio. Arrivato all'ingresso, si sbirciò alle spalle e vide l'uomo a pochi passi di distanza, e lo sentì che diceva: «Si potrebbe trattare un momentino.» Haze lo seguì e tornarono fino alla macchina. «Un'automobile come questa qui non la trova mica tutti i giorni,» disse l'uomo. Si mise a sedere sopra lo stesso predel­ lino occupato poc'anzi dal ragazzo. Il ragazzo} Haze non lo vide ma c'era, seduto sul cofano di una macchina due file più in là. Si teneva tutto rannicchiato come se gelasse dal freddo, ma gli segnava la faccia un'aria di acredine control­ lata. «Gomme nuove di zecca,» disse l'uomo. «Erano nuove quando la fabbricarono.» «Pochi anni fa le fabbricavano meglio. Oggi le macchine buone hanno smesso di farle.» «Quanto chiede?» L'uomo fissò lo sguardo altrove, riflettendo. Dopo un cer62

to tempo rispose: «Mah, quasi quasi potrei scendere fino a sessantacinque. » Haze si appoggiò all'automobile e si mise a confezionare una sigaretta ma non riusciva ad arrotolarla. Ogni volta gli cadevano di mano il tabacco e poi le cartine. «Insomma, quant'è disposto a spendere?» chiese l'uomo. «Io non la cambierei con una Chrysler, un'Essex come que­ sta qua. Questa qua non è stata fabbricata da un branco di negri.» «Al giorno d'oggi,» continuò, tanto per tirare in lungo il discorso, «tutti i negri stanno a Detroit a fare il montaggio delle macchine. Ci fui anch'io per un poco e li vidi coi miei occhi. Me ne venni via.» «Non ci spenderei più di trenta dollari.» «Ci tenevano un negro lassù ch'è quasi chiaro quanto lei o me.>> L'uomo si tolse il cappello e fece scorrere il dito intorno al nastro interno. Aveva un ciuffetto di capelli color carota. «Facciamo un giro di prova,» propose, «oppure preferisce andarci sotto e guardarla anche lì?>> «No.» L'uomo lanciò a Haze un'occhiata di sfuggita. «Paga­ mento alla partenza,» disse disinvolto. «Se non trova quello che cerca in quest'auto ci son altri che non gli parrebbe vero di pigliarla allo stesso prezzo.» Due macchine più in là il ra­ gazzo ricominciò a sacramentare. Haze si volse di scatto e diede un calcio al pneumatico anteriore. «Gliel'ho già detto che quelle gomme non c'è pericolo che scoppiano,» disse l'uomo. «Quanto?» «Quasi quasi potrei scendere fino a cinquanta.» Prima che Haze acquistasse la macchina, l'uomo ci mise dentro un po' di benzina e gli fece fare un giro intorno ad alcuni isolati per dimostrare che funzionava. Il ragazzo s1 63

era accucciato sulla trave dietro di loro, imprecando. «Ci ha qualcosa di guasto in corpo, ecco perché bestemmia tanto,» spiegò suo padre. «Non gli dia retta e basta.» Nel correre la Essex emetteva uno stridulo ringhio. L'uomo azionò i freni per far vedere com'erano buoni e il ragazzo fu sbalzato dal­ l'asse e sbatté contro le loro teste. «Accidenti a te,» ruggì l'uomo, «piantala di saltarci addosso a questo modo, e tieni il sedere sulla traversa.» Il ragazzo non disse nulla. Si trat­ tenne perfino dal bestemmiare. Haze si girò a guardarlo e vide che stava rannicchiato nell'impermeabile nero, col ber­ retto di cuoio nero calato quasi sugli occhi. L'unica differen­ za era che l'urto gli' aveva fatto schizzar via la cenere dalla sigaretta. Haze acquistò l'automobile per quaranta dollari e in più pagò l'equivalente di cinque galloni di benzina. L'uomo or­ dinò al ragazzo di andare all'ufficio a prendere una latta da cinque galloni per empire il serbatoio. Il ragazzo tornò im­ precando e trascinandosi dietro la latta gialla, quasi piegato in due. «Dammela,» disse Haze, «faccio da me.» Aveva una fretta terribile di andarsene nella sua macchina. Il ragazzo gli strappò di mano il recipiente e si raddrizzò: era pieno sol­ tanto a metà ma lui lo mantenne inclinato sul serbatoio fin­ ché i cinque galloni stavano per sgocciolarne fuori. E nel frattempo non cessò di ripetere: «Dolce Gesù, dolce Gesù, dolce Gesù.» «Perché non la pianta?» domandò Haze all'improvviso. «Come mai non la finisce più di parlare così?» «lo non so davvero cos'è che lo rode,» disse l'uomo e si strinse nelle spalle. Quando la macchina fu pronta l'uomo e il ragazzo rima­ sero fermi a osservare la partenza di Haze. Lui avrebbe pre­ ferito che non ci fosse nessuno ad assistervi perché non gui­ dava un'automobile da quattro o cinque anni. I due non dis64

sero nulla mentre cercava di mettere in moto, ma si limita­ rono a starsene lì, a guardare quel che faceva. «Quest'auto la volevo più che altro perché mi serviva una casa,» spiegò Haze. «Non ho un posto dove abitare.» «Non ha ancora levato il freno,)) disse l'uomo. Haze tolse il freno e la macchina schizzò all'indietro per­ ché l'altro l'aveva lasciata in retromarcia. Dopo un secondo riuscì a farla andare in avanti e partì di sghimbescio, oltre­ passando l'uomo e il ragazzo sempre fermi

a

guardarlo. E

procedette, senza pensare a nulla, tutto sudato. Per molto tempo rimase sulla strada che aveva imboccato e gli ci volle un bel po' di fatica per tenere la mano. Si lasciò dietro di circa mezzo miglio gli scali ferroviari e poi una serie di ma­ gazzini. Quando tentò di rallentare, la macchina si fermò di colpo e allora dovette farla ripartire. Oltrepassò lunghi iso­ lati di case grigie, quindi di case gialle, più decenti. Comin­ ciava a piovigginare e azionò il tergicristallo; le asticciole fe­ cero un gran fracasso come due idioti che applaudissero in chiesa. Si succedettero degli isolati di case bianche, ciascuna con un brutto muso di cane, seduta sopra un quadrato d'er­ ba. Alla fine Haze percorse un viadotto e trovò la statale. Cominciò ad andare molto veloce. La statale era frastagliata di distributori e di campeggi per roulotte e di motel. Dopo un certo tempo si susseguirono alcuni rettilinei dai cui margini calavano dei fossatelli rossi, e dietro di questi c'erano piccoli appezzamenti di terreno coltivato agganciati tra loro da pali con in cima il cartello 666.1 Il cielo colava su ogni cosa e a un tratto cominciò a infiltrarsi nella macchina. Il capo di una sfilata di maiali spuntò dal fosso a grugno insù e Haze dovette fermarsi tra il cigolio dei freni e attendere di veder sparire il tremulo derel Il numero 666 simboleggia la «fiera che sale dalla terra» nell'Apocalisse' 18, ossia l'Anticristo. (n.d.t.)

65

XIII '

tano dell'ultimo maiale nel fosso sull'altro lato della strada. Rimise in moto e proseguì. Aveva la sensazione che tutto quanto vedeva fosse il frammento d'una qualche cosa gigan­ tesca amorfa che gli era accaduta ma uscita di mente. Da una trasversale sbucò davanti a lui un camioncino nero. Nel cassone erano legati un letto di ferro e una seggiola e un ta­ volo, e in cima ai mobili, una gabbia di polli dal piumaggio striato bianco e nero. Il veicolo procedeva lentissimo, con grande rimbombo e in mezzo alla strada. Haze si mise a strombettare; aveva pestato tre volte sul clacson prima di accorgersi che non ne usciva alcun suono. La gabbia era tal­ mente stipata di polli che quelli di fronte a lui allungavano il capo fuori dalle stecche. Il camioncino non aumentò la ve­ locità e Haze fu costretto a rallentare. I campi si estendeva­ no fradici di pioggia da ambedue le parti finché toccavano la boscaglia dei pini nani. La statale fece una curva e cominciò a scendere e su un lato apparve un argine alto coronato di pini, di fronte a un masso grigio che emergeva dal parapetto del fossatello op­ posto. Lettere bianche sul masso dicevano: GUAI AL BLASFE­ MO E AL MAGNACCIA! V'INGHIOTTIRÀ L'INFERNO! Il camioncino

rallentò ancora di più, quasi stesse leggendo la scritta, e Ha­ ze martellò lo sterile clacson. Ci pestò e ci pestò sopra ma non ne uscì alcun suono. Il camioncino andò avanti, sballot­ tando i mogi polli striati, e sormontò la vetta del poggio se­ guente. L'auto di Haze si era fermata e i suoi occhi erano rivolti verso le due parole in calce alla scritta. Dicevano a lettere più piccole: «Gesù Salva.» Haze indugiava a guardare la scritta e non udì la tromba. Dietro di lui veniva un'autocisterna che trasportava petro­ lio, lunga come un vagone ferroviario. Dopo un secondo spuntò al suo finestrino una faccia rossa quadrata. Osservò per un minuto la nuca e il cappello di Haze, quindi una ma66

no s'introdusse e gli si posò sulla spalla. «Che ci fai parcheg­ giato in mezzo di strada?» chiese il conducente. Haze girò verso di lui il viso fragile dall'espressione decisa. «Toglimi la mano di dosso,» disse. «Sto leggendo quelle pa­ role.» La fisionomia del camionista e la posizione della sua ma­ no rimasero esattamente immutate, quasi avesse l'udito un po' difettoso. «Non c'è nessuno che diventa un magnaccia se non era qualcosa di peggio già in partenza,» dichiarò Haze. «Questo non è il peccato, e non lo è neanche la bestemmia. Il peccato venne prima di tutti e due.» La faccia del camionista rimase esattamente la stessa. «Gesù è un trucco per gabbare i negri,» soggiunse Haze. Il camionista mise entrambe le mani sul finestrino e lo strinse. Pareva intenzionato a tirar su la macchina. «Ti deci­ di a sgombrare quest'accidente della tua latrina dal mezzo di strada?» domandò. «lo non ho bisogno di fuggire davanti a nulla perché non credo in nulla,» disse Haze. Lui e il camionista si fissarono l'un l'altro per circa un minuto. Lo sguardo di Haze fu il più distaccato; un piano diverso gli si andava formando nella mente. «In che direzione si trova lo zoo?» chiese. «Giusto in quella da dove sei venuto,» rispose il camioni­ sta. «Saresti scappato di lì?» «Devo vedere un ragazzo che ci lavora,» spiegò Haze. Ri­ mise in moto e lasciò il camionista fermo nello stesso punto, di fronte alle lettere verniciate sul masso.

67

5

Quella mattina appena desto Enoch Emery fu sicuro che

in giornata sarebbe venuta la persona alla quale poteva far­

lo vedere. La sicurezza gliela dette il sangue. Come il suo

babbo, Enoch aveva il sangue che la sapeva lunga.

Alle due del pomeriggiq, vide arrivare il collega che face­

va il secondo turno di guardia davanti al cancello. «Sei in

ritardo di quindici minuti appena,» gli disse rabbiosamente. «Io però sono rimasto lo stesso. Potevo andarmene via ma

sono rimasto.» Indossava un'uniforme verde con filettature

gialle al collo e .sulle maniche e una striscia gialla lungo la

parte esterna dei pantaloni. La medesima uniforme l'aveva

il guardiano del secondo turno, un ragazzo dalla faccia pro­

gnata di struttura granulosa e uno stecchino in bocca. Il

cancello davanti al quale sostavano era composto di sbarre

di ferro e l'arco di cemento che lo reggeva era sagomato così

che il tutto rappresentava due alberi, i cui rami s'incurvava­ no a formarne la cima dove delle lettere attorcigliate diceva­

no:

PARCO CIVICO FORESTALE.

Il guardiano del secondo turno

si appoggiò a uno dei tronchi e si mise a frugare negli inter­ stizi fra i denti con lo stecchino.

«Ogni giorno,» si lagnò Enoch, «ogni giorno che passa

perdo quindici minuti buoni a stare qui ad aspettarti.>>

Ogni giorno, quando smontava di guardia, entrava nel

parco e ogni giorno, dopo esserci entrato, faceva sempre le 69

stesse cose. Prima di tutto andava alla piscina. Aveva paura dell'acqua, ma gli piaceva sedersi sull'argine sovrastante se nella piscina c'erano delle donne, e guardarle da lassù. Ce n'era una che veniva tutti i lunedì e che portava un costume con uno spacco sui fianchi. Da principio Enoch aveva credu­ to che lei non sapesse degli spacchi, e invece di guardarla apertamente dall'argine, era sgattaiolato in un gruppo di ce­ spugli, ridacchiando tra sé, e l'aveva spiata da lassù. Nella piscina non c'era nessun altro- la folla non veniva fino alle quattro- per avvertirla degli spacchi e la donna sguazzava tutt'intorno e dopo si stendeva sul bordo della piscina e dor­ miva per quasi un'ora, senza mai sospettare che fra i cespu­ gli ci fosse un guardone. Poi un altro giorno in cui si tratten­ ne un po' più a lungo, Enoch vide tre donne, tutte col costu­ me spaccato sui fianchi, la piscina piena di gente, e nessuno che ci facesse caso. Ecco com'era la città - gli riservava sempre qualche sorpresa. Andava a puttane quando ne ave­ va voglia ma lo scandalizzava immancabilmente la dissolu­ tezza che scorgeva all'aperto. Strisciava

a

rimpiattarsi fra i

cespugli per un senso di decoro. Spesso e volentieri le donne si tiravano giù le spalline del costume e si sdraiavano a gam­ be larghe. Il parco era il cuore della città. Enoch era arrivato a Taulkinham e- con un'intuizione nel sangue- si era sta­ bilito nel cuore della città. Ogni giorno guardava il cuore della città: ogni giorno; ed era così intontito e messo in sog­ gezione ed esterrefatto che solo a pensarci gli veniva da su­ dare. C'era qualcosa, nel centro del parco, che lui aveva sco­ perto. Era un mistero, malgrado stesse sistemato a dovere in una bacheca di vetro perché chiunque potesse vederlo, e malgrado ci fosse sopra un cartellino dattiloscritto che forni­ va tutte le informazioni al riguardo. Ma c'era qualcos'altro che il cartellino non poteva dire e quel che non poteva dire 70

stava dentro di lui, una certezza terribile senza parole che la formulassero, una certezza terribile come un grosso nervo che gli crescesse interiormente. Non poteva mostrare il mi­ stero al primo venuto; eppure bisognava che lo mostrasse a qualcuno. Questo qualcuno era una persona specifica: una persona che non doveva essere della città, ma lui non sapeva perché. Sapeva che l'avrebbe riconosciuta quando l'avesse vista e sapeva che gli era necessario vederla al più presto, altrimenti il nervo che aveva dentro di sé sarebbe talmente ingrossato da costringerlo a rubare una macchina o a rapi­ nare una banca o a saltar fuori da un vicolo buio e aggredire una donna. Fin dal principio della mattina il sangue gli an­ dava dicendo che la persona sarebbe venuta in giornata. Enoch lasciò il guardiano del secondo turno e arrivò alla piscina lungo un modesto sentiero che passando dietro l'e­ stremità degli spogliatoi delle donne sbucava in una piccola radura da dove si poteva scorgere a colpo d'occhio l'intera piscina. Questa era vuota- l'acqua color verde bottiglia e immobile - ma Enoch vide avanzare sul bordo opposto e dirigersi verso gli spogliatoi la solita donna con i due bambi­ ni. Veniva suppergiù ogni due giorni e portava i figli con sé. Entrava in acqua insieme a loro e nuotava fino in fondo alla piscina e poi si metteva a giacere sul bordo esposto al sole. Indossava un costume bianco macchiato che le ricadeva di dosso come un sacco, e Enoch l'aveva guardata con piacere in parecchie occasioni. Dalla radura salì su un pendio che conduceva a un gruppo di arbusti di abelie. Sotto a queste piante c'era un agevole tunnel e lui lo percorse carponi e giunse a un punto leggermente più spazioso dov'era sua abi­ tudine sedersi. Si mise comodo e smosse le abelie in modo da poter vedere bene la scena sottostante. La sua faccia era sempre d'un rosso acceso in mezzo agli arbusti. Chiunque ne avesse allargato i ramoscelli in quel punto esatto, avrebbe 71

creduto di trovarsi di fronte a un diavolo e sarebbe ruzzolato giù dal pendio e finito nella piscina. La donna con i due bambini entrò negli spogliatoi. Enoch non andava mai immediatamente al tenebroso centro segreto del parco: quello era il culmine del pomerig­ gio. Le altre cose che faceva non ne erano che i preliminari. Uscito dagli arbusti, soleva recarsi alla

BOTIIGLIA BRINATA,

un chiosco dove si servivano hotdog e bibite varie, dalla sa­ goma di un'arancia spremuta con in cima una guarnizione di ghiaccio tritato dipinto in azzurro. Qui Enoch ordinava un frullato di cioccolata al malto e rivolgeva alcune osserva­ zioni provocanti alla cameriera, dalla quale si credeva na­ scostamente amato. Dopo di che andava a vedere gli anima­ li, custoditi in una lunga fila di gabbie d'acciaio simili al pe­ nitenziario di Alcatraz nei film. D'inverno le gabbie erano riscaldate elettricamente mentre d'estate avevano l'aria con­ dizionata, e sei inservienti erano addetti alla cura degli ani­ mali e al loro nutrimento a base di bistecche con l'osso. Gli animali non facevano nient'altro che vegetare. Enoch se li guardava tutti i giorni, pieno di odio e soggezione. Poi anda­ va «laggiù». I due bambini corsero fuori dagli spogliatoi e si tuffarono in acqua, e simultaneamente sorse un cigolio dal viale sul la­ to opposto della piscina. Dagli arbusti sbucò la testa di Enoch. Enoch vide passare un'automobile alta color topo, che ru­ moreggiava come se stesse strascicandosi dietro il motore. Passata che fu, poté udirne lo sferragliare mentre imboccava la curva del viale e proseguiva. Ascoltò attentamente, cer­ cando di capire se si sarebbe fermata. Il rumore si affievolì e poi divenne man mano più forte. L'automobile ripassò, e questa volta Enoch vide che c'era dentro una persona sola, un uomo. Il rumore si spense di nuovo e poi crebbe. La mac­ china ricomparve per la terza volta e si fermò quasi esatta72

mente di fronte a lui, al di là della piscina. Il guidatore si affacciò al finestrino e il suo sguardo calò lungo il pendio erboso fino all'acqua dove i due bambini sguazzavano stril­ lando. Enoch sporst; la testa dàgli arbusti fin dov'era capace di allungare il collo e aguzzò lo sguardo. Lo sportello del po­ sto di guida era legato con una corda. L'uomo uscì da quel­ l'altro, passò davanti alla macchina e scese metà del pendio, verso la piscina. Sostò un minuto come se stesse cercando qualcuno e poi si mise a sedere rigidamente sull'erba. Indos­ sava un completo turchino e un cappello nero. Tirò su i gi­ nocchi. «Be', mi pigli un accidente,» disse Enoch. «Be', mi pigli un accidente.» Cominciò subito a strisciar fuori dagli arbusti, mentre il suo cuore pulsava così presto da sembrare una di quelle mo­ tociclette al luna-park che un tizio inforca e lancia intorno ai muri di una fossa. Rammentava persino il nome dell'uomo: era il signor Hazel Motes. Dopo un secondo sbucò a quattro zampe dal margine delle abelie e guardò dall'altra parte della piscina. La figura turchina sedeva sempre al suo posto e nello stesso atteggiamento. Aveva l'aria di essere inchioda­ ta lì, quasi da una mano invisibile, quasi che, se la mano si fosse sollevata, la figura sarebbe scattata d'un sol balzo sul bordo opposto della piscina senza che neanche l'ombra di un cambiamento alterasse l'espressione del viso. La donna uscì dagli spogliatoi e salì sul trampolino. Spa­ lancò le braccia e si mise a saltellare, facendo un suon di nacchere sull'asse. Poi all'improvviso con una mezza piroet­ ta schizzò all'indietro e disparve sott'acqua. La testa del si­ gnor Hazel Motes si girò lentissimamente, seguendola giù nella piscina. Enoch si alzò e percorse il viottolo sul retro degli spoglia­ toi. Uscì furtivo sul margine opposto e s'incamminò verso Haze. Si tenne sempre sull'orlo del pendio, avanzando cauto

73

nell'erba che fiancheggiava il viale, e senza rumore. Quando fu giunto esattamente dietro di lui, si mise a sedere sul bordo del viale. Se le sue braccia fossero state lunghe tre metri avrebbe potuto posare le mani sopra le spalle di Haze: lo esaminò con calma. La donna si stava arrampicando fuori dalla piscina, issan­ dosi poco a poco. Dapprima apparve la faccia, lunga e ca­ daverica, con una cuffia da bagno simile a una fasciatura che le scendeva quasi fino agli occhi, e i denti puntuti che le sporgevano dalla bocca. Poi seguitò a puntellarsi con le ma­ ni finché un grosso piede e una grossa gamba spuntarono a destra dietro di lei e altri due a sinistra, e fu tutta fuori, ac­ covacciata, ansimante. Si alzò mollemente e si scrollò, e pe­ stò i piedi nell'acqua che le sgocciolava di dosso. Era di fron­ te a loro, e spalancò la bocca in un sorriso. Enoch riuscì a vedere una parte del volto di Hazel Motes che spiava la donna: non allargò a sua volta la bocca per ricambiare il sorriso ma continuò a spiarla mentre zampettava verso una chiazza di sole quasi direttamente sotto al punto dove sede­ van loro. Enoch dovette avvicinarsi un po' di più per veder meglio. La donna si mise a sedere nella chiazza di sole e si tolse la cuffia. Aveva i capelli corti e arruffati e di tutti i colori, dal ruggine scuro al giallo verdastro. Scosse la testa e alzò di nuovo lo sguardo verso Hazel Motes, sogghignando fra i denti puntuti. Si distese e si stiracchiò al sole, sollevando i ginocchi e addossando la spina dorsale al cemento. I due bambini, alla sponda opposta, sbattevano la testa l'uno del­ l'altro contro l'orlo della piscina. La donna seguitò a spo­ starsi finché si fu appiattita sul cemento e allora alzò un braccio e tirò giù le spalline del costume. «Cristo Re!» "bisbigliò Enoch, e prima che potesse disto­ gliere gli occhi dalla donna, Hazel Motes era balzato in pie74

di e aveva quasi raggiunto l'automobile. Ora la donna sede­ va con la schiena dritta e il costume calato a metà sul da­ vanti, e Enoch guardava contemporaneamente in direzione di entrambi. Ma si strappò alla contemplazione della donna e sfrecciò dietro a Hazel Motes. «Aspettami!» urlò, e intanto agitava le braccia di fronte all'automobile che stava già gracchiando e cominciava a muoversi. Hazel Motes spense il motore. La sua faccia dietro il parabrezza era acida e simile a un ranoc­ chio; pareva che ci fosse tappato dentro un urlo; pareva la porta d'uno di quegli sgabuzzini nei film di gangster dietro alla quale c'è un tizio legato a una sedia con un asciugama­ no in bocca. «Be',» disse Enoch, «mi caschi il naso se questo non è Ha­ zel Motes. Come va, Hazel?» «Il guardiano ha detto che ti avrei trovato alla piscina. Ha detto che ti nascondi tra i cespugli e che stai a guardare il nuoto.» Enoch arrossì. «Il nuoto l'ho sempre ammirato parec­ chio,>> spiegò. Poi cacciò tutta la testa nel finestrino. «Stavi cercando me?» chiese eccitato. «Quel cieco che si chiama Hawks... la sua figliola ti ha detto dove stanno di casa?» Enoch non mostrò di aver udito. «Sei venuto fin qui ap­ posta per veder me?» domandò. «Asa Hawks. La sua figliola ti ha dato lo sbucciapatate. Ti ha detto dove stanno di casa?» Enoch ritrasse la testa dal finestrino. Aprì lo sportello del­ la macchina e s'irJilò dentro accanto a Haze. Per un minuto si limitò a guardarlo, umettandosi le labbra. Poi sussurrò: «Devo farti vedere qualcosa.» «Sto cercando quelle persone. Ho bisogno di vedere quel­ l'uomo. Lei ti ha detto dove stanno di casa?»

75

«Devo farti vedere questa cosa. Devo farla vedere a te, qui, questo pomeriggio. Lo devo.» Agguantò il braccio di Hazel Motes, che si svincolò in malo modo. «Lei ti ha detto dove stanno di casa?» ripeté. Enoch seguitava a inumidirsi le labbra; erano pallide sal­ vo nelle vescicole dell'erpete, di color violaceo. «Altro che,» disse. «O non mi ha invitato ad andarla a trovare portan­ do la mia armonica? Devo farti vedere questa cosa, poi te lo dirò.» «Quale cosa?» bFontolò Haze. «Questa cosa che devo farti vedere. Va' sempre dritto e ti avvertirò io dove fermare.» «Non voglio veder nulla di tuo,» ribatté Hazel Motes. «Voglio quell'indirizzo.» Enoch non guardò Hazel Motes: guardò fuori dal finestri­ no. «Non mi riescirà ricordarmelo se non vieni,» disse. Dopo un minuto la macchina partì. Il sangue di Enoch batteva ve­ loce. Enoch sapeva di dover andare alla

BOTIIGLIA BRINATA

e allo zoo prima che in quel posto e prevedeva una lotta ter­ ribile con Hazel Motes. Bisognava che lo facesse arrivare laggiù, anche a costo di colpirlo al capo con un sasso e cari­ carselo sulla schiena. Il cervello di Enoch era diviso in due parti. La parte in comunicazione con il sangue faceva i calcoli ma non formu­ lava mai nulla in parole. L'altra parte era gremita di parole e di frasi d'ogni sorta. Mentre la prima stava calcolando il modo di trascinare Hazel Motes nella

BOTTIGLIA BRINATA

e

allo zoo, la seconda chiedeva: «Dov'è che hai pescato questo gioiellino d'automobile? Dovresti dipingerci sopra qualche dicitura, come per esempio ... ne ho vista una dove c'era scritto così, poi ne ho vista un'altra con sopra...» La faccia di Hazel Motes avrebbe potuto essere stata inci­ sa nel fianco di una roccia.

76

«Una volta il mio babbo aveva una Ford gialla che vinse con il biglietto d'una lotteria,» mormorò Enoch. «Era sco­ perchiabile e insieme all'auto gli toccarono due antenne e una coda di scoiattolo. Ma poi ci fece uno scambio. Ferma! Ferma!» strillò. Stavano per oltrepassare la

BOTTIGLIA BRI­

NATA.

«Dov'è?» chiese Hazel Motes appena furono entrati. Si trovavano in una stanza semibuia con un banco che occupa­ va la parete di fondo e degli sgabelli marrone simili a ovo­ lacci allineati davanti al banco. Di fronte alla porta c'era un cartellone che faceva la pubblicità al gelato, mostrando una mucca acconciata come una casalinga. «Non è mica qui,» disse Enoch. «Si deve solo fermarci un momento per mangiare un boccone. Cosa prendi?» «Niente,» disse Haze. Rimase irrigidito in mezzo alla stanza con le mani in tasca. «Be' mettiti a sedere. lo ho bisogno di buttar giù un po' di liquido.» Qualcosa si mosse dietro al banco e ùna donna dai capelli alla maschietta si alzò dalla sedia su cui stava leggendo il giornale, venne avanti e diede un'occhiataccia a Enoch. In­ dossava un'uniforme che un giorno era stata bianca, ora im­ brattata di macchie marrone. «Che vuoi?» chiese con voce sonora, sporgendosi dal banco fin quasi a sfiorargli l'orec­ chio. Aveva un viso da uomo e braccia grosse forzute. «Voglio un frullato di cioccolata al malto, bambola,» disse soavemente Enoch. «E ci voglio dentro un monte di ge­ lato.» La donna si scostò fieramente da Enoch e squadrò Haze con aria torva. «Lui dice che non ha voglia di nulla fuorché di mettersi a sedere e ammirarti un pochino,» dichiarò Enoch. «Si accon­ tenta di mangiarti con gli occhi.» 77

Haze fissò la donna con sguardo legnoso e lei gli volse la schiena e si affaccendò a mescolare il frullato. Haze sedette sull'ultimo sgabello della fila e cominciò a far scricchiolare le nocche. Enoch lo osservò attentamente. «Ti trovo un tantino cam­ biato,» disse dopo alcuni minuti. Haze si alzò. «Dammi l'indirizzo di quella gente. Lo vo­ glio adesso,» ordinò. L'idea venne a Enoch in un lampo: la polizia. Il rossore d'una conoscenza segreta si soffuse sulla sua faccia all'im­ provviso. «Trovo che non alzi tanto la cresta come iersera,» disse. «Può essere che non hai più tanta ragione di alzarla come allora.» Quell'automobile l'ha rubata, pensò. Hazel Motes si rimise a sedere. «Come mai sei saltato su così in furia laggiù alla piscina?» chiese Enoch. La donna si girò verso di lui con il bicchiere del frullato in mano. «S'intende,» continuò in tono maligno, «neanch'io me la sentirei di mettermi con una racchiona co­ me quella lì.>> La donna sbatté il frullato sul banco davanti a lui. «Quindici centesimi,>> ruggì. «Costi parecchio di più, bambola,>> ridacchiò Enoch, e co­ minciò a ingozzare il frullato dalla cannuccia. La donna uscì dal banco a passo di marcia e andò a fer­ marsi davanti a Haze. «Perché vieni qui dentro con

un

figlio

di puttana come quello?>> vociò. «Un ragazzo perbene e tranquillo come te arriva qui con un figlio di puttana. Do­ vresti fare attenzione a chi ti metti d'intorno.>> Si chiamava Maude e beveva dalla mattina alla sera il whisky che teneva sotto il banco in un barattolo da marmellata. «Gesù,» sog­ giunse, asciugandosi la mano al naso. Sedette su una seggio­ la di fronte a Haze ma con il viso rivolto verso Enoch e in­ crociò le braccia sul petto. «Non passa giorno,» disse a Haze, 78

guardando Enoch, «non passa gtorno che non capiti qm quel figlio di puttana.» Enoch stava pensando agli animali. Bisognava che andas­ sero subito a vedere gli animali. Lui li odiava; solo a pensar­ ci la sua faccia diventava paonazza, quasi color cacao, come se il frullato di cioccolata gli stesse salendo in testa. «Sei un bravo figliolo, tu,» disse la donna. «lo me ne sono accorta, ci hai il naso pulito, be' conservatelo pulito, non an­ dare a infognarti con un figlio di puttana come quello.» Gri­ dava in direzione di Enoch, ma Enoch sorvegliava Hazel Motes. Pareva che qualcosa si andasse caricando nell'intimo di Hazel Motes, quantunque lui non si movesse esteriormen­ te. Aveva solo l'aria di esser compresso in quel vestito turchi­ no, come se là dentro la cosa in via di caricarsi stesse facen­ dosi più compatta, sempre più compatta. Il sangue disse a Enoch di affrettarsi. Enoch pompò all'impazzata il frullato su per la cannuccia. «Sissignori,» disse la donna, «non c'è consolazione più grande d'un ragazzo pulito, quant'è vero Iddio. E riconosco un ragazzo pulito solo a vederlo, io, e riconosco un figlio di puttana solo a vederlo e c'è differenza come tra il giorno e la notte e quella carogna col marchio del pus sulla faccia che fa tanto chiasso nel biascicare è un maledetto figlio di putta­ na e te che sei un ragazzo pulito faresti bene ad andarci pia­ no prima di mettertelo d'intorno. Riconosco un ragazzo pu­ lito solo a vederlo.» Enoch raschiò il fondo del bicchiere. Pescò quindici cente­ simi in tasca, li mise sul banco e si alzò. Ma Hazel Motes era già in piedi e si chinava verso la donna dal piano del banco. Lei non lo vide immediatamente perché stava guardando Enoch. Lui allora si appoggiò con le mani sul banco e si chi­ nò più avanti finché la sua faccia venne a trovarsi giusto a un palmo dalla faccia di lei. La donna si volse e lo fissò. 79

«Vieni via,» Enoch s'incamminò, «non abbiamo tempo da perdere a punzecchiarci con quella lì. Ho bisogno di far­ telo vedere subito, ho bisogno... » «IO

soNo

pulito,» disse Haze.

Solamente quando le ebbe ripetute, Enoch colse il senso delle parole. «IO

soNo

pulito,» ridisse Haze, senz'ombra d'espressione

sul volto e nella voce, guardando semplicemente la donna come se guardasse un muro. «Se esistesse Gesù, io non sarei pulito.» La donna gli piantò gli occhi in faccia, sbigottita e poi in­ dignata. «Se credi che m'importi!» strillò. «Non me ne frega un accidente di come sei!» «Vieni via!» piagnucolava Enoch, «vieni via o non ti dirò dove sta quella gente.» Agguantò Haze per il braccio e lo strappò dal banco trascinandolo verso la porta. «Carogna!» urlò la donna, «cosa credi che me n'importi di voi due, sudici ragazzacci?» Hazel Motes spalancò la porta con una spinta e uscì. Rientrò in macchina ed Enoch salì dopo di lui. «Okay,» dis­ se, «va' sempre dritto per questa strada.» «Quanto vuoi per dirmelo?» chiese Haze. «lo qui non ci resto. Devo andarmene. Non posso restarci ancora.» Enoch rabbrividì. Cominciò a umettarsi le labbra. «Ho bisogno di fartelo vedere,» disse con voce rauca. «Non posso farlo vedere a nessun altro che a te. Ho ricevuto il segno ch'eri te quando t'ho visto arrivare in macchina alla piscina. Sapevo già da stamani che stava per venire qualcuno e poi quando t'ho visto alla piscina, ho ricevuto quel segno.» «Non so che farmene dei tuoi segni.» «Io vado a vederlo tutti i giorni. Ci vado tutti i giorni ma non m'è mai riescito di portarci nessun altro, con me. Dove­ vo aspettare il segno. Ti darò l'indirizzo di quella gente ap80

pena l'avrai visto. Bisogna che lo vedi. Quando l'avrai visto succederà qualcosa.>> «Non succederà nulla.>> Haze rimise in moto ed Enoch scivolò sull'orlo del sedile. «Quegli animali,>> borbottò. «Prima si deve passarci davanti a piedi. Non ci vorrà molto tempo. Non ci vorrà neanche un minuto.» Vide gli animali che lo aspettavano con l'occhio cattivo, pronti a rubargli il poco tempo che gli restava. E se proprio adesso capitasse qui la polizia, pensò, strillando con le sirene e con le macchine e acciuffasse Hazel Motes un at­ timo prima che lui glielo avesse mostrato? «Ho bisogno di vedere quella gente,» disse Haze. «Ferma! Ferma!» urlò Enoch. Sulla sinistra c'era una lunga lucida fila di gabbie d'accia­ io e dietro le sbarre sedevano o camminavano delle forme nere. «Scendi,» disse Enoch. «Qui non ci vorrà un secondo.» Haze scese di macchina. Poi si fermò. «Ho bisogno di vedere quella gente,» ripeté. «Ma sì, ma sì, vieni,» uggiolò Enoch. «Non ci credo, che sai l'indirizzo.» «Lo so! Lo so!» gridò Enoch. «Comincia con un tre, e adesso vieni!» Tirò Haze verso le gabbie. Nella prima due orsi neri sedevano l'uno di fronte all'altro come due matrone .. che prendessero il tè, le facce cortesi e assorte nei rispettivi pensieri. «Non fanno nient'altro che starsene seduti lì tutto il giorno e puzzare,» disse Enoch. «Ogni mattina viene un uo­ mo e lava le gabbie con una sistola e la gabbia seguita a puzzare proprio come se lui non ci avesse fatto nulla.» Passò davanti ad altre due gabbie di orsi, senza guardarli, poi si fermò alla successiva dove due lupi dagli occhi gialli circola-­ vano annusando i bordi di cemento. «Iene,» disse. «Le iene non le posso soffrire.» Si piegò più vicino alle sbarre e sputò nella gabbia, colpendo la zampa di un lupo, che schizzò di 81

lato con una giravolta, lanciandogli un'occhiata obliqua astiosa. Per un secondo Enoch dimenticò Hazel Motes, quin­ di si sbirciò alle spalle per accertarsi che ci fosse sempre: lo aveva immediatamente dietro di sé. E non guardava gli ani­ mali. Si preoccupa della polizia, pensò Enoch. «Vieni,» dis­ se, «non abbiamo il tempo di guardare tutte quelle scimmie che ci sarebbe da vedere adesso.» Di solito si fermava da­ vanti a ogni gabbia e faceva a voce alta un commento osce­ no rivolto a se stesso, ma quel giorno gli animali erano sol­ tanto una formalità che doveva adempiere. Oltrepassò in fretta le gabbie delle scimmie, girandosi due o tre volte per esser sicuro che Hazel Motes continuasse a seguirlo. Però, di­ nanzi all'ultima gabbia delle scimmie, si fermò come se non potesse impedirselo. «Guarda quel macaco,» disse, fulminando con gli occhi l'animale, che gli dava la schiena ed era tutto grigio fuorché nel sederino roseo. «Se ce l'avessi io un culo come quello, ci starei seduto sopra,» disse pudicamente. «Mica lo metterei in mostra davanti a tutta la gente che capita nel parco. An­ diamo, non c'è bisogno di guardare quegli uccelli che vengo­ no adesso.» Passò di corsa davanti alle gabbie degli uccelli e giunse in fondo allo zoo. «Ora non ci serve la macchina,» disse, tirando diritto, «scendiamo difilato da quel poggio laggiù attraverso gli alberi.» Haze si era fermato all'ultima gabbia degli uccelli. «Oh Gesù,» mugolò Enoch. Interruppe la corsa e agitò freneticamente le braccia urlando: «Vieni!» ma Haze non si mosse dal punto dove indugiava guardando nella gabbia. Enoch si precipitò indietro e lo afferrò per il braccio ma Haze lo respinse e seguitò a guardare nella gabbia. Era vuo­ ta. Enoch sbarrò gli occhi. «E vuota!» gridò. «Che gusto ci trovi a guardare in quel trabiccolo vuoto? Vieni via!» E re­ stò lì, sudato e violaceo. «E vuota!» urlò ancora. E poi vide 82

che vuota non era. In un cantuccio sull'impiantito della gabbia c'era un occhio. L'occhio era al centro di qualcosa che pareva un pezzo di filaccia seduto sopra un vecchio cen­ cio. Enoch strinse le palpebre accosto al reticolato e vide che il pezzo di filaccia era una civetta con un occhio aperto. L'occhio guardava fisso Hazel Motes. «Non è altro che un vecchio barbagianni,)) piagnucolò Enoch. «Roba che cono­ scevi anche prima.)) «IO soNo

pulito,)) disse Haze all'occhio. Lo disse nell'iden­

tica maniera in cui l'aveva detto alla donna nella BRINATA.

BOTTIGLIA

L'occhio si chiuse mollemente e la civetta girò il

muso verso la parete. «Ha ammazzato qualcuno di certo,)) pensò Enoch. «Oh Gesù, andiamo!)) gemette. «Bisogna che te lo faccia vedere adesso.)) Lo tirò via, ma pochi passi oltre la gabbia Haze si fermò daccapo a guardare qualcosa in lontananza. Enoch aveva la vista debolissima. Aguzzò gli occhi e intravide una figura in fondo alla strada, dietro di loro. Ai suoi fianchi sal­ tellavano due figure più piccole. Hazel Motes si rigirò di scatto verso di lui e disse: «Dov'è questa cosa? Vediamola immediatamente e facciamola fini­ ta una buona volta. Andiamo.)) «E non è proprio lì che sto cercando di portarti?)) protestò Enoch. Sentiva il sudore prosciugarglisi addosso e pungerlo e gli si era informicolita la pelle, perfino il cuoio capelluto. «Bisogna che attraversiamo la strada e che scendiamo giù da questo poggio. Bisogna andarci a piedi.)) «Perché?)) brontolò Haze. «Non lo so,)) rispose Enoch. Sapeva che stava per succe­ dergli qualcosa. Il suo sangue smise di battere. Aveva battu­ to ininterrottamente come un rullar di tamburi e adesso si era fermato. S'incamminarono giù per il poggio. Era un pendio ripido, pieno di alberi verniciati di bianco dalla base 83

a oltre un metro d'altezza: sembrava che portassero i calzini corti. Enoch strinse il braccio di Hazel Motes. «Diventa umido via via che si scende,» disse, guardando vagamente intorno. Hazel Motes si svincolò dalla stretta. Dopo un se­ condo Enoch gli strinse di nuovo il braccio e lo trattenne. Accennò un punto in fondo al pendio, dove finivano gli al­ beri. «Moseeo», disse. La strana parola gli mise i brividi ad­ dosso. Era la prima volta in vita sua che la diceva a voce alta. Dal punto che indicava emergeva parzialmente un edi­ ficio grigio. Divenne sempre più grande man mano che scen­ devano il poggio, e poi quando giunsero al margine del bo­ sco e uscirono sul viale di ghiaia, parve restringersi all'im­ provviso. Era rotondo e di color fuliggine. C'erano delle co­ lonne sulla facciata, e fra una colonna e l'altra una donna di pietra senza gli occhi che reggeva un vaso sulla testa. Una striscia di cemento sormontava le colonne e vi erano incise le lettere

M.u.s.E.o.

Enoch ebbe paura di pronunziare ancora la

parola. «Si deve salire i gradini ed entrare dal portone,» sussurrò. Dieci gradini conducevano al portico. Il portone era ampio e nero. Enoch lo spinse con cautela e infilò la testa nello spi­ raglio. Dopo un minuto la ritrasse e disse: «Tutto bene, en­ tra e cammina piano. Non voglio svegliare quel vecchio cu­ stode. Non gli sono gran che simpatico.» Entrarono in un ampio corridoio semibuio, impregnato dell'odore di lino­ leum e di creosoto e d'un altro odore sotto a questi due. Il terzo era un odore-ombra ed Enoch non avrebbe saputo at­ tribuirgli il nome di nessuno di quelli da lui annusati prima di allora. Nel corridoio non c'era niente salvo due urne e un vecchio assopito su una sedia appoggiata contro la parete. Il vecchio indossava un'uniforme uguale a quella di Enoch e aveva l'aria d'un ragno risecchito infilzato al suo posto. Enoch guardò Hazel Motes per vedere se stesse annusando 84

l'odore-ombra: pareva di sì. Il sangue di Enoch ricominciò a battere, spronandolo ad andare avanti, e lui strinse il brac­ cio di Haze e percorse tutto il corridoio in punta dei piedi, fermandosi di fronte a un'altra porta nera. La socchiuse fa­ cendola scricchiolare appena e infilò la testa nel vano. Poi, dopo un secondo, la ritrasse e piegò il dito per accennare a Haze di seguirlo. Entrarono in un altro corridoio, simile al precedente ma trasversale. «È in quella prima porta lag­ giù,» disse Enoch con un filo di voce. Passarono in una sala oscura piena di bacheche. Le bacheche occupavano tutte le pareti e in mezzo al pavimento ce n'erano altre tre a forma di bare; quelle alle pareti erano piene di uccelli curvi sopra dei posatoi verniciati, che guardavano in basso con espres­ sione secca pungente. «Vieni,» bis_bigliò Enoch. Oltrepassò le due prime bache­ che al centro del pavimento, si diresse verso la terza e andò a fermarvisi in fondo. Vi chinò dentro lo sguardo, il collo pro­ teso, le mani serrate l'una nell'altra; Hazel Motes venne ac­ canto a lui. Rimasero H tutti e due, Enoch rigido e Hazel Motes piegato leggermente in avanti. Nella bacheca c'erano tre ciotole, una fila di armi smussate e un uomo. Era l'uomo che Enoch stava guardando. Misurava suppergiù novanta centimetri. Era nudo e di color giallo secco e teneva gli occhi socchiusi quasi a forza, come se stesse cadendogli addosso un gigantesco blocco d'acciaio. «Vedi quell'avviso,» disse Enoch nel tipico bisbiglio dei fedeli in chiesa, indicando un cartellino dattiloscritto presso il piede dell'uomo, «spiega che un tempo lui era alto come te o come me. Certi arrabbi lo ridussero così in sei mesi.» Girò cautamente la testa per osservare Hazel Motes. Tutto quanto riuscì a constatare fu che gli occhi di Hazel Motes fissavano l'uomo rattrappito. Haze stava curvo dimo­ doché la sua faccia si rispecchiava nel piano di vetro della 85

bacheca. Il riflesso era pallido e gli occhi sembravano i fori netti di un proiettile. Enoch attese, rigido. Udì dei passi nel corridoio. Oh Gesù, pregò, digli che si spicci a fare qualun­ que cosa abbia a fare! Sulla porta comparve la donna coi due bambini; li teneva per mano e sogghignava. Hazel Mo­ tes non aveva alzato gli occhi una sola volta dall'uomo rat­ trappito. La donna venne verso di loro. Si fe:rmò dal lato op­ posto della bacheca e guardò nell'interno e il riflesso del suo volto sogghignante spuntò sul vetro sopra quello di Hazel Motes. La donna ridacchiò e si mise due dita davanti ai denti. I visi dei bambini sembravano padelle posate d'ambo i lati della madre per captare i sogghigni che ne traboccavano. Quando Haze scorse quella faccia sul vetro, il suo collo scat­ tò indietro e lui fece un rumore: avrebbe potuto emetterlo l'uomo dall'interno della bacheca. Dopo un secondo Enoch ne fu certo. «Aspetta!» strillò, e si avventò fuori della sala alle calcagna di Hazel Motes.

Lo raggiunse a metà salita del poggio. Lo prese per il braccio e lo fece piroettare, poi restò lì, debole a un tratto

e

leggero come un palloncino, e sbarrò gli occhi. Hazel Motes lo afferrò per le spalle e lo scosse. «Qual è l'indirizzo?» urlò. «Dammi quell'indirizzo!>> Anche se fosse stato sicuro dell'indirizzo, Enoch non avrebbe potuto pensarci in quel momento. Non riusciva neppure a star ritto. Appena Hazel Motes lasciò andare la stretta, cadde riverso e sbatté contro uno degli alberi in cal­ zini bianchi. Rotolò su se stesso e giacque al suolo lungo di­ steso, con un'aria esaltata sul volto. Ebbe il senso di star flut­ tuando. Vide in gran lontananza la figura turchina che spic­ cava un salto e raccoglieva un sasso, e vide girarsi la faccia furente, e il sasso precipitare verso di sé; strinse forte gli oc­ chi e il sasso lo colpì in fronte.

86

a

Quando rinvenne, Hazel Motes era sparito. Enoch rimase giacere per un minuto. Si portò le dita alla fronte e poi le

tenne davanti agli occhi. Erano rigate di rosso. Voltò la testa e vide sul suolo una goccia di sangue e mentre la guardava gli parve che si allargasse come una piccola polla. Si tirò su a sedere, il busto eretto, la pelle ghiacciata, e ci tuffò dentro il dito, e tenuissimamente poté sentir battere il sangue, il suo sangue segreto, nel centro della città. Seppe in quell'attimo che qualunque fosse la cosa ch'era tenuto a fare, stava cominciando appena allora.

87

6

.Quella sera Haze portò la sua automobile in giro per le strade finch'ebbe ritrovato il cieco e la ragazzina. Sostavano su una cantonata in attesa che cambiasse il semaforo. Haze mantenne la Essex a una certa distanza dietro di loro per circa quattro isolati del Corso, quindi imboccò una via tra­ sversale, sempre senza perderli di vista. Li seguì in un quar­ tiere oscuro oltre gli scali ferroviari e li vide salire i gradini della veranda d'una casa a due piani a forma di scatola. Quando il cieco aprì l'uscio gli cadde sopra una striscia di luce e Haze allungò il collo per vederlo meglio. La ragazzi­ na girò la testa, piano piano, quasi fosse azionata da una vi­ te, e guardò passare la macchina. La faccia di Haze era tal­ mente a ridosso del vetro che sembrava una faccia di carta incollata sul finestrino. Haze notò il numero della casa e an­ che un cartello che diceva:

SI AFFITTANO CAMERE.

Poi tornò verso il centro e parcheggiò la Essex di fronte a un cinematografo da dove poteva intercettare il flusso della gente che usciva dopo lo spettacolo. Le luci intorno alla tet­ toia erano così splendenti da far apparire pallida e insignifi­ cante la luna che si spostava nella volta celeste alla guida di un piccolo corteo di nuvole. Haze scese dalla Essex e salì in cima al cofano. Un esile ometto dal labbro superiore di considerevole lun­ ghezza stava presso la gabbia di vetro della biglietteria a 89

comprare i biglietti per tre femmine corpulente alle sue spal­ le. «Bisogna che gli dia anche di che rifocillarsi, a queste fi­ gliole,» disse alla cassiera. «Mica posso permettere che mi muoian di fame sotto gli occhi.>> «Non è una sagoma?» squittì una delle donne. «Mi fa sempre crepare dal ridere!>> Dal foyer uscirono tre ragazzi in giubba alla cosacca di raso rosso. Haze alzò le braccia. «Dov'è che vi ha toccati il sangue da cui credete di esser stati redenti?>> gridò. Le donne si girarono di colpo tutte e tre e si misero a fissarlo.

«Uno sputasentenze,» decretò l'esile ometto, e fece gli oc­ chiacci come se qualcuno si preparasse a insultarlo. I tre ragazzi vennero avanti, spingendosi l'un l'altro per le spalle. Haze attese un attimo e poi gridò ancora: «Dov'è che vi ha toccati il sangue da cui credete d'esser stati redenti?» «Sobillatore delle masse,» disse l'ometto. «Se c'è una cosa che non posso soffrire sono i sobillatori delle masse.>> «A quale Chiesa appartieni? Dico a te, figliolo.» Haze puntò il dito verso il ragazzo più alto in giubba di raso rosso. Il ragazzo scoppiò in una risatina balorda. «Allora sentiamo te,» disse Haze spazientito, indicando il secondo. «A quale Chiesa appartieni?» «Alla chiesa di Cristo,» l'interpellato rispose in falsetto per nascondere la verità. «Alla chiesa di Cristo!» ripeté Haze. «Ebbene, io predico la Chiesa Senza Cristo. Sono membro e predicatore di quel­ la chiesa dove i ciechi non vedono e gli storpi non cammina­ no e chi è morto morto rimane. lnterrogatemi su questa chiesa e vi risponderò ch'è la chiesa che il sangue di Gesù non insozza con la redenzione.>> «E un predicatore,>> disse una delle donne. «Andiamo via.>> «Udite voi tutti, io intendo portare la verità con me do90

vunque andrò,» asserì Haze con foga. «Intendo predicarla a chiunque ascolterà in qualsiasi posto. Intendo predicare che non ci fu nessuna Caduta perché non c'era nulla da dove ca­ dere e che non c'è nessuna Redenzione perché non ci fu nes­ suna Caduta e che non ci sarà nessun Giudizio perché non ci furono le prime due. Nulla conta oltre al fatto che Gesù era un bugiardo.» L'ometto pilotò velocemente le sue femmine nel cinema e i tre ragazzi se ne andarono ma altre persone uscirono dal locale e Haze ricominciò ad arringarle e ripeté gli stessi con­ cetti. Quelle si allontanarono e ne sopraggiunsero altre e lui li ripeté per la terza volta. Poi andaron via anche queste e dal cinema non uscì più nessuno; rimase soltanto la donna nella gabbia di vetro. Non aveva mai smesso di lanciargli occhiate incendiarie ma Haze non l'aveva notata. Portava gli occhiali con brillantini di strass nella montatura e aveva i capelli bianchi schidionati a salsicce tutt'intorno alla testa. Incollò la bocca a

un

foro nel vetro e urlò: «Sentimi bene,

anche se non hai una chiesa dove predicare, non c'è bisogno che predichi davanti a questo cinema.» «La mia chiesa è la Chiesa Senza Cristo, signora,» disse Haze. «Se Cristo non c'è, non c'è nemmeno ragione di avere un posto fisso dove predicare.» «Sai che ti dico,» ribatté la cassiera, «Se non sloggi da questo cinema chiamo la polizia.» «Di cinema ce n'è una marea,» disse Haze, e scese dal co­ fano, rientrò nella Essex e ripartì. Quella sera predicò da­ vanti ad altri tre cinematografi prima di recarsi dalla signo­ ra Watts. La mattina dopo salì in macchina e tornò alla casa in cui erano entrati il cieco e la ragazzina la sera precedente. Era la seconda di un isolato dove tutte le case erano uguali e ri­ vestite di legno giallo. Salì i gradini davanti all'uscio e suonò 91

il campanello. Dopo alcuni minuti venne ad aprire una don­ na con uno spazzolone. Haze disse che voleva prendere una stanza in affitto. «Lei che fa?» chiese la donna. Era alta ossuta e somiglia­ va allo spazzolone che impugnava alla rovescia. Haze rispos� ch'era un predicatore. La donna lo osservò ben bene e poi volse lo sguardo sulla macchina dietro di lui. «Di quale chiesa?» domandò. Haze rispose della Chiesa Senza Cristo. «Protestante?» domandò ancora la donna in tono di so­ spetto, «oppure si tratta di certa roba forestiera?» Niente di forestiero, nossignora, affermò Haze, era pro­ prio una chiesa protestante. Dopo un minuto la donna disse: «Be', può darci un'oc­ chiata,» e Haze le tenne dietro in un ingresso intonacato di bianco e su per una breve scala da un lato. Poi lei aprì una porta ed entrarono in una retrocamera ch'era un po' più grande della sua automobile, e conteneva una branda, un cassettone, un tavolo e una sedia ordinaria. Due chiodi a una parete fungevano da attaccapanni. «Tre dollari alla set­ timana in anticipo,» disse l'affittacamere. C'erano una fine­ stra e un'altra porta di fronte a quella che dava nella stanza. Haze aprì la seconda porta, aspettandosi di trovare un ar­ madietto a muro: si spalancò viceversa su un dislivello di una decina di metri che terminava in una corte stretta e nu­ da, adibita alla raccolta delle immondizie. Attraverso il tela­ io della porta era inchiodata un'asse all'altezza del ginoc­ chio per impedire che qualcuno cadesse di sotto. «Qui ci abi­ ta un tale che si chiama Hawks, vero?» chiese Haze in fretta. «Giù al pianterreno nella camera sul davanti, lui e la sua figliola,» disse la donna. Guardava anche lei in fondo al di­ slivello. «Un tempo c'era una scala antincendio,» soggiunse, «ma non so cosa n'è successo.»

92

Haze le pagò i tre dollari e prese possesso della camera, e appena la donna si fu levata di torno, scese giù e bussò all'u­ scio degli Hawks. La figlia del cieco aprì una fessura e si mi­ se a guardarlo. Parve che dovesse equilibrare simultanea­ mente la faccia in modo che la fisionomia fosse identica da ambedue i lati. «È quel ragazzo, papà,» disse sottovoce. «Quello che seguita sempre a venirmi dietro.» Mantenne l'uscio vicino alla testa per impedire a Haze di vedere più in là. Il cieco venne all'uscio ma neanche lui allargò la fessura. Non aveva lo stesso aspetto di due sere prima: lo aveva aci­ do e ostile, e non parlò ma rimase semplicemente dov'era. Haze aveva già pronte nella mente le parole che doveva dire prima ancora d'essere uscito dalla sua camera. «> «Ho iniziato la mia chiesa personale,>> disse Haze. «La Chiesa Senza Cristo. Predico per le vie.>> «Non puoi !asciarmi in pace, eh?)) disse Hawks. La sua voce era spenta, affatto dissimile dall'altra volta. «lo non ti ho chiesto di venir qui e non ti chiedo di starei tra i piedi.>> Haze si era aspettato una buona accoglienza in privato. Rimase un momento in forse, cercando di escogitare qualco­ sa da dire. «Che razza di predicatore sei tu,» udì mormorare dalla propria voce, «da non capire nemmeno se puoi salvar­ mi l'anima?» Il cieco gli sbatté l'uscio in faccia. E lui indu93

giò un secondo dinanzi alla porta opaca, poi si passò la ma­ nica sopra la bocca e uscì. Nell'interno, Hawks si tolse gli occhiali scuri, e da un buco nella tapparella spiò Haze mentre entrava in macchina e partiva. L'occhio che applicò al buco era leggermente più tondo e più piccolo dell'altro, ma era chiaro che ci vedeva da tutti e due. Sua figlia spiava anche lei da uno spiraglio inferiore. «Come mai non ti piace, papà?» domandò, «forse perché mi sta dietro?» «Se ti stesse dietro, basterebbe solo questo a farmelo acco­ gliere a braccia aperte,» disse Hawks. «Mi piacciono i suoi occhi,» osservò la ragazzina. «Han l'aria di non vedere quel che lui sta guardando ma seguitano lo stesso a guardare.» La loro camera era di dimensioni uguali a quella di Haze ma conteneva due brande e un fornello a petrolio e un la­ vandino e un baule che serviva loro da tavolo. Hawks sedet­ te su una branda e si mise una sigaretta in bocca. «Maledet­ to quel porco infatuato di Gesù,» borbottò. «Be', rammenta com'eri te una volta. Rammenta cosa cercasti di fare. Poi ti passò e gli passerà pure a lui.» «Non lo voglio tra i piedi. Mi fa venire il nervoso.» «Stammi a sentire,» disse lei, e gli sedette accanto sulla branda. «Tu mi aiuti a pigliarmelo e poi te ne vai per conto tuo e fai quel che ti pare e piace e così io posso viverci assieme.» «Non sa neppure che esisti.» «Anche se non lo sa è mal di poco. Proprio per questa ra­ gione mi sarà facile pigliarmelo. Io lo voglio e dovresti aiu­ tarmi e allora potrai andartene e fare a modo tuo.» Il padre si mise a giacere sulla branda e finì la sigaretta; la sua faccia era pensierosa e cattiva. A un certo punto, stan­ do sempre disteso, rise, ma i suoi lineamenti si contrassero quasi subito. «Be', potrebb'essere una buona idea,» disse do94

po

un

certo tempo. «Potrebb'essere l'olio sulla barba di

Aronne.» «Io scoppierei dalla gioia, sai! Sono pazza di lui, ecco. Non ho mai visto un ragazzo con un fisico più piacente del suo. Non scacciarlo. Raccontagli come ti accecasti per Gesù e fagli vedere quel ritaglio del giornale che tieni.» «Già, il ritaglio.» Haze se n'era andato nella sua automobile per riflettere e aveva deciso di sedurre la figlia di Hawks. Rifletté che nel venir a sapere che sua figlia era rovinata il predicatore si sa­ rebbe convinto che lui faceva sul serio quando diceva che predicava la Chiesa Senza Cristo. Oltre a questa ragione, ce n'era un'altra: non voleva più tornare dalla signora Watts. La notte prima, mentre lui dormiva, quella signora si era al­ zata e aveva sforbiciato il cocuzzolo del suo cappello rica­ vandone una sagoma sconcia. Haze sentiva che gli sarebbe convenuto farsi una donna, non in vista del piacere che ne avrebbe tratto, ma per dimostrare che non credeva nel pec­ cato giacché praticava ciò che passava per tale; però era stu­ fo della signora Watts. Gli ci voleva una persona cui potesse insegnare qualcosa e dava per ovvio che la figlia del cieco, brutta com'era, dovesse essere anche innocente. Prima di tornare alla sua camera d'affitto, Haze entrò in un negozio di confezioni per comprarsi un cappello nuovo. Voleva che fosse tutto l'opposto di quello vecchio. Questa volta gli fu venduto un panama bianco fasciato da un nastro rosso verde e giallo. Il venditore garantì ch'era l'articolo ideale, specie se il signore intendeva andare in Florida. «Non intendo andare in Florida,» disse Haze. «Questo cappello è il contrario di quello che portavo, punto e basta.» «Può portarlo dappertutto, sa,» dichiarò il venditore; «è nuovo.» «Lo so,» disse Haze. Uscito dal negozio, tolse dal cappello 95

il nastro rosso verde e giallo e sprimacciò la piega sul cocuz­ zolo fino a farla sparire e arrovesciò la tesa. Quando se lo mise, il cappello aveva preso un aspetto altrettanto fiero di quello scartato. Haze si ripresentò all'uscio degli Hawks solo nel tardo po­ meriggio, quando giudicò che stessero cenando. L'uscio si aprì quasi immediatamente e nella fessura apparve la testa della ragazzina. Con uno strattone Haze fece saltar via la sua mano che bloccava l'uscio e entrò senza guardarla in faccia. Hawks sedeva davanti al baule. Aveva nel piatto gli avanzi della cena ma non stava mangiando. Si era rimesso gli occhiali neri giusto in tempo. «Se Gesù guariva i ciechi, come mai non lo convinci a guarire anche te?» domandò Haze. Aveva preparato la frase m

camera sua. «Egli accecò Paolo,» disse Hawks. Haze sedette sulla sponda d'una delle brande. Si guardò

intorno, quindi ricominciò a osservare Hawks. Accavallò le gambe e le rimise giù e poi le accavallò di nuovo. «Dove te le sei fatte quelle cicatrici?» chiese. Il cieco fasullo si chinò in avanti e sorrise. «Ti resta anco..

ra un'occasione di salvarti se ti penti,» disse. «> indicando Haze ritto in cima al cofano della macchi­ na, «e se mi date un minuto vi racconterò cosa lui e le sue idee hanno fatto per me. E inutile che vi pigiate, tanto se ce n'è bisogno sono pronto a far nottata per raccontarvelo.» Haze era rimasto al suo posto, immobile, spingendo la te­ sta un po' in avanti, come se non fosse sicuro d'intender bene ciò che andava ascoltando. «Amici,» proseguì l'uomo, «permettete che mi rappresen­ ti. Mi chiamo Onny Jay Holy e ve lo dico perché così potre­ te riscontrarlo e vedere che non vi sto spacciando delle balle. Sono un predicatore e non mi perito a farlo sapere a tizio o a caio però non vorrei che credeste quest'altra cosa se non vi riesce di sentirla nei vostri cuori. Ehi voi che arrivate adesso laggiù in fondo fatevi largo fin qui dove si può ascoltar be­ ne. Non vendo mica nulla, io. Faccio un regalo!» Si era fer­ mato un numero considerevole di persone. «Amici,,> ripeté il discepolo, «due mesi fa non avreste rico­ nosciuto in me l'uomo di oggi. Non avevo un amico in tutto il mondo. Lo sapete che vuoi dire non avere un amico in tut­ to il mondo?» Una voce sonora rispose: «E quasi peggio che averne uno diquelli che ti pianterebbe ... » «Ecco, amici,» interruppe Onniejay Holy, «non avere un amico in tutto il mondo è all'incirca la cosa più miserevole e desolata che può capitare a un uomo o a una donna! Eque-

127

sto era proprio il caso mio. Ero pronto a impiccarmi o a di­ sperare per sempre. Neppure la cara vecchia madre mia mi amava, e non perché non ero dolce dentro a me, ma perché non sapevo come far comparire la dolcezza naturale che te­ nevo dentro. Ogni persona che viene su questa terra,» disse, protendendo le braccia, «nasce dolce e piena di amore. Un bimbo piccolo ama tutti quanti, amici, e la sua natura è dol­ cezza... finché succede qualcosa. Qualcosa succede per dav­ vero, amici, e non ho bisogno di dirlo a gente come voi che è capace di pensare da sé sola. Man mano che quel piccolo ingrandisce, la sua dolcezza non compare più tanto, preoc­ cupazioni e beghe vengono a confusionario, e tutta la sua dolcezza è ricacciata dentro. Allora diventa miserevole e de­ solato e malsano, amici. Dice: > disse in fretta il predica­ tore, «ma domani sera sarò in questo punto preciso, ora de­ vo acchiappare il Profeta,» e corse via nell'attimo in cui la Essex ricominciava gli scivolamenti. Onnie Jay Holy non l'avrebbe raggiunta se non si fosse fermata prima di aver percorso altri tre metri. Allora saltò sul predellino, aprì lo sportello e si accasciò, ansimante, nel sedile accanto a Haze. «Amico,» disse, «abbiamo appena perso dieci dollari. Come mai tanta furia?» Tradiva dal volto una qualche sofferenza genuina quantunque guardasse Haze con quel sorriso che metteva in mostra tutti i denti di sopra e la punta di quelli di sotto. 131

Haze girò la testa e lo guardò abbastanza a lungo da ve­ dere il sorriso prima che venisse lanciato verso il parabrezza. Dopodiché la Essex si mise a filare ch'era un piacere. Onnie Jay si cavò di tasca un fazzoletto profumato alla lavanda e lo tenne per un certo tempo davanti alle labbra. Quando lo tolse, il sorriso gli era ricomparso sulla faccia. «Amico,» dis­ se, «te e me dobbiamo metterei insieme in quest'affare. Ap­ pena ti ho sentito aprir bocca per la prima volta mi son det­ to: > Haze mise la mano sopra lo sportello e cominciò a chiuderlo malgrado vi fosse framezzo la testa di Onnie Jay. «Non esiste nulla del genere!» urlò. «Ecco il guaio di voialtri cervelloni,» borbottò Onnie Jay. «Vi empite la bocca di parole ma in sostanza non conclude­ te un accidente.» «Togli la testa dallo sportello della mia automobile.» «Mi chiamo Hoover Shoats,» bofonchiò l'uomo con la te­ sta nello sportello. «L'ho capito appena t'ho visto, non sei altro che un acchiappanuvole. » Haze aprì lo sportello di quel tanto che gli avrebbe per­ messo di sbatacchiarlo. Hoover Shoats trasse indietro la testa ma non il pollice. Sorse un guaito che avrebbe squarciato quasi tutti i cuori. Haze riaprì lo sportello, liberò il pollice dalla stretta e poi lo sbatacchiò daccapo. Calò le tendine an­ teriori e si mise a giacere sulla coperta dell'esercito in fondo alla macchina. Poté udire da fuori Hoover Shoats che saltel­ lava lì intorno sul selciato e guaiva. Quando i guaiti si spen­ sero sentì un suon di "passi che si avvicinavano alla macchi­ na, quindi gli giunse attraverso il metallo una voce affanno­ sa, concitata, che diceva: «Bada a te, amico. lo ti rovinerò la piazza. Posso trovarmi un gesù nuovo tutto per me e posso comprare dei Profeti al prezzo di noccioline. Mi senti? Mi senti, amico?>> disse la voce roca. Haze non rispose. «Già e domani sera sarò laggiù a far la mia predica perso­ nale. Quello che ti ci vuole è un po' di concorrenza,» conti­ nuò la voce. «Mi senti, amico?»

135

Haze si alzò, si protese oltre il sedile anteriore e sbatté la mano sul clacson della Essex. Ne uscì un rumore simile al riso di una capra mozzato da una sega circolare. Hoover Shoats saltò indietro come se lo avesse trapassato una scarica elettrica. «Benone, amico,)) disse, fermandosi pochi metri più in là, tutto tremante, «aspetta aspetta, non ho ancora detto l'ultima parola,)) e si volse e s'incamminò per la strada silenziosa. Haze rimase nella sua automobile circa un'ora ed ebbe una brutta esperienza: sognò di non essere morto ma solo se­ polto. Non stava aspettando il Giudizio perché non c'era nessun Giudizio, non stava aspettando nulla. Vari occhi os­ servarono la sua situazione attraverso il lunotto ovale, alcuni con riverenza considerevole, come il ragazzo dello zoo, altri unicamente per vedere quel che riuscivano a vedere. Ci fu­ rono tre donne che portavano dei sacchi di carta e lo guar­ darono con aria critica come se fosse stato qualcosa - una trancia di pesce- che potevano comprare, ma dopo un mi­ nuto tirarono di lungo. Si affacciò un uomo che aveva in te­ sta un cappelluccio di tela e si portò il pollice al naso e fece marameo. Poi venne a fermarsi una donna con due bimbi ai fianchi e guardò dentro, sogghignando. Dopo un secondo, scacciò i bambini dalla visuale e spiegò a cenni che voleva venir dentro e tenergli compagnia per un poco, ma non riu­ scì ad attraversare il vetro e alla fine se ne andò. Durante tutto quel tempo Haze era intenzionato a uscire, ma siccome il tentativo non sarebbe servito a nulla, non fece alcun movi­ mento né da una parte né dall'altra. Continuava ad aspetta­ re che Hawks comparisse dietro il lunotto con un piè di por­ co, ma il cieco non venne. Alla fine si scosse dal sogno e si svegliò. Credeva che fosse mattina ma era appena mezzanotte. Si issò al posto di guida e appog gi ò il piede sulla messa in moto e la Essex filò via 136

tranquillamente come se non fosse afflitta da inconvenienti di sorta. Haze tornò a casa e aprì l'uscio con la chiave che gli era stata consegnata ma invece di salire in camera sua, rimase nell'ingresso, guardando la porta del cieco. Vi si av­ vicinò e mise l'occhio al buco della serratura e gli giunsero i suoni del ronfare; girò pian piano la maniglia ma la porta non s1 mosse. Allora per la prima volta gli si affacciò l'idea di scassinare la serratura. Si tastò le tasche in cerca d'un arnese e pescò un pezzetto di fil di ferro che gli serviva ogni tanto da stuzzi­ cadenti. Nell'ingresso c'era solo una luce fioca ma gli fu suf­ ficiente per mettersi al lavoro. S'inginocchiò davanti al buco della serratura e v'inserì con cautela il fil di ferro, badando a non far chiasso. Passò un certo tempo e dopo ch'ebbe manovrato il fil di ferro in cinque o sei modi diversi, udì un lieve clic nella ser­ ratura. Si rialzò, tremando, e aprì la porta. Aveva il fiato grosso e il cuore gli palpitava come se avesse coperto un lun­ go tratto di strada a tutta corsa. Si fermò appena varcata la soglia finché gli occhi si furono abituati al buio della stanza, poi si avvicinò lentamente al letto di ferro e rimase immobi­ le. Hawks vi giaceva sopra di traverso, con la testa penzoloni dalla sponda. Haze si accovacciò accanto a lui e gli accese un fiammifero davanti alla faccia e Hawks aprì gli occhi. Le due paia d'occhi si fissarono fintantoché durò la fiammella. Parve che lo sguardo di Haze si aprisse un varco entro un vuoto più fondo e rispecchiasse qualcosa e che poi il varco si chiudesse di nuovo. «Adesso puoi uscire,)) disse Hawks con voce brusca ap­ pannata, «adesso puoi lasciarmi in pace,)) e sferrò un diretto verso la faccia che lo sovrastava senza però toccarla. La fac­ cia si ritrasse, inespressiva sotto il cappello bianco, e dopo un secondo sparì.

137

10

La sera dopo Haze parcheggiò la Essex di fronte al cine­ ma Odeon e vi salì sopra e si mise a predicare. «Lasciate che vi spieghi che cosa stiamo a rappresentare io e questa chie­ sa!» gridò dalla cima del cofano. «Fermatevi un minuto per ascoltare la verità perché forse non l'udrete mai più!» Stava lì in piedi, il collo spinto in avanti, un braccio che tracciava un arco vago per aria. Si fermarono due donne e un ragazzo. «lo predico che ci sono verità d'ogni specie, la vostra veri­ tà e quella di qualcun altro, ma che dietro a tutte loro, c'è un'unica verità soltanto, ossia che non c'è nessuna verità!» gridò. «Nessuna verità dietro a tutte le verità, ecco cos'è che predichiamo io e questa chiesa. Il posto da dove venite è scomparso, quello dove credevate di star andando non c'è mai stato e quello dove siete non conta nulla a meno che non possiate allontanarvene. Dov'è che si trova un posto perché voi ci stiate? Questo posto non c'è. «Nulla fuori di voi può darvi un posto,» continuò Haze. «E inutile che guardate al cielo perché non si aprirà e non mostrerà nessun posto dietro di sé. E inutile che rovistate il suolo alla ricerca d'un buco da dove guardare in qualche al­ tro posto. Non potete andare né avanti né indietro nel tem­ po del vostro babbo e neppure nel tempo dei vostri figli se ce n'avete. In voi stessi, in questo momento, è tutto il posto che possedete. Se ci fosse una Caduta, guardate lì dentro, se ci 139

fosse una Redenzione, guardate lì dentro, e se attendete un Giudizio, guardate lì dentro, perché tutti e tre dovranno es­ sere nel vostro tempo e nel vostro corpo, e dove, nel vostro tempo e nel vostro corpo possono essere? «Dove nel vostro tempo e nel vostro corpo vi ha redenti Gesù?» urlò Haze. «Indicatemi dove perché il posto io non lo vedo. Se ci fosse un posto dove Gesù vi aveva redenti quello sarebbe il posto dove potreste stare, ma chi di voi è capace di trovarlo?» Un altro gruppetto uscì alla spicciolata dall'Odeon e due persone si fermarono a osservare Haze. «Chi mai dice ch'è la vostra coscienza?» gridò, guardandosi intorno con la faccia contratta come se potesse annusare quel dato individuo che la pensava così. «La vostra coscienza è un trucco,» seguitò, «e non esist� anche se potete credere il contrario, e se credete che esiste per davvero, fareste bene a farla uscire all'aperto e a darle la caccia e catturarla e ucciderla, perché non ha più sostanza del vostro viso visto nello specchio o dell'ombra che vi portate appresso.» La gran concentrazione con cui predicava impedì a Haze di notare un'alta automobile color topo che aveva fatto il gi­ ro dell'isolato già tre volte, mentre i due uomini a bordo cer­ cavano di scovare un parcheggio. Non la vide quando s'infi­ lò in uno spazio due macchine al di là della sua, dal quale era appena uscita un'altra macchina, né vide scendere Hoover Shoats e un tizio che indossava uno sgargiante abito turchino e un cappello bianco, ma dopo pochi secondi la sua testa si volse da quella parte e allora vide che il tizio dall'a­ bito blu sgargiante e il cappello bianco era salito in cima al cofano. Rimase talmente colpito da come appariva gracile e macilento nell'illusione che interruppe la predica. Mai fin allora si era figurato se stesso in quel sembiante. L'uomo di fronte a lui aveva il petto incavato e cacciava il collo in 140

avanti e teneva le braccia lungo i fianchi; e stava immobile, quasi aspettasse qualche segnale che aveva paura di non riu­ scire a cogliere. Hoover Shoats camminava su e giù per il marciapiede, pizzicando alcune corde della chitarra. «Amici,» gridò, «vo­ glio rappresentarvi al Vero Profeta ch'è qui� voglio che tut­ ti voi ascoltate le sue parole perché penso che vi faranno feli­ ci come hanno fatto felice me!» Se avesse osservato Hoover, Haze sarebbe rimasto probabilmente impressionato dall'aria raggiante che aveva, ma la sua attenzione era fissa sull'uo­ mo in cima al cofano dell'automobile. Scivolò giù dalla pro­ pria e si fece avanti, senza mai distogliere gli occhi dalla fi­ gura squallida. Hoover Shoats alzò la mano puntando due dita verso l'uomo e quello urlò all'improvviso con voce acu­ ta nasale cantilenante: «Ecco, gli irredenti si redimono e si avvicina il nuovo gesù! Aspettate questo miracolo! Favorite ai vostri posti per la salvazione nella Santa Chiesa di Cristo Senza Cristo!» Lo ripeté nell'identico tono di voce ma più presto. Poi si mise a tossire. Aveva una tosse sonora tuberco­ lotica che cominciava in qualche punto profondo dentro di lui e terminava in un rantolo prolungato. Alla fine dell'ac­ cesso espettorò un fluido bianco. Haze si era fermato accanto a una grassona che dopo un minuto girò la testa e lo fissò e poi la girò ancora in senso opposto e fissò il Vero Profeta. Per ultimo gli toccò il gomito con il suo e gli fece un largo sorriso. «Lui e te sareste gemel­ li?» domandò. «Se non le dai la caccia e non l'uccidi, quella ti darà la caccia e ti ucciderà,» rispose Haze. «Eh? Chi?» Haze le volse le spalle e si allontanò, e la donna continuò a fissarlo mentre rientrava in macchina e partiva. Poi toccò il gomito di un uomo che le stava al fianco dall'altra parte. 141

«E picchiato,» disse. «Non ho mai visto dei gemelli che si davano la caccia tra loro.)) Allorché Haze tornò in camera sua, Sabbath Hawks occu­ pava il letto. Stava rincantucciata in fondo al capezzale, con un braccio intorno ai ginocchi e una mano sopra il lenzuolo, quasi intendesse restarvi aggrappata. Aveva la faccia torva e intimorita. Haze si mise a sedere sul letto ma la sbirciò appe­ na un attimo. «Non m'importa se mi picchi con il tavolo,» gli disse. «Non me ne vado. Non c'è un posto dove posso andare. Lui mi ha piantata e sei tu che l'hai fatto scappare. Mica dormi­ vo iernotte e ti ho visto venire e tenergli il fiammifero da­ vanti al viso. Credevo che tutti avrebbero capito com'era prima, senza bisogno di accendere i fiammiferi. E una caro­ gna, ecco· cos'è. E neanche una grossa carogna, ma solo una carognetta, e quando è stufo d'imbrogliare la gente, va a far l'accattone per le vie.» Haze si chinò e prese a slacciarsi le scarpe. Erano vecchie scarpe militari che aveva verniciato di nero per cancellarne la traccia del governo. Sciolse i lacci e mise i piedi in libertà e rimase seduto guardando in basso, mentre lei seguiva cau­ ta ogni sua mossa. «Sicché mi picchi o non mi picchi?» gli chiese. «Se sì, ac­ comodati pure e fallo adesso perché tanto non me ne vado. Non ho nessun posto dove andare.)) Haze non aveva l'aria di chi sta per picchiare qualcuno; aveva l'aria di chi resta se­ duto dov'è fino alla morte. «Senti,»

proseguì Sabbath

Hawks con un rapido cambiamento di tono, «dal minuto che ti ho posato gli occhi addosso non ho smesso di dirmi: ecco quello che devo avere, potessi averne solo un pezzetti­ no! mi son detta guarda quegli occhi color pecàn e ammatti­ sci, figliola! Quella faccia innocente non nasconde nulla, lui è proprio letame puro fino alle budella, tal quale me. La so142

la differenza è che io ci piglio gusto a esser fatta così e lui no. Sissignore! Io ci piglio gusto a esser fatta così, e posso inse­ gnarti a pigliarci gusto anche te. Non vuoi imparare a pi­ gliarcelo?» Haze girò appena la testa sulla spalla e intravide un brut­ to visetto smunto dai luminosi occhi verdi e un largo sorriso. «Be' sì, lo voglio,» disse senza affatto alterare l'espressione di pietra. Si alzò e si tolse la giacca e i pantaloni e le mutande e li posò sulla sedia. Poi spense la luce e si rimise a sedere so­ pra la branda e si sfilò i calzini. I piedi erano grandi e bian­ chi e umidi a contatto con l'impiantito e lui restò immobile, a guardare le due sagome bianche che componevano i piedi. «E dài! Spicciati,» disse Sabbath Hawks, colpendogli la schiena col ginocchio. Haze sbottonò la camicia, se la tolse, l'adoprò per asciu­ garsi la faccia e la lasciò cadere in terra. Poi infilò le gambe sotto la coperta accanto a lei e si fermò come se aspettasse di ricordare ancora un'altra cosa. Sabbath Hawks respirava molto in fretta. «Levati il cap­ pello, re dei bestioni,» disse ruvidamente e la sua mano si alzò dietro la testa di lui e strappò via il cappello e lo fece volare nel buio fino in fondo alla stanza.

143

11

La mattina dopo un tale che indossava un lungo imper­ meabile nero e un cappello un po' sbiadito calato il più pos­ sibile sul volto con la tesa piegata ingiù per incontrare il ba­ vero dell'impermeabile tirato insù, percorreva a passo svelto certe strade secondarie, rasente ai muri degli edifici. Portava un oggetto press'a poco delle dimensioni d'un lattante, av­ volto in alcuni giornali, e portava anche un ombrello scuro, poiché il cielo era di un colore imprevedibile fosco e grigio come la groppa d'una vecchia capra. Aveva un paio di oc­ chiali scuri e una barba nera in cui un osservatore acuto avrebbe scoperto una vegetazione innaturale e capito a volo ch'era appuntata ai due lati del cappello con spilli di sicu­ rezza. Mentre lo sconosciuto camminava, l'ombrello gli sci­ volava di continuo dal braccio impigliandoglisi nei piedi, quasi fosse deciso a impedirgli di recarsi dovunque stesse an­ dando. Non aveva percorso mezzo isolato che dei goccioloni co­ lor melma cominciarono a schizzare sul selciato e alle sue spalle si udì un cupo ringhio nel cielo. Lui si mise a correre, stringendo il fagotto in un braccio e l'ombrello nell'altro. Dopo un secondo, lo raggiunse il temporale e allora si tuffò in mezzo a due vetrine che fiancheggiavano l'entrata di un drngstore rivestita di mattonelle bianche e blu. Calò legger­ mente gli occhiali scuri: gli occhi pallidi che guardarono di 145

là dall'orlo della montatura appartenevano a Enoch Emery. Enoch era diretto all'alloggio di Hazel Motes. Ancora non era mai andato da Hazel Motes ma l'istinto che lo guidava era sicurissimo del fatto suo. Il contenuto del fagotto era ciò che Enoch aveva mostrato a Hazel nel mu­ seo. Lo aveva rubato il giorno prima. Si era scurito la faccia e le mani con cera da scarpe mar­ rone cosicché se fosse stato sorpreso in pieno furto, lo avreb­ bero creduto una persona di colore; poi era sgusciato nel museo mentre il custode dormiva e aveva rotto il vetro della bacheca con una chiave inglese che si era fatto prestare dal­ la sua affittacamere; quindi, sudato e tremante, aveva tolto l'uomo rattrappito dalla bacheca, lo aveva ficcato in un sac­ co di carta e se l'era squagliata ripassando davanti al custo­ de, che seguitava a dormire. Appena uscito dal museo si rese conto che siccome non c'era stato nessuno a vederlo così da scambiarlo per un ragazzo di colore, lo avrebbero sospettato immediatamente e bisognava che si camuffasse. Ecco perché portava la barba nera e gli occhiali scuri. Rientrato in camera sua, Enoch aveva tolto dal sacco il nuovo gesù e, senza arrischiarsi a dargli neanche un'occhia­ ta, lo aveva deposto nell'armadietto dorato; poi si era messo a sedere sulla sponda del letto per aspettare. Aspettava che succedesse qualcosa, non sapeva che fosse. Sapeva che qual­ cosa sarebbe successo-, e l'aspettava il suo organismo intero. Riteneva che sarebbe stato uno dei momenti supremi della sua vita, ma a parte questo, non aveva la più vaga idea di che potesse esser mai. Scorgeva in se stesso, quando tutto fos­ se finito, un uomo nuovo di sana pianta, dotato di una per­ sonalità ancora più spiccata di quella attuale. Rimase lì se­ duto per una quindicina di minuti e non successe nulla. Rimase lì seduto per altri cinque minuti. Poi comprese che toccava a lui compiere la prima mossa. 146

Si alzò e andò in punta dei piedi fino all'armadietto e si ac­ covacciò davanti allo sportello; dopo un secondo lo socchiu­ se e guardò nell'interno dallo spiraglio. Dopo ancora un po­ co, lentissimamente, allargò lo spiraglio e introdusse la testa nel tabernacolo. Passò un certo tempo. Immediatamente alle sue spalle, erano visibili soltanto le suole delle scarpe e il fondo dei calzoni. Un silenzio totale pervadeva la stanza; perfino dalla strada non saliva alcun suono; pareva che l'Universo fosse stato estromesso; non sal­ tava neanche una pulce. Ed ecco che senza il menomo preavviso, un forte rumore liquido esplose dall'armadietto e si udì un tonfo d'ossa che cozzavano contro un pezzo di le­ gno. Enoch indietreggiò traballando, stringendosi la testa e la faccia. Sedette per alcuni minuti sul pavimento sprizzan­ do orrore da tutta la persona. Sul primo istante, aveva cre­ duto che fosse stato l'uomo rattrappito a fare uno starnuto, ma dopo un secondo notò le condizioni del proprio naso. Se lo asciugò con la manica e poi rimase ancora un poco a se­ dere sul pavimento. Nel frattempo la sua espressione dimo­ strava che una profonda sgradevole conoscenza lo andava compenetrando lentamente. A un certo punto aveva chiuso con un calcio lo sportello dell'arca in faccia al nuovo gesù, quindi si era alzato e messo a mangiare con gran velocità un bastoncino di zucchero caramellato. Lo aveva divorato co­ me se gli serbasse rancore. La mattina dopo Enoch non si era alzato fino alle dieci era il suo giorno libero - né messo in strada fin quasi a mezzogiorno per cercare Hazel Motes. Ricordava l'indirizzo che gli aveva dato Sabbath Hawks ed era lì che lo guidava l'istinto. Si sentiva parecchio abbattuto e di pessimo umore all'idea di esser costretto a passare in quel modo

e

con quel

tempaccio la sua giornata di libertà, ma voleva sbarazzarsi 147

del nuovo gesù cosicché se la polizia doveva pigliare qualcu­ no per il furto poteva pigliarsi Hazel Motes in vece sua. Non riusciva assolutamente a capire come si fosse permesso di ri­ schiare la pelle per un nanerottolo morto rattrappito mezzo negro che non aveva mai fatto nulla oltre a lasciarsi imbal­ samare e deporre in un museo a puzzare per il resto dei suoi giorni. Questo sfuggiva totalmente alla sua comprensione. Era davvero abbattutissimo. Fin dove la faccenda riguarda­ va lui, un gesù o l'altro era sempre un malanno. Enoch si era fatto prestare l'ombrello dall'affittacamere e mentre indugiava nell'entrata del drugstore, tentando di aprirlo, scoprì ch'era vecchio almeno quanto lei. Quando fi­ nalmente fu riuscito a issare le stecche fino in cima e a spa­ lancarlo, ricacciò gli occhiali scuri al loro posto e s'immerse di nuovo nell'acquazzone. Quell'ombrello, l'affittacamere non lo adoprava più da quindici anni (era l'unico motivo per cui glielo aveva presta­ to) e non appena la pioggia ne ebbe toccata la cupola, que­ sta cadde giù con uno strido e gli si abbatté sulla nuca. Allo­ ra Enòch fece pochi passi di corsa con la cupola sopra la te­ sta, poi rinculò fin dentro l'ingresso di un altro negozio e se la tolse di dosso. Quindi, per rialzarla, dovette mettere in terra il puntale e costringerla ad aprirsi pigiandovi sopra col piede. Corse fuori di nuovo, tenendo la mano sollevata vici­ no alle stecche per impedire che si richiudessero, e questo permise al manico, ch'era intagliato a forma d'una testa di fox terrier, di piantarglisi nello stomaco ogni due o tre secon­ di. In questa maniera Enoch percorse un altro quarto d'iso­ lato prima che la metà posteriore della seta si staccasse dalle stecche e si arrovesciasse, consentendo alla tempesta di piombargli nel collo. Allora si buttò sotto la tettoia di un ci­ nematografo. Era sabato e davanti alla biglietteria attende­ va uno stuolo di bambini allineati alla meno peggio. 148

Enoch non aveva una gran passione per i bambini ma i bambini mostravano sempre di compiacersi a guardarlo. La fila si girò e venti o trent'occhi presero a fissarlo con vivo interesse. L'ombrello aveva preso una brutta posizione, mez­ zo su e mezzo giù, e la metà superiore era lì lì per calare e rovesciargli dell'altra acqua nel bavero. Quando questo ac­ cadde i bambini si misero a ridere e a saltellare. Enoch li guardò in cagnesco e volse la schiena e abbassò gli occhiali scuri. Si scoprì di fronte al ritratto quadricolore d'un gorilla a grandezza naturale. Sopra la testa del gorilla, dei caratteri rossi annunziavano:

GONGA!

Il Gigante Monarca della Giun­

gla e Gran Divo dello Schermo! QUI

IN CARNE E ossA!!!

Al

livello del ginocchio del gorilla se ne leggevano altri ancora: «A mezzogiorno Gonga apparirà in persona davanti a que­

sto cinema.

OGGIJ

Entrata libera ai primi dieci spettatori che

avranno il coraggio di venire a stringergli la mano!» Di solito Enoch aveva la testa altrove nel momento in cui il Fato cominciava a tirare indietro la gamba per assestargli un calcio. Quando aveva quattro anni, suo padre era torna­ to a casa dal penitenziario portandogli in regalo una scatola di latta arancione: sull'esterno erano dipinti

un

pezzo di

croccante alle arachidi e delle lettere verdi che dicevano: UNA SORPRESA DA MATIII

C' È

Quando Enoch l'ebbe aperta, una

spirale d'acciaio ne era scattata fuori e gli aveva spezzato la punta dei due· primi denti davanti. La sua vita era talmente piena di avvenimenti analoghi che sembrava ovvio ritenerlo più sensibile all'ora del pericolo. Restò fermo e rilesse atten­ tamente il cartellone. Secondo lui, l'opportunità d'insultare uno scimmione famoso gli veniva concessa dalla mano della Provvidenza. Riacquistò all'improvviso tutta la sua riveren­ za per il nuovo gesù. Capì d'esser prossimo a ricevere il me­ ritato compenso, in fin dei conti, e a vivere il momento su­ premo che aveva atteso. 149

Si girò e chiese che ore erano al ragazzo più vicino. Questi

rispose ch'era mezzogiorno e dieci e che Gonga era già in ri­ tardo di dieci minuti. Un altro disse che forse lo aveva trat­

tenuto la pioggia. Un terzo disse macché, non dipendeva dalla pioggia, il suo regista doveva arrivare in aereo da Hol­

lywood. Enoch digrignò i denti. Il primo ragazzo lo avvertì

che se voleva dare la mano al divo, bisognava che si mettesse in fila come loro e aspettasse il suo turno. Enoch si mise in

fila. Un bimbo gli chiese quanti anni aveva. Un altro osser­

vò che i suoi denti sembravano buffi. Enoch ignorò del suo

meglio tutti quei discorsi e si mise a raddrizzare l'ombrello.

Dopo pochi minuti un furgone nero sbucò dalla canto­

nata e risalì lentamente la strada nella pioggia incessante.

Enoch spinse l'ombrello sotto il braccio e tentò di sbirciare attraverso gli occhiali scuri. Mentre il furgone si avvicinava, un grammofono nell'interno cominciò a suonare Tararabum­

tiè, ma la musica era soffocata quasi completamente dalla

pioggia. Sull'esterno del veicolo la grande immagine d'una

bionda faceva la pubblicità a un film che non era interpre­ tato dal gorilla.

I bambini rimasero scrupolosamente in fila mentre il fur­

gone si fenniva davanti al cinema. Lo sportello posteriore era costruito come quello d'un cellulare, con un'inferriata, ma non ci stava dietro la scimmia. Due uomini in imper­

meabile uscirono dal cassone, imprecando, corsero fino allo

sportello e lo aprirono. Uno di loro cacciò dentro la testa e disse: «Okay, non facciamo tante storie, eh?» L'altro puntò

il pollice verso i bambini e disse: «Per favore indietro voial­ tri, volete farvi indietro per favore?»

La voce del disco nell'interno del furgone disse: «Ecco Gonga, ragazzi, Gonga il Ruggente e Gran Divo dello Schermo! Forza, ragazzi, venite a dargli la mano a Gonga!» La voce fu appena un borbottio nella pioggia. 150

L'uomo che aspettava davanti allo sportello ricacciò la te­ sta nel veicolo. «Okay ti decidi a uscire una buona volta?» disse. Si udì un tonfo leggero in qualche punto dentro al furgo­ ne. Dopo un secondo un braccio scuro ne emerse giusto quel tanto per farsi toccare dalla pioggia e poi si ritrasse. «Ti pigli un accidente,» disse l'uomo che stava sotto la tet­ toia; si tolse l'impermeabile e lo gettò al compagno davanti allo sportello, che a sua volta lo gettò nel furgone. Dopo al­ tri due o tre minuti, il gorilla apparve nel vano, con l'imper­ meabile abbottonato fino al mento e il bavero rialzato. Dal collo gli pendeva una catena di ferro; l'uomo l'agguantò e tirò giù il gorilla e tutti e due balzarono insieme sotto la tet­ toia. Nella biglietteria di vetro c'era una donna dall'aria materna, che preparava i biglietti d'ingresso gratuito per i primi dieci ragazzi abbastanza coraggiosi da farsi avanti e scambiare una stretta di mano col divo. Il gorilla ignorò completamente i bambini e seguì l'uomo sul lato opposto dell'entrata dove sorgeva una piccola piat­ taforma alta circa mezzo metro. Ci salì sopra e si girò di fronte ai bambini e cominciò a ringhiare. Quel ringhio non era tanto forte quanto velenoso. Sembrava che scaturisse da un cuore nero. Enoch ne fu terrorizzato e se non avesse avu­ to intorno i bambini, sarebbe fuggito. «Chi si fa avanti per primo?» domandò l'uomo. «Forza figlioli, chi si fa avanti per primo? Un biglietto gratis al pri­ mo di voi che si fa avanti.» Nel gruppo dei piccoli non ci fu alcun movimento. L'uo­ mo li guardò con occhi di fuoco. «Che vi piglia giovanotti?» abbaiò. «Avete fifa per caso? Mica può farvi del male l'ami­ co finché lo tengo legato con questa catena.» Strinse il pu­ gno sulla catena e la scosse verso di loro per dimostrare che la reggeva ben salda. 151

Dopo un minuto una bambina si staccò dal gruppo. Ave­ va riccioli lunghi a forma di trucioli e il volto fiero triangola­ re. Avanzò fino a trovarsi a quattro passi dal divo. «Okay okay,» disse l'uomo, scrollando la catena, «spiccia­ ti bello.» Lo scimmione allungò la zampa e scambiò una rapida stretta di mano con la piccola. A questo punto un'altra bambina era pronta a seguire il suo esempio e dopo fu la volta di due maschietti. La linea si riformò e cominciò ad avv1cmars1. Il gorilla continuò a tendere la zampa girando la testa al­ trove con aria seccata per via della pioggia. Enoch aveva su­ perato la paura e si sforzava freneticamente di escogitare l'e­ piteto meglio indicato a insultarlo. In genere non aveva dif­ ficoltà con questo tipo di composizione ma questa volta non gli venne nulla. Il suo cervello, in entrambe le parti, era completamente vuoto. �on gli riuscì neppure di concepire le frasi offensive che usava ogni giorno. Ormai lo precedevano due bambini soltanto. Il primo scambiò la stretta di mano col divo e uscì dalla fila. Il cuore di Enoch pulsava violentemente. Il bimbo che gli stava da­ vanti eseguì il gesto e uscì dalla fila anche lui, !asciandolo a fronteggiare lo scimmione, che gli prese la mano con una mossa automatica. Era la prima volta che una mano veniva tesa a Enoch do­ po il suo arrivo in città. La sentì tiepida e soffice. Per un secondo restò semplicemente immobile, stringen­ dola. Poi cominciò a balbettare. «Mi chiamo Enoch Eme­ ry,» borbottò.

«Ho frequentato l'Istituto Rodemill della

Bibbia per i Ragazzi. Lavoro allo zoo della città. Ho visto due dei tuoi film. Ho appena diciott'anni ma lavoro già per la città. Il mio babbo mi ci fece ve ... » e gli si ruppe la voce. Il divo si curvò leggermente in avanti e un cambiamento 152

si produsse nel suo sguardo: un brutto paio d'occhi umani si fece più vicino a Enoch· e lo sbirciò da dietro il paio di cellu­ loide. «Va' all'inferno,» disse una voce burbera nell'interno del costume da scimmia, bassa ma distinta, e la mano fu strappata alla sua stretta. L'umiliazione fu talmente acuta e penosa che Enoch si ri­ girò tre volte prima di capire in quale direzione volesse an­ dare. Poi si lanciò nella pioggia correndo a perdifiato. Quando arrivò alla casa di Sabbath Hawks era bagnato fradicio e il suo fagotto non lo era meno di lui. Enoch lo ser­ rava in una morsa feroce ma l'unico suo desiderio era di sba­ razzarsene e non rivederlo mai più. L'affittacamere di Haze era uscita sulla veranda, e appuntava )o sguardo nella tem­ pesta con aria di sospetto. Enoch la interrogò, scoprì dov'era la camera di Haze e salì le scale. La porta era socchiusa e lui infilò la testa nello spiraglio. Haze giaceva sulla branda, con un panno di spugna che gli copriva gli occhi; la parte espo­ sta della sua faccia era cenerognola e irrigidita in una smor­ fia, come se fosse afflitto da un'infermità permanente. Sab­ bath Hawks sedeva davanti al tavolo presso la finestra, oc­ cupata a studiarsi in uno specchietto tascabile. Enoch grattò la parete e lei alzò gli occhi. Mise giù lo specchio, andò in punta dei piedi nel corridoio e si chiuse la porta alle spalle. «Oggi il mio uomo si sente male e sta dormendo perché stanotte non ha dormito neanche un po',» disse. «Che vuoi?» «Questo è per lui e non per te,» rispose Enoch, porgendole il fagotto bagnato. «Un suo amico me l'ha dato a me per darglielo a lui. Cosa c'è dentro non lo so.» «Ci penso io;» assicurò Sabbath Hawks. «Non c'è bisogno che ti preoccupi.» Enoch provava una necessità impellente d'insultare qual­ cuno; era la sola cosa che potesse offrire un sollievo sia pur temporaneo al suo stato d'animo. «Chi me l'avesse detto non 153

ci avrei mai creduto che lui si era messo con te,» osservò, lanciandole una delle sue occhiate speciali. «Era lui che non la finiva più di starmi dietro. Certe volte capitano di quelli che sono fatti così. Sicché non lo sai cosa ·

c'è in questo pacco?» «Un acchiappamosche per prendere gli impiccioni. Tu bada solo a darglielo e lui saprà che cos'è e puoi dirgli che sono contento di levarmelo di torno.» Enoch si avviò giù per le scale e a metà strada si girò a lanciarle un'altra delle sue occhiate speciali. «Adesso capisco perché ha dovuto mettersi quel cencio sugli occhi,)> disse. «Tienti il cerume negli orecchi e un tappo in bocca. Nes­ suno ti ha chiesto il tuo parere.» Quand'ebbe udito l'uscio di casa sbatacchiarsi dietro di lui, Sabbath Hawks rigirò il fa­ gotto e si preparò a esaminarlo. Impossibile indovinarne il contenuto dal difuori; era troppo duro per contenere dei panni e troppo morbido per contenere un arnese. Aprì un foro in un'estremità della carta e vide qualcosa di simile a cinque piselli secchi messi in fila, ma il corridoio era troppo buio per consentirle di scorgerli chiaramente. Decise di por­ tare il pacco nel bagno, dove la luce era buona, e di aprirlo prima di consegnarlo a Haze. Se stava così male come dice­ va, non avrebbe voluto che si venisse a infastidirlo con un fagotto. Quella mattina presto Haze aveva accusato un dolore ter­ ribile nel torace. Si era messo a tossire durante la notte, d'u­ na tosse dura cavernosa, il cui suono faceva sospettare che andasse fabbricandola di volta in volta. Sabbath Hawks era certa che stesse semplicemente tentando di scacciarla dando­ le da intendere che s'era preso una malattia contagiosa. Mica è malato sul serio, si disse mentre percorreva il corri­ doio, non si è ancora abituato a me, tutto qui. Entrò nel ba­ gno e sedette sull'orlo d'una grande vasca verde dalle zampe 154

fornite di artigli, e strappò via lo spago dall'involto. «Ma a me si abituerà,)) borbottò. Lacerò la carta bagnata e la fece cadere sul pavimento; e allora si irrigidì, fissando attonita ciò che le stava in grembo. Due giorni fuori dalla bacheca non avevano migliorato le condizioni del nuovo gesù. Un lato della sua faccia era ri­ dotto parzialmente in poltiglia e sull'altro lato, si era spacca­ ta la palpebra e ne colava una polvere pallida. Durante un certo tempo Sabbath Hawks ebbe un'aria vacua, come se non sapesse cosa pensare di lui ovvero non pensasse nulla. Probabilmente rimase così per dieci minuti, senza un pensie­ ro in testa, avvinta da un non so che di familiare in quel vol­ to. Mai fin allora aveva conosciuto qualcuno che gli somi­ gliasse, eppure c'era in lui qualcosa di tutti coloro che aveva conosciuto in vita sua, quasi fossero stati arrotolati e fusi in un'unica persona, e uccisi e contratti e inariditi. Lo tenne sollevato e cominciò a esaminarlo e dopo un mi­ nuto le sue mani si abituarono al contatto di quella pelle. Qualche ciocca di capelli si era scomposta, e Sabbath li spazzolò all'indietro dov'era giusto che stessero, reggendolo nella piega del gomito e chinando gli occhi sul suo faccino sbilenco. La bocca era stata sbalzata un po' in tralice cosic­ ché la vaga traccia di un sogghigno copriva la sua fisiono­ mia atterrita. La ragazza prese a cullarlo lievemente nel braccio e le spuntò sul viso un tenue riflesso dello stesso sog­ ghigno. «Caspita,)) mormorò, «ma lo sai che sei proprio una chicca?)) La testa di lui le entrava esattamente nel cavo della spal­ la. «Chi è mamma tua e chi è il tuo papà?)) domandò. Una risposta le venne in mente tutt'a un tratto ed emise un breve sommesso latrato e ridacchiò, con un'espressione compiaciuta negli occhi. «Bene, andiamo a dargli uno scos­ sone, a quello là,)) disse dopo un poco. 155

Haze si era già scosso dal sonno per conto suo quando Enoch Emery aveva sbatacchiato l'uscio di casa. Si era mes­ so

a sedere in letto e vedendo che Sabbath Hawks non si tro­

vava nella stanza, era balzato in piedi e aveva cominciato a vestirsi. Aveva in testa un solo pensiero che gli era venuto, come la decisione di comprare un'automobile, prima del ri­ sveglio e senza alcun preavviso: si sarebbe trasferito imme­ diatamente in qualche altra città e avrebbe predicato la Chiesa Senza Cristo dove nessuno ne aveva mai sentito par­ lare. Laggiù si sarebbe preso un'altra camera e un'altra don­ na e avrebbe ricominciato tutto di sana pianta e a mente fre­ sca. La possibilità di attuare questo progetto proveniva uni­ camente dal vantaggio di possedere una macchina: di posse­ dere qualcosa che si spostava presto, in piena segretezza, fi­ no al luogo prescelto. Si affacciò alla finestra e guardò la Es­ sex: stava alta e massiccia nella pioggia torrenziale. Haze non notò la pioggia ma soltanto la macchina; a chi gli aves­ se posto una domanda in merito, non sarebbe stato in grado di rispondere che pioveva. Era saturo di energia e si scostò dalla finestra e finì di vestirsi. Quella mattina più di buon'o­ ra, la prima volta che si era destato, aveva avuto il senso di star per soggiacere a una totale consunzione del petto; era parso che andasse diventando sempre più concavo e vasto sotto di lui, e lui aveva continuato a udire i propri colpi di tosse come se giungessero da lontano. Di lì a poco lo aveva risucchiato un sonno fiacco, ma si era svegliato con quel pro­ getto, e con l'energia per eseguirlo immediatamente. Haze agguantò il sacco militare che teneva sotto il tavolo e cominciò a cacciarvi dentro la sua roba superflua. Non possedeva gran che, e un quarto di ciò che possedeva era già nel sacco. La sua mano riuscì a fare il bagaglio in modo da non toccar mai la Bibbia che negli ultimi pochi anni era sempre rimasta a giacere come un sasso sul fondo del sacco, 156

ma mentre Haze scovava un posto per le scarpe di ricambio, le sue dita si strinsero intorno a un oggettino rettangolare e lo tirarono fuori. Era l'astuccio degli occhiali di sua madre. Si era scordato di avere un paio di occhiali. Se li mise e la parete che aveva di fronte gli si accostò e ondeggiò. Dietro la porta era appeso uno specchietto dalla cornice bianca, e an­ dò a guardarvisi dentro. La sua faccia sfocata fu scurita dal­ l'eccitamento e le linee che la solcavano divennero profonde e storte. Le piccole lenti cerchiate d'argento gli dettero un'a­ ria di furbizia deflessa, come se nascondessero qualche tra­ ma disonesta che sarebbe risaltata negli occhi nudi. Le sue dita cominciarono a schioccare nervosamente e Haze dimen­ ticò quanto stava per fare. Vide nella propria faccia la fac­ cia di sua madre, che fissava quell'altra nello specchio. Si ri­ trasse di colpo e alzò la mano per togliersi gli occhiali ma la porta si apri e due nuove facce fluttuarono nel suo cam­ po visivo; una di loro disse: «D'ora in avanti chiamami mammà.» La faccia bruna più piccola, immediatamente al disotto della prima, storceva appena gli occhi quasi nello sforzo d'i­ dentificare un vecchio amico che si preparasse a ucciderla. Haze era rimasto immobile con una mano tuttora sul ponticello degli occhiali e l'altra bloccata in aria al livello del petto; e spingeva la testa in fuori come se dovesse ado­ prare la faccia intera per vederci. Si trovava a quattro passi da loro ma pareva le avesse giusto sotto agli occhi. «Chiedi al tuo babbino dov'è che stava scappando... ma­ lato com'è?» disse Sabbath. «E chiedigli se noi due ci porta ,

'

con se, s1 o no.? )) La mano ch'era stata bloccata in aria si protese come per acciuffare la faccia che storceva gli occhi ma senza toccarla; si allungò ancora, lentamente, e non acciuffò nulla e poi scattò in avanti e ghermì il corpo rattrappito e lo scagliò 157

contro la parete. La testa esplose e la minutaglia dell'interno ne schizzò fuori in una nuvoletta di polvere. «L'hai rotto!» urlò Sabbath, «ed era mio!» Haze afferrò la pelle ch'era caduta sul pavimento. Aprì la porta esterna che dava sul vuoto dove un tempo secondo l'affittacamere c'era stata probabilmente una scala antin­ cendio e gettò fuori quel che aveva in mano. La pioggia gli soffiò in faccia e allora saltò indietro e si fermò, con aria cir­ cospetta, come se stesse concentrandosi per uno scambio di botte. «Non c'era bisogno che lo buttassi fuori,» strillò Sabbath Hawks. «Io potevo aggiustarlo!» Haze si riavvicinò alla porta e si spenzolò fuori, sbarrando gli occhi nel grigio opaco all'intorno. La pioggia gli cadde sul cappello con un martellio sonoro quasi stesse cadendo so­ pra uno strato di lamiera. «Me ne sono accorta la prima volta che t'ho visto che sei vigliacco e malvagio,>> disse una voce furente alle sue spalle. «Ho capito che non permetti a nessuno di avere qualcosa. Ho capito che sei abbastanza vigliacco da sbattere un bimbo piccolo contro il muro. Ho capito che non ti diverti mai neanche per sbaglio e che non permetti a nessuno di divertir­ si perché non vuoi nient'altro che Gesù!» Haze si volse e alzò il braccio in un gesto selvaggio, ri­ schiando di perdere l'equilibrio nel vano della porta. Gocce d'acqua piovana gli erano schizzate sugli occhiali e sulla faccia rossa e pendevano in chiazze luccicanti dalla tesa del cappello. «lo non voglio nient'altro che la verità!» urlò, «e la verità è quello che si vede e io l'ho vista!» «Balle da predicatori,» disse Sabbath. «Dov'è che stavi scappando?» «La sola verità che c'è l'ho vista io!» «Dov'è che stavi scappando?» 158

«In qualche altra città,» dichiarò Haze con -voce forte rauca, «a predicare la verità. La Chiesa Senza Cristo! E so­ no padrone di una macchina che mi servirà per andarci, so­ no... » ma lo interruppe un colpo di tosse. Quella tosse non fu gran che - parve un gridolino d'allarme dal fondo di un canyon - ma ogni colore ed espressione si prosciugarono sulla sua faccia fino a renderla tersa e vacua come la pioggia che cadeva dietro di lui. «E quando sarebbe che te ne vai?» «Dopo che avrò dormito ancora un poco,» e Haze si tolse gli occhiali e li gettò fuori della porta. «Non dormirai né poco né punto,» disse lei.

159

12

Suo malgrado, Enoch non poteva togliersi dalla testa l'a­ spettativa che il nuovo gesù avrebbe fatto qualcosa per lui in cambio dei suoi servigi. Era questa la virtù della Speranza, e la componevano, in Enoch, due terzi di sospetto e un terzo di cupidigia. Operò in lui durante tutto il resto della giorna­ ta, dopo ch'ebbe lasciato Sabbath Hawks. Aveva solo una vaga idea della forma in cui desiderava ricevere il compen­ so, ma non era un ragazzo privo d'ambizioni: voleva diven­ tare qualcosa. Voleva migliorare la propria condizione fin­ ché fosse la più invidiabile d'ogni altra. Voleva essere IL GIO­ VANE

del futuro, come qu�lli riprodotti sui manifesti pubbli­

citari delle assicurazioni. Voleva, un giorno, vedere una fila di persone che attendevano di stringergli la mano. Passò l'intero pomeriggio ad armeggiare e arrabattarsi in camera sua, mordendosi le unghie e strappando gli ultimi brandelli di seta dall'ombrello dell'affittacamere. Alla fine lo spogliò completamente e ruppe tutte le stecche. Quel che rimase fu un bastone nero con un aguzzo puntale d'acciaio in fondo e una testa di cane in cima. Avrebbe potuto essere lo strumento d'nn tipo speciale di tortura che fosse passato di moda. Enoch si mise a camminare su e giù per la stanza tenendolo sotto il braccio e si rese conto che gli avrebbe fatto fare una bella figura. Press'a poco alle sette di sera, indossò la giacca, prese il 161

bastone e si diresse verso un ristorantino a due isolati di di­ stanza. Aveva il senso di star movendo incontro a un qual­ che onore, ma era nervosissimo, quasi temesse di trovarsi co­ stretto ad arraffarlo invece di riceverlo. Enoch non intraprendeva mai nulla senza aver prima mangiato. Quel locale si chiamava La Tavernetta Parigina; era un budello di neanche due metri di larghezza, situato fra la bottega d'un lustrascarpe e una lavanderia a secco. Ci sgusciò dentro, salì sull'ultimo sgabello della fila davanti al banco e ordinò una ciotola di zuppa di piselli e un frullato di cioccolata al malto. La cameriera era una donna alta con una gran dentiera gialla e i capelli dello stesso colore raccolti in una reticella nera. Non scostava mai una mano dall'anca; le ordinazioni le serviva con l'altra. Quantunque Enoch capitasse lì tutte le sere, non si era ancora decisa a vederlo di buon occhio. Invece di eseguire l'ordinazione, la donna si mise a frigge­ re della pancetta affumicata; nel locale c'era soltanto un al­ tro cliente che aveva finito di cenare e stava leggendo un giornale; e per mangiare la pancetta non c'era nessuno tran­ ne lei. Enoch si sporse sul banco e le punzecchiò l'anca con il bastone. «Stia a sentire,» le disse, «devo andar via. Ho fretta.» «E allora vattene,» fece la donna. La sua mandibola co­ minciò a oscillare e gli occhi s'inchiodarono sulla padellina con profonda attenzione. «Pazienza, vuol dire che mi accontenterò d'un pezzo di quella torta laggiù,>> e Enoch indicò la metà d'una torta rosa e gialla sopra un'alzata rotonda di vetro. «Credo che ho qualcosa da fare. Bisogna che vada via. Lo posi lì accanto a lui,» soggiunse, accennando al cliente che leggeva il giorna­ le. Scivolò da uno sgabello all'altro e si mise a leggere la pa­ gina esterna del giornale. 162

L'uomo abbassò il giornale e guardò Enoch. Enoch sorri­ se. L'uomo risollevò il giornale. «Potrei chiederle d'impre­ starmi qualche parte del suo giornale che non sta studian­ do?,, domandò Enoch. L'uomù riabbassò il giornale fissando '

l'intruso; aveva gli occhi torbidi imbambolati. Sfogliò il giornale con flemma, lo scosse per toglierne il foglio dei fu­ metti e lo porse a Enoch. Era la rubrica preferita di Enoch, che se la leggeva ogni sera come un testo liturgico. Mentre mangiava la torta che la cameriera aveva catapultato lungo il piano del banco verso di lui, lesse e si sentì traboccante di benevolenza e di forza e di coraggio. Quand'ebbe finito una facciata, girò il foglio e si mise a scorrere i titoli dei film, di c4i l'altra era piena. Il suo occhio sorvolò tre colonne senza fermarsi; ed ecco, arrivò a un trafi­ letto che faceva la pubblicità a Gonga, il Gigante Monarca della Giungla, ed elencava i cinema che avrebbe onorato della sua presenza durante il giro e le ore nelle quali sarebbe avvenuta ogni sosta. Di lì a trenta minuti era atteso al Victo­ ry nella 5 7a Strada e questa sarebbe stata l'ultima sua com­ parsa nella città. A chi avesse osservato Enoch mentre leggeva la notizia, non sarebbe sfuggito un certo mutamento sul suo volto: bril­ lava tuttora dell'ispirazione che lui aveva assorbito dai fu­ metti, ma vi si era sovrapposto qualcos'altro: l'impronta d'un risveglio. A un certo punto la cameriera si girò per vedere se il ra­ gazzo non se n'era andato. «Che ti piglia?)) chiese. «Hai in­ goiato un nocciolo?,, «So cosa voglio,,, mormorò Enoch. «Cosa voglio lo so anch'io,,, disse la donna con aria cupa. Enoch cercò il bastone, e trovato che l'ebbe mise gli spiccioli sul banco. «Bisogna che vada via.,, «Non trattenerti per me, mi raccomando.)) 163

«Può darsi che lei non mi riveda più così come sono.» «Così o cosà mi fa proprio lo stesso, l'importante è che non ti riveda più.» Enoch uscì. La serata era bella umida. Luccicavano le pozzanghere sui marciapiedi e dalle vetrine dei negozi eva­ porava il bagnato facendo brillare le cianfrusaglie in mo­ stra. Enoch disparve in una strada laterale e s'inoltrò rapi­ damente nelle viuzze più buie della città, fermandosi solo un paio di volte in fondo a un vicolo per scoccare un'occhiata nelle due direzioni prima di proseguire la corsa. Il Victory era un piccolo cinema per famiglie, in uno dei quartieri più densi; Enoch percorse una serie di slarghi illuminati e poi altri vicoli e stradine finché arrivò alla zona commerciale circostante. Allora rallentò il passo. E lo vide a circa un iso­ lato di distanza, che scintillava nel suo sfondo più buio. Non attraversò la strada per spostarsi sul lato dove quello era in sosta· ma rimase sul marciapiede opposto, e venne avanti sbirciando ininterrottamente il punto sfolgorante. Si arrestò quando vi fu giunto di fronte e si nascose nella stretta cavità sotto una scala che divideva il centro d'una facciata. Il furgone adibito al trasporto di Gonga era parcheggiato laggiù e il divo dello schermo stava ritto sotto la tettoia, por­ gendo la zampa a una donna anziana. Questa si fece da parte e prese il suo posto un signore in maglietta dalle mani­ che corte che gli strinse vigorosamente la zampa, da vero sportivo. Lo seguì un bambino sui tre anni con un cappello­ ne western così alto che gli copriva quasi la faccia; dovette spingerlo avanti la gente in coda. Enoch osservò la scena per un certo tempo, il volto distorto dall'invidia. Dopo il piccolo fu la volta di una signora in shorts, poi di un vecchio che cercò di accaparrarsi anche lui una certa attenzione poiché si avvicinò ballonzolando invece di camminare a passo di­ gnitoso. Tutt'a un tratto Enoch saettò attraverso la strada e

164

s'infilò silenziosamente nello sportello posteriore del furgone ch'era rimasto aperto. Le strette di mano continuarono finché fu imminente l'i­ nizio del film principale in programma. Allora il divo rien­ trò nel furgone e il pubblico si trasferì nella sala. Il condu­ cente e l'uomo che fungeva da cerimoniere salirono nella ca­ bina e il furgone partì rombando. Attraversò rapidamente la città e proseguì sulla statale, a velocità altissima. Dal cassone uscivano certi tonfi affannosi, dissimili da quelli del gorilla normale, ma li soffocavano il ronzio del motore e l'uniforme acciottolar delle ruote contro il fondo stradale. La notte era pallida e tranquilla, senza nulla che la turbasse tranne il lamento saltuario di un gufo e lo stridore d'un treno merci smorzato dalla lontananza. Il furgone mantenne la velocità finché dovette rallentare a un passag­ gio a livello, e mentre il cassone sbatacchiava sopra i binari, una figura scivolò fuori dallo sportello e per poco non cadde al suolo, dopodiché si allontanò zoppicando in gran fretta alla volta dei boschi. Quando fu nella tenebra d'una pinetina, posò in terra un bastone puntuto ch'era andata impugnando e un oggetto flaccido e volwninoso che aveva portato sotto il braccio, e cominciò a spogliarsi. Piegava ogni indwnento in bell'ordine via via che se lo toglieva di dosso e poi lo posava in cima al precedente. Allorché tutti i suoi abiti furono disposti l'uno sull'altro, prese il bastone e si mise a scavare una buca nel terreno. Il buio della pineta fu rotto da più pallide macchie di luce lunare che oscillavano di tanto in tanto sulla sua testa: e ri­ velarono la persona di Enoch. Il suo aspetto naturale era de­ turpato da uno squarcio che correva da un angolo del lab­ bro alla clavicola, e da un bernoccolo sotto l'occhio che gli dava un'aria torpida insensibile. Nulla avrebbe potuto trar165

re maggiormente in inganno perché Enoch bruciava d'una felicità più intensa d'ogni altra. Scavò rapidamente finch'ebbe fatto una fossa lunga una trentina di centimetri e altrettanto profonda. Poi vi sistemò dentro la pila degli abiti e si scostò per riposare un secondo. La sepoltura degli abiti non equivaleva per lui a un simbolo della sepoltura del suo io precedente: Enoch sapeva solo che non ne avrebbe avuto più bisogno. Non appena ebbe ripreso fiato, spinse il terriccio smosso sopra la buca e lo spianò col piede. Nel far questo scoprì di aver ancora le scarpe, e finito il lavoro se le tolse e le gettò lontano. Poi raccattò l'oggetto flaccido voluminoso e lo scosse energicamente. Alla luce incerta, si sarebbe potuto veder comparire una delle sue gambe esili bianche e poi l'altra, un braccio e poi l'altro: una figura nera più massiccia e più irsuta sostituì la sua. Per un istante, ebbe due teste, una chiara e una bruna, ma dopo un attimo la figura tirò la bruna testa posteriore al disopra dell'altra e corresse l'anomalia. Quindi si affaccendò con alcune chiusure nascoste e con qualche ritocco di lieve entità al proprio vello. Dopodiché, per un certo tempo, rimase immobile senza far nulla. Poi si mise a ringhiare e a battersi il petto; spiccò dei salti e spalancò le braccia e cacciò avanti la testa. Dap­ prima i ringhi furono fievoli e incerti ma quasi subito si raf­ forzarono. Divennero bassi e velenosi, daccapo più forti, daccapo bassi e velenosi; cessarono completamente. La figu­ ra stese la zampa, non ghermì nulla, e scosse vigorosamente il braccio; ritrasse il braccio, lo riallungò, non ghermì nulla, lo scosse. Ripeté quattro o cinque volte quei gesti. Poi rac­ cattò il bastone puntuto e lo piazzò sotto il braccio con un'inclinazione spavalda e uscì dai boschi verso la statale. In quel momento nessun gorilla esistente, vuoi nelle giungle d'Africa o della California, vuoi a New York City nell'ap166

partamento più lussuoso del mondo, era più felice di questo, che il suo dio aveva ricompensato alla fine. Un uomo e una donna che sedevano abbracciati su ·un masso fuori dall'orlo della strada stavano guardando, oltre l'aperta distesa di una valle, una veduta della città in lonta­ nanza e non notarono l'avvicinarsi dell'irsuta figura. I comi­ gnoli e le cime quadrate degli edifici formavano un muro nero irregolare contro il cielo più chiaro e qualche guglia sparsa tagliava un nitido cuneo da una nuvola. Il giovanotto girò il collo giusto in tempo per vedere il gorilla ritto a pochi passi da lui, orrido e nero, con la zampa protesa. Liberò il braccio che cingeva la donna e si dileguò silenziosamente nei boschi. La sua compagna, appena ebbe voltato gli occhi, fuggì strillando lungo la statale. Il gorilla indugiò come sor­ preso e dopo un momento il braccio gli ricadde sul fianco. Sedette sopra il masso occupato poc'anzi da quei due e si mise a contemplare il profilo frastagliato della città oltre la valle.

167

13

Durante la sua seconda predicazione serale all'aperto con il concorso del Profeta stipendiato e della Santa Chiesa di Cristo senza Cristo, Hoover Shoats intascò quindici dollari e trentacinque centesimi netti. Al Profeta toccavano tre dolla­ ri a sera per le sue prestazioni e per l'uso della sua macchina. Si chiamava Solace Layfield; aveva la tisi, una moglie e sei figli ed esser Profeta implicava l'esatta quantità di lavoro che si sentiva di svolgere. Non gli passò neppure per la testa che potesse rivelarsi un affare pericoloso. Quella seconda se­ ra nell'esercizio delle sue attività non si accorse di un'alta macchina color topo parcheggiata a circa mezzo isolato di distanza né d'una faccia bianca nell'interno che lo osservava con quella speciale intensità da cui si arguisce che stia per succedere qualcosa, quand'anche si tenti l'impossibile per impedire che succeda. La faccia lo osservò per quasi un'ora mentre conciona­ va in cima al cofano della sua automobile ogni volta che Hoover Shoats alzava la mano puntando due dita verso di lui. Quando nel cinema ebbe fine l'ultimo spettacolo e non ci furono altre persone da attirare, Hoover pagò Solace Lay­ field, entrarono entrambi nella macchina di quest'ultimo e partirono. Dopo una decina d'isolati giunsero all'abitazione di Hoover; la macchina si fermò e Hoover saltò fuori gri­ dando: «A domani sera, amico,» poi entrò in un andito buio 169

e Solace Layfield ripartì. L'altra macchina color topo lo se­ guiva mantenendosi costantemente a un intervallo di mezzo isolato. Alla guida c'era Hazel Motes. Entrambe le macchine aumentarono la velocità e dopo al­ cuni minuti si diressero rapidamente verso la periferia; la prima sterzò all'improvviso imboccando una strada solitaria dove gli alberi erano tappezzati di muschio e le uniche luci uscivano come rigide antenne dai loro fari. Haze diminuì grado a grado la distanza e poi, forzando il motore di botto, sfrecciò avanti e tamponò violentemente l'altra macchina. Si arrestarono tutt'e due. Haze riportò indietro la Essex per un breve tratto di stra­ da, mentre il secondo Profeta scendeva dalla sua auto e si fermava strizzando gli occhi nel bagliore dei fari di Haze. Dopo un attimo, si avvicinò al finestrino della Essex e si af­ facciò nell'interno. Non si udivano suoni di sorta oltre al canto dei grilli e delle raganelle. «Che vuoi?» chiese con vo­ ce nervosa. Haze non rispose, si limitò semplicemente a guardarlo, e dopo

un

secondo l'uomo spalancò la bocca e

parve scorgere la somiglianza fra i loro abiti e fors'anche fra i loro visi. «Che vuoi?» ripeté con voce più acuta. «Io non t'ho fatto nulla.» Haze forzò ancora il motore della Essex e sfrecciò avanti. Questa volta tamponò l'altra macchina così in tralice che la fece rotolare sul ciglio della strada e cadere nel fosso. L'uomo si rialzò dal punto dov'era stato gettato a terra e corse daccapo verso il finestrino della Essex. Rimase a circa quattro passi di distanza, guardando nell'interno. «A che scopo tieni sulla strada un arnese come quello?» domandò Haze. «Non c'è niente da ridire sulla mia auto,» protestò il Pro­ feta. «E perché me l'hai arrovesciata nel fosso?» «Via quel cappello.» 170

«Ascolta,» disse Solace Layfield, cominciando a tossire, «cosa vuoi? Piantala di guardarmi senza neanche una spie­ gazione. Di' cosa vuoi.» «Non sei sincero. A che scopo monti in cima a una macchina e dici che non credi in qualcosa mentre invece ci credi?» «E a te che te n'importa?» ansimò il Profeta. «Che te n'importa a te di quel che faccio io?» «A che scopo lo fai? Te l'ho già domandato una volta.» «Un poveraccio deve badare ai suoi interessi,» spiegò l'al­ tro Profeta. «Non sei sincero. Credi in GesÙ.» «E a te che te n'importa? Perché hai arrovesciato la mia macchina nel fosso?» «Togliti quel cappello e quel vestito.» «Non sto mica cercando di farti il verso, sai. Questo vesti­ to me l'ha comprato lui. L'altro che avevo l'ho gettato nel­ l'immondizia.» Haze allungò il braccio dal finestrino e fece volar via il cappello bianco dell'uomo. «E togliti quel vestito.» L'altro cominciò a rinculare arrancando, e venne a fer­ marsi in mezzo di strada. «Togliti quel vestito,» urlò Haze e mise in moto la Essex puntando verso di lui. Solace partì balzelloni per la strada, levandosi la giacca nel frattempo. «Togliti ogni cosa,» strillò Haze, con la faccia rasente al parabrezza. Il Profeta prese a correre sul serio. Si strappò la camicia di dosso e aprì la cintura e lasciò cadere i pantaloni a terra senza rallentare la corsa. Fece atto di agguantarsi i piedi co­ me se intendesse levarsi anche le scarpe, ma prima che arri­ vasse a toccarli, la Essex lo buttò giù lungo disteso, lo mise sotto e proseguì. Haze percorse sei metri all'incirca e si fer­ mò, quindi innestò la marcia indietro. Fece ripassare la mac171

china sul corpo, si fermò di nuovo e scese. La Essex rimase per metà sopra l'altro Profeta quasi si compiacesse di custo­ dire ciò che aveva finalmente abbattuto. Ora che giaceva bocconi al suolo senza il cappello e gli indumenti, l'uomo so­ migliava molto meno a Haze. Un fiotto di sangue sgorgava dalle ferite formandogli una pozza intorno al capo. Era del tutto immobile a eccezione d'un dito che oscillava su e giù davanti alla sua faccia come se lo adoperasse per battere il tempo. Haze gli conficcò la punta della scarpa nel fianco e il Profeta ansimò per un secondo e poi fu quieto. «Due cose non posso soffrire,» disse Haze, «l'uomo che non è sincero e quello che scimmiotta chi lo è. Non avresti dovuto fare in­ trallazzi contro di me se non volevi che ti toccasse quel che ti è toccato.>> L'altro stava tentando di dir qualcosa, ma ansimava sol­ tanto, e Haze si accovacciò vicino al suo viso per ascoltare. «Ho fatto penare assai la mia mamma,>> disse attraverso una specie di rigurgito nella strozza. «Non le ho mai dato pace. Quell'auto l'ho rubata. Non ho mai detto la verità al mio babbo e non ho mai reso a Harry quello che, non· gli ho mai reso... >> «E stattene zitto,» ordinò Haze, piegando la testa più in basso per udire la confessione. «Dissi dov'era la sua distilleria e mi dettero cinque dollari per la soffiata,» boccheggiò l'uomo. «Stattene zitto adesso.» «GesÙ ... >> «Stattene zitto adesso come ti ho ordinato.» «Aiuto Gesummio,» ansimò l'uomo. Haze gli dette una dura manata sulla schiena e lui non si mosse. Allora si piegò del tutto per ascoltare nel caso che riuscisse a dire qualcos'altro, ma non respirava più. Haze si volse e esaminò la parte anteriore della Essex per vedere se 172

avesse riportato danni. Sul paraurti notò alcuni spruzzi di sangue ma non c'era nient'altro. Prima di girare la macchi­ na e ripartire per la città, li cancellò con un cencio. La mattina dopo si alzò di buon'ora dal giaciglio nel retro della carrozzeria e portò la Essex a un distributore per fare il pieno e un controllo generale prima del viaggio. Non era ri­ tornato alla sua camera ma aveva trascorso la notte par­ cheggiato in una stradina, non per dormire, bensì per riflet­ tere sulla vita che si preparava a iniziare, sulla predicazione della Chiesa Senza Cristo nella nuova città.

Al distributore venne a servirlo un ragazzo bianco dalla faccia assonnata e Haze gli disse che doveva empirgli il ser­ batoio e controllare l'olio e l'acqua e la pressione dell'aria nelle gomme, perché stava partendo per un lungo viaggio. Il ragazzo gli chiese dove andava e lui rispose in un'altra città. Il ragazzo chiese ancora se andava tanto lontano con quella macchina là e lui rispose certo che sì. Gli diede un colpetto sul davanti della camicia; dichiarò che nessuno doveva preoccuparsi di nulla purché avesse una buona macchina, e domandò al ragazzo se lo capiva. Il ragazzo rispose che lo capiva, che la pensava anche lui allo stesso modo. Haze si presentò e disse ch'era un predicatore della Chiesa Senza Cristo e che predicava ogni sera proprio dal cofano di quella macchina. Spiegò che stava andando a predicare in un'altra città. Il ragazzo empì il serbatoio e controllò l'acqua e l'olio e la pressione delle gomme, e mentre lavorava, Haze lo se­ guiva nei suoi spostamenti, dicendogli cos'era giusto credere. Disse che non era giusto credere in nulla che non si potesse vedere o tener fra le mani o toccare coi denti. Disse che ap­ pena pochi giorni prima lui credeva ancora nella bestemmia come via della salvazione, ma che non si poteva credere nemmeno in questa perché altrimenti si sarebbe creduto in qualcosa da b�stemmiare. Quanto al Gesù che si raccontava

173

fosse nato a Betlemme e crocefisso sul Calvario per i peccati dell'uomo, Haze soggiunse, Lui era

un

concetto troppo schi­

foso perché una persona col cervello a posto se lo portasse in testa, e raccattò il secchio dell'acqua del ragazzo e lo sbatté sull'asfalto del fondo stradale per ribadire quel che andava dicendo. Si mise a imprecare e a bestemmiare Gesù con una calma intensità ma con un tale convincimento che il ragazzo interruppe il lavoro per ascoltarlo. E quand'ebbe finito di controllare la Essex, annunziò che c'era una perdita nel ser­ batoio della benzina e che ce n'erano altre due nel radiatore e che probabilmente la gomma di dietro avrebbe retto per venti miglia se lui fosse andato adagio. «Senti un po',» disse Haze, «questa macchina sta appena cominciando la sua vita. Non potrebbe fermarla un fulmine del cielo!» «Non serve a nulla metterei dentro l'acqua, tanto non la tiene,» osservò il ragazzo. «Tu metticela lo stesso,» ribatté Haze, e stette a guardare il ragazzo mentre versava l'acqua. Poi si fece dare da lui una mappa stradale e partì, seminando nella propria scia certe piccole collane di perline d'acqua e d'olio e di benzina. Arrivato che fu sulla statale cominciò a correre prestissi­ mo, ma dopo poche miglia ebbe la sensazione di non star guadagnando terreno. Gli passarono davanti casolari e sta­ zioni di rifornimento e campeggi e cartelli col numero 666, e granai deserti con gli avvisi pubblicitari del tabacco CCC che ciondolavano dai muri scortecciati, perfino un manifesto che diceva: «Gesù Morì per TE», e che Haze vide e non les­ se di proposito. Ebbe davvero la sensazione che la strada stesse scivolando all'indietro sotto di lui. Aveva saputo fin dal principio che la campagna sarebbe finita ma non sapeva che non c'era un'altra città. Dopo neanche cinque miglia udì una sirena alle sue spal174

le. Si girò a guardare e vide avvicinarsi una macchina nera della polizia stradale. L'auto gli si affiancò, e l'agente al vo­ lante gli fece cenno di spostarsi sull'orlo della strada. L'a­ gente aveva una faccia rossa simpatica e gli occhi chiari co­ lor del ghiaccio fresco. «Non superavo il limite di velocità,» disse Haze. «Non lo superavi, infatti,» convenne l'agente. «Ero sul lato giusto della strada.>> «S'1, questo e' vero.» «Cosa vuole da me?» «La tua faccia non mi va a genio, ecco tutto. Me la mo­ stri, la patente?» «Neppure a me va a genio la sua faccia, e la patente non ce l'ho.» «Be',» fece l'agente con voce affabile, «non direi che hai bisogno d'avercela, te.» «Anche se ne avessi bisogno non ce l'ho.» «Ascolta,» disse l'agente, cambiando tono, «ti dispiacereb­ be portar la tua macchina in vetta a codesto poggio? Vorrei farti vedere il panorama da lassù, il panorama più magnifi­ co che si è mai visto.» Haze si strinse nelle spalle ma ripartì in salita. Era pronto a far a pugni con l'agente se era questo che lui voleva. Arri­ vò in cima al poggio con la macchina della polizia che lo seguiva a ruota. «E adesso girala di fronte all'argine,» gridò l'agente. «A questo modo potrai veder meglio.» Haze girò la macchina di fronte all'argine. «Adesso magari sarà bene che scendi,» continuò l'agente. «Credo che puoi veder meglio dal di fuori.» Haze uscì e diede un'occhiata al panorama. L'argine pre­ cipitava con un salto di oltre nove metri, uno strapiombo d'argilla rossa slavata, in un pascolo parzialmente bruciato dove una mucca nana solitaria era accovacciata vicino a 175

una pozzanghera. Verso la metà del fondovalle sorgeva un casolare d'una stanza con una poiana che se ne stava ingob­ bita sul tetto. L'agente andò dietro alla Essex e la spinse giù dall'argine e la mucca si alzò barcollando, attraversò il campo al galop­ po e disparve nel bosco; la poiana batté le ali e volò a rifu­ giarsi su un albero all'orlo della radura. La Essex atterrò ri­ baltandosi, con le tre ruote superstiti che giravano all'im­ pazzata. Il motore balzò fuori e rotolò a una certa distanza e vari altri pezzi si sparpagliarono all'intprno. > gli chiese quel giorno, mentre gli serviva il pranzo nella sua cucina, «per quale ragione cammina sui sassi?» «Devo pagare,» disse lui con voce aspra. «Pagare per cosa?» «La cosa in sé non fa differenza. Sto pagando.» «Ma dovrà ben farla vedere questa cosa dal momento che sta pagando per averla, no?» insisté la donna. «Pensi agli affari suoi,» ordinò il cieco con tono villano. «Lei non può vedere.» L'affittacamere continuò a masticare molto adagio. «Si­ gnor Motes,» disse a un certo punto con voce rauca, «crede che quando si è morti si è anche ciechi?» «Lo spero,» le rispose dopo un minuto. «E perché?» gli chiese, guardandolo fisso. Dopo un'altra pausa lui disse: «Se si hanno gli occhi senza fondo, contengono di più.» L'affittacamere mantenne a lungo lo sguardo fisso davan­ ti a sé, e non vide assolutamente nulla. Cominciò a concentrare tutta la propria attenzione sul cieco, a scapito d'ogni altra faccenda. Si mise a seguirlo nelle sue camminate, incontrandolo come per caso e accompa­ gnandosi a lui. E lui sembrava ignaro della sua presenza, tranne di tanto in tanto, allorché si schiaffeggiava la faccia quasi che quella voce lo molestasse, come il canto di una zanzara. Aveva una tosse cupa, asmatica, e lei cominciò a 187

punzecchiarlo a proposito della sua salute. «Signor Motes,» diceva, «non ha nessuno che l'assista all'infuori di me. Nes­ suno che abbia a cuore il suo interesse all'infuori di me. E nessuno si darebbe pena per lei se non lo facessi io.» Comin­ ciò anche a cucinargli delle pietanze saporite e a portargliele in camera. E lui mangiava quello che gli metteva davanti, immediatamente, storcendo la faccia, e le restituiva il piatto senza ringraziarla, come se tutta la sua attenzione fosse ri­ volta altrove e dovesse sopportare per forza di venir interrot­ to. Una mattina la informò bruscamente che intendeva prendere i pasti in un altro posto, e nominò il locale, una tavernetta oltre l'angolo della strada, gestita da un forestiero. «Un bel giorno se ne pentirà!» gli disse. «Si piglierà un'in­ fezione. Chi ha un briciolo di giudizio lì non ci mangia di certo. È un posto buio e sudicio. Il sudicio ci ha fatto la cro­ sta! f: lei che non può vedere, signor Motes!» «Pazzo scimunito!» bofonchiò dopo che se ne fu andato. «Aspetta che arrivi l'inverno. Dove mangerai quando arri­ verà l'inverno, quando il primo vento ti soffierà il virus den­ tro le midolla?» Non dovette attendere molto. Il cieco si prese l'influenza prima dell'inverno e durante un breve periodo fu troppo de­ bole per uscire e lei ebbe la soddisfazione di ricominciare a portargli i pasti in camera. Una mattina venne più presto del solito e lo trovò che dormiva, col respiro pesante. La ca­ micia vecchia che portava per la notte era spalancata sui petto e mostrava tre pezzi di filo spinato arrotolati intorno al torace. Indietreggiò fino alla porta e sulla soglia le sfuggì di mano il vassoio. «Signor Motes,» disse con voce strozzata, «perché diamine le fa certe cose? Non è naturale.» Lui si rizzò a sedere. «Che significa quel fil di ferro intorno al suo corpo? Non è naturale,» ripeté. 188

Dopo un secondo il cieco cominciò ad abbottonarsi la camicia. «E naturale,» disse.



«Insomma, non è normale. Sembra una di quelle storie che gelano il sangue nelle vene, son cose che la gente ha smesso di fare da un pezzo ... come per esempio bollire nell'o­ lio o essere santi o murare i gatti. Non c'è senso comune. La gente ha smesso da un pezzo di fare queste cose.» «Non ha smesso di farle visto che io le faccio.» «La gente ha smesso di farlo,» ripeté l'affittacamere. «A che scopo lo fa?» «Non sono pulito.» Lei restò immobile, guardandolo fisso, incurante dei piatti rotti ai propri piedi. «Me n'ero accorta,» disse dopo una pausa, «ha macchiato di sangue codesta camicia da notte e il letto. Dovrebbe prendersi una lavandaia ...» «Non intendevo questo genere di pulizia.» «C'è un genere solo di pulizia, signor Motes,» borbottò l'affittacamere. Chinò gli occhi e osservò i piatti che aveva rotto per causa sua e la poltiglia che adesso le toccava di raccattare e uscì dirigendosi al ripostiglio nel corridoio; tor­ nò dopo un minuto con la scopa e la paletta della spazzatu­ ra. «E più semplice sudar sangue che sette camicie, signor Motes, » sentenziò con accento di Sommo Sarcasmo. «Lei deve credere in Gesù, sennò non ne farebbe, di queste scioc­ chezze. Deve avermi mentito quando parlava di quel gioiel­ lino della sua chiesa. Non mi stupirebbe se è una specie di agente del papa o se ha le mani in pasta in qualche traffico strano.» «lo non tratto con lei,» disse il cieco, e si rimise a giacere, tossendo. «Non ha nessuno che l'assista all'infuori di me,» gli ricor­ dò la donna. Da principio si era prefissa di sposarlo e poi di farlo rico189

verare nell'istituto statale per i malati di mente, ma grado a grado aveva finito col decidere che una volta sposato se lo sarebbe tenuto per sé. Scrutare la sua faccia era diventata ormai un'abitudine; voleva penetrare la tenebra che c'era dietro e vedere per conto proprio cosa vi si celava. Sentiva di aver tergiversato fin troppo e di doversi prendere quell'uo­ mo finché era ancora debole, adesso o mai più. Era talmente debole, infatti, a seguito dell'influenza, che barcollava nel camminare; l'inverno era già cominciato e il vento sferzava la casa da ogni angolo, facendo uno strepito come di coltelli affilati che vorticassero in aria. «A chi ha giudizio non piacerebbe di certo trovarsi fuori in una giornataccia come oggi,» disse l'affittacamere, cac­ ciando improvvisamente la testa in camera del cieco a metà mattina d'uno dei giorni più freddi dell'anno. «Lo sente il vento, signor Motes? Buon per lei che ha questo posto dove stare al caldo e qualcuno che pensa ad assisterla.» Rendeva la voce più soave del solito. «Mica tutti i ciechi e tutti gli infermi sono così fortunati da avere qualcuno che si dà pena per loro,» soggiunse. Entrò e si mise a sedere sull'unica sedia ch'era accanto alla porta. Si sporse avanti dall'orlo della se­ dia, con le gambe aperte e le mani puntellate sui ginocchi. «Lasci che glielo dica, signor Motes, >> proseguì, «pochi uo­ mini sono fortunati quanto lei ma io non posso seguitare a salire queste scale. Sono sfinita. Ho pensato in che modo si potrebbe rimediare le cose.>> Il cieco era rimasto immobile nel letto ma ora si rizzò a sedere di scatto, come se stesse in ascolto, quasi come se lo avesse messo in allarme il tono di quella voce. «So che lei non se la sentirebbe di rinunziare alla sua camera qui,» disse la donna, e attese l'effetto delle proprie parole. Lui girò il volto verso di lei, e lei comprese di aver destato la sua atten­ zione. «So che qui si trova bene e non vorrebbe andarsene ed 190

è malato e ha bisogno di qualcuno che l'assista oltre al fatto che è cieco,» disse, e scoprì di avere il fiato mozzo e il cuore che cominciava a palpitare. Lui allungò il braccio fino ai piedi del letto e cercò a tastoni gli abiti che teneva arrotolati laggiù. Prese a indossarli in fretta sopra la camicia da notte. «Ho pensato come si potrebbe sistemare la faccenda in mo­ do che lei avrebbe

un

suo cantuccio stabile e qualcuno per

assisterla e che io non sarei obbligata a salire queste scale, perché mai si veste proprio oggi, signor Motes? Manchereb­ be altro che volesse uscire col tempaccio che fa. «Ci ho pensato sopra,» proseguì sorvegliandolo mentre continuava ad armeggiare con gli abiti, «e capisco che c'è un solo sistema che andrebbe bene a lei e a me: sposarci. lo non lo farei mai in condizioni ordinarie però lo farei per un cieco e un malato. Se non ci aiutiamo fra noi, signor Motes, non c'è nessuno per aiutarci,» disse. «Nessuno. Il mondo è un

posto vuoto.''

Il vestito ch'era stato di un turchino abbagliante al mo­ mento dell'acquisto ora aveva preso una sfumatura più te­ nue. Il panama bianco era diventato color del grano. Quan­ do lui non lo indossava lo teneva sul pavimento accanto alle scarpe. Trovato che l'ebbe se lo mise e poi cominciò a calza­ re le scarpe che erano ancora imbottite di sassi. «Nessuno dovrebbe essere senza un posto tutto suo,,, rico­ minciò l'affittacamere, «e io sono pronta a darle un cantuc­ cio stabile qui insieme a me, un posto dove potrà rimanere per sempre, signor Motes, e non aver mai motivo di cruc­ ciarsi.» Il bastone posava sul pavimento vicino al punto dov'era­ no state le scarpe. Il cieco trovò anche quello e poi si alzò e prese a camminare lentamente verso la donna, che disse: «Io, signor Motes, ci ho un posto per lei nel mio cuore,» e nel dirlo sentì che il suo cuore tentennava come la gabbia di 191

un uccello; non capì se lui stesse andandole incontro per ab­ bracciarla o per altro. Le passò davanti, inespressivo, uscì dalla porta, entrò nel corridoio. «Signor Motes!» gridò lei, girandosi bruscamente nella sedia, «io non posso permetter! e di restar qui a condizioni diverse. Non posso salire queste scale. Non voglio nient'altro che aiutarla. Non ha nessuno che l'assista all'infuori di me. Nessuno che si curi se vive o se muore all'infuori di me! Nessun altro posto dove stare all'in­ fuori del mio!» Intanto il cieco cercava il primo gradino col bastone. «Oppure avrebbe intenzione di trovarsi una camera in un'altra casa?» gli chiese con voce man mano più stridula. «Forse avrebbe intenzione di andare addirittura in qualche altra città!» «Non sto andando in nessuna delle due,» disse lui. «Non c'è un'altra casa e nemmeno un'altra città.» «Non c'è nulla, signor Motes, e il tempo cammina in avanti, mica all'indietro, e se lei non accetta quello che le si offre, si ritroverà fuori nel buio pesto e freddo e fin dove s'il­ lude di poter arrivare?» Il cieco tastava ogni gradino col bastone prima di posarvi sopra il piede. Quando arrivò in fondo alle scale la donna gli gridò dall'alto: «Non c'è bisogno che torni in un posto che disprezza, signor Motes. La porta non si aprirà per lei. Venga pure a riprendersi la sua roba e poi se ne vada dove le pare e piace.» Si trattenne a lungo in cima alle scale. «Ec­ come se tornerà,» borbottò. «Aspettiamo che il vento gli bu­ chi un pochino le ossa.» A tarda sera sopraggiunse una pioggia gelata sferzante e mentre giaceva a letto, ancora sveglia a mezzanotte, la si­ gnora Flood, affittacamere, si mise a piangere. Avrebbe vo­ luto correr fuori nella pioggia e nel freddo e dargli la caccia 192

e scovarlo raggomitolato sotto qualche riparo di fortuna e riportarlo indietro e dire: signor Motes, signor Motes, può rimanere qui per sempre, o sennò ce ne andremo tutti e due dove lei sta andando, ci andremo tutti e due. Aveva vissuto una vita dura, senza dolore e senza gioia, e sul punto d'ini­ ziarne l'ultima parte riteneva di meritarsi un amico. Se da morta fos�e stata cieca, chi poteva guidarla meglio d'un cie­ co? Chi poteva accompagnare il cieco meglio d'un cieco, che già sapeva cosa volesse dire? Non appena fu giorno, uscì nella pioggia e perlustrò i cin­ que o sei isolati che gli erano noti e andò di porta in porta a domandare di lui, ma nessuno lo aveva visto. Tornò a casa e telefonò alla polizia e lo descrisse e chiese che venisse rin­ tracciato e ricondotto da lei perché doveva pagarle l'affitto. Attese tutto il giorno che glielo riportassero nella macchina della polizia oppure che ritornasse di suo, ma lui non venne. Persistevano il vento e la pioggia e lei si disse che ormai era probabilmente annegato in qualche vicolo. Prese a cammi­ nare su e giù in camera sua, a passo svelto, sempre più svel­ to, pensando a quegli occhi senza fondo e alla cecità della morte. Due giorni dopo, due giovani agenti che pattugliavano la zona a bordo d'una macchina della polizia lo trovarono di­ steso in una fossa di scolo vicino a uno stabile abbandonato in via di costruzione. Il conducente portò la macchina fin sull'orlo della fossa e guardò lì dentro per un certo tempo. «Non stiamo cercando uno ch'è cieco?» domandò. L'altro consultò un notes. «Cieco e ha un vestito turchino e non ha pagato l'affitto,» disse. «Eccolo laggiù,» e il primo accennò nella fossa. Il suo compagno gli venne più accosto e si affacciò al finestrino an­ che lui. «Il vestito non è mica turchino,» osservò. 193

«Sì che lo è,» ribatté il primo agente. «E piantala di spin­ gerti così addosso a me. Scendi e ti farò vedere io se non è turchino.» Scesero e girarono intorno alla macchina e si ac­ covacciarono sull'orlo della fossa. Portavano entrambi gli stivaloni nuovi e anche la loro divisa era nuova; avevano en­ trambi i capelli gialli e le basette ed erano grassi entrambi, ma uno era molto più grasso dell'altro. «Può essere che tempo fa il suo vestito era turchino,» ammise il più grasso. «È morto secondo te?» domandò il primo. «Vagliel'a chiedere a lui.» «No che non è morto. Si muove.» «Forse è solo incosciente,» disse il più grasso, tirando fuori lo sfollagente nuovo. Lo osservarono per pochi secondi. La sua mano si spostava lungo l'orlo della fossa, quasi stesse in­ seguendo qualcosa da ghermire. In un rauco bisbiglio l'uo­ mo domandò dove si trovava, e se era giorno o notte. «È giorno,» rispose il meno grasso, guardando il cielo. «E noi si deve riportarla a casa perché ha da pagare l'affitto.» «Voglio andare dove sto andando,» disse il cieco. «Prima però bisogna che paghi l'affitta,» ripeté lo sbirro. «Che sputi i quattrini uno sull'altro.» Il suo compagno, accortosi che l'uomo era cosciente, lo colpì sul capo con lo sfollagente nuovo. «Non vogliamo aver delle grane con lui,» disse. «Piglialo per i piedi.» Morì nella macchina della polizia ma quelli non se ne av·· videro e lo trasportarono alla casa dell'affittacamere. Lei lo fece deporre sul proprio letto, e dopo averli spinti fuori dal­ l'uscio, lo sprangò alle loro spalle e avvicinò al letto una se­ dia e sedette accanto alla sua faccia per potergli parlare. «Sicché, signor Motes,» disse, «vedo che è tornato a casa!» La faccia era austera e tranquilla. «Sapevo che sarebbe tornato,» continuò la donna, «e sono rimasta ad aspettarla. 194

E non ha più bisogno di pagare l'affitto ma avrà tutto gratis, e starà dove preferisce, al piano di sopra o al terreno. Pro­ prio come vorrà lei e con me per assisterla, oppure se deside­ ra andare in qualche altro posto, ci andremo tutti e due.» Non aveva mai osservato la sua faccia più composta che in quel momento e gli afferrò la mano e se la tenne sul cuo­ re. Era inerte e secca. Sotto la pelle risaltava nitido il contor­ no d'un teschio e le occhiaie fonde bruciate sembravano con­ durre nel tunnel buio dove lui era sparito. La donna si chinò quasi rasente alla faccia, scrutando quelle orbite sempre più addentro, tentando di vedere com'era stata truffata o che cosa l'aveva truffata, però non riuscì a veder nulla. Chiuse gli occhi e vide il puntino di luce ma a lontananza così re­ mota che non poté trattenerlo saldo nella mente. Ebbe il senso di venir bloccata davanti all'ingresso di qualcosa. Ri­ mase a guardar fisso, a occhi chiusi, negli occhi di lui, e le parve di essere finalmente arrivata all'inizio di quel qualco­ sa che non aveva saputo iniziare, e vide lui che si allontana­ va sempre di più, che s'inoltrava sempre di più nel buio fin­ ché fu il puntino di luce.

195

Postfazione «Nessuno prestava attenzione al cielo>>

l. Flannery O 'Connor: fisionomia di una mens cristiana Flannery O'Connor è uno dei problemi indubbiamente aperti della letteratura contemporanea. La sua grandezza

è ancora motivo d'imbarazzo per molti. Fosse un po' me­ no grande, la si potrebbe sistemare nel loculo degli scrit­ tori sudisti, oppure di quelli cattolici, v isto che Flannery fu l'uno e l'altro, e quindi può figurare sia tra i nipotini di Faulkner che tra quelli di Bernanos. Nell'infinita sete di menzogna che ci tormenta, vorremmo attribuire un po' a tutti la sorte del nipotino: nipotini di Gadda, nipo­ tini di Faulkner, nipotini di Paperino. Ma una che osò affermare di scrivere non sta bene nemmeno nella lista dei

perché cattolica cattolici. È troppo.

Seguire il suo pensiero significa uscire dal sentiero di una letteratura rassicurante, edificante - in una parola: dal sentiero di una letteratura etica - per entrare in una giu­ risdizione nella quale non si hanno più garan.zie, dove le anime sono nude, esposte a ogni vento: la giurisdizione dell'essere. O, come la chiama Flannery: il territorio del diavolo. Questo passaggio da «essere» a «diavolo» è uno dei tratti caratterizzanti il suo genio. E proprio per questo chi la legge deve fare i conti con il suo cattolicesimo. Scrive Luigi Giussani:

197

I dieci comandamenti rappresentano[ ... ] un'espressione ge­

niale che la Bibbia dà di tutta una lettura dettagliata del rapporto che l'uomo stabilisce con se stesso e con la realtà, agendo con la coscienza della grande presenza del Mistero [ ...] Ma la predicazione, anche nella Chiesa, normalmente, novanta volte su cento, si attarda su richiami etici: è doveri­ stico, più o prima che attraente, il modo in cui tutti parlano di Dio [ ... ]. Raramente esso s'incentra su notazioni psicolo­ giche ed estetiche, le quali derivano da considerazioni di ti­ po antologico[ ... ]Nella vita della Chiesa questa esteticità è concretata e incarnata nella realtà liturgico-sacramentale.

La scrittrice americana avrebbe sottoscritto punto per punto queste parole, che descrivono la

mens

cristiana.

È

celebre l'aneddoto, da lei stessa riferito, di quando, ospite nella poco amata New York in casa di Mary McCarthy, as­ sistette senza fiatare a una discussione sul cattolicesimo durante la quale la McCarthy riferì l'opinione comune­ mente condivisa secondo cui il sacramento è un simbolo. E qui Flannery aprì finalmente bocca per dire soltanto: «Be' se è un simbolo può anche andare al diavolo.» Flannery O'Connor non scrive per comunicarci tor­ menti morali, turbamenti nella tensione del dover-essere o av venture (e disav venture) determinate dalla necessità di una coerenza e tica. Niente a che vedere né con l'In­ nominato, né con il Curato di campagna. I drammi che questa terribile donna ci racconta tutto sono meno che la documentazione di una lotta tra le tentazioni monda­ ne e la necessità di aderire al Vangelo. Quando dice di scrivere

perché cattolica, intende dire che, in lei, la scrittura coincide con il suo cattolicesimo. Nella sua bella introduzione ai racconti (Tutti i racconti, Bompiani 200 l), Marisa Caramella sostiene che «quelle della O'Connor non sono rappresentazioni realistiche 198

della vita sociale in cui è nata e vissuta». Forse le cose non stanno esattamente così. Forse siamo noi che chia­ miamo «realismo» una semplice corrispondenza di rap­ presentazioni: quella di un autore con la nostra. Ma que­ sto fa parte dell'elemento, se mai, illusionistico della let­ teratura, della tecnica con cui si produce un determinato effetto-realtà in un lettore a noi omogeneo. Il realismo è problema molto più complesso: per rendercene conto, basterebbe domandarsi quale rappresentazione della li­ bertà noi consideriamo «realista». Hemingway consumò la vita su questo interrogativo. Per Flanner y O'Connor, a ogni buon conto, il cattolice­ simo è la forma stessa del mondo fisico: non si sovrappo­ ne a esso, non è una chiave interpretativa del mondo, non è un modo di vedere il mondo, non è una weltanschauung: è il mondo così com'è, tanto che in lei dire «cattolicesimo»

equivale a dire «realismo»». Questo non significa che la salvezza sia garantita, che il lieto fine sia assicurato. Essere cattolici significa, ad e­ sempio, sapere che il mondo è immerso nel Maligno, an­ che se non fu creato dal Maligno, e che perciò la norma­ lità delle cose umane (ma anche delle cose in generale) reca il segno riconoscibile, visibile a occhio nudo, di una deviazione, di una modificazione negativa. Noi viviamo in un mondo modificato, e quella che chiamiamo la no­ stra coscienza naturale è anch'essa partecipe di tale mo­ dificazione - ne fa parte, non se ne stacca, e perciò non può conoscerla. La dottrina della Chiesa la chiama Pec­ cato Originale. Ma è dottrina in quanto esperienza di fat­ to: provata e criticamente vagliata.

È dunque necessario uno sguardo a questa deviazione che sia consapevole, e lo sguardo consapevole non esiste in natura, perché la natura appartiene a quella deviazio199

ne. Lo sguardo vero, lucido, razionale nasce dalla Gra­ zia. Flannery O'Connor è una scrittrice disturbante per­ ché sostiene che non si può essere realisti se non si è toc­ cati dalla Grazia, ossia se non si è cristiani cattolici. Ma lo sguardo della Grazia, per realizzarsi in questo mondo - ossia stilisticamente - assume la forma dell'iro­ nia. Sentimenti, rapporti, passioni subiscono perciò, nei racconti della O'Connor, il vaglio dell'ironia più taglien­ te. Pietro Citati la chiamerebbe «crudeltà di stile». Ora, la crudeltà, che è uno dei pregi dei veri narratori, e che Flannery possiede in abbondanza (anche se non sempre è crudele là dove appare tale), è uno strumento delicato, di uso dif f icile. Il rischio più frequente è quello di credere che la crudeltà faccia letteratura. La crudeltà come scopo è una moda letteraria recente - simile a quella, più vecchia di qualche anno, della memoria, quando un numero preoccupante di scribacchini si af­ facciavano nel salotto delle lettere esibendo ricordi d'in­ fanzia, nonne, credenze odorose di biscotti vecchi, case delle vacanze dalle coperte umidicce d'inverno, sorelline morte. Allo stesso modo, esibire i piccoli e grandi orro­ ri dei propri personaggi può essere un espediente di suc­ cesso, ma non è ancora letteratura. In Flannery O'Connor, viceversa, la crudeltà è legata innanzi tutto alla Grazia e, in secondo luogo, all' espe­ rienza che noi facciamo della Grazia. «Nascendo cattoli­ co, ricevi qualcosa di dato e accettato prima di farne e­ sperienza. Io sto arrivando solo per gradi a fare espe­ rienza delle cose che accetto da sempre [ ... ]. La convin. zwne senza espenenza genera asprezza.» .

Non è uno sfoggio qualsiasi, non è un anti-buonismo così desolatamente uguale al buonismo che dice di_ com­ battere. Diciamo pure che la Grazia è crudele, così cru200

dele da apparire un peggioramento dell'uomo. La storia di Wise Blood è una storia di Grazia, anche se dubito che a qualcuno dei lettori, me compreso, piacerebbe ricevere questo genere di Grazia: il protagonista è, infatti, sostan­ zialmente un uomo attratto, suo malgrado, dalla cecità e dall'infermità, un uomo guidato dall'oscura obbedienza a un appuntamento - possiamo ben dire «al buio» - con Dio. Quello che può apparire un atto di autodistruzione (perseguito con tipica testardaggine sudista, la stessa di molti personaggi di autori sudisti, da Faulkner a Capote a McCullers) è in realtà un rendiconto a Dio, un'autoim­ molazione realizzata secondo il codice violento che è il solo capace di creare scandalo tra lettori che «pensano che Dio è morto», come scrisse la stessa O'Connor. Flannery era una scrittrice molto accorta. Ehbe in vita un buon successo, e anche dopo la sua morte prematura a causa di un lupus contratto in gioventù, seguitò a essere una scrittrice cult. Gli americanisti d'Italia, viceversa, la snobbarono per molti anni: troppo cattolica. Così cattoli­ ca che non si può considerare la sua arte senza fare i con­ ti col suo cattolicesimo, sul quale, con perfido amore, c'invita inesorabilmente a prendere posizione.

2. Che cos'è «la saggezza del sangue»? Il romanzo si apre con il protagonista, Hazel Motes, se­ duto in una carrozza ferroviaria. Il treno è un personag­ gio ingombrante nella narrativa sudista e in quella di Flannery O'Connor in particolare. La sua consistenza ve­ terotestamentaria rinvia direttamente al concetto di Mi­ stero (significativamente, anche I.B. Singer, in In My Father's Court, usa l'immagine del treno con la stessa va-

201

lenza simbolica). Il treno ha un ventre- curiosa e indica­ tiva la predilezione di Flannery per le carrozze-ristoran­ te, qui .come nel capolavoro The artificial Nigger

-

, ed è

diviso in zone franche, zone destinate al pubblico e zone vietate, e la sua struttura ricorda quella di un tempio. Una signorina intrigante e stupida, ma forse un ange­ lo, rivolge ad Haze la domanda-chiave: «Lei torna a casa?» In effetti, Hazel Motes sta tornando a casa, però non lo sa ancora. «Vado a Taulkinham», risponde Haze. Poi precisa: «lo non sono di Taulkinham. Ho detto che ci vado, punto e basta.» Haze pensa di non avere un luogo dove tornare. Le immagini della sua casa, e di sua madre in quella casa, sono tanto rapide quanto desolanti. Haze non ha voglia di pensare alla sua casa, ma soltanto alla sua missione: li­ berare l'uomo, come direbbe Rimbaud, dalla schiavitù del proprio Battesimo. Haze si reca infatti in città per fondare una nuova Chiesa, la Chiesa Senza Cristo. Qui incontra un predicatore cieco che in realtà non è cieco, ma neppure finge di esserlo: aveva cercato di acce­ carsi con la calce, ma non c'era riuscito. Questo incontro i­ natteso imprime una curvatura nella vicenda di Hazel Motes, il quale vorrebbe realizzare una religione astratta, matematica, capace di filar dritta come un'automobile (salvo scoprire che anche per un'automobile è difficile fi­ lar dritto), mentre diviene sempre più prigioniero di quel­ l'incontro e del senso che intravede nell'azione di quel­ l'uomo. Attraverso il proprio rifiuto di Cristo - che è, tut­ tavia, un rapporto molto serrato con Cristo («Non vuoi nient'altro che Gesù!}}, lo rimprovera la sua giovane a202

mante) - egli giunge al rendez-vous con Dio, compiendo così, bizzarramente, la promessa cristiana. Il titolo del romanzo è tipico del metodo, o se voglia­ mo della strategia letteraria, di Flannery O'Connor. Un esempio dell'accortezza di cui si diceva. Chi possiede la saggezza del sangue? Forse tutti?

È un'i­

potesi gradevole. Se così fosse, si tratterebbe di un trave­ stimento cristiano di un pensiero rousseauiano - in altre parole: esisterebbe in noi un istinto buono, una natura buona capace di condurci inesorabilmente verso la verità. Nessuno, in realtà, è più violentemente anti-rousseauia­ no della O'Connor. Anche se lei - ancora una volta: con amorevole perfidia - sembrerebbe in qualche modo voler incitare proprio questa ipotesi. Al lettore non sfuggirà in­ fatti come questo «sangue saggio», che identifica in toto la drammatica, bizzarra avventura di Hazel Motes, venga però attribuito dalla scrittrice, nel testo, più a un altro personaggio - Enoch Emery - che a lui. In effetti, c'è in Enoch una confusa percezione del cuore del problema, che si potrebbe riassumere nel se­ guente aut-aut: o Cristo o la scimmia. Il suo nome rinvia a quello del settimo patriarca, che fu uomo giusto «che camminava con Dio» e al quale Dio non fece conoscere la morte, assumendolo in cielo. Enoch fu anche padre di Matusalemme. Il Siracide gli dà un posto importante nella creazione: «Nessuno fu creato sulla ter­ ra eguale a Enoch; difatti egli fu rapito dalla terra» (Si­ racide

49,14). Nella Lettera agli Ebrei il motivo di questa

predilezione divina viene individuato nella fede: «Per fe­ de Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte. [ ... ] Prima infatti di essere trasportato via, ricevet­ te la testimonianza di essere stato gradito a Dio. Senza la fede però è impossibile essergli graditi» (Ebrei 203

11,5-6).

Anche il nostro Enoch, dapprima seguace di Hazel, si sente un eletto. Ma sarà una finta pelle di gorilla a sot­ trarlo alla terra. Che si tratti di un rito, non c'è dubbio. Lo spogliarello con il quale Enoch si priva - appuntodelle spoglie terrene, ossia i suoi abiti da uomo, presen­ ta questo carattere solenne. Enoch identifica Dio con le origini, il suo >, «opera di costruzione», «attenziol)e». Cominciamo da «attenzione». In Wise Blood c'è anche chi potrebbe guardare il cielo. Due fidanzati stanno se­ duti ad ammirare il panorama notturno della loro città, ma soprattutto ad ammirare il reciproco amore di pa­ glia, che Enoch Emery, travestito da gorilla, sta per spaz­ zare via. A loro non salta nemmeno in mente di guarda­ re il cielo: ma, se non guardano il cielo, cosa fanno? A­ spettano, semplicemente, che tutto finisca. I comignoli e le cime quadrate degli edifici formavano un muro nero irregolare contro il cielo più chiaro e qualche guglia sparsa tagliava un nitido cuneo da una nuvola. Il gio­ vanotto girò il collo giusto in tempo per vedere il gorilla rit­ to a pochi passi da lui, orrido e nero, con la zampa protesa. Liberò il braccio che cingeva la donna e si dileguò silenzio­ samente nei boschi. La sua compagna, appena ebbe voltato gli occhi, fuggì strillando lungo la statale.

Di fronte all'enorme pagliacciata di Enoch (che peral­ tro è conv into di star compiendo l'azione più seria del mondo), l'uomo semplicemente «libera il braccio» e se ne va nei boschi senza curarsi di lei, che a sua volta fug­ ge via in altra direzione. Ai due accade esattamente ciò che attendevano: la fine. Sembra che «prestare attenzione al cielo» non signifi­ chi, per Flannery, ammirare il cielo, e nemmeno accon­ tentarsi di lasciarsi invadere da pensieri profondi, per va­ si di sentimento religioso (ma comunque generico). L'at­ tenzione al cielo si lega in modo imprevedibile ma tutt'altro che illogico a tre parole tratte dal linguaggio dell'edilizia: «puntellato», «opera di costruzione» e «im­ palcature». Significa che Dio non ha semplicemente creato il mondo: lo sta creando ora.

212

Questo rinvio dall'oggetto (o dal personaggio) osser­ vato al suo essere originato, prodotto da un'opera che è in atto, che porta scritto un compimento ma che non è compiuta, marca la distanza tra Flannery O'Connor e i suoi lettori. Cosa intende dire, la scrittrice, quando afferma che i suoi lettori sono gente che crede che Dio sia morto? Non penso che le interessi il pedigree religioso dei suoi letto­ ri, e non sembra che, da questo novero, Flannery inten­ da escludere i cattolici. Molti suoi lettori erano (e sono) cattolici, ma anche loro provavano e provano, davanti al­ le opere della O'Connor, lo stesso spaesamento. Anche loro appartengono alla schiera di coloro che credono che Dio sia morto.

E allora che significa questa affermazione? Significa che è completamente scomparso un atteg­ giamento dell'io di fronte alla realtà capace di trattene­ re - dentro l'esperienza delle cose - l'ipotesi razionale del­ la realtà di Dio. Si sta davanti alle cose e basta. Taluni ne ricavano pensieri religiosi, talaltri no, ma il modo di star davanti è lo stesso. Nel caso dell'uomo religioso moderno, del moderno credente, Dio è, normalmente, il punto fina­ le di un'elevazione spirituale, che parte dalle cose e giun­ ge a Lui: 'non un giudizio razionale, come invece pensa Flannery, lettrice amantissima di san Tommaso d'Aquino. Possiamo pensare - magari anche senza ammetterlo che Dio abbia creato il mondo ma che, successivamente, sia morto. Affermare, viceversa, che Dio è vivo non vuoi dire semplicemente ritenere che il mondo sia stato crea­ to, ma che l'esperienza della realtà coincida, in qualche modo, con l'esperienza della creazione in atto. Facta

sunt, mutantur enim scrisse sant'Agostino in quella che ri­ mane la formulazione più sinteticamente perfetta del

213

creazionismo. Ens ut actus, rincara san Tommaso. L'e­ sperienza delle cose si identifica con l'esperienza del lo­ ro esser-fatte ora.

È nell'ora,

nel nunc, che l'eterno incide

il tempo. Questo (perlomeno) vuoi dire credere che Dio sia vivo e non morto. Un simile tipo di sguardo costituisce il tessuto del rea­ lismo o'connoriano: il non poter estirpare dal proprio sguardo sul presente questo fattore di creazione. Tutti i personaggi delle sue opere, positivi o negativi che siano, entrano nelle sue pagine portando il marchio di questo stupore originario. Essi sono: prima di avere una psicolo­ gia, prima di rappresentare un certo carattere, prima di elevarsi a emblemi di questo o di quello, in essi risplende un'esistenza che la scrittrice non tocca, !asciandola intat­ ta dall'inizio alla fine del racconto, a dispetto delle av­ venture che la sorte riserverà loro e a dispetto persino della loro dissipazione o pochezza morale. Tant'è che il personaggio più spaventoso di tutta l'opera della O'Con­ nor, ossia il Balordo di A Good Man Is Hard to Find, è de­ finito, al culmine della tragedia, con la parola «figlio». Questa verginalità dello sguardo non ha nulla a che ve­ dere con il sentimentalismo. Conservare un senso della creaturalità è possibile solo conservando un distacco tra noi e le cose, un distacco che è sempre critico e può (e deve) essere spesso e volentieri molto ironico, magari fe­

rocemente ironico - mentre il sentimentalismo è l'ottusa a­ bolizione di quel distacco. Solo il realismo, nel contesto estetico cui appartiene Flannery, può fornire gli stru­ menti narrativi e concettuali adeguati a mantenere il creazionismo in un clima cristiano. Se anche io ottenessi la più splendida delle affermazioni o ricevessi il più i­ nimmaginabile degli onori, il realismo cristiano mi ob­ bligherebbe a mantenere ferma la coscienza della mia

214

miseria e del mio bisogno. Così avviene in Flannery, do­ ve creaturalità da un lato e abiezione, stupidità, inde­ gnità (in una parola: storia) dall'altro si mantengono strettamente connessi. La bellezza è qualcosa che si rive­ la, comunque, in un essere che è caduto. d) Postilla. Questo è, dunque, il correlativo antropologico, il tam­ buro dentro il quale corre la scala ascendente della nar­ rativa o' connoriana: da un lato la discontinuità, il reciso non-determinismo etico, dall'altro un forte senso della

creaturalità, di una realtà cioè che consiste, qui e ora, del proprio esser-fatta, e che la scrittrice non tocca mai. Ho cercato di osservare come ciascuno dei due elementi tro­ vi nell'altro la propria immagine rispondente. Il lettore non esercita mai alcun controllo sui racconti di Flannery. Non c'è, tra la scrittrice e i lettori, alcuna complicità, il lettore non sa mai in anticipo cosa succe­ derà o cosa potrà succedere, i ventagli di ipotesi sono inu­ tili. Non esiste una normalità su cui contare, poiché nel mondo della libertà - il solo che interessi a Flannery non esiste alcuna norma. Le azioni più iperboliche non rappresentano perciò uno scarto rispetto a una norma. Andare al cinema, de­ nudarsi in un bosco e vestirsi da gorilla, rubare un cime­ lio preistorico in un museo, uccidere un uomo, consu­ mare una notte con una prostituta, procurarsi la cecità sono, sotto un certo punto di vista, tutte azioni paritarie, perché alla O'Connor preme mostrare come in ogni i­ stante ciascuno sia perfettamente libero di seguire il pro­ prio ideale, e come l'immagine del mondo, dei nessi cau­ sali, del bene e del male, della giustizia e dell'affettività

215

che ciascuno di noi ha, siano non già originari in sé, ben­ sì un esito di questa tensione originaria. Come nel memorabile incipit del racconto Good Country People: «Oltre all'espressione "in folle" di quando era sola, la signora Freeman ne aveva altre due: "marcia avanti" e "marcia indietro", che usava in tutti i suoi rapporti col mondo.» Un'osservazione, questa, che nel resto del rac­ conto non sarà più usata, ma che a Flannery interessa non per caratterizzare un personaggio (in tal caso, se ne do­ vrebbe fare una specie di tormentone ) bensì per imposta­ ,

re l'intero racconto, che di quell'apparente notazione di carattere è la conseguenza matematica, trattandosi di una storia riguardante il "cristianesimo moderno". Dio non dà norme prima dell'esperienza. Se mai, Egli è la norma, ma solo in quanto fattore interno alla tensione o­ riginaria della libertà. La totale alterità di Dio è un fattore totalmente interno all'esperienza. Per Flannery, il cattoli­ cesimo è questo. In Wise Blood i diversi rappor ti col mondo, e quindi i diversi moti della libertà, si realizzano in due f lessioni di­ stinte e altrettanto fondamentali, che corrispondono ai due personaggi fondamentali del romanzo.

Conclusione Nonostante un'inattualità di cui, se fosse tra noi, an­ drebbe molto f iera, Flannery O'Connor rappresenta u­ gualmente un paradigma fondamentale per lo scrittore di oggi. Ci pensavo mentre mi sorgeva un balzano ma forse non improponibile paragone tra Wise Blood e I demoni di Fedor Dostoevskij. I punti di contatto tra i due libri sono

216

più d'uno. Nei due romanzi si parla di città in cui giun­ gono persone intenzionate a diffondere un credo. Nei due romanzi è affrontato il tema dell'ateismo nelle sue diverse e fondamentali sfumature (il capolavoro dostoev­ skjiano ne offre tre: quella di S tavrogin, quella di Kiril­ lov e quella di Petr Verchovenskij, così come tre ne pre­ senta Flannery, attraverso le figure di Haze, di Enoch e dell'affittacamere). I nfine, è ne I demoni che si parla del gorilla- per bocca di Kirillov- in termini che potrebbe­ ro aver ispirato Flannery (la quale, com'è noto, conosce­ va bene Dostoevskij). Non voglio, naturalmente, insistere su questo paralle­ lismo.

È abbastanza sorprendente, però, che a quaranta­

cinque anni dalla sua prima edizione Wise Blood conser­ vi una rude forza di scontro, di scandalo, di sfida, che il lettore odierno non può non av vertire. E che lo scandalo si nutra di temi e immagini- di qui l'esempio de I demo­

ni - che non sorgono dal nulla, ma appartengono, in modo documentabile, alla storia della letteratura. Si potrebbe dire che, quanto più uno scrittore è auten­ ticamente originale, tanto più è capace di attingere al pa­ trimonio della tradizione, e che perciò l'originalità è una condizione necessaria proprio per dar corpo alla tradi­ zione. Ciò che sorge dal nulla, viceversa, è, a sua volta, nulla, perché in letteratura le novità sono meno nume­ rose che nella vita, e i figli sono come i padri. E in que­ sto non c'è niente di inspiegabile. Il nulla infatti, come il male di cui parlava H. Arendt, è banale: mentre il vero mistero è l'essere, il bene. Perciò la letteratura è tradizione - e canone, e anti-ca­ none-: perché essa consiste essenzialmente nella conser­ vazione di un misterioso patrimonio, di un non-nihil e­ mergente nello stupore di chi lo ritrova ripercorrendo le

217

pagine di Omero, di Platone, di Virgilio, di Seneca, di Dante, di Shakespeare, di Dostoevskij, f ino a Flannery O'­ Connor e oltre. Le epoche di crisi della letteratura - ed è possibile che la nostra sia una di queste - sono epoche di continui inizi, piene di modelli mentali, di riferimenti i­ potetici ma senza una vera linea riconoscibile. E sono an­ che epoche caratterizzate da una sconfortante mancanza di originalità. L'originalità è il legame con l'origine. Lo scandalo (ma anche il conforto) della letteratura viene da lì. Nessun editore accetterebbe, oggi, un libro come Wise

Blood. Non per i suoi contenuti: non usa più la censura a questo livello, però la censura esiste sempre, ed è sempre la stessa censura, che prima che uno strumento di regi­ me è una forma endemica di autodifesa. Wise Blood sa­ rebbe respinto per ragioni non tematiche, bensì narrati­ ve (o narratologiche), quelle ragioni non si sa se lettera­ rie o editoriali grazie alle quali si scrivono libri scorre­ voli, interessanti nell'ideazione, av vincenti nel plot, ben strutturati nella forma e tendenzialmente tutti uguali, senza quel pizzico di follia (almeno quella!) che invade tanti capolavori. La storia della letteratura, viceversa, è piena di opere come Wise Blood. Personalmente, credo che un modo privilegiato, oserei dire il principale, di entrare nell'attualità, sia quello di opporvisi. Ma si oppone solo chi si pone, cioè chi è qual­ cosa. L'essere è atto - direbbe Flannery, in accordo con san Tommaso - e l' actus essendi, al cospetto della chiac­ chiera mondana, si presenta negli abiti dell'inattualità. Uno scrittore può essere mosso da ragioni di vanità, può ricercare il successo a tutti i costi, il consenso dei po­ tenti, la fortuna editoriale, la lode dei recensori, può rin­ correre la moda e commettere mille altri peccati peggio-

218

ri di questi. Ma, se è uno scrittore, è inevitabile che gli an­ ni, la brevità dei successi, la durevolezza dei dolori, la fre­ quenza delle delusioni (che talvolta si annidano proprio dentro il vuoto della gloria) lo conducano verso ragioni più essenziali. Scrivere o, meglio, fare letteratura, conti­ nuandone la tradizione, è un modo come un altro per cercare di conoscere il proprio volto - un volto che è ine­ vitabilmente ferito, poiché è proprio la consapevolezza della ferita ciò che muove la ricerca. Molto si è discusso se Flannery O'Connor sia da con­ siderarsi una scrittrice realista o no. Ma è probabile - a meno che realista non sia solo chi aderisce a una deter­ minata corrente filosofica- che questo sia un falso pro­ blema. Ciò che è più importante è la capacità di perpe­ tuare, attraverso l'arte, uno scandalo che viene ùa lonta­ no, e che secondo me (e secondo Flannery O'Connor) coincide con quel volto ferito. Per qualcuno, poi, risulta evidente il fatto che nella de­ finizione di quel volto entri, come fattore imprescindibi­ le, il cristianesimo nella sua forma cattolica e romana. Il bellissimo racconto Parker'Back rappresenta la grande battaglia tra un Dio che ha assunto un volto e ama i volti umani (quello del peccatore Parker) e un Dio senza volto che disdegna i volti umani (quello della pura- e bruttamoglie di Parker). Chi vince, nel racconto, è la moglie, fautrice di un Dio brutto ma puro e non contaminato dal sangue e dalla polvere: il dio dell'utopia. Ma noi sappiamo che il cuore di Flannery batte solo per Parker, che nella sua miseria non poteva concepire un Dio senza un volto, e quando ritenne di averlo trovato - per quella «saggezza del san­ gue» di cui anche lui era pieno- se lo fece tatuare sulla schiena: che, nella Bibbia, rappresenta Dio stesso che si 219

mostra all'uomo (Mosè) non diret tamente, ma- appun­ to- solo di spalle, ossia attraverso le conseguenze v isibili della propria esistenza. Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo [ ... ] Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano fin­ ché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere (Esodo

33,20-23).

Se però il volto di Dio non è v isibile, quello di Mosè div iene raggiante. Anche lui, in qualche modo, trattiene il volto di Dio tatuato sulla schiena. La ragione per cui Flanner y O'Connor continua a es­ sere un problema aperto sta probabilmente in questo: non tanto nell'essere cattolica, quanto nell'avere indicato nel cattolicesimo la condizione indispensabile per la so­ prav vivenza della letteratura. È come se Dostoevskij,Joy­ ce, Kaf ka, Mann, Faulkner, Eliot, Hemingway, ma anche Virgilio e Dante dipendessero da lei e dal suo cattolicesi­ mo. Una tesi, questa, al limite della follia (come tutto ciò che vuole contare e durare nel tempo) ma, disgraziata­ mente per qualcuno, supportata da alcune delle pagine più persuasive della storia della letteratura. Luca Doninelli

220

Indice

Prefazione di Fernanda Pivano

I

Nota dell'autore alla seconda edizione

9

Capitolo primo

11

Capitolo secondo

29

Capitolo terzo

35

Capitolo quarto

59

Capitolo quinto

69

Capitolo sesto

89

Capitolo settimo

101

Capitolo ottavo

111

Capitolo nono

123

Capitolo decimo

139

Capitolo undicesimo

145

Capitolo dodicesimo

161

Capitolo tredicesimo

169

Capitolo quattordicesimo

179

Postfazione di Luca Doninelli

197

Finito di stampare il21 giugno 2002 dalle Industrie per le Arti Grafiche Garzanti-Verga s.r.L Cernusco s/N (MI)

r- -

J

Garzanti · Gli elefanti

«A quarantacinque anni dalla sua prima edizione, conserva una rude forza di scontro, di scandalo, di sfida, che il lettore odierno non può non awertire.» (dalla Postfazione di Luca Doninelli) La saggezza nel sangue, usdto nel

1952,

fu dalla stessa autrice definito «un

romanzo com1co che tratta di un cristiano suo malgrado>>. Al centro del primo romanzo di Flannery O'Connor è la figura di Hazel Motes, il giovane reduce che predica La «Ch1esa della Verità senza Gesù Cristo Crocefisso>>. Hazel è assillato dall'incontro con un suo doppio seguito da un ragazzino petulante, concupito da una matrona, attratto da una piccola prostituta.. Il suo itinerario per strade e pensioni bar e treni del Sud, è quello di un cercatore di assoluto, incapace di governare i propri istinti e la propria vocazione. «La relig~one del Sud» prema l'autrice m una lettera, dtata da Fernanda Pivano nella prefazione, «è qualcosa che, come cattolica, trovo ... cupamente comica ... Non avendo nulla che corregga le proprie eresie, la gente le elabora drammaticamente». Scritto in uno stile asdutto e nervoso, irto di simboli, La saggezza nel sangue è un romanzo popolato di individui bizzarri, che si muovono sullo sfondo d1 paesaggi assolati in ambienti alludnati, ostili.

Flannery O'Connor (1925-1964) visse i 39 anni della sua vita (quattordici dei quali segnati dalle conseguenze dì una inesorabile malattia) studiando, scrivendo, preparando con cura le sue conferenze, in un'apparente «normalità» che nulla lasciava trasparire della sostanza infuocata della sua opera. La saggezza nel sangue. portato sullo schermo nel1979 da John Huston. è, secondo molti critici, il suo capolavoro.

In copertina O Pholonoca

€ 8,00 (prou:o