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Italian Pages 145 [52] Year 2016
MINIMUM FAX CINEMA 17
Giuseppe Sansonna Hollywood sul Tevere. Storie scellerate © Giuseppe Sansonna, 2016 © minimum fax, 2016 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax via Giuseppe Pisanelli, 2 – 00196 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 [email protected] www.minimumfax.com I edizione: settembre 2016 I edizione digitale: settembre 2016 ISBN 978-88-7521-777-8
GIUSEPPE SANSONNA
HOLLYWOOD SUL TEVERE STORIE SCELLERATE
L’UOMO SENZA VOLTO
Nella fosca Roma dei primi anni Settanta la hall dell’hotel Excelsior registra un flusso anomalo di omarini trafelati, in completi Facis e occhi apprensivi, coperti da occhiali fumé. Entrano circospetti dall’ingresso di via Veneto, si infilano rapidi in ascensore e raggiungono la suite imperiale. Appollaiato dietro una scrivania in noce, ad attenderli, alligna Licio Gelli. Una veste pubblica da venditore di materassi cela la sua dimensione ancora esoterica, da Maestro Venerabile della P2. Al suo cospetto sfilano quotidianamente, in rapida successione, sottosegretari, imprenditori, gioiellieri, cavalieri del lavoro, barracuda dai denti affilati e microscopici frammenti di plancton, tutti avidi di capire quanto convenga prendere la sua tessera. In tutte le voci di corridoio d’Italia, dai ministeri ai circoli nautici, la P2 suona come sinonimo di scalata sociale, di accesso esclusivo al mondo che conta. Licio blandisce il neofita di turno con occhi acuminati e sorriso mellifluo, disegnando con gesti ampi ardite traiettorie politiche, ventilando possibilità allettanti, per chi avrà l’arguzia di salire in tempo sul suo carro. Quando l’interlocutore è maturo, sufficientemente abbacinato, Gelli estrae dal cilindro il colpo di grazia, per abbattere ogni scetticismo residuo: la telefonata confidenziale a Giulio Andreotti. Il Venerabile la affronta ostentando cameratismi di lunga data, distendendosi in risate ampie, seguite da improvvisi corrugamenti pensosi, gravidi di senso di responsabilità, consoni al clima cupo vissuto dal paese. Poi passa la cornetta all’ospite, per fargli ascoltare poche, solenni, decisive parole. Pronunciate dissimulando, dietro un romanesco lieve e rassicurante, la solidità di un potere dai confini imperscrutabili. Sufficienti a far percepire a chi ascolta quanto sia alta la posta in gioco: il modulo d’iscrizione viene così rapidamente firmato, il lauto contributo versato, il grembiulino consegnato e la P2 incamera un nuovo adepto. Gelli, in realtà, in quelle occasioni, evita di scomodare davvero Giulio Andreotti. Compone sempre e solo un numero, quello di Alighiero Noschese: il più famoso imitatore italiano, piduista, tessera numero 1777. Così racconta Francesco Pazienza, faccendiere per antonomasia e nome ricorrente nei meandri più torbidi della Prima Repubblica. L’impiego occulto dello straordinario eclettismo di Noschese e la sua prossimità con Gelli vengono confermati anche dal fumettista Pier Carpi, intimo del Venerabile e molto vicino alla P2. «Lo incontravo spesso, Alighiero, in via Veneto. Si lamentava con Gelli di quanto lo trascurasse la Rai, della sua carriera in declino». Eppure, negli anni Sessanta, il suo percorso artistico era stato vertiginoso, in continua ascesa, generato da un talento misterioso quanto la sua personalità. Con il suo avvento sulla scena, per la prima volta, le caricature guizzano fuori dalle pagine dei giornali satirici e prendono vita, si fanno carne, sbucando vivide in ogni televisore italiano. La classe dominante viene costretta, in blocco, a osservarsi replicata, in uno specchio più fedele che deformante. Emerge senza filtri, nell’infinita riproducibilità catodica, l’essenza avanspettacolare del bestiario politico. Riprodotti in serie, finiscono per sembrare tutti figuranti di una commedia corale in salsa grottesca. Con i loro corpi difformi, costipati in giacche e cravatte istituzionali, vengono messi alla berlina per i propri difetti fisici, e per un divorante attaccamento al potere. Sulle prime rimangono perplessi, vorrebbero mettere mano alla censura. Fanfani è il più inviperito: per riprodurne la statura, Noschese si è legato le scarpe alle ginocchia. Ma è una rabbia passeggera: l’élite democristiana, avvezza a un uso secolare del potere, prende rapidamente le misure di quell’ometto cangiante. Intuiscono quanto possa essere utile dargli in pasto corpo e voce. Diventando insperatamente, attraverso la transustanziazione noschesiana, pupazzi bonari, beniamini del pubblico. Finiscono così per intasare in blocco le platee dei suoi spettacoli: una sera, tra gli spettatori, si contano centotré deputati che sgomitano bramosi per essere i prescelti, per infilarsi nel suo pantheon di caricature. Fanno la fila, dietro la porta del camerino, per suggerirgli una battuta, per farsi studiare da vicino. Si lasciano fagocitare, per neutralizzarlo. Lo trasformano, gradualmente, in giullare organico. Allo sfumare degli anni Sessanta, però, il fenomeno Noschese sembra esaurire la sua spinta propulsiva. Il repertorio comico, legato a una trasversalità utile a blandire ogni potere, risulta anemico, in un’Italia degli anni Settanta sempre più feroce e disincantata. Lo scenario è cambiato: il boom ha svelato la sua natura illusoria, la crisi economica segue quella energetica, la speculazione edilizia imperversa, l’industria automobilistica nazionale subisce pesanti contraccolpi. Divampano dure polemiche sul divorzio. Dal 1969, in soli cinque anni, ci sono stati centoquaranta attentati terroristici. Nei telegiornali rimbalzano, in sequenza, le macerie di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del
treno Italicus. Le Brigate Rosse cominciano a rapire e uccidere. Nessuno sembra avere più voglia di lasciarsi consolare da una satira blanda: alcuni editorialisti di area comunista accusano Noschese di rimanere sulla superficie, sul buffo, senza affondare la lama gelida, da comico di razza, nelle carni di chi viene imitato, per portare alla luce le aberrazioni ormai evidenti della politica. Gli uomini di potere, dal canto loro, non hanno più bisogno di essere mostrati come innocue e simpatiche macchiette. Noschese non è più funzionale ai politici: apparire come mascalzoni buffi, di gommapiuma, da operetta, potrebbe cominciare a nuocergli. In un paese sulla soglia della guerra civile, devono recuperare una granitica autorevolezza, farsi garanti dell’ordine pubblico, marmorei come guardiani della Legge. Una censura più o meno manifesta comincia ad accanirsi contro l’uomo dai mille volti, come lo hanno ribattezzato i giornali, assottigliandogli il repertorio e sfilandogli spazi televisivi. È l’inizio della fine, l’avvicinarsi dei titoli di coda di una vita enigmatica, sempre sospesa tra paillettes ed eversione, tragedia e avanspettacolo. Così lampante nel candidarsi a essere la perfetta autobiografia di una nazione da essere puntualmente rimossa, trascurata. In quel periodo Federico Fellini è attratto morbosamente da Noschese, da quella faccia artificiale, malleabile a ogni trasformazione, così docile nel lasciarsi truccare, imparruccare, cancellare come individuo e risorgere come maschera, ogni volta diversa. Gli piace specchiarsi nell’imitazione che Noschese gli ha dedicato, con tanto di pigolio romagnolo invasato d’ispirazione, sciarpona d’ordinanza e cappello che esplode di idee, affiancato da una Loretta Goggi trasformata in Masina piagnucolante, appesa al braccio come una bambina. Vuole conoscerlo da vicino, smontarlo pezzo a pezzo, capire come funzionano i suoi delicati meccanismi nervosi. Nel 1962 gli propone un esordio da doppiatore, nel mixaggio delle «Tentazioni del dottor Antonio», episodio di Boccaccio ’70. Mette alla prova Alighiero chiedendogli di inventare un accento meticcio, sospeso tra il partenopeo e il barese, per il caratterista Antonio Acqua, nell’occasione lugubre alto funzionario di un ente morale. Qualche tempo dopo, nel 1964, Noschese partecipa anche al doppiaggio di Giulietta degli spiriti con due voci. Doppia la tedesca Valeska Gert nel ruolo ambiguo dell’ermafrodita medium albino Nhishma, e Carlo Pisacane, meglio noto come Capannelle, qui nei panni di un fraticello. Fellini si riserva così l’occasione di osservare da vicino quell’omarino piccolo, apparentemente impalpabile. Capace, nelle ribalte televisive, di espandersi fino a diventare il suo sosia, grande, grosso e carismatico. A turbarlo è il suo sguardo, così inquietante nel diventare identico al suo: «Mi è sembrato di trovarmi di fronte a un mio doppio eterico. Ha questo dono speculare, magico, che sembra provenire da un inconscio profondo. Si mette davanti a un essere umano, a un personaggio, a un volto, a un connotato, a un carattere. E lo replica, alla perfezione». Noschese lo turba: quando è senza maschera gli occhi allucinati e il sorriso tirato non lasciano pensare a nulla di umano. Sembra il pupazzo di chissà quale ventriloquo: un guscio vuoto, dotato di un magico marchingegno artificiale, segreto delle sue continue trasfigurazioni. Come quegli automi settecenteschi che tanto ossessionano il regista riminese, intelligenze artificiali ante litteram, che troveranno posto nel Casanova. Roso da quest’ossessione, Fellini progetta uno strano film biografico, assumendo Noschese come protagonista e oggetto di narrazione. Nel 1970 si dedica anima e corpo al progetto. Riesce a varcare l’uscio del suo antro da dottor Mabuse e osservare da vicino i diciannove registratori a nastro doppio di Noschese, il prototipo di moviola, il pionieristico videoregistratore e lo sterminato archivio cartaceo su cui ha schedato tic, difetti di pronuncia, intercalari dialettali, tipologie di voce, comportamento e abbigliamento delle sue amate vittime. Un’enciclopedia fondamentale per dare vita, negli anni, a più di mille personaggi. Noschese, in quell’occasione, confida a Fellini i suoi quotidiani esercizi spirituali: «Ascoltare su nastro la voce dell’imitato non meno di trenta volte. Studiarne accuratamente la gestualità. Frequentare la persona da imitare, ma senza diventarne amici, perché si perderebbe la carica ricettiva. Non imitare i morti, la gente se ne dispiacerebbe». La tenuta fisica è fondamentale: «La mia è una macchina perfetta, da tenere a regime: vita monacale, niente sigarette, dieta da fantino». Quando studia un personaggio si chiude in una penombra acusticamente isolata, con due magnetofoni. Sul primo è incisa la voce da riprodurre. Sull’altra pista, registra i suoi tentativi di imitazione. Poi compara meticolosamente le due registrazioni, per correggere le intonazioni malriuscite. Riascoltando i due nastri, sempre più spesso gli capita di trasalire, ascoltando la voce di un totale estraneo che sbotta rabbioso: «Così non va, tutto da rifare!» È ovviamente sempre lui, abitato dalla voce di chissà chi. Fellini lo osserva a lungo, anche nell’intimità dello specchio, durante le estenuanti prove vocali. Oppure alle prese con i trucchi estremi e sapienti di Ida Montanari, complice irrinunciabile del suo martirio artistico. I solventi gli rovinano la pelle, la colla delle calotte e delle parrucche gli causa fastidiosi eritemi, mentre gli spilli roventi, adoperati per modificare ciglia e sopracciglia, gli punteggiano la fronte di vescichette. Cilici quotidiani, necessari al rito ossessivo della metamorfosi. Una volta, mentre è inguainato nell’aderente calzamaglia di Nureyev, si provoca una brutta ferita alle gote, tenute ben strette tra i denti, per simulare efficacemente il volto scavato del danzatore. Uno sforzo spasmodico, che ne mette a dura prova il fisico, minando quotidianamente anche la sua fragile psiche. Il
pesante contrappasso è l’allontanamento progressivo da un sé sempre più sfocato. Sempre più spossessato di una personalità autonoma, si sente solo, dietro miriadi di maschere. L’unica, momentanea sospensione dell’angoscia si compie ascoltando le risate, complici di gratitudine, del pubblico. Dal palcoscenico, lo ripete spesso a Fellini, vede solo un rettangolo nero, buio come il nulla. Lo ha sempre terrorizzato, gli ricorda la morte. È stato così fin dal suo esordio, in una rivista di Garinei e Giovannini: sbirciando il buio in sala, da uno spiraglio tra le quinte, rimaneva paralizzato dalla paura. Mario Riva, compagno di scena, destinato a morire qualche anno dopo per una caduta dal palco, doveva risolvere le sue crisi di panico spedendolo in scena a calci. Da quando è diventato una star, ogni volta che si cala una maschera sul volto sente già il calore del pubblico. In scena, vede finalmente quel rettangolo nero animarsi, di vita e di risate. La gente, per merito suo, sembra concedersi un intervallo tra le sofferenze esistenziali. E anche lui, di riflesso, può godersi un temporaneo sollievo da un orrore di sé inestinguibile, che non lo abbandona mai. Il suo virtuosismo vocale è prodigioso. Eppure il suo vero timbro gli ripugna. «Vorrei poter far ridere, almeno una volta, con la mia voce, ma credo che non ci riuscirò mai. Io ho la voce che ho donato, come diceva D’Annunzio. La voce che ho regalato alla mia arte, scomposta in un’infinità di variazioni. Nessuna delle quali è veramente mia». Nel 1966, al culmine del successo, decide di assicurare la voce ai Lloyd’s, per 35 milioni di lire. Non ha amore nemmeno per la sua faccia. La considera anonima, banale, ai limiti dell’insulso. Fuor di maschera, non si incide mai sui teleschermi: glielo confermano spietatamente tutti gli addetti ai lavori. Quando viene impiegato al cinema, funziona solo in caratterizzazioni forti, calcate come imitazioni. Come quando replica mirabilmente Brando Corleone, nell’Altra faccia del padrino. Nudo, senza parrucche e belletti, appare sempre sfocato, impacciato, fuori quadro. Quanto basta per percepirsi in un’eterna dissolvenza, davanti a un horror vacui che lo costringe a un cannibalismo di identità compulsivo, per dilatare all’infinito il repertorio, per rimanere in vita. Condannato a un eterno divenire, sul filo del rasoio. La paura che il pubblico gli volti le spalle lo annichilisce, anche all’apice della popolarità. Esorcizza le sue angosce sbracando in una scaramanzia attinta dal proprio retroterra napoletano. Le sue tasche traboccano di corni e chiodi arrugginiti; alla cintura Gibaud che indossa ogni giorno appende corni, amuleti, santini, reliquie, medagliette di sant’Antonio e sacchetti di Terra santa. Ipocondriaco fino all’eccesso, trascina con sé, in ogni tournée, un’ampia sacca di farmaci e un’équipe di medici fidati, pronti a somministrarglieli. Fellini annota tutto, stende il soggetto, riempie intere pagine di appunti e disegni. Poi, improvvisamente, cestina tutto. Decide di rinunciare, di colpo, come trafitto da un presagio. Forse coglie, nella creatura che lo ossessiona, un fondo tetro, mortuario. Come il famigerato progetto del Mastorna. Abbandona Noschese e le sue troppe anime al loro inquieto destino. Eppure le prime note biografiche dell’imitatore sono tutt’altro che sinistre. Narrano di quiete origini borghesi, di una nascita in un’agiata famiglia del Vomero, all’inizio degli anni Trenta. Suo padre è un funzionario statale, sua madre un’insegnante di lettere. A dieci anni Alighiero si presenta con una mise da paggetto biondo efebico, ma è già posseduto da un demone, che non lo abbandonerà mai: risponde alle interrogazioni del maestro alternando i toni suadenti di Vittorio De Sica alla roboante perentorietà di Amedeo Nazzari, suoi miti cinematografici. I compagni si sbellicano, e in lui nasce il forte sospetto di essere un enfant prodige. A sedici anni, recluso in un austero collegio romano di gesuiti, imita al telefono il padre guardiano e ordina per la mensa collegiale tre quintali di provoloni dal salumiere, in luogo dei soliti tre chili. I gesuiti non apprezzano, e nemmeno i suoi compagni, costretti a ingurgitare il costoso formaggio fino a esaurimento scorte. Espulso senz’appello, torna a Napoli per diplomarsi, con l’affiorante consapevolezza di poter riprodurre facilmente ogni voce umana. Il padre lo iscrive a Legge, alla Federico II, sognandolo togato principe del foro. Alighiero si distingue subito, in facoltà, per lo stupefacente talento. All’esame di Filosofia del diritto conferisce su Kant con la voce di Alberto Sordi, su Cartesio imitando il conduttore Silvio Gigli. Dulcis in fundo, declama Le confessioni di sant’Agostino col timbro del presentatore Nunzio Filogamo. È lo stesso professore, a chiederglielo: raccoglie così le prime ovazioni a scena aperta, guadagnandosi anche le pesanti attenzioni di un certo Giovanni Leone. All’epoca temutissimo ordinario di Procedura penale, le lenti già spesse come fondi di bottiglia e la montatura d’ordinanza in osso nero, con astuta mossa baronale gli lancia una sfida che non può rifiutare: «Giovanotto, perché non prova a imitare anche me?» Poi, dopo qualche tempo, lo invita a cena, per verificarne l’applicazione al compito assegnatogli. Lo costringe a esibirsi davanti a moglie e figli. Alighiero vince il panico e si lancia in una performance domestica memorabile. Gli applausi vibranti di casa Leone ne incoronano il talento, inaugurando una sintonia destinata a durare nel tempo. Quando Noschese sbarcherà trionfalmente in televisione, Leone, dagli scranni del Quirinale, continuerà a
scompisciarsi e a proteggerlo dalla censura, fornendogli mirati suggerimenti per rendere più comica la sua maschera: «Io dico scheda bianga, Noschese, non bianca. Fa più ridere». Ma il giovane Noschese, ancora studente di Legge, quando esce da casa Leone non è ancora sicuro di poter sbarcare il lunario con le imitazioni. Tenta, senza troppa convinzione, la via del giornalismo. Diventa segretario della Federazione giovanile comunista. E accede alla redazione napoletana di Paese Sera, giornale molto vicino alla sinistra. Non riesce però a reprimere l’impulso di intervenire con la voce di Togliatti. Lo defenestrano brutalmente, convincendolo a mettere a frutto quella vocalità così malleabile: diventa un imitatore radiofonico. Vittorio Veltroni, padre di Walter, ne intuisce la stoffa non comune e gli fissa un provino in Rai. Alighiero lo affronta sciorinando ventuno voci diverse, mixate con nonchalance. Entra così nella compagnia di prosa della sede Rai di Milano. Diventa un rumorista acclamato, capace di riprodurre voci e suoni, dal gloglottio delle galline all’ebollizione del caffè. Nel 1961, dopo anni roventi spesi ad affinare le sue imitazioni sui palchi di mezz’Italia, viene scritturato per la «Sei giorni» di ciclismo, kermesse canora che accompagna le corse. Si esibisce nel faraonico velodromo Vigorelli, davanti a dodicimila persone inferocite per l’improvvisa defezione di Mina. Il terrore finisce per esaltarlo. Prima placa le folle, poi le sganascia, imitando e demolendo urlatori e cantanti confidenziali. «Mister Cartacarbone sconfigge i cantanti», titolano i giornali del giorno dopo. Festeggia spartano, com’è suo costume, concedendosi una logora Porsche rossa, di ottava mano. Un vecchio amico del Vomero, il noto scrittore umoristico Dino Verde, lo contatta: ha in testa di cucirgli addosso il primo grande spettacolo di satira politica. Nasce Scanzonatissimo, la grande consacrazione del talento di Noschese. È il 1962. Nello stesso anno esordirà in Rai, con Alta fedeltà. Comincia così il suo fregolismo compulsivo. Nelle interviste, dopo pochi secondi, gli accade spesso di slittare sulle voci dei personaggi, come un medium ribollente di troppe anime. Con la dannazione di non averne una propria. Dichiara ai giornalisti di affezionarsi a tutti i personaggi interpretati: «Ho verso di loro un rispetto che rasenta il complesso di inferiorità. Li sento più importanti di me, più utili di me, più famosi di me». Ma forse mente: rivedendo i filmati di repertorio si ricava un’impressione molto distante dalle sue dichiarazioni. Quando si cala la maschera sulla pelle, l’uomo mite, insicuro, che chiede scusa di esistere, sembra dare corpo anche al proprio intimo Mr. Hyde. Tira fuori gli aspetti più biechi del personaggio incarnato. Ai cantanti molto popolari, dotati di una forte identità, è riservato il trattamento più feroce. Vengono puntualmente esasperati nel loro aspetto da millantatori. Indugia sulla presunta cupidigia, sulla mancanza di talento, su quelle che sembra ritenere ingiuste sopravvalutazioni della critica creatrice di miti effimeri e senza valore. C’è il Battisti depressivo, stonato e negato per la musica, il Teddy Reno attirato da Rita Pavone per pura avidità. Si sdoppia anche nella coppia più bella del mondo, rivestendola di squallore: a sinistra dello schermo Celentano autodenuncia in musica la propria impresentabilità nelle vesti d’attore. Al suo fianco, una Claudia Mori con gonna svolazzante da festival folk canticchia giuliva che la sua degna collocazione sarebbe il tinello domestico, tra fornelli e assi da stiro. Invece si ostina a cantare, spinta dalla brama di denaro, condividendo con suo marito la grande truffa del Clan. Nei panni dilatati di Orietta Berti, si autodefinisce impietosamente bombola, mostrandosi come una garrula massaia adiposa, bulimica, destinata ad affondare miseramente con tutta la barca, mentre continua a divorare tortellini. Gigliola Cinquetti canta suadente la sua scelta di investire cinicamente sul proprio aspetto virginale, per fare breccia in cuori mediocremente romantici e vendere dischi, cantando «Non ho l’età». Noschese sembra intravedere impostori ovunque, tra gli altri esponenti del mondo dello spettacolo. Sembra farsi carico della brama più o meno inconscia dell’uomo comune: demolire i propri idoli, esorcizzare le frustrazioni individuando, in loro, meschinità in cui rispecchiarsi. Sergio Endrigo, cantautore istriano dalle malinconie esistenzialiste, non sta al gioco: Noschese riveste di toni lugubri il suo brano sanremese «Lontano dagli occhi». Lo ribattezza «Col pianto negli occhi». Si presenta identico allo chansonnier di Pola, in nero amletico, attorniato da quattro ballerine bardate a lutto. Canta: Ho il pianto negli occhi la morte nel cuore l’aspetto dimesso di un triste travet Non fate le corna non fatemi torto io iella non porto ma rider non so. Rifà anche le celeberrima «Ci vuole un fiore». Per fare l’albero ci vuole il legno viene sostituito da Per far la bara ci vuole il morto.
Endrigo sa quanto può essere letale essere identificato come menagramo: minaccia di spaccargli la mobilissima faccia, al loro prossimo incontro. Noschese lo stralcia immediatamente dalla scaletta. Con il massone Rossano Brazzi, invece, fila tutto liscio. Noschese lo ospita in una puntata di Doppia coppia del 1970. I due ostentano grande sintonia, ma l’umorismo è stantio, da risate a denti stretti. Di strabiliante, rimane la sua capacità di rendersi identico al proprio interlocutore. I due sono indistinguibili: stesso volto languido e stessa parlata sorniona, mollemente adagiati in poltrona, scissi in simmetrico split screen. Concludono il siparietto con un motivetto di comicità dubbia, sull’aria delle Kessler. «Quelli belli come noi, che sono Brazzi». Deridono sarcasticamente l’attività cinematografica di Antonioni, Carmelo Bene e Gian Maria Volonté, individuati sarcasticamente come protagonisti di mode deleterie e passeggere. Con alcune figure femminili, Alighiero perverte la semplice imitazione. Come quando trasforma la rassicurante Mariolina Cannuli, notissima Signorina Buonasera velatamente ammiccante, in un’entreneuse da night, bomba di lascivia con voce flautata e boa di piume di struzzo da drag queen, sottratto da Noschese alla costumista delle Kessler. Sembra un presagio delle apparizioni notturne di tante lussuriose tv private a venire. «Un uomo sensibilissimo. Ha scoperto un aspetto della mia personalità che non avevo colto nemmeno io», sottolineerà la grata Mariolina. Le apparizioni en travesti tracimano nel burlesque e sembrano sempre affrontate con adesione liberatoria, alimentando insinuazioni sulla sua incerta sessualità. Alighiero passa da una Brigitte Bardot in preda all’amor fou a una Loren sciantosa che cerca di mantenere un contegno inglese, prima di precipitare in drammatici scivolamenti puteolani. Non mancano strali velenosi, dedicati a donne interpretate con ribrezzo: «So fare bene anche Yoko Ono, l’orrenda moglie di John Lennon: gran parruccona nera lunga, ghigno satanico, e via». Oppure, nei momenti più felicemente anarchici, rasenta la deriva patafisica, riscattando la banalità goliardica e rasentando la pièce d’avanguardia. Come quando si sdoppia in Giuseppe Ungaretti ed Enza Sampò. Per deridere la comune incapacità di esprimersi con chiarezza, ne mette in scena un dialogo impossibile, a colpi di fonemi indistinti, gridolini e rantoli enfisematici, fino alla definitiva afasia. Ingaggia anche tourbillon vertiginosi, da Peter Sellers kubrickiano, sgusciando da adenoidinico Mao Tse-tung, studiato su un nastro clandestino proveniente da una radio albanese, a Richard Nixon, Nikita Krusciov, Khomeini, nel tentativo di diventare un almanacco caricaturale della contemporaneità. L’imitazione di Sordi, in presenza dell’attore, è forse la sua performance più straniante. Albertone, altro indecifrabile marziano, sembra ingaggiare una strana quanto velenosa competizione con il suo doppio. Tenta l’impresa impossibile di imitare Noschese, esasperandone il marionettismo. Alla fine sembrano due automi raggelanti e speculari, modellati entrambi sul calco sordiano. Noschese è ormai un divo nazionalpopolare. Il successo, però, non gli basta. Vuole garanzie più solide, sugli sviluppi futuri della sua carriera. Le tappe che lo porteranno alla corte di Licio Gelli iniziano nell’aprile del 1967, anno in cui si iscrive alla Gran Loggia d’Italia, degli Antichi Liberi Accettati Muratori, obbedienza massonica di rito scozzese, con sede a Palazzo Vitelleschi, sotto la guida del generale dell’aviazione Gran Maestro Giovanni Ghinazzi. Noschese, nella richiesta di affiliazione, si dichiara figlio di massone, di fede cattolica e di ideologia politica socialdemocratica, iscritto per giunta all’ente benefico del Soccorso Antoniano dei Poveri di Padova. In loggia, nascosti sotto i cappucci, Alighiero rivede compagni di scena come il musicista Gorni Kramer, Gino Cervi, Carlo Dapporto, Paolo Stoppa e Aldo Fabrizi. Ci avrebbe trovato anche Totò, se non fosse morto pochi giorni prima della sua affiliazione. Noschese, fin dagli esordi, è sempre stato politicamente inafferrabile. Una sua dichiarazione pubblica, in proposito, è particolarmente sintomatica: «Ho idee politiche ben precise. Ma non sono contro questo o quel personaggio. Tento di far credere a ognuno che, sotto la maschera, sono dalla sua parte. Non è opportunismo, o insensibilità. È delicatezza verso persone care». In cinque anni scarsi Noschese raggiunge uno dei gradi più alti dell’Ordine, quello di Cavaliere Kadosh, conferitogli per direttissima nel 1972. La permanenza nella Loggia degli Alam coincide con una fase particolarmente felice della sua vita che professionalmente comprende i successi televisivi di Doppia coppia e Formula due e quelli cinematografici del sodalizio con Enrico Montesano. Il 1974 è il suo annus horribilis: il fato gli volta le spalle, costringendolo ad affrontare sia l’ennesimo allontanamento dalla Rai, sia un’irreparabile crisi coniugale. La sua compagna di vita, Edda De Bellis, ex impiegata emiliana del teatro Parioli, decide di abbandonarlo, dopo undici anni di convivenza e due figli. Non è innamorata di un altro. Sembra logorata dall’impossibilità di afferrare una personalità compiuta, nell’uomo che ha di fianco. Alighiero è alle corde: decide che i tempi sono maturi per fare un improvviso balzo in avanti, nel lato oscuro della sua esistenza. Si congeda dalla Loggia del generale Ghinazzi, verosimilmente deluso dalla sua scarsa efficacia. Due giorni dopo varca la soglia del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani. Gli viene conferito l’alto grado di Maestro per esplicita disposizione gelliana. L’intermediario tra Gelli e Noschese, secondo voci accreditate, è il
tracagnotto dottor Fabrizio Trecca, in quegli anni medico stimato dalla sapida grevità romanesca. In anni recentissimi, spopolerà come consulente medico nei palinsesti televisivi Mediaset. Negli anni Settanta il dottore con i baffetti è già forsennatamente eclettico presidente della Compagnia Italiana Turismo, scrittore di fantascienza, sceneggiatore, animatore del jet set capitolino. Si insinua che abbia introdotto alla corte gelliana molti grossi calibri come Maurizio Costanzo e Silvio Berlusconi. Di certo, ha un’enorme influenza psicologica su Noschese: ne cura mali immaginari e reali. Trecca intercede presso Gelli, per ridimensionare lo spazio dato ai concorrenti televisivi di Noschese, come Gigi Sabani e Franco Rosi. L’imitatore ricambierà prestandosi a usi impropri del suo talento. Nel frattempo, in pubblico, si dichiara prima socialdemocratico, poi convinto elettore del PSI. Nonostante il supporto della P2, gli anni Settanta riservano colpi terribili per Noschese, alle prese con la moria dei personaggi che gli avevano regalato il successo. Dal 1975 al 1977 uno dei suoi principali protettori, il presidente della Repubblica Giovanni Leone, si inzacchera nello scandalo Lockheed, legato all’omonima azienda che ammette di aver pagato tangenti a politici e militari per vendere i propri aerei ad alcuni stati esteri. Noschese non può più imitarlo con bonarietà, e lo elimina dalla sua scaletta. Pasolini e la Callas muoiono tragicamente. Noschese li aveva sempre ritratti insieme, con ferocia, in una Colchide immaginaria, set della «P.P.P.neide». In un tripudio di gag e musiche da vecchie comiche del cinema muto e da parodia di grana grossa dell’opera lirica. Callade, parodia del celebre soprano, si rivolge al Creso greco occhialuto Aristassis, sosia di Onassis. «Vieni avanti cresino», gli sussurra avidissima e gretta. Aristassis finisce col preferirle Jacqueline Kennedopoulos e lei si attacca alle tende, come la Bertini, per la disperazione. Entra in scena il mago Pasoleo: dice di essere più bravo di Circe, perché ha saputo trasformare un film in un porcile. Dichiara con orgoglio di fare solo film censurabili. Zeus, «simpatizzante di destra», fulmina Pasoleo, uccidendolo. Pasolini risorge, beve un filtro, si riconverte all’eterosessualità e cerca di copulare con la Callas. La morte tragica del poeta e, soprattutto, dell’amatissima Casta diva, ammanta di improvviso squallore l’indimenticata parodia noschesiana, alienandogli molte simpatie del pubblico. Ma i guai non sono finiti. Nella stagione 1977-78, dopo lungo esilio, Alighiero riesce finalmente in Rai con Ma che sera. È uno dei primi grandi show visibili a colori, nato come antidoto sfavillante al clima di austerity, alla cappa di piombo che avvolge il paese. Tante le succose novità, previste in scaletta e registrate nelle puntate: la Carrà alluperà i padri di famiglia con scatenati balletti da suora sexy, cantando la bellezza del sesso da Trieste in giù. Bracardi guairà i suoi versi da squadrista folle, nei panni di Catenacci. Ma l’asso nella manica è proprio Noschese che ha perfezionato, per l’occasione, un’imitazione folgorante di Aldo Moro, suo storico cavallo di battaglia dall’inizio della carriera. Due anni prima Gian Maria Volonté aveva incarnato lo statista democristiano nel discusso e cupissimo Todo modo. «È meglio di Noschese», avevano scritto i giornali, per denigrare il virtuosismo tecnicista dell’attore. Alighiero la prende come una sfida. Non ha mai capito se a Moro piacesse l’imitazione che ne faceva, nei primi anni Sessanta. Reagiva da sfinge imperscrutabile, non ammiccava come quasi tutti gli altri politici. Sembrava uno dei pochi a essere quietamente infastidito. Forse perché il Moro di Noschese era perfetto, uno dei suoi capolavori, e davvero Volonté sembrava averlo ricalcato. Alighiero ne aveva colto l’aria malaticcia, il pallore da ectoplasma, presagio di un futuro eterno Banquo della storia italiana. Un’aria moribonda, sfumata tra lo ieratico e l’evanescente. Moro, come Noschese, è un ipocondriaco estremo, perennemente imbottito di pillole e medicine. L’imitatore ne rende alla perfezione la parlata intraducibile, i salti logici, le fumoserie da piazza del Gesù, le metafore bibliche, la natura ambigua da sacerdote bizantino, le mani sempre giunte e lo sguardo mistico, rivolto verso orizzonti imperscrutabili. La prima puntata va in onda il 4 marzo 1978. Dodici giorni dopo, Moro viene rapito dalle BR. Mesi di faticoso lavoro, da perfezionista, finiscono nell’oblio. Non li vedrà mai nessuno. Lo show va in onda, come previsto, fino al 22 aprile, in un’Italia obitoriale, con il fiato sospeso. La Carrà prega, vanamente, i dirigenti Rai di sospendere le trasmissioni. Si decide che lo spettacolo deve continuare, conservando la sua natura di palliativo inefficace, in un paese in apnea. Le imitazioni di Noschese, che comprendono anche Cossiga e Andreotti, vengono brutalmente ridotte all’osso. Nelle vesti di Jimmy Carter sembra un mascherone da museo delle cere: il repertorio è ormai logoro, e non bastano a rivitalizzarlo le tante ballerine scosciate, munite di frenesia e autoreggenti. Nel finale, una bomba N da Dottor Stranamore gli esplode addosso, affumicando lo studio. Di terribilmente premonitorio rimane solo lo stacchetto finale: «Alighiero vi saluta e se ne va!» Qualche giorno dopo, il 9 maggio, il corpo di Moro viene ritrovato nella Renault 4. Il 16 giugno Giovanni Leone, estenuato dai troppi scandali che lo riguardano, rassegna le dimissioni. Il 6 agosto
muore Papa Paolo VI. Il 31 gennaio 1979 cade il governo Andreotti. A marzo muore Ugo La Malfa. Le maschere di Noschese si appannano, o muoiono, una per una. E neanche lui si sente troppo bene. Sente che la macchina perfetta, il riproduttore meccanico, comincia a incepparsi, tra annebbiamenti di memoria, mani tremanti e crisi nervose. A quarantasette anni si sente svuotato, impallidito. Sempre più emarginato, finisce per proporre alcuni sketch censurati dalla Rai sulle nascenti tv private, Tele Piombino, Tele Lazio, Canale C e Quinta Rete. Presenziare da acclamato ospite d’onore nell’afrore ancora sgangherato delle emittenti locali non può che acuire la sua depressione, dopo due decenni trascorsi da mattatore assoluto nel salotto buono della tv nazionale. I colleghi dello spettacolo cominciano, come per un tacito accordo, a ignorarlo. Il telefono non squilla più. Comincia il 1979, che lo vede ogni sera su un palco diverso, in provincia, ovunque ci sia qualcuno ancora disposto ad ammirarne il fregolismo. Per l’estate, lo ingaggia Sergio Bernardini, alla Bussola, in coppia con Peppino Di Capri, che ricorda le serate versiliane: «Io cantavo e lui mi imitava. Occhiali neri, ciuffo oblungo, cantava le mie canzoni squassato da scatti epilettici. Irresistibile. Poi, la notte, giocavamo a poker fino all’alba. Faceva ogni rilancio con una voce diversa, scolandosi una bottiglia di scotch». Dopo i massacri estivi, per ritemprarsi, si concede lunghe meditazioni presso l’istituto religioso delle Suore Crocifisse in via san Giorgio Vecchio, nell’hinterland napoletano. Nella quiete claustrale mette a punto L’inferno può attendere, spettacolo teatrale concepito per rilanciarsi. Ma un collasso cardiocircolatorio lo sorprende durante le prove, un mese prima dell’esordio. Viene ricoverato a Roma, nella clinica privata Villa Stuart. La lussuosa dimora, gestita dalle Suore Missionarie Serve dello Spirito Santo, è nota per alcune credenze popolari, che la vogliono infestata di spettri. Appartenuta alla contessa Emmeline Bathurst de Castle Stuart, veniva adibita a frequenti sedute spiritiche, che condussero alla follia la sua nobile tenutaria. La servitù, nel frattempo, si era data a rapida fuga, turbata dalle continue apparizioni paranormali. Lord Allen, amante della contessa e suo partner nelle sedute spiritiche, era già scomparso nel nulla. La Bathurst confesserà successivamente di averne murato il cadavere in una parete della cantina, lasciando però nel muro una piccola apertura attraverso cui, ogni notte, infilava la mano per stringere quella sempre più consunta del defunto. È in questo set da Giro di vite di Henry James che viene dirottato, dal solito professor Trecca, un logoro Noschese, in cerca di un’introvabile serenità mentale. «Qui potrai passeggiare per il giardino come più ti piace, tra pini e alberi pizzuti. Avrai la libertà che vuoi, conosco tutti», lo rassicura il confratello di loggia. In clinica con lui ci sono Mariolina Cannuli e Giulio Andreotti, tra i suoi personaggi prediletti, ignari della sua presenza: l’équipe medica noschesiana mantiene lo stretto riserbo, per proteggere il fragile stato mentale del paziente. Alighiero sembra riprendersi. Passeggiando tra i cipressi, in vestaglia di raso, fantastica l’idea di rifare, da one man band, un intero film di Antonioni in chiave parodistica. Chiede al suo segretario alcuni nastri contenenti voci: vuole proporre alcuni personaggi a Maurizio Costanzo. Convoca per il 4 dicembre Lino Banfi: vuole preparare insieme a lui un nuovo spettacolo. Incoraggiati dal suo ritrovato attivismo, i medici decidono di dimetterlo a breve. La crisi depressiva sembra ormai alle spalle. La mattina del 3 dicembre Noschese si alza all’alba. Scambia due parole convenzionali col medico curante e si avvia verso il giardino, per la passeggiata rituale. Attraverso un’uscita secondaria, sfugge alla sorveglianza all’ingresso, esce dalla clinica e raggiunge la sua banca. Dà disposizioni perché il fratello Giorgio possa avere libero accesso a tutti i suoi averi. Dopo arriva nel suo palazzo, in via Prisciano. Saluta cordialmente la portinaia, felice di rivederlo. Sale nel suo appartamento al terzo piano. Si veste meticolosamente allo specchio, infilandosi un completo grigio, camicia bianca e cravatta. Prende poi dal cassetto una Smith & Wesson calibro 38 special. La detiene con regolare porto d’armi da qualche anno, precisamente da una sera in cui ricevette minacce di morte, dopo una serata sulla Pontina, per alcune battute satiriche non gradite da parte del pubblico. Vestito di tutto punto, con la pistola carica in una tasca interna, ritorna in una Villa Stuart piantonata da carabinieri e polizia. Proteggono Giulio Andreotti, ricoverato per un intervento alla cistifellea. Gli agenti salutano affettuosamente l’imitatore: nessuno pensa nemmeno lontanamente di perquisirlo. Lui concede un rapido cenno del capo e un sorriso sfuggente, poi raggiunge il parco della clinica. Sono quasi le undici di mattina. Noschese vaga a lungo, senza meta, tra i cipressi. Intravede la chiesetta del presidio medico. Si genuflette tra gli scranni, e prega a lungo, notato da un inserviente di passaggio. Poi si alza, esce dalla chiesa e raggiunge una piccola fontanella, in fondo a un viale, ornata da una madonnina di Lourdes. Osserva la statuetta per un lungo istante, poi estrae la Smith & Wesson, la accosta alla tempia e preme il grilletto. Gli agenti della scorta di Andreotti, distanti una decina di metri, sobbalzano, pensando a un attentato. Si precipitano nel parco: sanno che la figlia dell’onorevole sta passeggiando tra i viali, con la sua bambina. Si imbattono subito nel corpo riverso dell’imitatore. Un’infermiera disperata sta cercando vanamente di rianimarlo. Nel tg di mezzogiorno, il mezzobusto più amato e bersagliato da Noschese, Mario Pastore, annuncia la morte del suo doppelgänger con dolorosa empatia.
Andreotti, risolti i problemi con la cistifellea, dedica a Noschese un accorato epitaffio: «Ricorderò sempre l’ultimo rimprovero della buonanima di mia madre. Mi disse che dovevo piantarla di fare lo scemo in televisione. Aveva visto Noschese la sera prima, che mi imitava cantando e ballando». L’epitaffio di Andrea Pazienza, sul Male, è più spietato e illuminante: restituisce Noschese a un mondo cartaceo, fumettistico. «Dubbi notturni sulla morte di Noschese: era ricoverato in clinica con Andreotti», recita la didascalia della vignetta. Sotto, tra i pini di Villa Stuart, c’è un Noschese con la pistola fumante, la maschera di Andreotti ben calzata sul volto, ingobbito e circospetto, come fosse Diabolik durante un colpo. Davanti a sé ha il cadavere di Andreotti con la tempia ancora fumante. Gli sta mettendo in mano la Smith & Wesson, prima dell’arrivo della polizia. Il suo balloon recita: «Caro Andreotti, se non ti casca la maschera faccio il colpo del secolo!» Nella goliardia apparentemente priva di pietas, Pazienza ha un’intuizione quasi medianica: da un’ultima intervista, rilasciata in clinica, trapelerà che Noschese stava meditando di eclissarsi, da tempo. In modo meno cruento: aveva programmato di andarsi a ritirare in Canada, in solitudine, coltivando un grande appezzamento di terra. Si era anche sottoposto a corsi intensivi e maniacali di inglese, francese, tedesco. Per fuggire da un’Italia che sembrava averlo rimosso, oltre l’angusto giardino nazionale, come Chance Giardiniere. Ma il suo avvocato, incaricato dall’imitatore di recuperare i documenti necessari all’espatrio, lo aveva misteriosamente scoraggiato. La procura di Roma apre un’inchiesta: vuole accertare come fosse possibile lasciare che un uomo in preda a un grave esaurimento nervoso potesse accedere alla sua Smith & Wesson così facilmente. I suoi medici vengono incriminati per concorso in omicidio colposo, ma nessun processo verrà mai celebrato e il caso verrà archiviato. Il dottor Lelio Manunta replicherà all’incriminazione ricordando la sconfinata ipocondria del suo paziente. Riferirà che, dopo un esame delicato, Noschese voleva appurare la reale diagnosi. Nella sua ultima, fatale imitazione, si sarebbe finto Manunta e avrebbe telefonato al radiologo, apprendendo senza filtri una diagnosi inquietante. Davanti alla prospettiva di una rischiosa quanto incerta operazione chirurgica, Noschese avrebbe preso la decisione estrema. Per dire addio a tutto, senza strascichi ulteriori. Nell’ottobre del 1981, due anni dopo la scomparsa di Noschese, i carabinieri irrompono a Villa Wanda, dimora aretina di Licio Gelli, mettendo mano alla lista degli adepti alla sua loggia. Il coté piduista del defunto Noschese diventa di dominio pubblico, riattivando un fitto reticolato di dietrologie. Un generale, coperto dall’anonimato, racconta all’Espresso che nel corso degli anni Settanta, per fuorviare le indagini sui crimini di Stato, si era fatto ricorso a telefonate affidate a un imitatore estremamente abile nel riprodurre i dialetti regionali e le voci di personaggi di spicco, come il presidente della Repubblica Giovanni Leone e l’onorevole Giulio Andreotti. Indro Montanelli rincara la dose sostenendo che Roberto Calvi fosse un’altra delle imitazioni molto richieste a Noschese, su espressa indicazione del capologgia. Nel 1980 il divo Giulio, davanti alla Commissione parlamentare dedicata al caso Sindona, nega di avere avuto conversazioni telefoniche con Rodolfo Guzzi – difensore del banchiere in odor di mafia – funzionali ad assicurargli un intervento a favore del suo assistito. Costretto a un confronto diretto con il legale del faccendiere siciliano, Andreotti si cava d’impaccio con una sentenza sibillina: «Forse le ha telefonato Noschese». Battuta cinica, sibilata a denti stretti. Lapidaria, come quella che sfugge il 18 ottobre del 1979 al glottologo John Trumper nel commentare la misteriosa voce del telefonista delle Brigate Rosse durante il sequestro Moro. Per scagionare Toni Negri, cataloga la strana inflessione del telefonista come un complesso mélange di cadenze, come la calata di un marchigiano vissuto a lungo a Trento: «Se Negri è il telefonista delle BR, è più bravo di Alighiero Noschese». La battuta diventa un titolo cubitale sulla Stampa. Titolo che balza agli occhi dell’imitatore, nei giorni più difficili della sua vita. Quanto basta, forse, per alimentare le sue congetture paranoiche. E portarlo al gesto finale, così violento e così personale. In cui forse ritrova un’identità, non imitando nessuno. Enzo Tortora si distingue, tra i coccodrilli: «L’unica imitazione che non riuscì a fare fu quella di un uomo felice».
VADO A PRENDERE LE SIGARETTE
«Basta! Non riesco più a tirare avanti. Sono vecchio e sto male. Non dovrei più recitare, e invece sono costretto ancora a salire sul palcoscenico, portato a braccia fin sulla scena, come se fossi un pupo!» A urlare, in una conferenza stampa al teatro Biondo di Palermo, è un disperato Salvo Randone, incappato nella prima scena scomposta della sua vita. Recitata davanti ai microfoni dei giornalisti, per annunciare la sua resa. A ottantaquattro anni, nel freddo gennaio del 1990, semicieco e malfermo, è costretto a tournée estenuanti, da un capo all’altro d’Italia. Portando in scena un’opera dal titolo paradossale, pirandelliano: Poveri davanti a Dio. Lamenta l’indifferenza dello Stato, che lo costringe, a ottantaquattro anni, a non ritirarsi, per non morire di fame. Prima di congedarsi dai giornalisti, si asciuga gli occhi gonfi, riservando un gesto d’insofferenza alle telecamere spianate. «Spegnete le luci! Non riprendetemi, non vedete in che stato sono? Ho chiuso con il teatro, non chiedo più niente, non voglio più nulla. Desidero soltanto morire a casa mia, in santa pace, nel mio letto». Poco dopo, otterrà i benefici di una meritata legge Bacchelli, e potrà ritirarsi dai palcoscenici. Morendo serenamente, nel sonno, un anno più tardi. Era nato nel 1906 a Siracusa, a due passi dal teatro di Epidauro, alle cui pietre sembrava appartenere, da millenni. Partorito dalla Magna Grecia, si dibatteva tra pulsioni ardenti e razionale armonia ellenica. Come se le passioni esplodessero in tutta la loro incandescenza, invisibili, nella prigione inaccessibile della sua interiorità. Affiorando in lampi improvvisi, scuotendo la superficie di una maschera inconfondibile: naso adunco, fronte altissima, zigomi sporgenti e guance cascanti. Gli occhi puntuti, perennemente indagatori, attraversati da lampi improvvisi e beffardi, ne sottolineano l’eterna smorfia amara, da Pulcinella assurto a puparo mafioso. Piena del distacco estraniato di chi, «come Tiresia, ha visto tutto l’Ade ed è tornato. E se lo porta dentro, non lo racconta a nessuno», come dice di lui Piera Degli Esposti. E soprattutto, l’incredibile gamma timbrica, limpida, o dolorosamente cupa, venata di un rimorso sepolto in fondo all’anima. «La più bella voce del teatro italiano», dichiarava, sinceramente ammirato, Vittorio Gassman. Negli anni Cinquanta se lo ritrovava improvvisamente alle spalle, in scena. Lui gigantesco attor giovane, il volto impeciato di nero, da Otello. Bello come un dio greco, sicuro di non poter essere mai impallato, perfettamente al centro della scena. Eppure, dietro di lui, quell’ombra scura, uno Jago vecchio e ingobbito, dalla battuta misurata e implacabile, attirava gli sguardi come un magnete. Anche nei silenzi, nei lunghi piani d’ascolto, oppure quando sornione insinuava atroci sospetti nel cuore di Otello. Randone è un traditore umano, ammalato, avvelenato da una contorta forma d’amore per il Moro: costruisce inganni ai quali finisce per credere lui stesso. Capace di sussulti di pietas, che sembrano ferirlo. Quanto basta per diventare il fulcro del dramma, minando, in controtempo, la monumentale centralità di Gassman. Ci riuscirà anche al cinema, a essere essenziale, determinante, per quanto degradato a lussuoso caratterista, centellinato in piccole, sempre preziose, particine. Dando corpo a una galleria di corpi di italiani oggi estinti, sugli schermi e nella vita. Vecchi disincantati da due guerre, assorbiti dai cerimoniali eterni di un potere oscuro, oppure alle prese con bilanci crudi e fallimentari, vissuti con amarezza rappresa. Concedendosi al cinema, non è costretto a liberarsi della zavorra della teatralità. La sua asciuttezza di toni è paradossalmente moderna, nonostante la sua conclamata appartenenza alla stirpe ottocentesca dei mattatori. Conserva, nella recitazione, una certa leggerezza sospesa, atarattica, che lo caratterizza anche fuori dalle scene. Paola Borboni, suo omologo femminile, regina del palcoscenico, negli anni Quaranta lo spia dalle quinte, perdutamente innamorata. Non capisce le altre donne, che lo trovano brutto. Per lei è un dio antico, ne ha soggezione, ma riesce a sedurlo. La vulcanica liaison viene conclusa da Randone, durante un viaggio in treno tra la Sicilia e Roma, da un teatro all’altro. La frase d’addio è apparentemente distratta, bofonchiata con nonchalance. Destinata a diventare idiomatica. «Vado a prendere le sigarette», sussurra, scendendo in una stazioncina di provincia. Si consegna a una definitiva macchia. La Borboni lo rivedrà solo mezzo secolo dopo, a Fiuggi: Randone è lì per un premio teatrale, già molto male in arnese. Lei lo guarda con la stessa tenerezza infinita degli anni Quaranta. La tendenza a memorabili uscite di scena caratterizza Randone anche sul lavoro. Nel 1947, qualche anno dopo, provava al Piccolo Le notti dell’ira di Salacrou. Le pretese registiche di Strehler lo infastidivano, collidevano con le sue idee sulla centralità dell’attore. «Vado un attimo al bar, a prendere un caffè», annuncia placido, con un sorriso impercettibile. Sparisce per dieci anni, senza nessun rimpianto. Schiettezza ruvida, indolenza solo apparente, ironia garbata, sempre pronta al guizzo graffiante: tutti elementi di un arsenale espressivo, cesellato sul palco e nella vita, che riporterà nel cinema.
Elio Petri, accanito frequentatore di teatri, è il primo a valorizzarne la potenzialità cinematografica. Nel 1961 cerca un commissario per il film L’assassino. Non ha cinquanta milioni da dare a Jean Gabin: ripiega su Randone per cinque. Gli mette un cappellaccio e un trench da hard boiled, ma ne conserva tempi e cadenze da indagine mediterranea. Coglie in Randone l’aria da padre arcaico, meridionale, e con la saggezza minata qua e là da una pazzia intermittente, segnalata da fiammate improvvise alternate a momenti di meditazione contemplativa. Sul set, Randone fraternizza con Mastroianni: «Che simpatico, con quella faccia da bambinone mai cresciuto abbastanza. Uno che ha fatto fortuna, col cinema, non prendendo mai nulla sul serio, men che meno se stesso. Definendo il mestiere dell’attore una buffonata. «E continuano a dargli soldi a palate. Un furbacchione di tre cotte: lui sì che ha capito tutto, del cinema, della vita. Non si pone tanti problemi, si diverte, e lo pagano pure benissimo. Cosa si può volere di più? È bravo davvero. Non credo abbia mai fatto nulla per diventarlo, perché è un pigrone, forse più di me. Splendido anche in teatro, non solo nel cinema, dove esser bravi non è poi così difficile. In palcoscenico torna, di tanto in tanto, Marcello; e scappa via subito. “Meglio il cinema”, dice, “si fatica di meno”. E chi può dargli torto? Lì non ti chiedono neppure di pensare. Ti dicono: “Fai questo, muoviti così”. E tu ti muovi, apri bocca se ti dicono di aprirla. Puoi anche non parlare: te lo impongono loro, spesso, di non parlare. E diventi ugualmente ricco e famoso, senza neppure bisogno di sprecare il fiato. Per me è un buon modo per pagare le tasse, e l’eventuale villeggiatura». Perché col teatro, suo habitat naturale, anche un imperatore della scena riesce appena a campare. Nel 1962 Petri gli affida il suo primo e unico ruolo da protagonista assoluto. Il film è I giorni contati. Il regista romano lo coccola fornendogli il carburante quotidiano, pagnottelle calde e «’a medicina», come Randone chiama il whisky da tracannare alle cinque di mattina, prima del ciak, che gli sbrina la lucidità. Gli serve a mandare giù un imprecisato numero di pillole, da ipocondriaco malato immaginario. Sistemate a mucchietti sul tavolo, con la ritualità di un antico speziale. Nella prima sequenza del film l’attore siciliano è in viaggio attraverso Roma, a bordo di un tram. Scopre presto che il suo vicino di posto è un cadavere, con la faccia coperta da un giornale. Poi si sveglia di soprassalto: il viaggio era solo un incubo. Nella vita diurna, reale, Randone è un idraulico sessantenne. Il sogno premonitore lo induce a riflettere su quanto gli resta da vivere. Decide di liberarsi della cassetta dei ferri, di abbandonare cessi e tubature difettose, e smettere di lavorare. Vaga per Roma: l’improvvisa nullafacenza, la spelonca inattesa del tempo libero, gli consente un’osservazione attenta quanto pericolosa del prossimo. Scopre tristezze, meschinità, crudeltà, perfino in suo figlio. Il suo vecchio amore giovanile, ritrovato per caso, ha una famiglia e non ha tempo da perdere con lui e i suoi soprassalti romantici. Torna al paesello d’origine e lo trova sprofondato nella stessa arretratezza in cui lo aveva lasciato. Gli amici d’infanzia, ormai anziani, lavorano ancora duramente la terra. Torna in città, ma chiunque lo circondi si stanca presto del suo continuo filosofeggiare sulla morte. Comincia a mancargli il denaro per vivere. Tenta di schivare il ritorno al giogo del lavoro, unendosi a loschi truffatori. Ne ricaverà solo un sanguinoso pestaggio, frutto di una conclamata inadeguatezza al crimine. Dovrà tornare mestamente alle sue tubature malconce, rimeditando tra sé e sé sui giorni passati. Petri plasma sul corpo di Randone un omarino da novella pirandelliana, a cui un presagio notturno strappa all’improvviso il cielo di carta. Scabro, consumato, pieno di stralunato smarrimento, Randone dà vita alla tragedia sommessa, cechoviana della vecchiaia, rimossa costantemente dal cinema. Oppure soffocata, negli ultimi decenni, nel più stucchevole sentimentalismo. Potrebbe sembrare, nelle premesse, un Umberto D. esistenzialista, ma Randone è un corpo estraneo al neorealismo. Fornisce, all’angoscia costante del suo personaggio, punte di ironia crepuscolare, antinaturalistiche. «Morirò senza aver mai visto uno svedese, un norvegese, come vivono. Ti rendi conto?», prova a spiegare a un irritato imbianchino, interrotto mentre dipinge le sue quotidiane strisce pedonali. Emerge tutto il lessico attoriale randoniano: l’accidia meditabonda, il radicato pessimismo, dolce e ruvido, il suo scettico senso di estraneità al mondo. Il misto di emozione fremente e delirio logico, del patire ragionando e ragionare soffrendo, nella stessa battuta, nella stessa parola, caricandola di luci e ombre, con una voce che sapeva essere contemporaneamente cupa e roboante. Nel 1969, Randone precipita nel calderone felliniano. Il film è il Satyricon e l’attore siciliano veste la tunica del poeta Eumolpo. Randone uscirà nauseato dall’esperienza. Durante la lavorazione del film, cerca vanamente di farsi dare dal regista un copione su cui studiare la propria parte. Incappa in un muro di melassa, fatto di abbracci e paroline gentili, ogni volta che cerca di parlare del personaggio. Al momento del ciak, Fellini gli chiede di dire dei numeri. In quell’istante, non saprebbe proprio cosa fargli dire: ci penserà al montaggio. Randone esplode di rabbia, senza darlo a vedere. Ferito nella sua dignità teatrale, decide di prodursi nel monologo
dell’Enrico iv di Pirandello, suo storico cavallo di battaglia. Fellini provvederà a cancellare il surreale exploit al doppiaggio, mettendo in bocca a Randone un’invettiva contro la Febbre dell’Oro, vera causa della morte dell’arte. Si incontrano alla prima del film. Fellini vuole ingaggiarlo di nuovo, per un episodio di Tre passi nel delirio, «Toby Dammit»: «Sorrise, il grande Fellini, accarezzandosi con tutte e due le mani il testone canuto cui tanto deve il cinema italiano e mondiale. Un capoccione bellissimo, solenne, da grande pensatore. Un po’ da sfinge, anche: perché è impossibile interpretare quel che gli frulla dentro. Lui stesso, credo, fa fatica a interpretarsi, a capirsi. I critici, invece, beati loro, capiscono tutto. Sul Satyricon ho letto pagine intere di giornali, giudizi esaltanti sul film, sulla mia interpretazione. Devo ringraziarli tutti, naturalmente, e ammettere, con tutta franchezza, che, dopo tante letture, continuo a sapere poco del personaggio che ho interpretato. Cosa volete che vi dica, del Fellini nostra gloria nazionale? È un genio, lo dicono tutti: a Parigi, in America. E io sono la persona meno indicata per parlarne. Il Fellini di oggi, lo capisco poco. L’ho capito e amato, in tempi ormai lontani, per i suoi primi film. La strada mi ha suscitato delle emozioni, le uniche che io abbia provato in una sala cinematografica; e gli altri, I vitelloni, La dolce vita, sono pezzi autentici di vita italiana, come quelli girati sul filo dei ricordi della sua Rimini. Poi il mago Fellini si è scatenato e non l’ho più seguito. «È un geniale evocatore di fantasmi, un puparo estroso e fantastico, come ce ne sono tanti da noi in Sicilia, che al posto delle marionette muove ombre, figure evanescenti. Anche gli attori, nelle sue mani, diventano figure evanescenti, statue senz’anima. Ed è la peggiore sorte che possa toccare a un attore». Lontano dalle grinfie dolci di Fellini, Randone riesce a sbozzare per il cinema figure chiaroscurali, lavorate di fino. Un’ampia gamma di incarnazioni viventi del sentimento del contrario. Figure a tinte forti, sintomatiche di un’epoca, mai sbracanti nella macchietta. Diretto da Francesco Rosi in Salvatore Giuliano, del 1962, Randone è un presidente di Corte d’assise ironico e intelligente, consapevole dei limiti di quella giustizia, contaminata da una fitta rete di omertà e depistaggi. Sfoggia un grande uso delle mani: il continuo intrecciarsi delle dita esprime insieme lo sconforto e la tenacia della ragione. Il volto è inquieto e deluso, segno disperante di un’ansia di chiarezza e della successiva resa, per manifesta impotenza, venata di rassegnata malinconia. Randone sa scivolare sapientemente anche nella mediocrità di provincia, senza disprezzarla. Nella Parmigiana, del 1963, film diretto da Antonio Pietrangeli, è Scipio, impiegato al genio civile con l’hobby della tromba. Ingobbito sotto l’anonimo abito grigio, trascina i piedi nelle pantofole, aggirandosi in pigiama per la casa. Vittima del chiacchiericcio irrefrenabile della moglie, è un eroe tragicomico, sospeso tra sguardi sfuggenti e significativi silenzi. L’irruzione in casa di una Catherine Spaak dalla bellezza lancinante lo scuote dall’abulia quotidiana, costringendolo a raffreddare gli inattesi, insperati bollori giovanili. Meravigliosamente patetico, del tutto privo di volgarità, da ubriaco fradicio schiaccerà il faccione sul vetro divisorio che lo separa dalla sua giovane ospite, cercando invano di farsi aprire. Nello stesso anno, nelle Mani sulla città di Francesco Rosi, muta radicalmente pelle, rimanendo se stesso. Machiavellico democristiano di bieca malvagità, scivola viscido sui mezzi toni. Potentissimo dirigente, avvolto da un’aria vedovile, come suggeriva Giorgio Manganelli in Mammifero italiano, entra lentamente in scena da porte oscure e ha sempre due buchi neri al posto degli occhi, che rendono il suo viso una maschera mortuaria. Il professor Roscio di A ciascuno il suo sembra uscito dal mondo misterico di Borges. Oculista palermitano, immerso da tempo nel buio della cecità. «Sono un oculista famoso: il Padre Eterno ha decretato il massimo della pena». Ha riempito la sua vecchia casa, simile a un mausoleo, di campanelli per individuare il prossimo, la servitù e il parentado, per evitarli accuratamente, roso dai sospetti e dai sensi di colpa. In Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Randone torna a fare l’idraulico, come nei Giorni contati. Il commissario Volonté, sospeso tra Kafka e i fumi sulfurei della commedia all’italiana, lo chiama «stagnaro», con calcato disprezzo. Davanti alla barocca protervia di un potere che lo trascende e lo deride, Randone rimane stoicamente essenziale, commovente. Nella Classe operaia va in paradiso, l’amato Petri gli affida il ruolo di Militina, operaio diventato matto e filosofeggiante. Dopo una vita trascorsa inchiodato alla catena di montaggio, ha conquistato una reclusione in manicomio. Vestito di lana grezza, grigia, i guanti bucati, la coppola in testa e la barba ispida non fatta, sfugge al patetismo. Quando recita il monologo alla Foucault, con l’occhio lucente e spiritato, la sua consistenza realistica deborda nel metafisico. Salva Petri dall’equivoco dell’operaismo. Non ispira pena, ma perturba, come un incubo ricorrente: «In questo inferno, in questo pianeta pieno di ospedali, manicomi, di fabbriche, di caserme, di autobus, a poco a poco la mente se ne scappa, sciopera, sciopera, sciopera. Se vuoi diventare matto, credi a me, devi tornare in fabbrica».
Nel 1972 Francis Ford Coppola lo vorrebbe nel Padrino, ma lui rifiuta cortesemente. Forse perché, come dichiara, non vuole abdicare alle sue abitudini, le sue ritualità, i suoi alberghi, le sue linguine agli scampi e i suoi scoponi scientifici, a Taormina. «Partire per l’America? Ma se non sono mai stato né a Londra né a Parigi. Non prendevo l’aereo per andare in Sicilia, figurarsi in America». O forse perché l’intelligenza obliqua, siciliana, che ha recitato per una vita sul palcoscenico era autentica, non era simulazione. Leggendo il copione, ha capito di che si tratta. Non ha voglia di entrare da caratterista nel magnifico affresco di Coppola, che ha trasfigurato la mafia in un’epica di eroi. Preferisce essere ricordato per aver incarnato il volto sinistro, vischioso, della criminalità del potere.
IL MASNADIERO
A novant’anni suonati Gualtiero Jacopetti si era guadagnato una serenità cerulea da esule nazista. Era facile immaginarlo avvolto dalla frescura di un patio, nella quiete della pampa, con il conforto di un passaporto ben falsificato. Intento a rimuginare senza troppi sensi di colpa sulle imprese belliche del passato. Eppure la sua arma prediletta è stata la macchina da presa, battute di caccia escluse. Un’Arriflex imbracciata con abilità canagliesca, da testimone in prima linea dell’intero secolo breve, diventando il trait d’union concettuale tra l’estetismo kitsch di Gabriele d’Annunzio e le grevità dell’infotainment di Striscia la notizia. Manipolatore spregiudicato di parole e immagini, si costruirà una biografia composita, sempre sospesa tra il rotocalco, il romanzo colonialista e i periodici sconfinamenti nel codice penale. Antiumanista programmatico, ostentava il cinismo meditato di chi sente di appartenere a una classe eletta, per censo, per cultura, per physique du rôle da masnadiero fatale, e per abilità narrativa. Non rinuncia mai a esibire senza filtri la propria seducente impresentabilità, in un’Italia già dedita a rivestire di sentimentalismo peloso la propria ferocia. Lucchese di Barga, «cantuccio d’ombra romita» per Giovanni Pascoli, era nato il 4 settembre del 1919. Naturalmente vocato all’azione, da esteta armato in pectore, allo scoppio della seconda guerra mondiale abbandona gli studi e si arruola volontario, contro il parere paterno. Lo eccita la prospettiva di finire nell’Africa salgariana, fantasticata a lungo. «Ero stato figlio della lupa e poi avanguardista, sempre felicemente intriso dell’atmosfera fascista del mio tempo. Smaniavo per difendere la mia patria». Viene spedito a Roma, nominato caporale. Bardato come un esploratore equatoriale, con tanto di casco di sughero, viene trasferito a Bari, in attesa di partire per la Libia. All’ultimo momento la sua nave viene dirottata, per ordini superiori, verso la più vicina Albania. Il continente nero tanto favoleggiato, delle appetitose faccette dalla pelle d’ebano, si dissolve di colpo, cedendo il passo alla cruda realtà di una gelida Durazzo, coperta di neve, con il barometro precipitato sotto zero. Per il giovane Gualtiero è la prima, formativa, delusione: gli eroici furori cominciano a sbollentarsi, cedendo il passo a un disincanto che diventerà il suo tratto distintivo. Abbandonata la terra delle aquile e i suoi ghiacci, si ritrova in Grecia con il grado di sergente. Lontano dai grandi avvenimenti, comincia a fremere di noia. Alza la posta e chiede di partire per la Russia. Lo accontentano: «Giunsi in tempo per godermi la grande ritirata sul Don, sorbendomi cinquemila chilometri a piedi, abbarbicato alla bandiera del reggimento». La lunga, massacrante marcia è foriera di ulteriori riflessioni. Utili ad affrontare con opportunismo il marasma ambiguo dell’8 settembre. D’improvviso, inaugurando un trasformismo pirotecnico da arcitaliano, l’avanguardista Jacopetti si ritrova ufficiale di collegamento presso la Quinta armata americana, la Buffalo Division. Gli viene subito affidata una missione di prestigio: rintracciare lo scottante carteggio tra Mussolini e Churchill. O, almeno, così racconterà, tessendo la propria autobiografia con piglio beffardo e musicalità lucchese: «Paracadutato a Milano, all’alba, mi ritrovai a passare in rassegna i cadaveri allineati nel cimitero milanese di Musocco. Cercavo di riconoscere i volti di quelli che gli americani avevano individuato come possibili custodi del prezioso epistolario». Tra tanti morti anonimi il giovane Gualtiero riconosce i petti impiombati e i volti tumefatti di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, fosche star dei telefoni bianchi e dell’abortito tentativo di cinema repubblichino, dipinti dalle cronache come personaggi sopra le righe, intasati di cocaina, fiancheggiatori del torturatore di partigiani Pietro Koch, nelle segrete di Villa Triste. «Mi assalì la pietà umana per quei resti oltraggiati. Vidi sfregiato, vilipeso, il ricordo adolescente che avevo dei miei due attori preferiti. Da ragazzo avrei dato qualsiasi cosa, per incontrare i miei due miti. In particolare Luisa Ferida, che popolava prepotentemente i miei sogni notturni. Vederla ammassata tra tanti cadaveri, con il bel viso rinascimentale che cominciava a decomporsi, fu uno shock tremendo». Uno spettacolo doloroso, come quello che gli si presenta il 25 aprile del 1945, a piazzale Loreto. In divisa da ufficiale, sul sedile di una camionetta militare americana, Jacopetti osserva meditabondo l’oscillazione del corpo rovesciato del Duce. «Ero lì con il mio amico Fedele Toscani, padre di Oliviero. Fotografò i corpi martoriati di Mussolini e di Claretta Petacci, appesi sulla pensilina. Gli americani volevano sequestrargli il rullino: lo consideravano uno spettacolo macabro, da Grand Guignol: non volevano che quelle immagini si diffondessero. Intervenni io: ne avevo l’autorità, e gli americani rinunciarono al sequestro, permettendo a quell’immagine di entrare
nella Storia». Tutto rigorosamente falso, secondo Oliviero Toscani. «Mio padre filmò per l’Istituto Luce gli avvenimenti di piazzale Loreto. Le pellicole furono requisite dagli americani tre giorni dopo l’accaduto. Ma riuscì a tenere i negativi fotografici dell’avvenimento, tutto questo senza l’intercessione di Jacopetti, che quel giorno non era nemmeno a Milano». L’unico dato biografico certo vede Jacopetti congedarsi dall’esercito nel 1947, col grado di sottotenente, per riprendere gli studi universitari a Pavia. In quel periodo il giovane Gualtiero avvia una breve ma intensa attività propagandistica contro il blocco delle sinistre, in vista delle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Nel 1948 si assesta su una paradossale terza posizione, monarchica e filoamericana. Noleggia aerei scalcinati e lascia piovere sulle città volantini contro comunisti e socialisti, in un pauperistico revival dannunziano, ridimensionato dalle ristrettezze economiche del dopoguerra. Durante un comizio a piazza del Duomo a Milano nota tra la folla tre personaggi curiosi: «Uno piccolino, uno alto e secco e uno corpulento, che mi guardavano con un certo interesse. Scendo dal palco e il segaligno mi si avvicina e mi chiede, di botto, se fossi toscano come lui». Era Indro Montanelli, affiancato da Leo Longanesi e Giovanni Ansaldo. L’idillio è immediato: Jacopetti accompagnerà quotidianamente l’Indro nazionale a via Solferino, alla sede del Corriere della Sera. Il mondo del giornalismo lo affascina da quando era adolescente. La monumentale sede del Corriere gli appare «come un sacrario inaccessibile, il Vaticano dei giornalisti: mi attirava e mi metteva soggezione». Montanelli intuisce la stoffa del suo nuovo amico e gli fornisce una dritta decisiva: «Se vuoi entrare in questo palazzo, ti devi allenare nel salto in alto, perché questo edificio non ha scale. Devi fare un gran balzo ed entrare dalla finestra». L’allegoria montanelliana, apparentemente oscura, ha un significato preciso: al Corriere non si accede tramite carriera canonica. Bisogna inventarsi un’irruzione spettacolare: «Va’ in un posto pericoloso del mondo, difficile da raggiungere, dove nessuno ha il coraggio di andare. Quando sei lì, scrivimi un bel reportage e portamelo». Jacopetti accoglie il suggerimento, e rispolvera l’agendina dei preziosi contatti americani. Riesce così a farsi trasportare, nascosto nel bagagliaio di un’auto, in una Vienna assediata dal rigido controllo sovietico. Da lì, ospite di alcune famiglie di immigrati italiani, incomincia la sua collaborazione con il Corriere. I suoi pezzi dell’epoca somigliano già, per stile e temi, ai documentari a venire. Il bersaglio ricorrente della satira jacopettiana è l’occupante sovietico, osservato dalla prospettiva degli emigranti italiani, capaci di risolvere con furbi espedienti situazioni apparentemente insormontabili. Jacopetti predilige eventi a sfondo melodrammatico, affrontati con un mélange di cinismo e senso dell’epica. L’articolo del 28 dicembre 1948 sembra un addendum tarantiniano, ante litteram, di Bastardi senza gloria. Curiosamente, in un ipotetico biopic dedicato alla figura di Jacopetti, il protagonista più indicato sarebbe proprio il viennese Christoph Waltz. Il reportage si intitola «Il vecchio fonografo disarma i russi invasori» e narra le vicende di un vecchio emigrante «con baffoni umbertini». Alcuni soldati russi, ebbri di vino e vodka, gli hanno invaso la casa, attirati dalle sue giovani figlie. Lo stupro appare ormai inevitabile, ma il furbo italiano lo sventa accendendo il fonografo. La forza ipnotica degli inni monarchici ottunde la rapacità sessuale dei soldati. «Sembra che i russi apprezzino i canti italiani quando non ne comprendono le parole», si compiace tra sé e sé l’astuto italiano, versando ancora vodka ai suoi molesti ospiti. Badando a coprire, con mirati starnuti, nomi compromettenti, che possano lasciar trapelare i reali contenuti dei canti. Jacopetti sembra così omaggiare Le sottilissime astuzie di Bertoldo, prefigurando l’italiano sagace e vincente di tanta barzellettistica. Sul piano dello stile getta le basi di un’estetica riduzionistica che caratterizzerà tutto il suo cinema: gli oggetti e i personaggi, sbucati dalla penna o inquadrati dalla camera, vengono raccontati in funzione di una tesi pregressa, selezionandone, e a volte inventandone, i dettagli più paradossali ed estremi. La sua prosa è striata di tinte espressioniste e barocche, crudele come una favola di Basile, affollata di ritratti alla Otto Dix. Concluso il periodo viennese, dopo un breve passaggio da inviato alle Canarie, Jacopetti accede all’edizione pomeridiana del Corriere e, successivamente, alla Settimana Incom. L’intervista esclusiva rilasciata dal rappresentante del Negus d’Etiopia, evento mediatico utile a ripristinare le relazioni fra i due paesi, è il primo grande scoop di Jacopetti, proibitivo per qualsiasi giornalista, ma non per chi vanta rapporti privilegiati con i servizi segreti americani. Successivamente Jacopetti fonda Cronache della politica e del costume, giornale che annovera tra le sue firme anche Curzio Malaparte. Jacopetti lo aveva avvistato d’estate, a Forte dei Marmi, a metà strada tra il bagnasciuga e la Capannina. Sulle prime, non aveva riconosciuto il celebre scrittore. Era semplicemente rimasto colpito da quest’uomo a testa in giù, lo sguardo tenebroso e le gambe sollevate, impegnato in un’ardita posizione yoga. A causa di un’impudente forza di gravità, dal costume da bagno malapartiano, nero d’organzina, pendeva un testicolo in libertà. Jacopetti si avvicina e fa notare al Malaparte rovesciato l’incresciosa situazione. Curzio torna in posizione eretta, rendendosi riconoscibile. Riveste d’organza le pubenda e gli stringe virilmente la mano: «Grazie, giovanotto. Ricordi, gli uomini d’oggi sono senza coglioni. Chi ne ha, ha il dovere di mostrarli sempre, con orgoglio: sono una rarità. Lei ha l’aria di esserne ben equipaggiato». Si inaugura così una grande amicizia con un’anima affine. I due
condivideranno chilometri percorsi a piedi sul bagnasciuga versiliano, ponendo le basi per la caustica linea editoriale di Cronache. Ne verrà fuori un’originale commistione di politica, società, costume, cronaca rosa, con un taglio molto anticonformista per l’epoca. Finiranno nel mirino, in sequenza, ministri grotteschi, divi del cinema colti in piena ubriachezza molesta, ex milionari al tubo del gas, dittatori giunti mestamente all’ultimo atto, madonne apparse a pastorelle in crisi mistica nei recessi della provincia italiana. Refrain immancabile, un’esibizione insistita di procaci pin-up. Autentiche prelibatezze, per la bulimia onirica di Fellini: è questo il brodo primordiale da cui germoglia La dolce vita. Al punto che il regista riminese vorrebbe ingaggiare Gualtiero come attore protagonista del suo film in costruzione. Il capello ondulato, lucido corvino, lo sguardo di ghiaccio, il ghigno maliardo, l’eleganza innata e l’affabulazione melliflua: Jacopetti è fin troppo aderente al profilo del corruttore gentiluomo. Respinge però al mittente le lusinghe felliniane, forse conscio di quanto il personaggio somigli alla sua realtà. Restio a finire in balìa delle fantasie altrui, lascia che Fellini si crogioli nella lascivia morbida, più passiva, di Mastroianni. Marcello, anche nella perdizione, conserva sotto le occhiaie l’innocenza pigra di figlio di mamma italiana di provincia, traviato da cattive compagnie metropolitane. Jacopetti, invece, ha tutta l’aria del demiurgo, di cattive compagnie. Abile a gestire intrighi, persone, giornali. Cronache, nelle sue mani, diventa il fulcro del costume italiano nell’Italia degli anni Cinquanta. Le fotografie, con il loro potere immaginifico e seduttivo, si rivelano un’arma innovativa e vincente. Con qualche inconveniente: in una copertina, la Loren solleva leziosamente un lembo della gonna. Quanto basta perché Jacopetti ne ricavi una condanna a un anno e quattro mesi per fabbricazione e spaccio di immagini pornografiche. Ma un’incriminazione ben più grave lo attende dietro l’angolo. Nel 1955, durante una notte di febbraio, una zingara non ancora tredicenne si presenta alla stazione pariolina dei Carabinieri. L’adolescente racconta di essere solita avvicinarsi a macchine lussuose, per leggere la mano agli occupanti e ricavarne qualche spicciolo. Quel giorno si è avvicinata a un’auto americana: al volante c’è Jacopetti, che la soppesa con occhio torbido. Al suo fianco, l’industriale Buzzetti. Dopo una breve contrattazione la invita a salire in macchina «per leggere la mano a un’amica». La ragazzina racconta di essere stata portata in una casa. I due le hanno chiesto sesso, in cambio di cinquemila lire. Jacopetti nega le accuse, ma sparisce per destinazione ignota. Viene arrestato poco dopo, a Mirandola, nel modenese, mentre sta cercando di convincere il padre della ragazzina a raggiungere un accordo amichevole. Per mettere una definitiva pietra tombale sulla faccenda, il signor Kaldaras, suo futuro suocero, chiede anche la modica cifra di un milione. Jacopetti paga, ma finisce comunque a Regina Coeli; per uscire dal carcere ha un solo mezzo: sposare la ragazzina, che all’anagrafe è registrata come Jolanda Kaldaras. Il matrimonio viene celebrato in carcere, nell’ufficio del comandante. Gualtiero ha l’occhio torvo e il completo di lino. Non degna di uno sguardo lei, che invece sfodera un sorriso smarrito e un abito lungo di seta, tempestato di gioielli scintillanti. Il matrimonio, che verrà annullato nel 1964, evita a Jacopetti conseguenze penali, ma la sua immagine è compromessa. Deve abbandonare rapidamente Cronache: la sua firma è diventata imbarazzante, sgradita in ogni contesto. È costretto a lavorare da clandestino alla Settimana Incom. All’inizio incontra qualche resistenza. Ma in poco tempo il suo cinismo beffardo finisce col creare una nuova tendenza, squadernando il galateo giornalistico del suo tempo e appagando il sadismo latente del pubblico. Uno stile che fa breccia perfino nella bonarietà austera di Angelo Rizzoli. Sedotto dalla sua aria da filibustiere, il vecchio tycoon vede in Gualtiero quel tombeur de femmes che avrebbe voluto essere. «Rizzoli mi adorava, mi dava del tu, caso raro, mentre alle sue amanti riservava il voi. Mi disse che Nenni gli aveva spiegato la spartizione: ai comunisti il cinema e a noi socialisti i libri». Il grande produttore è incolto ma intuitivo, come tanti imprenditori abili a farsi strada, con spregiudicata inventiva, tra le macerie del dopoguerra. Intravede per primo il potenziale innovativo del linguaggio jacopettiano. Scrittura Gualtiero prima per L’Europeo Ciac, dal 1956 al 1958, e poi per Ieri, oggi e domani, nel 1959. Gualtiero ha finalmente tutta la carta bianca che cercava per dare pieno corpo alla propria visione del mondo. La realtà, per lui, sembra non esistere di per sé. È una materia prima grezza, un magma indistinto da stuprare con voluttà, deformandola e ricreandola a proprio piacimento, libero da ogni zavorra etica. Facendola a pezzi e rimontandola con sapienza, conferendole una patina attraente. Cova, come una chioccia consapevole, il primo embrione di una società fondata sullo spettacolo. «Io nasco come giornalista, e morirò giornalista, abitato dal demone della curiosità per il mondo. Sono passato dalla macchina da scrivere a quella cinematografica. È solo un passaggio tecnico, che mi ha permesso di catturare testimonianze immediate. Il giornalista classico, fino a quel momento, era uno che si portava dietro un fotografo, con un armamentario ingombrante, per ricavare due immaginette, con cui corredare l’articolo. Nell’immagine in movimento, invece, intuivo un potenziale sconvolgente. Avevo milioni di fotografie, avevo il movimento, la voce da aggiungerci, la musica, il suono ambiente, i silenzi. Tutti mezzi per condurre il fruitore nel mondo che avevo costruito per lui. Con la parola scritta avrei sprecato fiumi di retorica, per non riuscirci».
Negli anni Cinquanta e Sessanta, inocula nel tubo catodico gli stilemi aggressivi e adrenalici della comunicazione postmoderna. In perfetta antitesi con la visione bernabeiana della televisione, Gualtiero non si pone come pedagogo, non vuole redimere né consolare. Trova l’animale umano un’incurabile patologia. Bizzarra, a volte comica, da porre continuamente alla berlina. La cifra jacopettiana trova la sua riconoscibilità in un voice over spietato nel determinare un’interpretazione univoca, spesso sprezzante, delle immagini. Il basso continuo è la goliardia: in molti servizi le cesoie ufficiali del ministro, che deve tagliare il fatidico nastro inaugurale, vengono sostituite da un paio di forbici che non tagliano, a beneficio dell’implacabile cineoperatore jacopettiano. «L’onorevole di turno, quasi sempre l’eterno Andreotti, o in alternativa il mio conterraneo Fanfani, faticava a tagliare, io giravo e il pubblico si scompisciava. Quanti ne ho visti e filmati, di questi siparietti: la politica era, ed è tuttora, tutto un rituale di nastri tricolori e inaugurazioni». Incappa inevitabilmente nella rigida censura del suo tempo, ricavandone scandali utili alla costruzione del suo personaggio. Riuscendo nell’ardita impresa di superare a destra i censori, fornendo loro la rarissima occasione di rivelarsi, una tantum, meno corrivi dell’oggetto censurato. Verranno emendate, dai suoi cinegiornali, battute grevissime su «invertiti e capovolti», all’epoca definiti coccinelle. Subiranno opportuni tagli anche caroselli di vacche muggenti accostati a donne in costume. Viene imbrigliato dalla censura anche il celebre cavallo Ribot, campione pluripremiato, ritiratosi e divenuto stallone. Il voice over perfido del solito Nico Rienzi, speaker jacopettiano di fiducia, recita, con entusiasmo casermistico: «Ribot, ormai destinato alla monta, riceve gli omaggi delle più belle cavalle d’Europa». Tra le firme delle visitatrici anche la regina d’Inghilterra e la principessa Margaret. In un cinegiornale del 1959, tratto da Ieri, oggi e domani, la censura chiede la cancellazione integrale del servizio «Le forchette aumentano». Lo speech incriminato recita: «Arrivano a Roma, con un aereo speciale, settanta cuochi dagli Stati Uniti per un corso di specializzazione. Ci volevano, a Roma, un po’ di cuochi di rinforzo. Le forchette aumentano». L’allusione è all’appetito dei democristiani, all’epoca definiti forchettoni. Viene cassato anche il discutibile omaggio jacopettiano al regista che voleva ingaggiarlo: «Stando a quanto ci ha insegnato Fellini, per certe attrici straniere potremmo costruire un bell’albergo in qualche strada del centro», è il testo scandito su una panoramica, che approda sul cartello Via delle Zoccolette. È una nuova retorica, mirata a squassare l’Italia austera, oscillante tra il trionfalistico e il deamicisiano, raccontata dai cinegiornali dell’epoca. Piena di onesti padri lavoratori e madri angeli del focolare, dove la povertà gode sempre di una trasposizione aulica, di miserie accettate con fatalità e portate sempre con commovente decoro. I sottoproletari metafisici, vaganti tra le baracche su musiche di Bach, non hanno ancora trovato pasoliniana visibilità. Jacopetti li salta a piè pari, e, molti anni prima di Scola, li vede già divertenti, nel loro essere brutti, sporchi e cattivi. Il neonato mezzo televisivo comincia a creare un’emorragia di spettatori nelle sale cinematografiche: L’Europeo Ciac jacopettiano, destinato ai cinema, ingaggia la battaglia, spingendo la competizione sul terreno del sensazionalismo ed esaltando il nascente fenomeno divistico. «I miei cinegiornali erano uno scherzo giovanile. All’epoca il mio linguaggio era pura dinamite, che esplodeva in un’Italietta ridotta a un immenso dormitorio dalla censura democristiana e da una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. Così io cercavo di divertirmi mettendo in risalto cattiveria e ignoranza, di cui era pieno il nostro paese». Antonio Pietrangeli, acuto e trascurato osservatore dell’Italia del boom, inserisce un personaggio ricalcato su di lui nel mesto campionario maschile di Io la conoscevo bene. È un giornalista azzimato, munito di troupe, molto divertito nel farsi beffe delle aspirazioni attoriali di Stefania Sandrelli. La intervista e ne monta accuratamente le risposte, reincidendo in montaggio domande che non le ha mai fatto, per farla apparire come un’oca giuliva. La ragazza si rivedrà in un cinema in cui lavora da maschera, sentendosi esposta al pubblico ludibrio, tra le risate del pubblico in sala. Jacopetti è ormai maturo per sbarcare oltre confine. Alessandro Blasetti, vecchio leone del cinema italiano, incarica il nostro eroe di fare i sopralluoghi per il suo Europa di notte, esteso reportage sugli spettacoli di varietà, i cabaret e gli spogliarelli delle varie città europee. Il film sarà un successo clamoroso, incasserà oltre un miliardo di lire e avrà un impatto decisivo sulla morale sessuale di quegli anni. Contribuirà a innescare, nell’immaginario collettivo italiano, l’esotismo da night, la fuga illusoria di tanti commessi viaggiatori in un Oriente di palme dipinte e di odalische nate a Frosinone. Jacopetti lascia temporaneamente la redazione del suo cinegiornale e si dedica anima e corpo al progetto. «Girando per il mondo, per il progetto di Blasetti, notai che gli spettacoli umani erano molto più interessanti di quelli che si consumavano sui palcoscenici. Sentivo ormai ululare Mondo cane dentro di me. Sarebbe stato un progetto ambizioso, un newsreel su scala planetaria. Avrei mostrato la vita stessa, le usanze degli uomini a ogni latitudine terrestre. Dissi a Rizzoli che avremmo diviso gli eventuali guadagni. Accettò». Mondo cane, il titolo prescelto, suona come una Weltanschauung. Ha origine nella consuetudine parlata di
Jacopetti: «Mondo cane, come si esclama da noi in Toscana, davanti alle assurdità della vita». Le riprese dureranno tre anni, vissuti in bilico tra la cruenta epopea herzogiana e i resoconti del verdoniano Manuel Fantoni. Durante un sopralluogo nelle isole Trobriand in Nuova Guinea, l’aereo sul quale viaggiavano Franco Prosperi, fido collaboratore jacopettiano, e l’operatore Frattari, precipita. L’ala buca la carlinga e uccide il pilota, mentre i due si salvano per miracolo. Ci riprovano con un altro aereo ma il motore prende fuoco e sono costretti a un atterraggio di fortuna. Alla fine optano per il mare. Alla spedizione, stavolta, si unisce anche Jacopetti, assente giustificato negli episodi precedenti, costretto a tornare spesso in Italia per dirigere il cinegiornale. Tanta dolorosa fatica frutterà tre soli minuti di montato. Nel 1960 Jacopetti, durante alcune riprese sulla prostituzione minorile, viene arrestato a Hong Kong con accuse gravissime: tentativo di violenza carnale ai danni di due bambine. Nega tutto, sostiene di essere stato incastrato: Rizzoli gli manda tempestivamente un avvocato e, alla fine, le accuse decadranno. Jacopetti uscirà, dopo aver passato tre mesi nella prigione di Hong Kong a ridipingere le forche per le esecuzioni. L’unica nota lieta della prigionia è la presenza a Hong Kong di Belinda Lee, magnifica star inglese contesa dal cinema internazionale. Tra i due è scoccato un violento colpo di fulmine. Jacopetti aveva già avviato le pratiche di divorzio dalla giovanissima zingara: vuole risposarsi con Belinda, che aspetta un figlio da lui. La diva, per Gualtiero, è scesa dal suo piedistallo e ha rinunciato a set e lauti ingaggi. Preferisce fargli da compagna devota e premurosa assistente in Mondo cane, lasciandosi trasportare in una vita da documentarista estrema. Il 13 marzo 1961, a film quasi concluso, Jacopetti e Belinda Lee sono lanciati a velocità folle su una strada statale del Nevada. Gualtiero invita il suo autista italoamericano a rallentare, inascoltato. L’esplosione improvvisa di uno pneumatico manda la vettura fuori strada, giù per un dirupo. Belinda viene sbalzata fuori e muore sul colpo, mentre Jacopetti esce dalle lamiere pieno di fratture: ha quasi perso l’uso del braccio destro, tentando di trattenere a sé la sua amata. Dopo quattro mesi di riabilitazione in un ospedale di Los Angeles, torna in Italia, con le gambe ancora a pezzi. Ha maturato un’inestinguibile dipendenza dalla morfina, somministratagli in dosi massicce durante la degenza ospedaliera. Gli sono concesse pochissime ore di lucidità al giorno, prima del ritorno dei dolori fisici e dei lancinanti ricordi di Belinda, placati solo da un’immediata nuova dose di narcotico. Resiste stoicamente, forte della sua fibra. Affitta una stanza all’hotel Ritz, vicino agli studi di produzione in via Cernaia, per curare il suo Mondo cane nella decisiva fase del montaggio. «All’epoca, per montare, la pellicola bisognava tagliarla, ma la mia mano destra non funzionava. Allora prendevo la pellicola con la sinistra e la recidevo con i denti. Ho montato Mondo cane in quelle condizioni: per me è una gloria». Nonostante le condizioni proibitive, Jacopetti affina ulteriormente la propria maestria nel montaggio e nella postproduzione, acquisendo senso del ritmo e dinamismo. Il film diventa una summa di orrori e bizzarrie del pianeta, presunti o reali. I testi sono sempre più spietati: affidati al tono sardonico di Stefano Sibaldi, vecchio attore di tradizione, scandiscono la frenesia di un campionario spietato di umanità, sezionata e deformata dal solito grandangolo. Le riprese aeree rendono visibili a tutto schermo luoghi irraggiungibili e stupefacenti. La fotografia ha lo stesso ipnotismo sgargiante dei contemporanei film pop di Bava, Vivarelli e Lenzi, cimentatisi con le trasposizioni cinematografiche di Diabolik, Satanik e Kriminal. Un’esplosione cromatica in cinemascope che ha come archetipo di riferimento la pop art di Warhol. Jacopetti calca la mano anche sullo zoom, ruffianesco amplificatore di emozioni, fino a quel momento spesso proibito nell’austero lessico dei documentaristi. Il film si apre a Castellaneta, comune jonico. È un saggio visivo in salsa jacopettiana su una questione meridionale allegramente mostrata come irrisolvibile. Domenico Semeraro, sottosegretario allo spettacolo, già sindaco locale, sembra un figurante di Todo modo: adipe in libertà, arginato a stento dalla fascia tricolore, sguardo suino, retorica sgrammaticata, t che diventano sempre d, su pesantissima calata pugliese. Sta inaugurando un terrificante monumento in ceramica al più illustre dei suoi concittadini: Rodolfo Valentino, divo del muto. Morto nel 1926 a trentun anni, assurgendo a icona mitologica del maschio fatale, languido e ambiguo. Intorno al monumento si affollano testimonial di medio lignaggio, come Marisa Merlini, Ubaldo Lay e Liana Orfei, attorniati da una folla di autoctoni trepidanti, con tanto di chiome intrise di brillantina Linetti, mani callose e pelli bruciati dalla vita rurale. Tutti con l’abito della domenica, per onorare l’evento. Uno scenario che eccita il cannibalismo jacopettiano: nella spietata didascalia orale, racconta che i castellanetani sono tutti parenti alla lontana del celebre Rudy. Che, in fondo, sperano tutti pateticamente di assomigliargli, per poterne ricalcare le orme, sottrarsi alla zappa e approdare a Hollywood. Non appena vedono una cinepresa, cominciano a scimmiottarlo, come assaliti da un riflesso pavloviano. Per suffragare la sua tesi, inserisce tra la folla figuranti grotteschi e impomatati, selezionati attraverso accurato casting: freak ammaestrati ad atteggiarsi a divi, guardando in camera con aria fatale. Provvede a inquadrarli spingendo al limite l’ottica deformante. «Poverini, mi facevano pena. Consideravano questa cosa come un provino per il loro successo. Però bisogna ammettere che erano proprio un’apertura adeguata al Mondo cane», sogghignerà mezzo secolo dopo, ricordando il film. Che prosegue come un’enciclopedia morbosa di bizzarrie, perfetta per sfamare le golosità clandestine di un pubblico sessualmente represso dalle sagrestie. Un abbozzo in nuce
dell’odierna, sterminata tassonomia delle perversioni offerta dalla rete. Ogni pretesto è buono per mostrare corpi nudi, come quelli delle assatanate ninfomani di una tribù della Nuova Guinea, accostate alle sovreccitate fan americane del latin lover italiano Rossano Brazzi, erede designato di Rodolfo Valentino, intimo di Jacopetti e Ronald Reagan, successivamente molto vicino alla Loggia P2 e coinvolto in un losco traffico d’armi in Somalia. Dettagli rimasti fuori campo, in Mondo cane. Jacopetti preferisce indugiare su un’indigena a seno nudo, che ha appena perso un figlio e si consola allattando un maialino, accostata a sofisticati gourmet americani intenti a guarnire, servire e gustare vermi e topi muschiati. Segue pletora di maiali ammazzati brutalmente in un villaggio africano, carosello di anatre ingozzate con l’imbuto per la produzione del foie gras, tartarughe che perdono l’orientamento e muoiono a seguito di esperimenti atomici, abbinate ai vattienti sanguinanti nella provincia di Catanzaro, in piena crisi mistica. Alla cupa atmosfera catacombale delle mummie dei cappuccini di Roma viene contrapposta la rappresentazione impietosa degli ubriachi delle birrerie di Amburgo, e della loro sgangherata vitalità – descritta come una morte morale. Il momento memorabile del film è però quello che illustra, in una sintesi perfetta, i guasti della modernità uniti al loro inseparabile pendant, il declino del non occidentale, del primitivo: la sequenza che mostra anziane e facoltose coppie di americani WASP, ormai incartapecoriti, con tanto di ghirlanda al collo, intenti ad apprendere, almeno nella misura in cui le giunture afflitte da artrite consentono loro, l’esotica danza hula da una sfiorita bellezza locale. Il canone classico dell’etnografia divulgativa alla Folco Quilici viene cestinato senza remore: emerge prepotente una visione del mondo in cui le vicende umane e animali si fondono in un’entropia immune all’influenza di leggi superiori. L’uomo non beneficia di una particolare dignità che lo distingue dalle altre specie viventi: la sua natura è darwinianamente ferina. Il buon selvaggio non esiste, ma nemmeno il buon civile: li accomuna la stessa, ineluttabile propensione alla violenza, e non c’è speranza di mutamenti sociali. Ai più evoluti, gli occidentali, spetta il compito di addomesticare con durezza i più selvatici per conservare un precario equilibrio, che consenta all’umanità di sopravvivere ostinatamente, quanto forse insensatamente, a se stessa. La chiosa di questo affresco corale è una risata obliqua, costante, piena di scherno. Spia del sadismo che lampeggia nello sguardo di Jacopetti, baluginio luciferino che trapela nelle dichiarazioni rilasciate all’uscita del film: «Le cose non si possono risolvere con la non-violenza. La non-violenza permette ai più forti di dormire, la violenza ci vuole, io amo la violenza, sono un apostolo della violenza...» Accendere riflettori deformanti sugli abissi del reale, per fissarlo con compiacimento, senza distogliere lo sguardo. Con maieutica rovesciata, Jacopetti ha scovato in ogni spettatore un intimo mister Hyde, pieno di perversa attrazione per il sangue, per la brutalità, la violenza, la morbosità. Più colonialista che antropologo, ha scandagliato in giro per il mondo tutte le forme di sopravvivenza primitiva nella civiltà moderna. Le sue tecniche linguistiche creano scandalo, ma vengono immediatamente adottate ed esasperate. Sono assurte a norma, diventando forse la cifra più marcante della modernità televisiva. All’uscita del film, «netturbino cinematografico» risulterà l’epiteto meno brutale riservatogli dalla critica, all’epoca molto allineata su posizioni progressiste. Eppure nulla può impedire a Mondo cane di assurgere ad autentico fenomeno di costume, premiato in tutto il mondo da resse al botteghino e sale straripanti. Riceve la nomination al Golden Globe come miglior film straniero, viene presentato in concorso a Cannes e conquista un David di Donatello. «More», suadente refrain della colonna sonora di Riz Ortolani, vince un Grammy e diventa una hit degli anni Sessanta. Nasce il fenomeno dei mondo movies, alimentato da un tragico proliferare di epigoni, compulsivi riproduttori di effettacci violenti, ricercatori di shock a buon mercato. Come accade di frequente, nessuno degli imitatori avrà il controverso spessore dell’archetipo. Tra strali e ovazioni, Mondo cane acquisisce la fama di film generazionale, status confermato dal sequel, Mondo cane 2, che chiuderà la sua corsa nelle sale con un incasso di 498 milioni di lire. Dopo i due Mondo cane arriva anche La donna nel mondo del 1963, reportage-inchiesta sulla condizione femminile alle diverse latitudini, ispirato da un libro di Oriana Fallaci. La collaborazione non è delle più quiete. I due si incontrano a Cannes, dove Mondo cane è in concorso. Il panfilo di Rizzoli è la sede prescelta per progettare insieme il documentario. Jacopetti, però, si accorge subito di essere allergico a Oriana. Proterva, mistificatrice di talento, abituata al comando: la Fallaci si rivela un suo intollerabile doppelgänger in gonnella. La riunione di lavoro degenera in una rissa: Jacopetti abbranca Oriana per il collo e minaccia di scagliarla nelle incantevoli acque della Croisette. Rizzoli interviene a placare, evitando il peggio, congedando la Fallaci con mille salamelecchi. «Il vecchio Angelo mi ringraziò più volte di averlo liberato di quella sciagura e io gli assicurai un altro sontuoso incasso: 653 milioni e 351.000 lire». Pochi anni dopo, nel 1966, Jacopetti conquista, realizzando Africa addio, una definitiva aura da cineasta maledetto. Raccontando il cruento processo di decolonizzazione africana, compiutosi a metà degli anni Sessanta, finirà col ritrarre un mondo tribale dominato da ogni forma di efferatezza. «Africa addio, il titolo, era un grido di dolore, il triste congedo alle mie illusioni giovanili, ai miei sogni
d’avventura. Quello che mi trovai di fronte era uno scenario popolato da morte e distruzione». Ribaltando le responsabilità storiche, Jacopetti attribuisce infatti agli africani, esaltati dall’idea di trasformare in bistecche gli ippopotami, o agevolmente corrotti dai facoltosi cacciatori di trofei occidentali, il declino della natura. Dei movimenti di liberazione, come nel caso dei Mau-Mau del Kenya, mette in evidenza unicamente le azioni più sanguinarie, allo scopo di confermare quanto il «grosso bimbo nero» sia stato abbandonato troppo presto dalla sua «balia bianca». L’improvviso ritiro delle truppe inglesi e francesi lasciò allo sbando i paesi africani. Si insediarono piccole dittature presto rovesciate in terrificanti genocidi. Le riprese si protrassero per tre anni, funestati da ogni tipo di sciagura. L’intera troupe, in Congo, scampa all’ultimo istante a un’esecuzione sommaria: «Stavano per metterci al muro, avevano già caricato le armi. Poi sento una voce: “Fermi tutti, non sono bianchi, sono italiani”. Voleva dire che non eravamo gli odiati inglesi. E la scampammo, per un pelo», ricorda ridendo Jacopetti. Ma il vero dramma fu un altro. Carlo Gregoretti, tassello fondamentale del clan jacopettiano, abbandona sdegnato il set, a metà lavorazione. Torna rapidamente in Italia e rilascia subito un’intervista all’Espresso dichiarando che Jacopetti e Prosperi sono impazziti, invasati come il Kurtz di Cuore di tenebra: guidano i plotoni di esecuzione dei mercenari, in Congo, organizzandoli ai fini della messa in scena del film. Africa addio assume le fosche tinte dello snuff movie. Gregoretti è puntiglioso: il suo resoconto sembra troppo dettagliato per non contenere una forte dose di verità: «Durante la marcia dell’autocolonna dei mercenari di Ciombe, tre ragazzi mulelisti spuntarono lontano sulla strada... avranno avuto dieci anni, forse dodici, e marciavano incontro ai nemici completamente disarmati [...] I mercenari sono pronti a sparare contro i due (sic) adolescenti; il sudafricano Ben Louw sta per farlo, poi ci ripensa, gli viene in mente qualcosa, si volta e aspetta il segnale dell’operatore della troupe italiana. C’è un momento di incertezza. I due ragazzi, infatti, essendo apparsi all’improvviso, costringono l’operatore a cambiare obiettivo; se si vuole ottenere una buona ripresa bisogna usare non un “trecento”, ma un “mille” [...] [Quando fu pronto] l’operatore diede il via con uno schiocco delle dita: il motore della Arriflex andò in moto insieme al meccanismo della mitragliatrice. E i tre ragazzi mulelisti si abbatterono l’uno sull’altro nella terra color ruggine. Il buffo è che in questa guerra siamo noi a comandare, almeno in un certo senso. La macchina balla sul camion, e Climati fatica a manovrarla. Il mitragliere, pur arrabbiandosi, asseconda le esigenze dell’operatore. In un gruppo di neri ce n’è uno alto, grosso, con la barba e una maglietta bianca di cotone con una scritta rossa sul petto. È una scritta Gancia, la réclame dello spumante. Jacopetti racconta che l’uomo è un ufficiale mulelista, è stato lui stesso ad accorgersene scambiandoci qualche parola in francese. Questo non l’ammazzano i mercenari, l’ammazza un soldato katanghese: gli spara sulla faccia, poi sul torace proprio sotto la scritta. Il nero cade in terra ma è ancora vivo. Ha delle reazioni nervose, si dibatte, sembra che nuoti nel sangue. Qualcuno lo trascina sull’erba e Climati lo raggiunge, gli punta la macchina a venti centimetri dal viso, riprende il battito degli occhi. Altre fucilazioni. C’è uno che dovrebbe morire appoggiato a un albero. Lo facciamo spostare, lo portiamo contro un muro, dove la luce è migliore... Poi ci sono le foto ricordo. Un ragazzo buttato per terra e mercenari katanghesi che, a turno, gli piantano un piede sulla faccia e si fanno riprendere in questa posa». Jacopetti, Nievo e Climati negano recisamente che i fatti siano accaduti nel modo in cui Gregoretti li ha riportati. Insistono però, ossessivamente, nel rimarcare che indipendentemente da loro, quei ragazzi sarebbero stati assassinati comunque. Il film ultimato si rivela una galleria di scene raccapriccianti, esecuzioni sommarie, mutilazioni, cadaveri e scheletri sparsi ovunque. Accostati a un orripilante eccidio di animali nei parchi nazionali africani. Viene subito sequestrato. Jacopetti e Prosperi finiscono sotto processo per concorso esterno in omicidio. Scatta perfino un’interrogazione parlamentare. Jacopetti ottiene dal giudice il permesso di tornare in Africa, con un cancelliere del tribunale, per recuperare le dichiarazioni autografe dei locali. «Avevamo salvato decine di persone dalle guerre civili, accodatesi alla nostra troupe e tratte in salvo. Per fortuna mi rilasciarono le loro testimonianze scritte». I due autori, alla fine del processo, verranno prosciolti da ogni accusa. Guardando il film è molto difficile determinare quanto ci sia di vero nelle immagini mostrate, quanto sia truccato dalla tecnica velata di malafede e quanto provocato cinicamente, solo per essere filmato. Gualtiero liquiderà ogni replica con il solito motto di humour nero: «Se dico che in Africa muoiono centottanta ippopotami al giorno dovrò pur mostrarne una ventina io... E poi Riz Ortolani aveva composto una musica magnifica, a sincrono con ogni ammazzamento». «Me ne fotto del Ruanda», griderà un ghignante Carmelo Bene trent’anni dopo, gelando il pubblico costanziano del Parioli. «Anche voi ve ne fottete, ma non avete il coraggio di dirlo». A modo suo, stava sintetizzando la mutazione percettiva del pubblico nell’era post jacopettiana. Il profluvio quotidiano di migliaia di morti ammazzati, serviti a pranzo da ogni tg, non turbava più nessuno. Negli anni Sessanta, invece, Jacopetti è un elemento disturbante, protagonista di una rivoluzione dell’immaginario.
L’o-sceno, ciò che nel mondo greco doveva essere conosciuto ma non rappresentato, per conservare un senso tragico e indurre a una riflessione collettiva, viene continuamente esibito. Lo shock, reiterato, finirà gradualmente per normalizzarsi. E l’11 settembre del 2001 Porta a Porta riterrà opportuno montare l’accartocciarsi delle Torri Gemelle sulla sua solita sigla, l’ariosa colonna sonora di Via col vento. Angelo Del Boca, il più autorevole storico del colonialismo italiano, è lapidario in merito ad Africa addio: «Non c’è un istante, in due ore e mezzo di proiezione, in cui un africano sia innalzato alla dignità di uomo. Si sottolineano i particolari più disgustosi, i denti cariati, le bocche aperte in atteggiamento ferino per passare con uno stacco allusivo alle fauci delle belve». Franco Prosperi, l’elemento teorico della coppia, ripercorre i fondamenti concettuali del film: «“Viva l’Africa indipendente”, gridavano stupidamente e demagogicamente i socialcomunisti. Noi, invece, avevamo visto in faccia la cruda realtà e dicevamo che l’Africa non poteva ancora accedere all’indipendenza. Le popolazioni locali non erano mature». I due registi si collocano a distanze siderali dal documentarista francese Jean Rouch, che nel 1955 aveva girato in Ghana I maestri folli. Raccontava, senza cedere mai a forzature compiaciute, i rituali di una setta religiosa nata negli anni del dominio coloniale. Gli adepti venivano colti nel momento della possessione: in preda a convulsioni e tremiti, si lasciavano possedere dagli spiriti della forza: il governatore, il dottore, il conducente di locomotiva, tutti ruoli dei loro dominatori bianchi, rivoltati in una farsa parossistica, raggiunta attraverso un perturbante stato di trance. Una metafora viva e pulsante di un’epoca, osservata con acuta sensibilità. Molto distante da Africa addio, che in Italia viene premiato con il David di Donatello, generando roventi polemiche: il governo Moro si dissocia in blocco, tacciando il film di razzismo e fascismo. Dino Buzzati prova ad approfondire: «Il film ci rivela quanto abietto, crudele e stolto è l’uomo: è quindi una lezione di umiltà. Ci frusta il cuore coi nefandi stermini di uomini, donne, bambini biondi e neri, di stupendi animali innocenti. Moralmente, insomma, è una purga di rara energia. C’è però un lato negativo, forse. Africa addio, volontariamente o no, risulta razzista, tirando a dimostrare che nella generalità i negri dell’Africa sono della gente inferiore, e che l’avergli dato libertà e indipendenza è stata una delle più grosse balordaggini mai commesse dall’Occidente». Provato dagli strascichi di Africa addio, Jacopetti ripiega su un’opera più leggera, ricorrendo all’ironia. La premessa è esplicita: «L’attualità è faticosa e ingenerosa. Voglio raccontare lo schiavismo, inventandomi una macchina del tempo che mi porti nell’Ottocento». Il risultato è Addio zio Tom. L’inizio delle riprese si rivela però subito impervio. Giampaolo Lomi, direttore di produzione e intimo di Jacopetti, non riusciva a trovare una location per il film. In Brasile, set prescelto in quanto pieno di utilissime comparse nere a buon mercato, gli jacopettiani sono persone non gradite. In più di un’occasione, nei cinema che proiettano Africa addio, viene dato fuoco, in segno di aperto dissenso con la programmazione. Lomi, dietro consiglio di alcuni informatori locali, decide di piegare su Haiti. L’isola è il regno incontrastato di Papa Doc Duvalier, dittatore pittoresco quanto sanguinario. Al suo attivo, durante la sua permanenza al potere, ben trentamila esecuzioni compiute dai suoi miliziani. Con Jacopetti e la sua banda, il feeling è invece immediato: Papa Doc concede la totale libertà alla troupe, garantendo inoltre un numero illimitato di comparse, prese dalla popolazione locale. Unico dazio, alcune plateali cene pauperistiche al desco del dittatore, smanioso di mostrare la propria intima vicinanza al popolo sbocconcellando in pubblico pane e acqua di piscina. Jacopetti ricorderà quei convivi con il disincanto che gli è proprio, preferendo ripensare all’intenso rapporto con le ragazze haitiane. Alcune revolverate fuori bersaglio rimediate da un losco figuro e un paio di sopravvivenze fortunose a naufragi estremi completeranno il diario del set. Franco Prosperi è forse l’elemento più inquietante della coppia autoriale. Spesso, nelle interviste della senescenza, lo si vede incorniciato nel suo studio da smisurate zanne d’elefante, vistosa eredità dei set. A proposito di Addio zio Tom, è sempre lui ad assumersi il delicato onere di un corredo teorico al misfatto filmico. «Noi volevamo far capire al pubblico che non c’era la coscienza di compiere il male da parte degli allevatori bianchi, nell’Ottocento, negli Stati americani del Sud. Percepivano il deportato africano come un animale dalla forma umanoide, da legare a un basto e impiegare nel lavoro. Ritenevano che non sarebbe stato capace di vivere in modo diverso. Lo apprendevano anche sugli scranni della Chiesa, la domenica: il pagano non aveva anima, gli diceva il prete. E loro ci credevano». Le orchestrazioni di Riz Ortolani, alternando toni ariosi e scanzonati, conferiscono una patina perversa al viaggio nel tempo di Jacopetti e Prosperi. Alcune soluzioni di regia anticipano tanta pornografia a venire. La profferta della verginità di una tredicenne nera è interamente ripresa in soggettiva, per esaltare il voyeurismo compiaciuto dello spettatore. Morbosità che imbeve un dubbio proposito didattico, regalando alla scopofilia dello spettatore il brivido sadico di essere lo schiavista. L’inammissibile piacere sadiano del maneggiamento dei corpi magnifici, appesi e inermi. La loro
camera indugia pesante sui corpi lucenti di neri ingabbiati, umiliati, maneggiati, aperti, violati, esposti. Nemmeno i neonati vengono risparmiati. Quentin Tarantino lo citerà apertamente, in Django, esponendo nudo e sospeso il corpo magnifico di Jamie Foxx. Sull’asse Jacopetti-Tarantino la corporeità dei neri va esorcizzata degradandola a capo di bestiame, per annichilirne l’impudica superiorità fisica. Jacopetti non perde mai la sua ironia da gerarca in relax: mette in scena se stesso, affiancato dal fido Prosperi, nei panni dell’eliminatore di schiavi in fuga, imbracciando fucili di precisione. Sui riff di chitarra di Ortolani, i neri muoiono a frotte, sputando sangue, in spettacolari ralenti alla Peckinpah. Poi, impilati a piramide nella foto ricordo dei due cineasti cacciatori, resuscitano all’improvviso e scappano ridendo. Il viaggio nello spazio e nel tempo prosegue, approdando in una fabbrica degli schiavi in Louisiana. Il padrone, un damerino obeso, strizzato in un appariscente completo bianco, si rivolge all’obiettivo: «Questa manza sta per sgravare», dice palpando la pancia gravida di un ragazza nera, che lo guarda timorosa. Poi comincia la sua ronda tra donne nude preparate alla monta e stalloni umani, scalpitanti in bramosa attesa nei recinti. Parte una musica cinicamente sentimentale, preludio della deflorazione di un’adolescente, data in pasto dall’allevatore a uno schiavo gigantesco e sdentato, dalla demenza ridanciana. Il padrone assiste allo stupro con apatia di routine, da zootecnico, concludendo l’atto con un getto d’acqua fredda. «Ecco come nasce un piccolo bastardo», spiega sorridendo in macchina. Se Sade parlava il linguaggio della vittima, Jacopetti e Prosperi architettano, quattro anni prima di Pasolini, una Salò scanzonata, alleggerita dall’esotismo e dal fantasioso viaggio nel passato. Osservata trionfalmente dalla prospettiva dei persecutori. Gli schiavi sono mostrati come bestie fameliche, con le facce infilate nelle greppie, come polli affamati. Una madre che getta il suo piccolo nella mangiatoia. Negli occhi di ogni figurante è leggibile lo smarrimento quieto di chi accetta di essere dato in pasto al cinema dal proprio dittatore. Nessuno sembra consapevole del progetto dei due autori, e verosimilmente nessuno sospetta di essersi guadagnato, con quelle riprese, un morboso ludibrio mondiale. In un’altra sequenza si assiste all’ingresso di un’orda di turisti dell’America del Nord in una vecchia casa della Louisiana. Vogliono riassaporare l’atmosfera del Sud schiavista. Ad accoglierli neri e bianchi, per l’occasione addobbati filologicamente da schiavi e padroni. Vendono a peso d’oro presunti fiocchi di cotone d’epoca e altri souvenir. Difficile stabilire se l’evento sia mai accaduto. Di certo la trasformazione di un periodo storico sanguinoso in puro folklore diventerà un’abitudine ricorrente, a diverse latitudini. Ed ecco forse il merito che distingue Jacopetti dai suoi epigoni: saper cogliere, attraverso la finzione, sintomi profetici. Il film avrà un successo commerciale inferiore ai precedenti, ma non eviterà le solite violente polemiche. A Bologna delegazioni di studenti africani, di Lotta Continua e di Potere Operaio, impediscono l’accesso in sala agli spettatori. Ma anche Jacopetti comincia ad annoiarsi. Dopo Addio zio Tom, fa solo Mondo candido nel 1975, prima di concedersi un esilio dorato in Thailandia per diversi anni. Ispirato al Candido di Voltaire, infarcito di erotismo a buon mercato in omaggio al botteghino, il suo addio al cinema si traduce in un fiasco. Jacopetti, pur amando il progetto, è il primo a riconoscere la velleità della sua ambizione. Anche perché forse il candore è una zavorra di cui si è liberato troppi anni prima. Qualche anno dopo, al sopraggiungere dei novant’anni, non sembra mostrare nessun cedimento rispetto alla maschera da avventuriero ottocentesco indossata per quasi un secolo. Eppure, in una delle sue ultime interviste, lascia emergere un’insolita inquietudine crepuscolare: «Ho visto tante morti violente e non c’è niente di più ingrato della morte, del presentare quello che resta del morto: posizioni oscene, scomposte. Quello che mi preoccupa davvero dei miei resti, è che possano offrire un brutto spettacolo. Vorrei che il mio corpo senza vita scomparisse, io sogno un elicottero inghiottito dal Vesuvio, per dissolvermi come gas. Mi angoscia tremendamente l’idea di morire ed essere trovato solo dopo qualche giorno, chissà in quali condizioni: la percepisco come una mancanza di pudore, come fosse una colpa mia». Mentre dice queste parole i suoi occhi, di solito accesi di un’arrogante vitalità, si fanno grigi, spenti. All’improvviso ci si accorge che l’uomo che parla è quasi un centenario. E, forse, se ne rende conto per la prima volta anche lui.
LA DIVA MANCATA
Aeroporto di Amsterdam, grigia mattina d’inverno, inizio degli anni Settanta. Una donna dalla bellezza lancinante cammina nell’atrio, in direzione dei taxi. È appena scesa da un aereo proveniente da Roma e presenta un unico bagaglio a mano: una borsetta minuscola griffata Chanel, in pelle di coccodrillo e catenella d’argento. Sfilando nel grande androne, lascia ondeggiare maestosamente una cascata di capelli neri. Gli occhi enormi, scuri e profondi, hanno uno strano velo febbrile. Saettano qua e là occhiate circospette. Il pallore è sudato, artificiale. Le belle gambe flessuose sbucano da una gonna hippie, a fioroni fucsia. I tacchi alti rintoccano forte, al ritmo convulso di chi ha troppa fretta. I poliziotti dell’aereoporto la tengono d’occhio: da qualche tempo la vedono arrivare a sabati alterni, da Roma, per ripartire il giorno dopo, stringendo in mano sempre e solo la sua borsetta. Quella mattina decidono di fermarla. Le chiedono di mostrare il contenuto dello striminzito bagaglio. La donna accetta, con disperata rassegnazione. Come una Winnie beckettiana, estrae con ritualità lenta e stupita, oggetto dopo oggetto, tutto il kit di giorni non poi così felici: un limone, un cucchiaino, un laccio emostatico, una siringa d’argento, un grosso mazzo di banconote arrotolate. E una piccola dose di eroina, sufficiente ad arrivare all’incontro con lo spacciatore olandese senza andare «a rota». Lo aspetta in camera d’albergo per aspirare col naso, col dovuto discernimento, un assaggio della sua merce, ed eludere qualsiasi tentativo di sòla, come si dice nella Roma da cui la donna proviene. E in cui l’aspettano, con le vene palpitanti, molti amici. Quella mattina, identificandola, i poliziotti ne ricostruiscono l’identità. All’anagrafe risulta come Marie Christine Aumont, meglio nota come Tina. Di professione, attrice. Nata a Beverly Hills nel 1946. Suo padre è il divo francese Jean-Pierre Aumont, sua madre era la star dominicana María Montez, morta d’infarto mentre era immersa nella schiuma della sua vasca, in una villa parigina di Suresnes. Tina aveva solo cinque anni. Oggi, nel posto di polizia aeroportuale, i suoi anni sono venticinque ed è già un’attrice allo sbando, una Diva in decadenza senza nessun passato da rimpiangere, senza una Hollywood intorno che possa ammantare di fascino i suoi stravizi. La attende una notte in commissariato: la polizia locale non può trattenerla più a lungo, perché la dose che ha con sé rientra nei limiti dell’uso personale. Modica quantità di cui Tina invoca la restituzione, dilatando gli occhioni da bimba disperata. Le serve per passare la notte in guardina senza urlare di dolore. Acconsentono, e al mattino le restituiscono la libertà. Progettano di incastrarla al volo di ritorno, quando sarà munita di una dose più massiccia, penalmente perseguibile. Sanno che non può sfuggire. Lo sa anche lei, ed evita l’aeroporto, optando per un rapsodico ritorno in treno. Segue il filo di improbabili coincidenze ferroviarie, tra Bruxelles, Parigi e Marsiglia, in un viaggio smisurato, lungo due giorni. Irregolare come la sua esistenza. Arriva a Roma stremata, abbarbicata al suo prezioso carico. Nella capitale, nell’inferno rutilante di Cinecittà, ci è capitata nel 1966, grazie all’occhio rapace del romano per antonomasia, Alberto Sordi. La ha adocchiata nella mondanità di Taormina e ha capito che era perfetta per completare il cast di Scusi, lei è favorevole o contrario? Nel film, che lo vede anche nei panni di regista, Sordi è un imprenditore in grande spolvero, munito di spider e conto in Svizzera d’ordinanza. Contrario al divorzio per ferrei principi religiosi, gestisce un autentico harem, organizzato secondo i giorni della settimana. Sordi, col solito intuito ferino, la inquadra come la vedrebbe l’italiano medio. Come un lampo vitale di perdizione, da consumare fugacemente e abbandonare al proprio destino, perché potrebbe rivelarsi fatale. Preferendogli, italianamente, donne più materne. Tina viene doppiata in sboccato romagnolo: chiama Sordi Tulliaccio, deridendo la sacralità matronale della moglie Silvana Mangano e cercando di trascinarlo nelle sue folli notti al Piper. Bella e perduta: così, da subito, la pretende il grande schermo. E lei lo asseconda, anche nella vita. Dopo la morte della madre, Tina è cresciuta in dorata solitudine, in un collegio svizzero. Così ha disposto Marisa Pavan, nuova sposa di suo padre. Attrice dal carattere altero, sorella di Pier Angeli, altra diva vocata alla perdizione. La matrigna si confermerà troppo fedele al ruolo, riservando a Tina scarse attenzioni. Suo padre rimarrà sempre una figura monumentale, fredda e distante. Interamente assorbito dalla sua carriera, scelto da grandi autori francesi e
americani per il suo sguardo limpido e il sorriso da eroe. Vocazione all’impresa stampata sul volto, e legata a veri trascorsi bellici: fu protagonista della Resistenza francese, rischiando la pelle a più riprese, guadagnandosi la Legion d’onore per il suo coraggio. Tina si sente più affine al fantasma di sua madre, morta troppo presto per lasciarle un ricordo reale. La figlia ne trasfigurerà l’immagine, immergendosi nei suoi film per ricostruirne la carriera da diva della Universal. María Montez fu una delle poche stelle latine capaci di affermarsi nella Hollywood degli anni Quaranta, quando le icone erano rigorosamente WASP. Alle minoranze etniche più o meno disprezzate rimane il folklore da comprimari buffi o, al massimo, ruoli da villain, destinati a soccombere per mano di protagonisti anglosassoni. La dominicana María Montez, come primo passo, decide di usare il proprio corpo sensuale per affermarsi come pinup. È un trionfo: le sue foto in abiti discinti sbucano dagli armadietti di ogni soldato americano: estremo conforto, nei foschi giorni di guerra. Intuisce poi che il proprio peccato originale, la provenienza caraibica, ben impiegato, può rivelarsi una tara vantaggiosa. La guerra in corso, i postumi della depressione economica, alimentano nel pubblico, americano e internazionale, la smania d’evasione, la fuga nell’esotismo metastorico. Nasce a Hollywood il filone escapista. Film dopo film, la Montez diventa regina incontrastata di un Oriente posticcio e onirico, crudele sacerdotessa d’appendice, sovrana di tribù pittoresche, affollate di adoratori di serpenti. Attraversa sfavillanti B-movie in costumi orientali attillati, diventando anche un’indimenticabile Sherazade da Mille e una notte. Seduce pubblico e comprimari, al ritmo della rumba e del tango, in omaggio al proprio nome d’arte, mutuato dalla celebre ballerina Lola Montez. In ogni ballo sfrenato agita leziosamente la propria vistosa chioma fulva, perché i riflessi dei suoi capelli brillino sullo schermo, esaltati dalle nuove qualità di pellicola. Viene ufficialmente incoronata Regina del Technicolor. Gestisce abilmente il proprio personaggio anche fuori dal set, esibendosi in plateali quanto studiati scatti d’ira, che seguono spesso entrate in scena sontuose, nei locali di West Hollywood. Fornisce materia viva e quotidiana ai rotocalchi, alimentando il romanzo di sé. Fino a cedere troppo ai propri eccessi, a rompere con la Universal per inadempienza contrattuale, ed essere costretta a riparare in Europa, con figlia e marito. Per morire d’infarto, a soli trentanove anni, nella vasca di una villa principesca. Tina cresce seguendone il fantasma, costretta a misurarsi con un divismo familiare a cui sembra fatalmente destinata. Jean Cocteau aveva scritto un poema per lei, La fille aux étoiles, e Marlene Dietrich la cullava dolcemente, nelle cene a casa Aumont. Tutto questo le viene raccontato, non può ricordarlo. Per quanto vero, non consola la sua solitudine e somiglia a una leggenda, da raccontare ai giornalisti. A diciassette anni crede di trovare un rifugio solido nel matrimonio con Christian Marquand, attore francese molto ambizioso, di vent’anni più grande di lei. Voci insistenti lo designano come il vero, grande amore di Marlon Brando. Di certo, l’atteggiamento verso la moglie adolescente non è dei più protettivi. Il loro matrimonio durerà due anni di burrasca, costellati di partouze hollywoodiane. Pedaggio dovuto ai tentativi di carriera, così le suggerisce Marquand, condividendo le grazie della propria sposa ninfesca. Tina riesce a esordire con Losey in Modesty Blaise. Ha una piccola parte, deve guidare una motocicletta. Ma ha mentito al regista, spacciandosi per provetta motociclista. Parte a razzo e si schianta contro un muro, in una prima scena carica di presagi. Fa anche una parte in una commedia western, con Dean Martin e Alain Delon. Bulimica in ogni vizio, finisce per relegare il sesso gradualmente sullo sfondo. Tabagista estrema, Tina assume di tutto, senza filtri: alcol, pillole, eroina, cocaina. Non disdegna nemmeno i voli lisergici, così in voga negli anni Sessanta, ingurgitando tutto ciò che le viene presentato. Graziata da fibra e salute da squalo, vede la sua bellezza esplodere sfiorendo. Abuso dopo abuso, lo sguardo si ammanta di una patina torbida, sempre più satanica, che la rende un esemplare unico sul palcoscenico di Cinecittà. Fluttua ebbra tra i residui di quella che fu la Hollywood sul Tevere, dissipandosi tra il pecoreccio e le sperimentazioni d’avanguardia incerte tra il lisergico e l’ombelicale. Dopo la separazione da Marquand, scivola nell’universo psichedelico del pittore Frédéric Pardo e di Philippe Garrel. Seguono viaggi acidi, impressi su pellicola, che iniziano a Marrakech e finiscono in una comune di Grottaferrata, alle pendici dei Castelli Romani. Finisce poi tra le mani di un Tinto Brass ancora incerto tra una confusa ispirazione anarchica e più cogenti pulsioni boccaccesche. Il regista considera Tina, ancora oggi, «la donna più bella che abbia mai visto». La ingaggia come protagonista dell’Urlo. Il film, programmatica irrisione della «trappola borghese e convenzionale del matrimonio», inizia con la Aumont che pianta all’altare il futuro marito. La sua fuga evolve in un road movie allegorico e sgangherato, tra bobby manganellanti, frammenti di autentici reportage di guerra, hippie e cannibali. Tina, con la sua sola presenza in scena, avoca il film a sé. Profonde generosamente innocenza infantile, lampi vampireschi, urla lacerate. Ha gli occhi bistrati di nero pece, le giarrettiere macchiate di sangue fresco, la bocca perennemente dischiusa. Sembra la Lady Godiva, nuda a cavallo, di John Collier: una donna fatale, lanciata al galoppo contro se stessa, che promette di accecare chi la guardi troppo a
lungo. Al suo fianco, ad arginarne l’impatto perturbante, c’è un Gigi Proietti logorroico e sconnesso, con un piede ancora nell’avanguardia e l’altro nell’infinito cabaret a venire. Alla fine del film continua a delirare filastrocche, mentre lei si schianta in auto, tra lamiere contorte, come se fosse il corpo sacrificale del ’68, anno di produzione del film. Al doppiaggio si ritroverà in bocca la voce calda e profonda di Mariangela Melato. Un timbro roco, come il suo, da mezzo soprano. Udibile, con tanto di inveterato accento francese, solo in Cadaveri eccellenti. Francesco Rosi la vuole nei panni di una prostituta furba e sprezzante, interrogata in questura, destabilizzante perfino per il granitico Lino Ventura. Il maggio del 1968 la vede sul set di un altro pretenzioso film manifesto, dopo L’urlo: Partner, di Bernardo Bertolucci, replica da discount del cinema godardiano. Recita straniata testi di Barthes, specchiandosi nello sguardo sfuggente del suo omologo maschile, Pierre Clémenti. Con gli occhi azzurri dipinti sulle palpebre, delira di detersivi e di marche, che vende porta a porta, sussurrando che l’amore è sporco, mentre la lavatrice esplode di schiuma. Solo Fellini, nel 1976, ne saprà cogliere e illuminare la grazia preraffaellita. Le dà il ruolo di Henriette, suonatrice di violoncello, viaggiatrice misteriosa. Piena di mistero, nel vaporoso abito lilla, pallida di cipria e di vizio, le occhiaie alleggerite dal trucco, sempre sospesa tra lascivia e innocenza. L’unica in grado di indurre, sparendo senza spiegazioni, proprio com’era apparsa, il Casanova Sutherland a un momentaneo proposito suicida. Anche i mesti casanova di via Veneto tempestano il centralino dell’hotel Locarno, hotel Plaza, Minerva, nel centro di Roma, eletti di volta in volta a residenze effimere, di telefonate passionali. Ma lei riattacca sdegnosa: preferisce decisamente la compagnia degli spacciatori. Per poi addormentarsi strafatta, con i tizzoni roventi che le cadono dalla canna rimasta appesa alle labbra, dando fuoco ai velari hippie che la circondano, tra candele, incensi, veli e tendine. Più di una volta è costretta a bruschi risvegli, che le consentono di sedare in extremis principi di incendio. Dichiara a Paris Match, alimentando il suo personaggio: «Mi paragonano alla nicotina: sono l’ossigeno, il soffio, lo stimolo. La gente preferirebbe amarmi morta, li disturbo. Ma sono viva». Il cinema, in fondo, la disgusta: «Che ambiente orribile, eppure era il mio, e quando il ciak batteva, uscivo dalla merda ed entravo nell’eternità», svela, prendendo in prestito parole di Isidore Isou. Potrebbe diventare una diva, ma rimane ai margini del cinema italiano. Troppo vicina alla dimensione dell’eros puro, all’amour fou bruciante e distruttivo. Non alla starlette popputa e in fondo materna, perfetta per il sollazzo del comico deforme di turno. Gli occhi liquidi, sempre pronti alla deriva, sono il gorgo meduseo che seduce tutti. Ma chi le si avvicina troppo, si spaventa: le belle mani sono sempre più gonfie, tempestate di buchi, gli avambracci pieni di piaghe. A una festa cinematografara, su una terrazza romana, è sola, in un angolo. La sua amica Maria Schneider, a lei spiritualmente affine, la prende per mano e sparisce con lei, in bagno. Le regala un attimo di piacere, conscia della paura che hanno gli uomini di lei, e del sesso che le manca da troppo tempo. Sul set maschera tutto, con lunghi guanti eleganti. Negli anni Settanta l’autodistruzione procede a passo di carica. Culmina in pieno 1978, con la più dadaista delle spedizioni. Invia da Bangkok, al suo fidanzato produttore, Fabrizio Lori, due statuette. Sono le raffinate miniature di due divinità orientali, e contengono quattrocento grammi di oppio. Sufficienti ad attivare le narici dei cani lupo di Fiumicino, far finire in galera il fidanzato, piacione non troppo arguto del generone romano con velleità da regista. Lori dedicherà alla vicenda due film sprofondati in un giusto quanto irreversibile oblio: Il falco e la colomba, con Fabio Testi nei panni di un onorevole democristiano deciso a redimere per amore una tossicissima Lara Wendel, e un altro film dal titolo inequivocabile, Bangkok sola andata. Tina non potrà vederli: viene condannata a tre anni, ridimensionati in appello a nove mesi. Che non sconterà mai: si ristabilirà a Parigi, recidendo il suo rapporto col cinema italiano e continuando imperterrita la sua vita di eccessi. Si sposerà con un eroinomane algerino, che la pugnalerà alle spalle, fuor di metafora. Come dicono i suoi amici francesi, Tina è attachante, commovente e disperante, nella sua fragilità: pura, nella sozzura che la avvolge sempre. Povera e malata di enfisema polmonare, trascorre gli ultimi istanti della sua vita a Parigi, circondata dagli amici più intimi. Bellissima, fino all’ultimo giorno, si addormenta per sempre il 28 ottobre del 2006 nel sud della Francia, a Port-Vendres. Muore per embolia polmonare, con una risata rauca e, forse, nemmeno un rimpianto.
L’ICONOCLASTA VISIONARIO
Nel 1968 Carmelo Bene, consacrato enfant prodige della scena italiana, abbandona platealmente il teatro. Non ha nemmeno trent’anni e sembra già saturo dei teatri off romani, del tanfo di muffa e dei sipari sdruciti, del sarcasmo della critica ufficiale. Tenta un’intima rivoluzione tolemaica: cambiare scenario, lasciarsi attraversare da un linguaggio non ancora sperimentato, cimentarsi con i set, gli obiettivi, le luci. Fare a pezzi la propria vita interiore, parodiandola sul set, per ricucirla in moviola. «Nelle strade i sessantottini strepitavano per cause equivoche, sputando oggi sulla poltrona a cui si sarebbero avvinghiati domani. Io ero dedito a una causa molto precisa. La mia». Ennio Flaiano, tra i primi a cogliere la potenza eversiva del suo teatro, lo incoraggia: «Lo provi, il cinema, Carmelo, anche per sbagliarlo. Nessuno si concede più il lusso dell’errore, in questo paese». Gli elargisce anche un piccolo prestito. Mai restituito. Accolto denaro e consiglio, Carmelo si abbandona a un uso spregiudicato della macchina da presa. «Girare film è una febbre, me lo ripeteva sempre Pasolini, che non riusciva a smettere. Cercava il tempo, in moviola. Ma il tempo non c’era, nemmeno per lui. Dal canto mio, ho dormito un’ora a notte, per sei anni. Polverizzando cifre astronomiche, minando definitivamente la mia salute. Sempre ubiquo e schizofrenico: al di là e al di qua della macchina da presa. Circondato da maestranze efferate, sempre dominandole. Senza che nessuno riuscisse mai a intaccare la mia solitudine. Per salvare, alla fine, un paio di sequenze, in tutto. Provare, per non crederci». Si è costantemente dichiarato iconoclasta, ferocemente avverso alle immagini. Negli ultimi anni di vita, ripete ossessivamente quanto il cinema, «fogna di tutte le arti», annichilisca il presente, la flagranza della vita. Sia sempre, mortalmente, «filmato, e non filmantesi». Eppure, da iconoclasta paradossale, Carmelo è sempre stato un avido costruttore di immagini, disseminate nel profluvio dei suoi racconti orali, sempre immaginifici, attraversati dal basso continuo di un’ironia velenosa: «L’irresistibile lama surgelata del comico». Sembrava smanioso di creare un mondo visivo e poi bruciarlo, all’istante, senza lasciare il tempo ai materiali usati di rapprendersi, di diventare museale confezione. Quando farà cinema, brucerà totaloni creati per ore in un frame quasi impercettibile. Rappresentare e rapprendersi, verbi assonanti e necrotici che gli facevano orrore. Come se l’immagine, osservata per troppo tempo, diventasse velenosa. Il pittore leccese Tonino Caputo, suo intimo amico, raccontava il carmelitano odio amoroso verso i pittori: «Detestava il fatto che le mie opere mi sarebbero sopravvissute, mentre la sua arte attoriale era destinata a nascere, vivere e morire in lui». Nel prologo teorico del film Capricci, del 1969, Bene e Caputo, rispettivamente il Poeta e il Pittore, si accapigliano. Carmelo si difende dalle martellate del pittore opponendogli una falce: è il suo modo di mettere in ridicolo la falsa coscienza ideologica delle guttusiane rappresentazioni delle lotte operaie, molto in voga in quegli anni. Individua il proprio nobile compito poetico nel rintracciare una matrice originaria in un vissuto raccontato e reinventato, ritessuto oralmente e in forma di scrittura, teatro, cinema. Una vita inventata, che procede per immagini fulminanti. «Qualunque autobiografia è sempre immaginaria. Tu credi di raccontare la tua vita e chissà cosa racconti. C’è solo da disdire. Le cose sottaciute o non dette valgono più delle cose raccontate». Un amarcord ebbro, che ha litaniato per tutta la vita a se stesso, ai pochi intimi o alle folle oceaniche in cui si specchiava, «parlando a se stesso, all’orecchio, in pieno mercato», come il saggio descritto da Epitteto. Come un Krapp feticisticamente legato al nastro di un repertorio ripetuto all’infinito, puntualmente dimentico dei giorni e dei racconti precedenti. Con l’entusiasmo intonso di chi ritrova, per la prima volta, un ricordo inaspettato. E lo dona a chi ascolta, cambiando voce e tornando bambino, anche negli ultimi mesi di vita. Gli è sempre bastato sprofondare nei ricordi per riacquistare un timbro argentino, da Pinocchio fragile, eccitato da lampi lucignoleschi. Si spogliava delle crudeltà amletiche e delle amplificazioni elettroniche. Risaliva il fiume di Ballantines che gli aveva inondato la gola, per decenni. Esorcizzava tonnellate di Gitanes, cento al giorno, aspirate a fondo. Accantonava il tono da belva reclusa delle ribalte costanziane, concedendosi il lusso estremo, qua e là, di ridere teneramente di sé. Il suo sussurro, ipnotico come una litania, lasciava affiorare un Salento cristallizzato in un tempo circolare, escluso dalla Storia e dalle sue illusioni di progresso: «Tutta la terra d’Otranto è fuori di sé. Se n’è andata, chissà dove. È una terra nomade, gira su se stessa. A vuoto». Nasce a Campi Salentina nel 1937, circondato da tabacco, grano e ulivi. «Abortito, per la precisione: mi presero per i
capelli». Il padre lo sognava notaio, la madre prete. A cinque anni era già chierichetto, con tanto di cotta bianca. Serviva messa dalle prime luci dell’alba, mulinando l’incenso con maestria, estasiato dall’appeal inorganico delle madonne di cartapesta, impregnate di sensualità pagana dagli artigiani locali. Gli occhi, già sgranati, si riempivano di azzurro, argento, rosso, rosa e oro: cromatismo lussurioso di cui ha imbevuto il suo teatro e, successivamente, il suo cinema. Una volta sollevò furtivo la veste della sua madonna prediletta, aspettandosi la visione dell’origine del mondo e rimanendo pietrificato dal confronto con uno scabro supporto di legno. La liturgia, invece, rimaneva uno spettacolo vertiginoso. Grappoli di beghine che litaniavano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale. «Un turpiloquio degno di Rabelais. Bestemmiavano, rispondendo a me e al prete. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventavano ianua culi. Era grandiosa, la messa in latino. Un grave errore, sopprimerla: quando hanno capito di che si trattava, le chiese si sono svuotate. Amavano Dio, perché non lo capivano. Il mio teatro, fondato sull’incomprensione tra officianti e spettatori, è nato allora». Divorava ostie con gli altri chierichetti, affamati e clandestini: «Un Dio sconsacrato, mangiato a colazione». Entrava poi in classe, consegnandosi alle molestie di Scolopi ad alto tasso etilico, non particolarmente ferrati in teologia. «Ti afferravano la mano, nel buio del confessionale, per farti vagliare le loro erezioni selvagge. E poi volevano solo il sangue, di nostro Signore. Guai ad annacquare troppo l’ampolla di vino cerimoniale: ti beccavi dei sonori vaffanculo, digrignati davanti ai fedeli». Ricordi anche aberranti, ma sempre rivisitati come comici, senza ombra di vittimismi o smanie di denuncia retroattiva. Trasformati in azioni sceniche. In cinema. Dopo la scuola si apriva il sipario del tabacchificio, diretto da suo padre. Sua madre si occupava della contabilità. «Un serraglio sardanapalico». Frotte di giovani operaie gli si spogliavano davanti, incuranti della sua precocità. Molto più perturbanti delle madonne. Ridevano sguaiate, ammazzando topacci enormi e giocando a tirarseli addosso. Un’infanzia costellata di stupori e desideri. E di apparizioni spaventose, tatuate nella memoria, come le reliquie dei martiri di Otranto. Centinaia di teschi sotto vetro, ancora oggi custoditi nella cattedrale locale. Una miriade di orbite vuote, perforanti, impilate le une sulle altre. Quanto rimane di ottocento otrantini che non abiurarono la fede cristiana. Puniti con la decapitazione dagli invasori turchi, nell’agosto del 1480. Un prolifico incubo ricorrente, nell’immaginario carmelitano. Da trentenne fantasticherà, in Nostra Signora dei turchi, testo letterario trasformato prima in spettacolo teatrale e poi in film, di essere uno di quei decollati. Nel film del 1968, di cui è anche protagonista, Carmelo Bene oscilla tra la vita e la morte, tra dimensione terrestre e spiritualità, tra amor sacro e amor profano. Come una marionetta kleistiana, rotta dalle continue cadute, e miracolata dalla riparazione di una santa Margherita mecenatesca come la sua interprete, la vera compagna di vita Lydia Mancinelli, produttrice del suo teatro e del suo cinema. Un cavaliere di una battaglia immaginaria, inesistente, sempre domestica. Vissuta nelle immagini colorate, azzurro e rosa sempre ricorrenti, realizzate dal geniale operatore Mario Masini. Nelle battaglie finte e nelle liriche del melodramma verdiano, sontuose quanto claustrofobiche, da Eisenstein da camera, come lo definiva Callisto Cosulich. Vissute indossando una corazza cigolante da eroe impotente, impelagato nell’inettitudine della vita quotidiana, tra stoviglie che non servono a nulla, se non a frangersi continuamente, valigie che si riempiono e si svuotano per un viaggio senza meta, sempre rinviato. Destinato a diventare pura nostalgia evocata dal suo voice over, in una terza persona all’imperfetto che incornicia il suo mondo cristallizzato: «Nietzsche diceva che l’arte è soltanto nostalgia mediterranea. Della vita non è rimasto più nulla. Poi ci sono secoli particolarmente stanchi, come quello che stiamo vivendo. Il nostro secolo è impostato dall’Ottocento e sull’Ottocento, quindi possiamo chiamarlo secolo di decadenza vera e propria. Di conseguenza non ci possono essere che nostalgici, là dove non c’è nemmeno la vita». L’olfatto viene sinesteticamente tiranneggiato dal rosso violento dei sughi e delle spezie della cucina meridionale, che si rapprendono sulla sua armatura cavalleresca. Potrebbe essere sangue versato in battaglia, ma è solo un avanzo di cibo stordente, da trangugiare in tavole nel corso di pranzi infiniti, seguiti da digestioni dilatate, che rendono impossibile qualsiasi impresa. «Da piccolo non mi rassegnavo all’idea che si dovesse cacare quotidiamente, o comunque doverlo contemplare. Non capivo come si potessero concepire nobili azioni, con questa spada di Damocle sempre incombente». E allora l’epica svanisce nell’autoincidentarsi: «Come nel mondo stirneriano di Buster Keaton, non c’è né eroe buono, né tanto meno antagonista cattivo. La terra è tonda, colombiana, ma rivestita di sapone. E si scivola, si scivola, si scivola, rassegnandosi all’impossibilità del martirio in un mondo contemporaneo non più barbaro, ma esclusivamente stupido. In cui ci si può concedere un’unica aspirazione: essere, finalmente, il più cretino di tutti». Nostra Signora dei turchi, esordio di Carmelo Bene nel lungometraggio, vincerà a Venezia il Premio speciale della giuria, offrendo a Bene la prima visibilità internazionale. Il Salento beniano è cinematograficamente affine all’Aragona metafisica di Buñuel, o al Messico venato di surrealismo in cui il cineasta spagnolo ambienterà i suoi film più perturbanti. Intrisi di misticismo deviante, vissuto come un incubo ricorrente, popolato da un clero feroce come il sottoproletariato che smania, o forse finge, di
redimere. Da una borghesia filistea, ostaggio del salotto paludato della propria etichetta, bramosamente attratta dall’agnello di Dio, ma per farne un solo boccone. Da mistici meravigliosamente cretini, come Don Chisciotte, destinati a essere spellati vivi da chi vorrebbero abbracciare. Affiancati da stiliti che, assediati dalle tentazioni di un demone femminile in vestito lolitesco, cestinano decenni di meditazioni e penitenze, scendono dalla loro colonnina piantata nel deserto, e si travestono da esistenzialisti, in dolcevita nero e spleen d’ordinanza, per annoiarsi a morte in un locale newyorchese. Il cineasta di Calanda, autore di un’autobiografia dal titolo beniano, Dei miei sospiri estremi, è stato un’ossessione, per Carmelo, che ne ha visionato tutti i film ripetutamente, come raccontano testimoni diretti. Per poi decretare, con sintesi sprezzante: «Buñuel è un coglione: in fondo, è un borghese anche lui». Forse era un rigurgito competitivo, per esorcizzare un’influenza così forte, difficile da rimuovere. O forse era perché intravedeva in Buñuel un subliminale disegno progressista, una fiducia utopica nella Storia, che lo disgustava. Una buona volontà non del tutto sopita, a cui lui amava opporre la forza nichilista e più poetica della nolontà. Vicina all’infinita e sacra demenza dei martiri, al loro abbandono: pregi appartenenti a san Giuseppe da Copertino, santo tutelare beniano protagonista della sceneggiatura cinematografica A boccaperta. Carmelo non riuscì a realizzarla per impossibilità produttive. L’aveva concepita calibrandola sulla grandeur impraticabile dei tre schermi, come il Napoléon di Abel Gance, per restituire l’ampiezza abbacinante delle sue levitazioni nei cieli salentini del Seicento. A bocca aperta, come stava sempre Giuseppe Desa, capace di perdere, dalle mani e nella vita, tutto quello che aveva. Lasciar cadere anche gli storpi, i ciechi, i mendicanti, che gli si abbarbicavano al saio, confidando nel miracolo. E all’improvviso si trovavano invece a librarsi in volo, cadendo rovinosamente, perché il santo si addormentava in quota. Aggravando così i loro malanni, o risolvendoli definitivamente con la morte. «L’ossessione della mia vita. Perdeva tutto, soprattutto se stesso. Nasce mentre contemporaneamente, a Campo de’ Fiori, danno fuoco a Giordano Bruno. Volava, ma non sapeva di volare, così come chi è in estasi non sa di esserlo. Quando si svegliava, piangeva, implorando una scala, appeso a un albero o a un cornicione. Restio a fare miracoli, per non dare mondano spettacolo di sé. Rifiutava stupidi esibizionismi. Non meditava, era fuori, impresentabile, definito “illetterato et idiota” dalle cronache del suo tempo. Lui stesso si faceva chiamare frate Asino. Tra me e san Giuseppe c’è l’affinità del vuoto, della vertigine, dell’altrove. Incarna un discorso del Sud: ridotto così com’è, a strisciare, non può salvarsi che volando. Non corrotto dalla mediocre inculturazione della televisione, il Sud vantava indolenza, renitenza al lavoro, rispecchiamento di una povertà molto nobile. Quando lo hanno alfabetizzato, il Sud, gli hanno imposto una cultura omologante, lontana dai suoi veri valori». Nelle sue memorie visionarie, Bene ripercorre anche la vocazione al palco, nata nella prima adolescenza. Non si sognava attore, ma cantante lirico. Il teatro di prosa, rispetto all’Opera, gli sembrava un eterno, inutile preambolo. «Nonna, ma che fanno? Si stanno mettendo d’accordo? Quando cominciano a cantare?», chiedeva insistente e bambino, rapidamente zittito, sulle poltrone del teatro Petruzzelli, davanti alle pièce teatrali. A tentare di ammaestrarlo, ci pensava zia Raffaella. «Era completamente folle. Tra pazzi ci si intende meglio. Monumentale, alta, magra, fasciata da questi veli a fioroni fucsia, sbiaditi, gozzaniani. Una Signorina Infelicita». Negli incontri domenicali gli impartiva efferate lezioni di bel canto, disperandosi: «Come sei stonato, nipote mio!» Il racconto beniano è pura sceneggiatura embrionale, più vicina ad Aldrich e Poe che a Fellini. Sua zia ne emerge come una Bette Davis bistrata e febbrile, abitante in una casa Usher leccese, in piena rovina, avvolta da gelsomini dal profumo soffocante. Il pianoforte è spettrale, i tasti sfiatati o ammutoliti. Fioriscono, come vegetazione malata, logori lampadari liberty e specchiere d’argento consunte e annerite. Aleggia la solita comicità patibolare, fervida di immagine. «Mio zio Pasqualino se ne stava in un angolo, incastrato in una sedia a rotelle molto sconnessa. In piena paresi progressiva, sembrava una statua equestre. Batteva con il bastone per attestare la propria vegetale esistenza». Disprezzato dalla zia: «Io, un’artista, con un ex carabiniere, che onta!» Si accaniva sul pianoforte, rifiutandosi di cucinare. In sala da pranzo, protestano unanimi i familiari affamati. «Si sentiva questo accompagnamento africano, questo battere di stoviglie, sul legno della tavola. Anche quello stonato. Ma almeno loro andavano a tempo. Un clima demenziale, una vacanza nel vacuo che rivivo con immensa nostalgia». Diciassettenne, Carmelo Bene si ritrova a Roma. Ufficialmente iscritto a Legge per soddisfare le pulsioni notarili paterne. In realtà dedito a studiare da attore e a farsi emarginare dai paludati senatori dell’Accademia Silvio D’Amico. È già un corpo estraneo, disarmonico. Una faccia irregolare, lontana dalla compostezza dell’attor giovane, secondo la concezione ancora ottocentesca vigente nel teatro italiano. Carmelo vanta un accento marcatamente salentino, ancora refrattario a ripuliture, e un’indisciplina irriducibile a qualsiasi canone tradizionale. Si ritrova così emarginato zimbello, squattrinato. Vuole cimentarsi con gli Amleti e lo relegano a consiglieri, ciambellani monobattuta. Annoiato, comincia a disertare, a passare notti brave in smoking consunto. Finendo spesso, all’alba, in guardina per ubriachezza
molesta, arrestato dagli inflessibili armigeri di Scelba. «Nei soggiorni in galera, giocavo interminabili partite a dama, con truffatori e secondini». Ancora cinema narrato, ai confini coi soliti ignoti della commedia all’italiana. «“Come va?” “Non c’è Bene, grazie”» diventa il canzonatorio ritornello, echeggiante nei corridoi accademici della Silvio D’Amico, a rimarcare le frequenti assenze dalle lezioni. Ventenne, si vede costretto a immaginarsi un mondo parallelo, subordinato alla propria volontà e rappresentazione. In cui gli sia consentito di presentarsi al più importante scrittore del suo tempo, Albert Camus. E farsi concedere davvero, incredibilmente, i diritti del suo Caligola. «Lo aveva proibito a tutto il mondo, disgustato dalla messinscena di Strehler». Rievocandolo, Bene attribuisce a Camus un eloquio ibrido, da ispettore Clouseau: «Oui, très bien, ma chi jouera Caligola?», «Io maestro, non le basto?», «Bon, bon, basta e avanza». Conquistato da tanta impudenza, Camus tracanna la sua aranciata, osservando con un filo di perplessità il Bene ventenne scolarsi il suo doppio whisky. Chiede solo un posto in platea, in cambio dei diritti. La sua poltrona rimarrà vuota: Camus muore poco dopo, in un incidente, perdendosi il folgorante esordio di quel ragazzo salentino. È il 1959: sul palco del teatro delle Arti prende vita il primo dei doppi beniani, l’imperatore pazzo. La sua «anima pura nel male» confluirà poi nell’Amleto laforguiano. Nel racconto beniano gli applausi scroscianti sfumano nel sibilo degli sputi, calibrati da un gruppo di matti in pigiama a righe. Il bersaglio è sempre lui, legato a un letto di contenzione, in un manicomio. Un’idea dei genitori, in replica al suo proposito di sposarsi con una disinibita toscana, di sei anni più grande di lui e per giunta priva di dote. Passa due settimane recluso, perso in perturbanti corridoi fulleriani che sfociano puntuali in farsa, alla Totò, in anticipo di decenni su Ciprì e Maresco. La sua vestaglia rosso fiamma e la barbetta rada da Caligola generano l’equivoco: i suoi nuovi coinquilini lo scambiano per Maometto e si genuflettono al suo passaggio. Materiale visivo che ritornerà nel film Nostra Signora dei turchi. Schegge di plasticità folgorante, descritte con dovizia di particolari: «Coperte mordicchiate ovunque, verdastre, color caserma. Tutte traforate. Come in una moresca. Sembravano ricami perfetti. Certi lavori di infinita pazienza o, se vuoi, demenza. Solo fori. Niente lenzuola o materassi. I pazzi dormivano sulle nude brande con le camicie di forza». Uno dei suoi compagni di sventura prediletti è un avvocato in elegante quanto logora vestaglia di cammello, recluso da trent’anni e dimenticato da parenti e amici. In scena una quotidiana corrida, con la sedia in testa a simulare le corna, tra gli applausi ritmici degli altri matti. Si siede, si lascia imboccare da una suora, poi legge placido Sorrisi e canzoni. La stessa copia incartapecorita, tutti i giorni, da anni. «Mi raccomando, sorella, si ricordi il prossimo numero». Rivela confidenzialmente a Carmelo che la radio l’ha inventata Claudio Villa. «Ma utilizzando un mezzo di Marconi», è la replica carmelitana, che prova a calarsi nella logica altrui senza rinunciare alla propria. «Non c’entra. Anche Gesù viene dopo i profeti, ma i profeti non hanno ragion d’essere senza Gesù». Carmelo, appagato, ritiene vana qualsiasi replica. Il soggiorno in manicomio diventa un passaggio iniziatico. «Quel posto era una macchina tritalinguaggio. La precarietà del dialogo. L’illusione del comunicare. La non specularità del piano d’azione. Ognuno si credeva qualcos’altro, ma non perché si immedesimasse in altro, come fanno gli attori di rappresentazione al teatro e al cinema. No, quelli erano proprio smedesimati. Non c’era tempo e non c’era Storia. Non c’era patria. Non c’era l’Io e non c’eri Tu. Uscendo da lì abbandonavo me stesso. Nel senso che mi sarei ritrovato». Si ritroverà, qualche tempo dopo, sul palco del teatro Laboratorio, incastonato in un condominio popolare. Nel cuore di una Trastevere ancora immune, in quel primo scorcio degli anni Sessanta, ai processi di gentrificazione. Ogni sera, si fermava davanti al portone del palazzo un pubblico molto snob, molto ricco, con macchinoni enormi di lusso, da cui scendevano nobildonne ingioiellate, politici, artisti, uomini di cultura. Gente del calibro di Luchino Visconti, Alberto Moravia, Elsa Morante, Angelo Maria Ripellino, Ennio Flaiano, Pasolini, Eduardo, Gassman. Immancabile, anche l’imprenditore Lebole, che ogni volta lasciava trentamila lire. Il biglietto d’ingresso era costosissimo, cinquemila lire rispetto alle tremila del Quirino. Era diventato una moda del tempo. «Affacciati a ringhiere da Sing Sing, i condomini del piano di sopra bestemmiavano in romanesco, specie d’estate. Lasciavamo la porta aperta e quelli sentivano tutto, non riuscivano a dormire. Quando questi privilegiati sgattaiolavano all’intervallo per consumare qualcosa al bar, dalle finestre piovevano catinellate d’acqua e accorati Mortacci vostri». Le signore in pelliccia non distinguevano: pensavano che la cosa facesse parte dello spettacolo. «Che simpatici!», «Che strano clima». E giù secchiate. È lì, su quelle assi sconnesse, che Carmelo comincia a dare forma al teatro visionario, pieno di strabilianti intuizioni visive, delle tanto vituperate immagini che nutriranno il suo cinema alla fine degli anni Sessanta. Nel 1966 scrive col suo amico Nelo Risi una sceneggiatura dal suo Pinocchio. Totò avrebbe dovuto calarsi nella parte di Geppetto. Per la parte della fatina erano invece in lizza Brigitte Bardot, Virna Lisi o Claudia Cardinale. La morte del principe stroncò l’attuazione del progetto e rinviò l’esordio. Bene vuole accedere a una forma di divismo. Quasi costretto a essere un artefice duplice, al di qua e al di là della
macchina da presa. Sente di «avere un volto antico, appartenere a una razza estinta». Perfetto per essere il Creonte che Pasolini cerca, da contrapporre al Franco Citti Edipo del deserto marocchino. Ma nessun altro lo ingaggia. Non sembra esserci posto, per quel volto febbrile, luciferino, nel cinema italiano. Per quel corpo nervoso da Jerry Lewis barbarico, elisabettiano. Il Mister Hyde erotomane, in velluto blu, dell’occhialuto Dottor Jerryll. Con lampi di perversione levantina, estranei al comico americano. Troppo irregolare, anche per i canoni autoriali del cinema nazionale. Che predilige figure efebiche, di angeli caduti, come il Tomas Milian ancora cristaldizzato e Pierre Clémenti. Non sa che farsene di satiri perturbanti, «bei mostri» come Carmelo Bene. Eppure tutti i registi italiani più importanti sono passati, almeno una volta, ad ammirarlo nel suo teatro Laboratorio. «Si scrive che sono uno degli interpreti più straordinari del giorno d’oggi. E non solo italiani. Ma poi, a questo interprete straordinario nessuno viene mai a fare una proposta. Devo dire però che ciò mi incoraggia, perché io non appartengo a questa razza. Hanno bisogno di facce moderne, hanno bisogno di voci moderne, debbono pensare al ragioniere che è in platea, che vuole vedere un ragioniere sullo schermo. Se vede un primo attore è finito, il ragioniere sente la differenza e si spara». Il suo esordio da regista nasce da un’esclusione, dalla reazione virulenta al solito rifiuto ricevuto dal mondo. Dalla necessità di reinventarsi un universo, impastato di schegge del suo vissuto, di cui essere stella polare. Indicativa, in proposito, un’altra sceneggiatura mai realizzata, dopo A boccaperta, ispirata al mito di Faust. Partiva da un suo testo teatrale messo in scena in quegli anni, scritto a quattro mani col giornalista di cronaca nera Franco Cuomo, tra notti bianche napoletane sorrette da metedrina e whisky. Molte soluzioni visive, scenografiche e costumistiche erano congegnate invece con il pittore Salvatore Vendittelli. Del film sono rimasti appunti, frammenti immaginifici. Set prescelti, il cratere del Vesuvio e un’immensa discarica francese, in cui collocare la sterminata biblioteca gotica del celebre Dottore, interpretato da un Carmelo Bene in abiti e attitudini coincidenti con la sua reale quotidianità. Capello nero amletico con frangetta, spolverino in pelle nera, Gitanes senza filtro perennemente tra le labbra, occhiaia alcolica, whisky a costante portata di bocca. Energia nervosa spasmodica e disperata, di chi si concede poche ore di sonno, satiriasi fisica e cerebrale, crudeltà beffarda, memoria di ferro, erudizione scolopica, consolidata in età adulta, nonostante l’evidente vita dissoluta: il Dottor Faust era lui in persona. Mentre nei panni di Margherita c’è una Lydia Mancinelli bionda e angelica, con scivolamenti lussuriosi. Gestisce una boutique di abiti da sposa. Da trecento anni aspetta di sposare il suo Dottore. Le sue sartine, penelopicamente, le cuciono uno sterminato abito nuziale. Pronte a trasformarsi in streghe in pieno sabba, per convincere il Dottore renitente, con un sortilegio, al fatidico assenso. Un luogo in cui i libri non sono catalogati per autore o argomento, ma per peso e contundenza, per la loro capacità di procurare danni fisici se sbattuti con violenza sul cranio. Culminano nella temibile enciclopedia da strage. Faust li prova uno a uno, sul cranio del vessato assistente Wagner. Il libro sbattuto sul cranio, sintomo di inculturazione forzosa, di stupro a fini didattici, è un’immagine che ritornerà prepotente nel cinema beniano. Lo stesso trattamento subito da Wagner verrà riservato al profeta Iokanaan, alias Giovanni Davoli, nell’edizione cinematografica della Salomè. Mentre annuncia la Buona Novella con fonemi calabro-wildiani, con la sua faccia paleolitica e scavata dalla fame, vestito da calciatore azzurro come (san) Giovanni Rivera, verrà rispedito a violente librate sul cranio in fondo alla sua cisterna. Allegoria del subproletariato meridionale, abbandonato alla propria sublime demenza, come san Giuseppe da Copertino. Vanamente aggredito da una piatta alfabetizzazione, irrispettosa della sua peculiarità. E, come i fuoriclasse dello sport, poeta inconsapevole del proprio atto sublime. Un altro frammento della sceneggiatura faustiana era ambientato in un nightclub immenso, con un enorme lampadario sferico e rotante, con la superficie mosaicata di piccoli specchi da night. Al centro della sala Faust ballava avvinghiato a Margherita, nel solito smisurato abito nuziale. Sulle note di «Amado mio», che sfuma nel pucciniano «Un bel dì vedremo». In un angolo, a guardarli carico di libidine, un bolso «ragioniere di banca», stretto in un’attillata tuta rossa da Phantom, uomo mascherato dei fumetti. Nella fondina non ha la pistola, ma cambiali della Seicento, patente e libretto. È Mefistofele, povero diavolo a cui il Faust rovesciato di Carmelo Bene vuole cedere la petulante Margherita. Per riottenere l’anima, e una cultura che abbia un senso profondo, vitale. E non sia solo smisurato e marcescente nozionismo. Il titolo provvisorio del film ricalca lo spettacolo teatrale: Faust o Margherita. Faust spoglia Margherita, da malizioso magnaccia, a solo beneficio della foia ragionieristica, velo su velo, durante il ballo. Riducendo il Phantom bancario a un proto-Fantozzi, con lingua e occhi di fuori, che ripete, invocante e ossessivo: «Potessi ballare una volta, con una donna così!» Gorgogliando ingolato, in piena libido frustrata. Dissolvenza in nero. Interno notte. Faust entra nell’atelier di Margherita. La sua promessa sposa è acquattata nella penombra. Lo osserva avvicinarsi a un manichino in abiti nuziali, identico a lei. Intuisce una strana elettricità, tra il proprio doppio sintetico e il suo amato
Faust, sedotto dall’appeal dell’inorganico. Lui, infatti, penetra il simulacro, con rumori osceni, dissonanti, di plastica deformata. Margherita, impigliata tra i veli del guardaroba, raggiunge l’orgasmo in contemporanea con Faust, per interposto manichino. Poi si ricompone, esce dal buio e grida, austera: «Faust! Demonio! Drogato! Porco! Mostro, mostro, mostro». Poi, con petulante monotonia: «Ti perdono, ti perdono, ti perdono...» Ripetuto al parossismo. La scena, mai girata, verrà recuperata nel film Nostra Signora dei turchi: è la frase ricorrente rivolta da Lydia Mancinelli, nell’occasione un’aureolata santa Margherita, al presunto eroe cavalleresco Carmelo Bene, coperto di bende ed ematomi. Violentandolo, come faceva nei panni della Fatina con il malcapitato Bene-Pinocchio, nella prima edizione teatrale dello spettacolo. Faust, alle corde, estrae l’asso dalla manica: «Non ti amo!» «Non ci credo, e poi non importa, quello verrà col tempo», risponde risoluta Margherita, «in fondo sono trecento anni che ti aspetto». «E poi, non sono laureato! Mi mancano tredici esami», chiude i conti Faust. Lei, finalmente, sussulta. Lui incalza: «Non sono dottore, dottore del cazzo!» Lei urla: «Nooooooooo!», e fugge inorridita. Margherita accetta la cessione al ragionier Mefistofele. Consegnandosi a una vita familiare piena di abbrutenti lavori domestici, affollata di bambini urlanti ed elettrodomestici in rumorosa funzione. Nel frattempo il marito ragioniere, sprofondato nel divano, estrae dalla fondina carta e matita copiativa. Attende dalla radio, messianicamente, la palingenesi dei risultati domenicali. Tutto viene sommerso da un fumo denso, nero, da war movie. Parte una colonna sonora frammentaria, a tutto volume, composta da schegge del Mickey Mouse americano, fuse al timbro colonialista di Nicolò Carosio che commenta ferale, quasi in lacrime, il gol inglese fatto all’ultimo minuto all’Italia, i giochi olimpici, frammenti di discorsi politici misti a battute di Totò, suoni di navi in partenza, aerei, moto, gorgheggi di soprano, pianti di neonati, scarichi di cesso e arie verdiane. Tutto si chiude con uno stentoreo speaker radiofonico che, in singhiozzi, declama: «Lazio batte Milan 45 a 20. È tutto, a voi la linea». Il denso fumo nero si dirada. Faust-Carmelo Bene vaga sul ciglio del Vesuvio fumante. Poi si addentra nella sua discarica. Polverizza i suoi ultimi volumi, versandoci sopra del whisky. Poi estrae una rivoltella dallo spolverino e la punta alla tempia. Spara, ma il bang è solo fumettistico, non letale. Primo piano, ghigno da Joker che ha definitivamente spazzato via Batman da una terra desolata. Dolly che si libera lentamente dall’immensa distesa di rifiuti. Faust diventa gradualmente un puntino nero, perso in uno sterminato deserto di immondizia, tra il volteggiare gracidante dei gabbiani. Dissolvenza in nero. Fine. Capricci è invece un film che Carmelo Bene riesce a girare, nel 1969. Realizzando, in sceneggiatura, un mélange dei suoi spettacoli teatrali Manon e Arden of Feversham. Manca Masini, dietro la macchina da presa. Il film ha una fotografia sporca, da antologia marcescente, residuale, di tutto il cinema di genere. In una sequenza, in un villaggio da spaghetti western, ci sono Poldo Bendandi, omaccione truculento nei panni di una donna baffuta. Centotrenta chili, il volto cesellato dal vaiolo, uomo forzuto nei peplum e nelle parodie spionistiche di Franco e Ciccio, oste a piazza del Popolo nelle pause tra i set. Tiene in braccio, come una madonna western, un tronco umano, senza braccia e senza mani, da set di Tod Browning, addobbato da pistolero. Sono i residui di un’altra sceneggiatura beniana irrealizzata: Tigrero, vicenda difficile di un pistolero senza braccia. Al fianco del duo, appare Giancarlo Fusco, sceneggiatore, vulcanico narratore orale e giornalista leggendario. Spesso usato, per la sua fisicità da vignetta di Uderzo, come bizzarro caratterista. Per l’occasione in tight, bombetta e monocolo. Escono dal Texas cinecittadino e vagano per Roma, sussurrandosi vicendevolmente quanto sia opportuno non dare nell’occhio, pedinati da un poliziotto in preda a un pianto irrefrenabile. Nel frattempo, sul Grande Raccordo Anulare, Carmelo Bene mette in scena il suo intimo Crash, investendo prostitute e schiantandosi ripetutamente in compagnia di Anne Wiazemsky, moglie di Godard. Sarebbero Des Grieux e Manon, in preda al loro cruento amour fou. Falciano prostitute, all’imbocco della Roma-Civitavecchia, e ne caricano i cadaveri in macchina, baciandosi, contusi ed estasiati, tra vetri rotti e lamiere contorte. Nella voluta inconsistenza del delirio visivo, Capricci si segnala per un frammento memorabile, di forte valenza profetica. C’è un desco terrificante: seduti a tavola ci sono Giovanni Davoli, inconsapevole di vestire i panni dell’elisabettiano Arden, Franco Gulà, vecchietto di tutto lo spaghetti western, e un non meglio precisato anziano barese, scelto per la somiglianza con il baffuto testimonial della birra Moretti. In sottofondo il tema di Lara del Dottor Zivago, «quella cazzata sentimentaloide». I nonagenari vengono riempiti di pietanze dalla nudissima giovane moglie di Arden. È una riedizione beniana della vicenda biblica di Susanna e i vecchioni. Farfugliano asincroni frammenti di testo mentre su
di loro si staglia, nasale e beffardo, il voice over di Carmelo Bene che legge estratti barthesiani sui reportage gastronomici della rivista Elle. Anticipando la dilagante ossessione culinaria della televisione contemporanea: «In questa cucina la categoria sostanziale è il ricoperto. Ci si ingegna visibilmente a glassar le superfici, ad arrotondarle, a sommergere la vivanda sotto il levigato sedimento delle salse delle creme delle gelatine... Pura cucina della vista... ha il ruolo di presentare a un immenso pubblico popolare, come suo, il sogno stesso dell’eleganza. Di qui, una cucina del rivestimento, operato sulla brutalità delle carni, l’asprezza dei crostacei. Qui, come in ogni altra arte piccolo-borghese, l’irreprimibile tendenza al verismo è contrastata o equilibrata da uno degli imperativi costanti del giornalismo domestico, quello che all’Express si chiama gloriosamente avere delle idee. La cucina di Elle è una cucina di idee». Il 1970 è l’anno del Don Giovanni. Girato nello spazio angusto della sua casa in via Aventina, costringendo se stesso e la troupe ad acrobazie estreme, è l’unico film beniano a non avere riferimenti attinti a spettacoli teatrali o a suoi libri. La donna del «Catalogo infinito», nel prologo mozartiano, è sempre la solita Mancinelli, truccata e imparruccata in modo sempre diverso, a sottolineare l’infinita ripetizione dell’uguale. La vicenda, tratta da un racconto di Barbey d’Aurevilly, vede Carmelo Bene, Don Giovanni, in pizzo nero e cappa nera da tenore, attentare compulsivamente alla verginità di una bambina con le sopracciglia da Frida Kahlo, ispida e respingente. L’ultima sfida con il proprio vuoto, in eterno divenire seduttivo. Lydia Mancinelli interpreta la madre della bambina. I suoi costumi di scena sono inattendibili e la ricoprono solo davanti, dietro è completamente nuda. La bambina, guardando sua madre di fronte, la vede morigerata, attillata. Don Giovanni, che le sta alle spalle, ne ammira voluttuoso la nudità rembrandtiana. La musica è il solito mélange estremo, composto da Bartók dal Don Pasquale di Donizetti, Bizet, Tchaikovsky. Il Bene dongiovannesco le prova tutte, per conquistare l’infantile oggetto del desiderio. Tutto il film gira a vuoto. In un montaggio franto, frenetico, nella sua piccolissima casa di via Aventina. Lei non lo guarda, piange e suona un pianoforte sfiatato, come quello di zia Raffaella quando Bene era bambino. Lui la tempesta di avance, caramelle, dolci, una pasticceria intera, giocattoli, un esercito di bambole, un’intera fioriera di rose rosse. Inventa un teatro per lei. Inscena cruente battaglie di marionette, inclusi Pinocchio e Cappuccetto Rosso, scomposte in primissimi piani, occhi spalancati di terrore, bocche urlanti, testa sventrata da asce, elmetti spappolati, sangue e materia che colano sul pavimento, tra svolazzi di stendardi. Don Giovanni-Bene entra su di un cavallo in gommapiuma, ma tutto è vano. «Questa maledetta bigotta è di pietra», digrigna a denti stretti, provando anche a regalarle santini. Lei lo esorcizza, come il Dracula, snocciolando rosari e accanendosi sul pianoforte muto. Lui insiste e trasforma la casa in una chiesa spagnola barocca, piena di santi, altari, estensori, candelieri, crocifissi a grandezza naturale. Nulla da fare, lei si conferma irraggiungibile. Lui fa l’ultimo tentativo, nascondersi dietro alla corona di rosario e baciare il crocifisso. Allora Don Giovanni si trasforma in Cristo da presepe vivente, da processione salentina. Le passa e le ripassa ossessivamente davanti, per sedurla. Anche al ralenti. La diabolica bimba, dopo aver giocato come un fantasma masochiano col gigolò, confessa mentendo, alla madre, con un pianto straniato, di essere rimasta incinta di Don Giovanni «sedendosi sulla sua poltrona». Il vero capolavoro beniano è Salomè, girato nel 1972. Bene dismette i panni da teddy boy, da Mr. Hyde in pelle nera, definitivamente impossibilitato a ritornare Jekill. Rispolvera un’immagine arcaica: capello lungo e barbetta rada, da satrapo orientale, «biblico mostro di lussuria». Perfetta per la rivisitazione wildiana dell’episodio biblico. In realtà, da sceneggiatura, è un produttore di peplum, narcotizzato dalla dissolutezza continua, dalle cambiali e dai troppi debiti. In una terrazza di New York, affacciata sull’Occidente, ha allestito un Oriente al neon, pieno di palmizi azzurri, con un altare bar scintillante di bottiglie di gin, sullo sfondo, con un Telefunken perennemente acceso, da cui filtrano frammenti di mondo. Gli arredi sono cenci art nouveau rossi e oro, ricalcati sulla visionarietà di William Morris. Tre altari – ebraico, cristiano e ortodosso – sono circondati di tappeti persiani, candelieri, incensieri e fumi infernali, in pieno decadentismo fin de siècle, lussurioso preraffaellismo, tardo neoromanticismo di epoca vittoriana, liberty e art nouveau. La musica mescola Strauss, Sibelius e beffardi motivi popolareschi della tradizione italiana. È come se il cinema dovesse mostrarsi una discarica triturata di Otto e Novecento. Come da copione, il produttore organizza feste in costume, a tema: stavolta bisogna inventarsi una Galilea posticcia, e crederla vera. Gli invitati sono travestiti truccatissimi, dispettosi e sonnolenti, pregiudicati di borgata attinti dal casting pasoliniano, circondati da donne nude, da emissari dell’imperatore romano che gli divorano uva nell’incavo delle natiche. Su tutti incombe il bianco raggelante dell’alba, l’avvento della Buona Novella e del cattolicesimo istituzionale, che dissolverà per sempre il paganesimo dissoluto delle Mille e una notte. La principessa Salomè è la modella anoressica Donyale Luna. Punica, cannibalesca. Erode-Bene vuole farle ballare la danza dei sette veli, per
raggiungere l’agognato orgasmo ed esorcizzare il proprio terrore. Lei vorrà in cambio la testa del profeta Iokanaan. La farsa finisce naturalmente in tragedia. La reggia si dissolverà. Salomè toglie veli di pelle al suo perverso patrigno, la notte sparisce, sostituita da uno squallido bianco accecante. «Comincio ad avere... paura». È l’ultimo rantolo di Erode. Come spiega lo stesso Bene: «Salomè è una radiografia dell’Europa, del mondo occidentale, che sta scoprendo di aver sbagliato tutto dal dopocristo a oggi. «Mentre lo capisce, è troppo tardi, il mondo gli sguscia sotto i piedi. La crisi di Erode è proprio questa. Perciò lui ha paura del profeta, perciò si eccita con Salomè, perciò ha questa mania di rinnovarsi, al tempo stesso sempre abbarbicato al suo senso di colpa. Il vero antagonista del mondo occidentale, di cui poi fu a suo tempo protagonista, è Cristo. «Cristo ha due volti. È il vampiro della nicciana Genealogia della morale. Simbolo del cristianesimo istituzionale, mortifera eredità del Cristo tradito. È un Gesù che organizza la festa, la cerimonia, la rappresentazione. Spia tutto, a canini sguainati, dietro i festoni e i fiori marci. L’altro Cristo, quello vitale di Renan, quello che beveva il vino e amava le donne, è destinato al tentativo disperato dell’automartirio. All’autocrocifissione impossibile, perché una mano rimane fuori». L’unico profeta possibile, in questa festa di fine Occidente, sempre sospesa tra la Galilea e il Greenwich Village, è un analfabeta, una forza del passato. Il ruolo era cucito su Franco Citti, già Iokanaan nello spettacolo teatrale. Era un muratore coperto di calce bianca, adorno di un cappello di giornali. Gli invitati debosciati del party lo sorprendevano a costruire una finta piramide, con tanto di calce e cazzuola, e lo recludevano nel fondo di una cisterna. Per esorcizzare la noia. Il Citti recluso mescolava improvvisazioni romanesche e frammenti stropicciati di testo wildiano, entrando in scena solo per apostrofare Salomè con grevi epiteti. Brutalità riservate a una Salomè suadente, che gli sussurrava ispirata: «La tua bocca è una striscia scarlatta, il tuo corpo è bianco come il gesso, come la neve, come le rose della regina di Saba, non c’è nulla al mondo di così nero come i tuoi capelli». Citti replicava coriaceo, sbucando dal trono fetido come un pozzo nero, in canottiera lisa: «’A fija de ’na colorara, ma ’ndo vai?» Era il periodo di Carnevale e il buontempone Vendittelli, scenografo beniano di fiducia, aveva le tasche piene di trucchi, incluse micidiali fialette puzzolenti. Propose a Carmelo di far coincidere l’apparizione di san Giovanni Decollato con il lezzo fognario. Carmelo, da mistico, sulle prime storse la bocca. «Troppo forte». Poi ci ripensò: «Massì, tanto la gente non capisce un cazzo!» La rivelazione dell’avvento del Messia coincideva puntualmente, in ogni replica, con miasmi nauseabondi, che intasavano narici di prestigio: una sera Pasolini, Augias, Arbasino e Italo Moscati si guardarono sospettosi l’un l’altro. Qualcuno, con discrezione, si controllò le suole delle scarpe: non avevano intuito che l’odore mefitico era l’essenza dello spettacolo. Nella versione cinematografica l’indisponibile Citti verrà sostituito con un altro pezzo pregiato dell’universo pasoliniano, già utilizzato da Carmelo Bene: Davoli senior, padre di Ninetto, già impiegato in Capricci. Bene girerà il film nel felliniano Teatro 5 di Cinecittà. Monterà cinquemila inquadrature, il decuplo circa di un film medio. I corpi, i volti, le posture sono smembrati e ricomposti in un montaggio frenetico. Inquadrature stupefacenti, in un cromatismo lisergico, esaltato dai luminosi Scotchlite adoperati dal direttore della fotografia Masini, diventano subliminali, quasi impercettibili. Eppure seducenti, ipnotiche testimonianze dell’odio-amore beniano per il cinema. Costruttore di kolossal, con mezzi poverissimi, polverizzati al montaggio. Il cinema, per Bene, sfuma con un’ultima sublime inquadratura: il cimitero in cui muore, sotto veste amletica, all’alba, sulla spiaggia di Forte dei Marmi tempestata di croci bianche. Il film è Un Amleto di meno, del 1973. È la pellicola che lo delude e lo induce a lasciare i set. Gli preferirà sempre la più compatta versione televisiva, in bianco e nero. Da cinema è anche una sua strepitosa quanto funzionale gag, vissuta lontano dai palchi e dai set. In una sera di ottobre del 1971 entra in un commissariato di Roma, dove chiede di essere arrestato perché gli si impedisca di commettere atti delittuosi. «Dovete difendermi da me stesso. Se non mi arrestate, non mi muovo da qui», prosegue irremovibile. «Ucciderò i ministeriali: sulle loro assicurazioni ho fatto montagne di debiti, e ora non so come pagare i creditori! Avete il dovere di proteggermi, arrestandomi». Su quelle parole, con tempismo perfetto, irrompe sulla scena del commissariato Lydia Mancinelli, capeggiando maestosa un codazzo di giornalisti e fotografi. Era appena stata all’Ansa, secondo la strategia concordata con il coniuge. Il commissario capitolino capisce l’antifona, afferra per il bavero il teddy boy salentino e gli intima di andarsene, coi suoi paparazzi. «Senta, se non sparisce, la faccio internare davvero, ma alla Neurodeliri!» Carmelo, temendo un nuovo ricovero manicomiale, esce in strada, tempestato di flash e domande pruriginose. Non risparmia risposte iperboliche e dettagliate. Il giorno dopo, Paese Sera e Il Messaggero titolavano, speculari e a caratteri cubitali, «Arrestatemi: sconcertante richiesta di Carmelo Bene». Pochi giorni dopo il ministro del Turismo e dello Spettacolo lo convoca al Ministero. È affascinato dal suo
istrionismo: gli garantisce il premio di qualità per il prossimo film, permettendogli di appianare ogni debito. Ma a Bene non basta: «Io sono la cultura italiana. Il governo è responsabile dei miei reumatismi: da anni sono costretto a recitare nelle cantine, quando i cafoni dello pseudo-teatro occupano da anni le sale migliori». Matteotti lo spedisce da Franco Evangelisti, passato alla storia per avere come soprannome una frase intera. «’A Fra, che te serve?» Refrain quasi quotidiano rivoltogli dal palazzinaro Caltagirone. Carmelo, invece, sa bene cosa gli serve. Vuole il Quirino, storico teatro romano, per mettere in scena i suoi spettacoli. Glielo concedono, allegando un sussidio di ottantamila lire al mese. «Ci deve essere un errore», replica stizzito, leggendo la cifra. «Manca uno zero». Vuole ottocentomila lire mensili: il budget dei mostri sacri Eduardo e Gassman. Ormai estenuati, glielo concedono. Incerti tra la fascinazione per il masnadiero levantino e il terrore per la mina vagante, cominciano a guardarlo sotto una nuova luce. La fama datagli dal cinema e dai rotocalchi attira le folle ai botteghini. Il giovinastro bohémien si trasforma, gradualmente, in venerato maestro. Decisivo è anche l’incontro con il maestro Siciliani, nel camerino del teatro Quirino, nel 1977, mentre recitava il Riccardo iii. Si avvia così a diventare una sorta di atipico cantante lirico, autoincoronandosi Callas del teatro italiano. Prende confidenza con il playback, i diecimila watt, le registrazioni multipista digitali, le campionature elettroniche del suono e della voce. Diventa sempre più disinteressato ai corpi degli attori e attirato dalla grande tecnica acustica. Negli anni Ottanta viaggerà su grandi tir e i suoi diventeranno autentici allestimenti da rockstar. Nel 1979 legge il Manfred, poema drammatico di Byron, su musica di Schumann. Assume da voce recitante tutti i ruoli, introducendo la strumentazione fonica in concerto. Spariscono costumi, decor, trovarobato, fumi infernali e arredamento. Si dissolvono le immagini, le articolate, immaginifiche messe in scena. Rimane solo la sua timbrica straordinaria, che gli garantirà ricchezza, trionfi e incassi mai visti prima in tutti i teatri lirici d’Italia. Da lì in poi sarà una perenne fuga in avanti, a passo di carica. Rifinendo la propria sempre più solitaria macchina attoriale. Triturando il prossimo, le donne e, soprattutto, se stesso. Fino all’epilogo, alla fine del nastro. All’ultima battuta, rubata a João Monteiro, genio portoghese, anche lui «al di qua e al di là della macchina da presa», dal naso triste e dalla grazia ossuta. Un Keaton magnificamente invecchiato, impossibilitato a reagire con acrobazie al nonsense della vita, stoicamente ammaliato dal femminile. Intercettato da Bene, nel cuore dell’ennesima notte insonne, nel suo televisore perennemente acceso. Riconoscerà nell’attore e regista lusitano una creatura lunare, un alieno sottile, un simile. Capace di sfumare La commedia di Dio sussurrando: «Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi condanno a rimanere». Una frase che Bene eleggerà a proprio beffardo epitaffio.
RICCARDO III A FREGENE
Nel dissoluto ambiente del teatro, pieno di pazzi e di stravizi, si ripete una massima, da sempre: «C’è una cosa sola che ti ammazza. E non sai qual è, fino all’ultimo istante». A rantolarlo a se stesso è Flavio Bucci, perso tra decine di tavolini vuoti, in un bar di Passoscuro, a due passi da Fregene. L’insegna del locale, alle sue spalle, lampeggia insistente Moby Dick, cubitale come il cartellone di un teatro. Bucci la asseconda silenzioso, sprofondato in un filologico Achab, munito di cappellaccio a falde larghe, cappottone e il vago rimpianto di chi è scampato a malincuore alla propria intima balena bianca. Gli occhi da rondone, cerchiati da antiche occhiaie, saettano ancora. Il barbiglio s’è ingrigito e la rabbia folle, tratto distintivo della sua attorialità, sembra covare sotto la cenere. Cenere che si accumula piramidale, sul suo tavolino, vicino ai bicchierini vuoti striati d’amaro. Con una mano incatramata di Muratti, aspirate a getto continuo, passa in rassegna i giornali. Un diavolo buono, vagamente malinconico, generoso di racconti, con chi gli si avvicina: «Appartengo alla generazione che deve sentire il fruscio della carta, sotto le dita, al mattino. Sono nato nella Torino del 1947, con gli echi delle bombe nelle orecchie. Chi l’avrebbe mai detto che, da vecchio, avrei visto una guerra di religione». Aspira l’ultima, violenta boccata, poi riprende, meditabondo: «Forse, però, il conflitto potrebbe rivelarsi tragicamente utile, in quest’epoca, per recuperare un rapporto con il nucleo profondo dell’essere umano». L’aria dolente si mescola a una rassegnata estraneità, da esule. Solo quattro anni fa ancora calcava le scene, imperversando in mezza Italia. Fino all’incidente: la gamba rotta dopo una caduta, all’alba dell’ennesima notte forse troppo ebbra. Le tournée si sono interrotte e lui si è ritirato in una piccola villetta sul mare, a ripensare nostalgico ai palcoscenici: gli mancano da impazzire, quei fondali saldamente ancorati all’illusorio, indispensabili per ingabbiare la propria nevrosi. Ha offerto per decenni la sua corda pazza, fatta di corpo, voce e fibra, alle maschere pirandelliane o a mostri fin troppo seducenti come Riccardo III e Shylock. Ha sempre giocato da primattore tradizionale, ottocentesco, mantenendosi scettico sulle avanguardie. «Ahò, sospennete ’e ricerche», bofonchia ancora oggi, sornione, sostituendo alla cadenza torinese un romanesco utile a liquidare brutalmente cantine off e sperimentalismi di tutte le epoche. Non ha mai tradito apertamente l’ufficialità del teatro di tradizione, con i suoi archetipi eterni, i suoi personaggi con un’identità precisa, non contaminati da cervellotiche rivisitazioni. Ha preferito corroderla internamente, la monumentale scena italiana, ispirato dalla stella polare di una follia pericolosa, abitata in scena e nella vita. Cavallo di battaglia prediletto, il pazzo gogoliano, meticoloso narratore, su diario intimo, della propria deriva. «L’ho fatto per troppi anni. Ogni sera, prima di andare in scena, mi chiudevo in camerino, a fissare lo specchio. Tre ore seduto lì, senza fiatare. Credevano fosse un metodo, gli altri della compagnia o i critici a cui lo raccontavo per dargli qualcosa da scrivere. Invece, in quegli interminabili centottanta minuti, cercavo disperatamente una scusa per non farlo. Era il mio cavallo di battaglia, ma mi aveva svuotato. Non trovavo mai una scappatoia credibile: ero puntualmente condannato al palcoscenico». La pazzia gli si tatuò addosso dopo il primo, folgorante successo: l’Antonio Ligabue scorticato vivo, che ululava solitario al Po, si metteva i vestiti da donna, unico modo concessogli «per sentire il contatto con la femmina» e smanacciava colori sulla tela. Partorendo tigri a fauci spalancate, strangolate da serpenti che vedeva solo lui, nella piana emiliana di Gualtieri. Per creare la mimesi definitiva, Flavio si faceva proiettare ogni giorno, in un cinema del paese, i meravigliosi documentari di Raffaele Andreassi dedicati a Ligabue. Quanto basta per garantirsi un successo nazionale, plebiscitario. «Ero un bel mostro, ipnotico. Diciassette milioni di telespettatori inchiodati a guardarmi, nel 1977. Presi anche un premio al festival di Montréal, ma quello stronzo di Lucherini, il boss dei press agent, decise che non dovevo ritirarlo io. Bucci non può rappresentare il cinema italiano. E ci mandarono Tognazzi, che non c’entrava nulla, non era nemmeno nel cast». Qualche anno prima, esordendo al cinema, Bucci aveva offerto la propria alienazione congenita a Elio Petri: «Nel 1971 mi volle nella Classe operaia va in paradiso. Ero appena arrivato a Roma, dalla mia Torino. La smania di fare l’attore mi era venuta da ragazzo al Cinema Teatro Maffei, dietro casa. C’era tutto l’universo, lì dentro. Il comico piemontese, che faceva sbellicare. Le ballerine, che mi facevano impazzire. Con una mi ci fidanzai: poi un suo fervido ammiratore, una leggera, mi puntò la pistola alla testa e desistetti. E poi c’era il grande schermo: il cinema, su cui scorreva tutto il pianeta Terra, perfino la Monument Valley americana». Poi, come posseduto da un demone, scatta in un’invettiva romanesca: «Se poteva fumà, se poteva scopà, oggi ar cinema nun se pò fa un cazzo, e checcevado affà! Ma, mi chiedo, tutto ’sto salutismo, dove ce porterà? Ma quanto cazzo vuole campà, male, laggente?»
Poi si ricompone: «Comunque, per farlo io, il cinema, capii subito che dovevo andare a Roma. E così feci». Arrivato nella capitale, trova subito un fratello maggiore nel torinese Volonté, vecchio amico di famiglia. «Lo vado a trovare a casa sua, a Trastevere, a Vicolo del Moro. Senza dirmi nulla, mi prende e mi porta difilato a Botteghe Oscure, a iscrivermi al Partito. Poi, poco dopo, ci ritrovammo insieme a giocare a chi era più sbroccato, ammanettati alla catena di montaggio di Elio Petri, nella Classe operaia va in paradiso. Er capoccione, così chiamavano Petri nel mondo del cinema. Corpo piccolo e testone enorme, che gli scoppiava di idee. Per me è stato un secondo padre. Però, ammazza quanto me menava. Se ti vedeva un po’ stanco, o svogliato sul set, ti riempiva di pugni e bestemmie. Menava persino Volonté, che era più folle e più grosso di lui». La faccia sghemba di Bucci si incastra alla perfezione nel mosaico espressionista di Petri, nel suo hellzapoppin, tra corpi alla Grosz intrisi di umori salini, da commedia all’italiana. «Era il 1971: in America cominciavano a venire fuori facce strane, mai ammesse prima sullo schermo. Gente come Dustin Hoffman o Al Pacino. E allora, a Cinecittà, si pensò che ci poteva essere posto pure per Flavio Bucci. La nostra tradizione aveva due grandi filoni. I telefoni bianchi, Amedeo Nazzari, Girotti e compagnia bella. Gente statuaria, facce da monumento equestre. Contrapposti all’assurdità di Totò, la maschera comica. In mezzo non c’era nulla, e siamo arrivati noi. Io, lo ammetto, ero impresentabile, un po’ tutto quello che non si doveva essere. Non bello, nemmeno troppo simpatico, con la faccia di chi non promette nulla di buono. E lo mantiene, infatti. Il muso strano di uno che potrebbe ribellarsi con violenza, senza controllo, da un momento all’altro. Turbavo, e servivo a un cinema che voleva perturbare, nel segno dell’impegno civile». Due anni dopo Petri gli affida un ruolo da protagonista. Il film è La proprietà non è più un furto. Bucci è Total, bancario paradossale: il contatto con le banconote gli fa germogliare sulle mani stimmate di dermatite. L’odiato nemico di classe ha le fattezze torpide di Tognazzi, ricchissimo macellaio romano. Arriva allo sportello con borse zeppe di banconote e filetti Chateaubriand, grevi omaggi per il direttore. Convertito alla patafisica del marxismo-mandrakismo, Bucci decide di alleggerire il norcino plutocrate del plusvalore in eccesso. L’allegorismo brechtiano diventa vivo nella verve e nel corpo dei due istrioni. Quello segaligno e malaticcio, da perdente, di Total, quello grave e vigoroso, che sembra di cuoio, da vincente, di Tognazzi, e infine quello non florido, giovane, longilineo e decisamente più altoborghese che proletario di Anita, interpretata da Daria Nicolodi. Proprio questo ossimoro fra corpo e classe sociale è un’altra scelta felice del regista. Il corpo di «chi non ha» è vittima di un’alienazione così estrema che gli impedisce anche solo il contatto con il denaro. Il corpo di «chi ha» possiede anche l’abietta salute del carnefice. «Ugo era un genio, uno che si divorava la vita. Alla fine, con la depressione, la vita stava divorando lui. Una sera arrivo a Torvaianica, c’era il solito torneo di tennis suo, quello dello Scolapasta d’oro. Sulla terra rossa pasturava, come al solito, tutto il cinema italiano, da Gassman e Mastroianni in giù. Di Ugo, però, nemmeno l’ombra. Lo cerco un po’, poi chiedo notizie alla moglie, la Franca Bettoja. Che mi dice, vagamente preoccupata: “Ugo è ancora in camera sua, Flavio, vai un po’ a vedere”. Vado su, lo trovo sdraiato sul letto, lo sguardo fisso al soffitto. “Ugo, cazzo fai ancora lì, sono le nove, ti aspettano tutti”. Ruota la testa lentamente verso di me e mi fa, mogio mogio: “Non conosco nessuno, Flavio, che scendo a fare”. Cominciava la depressione, che ti fa vedere le cose con troppa esattezza. «A ciascuno i suoi demoni, pensai allora. E adesso, lo penso più di prima. Del resto, come dice il Bardo, ci sono più cose tra cielo e terra di quante possa contenerne la nostra filosofia. E, nel cinema e nel teatro, la follia serpeggiava. Non se ne poteva fare a meno». Non restava che assumerla come stella polare, la pazzia: impressa sul volto dalle prime battute di carriera, venne accolta da Bucci come preziosa tara fisiognomica, da declinare in una gamma di sfumature. Nacquero così i suoi poveri diavoli torvi, i drop out erotomani, i terroristi macerati. Era sempre labile, nei suoi personaggi, il confine tra devianza e disperazione. Una sospensione ambigua, che lo ha reso una figura unica, dalla recitazione moderna e fin troppo connotata per sopravvivere in un cinema diventato anemico, al giro di boa degli anni Ottanta. Relegandolo così a riservare la sua prorompente devianza al teatro, in lungo e in largo per la penisola. Fino a che la risacca degli eccessi non lo ha trascinato qui, sul litorale laziale. Ci ripensa meditabondo, mentre svita con lentezza rituale la testa d’anatra, in argento scintillante, del suo bastone da passeggio. «Dentro, c’è sempre l’anima», recita solenne, estraendo dall’interno un contenitore di vetro, stretto e cilindrico. «Eccola», dice osservando, in controluce, un foglietto di carta inserito nel cilindro. «Qui, per anni ci ho tenuto la mia dose di felicità giornaliera. Cinque grammi di coca al giorno. Ci bevevo su una bottiglia di vodka liscia, per bilanciare, per potermi addormentare, all’alba... Adesso, nell’anima, c’è scritto solo il numero di mio fratello, un santo, che ha sempre cercato di proteggermi da me stesso. Me lo sono scritto, perché ho paura di dimenticarlo. E scordarmi anche chi cazzo sono!» E ride tagliente, atonale come i gabbiani che volteggiano su Passoscuro, ripensando alla sindrome di Korsakoff, russa come la vodka a ettolitri che gliel’ha procurata. Dal nome fin troppo evocativo, da inquieta anima gogoliana. Una patologia che ti intacca la memoria. E si rischia, per colmare i vuoti, di ricorrere gradualmente a invenzioni allucinatorie. «Non ricordo nemmeno una riga. Una volta mandavo a memoria copioni e sceneggiature, non sbagliavo un colpo. In scena o sui set ero sempre lucido: dopo, cominciavo le mie smisurate notti bianche. «Nasco e morirò comunista. Però ho sempre avuto grandi, preziosi amici tra i democristiani. E in fondo,
guardiamoci in faccia, in Italia è andata meglio così. Siamo stati liberi, democratici e cristiani. Pensa se finivamo come una dittatura totalitaria tipo quelle dell’est. Come in Bulgaria, in Romania, spiati, coi militari dietro il culo. «Andreotti, a modo suo, ci ha salvati. Io ero diventato pure amico suo. Poi, nel Divo ho interpretato il suo lacchè personale, Evangelisti, quello a cui Caltagirone chiedeva sempre: “’A Fra, che te serve?” «Gli piaceva come leggevo le sue poesie. Che a me, poi, facevano schifo. Versi orrendi, non me ne ricordo neanche uno. Ero diventato, però, il lettore ufficiale, una volta le lessi anche davanti a Giovanni Paolo II. Mi portai un trucidissimo operatore romano, armato di Arriflex, per avere un ricordo. Mentre mi stavo genuflettendo per baciargli la mano, dopo la lettura, quell’animale grida: “Stooop! Ce sta un problema, Santità: er bianco spara”. “Mettice un filtro, stronzo”, gli digrigno nell’orecchio, scusandomi con uno sbigottito Woytila». Eppure i minuti di cinema che gli hanno garantito una nicchia sacra nell’immaginario collettivo, soprattutto romano, li ha vissuti da eretico. Il don Bastiano nel Marchese del Grillo, con l’occhio sfregiato da una coltellata, prima povero prete poi capobanda brigantesco. Bestemmiatore, avvolto in una cappa nera come una grossa cornacchia, con l’occhio sfregiato, all’ombra delle querce di una chiesa sconsacrata. Assassino per onore, che invita a segnarsi e invoca l’assoluzione del Papa. «Prete sono, se mi gira mi faccio pure vescovo». C’è tutta la sua essenza patibolare, in quel personaggio. «Monicelli non l’ho mai visto ridere. Leggo il copione e scopro che il mio personaggio, il prete, è romano, deve parlare in romanesco. Telefono preoccupato a Monicelli: “Senta, Maestro, ma se parlo romanesco con Sordi, sfiguro, sparisco. Non potrei farlo in mezzo pugliese? Sa, mia madre è di Orta Nova, vicino Foggia...” “Bucci, fa’ un po’ come cazzo ti pare”. E così feci». Memorabile la sua sintesi sulla caducità dei poteri e delle illusioni, prima della decapitazione, davanti a un popolo accorso per godersi una morte altrui, di conclamata spettacolarità: «Perdono al Papa, che si crede il padrone del cielo, a Napoleone, che si crede il padrone della terra, e per ultimo, al boia, che si crede il padrone della morte. E soprattutto posso perdonare a voi, figli miei... che non siete padroni di un cazzo!» Scena madre in articulo mortis, recitata con sguaiata efficacia, con la giusta chiusa turpiloquiante, accolta festosamente dal popolo. Dà lui il via all’esecuzione. Poi la sua testa mozza e sanguinolenta viene ostentata, in un inserto gore. In uno degli ultimi sussulti della commedia all’italiana, all’alba degli anni Ottanta, Bucci viene chiamato a introdurre la morte violenta, lo strappo perturbante nella cartapesta ottocentesca. Di lì a poco si ritrova nel deserto tunisino, in vesti domenicane, a portare una grande croce, nei panni di un ecclesiastico. Più mite di padre Bastiano, ma sempre di origine pugliese. Sbuca da una duna, come un’apparizione celeste, e comincia un fitto dialogo con un Lino Banfi vestito come Corto Maltese. I fonemi turcheggianti lasciano perplesso un Paolo Villaggio in giacca e cravatta, a cinquanta gradi all’ombra. Il film è Com’è dura l’avventura. Scena madre, la sodomizzazione di Banfi a opera di un Emiro, con urlo lancinante che lacera le dune. Flavio si era trovato sul quel set per seguire le sottane di chissà quale attrice. Il demone femminile ha segnato la sua esistenza. Nessuna smania di conoscere l’anima nera di quel Riccardo III. Nel suo passato, anche un matrimonio con la principessa Pignatelli, da cui sono nati due figli. Ne ha un terzo, di vent’anni, dalla sua ultima compagna, un’olandese tornata ad Amsterdam. Da quando è esule a Passoscuro, a due passi da dove venne fucilato Salvo d’Acquisto, Flavio Bucci lascia il Moby Dick solo per passeggiare, con il suo bastone, sulla stessa spiaggia in cui finiva La dolce vita. L’arenile immenso in cui i pescatori tiravano a secco un mostro marino e Mastroianni non riusciva a capire le parole innocenti della Ciangottini, per il vento e l’ubriachezza. Se qualcuno gli parla di rimpianti, Bucci si stringe nel cappottone. «Nemmeno uno. Anzi sì: non aver mai comprato un sax a mio padre, che non ne ha mai avuto uno suo. Faceva il rappresentante di materiali per l’edilizia, ma aveva un’anima da artista, amava la musica: non solo mi ha lasciato fare l’attore, ma si è anche trasferito a Roma per starmi vicino, e non si perdeva nulla, dei miei spettacoli. Era molisano, di Casacalenda. Infatti io parlavo come lui, quando ho fatto Ingravallo, per la Rai, in un Pasticciaccio televisivo. Dicevo che la vita è complessa, piena di gnommeri, di concause. E avevo ragione: adesso sono qui, è andata così. Punto, punto e virgola, punto e a capo. Vorrei solo lavorare ancora, per sentirmi ancora vivo. Del resto, come dice Pasternak: la vecchiezza è una Roma senza burle e senza ciance, che non prove esige dall’attore, ma una completa, autentica, rovina». A chi lo guardasse andar via, con la sua cappa, e l’aria da Lear scompigliato dal vento, non resterebbe che maledire la scomparsa di un cinema abbastanza libero e perverso da poterlo inglobare.
«VOLONTÉ È BRAVO COME NOSCHESE»
Al termine di una distesa di democristiani agonizzanti, adagiati sull’erba di una villa, i riporti scomposti, le cravatte allentate, le gole mortalmente strette da rosari, le bocche intasate di microfilm compromettenti, gli addomi gonfi, sbucanti dalle camicie insanguinate, c’è Gian Maria Volonté, definitivamente trasfigurato in Moro. Genuflesso, gli occhi rivolti al cielo, mormora piangendo una preghiera, sobbalzando a ogni singhiozzo. Il film è Todo modo: nel copione nemmeno troppo fantapolitico, che Elio Petri ha tratto da un romanzo di Sciascia, Volonté, calco mimetico dello statista democristiano, convoca il gotha del suo partito in un misterioso albergo, per mondare lo spirito corrotto, dedicandosi agli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. In realtà Moro-Volonté vuole espiare oscure colpe politiche trascinando con sé, come un pifferaio di Hamelin deciso a suicidarsi con tutti i suoi topi, l’intera DC, qui rappresentata come cancrena del paese. Alle sue spalle Franco Citti, suo azzimato assistente, doppiato in italiano burocratico, sta per sparargli l’agognato colpo di grazia. Il film esce nell’aprile del 1976: la DC è al minimo storico, dopo il referendum sul divorzio del 1974. I partiti della sinistra, invece, potevano vantare il cinquanta per cento dei consensi. «Era l’epoca del compromesso storico, quindi in privato i comunisti ti dicevano che gli piacevi, ma in pubblico ti attaccavano», è il ricordo di Petri. Il risultato è la rapida sparizione del film dalle sale. La damnatio memoriae riservata al film viene aggravata dall’uccisione di Moro, a opera delle BR, due anni dopo l’uscita. Lo statista assurge a corpo sacrificale, martire nobile, Banquo metafisico onnipresente nell’immaginario politico italiano. Ma il Moro a cui si ispirava Volonté era ancora una figura in carne e ossa, invischiato nei meandri del Palazzo. Mentre si accinge a girare Todo modo l’attore perde la sua ruvida, virile consistenza. Diventa evanescente, cammina come se fosse sospeso sulle nuvole. Parla a bassa voce, non guarda negli occhi nessuno. Uno sforzo di concentrazione mostruoso. All’uscita del film, critici e addetti ai lavori si accaniscono. «Sembra Noschese», dicono, stigmatizzando un’applicazione maniacale. Petri e Volonté, prima di girare, hanno passato ore in moviola, a esaminare video di repertorio, telegiornali, tribune elettorali. «Per scrivere il copione avevo studiato alcuni dei suoi dilaganti discorsi. Posso assicurare che abbiamo censurato moltissimi dei comportamenti di Moro che sarebbero risultati troppo irriverenti nella loro comicità, e invece erano proprio suoi. Moro si abbandonava spesso a cineserie, rituali assai elaborati, nell’incontrare uomini politici, o delegazioni straniere, o altri. Ne venivano fuori autentici balletti. [...] I primi due giorni di lavorazione di Todo modo furono cestinati da me, d’accordo col produttore e con lo stesso Volonté, perché la duplicazione di Moro era talmente esatta da risultare nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco. In quell’immagine risultava tutta l’insidiosità, l’astuzia dell’uomo politico». Volonté e Moro lavorano per attenuare la mimesi e inserire nel personaggio sfumature di altri componenti della Democrazia Cristiana. Moro, in Todo modo, avrebbe dovuto incarnare una maschera dello sfascio, della catastrofe. Scelto con implicito giudizio politico, da Petri, «mostrando tutta la sua grande abilità nell’incantare le sinistre, per poi incastrarle, snaturarle, asservirle». Lo sguardo di Petri è critico e perfino spietato rispetto a un certo modo di interpretare il cattolicesimo, a una chiesa troppo avvinghiata al potere politico, sempre più incapace di intercettare i sentimenti popolari, chiusa nella dimensione catacombale che il film ci restituisce. Nella penombra claustrale dello Zafer affiorano, come creature di Grosz, giornalisti asserviti, imprenditori, politici, ecclesiastici, intellettuali organici ed esponenti di un capitalismo di Stato, vera leva economica del paese. Un Leviatano composito, che ha come fulcro il Presidente Volonté che Petri riesce a restituire in tutta la sua cupa trasparenza. Il Moro ricreato da Volonté e Petri ha ricadute da commedia grottesca, confessa al terribile prete Mastroianni desideri di stupro passivo. Sogna amleticamente di prendere decisioni, ma non riesce a vararle. Animato da una contorta perversione sessuale scaturita dall’impotenza, è esasperatamente mellifluo, isterico, piagnucoloso, in eterna ricerca di assoluzione. Gelidamente comico. Porta il potere sulle sue spalle come una croce, e il tormento di questa sorta di estenuante esercizio spirituale gli si legge sul viso esangue, nello smarrimento rassegnato, nella smorfia amara della bocca, nello sguardo malato. Petri dipinge nel corpo di Volonté un Moro colto da una vera e propria vocazione al martirio, diventato schizofrenico a causa dell’assunzione di un insostenibile compito storico: «Mediare tra l’anima utopica e quella affarista del suo partito, includendo i partiti di sinistra. Cercando un’intesa tra poveri e ricchi, tra sfruttati e sfruttatori.
La croce della maledizione gli pesava addosso sempre di più, e pareva poterlo schiacciare da un momento all’altro. Anche Moro aveva concepito, a modo suo, al pari di Loyola e Sade, l’inconcepibile: una mutazione che nulla mutasse, un moto che si sviluppasse nell’immobilità, un vuoto che sembrasse pieno, una sinistra che andasse a destra, una destra che andasse a sinistra. Ma sempre nella complicità con la parte peggiore del suo partito. E intanto il tessuto culturale e sociale del paese, in questa tensione metafisica, si andava sbracando, decomponendo, moriva, e continua a morire». Petri scaglia la sua invettiva nei confronti di quello che allora era il centro del dibattito politico in Italia: la proposta del compromesso storico, vecchio vezzo del partito comunista, nato con l’alleanza di Togliatti e De Gasperi. Inseguire sempre l’alleanza con il proprio avversario viene visto da Petri come sintomo di vocazione al trasformismo, inestirpabile tara genetica del sistema politico italiano. Petri riassume questo nodo storiografico mettendo in bocca a Volonté, come un tic linguistico, la parola conciliazione, versione clericale del termine compromesso. Petri si scaglia contro questa idea di una Repubblica bloccata, di una democrazia che attinge la sua forza dalla mancanza del conflitto, dalla composizione del conflitto, e non vede nello scontro una risorsa. Dopo la morte, Moro viene beatificato acriticamente. Per espiare il vilipendio da farsa tragica di Todo modo, a metà degli anni Ottanta, un Volonté relegato ai margini del cinema italiano finirà per reinterpretarlo, nel Caso Moro di Giuseppe Ferrara. Restituendo con misurata dignità la tragedia di un uomo di fronte alla solitudine, alla morte, all’abbandono. Petri sconterà l’aspetto cupamente terminale del suo film, trovandosi a rimeditare, assai poco pentito, la sgradevolezza del suo cinema «in una società che chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno: se l’impegno è gradevole, e quindi non dà fastidio a nessuno, lo si accetta. Altrimenti no: i miei film, al contrario, oltrepassano il segno della sgradevolezza. «Ma questa è una società che ha ucciso sia il reale sia l’immaginario».
IL COMICO FISIOLOGICO
Un giorno non meglio precisato del 1965, un trafelato Antonio Pietrangeli irrompe a casa di Ugo Tognazzi. Ha bisogno, in tempi brevissimi, di un suo cameo, a qualsiasi costo. Sta girando Io la conoscevo bene: la protagonista è una giovanissima Stefania Sandrelli, non ancora vedette, e i produttori gli hanno imposto la presenza nel cast di una star affermata. Qualcuno del calibro di Tognazzi. Che, però, è ormai così richiesto da essere già impegnato, in contemporanea, su ben due set. Non ha un minuto libero ma, da istintivo conoscitore di uomini, è affascinato da Pietrangeli. Gli riconosce uno sguardo sottile, capace di non cadere mai nella costruzione di facili macchiette, abbondanti invece anche dalle parti nobili della commedia all’italiana. Essere diretto da lui, poco tempo prima, nel Magnifico cornuto lo ha esaltato e traumatizzato. Ripetere una scena anche quindici volte, perché ogni dettaglio sia perfetto, anche nei movimenti delle comparse sullo sfondo, è un metodo di lavoro deleterio per il temperamento dell’attore cremonese, per quanto gratificante possa rivelarsi il risultato finale. Pietrangeli, stavolta, gli sta chiedendo solo una rapida apparizione, un pretesto per inserire il suo nome a caratteri cubitali nei titoli di testa: deve vestire i panni di un attore cinico e affermato, premiato in un salotto romano, affollato da trepidanti marginali della Hollywood tiberina. Tognazzi dà una rapida scorsa al copione, poi fulmina il regista: «Sono libero solo stanotte, per due ore, ma non per la parte del grandattore stronzo. Voglio essere l’altro, il fallito che gli striscia ai piedi, il guittaccio da avanspettacolo», è la sua proposta. Pietrangeli accetta felicemente, lasciando carta bianca all’attore sulla costruzione del suo personaggio. Rimasto solo, Tognazzi si reimmerge nel suo passato. Si rivede quindicenne, impiegato in un salumificio della sua Cremona, con un padre assicuratore dalle fortune molto ondivaghe. Nelle orecchie, ogni mattina, gli echeggia lo sgozzamento di cinquecento maiali, tramutati nel pomeriggio in carne insaccata. Lui ne deve tenere la contabilità. La smania adolescente di evadere, facendo l’attore. La passione alimentata guardando con occhi sgranati Fanfulla, Rascel, Totò, Macario nei varietà. L’esordio nel dopolavoro ferroviario di Cremona. Poi la partenza per la guerra, in marina. Il fronte evitato con abilità, imboscandosi nelle retrovie, inventando spettacoli per le truppe. La guerra passata indenne, la faticosa gavetta nell’avanspettacolo, il passaggio da protagonista alla rivista, trasferendo il repertorio brillante nella neonata televisione, in coppia con Raimondo Vianello. Scende la notte, e le idee di Tognazzi sono ormai chiare: regalerà a Pietrangeli una memorabile locomotiva, un suo vecchio cavallo di battaglia, portato su mille palchi di provincia. Arriva sul set. La situazione, da copione, è di una crudeltà pura, senza spiragli consolatori. Franco Fabrizi è il mellifluo padrone di casa, organizzatore di una festa in cui tutti, disperatamente, cercano di promuovere se stessi. La parte dell’attore famoso, cinico e arrivato, giunto alla festa per pavoneggiarsi, è stata affidata a Enrico Maria Salerno. Nino Manfredi è invece un disperato e truffaldino fotografo per aspiranti attrici, ragazze della provincia attirate a Roma dal sogno del cinema. Come Stefania Sandrelli, che lo ha seguito senza sapere bene cosa aspettarsi. Tognazzi, per l’occasione, si è impiastrato i capelli di brillantina Linetti, lasciandosi baffetti sottili. Imbolsito, stretto in un completo chiaro evidentemente acquistato troppo tempo prima, quando aveva un’altra taglia e qualche soldo in tasca. Fuma leziosamente, alla Carlo Dapporto, cercando di darsi un tono nel cuore della festa. Enrico Maria Salerno, annoiato, decide di intrattenere gli astanti irridendolo. Racconta a tutti di quando Tognazzi rifiutò la corte di Ava Gardner. Tognazzi ostenta patetico riserbo sulla questione. Salerno insiste, nel deriderlo pubblicamente: gli presenta Manfredi, spacciandolo per produttore in cerca di talenti. Manfredi sta al gioco: chiede a Tognazzi un provino seduta stante. Gli serve un ballerino di tip-tap, Tognazzi si fa pregare per una manciata di secondi, poi sale sul tavolo del salone. Dispiegando le braccia, come un pianista acclamato prima di un grande concerto. «Faccio il treno», annuncia, con nasale quanto impropria solennità. E parte, esibendosi compiaciuto in una locomotiva umana. Tutti ridono, qualcuno sembra ammirarne anche il virtuosismo. Dopo qualche secondo Tognazzi comincia però a sudare copiosamente, lo sguardo gli si annebbia, il fiatone aumenta. Manfredi, rispecchiandosi in un omologo, in una vittima, decide che la beffa può concludersi. Ma il sadismo di Salerno è implacabile, vuole portare il gioco crudele alle sue estreme conseguenze: invita il fantasista in disarmo a far accelerare il suo treno. Le risate scemano. Tognazzi, in punta di infarto, continua giocare con tacco e punta, per narcisismo da vittima, per mostrare che non è finito, per compiacere la ferocia della star. E magari ottenere un piccolo premio, per tanta umiliazione. Poi, a un colpo di tacco dall’arresto cardiaco, conclude il numero con un inchino scomposto e scende arrancando dal tavolo. Pietrangeli, nel montaggio, lascia venti lunghissimi secondi di silenzio, senza che si senta nemmeno una musica di
sottofondo. Nessuno ride. Si sente solo il fiatone raggelante di Tognazzi, zuppo e stravolto. Salerno borbotta cauto qualche altra ferocia, invitandolo a raccontare una barzelletta delle sue. «Aspet... tah!», sfiata Tognazzi, guardandosi intorno stralunato. Congedatosi da Pietrangeli, torna a casa stanco ma soddisfatto. Quel cameo di pochi minuti gli varrà un unanime Nastro d’argento e lui lo considererà sempre una delle gemme recitative della sua intera carriera. «Il copione era diverso. Invece di fare il tip-tap avrei dovuto cantare una canzoncina. La canzoncina avrebbe suscitato uno sfottò del pubblico e basta. Il tip-tap, invece, con il fatto di essere io anziano e di sentirmi male, avrebbe creato un effetto più intenso, e reso più stridente il rapporto coi quattro stronzi della festa, avrebbe portato un’aria da piccolo melodramma». Perché Tognazzi ha una peculiarità ormai ben definita, in quello scorcio intermedio degli anni Sessanta. Una caratteristica che lo distingue pienamente dagli altri colonnelli della commedia all’italiana. Sordi è una maschera aliena, un italiano medio così metafisico da lambire l’irreale, l’incorporeo, l’asessuato. Manfredi è un Sordi leggermente più umano, con la sapienza vagamente meschina del ciociaro sbarcato nella capitale in eterna ricerca di espedienti. Sempre poggiato su una tecnica comica molto evidente, per quanto efficace. Gassman è un eroe alfieriano sceso dal monumento equestre, un mattatore ottocentesco con un fisico bigger than life. Per accedere alla commedia all’italiana, alla sua popolarità, ai suoi straordinari emolumenti, ha dovuto ingaglioffirsi, abbassarsi la fronte da nobile con le parrucche, insistere sulla sua aria trombonesca, da roboante miles gloriosus plautino. Deridere al cinema l’attore classico incarnato a teatro, degradandolo a maschera cialtronesca. Tognazzi, a differenza di tutti, è il più distante dalla maschera e dall’esibizione tecnica. È un corpo, ha una fisiologia esibita, evidente, che ritornerà nei momenti più felici della sua carriera cinematografica. Un’umanità palpabile, per quanto gaglioffa. Immediatamente credibile nel suo essere, dentro e fuori dai set, protagonista di una compulsiva vita sessuale, condita da una raffinata fame di cibi elaborati, sfociante in una corporeità legata alle fatiche della digestione. Da uomo, non da marionetta. Una consapevolezza accresciuta dal rapporto con Marco Ferreri, che considera l’incontro con Tognazzi il più importante della sua vita professionale. Il Tognazzi comico leggero, malleabile, pronto per il suo surrealismo nerastro. Quando incontra Ferreri, Tognazzi si imbatte in una rivoluzione copernicana. Si conoscono in Spagna. Tognazzi sta girando una pochade leggera, con Vianello: I tromboni di Fra’ Diavolo. Ha già fatto con l’amico Luciano Salce Il federale e La voglia matta, due commedie amare, film in cui Tognazzi può dare vita a personaggi umani, più sommessi interiormente, lontani dal filone di bassa parodia che gli veniva costantemente offerto. Ferreri gli manda in albergo il suo curriculum, allegando le recensioni di El cochecito, il suo film spagnolo. La storia di un vedovo ossessionato dalla carrozzella a motore. Lo humor nero, inedito in Italia, incuriosisce il comico cremonese. Da naïf arguto, privo di cultura libresca ma pieno di soda furbizia padana, intravede la possibile svolta nella sua carriera. Ferreri gli si presenta, poco dopo, nella hall. È un giovanotto rotondetto, sbarbato, molto buffo, con l’occhio saettante. Con sintesi brutale, gli racconta la trama del film che sta per proporgli: «Ho ’na storia de uno co’ ’na moglie che gli fa fare l’amore finché mòre. T’interessa?» La lingua bizzarra in cui emette i suoi concetti lapidari è un pastiche di romanesco e dialetto della zona di Lecco, suo luogo natio. Il suo linguaggio è un sintomo, denuncia il suo stato d’animo. Parla come il marziano che è, mostrando i suoi faticosi tentativi di apprendimento della lingua dominante, finalizzati a farsi accettare dalla capitale ruffiana del cinema. Consapevole che l’impresa è, e resterà, impossibile. Il film proposto da Ferreri è L’ape regina, scritto dal regista in coppia con Rafael Azcona, nel 1962. Tognazzi è perfetto per incarnare il nordico abile e accorto, capace di cavalcare il boom con remunerativo calvinismo lombardo. Nel film commercia in automobili, arriva a quarant’anni e avverte come indecente il proprio consumato ruolo da playboy. Si fa consigliare una moglie vergine da un padre domenicano, suo direttore spirituale. La ragazza, una splendida quanto feroce Marina Vlady, con dolcezza implacabile pretende continue prestazioni sessuali a fini riproduttivi. Tognazzi appare presto consunto, logoro, non all’altezza della situazione. Chiede aiuto al padre spirituale, che lo bacchetta, avallando il sacrosanto diritto alla maternità della Vlady. Tognazzi ingurgita farmaci, deperisce, ma la Vlady ottiene il suo scopo. È finalmente madre; intanto il fuco Tognazzi, ridotto a una larva, muore in uno sgabuzzino mentre la famiglia matriarcale di sua moglie festeggia l’arrivo del nuovo nato. Ferreri e Tognazzi si ritrovano nel 1964 con La donna scimmia. Il soggetto, ispirato alla vicenda reale di Julia Pastrana, si avvale nuovamente della vena grottesca di Rafael Azcona. Tognazzi vaga per Napoli, con l’aria sorniona di chi vive d’espedienti. Un giorno, in un ospizio, individua in un’Annie Girardot dal volto coperto di peli l’occasione della sua vita. La esibirà come fenomeno da baraccone. Per legarla a sé, decide di sposarla. Riemerge, ancora una volta, la specificità di Tognazzi, la chimica perfetta creata col mondo di Ferreri: l’attore è l’unico, per la curiosità nei confronti della vita che gli si legge negli occhi, a risultare
credibile, umano, in un contesto così estremo. Non è impossibile immaginarlo davvero a letto, con una donna barbuta, abbandonato a tenerezze sospese in un’intima zona d’ombra. Concedendosi un momento in cui le ambiguità del cinismo calcolatorio, da impresario spregiudicato, sfumano nell’attrazione, autenticamente perversa, per ogni sfaccettatura della sessualità. Arrivando a ingravidare la sua ipertricotica partner, destinata a morire, con suo figlio, durante il parto. Un museo chiede e ottiene di conservare i loro corpi, ma Antonio ci ripensa. Un po’ per contorta affezione, un po’ per interesse, si indebita per ottenere i due cadaveri, li fa imbalsamare e ricomincia a esporli nel proprio baraccone. Tognazzi riesce a fornire al personaggio anche tutta l’ambiguità dell’ometto, né buono né cattivo, che asseconda l’inerzia di un sistema, apatico attraversatore di ogni orrore, per continuare a vivacchiare sottraendosi al lavoro. Ferreri, emulo buñueliano, trasfigura nel corpo di Tognazzi un carattere ancora inedito nel cinema italiano. Nonostante il contesto surreale, se ne sente dallo schermo la puzza familiare, umana. Troppo umana: allo spettatore non è nemmeno concessa la possibilità di affibbiargli l’etichetta rassicurante di mostro risiano, così iperbolico nella sua aberrazione da diventare una maschera. Il professore di Controsesso è uno dei vertici espressivi del trio Tognazzi-Ferreri-Azcona. In un istituto femminile di Spoleto, vive ed esercita un professore di liceo, un Tognazzi ricalcato a immagine e somiglianza di Giulio Andreotti, con tanto di occhiali dalla montatura d’osso nera e capello nero contenuto da una retina notturna. Un replicante fisico e morale di un modello politico, organico, in carne, ossa, tessuti e fremiti. Non un’imitazione noschesiana, non una rielaborazione macchiettistica, da Sordi spiritato compagnuccio della parrocchietta: un esponente della maggioranza feroce e silenziosa, impregnato di viva mediocrità. Vive con due nonnine castranti, due anziane beghine che si litigano il privilegio di lavargli i piedi. Tognazzi rende benissimo la sessualità repressa del suo personaggio. In epoca presessantottina, ne tratteggia l’autoritarismo deviante, vischiosamente comico: per evitare che le proprie allieve ricevano aiuti esterni durante i compiti in classe, fa installare nell’aula una toilette portatile che gli consenta di ascoltare, fremente e deliziato, la colonna sonora di ogni deiezione, per poi godersi la voluttuosa contrizione del pentimento, sbollentando la testa sotto il gelo di una fontana pubblica. Tognazzi è credibile persino nell’ultimo episodio di Marcia nuziale, del 1966: Ferreri, Azcona e Tognazzi in uno strano Blade Runner farsesco. In un futuristico 1999, Tognazzi è viscidamente avvinghiato a una bambola di silicone, che assolve a ogni funzione coniugale. L’arrivo di un altro uomo, con un modello femminile più sofisticato, lo getta in uno sconforto frustrato. La sua bambola sembra accorgersene, e lo fissa con orbite cave. Poi le sfugge una lacrima. È nel 1973, però, che il connubio tra Tognazzi e Ferreri giunge alle estreme conseguenze. Il film è La grande abbuffata. A Tognazzi piaceva più il titolo francese, La grande bouffe, per l’assonanza con il buffo, utile a restituire il clima da farsa tragica. Ferreri gli ha sintetizzato, a modo suo, la trama: «Ugo, ho ’na storia dove se magna, se caga, se scopa e se mòre. T’interessa? L’ho già detto a Mastroianni, a Piccoli, a Noiret, loro hanno risposto di sì. Te che fai?» In realtà Ferreri ha millantato le già ottenute adesioni degli altri tre, parlando con ognuno degli attori scelti. Alla fine accettano tutti e quattro. Ferreri ha così a disposizione due divi internazionali, Mastroianni e Piccoli, e due star nazionalpopolari, Tognazzi e Noiret, per narrare le vicende di un quartetto di amici, prossimi ai cinquant’anni, prestigiosamente inseriti nella società parigina. Tognazzi, filologicamente autobiografico, è un cuoco provetto. Piccoli è un regista televisivo. Mastroianni è un brillante pilota civile, Noiret è un magistrato. Apaticamente annoiati e delusi dal proprio mondo, decidono di chiudersi in una villetta a Neuilly, per concedersi un lussuoso addio alla vita. Ugo è il vero demiurgo, mattatore di un film che sfonda la metafora, la decompone organicamente. I quattro altoborghesi, mangiando cibi raffinati e compositi, perdono, ostrica dopo ostrica, strato dopo strato, rispettabilità, sovrastrutture, ruoli sociali, maschere. Ridotti dall’accumulo di proibitive, costosissime gourmandises, all’essenza finale, celiniana, di tubi digerenti malfunzionanti. A perenne monito, nella villa esplode anche il cesso. Successivamente, muoiono uno per uno. Tognazzi mostra sul viso i segni di troppe occlusioni postprandiali, di un fegato sovraccarico, di un occhio intorpidito dalle quotidiane libagioni. Se ne va per ultimo, sbocconcellando un gigantesco paté, masturbato dallo psicopompo del quartetto Andréa Ferréol. Un’idea sua, che Ferreri accoglie con entusiasmo: «A Marco piaceva: rendeva l’idea di quanto io fossi il più fisiologico del quartetto, il meno esistenzialista. Pura materia, destinato alla compiutezza di una morte con orgasmo fisiologico». È un film tetro, più debitore a Sade che a Rabelais. Non a caso Carmelo Bene scriverà una sceneggiatura, mai realizzata, calibrata su Tognazzi. Immaginandolo nei panni di un padrone libertino, che per raggiungere l’orgasmo ha bisogno di riproporre tutti gli stilemi della più avvilente quotidianità. Immaginando la donna come una Olivetti da ufficio, per dattiloscrivere pratiche burocratiche. Il progetto non troverà produzioni. Contemporaneamente, Tognazzi gira anche La proprietà non è più un furto. Il coraggio, la consapevolezza dei propri mezzi attoriali lo spingono a osare. A calarsi, da lombardo doc, nei panni
di un avido macellaio romano, nell’apologo brechtiano che Petri gli cuce addosso. Memorabile il suo monologo, recitato mentre è avvolto dalle tenebre, guardando fisso in macchina. «Macchecefarò io con tutto il denaro della mia vita... quando penso ai cassieri de banca che rischiano di morire per difendere il capitale altrui, allora c’ho proprio il sospetto che in questi nullatenenti avanzi la pazzia, aleggi la stronzaggine.Ciò mi tranquillizza, perché è su de loro che io m’arricchisco. Ma malgrado tutto, nun so’ felice. Perché anch’io, come il denaro, vorrei esse eterno». Eppure prende le distanze da Petri, cogliendo una sfumatura significativa, in alcune differenze di poetica tra i due autori centrali nel cinema italiano di quegli anni. «I film di Petri sono deliberatamente politici... non voglio dire che Petri non sia in buona fede: è nato davanti a una sede del PCI, quindi è PCI per tutta la vita. Mi domando cosa sarebbe stato se fosse nato davanti a una sala da biliardo. Scherzi a parte, La proprietà è un film importante. Un film espressionista in cui i personaggi, a turno, dicono le loro ragioni, o meglio pronunciano le loro orazioni, come da una tribuna, un balcone... È un film naturalista, anzi neorealista, con una sfumatura di commedia all’italiana». Continuerà, per tutta la vita, a sentirsi più in sintonia, molto ricambiata, con Ferreri. Il duo ha rappresentato un caso unico di cinema politico viscerale, germinato dalla fisiologia e non dalla sovrastruttura ideologica. Vissuto sul corpo, incerto tra bonarietà e putrescenza, di un anomalo italiano medio.
CIPRÌ, MARESCO E I MOSTRI ESTINTI
Nicola Ciraulo sembra il rigurgito postumo di un cinema perduto. Protagonista di È stato il figlio, ha la faccia dolente di Toni Servillo e vive in una Palermo metafisica. Circoscritta a grigi palazzoni di cemento, immersi nella luce livida di Daniele Ciprì, scisso nel duplice ruolo di regista e direttore della fotografia. Ciraulo tira a campare strappando ferro alle navi in disarmo, perso in una contemporaneità indefinita ma affollata di feticci minimi degli anni Ottanta. Che nel Sud Italia si confondevano spesso con quelli dei decenni precedenti, fra tappezzerie damascate e lampadari da pop art povera, Fiat 127 verde oliva e telefoni Bigrigio con ghiera rotante. Questo sottoproletario piccolo piccolo è il primo parto autonomo di Ciprì, esordiente alla regia solitaria dopo la separazione artistica da Franco Maresco. La coppia partì dai lampi televisivi di Cinico tv per inventare un cinema estremo, radicale. Affogarono la commedia all’italiana in un gorgo grottesco, liberandola da macchiette consolatorie, da trame piene di equivoci e trovate, da antieroi cenciosi ma spesso pittoreschi. Incastrarono in abbacinanti campi lunghi le macerie edili e umane di Palermo. Ingaggiando nelle periferie della città autentici freak, ridotti all’aprassia frontale e bidimensionale, come icone bizantine in decomposizione, sospese tra la bruta fisiologia e un linguaggio disfunzionale, pieno di rantoli dialettali, tendente alla progressiva afasia beckettiana. Nei primi anni Novanta regalavano risate raggelanti a malcapitate famiglie sedute a tavola per cena, sintonizzate sulla Rai Tre anarcoide di Angelo Guglielmi. Costrette a sorbirsi i peti musicali del cantante da balera obeso Paviglianiti, che scendeva come Wanda Osiris dalla scala di un edificio fatiscente. Il loro cinema ne estremizzerà ulteriormente la poetica, trascinandola ai limiti dell’insostenibilità. Rendendo lancinante la nostalgia dell’umano. Restituendo, in film come Totò che visse due volte, il bestiario di una fisiologia criminale inguardabile e non seducente, lontana dalle delinquenze eroiche, seriali e patinate dei tanti posticci romanzi criminali, suburre e gomorre a venire. È stato il figlio induce invece a pensare che Ciprì, accantonata la cupa profondità teorica di Maresco, abbia ricominciato a credere nel cinema amato, citandolo entusiasta e rinunciando a stuprarlo. Il suo Ciraulo è una summa vivente di tanta comicità italiana. Canottiera unta e occhiali appannati alla Manfredi, esibisce smorfie di compiaciuta ebetudine, camminate di tronfia miseria, sussurri eccitati. Il film si riempie così di reminiscenze, déjà-vu, omaggi. Apparizioni illuminanti, come l’avvocato ipertiroideo che soppesa minuzioso la propria forfora. Ricorda il Romolo Valli capufficio massone di Sordi, borghese piccolo piccolo nell’omonimo film di Monicelli. Litania funebre della commedia all’italiana, il film scandisce un passaggio epocale e ha più di un’analogia con la pellicola di Ciprì. In pieno 1977 Sordi sbozzò il più perturbante dei suoi ritratti, molto distante dai soliti cialtroni equivocabili, in cerca di indulgenza. In una Roma cupa e rumorosa, già grigia di smog e intrisa di violenza, il travet ministeriale Sordi coltiva il proprio rancore represso. Vive in un appartamento di tetro decoro, pieno di elettrodomestici malfunzionanti. È lo stesso set del coevo Fantozzi, con vista sull’aberrante sopraelevata del Prenestino. Solo che nel mondo impiegatizio creato da Villaggio e Salce le sfumature gogoliane erano diluite nello slapstick, nelle gag alla Tex Avery. Le incudini sulla testa non facevano mai troppo male e lo spettatore conservava alcune vie di fuga, come la consolatoria identificazione con il sordido ma vincente Calboni. Nel film di Monicelli, invece, il proiettile vagante di un rapinatore in fuga uccide il figlio di Sordi, sgretolando le meschine ma granitiche certezze del padre. Sua moglie, interpretata da Shelley Winters, rimane paralizzata, riducendosi a un immobile mutismo nel suo buio tinello, simile a tante figure di Cinico tv. Anche la figlia di Ciraulo muore, uccisa per errore da mafiosi maldestri. Solo che il dolore, in Monicelli, buca lo schermo. Ferisce ancora oggi. Nel film di Ciprì, invece, svapora subito, bruscamente soppiantato dalla brama per una Mercedes, da comprare ottusamente con i soldi destinati alle vittime di mafia. Un oggetto del desiderio che innescherà nuove tragedie. Eppure nel film latitano quasi del tutto pathos e ferocia, nonostante alcuni intermittenti lampi di regia. Celebrato a Venezia, È stato il figlio sembra una galleria di personaggi tendenti al buffo, fondamentalmente innocui. Lo sono persino i due usurai, coppia di truci melomani. Hanno condizioni di prestito talmente oscene da essere diegeticamente censurate dallo sferragliare del treno. Ma non fanno paura nemmeno loro e Ciraulo se li scrollerà di dosso con un semplice moto di stizza. Sono molto distanti dall’Amico di famiglia, strozzino dalla crudele affettazione inventato da Sorrentino. Mostro medio, verosimile, masticatore incessante di sentenze da Reader’s Digest, con il volto sghembo di Giacomo Rizzo. Caratterista di lusso come Ernesto Mahieux, protagonista dell’Imbalsamatore di Matteo Garrone: vampiresco mummificatore di animali, dal corpo rimasto bambino, a suo agio tra gli spettrali scorci edilizi campani. Due figure difformi per raccontare con sguardo obliquo la crudeltà dei rapporti di forza e il loro risvolto tragicomico. L’affascinante deformità del potere è un tema che Sorrentino ha ulteriormente approfondito nel Divo, storia di Andreotti in forma di romanzo storico pop. Alle prese con un soggetto cannibalizzato
da troppa satira, Sorrentino cala sull’istrionismo di Servillo una maschera artificiale. Restituendo ad Andreotti la sua natura di immarcescibile androide e inventandogli una voce più congrua del reale. Se nella realtà Giulio sembra contraddire il suo aspetto da Nosferatu con una cadenza da bonario nonnetto romano, nel Divo acquisisce una nasalità proterva, da Riccardo III beniano. Dove la deformità diventa strumento di perversa seduzione. Scelte stilistiche discutibili ma coraggiose. Schegge autoriali isolate, in un panorama cinematografico spesso ripiegato su cliché piatti, il cui modello ultimo sembra sempre la fiction televisiva. Un cinema zavorrato da autocensure aprioristiche e limitazioni produttive. Ostaggio di un mercato monopolista, implacabile nel banalizzare il gusto, più letale di qualsiasi forma di censura. Generatore di un cinema anemico, incapace di raccontare un paese pieno di virulenti esempi di deperimento antropologico, in spasmodica imitazione della televisione più corriva. Il cinema italiano, escluse le rare eccezioni, non incide nessun immaginario collettivo, non tasta il polso della propria epoca, non coglie sintomi di un futuro possibile. Eppure, proprio in virtù di questo senso immanente di crisi, che sembra vanificare ogni legge commerciale, bisognerebbe concedersi lussi autoriali sfrenati. Con la disperata vitalità di chi non ha più nulla da perdere.
ALLA RICERCA DI FRANCO CITTI PER UN FILM (IN PREPARAZIONE) SU CARMELO BENE1
Due anni fa, in una fase dadaista della mia esistenza, fui scaraventato nel centro storico di Cave, un piccolo borgo a sud di Roma. Vivevo in via Prenestina Vecchia, all’ombra dell’arco sconnesso e pieno d’edera che delimitava la fine del paese. «Una casa pasoliniana», raccontai a me stesso, per indorare la miseria. Il malfermo appartamentino, al secondo e ultimo piano di una casupola in pietra scura, era impreziosito da un bagno abusivo, innestato sulla parete esterna, come una palafitta di metallo bianco. Affacciandomi alla finestra, scoprii l’unico pregio della casa: una vista sconfinata sulla vallata, lussureggiante di castagni. Preso possesso del mesto appartamento, mi guardai intorno, incuriosito. La vicinanza con Cinecittà, a soli trenta minuti di auto, aveva regalato a questa valle una stratificata storia cinematografica. Proprio qui, in questo lembo di frusinate così simile alla Virginia, Gordon Mitchell, culturista di Denver affondato fino al collo nei B-movie italiani, aveva eretto un personale villaggio western. Un produttore, fallendo, lo aveva pagato in ettari, per regolare vecchie pendenze. Mitchell ci aveva costruito un saloon, un ranch e una chiesetta, trasformandolo nel set ideale per una cinquantina di tardi e scalcinati spaghetti western. Oltre cinquanta film, titoli del calibro di Inginocchiati straniero... i cadaveri non fanno ombra! di Demofilo Fidani, detto Miles Deem. Dieci anni prima la stessa vallata era diventata il set di Un giorno da leoni, epico film di Nanni Loy sulla Resistenza, pellicola usurata per decenni nei cineforum delle feste dell’Unità. Addentrandomi nel cuore della valle, alla fine di una strada sbarrata da una frana, intravidi una locanda da far west, tutta legno e mattoni. Mi venne incontro l’oste, un Mastro Titta dal ventre imponente. «Me chiamo Gino», mi disse, stritolandomi la mano con ruvida affabilità. I lunghi capelli grigi, spioventi sulle spalle rocciose, erano un corredo da harleysta irriducibile, in barba alle settanta primavere: lo scoprii divorando la sua carbonara e guardando le numerose foto appese alle pareti del locale. C’erano sue recenti istantanee da centauro, lanciato sulla Prenestina, alternate a foto del Duce, adesivi di Casa Pound e motti fascisti. Tra tanto ciarpame omogeneo, un’unica folgorante eccezione: una foto di scena in bianco e nero dell’Edipo re pasoliniano; Franco Citti, in primo piano, sorride con la solita, terribile innocenza. Lo sguardo abissale è incorniciato dall’elmo ruvido, di metallo storto. In uno spazio bianco della foto, leggo una dedica. A Gino, con simpatia. Franco Citti. «È stato a magnà qui l’artro giorno, c’ha dei parenti nel centro storico», mi spiega Gino, brandendo una coda alla vaccinara fumante. Colto nel mio sguardo un reale, improvviso interesse, prosegue il racconto. «L’ho visto fermo, muto. Me so’ avvicinato. Ma te sei Franco Citti? Lui ha mugugnato, facendo sì con la testa. Nun parla più, c’ha avuto l’ictus. Dice solo Thailandia e fa con la mano e con la bocca er segno dell’aeroplano. C’ha una ragazzetta, laggiù. Ce vo’ annà a morì. A giusta fine de Accattone. Me piaceva tanto, Citti, nei firm de Pasolini. Anche se Pasolini, quer frocio, era n’omo da buttà ar secchione. Comunque è stato gentile, Citti. M’aveva promesso la foto con dedica e me l’ha spedita, c’ho ancora la busta». Mi mostra la reliquia e incamero l’indirizzo. Fiumicino. Ricordo che nel suo libro, Vita di un ragazzo di vita, scritto con Claudio Valentini, Citti da Torpignattara, pittoretto della Marranella, dice di essersi innamorato di Fiumicino quando stava girando Accattone, nel 1961. Un macchinista della troupe lo aveva invitato lì, perché sua madre lo voleva conoscere. «I malandri del porto», scrive Citti, «mi portarono a pesca. Fiumicino non assomiglia a nessun mare del mondo: mi ricorda l’Aniene della mia infanzia. Anzi, aveva il colore della morte, mi faceva pensare a tutti quelli che avevo visto buttarsi al fiume e affogare. Come stavo per fare io, nella prima scena di Accattone. Per quel bagno, dopo qualche tempo, presi la leptospirosi e me ne stavo andando per davvero». Qualche giorno dopo decisi di andare a Fiumicino anch’io. Mi ritrovai a due passi da un mare limaccioso, davanti a questo grumo di case estive, ammassate una sull’altra. All’indirizzo che mi ero segnato c’era un palazzetto di due piani. Sbirciai nel cortile: in un capanno con la porta spalancata, notai decine di grembiuli da infermiera, da cuoca o da commessa, appesi a delle grucce. Dietro le stoffe, fluttuanti per la brezza marina, intravidi per un attimo una testa canuta, dai capelli folti, immobile in poltrona. Mi decisi a citofonare. Dal portone del palazzo uscì un cinquantenne pacioso, trafelato. Paolo Citti, figlio di Franco, nome di battesimo scelto come omaggio pasoliniano, di professione sarto, specializzato in divise da lavoro. Gli spiegai che volevo conoscere suo padre e intervistarlo. Citti junior, indicando la testa canuta nel capanno, mi spiegò gentilmente che suo padre, dopo l’ictus, non stava affatto bene e non aveva molta voglia di mostrarsi.
Gli dissi che volevo dedicare a suo padre una scena di un mio film su Carmelo Bene, un’idea nata dal recupero di preziose audiocassette, ricche di inediti racconti autobiografici dell’artista salentino, che appartengono ai tardi anni Novanta, all’ultimo periodo della sua vita. Sono la testimonianza di un prodigio: Carmelo, sprofondando nei ricordi, in compagnia degli intimi, cambiava voce e tono. Gli bastava evocare l’infanzia per riacquistare un timbro argentino, da Pinocchio fragile, eccitato da lampi lucignoleschi. Si spogliava delle crudeltà amletiche e delle amplificazioni elettroniche, risaliva il fiume di Ballantines che gli aveva inondato la gola per decenni. Esorcizzava tonnellate di Gitanes, cento al giorno, aspirate a fondo, e accantonava il tono da belva reclusa delle ribalte costanziane, lambendo una strana forma di autoironia. Avevo pensato di utilizzare questo sussurro medianico e trasformarlo nel voice over di un film, interamente impostato sulla soggettiva beniana. Dentro quel fiume di parole avevo intercettato anche la sua descrizione di Franco Citti. Spiegai a suo figlio che Bene gli dedicava parole affettuose. Gli dissi che sarei stato felicissimo se nel mio film fosse entrato uno dei volti emblematici del cinema italiano. L’uomo entrò nel capanno e confabulò con suo padre. Uscì dopo qualche minuto e, sorridendo, mi autorizzò a tornare con un operatore. Qualche giorno dopo entravo anch’io nel capanno. Tutto comunicava provvisorietà, da luogo non vissuto, ripostiglio di una casa marittima. Vecchie sedie a sdraio di plastica, un tavolaccio. Sulle pareti disadorne, nemmeno una foto. Solo un grande quadro: un pezzo degli scacchi, un alfiere bianco, adagiato su sabbia ocra, stagliato su fondo azzurro. «Un regalo per zio Sergio, non mi ricordo il pittore», mi spiegherà poi Paolo. Sdraiato sul divano, il corpo ancora snello, in canottiera e pantaloni a righe, da pigiama, immerso nella visione a tutto volume di un match di tennis, mi è apparso Franco Citti. Mi ha guardato a lungo, silenzioso, il magnifico volto scavato, l’ispida barbetta argentea: ormai quasi ottantenne, era diventato definitivamente l’Edipo che Pasolini aveva colto in lui. Fiaccato dai recenti ictus, aveva enormi difficoltà a parlare. Pieno di pudore, protendendo le braccia, mi ha chiesto di farlo sedere sulla sedia. Lo conoscevo da pochi secondi e mi sono ritrovato a stringerlo forte, ad abbracciarlo come fosse mio padre, per trasportarlo sulla poltrona. Non avevo intenzione di forzarlo obbligandolo a un’intervista oggettivamente impossibile a causa della sua condizione. Gli ho proposto un’inquadratura in primo piano, mentre ascoltava i racconti di Carmelo Bene su Salomè, lo spettacolo del 1964 che li vide insieme sul palcoscenico del teatro delle Muse. Ha dato un muto assenso al gioco. Mentre l’operatore lo inquadrava in primo piano, in un bianco e nero contrastato, esaltando ogni piega del suo volto, ho fatto partire, dal mio computer portatile, l’audio beniano: «Nel marzo 1964 debuttiamo con Salomè di Oscar Wilde al teatro delle Muse. C’era Franco Citti nella parte del profeta Iokanaan. Gli detti la parte da studiare, ricordandogli che avrebbe dovuto improvvisare. “Ce penso io a improvvisà”, diceva. Aveva già fatto Accattone. “Che c’entra lei con il teatro? Non le sembra di essere immodesto?”, gli chiese un giornalista imprudente. “E perché ho da esse modesto?”, lo stroncò lui». Il Citti imitato da Carmelo Bene è pura invenzione, senza nessuna attinenza mimetica con la sua nasalità tagliente, romana. Ha una cavernosità trucida, da Mangiafuoco. Ma l’imitato, riascoltando il suo vecchio capocomico, sembrava divertirsi molto. Mi ha guardato con un mezzo ghigno, mentre la voce beniana proseguiva: «Citti sbucava fuori da un pitale, con tanto di cappello di giornale in testa, da muratore. Usciva insultando grevemente Salomè, chiedendo aggiornamenti sui risultati della Roma. A ogni sua emersione, venivano fatte esplodere, all’interno del suo loculo, alcune fialette puzzolenti: la Buona Novella veniva annunciata da effluvi fognari. La provocazione non fu colta da nessuno: lo stesso Pasolini, in prima fila, si guardava perplesso le suole delle scarpe. Evitai così l’ennesimo processo per vilipendio alla religione. Ci chiamavano la compagnia di Regina Coeli. Citti aveva ottenuto un permesso provvisorio: era dentro per istigazione alla prostituzione. Pier Paolo Pasolini mi diede una mano a scorciare di qualche giorno la detenzione di Citti. Talvolta, provavamo all’interno del carcere». Poi Bene passa a leggere, in tono sospeso tra lo stentoreo e il divertito, una stroncatura sanguinosa, uscita sul Borghese. Ne cita l’autore, un tale Silvio Danesi, sicuramente uno pseudonimo: «“Salomè”», legge Carmelo, «“nella loro versione è una sorta di baccante isterica da balera equivoca, brutta, seminuda, si invaghisce perdutamente del profeta Iokanaan, interpretato da Franco Citti. Il quale esce dalla cisterna dov’era stato giustamente imprigionato, respinge a ragion veduta Salomè, e seminudo dice testualmente: ‘Dov’è, dov’è colui che non me vò dà una bicicletta per potemmene annà! Io nun ce capisco niente! Perché m’hanno messo a fa er teatro?’ Carmelo Bene, da parte sua, è Erode: ridicolo, goffo, presuntuoso, come si conviene a chi fa del teatro senza che nessuno gli abbia confidato di cosa si tratta”». Poi il climax sale, Carmelo Bene appare sempre più divertito nel leggere la propria demolizione. Il sorriso sardonico di Citti, durante l’ascolto, sembra invece confermare un’antica descrizione pasoliniana: «“I fratelli Citti, Sergio e Franco, sono caratterizzati da un’aridità stoico-epicurea: curiosa della vita e priva di ogni illusione su di essa”». La voce di Bene continua a leggere quella vecchia recensione: «“Ma di questi attoruzzi impudenti, e dei Moravia e Pasolini che avallano le loro gesta, non possiamo che ricordare come vivono: perché la loro esistenza è tutta qui, in questi giorni sporchi, nelle loro inclinazioni sbagliate, nella sfacciataggine con cui reclamano l’attenzione del pubblico, nelle parolacce e nei racconti ignobili che diffondono. E non bisogna aspettare
che vilipendano la religione o prendano a calci i lavoratori, per procedere al loro arresto; bisogna solo accertarsi della loro identità e metterli in galera, perché oltraggiano il buon gusto, nuocciono all’igiene pubblica, deturpano il paesaggio. Dinanzi a personaggi come Carmelo Bene e Franco Citti, a questo punto, nulla può la critica teatrale. Debbono intervenire i carabinieri”». Sulla chiusa finale, Carmelo Bene ride come un bambino. Citti, ascoltandolo, mi regalò un ghigno sfinito. Intuii stanchezza, nei suoi «occhi neri di putto», come li vedeva Pasolini. Si era moderatamente divertito, ma ne aveva abbastanza. Lo abbracciai, lo ringraziai e uscii, sorpreso nel ritrovarmi davanti la caserma di quei carabinieri invocati dallo stroncatore del Borghese. Gli lanciai un’ultima occhiata e lo vidi al centro del cortile. Scrutava, con un mezzo sorriso, gli aerei che decollavano da Fiumicino. Ero certo che cercava di intuire, dalla traiettoria di partenza, quali fossero gli intercontinentali per Bangkok. 1
Questo articolo è uscito per la prima volta sulla rivista Il Reportage, n. 18, aprile-giugno 2014.
INDICE
L’uomo senza volto Vado a prendere le sigarette Il masnadiero La diva mancata L’iconoclasta visionario Riccardo III a Fregene «Volonté è bravo come noschese» Il comico fisiologico Ciprì, Maresco e i mostri estinti Alla ricerca di Franco Citti per un film (in preparazione) su Carmelo Bene