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Italian Pages 974 [2905] Year 1974
Prima edizione: 1974 In d ice dei nom i a cura d i
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INTRODUZIONE A n d r e in a
R ib o t t o
Tipografìa Torinese S. p .A . - Strada del Barroccino 83, Torino
Livio e l’ideologia del -principato augusteo. Le notizie che abbiamo della vita e dell’attività letteraria di Livio sono assai scarse, ed egli nella sua opera, stesa in forma di narrazione oggettiva, poco ci dice delle sue idee e delle sue convinzioni politiche; sembra che voglia porsi in un mondo ideale fuori del corso della storia presente e delle passioni che agitano il mondo contemporaneo,..come dichiara esplicitamente nella .prelazione. Per di più a noi non sono pervenuti i lib:riLche trattano dei tempi più recenti, da cui inevitabilmente doveva trasparire l’atteggiamento dello scrittore di fronte alle lotte poli tiche j=he_avevan.o_travagliato gli ultimi anni della repubblica e al trapasso fra repubblica e principato. Da queste ragioni una parte dei critici moderni è stata indotta a collocare Livio in un limbo astratto dalla vita contemporanea e dai concreti problemi politici, facendone esclusivamente il cùlfòre- dei valori della romanità perenne. In questa valuta zione dell’opera liviana c’è indubbiamente del vero; essa non è radicalmente errata come la posizione di chi assegna la defi nizione di spettatore imparziale e disinteressato a Sallustio, che è ben diversamente impegnato di Livio. Tuttavia essa non tiene conto che, in maggiore o in minor misura, anche i valori ideolo gici in apparenza più astratti coprono interessi politici, é rispon dono a una determinata visione dei problemi del presente. Altri critici invece hanno cercato di mettere in luce il rap porto esistente fra Livio e la politica di Augusto e l’ideologia del principato augusteo. Forzando gli scarsi dati a disposizione o appoggiandosi su argomenti inconsistenti, si è giunti addirit tura a due posizioni opposte: vi è chi riscontra in Livio una
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perfetta coincidenza con la politica di Augusto e ne fa un pro pagandista degli ideali del principato^! cETo'gìudica un nostal gico d ell^ tico ^ ^ ìin e ^ u n j^ p ^ itfl^ lcó p erto del principato, che inserisce nel corso.dell’opera puntate polemiche contro il nuovo corso politico e contro la soppressione delle antiche libertà. Entrambi gli estremi vanno corretti, per approdare a posizioni intermedie, che in genere sono accolte dalla critica più recente. Vediamo ora analiticamente gli elementi in base a cui si possono ricostruire le posizioni politiche e ideologiche di Livio. Livio nacque a Padova poco prima della metà del x secolo a. C.; non abbiamo notizie sulla condizione della sua famiglia, ma dall’educazione ricevuta e dalla vita che condusse, esente da preoccupazioni materiali e tutta dedita alla composizione della sua opera (non risulta che ricevesse sovvenzioni da Augusto o da Mecenate), è lecito dedurre che era di condizione agiata. Padova^ era una città sede d fT S ren ti commerci, làmosa ‘"per l’austerità dei costumi, e di tendenze conservatrici, come erano i in genere le città dell’Italia settentrionale. Durante le guerre civili, al tempo del secondo triumvirato, Padova parteggiò per il partito senatorio, e nel 43 rifiutò di accogliere i legati di Antonio. Il moralismo e il conservatorismo della città natale si riflettono nella formazione spirituale e negli atteggiamenti politici di Livio, che alla città natale rimase sempre attaccato, come dimostra l ’accenno al mitico fondatore Antenore, posto accanto ad Enea all’inizio del primo libro. Sappiamo da Quintiliano che ^ Asinìo. Poffione rimproverava a L iv io la patavinitas: il testo di Quintiliano sembra riferirsi a particolarità linguistiche o stili stiche, a tracce di provincialismi nella lingua che a noi sfuggono quasi completamente, salvo la grafia sibe e quase in luogo di sibi e quasi, attestata da Quintiliano stesso. Forse però la critica di Pollione si estendeva allo spirito «borghese » e ingenuamente conservatore dello storico patavino, che ad un uomo spregiudicato *e dotato di sottile spirito critico come Pollione poteva sembrare segno di provincialismo. Dalla condizione di nascita di Livio scaturisce un’altra con siderazione: (sgli è il primo fra gli storici latini che non appar tengala!.giro. delle, grandi ISi^Ie~HOT’ànstocrazia senatoria 1: cfaé" iion sia stato impeSTatò direttamente nella lotta politica. Nell’età repubblicana a Roma la storiografia era monopolio dei membri delle famiglie della classe dirigente, che se ne servivano per accreditare versioni dei fatti favorevoli alla loro famiglia o
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alla loro parte politica. Dalla diversa condizione deriva a Livio un atteggiamento di maggior indipendenza e imparzialità, anche se, come vedremo, la sua affermazione di imparzialità non va presa troppo alla lettera. Inoltre il fatto che egli..non abbia. partecipato direttamente né ..all’attività politica, né a campagne militari spiega da un lato la sua scarsa competenza nel campo del diritto pubblico e costituzionale e della tecnica militare, dall’altro il processo di idealizzazione e di astrazione a cui sot topone la storia romana e i suoi valori. Visti dall’uomo di lettere e non dall’uomo di azione, gli eventi storici perdono il loro significato, dinamico e la loro, funzione pragmatica, si- inseriscono in schemi moralistico-retorici che tolgono loro una precisa indi viduazióne storica e una dimensione temporale. Questo principio ovviamente non è più valido ai nostri tempi, quando il perfe zionamento degli strumenti e dei metodi di ricerca consente l’acquisizione di conoscenze tecniche e pratiche anche allo studioso di tavolino; ma nell’antichità classica lo storico che non fosse anche politico aveva una preparazione prevalentemente retorico filosofica che incideva in modo determinante sulla suà opera. Livio nacque e morì a Padova, ma per lungo tempo, non sappiamo quanto, visse a Roma, dove attese alla composizione della sua storia di Roma. Le notizie che abbiamo circa i suoi rapporti con Augusto sono scarse: da Tacito (Ann., IV, 34) sappiamo che « Livio lodò Gneo Pompeo a tal punto che Augusto 10 chiamava pompeiano; ma questo non nocque alla loro ami cizia». Svetonio inoltre riferisce che il giovane nipote di Augusto, 11 futuro imperatore Claudio, fu incoraggiato da Livio a scrivere storie. Su questi dati si è molto ricamato da parte dei critici moderni, ma la testimonianza di Tacito è abbastanza chiara: Livio era in rapporti amichevoli con Augusto, e frequentava liberamente l’ambiente di corte, tuttavia da Augusto era scher zosamente rimproverato per le sue idee repubblicane. Il termine Pompeianum non può avere altro significato: Pompeo, in con trapposizione a Cesare, rappresentava l’antico ordinamento repub blicano, ed almeno nell’ultima parte della sua attività politica, quella che ne fece poi un simbolo, fu il difensore del partito co.nservatore. L a notizia dei consigli dati al giovane Claudio, probabilmente per incarico della nonna Livia Drusilla che pro teggeva i Claudii, fa supporre che lo storico fosse legato al cosiddetto « partito di Livia », che nella corte di Augusto rap presentava l’ala filosenatoria.
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Invano il Svine 1 si sforza di sostenere che Augusto rivalutava la memoria di Pompeo di fronte a quella di Cesare, e che quindi facendo la difesa di Pompeo Livio si associava alle direttive della politica augustea: la testimonianza di T acito dice inequi vocabilmente che l’epiteto di pompeiano suonava come un rim provero, tanto è vero che egli aggiunge che questo non nocque aìramicizia fra Livio e Augusto. Seneca il Retore (Contr., X, praef., 5) dice che Labieno ricevette da Augusto lo stesso rim provero perché « pur in così grande pace non aveva ancora deposto gli spiriti pompeiani». Non è possibile dunque far passare Livio come un fedele portavoce e un propagandista convinto degli slogans ideologici di Augusto. II. giudizio negativo che lo storico diede di Cesare e la lòde di Bruto e Cassio non rientravano certo nell’ortodossia augustea: Orazio in un’ode celebrativa (I, 2) presenta Ottaviano come Vendicatore di Cesare, e Ovidio volendo adulare l ’impe ratore nelle Metamorfosi associa la celebrazione di Augusto con l’apoteosi di Giulio 'Cesare. Un indizio dell’atteggiamento ;Sdi riserva di Livio nei confronti del principato augusteo potrebbe essere il fatto che gli ultimi 21 libri delle storie, quelli che trat tavano del principato, furono pubblicati solo dopo la morte del principe; per di più dai riassunti che ci sono pervenuti non risulta che in essi si trattasse della politica interna, il che potrebbe essere un segno della riluttanza dello storico a prendere posizione. L ’appassionata difesa che Livio fa della libertà repubblicana all’inizio del secondo libro e in altri punti dell’opera rende impro babile una sua convinta e totale adesione al principato. L ’antica monarchia di Roma viené'giustificata come una forma di governo indispensabile per tenere a freno una accolta di uomini di svariata provenienza, rozza e indisciplinata, ma non è considerata degna di un popolo civile. Livio non poteva essere cosi ingenuo da non accorgersi che la libertas sbandierata da Augusto nel suo pro gramma propagandistico non era vera libertà. Si potrebbe anche scorgere una progressiva presa di coscienza da parte dello storico deirinconciliabilità fra principato e libertà nel fatto che i pochi accenni elogiativi all’oper- di A agusto si trovano nei primi libri, mentre l’orientamento nella valutazione degli avvenimenti più recenti sembra recisamente favorevole ai difensori dell’antica
1.
R.
Sym e,
1959 , PP- 58 segg.
L ivy and A ugustus, in « H a rv ard S tud . in Class. P h ilol. »,
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repubblica; ma la perdita degli ultimi libri impone cautela su questo punto. È arbitrario desumere..il pensiero di Livio sul principato di Augusto da storici successivi che a lui si sarebbero ispirati. Seguendo questo metodo il Syme ^ attribuisce a Livio il concetto espresso da Floro, che un grande impero deve essere governato da una sola persona, e che se all’inizio dell’impero la violenza è inevitabile, ne conseguono poi libertà e d i s c i p l i n a , ALcontrario il M ette3 ritiene che Dione Cassio si sia ispirato a Livio quando lamenta che sotto il principato di Augusto il popolo romano non sia più capace di eleggere democraticamente i consoli come al tempo della repubblica. La netta ostilità di Livio al regnum, conforme alla tradizione romana, non è in palese contrasto con la propaganda politica di Augusto, che ripudia il regnum e presenta il frinceps conici l’antitesi del tiranno e il difensore della libertà repubblicana. Ma Livio non si limita ad attaccare chi aspira o viene accusato di aspirare al regnum, come Spurio Melio e Manlio Capitolino; egli è pure contrario a chi in qualche modo tende ad affermare un proprio potere personale che si sovrappone alle magistrature e agli organi costituzionali. L ’esempio più tipico di questa osti lità di Livio verso forme anche embrionali di principato si ha nella figura di Scipione Africano. Lo storico ne riconosce il genio politico e militare, le capacità organizzative, i grandi benefici arrecati alla patria, ma ne disapprova, la ricerca di gloria perso nale, la tendenza a scavalcare gli organi costituzionali e il senato appellandosi direttamente al popolo, l ’ostentazione della prote zione degli dèi o addirittura dell’origine divina. Mentre Cicerone nel De re publica aveva fatto di Scipione l’uomo politico ideale, Livio accoglie le riserve della storiografìa di parte avversa e condanna quegli aspetti della sua personalità che prefigurano in lui il frinceps. A mio giudizio sono in errore i critici i quali ritengono che Livio offra una rappresentazione apologetica di Scipione conformandola al ritratto di Augusto; questi critici non vedono le numerose e sostanziali riserve che si mescolano alle lodi (cfr. specialmente X X V I, 18-19; X X X V III, 50-53). Più consistenti invece sono i tentativi dei critici di vedere nel ritratto di Camillo e nella celebrazione che Livio fa del libe ratore di Roma dai Galli motivi che riecheggiano da vicino i 2. 3.
Op. cit., p . 7 4 . H . J. M e t t e , L iv ìu s und Augustus, in « G ym nasium
», 1 9 6 1 , p . 2 8 4 .
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meriti di Augusto. Camillo viene chiamato novello Romolo, secondo fondatore di Roma e padre della patria; inoltre viene definito « scrupolosissimo cultore dei riti religiosi » (diligentissimus réligionum cultor): tutti questi titoli rientrano nella terminologia della celebrazione propagandistica di Augusto. Più discutibile è la connessione dell’opposizione di Camillo a trasferire la capitale a Veio con il tema della propaganda augustea che attribuiva ad Antonio l’intenzione di trasferire la capitale ad Alessandria; quando lo storico scrive la storia di Camillo, a circa cinque anni dalla battaglia di Azio, il tema propagandistico del minacciato trasferimento della capitale aveva perso molto di attualità. Del resto, come osserva il W alsh 4, se si dovesse identificare strettatamente Camillo con Augusto, si dovrebbe riferire ad Augusto anche il rimprovero che Livio muove a Camillo, per essere entrato in città come trionfatore su di un cocchio tirato da cavalli bianchi, gesto, che fu considerato eccessivamente superbo per un citta dino ve per un mortale. In conclusione vi sono delle coincidenze fra il Camillo liviano e i temi della politica augustea, ma questo non implica che in tutta la raffigurazione di Camillo lo storico abbia voluto simbo leggiare Augusto. Vi sono certo echi degli avvenimenti e della problematica del presente, ma si deve tener conto che Camillo già dalla tradizione storiografica era considerato come l’eroe-che incarnava le virtù civiche, etiche e religiose dei Romani, e la propaganda augustea celebrava il principe come il restauratore di queste virtù: di qui l ’inevitabilità delle coincidenze. Mentre nella poesia di Virgilio e di Orazio si trovano frequenti celebrazioni di Augustp, in Livio abbiamo soltanto due riferi menti espliciti e significativi al principe, sempre nei primi libri. A I, 19, 3, parlando della chiusura del tempio di Giano al tempo di Numa, lo storico dice: «Due volte soltanto rimase chiuso dopo il regno di Numa, ... la seconda volta, cui gli dèi hanno concesso alla nostra generazione di assistere, dopo la battaglia di Azio, quando l’imperatore Cesare Augusto ebbe ristabilita la pace per terra e per mare ». A IV, 20, 7, a proposito delle spoglie opime di Cornelio Cosso trovate nel tempio di Giove Feretrio, Livio dice: « Quando io appresi che Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i nostri templi, entrato nel tempio di Giove Feretrio, fatto ricostruire perché rovinato dall’azione del 4. P . G . W a ls h , Livy, Cam bridge, 1961, p. 17.
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tempo, lesse personalmente questa iscrizione sulla corazza di lino di Cosso, mi parve quasi un sacrilegio togliere a Cosso e alle sue spoglie la testimonianza di Cesare, restauratore del tempio stesso ». In entrambi i passi, e specie nel secondo, la menzione di Augusto, pur senza cadere nell’adulazione, è chiaramente elogiativa, nonostante gli sforzi di qualche critico per trovarvi delle riserve; è interessante notare che l’elogio si riferisce a due aspetti della politica di Augusto che Livio non poteva non con dividere: il ristabilimento della pace e la restaurazione degli antichi culti religiosi. Tralasciando di prendere in considerazione altre presunte allusioni alla politica augustea che i critici moderni hanno creduto di trovare, specie nel primo libro, passiamo ad esaminare su di un piano più generale il rapporto fra Livio e l ’ideologia del principato. Quanto abbiamo fin qui detto porta a concludere che ; Livio doveva essere contrario alla riforma politico-costituzionale ; che dalla repubblica portò all’impero; per questo le lodi rivolte i alla persona di Augusto come principe sono rare e limitate ai primi libri, composti nei primi anni del principato, quando Au gusto si presentava come il restauratore dell’antico ordine, e i benpensanti potevano ancora essere tratti in inganno circa la vera natura del suo regime. Ma v i erano molti orientamenti ideologici della politica augu stea che dovevano riuscire graditi ad uno spirito conservatore come Livio; di qui una consonanza fra molti punti del programma di Augusto e le convinzioni dello storico, anche se questi non si proponeva esplicitamente di fare il propagandista del regime. In primo luogo l’instaurazione della pace interna ed esterna, e la sicurezza dell’ordine sociale, riuscivano particolarmente gradite ai cèti possidenti dell’Italia settentrionale, che traevano i loro redditi dall’agricoltura e dal commercio. Il principato di Augusto \ aveva dissipato i timori delle leggi agrarie, delle leggi per la 1 cancellazione dei debiti, e di altre leggi popolari che nel periodo i delle lotte civili turbavano i sonni delle classi abbienti. Come \ avviene di solito, la conservazione dell’ordine sociale esistente j veniva garantita in nome della concordia e del consenso di tutte j le classi, la parola d’ordine con cui i ceti privilegiati impongono 1 il loro predominio sociale ed economico. La concordia, come vedremo, nella prima deca di Livio è il motivo dominante nella lotta fra patrizi e plebei, ed un esplicito riferimento alla pace e alla concordia raggiunte- con Augusto si trova a IX , 19, 17:
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«purché duri eternamente l’amore di questa pace e la cura della concordia civile ». j Connesso con la politica di conservazione sociale è il programma ì di restaurazione morale e religiosa voluta da Augusto. Le leggi di Augusto per la salvaguardia dei costumi e degli istituti familiari, contro il celibato e contro l’adulterio, incontravano l’approvazione di chi come Livio deprecava lo scadimento dell’antica moralità, e i nella storia dell’antica Roma additava gli esempi della pudicitia \ e della rigida disciplina familiare. Augusto inoltre si proclamò l tutore della -pietas e della religio, rinnovando antichi culti e riti, j restaurando, i templi delle divinità indigene, e opponendosi al j crescente diffondersi delle religioni orientali, che nell’età di Cesare I erano dilagate in Roma: i culti egiziani furono banditi dalla j cintai' urbana. Già abbiamo visto l’elogio che Livio fa di Augusto per la-sua grande cura della religione; sulla religiosità dello storico avremo occasione di ritornare. Un altro aspetto della politica augustea è la rivalutazione dell’Italia e dell’elemento italico; le classi dirigenti dei municipi italici acquistano nuovo prestigio, e costituiscono la base più solida del nuovo regime. I letterati propagandisti di Augusto, Virgilio e Orazio, celebrano le virtù morali e militari dei conta dini italici come il nerbo della grandezza di Roma. L ’Italia set, tentrionale, per quanto da poco avesse acquistato la cittadinanza ì romana, si considerava ormai parte integrante delFItalìa, ed anzi l era orgogliosa di custodire più rigidamente l ’integrità morale e > la semplicità dei costumi che un tempo erano stato vanto di ! Roma e dell’Italia peninsulare. Una direttiva dominante della propaganda augustea è la concezione di Roma come città fondata dagli dèi e guidata dalla provvidenza, e della missione dell’impero universale di Roma destinato a stabilire la pace e l ’ordine politico in tutto il mondo abitato. L ’ideologia della missione dell’impero romano risale probabilmente al n secolo a. C., e fu teorizzata nel circolo degli Scipioni dal filosofo greco Panezio, che adattò il cosmopolitismo stoico alle esigenze dell’imperialismo romano. Cicerone (De officiis, II, 8, 2) definisce la missione politica di Roma come «un protettorato su tutta la terra più che un dominio », e lamenta che i Romani non si comportino più con la giustizia e la mitezza di un tempo verso i popoli soggetti. Ma è specialmente con Augusto che l’idea della missione di Roma viene sviluppata e propagandata, con l ’accentuazione dell’aspetto fatale e provvi
denziale. L ’ ’Eneide è concepita in funzione di questa idea, anche se Virgilio sotto il tema della grandezza dell’impero cela il più vasto problema del mistero del destino dell’umanità e delle ragioni del soffrire umano.
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V a precisato che nella propaganda augustea il concetto del l’impero universale di Roma non è legato necessariamente al governo di uno solo, come sarà poi con Seneca. Ciò spiega come il repubblicano Livio possa senza difficoltà fare propri i motivi fondamentali della propaganda imperialistica di Augusto. Virgilio insiste molto più di Livio sul disegno provvidenziale che ha voluto l’impero romano, mentre lo storico pone in primo piano come fattore dell’impero la virtù degli uomini; ma neppure in lui mancano accenni alla volontà divina che ha destinato Roma ad essere capo del mondo. Dice Romolo a Giunio Proculo (1, 16, 7): « V a’, annuncia ai Romani che gli dèi così vogliono, che la mia Roma sia signora del mondo: perciò coltivino l ’arte della guerra, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna potenza umana potrà resistere alle armi di Roma ». Camillo afferma che la sede della città di Roma fu scelta dagli uomini e dagli dèi, e che gli indovini dissero che sul Campidoglio avrebbe avuto sede il capo del mondo e il sommo impero (V, 54). Scipione definisce Roma una città fondata per l ’eternità col favore degli auspici per volere divino (X X V III, 28, 11; cfr. inoltre X X V I, 37, 5; X X X V I, 1 7 , 1 3 )-
Se la profezia di Romolo pone l’accento sulla supremazia militare di Roma, come è nella natura guerriera del personaggio, più spesso Livio accentua l ’aspetto pacifico deirimperiahsmp di Roma, e la missione di Roma di eliminare dal mondo il disordine, 1 ingiustizia e la tirannide, e di stabilire il dominio della giustizia. Dopo che Flaminino ha annunciato la liberazione della Grecia dal dominio macedone, Livio fa dire ai Greci (X X X III, 33, 5-7): « C’è dunque sulla terra una nazione che combatte a sue spese, a suo rischio e pericolo per la libertà delle altre, e non fa questo soltanto per i popoli confinanti o vicini, o dello stesso continente, ma attraversa il mare per cancellare dal mondo ogni dominazione tirannica e stabilire ovunque l ’impero della giustizia, del diritto e delle leggi». Compito dei Romani non è tanto di estendere l’impero con le armi, quanto di legare a sé gli altri popoli col beneficium e con la caritas, e di provvedere al bene del genere umano trattando i vinti con clemenza: « deposte ormai le contese con tutti i mortali conviene che voi non diversamente dagli dèi 2. L iv io , I.
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vi prendiate cura del genere umano e lo risparmiate » (X X X V II, 45, 9). Il famoso detto virgiliano far cere vietis et debellare superbos ispira sempre la condotta che Livio attribuisce ai Romani nei confronti dei nemici vinti, per cui egli attenua o sfuma il rac conto di durezze o crudeltà commesse dai Romani in guerra. In virtù dell’obiettiva coincidenza di interessi e di un’ampia concordanza ideologica Livio supera la divergenza che corre fra il suo repubblicanesimo libertario e il principato assoluto di Augusto. Per questo avviene che proprio lo scrittore il quale più di ogni altro sembrerebbe aver assunto un atteggiamento di fronda nei riguardi del principato, meglio di ogni altro incarna lo spirito caratteristico dell’età augustea, ed in questo spirito fissa i valori della civiltà romana, consacrandoli nella forma a cui la;tradizione delle età successive guarderà con religiosa ammi razione, Come Virgilio nell’Eneide, Livio ricerca nella storia dell’antica. Roma i valori che si irradiano fino al presente, seguendo in questo la linea tradizionale della storiografia romana, che nel passato ricerca i valori permanenti e ciò che contiene una lezione valida per il presente. Ma, durante il corso della repubblica, la lotta politica e la continua evoluzione dello stato avevano fa vorito una concezione dinamica e dialettica della storia, quale risulta nell’ammirevole schizzo di storia costituzionale del se condo-libro del De re publica ciceroniano, che prende lo spunto da un’idea di Catone il Censore; inoltre la valutazione dei fatti e dei personaggi variava a seconda della tendenza politica dello storico e del clan nobiliare a cui apparteneva. Con Livio invece non si può più parlare di visione dinamica della storia, la prospettiva temporale si appiattisce; la valuta zione degli eventi e delle persone, pur conservando traccia degli antichi contrasti, tende a fissarsi secondo determinati schemi che vedono da un lato i buoni, i moderati, gli amanti della patria e della concordia, dall’altro i cattivi, i demagoghi faziosi ed eversivi, i superbi oligarchi o gli aspiranti alla tirannide. Questa classificazione sarà accolta e resa ancor più rigida dalla storio grafia e dalla retorica dell’età imperiale, a partire da Velleio Patercolo, storico del regno di Tiberio; al criterio di discrimina zione fissato dalla lotta dei partiti e degli interessi si sostituisce un_ criterio retorico-moralistico, che da Livio si è trasmesso fino ai nostri manuali scolastici. Sulla celebrazione delle virtù romané e sul metro di valuta zione dei personaggi ritorneremo più avanti. Per intanto osser
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viamo ancora che Livio più di ogni altro assume quelle caratte ristiche formali che sono considerate tipiche dell’arte augustea. Lo stile è costantemente solenne e grave, senza cadute nel reali stico e nel volgare, quale si addice alla rappresentazione di per sonaggi che agiscono sotto la spinta di alti ideali civili e morali o di forti passioni politiche; il ritmo energicamente scandito, l’equilibrio delle strutture sintattiche e dell’architettura degli episodi conferiscono monumentalità e un suggello epigrafico di eternità a quei valori che lo storico vuole celebrare. Strutture formali del genere, che contemperano lo stile severo della tradi zione ufficiale romana con il senso classico della misura e del l’equilibrio, si trovano anche nelle parti di natura politica della poesia di Orazio e di Virgilio; in Livio, data la natura della materia, il classicismo augusteo assume una stilizzazione più costantemente «romana». L ’intento dell’opera e il metodo storiografico. Ijv io dichiara l'intento della .sqa.ppera nella prefazione,...dove si propone di cercare « con quale genere di .vita e ..quali costumi, con quali uomini e jju ali virtù in pace e in guerra sia stato creato eTngri 3 Hi{'ó*Pimpero», onde il lettore possa «avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradi zione », e «prendere ciò che si deve imitare per il bene individuale e pubblico ». Ciò vale per la parte della storia che abbraccia i secoli in cui i costumi romani rimasero integri, ché poi, quando questi cominciarono a corrompersi, i vizi da evitare preval gono sulle virtù da imitare. Dunque la storia ha uno scopo di ammaestramento moralistico; la concezione che la storia sia ’magistra vitae è comune a tutta la storiografia antica, ma_mentre per i maggiori storici . ^red. Tucidide e Polibio, l’insegnamento che scaturisce dalla storia è di natura politica e pragmatica, cioè insegna all’uomo politico le norme pratiche per giungere al successo, la storia di Livio propone dei modelli di natura morale. Lo storico parla anche dell’utilità che viene allo stato dal seguire i buoni esempi, ma la valutazione degli esempi è in primo luogo moralistica; la norma politica è sempre e in primo luogo una norma etica. A noi non è pervenuta quella parte dell’opera liviana che trattava il declino delle forze spirituali e morali del popolo romano, quando fecero il loro ingresso in Roma l’avidità delle
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ricchezze e l’amore al lusso e ai piaceri. Infatti dei 142 libri ab urbe condita, che narravano la storia di Roma dalla fonda zione fino al 9 à? C., l’anno della morte di Druso, ci jsono per venuti solo i primi dieci, che vanno dalle origini alla terzàTguémT sannitica (293 a. C.), e i libri dal X X al X L V , dairinizio della seconda guerra punica alla vittoria macedonica di Emilio Paolo -iS'^aTX.J. Dei liBri perduti rimangono pochissimi frammenti, e inoltre abbiamo^ le J>eriochae, riassunti sommari "SeTconlenuto di ciascun libro, compilati in età imperiale. Si può desumere, anche dal confronto con l ’analogo schema di Sallustio, che il capovolgimento del processo di sviluppo di Roma da ascendente in discendente cominciasse al tempo dei Gracchi, e che la corruzione dei costumi diventasse radicale a partire dall’età di Siila, quando le ricchezze portate dall’Oriente diedero l’impulso decisivo* allo sfrenarsi dell’avidità e del lusso. Non pappiamo come nella seconda parte della sua opera Livio sviluppasse la prospettiva pessimistica enunciata nella prefa zione, e dobbiamo limitarci a giudicare come egli attui il suo intento nella prima parte. Sbaglerebbe chi in base alla premessa credesse che Livio delinei concretamente il graduale sviluppo della potenza romana, seguendone il rapporto di connessione storica con lo svolgersi dei costumi e delle istituzioni e con l ’evo luzione della costituzione, come aveva fatto Cicerone nel secondo libro del De re -publica. Livio non fa una storia dell’evoluzione culturale, e nemmeno una sto rià T ^ la ’ costituzione romana; non ne aveva l’intenzione, e gli mancava anche la competenza neces saria per questo compito. La sua repubblica^romana rimane sostanzialmente _identica -attraverso i secoli; le descrizioni dì battaglie e i discorsi politici variano poco dal quinto al secondo secolo. Solo marginalmente, nei primi libri, vi è qualche richiamo alla differenza dal presente, all’eloquenza più rozza, al minor numero degli uomini impiegati in guerra; il confronto col presente viene -stabilito quasi esclusivamente su base moraITsf3oa 7*pia3^ ' gonando le virtù degli uomini antichi con la decadenza attuale. Su questa mancanza di dimensione temporale influisce anche la tendenza della storiografìa annalistica a trasferire nella storia del passato i termini recenti dei problemi; ad esempio le lòtte fra patrizi e plebei nel v secolo sono trattate nei termini propri dei conflitti sociali del 11 secolo, e Livio aggiunge ancora qualcosa di suo in questa deformazione, modellando eventi antichi entro schemi desunti da episodi e problemi dei tempi più recenti. A
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Livio manca il senso del divenire storico e deu’eìfettivo nesso causale cKe*lega'gli avvenimenti" fra di loro: la sua storia è un blocco compatto, privo di evoluzione temporale, che vede espli carsi ininterrottamente gli stessi princìpi ideali. Altri storici, come Sallustio, si erano jiccin ti a studiare il recente passato”per cagire come si fosse giunti al presente, poiché era il presente che li appassionava; Livio polemicamente nella prefazione dichiara che assumerà una posizione opposta, e che alla sua fatica chiede il premio di allontanarsi dalla vista dei mali recenti, almeno fino a quando sarà immerso con tutto l’animo nel ripercorrere gli antichi tèmpi. Essendo l’attenzione di Livio riroltajpiù alla continuità dei valori spirituali e ideali e del costume morale del popolo romano che ai singoli problemi storici, egli abbandona J a storiografia monografica degli autori più recenti, come Sisenna e Sallustio, clic avevano trattato periodi ed eventi ben delimitati della storia romana, ejritorna all’antico schema annalistico, col racconto degli avvenimenti anno per anno. Lo schema annalistico non impedisce a Livio di concepire la sua opera come un seguito di unità organiche, contrassegnate per lo più dalla guerra o dal gruppo di guerre che vengono trat tate: le unità maggiori spesso si articolano in unità minori. I raggruppamenti più- ■■•.................4 frequenti sono la pentade e —la decade,‘ , A e .V V .X X - . X ,------ ------------------- -----n'irl— un’introduzione avverte il lettore che lo storico si accinge a trattare una nuova serie di avvenimenti; con tu tta probabilità questi gruppi di libri vennero pubblicati separatamente. Anche singoli libri o coppie di libri possono costituire un’unità, o per l ’argomento trattato o per la presenza di un tema dominante che unisce i vari episodi. Indichiamo i raggruppamenti principali che si possono stabilire per i libri dal I al X L V. Il I ..libro, che tratta del periodo monarchico, costituisce un’unità a sé. I libri II-V parlano degli inizi della repubblica, fino all’incendio gallico, cioè di quel periodo della storia romana che è più povero di documenti, la maggior parte dei quali secondo Livio andò perduta nell’mcendio. I libri V I-X V comprendono le guerre di espansione in Italia, prima contro i popoli del Lazio, poi contro Sanniti ed Etruschi, infine contro Pirro e le popola zioni della Magna Grecia. I libri X V I-X X trattano della prima guerra punica; i libri X X I-X X X della seconda guerra punica; i libri X X X I-X L degli avvenimenti in Grecia fino alla morte di Filippo, i libri X L I-X L V dalla morte di Filippo alla fine di
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Perseo. Ovviamente la stretta osservanza dello schema annalistico, che im p o n eaia lvJaere ciascuna serie dr_ avvenimenti m sezioni annuali,^ividTendo la politica interna dalle campagne di guerra anno per anno, interrompe la continuità del.racconto e, ostacola il tentativo di Livio di contemperare la storiografia annalistica con quella monografica. Fra i motivi che spingono Livio a seguire lo schema anna listico vi è certamente il suo tradizionalismo: il rispetto e l’amore per la. tradizione romana lo inducono ad accettare la forma sto riografica da antico" tempo consacrata presso i Romani, e solo recentemente sostituita con la forma monografica da storici che guardavano ai modelli di Tucidide e di altri scrittori greci. Lo stesso rispetto per la tradizione della storia patria lo porta a riportare fedelmente le antiche leggende e i prodigi, anche quando la ragione lo porterebbe a dubitare della realtà di inter' venti* sogrannaturali e di imprese miracolose. Alla ragione con traddice uno scrupolo reverenziale, uno stato d’animo che egli chiama animus antiquus, che gli impedisce di assumere un attegg ia m e n to ^ M co r”’QTOSff“ mes"coIanza di dubbiò scettico e di ossequìo“ alIa"lraìàizione ispira l ’atteggiamento che egli assume nella prefazione di fronte alle leggende circa la fondazione di Roma: « Le leggende che corrono circa l’età anteriore alla fonda zione di Roma o circa la fondazione stessa, più convenienti a racconti poetici che ad una fedele e documentata opera di storia, non mi sento né di accettarle né di respingerle ». Polemizzando con la malevola critica razionalistica dei Greci, Livio prosegue dicendo che la gloria del popolo, romano ben gli consente di attribuire a Marte la paternità di Romolo e la fondazione dell’impero, visto che anche le città greche, sottomesse dai più forti Romani, rivendicano un’origine divina. Non bisogna sopravvalutare la componente scettica e razio nalistica che si può scorgere in questa affermazione di Livio, come fa il Bayet, che arriva addirittura a scorgere nello storico « un’ironia volterriana molto spontanea »5. Nel racconto delle leggende l’incredulità dello storico trapela appena in qualche breve accenno, mentre per quanto può egli cerca di conformare il racconto all’atmosfera religiosa di miracolo e di prodigio. I traditur, i dicitur, i ferunt, con cui egli accompagna il racconto di fatti miracolosi, gli consentono di evitare di impegnare la
propria opinione personale in appoggio alla credibilità dei fatti, ma non diminuiscono, anzi accréscono l’impressione di mistero soprannaturale che ne deriva. Inoltre si..deve distinguere nella sfera del religioso^ e^del soprannaturale fra ciò che lo storico giudica inverosimile* come a9T*eser^io la paternità di Romolo per opera di Marte ed in genere ogni forma di antropomorfismo, e ciò di fronte a cui il suo giudizio si fa incerto, come i prodigPfifèriti dagli annali. Citiamo m proposito il notissimo e discusso passo di X L III, 13: « Non sono ignaro che per effetto di quella stessa indifferenza, per la quale ora comunemente si crede che nulla gli dèi prean nunzino coi prodigi, non viene più riferito in pubblico alcun prodigio, né viene riportato negli annali. A me invece mentre scrivo la storia dei tempi antichi l’animo mi si fa non so come antico, e un certo scrupolo religioso mi impedisce di ritenere indegni di esser riportati nei miei annali i prodigi che quegli uomini molto saggi ritennero di dover accogliere come riguardanti l’interesse dello stato ». Non è un’affermazione di fede indiscussa nei prodigi, ma tanto meno una professione di scetticismo temperata dalla con siderazione dell’utilità politica della religione. L a concezione poli tica e pragmatica della religione, che si trova enunciata da Polibio e da Cicerone con la massima spregiudicatezza, in Livio è quasi del tutto assente,' salvo un accenno a proposito della politica religiosa di Numa (I, 19), che gli deriva probabilmente da una tradizione ormai consolidata. Polibio e Cicerone ritengono che la religione romana, così formalistica e piena di scrupoli, sia uno strumento utile alla classe dirigente per tenere il popolo disci plinato e obbediente; Livio invece ritiene che l’osservanza dei prodigi e dei culti religiosi sia realmente una virtù del popolo romano, e che la trascuratezza e l'indifferenza nei riguardi dei segni della volontà degli dèi siano causa di rovina. Alla èietas e alla religio degli antichi Livio dà un’adesione talmente incon dizionata da escludere uno scetticismo di fondo; egli può dubitare dell’autenticità di singoli prodigi, e ritenere che qualcuno sia stato inventato da uomini creduli e superstiziosi (XX I, 62, 1; X X IV , 10, 6), ma non esclude che gli dèi diano segni della loro volontà, e giudica male molto maggiore l’incredulità e l’indiffe renza che la fede cieca. È difficile spiegare l’atteggiamento di Livio di fronte ai prodigi ricorrendo ad una interpretazione simbolica del rapporto
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5. J.
B ayet,
T ìte-Live, H istoire Rom aine, I, P aris, 1940, p . x x x m .
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fra uomo e Dio e alla religiosità filosofica degli stoici, che am metteva il valore di prodigi o sogni come indizio di disordine nell’universo che si riflette anche nelle piccole cose6; nel testo di Livio non c’è alcun appiglio per questa interpretazione. Neppure si può pailare di interpretazione razionalistica del mito: basta confrontare il racconto liviano delle leggende del periodo delle origini con le arbitrarie interpretazioni razionalistiche che ne dà lo storico greco Dionisio di Alicarnasso, per vedere quanto Livio sia lontano da quei metodi di razionalizzazione così cari ai Greci. Livio mostra di credere negli dèi della religione tradizionale, ma non prova interèsse' per il problema religioso in sé stesso, come” VirgiUoT^^~SrimffiEa“ a sostenere l’importanza essenziale che la religione riveste nella storia patria. Il suo atteggiamento, è tipico di chi difende la religione non per una fede meditata e profonda, ma' perché ritiene che la fede tramandata dagli .avi sia indispensabile al buon andamento dello stato e della moralità pubblica. Questa è la ragione del rispetto di Livio per la religione romana anche nei suoi aspetti più primitivi e formalistici; perciò questo rispetto non ha bisogno di essere spiegato con interpre tazioni razionalistiche o filosofiche, che sono proprie di chi è mosso dal desiderio di approfondire il problema religioso. Lo scrupoloso rispetto con cui Livio riporta i prodigi e le. leggende dell’antica tradizione è uno degli aspetti dello scrupolo religioso con cui egli adempie alla sua missione di storica, della cura che egli ha di non alterare con invenzioni romanzesche quanto gli era stato tramandato, a differenza del costume di alcuni storici dell’età ellenistica o anche di annalisti romani di età recente. L ’onestà e la cura della verità e deirimparziaUtà, gli attirarono^ l’elogio degli antichi: Tacito (Ann., IV,..3.4), lo chiama eloquentiae ac fidei praeclarus in.. 'primis, più di tutti insigne per il pregio dello stile e la veridicità del racconto; ^Quin tiliano lo dice candidissimus (II, 5, 19), riferendosi in primo luogo alla chiarezza e purezza dello stile, ma anche alla schiettezzaTe^alìa rettitudine come storico. La serietà e la scrupolosità^ di Livio, scambiate per vero rigore storico, fecero nascere fin dall’antichità la leggenda di « Livio che non erra », leggenda cfib cadde quando, a partire d à T x v iii secolo, la critica raziona listica iniziò un’opera sistematica di demolizione della sua opera, negandole sia attendibilità che spirito storico. La critica più 6. W a ls h , op. oìt., pp. 49, 60, 64.
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recente tende a rivalutare il valore storico dell’opera di Livio, ma la rivalutazione va contenuta entro certi limiti. In primo luogo essa concerne il materiale storico da lui utilizzato per la storia antica di Roma, un tempo messo in discussione e consi derato frutto di leggenda e di anacronistiche ricostruzioni, ora riconosciuto attendibile nelle sue linee essenziali, grazie anche alla concordanza con i risultati delle scoperte archeologiche. In secondo luogo a Livio va riconosciuta la sostanziale onestà che -gg gTf riconosceva Quintiliano, .non, nel senso che egli sia asso.lutamente imparziale, cosa del resto impossibile in ogni storico, ma nel senso che le sue deformazioni dei fatti non sono troppo vistose e troppo diffuse,"^ che "egli per lo più si fa scrupolo di riportare le versioni dei fatti diverse da quella da lui condivisa. Non si può andare oltre nella rivalutazione e riconoscere a Livio una capacità di interpretazione originale dei fatti e un appro fondimento dell’indagine storica, che del resto non era nelle sue intenzioni. Le deformazioni dei fatti che si trovano in Livio sono quasi sempre a senso patriottico. Talora concernono particolari di scarsa importanza^ altre volte alterano radicalmente la verità storica, ma in tal caso generalmente non sono opera di Livio, e preesistono in qualche fonte; comunque è significativo che in questi casi Livio abbia scelto la fonte più favorevole ai Romani, anche quando l’evidenza avrebbe dovuto convincerlo della falsi ficazione. Riportiamo qualche esempio fra i moltissimi che si potrebbero citare. L ’assedio di Sagunto è certo del 219 a. C., come risulta da Polibio, e Livio stesso (XX I, 15, 3) riporta la versione polibiana che lo fa durare otto mesi; però egli assegna l’assedio al 218, il che rende impossibile far combinare la durata di otto mesi con gli avvenimenti che seguono nell’anno. Inoltre secondo Polibio la prima ambasceria romana ad Annibaie giunge prima che l’assedio sia cominciato, secondo Livio quando già l’assedio è in corso, e dopo lunga attesa non viene ricevuta dal comandante cartaginese. Le modifiche accolte da Livio hanno l’evidente scopo di attenuare la responsabilità dei Romani per non essere venuti tempestivamente in aiuto ai Saguntini; la falsificazione si trovava già in una fonte romana (Celio Antipatro o Valerio Anziate), ma Livio la segue pur essendo a conoscenza della cronologia corretta e pur rendendosi conto delle difficoltà insuperabili che la falsificazione comporta.
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D i minor rilievo, ma egualmente indicative sono le modifiche che Livio apporta al racconto del duello di Manlio Torquato con un guerriero Gallo (VII, io), racconto che possiamo con frontare con la versione dell’annalista Claudio Quadrigario. Secondo Claudio, Manlio Torquato affronta il Gallo di sua ini ziativa; secondo Livio chiede prima il consenso al dittatore, non volendo combattere extra ordinem; l’aggiunta vuole sottolineare la disciplina dei soldati romani. Secondo Claudio, Manlio dopo aver ucciso il Gallo gli taglia la testa; Livio invece dice che Manlio lasciò il cadavere intatto da ogni offesa e gli tolse soltanto la collana; egli vuole eliminare, qui come in altri casi, atti di crudeltà dei Romani verso i vinti. Secondo Polibio, quando Attalo nel 168 venne inviato a Roma a' capo di un’ambasceria dal fratello Eumene, re di Per gamo, alcuni dei senatori più illustri cercano di convincerlo a tradire il fratello, promettendogli un regno personale. Attalo in un primo 'momento acconsente al piano, poi ne viene distolto dal fratello Stratio, fedele al re. Il senato, che ancora non sapeva del suo cambiamento, pubblicamente lo trattò con grande onore, e gli promise di assegnare al regno di Pergamo le città di Eno e Maronea che il re chiedeva. Quando poi seppe che Attalo non aderiva al piano contro il fratello, il senato si rimangiò la pro messa di concedere le due città. Livio (XLV, 19-20) altera pro fondamente il racconto dì Polibio, presenta il piano contro Eumene come un’iniziativa personale di pochi disonesti, e non dei senatori più autorevoli; afferma che il senato colmò Attalo di grandi onori pur sapendo che aveva rinunciato a tradire il fratello, anzi lascia intendere che fu onorato proprio per questo, ed omette completamente il fatto che il senato venne meno alla promessa di concedere le due città. Evidentemente lo storico latino vuole mascherare una pagina di storia che offuscava la fama tradi zionale della fides del senato romano verso i popoli alleati. È fin troppo storico, JTJT facile elencare le deficienze di Livio .......come ..............■ ... ■ ■ .-.. se partiamo da una valutazione moderna dei compiti della sto riografia. Abbiamo già detto della mancanza del senso del dive nire storico: i singoli eventi o problemi politici non sono illustrati nella loro genesi, ma sembrano nascere aH’improvvisQ,. senza relazione con gli avvenimenti circostanti Essi .vengono messi in piena luce in un momento dove acquistano un rilievo dramma tico, e poi lasciati cadere, senza che l ’autore si curi di spiegare
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le^ conseguenze di quanto è accaduto, salvo talora qualche consi derazione estremamente frettolosa e sbrigativa. Ad esempio nel II libro il conflitto sociale fra patrizi e plebei scoppia all’improvviso (cap. 23), non sono spiegate le cause che hanno prodotto il conflitto, e la questione dei debiti, che sembra essere la causa principale, viene enunciata come se si trattasse di una cosa già nota. In luogo di un’analisi della situazione economico-sociale vi è la lunga e patetica descrizione del vecchio lacero, il cui arrivo nel foro segna l’inizio della sedizione, secondo la tecnica frequente nella storiografia antica di attribuire a singoli eventi accidentali la causa di grandi rivolgimenti e feno meni storici. Dopo un lungo e drammatico racconto delle alterne vicende della lotta, si arriva alla soluzione con l ’istituzione del tribunato della plebe: nulla è detto sul modo come viene risolta la questione dei debiti, da cui era sorto il conflitto, e nessun commento viene fatto sulla funzione dei tribuni, di cui si dice soltanto che avevano il diritto di ausilio in difesa della plebe. Il lettore moderno rimane disorientato e non riesce ad afferrare la dinamica e il nesso degli avvenimenti. I primi sette capitoli del libro X X X IV sono occupati dai discorsi di Catone e di Lucio Valerio contro e in favore del l ’abrogazione della legge Oppia, che vietava alle donne di indos sare abiti lussuosi. Quando però vent’anni prima la legge Oppia era stata approvata Livio non ne aveva fatto menzione, di modo che la cosa al lettore giunge improvvisa. Inoltre la decisione di abrogare la legge non viene inserita in un contesto che tratti dell’evoluzione dei costumi romani; subito si torna a parlare delle campagne di guerra. Il dibattito sulla legge Oppia rimane quindi una semplice occasione per due splendidi discorsi, dove le opposte argomentazioni sono al di fuori di una dimensione storica concreta, e si riducono a un dibattito di retorica mora listica sui meriti o demeriti delle donne, e sul modo migliore per tenerle sottomesse agli uomini. Livio condivide con la maggior parte degli storici antichi lo scarso interesse rivolto ai protìemi economici e sociali; egli riesce egualmente utile a questo riguardo, perché ci fornisce i dati sui censimenti, sui proventi delle imposte e delle contribuzioni di guerra, sulla fondazione di colonie, dati che ricava dagli annali, ma non si cura di commentare e di interpretare i dati stessi. I conflitti sociali sono impostati in termini astratti e moralistici, e non è chiaro il quadro degli interessi e delle forze in gioco; le
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lotte fra le fazioni nobiliari sono ridotte per lo più a contrasti di singoli individui di carattere diverso, o al generico conflitto fra partito senatorio e partito popolare; gli intrighi elettorali, i giochi di alleanze fra le grandi famiglie vengono taciuti. Scarso è pure l’interesse per i problemi costituzionali; abbiamo sì una"‘descrizione deH’ordmamento centuriato attuato da Servio T fminf ' rn~a~‘‘TH passaggio dall1ordinamento centuriato a quello tributo viene* spiegato jn modo così poco chiaro, che i critici modernT discutono senza fine come il passo liviano debba essere interpretato. Per avere un quadro generale esauriente della costi tuzione romana dobbiamo ricorrere al greco Polibio; Livio vi dedica poca attenzione, e se nel primo libro si ferma più del consueto sugli istituti costituzionali, lo fa per un fine patriotticoantiquario, per mostrare l ’antichità e l’origine degli istituti stessi. Anche nel campo giuridico le conoscenze di Livio non sembrano molto approfondite; spesso rimaniamo incerti sulla natura dei processi, sùlle imputazioni e sulla procedura seguita. IJel camgo^eHa geografia, per quanto Livio non tralasci di dare diffuse indicazioni topografiche, la mancanza di competenza e di conoscenza diretta produce errori e confusioni. Il racconto del "passaggio delle Alpi da parte di Annibàie (XX I, 35-37) è un rebus insolubile, ricco di contraddizioni e di abbellimenti fantasiosi; forse egli ha interpretato male le fonti, o ha mescolato due fonti diverse. A d esempio Livio dice che Annibaie dalla valle della Druenza (Durance), attraverso a un cammino per la massima parte pianeggiante, giunse alle 'Alpi, e i suoi soldati rimasero sbigottiti alla vista degli altissimi monti e delle nevi che sembravano toccare il .cielo, e di tutte le cose animate e inanimate irrigidite dal gelo. È una descrizione di effetto dram matico, ma geograficamente assurda: Livio immagina la valle della Durance come una pianura davanti a cui si erge di colpo la barriera delle Alpi, mentre il versante francese delle Alpi ha tu tt’altra natura. Le descrizioni topografiche dei campi di battaglia sono spesso v izìa S “’3a'lnesattezze che ne rendono problematica la ricostruzioM rriTàcconto della battaglia della Trebbia è confuso e inac"cetTabile, perché Livio pone il campo di battaglia sulla riva destra anziché sulla sinistra del fiume; probabilmente l’errore deriva da una falsa interpretazione di una frase di Polibio 7,
e non sappiamo se essa sia addebitabile a Livio o alla sua fonte latina; comunque egli non aveva chiara in mente la topografia della zona. In fatto di armamento e di tattica militare le conoscenze di Livio sono approssimative. Le battaglie del periodo più antico, per le quali verosimilmente non esisteva documentazione, si svolgonò''su uno schema generico che subisce poche variazioni: prima i Romani sono messi in difficoltà dalla superiorità numer nca o'*3 a~una“ mòssa a sorpresa dei nemici, ma poi grazie al coraggio ~è alla tènacia dei ....soldati e all’intelligenza del coman--................... ........... . -- ' dante hanno il sopravvento e fanno strage degli avversari. Per le epoche più recenti la validità del racconto liviano dipende dalla bontà della fonte seguita, e quando segue Polibio la descri zione è solitamente chiara; però anche in questi casi non man cano errori che derivano da incompetenza tecnica. Come esempio più vistoso citiamo quello della battaglia di Cinocefale (X X X III, 9): l’ordine di Filippo riportato da Polibio di abbassare le sarisse per attaccare il nemico (x«Taj3ócXXeiv Tà L. Titinium P. Maelium; questo per sanare la discor danza con i Fasti Capitolini. Ma la discordanza non può essere attribuita ad errore dei copisti, ed è più probabile che Livio, come anche altrove, abbia seguito come fonte Licinio Macro, la cui lista dei consoli è diversa da quella dei Fasti. — 24, 8 fartem plebis, partem senatus destinabant
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pergit. [5] E a res ab stativis excivit M ettium . D ucit quam proxim e ad hostem potest; inde legatum praemissum nuntiare Tulio iubet, priusquam dimicent, opus esse colloquio; si secum congressus sit, satis scire ea se allaturum quae nihilo m inus ad rem Rom anam quam ad A lbanam pertineant. [6] H aud aspernatus Tullus, tamen, si va n a adferantur, in aciem educit. E xeu n t contra et Albani. Postquam structi utrim que stabant, cum paucis procerum in medium duces procedunt. [7] Ib i infit Albanus: « Iniurias et non redditas res ex foedere quae repetitae sint et ego regem nostrum Cluilium causam huiusce esse belli audisse videor, nec te dubito, Tulle, eadem prae te ferre; sed si vera potius quam dictu speciosa dicenda sunt, cupido imperii duos cognatos vicinosque populos ad arm a stim ulat. [8] Neque recte an perperam interpretor; fuerit ista eius deliberatio qui bellum suscepit; m e A lb an i gerendo bello ducem creavere. Illu d te, Tulle, m onitum velim: E tru sca res quanta circa nos teque m axim e sit, quo propior es, hoc magis scis. M ultum illi terra, plurimum m ari pollent. [9] Memor esto, iam cum signum pugnae dabis, has duas acies spectaculo fore, u t fessos confectosque simul victorem ac victum adgrediantur. Itaque, si nos di am ant, quoniam non contenti libertate certa in dubiam imperii servitiique aleam imus, ineamus aliquam viam qua u tri utris im perent sine m agna clade, sine m ulto sanguine utriusque populi decerni possit ». [10] H aud displicet res Tulio, quam quam cum indole animi tum spe victoriae ferocior erat. Quaerentibus utrim que ratio initur, cui et fortuna ipsa praebuit materiam.
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assetto offensivo verso il territorio albano. [5] Questo fa t to costrinse ad uscire dal campo Mezio, il quale condusse l’esercito nelle im m ediate vicinanze del nemico; quindi mandò a van ti un messo ad annunziare a Tulio che era necessario un colloquio, prim a di venire a battaglia: era certo che se si fosse incontrato con lui, avrebbe udito delle proposte che convenivano a R om a non meno che ad A lba. [6] Tulio non si oppose, tu tta via, nel caso che le proposte fossero insoddi sfacenti, schierò l ’esercito in campo. Anche gli A lbani si schierarono di fronte. Quando dalle due parti gli eserciti furono allineati, i capi avanzarono nel m ezzo con alcuni dignitari. [7] Comincia allora l ’Albano: « Mi pare di aver udito dal nostro re Cluilio che causa di questa guerra furono le offese p atite e la m an cata restituzione delle cose richieste in conform ità dei patti, e son certo che anche tu, o Tulio, adduci gli stessi pretesti; m a se dobbiamo dire la verità anziché una bella menzogna, è la bram a di dominio che spinge alle arm i due popoli fratelli e vicini. [8] Non mi domando chi abbia ragione o torto; questo toccava decidere a chi intraprese la guerra; gli A lbani m i hanno nom inato capo per condurla. Ma questo, o Tulio, vorrei ricordarti: tu sai meglio di me, perché sei più vicino, quanto grande sia la potenza degli Etruschi, che incombe su di noi e su di te in particolar modo. Grande è la loro forza per terra, grandissim a per mare: [9] tieni presente, quando darai il segnale della battaglia, che osserveranno attentam ente questi due eserciti, nell’attesa di poter assalire stanchi e spossati sia il vincitore che il vinto. P ertanto, se gli dèi ci sono benigni, dal m omento che non contenti di una sicura libertà affrontiam o una rischiosa alternativa di dominio o di servitù, cerchiamo una qualche v ia per cui si possa decidere senza grande rovina e spargim ento di sangue dei due popoli quale dei due dovrà comandare all’altro ». [10] L a proposta non dispiacque a Tulio, per quanto fosse più incline a_dar battaglia, sia p er.J jiid ole naturale e sia per la speranza di vitto ria. Postesi alla ricerca le due parti trovano una soluzione, di cui la sorte stessa offerse la pos sibilità.
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[24, 1] fifo rte in duobus tum exercitibus erant trigem ini fratres nec aetate nec viribus dispares. H oratios Curiatiosque fuisse satis constat, nec ferme res antiqua alia est nobilior; tam en in re tam clara nominum error m anet, utrius populi H oratii, utrius Curiatii fuerint. Auctores utroque trahunt; plures tam en invenio qui Rom anos H oratios vocent; hos u t sequar inclinat animus. [2] Cum trigem inis agunt reges u t prò sua quisque p atria dim icent ferro: ibi imperium fore unde victoria fuerit. N ihil recusatur; tem pus et locus convenit. [3] Priusquam dim icarent, foedus ictum inter Rom anos et A lbanos est his legibus, u t cuiusque populi cives eo certamine vicissent, is alteri populo cum bona pace im peritaret^ [4], Foedera alia aliis legibus, ceterum eodem modo om nia fiunt. Tum ita factum accepimus, nec ullius vetustior foederis memoria est. F e tia lis 1 regem Tullum ita rogavit: « Iubesrfe me, rex, cum patre patrato populi A lb an i foedus ferire?» Iubente rege « S a g m in a » 2 inquit « te, rex, posco ». R e x ait: « Puram tollito ». [5] F etialis ex arce graminis herbam puram attu lit. Postea regem ita rogavit: « R ex, facisne me tu regium nuntium populi R om ani Quiritium , vasa comitesque meos? » R e x respondit: « Quod sine fraude m ea populique Rom ani Quiritium fiat, facio ». [6] Fetialis erat M. Valerius; patrem pàtratum Sp. Fusius fecit verbena caput capillosque tangens. P ater patratus ad ius iurandum patrandum , id est sanciendum fit foedus, m ultisque id verbis, quae longo effata carm ipe non operae est referre, peragit. [7] Legibus deinde recitatis « A ud i » inquit, « Iuppiter, audi, pater patrate populi A lbani, audi tu, populus Albanus: u t illa palam prim a postrem a ex illis tabulis cerave reci ta ta sunt sine dolo m alo, utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Rom anus prior non
24. 1. I feziali erano un collegio sacerd o tale d i 20 m em bri in ca ricati di p resen tare rich iesta d i soddisfazione a i p op o li colp evo li d i offese verso R o m a , d i dichiarare le guerre e d i stip u la re i tr a t ta t i d i p a ce e d i allean za. I l pater patratus era l ’oratore u fficiale deH’anxbasceria. 2. L a zo lla erbosa, to lta d a l sacro suolo d ella ro cca cap itolin a, era sim bolo della te rra rom ana; a ltri o g g e tti sa cri p o r ta ti dai fezia li erano la selce, le cu i scin tille sono sìm bolo del fulm in e che pu nisce i trasgressori, e lo scettro, segno d e ll’a u to rità.
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1(2^, 1] Per avven tu ra allora in entram bi gli eserciti v i erano tre fratelli gemelli, non diversi di età né di forze. È noto che si chiam avano Orazi e Curiazi, e si può dire che nessun altro fatto dell’antichità sia più famoso; tu tta v ia in così celebre evento rimane incertezza sui nomi, di quale popolo siano sta ti gli Orazi e di quale i Curiazi. Si trovano testim onianze nei due sensi; tu tta v ia m aggiore m i risulta il numero degli autori che dicono romani gli Orazi, e questi preferisco seguire. [2] I re propongono ai tre gemelli di com battere in duello per la loro patria: il dominio sarebbe spet tato alla parte donde uscissero i vincitori. Non vien fatta la minima difficoltà: concordano il tem po e il luogo. [3] Prim a dell’inizio del duello fu stretto un p atto fra i Rom ani e gli A lbani a queste condizioni, che il popolo i cui campioni riuscissero vincitori in quel com battim ento avrebbe im perato sull’altro popolo, senza opposizione da parte di questo._| [4] Nei tra tta ti variano le condizioni, m a tu tti vengono conchiusi con la stessa formula. Sappiam o che allora fu conchiuso nel modo seguente, né abbiam o testim onianza di alcun tra tta to più antico. Il fe zia le 1 così dom andò al re Tulio: «Mi autorizzi, o re, a stringere il p atto col padre patrato del popolo albano? » A vu to l ’assenso del re soggiunse: « O re, ti chiedo la sacra erba 2 ». Il re disse: « Prendila pura ». [5] Il feziale portò dalla rocca l ’erba pura. Poi così domandò al re: « 0 re, proclami regi messaggeri del popolo romano dei Q uiriti me e i sacri oggetti e i miei compagni? » Il re rispose: « Con l ’augurio che ciò sia senza danno mio e del popolo romano dei Quiriti, v i proclamo ». [6] E ra feziale M arco Valerio; egli nominò padre patrato Spurio Fusio toc candogli il capo e i capelli con la sacra erba. Il padre patrato viene incaricato di « patrare » il giuram ento, cioè di sancire il patto, e ciò eseguisce recitando una lunga form ula rituale, che qui non è il caso di riportare. [7] L ette poi ad alta voce le condizioni disse: «Ascolta, o Giove, ascolta, o padre pa trato del popolo albano, ascolta anche tu, o popolo albano: a quelle condizioni che oggi pubblicam ente dalla prim a parola a ll’ultim a sono state lette da quelle tavolette e da quella cera senza inganno, e che oggi qui esattam ente sono state
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deficiet. [8] S i prior defexit publico consilio dolo m alo, tum ilio die, Iuppiter, populum Rom anum sic ferito, ut ego hunc porcum hic hodie feriam; tantoque m agis ferito, quanto magis potes pollesque ». [9] Id ubi dixit, porcum saxo silice percussit. Sua item carm ina A lbani suumque ius iurandum per suum dictatorem suosque sacerdotes peregerunt. f [25, 1] Foedere ìcto trigem ini, sicut convenerat, arm a capiunt. Cum sui utrosaue adhortarentur. deos patrios, patriam ac parentes, quicquid civium domi, quicquid in exercitu sit, illorum tunc arm a, illorum intueri manus, feroces et suoptè ingenio et pieni adhortantium vocibus in medium inter duas acies procedunt. [2] Consederant utrim que prò castris .duo exercitus, periculi magis praesentis quam curae expertes; quippe im perium agebatur in tam paucorum virtu te atque fortuna positum . Itaq ue ergo erecti suspensique in m inime gratum spectaculum animo intenduntur. [3] D atu r signum , infestisque arm is v elu t acies terni iuvenes magnorum exercituum ,animos gerentes, concurrunt. N ec his nec illis periculum suum, publicum im perium servitium que obversatur animo futuraque ea deinde patriae for tuna quam ipsi fecissen tj[4 ] U t primo statim concursu increpuere arm a m icantesque fulsere gladii, horror ingens spectantes perstringit, e t ^ j i t r o Jn clin a ta .sp ejtorp ebat v o x spiritusque. [5] Conserti?, deinde manibus, cum iam non motus tantum corporata agitatioque anceps telorum armorumque sed vulnera quoque et sanguis spectaculo essent, duo Rom ani super alium alius, vulneratis tribus Albanis, expirantes corruerunt. [6] A d quorum casum cum conclam asset gaudio A lbanus
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intese, il popolo romano non verrà meno per primo. [8] Se per primo verrà meno con colpevole inganno per pubblica deliberazione, allora in quel giorno, o Giove, colpisci il popolo romano così come io qui oggi colpirò questo porco, e tanto più fortem ente colpiscilo, quanto più forte è il tuo potere e la tua forza ». [9] Come ebbe detto ciò, colpì un porco con una selce. Parim enti gli A lbani pronunziarono la loro form ula e il loro giuram ento per bocca del loro dittatore e dei loro sacerdoti.
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|2S,, 1] Conchiuso il p atto i tre gemelli prendono le armi, come -èra stato convenuto. F ra gli incitam enti dei compagni, che ricordano come in quel m omento gli dèi patrii, la patria, i genitori, e tu tti i cittadini che v i sono nelle case e nel l ’esercito abbiano lo sguardo rivolto alle loro armi e alle loro braccia, i giovani, già fieri per la loro stessa indole, ed infiam m ati dalle parole di sprone, avanzano nel mezzo fra le opposte schiere. [2] D alle due p arti gli eserciti si erano schierati davanti agli accampam enti, liberi da pericoli imm e diati m a non dall’ansia, poiché era in gioco la sovranità dei due popoli, sospesa al valore e alla fortuna di così pochi uomini; pertanto atten ti e ansiosi protendono l’animo allo spettacolo m inim amente grato. [3] V ien dato il segnale, e con le arm i pronte all’attacco quasi fossero un esercito i tre giovani dalle due parti corrono a scontrarsi, portando dentro di sé il coraggio di grandi eserciti. N é gli uni né gli altri pensano al pericolo personale, m a alla signoria o alla schiavitù della nazione, alla futura sorte della patria, che sarebbe dipesa dalle loro mani. | [4] A ppena al primo scontro risonarono le arm i e balenanti luccicarono le spade, subito un grande affanno strinse il cuore degli spettatori, e finché le speranze erano in equilibrio m ancavano la voce e il respiro. [5] Quando si venne poi alla lotta a corpo a corpo, e già si offrivano agli sguardi non soltanto il m ovim ento dei corpi e l’alterno agitarsi delle armi di offesa e di difesa, m a anche le ferite e il sangue, mentre i tre A lb ani erano feriti, due Rom ani l ’uno dopo l ’altro si abbatterono al suolo morenti. [6] A lla loro caduta un clamore di gioia si levò dall’esercito albano, m entre le 12. L iv io , I.
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exercitus, Rom anas legiones iam spes tota, nondum tamen cura deseruerat, exanimes vice unius quem tres Curiatii circum steterant. [7] Forte is integer fuit, ut universis solus nequaauam par, sic adversus singulos ferox. Ergo ut segregaret pugnam eorum capessit fugam , ita ratus secuturos, u t quemque vulnere adfectum corpus sineret. [8] Iam aliquantum spatii ex eo loco ubi pugnatum est aufugerat, cum respiciens videt magnis intervallis sequentes; unum haud procul ab sese abesse. ’ [9] In eum m agno im petu rediit, et^dum Albanus exercitus inclam at Curiatiis u ti opem ferant fratri, iam H oratius caeso hoste victor secundam pugnam petebat. Tunc clamore, qualis ex insperato faventium 1 solet, Rom ani adiuvant m ilitem suum; et ille defungi proelio festina^. [10] Prius itaque quam alter, qui nec procul aberat, consequi posset, ét alterum Curiatium confìcit; [11] iam que aequato Marte singuli supererant, sed nec spe nec viribus pares. A lterum intactum ferro corpus et gem inata victoria ferocem in certam en tertium dabat; alter fessum vulnere, fessum cursu trahens corpus victusque fratrum ante se strage victori obicitur hosti. N ec illud proelium fuit. [12] Rom anus exultans « D uos » inquit « fratrum Manibus dedi; tertium causae belli huiusce, u t Rom anus A lbano imperet, dabo ». Male sustinenti arm a gladium superne iugulo defìgit; iacentem spoliat. [13] Rom ani ovantes ac gratulantes H oratium accipiunt eo maiore cum gaudio, quo prope m etum res fuerat. A d sepulturam inde suorum ne"quaquam paribus animis vertuntur, quippe imperio alteri aucti, alteri dicionis alienae facti. [14] S ep u lcra 2 extan t quo quisque loco cecidit, duo Rom ana
25. 1. I l racco n to liv ia n o del du ello fra O razi e C u riazi si sofferm a a lungo su gli altern i s ta ti d ’anim o d egli sp e ttato ri, con espressioni e im m a gini che sono tr a t te d a ll’osservazione degli sp ettacoli del circo. 2. A n co ra oggi presso la v ia A p p ia rim angono a v a n zi di q u e sti m onu m en ti sepolcrali, che la trad izio n e riten e v a to m b e d egli O razi e dei C uriazi.
legioni romane, abbandonate da ogni speranza m a non ancora dall’ansia, trattenevano il respiro per la sorte di quell’unQ che i tre Curiazi avevano circondato. [7] Per caso egli era rim asto incolume, di modo che da solo non era pari di forze con gli avversari presi insieme, m a era superiore a ciascuno di essi preso singolarmente. Perciò per com batterli separatam ente si dà alla fuga, pensando che l ’avrebbero inseguito con diversa velocità, come a ciascuno l ’avrebbero consentito le ferite ricevute. [8] G ià si era allontanato alquanto dal luogo del com battim ento, quando volgendosi indietro scorge gli inseguitori a grandi intervalli; uno era a poca distanza da lui. [9] Gli si rivolge contro con grande impeto, e'm en tre l ’esercito albano grida ai Curiazi di portare aiuto al fratello, già l ’Orazio, ucciso il nemico, vittorioso affronta il secondo duello. A llora i Rom ani incoraggiano il loro cam pione con alte grida, com£-SQgliono. fare i so ste n ito ri 1 ad un ritorno inatteso della speranza, e quello si affretta per spacciare il rivale; [10] così prim a che l ’altro, che non era lontano, potesse raggiungerlo, uccide anche il secondo dei Curiazi. [11] Orm ai pareggiate le sorti, ne rim anevano in v ita uno per parte, m a ben diversi per animo e per forze: l ’uno spingevano baldanzoso al terzo duello il corpo non tocco dal ferro e la duplice vittoria; l ’altro trascinando il corpo stanco per le ferite e per la corsa, già vin to dalla precedente strage dei fratelli, si offre ai colpi del nemico vincitore. Non fu vera lotta: [12] il Rom ano im baldanzito disse: «D ue ne ho offerti ai Mani dei fratelli; il terzo lo offrirò alla causa di questa guerra, affinché i R om ani coman dino sugli A lbani ». F attosi sopra l ’avversario, che a stento reggeva le armi, gli piantò la spada nella gola, e ne spogliò il cadavere. [13] I R om ani acclam anti e festanti accolgono l’Orazio con gioia tanto maggiore quanto più la situazione era apparsa disperata. Quindi i soldati si dedicano alla sepoltura dei compagni caduti, in un opposto stato d ’animo, poiché gli uni avevano accresciuto il loro dominio, gli altri erano caduti sotto l ’altrui signoria. [14] N el luogo dove ciascuno cadde rimangono i sep olcri2, due dei Rom ani, in un sol punto più
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uno loco propius A lbam , tria A lbana Rom am versus, sed distantia locis, u t et pugnatum est_ j [26, 1] Priusquam inde digrederentur, roganti Mettio ex foedere icto quid imperaret, im perat Tullus u ti iuventutem in armis habeat; usurum se eorum opera, si bellum cum V eientibus foret. Ita exercitus inde domos abducti. [2] Princeps H oratius ibat, trigem ina spolia prae se gerens; cui soror virgo, quae desponsa uni ex Curiatiis fuerat, obvia ante portam Capenam fuit, cognitoque super umeros fratris paludam ento sponsi quod ipsa confecerat, solvit crines et fìebiliter nomine sponsum m ortuum appellat. [3] M qvet feroci iuveni animum com ploratio sororis in victoria. sua tantoque gaudio publico. Stricto itaque gladio sim ul verbis increpans transfìgit puellam . [4] « A b i hinc cum im iiatu ro amore ad sponsum » inquit, « oblita fratrum m ortuorum vivique, oblita patriae. Sic eat quaecum que R o m ana lugebit hostem ». [5] A tro x visum id facinus patribus plebique, sed recens m eritum facto obstabat. Tam en raptus in ius ad regem. R ex, ne ipse tam tristis ingratique ad vulgus iudicii ac secundum iudicium supplicii auctor esset, concilio populi advocato « D uum viros »1 inquit, « qui H oratio perduellionem iudicent, secundum legem facio ». [6] L e x horrendi carminis erat: « D uum viri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori rest| suspendito; verberato vel intra pomerium v e l extra pomerium ». [7] H ac lege duum viri creati, qui se absolvere non rebantur ea lege ne innoxium qui dem p o sse 2, cum condemnassent, tum alter ex iis « P. Horati, 26. 1. I duoviri perduellionis erano una m a gistra tu ra straordin aria is titu ita d i v o lta in v o lta per giu dicare dei re a ti con tro lo sta to . N on è chiaro perché il d e litto d i O razio v e n g a considerato d e litto di stato ; i m oderni hanno d a to v a rie spiegazioni poco con vin cen ti. 2. I l com pito d ei duoviri perduellionis si lim ita v a ad a ccerta re l ’esi ste n za d e l fa tto , da cui sc a tu riv a u n a sen ten za d i condanna senza giudizio; in ogni caso però il reo a v e v a la fa c o ltà d i ap p ellarsi a l giudizio del popolo (provocatio). A T u lio O stilio v ien e fa tt a risalire la prim a concessione della provocatio, il d iritto di appello a l popolo che era la p rin cipale garanzia costitu zion ale di lib e rtà del citta d in o rom ano; il d iritto alla' provocatio sarebbe p o i sta to gen eralizzato a ll’in izio della rep u bblica.
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vicino ad A lba, tre degli A lbani in direzione di Rom a, disposti ad intervalli, così come si era svolto il com battim ento^j -
_ : ' £2$ 1] Prim a che si allontanassero di lì, avendo Mezio dom andato a Tulio quali fossero i suoi ordini, in conform ità del p atto conchiuso, questi ordinò di tenere l ’esercito in armi, dicendo che si sarebbe servito del suo aiuto se v i fosse stata una guerra con i Veienti. Così gli eserciti furono ricon dotti in patria. [2] Prim o incedeva Orazio, m ettendo in m ostra le triplici spoglie; a lui venne incontro davanti alla porta Capena la giovane sorella, che era fidanzata ad uno dei Curiazi; come riconobbe sulle spalle del fratello il m anto dello sposo, che essa stessa aveva lavorato, sciolse i capelli e gemendo invocò il nome del fidanzato morto. [3] L ’animo del fiero giovane si indignò al pianto della sorella sulla suà vittoria, fra tan ta pubblica gioia; tra tta quindi la spada trafisse la fanciulla, aggiungendo queste parole di biasimo: [4] « V attene di qui col tuo intem pestivo amore al fidanzato, tu che hai dimen ticato i fratelli m orti e il vivo, che hai dim enticato la patria. Così perisca ogni donna rom ana che piangerà un nemico ». [5] A troce delitto questo apparve ai senatori ed alla plebe; m a con questa azione contrastava la recente benemerenza. T u t ta v ia fu condotto in giudizio davanti al re. Questi, per non dover essere egli stesso responsabile di un giudizio così penoso e impopolare, e della condanna che ne sarebbe seguita, convocata l ’assemblea popolare disse: « Istituisco per legge un d u u m vira to 1 che giudichi Orazio circa il reato di alto tradim ento ». [6] L a form ula della legge era terribile: « I duum viri giudichino del reato di alto tradim ento; se il reo ricorrerà contro la sentenza dei duum viri, si appelli al popolo; se i duum viri prevarranno, gli sia velato il capo e sia appeso con una fune ad un albero infecondo; sia frustato sia dentro le m ura che fuori delle m ura ». [7] Con questa legge furono nom inati i duum viri, i quali, stimando che con tale legge neppure un innocente avrebbero potuto assolvere2, diedero sentenza di condanna contro Orazio; poi uno di essi gli disse:
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tib i perduellionem radico » inquit. « I, lictor, conliga manus ». [8] Accesserat lictor iniciebatque laqueum. Tum H oratius auctore Tulio, clem ente legis interprete, « Provoco » inquit. Ita q u e provocatione certatum ad populum est. [9] M oti homines sunt in eo iudicio m axim e P. H oratio p atre proclam ante se filiam iure caesam radicare; ni ita -esset, patrio iure in filium animadversurum fu isse 3. O rabat •deinde ne se, quem paulo ante cum egregia stirpe conspexissent, orbum liberis facerent. [10] Inter haec senex iuvenem .amplexus, spolia Curiatiorum fixa eo loco, qui nunc pila H o ra tia 4 a p p e lla ta , ostentans, « H uncine » aiebat, « quem m odo decoratum ovantem que victoria incedentem vidistis, QuiriteS, eum sub furca vinctum inter verbera et cruciatus videre potestis? Quod v ix Albanorum oculi tam deforme spectaculum ferre possent. [11] I, lictor, conliga manus, quae paulo ante arm atae imperium populo Rom ano pepererunt. I, caput obnube liberatoris urbis huius; arbore infelici suspende; verbera v e l intra pomerium, modo inter illa pila «et spolia hostium, vel extra pomerium, modo inter sepulcra Curiatiorum . Quo enim ducere hunc iuvenem potestis, ubi non sua decora eum a ta n ta foeditate supplicii vindicent? » •^ 1 2 ] Non tu lit populus nec patris lacrim as nec ipsius parem in omni periculo animum, absolveruntque .admiratione..magis yjrtu tis quam iure causae. Itaque, u t caedes m anifesta aliq u ò Tamen piaculo lueretur, im peratum patri u t filium expiaret pecunia publica^ [13] Is, quibusdam piacularibus sacrificiis factis, quae deinde genti H oratiae trad ita sunt, transm isso per viam tigillo capite adoperto velu t sub iugum m isit iuvenem . Id hodie quoque publice semper refectum
3. I l padre a v e v a d iritto d i v it a e d i m orte sui figli, e p o te v a egli stesso istru ire il processo e dare la sen ten za a loro carico. 4. A l tem p o d i L iv io rim an e va ancora il nom e d i A rm i O razie al lu ogo d o ve u n tem p o si tr o v a v a n o appese le presun te arm atu re dei C uriazi.
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« 0 Publio Orazio, ti riconosco reo di alto tradimento: v a ’ , o littore, legagli le m ani ». [8] Il littore si era avvicinato e già gli poneva il laccio. A llora Orazio, per consiglio di Tulio, clem ente interprete della legge, disse: « Mi appello ». Così il ricorso fu presentato al giudizio del popolo. [9] In quel processo i cittadini furono commossi e influen za ti soprattutto dal padre Publio Orazio, il quale dichiarava di ritenere giusta l’uccisione della figlia: se non fosse stato così, egli stesso avrebbe punito il figlio col diritto datogli dalla patria p o te s tà 3. P regava inoltre che non togliessero l ’ultim o figlio a lui che fino a poco prim a avevano visto adorno di una bella progenie. [10] Dicendo queste parole il vecchio abbracciò il giovane, e additando le spoglie dei Curiazi, appese in quel luogo che ora prende il nome di A rm i O ra zie 4, soggiunse: « Quest’uomo, o Quiriti, che or ora avete visto incedere adorno delle spoglie conquistate e accla m ato per la vittoria, voi sopporterete di vederlo legato sotto la forca fra le frustate e i torm enti? Uno spettacolo così infam ante nemmeno gli occhi degli A lbani potrebbero tolle rarlo. [11] V a ’, o littore, lega quelle m ani che poco prim a arm ate conquistarono la supremazia al popolo romano. V a ’ , copri il capo del liberatore di questa città, appendilo all’al bero infecondo, frustalo dentro le m ura, m a fra quelle gloriose arm i e spoglie nemiche, e fuori delle m ura, m a fra le tom be dei Curiazi. D ove in fatti potete condurre questo giovane, senza che le testim onianze della sua gloria lo difendano dalla sì grande infam ia di questo supplizio? » [12] Il popolo nonfu insensibile alle lacrim e del padre ed al fiero contegno del figlio, intrepido in ogni pericolo, e lo assolse più per l ’ammi razione del valore che per il buon diritto della, causa.. P erò, affinché il patente assassinio fosse almeno espiato in qualche modo, fu ordinato al padre di fare un sacrifìcio espiatorio per il figlio a spese pubbliche. [13] E gli, com piuti alcuni sacrifici di espiazione, che furono poi tram andati alla gente Orazia, fece passare il giovane col capo velato sotto un trave che attraversava la strada, come sotto un giogo. Questo si conserva ancor oggi, sempre riparato a cura dello stato; lo
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manet; sororium tigillum v o c a n t 5. [14] H oratiae sepulcrum, quo loco corruerat icta, constructum est saxo quadrato. [27, 1] Nec diu p ax A lbana m ansit. Invidia vulgi, quod tribus m ilitibus fortuna publica commissa fuerit, vanum ingenium dictatoris corrupit, et quoniam recta consilia haud bene evenerant, pravis reconciliare popularium animos coepit. [2] Igitur, u t prius in bello pacem, sic in pace bellum quaerens, quia suae civ itati animorum plus quam virium cernebat esse, ad bellum palam atque ex edicto gerundum alios concitat populos, suis per speciem societatis proditionem reservat. [3] Fidenates, colonia R o m a n a 1, Veientibus sociis consilii adsum ptis, pacto transitionis Albanorum ad bellum atque arm a ineitantur. [4] Cum Fidenae aperte descissent, Tullus, M ettio exercituque eius ab A lb a accito, contra hostes ducit. U bi Anienem transiit, ad confìuentes collocat castra. Inter eum locum et Fidenas V eientium exercitus Tiberini transierat. [5] H i et in acie prope flumen tenuere dextrum cornu; in sinistro Fidenates propius montes consistunt. Tullus adversus Veientem hostem derigit suos, Albanos contra legionem Fidenatium conlocat. A lbano non plus anim i erat quam fìdei. N ec manere ergo nec transire aperte ausus sensim ad m ontes succedit; [6] inde, ubi satis subisse sese ratus est, erigit totam aciem fluctuansque animo, u t tereret tempus, ordines explicat. Consili'tìm erat, qua fortuna rem daret, ea inclinare vires. [7] Miraculo primo esse Rom anis qui proxim i steterant, u t nudari latera sua sociorum digressu senserunt; inde eques citato equo nuntiat regi abire Albanos.
5. O razio vien e fa tto passare so tto un sim bolico giogo di cara ttere m agico che lo purifica d ella colpa. I l tr a v e che si co n se rv av a in epoca sto rica, fra g li a lta r i d i Ja n u s Curiatius e d i Ju n o Sororia, era connesso con cerim onie di purificazione e di in iziazion e dei giovani; il nom e delle due d iv in ità fece poi sorgere la leggen da che so tto q u el tr a v e fosse passato O razio. 27. 1. P arlan d o d ella presa d i F iden e (14), L iv io non a v e v a d e tto che la c ittà fosse d iv e n ta ta una colonia rom ana. P rob ab ilm en te si t r a t ta di una an ticip azion e di u n a situazione posteriore, del v secolo a . C. (cfr. IV , 17, 1).
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chiamano trave sororale5. [14] A ll’Orazia fu elevato un K sepolcro di pietre quadrate nel luogo dove era cad uta colpita \ a morte. ___ [27, 1] L a pace con A lb a non durò a lungo. Il m alcon tento del volgo, perché la sorte dello stato era sta ta affidata alle m ani di tre soli soldati, influenzò l ’indole van a del dit tatore, e visto che i saggi consigli non avevano avu to esito fortunato, volle riconquistare il favore del popolo con i cat tiv i consigli. [2] Adunque, come prim a in guerra aveva cercato la pace, così ora in pace cercando la guerra, poiché ben vedeva che nel suo popolo v i era più anim osità che forza effettiva, istigò gli altri popoli a m uovere guerra aper tam ente e con dichiarazione formale, m entre per il suo popolo sotto la finzione dell’alleanza m editava il tradimento. [3] G li abitanti di Fidene, colonia ro m a n a 1, dalla pro messa di defezione degli A lbani vengono indotti a prendere le armi, e si alleano con i Veienti per l ’esecuzione del piano. [4] R ibellatasi apertam ente Fidene, Tulio, chiam ato in aiuto da A lb a Mezio col suo esercito, m uove contro i nemici; appena passato l ’Aniene pone il campo alla confluenza col Tevere. L ’esercito dei V eienti aveva varcato il Tevere fra quel punto e Fidene. [5] Questi anche nello schieram ento di b attaglia occupano l ’ala destra accanto al fiume; i Fidenati si pongono alla sinistra più vicino ai m onti. Tulio schiera i suoi contro i Veienti, e dispone gli A lbani contro l’esercito dei Fidenati. A ll’Albano, come prim a era m ancata la lealtà, ora m ancava il coraggio; non osando quindi né rimanere sul posto né passare apertam ente al nemico, lentam ente si accosta ai monti; [6] poi, giudicando di essersi allontanato abbastanza, fa salire l’intero esercito su di un colle, e, dub bioso sul da farsi, per prendere tem po spiega a b attaglia le file. Il suo disegno era di rivolgere le forze da quella parte dove la sorte facesse inclinare la vittoria. [7] D apprim a i Rom ani che gli stavano vicino rimasero stupefatti, quando videro che il loro fianco ven iva ad essere scoperto per l ’allon tanarsi degli alleati; poi un cavaliere a spron b attu to andò ad annunziare al re che gli A lbani se ne andavano.
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Tullus in re trepida duodecim v o v it S a lio s2 fanaque Pallori ac P a v o r i3. [8] E quitem clara increpans voce u t hostes exaudirent, redire in proelium iubet: nihil trepidatione opus esse; suo iussu circum duci A lbanum exercitum , u t Fidenatium nuda terga invadant; eidem im perat u t hastas equites erigere iubeat. [9] Id factum m agnae parti peditum Rom anorum conspectum abeuntis A lbani exercitus intersaepsit; qui viderant, id quod ab rege auditum erat rati, eo acrius pugnant. Terror ad hostes transit; et audiverant clara voce dictum, et m agna pars Fidenatium , ut qui coloni additi Rom anis essent, Latine sciebant. [10] Itaque, ne subito ex collibus decursu Albanorum intercluderentur ab oppido, terga vertunt. In stat Tullus fusoque Fidenatium cornu ih Veientem alieno pavore perculsum ferocior redit. Nec illi tulere im petum , sed ab effusa fuga lìumen obiectum ab tergo'* arcebat. [11] Quo postquam fuga inclinavit, alii arm a foede iactantes in aquam caeci ruebant, alii, dum cunctantur in ripis inter fugae pugnaeque consilium, oppressi. N on alia ante R om ana pugna atrocior fuit.
Tulio nella critica situazione fa voto di istituire un col legio sacerdotale di dodici S a lii2 e di fondare tem pli al Pallore ed al T erro re3. [8] Ordina al cavaliere di ritornare in battaglia, apostrofandolo ad a lta voce perché i nemici sentano: non c ’era alcun m otivo di temere, l’esercito albano com piva una m anovra aggirante per ordine suo, al fine di assalire le spalle indifese dei Fidenati; allo stesso comanda di dare ordine ai cavalieri che tengano alzate le lance. [9] Questo fatto precluse a gran parte della fanteria romana la vista dell’esercito albano che si allontanava; quelli che avevano visto, prestando fede alle parole udite dal re, per questo com battono con m aggior ardore. Lo sbigottim ento passa ai nemici: avevano udite le parole dette ad alta voce, e gran parte dei F idenati conosceva il latino, essendo stati ammessi a far parte della colonia romana. [10] Perciò, per non essere tagliati fuori dalla città da una repentina puntata degli A lbani giù dai colli, volgono le spalle. Tulio li incalza, e disfatta l’ala dei F idenati ritorna più baldanzoso contro i Veienti, scossi dalla fuga degli alleati. Neppure questi sostennero l ’assalto, m a il fiume che si frapponeva alle spalle li tratten eva dal fuggire a precipizio, [ n ] G iunti in fuga sulla sponda del fiume, alcuni gettando v ia vergognosam ente le arm i si precipitarono alla rinfusa nell’acqua, altri, che indugiavano sulla riva incerti fra il com battere o il fuggire, furono distrutti. Mai vittoria rom ana prim a di allora era sta ta più sanguinosa per i nemici.
[28, 1] Tum Albanus exercitus, spectator certaminis, deductus in campos. M ettius T ulio devictos hostes g r a tu la ta ; contra Tullus M ettium benigne adloquitur. Quod bene vertat, castra Albanos Rom anis castris iungere iubet; sacrifìcium lustrale in diem posterum parat. [2] U b i inluxit, paratis omnibus u t adsolet, vo ca li ad contionem utrum que exerci tum iubet. Praecones ab extrem o orsi primos excivere Albanos. H i novitate etiam rei moti, u t regem Rom anum contionan-
2. Si t r a t t a di un secondo collegio di Salii, oltre a qu ello istitu ito da N u m a. 3. I l P allo re e il T errore sono d iv in ità che ge ttan o la p au ra e lo scom p iglio fra i nem ici; non abbiam o però n o tizia d a a ltra fon te di qu esti tem p li, e forse il p a rtico la re fu a ggiu n to p er dare a l racco n to un colorito epico.
[28, 1] A llora l ’esercito albano, spettatore della battaglia, fu ricondotto nella pianura. Mezio si rallegra con Tulio che i nemici siano sta ti disfatti; Tulio a sua vo lta si rivolge con parole benevole a Mezio. Con l ’augurio che la cosa riesca felicemente, dà ordine agli A lbani di unire il loro accam pa m ento a quello romano, e fa preparare un sacrificio purificatorio per il giorno seguente. [2] A ll’alba, com piuti i prepa rativi di rito, convoca in assemblea entram bi gli eserciti. I banditori, cominciando dall’estrem ità, chiam ano per primi gli Albani; questi, a ttira ti anche dalla novità della cosa, per ascoltare la concione del re romano occupano le prime posi-
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tem audirent proxim i constitere. [3] E x composito arm ata circum datur Rom ana legio; centurionibus datum negotium erat u t sine mora imperia exsequerentur. [4] Tum ita Tullus infit: «Rom ani, si um quam ante alias ullo in bello fuit quod primum dis im m ortalibus gratias ageretis, deinde vestrae ipsorum virtu ti, hesternum id proelium fuit. D im icatum est enim non magis cum hostibus quam, quae dim icatio maior atque periculosior est, cum proditione ac perfìdia sociorum. [5] N am , ne vos falsa opinio teneat, iniussu meo A lbani subiere ad montes, nec imperium illud meum, sed consilium et imperii sim ulatio fuit, u t nec vobis ignorantibus deseri vos averteretur a certam ine animus, et hostibus circum veniri se ab fergo ratis terror ac fuga iniceretur. [6] N ec ea culpa quam àrguo omnium Albanorum est; ducem secuti sunt, ut et vos, si quo ego inde agmen declinare voluissem, fecissetis. M ettius ille est ductor itineris huius, M ettius idem huius machinator belli, M ettius foederis Rom ani A lbanique ruptor. A udeat deinde talia alius, nisi in hunc insigne iam documentum m ortalibus dedero ». [7] Centuriones arm ati M ettium circumsistunt; rex cetera u t orsus erat peragit: « Quod bonum faustum felixque sit populo Rom ano ac m ihi vobisque, Albani, populum omnem Albanum Rom am traducere in animo est, civitatem dare plebi, primores in patres legere, unam urbem, unam rem publicam facere. U t ex uno quondam in duos populos divisa A lbana res est, sic nunc in unum redeat ». [8] A d haec A lbana pubes, inermis ab arm atis saepta, in variis voluntatibus communi tam en m etu cogente, silentium tenet. [9] Tum Tullus « M etti F ufeti » inquit, « si ipse discere posses fìdem ac foedera servare, v iv o tib i ea disci plina a me adhibita esset; nunc, quoniam tuum insanabile ingenium est, a t tu tuo supplicio doce hum anum genus ea sancta credere quae a te vio lata sunt. U t igitur paulo ante
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zioni. [3] Secondo il disegno prestabilito l ’esercito romano arm ato si dispone loro intorno in cerchio; i centurioni hanno ordine di eseguire senza indugio i comandi. [4] P oi così Tulio comincia a parlare: « O Rom ani, se m ai altra volta nel pas sato capitò che in guerra doveste ringraziare in primo luogo gli dèi imm ortali, e poi il vostro valore personale, questo è proprio il caso della b attaglia di ieri. A bbiam o com battuto infatti, più che contro i nemici,' contro la perfidia traditrice degli alleati, lo tta ancor più dura e pericolosa. [5] Infatti, perché non rim aniate in una falsa opinione, v i dirò che senza mio ordine gli A lb ani salirono sui colli, né il mio fu un comando, m a u n ’astuzia e una finzione di comando, affinché, ignorando di essere traditi, i vostri animi non fossero sco raggiati dalla lotta, e nei nem ici il pensiero di venir circon dati alle spalle gettasse il terrore e la fuga. [6] L a colpa di cui m uovo accusa non ricade su tu tti gli A lbani: essi hanno seguito il loro comandante, come avreste fatto anche voi, se 10 avessi voluto allontanare l’esercito in qualche altra parte. Mezio li ha guidati per questo cammino, Mezio ha m acchi nato questa guerra, Mezio ha violato il p atto fra Rom ani ed Albani. Osi un altro una simile infam ia, se io nei suoi riguardi non offrirò alle genti m ortali un esempio memora bile ». [7] I centurioni arm ati circondano Mezio; il re con chiude il discorso così come l ’aveva cominciato: « Possa ciò essere di buon augurio, fausto e felice al popolo romano, e a me, e a voi, o Albani: io intendo trasferire a R om a tutto 11 popolo albano, dare la cittadinanza rom ana alla plebe, am m ettere nel senato i nobili, fare una sola città e un solo stato. Come un tem po lo stato di A lb a da uno è stato diviso in due popoli, così ora ritorni in uno solo ». [8] A queste parole gli uomini di A lba, inermi e circon dati da arm ati, pur fra la discordanza delle opinioni costretti dal comune tim ore rimangono m uti. [9] A llora Tulio disse: « O Mezio Fufezio, se tu fossi capace di im parare a rispettare la parola data e i patti, lasciandoti in v ita cercherei di m etterti a questa scuola; m a ora, poiché la tu a natura è incorreggibile, tu insegnerai col tuo supplizio agli uomini a ritenere inviolabili quelle leggi che da te sono state violate.
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animum inter Fidenatem Rom anam que rem an'cipitem gessisti, ita iam corpus passim distrahendum dabis ». [10] Exinde duabus adm otis quadrigis in currus earum distentum inligat Mettium , deinde in diversum iter equi concitati, lacerum in utroque curru corpus, qua inhaeserant vinculis membra, portantes. [11] A vertere omnes ab tan ta foeditate spectaculi oculos. Prim um ultim um que illud supplicium apud Rom anos éxem pli parum memoris legum hum anarum fuit; in aliis gloriari licet nulli gentium mitiores placuisse p o en a s1.
Come dunque poco fa tenesti l ’animo diviso fra Fidene e Rom a, cosi ora toccherà al tuo corpo di essere diviso in diversa direzione ». [10] Quindi accostate due quadrighe fece distendere e legare Mezio sul loro tavolato, poi i cavalli furono spronati in direzione opposta, trasportando sui due carri le m embra del corpo lacerato che erano rim aste attac cate alle corde. [11] T u tti distolsero gli occhi da uno spet tacolo così atroce. Questo fu il primo e l ’ultim o caso in Rom a di una pena poco rispettosa delle leggi umane; negli altri casi nessun altro popolo può vantarsi di aver adottato pene più m it i1.
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[29, 1] Inter haec iam praemissi Albana erant equites qui m ultitudinem traducerent R om am ./ Legiones deinde ductae ad diruendam urbem. [2] Quae ubi intravere portas, non qùidem fuit tum ultus ille nec pavor, qualis captarum esse urbium solet, cum effractis portis stratisve ariete muris aut a rcé v i capta clam or hostilis et cursus per urbem armatorum om nia ferro flam m aque miscet; [3] sed^silentium triste ac tacita m aestitia ita defìxit omnium animos, ut prae m etu obliti quid relinquerent, quid secum ferrent, defi ciente consilio^rogitantesque alii alios nunc^in liminibus starent, ^nunc errabundi domos suas ultim um illud visuri pervagarentur) [4] U t vero iam equitum clam or exire iubentium instabat, iam fragor tectorum quae diruebantur ultim is urbis partibus audiebatur, pulvisque ex distantibus locis ortus velu t nube inducta omnia im pleverat, raptim quibus quisque poterat elatis c.um larem ac penates tectaque in quibus natus quisque educatusque esset relinquentes exirent, [5] iam continens agmen m igrantium im pleverat vias, et conspectus aliorum m utua m iseratione integrabat lacrimas, vocesque etiam miserabiles exaudiebantur, mulierum praecipue, cum obsessa ab arm atis tem pia augusta praeterirent ac velu t captos relinquerent deos^ [6] Egressis urbe Albanis,
28. 1. I R o m an i si v a n ta v a n o d e lla m itezza e d e ll’u m an ità delle loro pene, e quin di L iv io p resen ta il supplizio d i M ezio F u fezio com e u n ’ecce zione. Q u esta form a di supplizio so p ravvisse a lungo presso le popolazioni germ aniche, ed è probabile che fosse in uso n ella fase p reistorica del popolo rom ano.
[29, 1] F rattan to ferano già stati m andati innanzi ad A lb a i cavalieri, per far emigrare la popolazione a Rom a. Poi la fanteria fu condotta a distruggere la città. [2] Quando i soldati varcarono le porte, non v i erano quel tum ulto e quel terrore che sogliono prodursi nelle città prese, quando infrante le porte o ab battu te le m ura cogli arieti, o conqui stata la rocca a forza, il clamore dei nem ici e il dilagare degli arm ati per la città ogni cosa sconvolge col ferro e col fuoco; [3] invece ^un doloroso silenzio ed una tacita m estizia stringevano gli animi di tu tti, al punto che non curandosi per l ’angoscia di ciò che dovevano lasciare o portare con sé, incapaci di una risoluzione e vanam ente l ’uno all’altro chiedendo consiglio, ora indugiavano sulla soglia, ora va g a vano con passo incerto per vedere per l ’ultim a vo lta le loro case. [4] M a quando ormai incalzavano le grida dei cavalieri che ordinavano di uscire, e già si u diva il fragore delle case che venivano ab battu te all’estremo della città, e la polvere levatasi da luoghi lontani tu tto aveva avvo lto in una densa nebbia, ciascuno preso in fretta ciò che p oteva usciva abban donando il focolare, i penati e la casa in cui era nato e cresciuto; [5] e già una fila ininterrotta di profughi riem piva le strade, e alla v ista dei compagni di sventura la m utua commiserazione rinnovava il pianto, e si udivano inoltre voci strazianti, soprattutto delle donne, quando passavano dinanzi ai sacri tem pli occupati dai soldati, quasi dovessero abbandonare gli dèi prigionieri^ [6] U sciti gli A lbani dalla
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Rom anus passim publica privataque om nia tecta adaequat solol unaque hora quadringentorum annorum opus, quibus A lBa steterat, excidio ac ruinis dedit; tem plis tam en deum - ita enim edictum ab rege fuerat - tem peratum est, f [30, 1] R om a interim crescit A lbae ruinis. D uplicatur civium numerus; C aeliu s1 additur urbi mons et, quo frequentius habitaretur, eam sedem Tullus regiae capit ibique h abitavit. [2] Principes Albanorum in patres, u t ea quoque pars rei publicae cresceret, legit: Iulios, Servilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; tem plumque ordini ab se aucto curiam fecit, quae H o s tilia 2 usque ad patrurn nostrorum aetatem appellata est. [3] E t ut omnium ordinimi viribus aliquid ex novo populo adiceretur, equitum decem turm as ex Albanis legit, legiones et veteres eodem supplem ento3 exp levit et novas scripsit. [4] H ac fiducia virium Tullus Sabinis bellum indicit, genti ea tem pestate secundum Etruscos opulentissimae viris armisque. [5] U trim que iniuriae factae ac res nequiquam erant repetitae: Tullus ad F ero n iae4 fanum m ercatu fre quenti negotiatores Rom anos comprehensos querebatur, Sabini suos prius in lucum confugisse ac Rom ae retentos. H ae causae belli ferebantur./ [6] Sabini, haud parum memores et suarum virium partem Rom ae ab T a tio locatam et Rom anam rem nuper etiam adiectione populi A lbani auctam , circumspicere et ipsi externa auxilia. [7] E tru ria erat vicina, p rtS im i“Etrftscorum Veientes. Inde ob residuas bellorum iras m axim e sollicitatis ad defectionem animis voluntarios traxere, et apud vagos quosdam ex inopi plebe etiam merces valuit; publico auxilio nullo adiuti sunt, valuitque 30. 1. L ’ a ggiu n ta del Celio a lla c ittà vien e a ttr ib u ita d a i v a r i autori a so vran i diversi; in genere v i è la ten d en za ad assegnare a i se tte re un diverso colle com e sede d i ab itazion e, m a le versioni non sono concordi. 2. L a cu ria O stilia, a ttr ib u ita generalm ente a T u lio O stilio, fu a b b a t tu ta n el 44 a. C. d a Cesare, p er fare p osto a lla curia G iulia. 3 . L a ca v a lle ria risu ltò ra d d o p p ia ta (ogni squadrone è d i 3 0 uomini), e a ltre tta n to a vv en n e d e lla fan teria. 4. D iv in ità agreste d i origine sabin a, il cu i san tu ario p iù noto, sede di fiere fre q u e n ta te d a R o m an i, S ab ini ed E tru sch i, so rgeva a lle fald e d e l m on te S o ra tte, a nord d i R o m a su lla r iv a d estra del T evere.
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città, i Rom ani spianano al suolo tu tti gli edifici pubblici e p r iv a t ijjd in un solo m omento dànno in preda alla distru zione e alla rovina l ’opera di quattrocento anni, quanti A lb a era esistita; tu tta v ia risparmiarono i tem pli degli dèi, secondo l ’ordine dato dal r e .^ [30, 1] F rattan to R om a si ingrandisce sulle rovine di A lba. Il numero dei cittadini fu raddoppiato; venne aggiunto alla città il m onte Celio *, e per invogliare ad abitarlo Tulio v i pose la sede della reggia, e v i abitò stabilm ente. [2] A m mise poi nel senato le principali fam iglie albane, perché anche questa parte dello stato crescesse: i Giulii, i Servili, i Quinzi, i Gegani, i Curiazi, i Cieli; e fissò come sede delle adunanze per il consesso così accresciuto la curia che fino al tem po dei nostri padri fu chiam ata O stilia 2. [3] Infine, per incrementare le forze di tu tti gli ordini con l ’apporto del nuovo popolo, formò dieci squadroni di cavalleria con uomini albani, accrebbe gli effettivi delle vecchie legioni di fanteria nella stessa proporzione3 e ne costituì delle nuove. .
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[4] Contando su queste nuove forze Tulio dichiarò guerra ai Sabini, il popolo più potente in quel tem po per uom ini e forza m ilitare, dopo gli Etruschi. [5] D a am bo le p arti erano state commesse violenze e invano era stata chiesta soddisfa zione: Tulio lam entava che alcuni m ercanti rom ani fossero \ sta ti arrestati presso il tem pio di F e ro n ia 4 durante una fiera; affollata, e i Sabini che i loro concittadini in precedenza si 1 erano recati nel bosco sacro ed erano sta ti tratten u ti a l Rom a. Questi erano i m otivi di guerra che venivano ad- i dotti. [6] I Sabini, non dim enticando che una parte delle loro forze era stata trasferita a Rom a da Tazio, e che la potenza di R om a poc’anzi era ancora stata accresciuta dall’annessione del popolo albano, cercarono anch’essi l’aiuto di forze stra niere. [7] E ra vicin a l ’E truria, e più vicini fra gli E truschi i Veienti. D a questi, il cui animo era m aggiorm ente spinto a ribellarsi ai p atti per i rancori lasciati dalle guerre prece denti, ebbero l ’aiuto di volontari, ed alcuni vagabondi della plebe più povera furono anche a ttirati col denaro; m a non 13 . L iv io , I.
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apud Veientes (nam de ceteris minus mirum est) p acta cum Rom ulo 5 indutiarum fides. [8] Cum bellum utrim que summa ope pararent vertique in eo res videretur, utri prius arm a inferrent, occupat Tullus in agrum Sabinum transire. [9] P ugna atrox ad silvam M alitiosam 6 fuit, ubi et peditum quidem robore, ceterum equitatu aucto nuper plurimum R om ana acies valuit. [10] A b equitibus repente invectis tu rbati ;ordines sunt Sabinorum; nec pugna deinde illis constare nec fuga explicari sine m agna caede potuit. [31, 1] ^Devictis Sabinis cum in m agna gloria magnisque opibus regnum T u lli ac to ta res Rom ana esset, nuntiatum regi patribusque est in m onte A lbano lapidibus pluvisse. [2] Quod cum credi v ix posset, missis ad id visendum prodigium, i|i conspectu haud aliter quam cum grandinem venti glom eratam in terras agunt, crebri cecidere caelo lapides. [3] V isi etiam audire vocem ingentem ex summi cacuminis luco u t patrio ritu sacra A lbani facerent, quae velut diis quoque simul cum patria relictis oblivioni dederant, et aut Rom ana sacra susceperant aut fortunae, u t fit, obirati cultum reliqueran t deum. [4] Rom anis quoque ab eodem prodigio noven diale sacru m 1 publice susceptum est, seu voce cad esti ex A lbano m onte missa - nam id quoque traditur - seu haruspicum monitu; m ansit certe sollemne ut, quandoque idem prodigium nuntiaretur, -feriae per novem dies agerentujJ [5] H aud ita m ulto v post pestilentia laboratum est. U nde cum pigritia m ilitandi oreretur, nulla tam en ab armis quies dabatur a bellicoso rege, salubriora etiam credente
5 S i t r a t t a d ella treg u a m en zion ata a l cap ito lo 15, m a L iv io pare essersi dim en ticato della n u o v a gu erra coi V e ie n ti di cu i h a p a rlato poco p rim a. (Cfr. cap. 27). 6. N on sappiam o d o ve si tro v asse q u e sta selv a, probabilm en te cosi ch ia m a ta perché in fe sta ta d a b rigan ti. 3 1 . 1. I l racco n to vu o le spiegare l ’origine delle Feriae Latinae, che si celebravan o ann u alm en te con sacrifìci a G iove sul m on te A lb a n o, e com p o rta v a n o la sospensione d i t u t t i g li affari p er n o v e giorni. A ltr e feriae p o tev a n o essere in d e tte in occasione d i g ra v i prodigi; il racco n to livian o sem bra con tam in are le ferie an n u ali con quelle straordin arie.
195 ricevettero alcun aiuto ufficiale, poiché i V eienti rimasero fedeli alla tregua stipulata con R o m o lo 5; quanto agli altri popoli etruschi è meno strano che non abbiano partecipato alla guerra. [8] Mentre la guerra ven iva preparata da en tram be le p arti con grandi mezzi, e questo solo sem brava incerto, chi dei due avrebbe attaccato per primo, Tulio decise di prevenire l ’avversario passando in territorio sabino. [9] V i fu una sanguinosa b attaglia presso la selva M aliziosa 6, dove l ’esercito romano ebbe il sopravvento anche grazie alla solidità della fanteria, m a soprattutto per m erito della cavalleria recentem ente rinforzata. [10] L e schiere dei Sabini furono scom pigliate da una carica im provvisa dei cavalieri, in seguito alla quale non riuscirono più né a sostenere la lo tta né ad effettuare la fuga senza gravi perdite.
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[31, 1] V in ti i Sabini, m entre grandi erano la gloria e la potenza del regno di Tulio e di tu tto lo stato romano, fu annunziato al re ed al senato che sui m onti A lb a n i erano piovute pietre. [2] Stentandosi a prestar fede alla cosa, le persone m andate ad osservare quel prodigio videro coi loro occhi cadere dal cielo una pioggia di pietre, non altrim enti che quando i ven ti riversano sulla terra una fitta grandinata. [3] P arve anche di udire una gran voce proveniente dal bosco sacro sulla som m ità del monte, la quale am m oniva gli A lb ani a compiere le sacre cerimonie secondo il rito patrio, che avevano lasciato nell’oblio, quasi abbandonando gli dèi insieme con la patria, ed o avevano assunto riti rom ani, o, come spesso avviene, avevano trascurato il culto degli dèi essendo adirati contro la sorte. [4] Anche i R om ani in seguito a questo prodigio intrapresero un pubblico rito espia torio di nove g io rn i1, sia per un ordine celeste ven u to dal m onte A lbano (come alcuni tramandano), o sia per consiglio degli aruspici; comunque è certo che rimase l ’usanza di cele brare una festa sacra di nove giorni ogni q u alvolta venisse annunciato questo prodigio. ( ^rj [5] N on m olto tem po dopo si ebbe a soffrire u n a pesti lenza. Per quanto ne risultasse dim inuito l ’ardore di com battere, pure il bellicoso re non d ava tregua alcun a alle
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m ilitiae quam domi iuvenum corpora esse, donec ipse quo que longinquo morbo est im plicitus. [6] ' Tunc adeo fracti sim ul cum corpore sunt spiritus illi feroces, ut, qui nihil ante ratus esset m inus regium quam sacris dedere animum, repente omnibus m agnis parvisque superstitionibus obnoxius degeret, religionibusque etiam populum impleret. [7] V ulgo iam homines eum statarti rerum qui sub N um a rege fuerat requirentes, unam opem aegris corporibus relictam , si p a x veniaque ab diis im petrata esset, credebant. [8] Ipsum regem tradunt volventem commentarios Numae, cum ibi quaedam occulta sollemnia sacrificia Io vi Elicio facta invenisset, operatum iis sacris se abdidisse; sed non j rite initum aut curatum id sacrum esse, nec solum nullam ei oblatkm caelestium speciem, sed ira Iovis sollicitati p rava \ religione|fulmine ictum cum domo conflagrassej Tullus m agna gloria belli regnavit annos duos et triginta. [32, 1] Mortuo Tulio res, u t institutum iam inde ab initio erat, ad patres redierat, hique interregem nom inaverant. Quo com itia habente Ancum Marcium regem populus creavit; patres fuere auctores. N um ae Pom pili regis nepos, filia ortus, Ancus Marcius erat. [2] Qui u t regnare coepit, et avitae gloriae memor, et quia proxim um regnum, cetera egregium, ab una parte haud satis prosperum fuerat, aut neglectis religionibus aut prave cultis, longe antiquissimum ratus sacra publica u t -ab N um a instituta erant facere, om nia ea ex commentariis regiis pontifìcem in album elata proponere in publico iubet... Inde et civibus otii cupidis et finitimis civitatibus facta spes in a vi mores atque instituta regem abiturum . [3T Igitur L atini, cum quibus Tulio re gnante ictum foedus erat, sustulerant animos, et cum in-
197 armi, ritenendo che la salute del corpo avrebbe tra tto m ag gior giovam ento dalle cam pagne m ilitari che dalla v ita domestica, finché anch’egli fu colto da una ostinata infermità.-^ [6] lÀllora a ta l punto fu fiaccato insieme col corpo il suo spirito guerriero, che d ’un tratto colui il quale prim a nulla giudicava meno degno di un re che dedicarsi alle cose della religione, si diede a vivere prono ad ogni superstizione grande e piccola, e riempì di scrupoli religiosi anche il popolo. [7] Orm ai gli uom ini volevano tornare tu tti a quella form a di v ita che avevano condotto sotto il regno di Num a, cre dendo che l ’unica salvezza rim asta per i corpi inferm i fosse l’ottenere pace e perdono dagli dèi. [8] Dicono che il re stesso, consultando i libri sacri di N um a, come v i trovò menzione di alcuni rituali sacrifici segreti in onore di Giove Elicio, si appartò per compiere questi riti; m a il sacrificio non fu iniziato o svolto secondo le prescrizioni, e quindi non solo non gli apparve alcun segno della volontà divina, m a essendosi Giove sdegnato per la m ancata osservanza delle norme religiose, Tulio colpito dal fulmine arse insieme con la casa iT u llo regnò trentadue anni con grande gloria militare. \ — . [32, 1] A lla m orte di Tulio il potere tornò al senato, secondo la norm a introdotta fin dall’inizio della monarchia, e i senatori nominarono un interré. A vendo questi convocato i comizi, il popolo elesse re Anco Marcio, e il senato ratificò l’elezione. A nco Marcio era nipote del re N um a Pompilio, essendo nato da una sua figlia. [2] A ppena salì al trono, memore della fam a dell’avo, e poiché il regno precedente, glorioso per gli altri riguardi, per questo solo m otivo non era stato pienam ente fortunato, che la religione era stata trascurata o m ale praticata, stimando che fosse cosa della massima im portanza il compiere i sacri riti pubblici come erano stati istituiti da Num a, ordinò al pontefice di esporre in pubblico affisse all’albo tu tte le prescrizioni tra tte dai libri sacri del re. D a questo fatto sia i cittadini, desiderosi di pace, e sia le città vicine trassero la speranza che il re sarebbe tornato ai costum i e alle usanze dell’avo. [3] Per tanto i Latini, coi quali Tulio aveva conchiuso un trattato,
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cursionem in agrum Rom anum fecissent, repetentibus res Rom anis superbe responsum reddunt, desidem Rom anum regem inter sacella et aras acturum esse regnum rati. [4] Medium erat in Anco ingenium, et Num ae et Rom uli memor; et praeterquam quod a vi regno magis necessariam fuisse pacem credebat cum in novo tum feroci populo, etiam quod illi contigisset otium sine iniuria, id se haud facile habiturum ; tem ptari patientiam et tem ptatam contemni, tem poraque esse Tulio regi aptiora quam Numae. [5] U t tam en, quoniam N um a in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente A eq u ico lis1, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur. [6] L egatus ubi ad fines eorum ven it unde res repetuntur, capite velato filo - la n a e 2 velam en est « Audi, Inppiter », inquit; « audite, fines » - cuiuscumque gentis sunt, nom inat - ; « audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Rom ani; iuste pieque legatus veniò, verbisque meis fides sit ». [7] Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: « Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier m ihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse ». [8] H aec cum fines superscandit, haec quicum que ei primus v ir obvius fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus paucis verbis carminis concipiendique iuris iurandi m utatis peragit. [9] Si non deduntur quos exposcit, diebus trib,us et triginta - to t enim sollemnes sunt - peractis bellum ita indicit: [10] «Audi, Iuppiter, et tu, lan e Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum » - quicum que est, nom inat - « iniustum esse neque 32. 1. E q u ico li è u na seconda form a d e l nom e d egli E q u i, popolo del L azio; forse l ’origine del rito feziale d elia dichiarazione d i gu erra ven n e ad essi a ttr ib u ita p er u na falsa etim ologia, da aequum colere. I l ritu a le rip o rta to da L iv io sulle m o d a lità della dichiarazione d i gu erra è certo assai antico, anche se il lin gu aggio è m odern izzato, e risale a ll’epoca in cui le guerre a ve va n o p er lo più origin e da fu rti di bestiam e; d i q u i la form ula d ella rerum repetitio. L e fo rm alità della dichiarazione d i guerra dim ostrano lo scrupoloso risp e tto d elle leggi um an e e d ivin e a cui si atte n ev an o i R o m a n i n elle relazion i con i p op oli stranieri. 2. A lla la,na a n tica m en te v e n iv a a ttrib u ito u n potere m agico.
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ripresero baldanza, e dopo aver fatto una scorreria in terri torio romano, diedero una risposta arrogante ai Rom ani ven uti a chiedere soddisfazione, convinti che il re di R om a im belle avrebbe trascorso il suo regno fra cappelle ed altari. [4] L ’indole di Marcio era interm edia fra quella di N um a e quella di Romolo, e partecipe di entrambi; pensava che al «regno dell’avo era stata più necessaria la pace, trattandosi di un popolo nuovo e bellicoso, ed inoltre che se quello era stato lasciato tranquillo senza dover subire aggressioni, egli non avrebbe facilm ente ottenuto la stessa cosa; stavano * m ettendo alla prova la sua rem issività, e una volta che fosse p rovata intendevano farsene gioco: i tem pi erano più adatti a un Tulio che a un Numa. [5] T u tta via , poiché N um a aveva istitu iti i riti religiosi di pace, volendo per parte sua istituire un sacro cerimoniale di guerra, perché non si facessero guerre senza prim a averle dichiarate secondo un certo rito, introdusse dall’antica gente degli E q u ic o li1 il rituale per chiedere soddisfazione, che ancor oggi i feziali osservano. [6] Quando l’am basciatore giunge al confine di quel popolo a cui si chiede soddisfazione, col capo cinto da una benda di la n a 2 dice: « A scolta, o Giove, ascoltate, o confini - e fa il nome del popolo cui apparten• gono - , ascolti la giustizia divina: io sono il pubblico rap presentante del popolo romano; vengo delegato giustam ente e santam ente, e alle mie parole sia prestata fede ». [7] Quindi espone le richieste, ed invoca Giove a testimonio: « Se ingiu stam ente ed em piamente chiedo che mi siano consegnati quegli uomini e quelle cose, non lasciare che m ai più io sia partecipe della p atria ». [8] Queste cose ripete quando varca il confine, quando incontra il primo uomo in territorio ne mico, quando entra nella città e quando giunge nel foro, m utando solo poche parole della form ula e del giuramento. [9] Se non vengono consegnate le persone richieste, passati trentatré giorni (questo in fatti è il numero prescritto) in questo modo dichiara la guerra: [10] « A scolta, o Giove, e tu, o Giano Quirino, e voi tu tti, o dèi del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate; io v i invoco a testim oni che quel popolo - e qui ne fa il nome - è ingiusto e non concede
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ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscam u r». T u m 3 j ...............................f nuntius Rom am ad consulendum redit. [ n ] Confestim rex his ferme verbis patres consulebat: « Quarum rerum, litium , causarum condixit pater patratus populi Rom ani Quiritium patri patrato Priscorum L atin o rum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res dari, fieri solvi, oportuit, die » inquit ei quem prim um sententiam rogabat, « quid censes? » [12] Tum ille: « Puro pioque duello quaerendas censeo, itaque consentio consciscoque ». Inde ordine alii rogabantur; quandoque pars m aior eorum qui aderant in eandem ;sententiam ibat, bellum erat consensum. Fieri solitum u t fetialis hastam ferratam aut sanguineam 4 praeustam ad fìnes forum ferret et non m inus tribus puberibus praesentibus (liceret: [13] « Quod populi Priscorum Latinorum hom inesve Prisci L atin i adversus populum Rom anum Quiri tium fecerunt, deliquerunt, quod populus Rom anus Quiri tium bellum cum Priscis L atinis iussit esse senatusve populi Rom ani Quiritium censuit, consensit, conscivit u t bellum cum Priscis L atin is fìeret, ob eam rem ego populusque Rom anus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis L atin is bellum indico facioque ». [14] Id ubi dixisset, hastam in fìnes eorum em ittebat. H oc tum modo ab L atin is repetitae res ac bellum indictum , moremque eum posteri acceperunt. v
[33 , 1] Ancus, dem andata cura sacrorum fìaminibus sacerdotibusque aliis, exercitu novo conscripto profectus P o lito riu m 1, urbem Latinorum , v i cepit, secutusque morem regum priorum, qui rem Rom anam auxerant hostibus in civitatem accipiendis, m ultitudinem omnem Rom am traduxit,
la dovuta riparazione. Ma su queste cose consulteremo gli anziani in patria, sul modo come possiamo far valere il nostro buon diritto ». P o i 3 il messaggero ritorna a Rom a a riferire. [11] Im m ediatam ente il re consultava il senato all’incirca con queste parole: « Intorno alle cose, controversie e accuse di cui il padre p atrato del popolo romano dei Q uiriti trattò col padre patrato dei Prischi L atin i e con gli uomini Prischi Latini, le quali cose né restituirono, né fecero, né pagarono, m entre era doveroso che fossero restituite, fatte, pagate, dimmi - diceva rivolto a colui che per primo ven iva richiesto del suo parere - che cosa proponi? ». [12] A llora quello rispondeva: « Propongo che si richiedano con pia e santa guerra: a questo mi associo e questo approvo ». Quindi veni vano interrogati gli altri per ordine; e se la m aggior parte dei presenti era dello stesso parere, la guerra era decisa. E ra usanza che il feziale portasse al confine nemico un’asta con la punta di ferro, oppure di corniolo ro sso 4 aguzzata nel fuoco, e dicesse alla presenza di almeno tre uom ini atti alle armi: [13] « Poiché i popoli dei Prischi L atin i e gli uomini Prischi L atin i agirono ingiustam ente contro il popolo romano dei Quiriti, poiché il popolo romano dei Q uiriti ha ordinato che v i fosse guerra coi Prischi L atin i, e il senato del popolo romano dei Q uiriti ha proposto, approvato, deli berato che si facesse la guerra coi Prischi L atin i, per questo io a nome del popolo romano dichiaro e m uovo guerra ai popoli dei Prischi L atin i e agli uomini Prischi L atin i ». [14] D etto ciò scagliava l ’asta nel loro territorio. In questo modo allora fu richiesta soddisfazione e fu dichiarata guerra ai L atin i, e i posteri conservarono quel rito.
,
n . 3. I l te s to dei m a n o scritti è guasto, e m i sono lim ita to a fornire una versione d i agevo le le ttu ra , p er q u an to t u t t ’a ltro che certa. 4. S ia il ferro che i l legno d i corniolo, com e p ia n ta infeconda, a ve va n o p otere m agico. 33. x. P o lito rio , com e T ellen e, F ica n a e M edullia n om inate più a v a n ti, erano p icco le c ittà la tin e v icin e a R o m a d i cu i non abbiam o più tra c cia sicu ra in e tà storica.
[33 ,
1] Anco, affidate le cure del culto ai flam ini ed agli
altri sacerdoti, arruolato un nuovo esercito mosse contro P o lito rio 1, città dei L atini, la prese d’assalto, e seguendo la politica dei re precedenti, che avevano accresciuto le forze di R om a coll’accogliere i nemici nella cittadinanza romana,
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[2] et cum circa Palatium , sedem veterum Romanorum, Sabini Capitolium atque arcem, Caelium montem Albani implessent, A ventinum novae m ultitudini datum . A d d iti eodem haud ita m ulto post, Tellenis Ficanaque captis, novi cives. [3] Politorium inde rursus bello repetitum , quod vacuum occupaverant Prisci Latini, eaque causa diruendae urbis eius fuit Rom anis, ne hostium semper receptaculum esset. [4] Postrem o omni bello L atino M edulliam com pulso, aliquam diu ibi M arte incerto varia victoria pugnatum est; nam et urbs tu ta m unitionibus praesidioque firm ata valid o erat, et castris in aperto positis aliquotiens exercitus Latinus comminus cum Rom anis signa contulerat. [5] A d ultim imi; omnibus copiis conisus Ancus acie prim um vincit; inde ingenti praeda potens Rom am redit, tum quoque m ultis m ilibus Latinorum in civitatem acceptis, quibus, ut iungeretuS P alatio A ventinum , ad Murciae 2 datae sedes. [6] Ianiculum quoque adiectum , non inopia loci, sed ne quando ea arx hostium esset. Id non muro (m uniri) solum, sed etiam ob com m oditatem itineris ponte su b licio 3, tum prim um in Tiberi facto, coniungi urbi placuit. [7] Quiritium quoque fo ss a 4, haud parvum m unim entum a planioribus aditu locis, A nci regis opus est. [8] Ingenti incre m ento rebus auctis, cum in tan ta m ultitudine hominum, ^discrim ine recte an perperam facti confuso,j facinora clan destina fierent, c a r c e r 5 ad terrorem increscentis audaciae m edia urbe imminens foro, aedificatur. [9] N ec urbs tantum hoc rege crevit, sed etiam ager fìnesque: silva M a esia 6 2. M urcia, d iv in ità la tin a eponim a del mons M urcus, l ’A v e n tin o su d orientale, a v e v a un tem p io n ella v a lle d e tta appun to M urcia, fra il P a la tin o e l ’A ven tin o . 3. S i t r a t t a del p o n te S ublicio (il cu i nom e significa ap p u n to fa tto di p a li d i legno, da sublica), che sorgeva d o ve l ’an sa d e l T ev ere lam bisce le fald e del C am pidoglio e d e l P a la tin o . A differenza d ella versione d a ta da L iv io , p ro babilm en te i l G ianicolo fu fo rtificato p er pro teggere il p on te da a tta c c h i n em ici. 4. L a fossa Q uiritium d o v e v a tro v a rsi n ella p a rte m eridionale della c ittà , in torn o a ll’A v e n tin o . L ’au to re d e l D e viris illusiribus la iden tifica con la cloaca maxima, e forse u n ’a n tica fossa v e n iv a v aria m e n te sp iegata com e op era difen siva e com e cloaca. 5. È il carcere d e tto T u llia n o o M am ertino, sc a v a to n ella ro ccia del C am pidoglio, am p liato da S ervio T u llio , che ancora oggi si conserva. 6. L a selv a M esia si ste n d ev a su lla destra del corso in feriore del T evere.
ne trasferì tu tta la popolazione a Roma; [2] e poiché intorno al Palatino, sede dei prim i Rom ani, i Sabini si erano stabiliti sulla rocca e sul Campidoglio, e gli A lbani sul m onte Celio, alla nuova popolazione fu assegnato l ’A ventino. Poco dopo nello stesso luogo vennero ad abitare altri nuovi cittadini, dopo la presa di Tellene e di Ficana. [3] Politorio poi fu di nuovo assalita, perché i Prischi L atin i avevano rioccupato la città abbandonata; i Rom ani allora la distrussero, perché non continuasse a costituire una base per i nemici. [4] Infine tu tta la guerra latina essendosi concentrata a Medullia, ivi si com battè a lungo con esito incerto e fra varie alternative; la città in fatti era ben p rotetta da fortificazioni e saldam ente presidiata, e inoltre l’esercito latino accam pato nell’aperta pianura varie volte a veva affrontato in com battim ento ra v vicinato i Rom ani. [5] Infine avendo im pegnato tu tte le sue truppe, A nco vinse il nemico in b attaglia campale; poi ritornò a R om a padrone di un grande bottino, ed anche allora furono accolte nella cittadinanza m olte m igliaia di Latini, ai quali fu assegnata come sede la regione presso il tem pio di M urcia in modo da congiungere l ’A ventino al Palatino 2. ^ [6] Anche il Gianicolo fu incluso nella città, non per bisogno di spazio, m a perché non potesse diventare even tualm ente una fortezza per i nemici. Si decise non solo di cingerlo di un muro, m a anche di collegarlo alla città, per m aggior com odità di passaggio, con un ponte di le g n o 3, il primo costruito sul Tevere. [7] Anche la fossa dei Q u iriti4, im portante difesa per impedire l ’accesso dalla parte pianeg giante, è opera del re Anco. [8] Essendo di m olto aum entata la popolazione della città, poiché con ta n ta folla di uomini, essendosi sm arrita la distinzione fra le azioni giuste e le ingiuste, avvenivano dei delitti senza che se ne scoprisse l ’autore, fu costruito nel centro della città vicino al foro un carcere®, per intim orire la crescente audacia criminosa. [9] E non solo la città s’ingrandì sotto questo re, m a anche il suo territorio: fu tolta ai Veienti la selva Mesia 6, il dominio
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Veientibus adem pta usque ad mare imperium prolatum et in ore Tiberis O stia urbs condita, salinae circa factae,. egregieque rebus bello gestis aedis Iovis Feretrii amplificata.^ [34, 1] Anco regnante Lucum o, vir impiger ac divitiis potens, Rom am com m igravit cupidine m axim e ac spe magni honoris, cuius adipiscendi T a rq u in iis1 - nam ibi quoque peregrina stirpe oriundus erat - facultas non fuerat. [2] Dem arati Corinthii filius erat, qui ob seditiones domo profugus cum Tarquiniis forte consedisset, uxore ibi ducta duos filios genuit. N om ina his Lucum o atque Arruns fuerunt. Lucum o superfuit p atri bonorum omnium heres; Arruns prior quam pater m oritur uxore gravida relieta. [3] N ec diu m anet superstes filio pater; qui cum, ignorans nurum ventrem Iferre, immemor in testando nepotis decessisset, puero p ò lt a vi m ortem in nullam sortem bonorum nato ab inopia E g e rio 2 inditum nomen. [4] Lucum oni contra, omnium heredi bonorum, cum divitiae iam animos facerent, au xit ducta in m atrimonium Tanaquil, summo loco nata et quae haud facile iis in quibus n ata erat hum iliora sineret ea quo innupsisset. [5] Spernentibus Etruscis Lucumonem exule advena ortum , ferre indignitatem non potuit, oblitaque ingenitae erga patriam caritatis, dummodo virum honoratum videret, consilium m igrandi ab Tarqui niis cepit. [6] R om a est ad id potissim um visa: in novo populo, ubi omnis repentina 'atque ex virtu te nobilitas sit, futurum locum forti ac strenuo viro; regnasse T atium Sabinum , arcessitum in regnum Num am a Curibus, et Ancum Sabina m atre ortum nobilemque una im agine Num ae esse. [7] Facile persuadet u t cupido honorum et cui Tarquinii 34. 1. T arq u in ia era u n a p o ten te c ittà d e ll’E tru ria m eridionale; la tr a d i zione fa giungere il sovran o etrusco T arquin io da T arq u in ia p er l ’id e n tità del nom e, e g li a ttrib u isce il nom e di L u cum on e com e p red estin ato al regno, forse per falsa etim o logia da L u cio. L a leggen da che T arquin io fosse figlio di D em arato d i C orinto è forse da m ettere in relazion e con la m igrazione d i a rtig ian i d i C orinto in E tru ria . L a versione che la storiografia la tin a offre d ella in stau razion e d ella m onarchia etru sca a R o m a ten d e ad a tten u a re la p o r ta ta della dom inazione straniera, presen tand ola com e fru tto d e ll’abile in izia tiv a d i u n solo uom o anziché d i u n a con q u ista m ilitare. 2. P e r etim ologia popolare, da egeo = a v e r bisogno.
205 romano fu esteso fino al m are e alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia, nei pressi furono im piantate delle saline, e in seguito alle guerre fortunate fu pure am pliato il tem pio di G iove Feretrio. V U 19 [34, 1] Sotto il regno di Anco, Lucum one, uomo ambizioso e potente per le sue ricchezze, emigrò a Rom a, mosso soprat tu tto dalla bram a e dalla speranza di grandi onori, che non era riuscito a conseguire a T a rq u in ia *; di qui in fatti prove niva, essendo però oriundo di stirpe straniera. [2] E ra figlio di D em arato di Corinto, che bandito dalla p atria in seguito ad una rivoluzione, e venuto per caso a stabilirsi a Tarquinia, quivi aveva preso moglie, e gli erano nati due figli, cui pose il nome di Lucum one ed A runte. Lucum one sopravvisse al padre, e rimase erede di tu tta la fortuna; A runte invece muore prim a del padre, lasciando la m oglie incinta. [3] Il padre non sopravvive a lungo al figlio, ed ignorando che la nuora era gravida, muore senza far menzione nel testam ento del futuro nipote; perciò al fanciullo, nato dopo la morte dell’avo senza avere alcuna parte all’eredità, fu dato il nome di Egerio a causa della sua p o v e r tà 2. [4] Invece Lucumone, erede di tu tti i beni, già orgoglioso per le proprie ricchezze, ancor più lo divenne dopo aver sposato Tanaquilla, donna di nobile stirpe, e tale che non si sarebbe rassegnata facil mente a trovarsi da sposa in condizione più um ile di quella in cui era nata. [5] Spregiando gli E truschi Lucum one, come figlio di un esule straniero, essa non potè sopportare quella vergogna, e obliando il naturale amore della patria, pur di vedere il m arito in auge decise di allontanarsi da Tarquinia. [6] R om a le parve la sede più adatta: in un popolo recente, dove la nobiltà si acquistava rapidam ente con la sola virtù, v i sarebbe stato posto per un uomo forte e valoroso; v i aveva regnato il sabino Tazio, N um a era stato chiam ato al trono da Curi, Anco era figlio di una m adre sabina, e poteva vantare di avi illustri il solo Num a. [7] Facilm ente riesce a persuadere il marito, già avido di onori, e a cui Tarquinia
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m aterna tantum patria esset. Sublatis itaque rebus am igrant Romam. [8] A d Ianiculum forte ventum erat. Ib i ei carpento sedenti cum uxore aquila suspensis demissa leviter alis p ille u m 3 aufert, superque carpentum cum m agno clangore volitans rursus velu t ministerio divinitus missa capiti apte reponit; inde sublimis abiit. [9] Accepisse id augurium laeta dicitur Tanaquil, perita, u t vulgo Etrusci, caelestium prodigiorum mulier. E xcelsa et alta sperare com plexa virum iubet: eam alitem , ea regione caeli et eius d e i4 nuntiam venisse, circa summum culmen hominis auspicium fecisse, levasse fiumano superpositum capiti decus, u t divinitus eidem redderet. [10] H as spes cogitationesque secum portantes urbem ingressi sunt, domicilioque ibi com parato L. Tarquinium Priscum 5 edidere nomen. [11] Rom anis conspicuum eum n o vilas divitiaeque faciebant; et ipse fortunam benigno adloquio, com itate invitand i beneficiisque quos poterat sibi conciliando adiuvabat, donec in regiam quoque de eo fam a periata est. [12] N otitiam que eam brevi apud regem liberaliter dextereque obeundo officia in fam iliaris amicitiae adduxerat iura, u t publicis pariter ac privatis consiliis bello domique interesset et per omnia expertus postremo tu tor etiam liberis regis testam ento institueretur. [35, 1] R egn avit A ncus annos quattuor et viginti, cuilibet superiorum regum h^lli pacisque et artibus et gloria par. Iam filii prope puberem aetatem erant. E o magis Tarquinius instare u t quam primum com itia regi creando fierent; [2] quibus indictis sub tem pus pueros venatum ablegavit. Isque primus et petisse am bitiose regnum et orationem
3. I l pilleum era u n copricapo a form a con ica di origine etn isca, p o r ta to d a i so vran i in E tru ria e dai sacerd o ti a R om a. 4. L ’a q u ila era sacra a G iove, il re degli dèi, e la sua apparizione a un m o rta le in m olte leggende a n tich e v ien e con sid erata com e il p rea n n uncio del p otere regale. 5. I l soprannom e d i P risco fu certo aggiu n to più ta rd i p er distinguere il p rim o T arquin io d a T arq u in io il Superbo.
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era p atria solo per parte di madre. Prese così le loro cose emigrano a Rom a. [8] Erano giunti presso il Gianicolo, quando un’aquila, discesa con volo leggero su di lui che sedeva sul carro con la moglie, arrestando il volo gli porta v ia il cop ricapo3, e svolazzando al di sopra del carro con grandi strida di nuovo glielo ripone esattam ente sul capo, quasi fosse sta ta m an data dal cielo a compiere un sacro ufficio; quindi scom parve in alto. [9] Si dice che Tanaquilla accogliesse con gioia quell’augurio, quale donna esperta di prodigi celesti, come lo sono generalm ente gli Etruschi. Abbracciando il m arito lo in vita a grandi ed eccelse speranze; un tale uccello era giunto da tale parte del cielo e di tale d io 4 messaggero, a veva m anifestato un augurio intorno al sommo fastigio dell’uomo, a veva tolto il segno d ’onore sovrapposto al capo umano per restituirglielo da parte del dio. [10] Recando seco queste speranze e questi pensieri entrarono in città, e stabi litisi quivi egli prese il nome di Lucio Tarquinio Prisco 5. [11] L a sua qualità di straniero e le sue ricchezze gli a tti rarono l’attenzione dei Rom ani, ed egli da parte sua asse condava il favore della sorte cercando di conciliarsi le sim patie del m aggior numero di cittadini con l ’affabilità dei modi, con la liberalità degli in viti e con benefìci, finché la sua fam a giunse fino alla reggia. [12] In breve Tarquinio trasform ò questa conoscenza indiretta in un rapporto di stretta fam iliarità, signorilmente ed abilm ente prestando i suoi servigi al re, tanto da esser messo a parte degli affari pubblici e p rivati in guerra e in pace, ed acquistatasi la \ fiducia in ogni cam po giunse ad essere nom inato nel testaamento tutore dei figli del re. ! [35, 1] A nco regnò ventiquattro anni, uguagliando ogni j re precedente nelle virtù e nella gloria di guerra e di pace, j G ià i figli erano vicini alla maggiore età: perciò T a rq u in io 1 insisteva che al più presto si tenessero i comizi per l ’elezione del re, [2] e quando questi furono indetti al m omento del l ’elezione allontanò i giovani col pretesto di una caccia. Si dice che egli sia stato il primo a brigare per ottenere il trono
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dicitur habuisse ad conciliandos plebis animos compositam: [3] [cum] se non rem novam petere, quippe qui non primus, quod quisquam indignari m irarive posset, sed tertius R o m ae peregrinus regnum adfectet; et Tatium non ex peregrino solum, sed etiam ex hoste regem factum , et Num am ignarum urbis non petentem in regnum ultro accitum: [4] se, ex quo sui potens fuerit, Rom am cum coniuge ac fortunis omnibus commigrasse; maiorem partem aetatis eius, qua civilibus officiis fungantur homines, Rom ae se quam in vetere patria vixisse; [5] domi m ilitiaeque sub haud paenitendo magistro, ipso A nco rege, Rom ana se iura, Rom anos ritus didicisse; obsequio et observantia in regem cum omni bus, benignitate erga alios cum rege ipso certasse. [6] H aec eum hàud falsa memorantem ingenti consensu populus Rom anus regnare iussit. Ergo virum cetera egregium secuta, quam in jbetendo habuerat, etiam regnantem am bitio est; nec minus regni sui firm andi quam augendae rei publicae memor centum in patres legit, qui deinde minorum g e n tiu m 1 sunt appellati, factio haud dubia regis, cuius benefìcio in curiam venerant. • [7] B ellum prim um cum L atin is gessit et oppidum ibi A p io la s 2 v i cepit, praedaque inde maiore quam quanta belli fam a fuerat revecta, ludos opulentius instructiusque quam priores reges fecit. [8] Tu m primum circo, qui nunc m axim us dicitur, designatus focus est. L oca divisa patribus equitibusque, ubi specta,cula sibi quisque facerent; fori appellati; [9] spectavere furcis duodenos ab terra spectacula alta sustinentibus pedes. Ludicrum fu it equi pugilesque, ex E tru ria m axim e acciti. Sollemnes deinde annui mansere
35. 1. F ra le g e n ti p a trizie esisteva u n a distinzione fra gentes maiores e gentes minores, che la trad izion e fa c e v a risalire a T arqu in io P risco. L a reale origine d i q u esta distin zione è assai discussa e in certa; forse i n u o vi patres im m essi nel sen ato da T arqu in io erano i c ap i delle p rin cip ali fam iglie etrusche. 2. C ittà a l confine m eridionale del te rrito rio latin o, presso la regione dei V olsci.
ed a tenere un discorso studiato al fine di attirarsi gli animi della plebe; [3] disse che non chiedeva una cosa inusitata, poiché egli non era il primo straniero che aspirava al regno in Rom a, nel qual caso qualcuno avrebbe potuto stupirsi e sdegnarsi, m a il terzo, e T azio era divenuto re pur essendo prim a non solo straniero, m a nemico, m entre N um a era stato chiam ato al trono senza conoscere la città e senza sua richie sta. [4] E gli invece, dal momento in cui era diventato padrone di sé stesso, era em igrato a R om a con la m oglie e con tu tta la sua fortuna; di quegli anni che gli uomini consacrano agli uffici civili aveva trascorso una parte maggiore in R om a che nella patria d’origine; [5] in pace e in guerra a v e v a appreso le leggi romane e i riti romani alla scuola di un maestro di cui non aveva a vergognarsi, lo stesso re Anco, aveva gareggiato con tu tti nell’ossequiosità e nell’obbedienza verso il re, col re stesso nella generosità verso gli altri. [6] Dopo che egli ebbe ricordato queste cose, che non erano contrarie alla verità, il popolo romano a grande m aggioranza lo pro clam ò re. P ertan to l ’ambizione che aveva guidato quell’uomo, per il resto insigne, nell’aspirare al regno, lo accom pagnò anche sul trono; e preoccupandosi di rafforzare il suo potere non meno che di ingrandire lo stato nominò cento nuovi senatori, che furono chiam ati poi «i senatori delle genti minori » destinati ad essere fidati sostenitori del re, per il cui beneficio erano entrati nella curia. [7] L a prim a guerra che condusse fu contro i L atin i, ed in essa conquistò la città di A p io la 2; tratto di qui un bottino m aggiore di quanto si poteva attendere dalla m odestia della guerra, allestì dei giochi con maggiore sfarzo ed apparato che i re precedenti. [8] A llora per la prim a vo lta fu scelto per i giochi quel luogo che ora si chiam a Circo Massimo. Furono riservati ai senatori ed ai cavalieri dei posti separati per l ’osservazione degli spettacoli, che presero il nome di fori: [9] assistevano da palchi di legno alti dodici piedi da terra, sostenuti da pali forcuti. L o spettacolo era costituito da corse di cavalli e gare di pugilato, con atleti fa tti venire per la m aggior parte dall’E truria. I giochi rimasero poi tradizionali ogni anno, e furono chiam ati variam ente Rom ani 14 . L iv io , I.
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ludi, "Romani m agnique varie a p p e lla ti3. [io] A b eodem rege et circa forum privatis aedifìcanda divisa sunt loca; porticus tabernaeque factae.
o G ra n d i3. [10] L o stesso Tarquinio assegnò a p riv a ti delle aree da edificare intorno al foro: furono costruiti portici e botteghe.
[36, 1] Muro quoque lapideo circum dare urbem parabat, cum Sabinum bellum coeptis intervenit. Adeoque ea subita res fuit, u t prius Anienem transirent hostes quam obviam ire ac prohibere exercitus Rom anus posset. [2] Itaq ue trepidatum Rom ae est, et primo dubia victoria m agna utrim que caede pugnatum est. R eductis deinde in castra hostium copiis datoque spatio Rom anis ad comparandum de integro bellum" Tarquinius, equitem m axim e suis deesse viribus ratus, ad Ram nes, Titienses, Luceres, quas centurias Rom ulus scripserat, addere alias constituit suoque insignes relinquere nomine.J|[3] Id quia inaugurato Rom ulus fecerat, negare A ttu s Naivius, inclitus ea tem pestate augur, neque m utari neque novum constitui nisi aves addixissent posse. [4] E x eo ira regi m ota, eludensque artem, u t ferunt, «Agedum » inquit, «divine tu, inaugura fìerine possit quod nunc ego m ente concipio». Cum ille augurio rem expertus profecto futuram dixisset, « A tq u i hoc animo agitavi » inquit, « te novacu la cotem discissuram; cape haec et perage quod aves tuae fieri posse portendunt ». Tum illum haud cunctanter discidisse cotem ferunt. [5] S ta tu a A tti capite velato, quo in loco res acta est, in co m itio 1 in gradibus ipsis ad laevam curiae fuit; cotem quoque eodem loco sitam fuisse memorant, u t esset ad posteros m iraculi eius monumentum. [6] Auguriis certe sacerdotioque augurum tantus honos accessit, u t nihil belli dom ique postea nisi auspicato gereretu r„ concilia populi, exercitus vocati, sum m a rerum, ubi
[36, 1] Si apprestava pure a cingere la città con m ura di pietra, quando all’inizio di quell’opera sopraggiunse una guerra coi Sabini. E ssa fu così im provvisa, che i nemici passarono l ’Aniene prim a che l ’esercito romano potesse farsi incontro ad arrestarli. [2] Perciò grande fu l ’affanno a Rom a, e dapprim a si com battè una b attaglia di esito incerto, con gravi perdite da ambo le parti; poi, ritornate le truppe nemiche negli accam pam enti, e offertosi ai Rom ani il tempo di preparare la guerra con nuove forze, Tarquinio, giudi cando che la cavalleria soprattutto difettasse al suo esercito, stabilì di aggiungere altre centurie a quelle dei Ramnensi, Tiziensi e Luceri istituite da Rom olo, e di contrassegnarle con un suo nome. [3] Ma A tto N avio, insigne augure di quel tempo, disse che non si p oteva m utare né innovare nulla senza che lo consentissero gli auspici, poiché Romolo a veva istituito questo ordinamento dopo aver preso gli augurii. [4] I l re allora si adirò, e, come raccontano, volendo schernire la sua arte disse: « Orsù, tu che sei indovino, indo vin a con gli auspici se può avvenire o no ciò che io ora ho in mente ». E poiché quello dopo aver consultato gli auspici disse che la cosa certam ente sarebbe avven uta, Tarquinio soggiunse: «E ppure io ho pensato questo, che tu avresti tagliata una pietra col rasoio: prendi questi oggetti ed ese guisci ciò che i tuoi uccelli indicano poter avvenire ». Narrano che allora quello senza indugio tagliò la pietra. [5] V i era una statu a di A tto col capo velato nel luogo dove avvenne il fatto, nel C om izio1, sulle gradinate a sinistra della Curia; raccontano che anche la pietra si conservava nello stesso luogo, come testim onianza ai posteri di quel miracolo, [6] Comunque dopo di allora in così grande onore furono tenuti gli auspici e il collegio sacerdotale degli auguri, che nulla si faceva in pace e in guerra se non dopo aver preso gli auspici, e venivano sospesi i comizi popolari, la chiam ata degli eserciti e le decisioni più im portanti, se gli auspici non
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3. In origine i gioch i erano celeb rati occasionalm ente, p er lo più com e cerim onia v o tiv a di rin graziam en to a g li dèi, e p o i diven taron o ann u ali col nom e d i Rom ani o magni. 36. 1. I l Com izio era il luogo d i riunione delle assem blee p opolari, n ella p a rte nord-occiden tale d e l foro. Q uando L iv io scrive si con servava ancora il ricordo d i u n a sta tu a e d i u na p ie tra sacra, p ro babilm en te u n m eteorite, c h e a ve va n o d a to origine a lla leggen da d i A tt o N a vio .
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aves non admisissent, dirimerentur. [7] Neque tum T a r quinius de equitum cerìturiis quicquam m utavit; numero alterum tantum adiecit, ut m ille et octingenti e q u ites2 in tribus centuriis essent; [8] posteriores3 modo sub iisdem nominibus qui additi erant appellati sunt, quas nunc, quia gem inatae sunt, sex vocan t centurias. [37, i]|jH ac parte copiarum aucta iterum cum Sabinis confligitùr. Sed praeterquam quod viribus creverat Rom anus exercitus, ex occulto etiam additar dolus, missis qui m a gnani vim lignorum, in Anienis ripa iacentem, ardentem in flumen conicerent; ventoque iuvan te accensa ligna et pleraque in ratibus im pacta sublicis cum haererent, pontem incendunt. [2] E a quoque res in pugna terrorem attu lit Sabinis et fusis eadem fugam impediit; m ultique mortales, cum host'em effugissent, in flumine ipso periere; quorum fluitantia arm a ( ad\ urbem cognita in Tiberi prius paene quam nuntiari pOsset insignem victoriam fecere. [3] E o proelio praecipua equitum gloria fuit: utrim que ab cornibus positos,_cum~iam-.pelleretur...m edia peditum suorum acies,; itaKincurrisse ab lateribus ferunt, u t "non sisterent modo Sabinas legiones f f erociter inst.ant.es 'jm e n tib n s ^ sed subito in fugam averterent. [4] M ontes'effuso cursu Sabini petebant, et pauci tenuere; m axim a pars, u t ante dictum est, ab equitibus in flumen acti suiH \j5] Tarquinius, instandum perterritis ratus, praeda captivisque Rom am missis, spoliis hostium - id votuni' V ulcan o e r a t 1 - ingenti cumulo accensis, pergit porro in agrum Sabinum exercitum inducere; [6] et quam quam m ale gesta res erat nec gesturos melius 2. S s T u lio O stilio a v e v a rad d op p iato il num ero d i 300 c a v a lie ri fissato d a R om olo (cfr. cap. 30), c o lla n u o v a du plicazione si d o vreb b e giungere solo a 1200; forse L iv io non si accorge d ell’errore avend o in m en te il num ero d i 1800, cu i p er lungo tem p o am m ontaron o g li e ffe ttiv i dei cav alieri, a p a rtire da Servio T u llio . 3. I ca v a lie ri a g giu n ti furono ch ia m a ti R am nensi, T izien si e L u ceri p osteriori o secondi, e in re a ltà si ebbero p o i sei cen tu rie in vece d i tre; q u este sei cen tu rie secondo L iv io m antennero il nom e d i sex centuriae o sex suffragio1; secondo F e sto in vece sex suffragio, sono le cen tu rie aggiu n te al num ero d i 12 s ta b ilito d a T arqu in io Prisco. 37. 1. In onore di V u lca n o, dio del fuoco, si solevano offrire in v o to le arm i dei v in ti.
213 erano favorevoli. [7] Tarquinio rinunciò allora a cam biare li- centurie dei cavalieri; raddoppiò solo gli effettivi, in modo che le tre centurie venivano a comprendere com plessivam ente 1800 c a v a lie ri2, [8] e quelli che furono aggiunti, m antenendo gli stessi nomi delle centurie preesistenti, presero il nome di p osteriori3; oggi, poiché in effetto le centurie sono rad doppiate, le chiam ano le sei centurie. [37, 1] R inforzata questa parte dell’esercito scese nuova m e n te in cam po contro i Sabin i)/A ll’accrescim ento delle li uve dell’esercito romano si aggiunse pure uno strattagem m a: appiccato il fuoco ad una grande q uantità di legnam e che stava sulla riva delFAniene, la fece gettare in fiamme nel fiume, e la legna ardendo grazie al vento favorevole, per la m aggior parte posta su zattere, sospinta contro i pali di un ponte v i rimase im pigliata e gli trasm ise l ’incendio. j Questo fatto gettò il terrore fra i Sabini durante la b a t taglia e insieme impedì loro la fuga quando si sbandarono; molti, scam pati al nemico, perirono nel fiume stesso, e le loro armi galleggianti sul Tevere, riconosciute presso Rom a, fecero gridare alla vittoria prim a ancora che essa fosse stata annunciata, [3] In quella b attaglia il m erito principale andò ;i Un cavalleria: si narra che i cavalieri dalle due ali piom barono sui fianchi del nemico, mentre già la fanteria romana al centro ven iva respinta, con tale im peto che non solo ;tnvstarono le legioni sabine, le quali incalzavano con grande :irdore i Rom ani in ritirata, m a im m ediatam ente le volsero in fuga. [4] I Sabini correndo a precipizio cercarono scampo sui m onti, m a pochi v i arrivarono, e per la m aggior parte, come già ho detto, furono respinti dalla cavalleria nel fiume. [5] Tarquinio, ritenendo di doverli incalzare m entre erano dem oralizzati, dopo aver m andato il bottino e i prigionieri n Roma, ed aver incendiato con un grande rogo le spoglie ilei nemici, secondo un voto fatto a V u lc a n o 1, si affrettò a condurre l ’esercito nel territorio sabino; [6] i Sabini, per quanto la guerra volgesse m ale per loro e non ci fosse spe ranza di un m iglioramento per il futuro, tu tta v ia m ancando
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38. 1. C ittà origin ariam en te la tin a su lla r iv a sin istra d e ll’Aniene. 2. N e lle fo n ti L iv io tr o v a v a c ita ta p er la p rim a v o lta a proposito d e lla resa d i C ollazia la form ula d ella deditio, d ella resa incondizionata, con cui i p op o li v in ti si rim ette va n o n elle m an i del popolo rom ano affi d an dosi a lla su a discrezione. L a form ula è certo an tica , sa lv o qualche m odifica n ei d e tta g li ortografici. 3. L e c ittà la tin e q u i nom inate si tro v a n o a nord deU’ Aniene, fra q u esto fium e e il T evere.
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il tem po di prendere una decisione ponderata si fecero in contro ai Rom ani con un esercito im provvisato, ed essendo') stati nuovam ente sconfitti e ridotti in una situazione dispe-/ rata chiesero la pace.
sperare poterant, tam en, quia consulendi res non dabat spatium , ire obviam Sabini tum ultuario milite, iterum que ibi fusi perditis iam prope rebus pacem petiere. [38, 1] C o lla tia 1 et quidquid citra Collatiam agri erat Sabinis ademptum; Egerius - fratris hic filius erat regis Collatiae in praesidio relictus. D editosque Collatinos ita a cc ip io 2 eamque deditionis form ulam esse; [2] rex interrogavit: « Estisne vos legati oratoresque missi a populo Collatino u t vos populum que Collatinum dederetis? » «Sum us ». « E stne populus Collatinus in sua potestate? » « E st ». « D editisne vos populum que Collatinum , urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina hum anaque omnia in il meam populique R om ani dicionem? » «Dedim us». « A t \ ego recipio ». [3] Bello Sabino perfecto Tarquinius trium . phans Rom am redit. Inde Priscis L atinis bellum fecit. [4] U b i nusquam ad universae rei dim icationem ventum est; a d singula oppida circumferendo arm a omne nomen L atinum dom uit. Corniculum, Ficulea vetus, Cameria, Crustumerium , Am eriola, M edullia, N om entu m 3, haec de Priscis L atinis au t qui ad Latinos defecerant cap ta oppida. P a x deinde est facta. [5] Maiore inde animo pacis opera inchoata quam quanta mole gesserat bella, u t non quietior populus domi esset quam m ilitiae fuisset; [6] nam et muro lapideo, cuius exordium operis Sabino bello turbatum erat, urbem qua nondum m unierat cingere parat, et infima urbis loca circa forum aliasque interiectas collibus convalles, quia ex planis locis h aud facile evehebant aquas, cloacis fastigio in Tiberim ductis siccat [7] et aream ad aedem in Capitolio Iovis, quam
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[38, 1] I Sabini dovettero cedere C o lla zia 1 e il territorio
circostante; fu lasciato a Collazia un presidio con a capo 1 Egerio, il figlio del fratello del re. ìT rovo rip o rta to 2 che in questo modo i Collatini si consegnarono ai Rom ani, e che tale fu la form ula della resa. [2] Il re domandò: « Siete voi i legati e gli oratori m andati dal popolo collatino per conse gnare voi stessi e il popolo collatino? » « L o siamo ». « È il popolo collatino padrone di sé stesso? » « L o è ». « Consegnate voi stessi e il popolo collatino, la città, le terre, le acque, i confini, i tem pli, gli oggetti privati, tu tte le cose divine e umane sotto la p otestà m ia e del popolo romano? » « Con segniamo ». « Io allora accetto la resa ». . [3] Term inata la l guerra sabina Tarquinio ritornò trionfando a Rom a; di poi j condusse una guerra contro i Prischi L atini. [4] Qui non si venne a b attag lia cam pale decisiva contro le forze nemiche, m a assalendo a vo lta a v o lta le singole città Tarquinio assoggettò tu tta la gente latina. Furono prese le città di Cornicolo, Ficu lea vecchia, Cameria, Crustumerio, Am eriola, Medullia, N om en to3, che o appartenevano ai Prischi Latini, o si erano ribellate a R om a passando ai Latini; quindi fu fa tta la pace. ( [5] In seguito intraprese opere di pace ancor più grandiose \ delle cam pagne m ilitari condotte a termine, per tenere il popolo occupato non meno in pace che in guerra; [6] in fatti l si appresta a cingere la città, dove non l ’a ve va ancora for1 tificata, con delle m ura di pietra, opera che era stata inter rotta al suo inizio dalla guerra sabina, e prosciuga le bassure della città intorno al foro e le altre va lli fra colle e colle, poiché non era facile fare defluire le acque da quei luoghi pianeggianti, costruendo delle cloache in pendenza verso il Tevere; [7] gettò le fondam enta, su di un’area del Cam pido glio, del tem pio di Giove, che a veva promesso in voto nella
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voverat bello Sabino, iam praesagiente animo futuram olim amplitudinem loci, occupat fundam entis4. [39, 1] E o tempore in regia prodigium visu eventuque mirabile fuit: puero dormienti, cui Servio Tullio fuit nomen, cap u t arsisse ferunt multorum in conspectu. [2] P lu rimo igitur clamore inde ad tantae rei miraculum orto excitos reges, et cum quidam familiarium aquam ad restinguendum ferrei, ab regina retentum, sedatoque eam tum ultu m overi vetuisse puerum donec sua sponte experrectus esset. Mox cum somno et flammam abisse. [3] Tum abducto in secretum viro Tanaquil « Viden tu puerum hunc » inquit, « quem tam humili cultu educamus? Scire licet hunc lumen quondam rebus nostris dubiis futurum praesidiumque regiae adflictae; proinde m ateriam ingentis publice privatim que decoris omni indulgentia nostra nutriamus ». [4] Inde puerum liberum loco coeptum haberi erudirique artibus quibus ingenia ad magnae fortunae cultum excitantur. E ve n it facile quod diis cordi esset: iuvenis evasit vere indolis regiae, nec, cum quaereretur gener Tarquinio, quisquam Romanae iuventutis ulla arte conferri potuit, filiamque ei suam rex despondit. [5] H ic quacumque de causa tantus illi honos habitus credere prohibet serva natum eum parvum que ipsum servisse1. Eorum magis sententiae sum, qui Corniculo capto Servi Tulli, qui princeps in illa urbe fuerat, gravidam viro occiso uxorem, cum inter reliquas cap tivas cognita esset, ob unicam nobilitatem ab regina Rom ana prohibitam ferunt servitio partum Romae edidisse Prisci Tarquini domo; [6] inde tanto benefìcio et inter mulieres fam iliaritatem auctam, et puerum, ut
4. L e costruzion i delle cloache e del tem pio di G iove C apitolin o ven gono a ttrib u ite d a lla trad izion e sia a T arqu in io Prisco che al Superbo; L iv io cerca di conciliare la duplicazione attribu en do al Superbo il com pletam ento e il perfezionam ento d ell’opera iniziata da T arquinio Prisco. 39. 1 . L a c o m u n e t r a d iz io n e d ic e v a S e rv io T u llio fig lio di u n a sc h ia v a , fo rse p e r c o n g e t t u r a e tim o lo g ic a ; L iv io p r e fe r isc e se g u ire u n a v e r s io n e di o rig in e più t a r d a , c h e te n d e v a a n o b ilita r e le o rig in i d i S e rv io , fa ce n d o n e il fig lio di u n a p rig io n ie ra di C o rn ic o li d i fa m ig lia re g a le . Q u e s te d iffe re n ti v e r sio n i si in se risc o n o n e lla p iù v a s t a c o n tro v e rs ia se S e rv io fo sse un
guerra sabina, già presagendo nell’ animo la fu tu ra grandezza del lu o g o 4. [39, 1] In quel tem po nella reggia accadde un prodigio mirabile per l'aspetto e per le conseguenze: si narra che durante il sonno il capo di un fanciullo, di nome Servio Tullio, ardesse sotto gli occhi di molte persone. [2] Pertanto i sovrani accorsero alle altissime grida che si levarono a tanto miracolo, e poiché un servo portava acqua per spegnere le fiamme, la regina lo trattenne, e riportata la calm a proibì di toccare il* fanciullo, fino a quando non si fosse svegliato da solo. Tosto al risveglio la fiamma disparve. [3] Allora preso in disparte il marito Tanaquilla disse: «Vedi questo fanciullo che noi alleviamo in così umili condizioni? Sappi che questi sarà in avvenire lume nelle nostre difficoltà e sostegno della reggia in angustie; perciò educhiamo con ogni larghezza questa fonte di grande onore pubblico e privato ». [4] D a allora in poi presero a trattare il fanciullo come un figlio e ad istruirlo in quelle arti che spronano gli ingegni ad una condotta propria di un’elevata condizione. L a volontà degli dèi non tardò a compiersi: il giovane riuscì di indole veramente regale, e quando Tarquinio cercò uno sposo alla figlia, nessuno dei giovani romani potè per alcuna dote competere con Servio, onde il re a lui la concesse in ma trimonio. [5] Questo sì grande onore, per qualunque m otivo gli sia stato concesso, impedisce di credere che fosse nato da una schiava, e che lui stesso nell’infanzia fosse stato in condizione servile \ Preferisco aderire a ll’opinione di coloro secondo cui al tempo della presa di Cornicolo la moglie di , Servio Tullio, che era il capo di quella città, mortogli il / marito mentre era incinta, riconosciuta fra le altre prigio niere, in considerazione della sua alta nobiltà sarebbe stata esentata dalla condizione servile per ordine della regina romana; a R om a poi avrebbe dato alla luce un figlio nella casa di Tarquinio Prisco. [6] Quindi da così grande benefìcio si sviluppò una stretta amicizia fra le due donne, e il fan sovrano latino che si insinua nella dom inazione e tn isca , oppure un con qu istatore etrusco identificato con Mastarna.
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in domo a parvo eductum, in cantate atque honore fuisse; fortunam matris, quod capta patria in hostium manus venerìt, ut serva natus crederetur ferisse. [40, 1] Duodequadragesim o ferme anno ex quo regnare coeperat Tarquinius, non apud regem modo sed apud patres plebemque ìonge maximo honore Servius Tulìius erat. [2] Tum A nci filii duo, etsi antea semper prò indignissimo habuerant se patrio regno tutoris fraude pulsos, regnare Romae advenam non modo vicinae sed ne Italicae quidem stirpis, tum impensius iis indignitas crescere si ne ab Tarquinio quidem ad se rediret regnum, sed praeceps inde porro ad servitia caderet, [3] ut in eadem civitate post centesimum fere annum quam Romulus, deo prognatus, deus ipse, tenuerit regnum donec in terris fuerit, id servus serva natus possideat; cum commune Rom ani nominis tum praecipue id domus suae dedecus fore, si A nci regis virili stirpe salva non modo advenis, sed servis etiam re gnum Rom ae pateret. [4] Ferro igitur eam arcere contumeliam statuunt. Sed et iniuriae dolor in Tarquinium ipsum magis quam in Servium eos stimulabat, et quia gravior ultor caedis, si superesset, rex futurus erat quam privatus, tum Servio occiso quemcumque alium generum delegisset, eundem regni heredem facturus videbatur, [5] ob haec ipsi regi insidiae parantur. E x pastoribus duo ferocissimi delecti ad facinus, quibus consueti erant uterque agrestibus ferramentis, in vestibulo regiae quam potuere tum ultuo sissime specie rixae in se omnes apparitores regios convertunt; inde, cum ambo regem appellarent clamorque eorum penitus in regiam pervenisset, vocati ad regem pergunt. [6] Primo uterque vociferari et certatim alter alteri obstrepere; coercxti ab lictore et iussi in vicem dicere tandem obloqui
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ciullo, allevato fin da piccolo nella reggia, fu trattato con affetto e tenuto in onore; la sorte della madre, in quanto era caduta in m ano ai nemici dopo l’occupazione della sua patria, indusse poi a farlo credere nato da una schiava. [40, 1] Circa trentotto anni dopo che Tarquinio aveva cominciato a regnare, Servio Tullio godeva di una grandis sima reputazione non solo presso il re, m a anche presso il senato e la plebe. [2] Allora i due figli di Anco, i quali già prima sempre avevano ritenuto un sopruso insopportabile l’essere privati del trono paterno dall’inganno del tutore, e il veder regnare a Rom a uno straniero di stirpe non affine, anzi neppure italica, allora ancor p i ù s i sdegnarono all’even tualità che neppure dopo Tarquinio il regno tornasse a loro, ma cadesse invece più in basso, nelle mani di uno schìavo; [3] in quella stessa città, appena cento anni dopo che Romolo, figlio di un dio e dio egli stesso, aveva tenuto il regno nella sua vita terrena, un servo figlio di una serva stava per occupare il trono! Sarebbe stato un pubblico diso nore per il nome di Roma, e in particolare un’onta per la propria fam iglia, se pur sopravvivendo discendenti maschi di Anco il regno a R om a fosse aperto non solo agli stranieri, ma anche agli schiavi. [4] Decisero dunque di impedire con le armi questa vergogna. Ma il rancore per l ’affronto subito li stimolava più contro lo stesso Tarquinio che contro Servio, e inoltre pensando che se il re fosse sopravvissuto, avrebbe fatto più dura vendetta dell’uccisione che un privato, e morto che fosse Servio, chiunque altro avesse scelto per genero, avrebbe potuto nominarlo egualm ente erede del regno, [5] per queste considerazioni prepararono un attentato al re stesso. Furono scelti per l’esecuzione due pastori risoluti e coraggiosi, i quali, muniti degli strum enti agresti che erano soliti portare, nell’atrio della reggia simularono una furiosa rissa, attirando l’attenzione di tutte le guardie del re; e poiché entrambi si appellavano al giudizio del re, e le loro grida erano giunte fin neU’interno della reggia, il sovrano li fece venire davanti a sé. [6] Dapprim a vociavano e face vano a gara neH’ingiuriarsi a vicenda; dopo che il littore
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desistu.nt ; unus rem ex composito orditur. [7] D um intentus in eum se rex totus averteret, alter elatam securim in caput deiecit, relictoque in vulnere telo ambo se foras eiciunt. [41, x] Tarquinium m oribundum cum qui circa erant excepissent, illos fugientes lictores comprehendunt. Clamor inde concursusque populi, m irantium quid rei esset; Tanaquii inter tum ultum claudi regiam iubet, arbitros eicit. Simul quae curando vulneri opus sunt, tam quam speS subesset, sedulo com parat, simul, si destituat spes, alia praesidia m olitur. [2] Servio propere accito cum paene exsanguem virum ostendisset, dextram tenens orat ne inultam mortem soceri, ne socrum inimicis ludibrio esse sinat. [3] « T nnm est » inqu,it, « Servi, si v ir es, regnum, non eorum qui alienis m anibus pessimum facinus fecere. Erige te deosque duces sequere, qui clarum hoc fore caput divino quondam circUmfuso igni portenderunt. N unc te illa caelestis excitet fiamma, nunc expergiscere vere. E t nos peregrini regnavimus; qui sis, non unde natus sis reputa. Si tu a re subita consilia torpent, at tu m ea consilia sequere». [4] Cum clamor, impetusque m ultitudinis v ix sustineri posset, ex superiore parte aedium per fenestras in N o v a m 1 viam versas - habitabat enim rex ad Iovis Statoris - populum T anaquil adloquitur. [5] Iubet bono animo esse: sopitum fuisse regem subito ictu; ferrum haud alte in corpus descendisse; iam ad se redisse; inspectum vulnus absterso cruore; omnia saìubrià esse; confidere propediem ipsum eos visuros; interim Servio Tullio iubere populum dicto audientem esse; eum iura redditurum obiturumque
41. 1. L a Via Nova correva a i p iedi del fianco n ord-occidentale del P a la tin o .
221 ridottili al silenzio li ebbe in vita ti a parlare uno per volta, finalmente cessarono di rim beccarsi, ed uno cominciò ad esporre la vertenza, secondo il piano concordato. [7] Mentre il re rivolgeva tu tta la sua attenzione a quello, l’altro levata in alto la scure la abbassò sul suo capo, e lasciata l’arma infissa nella ferita entram bi si precipitarono fuori7J [41, 1] Tarquinio viene raccolto in fin di v ita da quelli che gli stavano attorno, m entre i littori arrestano i fuggitivi. N e nacque un gran rumore ed accorrere di gente, che stupita dom andava cosa m ai accadesse. Tanaquilla in quella confu sione fa chiudere la reggia ed allontana ogni estraneo. Prepara con ogni cura i rimedi che potessero sanare la ferita, come se rimanessero speranze, m a nello stesso tem po prende le misure opportune nel caso che le speranze venissero meno. [2] Chiam ato prontam ente Servio e additatogli il m arito quasi esanime, prendendogli la m ano lo prega di non lasciare invendicata la m orte del suocero, di non tollerare che la suocera sia oltraggiata dai nemici. [3] « Il regno è tuo disse - , o Servio, se sei un uomo, non di coloro che per mano di sicari hanno commesso questo vile delitto. L ev a ti e segui il comando degli dèi, i quali un tem po già annunziarono lo splendore riservato al tuo capo, cingendolo di un fuoco divino. Ora ti animi quella celeste fiamma, ora destati vera mente. Anche noi abbiam o regnato pur essendo stranieri; pensa chi sei, non da chi sei nato. Se i tuoi pensieri sono confusi per la sorpresa dell’evento, segui allora i m iei ». [4] Essendo il clam ore e l ’agitazione della folla insoste nibili, Tanaquilla dall’alto de] palazzo, per le finèstre rivolte sulla v ia N u o v a 1 (la reggia in fatti era situata presso il tem pio di G iove Statore), si rivolge al popolo. [5] In v ita a stare tranquilli: il re aveva perduto i sensi per il colpo im provviso, m a il ferro non era penetrato in profondità, e già egli era tornato in sé; ripulita dal sangue raggrum ato, la ferita era stata esam inata, e tu tti i sintom i erano favo revoli; sperava che a giorni avrebbero potuto vedere lui di persona, e frattan to ordinava che il popolo obbedisse agli ordini di Servio Tullio: questi avrebbe am m inistrato la giù-
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alia regis m unia esse. [6] Servius cum trabea et lictoribus prodit ac sede regia sedens alia decer nit, de aliis consultiim m se regem esse sim ulat. Itaq ue per aliquot dies, cum iam expirasset Tarquinius, celata m orte per speciem alienae fungendae vicis suas opes firm a v i! Tu m demum palam | factum est comploratione in regia orta. Servius praesidio i firmo m unitus primus iniussu populi volun tate patrum 1 regnavit. [7] A nci liberi iam tum comprensis sceleris ministris, u t vivere regem et tan tas esse opes Servi nuntiatum est, Suessam P o m e tia m 2 exulatum ierant. [42, 1] N ec iam publicis magis consiliis Servius quam privatisi munire opes, et ne, qualis A nci liberum animus adversus Tarquinium fuerat, talis adversus se Tarquini liberum esset, duas filias iuvenibus regiis, Lucio atque A rrunti Ta?rquiniis, iungit; [2] nec rupit tam en fati neces sitateti! humanis consiliis quin invidia regni etiam inter domesticos infida om nia atque infesta faceret. Peropportune ad praesentis quietem status bellum cum Veientibus - iam enim indutiae exierant - aliisque E truscis sum ptum . [3] In eo bello et virtu s et fortuna enituit Tulli; fusoque ingenti hostium exercitu haud dubius rex, seu pa trum seu plebis animos periclitaretur, Rom am rediit. [4] A dgrediturque inde ad pacis longe m axim um opus, ut, quem ad modum N um a divini auctor iuris fuisset, ita Servium conditorem omnis in civitate discriminis ordinumque, qui bus inter gradus n uocaboli delle cole uecchie,piu degne di cognitione:8f in quelle; molti nomi d i pae(ìj&citti,fium i,m òti,Se luoghi, illuftrati co nomi moderni : EtappreiTo la ualuta delle mone-te Rom ane,ridottaal pregio di quelle de tem» pi noftri : inlìeme con la dichiaratione d i tutte le mifure, quàto i (lato nè> cellàrio alla piena intelligen za dell’Auttore.
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