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Italian Pages 164 Year 2002
SALVATORE QUASIMODO NEL VENTO DEL MEDITERRANEO ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE PRINCETON 6-7 APRILE 2001 a cura di Pietro Frassica
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Testi di Luciano Erba, Lia Fava Guzzetta, Gilberto Finzi,
Elio Gioanola, Jolanda Insana, Giovanna Ioli, Giorgio Luzzi, Alessandro Quasimodo, Danilo Ruocco, Giuseppe Savoca, Paolo Valesio
SALVATORE QUASIMODO NEL VENTO DEL MEDITERRANEO ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE PRINCETON 6-7 APRILE 2001
a cura di Pietro Frassica
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© Novara 2002 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571
www.interlinea.com Stampato in Italia, Nuova Tipografia San Gaudenzio spa, Novara ISBN 88-8212-340-5
Qualsiasi riproduzione, anche parziale, dei testi che compongono il libro dovrà essere preventivamente autorizzata per iscritto dall’editore
In copertina: Giacomo Manzi, Ritratto di Quasimodo, 1960 circa progetto grafico di Elisabetta Fordiani
SOMMARIO
Avvertenza Premessa (PIETRO FRASSICA)
Catullo-Quasimodo (GILBERTO FINZI)
Quasimodo: la passione del figlio (ELIO GIOANOLA) Semantica del tempo e dell’oltre nella raccolta Ed è subito sera fra Acque e terre e Oboe sommerso (LIA FAVA GUZZETTA) La Sicilia spiega il mondo: la parola di un «siculo greco» (GIOVANNA IOLI) Quasimodo tra teatro fatto e teatro visto (DANILO RUOCCO)
Quasimodo tra nuova poesia e nuova traduzione (GIUSEPPE SAVOCA)
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«IL POETA MODIFICA IL MONDO»: I POETI SU QUASIMODO
Salvatore Quasimodo: una vicenda infinita (LUCIANO ERBA)
L’incontro, gli incontri (JOLANDA INSANA) L'esilio valtellinese di Quasimodo (GIORGIO LUZZI) Quasimodo, la fitomorfosi e I’(in)(di)visibile
(PAOLO VALESIO)
APPENDICE Quattro scritti tradotti in inglese da Scott Surrency con una presentazione di Alessandro Quasimodo Indice dei nomi e delle riviste
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AVVERTENZA
Questo volume raccoglie i testi delle relazioni, degli interventi e delle testimonianze letti nel corso del convegno internazionale Salvatore Quasimodo. Nel vento del Mediterraneo, che si è svolto a Princeton nei giorni 6-7 aprile 2001. La manifestazione é stata organizzata dal Dipartimento di lingue e letterature romanze dell’Università di Princeton, con l'appoggio generoso del Council of the Humanities, della Dorothea Van Dyke McLean Association, del Program in Italian Studies e dello Stanley J. Seeger Hellenic Fund. La pubblicazione degli atti è stata resa possibile grazie al contributo dell’ Alfred Foulet Publications Fund dell’Università di Princeton.
Ringrazio i colleghi Pier Massimo Forni (John Hopkins University) e Alessandro Vettori (Rutgers University) per la disponibilità e la vivace partecipazione con cui hanno condotto i lavori delle due giornate. Sono altresì grato ad Alberto Bianchi, Flora Ghezzo, Simone Marchesi, Andrea Ricci e Scott Surrency per l’entusiasmo con cui si sono affiancati all’organizzazione del convegno, facilitandone il regolare svolgimento. Sono due i nuclei intorno ai quali si è sviluppato il discorso su Salvatore Quasimodo: quello costituito dagli interventi di studiosi che hanno delineato un quadro articolato e criticamente vario sia dell’attività letteraria sia delle esperienze esistenziali di un poeta che ha attraversato un tempo di eventi grandiosi e tragici; e quello dei poeti che nel corso della tavola rotonda («I/ poeta modifica il mondo»: i poeti su Quasimodo) hanno rintracciato trame e coordinate capaci di attribuire nuovi significati al lavoro e alla figura del poeta. Chiude il volume un’appendice di brevi testi quasimodiani (tradotti per la prima volta in inglese da Scott Surrency), che segnano alcune tappe fondamentali del poeta e per questo essenziali alla comprensione del suo itinerario esistenziale e artistico. Il loro prezioso significato è stato illustrato dalla chiara introduzione di Alessandro Quasimodo, a cui va un ringraziamento particolare per essere stato presente, con attenta partecipazione e con la verità delle sue letture (Salvatore Quasimodo, operaio di sogni). A lui dedico
questo lavoro con gratitudine, con amicizia. PE Princeton, dicembre 2001
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PREMESSA
La motivazione di questo incontro é solo in parte da ricercarsi nella ricorrenza del centenario della nascita di Salvatore Quasimodo (1901-1968); P'intento profondo dell’iniziativa è stato invece quel-
lo di sollecitare una ripresa degli studi sulla sua opera, rivolgendo un’attenzione maggiore a questo grande poeta, che ha saputo inventare metafore liriche di alta creatività. Una attenzione non soltanto rivolta alla fenomenologia specifica delle strutture poetiche, ma anche a quelle testimonianze che contribuiscono a integrare la figura dell’uomo e dell’intellettuale, su cui non pochi malintesi si sono accumulati nel tempo. Per tentare di superare alcuni di quei malintesi, non infrequenti in campo letterario, che il tempo tende spesso a cristallizzare, si è pensato di dare vita a un incontro che vedesse insieme studiosi che hanno dedicato non poche energie sia a Quasimodo sia in ge-
nerale alla poesia del Novecento, accanto ad alcuni tra i più importanti poeti di oggi. Attraverso l’esame di tutta l’opera, può essere avviato un nuovo discorso che restauri nella sua verità il complesso universo umano e poetico quasimodiano e ne recuperi gli importantissimi valori: linguistici, di traduzione, di critica teatrale, ma anche politici, sociali ed esistenziali. Gli apporti critici e testimoniali assicurati dal convegno convergono nella testimonianza di una straordinaria felicità intellettuale, quell’implesso di sofferenza e gioia creativa con cui Quasimodo frequentava la letteratura, spendendosi di persona
nella sempre rinnovata ricerca di esiti originali e di impegno («Nessuna cosa muore, / che in me non viva», Sevze). Così emerge
con forza una figura di poeta per il quale l’unico strumento di opposizione al progressivo inesorabile cancellarsi di ogni identità individuale e collettiva, di ogni etica personale e comunitaria può es-
sere delegato alla poesia. Di qui, come già nel 1936 sosteneva Sergio Solmi, l'estrema fiducia concessa alla parola poetica in sé: «più che l’immagine, più che il verso, l'organismo costitutivo, la cellula elementare è la parola». Una parola portata quasi all’incandescenza espressiva a motivo
dell’incrociarsi in essa di una duplice tensione, insieme spirituale e
PIETRO FRASSICA
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fisica, astratta e, per cosi dire, biologica («linguaggio fatto di elementi vegetali» lo ha definito Anceschi), nel continuo riferimento a un paesaggio insieme realissimo e assoluto, in cui convergono Modica come Messina, ma anche la Magna Grecia, Milano e la Lombardia, che diventano proiezioni esterne della sua propria geografia interiore. La cifra simbolica capace di coagulare in una identita di fondo
i più diversi aspetti del paesaggio è costituita dall’immagine del vento. Per questo il vento di Quasimodo non è solo «il murmure d’ulivi saraceni» (Strada di Agrigentum), né può essere circoscritto a quello che ricorda i giorni felici della brigata messinese della celeberrima Vento a Tindari (di cui — com’é noto — facevano parte
Salvatore Pugliatti, Giorgio La Pira, Vann’Antò).
È un vento che «alza» le «nuvole», è il «segno vero della vita», intimamente circondato dalla famiglia semantica di termini ad-alta frequenza come profondo, segreto, dentro, collegati ad altri come isola, buio, centro, tanto da costituire una vera e propria costella-
zione figurale. In tale sistema il vento è già di per sé significativo, poiché rispecchia l’esigenza di trovare nei suoi movimenti simboli e suggestioni: Là dura un vento che ricordo acceso DA, [...] Anima antica, grigia di rancori, torni a quel vento [...] (Strada di Agrigentum)
Nel nord della mia isola e nell’est è un vento portato dalle pietre ad acque amate; a primavera apre le tombe degli Svevi; i re d’oro si vestono di fiori. (Sudle rive del Lambro) questo vento indolente, che ora scivola basso tra le foglie morte o risale. (Lettera)
Lieve, errabondo, fugace, intristito, il vento quasimodiano è presente come automovimento, come espansione dell’io («fammi
vento che naviga felice», Curva minore), o anche come voce som-
mersa dell’identificazione più sotterranea («che vento profondo m'ha cercato», Vento a Tindari). Un vento interno che riflette il
movimento esterno («un dondolio di lampade / dalle botteghe tar-
PREMESSA
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de / piene di vento e di tristezza», Vicolo), in cui l’oscillazione senza alcuna destinazione si carica di una tristezza immotivata, e tal-
volta diventa allegoria di protesta politica («il paese è squassato da
un vento di tragedia, un vento triste di fame e di disperazione», I/
partigiano, 4 novembre 1944). Ma è anche un vento che unisce quello che il mare separa («buio murmure di mare», S’ode ancora il mare; «mi giunge il ven-
to se in te mi spazio, / con esso il mare odore della terra», Terra). Dei vari mondi che si toccano nelle stesse acque, il vento fa un territorio domestico, breve, riecheggiante delle stesse voci, degli stessi rumori, degli stessi odori. In altre parole, è il mare della vicinan-
za, quel Mediterraneo che Quasimodo non vedeva mai soltanto con i propri occhi, ma anche attraverso le immagini della poesia a lui anteriore, antica e moderna. Per questo i suoi modelli di percezione e descrizione si mescolano, si confondono e si traducono in
forza positiva: perché, in quanto originali e originari, si trovano ancora nello stadio aurorale della reciproca contaminazione. Un mare che separa e un vento che unisce, chiuso fra terre. L'immagine che ne risulta è invariabilmente quella di un crocevia, del teatro dello scontro-incontro tra occidente e oriente, tra nord e sud, porto felice da cui si apre l’orizzonte della cosmovisione del poeta. A questo proposito val la pena ricordare la risposta che Quasimodo diede, durante una conferenza tenuta il 9 maggio 1960 all’Università di Princeton, a una dottoranda che sosteneva di ave-
re individuato nella sua poesia “simboli” di un calore intensissimo accanto ad altri di estrema freddezza. Con il suo solito sorriso, Quasimodo prontamente rispose: «Non mi pare sia necessaria al-
cuna spiegazione: sono nato in Sicilia e mi sono trasferito a Milano, ed è lì la sorgente delle mie immagini». Per la cronaca, vorrei aggiungere che il ricordo di quella indimenticabile visita e l'entusiasmo suscitato dal poeta nel campus universitario era ancora vivissimo quando nel 1975 giunsi a Princeton, stando al racconto di alcuni colleghi che quindici anni prima avevano avuto la ventura di assistere all'evento. Conclusasi la conferenza “ufficiale”, che era stata tenuta nella Social Science
Lounge della Firestone Library, il poeta, uscito all’aperto e affascinato dai luoghi e dalla bellezza del tramonto, improvvisò un recital di sue poesie (egli sapeva mirabilmente recitare i propri versi) nello spazio tra la biblioteca e la chiesa gotica profilata sull’orizzonte
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PIETRO FRASSICA
di fuoco, offrendo un entusiasmante spettacolo, capace di cattura-
re l’interesse anche di coloro che con la lingua italiana non avevano alcuna familiarità. Della calorosa accoglienza ricevuta in quell'occasione Quasimodo conservò un ricordo vivo. Prova ne è la
cartolina illustrata con un interno del Duomo di Milano inviata alcuni giorni dopo ad Arthur Szathmary, professore di estetica e in quegli anni anche direttore del Creative Arts Program, che con il Dipartimento di lingue e letterature romanze aveva sponsorizzato la visita del poeta: Carissimo Professore,
rimpiango gli amici di Princeton e i prati rosa e verdi;
e il silenzio di donne, che significa pace. Cordialmente, Salvatore Quasimodo
Pur nel limite imposto dal messaggio occasionale è facile cogliere nei colori dei prati «rosa e verdi» del campus la memoria di quelli di «una luna rosa e verde» in Che lunga notte. Inoltre, il colore «verde» — anche se di diverso significato rispetto al «vero e falso verde» della donna quasimodiana — è seguito anche qui dalla presenza/assenza femminile. Mentre il silenzio/assenza delle donne «che significa pace» e che evoca i numerosi luoghi in cui il poeta esorcizza la paura dei silenzi mediante concrete rappresentazioni visive e uditive («In silenzio guardiamo questo segno», Tenzpio di Zeus ad Agrigento; «senza voci e figure», Airone morto; «La presenza femminile senza volto», Sulle rive del Lambro; «In questo silenzio che rapido consuma», Elegos per la danzatrice Cumani) è dettato da una discriminante regola accademica, che fino al 1969 tenne separate le università maschili da quelle femminili, con non poco disappunto del poeta. PIETRO FRASSICA
CATULLO-QUASIMODO di Gilberto Finzi
Un’antologia di Catullo? Un cenno per questi Catulli Veronensis Carmina può servire come nota di giustificazione, dato che il testo pubblicato è pulito d’ogni appoggio prefativo. Esiste, e non solo scolasticamente, una “retorica” su
Catullo enfant terrible del suo secolo, una sorta di Cocteau dell’epoca. Parlo del Catullo libero, epigrammista. Si dà molta importanza, per la conoscenza dell’uomo Catullo, a quella sorta di licenza (di natura letteraria, del resto) verbale, ma anche morale diciamo, così lontana dalla poesia quanto lo può essere un grido da un canto. Catullo riportato ante lettera sul piano d’un Panormita! Non una luce negli epigrammi (anche distesi) catulliani, una grigia, desolata “informazione” d’un momento, d’una giornata di sensi inquieti. Quello che interessava a noi era il Catullo delle elegie (nemmeno quello degli inni e degli epitalami, anche questi di derivazione alessandrina), là dove la sua pena d’uomo raggiunge l’accento più eterno, là dove non più Callimaco lo tocca ma la sua natura di latino, la sua umana disperazione di giovane già destinato alla morte. Che più? A ognuno, dunque, il suo Catullo.
Così il grande traduttore parla del “suo” Catullo, distingue e sottolinea, nella parte finale di un breve saggio del 1945, Traduzioni dai classici:' ed è questo il più lungo intervento che Quasimodo dedicherà a Catullo. Ma il testo della traduzione quasimodiana non è soltanto «pulito d’ogni appoggio prefativo»; è anche privo di qualsiasi indicazione filologica relativa al testo originale latino. Nel Chiarimento alle traduzioni premesso ai Lirici greci il poeta aveva riservato il finale della nota medesima alla filologia e ai testi originali utilizzati; ed era quella la nota che conteneva la prima, orgogliosa enunciazione del metodo traduttivo contrario a ogni linguaggio «aromatico» e classicheggiante e a qualunque accosta-
mento all’originale greco che non fosse l’ipotesi di una «ricerca equilirica»euna «resa di voce poetica». Niente di tutto questo, né in Catulli Veronenis Carmina, la prima stesura dell’antologia quasimodiana, uscita nel 1945 per le edizioni di “Uomo”, né in quella
definitiva, Canti di Catullo, edita dieci anni dopo nello “Specchio” mondadoriano. Soprattutto prezioso sarebbe stato il riferimento all’edizione originale seguita (sarà stata quella di Oxford del 1867, di R. Ellis, o quella più recente di Torino del 1941, di I. Cazzani-
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ga?), perché avrebbe potuto dar conto di svariate anomalie, differenze, versi mancanti, del testo latino usato dal traduttore. È il XXXI carme — una delle più belle e note poesie sul tema della lontananza, A Sirmio — il primo a essere tradotto: compare infatti nel n. 20 della rivista “Corrente” (15 novembre 1939) affiancandosi a numerose altre traduzioni di quel periodo. Il medesimo carme XXXI, insieme al LXV (A Quinto Ortensio Ortalo), viene incluso, in
Ed è subito sera (1942), nell’Apperndice che comprende traduzioni varie, da Saffo, Alceo, Erinna, Anacreonte, Ibico, Simonide, Archi-
loco e Anonimo — e, con Catullo, dal Virgilio delle Georgiche. Ma è piuttosto nella Milano nera e bombardata tra la fine del ’43 e l’aprile del ’45 che, solo e nascosto, Quasimodo traduce, dopo I/ Vangelo secondo Giovanni (che uscirà nel 1946) e Dall’Odissea (1945), gli al-
tri trenta canti di Catullo. Il colophon di Catulli Veronensis Carmina — i trentadue canti della prima traduzione quasimodiana — reca la data «24 maggio 1945»: meno di un mese dopo la vittoria sui nazifascisti. È una data della gioia collettiva, è un’esaltata esplosione di amore nel ritorno a un’idea di civile convivenza: e allora si pubblichi il libro della passione erotica e dell’antico vivere eticamente. Il nostro poeta ha tradotto per affinità di gusto e per ulteriore prova di abilità, mentre rimaneva nel suo rifugio: fuori, il coprifuoco e le retate dei fascisti. Anche Catullo può essere un antidoto contro la violenza, ma diventa, subito dopo, un nuovo modello di traduzione
poetica fra dottrina e amore, in un mix esemplare di quotidianità del sentire, linguaggio appassionato e stilizzazione dotta.
Di Di tutti i poeti antichi Catullo è forse il più amato, il più letto. Invocato dagli amanti, parafrasato dalla passione. Ma Catullo che canta Lesbia e i suoi tradimenti è un’icona romantico-moderna: in verità non si può rinunciare né al canto lirico-elegiaco dell’amore né alla violenza verbale e alle folgori sintattiche dell’epigrammista che non rispetta politici, nuovi ricchi, arrivisti. Questo poeta del I secolo a.C. (le sue date probabili sono 87/84-54 a.C.) molto deve alla cultura, alla poesia di quelli che lo hanno preceduto, i greci e soprattutto gli alessandrini (come Callimaco). I poeti come lui, che scrivono con libertà tematica e autonomia linguistica versi dotti e
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difficili in tempi che precedono di poco Giulio Cesare e le trasformazioni sociali e politiche della Repubblica, vengono detti, con parola greca, nedteroi, o latinamente poétae novi: nuovi per la cultura che esprimono e per la ricerca che affermano. Tra loro eccelle Caio Valerio Catullo, e la sua famaè legata a un unico Liber di carmina (canti). I canti di Catullo sono centosedici, più tre frammenti, tradizionalmente divisi in tre gruppi (secondo un criterio metrico e strutturale): nuwgae, scherzi, cose leggere in vario metro, dal canto I al LX; carmina docta, poesie raffinate, canti colti, poesie letterarie lunghe e lunghissime dense di citazioni e di miti, luoghi e personaggi, dal canto LXI al LXVIII; nell’ultima parte si raccolgono epigrammi ed elegie, temi vari in distici elegiaci, ancora amore e passione ma anche invettive e licenze: il lamento per la morte del fratello accanto all’ombra dell’antica fiamma, il gesto di spregio e l’infrazione individuale e politica. In Catullo forse più che in altri autori c'è un mondo del passato che brulica (per così dire) di presente: amori e violenze verbali sembrano esorbitare il tempo in cui sono stati scritti per entrare nelle nostre menti come attuali. Lumano, si sa, è in ogni tempo in
preda alle medesime passioni, i sentimenti sono ancora quelli, lo dice proprio Quasimodo, «della pietra e della fionda». È cambiato il modo di esprimerli, il linguaggio, la pronuncia, la sintassi. E di come tutto muti di epoca in epoca è dimostrazione palese la traduzione, ogni traduzione ma soprattutto quella di poesia. Catullo è sempre stato un vertice della poesia, principalmente di quella d’amore (che ha talvolta oscurato quella epigrammatica della violenza verbale e della volgarità necessaria). È stato tradotto e ri-
tradotto, prima ma anche dopo l’esempio insuperato— e quasi sempre insuperabile — del nostro poeta; con Catullo si sono cimentati anche poeti moderni di vaglia raggiungendo ottimi risultati di “resa
poetica” uniti a efficacia linguistico-sintattica e a pronunciabilità, ossia disinvoltura verbale, quotidianità corrente del testo catulliano. Ma al di là delle affinità poetiche e ideali, che possono anche risultare fittizie, di Salvatore Quasimodo con un poeta dell’antichità (e il nostro poeta-traduttore ne tradusse tanti che ogni più stretto legame rischierebbe di diventare addirittura controproducente), pur senza ripercorrere le tappe dell’idea quasimodiana del tradurre in sé, cioè del far diventare “poesia italiana”, parola e forma metrica nostra, un testo scritto in tutt'altra condizione temporale-linguisti-
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ca-culturale, vale la pena ricordare alcune affermazioni fondamentali del poeta che traduce. La prima e piu importante: Una giustificazione al mio lavoro vuole essere di natura poetica, la sola che autorizzi la lettura di un testo sempre presente nei secoli di una raggiunta civilta europea.”
Dice poi Quasimodo a proposito dei testi frammentari di Saffo, spesso accostati o riuniti con grave scandalo dei filologi: Nella frequenza assidua dell’economia poetica non aggiunsi mai un aggettivo negli spazi bianchi dei suoi frammenti (si sa quanto peso abbia un aggettivo nel verso d’un poeta), mai una “cosa” che non fosse da lei accennata, mai una pausa che non fosse nella sua segreta sillabazione.
E viceversa, affrontando I/ Vangelo secondo Giovanni: qui ho dato importanza a tutte le particelle greche, che in altri autori si possono trascurare;
e questa attenzione produce alcuni importanti risultati di chiarezza in passi ardui. Di Virgilio, «silenzioso e casto, contadino della
piana e raffinato amante delle lettere», antologizza le Georgiche affrontandole «nei giorni della furia tedesca e latina» (notevole la finezza, che nell’evitare l’oscura odiosa parola “fascista” è forse accostabile alla litote). Molto dura quest’ultima prova: ben sette furono le “trascrizioni” delle Georgiche. I latini, dicono, sono più difficili dei greci, quando si tenta una traduzione; e forse è vero: i latini sono analitici là dove i greci sono densi e fulminei; i primi ragionano dove i secondi evocano.’
Ed è proprio nella Nota del Traduttore delle Georgiche* che Quasimodo traccia un sintetico ritratto letterario di Catullo (che presto tradurrà): Anche Catullo, fra i quattro o cinque poeti del periodo augusteo, è lontano dai toni alti; sfiora appena l’ordine dell’anima greca e ozierà compiaciuto sul-
ca
CATULLO-QUASIMODO
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la vaghezza di Callimaco per poi continuare un suo diario elegiaco fitto nelPeco della commedia plautina.
E come sempre una scelta d’autore che spinge il poeta siciliano a tradurre Catullo, una affinità elettiva tematica e scenica, lingui-
stica e poetica (cioè metrica, versificatoria, musicale). È il gusto
che dirige anche l’operazione catulliana, con la scelta dell’autore da tradurre, prima di tutto, quindi col piacere della scoperta dei singoli testi e con la sperimentazione di forme e formule, parole arcaiche o quotidiane come è nella realtà del poeta latino. In seguito, l’insoddisfazione di certi risultati poetico-traduttivi determina un duro e severissimo /abor limae che dà la misura dell’abilità e dell’arte del grande traduttore mentre muta in modo anche rilevante l'evidenza testuale. Si spiega così la distanza, spesso sostanziale, fra la prima edizione del ’45, Catulli Veronensis Carmina, e la definitiva del ’55, Canti di Catullo, anche a prescindere dai nove canti
in più che questa comprende.’ I trentadue canti della prima edizione (che include i due, XXXI A Sirmio e LXV A Quinto Orten-
sio Ortalo, pubblicati in appendice a Ed è subito sera nel ’42) vengono largamente rielaborati, rimaneggiati, trasformati. A volte basta una virgola, inserita oppure tolta, un aggettivo cambiato oppure sdoppiato, un verbo precisato o una specificazione pleonastica eliminata; altra volta invece la prima traduzione è stravolta; nella
definitiva lezione è sempre l’autonomia del testo tradotto a risaltare e a fingere egregiamente la poesia d’autore, come si era già visto nei Lirici greci. Un esempio per tutti, il canto I, una dedicatoria all’amico storico Cornelio Nepote, vv. 6-7: tribus... cartis, doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Versione del ’45 (niente più che corretta): in tre libri cosi dotti, per Giove, e di duro lavoro.
Versione definitiva:
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in tre libri cosi ricchi di scienza,
per Giove, e di pensiero.
In quest’ultima il traduttore é pit libero, ha diviso i versi diversamente e si è concesso un’interpretazione “a senso” molto adatta
al lavoro di uno storico come Nepote. Notiamo che i dieci versi del testo latino sono diventati undici nella traduzione: Quasimodo non rispetta altra metrica che quella italiana e la sua propria voce poe-
tica, ed è un’altra regola aurea del suo metodo traduttivo. AI v. 9 dell’originale, «qualecumque», riferito al “libello”, al proprio libriccino di nugae, tradotto con «comunque sia» nell’edizione del ’45, diventa un bellissimo e diretto «così com’é» in quella del ’55. AI v. 10, «plus uno maneat perenne saeclo», la variante forse più inventiva: questo libriccino di nwgae possa vivere (si augura Catullo) «ancora più d’una generazione» (versione ’45); ma questo
ultimo verso si personalizza, e nell’edizione finale diventa il penetrante «ancora a lungo dopo la mia morte». Qui, accanto a Catullo, è Quasimodo che parla: un poeta con le
proprie ossessioni di morte e di sopravvivenza (si pensi al tiglio di Balatonfired, nella poesia Dalle rive del Balaton).°
Basti questo, non volendo cedere a una tentazione filologica che sarebbe certo sgradita all’ombra del poeta-traduttore, il quale sostenne sempre che l’indicazione del filologo prepara alla scelta di una parola o di un costrutto, ma non può esaurire la «densità poe-
tica» di un testo.
3. Di fronte al Catullo quasimodiano nelle due versioni a distanza di dieci anni, sembra interessante anche il diverso atteggiamento tenuto dalla critica. Nel 1946, poco dopo la fine della guerra, non appena un minimo di ritrovata “normalità” consentiva un riaccostamento alla poesia, recensendo I/ fiore delle Georgiche e Catulli Veronensis Carmina, Antonio La Penna esprimeva chiaramente alcune riserve. Per
motivi differenti i due poeti latini paiono al filologo lontani dalla ricerca e dagli interessi di Quasimodo: Catullo perché proveniente
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da un’esperienza alessandrina, Virgilio, in modo più oscuro, per-
ché lontano, anche se meno di Catullo, dalla freschezza di canto di
Saffo o di Ibico. La Penna giudica dunque queste due traduzioni
solo «come un’opera di pregevole gusto»; anche se poi è costretto ad ammettere che, nonostante il molto minore lavoro di scavo sul-
la parola e sul nucleo originale, «all’isolamento espressivo della parola si oppone qui una viva sensibilità ritmica». In particolare, di Catullo Quasimodo ritroverebbe il nucleo lirico autentico lontano dal /usus, dall’epigramma e dalla satira, e cioè piuttosto nelle liriche della pena, di esiliato o di amante, e soprattutto nella «leggerezza incantata di certi inizi». Dieci anni dopo, recensendo i nuovi Canti di Catullo, un critico militante, Arnaldo Bocelli, acutamente rileva le differenze testuali
fra la prima e la seconda versione analizzando le traduzioni di due canti famosi, XXXI e LXV (A Sirmio e A Quinto Ortensio Ortalo),
e avanza un’ipotesi di lettura del testo tradotto: Perché Quasimodo nella sua scelta ha voluto comprendere un po’ tutte le note della lirica catulliana, dalle elegiache ed erotiche alle conviviali, dalle erudite e mitologiche (cimentandosi persino con la “Chioma di Berenice”) alle satiriche, alle irose, alle veementi nell’odio o nell'amore. Ma in genere le satiriche e le epigrammatiche, di una epigrammaticità spesso a sfondo licenzioso o
addirittura osceno, sono quelle che meno gli riesce di rendere. La sua sensualità è di tutt’altra natura o impasto da quella di Catullo; e i frizzi, le allusioni,
le anfibologie di questo, passando nella sua parola, finiscono per perdere di mordente.
Per questo, tutte le versioni quasimodiane sono al medesimo livello di elaborazione tecnica e di raffinatezza verbale «anche se non della medesima felicità poetica». Ma citando, a conclusione, i canti III (il passero di Lesbia), V (i baci), CI (la visita alla tomba
del fratello), Bocelli rende omaggio alla qualità poetica riconoscendo che queste versioni «vanno senz'altro annoverate fra le bel-
le poesie di Quasimodo». Le conclusioni dei critici riportano alle osservazioni iniziali, a quanto il poeta stesso aveva anticipato nel 1945 terminando con quella che pareva una battuta di spirito: «A ognuno, dunque, il suo Catullo». La stessa scelta dei canti è significativa: è evidente la predilezione per le liriche segnate dalla felicità drammatica o elegiaca,
individuate dalla dolcezza o dall’amarezza che tocca l’esperienza
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dell’uomo. Una lettura di gusto passa allora attraverso le parole consuete, dell’uso quotidiano, piene di colloquialità e di disinvolte connotazioni, l’accorta ricreazione, la sintesi allusiva di emozioni o
impressioni più prossime a noi, infine un verso duttile e di varia misura che lascia prevalere l’endecasillabo ma non pretende di rendere la polimetria di Catullo. Conclude Caterina Vassalini? nella quarta di copertina dei Canti di Catullo nella collana mondadoriana “Lo Specchio”: Così ogni carme di questa scelta, felice nel presentare le voci diverse della poesia catulliana [...] rivela i suoi valori più segreti e più autentici, in virtù dell’esperta, attentissima sensibilità del traduttore poeta.
1 S. QUASIMODO, I/ poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano 1960, pp. 73-76. 2 Ib., Virgilio e le Georgiche, ibi, pp. 63-64; in precedenza, ID., Nota del Traduttore
premessa a I/ fiore delle Georgiche, Edizioni della Conchiglia, Milano 1942. In I/ poeta e il politico è datata «1941». > Le citazioni che precedono sono tratte sempre da ID., Traduzioni dai classici, in Il poeta e il politico... 4 Ip., Nota del Traduttore.
> Sono i canti XII, XIII, XXVI, XXXII, XLI, XLII, IV, LVI, CV. © Ip., Dare e avere, Mondadori, Milano 1966. 7 A. LA PENNA, “I/ fiore delle Georgiche” e “Catulli Veronensis Carmina”, in “Belfa-
gor”, I (1946), 1, 31 gennaio; poi in Quasimodo e la critica, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano, 19757, pp. 320-324.
* A. BOCELLI, Quasimodo e Catullo, in “Il Mondo”, 7 febbraio 1956; poi in Quasimodo e la critica, pp. 365-369. ? Alla filologa CATERINA VASSALINI sono dovute introduzione e note al Fiore dell’Antologia Palatina, traduzione di S. Quasimodo, Guanda, Parma 1958, poi Dall’Antologia Palatina, Mondadori, Milano 1968.
QUASIMODO:
LA PASSIONE DEL FIGLIO di Elio Gioanola
Succede a non pochi poeti di essere inchiodati a qualche loro verso, che diventa l’epitome proverbiale del loro universo espressivo, fino a una deformazione ai limiti della caricatura. A Quasimodo è capitato con il troppo celebre ternario di Ed è subito sera. Eppure è quasi obbligatorio cominciare da qui per chi voglia tentare un approccio a ciò che il poeta definiva il «contenuto formale» della sua poesia, andando subito al cuore di una tematica che, a mio avviso, oc-
cupa il centro dell’opera quasimodiana. Che il poeta abbia voluto esporre in tutta visibilità quei versi è fuori di dubbio, se li ha collocati in posizione incipitaria nella raccolta definitiva della sua prima produzione, a cui ha espressamente voluto dare come titolo proprio Ed è subito sera. Come sappiamo, il ternario componeva l’ultima strofa di Solitudini nell'edizione originaria di Acque e terre, da cui è stato estrapolato nell'autonomia assolutizzante con cui ora lo conosciamo. Con tutta evidenza il poeta ha inteso, con tale prelievo e la collocazione in esordio nell’edizione del ’42, offrire una significativa ouverture a quanto prodotto e trascelto fino a quel momento, quasi a indicare con una sintesi folgorante il senso profondo della ricerca poetica fino ad allora perseguita. Subito si accorse della centralita di quei tre versi Carlo Bo, che in Orto studi scrive: Si sbaglierebbe di molto pensando a un artificio retorico, a un bisogno monumentale di epigrafe. Non si tratta di una scultura vanamente esterna ma di un “mottetto” che ha svolgimento e eco nell’anima.!
Ma bisogna dire che Bo non è certo stato il solo a mettere in rilievo il radicamento di quei versi nel cuore della sensibilità quasimodiana e basti citare un critico, fin troppo simpatetico, come Giuseppe Zagarrio, che sottolinea come Ed è subito sera costituisca «l’elegia moderna più tipica ed essenziale della nostra letteratura». Il ternario in questione appare incatenato anche fonosimbolicamente dalle ripercussioni del tema-guida della solitudine, messo in rilievo già nel titolo del componimento di provenienza. «Solo», «sole» e «sera» germinano dalla cellula fonica della sibilante originaria e presentano nell’identica struttura bisillabica una serie di
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consonanze e allitterazioni reciprocamente vincolanti, mentre sul
piano dei significati scandiscono direttamente o indirettamente i momenti di una derelizione assoluta, a/l-pervading. Il sole non è più che lo strumento di una vera e propria crocefissione («trafitto») per colui che sta solo nel centro stesso del mondo degli uomini («sul cuor della terra»), nell’attesa agonica dell’imminente seramorte. Al di là delle facili indicazioni, che la critica non ha mancato di dare in abbondanza, sulle generali prospettive ricavabili dal testo sulle condizioni esistenziali dell’uomo contemporaneo (quasi
come per il montaliano «male di vivere»), interessa qui, dal ristretto punto di vista adottato, evidenziare le personalissime attinenze col vissuto del poeta. Il testo infatti sembra poter introdurre in quell’oscura regione del sottosuolo mentale in cui prende origine una sofferenza profonda, in cerca di una forma o di una figura su cui modellarsi per trovare la strada dell’espressione. Può guidarci in questa direzione il testo stesso da cui i tre versi sono stati prelevati, risultando qui esplicite le private motivazioni e condizioni della solitudine: Una sera: nebbia, vento,
mi pensai solo: io e il buio. Né donne; e quella che sola poteva donarmi senza prendere che altro silenzio, era già senza viso come ogni cosa ch’é morta e non si può ricomporre.
Lontana la casa, ogni casa che ha lumi di veglia e spole che picchiano all’alba quadrelli di rozzi tinelli.
La sensazione una sera piena di possibile contatto. niera, lontana da
angosciante della solitudine è sperimentata in vento e di nebbia, nel buio che intercetta ogni La nebbia è indice sintomatico di una terra straquella delle origini, dove questa meteora sepa-
rante è sconosciuta. Infatti è «lontana la casa», ovviamente la casa
materna, nella quale brillano i lumi delle dolci veglie familiari e si avvertono i consueti rumori mattutini della ramazza sul rustico am-
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mattonato della cucina. Ma la casa lontana non é che il corrispettivo della lontananza dalla madre, la sola donna che può fare dono gratuito di sé al figlio e ora è solo più un’immagine scontornata, come le cose perdute che non hanno possibilità di recupero. La solitudine che trafigge il poeta-ognuno sul cuore della terra è corrispettiva di un abbandono, quello del figlio nei confronti della madre e quello della madre nei confronti del figlio. È avvenuta indubbiamente, a istituire il regime dell’abbandono, la cacciata dall’E-
den primitivo dell’unione madre-figlio, certo legata a una colpa originaria. E chi mai può avere sanzionato la cacciata se non il padre, destinatario delle ostili intenzioni del figlio, generatrici delle fantasie di colpa? Dice Oreste Macrì, collegando direttamente l'insorgenza dell’espressivita poetica a un fantasmatico profondo di questo tipo: Il cerchio tragico, o màndala negativo di persecuzione-aggressione, la “parola”, era l’unica zona franca ed esente dai rimorsi dell’Edipo non liberato, indeciso tra il ritorno sanguinoso all’isola materna e l'impossibilità di acclimatarsi altrove.’
Per questo, aggiunge il maggiore critico della poesia quasimo-
diana, è auspicabile una verifica biografica sulla fragile, delicata, infantile “psiche” interna e mitico-figurale di Quasimodo, di figliol prodigo ricacciato irriconciliato, e senza delega paterna nel mondo da conquistare.*
Quando sulle fantasie profonde di colpa e di punizione si innestano evenienze esterne in grado di inverarle nella realtà, allora davvero il trauma si fa piaga dolente, esperienza quotidiana della sofferenza da abbandono. Nel convegno messinese del 1985 dedicato al poeta c’è stata la testimonianza polemica ed emozionante dell’ultimo superstite della “brigata” di amici calabro-siculi, la cui memoria sublimata è nei versi di Vento a Tindari, Enzo Misefari,
che giustamente si duole nel suo contributo testimoniale di non essere stato nemmeno interpellato in occasione del convegno, a cui partecipa per iniziativa personale. Ebbene, questo vecchio avvoca-
to reggino dice, dopo avere mosso ai critici intervenuti l’accusa di
avere trascurato la concretezza dei dati biografici per le astratte di-
samine interpretative:
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Quando venne a noi la prima volta [siamo nel 1926, l’anno in cui Quasimodo
è mandato all’ufficio del Genio Civile di Reggio] era scosso nei nervi e i suoi occhi con poca luce rivelavano la condizione del depresso “su tutta la linea”.
In Calabria, dopo i durissimi anni romani, portava con sé «le sue stanchezze, la sua perenne depressione». «Noi lo incoraggiammo», aggiunge Misefari, «assicurandogli la sincerità del nostro parere sui suoi versi». Sulla base di questa diretta conoscenza del poeta, riportata ad anni sepolti dal tempo e dall’opera delle rimozioni, il testimone riporta alcuni dati biografici di grande interesse, sulla cui veridicità è difficile nutrire dubbi, dato il tipo di rapporti amicali e l’intatta memoria del vecchissimo avvocato: Da giovanotto sapeva poetare, ma non guadagnarsi la vita. Il padre lo scacciò di casa. Ed egli si avviò, umiliato e offeso, verso la sognata capitale d’Italia, dove però non incontrava che raramente dei paesani. Fame, umiliazioni, vergogna. Si trovò slow slow sul travertino di piazza Navona. Odio a 40 gradi verso il genitore. Odio indistinto verso tutto ciò che glielo ricordava. L'odio morboso si stabilizzò fino alla sua vittoria sul mondo. Allora perdonò ed il poeta suggellò il gesto sublime con una lirica di stupenda fattura
(il riferimento è alla grande lirica A/ padre, in La terra impareggiabile). Conclude Misefari con questo ultimo rimprovero ai critici: Gli insigni oratori intervenuti, venendo a conoscenza di tanti fatti del privato [non solo quelli accennati, ma i molti che avrebbe potuto riferire con una de-
bita preparazione], avrebbero ottenuto nuova materia per riflettere sulla complessità dell’opera quasimodiana, giungere forse alle radici e non limitarsi alle analisi delle fioriture del soprassuolo.’
Curioso come sono del sottosuolo, dove si origina il fantasmatico destinato a segnare le forme del contenuto di un’opera, le parole del vecchio Misefari mi incoraggiano all'esplorazione degli incunaboli della poesia quasimodiana, dove più trasparente è Pemersione di quel fantasmatico profondo. La critica estetica e quella variamente formalistica normalmente disdegnano di occuparsi degli esordi di un autore, per lo più segnati dalla provvisorietà e precarietà dei risultati espressivi, mentre spesso è proprio lì che è dato cogliere gli impulsi generatori di tutto un percorso creativo. Nel manoscritto rinvenuto tra le carte di Salvatore Pugliatti, I 0t-
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turni del re silenzioso, datato 1929-1930, c'è il lungo testo intitolato I/ bimbo canuto, la cui datazione è di molto anteriore se è stato
rintracciato nella biblioteca paterna da Girolamo Rampolla del Tindaro, figlio del professore di Quasimodo all’istituto tecnico di
Messina (il poeta lascia la Sicilia per Roma nel 1919). In questo autografo il testo è più ampio rispetto a quello del manoscritto Pugliatti e reca la dedica «A G. La Pira che sa piangere presso la mia anima». A questo testo La Pira accenna ripetutamente nelle lettere al fraterno amico, datate a partire dal 1922. Il lungo componimento vede come protagonista un vecchio mendicante con l’animo innocente di un fanciullo, che vive la propria condizione di derelitto
con animo mite e rassegnato, contrapponendosi a un altro mendicante dall’animo cattivo, ateo e bestemmiatore, che si è reso colpevole di un orribile infanticidio. Da costui il «bimbo canuto» si lascia persino derubare, ma alla fine stabilisce con lui un rapporto di fratellanza, fino a immaginare di «camminarg/i a fianco / per le strade del sole, per quelle della notte» e di raggiungere «un pensile giardino / di ciclami e di mortelle», una specie di Eden dove silenziosi uccelli sono «i fratelli taciturni / di chi canta la vita, / con
la voce di Dio, sopra la terra». Spira una forte brezza francescana in questi versi ingenui, fatta apposta per incantare il giovane La Pira, già catturato dagli incanti mistici e particolarmente sensibile alle lusinghe di madonna Povertà, sublimate dal santo di Assisi. Ma
Il bimbo canuto non è un exermplum edificante, sollecitato dall’esterno da suggestioni religiose più o meno estemporanee, perché nella figura del mendicante c’è un’evidente forma di proiezione identificativa, non senza precisi riferimenti autobiografici, relativi a una condizione realmente vissuta negli anni del soggiorno romano: Per credere [in Dio] bisogna ritornare col cuore di piccoli fanciulli, e poi pregare; pure se la fame, tenendovi per mano, zufola sorda e tartaglia con la morte, quando l’odore caldo del pane sveglia le strade cittadine. Questa femmina lùbrica, conoscere,
ch’ama giacersi con gli esseri sperduti, che vi rende come pozzi aridi su cui è rimasta a piangere col vento,
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impiccata alla rigida carrucola, una povera secchia in abbandono.
E interessante osservare come la condizione della mendicita, in
questo testo come in parecchi altri, sia fatta coincidere con quella del fanciullo, come se l’uno stato fosse direttamente dipendente dall’altro. Nella versione originaria la «femmina librica» della fame è fatta coricare non solo genericamente con «gli esseri sperduti», ma proprio con «i bimbi senza casa». Ora, senza casa e senza madre
è proprio il soggetto protagonista di Solitudini, il componimento generatore di Ed è subito sera. Il bimbo mendico (è questo il titolo
di una celebre poesia del Pascoli, l’orfano trascendentale per eccellenza) è nello stesso tempo colui che ha subito un destino di abbandono e colui che, attraverso l’esperienza del dolore, della fame,
dell’esilio e della solitudine, tenta di recuperare l’innocenza perduta, espiando una colpa di cui non conosce l’origine e la natura. Laltro testo conservato tra le carte Rampolla del Tindaro si intitola proprio I/ bimbo povero, e qui troviamo precisamente la figura del bambino mendicante, figlio forse di una «pallida prostituta»: È uno sempre il bimbo vagabondo che non trova nessuno che prenda la sua mano; è sempre Dio che cammina invano dinnanzi agli occhi àtoni del mondo.
Il componimento, datato addirittura 1917, esordisce con questo distico molto significativo: «Triste una casa senza bimbi; / ma più triste un bimbo senza casa». Dunque l’esilio dalla casa e dalla madre è vissuto fantasmaticamente prima ancora che le vicende della vita s'incarichino di dargli una traumatica sanzione. Questa poesia dei sedici anni è corredata, nel citato manoscritto, da un patetico commento di Giorgio La Pira, di cui vale la pena citare uno stralcio: Salvatore Quasimodo, nostro fratello di umiltà e di preghiera, è l’occhio dell’anima nostra che scruta nei profondi vicoli, nei bassifondi del mondo, nel cuore dei cani randagi per trarre a luce le supreme altezze di questo spirito vagabondo, solitario, senza casa e senza miserie, senza vincolo alcuno, maturato
di soffrimenti e di liberazione. Poeta, fratello mio, la tua parola possente come la predicazione di un santo scava troppo profondo nei sotterranei del nostro
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Di
essere umile: tu penetri le radici della vita, le rifai, le rendi purificate ed atte ad intendere il tuo canto di fanciullo canuto. Poverta di spirito, scienza di Dio, tu ci insegni col miracolo della tua réina: noi siamo gente povera, capace di sacrificio: abbiamo nel cuore desiderio di annientamento, poiché non ascendiamo con la vana ignoranza al dominio dell’essere, ma ci rititiamo con ineffabi-
le dolcezza verso l’origine che ci rischiara e ci rinnova.®
Il buon La Pira, qui come in tutte le sue lettere, si mostra ammiratore entusiasta del lavoro poetico dell’amico, in cui vede realizzarsi un vero e proprio ideale ascetico, di perfezione espressiva, del tutto parallelo al proprio ideale mistico-religioso. Ecco cosa leggiamo in una lettera del 1922: Io penso che il linguaggio sia la via del Signore: basta penetrarlo, basta scendere in esso, ricercarlo alle radici per vedere come da un solo tronco, da una sola inscindibile unità tutto si ramifica [...]. La lingua non ha che pochi suoni originari tutti provenienti da una Radice che non si rivela se non a chi vi mediti con fede e ammirazione.’
E in un’altra dello stesso anno: Totò, è pure vero, che solo ai poeti sia lecito di portare luce nei profondi dell’Essere [...]. S’io potessi [...] esclusivamente dell’arte tua nutrirmi, io, mendicante, avrei trovato la unica via diritta senza pericoli e senza affanni [...]. Sarei un Fanciullo Canuto, avrei realizzato, o Dio, quella sommità di valore cui tu
trai le anime in purificazione e immortalità [...]. Attraverso ai misteri della parola, nei suoi prodigi di suono, di musica e rivelazione l’Indicibile si frantuma, si lascia cogliere, si lascia rivelare, si lascia assimilare dalla nostra facoltà di uo-
mini. A te che sei maestro, padrone, possessore, di questo dono di parola, quanto ti dico non è nuovo: tra parola e parola c’è il non detto, il non espresso, l'ignoto potenziato di esistenza e di vita. [...] Totò, per noi non c'è via di mezzo: è solo per noi che esiste l'Assoluto, l’Accettazione Incondizionata, la
sofferenza acuta della ricerca e del dubbio.
E la conclusione della lunghissima lettera, redatta tra l'ottobre
e il novembre è questa: Tu ed io siamo i due aspetti della stessa infinità [...] insieme verso l’ascesi.!°
Sarà utile, in vista degli svolgimenti futuri della ricerca espressiva quasimodiana, tenere presenti queste indicazioni, tanto ingenuamente entusiastiche quanto acute, circa le mire totalitarie della ricerca
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poetica, nella consapevolezza, quasi incredibile per un provinciale ventenne degli anni venti, della natura intrinsecamente religiosa del linguaggio della poesia, non in rapporto a particolari contenuti devoti, ma per il suo accostarsi con quello che lui chiama l’Indicibile, proprio «attraverso ai misteri della parola, nei suoi prodigi di suono, di musica». «Il sacro sia la mia parola» ha detto Hélderlin, anticipando l’intuizione romantica e simbolista del linguaggio poetico come epifania del divino, nell’assolutezza di una forma che, nella sua
natura ritmico-musicale, ha caratteri di trascendentalità rispetto a qualsiasi contenuto.!! Difficile entrare nel cuore della poesia contemporanea, tra Otto e Novecento, prescindendo da questo investimento religioso del dettato poetico, significato dall’assolutizzazione delle forme espressive, con epicentro nelle ricerche di quell’autentico sacerdote dell’ascesi della parola non comunicativa che è Mallarmé. Ma qui ora interessa soffermarsi su quelle altre indicazioni dell’epistolario di La Pira che insistono sul ruolo del sacrificio nella duplice ascetica poetico-religiosa. Cogliendo la natura profonda della “mendicità”, quale è espressa dalle due poesie giovanili citate, il futuro sindaco di Firenze ha definito l’amico e se stesso «gente povera, capace di sacrificio», dotata di «spirito vagabondo, solitario, senza casa e senza miserie», con un accoglimento di tipo
espiatorio della sofferenza come liberazione e riscatto dalle colpe. In una lettera del 1923 c’è questa esplicita interpretazione della povertà come dono sacrificale: Io penso che la miseria che ogni giorno ti affanna si trasformi in povertà [che è appunto miseria trasfigurata dall’accettazione] e il tuo dolore sia dolce petché rammenta in maniera soave il gran lutto della via del Calvario: forse il tuo cammino per le strade della notte sarà riguardato come purgazione di ogni miseria e preparazione alla vita novella.!?
È appunto la parabola del buon mendicante raccontata nel Bimbo canuto e che La Pira indica come «mendicità suprema e pu-
rificata».!? Ebbene gli anni romani del giovane Quasimodo sono da vedere in questa prospettiva di dolore da abbandono e di accoglimento della solitudine mendica come espiazione di una colpa. Abbiamo sentito da Misefari della «fame, umiliazioni, vergogna» sofferte dal poeta sul lastrico di piazza Navona, dove una sera, aggiunge l'avvocato reggino,
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una donnina si avvide degli strani languori del giovane. Beveva, tornava a bere acqua e poi si sdraiava. S’intenerì, gli offrì alcune brioches, del latte, la propria tenerezza.!4
Inutile precisare che si tratta della Bice Donetti del celebre Epitaffio, l'umile donna sposata nell’ambiguo clima di reciproca compassione e perciò mai veramente amata d’amore. Ma gli accenni alle misere condizioni vissute nel soggiorno romano, e dell’autentica fame qui patita, non mancano certo nelle poesie degli esordi, come
già abbiamo potuto verificare. Ecco in uno dei testi dell’originaria Acque e terre, Convegno: E se mi guardi in tristezza ti ricordo, sorella, delle notti ch’io vissi accanto ai mendicanti, delle soste dietro ai banchi dei fiorai, presso la scala della Trinità, dove talvolta il sonno ho crocifisso con l’armonia di un verso tolto dall’abisso con pianto di disperso.
Di contro a queste condizioni di mendicità, il ricordo del «pane del fanciullo», frutto della fatica ma anche dono materno, fatto sacro dalla benedizione in forma di croce tracciata sulle forme mandate al forno: Tu non sai chi sia; né quale sole m/arse il volto e le palpebre, quali donne spartirono il giaciglio per le mie notti senz’alba, quali mani mi scossero nel sonno per dirmi che tarda era l’ora e la fatica è pane.
Pane di schiavo: ché un fascio di spighe battute sopra l’aia, un moggio di grano sfranto dalla macina versato in acqua con il sale e il lievito nella madia, e il gaio lavoro della madre
per la pasta e la forma incisa con la croce, da dare al forno avvampato dai sarmenti;
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un dono purissimo del fuoco: era quello il pane del fanciullo.
Nei Notturni del re silenzioso incontriamo questi versi, non per
nulla indirizzati al santo di Assisi, secondo la proposta lapiriana di trasformazione della miseria in accettata poverta: Signore d’ Assisi, se pure il mio male, che germina occulto, potessi domare;
ma quale ricchezza donare? Talvolta non ebbi nemmeno quel pane ch’ha sempre chi chiede e ch’impreca. (Cilicio)
L’accettazione anche della fame è infatti vista come prerogativa del mendicante buono, che appunto non chiede e non impreca; come fa invece chi dalla mendicità è travolto, senza alcuna possibilità di sublimazione: O mio Francesco, intriso di rugiada che pare sangue, e di ferite acceso,
un cilicio ho trovato per la strada e lo porto sul cuore; e non ha peso.
La lezione della strada, che viene dall'esperienza della solitudine, ha insegnato a fare della fame uno strumento redentivo, il cilicio che tormenta e non ha peso. Addirittura uno dei testi della rac-
colta s'intitola Fame e presenta nel modo più esplicito lo schema della povertà accettata senza protesta, in una prospettiva penitenziale che allenta gli stimoli della colpa e propizia il riscatto: Fame, da tempo t’accucci presso il mio giaciglio! Umile t’accolsi, ché non covo rabbia per alcuno [...]. Umile, ché sempre è stato poco il mio pane. Sapevo che, tremante, salivi le mie scale (con) scarne le gote come pietre montane.
La fame è detta «tragica amante / del poeta che piange», ma questa fame ha certo a che vedere proprio con la qualità di poeta
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di chi la soffre, perché l’inverno della penuria promette la fioritura imminente: E ancora stanca non sei del mio tugurio! Ma nevosa è la siepe di fragili ligustri, qualche piuma di verde, muto augurio,
c’è già sui rami di rugiada lustri.
Tutta citabile è Elemosina, una parabola essenziale della condizione miserabile che, offerta a Dio Padre, predispone all’essenzialità dell'esercizio poetico, fornendo la lima che affina la voce ancora rozza e offrendo quella luce che è il vero pane del poeta: In povertà di carne, come sono,
eccomi, Padre; polvere di strada che il vento leva appena in suo perdono. Ma se [...] vedendomi con gli Ultimi, bocconi, credendo nel disprezzo farmi male mi dicessero: «Poeta di straccioni»
avidamente tenderei la mano:
datemi luce: pane cotidiano.
La mano che non si stende per chiedere il pane, che pure manca, è pronta invece ad accogliere l’offerta racchiusa nell’invettiva del passante, che contiene la parola «poeta»: non solo «poeta degli straccioni», ma poeta-straccione egli stesso, e poeta in quanto straccione, colui che è steso bocconi con gli Ultimi si leva d’impe-
to a quell’offerta di luce racchiusa nella magica parola. Una splendida sintesi dei motivi accennati è offerta dall’ultima poesia della raccolta inedita, Piazza San Pietro, in cui si dice di una lunga fame patita proprio là dove sorge la basilica simbolo della cristianità: Tre giorni di digiuno, sgranati lungo i muri umidi e vischiosi, godendo il lezzo rancido di grasse cucine casalinghe, sul trivio, cercando anche nel ladro
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un viso di fanciullo triste e buono!
(eal Pescatore d’uomini, sono tutto solo, per te mi chino sotto il porticato
e piango la mia terra e la mia casa: tormenta di cenere che svampa.
Il «fanciullo triste e buono» è il poeta stesso, reso tale dalla sofferenza tacitamente accettata, lì nel luogo consacrato al primo degli apostoli, in una prospettiva sacrificale dichiaratamente cristiana
(«per te mi chino sotto il porticato», dice l’affamato rivolgendosi al «pescatore d’uomini», cioè nel nome di quanto tu rappresenti mi rannicchio come un mendicante sotto le colonne della piazza, ma
anche mi inchino alla tua solenne presenza). Dal fondo della sua umiliazione il poeta rimpiange la terra e la casa abbandonate: se ora si trova in quella condizione, «tutto solo», è perché c’è stata quella cacciata dall’Eden materno originario, piena di colpa e di pena, da scontare nel dolore e da convertire in riscatto. Nelle sue lettere Giorgio La Pira non soltanto indica all’amico, che si mostra sensibile all’invito, l'opportunità di trasformare la miseria dell’abbandono in francescana povertà, ma mette in primo piano la figura paradigmatica del sacrificio redentivo, cioè la Passione di Cristo. Abbiamo citato dalla lettera del 1923 il passo che dice «il tuo dolore sia dolce perché rammenta [...] la via del Calvario». Quando, dopo un'interruzione di quattro anni, l’epistolario riprende, leggiamo in una lettera del luglio del 1928: Accostiamoci a questi dolori di un Dio che li patisce per noi! Allora il nostro dolore sarà unito al Suo dolore, ed il Padre lo accoglierà come atto di amore che ci vale quale titolo per la vita eterna.
E in un’altra senza data ma dello stesso periodo: La straordinaria luce che tu possiedi dentro di te [si riferisce alla luce della creatività poetica] è la forza che deve sospingerti giorno per giorno a rinnegare in qualche modo i desideri della tua carne. Affinché attraverso la dura strada del Calvario, soffrendo con Cristo, ed essendo con Lui crocefisso, tu possa, spoglio così di ogni vincolo umano, libero da ogni affetto e sentimento terreno, toccare alfine definitivamente le vette intraviste.!4
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C'è molto ingenuo idealismo in queste proposte accese di una straordinaria intensità religiosa, ma non è da credere che La Pira
sia tanto ingenuo e sprovveduto da equivocare sulle disposizioni d’animo dell’amico, di cui è stato per anni in intima corrispondenza: è un vero peccato che l’assenza delle lettere responsive di Quasimodo non permetta di ricostruire con meno approssimazione la realtà dello scambio di indicazioni tra i due sulla specifica questione religiosa. A dire il vero il poeta, che volentieri ha sempre fatto opera di rimozione sul proprio passato, non sembra dare molto pe-
so allinfluenza di La Pira sulla propria formazione giovanile. In una inchiesta molto nota Ferdinando Camon chiede: C'è una zona della sua poesia lasciata forse un po’ in ombra dalla critica. Il «fraticello d’icona» e la sua orribile bestemmia non sono un fatto isolato. Anche altre volte si avverte un problematismo, non dico solo religioso, ma cristiano. Ha avuto qualche parte in ciò l’amicizia con Giorgio La Pira?
Inaspettatamente l’interrogato risponde con decisione. Pp 34 p No. Quando conobbi La Pira mi ero gia accostato C'è stato fra me e La Pira uno scambio epistolare: ai miei problemi aperti l'accostamento al modello vitò a confessarmi, ma l’insolito mio turbamento abituale: e nacque la poesia Si china il giorno.
ai testi sacri, per conto mio. La Pira prospettava spesso dei Santi. Un giorno m’introvò lo sbocco che gli era
«Che è una confessione», incalza Camon, poiché il Dio invocato non può essere una divinità astratta, come vuole Macrì.
AI che così replica il poeta: Il mio problema religioso riguarda il Dio cristiano. Non si può pregare un Dio generico. Io non ho mai dato manifestazioni di ateismo."
Ma non si tratta qui di discutere della questione religiosa in sé, ma delle scelte espressive che derivano o hanno attinenza con quella. Per questo si è insistito sulle figure della sofferenza, che hanno il loro modello più alto e pertinente nella Passione di Cristo, proposto con tanto slancio da quell’autentico “fraticello” laico che è
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Giorgio La Pira. Gia in Elegia dello sperduto, una poesia dell’inedito manoscritto giovanile intitolato Bacia la soglia della tua casa (1920-1922), leggiamo «O Nazareno, ti seguirò pregando / col Giordano accanto per compagno», mentre in uno dei testi dell’originaria Acque e Terre, intitolato Tua sete, Signore, il riferimento alla passione è diretto: Signore degli Ulivi, la tua sete m’insabbia la gola movendo al Golgota, con i cipressi che in cupo saio avvolti lievemente salgono il pendio come cenobiti che tornino al rifugio.
Las Il cammino è bruciato e già la croce, a gobbe e circoli di gromma m’inchioda e penetra nell’anima. [sel Ho sete, Signore, ed è già sera;
e l’arsura mi viene dal tuo pane che gonfia al lievito che anima le pietre.
Anche qui, esemplarmente, la condizione di sofferenza esemplata nel Golgota appare contrapposta Leimmagini del paradiso perduto della patria-matria, mia terra ch'hamuvole di zagara: pistilli e stami chiusi in una fiala bianca e carnosa che spacca nella notte per profumare la bocca delle vergini: e per me le transenne delle viti gonfie di grappoli gelati dalla panna; e il succo dei cedri e dei limoni che cola dai torchi negli ingordi tini, e la sansa delle scorze umide ove i porci guazzano, su l’aia.
Ma il modello della Passione non cessa davvero di generare figure nella produzione poetica successiva ad Acque e terre, cui si farà cenno in conclusione, come mostra anche solo la persistenza
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di due figure che direttamente provengono dall’evento centrale della tradizione cristiana, quella dell’agnello sacrificale e quella della croce. Certamente la sensibilità del giovane Quasimodo per certa te-
matica religiosa ha a che vedere in modo diretto, al di là delle influenze raccolte nel suo iter formativo e delle suggestioni fornite dall’esempio dell'amico La Pira, con le intime disposizioni esistenziali, dominate dall’angoscia dell’esclusione. Il «tempo triste della giovinezza», come leggiamo nell’ Epitaffio per Bice Donetti, è all’insegna di una dolorosità radicale, solo a partire dalla quale si va elaborando il processo conducente all’espressività poetica. La passione del figlio è alla base della scoperta della poesia come riscatto e liberazione. Nella grande Lettera alla madre, di La vita non è sogno, si va alle origini del destino d’esilio toccato al ragazzo d’un tempo: [...] — Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. —
Passione ha la sua radice etimologica nel verbo del soffrire, e questo tocca a chi, di notte, ancora ragazzo, è costretto a lasciare il dolce regno materno, allontanandosi dalla «foce dell’Imera, il fiu-
me pieno di gazze, / di sale, d’eucalyptus»: se la madre prevede per quel suo figlio «così pronto di cuore» un destino di morte è perché il culmine della passione è rappresentato dalla morte violentemente inferta («lo uccideranno un giorno in qualche luogo»). Se il de-
stino di morte viene evitato è soltanto perché quel figlio porta con sé il dono materno dell’«ironia», la memoria di un sorriso che sal-
va: ma viene evitato soprattutto perché dalla disperazione, dopo gli anni dell’abbrutimento nella mendicità, germina irresistibile la pa-
rola poetica. Il regno della madre, che comprende la casa come l’isola e la cultura attuale e antica di quella mitica enclave, è interdetto dalla condanna paterna, conseguente all’indisponibilità del figlio a integrarsi nelle regole e nella logica del mondo adulto, se è vero che sa «poetare, ma non guadagnarsi la vita» e quindi rifiuta di separarsi dall'universo materno, in cui la parola non è strumento efficace di rapporti, ma voce pura del desiderio. Una vita intera di passione e
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di poesia é stata necessaria per infrangere le barriere che hanno separato il padre dal figlio, impedendo ogni possibilita di autentico ritorno al mondo delle origini, fino al grande testo de La terra impareggiabile, Al padre, testimonianza di una riconciliazione resa possibile soltanto da quell’opera che ha portato il nome paterno «un po’ più in là dell’odio e dell’invidia». Il figlio ha vinto, ma non sul terreno del padre, perché la poesia è materna, parla un’altra lingua. Nel celebre componimento, al di là dell’omaggio reso al coraggio del capostazione, che fa il suo lavoro con tenacia e «pazienza / triste, delicata» in mezzo alle rovine del terremoto, operano le tentazioni dello scoronamento e quel «berretto di gallo / isolano» assume tutta l'apparenza di una carnevalesca corona regale. Dice in proposito Macrì: Questo appello affettuoso e solenne èun momento rituale, quasi tribale, liberatorio, in una ideale maggiore età, dall’imperio del padre, deposto e suiblimato, tramite la “parola” sostanziale ora dicibile davanti a tutta la comunita umana e civile.!¢
Aggiunge il critico che il berretto di gallo, come la rossa mitria e la «corona con le ali d’aquila», compongono una costellazione di segni fallici: è l’implicita indicazione di quella virilità che ha avuto dominio nel regno della madre rendendolo impraticabile per il figlio, per questo gettato nell’esilio della passione e costretto a intraprendere le strade alternative della poesia (qui siamo nelle regioni del fantasmatico, non sul praticabile dell’esistenza reale, nella quale il figlio, a quanto risulta, non ha certo demeritato una personalissima fama di gallo). Se accumuliamo ragioni sul tema della passione del figlio, ciò è dovuto alla convinzione che non si entra davvero nel cuore della poesia quasimodiana se si prescinde dalla presenza centrale del do-
lore, da cui quella poesia prende necessità, contro le ingannevoli apparenze dell’esercizio letterario più o meno compiaciuto e gra-
tuito. A dire il vero la critica più avvertita, non prevenuta ideologicamente nei confronti della poesia che più o meno correttamente è indicata come ermetica, ha messo in rilievo, magari anche di sfuggita, questa componente essenziale dell’opera. Si può cominciare già dalla celebre prefazione di Sergio Solmi a Erato e Apòllion, in
cui si parla del
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senso di una divisione irreparabile: da una parte un beato Eden [...]. Di fronte a questa naturalità beata, a questa perdita dell’età dell’oro, l’assillo di una
corrosione, d’un decadimento senza salvezza. [...] La sua vita è una prigione
di fatica e di sangue, lievita e brulica stanca come l’acqua malsana alla foce desolata d’un fiume, consapevole della propria inutilità, della morte che sente in sé «in nuziale germe».!
E Carlo Bo: Ogni suo verso è scandito dai colpi di un cuore che vive in una zona di paurosa sincerità; [...] [le sue poesie] sono terribilmente motivate; la stessa premura in cui respirano mostra assai chiaramente come abbiano resistito con
tutte le loro forze a un dolore prepotente e inarginabile.!8
Sergio Antonielli, dopo avere registrato la ricorrenza delle parole tematiche «Cristo» e «sangue», così conclude: Il ritmo rit sii fafa matura matu espressione ione della della trist tristezza che, h volendo lendo indi indicareil ilt tema principale, ci sembra il centro di questa poesia, una tristezza immediata, priva di risentimento.!?
Riferendosi alla prima stagione del poeta, Alberto Frattini dice che egli aveva saggiato e fissato il dolore e i presagi dell’uomo solo e inerme di fronte alla natura, al male, al fato.?°
Lo stesso Vittorini, che di Quasimodo è cognato ed è quindi in grado di andare più di altri al di là delle apparenze, rivela «l’origine di acre dolore»?! di quella poesia e Piovene, confermando, sottolinea come «una poesia siffatta nasca da un’anima deserta», da «un sentimento di corrosione, di morte, di oscuramento». Già
Marcel Brion, in un precoce intervento critico del 1931 su Acque e terre, diceva: Il clima spirituale di queste poesie è abbastanza angoscioso: il dolore, Pinquietudine, la paura, vi si manifestano in una maniera cosi metafisica e così assoluta, che si prende ad interrogare con ansietà la testimonianza di un turbamento assai profondo.?
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È davvero il caso, accogliendo queste sparse indicazioni critiche, di attribuire al dolore un ruolo assolutamente centrale nella
poesia quasimodiana, nelle forme che abbiamo registrato della solitudine, dell’abbandono, dell’esclusione, secondo la figura preci-
pua della passione del figlio, modellata sull’esempio della Passione cristiana. Introducendo le Lettere d’amore indirizzate a Maria Cumani, Davide Lajolo afferma decisamente che il poeta «è sempre stato al centro del dolore, ha realmente sofferto per sé e per gli altri», ma del resto è l’autore stesso in una di queste lettere, del
marzo 1937, a richiamare all’amata, in un momento di sofferenza
coincidente con la Settimana Santa di quell’anno, la memoria della Passione: È arrivata per noi l’ora dell'Orto degli Ulivi [...]. Che cosa resta a noi in questo grande deserto se non la parola di quei pochi che hanno chiamato-Iddio con la voce più profonda del petto? E nel tuo cuore segreto accogli la Pasqua del Signore, il passaggio dell’ Angelo.”
Né mancano in questo come in altri epistolari i cenni all’economia della sofferenza soggiacente all’esercizio poetico: «La poesia, la nostra miseria da esule, ci unirà in soave comunione», scrive ad
Angelo Barile; «È la vita durissima che mi costringe a certe lunghissime solitudini di cuore», «Noi poveri uomini ci contentiamo di soffrire»; «Ho bisogno di buoni libri che mi facciano un po’ di cuore in questa nuova solitudine che non era necessaria nemmeno come esperienza di dolore».?? La pubblicazione di, Oboe sommerso e poi quella di Erato e Apòllion segnano per Quasimodo, oltre all’acquisizione della notorietà, il destino dell’irregimentazione tra gli adepti della scuola ermetica, che potrebbe essere anche accolto se non recasse. con sé la taccia, rinfacciatagli ad oltranza nel dopoguerra, di evasione nell'accademia della bella scrittura, dei piacevoli giochi analogici, del
facile, del compiaciuto obscurisme di maniera. Se si guarda al percorso che abbiamo fin qui condotto, pare molto difficile trovare tracce di gratuità in un lavoro poetico così drammaticamente coinvolto in una condizione esistenziale in preda alla sofferenza. «Repertorio manieristico ben assestato», dice Mengaldo, e Gianni Pozzi rincara:
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Con Quasimodo siamo gia alla resa incondizionata nella suggestione delle parole, [alla] dolcezza di questo abbandono, di questo perdersi in un mondo assoluto di parole o di suoni.*°
È il caso di dire che la prevenzione ideologica accieca: l’antiermetismo può avere molte buone ragioni, ma qui porta a un radicale travisamento, impedendo di scorgere la tremenda serietà che anima la ricerca espressiva quasimodiana. Del resto è il poeta medesimo, che pure giustamente ritiene di essere l’antesignano di una
certa poetica, a liquidare la questione quando scrive: Nel 1945 si insinua il silenzio nella scuola ermetica, nell’estremo antro pastorale fiorentino di fonemi metrici.?!
In quell’antro il poeta non è mai entrato e non sopporta proprio che ve lo si voglia ficcare a forza. Ermetico sì, ma a patto di vedere in una certa maniera di fare poesia il corrispettivo sublimato di una condizione spirituale preda delle più profonde lacerazioni. La prima recensione avuta da Quasimodo, nel giugno del 1930, è quella dell'amico Salvatore Pugliatti, che conosceva bene i segreti risvolti delle poesie di Acque e terre, per cui in esse indicava «due temi dominanti: la ricerca della divinità e il dolore».?? E Montale, nello stesso anno, afferma decisamente che «mistico, e senza rime-
dio, è il gesto poetico che queste liriche rivelano». Inseguendo la
traccia del sacro nell'iter poetico quasimodiano Anna Paola Mundula coglie bene la centralità del dolore, che del sacro è segnale primario: Esso appare fin dalle prime opere, per poi divenire la “scienza del dolore” nella maturità e ha le caratteristiche di un rito attraverso il quale il poeta può giungere alla catarsi.’
Collegare strettamente le due dimensioni della sofferenza e del sacro nella figura della Passione significa, oltre che conferire all’opera i caratteri della più stretta necessità espressiva, anche sfatare l'equivoco di un supposto paganesimo, collegato anche alle insorgenze della mitologia classica. Del tutto inaccettabili mi sembrano dunque le conclusioni di Marco Forti in proposito, quando parla di un «quasi pagano animismo» o di una «sensualità panica e qua-
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si naturalmente pagana». Nella citata Convegno di Acque e terre leggiamo, in rapporto alla patria infantile, terra antica del mito classico: Perdona la parola se non sa favoleggiarti di naiadi e di fauni, se Diana non sorge al mio richiamo a trasformare Aretusa in cheta fonte di papiri recinta e di ninfee, presso Ortigia, mia terra.
Certamente la mitologia fa presto la sua apparizione nell’opera successiva, e basterebbe il titolo Erato e Apòllion a dichiararlo, ma
non c’è la minima concessione neopagana, se è vero che le figure mitiche compaiono in funzione di una ricerca assoluta della bellezza, entro l'intuizione del poetico come mondo assolutamente alternativo, della parola come ascetica risalita oltre le catene del /ogos. D'altra parte Macrì ha dimostrato come il mitologico quasimodiano sia intrinsecamente legato al fantasmatico profondo e non veicoli affatto compiacenze figurative classicheggianti: in tale chiave il
critico interpreta la figura di Apòllion come l’esatto contrario dell’apollineo, facendone un demone distruttore (Apòllion da apollymi, distruggo), l'’«angelo infernale» che manifesta la «hybris reattiva del figliol prodigo invelenito, esiliato, inospitato, Adamo cacciato dall’Eden».*° La raccolta Oboe sommerso presenta nella posizione forte della chiusa un brevissimo testo a chiave, Arzer per la Domenica in Albis. Tale domenica è quella immediatamente successiva alla Pasqua, la festa cristiana centrale dal momento che rappresenta il mistero della morte e resurrezione di Cristo, quindi l’atto redentivo
inaugurante la nuova fede. Non è superfluo ricordare che le insorgenze cristiane della poesia quasimodiana sono tutte riferibili al tempo pasquale, con i due ricordati simboli più caratteristici, la croce e l'agnello. E così non è sola curiosità constatare come le lettere di La Pira dell’ultimo periodo siano quasi tutte datate alla Settimana Santa e contengano gli appassionati inviti alla conversione del cuore nell’accostamento ai sacramenti. In una lettera a Macrì del giugno 1938 Quasimodo, accennando all’infortunio della fi-
glioletta di tre anni, che si è rotta una gamba, scrive:
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Io rifletto leragioni di quella nascita “voluta”. Narcisso invecchia, ama i bambini; fa le più gravi riserve sulla sua “parola”. “Quasi modo ecc.”. Nemmeno quel titolo (A. p. la D. in Albis) era letteratura?”
C’é in queste parole un nodo di significati da districare: intanto la difesa delle ragioni che hanno portato alla nascita «voluta» della bambina, contro le correnti opinioni di sensualità narcisistica che già si sono addensate sul capo del poeta-amatore, quella bambina di cui ha voluto, quando già è diventato l'amante di Sibilla Aleramo, il battesimo «per darle il segno di Cristo».?8 Questo padre al contempo persuaso e irresponsabile, qualificatosi come «un ami-
co» al frate battezzatore che gli chiede chi egli sia per la bambina, e poi pentito come l’apostolo della propria vigliaccheria («Ricordai Pietro nella corte e l’urlo del gallo [...]. Ho rovinato il mio cuore»), proprio “riflettendo” su quei valori esistenziali accettati e traditi, dichiara le proprie riserve su quella «poetica della parola» che il giovanissimo Macrì ha messo al centro della propria interpretazione, notoriamente diventata la prefazione a Poesie, del 1938. Sembra al poeta che fondare tutto sul mito della parola, secondo le inclinazioni tipiche dell’Ermetismo fiorentino, possa obliterare le ragioni di fondo del suo operare poetico, attingente sempre alle fonti della vita, secondo le più pertinenti osservazioni di Carlo Bo che, nello stesso anno del saggio di Macrì, diceva che la sua [di Quasimodo] è un’arte piegata alle esigenze spirituali, non addormentata in operazioni di conclamata e inesistente purezza.
Discutendo proprio dell’intervento di Bo col suo giovanissimo
prefatore, in una lettera del medesimo anno, il poeta dichiara: Resta in sede critica (per me) da risolvere ancora un lato forse il più umano e moderno nascosto nella mia poesia. Forse il riconoscimento della decadenza della carità? [...] Certo il problema dell’uomo contemporaneo dinanzi al cristianesimo.*!
E dunque sulle «gravi riserve» circa la proposta critica di Macri, centrata su quella «poetica della parola» destinata a condizionare a fondo i giudizi successivi, che il poeta basa l’autocitazione a Amen per la Domenica in Albis, chiedendosi, non senza qualche
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ambiguita, se quella fosse letteratura (credo nel senso crociano,
spesso usato dal poeta, di non-poesia). Come a dire: é forse il contenuto cristiano a pregiudicare l’autonomia dell’evento poetico? O non sarà proprio il contrario? Citandosi, il poeta pronuncia il proprio nome, quasi a ricono-
scersi pienamente e a identificarsi, apponendo la propria firma, nel brevissimo testo che sigilla Oboe somzmerso: «Quasi modo ecc.» Le due parole latine che, insieme, formano quel nome sono proprie della liturgia della domenica in Albis, aprendo l’antifona all’introito della messa di quel giorno, e sono tratte dalla prima lettera di San Pietro: «Quasi modo geniti infantes sine dolo lac concupiscite», desiderate il latte puro come foste bambini appena nati. Il «primo nato» dell’ultimo verso della poesia rinvia esattamente alle parole di Pietro, come se il poeta ne avesse in qualche modo accolto l’invito a ricondursi all’innocenza della prima infanzia. Nel suo caso il «lac sine dolo» è stato il dolore: Non m'hai tradito, Signore:
d’ogni dolore son fatto primo nato.
La passione del figlio, simbolicamente rivissuta nella Passione del Venerdì Santo appena trascorso, ha portato la veste candida della festa iv Albis: nella figura dell'infanzia innocente recuperata
attraverso la sofferenza il poeta esprime la parabola del proprio accostamento senza macchia al puro latte della poesia. Non è qui il caso di.fare elenchi delle presenze, lungo tutta la poesia quasimodiana, delle metafore connesse al modello cristiano della Passione, anche per la ragione precipua che non è questione di meri contenuti, assolutamente inerti quando non sia l’invenzione formale a riscattarne la pura materialità. Basta ricordare come quella tematica affiori in modo irresistibile nella poesia del dopoguerra, non affatto legata estemporaneamente alle condizioni storico-culturali, come fin troppo si è insistito a dire a proposito della supposta svolta dall’Ermetismo al Neorealismo. Per attenerci soltanto a una metafora-guida, quella dell’agnello sacrificale, è di immediata constatazione come essa appaia in ogni punto del percorso poetico. Ecco, in Oboe sommerso, i versi di Compagno, che
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ricorrono alla figura del mite animale ucciso per ricordare uno scomparso amico d’infanzia: Non so che luce mio dèsti: nuziale ellisse di bianco e di celeste precipita e in me frana. Tu sei, beata nascita, a toccarmi e nei silenzi aduni figure dell’infanzia: mitissimi occhi di pecora trafitta, un cane che m’uccisero e fu un compagno brutto e aspro dalle scapole secche. [...] M’hai dato pianto e il nome tuo la luce non mi schiara,
ma quello bianco d’agnello del cuore che ho sepolto.
Così in Ancora un verde fiume, tra le ultime poesie di Ed è subito sera:
Ancora un verde fiume mi rapina e concordia d’erbe e pioppi, ove s’oblia lume di neve morta. E qui nella notte, dolce agnello ha urlato con la testa di sangue:
diluvia in quel grido il tempo dei lunghi lupi invernali, del pozzo patria del tuono.
Infine la celeberrima Alle fronde dei salici, direttamente ispirata alla fonte biblica del Salmo 137: E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?
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Certo da Giorno dopo giorno in poi, la stessa metafora del sacrificio da figura di identificazione si fa preferibilmente figura di proiezione del dolore sopra l’universalità della condizione umana, ma è sempre a partire dall’intima ossessione di colpa e di pena legata al fantasmatico arcaico. A commento di quest’ultima poesia dice il poeta stesso: Il lamento d’agnello non è un compiacimento letterario. L'immagine richiama l’agnello che viene sgozzato; è un'immagine comune all’infanzia, specialmente nei paesi i bambini sanno che gli agnelli vengono sgozzati.”
Dice Macrì in proposito: L“agnello”, figura (reale) dell'animale, è anteriore all’“uomo’”, figura (reale in quanto l’altra è reale) dell’uomo. Realtà primordiale, di orrore e pietà, confitta mnesticamente dal folclore pasquale nel plesso solare del Poeta bambino.”
Certamente agiscono memorie infantili, ma esiterei molto a ri-
correre per questo tema al «folclore pasquale»: c’è ben altro, ben più profondo coinvolgimento in questa immagine di sacrificio, se quanto siamo venuti mettendo in luce ha senso. Lagnello, nella tradizione cristiana, è il Cristo stesso.
Ma per un poeta è sempre questione di forme, sia pure irradiate a partire da contenuti psichicamente elaborati. Abbiamo visto come Quasimodo abbia corrisposto al «turbamento» provocato dall’invito di La Pira a confessarsi per la Pasqua imminente: «Il mio turbamento ritrovò.lo sbocco che gli era abituale e nacque la poesia Si china il giorno». Il catalizzatore religioso presiede alla reazione chimica che trasforma un comportamento pratico nella virtualità dell’atto espressivo (addirittura la poesia in questione aveva come titolo originario proprio Confessione: «Mi trovi deserto, Signore, / nel tuo giorno, / serrato ad ogni luce»). Se La Pira
sperava molto, sul piano della vita vissuta, nell’adesione dell’amico a una convinta prassi religiosa, non per questo era tanto ingenuo
da pensare al poeta come a un cantore di temi devoti: abbiamo visto infatti con quanta acutezza pensasse alla parola poetica come a
prodigio «di suono, di musica e rivelazione», capace per virtù pro-
pria di mettere a contatto con l’“Indicibile”. Per questo poteva dire al poeta «tu ed io siamo i due aspetti della stessa infinità». Se il
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«fraticello d’icona» invitava l’artista a seguire il modello dei santi, proiettando illusivamente sull’altro i propri entusiasmi mistici, non si deve credere che il poeta abbia tradito le aspettative in lui riposte, solo che ha trasferito la santità dal piano concreto della poesia a quello sublimato dell’espressione. Gianfranco Contini ha giustamente parlato per Quasimodo di «desiderio di “eterno”»* e il
poeta afferma: «Il mio impegno dinanzi all’arte è altissimo e non posso concedere nulla: né una sillaba né un ritmo che aiuti all’analisi». Davvero l'accostamento di questo poeta alla poesia è di tipo ascetico e prevede un duro tirocinio di purificazione: è in questa luce che va interpretato il suo supposto Ermetismo, che può anche essere compreso nella formula della poetica della parola, ma a patto di intendere ciò come svincolamento da ogni concessione alle logiche comunicative e referenziali e ricerca di quell’assoluto, o eterno, che è solo nella parola originaria, infantile e materna, purificata al fuoco di una passione capace di bruciare tutte le scorie e di farne un prodigio di «suono, di musica e rivelazione».
! C. Bo, Orto studi, in Quasimodo e la critica, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano
1969, p. 103.
2G. ZAGARRIO, Quasimodo, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 28.
3 O, MACRÌ, La poesia di Quasimodo, Sellerio, Palermo 1986, p. 28. 4 Ibidem.
5 E. MISEFARI, Qualcosa di privato, in Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre, a cura di G. Finzi, Laterza, Bari 1986, p. 504.
6 Ibi, pp. 507-508. ? Ibi, p. 508.
85. QUASIMODO, G. LA PIRA, Carteggio, a cura di A. Quasimodo, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1980, p. 40.
? Ibi, p. 55.
10 Ibi, pp. 58-67 passim. l 4 Si veda sull’argomento il recente, suggestivo libro di R. CALASSO, La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano 2001. 12S, QUASIMODO, G. LA PIRA, Carteggio, p. 61.
1 Ibi, p. 508. ! Ibi, p. 102.
15 In S. QUASIMODO, I/ mestiere di poeta, a cura di F. Camon, Lerici, Milano 1965, pp.
92-93.
| 6 OQ, MACRÌ, La poesia di Quasimodo, p. 210. 17 S. SOLMI, Prefazione a S. QUASIMODO, Erato e Apòllion, Scheiwiller, Milano 1936,
ora in S. SOLMI, La letteratura italiana contemporanea, tomo I, Scrittori negli anni,
Adelphi, Milano 1992, pp. 218-219.
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18 C. Bo, Otto studi, pp. 88 e 89. 19 S. ANTONIELLI, in Quasimodo e la critica, p. 170.
20 21 2 2
A. FRATTINI, #07, p. 237. E. VITTORINI, 52, p. 285. G. PIOVENE, ibi, pp. 296-297. M. BRION, #2, p. 447.
24 D. LAJOLO, Introduzione a S. QUASIMODO, Lettere d'amore a Maria Cumani (19361959), Spirali, Milano 1985, p. 5.
2 Ibi: p. 71.
26 Ip., Carteggio con Angelo Barile, Adriano Grande, Angiolo Silvio Novaro, Archinto,
Milano 1999, p. 46. 27 Ibi, p.79. 28 Ibi, p. 117. Gul bi pal 29:
3° G. POZZI, La poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1970, p. 188. 31 S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi, Mondadori, Milano 1996, p. 285.
32 S. PUGLIATTI, in Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito..., p. 182. 3 E. MONTALE, in Quasimodo e la critica, p. 282. 3 A.P. MUNDULA, in Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito..., p. 329.
3 M. FORTI, ibi, p. 285. 36 O. MACRI, La poesia di Quasimodo, p. 69.
7 Ibi, p. 347.
38 S. QUASIMODO, A Szbilla, Rizzoli, Milano 1983, p. 37. 3° Ibidem.
4° C. Bo, Otto studi, p. 104. 41 O. MACRÌ, La poesia di Quasimodo, p. 348. 4 S. QUASIMODO, Poesie e discorsi..., p. 1187.
4 O. MACRÌ, La poesia di Quasimodo, p. 128. 4 G. CONTINI, citato da G. Finzi in S. QUASIMODO, Poeste e discorsi..., p. L. © Ibidem.
SEMANTICA DEL TEMPO E DELLOLTRE NELLA RACCOLTA ED È SUBITO SERA FRA ACQUE E TERRE E OBOE SOMMERSO di Lia Fava Guzzetta
Forse non è un caso che la raccolta Ed è subito sera sia rimasta la prima raccolta pubblicata dall’autore al di là e oltre i tanti versi giovanili, peraltro mai distrutti dal poeta, e ben oltre addirittura altre due vere e proprie raccolte esistenti che oggi ormai non solo conosciamo, ma abbiamo molto opportunamente e felicemente acquisito all'Opera omnia, e che tanto ci dicono sugli esordi quasimodiani anche in connessione con ciò che è venuto dopo. Ma, dicevo, forse non è un caso che la prima raccolta ufficiale sia Ed è subito sera e che addirittura questo verso sia passato dalla funzione di titolo di un componimento a titolo dell’intera raccolta, com’é noto. Molte cose si sono dette e si possono dire sulla funzione paratestuale dei titoli, sul loro rapporto con i testi e con le intenzioni enunciative e comunicative dei poeti, e si potrebbe fare tutto un discorso anche su Quasimodo proprio restando ai titoli, ma non è questo il mio intento di oggi. La mia intenzione invece è quella di notare come in questa raccolta, e a partire proprio dal titolo, il tempo costituisca uno dei fondamentali, se non il fondamentale nodo significativo intorno al quale si raccoglie una costellazione semantica forte, che è centrale nel mondo poetico di Quasimodo e va al fondo, nel cuore della sua poesia, ed è nucleo generativo del senso che la poesia ha per il poeta o del senso della poesia tout-court. Presenza del tempo. Il tempo come testimonianza di una anteriorità del vissuto e come traccia di un passaggio, di una presenza/assenza, il tempo come pressione o nostalgia dell’effimero, come limite subito con angoscia, come memoria, attesa o rimando, a volte aperto
verso una richiesta di un oltre che spesso violentemente e drammaticamente lo invade, presentandosi come specchio in cui la vita si riflette soltanto nei suoi connotati di dispersione, di cosa destinata a finire proprio nel tempo. E non sarà un caso che il canto si faccia elegia, pianto, nell’estremo tentativo di salvare una perdita catturandola con la parola poetica. La quale, essa sì, teatralizza una lotta costante proprio col tempo, per salvarlo, ritrovarlo, fissarlo, eternarlo. Il primo componimento, sulla soglia di tutta la raccolta, che snoderà un disteso discorso, evidenzia una condizione drammatica
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in cui la violenza dello scontro viene proprio effettuata in termini temporali, nella misura della velocità con cui si esaurisce e si consuma l’evento vitale, in cui la contrazione e la sottrazione del tem-
po diventano il teatro dell’impotenza dell’uomo di interferire, di bloccare, di fermare la fine. Tutto è contratto in un attimo fulmi-
neo, che rende conto di un punto — la vita, l’uomo — nello spazio di una trafittura («trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera»). Questa «sera» che foscolianamente è simbolica ézago della «fatal quiete», viene colta qui mediante una semantica dell’immediato, dell’improvviso, che squarcia il tempo, destinata a diventare ricorrente nell’esperienza del primo Quasimodo, ma che qui, nella prima raccolta, è tesa a dire l'angoscia della sottrazione improvvisa proprio del tempo. Tale angoscia infatti sarà spesso concentrata sulla richiesta di una sosta, nel tentativo di fissare una sospensione, di contrattare quel «subito», nel quale invece si brucia la scompar-
sa della storia. evento è stato ed è così fulmineo che non può che postulare una ricerca dell’anteriore (qual è stato l’inizio? dove?) e rimandare dunque all’indietro per essere ritrovato o rivissuto. Giorgio Petrocchi, nel convegno messinese del 1986, parlava di un «aggancio fedele a quelle temporalità del passato»! che si ritrova alla base dell’organizzazione stessa della raccolta Ed è subito sera, proprio a testimoniare in Quasimodo e «sottolineare fortemente la coerenza della propria storia poetica e umana».? Se ci addentriamo gradualmente nel testo, vediamo crescere questa posizione privilegiata del tempo nel discorso del poeta. Vento a Tindari, ad esempio, pur nella sua preminente e aerea spazialità, nel vortice ventoso che viene esibito come simbolica connotazione atmosferica, nell’abisso
che si propone come cifra interiore che si proietta e si fissa nell’icona di quel luogo, unico e preciso, non si gioca se non nel raccourci temporale di un unico punto nel quale si coagula il prima e il dopo di un drammatico confronto tra le «dolcezze un tempo assidue» (v. 14) del passato e le «segrete sillabe» di «ogni giorno» (vv. 17-18) del
presente, e la ricerca del passato («la ricerca che chiudevo in te / d’armonia», vv. 24-25) registra una mutazione «oggi si muta / in an-
sia precoce di morire» (v. 26) dove l’ansia precoce di morire non fa che innescare quel meccanismo della distruzione del tempo, dell’anticipazione della fine, nella tentazione di presentificare fino a «subito» (al “subito” anche di quel racconto e di quella rivelazione/confessione) la morte come evento liberatorio che solo nel tem-
SEMANTICA DEL TEMPO E DELL’OLTRE NELLA RACCOLTA ED È SUBITO SERA
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po realizza un passaggio ad altro luogo. Del quale si parla nella poesia successiva, Angeli, che per prima in tutta la raccolta è tesa a precisare un tempo di vigilia («avanti giorno», v. 3) capace di predisporre alla visione/desiderio quasi mistico di una «ignota riva» di sapore dantesco, con «angeli di verdi alberi in cerchio» (v. 5) e con un approdare nell’illimitato tempo di un infinito («Infinito ti sia», v. 3) che superi l'apparenza di «ogni ora / nel tempo che parve eterna» (vv. 6-7), sconfinando nella ricerca dell’«occulto» «nascere del
giorno e della notte» (vv. 9-10), ancora dunque cicli del tempo. Il darsi del tempo, allora, realizza qui il senso del darsi della vita stessa, che riaffiora anche nel recupero memoriale di E la tua ve-
ste è bianca, avvalorando il vissuto mediante l’uso dei prefissi di riemersione dell’immagine («Ti ri-vedo», v. 7) che sottolineano
l’accadimento temporale emergente che l’imperfetto, subito dopo, si incarica di riagganciare nel percorso all’indietro del pensiero: «Parole / avevi chiuse e rapide» (vv. 7-8). Il ricordo catturato si precisa dunque in un punto specifico del tempo, «certe notti di marzo» (v. 14), fissate e sospese proprio da-
gli imperfetti che rimettono sulla scena poetica l’esperienza — custodita interiormente — dell’ignoto originario, dell’inizio: «e ci svegliava ignoti / come la prima volta» (vv. 15-16). Il ri-tornare del tempo è una grazia, il tempo sulla pagina si coagula in quel prefisso che esprime il ri-apparire alla vista («Ti ri-vedo») e spiega quasi con affabilita l'enigma del tempo stesso, ciò che esso realmente contiene, e cioè il fatto che se non c’è tempo non c’è ritorno, ma se c’è tempo e ritorno, allora è possibile rivivere l'origine. È molto complesso il sistema dei segnali riferiti al tempo in questo primo Quasimodo, perché il ritorno è anche una presenza dell’io poetante non solo come oggetto raggiunto, tramite il ricordo, dall’originario, ma anche come soggetto viator nel tempo che «stasera» (A/bero, v. 5), in un momento preciso dunque, torna «in
riva all’Anapo» (ibidem) per una spinta esterna e misteriosa del «marzo lunare» (v. 6) e alato («già d’erbe ricco e d’ali», v. 7).
Mentre c’è come il tentativo di comunicare il senso del prepararsi di una sublime metamorfosi che sempre si coglie nell’abbandono del tempo alla «stagione», «al vento nuova» («Nel pigro moto dei cieli / la stagione si mostra», Ariete, vv. 1-2), che «ricompone le sepolte voci» (v. 6) «dei giorni di grazia favolosi» (v. 8). Ecco, la stagione «si mostra» per ricomporre «le sepolte voci» e indicare ancora un ritor-
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no, mediante appunto il prefisso del ri-tornare, del ri-accadere, che a poco a poco trova la via per collegarsi nel tempo e per dichiararsi come ricordo — recupero da riportare in superficie — («salgono dal fondo», v. 12), capace di arretrarsi fino a «remote acque» (v. 10). «Cosi» come un punto nel tempo, «come su acqua allarga / il ricordo i suoi anelli, mio cuore; / si muove da un punto e poi muore» (Acquamorta,
vv. 9-11). Dunque, si direbbe, un punto morto (Acquarzorta infatti è
il nucleo metaforico scatenante già presente nel titolo), ma anche liquido, non totalmente immobile, quasi “liquido amniotico”, ancestrale, dunque anteriore, oscuro, collocato nella notte, ricorrente simbolo di misteriosa origine, non a caso, «culla d’aria» (Terra, v. 2), se-
de del vento che smuove i ricordi e le sensazioni in una sorta di dormiveglia pieno di ombre e sogni, memorie sepolte di una stagione di «bambini anzi l'alba desti» (v. 7) in uno spazio («pianure d’erba», v. 8) che contiene un tempo di attesa che scava e corrode. Monti secchi, pianure d’erba prima che aspetta mandrie e greggi, m'è dentro il male vostro che mi scava. (Terra, vv. 8-10)
Se l’organizzazione sequenziale dei testi può avere anche un senso, la collocazione del componimento dal titolo Si china il giorno subito dopo Terra spinge oltre il discorso rintracciato finora, conferendo all’attesa una dimensione anche religiosa, o metafisica, o sem-
plicemente di ricerca interiore, di auto-esplorazione per cogliere in sé un’aspettazione non generica e vaga ma, sia pure in forma tormentata e problematica,.capace di precisarsi in una allocuzione: Mi trovi deserto, Signore, nel tuo giorno, serrato ad ogni luce. (vv. 1-3)
Il giorno, il tempo, diviene tempo di ricerca, e di coscienza, diviene il giorno del Signore, che non dà risposta, non dà presenza, ma, come il negativo di un fotogramma, si rivela iz absentia nello smarrimento: «Di te privo spauro, / perduta strada d’amore» (vv. 4-5). E il giorno stesso è un punto, non a caso, nel tempo, prezioso ed evanescente, colto nell’atto del finire, proprio mentre «si china
il giorno» e il momento del tramonto e dell’arrivo dell’ombra si po-
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tenzia come momento di attesa, nella brevità dello spazio della poesia subito seguente (dal titolo Spazio). Esso si configura come «un centro di buio» (v. 2), «terra» in cui
rombano abissi di acque, di stelle, di luce; se pure aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra. (vv. 7-11)
Viene esplicitamente dichiarata un’attesa nel tempo dove tutto è fuggevole, rapido, evanescente, baluginante, immediato, subito
«antico», perché immediatamente passante, passato (Antico inverno). Come afferrare un senso affiorante così rapidamente? Un attimo di sole e poi nebbia. «Un po’ di sole, una raggera d’angelo, / e poi la nebbia; e gli alberi» (Antico inverno, vv. 8-9). Nello stretto legame tra ricerca di senso e parola poetica, è inevitabile che il testo diventi autoriflessivo e ospiti una latente metatestualità che postula una riflessione sulla parola, una intima analogia tra scavo interiore e ricerca espressiva, quasi la dichiarazione di una poetica: Cercavano il miglio gli uccelli ed erano subito di neve;
così le parole. (vv. 5-8)
Riappare il nesso «subito» quasi nella funzione di passe-partout tra ciò che d’improvviso velocemente accade e ciò che d’improvviso, “subito”, diventa parola, parola poetica. Parola che dice se stessa, la propria folgorante e rapida apparizione, e che canta la terra come breve sosta, sempre, nel tempo: Fitta di bianche e di nere radici di lievito odora e lombrichi, tagliata dall’acque la terra. (Dolore di cose che ignoro, vv. 1-3)
Metafora di una conoscenza relativa, il cui doloroso limite appare con lo sgomento di ciò che non si conosce, la parola canta a un tempo l’esistenza e la nostalgia, mentre il poeta che sosta nella terra visibile e insieme piange per l’invisibile, pellegrino nella terra e nel tempo verso la morte, non si placa di questo sapere («non ba-
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sta una morte», v. 5) ma scopre la inattingibile oltranza dell’ignoto («Dolore di cose che ignoro», v. 4, ma già fin dal titolo). L’alterità sempre rinnovata del passaggio delle stagioni rende cruciale dunque il problema del tempo che, dando spettacolo del suo stesso trascorrere, rivela per un verso la labilità e la nudità di «mattini» che vanno verso «altro sole», e d’altra parte l'ipotesi di un ulteriore sconfinamento in una visione cosmica che teatralizza il rapporto vita-morte come dialettica tra limite e perdita del confine, terrestrità e superamento spazio-temporale, tentativo di parola e silenzio: S’udivano stagioni aeree passare, nudità di mattini, labili raggi urtarsi. Altro sole, da cui venne questo peso di parlarmi tacito. (S’udivano stagioni aeree passare, vv. 6-10)
E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo. (Mai ti vinse notte così chiara, vv. 10-12)
Limmersione progressiva nel tempo, nel suo scorrere e nel suo
continuo sconfinare (di cui la stessa metrica quasimodiana, nella
sua continua tensione di superamento della misura del verso, potrebbe sulla pagina tentare di fissare il dinamismo), si fa via via anche scoperta di ritmi, di ricorrenze e cadenze negli eventi naturali e ciclici, che si concentrano sulla metafora del mare non a caso assimilabile alla stessa dinamica inarrestabile della vita: A te assomiglio la mia vita d’uomo, fresca marina che trai ciottoli e luce e scordi a nuova onda quella cui diede suono già il muovere dell’aria. Se mi desti t’ascolto
e ogni pausa è cielo in cui mi perdo, serenità d’alberi a chiaro della notte. (Fresca marina)
In tale dinamica, la dialettica che si realizza comporta insieme
lo scorrere dell’instancabile ondeggiare e il fermarsi sospeso nel momento immobile del chiarore notturno, mentre è sempre laten-
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te l’accadere di un avvento metamorfico che riesce a portare il mi-
racolo della vita nella morte, del nuovo nel vecchio. E l’evento si verifica nel tempo, ed è improvviso, sempre assolutamente singo-
lare e presente, anche se infinitesimale e microscopico, della cui semantica, nella retorica testuale, danno testimonianza i deittici: Ed ecco sul tronco si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba che il cuore riposa: il tronco pareva già morto; piegato sul botro. E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi più azzurro il suo pezzo di cielo, quel verde che spacca la scorza che pure stanotte non c’era. (Specchio)
Per tale via il poeta trova il modo per parlare di sé, per raccontare il suo identificarsi con la natura e il riconoscervi la sua più profonda radice («e non so che cieli ed acque / mi si svegliano dentro», Vicolo, vv. 2-3) e tale parlare, quasi in forma di confessione, si colloca anch’esso in una vicenda che attinge alla suggestione
di una personale, storica cronologia, in un confronto interiore di tempi vecchi e nuovi: In povertà di carne, come sono eccomi, Padre; polvere di strada che il vento leva appena in suo perdono.
Ma se scarnire non sapevo un tempo la voce primitiva ancora rozza, avidamente allargo la mia mano: dammi dolore cibo cotidiano. (Avidamente allargo la mia mano)
«Un tempo», «ancora», «cotidiano»: il poeta procede per scansioni temporali, ha coscienza del valore di un prima e di un dopo,
registra una sua vicenda personale fatta di abbandoni e di ritorni che restano impressi nei tempi della memoria e rintracciabili, riverificabili e riconoscibili nuovamente nella dimensione del presente.
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Significativa, in tal senso, una delle ultime prove di Acque e terre dal titolo I ritorni, giocata tutta sull'icona del titolo e sulla figura della ripetizione che crea parallelismi e analogie fra tempi anche lontani: e gli occhi con rette e volute di spirali univano le stelle, le stesse che seguivo da bambino,
disteso sui ciottoli del Plàtani sillabando al buio le preghiere. (I ritorni, vv. 3-7)
Vengono così introdotti i due tempi dell’oggi e dell’ieri, il confronto con l’infanzia, nell’isola favolosa e amata, custodita nel ri-
cordo, attraverso un processo di riconoscimenti e sovrapposizioni di immagini del vissuto, il cui reiterarsi nello scrigno della memoria produce, sullo schermo della scrittura, figure allitterative di fascino sonoro e sensoriale, affidato alle ripetizioni disposte in sequenza, in una sorta di catena di suono e di senso. «Sotto il capo incrociavo le mie mani / e ricordavo i ritorni» (vv. 8-9). Ecco la sapiente tessitura senso/suono: il ricordo, che è un “ritornare” alla mente ri-
corda «i ritorni», in un movimento circolare che si sprofonda in una sorta di ise en abyme, che ripropone sulla pagina il ritornare di suoni — quasi il rimbalzo di echi —, ri-re-ru ro (ritorni, zenzero,
ritmo, azzurro, restare, risonanze, polvere, ricordavo...), mentre in filigrana viene evocata la parabola del figliol prodigo, quasi una prosopopea, un ritorno per eccellenza. E il tempo è protagonista sovrano in questo incerto orizzonte dell’andare, restare, sostare,
tornare nella memoria, che contiene il timore di farsi catturare nel
limite del già accaduto o l’ansia rischiosa della scelta del ripartire. La silloge Acque e terre, come si sa, si chiude sulla scelta dell’ignoto: Altra vita mi tenne: solitaria fra gente ignota; poco pane in dono. In me smarrita ogni forma, (In me smarrita ogni forma, vv. 1-3)
mentre nella successiva raccolta, Oboe sommerso, cogliamo i segni di uno scavo più attivo e profondo, nel racconto di questo passag-
gio all’altra riva. Il tempo non è solo ritrovato o rivissuto, anche nel canto, ma viene colto nel suo precipitare verso una «foce» (parola
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ricorrente) e nel suo intimo rapporto con la sera e con la notte, presenti qui fortemente come segni simbolici, più chiaramente riconducibili al fluire verso una dimensione metafisica. Il tempo trascorso, più che come nostalgia, è qui percepito come un antefatto, Pantefatto, di un andare verso l’illimite e l’altrove.
Tutta la raccolta sembra arricchirsi di procedimenti iconici, in cui vengono fissati segmenti temporali, come l’ora, il giorno, la sera, la notte, nei quali accade l’evento della trasmigrazione del cuore («il cuore trasmigra», Oboe sommerso, v. 11) verso l’ipotesi di
una perennità («gioia di foglie perenni», ibi, v. 5), oltre la vicenda stessa del poeta («non mie», ibi, v. 6) e oltre la stessa memoria («e smemora», ibidem) nel punto di svanire («in me si fa sera: / l’acqua tramonta / sulle mie mani erbose», ibi, vv. 7-9). Percorre il testo
una vera disseminazione di indicazioni temporali (giorni, stagioni,
secoli) in dialettica con l'orizzonte dell’oltre. Un sole rompe gonfio nel sonno e urlano alberi;
avventurosa aurora in cui disancorata navighi, e le stagioni marine dolci fermentano rive nasciture. (Alla mia terra, vv. 1-6)
Il rapporto personale del poeta con la propria memoria si ritrova in immersione con un tempo secolare («da secoli l’erba riposa / il suo cuore con me», Riposo dell'erba, vv. 5-6), inscritto nelle forme dell’amata isola originaria, interiorizzata come percorso di viaggio nel profondo, presentificato mediante l’uso dei soliti deittici: «ecco discendo nell’antica luce / delle maree» (Nell'antica luce delle maree, vv. 3-4).
La posizione del poeta sembra collocata sempre più sull’orlo di un confine — il noto/l’ignoto — e il canto si apre alla dolorosa pena di dire la fatica e il tentativo di riappropriazione della propria intimità, proiettata sempre più oltre il tempo («la consueta pena d’essere mio / in un’ora di là dal tempo», ibi, vv. 14-15), con un so-
spetto d’infinito, di sapore leopardiano, che si misura al confronto con la concretezza del conoscere, del possedere, di tutto ciò che rappresenta il limite. E la parola stessa, contemporaneamente dentro e fuori dal tempo
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Tu ridi che per sillabe mi scarno e curvo cieli e colli, azzurra siepe a me d’intorno, e stormir d’olmi
e voci d'acque trepide; che giovinezza inganno con nuvole e colori che la luce sprofonda (Parola, vv. 1-7)
sempre più canterà l’esperienza umana che la storia contiene e insieme la spinta di superamento dei confini. Anche l’amore, realizzato nella concretezza fisica, concentra su di sé una felicità che esprime l’intera vita contratta in termini di tempo:
nella carne congiunti, il rombo dell’ultimo giorno ci desta adolescenti. (Senza memoria di morte, vv. 5-7)
Non è allora casuale, forse perché il poeta vive un vero «sentimento del tempo» (come direbbe Ungaretti), che la meditazione arrivi a farsi preghiera nel senso di un tra-passo oltre il tempo («Pèrdimi, Signore, ché non oda / gli anni sommetsi taciti spogliarmi», Curva minore, vv. 1-2; «La mia giornata paziente / a te consegno, Signore, / non sanata infermità», La mia giornata paziente, vv. 1-3) e che la richiesta, avanzata dal poeta, di un suo giorno (Dammi il mio giorno) si configuri come una ricerca del proprio vero volto dichiarato e definito «un volto d’anni» (ibi, v. 3) tal-
mente immedesimato col tempo da dare origine all’immagine metaforica del poeta stesso come «fossile emerso da uno stanco flutto» (ibi, v. 11).
È un cercarsi («mi cerco negli oscuri accordi / di profondi risvegli», Convalescenza, vv. 5-6) che riporta al tempo perduto di una «infanzia imposseduta» (ibi, v. 16) e, mentre «Filtra l'ora» (Vita nascosta, v. 1), cresce un desiderio di oblio che trova la sua proiezione metaforica nella figura della notte («Dammi vita nascosta / e se non sai me pure occulta, / notte aereo mare», ibi, vv. 7-9), quel-
la stessa notte che «Mobile d’astri e di quiete» (Mobile d’astri e di quiete, v. 8) può spingere il poeta «nel veloce inganno» (ibi, v. 9)
del tempo che riemerge improvviso e si distende sulla pagina con i suoi avvolgenti imperfetti («Bambini dormono ancora nel tuo son-
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no; / io pure udivo», ibi, vv. 11-12) per esibire il suo rapido dileguare («il tempo che dilegua: / e brucia il tonfo ultimo, / rapina di dolcezze», L'acqua infradicia ghiri, vv. 7-9). Di tutto ciò il cuore del poeta custodisce dolorose ferite («Nessuna cosa muore, / che in me non viva», Sezze, vv. 8-9; «Ed è morte / uno spazio nel cuore»,
Fresche di fiumi in sonno, vv. 11-12; «Sono memoria / d’ogni mia ora terrena», Avellide ermafrodito, vv. 3-4). Il senso dell’ora terrena, del giorno, si fa spesso drammatica sottrazione di altre fughe, di altri spazi, quasi prigione nel limite della terra: Inutile giorno, mi togli da spazi sospesi, (deserti spenti, abbandoni)
da quiete selve avvinte da canapi d’oro, cui non muta senso
lo stormire dei venti che d’impeto crolla,
né volgere di stelle. Il cuore mi scopri sotterraneo,
iui Ignoto mi svegli a vita terrena. (D’alberi sofferte forme, vv. 8-17, 22-23)
Il poeta, dunque, rivela la sua drammatica collocazione, che è forse la collocazione della poesia stessa, sull’orlo di un tempo terreno da cui parte un affaccio all’altrove, forse un’invocazione religiosa, anche se a volte nei termini di una dolorosa, perfino incre-
dula ironia, dal momento che la sofferenza resta presente come bruciante esperienza: Non m'hai tradito, Signore: d’ogni dolore son fatto primo nato. (Amen per la Domenica in Albis)
È il testo di chiusura della raccolta Oboe sommerso, forse la più
ricca di segnali che esprimono l’essere in bilico tra tempo finito e tempo cosmico, tempo relativo e attrazione assoluta. Le altre due raccolte registreranno percorsi da esplorare ulteriormente. Con Erato e Apòllion il poeta realizzerà, forse, una piena immersione nel rischio della terra, nella doppia versione dell’o-
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blio/morte, in un tempo scandito dal senso di esilio, lontananza,
separazione, quasi la suggestione della fine del tempo stesso, o l’attrazione della perdita della memoria per vincere l’inferno della solitudine, mentre il tempo acquista o rivela anche un suo volto di-
struttivo e respingente: «Dissòno. E tutto che mi nasce a gioia / dilania il tempo» (Irsonzia, vv. 4-5). Viceversa nelle Nuove poesie il tempo riprenderà a scorrere e quasi, qua e là, si farà racconto, recupero, di nuovo memoria, sogno. Ma porterà con sé sempre più
un senso di precarietà, la paura dell’effimero, o forse ancor più, di un tragico quotidiano che si va addensando nel «tempo specchiato» (v. 10) dell’Inzitazione della gioia. Il poeta sente che si fa sempre più urgente il bisogno di una nuova decifrazione («enumero i mali dei giorni decifrati», Gia vola ilfiore magro, v. 6) e che presto sarà l’ora di una nuova, più dettagliata, e certo più drammatica, scansione da realizzarsi, non-a ca-
so, Giorno dopo giorno. Tale infatti sarà il titolo della successiva raccolta del ’47, che re-
gistrerà, nel tempo tragico del dopoguerra, il volto, i segni e la dolorosa cronaca quotidiana di una umanità sofferente.
! G. PETROCCHI, Quasimodo tra le due guerre, nel volume miscellaneo Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre, a cura di G. Finzi, Laterza, Bari 1986, p. 363. ? Ibidem. i
LA SICILIA SPIEGA IL MONDO: LA PAROLA DI UN «SICULO GRECO» di Giovanna Ioli
Sicilia e Grecia scorrevano solidali nel sangue di Salvatore Quasimodo, grazie alla nonna paterna, figlia di profughi provenienti da Patrasso, Rosa Papandrea, ma, nel delineare la sua biografia per i Ritratti su misura di Elio Filippo Accrocca, volle addirittura affidare le sue origini a Siracusa, cuore pulsante della Magna Grecia, invece che a Modica, dove realmente nacque. Ricordò poi la città e l'isola di Ortigia, stratificate di culture, Nell'antica luce delle maree: Città d’isola sommersa nel mio cuore, ecco discendo nell’antica luce delle maree, presso sepolcri in riva d’acque.
Non si trattò di una menzogna, di una «candida leggenda», ma di una vera e propria dichiarazione di poetica, perché egli identificò in quella città la matrice siculo-greca dei suoi versi. Il paesaggio della Sicilia che più gli è caro, infatti, è quello in cui la Grecia impresse il suo stile. Tra i telamoni che un tempo sorreggevano i frontoni del tempio, si spandono le sue memorie della Strada di Agrigentum: Là dura un vento che ricordo acceso nelle criniere di cavalli obliqui in corse lungo le pianure, vento che macchia e rode l’arenaria e il cuore dei telamoni lugubri, riversi sopra l’erba.
Sono immagini statuarie, vere e proprie sculture della memoria storica, attica, dove meglio s'imprime quell’arte plastica dall’aura
metafisica, che Quasimodo sembra richiamare anche davanti alla
porta di Micene, a cui rivolge il suo saluto «di siculo greco»:
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[...] Ai leoni della porta, agli scheletri dell’armonia scenica rialzati dai filologi delle pietre, il mio saluto di siculo greco.
Siamo ancora una volta di fronte a un'immagine plastica del paesaggio, inciso da un’arte che unisce lo spirito alla natura, come scrisse Montale parlando di Acque e terre nel 1931, nella brama di un infinito «che superi ogni ora / nel tempo che parve eterna», d’uno spazio che «d’angeli morti sorride», d’un paradiso che attende «il suo dio d’anima e di pietra».
Nel pronunciare queste parole Montale individua con esattezza alcuni elementi importanti nell’opera di Quasimodo, come la tensione a una dimensione in cui si annullano la cronologia e lo spazio, pietrificati nelle parole di un poeta che tende alla grecità, riscopre le sue intenzioni e le fa proprie. La sua prospettiva per annullare lo spazio d’uomo e il tempo d’uomo fa parte, infatti, di una scelta precisa di poetica, immersa in un’atemporalita che rispecchia una filosofia secondo la quale natura e arte non rappresentano un luogo, ma una verità, e fanno tutt'uno con l’uomo che le esprime, si fon-
dono al ritmo del suo respiro, permettendo alle architetture di uno stile di diventare pietra, carne, sangue e parole. L'arte e la filosofia a cui si riferisce come modello fanno parte di quella grecità che con tanto orgoglio rivendica. Nel discorso Una poetica, del 1950, scrive: Dalla mia prima poesia a quella più recente non c’è che una maturazione verso la concretezza del linguaggio: il passaggio fra i greci e i latini è stata una conferma della mia possibile verità nel rappresentare il mondo.’
Questa ipotesi abbraccia una visione generale della poesia, che va al di là della rappresentazione “scultorea” delle sue parole, e che si può spiegare con le stesse parole che Mario Luzi usò per la sua Ipazia. E l’ipotesi che il tempo della poesia, il tempo della lingua della poesia, è un tempo in cui s'incidono senza tempo le cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali ed accadibili.
La SICILIA SPIEGA IL MONDO:
LA PAROLA DI UN «SICULO GRECO»
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Quindi, come l’Ipazia del suo poema drammatico si colloca nell'Alessandria d'Egitto del 400 d.C., dopo la profonda frattura operata dal cristianesimo, perché sentiva che le figure rappresentate avevano un senso, entravano «nella eventualità continua del mondo» che per lui non finiva col suo essere accaduta, così per Quasimodo la grecità continuava ad avere un senso. L'unica, non margi-
nale differenza fra i due poeti è che questa sorta di «contemporaneità di tutti i tempi», come la chiamò Luzi, diventa una prima
persona. Dire: sono un siculo-greco significa chiamare in causa una filosofia morale ed estetica che riconosce l’identità di un uomo nella sua totale identificazione con un’opera, un’arte, e la conseguente necessità di vivere, come diceva Eliot, «non in ciò che è mero
presente, bensì momento presente del passato». Non si tratta semplicemente di una «discesa inerme» in quella tradizione, ma qualcosa di più profondo: un richiamo imperioso alle forme «che diedero vita a un determinato tempo e lo allontanarono da altri periodi già conclusi e definiti storicamente». Il suo particolare vocabolario, la sua sintassi, riflettono una prospettiva della storia, di quella storia, di quella classicità, basandosi non su un’idea, ma sulla ca-
pacita morale del poeta: «Rifare l’uomo, questo è l’impegno».4 Non è quindi nel testo che vanno ricercate le chiavi della vita di Quasimodo, apparentemente doppia, di siculo e di greco, ma nella necessità che sta a monte del testo, nella compostezza classica di ciò che esprime, nello specchio purissimo di una poesia che riflette i tempi in cui gli uomini non avevano ancora operato la scissione dell’uomo con la natura, i tempi dei greci, capaci di imprimere nelle arti plastiche la precisione del bello come fondamento metafisico, l’unione perfetta tra sensibile e soprasensibile: il suo dio d’anima e di pietra, appunto. I versi citati finora testimoniano che anche Quasimodo è
uno scultore, uno scultore di parole, che rappresentano la natura come qualcosa che non è separabile da lui: il poeta ingenuo è natura — scriveva Schiller — ed è questo che fa la differenza rispetto ai poeti a lui coevi, ermetici solo grazie alla temperie di una stagione, cristalliz-
zata in una «cronaca» diceva brutalmente Quasimodo nel ’53 «che
non sa distinguere la poesia dalla letteratura». O, forse, dovremmo dire che l’Ermetismo fu una cosa seria se permise ai grandi poeti fioriti nella sua ombra di svilupparsi in autonomia: amici, spesso amici-
nemici, ma mai confondibili l’uno con l’altro; e di nessuno vorresti fa-
re a meno. Lo scrisse di recente Marzio Pieri parlando dell’ultimo
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grande ermetico Alessandro Parronchi,° un altro autore che nella contemporaneità di tutti i tempi sceglie la perspectiva, la dantesca ancilla della geometria, per comporre le sue parole dipinte, comprensibili solo nell’ottica della scienza medievale della visione esatta. Posta a confronto con la poesia di Montale, dove le immagini valgono soprattutto per comunicarci “altro”, costringendo il lettore a domandarsi senza posa che cosa egli nasconda «sotto il velame de li versi strani», la parola di Quasimodo rappresenta dunque una cifra di lettura diametralmente opposta. Non si tratta, ovviamente, di riaprire un capitolo che, partendo dalle distinzioni retoriche tra allegoria e simbolo, riscopra appartenenze ai filoni delle poetiche europee del primo Novecento, ma piuttosto un tentativo di calarsi
nello spirito interno che anima le liriche di Quasimodo per spiegare la sorgente della sua poesia, così distante da quella dell’amico Eusebio. Non sono, infatti, le convergenze lessicali ampiamente ri-
scontrate da Sergio Campailla in un convegno dell’85’ a decretarne l'unione, ma a segnare il profondo solco della differenza è piuttosto la divergenza d’intenti, il modello. Il male di vivere dell’uno e dell’altro non ha la stessa matrice, e quello di Quasimodo deve essere decifrato tenendo conto anche di quella sua dichiarazione d’intenti: io sono un siculo greco, che sembra evocare all’unisono ciò che dice Schiller del poeta ingenuo (il poeta ingenuo è natura), che rintocca nell’affermazione quasimodiana del Discorso sulla poesia: «la poesia è l’uomo».8 Non è intenzione di chi scrive, dunque, entrare nel campo del Quasimodo traduttore dei greci, né addentrarsi nell’analisi delle fonti classiche, alimento costante della letteratura ita-
liana,’ né tantomeno scalfire l'ampia bibliografia che affronta il te-
ma dello «stile da traduzione» da lui detestato.'? L’intento è capire il motivo di tanto orgoglio nel dichiarare una matrice così netta per la sua opera poetica. Si tratta dunque di un’approssimazione che — come dice Mario Luzi in Moderni? Contemporanei? — «non propo-
ne e non si aspetta neppure delle risposte positive in anticipo, ma non nega eventuali prospettive per il futuro».!! La ricerca di una fonte per la grecità poetica quasimodiana apre comunque molte strade da seguire. La prima è l'impronta foscoliana di tale accento: del Foscolo esule dalla sua Zacinto, costretto a
diventare grande con una lingua non sua. Nei Sonetti compare quella nostalgia del mondo antico, soprattutto ellenico, come patrimonio creatore e àncora poetica.
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LA PAROLA DI UN «SICULO GRECO»
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La seconda è, invece, la sfumatura storica che può annidarsi nella sua dichiarazione, nel senso che «la Sicilia spiega il mondo» grazie alle favole antiche degli elimi, dei sicani, dei fenici, dei greci, degli arabi, che nel corso dei tempi vi sbarcarono, lasciando i se-
gni della loro civiltà e della loro arte.
Se volessimo, invece, isolare una terza via nel percorso della cultura letteraria di Quasimodo dovremmo riferirci a una matrice schiettamente filosofica, una disciplina che, come accadde anche
per il Montale discepolo della sorella Marianna, era esclusa dagli studi tecnici che entrambi avevano seguito e, quindi, assimilata con
la voluttà di chi se ne sente defraudato. Studiare caparbiamente le lingue classiche fino a diventare traduttore dei lirici greci significa che quell’impronta gli era entrata nel sangue a partire dal pensiero da cui prendeva le mosse. La lunga storia della critica che lo riguarda ci ha insegnato, fin dalle origini, che la parola di Quasimodo è un’entità, un «essente» direbbe ancora Montale, nel senso che i suoi lettori hanno dovuto
fare i conti ben presto con la sua “parola”, con quella caparbia volontà definitoria che non ama gli artifici da «consumatori di tecniche poetiche», ma piuttosto scava per raggiungere contenuti definiti, con parole scolpite che significano cose, prima ancora che sentimenti: «Con diverse cadenze, / diciamo ciò che, in natura, è la stessa cosa».!
Tutta la critica della sua produzione poetica anteguerra, che è compresa nella raccolta Ed è subito sera, è colpita dall’«intelligenza della parola di Quasimodo». Così titolava Anceschi nel 1937,” e di poetica della parola parlava Macrì nel 1938.!4 Nell’introduzione a Ed è subito sera, nel ’42, Solmi scriveva che «più che l’immagine, più che il verso, l'organismo costitutivo, la cellula elementare, è la parola». Sono testimonianze autorevoli, che convergono sulla necessità di guardare alle parole di Quasimodo tenendo conto della «matassa» che le suscita e le rende necessarie, lasciando intuire il
senso profondo, la chiave di lettura, fedeli a quanto disse Carlo Bo
nel ’37, il quale ribadiva che ogni sua parola è sovraccarica d’intenzioni, di storia intima, e spesso rappresenta la vita intera d’un sentimento, di cui noi a mala pena riusciamo a calcolare la lunghezza d’onda [...], la preziosa matassa di fili che è la parola secondo Quasimodo.
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Quale sia la matassa che fa di lui un siculo-greco, e la lunghezza d’onda in cui dobbiamo porci, significa dover considerare, ancora in concordia con quanto diceva Bo, che la sua parola è come l’ultimo stadio d’una lunga e indefinita operazione d’avvicinamento: ma presa non nella forza cristallizzata d’una definizione, bensì in una miracolosa trasparenza di tutte le variazioni, infine come sede generale del sentimento.!
Un orientamento per leggere l’autodeterminazione di «siculo greco» ce l'aveva già data indirettamente Solmi nella prefazione a Erato e Apòllion (1936) quando parla della drammaticità di una divisione irreparabile: da una parte un beato Eden, una naturalità beata, un’eta dell’oro, dall’altra l’assillo di una corrosione, d’un decadimento senza salvezza.!°
In modo ancora più circostanziato Salvatore Francesco Romano, nella sua Poetica dell’ermetismo del 1942," parlava di un disciogliersi in voci e parole di una severa malinconia, un sentimento di beni perduti di strazi solitari e di brividi panici, vissuto in un clima di eterni miti, che si compongono talora in figure di ellenistica bellezza; un tono altissimo di lirica scandito in un linguaggio da epigrafe.
Di «splendente Trinacria mediterranea e ellenica» parla ancora Macrì nella prefazione del ’38 alle Poesie, mentre a distanza di vent’anni, nell’introduzione di Roberto Sanesi alle Poesie scelte,'8 troviamo una immagine della Sicilia vista e cantata da Quasimodo con caratteri e sembianze di classica grecità: Un’Ellade in ombra, sepolta, a volte emergeva in lui — un mare così salso, una spiaggia calcare e zolfo — di improvviso intraveduta e restituita come dopo un periplo fenicio travagliatissimo, e subito intatta nel suo giusto mito, fulmineamente elisia.
Su questa coralità di accenti Sergio Antonielli!? innesta alcune variabili, affermando che il canto della Sicilia greca in lui non opera soltanto nella direzione indicata dal Solmi, per cui si farebbe pa-
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radiso perduto contrapposto a una realta decaduta, «ma nel porsi come un unico ambiente d’occasione». Quasimodo in altri termini non è un /audator temporis acti, un apocalittico tentato di compa-
rare il sublime passato al povero presente, ma è un poeta che si ispira a un classicismo come levigatezza formale, non però limitato alla superficie, ma collegato al primo, il lontano passato, come fatto di sangue, per usare una parola da lui stesso abusata, come fatto di natura profonda, “sicilianità” greca, per intenderci. Il mito dell’isola permea gran parte dei testi della prima maniera quasimodiana, dove si descrive la natura della sua Sicilia, dove
natura e arte formano un organismo. Ciò che sembra dettare questi componimenti è un ragionamento non puramente formale, insisto, ma filosofico, che rammenta quello che Schiller scriveva in
Grazia e dignità a proposito del ruolo del poeta. Parlando dell’ammirazione per la grecità, egli sosteneva che nascesse da un senti-
mento estetico che non è nostalgia del passato come in Winckelmann, ma piuttosto tensione verso un’armonia perduta: un’armo-
nia che è ancora possibile recuperare con la diffusione del senso estetico dei poeti e degli artisti, gli unici al centro di un'effettiva opera di miglioramento. Questo è l’argomento e il problema dell’ultimo grande saggio filosofico di Schiller, Della poesia ingenua e sentimentale del 1795 e 1796. Qui egli esprime due concetti fondamentali: la necessità del recupero da parte del poeta di una perfezione perduta e la nostalgia verso un’età felice che già l'aveva realizzata: la Grecia. Solo così troveremo da un lato la nostalgia come senso dell’ingenuità, dall’altro l’efficacia della poesia, la sua operosità viva. «La posizione del poeta non può essere passiva nella società: egli “modifica” il mondo» diceva Quasimodo, perché la sua poesia « si trasforma in etica».?°
In Schiller la distinzione della poesia in ingenua e sentimentale è la distinzione di due forme storiche: la prima è la poesia antica e greca, mentre la seconda è la poesia moderna. Ed è in questo senso che vorremmo avanzare un’ipotesi, che se fosse formulata con
perentorietà potrebbe anche sembrare azzardata: Quasimodo non
è un poeta ermetico, né un poeta civile, e non è neppure un poeta
moderno: è semplicemente un poeta siculo-greco, che nella «con-
temporaneità di tutti i tempi» a cui abbiamo accennato si assume il compito di ricostruire quella totalità di cui parlava Schiller, e che la Storia con la maiuscola ha distrutto.
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Con la pubblicazione di Nuove poesie (1936-1942), la critica ha registrato, com’é noto, una profonda metamorfosi nei suoi testi, e si è chiesta se la trasformazione della parola di Quasimodo in discorso non stesse nella consuetudine con i lirici greci, le cui traduzioni erano apparse nel ’40. La domanda era legittima, e se la pose Alberto Frattini, il quale disse che «non senza frutto è stato l’incontro coi lirici greci»?! L'influenza del traduttore su questa apparentemente nuova grecità di Quasimodo non convinse completamente Carlo Bo, soprattutto perché con innegabile intuito intravedeva una
continuità di intenti fra «i testi esatti e sacrificati degli anni anteriori al trentasei e quelli così soddisfatti e quasi abbondanti degli ultimi tempi». In realtà, egli dice, «l’aggio e la distensione di oggi sono ottenuti direttamente sugli angoli assoluti e sull’eco verticale dei gridi di ieri».?? Anche nell’evolversi della poetica quasimodiana, insomma, è sempre l’anima siculo-greca delle origini a dare corpo e
struttura al canto: l’antico richiamo di Che vuoi, pastore d'aria: Ed è ancora il richiamo dell’antico corno dei pastori, aspro sui fossati bianco di scorze di serpenti. Forse dà fiato dai pianori d’Acquaviva, dove il Plàtani rotola conchiglie sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli di pelle uliva. [...]
I «lidi dell’infanzia omerica» (Sera nella valle del Masino), dove
«la latomìa l’arancio greco / feconda per gl’imenei dei numi» (Cavalli di luna e di vulcani), restano la sua realtà: la Sicilia creta, fusa nel sangue che gli scorre nelle vene, come la lui assunta come fondamento etico-estetico. In Omero - scriveva Schiller — la natura è vista come Omero è la natura, egli è la sua opera e la sua opera è
viva, congrecità da
soggetto. lui stesso. Nei greci — egli dice — la civiltà non era degenerata al punto di do-
ver rompere con la natura: la vita politica era sentimento, la teologia era istinto, tutto nella loro umanità era natura. Nella poesia non avevano quindi bisogno di manifestare tutta una gamma di sentimenti nei riguardi di quella natura che con tanta immediatezza sentivano vivere in se stessi. Perciò la poesia ingenua è rappresentazione assoluta, e cioè conclusa, totale, definita, completa, chiusa.”
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Ma Quasimodo aveva letto lo Schiller teorico di filosofia morale? Una risposta a questa domanda, che potrebbe convalidare o negare una prospettiva meno frequentata delle altre per la lettura della sua opera, non può avere al momento alcun esito. Bisognerebbe, infatti, conoscere quali libri fecero parte del suo apprendistato classico, quali annotazioni fece a margine della sua biblioteca giovanile: un patrimonio culturale disperso e irrecuperabile. Non resta, quindi, che procedere con ipotesi prive di conferme testuali esterne. La metamorfosi delle nuove poesie di Quasimodo annunciava la svolta delle prove successive, che sconvolsero le convinzioni raggiunte dalla critica cosiddetta ermetica, che aveva intuito i motivi di fondo, ma che non riusciva ancora a giustificare l'itinerario poetico di Quasimodo attraverso il variare delle forme. Accadde ciò
che per Schiller suscitava la nascita di un poeta «ingenuo»: «Dai critici, dagli autentici custodi del gusto, sono odiati come disturbatori dei confini, che si preferirebbe sopprimere», perché — dice invece Quasimodo nel ’46 — «la nascita di un poeta è sempre un atto di disordine». Eppure la nuova maniera quasimodiana era perfettamente allineata a quel fondamento etico-estetico a cui si è accennato, che puntava le frecce in direzione della poesia intesa come armonia tra le facoltà sensibili e le facoltà razionali, che non po-
tevano ignorare la rivelazione improvvisa e feroce della storia. La poesia in lui, osservò Giovanni Raboni, anziché scoprirsi impotente o estranea di fronte alla realtà, si ritrova forte anche in tale dimensione, sembra si diriga verso la storia addirittura per impossessarsene, o almeno per incidervi le proprie testimonianze e profezie. E in sostanza ancora lo stesso uomo [...], lo stesso poeta.”’
Lo disse e lo ripeté a chiare lettere Gilberto Finzi, che già nel 1970 parlò di due fasi che non determinarono però una «reale frattura in un’opera nel suo insieme unitaria».2° Ciò che sfuggì in sostanza alla stragrande maggioranza della critica ermetica fu che l’as-
soluto della parola definitoria di Quasimodo, dopo avere esplorato e preso possesso di una realtà interna, di un uomo di fronte alla natura, si dirigeva ora verso un incisivo possesso della realtà come
concretezza. Il poeta non cessava di essere natura, anzi era talmente fuso con essa che non poteva che vibrare e soffrire per il destino
di violenza sugli uomini e sulle cose, per «l’urlo nero» delle madri.
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Nelle raccolte uscite dopo il ’45, da Giorno dopo giorno a La vita non è sogno, da II falso e vero verde a La terra impareggiabile, non si riconobbe più il Quasimodo ormai definitivamente etichettato come ermetico, e fu questo a creare scandalo. In realtà Quasimodo fu ermetico solo per motivi anagrafici, mentre la sua vocazione re-
stava siculo greca. Nel suo Discorso sulla poesia, egli disse che un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un
tempo esatto, definito politicamente. E la poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.
Quelle modulazioni Schiller le avrebbe lasciate ai poeti sentimentali, appunto, ai poeti moderni, per i quali la natura non è più nell’uomo: è sempre un oggetto esterno. Per Quasimodo, invece — e qui cito un passo del saggio di Schiller che mi pare si attagli pienamente alla poesia di Quasimodo — la natura è rimasta nella casa materna, dalla quale noi, nell’ebbrezza della nostra li-
bertà, siamo fuggiti per regioni straniere. Con doloroso rimpianto aneliamo al ritorno, non appena abbiamo cominciato a sentire le amarezze della civiltà, e nella terra straniera dell’arte sentiamo la tenera voce della madre.’
Quando Quasimodo cambia il suo registro, alzando lo stesso grido del Salmo biblico 137, quello che recita: Là sui fiumi di Babilonia sostammo E piangemmo al ricordo di Sion; e ai salici di quella terra sospendemmo le nostre cetre. I nostri deportatori ci chiedevano canti, i nostri depredatori canzoni di gioia. Dicevano: «Cantateci i canti di Sion». Come canteremmo i canti del Signore In un paese straniero?
non fa che rappresentare il reale come voleva il poeta ingenuo di Schiller, il reale nudo, significativo di per sé, là dove il poeta sentimentale avrebbe cercato il contrasto, l'opposizione, il divario, il doppio registro tra il reale e l’ideale, che avrebbe trascinato con sé anche un uso retorico fondato sul doppio: satira, sarcasmo, ironia,
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e così via. La poesia di Quasimodo, invece, nella sua rinuncia alle forme doppie della retorica, è un blocco unico, una scultura appunto. Rappresentando il contrasto avrebbe dovuto assumere un doppio atteggiamento, avrebbe potuto rifrangerlo in satira o in elegia, con il conseguente uso di figure e contrario e tutto ciò che ne consegue. Il sogno di Quasimodo, malgrado i tempi con i quali si usa scandire la sua opera, prima e dopo la guerra, non è quello di un ritorno all’Arcadia, ma è la rappresentazione di un’armonia che ha sede nella natura, nel singolo uomo e nella società. Un’armonia considerata come principio pedagogico, che solo la poesia e l’arte possono realizzare. Ed è in questo senso che la sua opera è spinta verso il futuro: un futuro d’amore, di pacificazione fra interno ed esterno. In questo sta la sua forza di poeta civile. In questo sta il suo guizzo formale nelle poesie della guerra. Non c’è un primo e secondo Quasimodo. C’é piuttosto un diverso modo di invitare l'umanità a riscoprire il senso della “totalità”, dell'armonia voluta dai greci, a seconda della drammaticità delle fratture. La sua dignità di siculo greco gli impone l’urlo davanti alla scissione voluta dalla storia fra natura e ragione, fra ideale e reale, fra amore e odio. Sulla stessa linea della civiltà di Dante, dunque, il quale dopo le dolcissime poesie ermetiche della scuola del dolce stil novo più tardi aggiungerà, senza tradire la sua integrità morale, la violenza delle invettive umane e
politiche, non dettate dall’odio ma dalla giustizia interna e religiosa in senso universale,
Quasimodo scandisce i suoi egli disse nel discorso I/ poeta sulla stessa linea della civiltà deschi, la «forza attiva» di un
tempi della poesia. e il politico — ha dei di Dante. E ricorda poeta come lui nella
Ogni nazione — poeti che stanno Schiller per i tesocietà, la sua fi-
losofia dell’esistenza, che non parla né di «serenità armata», né di «disastri dell'anima e dello spirito», e tantomeno stimola «l’eternità con smilza calligrafia dell'anima», ma si orienta «verso un tentativo di riunire le giunture spezzate dell’uomo».?
Con lo stesso schema del Salmo 137 citato prima, allora, egli apre il suo nuovo canto di dolore con il componimento Alle fronde dei salici, poi confluito in Giorno dopo giorno del 1947:
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E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
Sempre con echi raccolti dalla matrice biblica, unico testo capace di trasmettere al mondo un insegnamento basato sul doppio registro, quello figurale, la raccolta si chiude: E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi». [....]
Qualche rintocco del principe dei libri si annuncia anche in La vita non è sogno, che contiene versi composti dal 1946 al 1948, per poi aprirsi ancora verso tracce classiche, come in Dialogo, dove il paesaggio isolano richiama la favola ovidiana di Orfeo e Euridice. E il ritorno alla madre, alla Sicilia che spiega il mondo attraverso la
poesia di uno dei suoi figli.
! La lirica fa parte di Bacia la soglia della tua casa: Seminatore di candide leggende, in S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi, prefazione di C. Bo, Mondadori, Milano 1971, p. 1076. ? E. MONTALE, Acque e terre, in “Pegaso”, III (1931), 3; ora in ID., I/ secondo mestie-
re. Prose 1920-79 , a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, pp. 436-440, p. 437. *S. QUASIMODO, Una poetica, ora in ID., Poesie e discorsi sulla poesia, pp. 279-281, p. 281.
4 In., Poesia contemporanea, in Poesie e discorsi..., pp. 265-273, pp. 267, 273.
> Ip., Discorso sulla poesia (1953), in Poesie e discorsi..., pp. 283-293, p. 285. °M. PIERI, Poesia, in “Reporter”, 9 febbraio 2001.
” S. CAMPAILLA, Quasimodo e Montale, nel volume miscellaneo S.Q. La poesia nel mito e oltre, a cura di G. Finzi, Laterza, Bari 1986. 8S. QUASIMODO, Discorso sulla poesia, p. 286.
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aL
° Cfr. Humanitas. Il mito nella letteratura italiana moderna, Morcelliana, Brescia 1996. 10S. QUASIMODO, Discorso sulla poesia, p. 287. !! M. Luzi, Discorso naturale, Garzanti, Milano 2001, p. 9.
2 S. QUASIMODO, Poesia del dopoguerra (1957), in ID., in Poesie e discorsi..., pp. 295303, p. 295, e Manoscritti giovanili, p. 1069.
13 L. ANCESCHI, Intelligenza della parola, in “Letteratura”, aprile 1937. 4 O. MacRÌ, Introduzione alle “Poesie” di Quasimodo, Primi Piani, Milano 1938. > C. Bo, Condizione di Quasimodo (1937), in ID., Otto studi (1939), San Marco dei Giustiniani, Genova 2001, pp. 161-177, pp. 164-165. 16S. SOLMI, Quasimodo e la lirica moderna, in ID., Opere, La letteratura italiana con-
temporanea, a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 1992, tomo I, pp. 212-222, p. 219. 17 S.F ROMANO, Poesia e poetica di Salvatore Quasimodo, in Poetica dell’ermetismo, Sansoni, Firenze 1942.
18 R. SANESI, La poesia di Quasimodo, introduzione a S. QUASIMODO, Poesie scelte, Guanda, Parma 1959. 1° S. ANTONIELLI, Salvatore Quasimodo, in “Belfagor”, IV (1951), 5. 20 S. QUASIMODO, Discorso sulla poesia, p. 293.
21 A. FRATTINI, Sul linguaggio poetico di Quasimodo, in “Humanitas”, IV (1960), 3. 22 C. Bo, Sulle “Nuove Poesie” di Quasimodo, in “La Ruota”, IV (1963), 5. 2 F. SCHILLER, Sulla poesia ingenua e sentimentale, presentazione di A. Berardinelli, Il Melograno, Roma 1981, pp. 122-123. 24 Ibi, p. 48; S. QUASIMODO, Poesia contemporanea, p. 265. 2 G. RABONI, Quasimodo e la giovane poesia, in “Nuova presenza”, VII (1964-1965), 15-16.
26 G. FINZI, Introduzione a S. QUASIMODO, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1970.
27 E SCHILLER, Sulla poesia ingenua..., p. 118. 28 S. QUASIMODO, I/ poeta e il politico, in ID., Poesie e discorsi sulla poesia, pp. 305317, pp.311-312, 314, 316.
QUASIMODO TRA TEATRO FATTO E TEATRO VISTO di Danilo Ruocco
Se é assai noto che Salvatore Quasimodo, oltre che poeta, fu anche
traduttore, è meno risaputo il fatto che il Premio Nobel per la letteratura 1959 svolse un'intensa attività giornalistica, la maggior
parte della quale come critico drammatico. Inoltre, tra le traduzioni che lo resero celebre, assieme a quelle dei Lirici greci, dei poeti raccolti nell’Arztologia Palatina, di Catullo, Neruda e altri, figurano quelle di testi teatrali di drammaturghi quali Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare e Molière. Si aggiungano, infine, all’elenco appena stilato, i testi scritti da Quasimodo per la scena! e la cinematografia? e, a conti fatti, si potrà affermare con serenità che non solo l’attività svolta dal Premio Nobel nel mondo dello spettacolo non fu né episodica, né “minore”, ma anzi che essa comprese in sé gran parte della di lui vita creativa. Non è facile datare con sicurezza il momento dal quale si possa fare iniziare l'interesse lavorativo di Quasimodo per il teatro. La prima traduzione di una tragedia si ebbe nel 1946 con l’Edipo re di Sofocle edita quell’anno da Bompiani; l’attenzione alle arti dello spettacolo, però, va fatta risalire perlomeno a dieci anni prima, quando il poeta conobbe la danzatrice Maria Cumani, destinata a diventare la di lui consorte, nonché musa.’ Ad ogni buon conto, è
dal 1948 che Salvatore Quasimodo mantenne assidui contatti con il mondo teatrale: in quell’anno, infatti, egli divenne il titolare della rubrica di critica drammatica del settimanale “Omnibus” e, su esplicita richiesta dei registi Giorgio Strehler e Renato Simoni, tradusse per il primo La Tempesta’ e, per il secondo, Romeo e Giulietta’ di Shakespeare.
Le traduzioni
Giorgio Strehler ricorda l’inizio della collaborazione tra Quasimodo e il Piccolo Teatro con le seguenti parole:
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DANILO RUOCCO
La traduzione della Tempesta fu preparata da Salvatore Quasimodo espressamente per noi. Fu [...] questo un fatto pieno di significato; il legare il nome del poeta Quasimodo ad una avventura di teatro mi pare non possa andare sottovalutato quale che sia il giudizio che noi si possa oggi dare oggettivamente sulla sua traduzione per certi versi straordinaria, al di là della sua “esattezza” filologica o meno.°
Nel corso degli anni, più di un critico si è soffermato sulla non correttezza filologica delle traduzioni quasimodiane. Ai difensori della filologia a tutti i costi, Quasimodo ha risposto in diverse occasioni: La tecnica è un mezzo, ma non è la poesia. Perciò le traduzioni dei poeti non possono essere tentate che dai poeti. Il lavoro del filologo è necessario per la interpretazione, per la conoscenza, per tutte le altre ragioni di sistemazione storica d’un testo, per la ricerca delle derivazioni, ecc., ma al di là di questi limiti c’è una zona pericolosa: quella stessa che il filologo ama rimproverare al poeta: c’è la zona della creazione artistica: in essa, talvolta, entra qualche poeta;’
e, altrove: Traducendo qualsiasi opera di teatro, dai tragici greci a Shakespeare, ho tentato di essere fedele al linguaggio dei poeti per i quali dovevo trovare un’altra misura linguistica. Il linguaggio dei primi o del drammaturgo inglese è intimamente teatrale: altri traduttori hanno commesso un falso in atto pubblico riducendo “letterari” i versi di Sofocle o di Shakespeare.®
Dunque, Quasimodo si poneva la preoccupazione di mantenere inalterata la teatralità insita nel testo originale, privilegiando la resa spettacolare del copione, anche a scapito dell'aderenza filologica vagheggiata da certi ambienti. Non è quindi un caso che si sia ora parlato di “copione” e non di traduzione: un copione è un testo — anche quando frutto di un lavoro di traduzione — pensato e approntato per essere recitato, più che letto. Lavori per le scene e non per i filologi, dunque, quelli di Quasimodo; testi messi al servizio di registi e interpreti. A tale proposito non è inutile, ora, esa-
minare brevemente due fotografie’ che sono la conferma di quanto finora esposto. Nella prima di tali immagini vengono ritratti Quasimodo e Giorgio Strehler seduti nella platea del Piccolo Teatro di Milano, mentre seguono le prove del Riccardo III di Shakespeare.'° Nell’altra, assieme al poeta e al regista suddetti, compare
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anche l’attrice Lilla Brignone, interprete dell’E/ettra di Sofocle:!! i
tre stanno analizzando una battuta del copione. Il lavoro di Quasimodo, dunque, non si esauriva con la consegna al regista di una traduzione, ma proseguiva anche durante lo svolgimento delle prove, modificando, all'uopo, alcune battute del copione, per render-
le più aderenti ai bisogni degli attori. I risultati scenici conseguiti dalle traduzioni di Quasimodo furono eccellenti e più d’un critico volle elogiarle per la loro comprensibilità e modernita.'? Inoltre, testimoni indiretti, ma efficaci,
della “facilità” d’ascolto presso il grosso pubblico dei testi teatrali tradotti da Quasimodo sono Pier Benedetto Bertoli e Franco Enri-
quez che, nel 1954, impiegarono per il primo adattamento televisivo mondiale del Romeo e Giulietta di Shakespeare" da loro realizzato proprio la traduzione datane da Quasimodo nel 1948. Oltre ai già citati Renato Simoni e Giorgio Strehler! tra i registi che vollero una traduzione di Salvatore Quasimodo per un loro spettacolo teatrale vanno almeno nominati Gianni Santuccio, Vit-
torio Gassman e Alexis Minotis.!
Il Billy Budd Per il Billy Budd non è ancora perduta la speranza, perché per me (dirò a Pavolini) la presenza della Molly Bristol è essenziale a definire la “natura” di Billy- che dal testo di Melville potrebbe far sorgere dubbi. Infatti il canto di Billy sul mucchio di cordami ricorda “una donna” e non un uomo. Vedrò, cara Pucci, di convincere il regista.!°
Così Quasimodo in una lettera del 1949 a Maria Cumani (Pucci),
per la quale aveva pensato la parte danzata di Molly Bristol.” La didascalia relativa al Canto di Billy è chiara: «Durante il canto l’immagine di Molly Bristol danza sul ponte; poi Billy s'addormenta»;'* e il canto altro non è che un lamento per la lontananza di Molly, «la mia donna / [che] stringe il petto di altri mariani».! Corrado Pavolini, il regista della messinscena, non era però intenzionato a seguire le indicazioni di Quasimodo librettista e, infatti, finì per togliere tale mo-
mento coreografico dallo spettacolo che esordì al teatro La Fenice di Venezia 1’8 settembre 1949.?° Oltre che per comprensibili ragioni sentimentali, Quasimodo aveva previsto la presenza di una figura
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femminile per motivi, per cosi dire, di chiarezza: «la presenza della Molly Bristol è essenziale a definire la “natura” di Billy», aveva infatti scritto il librettista che vedeva — a ragione — nel romanzo di Herman Melville risvolti omosessuali. Il Billy Budd di Melville narra la storia tragica del giovane e bellissimo (dal volto quasi femmineo)
Billy, il quale, incapace di replicare alle false accuse di tradimento mossegli dal maestro d’armi Claggart, colpisce quest’ultimo con un pugno e, involontariamente, lo uccide. Condannato, quindi, alla pe-
na capitale, essa è immediatamente eseguita sulla nave sulla quale Billy presta servizio. Nel romanzo, Melville paragona l’innocente «bel marinaio» Billy ad Adamo e rinvia, con il sacrificio di Billy (in tal modo, infatti, è considerata la condanna), alla Passione di Cristo.
Contro Billy/Adamo/Cristo c'è — come s’é detto — Claggart che, mosso alla cattiveria nei confronti di Billy dal di lui bellissimo aspetto, per il quale prova un’invidia bruciante, sarebbe, in qualche modo, l'incarnazione di Satana stesso, in quanto su di lui incombe un
biblico «mystery of iniquity»?! che lo rende un uomo corrotto da
una «depravity according to nature». Ed è, appunto, su tale aspetto “demoniaco” che Salvatore Quasimodo insiste per dare un senso alle azioni del maestro d’armi. Infatti, preoccupato — come si è visto — dal tema omosessuale esistente tra le pieghe del testo, il librettista tenta di sbarazzarsi di ogni equivoco, lasciando la presentazione di Claggart al Corifeo (uno dei protagonisti del libretto): Claggart ha una segreta antipatia per Billy: è difficile comprendere la causa di questa avversione; ma il solo aspetto d’un uomo può suscitare un’antipatia spontanea e inesorabile. Il suo può considerarsi un caso di “depravazione da natura”; potremmo dire che la sua responsabilità morale coincida col senso d’una frase della Bibbia: «i misteri dell’iniquita».”
Né la «depravazione da natura» né il «mistero d’iniquità», però, sono in grado di eliminare dal testo di Melville (e, di conseguenza, dal libretto di Quasimodo) le pulsioni omoerotiche, reali ragioni dell’agire di Claggart. Afferma, infatti, Robert K. Martin: Melville sees his villain Claggart as a repressed homosexual whose desires for Billy can only be translated into a false accusation against him. Claggart’s evil (or “depravity” by nature) is the product of a failure to acknowledge his own desires.??
QUASIMODO TRA TEATRO FATTO E TEATRO VISTO
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Non solo Claggart — specifica Martin poco più oltre — ma Billy stesso è un omosessuale, anche se il «bel marinaio» è il rappresentante di un tipo “nuovo” di omosessualità, in qualche modo “innocente” e lontana dal peccato originale, non in grado però di rappresentare, per gli altri marinai, una valida alternativa all’autorità, al potere e alla mascolinità, di cui sono invece l’incarnazione Claggart e il capitano Vere. Un romanzo, quindi, quello di Melville, pervaso da temi omosessuali, palesati — forse per la prima volta — da Auden,” proprio in quel 1949. Pare complesso, ora, addentrar-
si nelle motivazioni che spinsero Quasimodo a negare ospitalità, nel proprio libretto, a tale rilevante chiave di lettura. Tali ragioni
possono essere sia di carattere personale, sia legate a esigenze di natura censoria: non si dimentichi che nel 1952, solo tre anni dopo la prima del Billy Budd di Quasimodo, la censura italiana bloccò la messa in scena de La Governante di Vitaliano Brancati, testo tea-
trale del quale è protagonista una lesbica. Ad ogni buon conto, quali che siano state le cause del ritegno quasimodiano, il suo Billy Budd — primo adattamento mondiale del romanzo di Melville? — andò regolarmente in scena nell’ambito delle manifestazioni musicali della Biennale di Venezia. La regia — si è visto — era di Corrado Pavolini, le musiche di Giorgio Federico Ghedini, le scene e i costumi di Renato Guttuso e l'orchestra del teatro La Fenice era diretta da Fernando Previtali.
Ghedini scelse di musicare il libretto secondo «il taglio operistico a pezzi chiusi». Undici pezzi, definiti da Angiola Maria Bonisconti, cui era stata chiesta una nota introduttiva allo spettacolo, come [...] creature musicali che vivono nella e per la poesia e scena [...] nella loro progressione, il crescendo della presenza e della continuità musicale è parallelo al crescendo d’intensità drammatica nell’azione; mentre il potenziale dei silenzi è mirabile, dove si offre un nuovo interesse drammatico o dove si spalanca il tremore poetico. Questo “taglio” musicale è del resto perfettamente consono al taglio [...] librettistico di Salvatore Quasimodo, che del testo melvilliano calmo e grandioso ha rilevato il ritmo fatale, e ne ha proiettato la lirica latente in una lucida costanza di clima lirico.”
Alla prima rappresentazione seguì uno strascico polemico:”* il poeta e critico musicale Beniamino Dal Fabbro accusò Quasimodo di plagio della traduzione del romanzo”? realizzata da Eugenio
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Montale e di essere la causa del fatto che Ghedini avesse scritto della brutta musica. Se quest’ultima accusa cade da sé per l’evidenza della sua inconsistenza, la prima va respinta con maggiore serietà, così come fece Quasimodo stesso, che scrisse una lettera a
Max De Vita?° nella quale affermava con risolutezza di aver adattato il Billy Budd partendo dall’originale inglese e invitava, per verificare che non esistessero plagi, a confrontare la propria versione della Ballata per Billy con quella datane da Montale. Non sarà inutile, allora, dare una rapida occhiata a entrambe le ballate per vedere quali siano le differenze più evidenti: 1. il titolo del pezzo poetico differisce nei due autori: quello di Montale è Billy in catene, così come recita il titolo originale (Billy in the darbies), mentre il titolo scelto da Quasimodo è Ba/lata per Billy; 2. nell’adattamento di Quasimodo, il testo si presenta diviso tra le strofe affidate al Corifeo, quelle per il coro dei marinai e quelle per la voce di Billy, mentre il testo di Montale non presenta divisioni di sorta (a parte quelle dovute alla versificazione), così come
l'originale di Melville; 3. nella Ballata per Billy è riscontrabile la presenza di versi (come quelli, ad esempio, del finale) non presenti nell’originale di Melville, fatto, ovviamente, non occorrente nella traduzione di
Montale. In sostanza; dunque, è possibile affermare che Montale ha attuato una traduzione del romanzo di Melville, mentre Quasimodo
ne ha fatto un vero adattamento per il teatro, rendendo il brano poetico di Melville (scritto per la lettura) molto più “mosso” dell'originale; teatrale, appunto. Essendo quella di Quasimodo una creazione autonoma, piuttosto che una traduzione, presenta — com'è giusto — notevoli.differenze dall’originale di Melville. In definitiva, l’accusa di plagio pare poter essere rigettata. Il critico
Si è detto più sopra che, nel 1948, Quasimodo iniziò un’intensa attività come critico teatrale che lo portò a collaborare dapprima con il settimanale “Omnibus” e in seguito — dal 1950 al 1959 — con
il settimanale “Tempo”. Durante il decennio nel quale Quasimodo si recò a teatro per professione, l’Italia dello spettacolo di prosa vi-
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de la definitiva affermazione della regia, soprattutto per merito di Giorgio Strehler e Luchino Visconti che portarono a termine — nei modi a loro congeniali — l’opera di rinnovamento intrapresa, nel periodo tra le due guerre, da Tatiana Pavlova.
Riunite in volume in due occasioni distinte}! le critiche di Sal-
vatore Quasimodo sono state accolte, da parte della critica nazionale in modo contrastante: alcuni’? hanno rimproverato a Quasimodo di non aver saputo guardare al lavoro innovativo svolto dai registi; altri,” al contrario, hanno riconosciuto che il poeta quando recensiva non si limitava a concentrare la propria attenzione al valore del testo, ma sapeva anche cogliere le peculiarità del lavoro di interpreti e registi.
Non sarà inutile, ora, per meglio comprendere l'atteggiamento di Quasimodo critico nei confronti dello spettacolo, leggere in parallelo quanto da lui scritto e quanto pubblicato da altri, relativamente ad alcuni degli spettacoli più celebri in quegli anni. Tra di essi figurano due rappresentazioni di commedie goldoniane: la Locandiera realizzata da Luchino Visconti nel 1952 e la Trilogia della Villeggiatura firmata da Giorgio Strehler nel 1954. Entrambi gli spettacoli si situano in quella che Paolo Bosisio — in un suo saggio sulle realizzazioni sceniche novecentesche in Italia del teatro di Goldoni —* ha definito La grande stagione del realismo} ovvero quella durante la quale gli interpreti delle commedie del veneziano smettono di rappresentare il Settecento attraverso «soluzioni di tipo ballettistico e stilizzato [...] [o] proposte bozzettistiche di stampo tardo naturalistico alla maniera di Baseggio»,* e iniziano a illuminare i testi di Goldoni con luce più “cruda”, veritiera, realistica, appunto. Tale nuova lezione impo-
sta sulle scene dai due registi ora ricordati sollevò più d’una protesta da parte di alcuni critici. Per esempio, Roberto De Monticelli, re-
censendo la Locandiera}” dopo essersi detto perplesso dalla regia realizzata da Visconti sul capolavoro di Goldoni, afferma: [...] qui non si tratta, passando per codini, di difendere una tradizione delle mossette, delle volantine, delle prese di tabacco, delle risatine, delle mani sui fianchi alla Corallina, ecc. ecc. [...] Né è il caso di invocare un’altra tradizione,
di origine più nobilmente culturale, la tradizione che fa, di certe pièces di Goldoni, stupefatti balletti, accompagnati da una recitazione fra incantata e mucosì sicale. Ma perché impregnare d’un tono così spietatamente contingente, aupochi dei uno è che dialogo quel borghese” “commedia così quotidiano, tenticamente classici del nostro teatro?”
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Ben altre parole, invece, si leggono nella critica allo spettacolo firmata da Quasimodo. Il poeta non solo apprezza la regia intessuta di realismo di Visconti, ma afferma che il vero Goldoniè proprio quello che il regista milanese mostrava. Scrive infatti Quasimodo: [...] se dovessimo parlare di realismo del teatro italiano, d’una libera critica dei sentimenti e del costume, Goldoni ci verrebbe incontro sorridente, [...]
senza parrucca e senza inchini. [...] Il gioco goldoniano è davvero pericoloso per chi si fermi all’esterno e veda solo decorazione e ritmo dove c’è anche tristezza e malinconia e sudore di sangue. La locandiera, priva degli scatti a orologeria, degli svolazzi e dei saltelli, è, nell’intimo, quella che ci presenta Lu-
chino Visconti. [...] la sua Mirandolina, il suo marchese di Forlimpopoli, vengono staccati dalla recitazione tradizionale per rivelare i loro umori psicologici, il peso della fisica provvisorietà: sono esseri umani e non maschere di un balletto convenzionale.?
Secondo la ricostruzione dello spettacolo effettuata da Paolo Bosisio nel saggio già ricordato, ad entrare maggiormente in sintonia con le intenzioni di Visconti sarebbe stato Quasimodo e non De Monticelli. Due anni dopo la regia di Visconti, Strehler allestisce la Trilogia della Villeggiatura,*' adattando i tre testi che la compongono in modo che fosse possibile, per la prima volta, inscenarli in un’unica serata e, contemporaneamente, elevando Giacinta a vera protagonista della vicenda. Si è detto che questo spettacolo, come quello di Visconti, è realizzato sotto la luce del realismo. Più di un critico, inoltre, vide, nelle atmosfere create dal regista del Piccolo Teatro, influenze del teatro di Cechov. Di nuovo, Quasimodo dimostra di penetrare nel gioco registico e dichiara: Strehler ha costruito un Goldoni limpido e autentico, attraverso tutti i toni e i ritmi delle sue preferenze stilistiche. Preferenze che, di volta in volta, sono apparse nelle sue regie di Shakespeare, dello stesso Goldoni [...] di Cechov, Ma essenziale è, in questa trilogia, l’insistente e modulata ricerca del “dramma” goldoniano. [...] La locandiera di Luchino Visconti era stata, del resto, un avvertimento. Strehler ha raggiunto la figura di Giacinta con un metodo singolare: è stato romantico, crepuscolare e realista.42
Vale la pena rilevare come Quasimodo, nel brano appena citato, a proposito di Goldoni, usi la parola dramma, tra l’altro virgo-
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lettandola. Ad essa seguono espressioni come «romantico, crepuscolare e realista». Lungi dall'aver arbitrariamente spostato Goldoni in pieno Ottocento, Quasimodo, con tali parole, rivela di aver compreso in profondità la rivoluzione registica strehleriana. È lo stesso regista, una ventina di anni dopo, a confermare, indirettamente, la visione critica del poeta. Scrive, infatti, Strehler: Lo spettacolo] parte da una comicità motoria, ritmica, tipica del Goldoni comico, e a poco a poco digrada nel patetico, nel dolente. [...] Poiché in definitiva la Trilogia risulta una commedia di stati d’animo e, senza voler anticipare troppo, di atmosfere [...]. Stati d’animo soprattutto amorosi. [...] il dramma è d’amore, in pieno, senza reticenze, c'è abbandono sentimentale, incontro di
sentimenti a caldo.#
Le atmosfere di cui parla il regista sono, si crede di capire, quel-
le di Cechov, al teatro del quale, forse inconsciamente, il regista guardava al momento della realizzazione della Trilogia della Villeggiatura.
In quegli anni; all’affermazione della “regia critica” è legato a filo doppio lo svecchiamento del repertorio operato anche tramite la presentazione al pubblico nazionale di quei testi vietati per anni dalla censura fascista. Tra i registi più attenti alla drammaturgia straniera contemporanea, specie quella statunitense, figurano Vi-
sconti e Luigi Squarzina. Uno degli spettacoli che più si imposero all’attenzione di pubblico e critica è Morte di un commesso viaggiatore* di Arthur Miller messo in scena da Visconti nel 1951. Quasimodo è tra coloro che apprezzarono il nuovo testo milleriano, soprattutto per la figura del protagonista in esso tratteggiata. A tale proposito, il poeta scrive parole di grande elogio nei confronti di Miller, il quale, a suo dire, [...] ha fatto una scoperta importante per il teatro contemporaneo: ha preso un uomo per le spalle, un uomo qualsiasi, [...] [e] lo ha spinto sulle tavole del palcoscenico costringendolo a parlare.”
Di non secondaria importanza, soprattutto per quanto qui si sta
affermando a proposito della capacità del poeta critico di saper valutare i meriti dei registi, è la valutazione del lavoro svolto da Visconti sul testo di Miller. Scrive, infatti, Quasimodo:
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possiamo dare a Luchino Visconti un riconoscimento più ampio di quello che gli spetta come regista, perché la sua capacità è stata di natura critica prima che poetica: un merito prezioso, oggi. Miller hà avuto un critico severo in Luchino Visconti, che ha seguito ogni frase dei personaggi di Morte di un com-
messo viaggiatore senza la più lieve compiacenza.**
Lo scrittore e critico drammatico Corrado Alvaro è molto meno benevolo di Quasimodo nei confronti del testo di Miller e stigmatizza la violenza insita in esso con poche, ma ben calibrate, parole: «La brutalità è la nuova musa [...]. E all’Eliseo per poco non abbiamo veduto il padre protagonista percosso dal figlio». Positivo, invece, il di lui giudizio sulla regia di Visconti, il quale ha l'occhio attento ai minimi effetti, alla complessità dell’azione che egli ama svolgere in ogni sua minima parte [...]. C'è in lui una matematica dei gesti, degli atteggiamenti, un prestigio delle apparizioni in scena sempre di effetto sicuro.
Finora si è riportato solo quanto da Quasimodo espresso circa i traguardi raggiunti dai registi, tralasciando di citare anche quanto da lui scritto intorno all’arte degli attori. È bene specificare che il poeta era costantemente attento all’arte attorale. Solo l'urgenza del discorso fin qui condotto ha fatto sì che tale aspetto venisse sorvolato. Ora si vuole riparare, riferendo soltanto quanto da Quasimodo detto, con parole commosse, a proposito delle prove di Paolo Stoppa e Rina Morelli protagonisti del lavoro di Miller: Paolo Stoppa è entrato in Willy Loman con la sua più profonda natura: e averlo visto qui è stata una sorpresa. La sua bravura in altre zone del teatro di prosa è divenuta arte. Lapparizione improvvisa di Stoppa al centro d’una tragedia ha rivelato un grande attore [...]. Rina Morelli, minuta e umilissima “croce” di casa Loman, ci ha fatto dono fino all’ultima scena della sua altissima arte, con la chiarezza della sua anima accresciuta dal dolore e dall’accetta-
zione della morte.”
Uguale stima esprime Alvaro nei confronti della Morelli. Meno perfetta, invece, a suo giudizio, la prova di Stoppa che non sarebbe stato in grado, in ogni momento, di rendere palese il continuo
sfalsamento di piani tra il presente e il passato richiesto dal testo. Ad ogni modo
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in una simile fatica, Stoppa ha raggiunto il più delle volte un’evidenza impressionante, di grande effetto [...] lo hanno soccorso tutti i mezzi di cui dispone, una ricchezza di toni e di modi, una duttilità di strumenti vocali che
credo siano una scoperta per lui stesso.
Molti erano gli attori che Quasimodo apprezzava per il loro modo di affrontare i ruoli e, in particolare, alcuni di essi — tra i quali vanno citati, almeno, Lilla Brignone e Memo Benassi — amava
per la “naturalità” con la quale recitavano i versi, ossia evitando di sonorizzarli. In definitiva, si pud affermare con tranquillita che il poeta, nella sua veste di critico drammatico, lesse con uguale attenzione sia i testi sia le realizzazioni spettacolari, sapendo riconoscere i meriti di registi e interpreti.
Piace concludere l’analisi svolta sul lavoro condotto da Salvatore Quasimodo nel mondo del teatro sia nelle vesti di traduttore, sia in quelle di librettista, sia, infine, in quelle di critico, ricordando che Quasimodo riservava al teatro un ruolo di primo piano in
quella “costruzione dell’uomo” fulcro di ogni sua creazione artistica. Scrisse, a tale proposito, Quasimodo in occasione della Quarta
Giornata Mondiale del Teatro: L'invito a teatro in questa giornata non dovrebbe essere provvisorio, temporaneo, ma convincere la nuova generazione (aggrappata alle prospettive spetta-
colari dello sport o alla dispersa vibrazione vocalica delle canzoni) che solo nel teatro troverà il dialogo che definisca la sua probabile sorte fisica [...]. Il teatro
: : > ; : ; : presume di continuare [...] [l']aperto dialogo millenario dell’uno, non contro l’altro, ma per l’altro, vicino o straniero alla sua lingua e al suo costume.”
! Tre sono i libretti firmati da Salvatore Quasimodo: Billy Budd; Orfeo — Anno Domint MCMXLVII; L'amore di Galatea.
2 Quasimodo collaborò alla stesura dei dialoghi italiani del film Barabba e scrisse l'introduzione del film documentario Questo mondo proibito. Barabba, regia di Richard Fleischer, sceneggiatura di Christopher Fry e Diego Fabbri, dall’adattamento del romanzo di Par Lagerkvist realizzato da Ivo Perilli e Giuseppe Berto. Interpreti: Anthony Quinn, Vittorio Gassman, Jack Palance, Silvana Mangano, Arthur Kennedy, Valentina
Cortese, Ernest Borgnine, Harry Andrews, Arnoldo Foà, Paola Pitagora, Alfio Calta-
biano, Marco Tulli. Prodotto da Dino De Laurentiis, Italia-USA 1962, col., 134’. Questo mondo proibito, regia di Fabrizio Gabella, Italia 1963, col., 91°.
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> «Con l’amore [per la Cumani] Quasimodo scopre anche la danza, il ritmo, la musica, tutti elementi che entrano a far parte d’ora in poi della sua poesia. Per questo scrive le Nuove Poesie, un gruppo di liriche chiamate così non-perché appena scritte, ma proprio perché sono nuove come contenuti, come immagini, come ritmo» (A. QUASIMODO, Salvatore Quasimodo, operaio di sogni, in R. SALINA BORELLO, P. BARBARO, Salvatore
Quasimodo. Biografia per immagini, Gribaudo, Torino 1995, p. 109). +\W. SHAKESPEARE, La Tempesta, traduzione di S. Quasimodo, Einaudi, Torino 1956.
Regia di Giorgio Strehler, scene di Gianni Ratto, costumi di Ebe Colciaghi, musiche di Fiorenzo Carpi su temi di Domenico Scarlatti, dirette da Ettore Gracis, orchestra e co-
ro del Maggio Musicale Fiorentino, soprani Renata Broilo e Magda Bronzoni, pianista Gianni Del Testa, coreografie di Rosita Lupi. Interpreti: Mario Feliciani, Nino Manfredi, Camillo Pilotto, Gianni Santuccio, Giorgio De Lullo, Edoardo Toniolo, Gianni Lotti, Marcello Moretti, Vittorio Caprioli, Antonio Battistella, Carlo D'Angelo, Ettore Gai-
pa, Luisa Rossi, Lilla Brignone. Giardino di Boboli, Firenze 5 giugno 1948. 5 W. SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, traduzione di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1948. Regia di Renato Simoni, assistente alla regia Giorgio Strehler, scene di Pino Casarini, costumi di Emma Calderini, musiche di Mario Labroca, coreografie di Rosita Lupi. Interpreti: Renzo Ricci, Edda Albertini, Giorgio De Lullo, Lilla Brignone, Gualtiero Tumiati, Sandro Ruffini, Marcello Giorda, Gianni Santuccio, Germana Paolieri, Gina Sammarco,
Giulio Oppi, Armando Alzelmo, Antonio Battistella, Vittorio Caprioli, Maria Feliciani, Marcello Moretti, Ettore Gaipa, Marcello Bertini. Teatro Romano, Verona 26 luglio 1948.
°G. STREHLER, Irscenare Shakespeare, Bulzoni, Roma 1992, p. 22. ? S. QUASIMODO, Shakespeare di Quasimodo con una noterella polemica, in “La Fiera Letteraria”, IV (1949), 11; ora in ID., Una noterella polemica in merito ad alcune riserve provocate dalla mia traduzione di “Romeo e Giulietta”, in Quasimodo, a cura di A. Quasimodo, Mazzotta, Milano 1999, p. 226, da cui si cita.
$ Ip., Teatro, specchio di problemi, in ID., Il poeta a teatro, Spirali, Milano 1984, p. 15. ° Le fotografie in questione sono conservate presso l'Archivio fotografico del Piccolo Teatro di Milano. 10 W. SHAKESPEARE, Riccardo III, traduzione di S. Quasimodo, Piccolo Teatro, Milano 1950! Regia di Giorgio Strehler, scene e costumi di Giulio Coltellacci, musiche di
Fiorenzo Carpi. Interpreti: Edoardo Toniolo, Grazia Migneco, Lellina Roveri, Antonio Pierfederici, Renzo Ricci, Gianni Santuccio, Massimo Pianforini, Mario Feliciani, Gianni Mantesi, Carlo D'Angelo, Paolo Ferrari, Pietro Tordi, Filiberto Conti, Ottavio Fanfani, Marcello Bertini, Renato Navarrini, Toni Comello, Roberto Pescara, Marcello Moretti, Antonio Battistella, Renata Seripa, Lilla Brignone, Gina Graziosi, Edda Albertini,
Giuseppe Fortis. Piccolo Teatro, Milano 15 febbraio 1950. !! SOFOCLE, E/eztra, traduzione di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1954. Regia di Giorgio Strehler, costumi di Felice Casorati, musiche per il coro di Fiorenzo Carpi,
maestro del coro Giuseppe Caleffa, coro mimato e istruito da Jacques Lecoq. Interpreti: Lilla Brignone, Antonio Crast, Fulvia Mammi, Giovanna Galletti, Piero Carnabuci, Salvo Randone, Vittoria Martello, Miranda Anastrelli, Biancamaria Bottari, Wanda Cardamone, Anna Maria Cariolin, Lieta Carraresi, Livia Dudan, Nora Fabbro, Angela Ghiotto, Lia Jodice, Maria Padovani, Luigina Pagnoni, Gabriella Polver, Renée Reggiani, Maria Teresa Veronese. Teatro Olimpico, Vicenza 7 settembre 1951. !° Si vedano, a titolo d'esempio: R. CARRIERI, Successo di “Macbeth” ieri sera al Piccolo Teatro, in “Milano Sera”, 1° febbraio 1952; C. TRABUCCO, “Elettra” tragedia di Sofocle al Quirino, in “Il Popolo”, 5 aprile 1952; I. RIPAMONTI, Gassman nell’“Edipo Re”, in “LAvanti!”, 10 marzo 1955.
!3 W. SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, traduzione di S. Quasimodo, adattamento televisivo di Pier Benedetto Bertoli, regia di Franco Enriquez, scene e costumi di Ezio Polloni e Enrico Tovaglieri, coreografie di Dino Cavallo, maestro di scherma Franco
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Fantasia. Interpreti: Vira Silenti, Giorgio Albertazzi, Gualtiero Rizzi, Ernesto Sabbati-
ni, Leonardo Cortese, Lola Braccini, Marcello Giorda, Esperia Sperani, Renato De Carmine. Radio Televisione Italiana, 29 gennaio 1954.
_ ' Strehler utilizzò ben quattro volte una traduzione quasimodiana: per La tempesta, il Riccardo INI e il Macbeth di Shakespeare e per l’Elettra di Sofocle. !> Santuccio realizzò il Tartufo di Molière; Gassman l’Edipo re di Sofocle e YOtello di
Shakespeare; Minotis l’Edipo re di Sofocle. Per i cast di tali spettacoli si veda: Teatrografia di Salvatore Quasimodo, a cura di D. Ruocco, in Quasimodo, a cura di A. Quasimodo, pp. 195-198.
'© S. QUASIMODO, Lettere d'amore a Maria Cumani (1936-1959), Mondadori, Milano 1973, ora in ID., Lettere d'amore 1936-1959, Spirali, Milano 1989, p. 178, da cui si cita.
La lettera è del 18 luglio 1949. " Cfr. ibidem in nota. 18 S. QUASIMODO, G.F GHEDINI, Billy Budd (dal racconto di Herman Melville), Suvini-Zerboni, Milano 1949, ora in ID., Poesie e discorsi sulla poesia, Mondadori, Milano 1996, p. 327, da cui si cita.
!9 Ibi, p.326.
20 S. QUASIMODO, G.F. GHEDINI, Billy Budd. Maestro concertatore e direttore d’or-
chestra Fernando Previtali, regia di Corrado Pavolini, scene e costumi di Renato Guttuso, orchestra del teatro La Fenice, primo violino: Rino Fantuzzi. Interpreti: Antonio
Crast, Renato Capecchi, Angelo Mercuriali, Enrico Campi, Raphael Arié, Carlo Platania, Ferdinando Corena, Gino Penno, Wladimiro Badiali, Marcello Cortis. Teatro La Fenice, Venezia 8 settembre 1949.
2! L'espressione «mysterium iniquitatis» (mistero d’iniquità) compare nella Seconda
lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, nella quale Paolo svela le vicende che precedono la parusia. Per il testo inglese di Billy Budd di Melville si cita dall’edizione definitiva di H. Hayford e M.M. Sealts, edita a Chicago nel 1962. 22 §. QUASIMODO, Billy Budd, p. 325. 3 «[...] Melville vede il suo villain Claggart come un omosessuale represso i cui desideri nei confronti di Billy possono solo essere tradotti in una falsa accusa contro di lui. La perversione di Claggart (o “depravazione” di natura) è il prodotto di una mancanza di accettazione dei propri desideri»: R.K. MARTIN, s.v. Melville Herman, in The Gay and
Lesbian Literary Heritage, a cura di C.J. Summers, Henry Holt, New York 1995. 2 «Billy Budd, the “new” homosexual, is a victim of everyone around him. Too beautiful, too “rosy”, too androgynous, he cannot offer an effective alternative to the ma-
sculine authority of the ship» («Billy Budd, il “nuovo” omosessuale, è una vittima di chiunque gli stia attorno. Troppo bello, troppo “roseo”, troppo androgino, egli non può offrire una valida alternativa alla mascolina autorità della nave», biden. E, qualche ri-
ga più avanti, parlando di Claggart e Vere, afferma: «Together they rule in the name of masculinity» («Insieme essi governano in nome della mascolinità», ibidem. 2 Cfr. W.H. AUDEN, Gli irati flutti o l'iconografia romantica del mare, Fazi, Roma
1995, pp. 156-161.
26 Nel 1951, E.M. Forster e Eric Crozier scrissero, sempre per il teatro musicale, un Billy Budd in quattro atti musicato da Benjamin Britten; mentre nel 1962 Peter Ustinov co-sceneggiò (assieme a Robert Krasker), diresse e interpretò (accanto a Terence Stamp che meritò una nomination all'Oscar) la prima versione cinematografica del romanzo di Melville, 27 A.M. BONISCONTI, I/ “Billy Budd” nella musica di Ghedini, in XII° Festival Interna-
zionale di Musica Contemporanea e III° Autunno Musicale Veneziano, Biennale di Venezia, Venezia 1949, p. 48.
28 Per una ricostruzione più estesa della vicenda si veda: D. RUOCCO, Salvatore Quasimodo e il teatro, in Quasimodo, a cura di A. Quasimodo, pp. 173-174.
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29 La traduzione del Billy Budd di Eugenio Montale fu pubblicata nel 1942 a Milano dall'editore Bompiani e segue il testo edito a Londra nel 1924 da Raymond Weaver. 30 Cfr. D. Ruocco, Salvatore Quasimodo e il teatro. 31 S. QUASIMODO, Scritti sul teatro, Mondadori, Milano 1961 e ID., I/ poeta a teatro.
3 Tra costoro si nomina solo Giovanni Antonucci, particolarmente severo nei confronti di Quasimodo critico. Cfr. G. ANTONUCCI, Storia della critica drammatica, Edizioni Studium, Roma 1990, pp. 219-220.
3 Cfr., a titolo d'esempio, G. MUSOLINO, Quando il poeta giudica a teatro, in “La Gazzetta del Sud”, 4 giugno 1985 e A. FRATEILI, “Scritti sul teatro” di Salvatore Quasimodo, in “Paese Sera”, 8 novembre 1961, ora in Quasimodo e la critica, a cura di G. Fin-
zi, Mondadori, Milano 1969, pp. 439-441. 4 Cfr, P. Bosisio, I/ teatro di Goldoni sulle scene italiane del Novecento, Electa, Milano 1993.
35 Tale è il titolo assegnato da Bosisio al capitolo-nel quale figurano le analisi ai due spettacoli ricordati (cfr. ibi, p. 105). 36 Ibidem. 3 La Locandiera di Carlo Goldoni, regia di Luchino Visconti, scene e costumi di Lu-
chino Visconti e Piero Tosi. Interpreti: Marcello Mastroianni, Paolo Stoppa, Gianrico Tedeschi, Rina Morelli, Flora Carabella, Giorgio De Lullo, Aldo Giuffrè, Ruggero Nuvolari. Teatro La Fenice, Venezia 2 ottobre 1952.
38 R. DE MONTICELLI, “La Locandiera” nella regia di Visconti, in “La Patria”, 28 marzo 1953, ora in ID., Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione, Bulzoni, Roma 1996, vol. I, pp. 23-25, da cui si cita. 39S. QUASIMODO, La locandiera di Carlo Goldoni, ora in ID., Il poeta a teatro, p. 209,
da cui si cita. La critica è dell’aprile 1953. 40 Cfr. P. BOSISIO, I/ teatro di Goldoni..., pp. 112-113.
41 La Trilogia della Villeggiatura di Carlo Goldoni, riduzione e regia di Giorgio Strehler, scene di Mario Chiari, costumi di Maria de Matteis, musiche di Fiorenzo Carpi. In-
terpreti: Sergio Tofano, Valentina Fortunato, Tino Carraro, Fulvia Mammi, Alfredo Bianchini, Sergio Fantoni, Marcello Giorda, Ottavio Fanfani, Zora Piazza, Enzo Tarascio, Jone Morino, Pina Cei, Relda Ridoni, Giulio Chazalettes, Franco Graziosi, Andrea Matteuzzi, Checco Rissone. Piccolo Teatro, Milano 23 novembre 1954. 4 S. QUASIMODO, La Villeggiatura di Carlo Goldoni, ora in ID., Il poeta a teatro, p. 265, da cui si cita. La critica è del dicembre 1954.
% G. STREHLER, Per un teatro umano, Feltrinelli, Milano 1974, ora in In., Shakespeare, Goldoni, Brecht, Piccolo Teatro di Milano — Teatro d'Europa, Milano 1988, p. 84, da cui si cita. :
4 Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, regia di Luchino Visconti, traduzione di Gerardo Guerrieri, scene di Gianni Polidori, musiche di Alex North. Inter-
preti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Giorgio De Lullo, Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi, Flora Carabella, Gaetano Verna, Mario Pisu, Cesare Danova, Pina Sinagra, Bruno Smith, Laura Tiberti, Lauretta Torchio. Teatro Eliseo, Roma 10 febbraio 1951. 5 S. QUASIMODO, Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, ora in ID., Il
poeta a teatro, p. 128, da cui si cita. La critica è dell’aprile 1951.
46 Ibi, p. 129.
C. ALVARO, I/ commesso viaggiatore, in “Il Mondo”, 3 marzo 1951, ora in ID., Cro-
nache e scritti teatrali, Abete, Roma 1976, p. 327, da cui si cita.
4 Ibi, p. 330.
4° S. QUASIMODO, Morte di un commesso viaggiatore..., p. 129. °° C. ALVARO, I/ commesso viaggiatore, p. 330.
71 S. QUASIMODO, Messaggio del Premio Nobel Salvatore Quasimodo per la celebrazione della Quarta Giornata Mondiale del Teatro, s.1. [Milano] 31 marzo 1965; si legge in D. Ruocco, Salvatore Quasimodo e il teatro, pp. 179-180.
QUASIMODO TRA NUOVA POESIA E NUOVA TRADUZIONE di Giuseppe Savoca
Le prime notizie che riguardano i nuovi materiali e manoscritti quasimodiani acquisiti dal Fondo pavese! (pertinenti per lo più all’attività traduttoria) invitano a fare qualche ulteriore riflessione sul ruolo centrale che le traduzioni occupano nella carriera di Salvatore Quasimodo. E a tutti noto come il siciliano abbia subito apprezzamenti che, astuti più che generosi, hanno esaltato l’eccellenza del traduttore
per ridurre l'incidenza del poeta nella concreta storia lirica del Novecento italiano. Si è detto anche che il meglio del poeta originale sia da ricercare nelle sue traduzioni e, in particolare, nei Lirici greci. Tuttavia, e nonostante questi giudizi, appare un po’ sorprendente che alla vastità della bibliografia critica sul poeta faccia riscontro
una notevole scarsità di studi specifici sulle singole traduzioni e sui modi complessivi del tradurre quasimodiano. Occorrerà, credo, rendere giustizia a questo aspetto essenziale della personalità del poeta riaccostandosi storicamente alle sue traduzioni, per rico-
struirne le scelte, i percorsi, le forme, il linguaggio e la poetica che le sostengono. Questo lavoro non potrà che essere il risultato di un’attenzione e di un interesse non limitati certo a singoli studiosi. In questa sede accenno rapidamente alla questione preliminare della vocazione traduttoria del Quasimodo, che forse si potrebbe indicare come riconoscimento del proprio “canto” nel legame inscindibile con la «parola isola, o la Sicilia», e con una «memoria»
del «linguaggio diretto e concreto» in cui sta «appunto il segreto dei “classici” dai poeti epici ai lirici: dai greci ai nostri grandi poeti fino a Leopardi». Queste espressioni sono contenute in Una poetica, un breve
scritto del 1950 in cui Quasimodo pone con estrema chiarezza i termini del suo rapporto con gli autori tradotti all'insegna della sua aspirazione matura a «rifare l’uomo». Il «valore poetico» della
parola è tutto finalizzato a questo scopo e la «riflessione poetica» promossa dal lavoro traduttorio (e che si inserisce «negli intervalli
di silenzio» del lavoro creativo) favorisce il conseguimento di uno stadio di maturità del proprio linguaggio:
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Dalla mia prima poesia a quella più recente non c’è che una maturazione verso la concretezza del linguaggio: il passaggio fra i greci e i latini è stata una conferma della mia possibile verità nel rappresentare il mondo.
Questa consapevolezza del nesso profondo tra poesia originale e poesia altrui, filtrata nell'esercizio della traduzione, ritorna e si arric-
chisce di nuovi argomenti nel posteriore Discorso sulla poesia (1953), in cui Quasimodo, in un non troppo sottinteso dialogo tanto con i critici «formalisti» quanto con quelli «materialisti», si interroga su quali siano le parole dei «poeti fra le guerre», alla «ricerca d’un nuovo linguaggio» che coincida però «con una ricerca impetuosa dell’uomo», un uomo rinnovato dopo la violenza della guerra.
Il prevalente problema “critico” di Quasimodo a quest’altezza è quello di giustificare la «nuova generazione» dei poeti fra le due guerre (se stesso prima e più che gli ermetici) dall’accusa di essersi espressa (e quindi di essere rimasta ferma nonostante la guerra) in uno «stile da traduzione». In risposta a questa critica Quasimodo allarga il concetto di nuovo alla poesia sociale e civile, ai nuovi contenuti, e chiama la nuova generazione «sociale». A questo punto
però egli non si accoda a coloro che ritengono che lo «stile della traduzione» debba intendersi come «imitazione di poetiche e spiriti stranieri», ma ribadisce la validità e il primato delle «ragioni formali» anche per una nuova poesia di apertura europea («dell’uomo europeo») che sia operante «nella partecipazione umana del mondo». A questo linguaggio del «reale» può assurgere anche uno «stile da traduzione» rettamente inteso; e questo può significare, ad esem-
pio, per un uomo del sud che si senta «uomo europeo» e che aspiri a «congiungere la vita alla letteratura», non rinunziare «alla sua presenza in una data terra; in un tempo esatto, definito politicamente», ma anche costruirsi una «carta poetica», una «geografia poetica» che comprenda «la Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra imma-
gini imperturbabili d’innocenza e di sensi accecanti». In questo contesto, Quasimodo può ben rivendicare la validità dello «stile da traduzione» come rispetto della specificità della vo-
ce del singolo poeta: I poeti si riconoscono per la particolare pronuncia delle misure metriche, e in quella cadenza consiste la loro voce (il canto, diciamo); e l’unità di espressione può essere lunga di numeri o breve, ma sempre quella «voce» sarà rivela-
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bile in qualsiasi struttura. Abbiamo una voce per ogni poeta, e anche in quello «stile da traduzione», ciò che importa è la pronuncia poetica.
La conclusione di questo Discorso, per quel che ci interessa, è tutta nel senso della difesa dell’impegno della nuova poesia e dei suoi nuovi contenuti; ma questa difesa avviene ancora nel segno del primato del vero linguaggio poetico, ora sostenuto dalla consapevolezza della natura corale della poesia. Tradurre allora significa passare, in dialogo con se stessi e con gli uomini, attraverso le parole di altri poeti, farle proprie e sentirle come universali. Nel 1937, nel privato, Quasimodo poteva scrivere alla donna amata di essersi sentito greco come Saffo («Stanotte sono stato con Saffo [...] e quello che di greco c’è nel mio sangue s'è svegliato»; «è una Saffo veduta e sentita da me, ed ecco che quelle parole suonano come nelle mie migliori liriche»); e nel ’53,
l’anno del Discorso, può riconoscere, in una pagina su Saffo, il va-
lore di assoluta essenzialità e «permanenza» della poesia: Tutto è già stato in questa poesia: la cronaca è divenuta eternità da un giorno all’altro.
Senza affrontare i problemi particolari delle singole traduzioni, va in generale notato che questo Quasimodo postermetico (o postresistenziale) rivendica la sua capacità di rinnovarsi come poeta (0 meglio di esplicitare il nuovo di prima nella direzione storico-civile), e insieme la sua apertura a nuove traduzioni che, facendo centro sulle fondamenta classiche già consolidate, si aprissero ancora di più all'Europa e al mondo. Da questo proposito nasceranno le traduzioni dei contemporanei (Neruda, Cummings, Aiken, Eluard), ma anche da Shakespeare, dai tragici greci, dall’Atologia Palatina. Se questo tentativo quasimodiano di autenticarsi come nuovo
anche dopo l’esperienza bellica (e cioè dopo la fine dell’Ermetismo) abbia avuto successo è problema critico aperto e per la cui
soluzione è necessario, per così dire, un supplemento d’indagine testuale (sul complesso della sua opera) e contestuale (sul ruolo del poeta-traduttore nel secondo Novecento). A me pare che postulare (come pure fanno alcuni autorevoli studiosi) una divaricazione oppositiva tra un Quasimodo prima maniera e un Quasimodo seconda maniera (il quale rinnegherebbe addi-
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rittura le sue origini classicistico-simbolistiche) sarebbe un’ingenuita incapace di restituirci il senso dell’evoluzione e della complessità del
poeta e dei suoi rapporti con la tradizione e con il proprio tempo. Io ritengo che resti da definire meglio, non soltanto il contesto nel quale opera Quasimodo, ma anche quale tradizione culturale egli si costruisca e si ricostruisca con la “riflessione” affidata alle sue traduzioni. Si potrebbe, non troppo paradossalmente, affermare che dopo i Lirici greci (1940) il tradurre fosse diventato il principale mestiere del poeta. Ma nelle sue scelte c’era sempre un progetto, forse prima esistenziale che poetico, o forse inscindibilmente esistenziale-poetico. Le osservazioni più pregnanti sul valore per lui “nuovo” e “sacro” di ogni traduzione il poeta le ha consegnate a una dispersa intervista del 1968 (forse l’ultima)? in cui, parlando della sua traduzione del Vangelo di Giovanni, dice di averla affrontata durante la guerra per una ricerca «personale», per una «ricerca di chiarificazione», per una «verifica interiore che si andava facendo tra me, il testo e quello che poteva esserci al di là del testo». Con questa traduzione Quasimodo (che si dichiara «Cristiano» in «attesa della fede») tentava addirittura di approssimarsi alla parola «Dio», se alla domanda sul perché della scelta del Vangelo di Giovanni risponde: Perché era il più difficile e mi prometteva di chiarire il rapporto di me, uomo, col termine «Dio». La stessa ricerca l’avevo fatta prima sui testi di Sant’ Agostino e su Spinoza. Però avevo sempre seguito Sant’ Agostino, ma fino al momento in cui egli giunge alla fede. Là Sant'Agostino non scrive più. S’inginocchia e prega. Il suo problema finisce lì, è risolto.4
Ecco dunque che la traduzione si installa nel cuore dell’esistenza profonda dell’uomo Quasimodo. Questa è una “nuova” traduzione perché non nasce da una esigenza filologica, ma da una ricerca religiosa: La critica mi ha rimproverato una ricerca di natura religiosa. Non capisco,
d’altra parte, per quale ragione il mio Dio — nominato — non sarebbe il Dio dei cristiani...
Non accade per caso che la nominazione del «Dio cristiano»
(La chiesa dei negri di Harlem, in Dare e avere) si intensifichi nella
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poesia quasimodiana dopo la traduzione del Vangelo giovanneo, in cui non il traduttore ma il «Cristiano» Quasimodo si era confron-
tato «col termine “Dio”».) Non credo possano esserci dubbi sul fatto che questo poeta tra-
duttore cristiano, che si cala interamente nel testo che traduce, sia lo
stesso poeta innamorato che si riconosceva interamente nelle parole di Saffo, che per lui suonavano come nelle sue «migliori liriche». Nel programma di «ritrovare la voce del poeta», enunziato nella lettera del 10 luglio ’37 alla Cumani, è implicito tutto il senso del “vecchio” e del nuovo tradurre di Quasimodo come incontro di due
voci in cui il nuovo poeta riporta l’antico al presente della poesia. E certo emblematico del nesso tra nuova poesia e nuova traduzione il fatto che alle origini dell’attività traduttoria quasimodiana sia presente, insieme a Saffo, il grande poeta nuovo che era stato Catullo, del quale il siciliano pubblica la traduzione dei carmi XXXI (A Sirmio) e LXV (A Quinto Ortensio Ortalo)® in “Corrente” nel 1939 (30 settembre e 15 novembre).
E forse il caso di ricordare che la prima lirica tradotta e pubblicata da Quasimodo è la famosissima ode sullo stupore amoroso di Saffo, che era stata già liberamente tradotta da Catullo (Ile mzi par esse deo videtur), e in italiano da Foscolo e Pascoli (con i quali il poeta dichiarava di gareggiare nella lettera già ricordata alla Cumani). Saffo e Catullo stanno dunque alle origini del tradurre quasimodiano. Traducendo Saffo, Quasimodo si incontrò con Catullo
traduttore di Saffo e con il poéta novus oltre che con il traduttore. E quale migliore avallo, per la sua incipiente e ambiziosa attività di traduttore, se su Saffo e Catullo egli si confrontava anche con Foscolo e Pascoli? Quasimodo si presentava ai lettori colti delle riviste più autorevoli (su “Letteratura” nel 1939 uscivano anticipazioni dei lirici greci), ai traduttori filologi (da Romagnoli a Mazzoni, a Valgimigli), ai traduttori critici e poeti (da Macrì a Bo, da Montale a Bigongiari) e ai traduttori-traduttori (come Traverso), esibendo le sue credenziali e il suo modello di poeta nuovo e dichiarando subito il suo programma. Lo faceva con la traduzione del carme catulliano LXV, che non
solo è la lirica di un grande poeta traduttore, ma è un testo che, accompagnando nel Liber la traduzione della callimachea Chioma di Berenice, da Catullo inviata a un amico colto come Ortalo, parla
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esso stesso di una traduzione: «mitto / haec expressa tibi carmina Battiadae». Anche Quasimodo invia le sue traduzioni agli amici colti delle riviste, prima che ai comuni lettori, ma gliele manda con l’introduzione-traduzione del carme LXV di Catullo, che assume la funzione di
prefazione, programma generale di tutto il suo ininterrotto tradurre (l’exprimere, da cui expressa di Catullo), ma anche del suo considerare questa attività come essenziale al suo lavoro creativo originale (lexpromere a cui si riferisce Catullo sempre nel carme LXV). In realtà, l’attività traduttoria di Quasimodo non nasce per caso, ma è una scelta meditata e preparata da un lungo esercizio che matura sulla fine degli anni trenta. Nelle Poesie del 1938 viene pubblicata la poesia di Saffo tradotta a partire dal ’37 (Come uno degli dei), e nelle Nuove poesie (che costituivano la prima parte della raccolta antologica Ed è subito sera, 1942) appaiono traduzioni dal greco e dal latino (tra cui le due già uscite su “Corrente”
del poéta novus Catullo). Non si dimentichi poi che nel 1940 Quasimodo aveva pubblicato i Lirici greci, dei quali Anceschi nella prefazione diceva che «sono poesie di Quasimodo», insistendo sul carattere di “novità” di tutta l'operazione (e parlava di «composizione nuova», «nuova lingua», «nuova disposizione» ecc.).
A questo punto il titolo di Nuove poesie (1942), pur alludendo a un “nuovo” cronologico posteriore alle Poesie del 1938, è so-
prattutto una dichiarazione di consapevolezza del proprio ruolo di poeta nuovo (tosto sancito dall’antologia Lirici nuovi di Anceschi del 1943), ma anche (grazie soprattutto alla fama conquistata con i Lirici greci) di nuovo traduttore, equiparato da Quasimodo (proprio nel 1942) a un vero poeta nella nota premessa al Fiore delle Georgiche: Una giustificazione al mio lavoro vuole essere di natura poetica, la sola che autorizzi la lettura di un testo sempre presente nei secoli di una raggiunta civiltà europea.
E implicita in questa posizione la consapevolezza del carattere “testuale” di ogni grande traduzione, e quindi del “vantaggio” di un poeta traduttore su un filologo traduttore e su un traduttore professionista.
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Ricerca del senso poetico e rifiuto della vecchia retorica sono punti fermi nella poetica del tradurre quasimodiano, insieme alla coscienza della distanza fra testi appartenenti a sistemi linguistici e culturali diversi. In quest'ambito di considerazioni vorrei ricordare, e solo per-
ché si tratta di testi non più ristampati, due interventi che il poeta fece su “Corrente”. In essi Quasimodo difendeva la sua traduzione del frammento saffico da lui intitolato Tramontata è la luna (apparsa in anticipo rispetto ai Lirici greci su “Letteratura”), per la
quale Leone Traverso, un traduttore-traduttore (che poi sarebbe intervenuto su “Primato” a recensire favorevolmente i Lirici greci), gli aveva fatto, pur tra molti consensi, dei rilievi, esprimendo riserve sul raggruppamento in un unico componimento di più frammenti e sull’interpretazione di alcuni termini. Quasimodo ribadisce tutte le sue soluzioni, dichiarando di essersi deciso a proporre le sue «interpretazioni» (è parola sua) sulla base di «ragioni di carattere grammaticale, sintattico e filologico» e lasciandosi ispirare
anche da «quanto gli suggeriva il senso poetico». In particolare, sul luogo di maggiore contestazione, egli si difende dall’appunto di Traverso che non «è lecito rendere “più poetici” [...] testi di poeti come Saffo» con questi argomenti: Se tu traduci: «l’ora passa ed io dormo sola» continui a darmi un’informazione, dopo quella del tramonto della luna e delle Pleiadi. Io non ho preteso di rendere “più autentico” il testo di Saffo, anzi ho cercato di restituirlo nel suo valore originario con un’approssimazione che tende al limite consentito dal nostro linguaggio alla cui nuova potenza, se permetti, credo di avere contri-
buito un poco in questi ultimi dieci anni di poesia.
Ecco dunque già in questa polemichetta del 1939 la parola chiave, l'aggettivo «nuovo», che caratterizza alle origini la coscienza del lavoro traduttorio di Quasimodo nel legame tra nuove traduzioni e nuova poesia. Gli antichi come nuovi, ma soprattutto il moderno Quasimodo come nuovo poeta e nuovo traduttore. Era ciò che gli riconosceva, al di là delle polemiche, lo stesso Traverso,
quando notava che le traduzioni dal greco si impongono con la forza tranquilla di nuovi testi. Ché solo un poeta può rianimare in parole nuove antica poesia, di linguaggi spenti.
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Anzi, Traverso concludeva sottolineando la generale altezza di tono poetico di queste traduzioni, che sopportano sempre con assoluta parità, qua e là addirittura con un netto stacco di vantaggio, il confronto con i testi.
Che è la lode massima a cui possa aspirare il più ambizioso dei traduttori. E questo era, con tutta probabilità, anche il modo di at-
teggiarsi di Quasimodo di fronte agli autori che andava traducendo.
! Cfr. “Autografo”, 39 (1999). ? Cfr. S. QUASIMODO, Poesia e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G.
Finzi, prefazione di C. Bo, Mondadori, Milano 19877, pp. 277-279. > Cfr. C. CASOLI, Incontro con Salvatore Quasimodo, in “Ekklesia”, luglio-agosto
1968, pp. 109-123. L'intervista è ripubblicata parzialmente nel volume citato alla nota seguente. 4 Cfr. G. LA PIRA, S. QUASIMODO, Carteggio, nuova edizione ampliata e annotata a cura di G. Miligi, Artigli, Modena 1998, p. 173. Dalla stessa pagina le citazioni precedenti e la seguente. > Per un avvio di interpretazione della poesia di Quasimodo (specie l’ultimo) in chiave “metafisica”, mi permetto rinviare al mio Parole della morte/vita in “Ho fiori e di notte invito i pioppi” di Quasimodo, in G. SAVOCA, Lessicografia letteraria e metodo concordanziale, Olschki, Firenze 2000, pp. 185-193. 6 Cfr. il mio Per Quasimodo traduttore di Catullo: il carme LXV, in G. SAVOCA, Tra testo e fantasma, Bonacci, Roma 1985, pp. 67-87. 7 Cfr. la lettera aperta a Traverso, Per una traduzione di Saffo, in “Corrente”, I
(1940), 2, p. 2; la risposta di Traverso e la replica di Quasimodo bi, III (1940), 4, p. 2. 8 Lo scritto, apparso bi, III (1940), 7, è ora riportato in Quasimodo e la critica, pp. 291-294 (le citazioni sono dalle pp. 292 e 294).
«IL POETA MODIFICA IL MONDO»: I POETI SU QUASIMODO
SALVATORE QUASIMODO: UNA VICENDA INFINITA di Luciano Erba
Critici e lettori tra i più qualificati sostengono, e non da oggi, che non è corretto parlare di due periodi di Quasimodo, ossia un periodo che precederebbe la fine della guerra e un periodo che la seguirebbe, del poeta valendo invece tante possibili immagini quante sono state via via le sue successive raccolte di versi, ossia, sommariamente: Acque e terre (Edizioni di “Solaria”, Firenze 1930), Oboe
sommerso (Edizioni di “Circoli”, Genova 1932), Erato e Apòllion (Scheiwiller, Milano 1936), Poesie (Edizioni di “Primi piani”, Milano 1938), la traduzione dei Lirici greci (Edizioni di “Corrente”, Mi-
lano 1940), Ed è subito sera (Mondadori, Milano 1942), Con il piede straniero sopra il cuore (Edizioni di “Costume”, Milano 1946),
Giorno dopo giorno (Mondadori, Milano 1947), La vita non è sogno (ivi, 1949), I/ falso e vero verde (Schwarz, Milano 1953), La terra im-
pareggiabile (Mondadori, Milano 1958), Dare e avere (ivi, 1966). Pensavo un tempo, confortato da una communis opinio, che si dovesse invece parlare di un’unica e sostanziale “svolta” tra un primo Quasimodo, attivo nell’ambito di una poetica dicasi “ermetica”, e un secondo Quasimodo, passato a posizioni dicasi “realiste” e decisamente impegnato in tematiche legate all’attualità, sociale o civile che sia. Avvinti — dico al plurale non di maestà o di modestia o di servizio, ma per dire che eravamo in tanti, giovani e no, ad es-
serlo — dalle poesie raccolte nel memorabile “Specchio” del ’42, Ed è subito sera, comprato letto riletto negli anni di guerra, stentava-
mo a distaccarcene e a salutare con lo stesso fervore i risultati poetici di una “svolta” imposta, così ci sembrava, dalle circostanze. Ma si trattava solo di giovani lettori alcuni dei quali conoscevano addirittura a memoria le poesie di Acque e terre?! Perché non evocare quel tempo? Ricordo, come fosse ora, il risveglio da un giaciglio di fortuna accanto a dei compagni, sbandati come me dopo !’8 settembre del ’43, e uno di questi che a memoria, quasi recitasse una preghiera, ci diceva i primi versi di Acquamorta: «Acqua chiusa, sonno delle paludi / che in larghe lamine maceri veleni». Insomma amavamo soprattutto il primo, primissimo Quasimodo, e con tale fedeltà, la nostra, che i testi successivi del poeta ci avreb-
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bero lasciati, diciamolo pure, delusi. Una impressione distorta, nata da entusiasmi e disappunti giovanili? Forse, ma è anche vero che la stessa delusione, o quanto meno perplessità, pareva partecipata da altri, più scaltriti e affermati di quanto potessimo essere noi, alle prime armi. Mi capitava infatti di frequentare, all’inizio degli anni cinquanta, il Blu Bar, in piazza Meda, a Milano: Sergio Solmi, uscito dal suo ufficio nella vicina Banca Commerciale a fine giornata, sedeva a un ta-
volino all’esterno del locale con altri habitués stanziali o di passaggio nella città. Nei miei ricordi rivedo Carlo Bo, Luciano Anceschi, Giacinto Spagnoletti, Giansiro Ferrata, Giosué Bonfante, Lalla Ro-
mano, Gillo Dorfles, Sergio Antonielli, Vittorio Sereni, Aldo Borlenghi, Nelo Risi, Antonio Manfredi, Roberto Rebora, Renzo Modesti, Alessandro Pellegrini, Maria Corti, Piero Chiara, Bartolo Cattafi... questo è il catalogo della memoria per il momento. Montale faceva di tanto in tanto una fugace apparizione: alloggiava allora in un albergo di corso Vittorio Emanuele e diretto al “Corriere” dove aveva iniziato a lavorare si fermava a salutare qualcuno di noi. Una volta lo accompagnai al giornale: piazza della Scala, via Verdi, via Brera; qui tenemmo rigorosamente sul marciapiede di destra, fino al bar Giamaica dove Montale mi offrì un caffè; evitammo così, non casualmente, l’altro lato di via Brera dove, all’angolo con via Fiori Chiari, vi era il bar della Titta, il locale in cui Quasimodo teneva in quegli anni, si fa per dire, il suo quartier generale. Un ricordo come tanti per rilevare l’isolamento di Quasimodo. Eppure tra quanti ho menzionato non mancavano i più importanti e decisivi estimatori della sua opera: a partire dallo stesso Mon-
tale, che aveva salutato con favore la raccolta degli esordi (cfr. l’articolo apparso su “Pegaso” nel marzo del 1931) e aveva mantenuto negli anni un vivo rapporto col più giovane poeta. Per Quasimodo, scrive Sergio Campailla, l’incontro giovanile con Montale fu evidentemente un’esperienza di rivelazione. E gli effetti erano così profondi che perdurarono anche negli anni più tardi, quando ormai ombre e incomprensioni erano intervenute a guastare quel rapporto.?
Quali ombre? Non è di tutti la franchezza autocritica di Vitto-
rio Sereni quando scrive: «Era come se Montale ci avesse tolto la
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parola di bocca ogni volta che stavamo per pronunciarla».? O si trattava, per Quasimodo, di un semplice dato del suo carattere, notoriamente “ombroso”? della sua arte, anche questa notoria, di farsi dei nemici? Le domande si accavallano. Può essere il silenzio un modo di disaffezione? certamente non una forma di assenso come la mancata risposta a una qualsiasi domanda che rivolgiamo alla pubblica amministrazione? che dire del silenzio di Sergio Solmi all'entrata in scena del “nuovo” Quasimodo, quel Solmi che aveva presentato con un'introduzione giustamente famosa, non meno famosa dei testi che la seguivano, la raccolta di Ed è subito sera? come spiegare il silenzio di Luciano Anceschi, autore dell’introduzione al volume
dei Lirici greci, introduzione che riapparirà ze varietur nelle successive ristampe? alla luce della poetica inaugurata da Giorno dopo giorno, del 1947, avrebbe dovuto Sergio Solmi aggiornare una se-
conda volta (in prima stesura risaliva infatti al 36, cfr. più avanti) il suo scritto introduttivo alla raccolta del ’42? Vi leggiamo tra l’altro,
a proposito dei “vati” della nostra recente tradizione: Ma ora, a libro riaperto, quanto resta della loro opera? Più di qualcosa, senza dubbio, molto forse. Ma la loro grandezza non era forse in massima parte consistita nell’atteggiamento profetico o civile, nell’alta funzione che essi seppero assumere di maestri di vita in un dato momento storico? Mentre, pet converso, il loro aspetto più vitale, nei riguardi della poesia, si rivelava proprio come quello più in sordina.
E questo dopo aver scritto che nella lirica moderna la ricerca del fatto poetico ci appare spogliata di quel ricco nimbo di eloquenza, d’ideali, di mitologie culturali che in altra epoca formavano l’accompagnamento indissolubile della creazione.
Non ci risulta che Solmi abbia in seguito ritenuto di tornare su queste affermazioni, datate del lontano 1936 (cfr. prefazione a Erato e ApÒllion, ripresa con un’aggiunta in chiusa nell’introduzione a Ed è subito sera e da qui integralmente ripubblicata nelle Opere complete), affermazioni che sembrano scritte per controbattere, anticipatamente, quanto il “secondo” Quasimodo andrà poi sostenendo in più sedi e occasioni. Per fare un esempio fra tanti dirà che
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La poesia italiana dopo il ’45 è di natura corale, nella sua specie; corre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni; talvolta presume all’epica. Ha sorte difficile per la sua apertura verso forme che negano la falsa tradizione italiana.‘
Un giudizio, come si vede, polemico, preceduto dall’invito a «leggere la poesia sociale di Dante per dimenticare Petrarca e le sue ossessive cadenze», oppure dalla riprovazione di Corazzini, definito «un'ombra», di Campana considerato un «simulacro», di Sbarbaro, trattato da «lemure>...
A tali sentenze non sfuggono dunque alcuni degli autori che figurano invece con forte rilievo nell’antologia di Luciano Anceschi Lirica del Novecento del 1953, che cade non solo per questo sotto gli strali della polemica quasimodiana. Anceschi non sarebbe altro che un fedele allievo del suo maestro Giuseppe De Robertis, nel seguire «una prospettiva di lettura sfocata e barocca», che risalirebbe per ragioni particolaristiche, alle geometrie astratte dell’arte pura, all’arcadia o spiritualistica o stilistico-evocativa, secondo la tollerata provincia dell’autonomia formale. Si denuncia così l'assenza di un orientamento critico verso la poesia recente.’
L'autore di queste righe non poteva insomma convenire coi cri-
teri storico letterari che sono alla base delle scelte antologiche di Anceschi; questi del resto, nella successiva edizione (Vallecchi, Fi-
renze 1961), non mancherà di precisare che «l’antologia è rimasta immutata, e immutata l’introduzione» poiché «nulla davvero sembra sia giunto a mutarela linea indicata». Tuttavia la presenza di
Quasimodo vi era fortemente sottolineata, con certa preferenza addirittura per le poesie apparse dopo il ’45. E allora? Sergio Antonielli, valoroso coautore con Anceschi dell’opera antologica, fir-
ma una significativa ammissione nella Nota didascalica alla seconda edizione: Ci si è trovati in difficoltà nel dare un saggio dell’ultima poesia di Quasimodo, la quale esorbita dal suddetto ambito di ricerche eppure domanda di essere rappresentata per il complessivo rilievo del poeta.?
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Chi invece non ha dubbi sulla validita della nuova poesia di Quasimodo è un maestro della critica letteraria, pure assiduo frequentatore della cerchia milanese di cui si è parlato: vogliamo dire Carlo Bo, che aveva già dedicato uno scritto alla poesia dell’autore nei suoi Ofto studi! ene presenta ora la prima raccolta postbellica Giorno dopo giorno con un saggio di una trentina di pagine, a fronte della ventina dei testi poetici raccolti. L'incipit dell’introduzione parla subito chiaro: Soltanto in apparenza quest’ultimo Quasimodo sembra distratto su zone nuove e opposte al senso della sua storia interiore ma, se si guarda bene, certe amplificazioni, certi riposi della sua frase hanno un rapporto costante e stretto
con il fondo unico della sua anima.!!
Le caratteristiche, apparentemente nuove, della recente poesia di Quasimodo, ossia «un modo più largo della frase», «una voce fi-
nalmente spiegata», «una diversa condiscendenza alla situazione dell’idillio», «queste forme più distese» non sono la spia di «un tradimento», né «di una stagione di debolezza» bensì di un’«opportuna fiducia nel proprio verbo». La vera rivoluzione del poeta è «anzitutto un modo più approfondito d’interrogazione» a riprova del suo rifiuto a vestirsi di un gioco convenzionale di atteggiamenti radicalmente nuovi, del tutto insospettati, troppo totali per conservare un minimo di sincerità.
Tali le premesse, queste le conseguenze: il fatto che il poeta non si sia sentito autorizzato a rinnegare se stesso elimina sin da principio una possibile confusione tra la sua poesia e la cosiddetta poesia della resistenza, fra un mondo originario e un mondo gratuito e arbitrario nei suoi risultati.
Passando poi in rassegna gli elementi antichi e nuovi del «regi-
me interiore» di Quasimodo, Bo indica tra questi l’aridità, il pianto sospeso, la distensione della voce, quel suo continuo cedere all'interrogazione, alla cautela dell’approssimazione, al bisogno del “forse”. L'equilibrio
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duro e acerbo dei primi tempi tende ora a spostarsi in una forma meno certa ma assai più larga, allo stesso modo che la vocazione si è allargata in evocazione.
Il motivo dell’interrogazione resta centrale: più necessari a una identificazione del poeta sono i versi interrogativi rispetto a quelli pur di «stupenda misura» della frase dichiarativa. Questo perché al colmo della compiacenza verbale il poeta è colto da un’inquietudine, rimette in dubbio tutto il suo capitale, ed è così che, scon-
volto da una nuova forma di persuasione, dall’interno, riesce a rinnovarsi grazie all’ostacolo stesso. Il Quasimodo aperto e sorpreso nel giro dei fatti del suo tempo è forse il più essenziale, quello meno passibile di giochi, di compiacenze.
Gli si apre dinanzi una strada lunga e ricca, un «discorso lungo, folto, non più singhiozzato» cui arriverà, come già si può vedere, del tutto naturalmente, non certo in modo velleitario come tanti
“novatori” ingiustificati: poiché, diversamente da costoro, quella di Quasimodo è una «rivoluzione nella stanza della parola». Occorre andare al di là del sentimento esclamato, della voce assunta
come oggetto di contemplazione, trasformare la confessione in voce comune... La “parola” che riassumeva ogni sforzo d’identificazione assoluta nella propria voce, in tal modo ridotta a forma astratta e a «figura di vocazione», diventa “discorso” di salvezza, discorso che non sa più essere negativo in quella che sarà la sua continuità, la vera poésie ininterrompue.
Ci siamo dilungati nel riassumere alla meglio il non facile e pur fervido pensiero del grande critico per dare tutto il risalto che merita a un’interpretazione, così isolata nella sua autorevolezza, resa
pubblica negli anni che farebbero da spartiacque tra la poesia dell'immediato passato e quella del dopoguerra. Ma la rilettura stessa dello scritto di Carlo Bo ci induce a porre un’ennesima, forse ingenua domanda: in conclusione è davvero nata, dopo il ’45, questa
nuova, conclamata, autentica poesia con caratteristiche proprie, definite e tali da farne un valido contraltare alla stagione poetica che l’ha preceduta? Il ’45 è una data letteraria? Vi è stata svolta o invece continuità? O non sarà opportuno parlare semmai di svolta nella continuità di ciascuno, come nel caso, vedi le pagine critiche appena ricordate, di Quasimodo?
SALVATORE QUASIMODO: UNA VICENDA INFINITA
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Ci sembra che quello del poeta di Giorno dopo giorno, ma soprattutto dei successivi La vita non é sogno, II falso e vero verde, La terra impareggiabile, Dare e avere, resti comunque un caso a sé, an-
cora sub iudice... Troppi i pareri diversi, pur sempre preferibili al silenzio. Ritornando sull’autore, in occasione del convegno tenutosi a Messina nell'aprile del 1985, Carlo Bo denunciava appunto l'oblio del tutto ingiustificato in cui era caduta la sua figura. Quasi l'assegnazione del premio Nobel nel 1959 avesse paradossalmente contribuito a porre sotto una luce avversa una fortuna fino ad allora consolidata. Nel dare atto d’un progressivo allontanamento e di una costante riduzione d’interesse per l’opera di Quasimodo, «vissuto soltanto per la poesia, adattandola volta volta alle ragioni del tempo», fino al ritiro degli ultimi anni, quando il poeta appare «perduto nella ricerca di pochissime equazioni spirituali», il critico
chiudeva il suo intervento rispondendo alla domanda, posta nell’esordio, sulla durata della gloria letteraria: la gloria c’è stata, più alta nella sua indomita segreta nelle risposte che gli abbiamo dato tranno dirlo soltanto i nostri nipoti, tuttavia che Quasimodo è stato un poeta vero, senza
e autentica passione, più ardua e [...] Ciò che davvero resterà posin d’ora siamo autorizzati a dire maschere.!?
Dobbiamo ripetere che esiste tuttora per noi, assistiti o meno dal senno di poi, un “problema Quasimodo”. Chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui si sarà almeno accorto che non abbiamo cercato di nascondere i nostri dubbi, la nostra incapacità di dare una netta risposta alle domande che siamo venuti via via ponendoci. Se è troppo facile e proprio per questo se diventa sempre più
difficile ricercare il filo rosso che percorre tutti i versi di un “vero poeta” come Quasimodo, non possiamo fare a meno di concludere, a dispetto di ogni comprensibile surplace e conseguente 10 com-
ment, che anche per lui lo spirito soffia dove vuole. Come il vento di tante sue poesie. Come il vento del Mediterraneo.
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LUCIANO ERBA
! Non sara inutile ricordare che il titolo generale Ed è subito sera è tratto da un verso della poesia che appare proprio all’inizio di questa prima raccolta di Quasimodo, inclusa nell’edizione dello “Specchio” secondo un ordine chissà per quali ragioni opposto al cronologico, quindi dopo le Nuove poesie, Erato e Apòllion e Oboe sommerso. 2 S. CAMPAILLA, Quasimodo e Montale, in Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre, atti del convegno nazionale di studi su Salvatore Quasimodo Messina 10-12 aprile 1985, a cura di G. Finzi, Laterza, Bari 1986, pp. 393-409.
3 Ibi, p. 407. 4S. QUASIMODO, Ed è subito sera, Mondadori, Milano 1942, pp. 2-4.
> S. SOLMI, La letteratura italiana contemporanea, Adelphi, Milano 1992, tomo I, pp. 212-222. 6 S. QUASIMODO, Discorso sulla poesia, in “La Fiera Letteraria”, 19 dicembre 1954,
quindi pubblicato in ID., Il poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano 1960, e ripubblicato in ID., I/ falso e vero verde, Mondadori, Milano 1967.
? Cfr. ibidem. 8 L. ANCESCHI, S. ANTONIELLI, Lirica del Novecento, Vallecchi, Firenze 1961, p. CV.
> Gft.lb1
1/97.
© C. Bo, Condizione di Quasimodo, in ID., Otto studi, Vallecchi, Firenze 1939. !! S. QUASIMODO, Giorno dopo giorno, introduzione di C. Bo, Mondadori, Milano
1947, p. 9. Per successivi passi citati e virgolettati tratti dall’introduzione, cfr. ibi, pp. 10-37.
!° C. Bo, Quasimodo: fu proprio vera gloria, in S. Quasimodo, la poesia nel mito..., pp. 509-512.
LINCONTRO, GLI INCONTRI di Jolanda Insana
Il mio primo incontro con Quasimodo avviene quando alcune sue
poesie — sicuramente tratte da Ed è subito sera, Giorno dopo giorno, La vita non è sogno — le trascrivo insieme a quelle di Ungaretti Montale Cardarelli e altri per una mia personale antologia, che avevo curato anche nella forma-libro, creando una copertina di cartoncino verde, decorata da un mio acquerello... E da qualche parte a Messina, nella mia casa di ragazza, deve esistere ancora, ma non ricordo di averla ultimamente incontrata. Il gesto della trascrizione indica già una scelta precisa, un gusto e un interesse molto forte per la lettura, per la letteratura, e dunque siamo nella prima metà degli anni cinquanta, e frequento il liceo. Di lì a poco, all’Università, frequento la facoltà di Lettere di
indirizzo classico e sono allieva di Giorgio Petrocchi, l’appassionato curatore dell’edizione critica della Divina commedia, che molto
mi insegnò a leggere e a discernere, sempre compianto non solo per la sua sapienza ma anche per la carica di simpatia umana, di attenzione e di generosità. Ma sono anche allieva di grecisti come Aristide Colonna e Lidia Massa Positano, cui devo gratitudine e riconoscenza. Che significato ha — mi domando ora e qui — questa prima e giovanile antologia? Dice la passione, o tensione, per la poesia, per la parola, fin d’allora privilegiata nella doppia valenza fonica e semantica. E mi piace dire che proprio recentemente ho cominciato a pensare, dopo tanti rinvii, a un’antologia della maturità, alla ma-
niera di Gide, per farne dono a un’amica che non scrive poesie e però legge poesia: il dono sarebbe la spinta ideale per realizzare questo progetto, tutto privato, perché è come trovare un ¢é/os, un
fine, a un evento che si manifesta come pura forma. E però questa prima antologia dice anche un’altra cosa. Dice che non possedevo i libri, e dunque li prendevo in prestito in biblioteca e dattiloscrivevo sulla ormai mitica Lettera 22 (che conservo ancora) quei testi che allora in vario modo mi sollecitavano. E forse la ragione per cui questo libretto ultimamente non si è fatto avanti è forse
perché teme il mio giudizio di oggi, ma lui non sa che è testimone
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JOLANDA INSANA
della mia formazione, e sarebbe il benvenuto se ricomparisse, se sbucasse da qualche scansia sovraffollata, nunzio di una stagione inno-
cente, portatore di nessuna scaltrezza, di nessun inganno... Ma perché, senza malizia potrebbe chiedere qualcuno, non possedevo i libri? Perché non li compravo? La risposta sta in quegli anni cinquanta, che io ricordo bene e non voglio dimenticare, come hanno fatto e fanno i miei coetanei ricchi, perché io sono cresciuta e mi sono formata allora, allora ho provato le prime emozioni o illuminazioni, forse le stesse che mi turbano ancora e danno senso e rotazione a questa trottola che é la mia vita...
E vorrei qui fare una citazione dal libro che uscirà l’anno prossimo da Garzanti e si intitola (ma il titolo è provvisorio) L’ultima parola non è detta: nel suo teatro mi propose il ruolo di balia asciutta poi che il latte lo prendeva altrove io invece l’avevo invitato nel palco reale sotto i riflettori — e che fece? scartò bonbòn e buttò le carte a terra mi vorrebbe oscurare con l’ombrello quando piove e quando c’è il sole ma io non lo porto neppure quando scroscia
per quale via si arriverà all’ascesi? i miei coetanei ricchi hanno scordato l’Italia che si puliva il culo con la carta di giornale
scriverò dal Monte Rosa per riconfermare che io amo il mare e dappoiché non è il ritratto che invecchia e s’abbrutisce rubò il fuoco e svenne. A
È con dolore che non possedevo i libri... Io li amo, sono una mia protesi, anche se li sgualcisco, li maltratto, me li porto in tasca, li lascio cadere, li macchio, anzi no, non li macchio, li marchio con i polpastrelli sudati, li stropiccio, li segno, come si segna un punto su una mappa, per ritrovarlo a colpo d’occhio, me li porto a letto, mi addormento con loro, sì, insieme a loro, non riesco a prendere
sonno senza un libro, oggi come ieri, quando ero ragazza e mia madre, senza svegliarmi, nella notte veniva a spegnere la lampada e a
togliere il libro che stringevo al petto, ed era un abbraccio. Non li
LINCONTRO, GLI INCONTRI
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possedevo semplicemente perché non c’erano i soldi per comprarli. E nel ricordo della penuria, certi libri letti in biblioteca o a casa, se presi in prestito, non li ho mai comprati, dunque non li possedevo, non li posseggo... La mia generazione è cresciuta soprattutto, o anche, con i cata-
loghi (della BUR per esempio), lettura concentrata di tutte le possibili letture, mappe di viaggi inimmaginabili, sogni a occhi incollati sui piccoli caratteri, ma sì, era anche il piacere di fiutare, intenso,
come fa il cane col tartufo. Ho comprato molti romanzi russi, nell'edizione economica della UTET, durante gli anni di liceo, dando d’estate lezioni di latino a ragazzi della scuola media: l'estate, sciroccosa o infuocata dal simùn, il vento del deserto, era stagione di grandi letture, di esplorazioni e di inabissamenti nel mondo ignoto, o di corse fino alla radura aperta nel fitto della foresta... Questo primo incontro con Quasimodo poeta è stata una tap-
pa, importante, nella mia formazione umana e letteraria, e se non si tratta di un’impressione a posteriori, lo sentivo come un classico,
nel senso che i poeti greci (Mimnermo Saffo Alceo Anacreonte Callimaco, l’Artologia Palatina, insomma) erano i termini di confronto per me. Suggestione indotta dalle mie frequentazioni e dal fatto di vive-
re e respirare dentro una mitologica Sicilia greca? Sicuramente, nell’interesse di allora, la poetica della parola giocava un ruolo importante per me che poi avrei scelto la contaminazione e l’ibridazione, la dissonanza e l’impurità, il ritmo percus-
sivo più che evocativo. E non solo. Mi toccava (penso a Vento a Tindari), non so quanto nel profondo, il qui e l’altrove, l'infanzia e l’«amaro pane», lo sradicamento da luoghi e affetti, e l'esilio, l’a-
spro esilio. Sfollata per la guerra dalla città al paese di mia madre, e cioè da
Messina a Monforte San Giorgio, e vissuta in campagna, ritrovavo il mandorlo che schiara piani d’ombra o) [...] le sepolte voci dei greti, dei fossati, dei giorni di grazia favolosi. (Ariete)
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e anche i monti secchi, pianure d’erba prima che aspetta mandrie e greggi, (Terra)
l'odore [...] di frutta che secca sui graticci, di violaciocca, di zenzero, di spigo;
il bianco fiore d’ulivo e il lino azzurro, cantilene d’uomini e cigolio di traini con le lanterne che oscillano sparute ed hanno appena il chiaro d’una lucciola. (I ritorni)
E non sapevo allora che anche i miei ritorni sarebbero diventati tutta una cosa con gli odori di salino e terra, di colori e voci, di
cibi e essenze... E rivedevo e risentivo il «vento del sud forte di zàgare», «la gazza, nera sugli aranci» (Ride la gazza, nera sugli aranci). E le [...] Donne,
laggiù, nei neri scialli
parlano a mezza voce della morte, sugli usci delle case. (A me pellegrino)
Ma il catalogo non è finito. Mi avvolgeva, insomma, tutto un profumo, un sapore e un suono d’infanzia («le perdute cose» di Isola, in cui si nasconde il poeta) che io per esperita esperienza conoscevo, e dunque riconoscevo, e che mi capita di risentire ancora.
E poi ci sono i luoghi a me familiari (Tindari, Agrigento, Pantalica, Anapo, Imera, Platani, Latomie), e c’è la guerra, la pietà ca-
duta, i campi dilaniati, la paura... Soltanto a distanza di più di cinquant’anni, nell’ultimo libro, L'occhio dormiente (Marsilio, Padova 1997), riuscirò a dire della guerra, e voglio ricordare solo un passaggio del poemetto I/ bommbardamento:
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non c’è cautela che basti contro la paura a tre anni quando si apre la prima voragine e sotto i bombardamenti si perde terra e acqua temo però che quello non fu l’ultimo avviso mandato dal padrone nessuno conoscerà che male fu avere offeso l'udito.
Il secondo incontro avviene con Quasimodo traduttore (dei Lirici greci posseggo l'edizione del ’53 della Biblioteca Moderna Mondadori). E sono nella seconda metà degli anni cinquanta quando lavoro alla tesi di laurea, di taglio filologico, sui frammenti della Corocchia di Erinna, una poetessa del IV secolo a.C., quasi sicuramente di Telos, che scrive in lingua dorica, con ampi inserti eolici: era cresciuta sui classici e conosceva i versi di Saffo. E dunque rileggo i lirici greci, indispensabili per affrontare problemi testuali e proporre qualche integrazione, testualmente e metricamente compatibile, con le lacune del poemetto, come di fatto è avvenuto. Dalla Conocchia di Erinna Quasimodo aveva tradotto un lungo frammento, sotto il titolo Lamento a Bauci, accogliendo le integrazioni di Vogliano sul testo pubblicato da Vitelli, nonché i due epigrammi attestati dall’ Axzologia Palatina. Traduzioni che nella mia tesi puntualmente riporto. E così leggo anche (o rileggo) le traduzioni di Quasimodo, naturalmente con grande ammirazione, essendo abituata alle traduzioni di grecisti anche illustri, in cui si dà
conto del senso, perdendo quasi del tutto a volte il valore della parola, del senso fonico, della trama ritmica. Sicché mi piace riproporre le parole di Anceschi (dall’Introduzione ai Lirici greci): Anche quando traduce letteralmente, Quasimodo pone con naturalezza l’accento, il suo acre e cupo accento di moderno, sui motivi dell'amore e della
morte, preme sul testo greco con il suo personale gusto poetico,
senza dimenticare però che, come giustamente notava Solmi, la
traduzione dei lirici greci è stata non solo una prova di poeta, una prova di stile, ma anche e soprattutto una lezione per il poeta. Tant'è che questa prima esperienza di traduttore in qualche mi-
sura segna per suggestioni e stilemi la scrittura di Quasimodo, già
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JOLANDA INSANA
a partire dai testi di Erato e Apòllion, credo, e in modi più appariscenti nelle Nuove poesie. Questa traduzione mette soprattutto in circolo, rafforza quell’idea poetica del frammento e della sua bellezza (e però la sua tradizione, si sa, si deve a scelte grammaticali lessicali metriche, e non
estetiche), che resiste a tutto, sciolto dalla storia e dal tempo: l’estetica del frammento, della purezza assoluta, appunto. Portando a notevoli risultati le premesse dell’Ermetismo, e creando un modello linguistico.
Masi può dire meglio con le parole di Pier Vincenzo Mengaldo: la nuova retorica ermetica, applicata a sentimenti e situazioni poetiche sciolte da ogni contesto contemporaneo, vi raggiunge la massima purezza. È raziona-
le perciò che in esse [traduzioni] il poeta tocchi il suo punto più alto; comunque è certo che quelle versioni esercitarono sul linguaggio poetico medio e medio alto un influsso pari e forse superiore e più duraturo di quello della lirica “originale” del loro autore (in Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978).
E già nel ’40 Anceschi, nell’Introduzione ai Lirici greci osservava che non è senza qualche ragione che il secondo momento della poesia di Quasimodo sia dedicato a una traduzione.
Come esempio propongo il frammento 31 (edizione Lobel-Page) nella traduzione di Foscolo Pascoli e Quasimodo, poi che il
confronto è possibile tra poeti, non dimenticando che la prima traduzione (però traduzione-imitazione) è il carme LI di Catullo: Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto ti siede, e vede il tuo bel riso, e sente i dolci detti e ’amoroso canto! A me repente,
con più tumulto il core urta nel petto: more la voce, mentre ch’io ti miro,
su la mia lingua: nelle fauci stretto geme il sospiro. Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo: un indistinto tintinnio m’ingombra gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo torbida l'ombra.
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E tutta molle d’un sudor di gelo, e smorta in viso come erba che langue, tremo e fremo di brividi, ed anelo tacita, esangue. (U. Foscolo)
A me pare simile a Dio quell'uomo, quale e’ sia, che in faccia ti siede, e fiso tutto in te, da presso t’ascolta, dolcemente parlare, e d’amore ridere un riso; e questo fa tremare a me dentro il petto il cuore;
ch’al vederti subito a me di voce filo non viene,
e la lingua mi s’è spezzata, un fuoco per la pelle via che sottile è corso, già non hanno vista gli occhi, romba fanno gli orecchi, e il sudore sgocciola, e tutta sono da tremore presa, e più verde sono d’erba, e poco già dal morir lontana, simile a folle. (G. Pascoli) A me pare uguale agli Dei chi a te vicino così dolce suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Sùbito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce non esce e la lingua si lega. Un fuoco sottile sale rapido alla pelle, e ho buio negli occhi e il rombo del sangue alle orecchie. E tutta in sudore e tremante come erba patita scoloro: e morte non pare lontana a me rapita di mente. (S. Quasimodo)
Il confronto, dicevo, è possibile tra poeti, perché per un poeta tradurre significa creare un rapporto più che fare trasporto di parole, perché vuole che la traduzione nella sua orditura ritmica, nella qualità del dettato, suoni come poesia, mentre non vuole che la
poesia suoni come traduzione. E così, armato di pazienza e passio-
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hz
ne, e non disponibile a facili soluzioni, davanti al testo che esiste fuori e prima di lui, sta in ascolto per essere voce della voce gia scritta, per ricomporla suono dopo suono in quest’altra lingua, attraversando a posteriori i percorsi del testo, per intendere quello che c’è e non appare, cioè l’invisibile che esiste sotto la scrittura che invece è visibile... Così almeno dovrebbe essere.
Così è per me. Ma allora non lo sapevo. Certo è che provavo a tradurre, ma con molta insoddisfazione, e tutto si risolveva in un
bell’esercizio, di cui conosco l’importanza, tanto che lo consiglio sempre ai giovani poeti. Dovevo crescere e capire.
E poi la vita va per la sua strada, il caso, ossia la tyche, diventa anànke, lascio l’Università, le ricerche metriche e grammaticali (ero assistente straordinaria alla cattedra di grammatica greco-latina: e come non ricordare che Pascoli da Livorno era arrivato a Messina e al Magistero insegnava proprio grammatica greco-latina?), e scelgo letteralmente la strada, con tutti i disagi, gli inconvenienti, le peripezie di emigrante, la tristezza, lo spleen delle grandi periferie, ma anche tutte le inattese scoperte, le sorprese, gli incontri, i fermenti e l’arsenico, il sogno e la realtà... E sono arrivata agli inizi degli anni settanta, e da parecchio tempo vivo a Roma, sempre un po’ straniera e un po’ stranita, ma felice di muovere il passo per i luoghi dove erano passati Lucrezio Catullo Orazio Marziale o Seneca. E finalmente un giorno per caso riprendo in mano i lirici greci, e sperimento che il poeta-traduttore
entra (fin dove gli è possibile), grazie alla conoscenza di forme linguistiche e di saperi che presiedono al banchetto di qualsiasi testo, nel laboratorio del poeta che sta traducendo, senza dimenticare che la poesia è sempre una traduzione, un “trasportare da una parte all’altra”: il poeta dà voce alle cose più varie, a un’idea, a un’emozione, a un pensiero, all'albero o al sasso, all’acqua e ai suoi rumori, e naturalmente traduce, dà voce a un’altra voce, vuoi voce di dentro, vuoi voce di fuori. E senza dimenticare, altresì, che la pa-
rola è sempre inadeguata, manchevole, tanto nella creazione quanto nella ricreazione di un testo. Vorrei ricordare che in greco metaphérein (donde “metafora” equivalente del latino translatum) significa portare al di là, oltre il senso dato, oltre la lingua data, e dunque portare in un’altra lingua, spingere oltre il linguaggio: fare metafore, appunto. I greci non tra-
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ducevano, traducevano invece i romani, e il nostro “tradurre” viene da transducere, un verbo legato, mi piace credere, all’attraversa-
mento del mare, proprio perché per mare insieme ai fichi di Chio, all’olio, al vino e alle statue, avveniva la tradotta di rotoli e papiri. L'intraducibilità della poesia (spiegata con le ragioni che nessuna lingua è trasferibile in un’altra) appare condizione pregiudiziale inaccettabile, pure sapendo che la traduzione, come tutti i trasporti fragili, è soggetta a scossoni, deviazioni, deragliamenti, e ogni passaggio comporta cambiamenti di accento, eccessi di senso o di virtuosismo. Ma come dovrebbe muoversi la traduzione? Benjamin lo dice molto bene, io credo: la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per continuare, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via.
E io aggiungerei: perché l’opera viva la sua propria vita in quell’altra lingua che non le è propria. Nel processo di ricostruzione, il traduttore deve seguire le ragioni interne ed esterne, i movimenti cioè di testo e contesto, per comunicare tutte le differenze di tempo luogo e manufatti, per non tradurre per esempio con la parola “scarpina” l'oggetto “sandalo”, non dimenticando mai che l’altro è e resta sempre l’altro, sì da applicare alla traduzione il principio alessandrino dell’ermeneutica letteraria di spiegare Omero con Omero, «Homeron ex Homerou saphenizein», di considerare cioè il lessico, la metrica, la gramma-
tica e perfino le particelle del discorso nel contesto della lingua e dell’opera dell’autore, perché tradurre è sempre un interrogarsi. E questa è la mia traduzione del frammento 31 (in PoesiaTre, Guanda, Milano 1981, e poi in Saffo, Estro, Firenze 1985): Lo vedo felice come un dio lui che ti sta di fronte e attento segue il suono della voce
la tua fresca risata. È soprassalto, mi scuote tutta. Appena il tempo di vederti e non so più parlare.
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La lingua si spezza brivido di fuoco rapido corre sulla pelle Pocchio non vede ronzano le orecchie sudore freddo e tremito mi prende e più verde dell’erba mi sembra di morire, Agallide.
Ma tutto si deve osare perché anche chi pena...
Di Saffo ho tradotto tutti i frammenti che materialmente era possibile tradurre, e cioè i 144, che sono niente rispetto ai nove li-
bri in cui gli alessandrini avevano raccolto l’opera, e tuttavia danno sufficientemente conto dei vari registri della scrittura di Saffo, dalla maledizione all’imprecazione, dall’affetto filiale a quello fraterno materno o maritale, dal disastro politico all’invocazione passionale,
alla preghiera vera e propria. E danno altresì conto delle diverse strategie linguistiche e lessicali che Saffo adotta a partire da quel grande dizionario che è Omero, e quando non trova le parole per dire le cose nuove, nuove evidentemente rispetto al mondo omerico, se le inventa, come fanno e hanno sempre fatto i poeti. A certe soluzioni sono arrivata lentamente, certo per inadegua-
tezza (si è sempre inadeguati alla parola), ma anche perché il desiderio di restituire la forza che Saffo ha nell’originale, volendo dare corpo peso e spessore alla parola, era un progetto ambizioso che spesso girava intorno, proprio in senso etimologico, e lì continuava il giro oppure si fermava. Voglio dare qualche rapido esempio: al frammento 105a c’era il problema di rendere «malodrépees», di sciogliere la cacofonia di «coglitori» o «raccoglitori», e alla fine ci sono riuscita introducendo «contadini» e precisando «al tempo della raccolta». Do di seguito la traduzione di Quasimodo e la mia. Quale dolce mela che su alto ramo rosseggia, alta sul più alto; la dimenticarono i coglitori; no, non fu dimenticata: invano tentarono raggiungerla...
L'INCONTRO, GLI INCONTRI
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come sull’alto del ramo alta sul ramo più alto si fa rossa la mela che al tempo della raccolta i contadini dimenticarono. Ma non l'hanno dimenticata. Semplicemente non ci sono arrivati.
E al frammento 57 c'è un «t’affattura» (Saffo dice «thélghei noon», prende la mente) che non è sceso dal cielo ma dalla mia terra, dove la fattura era, e forse è ancora, pratica antica (Quasimodo
non traduce questo frammento): ma quale contadina t’affattura? chiusa nella sua rozza pelle non ha mai saputo che le vesti fanno strascico sulla caviglia.
Ecco, sto aprendo le porte del laboratorio. Ma perché scoprire il lavoro artigianale, le forbici e la lima? Semplicemente perché queste traduzioni, come le altre che ho fatto o vado facendo, sono in stretto rapporto con il mio impegno di scrittura e con quell’esigenza che io sento fortissima di comunicazione e rigore espressivo,
che evidentemente non è soltanto mia ma è della poesia italiana e della sua grande vitalità. Naturalmente non mi sono confrontata né con Foscolo né con Pascoli, perché troppo lontani nel tempo, ma con Quasimodo (e questo è il terzo incontro) più vicino a me nel tempo, e tuttavia Quasimodo, che appartiene a una stagione, quella ermetica, a me lontanissima, mi è lontano, e delle differenze che intercorrono vorrei dare qualche esempio. AI frammento 36, arbitrariamente accorpato (ma qui evidentemente è un problema di consulenza testuale del greco) a tre diver-
si e distinti frammenti, Quasimodo traduce «kai pothéo kai màomai» con «e soffro e desidero», io traduco «e desidero e smanio».
Il «soffro» è in sé incomprensibile, e mi domando perché Quasimodo traduca «miomai» con «soffro»: «miomai» ha la radice indoeuropea men/man da cui attraverso il latino, lingua indoeuropea come il greco, viene il nostro “mente”, “mania”, “Menade” ecc. «Miomai» esprime desiderio che è della mente, indica cioè la sma-
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nia tutta mentale che è nel desiderio amoroso, e non dico che la smania non sia o non possa essere sofferenza, dico però che Saffo non ci introduce all’effetto della smania, Saffo ci dice della smania in
sé e insieme del «péthos», cioè del desiderio che è desiderio del corpo verso un altro corpo, perché Saffo conosce le leggi del corpo e dell'anima, e sta in equilibrio tra le parole del «chr6s» e del «n6os». Ma che voglio dire con questo? Voglio semplicemente dire che la traduzione non è mai neutra, e che ieri come oggi, oggi come ieri, il desiderio è negato alle donne, è negato il piacere, perché sono
negate le parole, e così viene enfatizzato il femminile nella valenza poco gratificante di molle, naturale, sensoriale, femmineo, effeminato, addirittura. Io, al contrario, volevo ripristinare la forza e le sferzate d’ironia,
e non solo l’elegante ritrosia di fronte alla tenerezza, dove risulta la grande capacità di Saffo di fare incursioni nel vissuto e nel quotidiano, scartando, variando, scegliendo le parole e ricorrendo all’insulto e all’imprecazione. Volevo una traduzione che fosse aderente al testo e insieme animata: volevo la messa in scena del testo, e na-
turalmente mi occorrevano le parole giuste del corpo e della mente, per ricreare il piacere che in Saffo è solare (1’Afrodite di Saffo non è Afrodite tenebrosa che per esempio è attestata a custodia dei sepolcri a Delfi) e per ricreare la struttura che è circolare (nel cerchio, mi piace ricordare, sta il nome di Circe, figlia del Sole). Esempi di stravolgimento o mascheramento lessicale in Saffo, anzi nelle molteplici e numerose traduzioni di Saffo, sono moltissimi. Ma questo porta a un altro discorso. Vorrei però dire quanto interessante sia la lettura delle traduzioni, che nel tempo si sono succedute, di uno stesso originale. La lettura diacronica fa da spia rispetto al gusto alla poetica alla metrica alla lingua di un’epoca. Ma fa anche la spia al traduttore che, senza essere necessariamen-
te “traduttor dei traduttori”, tiene conto delle traduzioni precedenti secondo una modalità, necessaria più che opportuna, di confronto con la tradizione, per ragioni linguistiche e interpretative. Sicché è possibile rintracciare l'origine, la discendenza delle scelte operate, delle soluzioni adottate, i riecheggiamenti, le tecniche combinatorie di richiami e rinvii, fino a tracciare una sorta di idea-
le albero genealogico. E così, considerando il citato frammento 31, si può vedere la suggestione della similitudine foscoliana «smorta in viso come erba
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che langue» (il v. 14 dell’originale dice semplicemente «sono più
verde dell’erba») su Quasimodo di «come erba patita scoloro», con perfetta corrispondenza tra «che langue» e «patita», tra
«smorta» e «scoloro». E sempre Quasimodo al v. 16 traduce in «rapita di mente» il pascoliano «simile a folle», da una sorpassata integrazione dlla = altra, diversa.
Al v. 11 su «gemina teguntur lumina nocte» di Catullo è modellata la metafora «mi s’innalza al guardo torbida l’ombra» di Foscolo e «ho buio negli occhi» di Quasimodo, l’uno e l’altro rispettivamente imitatore e traduttore del poeta latino. E sono arrivata alla persuasione che se la parola del poeta sopravvive nella sua lingua, la più grande delle traduzioni è destinata a perire nel rinnovamento e mutamento della lingua: le traduzioni hanno vita breve, deperiscono a vista d’occhio, e nel giro non di qualche secolo ma di qualche decennio, invecchiando, appaiono come grige bacucche di falsità rispetto all'originale sempre identico a se stesso (questa sorte però, ancora oggi, non tocca i Lirici greci di Quasimo-
do). Sicché bisogna continuamente rinnovarle, anche quando portano firme prestigiose, perché c’è differenza, per esempio, tra la fluidità di un foscoliano incipit endecasillabico, «Né più mai toccherò le sacre sponde», e il tono di «Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto», oggi assolutamente improponibile, laddove il pascoliano «d’amore ridere un riso» regge ancora, tanto che compare in «ridi un riso» (nella traduzione di Ferrari, Rizzoli, Milano 1987).
Non voglio dire che la traduzione è effimera, però è epocale, stagionale, generazionale, riflette clic e tic, gusti e vizi, individuali e collettivi, e dal Medioevo a oggi ha cambiato collocazione nell’ordine delle scritture letterarie, di volta in volta diventando volgarizzamento, imitazione, pastiche, parodia, adattamento, rifacimento, scimmiottamento. E non è mai né pura né semplice, e spesso è
presentata in confezioni al sapore forte di “traduttese”, quella lingua àtona imbrogliata esplicativa in cui circolano, purtroppo, moltissime traduzioni di poesia.
LESILIO VALTELLINESE DI QUASIMODO di Giorgio Luzzi
Esiste una certa discordanza delle fonti circa la data d’arrivo di Quasimodo a Sondrio: essa dovrebbe comunque oscillare tra il 1933 e il 1935. Per quanto riguarda la data del distacco, c’è evidentemente la concordanza sul 1938, anno a partire dal quale il poeta lascia gli uffici del Genio Civile e si dedica al lavoro intellettuale. In ogni caso dovrebbe trattarsi di un esilio durato circa cinque anni, sufficientemente durevole per poter lasciare tracce e inclinazioni, arco temporale di esperienze anche editoriali decisive. Il pendolarismo, che in certi periodi fu quasi quotidiano, tra Sondrio e Milano, documenta un caso di tenacia, oltre che di energia
psicofisica, tipico di una natura affermativa e singolarmente combattiva, un’ambizione nell’emigrazione che non può non lasciare profondamente ammirati. Un ordine di servizio del capo dell’ufficio del Genio Civile di Sondrio, ingegner Testa, datato 11 gennaio 1938 e indirizzato al geometra Quasimodo, così si esprime: Richiamo formalmente il personale incaricato e principalmente il signor geom. Salvatore Quasimodo a voler porre tutta la sua attenzione, buona volonta e diligenza per l'esatta compilazione degli elaborati riferentesi nell’oggetto [...].
È singolare come una simile condizione di alienazione che definirei strutturale dovesse invadere lo stato d’animo di Foscolo, presente un centotrent’anni prima tra quelle stesse montagne: entrambi addetti a servizi relativi alla viabilità (Foscolo nel 1806 era adibito in Valtellina a rilievi topografici militari), entrambi insofferenti di quel confino e del deserto culturale che vi dominava, entrambi legati a una interlocutrice epistolare da un amore de loing fatto di balsami e impazienze. Ecco che cosa scrive Foscolo a Isabella Teotochi Albrizzi:’ Milano, 13 Luglio 1806. Sono oggi dodici giorni che io non vi scrivo, ho dovuto battere le montagne della Valtellina per levare una carta topografica. Il sole e il lavoro mi hanno consunto; e più ancora la noia della sciocca compa-
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GIoRGIO LUZZI
gnia che lavorava con me, e la niuna corrispondenza di gentili affetti con niuno di que’ viventi [...];
e pochi mesi dopo (24 novembre 1806): Viaggiando per le Fiandre io aveva tradotti moltissimi squarci dell’Iliade; perché tutti i miei libri erano l’Iliade e il Viaggio di Yorick; quando fui mandato ad esaminare le miniere di ferro nella Valtellina e sul Bergamasco, sono tornato a Omero; e mi fu solo compagno [...].
La musa interlocutrice di Quasimodo in Valtellina è un’altra salonnière dominatrice della mondanità letteraria e di cuori maschili sensibili e inventivi: Sibilla Aleramo* ha ormai sessant’anni
quando il trentacinquenne poeta le scrive da Sondrio e da altri luoghi della valle lettere infuocate. Scrive il 5 marzo 1935: Amore adorato, la tua lettera l’ho avuta al mio ritorno. Hai saputo confortarmi; hai voluto confortarmi. Io invece con te sono sempre amaro. Ma qui sulla soglia dei vinti, a capo chino attenderò la primavera [...]. Forse oggi nel pomeriggio andrò in montagna, mi avvicinerò al Bernina. Ma quel bianco dei ghiacciai aumenterà la mia tristezza. Varia è come consolata, l’erba sui prati buca la neve [...]. Le mie braccia cercano il tuo corpo bianco la notte: e il tempo è vita “perduta”. Quanto io perdo di te così lontano? Voglio riudire la tua voce presto, il suono della tua bocca che dice il mio nome [...]. Ti bacio infinite volte sul cuore, tuo Virgilio.
Osservando meglio certi tagli ritmici e certi espedienti di stile non sfugge però il carattere artefatto di alcune di queste righe, pensate presumibilmente con il vezzo dell’autocontemplazione narcisistica non meno che con la lenta briglia dei sensi. In un’altra lettera ci viene riservata una singolarità. È 1'11 settembre di quello stesso 1935 e Quasimodo scrive a Sibilla da Morbegno: Mio amore, terminato il mio lavoro alle 18 ho subito pensato che potevo ricordare a te una persona assai cara. Per quanto assai stanco ho cercato sulla via omonima alle porte del paese la casa di Damiani. L'ho trovata presso una fontana al n. 8. Casa e luogo sereni [...]. A destra dell’ingresso, sullo spigolo sinistro della facciata c’è una piccola lapide (solito cattivo gusto) con una esigua fronda di lauro [...].
LESILIO VALTELLINESE DI QUASIMODO
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Ex abitante della casa e poi destinatario della piccola icona commemorativa é il poeta e saggista Guglielmo Felice Damiani (1875-1904), nato appunto a Morbegno e morto a Napoli di setticemia non prima di aver dato prova di notevole e precoce talento soprattutto nel campo della filologia antica e moderna. Poeta in buona parte inespresso, ci lascia la curiosita di provare a immagi-
nare quale sarebbe stata la sua dimensione nazionale se fosse vis-
suto più a lungo, lui nato nella stessa generazione di Mann e di
Rilke, di Hofmannstahl, di Valéry e di Proust; e cioè anagraficamente situato appena alle spalle dei vociani e dei crepuscolari. È singolare che Damiani sia stato uno degli amori giovanili di Sibilla, cui era stato legato nei primissimi anni del secolo e cioè più di trent'anni addietro rispetto ai fatti di cui ci stiamo occupando. Il paesaggio valtellinese, inciso in un affondo toponomastico che ne rivela l’abitualita, la confidenza, la pratica affettiva, è esplicito in almeno due poesie di quegli anni. Sono comprese in Nuove poesie, il libro che seleziona e raccoglie il lavoro tra il 1936 e il 1942: si tratta, come è noto, di La dolce collina e di Sera nella valle del Masino. I due
luoghi, l Ardenno nominato nel primo testo e il torrente evocato nel secondo, stanno tra loro come il borgo a fondovalle sta alla valle laterale che in corrispondenza di esso si stacca e sale, aprendo una
suggestiva crepa in quel punto della Rezia che è dominato dal considerevole monte Disgrazia. Queste sono le uniche due tracce esplicite in grado di denotare la presenza della Valtellina in questa fase delicata e forse decisiva del lavoro del poeta siciliano. Tracce implicite sono evidentemente disseminate in quella sorta di “criptotesto” che percorre come una corrente inabissata il tessuto di dipendenza reciproca tra memorie involontarie e attitudini dell'immaginario. Pertanto sarà più utile che io continui a rivelare — in quanto poeta chia-
mato a testimoniare, o meglio a confidare, le modalità e gli effetti della ricezione di Quasimodo nei miei anni di formazione — elementi personali che potrebbero però, in qualche misura, essere assunti anche come parametri estesi relativi ai conti che una generazione, la mia, ha dovuto fare con la “funzione” (ma non è un po’ troppo?) Quasimodo. Quando gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura ero reduce dalla maturità. Le poche (carto)librerie della valle, che prima di allora non avevano ospitato libri intestati a quel nome, improvvisamente se ne riempirono: la piccola, tenera e patetica mitopoiesi di famiglia poté dirigersi finalmente sui testi. Lo feci con vo-
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GIORGIO LUZZI
racità e presto il poeta divenne ben altro da quel mormorato corteggiatore di zie e di cugine e da quello spaesato progettista di itinerari camionali di cui avevo cominciato a sentir parlare prudentemente dentro casa. Fu allora il “mio” poeta, il primo poeta italiano del pieno Novecento di cui potessi avere una contezza per così dire abbastanza organizzata. Quasimodo fu davvero il primo dei lirici nuovi di cui ebbi modo di leggere allora almeno alcuni interi libri e non qualche scarna mediazione a pioggia buttata lì in maniera maldestra da un non disinibito liceo. Per me dopo D'Annunzio ci fu Quasimodo. Che cosa mi si fece incontro in modo durevole? Almeno tre o quattro cose da affrontare, per uno che stava per accorgersi di essere esposto al lasciarsi prendere, un giorno o l’altro, dal “gioco”. Fu una serie di messaggi forti. Uno consiste nella tendenza quasimodiana, rilevata anche a partire dai due testi valtellinesi, a radicare in paesaggi e atmosfere del nord la condizione mitopoietica originaria, con un’idea della terrestrità e dell’energia sensibile del mondo naturale che poteva essere esercitata non solo sul paesaggio mediterraneo; mi colpì l’accertare, sia pure ancora oscuramente, come una forma del fato, vero e proprio elemento deterministico e non esornativo, presieda alla interpretazione dei paesaggi e al piano di reciprocità tra paesaggio dell’osservatore e paesaggio della natura osservata. Tutto ciò rispondeva a quanto indiziariamente io cercavo di intuire come specifico della poesia lirica. Perché ciò accada è necessario che venga attivata una pervasiva oscurità del senso rispetto alla norma. Uscivano da questa oscurità
dirompenti bagliori, propriamente cosmogonici, delle immagini: «qui fra le piante / arse dai fulmini dove s’innalza / la dolce collina d’Ardenno»; «o forse un fremere di passi umani, / fra le tenere can-
ne delle rive». Vogliamo parlare di una cosmogonia sintomatica, aperta dal deittico in posizione forte sul secondo emistichio? Tutto il paesaggio è profondamente alterato rispetto al reale: lo sconquasso geofisico, l'amplificazione spaziale, l'inclusione dei due attributi moderatori (l’idiolettico «dolce», l’altro compensativo «tenere») in funzione riumanizzante sugli estremi.In questo modo una piccola regione di frontiera, poverissima di interpreti poetici in loco (a parte il
villeggiante tardo Carducci e il minore ma non minimo chiavennasco Bertacchi) anche se notevole e documentata terra di passaggio (da Leonardo a Cellini a Bandello, da Vivant Denon a Foscolo a
Carducci appunto, da Gadda a Freud a Schnitzler a Hildesheimer
LESILIO VALTELLINESE DI QUASIMODO
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ecc.), trovava un suo grande, anche se provvisorio, interprete poetico non pittoresco e (quel che più conta) nemmeno estemporaneo. Mi chiedo anche se non sia troppo azzardato, per queste alte espe-
rienze poetiche del Quasimodo valtellinese, inserire l’idea di una distinzione possibile tra luogo mentale (il riferimento è a Maria Corti), riflessivo, culturalizzato, poggiante sulla diacronia, e luogo interiore,
fondato sulla sincronia, luogo emotivo, percettivo e simultaneo, ve-
ro e proprio bouquet dei percepta, deterministico e istintuale, luogo infine della primarieta, del culto diretto dell’autocoscienza. Non dimentico lo stupore inquisitivo che mi suscitò il giudizio quasimodiano sull’ironia. Da I/ falso e vero verde (1956): «per un po’ d’ironia si perde tutto» (Ir una città lontana); da La terra impareggiabile (1958, componimento eponimo): «o toccano l’invisibile / ironia, la sua natura di scure / o la mia vita già accerchiata,
amore». Che cosa si poteva e si può pensare di queste definizioni
dell’ironia? Che cosa rappresenta? Che cosa la rende temibile? Fu un'ossessione. Il Quasimodo epigrammista è egli stesso tragico (si pensi ai due celebri epigrammi in I/ falso e vero verde), non ironico. L'ironia viene mascherata in quanto è essa stessa un mascheramento, una forma mascherata della verità, una luce imperfetta e obli-
qua della coscienza, è una voce soprattutto antilirica ottenuta per mezzo della moderazione delle emozioni dirette, e che come tale
tende a omologare le emozioni riconducendole entro l’area di controllo della funzione “superiore” dell’Io. In quanto strumento di condensazione esercitato dalla virtù intellettuale, l’ironia è anti-
epica e anti-drammatica. Si concilia molto male con il sogno cosmogonico, per cui si genera il sospetto che il suo apparire sia frutto di un Es non del tutto saldo e sano, un Es per il quale i conti tra interno e esterno non siano stati portati interamente alla luce. Quantomeno l’ironia è frutto di una rimozione. In questo senso il
sospetto sull’ironia si combinava bene, in quegli anni, con una mia personale forma di radicamento ambientale, con la coscienza di soggetto periferico nella sua tendenza a rivendicare, rispetto al ce-
to ricco e colto del centro, un occhio più profondo nel cuore dell'evento cosmogonico. Lironia era cosa da ricchi. Noi avevamo tutt’al più il comico, e per di più festivo, bachtiniano. Ma qual è il “tutto” che si perde con il sopravvento dell'ironia? Provocatoria-
mente potrei dire che si perde l’endecasillabo, e forse per giudicare un poeta non è una via del tutto sbagliata.
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GIORGIO LUZZI
Vi furono infatti, e in misura forse anche più sostanziosa, delle istruzioni che derivavano dal modello metrico quasimodiano, in particolare dalla fase di mezzo, quella appena postermetica. C'è una flessibilità dell’endecasillabo tra norma mentale e aritmia, in direzione
del parlato; ciò può far pensare a certe odierne esperienze di disautomatizzazione, ma in realtà i due fenomeni provengono da direzioni opposte: in Quasimodo il fenomeno si rivolge al parlato, alla quantità di realtà dicibile, alla comunicazione critica anche verso il basso;
oggi questo lavoro mira piuttosto a generare supplementi di letterarietà. E sorprendente come in anni tanto lontani da oggi il poeta siciliano avesse già introdotta la pratica di questa separazione: legittimare il parlato lasciandogli un sostegno sommerso, una sorta di salvacondotto deontologico consistente nello scheletro dell’istituzione metrica; era possibile delegittimare il lirico e la cantabilità (come nel-
le sfaccettature dell’usatissimo aggettivo “dolce”) introducendo nell’unità metrica numerosi elementi di artificio. Si generava uno stato abbastanza eccitante di piena ambiguità, al punto che la identificabilità della norma metrica finiva per funzionare come un fenomeno intertestuale annidato nei livelli ritmici anziché in quelli logico-semantici: perché questa nuova semplicità da reale aggiuntivo abbia il suo effetto deve passare attraverso tutte le maschere di corruzione rese disponibili da un uso innovativo della tradizione. Tutto questo certamente mi limitavo a intuirlo da lontano, ma nel tempo mi si sarebbe rivelata una intuizione corretta. Abituato in quegli anni alle “audacie” dell’iperbato sabiano, il comportamento metrico del secondo Quasimodo dovette agire a livelli profondi: è vero che, se mi trovavo disposto a riconoscere in Saba quell’artificio da «incantevole pupa-
ro» di cui parla Debenedetti, questo artificio veniva cancellato in Quasimodo da una quantità epico-fondativa di reale che era drenata da un incastro di espedienti metrosintattici più sofisticati.
' Ho però buoni motivi per ritenere che l’affermazione di Quasimodo, riportata da Gilberto Finzi nella Cronologia del Meridiano Mondadori, circa il suo far ritorno «ogni sera» a Milano, non debba essere presa alla lettera: fonti orali (a partire dalla persona di mia madre Rosita Peregalli, che ricorda ancora con singolare chiarezza episodi legati alla conoscenza diretta del poeta) escludono che Quasimodo abbia rinunciato del tutto a costruire un clima di sia pure embrionale ed episodica integrazione con l’ambiente d’arrivo. Altre fonti, che da alcuni decenni a questa parte mi hanno fornito notizie dirette
L'ESILIO VALTELLINESE DI QUASIMODO
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sulla presenza del poeta in Valtellina, sembrano aggiungere informazioni preziose: penso alla famiglia paterna, che Quasimodo ebbe modo di conoscere nel corso di escursioni e battute di caccia compiute con amici sui monti attorno al paese di Talamona. I Luzzi vi gestivano una trattoria con locanda. Quasimodo vi dimorò più volte; intrecciò una relazione piuttosto effimera con una sorella di mio padre sua coetanea; avviò in seguito un carteggio abbastanza fitto e regolare con una mia cugina più anziana, Lina Luzzi, allora giovane maestra con qualche attitudine per la musica e per le lettere. I due non si incontrarono mai, né Lina intese mai spedirgli la più volte richiesta fotografia. Mia madre, che poté vedere un carteggio che definisce «cospicuo», mi assicura di ricordare di avervi potuto individuare gruppi di versi contenuti entro cornici di ornamenti grafici. Era giovanissima fidanzata di mio padre e tanto la sua formazione quanto la sua esperienza non erano tali da indurla ad approfondire i contenuti di un carteggio di quel tipo. Il carteggio, rimasto a lungo una sorta di mito familiare soprattutto a partire dagli anni della notorietà internazionale del poeta, è scomparso da decenni e nessuno sa dire come e perché; ma è probabile che possa essere stata la stessa Lina a distruggerlo in occasione del suo matrimonio avvenuto intorno al 1940, data alla quale ella purtroppo sopravvisse ben poco. Quanto a mia madre, sposa a mio padre dalla primavera del 1938, ricorda di aver rivisto Quasimodo in quei mesi a Gerola Alta, paese di montagna nel quale mio padre lavorava come segretario comunale. Quasimodo si occupava del catasto della viabilità di montagna in provincia di Sondrio ed era tenuto a rapporti di lavoro con le amministrazioni locali. C'era l'abitudine che i funzionari in trasferta pranzassero o cenassero con le autorità municipali del luogo: mia madre ricorda un Quasimodo «assorto e preoccupato», sostanzialmente estraneo alla sfera conviviale anche se piuttosto signorile nei modi. Dovevano essere comunque i mesi immediatamente precedenti il suo stabilirsi definitivamente a Milano. 2 La notizia è in I. TUCCI, Quell’impiegato inconcludente, in “Centro Valle”, 14 mar-
zo 1999. Per questa e per altre fonti devo pubblica stima e gratitudine all’amico Bruno Ciapponi Landi, direttore del Museo Etnografico di Tirano, custode attento e colto di rarità storico-letterarie e culturali che interessino la Valtellina, la Valchiavenna e un po’
tutta l’area retica nella fascia italo-svizzera.
3 U. FoscoLO, Epistolario, a cura di P. Carli, Le Monnier, Firenze 1952, vol. II. 4S. Quasimopo, A Sibilla, Rizzoli, Milano 1983.
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platy TRAE. illo, eat PALI ero Perin p Resterebbe comunque utile «[u]na critica della critica quasimodea» (cfr. P. PELOSI, Presenza e metamorfosi del mito di Orfeo in Salvatore Quasimodo, Edizione del Delfino, Napoli 1978). Il libro capitale della critica quasimodiana, soprattutto per la qualità della scrittura, resta nella mia opinione O. MACRI, La poesia di Quasimodo. Studi e carteggio con il poeta, Sellerio, Palermo 1986, che ingloba il saggio La poetica della parola e Mine . Salvatore Quasimodo del 1937-1938. 6 Si veda per esempio F. MUSARRA nella sua peraltro dettagliata analisi Rinnovamento ritmico nel Quasimodo postermetico, in Quasimodo e il post-ermetismo, atti del se-
PAOLO VALESIO
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condo incontro di studio Modica 14-16 maggio 1988, a cura di G. Amoroso et al., Centro Nazionale di Studi su Salvatore Quasimodo, Modica 1989.
7 Propongo il neologismo “fitomorfico” (o “fitomorfo”) nel senso di “a forma di pianta” come equivalente di attributi normalmente usati come zoomorfo o teriomorfo,
“a forma di animale”. Esiste d’altra parte il sostantivo fitomorfòsi (fondato sul greco phuton, “pianta”), ancorché con significato tecnicamente delimitato: “Modificazione delle forme esterne e delle strutture di un organo vegetale provocata dall’azione di un altro vegetale” (cfr. Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, UTET,
Torino 1961 ss.). Il mio, dunque, più che un neologismo è una risemantizzazione: intendo per fitomorfosi il processo generale di assimilazione o trasformazione di un corpo umano in pianta.
8 Per un gioco non del tutto ozioso, si potrebbe confrontare a quello che si è proposto l’emblema titolare ungarettiano, Vita di un uomo, a conferma del progetto prevalentemente psicologistico dell’uno verso quello eminentemente naturalistico dell’altro pocta. E forse è appropriato che il corpus montaliano, così esigentemente intellettuale per non dire intellettualistico (nella sua parte migliore), resti caratterizzato da quello che si potrebbe chiamare un titolo zero. E infine (la retorica protonovecentesca della triade essendo inadeguata rispetto a quello che è per lo meno un quaternio), il titolo onnicomprensivo più adatto a Saba sembra non tanto il troppo generico e tradizionalistico Canzoniere, quanto piuttosto lo specifico Storia e cronistoria del “Canzoniere”, che ben simboleggia la strategia cronistica (nel senso forte del termine) di questo poeta. ° Ho brevemente delineato quest’ultimo atteggiamento nella nota critica Giorgio Luzzi or Animal Purgatory, in “Yip. Yale Italian Poetry”, II (1999), 1-2, pp. 53-66. 10 Si veda S. QUASIMODO, I/ poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano 1960, soprattutto L'uorzo e la poesia [1946], ristampato nella sezione Discorsi sulla poesia della nostra edizione mondadoriana di riferimento (pp. 273-276), e due altri brevi saggi che invece non vengono ripubblicati, dunque cito dall’edizione Schwarz: Poesia del dopoguerra [1957], pp. 37-45, e Il poeta e il politico [1959], pp. 47-58, quest’ultimo con un (alquanto vago) accenno alle «prime architetture d’un neo-umanesimo». 4! Ciò non toglie naturalmente l’utilità di rassegne esplicitamente dedicate allo sfondo filosofico degli anni poetici di Quasimodo, come per esempio P. MAZZAMUTO, L’zltimo Quasimodo di “Dare e avere”, in Quasimodo e il post-ermetismo, pp. 121-134. ! Cfr. GIALAL AD-DIN RUMI, Ov Resurrection Day, in The Essential Rami, traduzione di C. Barks, con J. Moyne, A.J. Arberry, R. Nicholson, Harper-Collins, New York
1995, p. 113.
! Come nel poemetto medievale inglese tradotto in Sir Gawain e il cavaliere verde, a cura di P. Boitani, Adelphi, Milano 1986. 4 Cito secondo il testo de La Bibbia concordata, 3 voll., a cura della Società Biblica di Ravenna, Mondadori, Milano"1982.
! Cfr. — per citare un paio di esempi quasimodiani — la poesia Airone morto (EA, p. 83), e in particolare i versi «[...] in me dolora / un airone morto», per cui rinvio al mio commento al verso «In me un albero oscilla»; e la poesia O miei dolci animali (GAG
[1947], p. 136).
!© Un poeta può essere soggettivamente coinvolto in prospettive teologiche o teofilosofiche di vario genere (esempi: Rebora, Onofri), oppure può essere, nella sua soggettività di autore, non particolarmente immerso in queste prospettive, e quest’ultimo sembra essere stato il caso di Quasimodo. Ma ogni vero poeta (e tale è Quasimodo) ha
profondità di visione, dunque la sua opera è oggettivamente pertinente a un’analisi che ricorra anche a concetti teologici e filosofici. Vedi per esempio A.P. MUNDULA, I/ sacro nell'iter quasimodiano, in Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito..., pp. 325-346. ” M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible. Suivi de notes de travail par M. M.-P, a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris 1964, p. 173. Il libro, lasciato incompiuto alla mor-
QUASIMODO, LA FITOMORFOSI E L’(IN)(DI)VISIBILE
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te dell’autore (1961), venne pubblicato postumo. È chiaro dunque che non sto proponendo questa riflessione come una fonte della poesia di Quasimodo; sto parlando della genealogia di un discorso poetico (e vedi la nota precedente). !$ Per esempio alla tavola rotonda princetoniana Jolanda Insana attirava la mia attenzione sull'importanza dei verbi del “mostrare” e dell’“apparire” in quel linguaggio poetico della grecità antica di cui Quasimodo è eccezionale traduttore. Ma tale costellazione semantica ha senso solo se integrata con l’analisi fenomenologica delineata sopra. In questa prospettiva, si potrebbe discutere se nella traduzione quasimodiana del testo più famoso di Saffo, che nella sua versione prende il titolo dal verso incipitario, A me pare uguale agli dei (p. 303), la scelta del verbo “parere” non sia un po’ debole rispetto all'alternativa di “apparire”. !° A ragione S. ANTONIELLI, Salvatore Quasimodo, in Quasimodo e la critica, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1975 [1969], p. 179, osserva: «[...] per lui, di solito, Sicilia non è tempo perduto da ricercarsi con ammalato rimpianto [...] vide, insomma, quel
che riferisce, cosicché la Sicilia quasi mai è nebulosa costa a poppa, e più spesso si concreta in evidenti immagini, autentica fedeltà degli occhi a situazioni precise». 20 La grande emblematicità dei titoli quasimodiani può anche essere un limite, nel senso che si può riscontrare a volte in Quasimodo un eccesso di “visibilità”. 2! L'opera di Antonio Fogazzaro, e in particolare il suo romanzo I/ sarto (1905), contiene la più efficace illustrazione letteraria di tale dialettica nella narrativa italiana del Novecento. 22 Per il concetto correlato della trasparenza, rinvio intanto al mio breve schizzo: Pasolini e la vena della trasparenza, in “Novilunio: Rivista della poesia italiana”, 1 (1991), pp. 45-59. 2 Naturalmente in questo testo sono compresenti anche altri elementi (ogni poesia interessante, con buona pace della critica organicistica, è composita). Si nota, per esem-
pio, lo stilografema dannunziano della scrittura separata o scempia della preposizione articolata («su la»). E quella domanda-immagine, «Chi frusta i cavalli nell’aria / rossa?» fa pensare al Picasso di Guernica. 2 Un’analisi dei rapporti fra Neruda e Quasimodo potrebbe forse riservare qualche sorpresa, nel senso di un possibile percorso Quasimodo-Neruda che poi diventerebbe un rapporto Neruda-Quasimodo. Penso al particolare, in questa Ode nerudiana, che è lo strano colore fra il surrealistico e l’esoterico di un uccello che noi siamo abituati a “vedere” in altre tinte, e che è il colore germinativo “patentato” da Quasimodo fin dai tardi anni venti: «e verdi rondini fanno nido nei tuoi capelli»; un effetto che fa pensare da un lato a Chagall, e dall’altro alle tardi propaggini della narrativa latino-americana del realismo magico, dove compaiono a volte (con un'eco della nostra ottocentesca Fata dai Capelli Turchini) fanciulle con la chioma verde.
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Tu non sai chi sia; né quale sole / m/’arse il volto e le
palpebre, / quali donne spartirono il giaciglio / per le mie notti senz’alba, / quali mani mi scossero nel sonno / per dirmi che tarda era l’ora / e la fatica è pane
Biblioteca COLLANA DI LETTERATURA ITALIANA DELL’800 E ’900
DANTE GRAZIOSI, Una Topolino amaranto. Ricordi di un medico degli animali, edizione accresciuta con una nota sull’autore, 1992”, pp. 216, euro 11,36.
Scrittori e città. L'immagine di Novara negli sguardi letterari di sei scrittori dell’ultimo secolo, introduzione di G. Barberi Squarotti, a cura di R. Cicala, 1993, pp. 184, euro 11,36.
Poesia e spiritualità in Clemente Rebora, con saggi introduttivi di G. Barberi Squarotti, C.
Carena e O. Macrì, a cura di R. Cicala e U. Muratore, 1993, pp. 232, ill., euro 15,49. DANTE GRAZIOSI, La terra degli aironi. Cronache di provincia, con una nota di Davide
Lajolo, 1993, pp. 160, euro 11,36. Rodari, le parole animate, ill. di Altan, Luzzati, Munari, Maulini, con una testimonianza di
G. Einaudi, un saggio di P. Boero, un'intervista a Rodari di E. Biagi, 1993, pp. 224, euro 12°91.
Da Petrarca a Gozzano. Ricordo di Carlo Calcaterra (1884-1952), introduzione di C. Dio-
nisotti, in appendice documenti e lettere di Graf, Gozzano, Pasolini e Contini, 1994?, pp. 144, euro 15,49.
. Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, saggi con antologia di testi, a cura di G. Langella ed E. Elli, 19977, pp. 616, euro 23,24. . «Con la violenza la pietà». Poesia e Resistenza, antologia con un saggio di F. Fortini, a cura di R. Cicala, 1995, pp. 112, euro 9,30.
. Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura di L. Coveri, prefazione di R. Vecchioni, 1998”, pp. 240, euro 15,49. . GROSSI, ROVANI, BIFFI, Prineide, con un testo di LEONARDO SCIASCIA, a cura di U. Gualdo-
ni, introduzione di E. Paccagnini, 1996, pp. 128, euro 9,30. . Le muse di Montale. Galleria di occasioni femminili nella poesia montaliana, a cura di G. Baldissone, con antologia, 1996, pp. 104, ill., euro 9,30. BENITO MAZZI, Nel sole zingaro. Storie di contrabbandieri, 1997, pp. 160, euro 10,33. CARLO CARENA, FRANCO CONTORBIA, MARZIANO GUGLIELMINETTI, Ricordo di Francesco Pastonchi (1874-1953); 1997, pp. 160, euro 15,49.
. ROBERTO CARNERO, Lo spazio emozionale. Guida alla lettura di Pier Vittorio Tondelli,
1998, pp. 144, ill., euro 15,49.
SONIA BERTI, IVONNE MARIANI, Il codice dei colori nella poesia di Montale, saggio intro-
duttivo di D. Marchi e nota di M.L. Spaziani, 1998, pp. 112, euro 15,49. RENATA ASQUER, Fausta Cialente, la triplice anima, 1998, pp. 104, euro 12,91. . Giusi BALDISSONE, Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi, presentazione di G. Barberi Squarotti, 1999, pp. 228, euro 20,66. . GIORGIO BERTONE, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, presentazione di G.L. Beccaria, 2000’, pp. XII-272, euro 20,66.
. Pastonchi, ricordo di un poeta ligure, a cura di G. Bertone, con antologia e una testimonianza di M.L. Spaziani, 1999, pp. 144, euro 15,49. . PIER VINCENZO MENGALDO, GIUSEPPE ZACCARIA, Lingua e stile nell'Ottocento italiano: due saggi, 1999, pp. 64, euro 10,33.
. Il sacro nella poesia contemporanea, a cura di G. Ladolfi e M. Merlin, con un testo introduttivo di M, Luzi, 2000, pp. 104, euro 12,91.
. GIORGIA GUERRA, Maria Corti: voci, canti e catasti, con bibliografia e antologia della critica a cura di C. Nesi, 2000, pp. 160, euro 15,49. La Marchesa Colombi: una scrittrice e il suo tempo, a cura di S. Benatti e R. Cicala, con un
i saggio introduttivo di A. Arslan, 2001, pp. 288, euro 20,66. Salvatore Quasimodo. Nel vento del Mediterraneo, a cura di P. Frassica, 2002, pp. 160, euro 20.
DI STUDI LETTERARI INTERLINEA EDIZIONI — COLLANA A CURA DEL CENTRO NOVARESE
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SALVATORE QUASIMODO NEL VENTO DEL MEDITERRANEO Due sono i nuclei intorno ai quali, in questo volume, si sviluppa il discorso su Salvatore Quasimodo: quello costituito dagli interventi di studiosi che delineano un quadro articolato e criticamente vario sia dell'attività letteraria sia delle esperienze esistenziali di un poeta che ha attraversato un tempo di eventi grandiosi e tragici; e quello dei poeti che rintracciano trame e coordinate capaci di attribuire nuovi significati al lavoro e alla figura del poeta. Chiude il volume un'appendice di brevi testi quasimodiani che segnano alcune tappe fondamentali dell'autore e per questo essenziali alla comprensione del suo itinerario esistenziale e artistico. Testi di Luciano Erba, Lia Fava Guzzetta, Gilberto Finzi, Elio Gioanola, Jolanda Insana, Giovanna loli, Giorgio Luzzi, Alessandro Quasimodo, Danilo Ruocco, Giuseppe Savoca, Paolo Valesio.
euro 20 lire 38 700
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