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Italian Pages 158 [113] Year 2020
SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA 8 REGISTI ITALIANI M.Antonioni F.Fellini M.Ferreri E.Olmi P.P.Pasolini G.Pastrone R.Rossellini L.Visconti e altri saggi 1
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4 IN MEMORIAM “…una cosa v’è al mondo interoSolo ciò, che un cuore ad un cuore Dice in un muto saluto” “…одно на целом свете Только то, что сердце сердцу Говорит в немом привете? ВЛАДИМИР СОЛОВЬЕВ A mio marito Napoli 1 dicembre 2019 5 DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood, Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 ANSIA VIVA – Momenti lirici Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 1: Ingmar Bergman Robert Bresson Andrej Arsen’evič Tarkovskij Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 Volume 2: Shakespeare sullo schermo, Laurence Olivier, Akira Kurosawa,… Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018
Volume 3: Film significato e realtà Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2017-2018 Volume 4: Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico Tra gelo e disgelo & altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2018 Volume 5: Napoli nello specchio del cinema e altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2019 Volume 6: Registi francesi - C.Autant-Lara, J.Becker, R.Bresson… Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2019 Volume 7: Festival di Cinema - Venezia, Napoli - Sorrento… Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2019 6 INDICE IN MEMORIAM 5 Dello stesso autore 6 BIOGRAFIA 10 “A GUISA DI PREFAZIONE…” 12 MICHELANGELO ANTONIONI UNA “WASTE LAND” ITALIANA 15 ANTONIONI IN RETROSPETTIVA 18 L’ULTIMO ANTONIONI: Identificazione di un regista 21 FEDERICO FELLINI GLI SQUALLIDI EROI DEL NOSTRO TEMPO 26 LA CITTÀ DELLE DONNE: un Don Giovanni interruptus 3 5 MARCO FERRERI L’APOCALISSE SECONDO FERRERI 39 ERMANNO OLMI L’ ALBERO DEGLI ZOCCOLI 42 PIER PAOLO PASOLINI PIER PAOLO PASOLINI TRA MITO E REALTÀ
46 PASOLINI VIVO 49 IL PRIMO PASOLINI: Poesia in forma di film 51 RILEGGENDO IL VANGELO SECONDO PASOLINI 59 GIOVANNI PASTRONE (PIERO FOSCO) CABIRIA: una retrospettiva d’eccezione al maggio fiorentino 68 ROBERTO ROSSELLINI IL TESTAMENTO DI ROSSELLINI 73 7 ROBERTO ROSSELLINI : dai primi documentari a “Roma città 76 aperta”(1936-1945) LUCHINO VISCONTI “IL GATTOPARDO” DI VISCONTI 86 IL MERIDIONE DI VISCONTI 93 “OSSESSIONE” E LA NASCITA DEL NEOREALISMO 96 ALTRI SAGGI CONSIDERAZIONI SU UNA DECADENZA 102 IL RETAGGIO CULTURALE DEL “CINEMA” VECCHIA SERIA 105 IL CINEMA NON SI È FERMATO AD EBOLI 113 DAL NEOREALISMO ALLA RICERCA DI NUOVI IMPEGNI 119 NUOVE TENDENZE DEL CINEMA ITALIANO 123 INGREDIENTI DI SUCCESSI DI MANIERA 128 TESTI POLITICI 131 I MISTERI DI NAPOLI 134 A SCUOLA DI SQUADRISMO
137 GIALLO TRICOLORE 139 REALISTI NON FILOTERRORISTI 141 FLAIANO POSTUMO 145 LA NAPOLI D’OGGI: un cubo Rubik per i registi 147 Indice dei nomi 150 Indice dei film 155 8
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BIOGRAFIA Antonio NAPOLITANO (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics” . Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo”1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. 1 “Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo“ intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 10 Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato nel 2014 dalla rivista “Arte e carte”.2 2 Per evitare ogni confusione sul nome, mio marito non ha mai scritto su pagine web come taxidrivers, lospaziobianco, close-up e altre simile. Ne si è interessato a questo tipo di film. 11
“A GUISA DI PREFAZIONE…” FLASH-BACK AL CINEMA, 100 ANNI FA Nelle 1911, agli albori della “Settima arte” già si circolavano in Italia film di vario genere e di un certo rilievo. Negli anni precedenti era senz’altro migliorato il rendimento tecnico degli apparecchi di ripresa e di proiezione e meno balbettante risultava il linguaggio delle immagini in movimento. Cosa vedevano, dunque, i nostri nonni e bisnonni sugli schermi di allora? Certamente si trattava ancora di brevi pellicole mute accompagnate dallo strimpellio di un pianoforte collocato sotto la tela bianca. Su di essa scorrevano inquadrature e sequenze in bianco e nero (con didascalie dai caratteri assai fantasiosi). I locali per il pubblico non erano più quei baracconi da Luna Park dei primissimi tempi, ma ampie sale con sedie e perfino poltroncine. Se ne contavano in gran numero a Roma come a Napoli (70) e a Milano come a Torino. Molte erano le pellicole importate dalla patria dei Lumière. Oltre al “Werther” di H.Pouctal, riscuoteva un notevole successo “La regina Elisabetta” con Sarah Bernhardt (regia di Desfontaines e Mercanton). Avevano un loro spazio anche i feuilletons di “Zigomar” nonché le eleganti pantomime di 12 Max Linder, dalla sottile satira sulla psicologia e sul costume dell’epoca. Popolari erano le comiche di un André Deed (Cretinetti) e di F.Guillau-me ( “Tontolini” ). Dall’America giungeva, nel 1911, il poema cinematografico “Enoch Arden” di D.W.Griffith (da Tennyson). In tale opera -ricorda Lewis Jacobs- spicca l’assoluta novità del “primo piano” , usato come elemento di impatto emotivo. E un’autentica curiosità era costituita da “Little Nemo” uno dei primi cartoni animati di W.Mc Cay (ben più elaborati di quelli di E.Cohl). Naturalmente, la maggioranza dei film visionati era di produzione italiana. “Nozze d’oro” di L.Maggi era un caso interessante di narrazione in prima persona. E dignitosa appariva l’interpretazione da parte di Alberto Capozzi e Ma-ry Tarlarini. All’ordine del giorno era il saccheggio delle opere letterarie (riduzione in 300-500 metri di romanzi e poemi, dal “Quo vadis” di Guazzoni alla “Gerusalemme liberata” . Con una vera e propria cerimonia, nel settembre 1911, veniva presentato - a Napoli - “L’inferno” di Bertolini e Padovan (e, tra i presenti alla “prima” si notavano Benedetto Croce, R.Bracco ed E.Scarfoglio). In un circuito più limitato venivano visionate le pellicole realizzate dalla regista napoletana Elvira Notari e da R.Troncone. Proprio in quell’ anno d’un secolo fa faceva la sua apparizione sullo schermo, R.Viviani in “Testa per testa” . Più rari erano gli eventi cinematografici in arrivo dal Nord Europa: il danese “Abisso” di Urban Gad con Asta Nielsen e una “Anna Karenina” di V. Gardin, autore russo purosangue.
Intanto, muovevano i primi passi le nostre Francesca Bertini (detta ancora “Cecchina” ) e Lyda Borrelli ( “la cui lingua è il corpo umano nella sua plasticità rinnovantesi” (annotava A.Gramsci). Insomma, si può dire che nel 1911 il cinema occupava già una porzione importante dello spettacolo ed esplicava una sua funzione, come alterna-tiva non sempre banale alla lettura e alla conversazione. E si andava affermando con la sua capacità di comunicare storie ed emozioni in modo vivido ed immediato, contribuendo all’evoluzione culturale dell’intera società umana. Napoli, 20 aprile 2011 13
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UNA “WASTE LAND” ITALIANA In “Significato del colore” , Eisenstein è il primo a menzionare il cromatismo di Eliot, l’uso associativo che il poeta inglese ne fa, manovrandolo con ricchezza di riferimenti e di allusioni. Ed è a Eliot che si pensa, vedendo l’ultimo film di Antonioni, non solo per il colore ma per l’omogeneità d’atmosfera, per quei salti stilistici dal coscienziale al domestico, per il deliberato sproporzionamento degli scatti d’animo alle piccole incombenze quotidiane. “Il nebbione giallo che lambisce colla schiena i vetri delle finestre / il fumo giallo che stropiccia il muso contro i vetri delle finestre / ha sbava-to con la lingua gli angoli della sera / ha vagato sulle pozzanghere che ristagnano nei canali / si è lasciato cadere addosso la fuliggine dalle ci-miniere”. (The Love Song of J.Alfred Prufrock). La retrodatabilità cronologica non deve meravigliare troppo se si pensa che l’Inghilterra, verso il ’20, presentava con grande anticipo sull’Italia ’60 una industrializzazione diffusa, emergente coi segni del fumo, del grigio, dell’angoscia. In questo senso Antonioni ha fatto un’operazione culturale autentica, trovando nella trasmutazione di climi diversi un’uguale risonanza di situazioni obbiettive: la Ravenna del petrolio, dello “assemblage” industriale, del nebbioso canale Candiano è diventata una “waste land” italiana, dove per Giuliana, come per Prufrock, “ci sarà tempo, ci sarà tempo - di preparare una faccia per far fronte alle facce che incontri - ci sarà tempo per uccidere e per creare - e tempo per tutte le opere e i giorni di mani - che t’alzano e ti lasciano cadere una domanda sul piat-15 to… e tempo ancora per cento indecisioni - e per cento visioni e revisioni - prima di prendere il pane tostato e il tè” . Il mondo è lo stesso, un pianeta che sembra fuori del tempo, fuori delle consuetudini eppure ci è familiare; i conti da fare con la nostra mancanza d’amore, con l’accidia; la nevrosi che chiede di, credere in qualcosa, che tenta una ricerca pur partendo dal livello della estraniazione e della dispersione. Ambiguità, soprassalti a vuoto di una classe che è una particolare zo-na della borghesiae che Antonioni lascia scorrere sotto vetro, senza incidere la polemica all’esterno del problema, ponendosi anzi con trasporto autobiografico all’interno delle vicende. Un linguaggio che però vuole chiarire il male oscuro con una scrupolosa, ripetitiva precisione, con un allontanamento progressivo da ogni formula stracca o irresponsabile. I momenti sono monotoni come appunto quelli di una “vita misurata con cucchiaini da caffè” , in una “unreal city” , dove ci si scontra con “un mucchio di immagini infrante” , dove “l’albero morto non è rifugio, nè il grillo consola- nè l’asciutta pietra ha suono d’acqua - solo sotto la rossa roccia c’è ombra” . Ma mentre nel lirismo profondo di Eliot si leggono tentazioni metafìsiche - sempre presenti quando la solitudine è egocentrica -, in Antonioni il giudizio non manca anche se è insinuato all’interno: così il week-end dei ricchi, lascivi borghesi è la chiave che fa scattare i congegni remoti e presenti della loro impotenza umana e l’angoscia è questa malattia della moralità, questo avvilire ogni valore, questo “alimentarsi dei fallimenti economici e sentimentali degli altri” per poter continuare il proprio basso (e assurdo) giuoco. Lo stesso “escape” presente in Prufrock, vive nella sequenza della favola a colori “pubblicitarii” , con la giovane anadiomene che vaga fra mare smeraldo e sabbia-oro: “Abbiamo indugiato nei recessi del mare - accanto a fanciulle marine inghirlandate d’alghe rosse e brune - finché voci umane ci destano, e noi affoghiamo” . I colori del sogno sono limpidi come un’ipotesi astratta, come una realtà fissata dalla nostalgia, come lo splendido momento che è destinato a dissolversi: si può giustificare così questo pedale onirico alla “waste land” , anche se da un punto di vista strutturale può sembrare troppo esplicito, troppo contrapposto: un ritmo col quale si corre l’alea di scomporre il metodo rappresentativo che trova nella monotonia una coerenza in profondità. La mancanza di svolgimento è, infatti, possibile
perchè intrinseca al-la situazione d’impasse, al labirinto della coscienza che ripercorre su se stessa vie sempre più impervie. 16 “Trovare un amico che abbia queste qualità / che abbiae dia / queste qualità di cui l’amicizia vive, / quanto significhi a me dirvi questo: / senza quest’amicizia la vita è incubo” . ( “Ritratto di signora” ) Giuliana che era stata dapprima Vittoria ( “L’eclisse” ) e Valentina ( “La notte” ) e Claudia ( “L’avventura” ) è questo ritratto che viene a comporsi con sempre maggior precisione, con ritocco dei dettagli, con motivazioni ravvicinate. La nevrosi è la sovrastruttura psichica della terra desolata, per cui non occorre sottolineare svolte del destino, basta ad esse accennare solo casualmente dato che ciascun attimo della vita è di estrema tensione e può da solo configurare l’approdo di tutta un’esistenza, il bilancio verso cui spinge una pur minima consapevolezza. Il personaggio femminile è quindi il risultato non solo di un’atmosfera ma di una nuova drammaturgia, e ciò spiega la frattura che s’instaura con un pubblico assuefatto a formule codificate, frattura identica a quella che originava dalle strane scansioni, dalle strane intermittenze dei personaggi di Eliot. I complessi, le frustrazioni, i disadattamenti di una certa classe sociale, la sua incapacità a costruirsi un nuovo concetto dei valori, il gusto anzi di vedersi deteriorare quello antico sotto il proprio sguardo senza resistere, senza muovere un passo è il sintomo e la premonizione dell’epoca. Viene così ribaltata la grande pietà che Antonioni adunava, quasi sugli stessi luoghi, per il protagonista de “Il grido” , opera che solo in senso esterno può essere considerata come un’anticipazione o un antefatto del “Deserto rosso” : lì era una delusione involontaria, non ottenuta con coerenza quotidiana di atti; c’era anche lì distacco dalla natura, dal verde ma si mostra-va nell’ambito di moduli più chiusi, più tradizionali, era dramma che ane-lava e meritava una catarsi; qui nella “terra desolata” di Ravenna, ogni purificazione giustamente manca e non potrebbe aversi, perchè si tratta di un dramma che risucchia nel suo sistema venoso l’impossibilità di una soluzione estrema, di qualsiasi natura. Per Prufrock, come per Giuliana, l’angoscia è una diatesi morale, per cui la diagnosi equivale alla prognosi, e il caso è caso-limite solo nel senso che non è questione di colpe individuali, ma di contingenze collettive da rimuovere. Napoli – Cinemasud, 1 giugno 1966 17 ANTONIONI IN RETROSPETTIVA Con “Cronaca di un amore” (1950) si è aperta la retrospettiva TV dedi-cata ad Antonioni, sul quale non parrà inutile tornare, dato che si tratta di uno degli uomini più rappresentativi del cinema italiano del dopoguerra, eppure spesso frainteso ed ironizzato da più di un criterio o banalizzato nel riduttivo monomio dell’ “incomunicabilità” . Come rivelano subito le sue prime cose, perfino i cortometraggi, il temperamento è quello di un moralista moderno votato ad una sottile razio-nalità in cui le istanze etiche nascano al di fuori di ogni denuncia o polemica prefabbricata. Il linguaggio, di conseguenza, è teso, rigoroso quanto più lontano da schemi o formule stracche, casuali, irresponsabili. Pur senza partire da presupposti ideologici, Antonioni arriva sempre ad un giudizio, ad una critica incisa all’interno del problema stesso: come il primo lungometraggio, anche “La signora senza camelie” , “Le amiche” rivelano certe situazioni della media ed alta borghesia, fino ad allora paten-temente mistificate ( “I telefoni bianchi” ), così come “I vinti” evidenziano un mondo espropriato, deformato, (di esseri alla deriva, attesi da una ri-sacca tra il bianco della rabbia e il grigiore della resa. Con una netta decisione mentale, lo sguardo del regista investiga su quella parte di società che presenta, anche a causa dei troppi privilegi, configurazioni transitorie e verità e traguardi effimeri. (La struttura socio-ambientale di “Ossessione” era tutt’altro discorso). Il veicolo stilistico si concreta in quella impassibile e cristallina lucidità che venne da molti allora equivocata per gelo intellettuale ed è proprio ciò che consente ad Antonioni di arrivare alle
giunture intime delle emozioni, a individuare nello snobismo sprezzante, nella voluttà del parassitismo un vero e proprio processo di disgregazione molecolare delle personalità. La flagranza di certe inquadrature, la compattezza degli elementi plastici servono a comporre sequenze che scandagliano come bisturi lo spaccato sociale: le riprese a piombo delle fuoriserie, i dettagli degli appartamenti di lusso. Anche luoghi non eccezionali, come - in “Cronaca di un amore” - il campo di rugby, i bordi dell’Idroscalo o del Naviglio sono simboli oggettivati degli scompensi dei protagonisti, già dispersi in questo deserto incolore e arido che è la proiezione della loro cinica e amara esperienza del mondo. E addirittura gli abiti di Paola risultano chiaramente determinati in vista della scena in cui debbono apparire, come significanti estroversi del suo inconscio. 18
19 Ne “Il grido” , nonostante i conflitti di impostazione, il travaso cioè di una coscienza intimista in un operaio, la situazione di profondo disagio, di nevrotica perplessità preletale è resa attraverso la rappresentazione delle cose, delle atmosfere fasciate sempre di una luce particolare, di chiaroscuri predicativi che sono le sigle originali della narrazione anto-nioniana.
Esse preludono ai lancinanti soliloqui su sfondi vuoti, calcinati delle opere successive (anni ‘60) nelle quali l’obbiettivo si addentrerà sempre più in zone di autoalienazione borghese. Antonioni riesce a caratterizzare i ritmi comportamentali con un uso particolarissimo del tempo cinematografico: un tempo dilatato, immobi-lizzato, che comunica allo spettatore “l’angoscia del non-tempo” , come da parte di chi si senta inchiodato ad una sola dimensione della sua esistenza e non possa reagire in alcun modo. Perciò i tornanti delle vicende sono solo accennati occasionalmente o per anticipazioni, come in “Cronaca” le due morti accidentali e insieme volute, spostate ai poli della trama per focalizzare meglio gli avvenimenti sotto inchiesta. E i timori e tremiti di queste persone, i loro inutili soprassalti di colpa non sono vapori metafisici, fuori della storia a noi contemporanea; essi rendono proprio quella temperie degli anni ‘50 che sta sotto il segno egemone di una classe ben precisa. Antonioni ne registra con morsure d’acquaforte in bianco e nero la rinnovata rapacità e cecità con cui essa esce dal dopoguerra per restaurare il gelido egoismo del suo benessere, al di là di ogni patto per il progresso collettivo e ponendo così fin d’allora le premesse per l’attuale crisi. Napoli - La Voce della Campania, 5 marzo 1978 20
L’ULTIMO ANTONIONI Identificazione di un regista Antonioni insiste senza ripetersi. In “Identificazione di una donna” si possono rintracciare i nuclei tematici delle sue opere precedenti che corrivi recensori vanno oggi rileggendo con maggiore accuratezza. Il regista ferrarese, giunto alle soglie dei settanta anni, resta coerente col suo pensiero visivo, pur riformulandone i segmenti sul piano del contenuto narrativo. Il nuovo diagramma filmico è referenziale ad una situazione socioindividuale ancor più deteriorata di quella dei tempi de “L’avventura” o de “L’eclisse” . Si può, comunque, anche stavolta scartare il criterio riduttivo o banaliz-zante della “incomunicabilità” , quel monomio simile più ad un ferro da scasso che ad un sottile grimaldello critico. In “Identificazione di una donna” , l’intersecarsi del discorso dell’autore con quello del personaggio-regista è esplicitato senza velature o pannelli criptici: una mutazione di fondo che sarebbe imprudente sottovalutare. La crisi del protagonista, la sua spassionata ricerca della dimensione femminile rinvia, senza perplessità, alla probabile entropia del mondo. Sotto le strutture incrinate, Antonioni intende cogliere i segni e i sintomi nasco-sti, al di là di ciò che è percepibile a colpo d’occhio. L’idea di una figura muliebre è il centro di un cerchio discorsivo che è concentrico a quello che Antonioni nel suo idioletto, nella sua “parole” : egli e il suo alter ego filmico conducono la stessa indagine anche se non percorrono le stesse vie e se non usano identiche bussole. 21
La lente dell’obbiettivo arriva ad una sorta di contemplazione “matema-tica” delle vicende, per cui anche personaggi minori come la sorella del protagonista o il bambino sono elementi di una equazione algebrica tra sentimenti serrati in una parentesi oscura o indistricabile. Riappare, così, quella cristallina lucidità del regista che già ai tempi di “Cronaca di un amore” o de “La notte” veniva equivocata da non pochi per gelo intellettuale o snobistico distacco dai fatti della realtà. Si tratta invece, della sicurezza estrema dei propri stilemi, della lucida capacità con cui il regista governa il contesto fotodinamico, si tratta dell’equilibrio con cui domina e visualizza ambienti, comportamenti, rapporti umani anche allo stato allotropico. Da essa proviene quel senso di organicità naturale dei segni iconici, in cui viene innescata spesso una ben rit-mata reazione a catena: nei fotogrammi antonioniani si riconferma che l’insieme è assai più della somma delle parti: l’inquadratura è un reticolo di associazioni, correlazioni, intrecci, rinvìi. L’asse paradigmatico è quello sul quale si connettono le componenti visuali e figurative selezionate con rigore e in proporzione alla loro pregnanza, (riferimento e simbolo inter-agiscono biunivocamente). Così la dualità dell’articolazione si avvale dello spazio tempo per recuperare altri piani di emozione e di memoria. La contrazione del codice lessicale, cioè quella deliberata messa a fuoco di pochi personaggi e di pochi oggetti semiotici tende, con chiara in-tenzionalità alla condensazione fraseologica, all’intensificazione comu-nicazionale. Serve anche a scansare quella moltiplicazione illimitata dei messaggi che può portare ad una confusione nella ricezione, cioè a quel 22 “rumore” fotodinamico tipico delle “macedonie audiovisive” in TV. Da ciò l’alta concentrazione sulla cinesica femminile, cioè l’attenzione profonda alla fisionomia delle ragazze incontrate dal regista-personaggio da quella impaurita a quella indifferente a quella scostante della piscina. Il postulato basico è quello da autentico romanziere: occorrerebbero molte vite per comporne una veramente interessante. Sotto l’aspetto connotativo, quello più propriamente aggettivale, del milieu o umwelt (che si voglia e non mancano le sfumature semantiche), è da citare l’allegoria del brancolare della coppia nel soffice labirinto della nebbia dopo la corsa in auto verso la casa di campagna. Analogo livello attinge la sequenza del “bussar alle porte” con quelle epifanie facciali che contrassegnano il prossimo come anonimo, sconosciuto, inaffidabile compagno di viaggio sul pianeta-terra. La disperazione acquietata è la cifra nuova che sigla la fisiologia registica di Antonioni: rischio, pericolo, angoscia sono quote naturali del tran tran quotidiano; non ci possono essere nemmeno disvalori dove i valori sono stati azzerati: perciò non insorgono istanze etiche o schemi di denuncia esistenziale, non affiora alcuna indignazione: sarebbe come pren-dersela col sole per i suoi venti di fuoco, le sue macchie, le sue tempeste magnetiche. Il pedinamento cui è sottoposto Milian appare, solo prima facie, immotivato ma è invece lo sbocco della strana ma non atipica ca-sualità giornaliera, il flusso di quelle circostanze minime e semiminime che possono frequentemente determinare svolte nel destino dei singoli o delle collettività. Non c’è rivolta contro l’alterazione dei sensi di marcia perché alterazione significa divenir altro da sé e questo capita così spesso come capitano raffreddori o altre infezioni virali o invecchiamenti.
Con quest’ultimo film, siamo pertanto, oltre la “malattia dei sentimenti” , siamo alla diatesi più negativa del nostro habitat occidentale e perciò si sono spenti anche i conflitti di carattere, i dibattiti psicologici, i contrasti viscerali e sentimentali. Non sembrerà, a questo punto, ridondante qualche osservazione sul “sonoro” di Antonioni: esso è ben finalizzato alla precisazione del protagonista (la voce sgradevole di Milian come emblema autentico della sua interiorità, (tra l’altro, una riuscita riumanizzazione di uno dei più spurii prodotti del divismo subculturale a galla del cinema-spazzatura). E anche il silenzio è un procedimento linguistico usato come controllo delle metafore o delle allegorie narrative, oppure come rinforzo della qualità “strati-grafica” dei fotogrammi. Essi ne ricavano talvolta uno spessore inconsue-23 to, una durata che esorbita dalla pura cronometria (quei crescendi metro-nomici appannaggio tecnico ma poco estetico dei telefilm targati USA). Le parole sono volutamente sporadiche, opache o spezzate e le frasi emergono dalle inquadrature come enunciati sentenziosi o aggrovigliati, metamerici o balbutenti eppure servono a massimizzare il livello di globale coerenza espressiva. Nel tessuto discorsivo Antonioni ha saputo filigranare cento pause significative, interruzioni, false partenze fonetiche, momenti di mera afasia: la sua “kunstwollen” che da sempre gioca in offside rispetto alla mimesi naturalistica di un certo cinema italiano. Il percoso diegetico sembra imprevedibile eppure si chiarisce man mano che ci si addentra nel fitto reticolo della narrazione, perché il flusso spaziotemporale è il topos effettivo di questi microeventi e non una scenografia di comodo o un puro sfondo teatrale. E così l’identificazione fallita non è più la sofferenza della lacerazione interiore ma un’accettazione quasi stoica dei duri fatti che ingabbiano la volontà: un adattamento da disadattati. La via d’uscita va verso il cosmo o verso il caos? La sequenza finale con lo stacco sulla fantascienza, col fossi-le motorizzato che gira attorno al sole non chiarisce nè persuade del tutto: fatta com’è di macrosegni disomogenei al racconto precedente, non può concludere ed è, in ciò, in chiave con la nostra temperie inconcludente e dispersiva. Al contrario, appaiono ben configurate e “riciclate” le “riprese” delle esperienze umane transitorie (le brevi passeggiate e i brevi amplessi) rit-mate secondo un canone arioso, avulso dall’oscena giaculatoria dello hardcore, cui indulgono sempre più numerosi adepti della “camera” . C’è in molti punti di tali sequenze erotiche la leggera vertigine della nervosa carnalità umana, tipica di un tempo quale il nostro che ha solo eccessi di consapevolezza. Nella collisione o nel dialettizzarsi di questi diversi impianti sintattici si ripresenta dunque quello scompenso che Antonioni sottolineava con inchiostro rosso in una delle sue rare interviste: “… tra una scienza tutta proiettata consapevolmente verso il futuro e un mondo morale irrigidi-to, stilizzato… mantenuto in piedi per viltà o pigrizia.” Napoli - Le Arti news, febbraio - marzo 1983 24
25 GLI SQUALLIDI EROI DEL NOSTRO TEMPO Tema dominante della “denuncia” felliniana Nel ’53 mentre declinavano gli slanci epici drammaticamente o lirica-mente fusi nelle opere migliori del neorealismo e alla cui base erano le esperienze di un durissimo conflitto e i travagli e i valori autentici della Resistenza, si veniva affermando qualche nuovo temperamento, qualche nuovo istinto di narratore. La stagione, se abbandonava la splendente zona zenitale de “La terra trema” o di “Paisà” o di “Ladri di biciclette” , non era certo spenta del tutto, non del tutto sommersa dall’ondata di fondo del neoerotismo più tri-viale dei tanti che. in sostanza, andavano compilando un nuovo dizionario della paura. Al di fuori di programmatiche coincidenze, di presupposti sventolanti come bandiere di battaglia, ci si batteva ancora sui bastioni della satira o dell’ironia e i ben centrati neologismi di Fellini avevano appunto quell’acre ma fresco sapore che talvolta è la caratteristica più cifrante di certe lezioni morali. Certo, nell’ambito di una corrente non indifferenziata quale il neorealismo, c’erano già stati alti e bassi, flussi e riflussi e semmai si era presentata qualche interpretazione troppo unilaterale dell’uomo. Ma un motivo o almeno un coefficiente di questo problematico alternarsi di fasi va ricercato nelle diverse se non distinte radici culturali dei nostri più diversi registi. Rossellini, ad esempio, esaurito il suo istintivo e poetico risentimento a quella temperie d’infuocata passione nazionale, quale era stata la Resistenza, sintomo della nostra maturazione democratica, aveva fatalmente ritrovato dietro di sè l’improvvisazione che era naturalmente unita ad una zavorra di ambizioni sbagliate e si era perciò andato arenando sulla sabbia di “Stromboli” , sulla sabbia di una poetica confusa ed intrisa di un vago spiritualismo cristiano, il cui più lampante paradigma doveva mani-festarsi in “Europa ’61” . Visconti, invece, con le spalle ben protette da un solido umanesimo da letterato, aveva ancora a sua disposizione acute metafore storiche e discorsi di conclusa efficacia che, se segnavano una curva nel suo operare d’artista, erano tuttavia segni di evoluzione: si veda “Senso”, l’opera che rappresentava un sfuggire da un modulo di racconto troppo convalidato per testimoniare una volontà di avanzamento verso il realismo più pieno.
Lo stesso Lattuada, esponente dell’artigianato minore ma non per questo meno significativo, nel ricercare le strutture utilizzabili di una 26 narrativa pur lontana dalla nostra nel tempo e nello spazio, sapeva ricol-locarla, trasporla in termini di vivace attualità italiana ne “Il cappotto”, così come Castellani, pur calcolando gli effetti brillanti ed abusando di scaltriti impasti letterarii fra il boccaccesco e il dialettale riusciva a conta-minare col ritmo della commedia a braccio certi spunti sociali di tanti neorealisti nel suo “Due soldi di speranza”. A queste maitriseries, a queste risorse estetiche che richiedono un gusto affinato a furia di cultura, restò lucidamente e sapientemente estraneo, ai suoi inizii, Federico Fellini, evitando le facili reti di un decadentismo in ri-tardo, di un manierismo tutto bravure e lasciandosi invece trasportare nel suo ben lanciato spunto di partenza dal più spontaneo estro di novellatore autobiografico. E infatti sia con “Luci del varietà” (girato in collaborazione con Lattuada) ma in prevalenza suo (di Fellini), sia con “Lo sceicco bianco” ma soprattutto con “I vitelloni”, egli riuscì a rifiutarsi alla mitologia dell’inco-noscibile, quella mitologia che lo avrebbe sopraffatto anni dopo con l’angelicato pasticcio de la “La strada” film che ben disse un critico inglese (meno dedito dei francesi a sbracciarsi per le fumisterie intelligenti) “romantico nel senso deteriore della parola, nel senso cioè in cui Hugo e By-ron, con i loro temi grotteschi e talvolta ironici, sono romantici” ; e in più aggiungerei, con quelle leziosaggini di un idealismo d’accatto che non può fare a meno di tralignare in un misticismo di seconda o terza mano. (Ci sarebbe da chiedersi, anzi, se Fellini non venga sviato periodicamen-te dalla rischiosa idea di fare della moglie un Chaplin in gonnella: dove compare con tutta la sua più pesante presenza la Masina, fa infatti capoli-no quella sorta di lirismo fasullo). Perciò ne “I vitelloni” c’era la linea retta dell’ispirazione felliniana, visto che alle pericolose ellissi de “La strada” si innestano gli echi saldamente vitelloneschi de “Il bidone” e a “Le notti di Cabiria” (del resto già in tono di più dimessa metafisica) risponde la graffiante incisione barocca de “La dolce vita” , che ha riconfermato il ripensamento e il ritorno di Fellini ai temi e allo stile che a lui più si attagliano. Fellini, infatti, come tutti i non letterati, come tutti gli artisti tempera-mentali, sa narrare soprattutto le cose e gli stati d’animo della sua vita personale e di tale caratteristica d’impronta risentono indubbiamente sia “I vitelloni” che “Lo sceicco bianco” che “La dolce vita” . Ed è stato sempre in tali casi che gli è riuscito di scansare le secche dello pseudo-lirismo e di concretare schietti e corrosivi ritratti contemporanei, 27
28 ritratti in bianco e nero visti in luce di flash, di personaggi a lui vicini, da lui conosciuti, immagini captate con uno sguardo sincero, in uno specchio a più facce. Un’arte come esperienza che deriva dalla più immediata ma non per questo necessariamente epidermica sensibilità del regista alle cose che si volgono intorno a lui e che sono da restituire di scatto, in forme di folgo-rante cinecronaca o di rotocalco animato d’humour nero. Un fare insomma che deriva da una capacità ricettiva e proiettiva piu che da quel talento creatore, evocatore, limatore che è appannaggio dei narratori oggettivi e dei fabulatori. A sua completa disposizione, in questi casi riusciti, Fellini si trova una nativa vocazione alla caricatura che, in lui, però non approfitta della facile deformazione ma si avvale piuttosto della sottolineatura ironica e ironica-mente tenera; a ciò si aggiunge quella sua facoltà d’indovinare di getto tutta un atmosfera e quell’arricchirla di notazioni, di scorri, di battute che fanno da spia a tutto un costume se non ad una moralità. Accade naturalmente che alcuni di questi fuochi di S.Antonio si rivelino fuochi fatui, che si accendano e spengano in un rapido, troppo rapido volgere di sequenza e che ci siano addirittura di pleonastici (quella macchiet-ta trasognata di scemo da paese, ne “I vitelloni” , che accompagna l’avventura del furto dell’angelo e che è forse una Gelsomina allo stato embriona-le, quel neo pseudo-lirico che è come un vizio adolescenziale non ancora vinto dallo autore). Ma proprio ne “I vitelloni” i pur numerosi scompensi non riescono a bruciare il saporoso ritratto in panoramica di tutta questa nostra provincia semiaddormentata, dove i sogni sornioni, le quotidiane fughe nella meschinità di alcuni cronici sfaccendati riescono persino a colorirsi di idillio, di rimorso, di senso del dramma e in ultima analisi di umanità. Anche se un po’ di nostalgia per il buon tempo andato assale a tradi-mento il giovane regista (ed è chiara in tal senso la figurazione dei genitori e di tutta la generazione anziana) la nota dominante resta ora squillante ora in sordina) quel suo sicuro anticonformismo, quello svelare a strappi tutto un bovarismo maschile che si logora sui logori panni del biliardo, che s’accontenta di un dongiovannismo ancillare o meretricio e non tenta, se non nel piagnisteo, una virile conservazione con sè stesso, tranne che nel personaggio un po’ ostentatamente positivo. Ma se la satira di Fellini ha un tocco lieve, addolcito da un tono quasi partecipe e pensoso di quella solitudine, di quello scialo di vita giovanile certamente vana più che crudele, il controcanto non va sottovalutato e la 29 mediocrità contrabbandata da goliardia viene fuori tutta e pesa sullo spettatore cui si profila chiaramente lunga e tediosa quanto una inutile vita d’uomo. Mentre certi simboli si appesantiranno ne “La strada” in un facile manicheismo da favola, in una polarizzazione di comodo fra puri folli e esseri bruti fino alla subumanità, ne “I vitelloni” e nei rami buoni che da esso discendono c’è invece la gradevolezza di un bozzetto tutto nostrano,
intessuto di ben lievitate intenzioni, di note che mettono a fuoco le figure e hanno il pregio di non partire da dati di una polemica troppo rigida. Quel film di Fellini, finora forse il suo più concluso, rappresenta la nascita e la piena vitalità di un temperamento autonomo, legato per i suoi fili buoni alla nostra tradizione più schietta del novellare cose amare ri-dendo nè va dimenticato, ad esempio, che è stato proprio Fellini a dare avvio e quadratura a quel talento e a quella tipologia comica del “vitellone a vita” che è ancora oggi Sordi e che è andato arricchendo l’àraldica del suo personaggio di quelle banalità, di quelle amorali astruserie, di quei bighellonanti qualunquismi che sono le radici provinciali di ogni vizio italiano e non solo morale, ma politico. Che Fellini non sia De Sica o non sia Zavattini è polemica sterile da ta-gliar subito via con un colpo netto, per evitare di porci a risolvere pseudo-problemi; o semmai è un paradosso da ribaltare: “a contrario”, proprio questa polemica potrebbe dimostrare che Fellini ha avuto ed ha una sua cifra personale, quel senso del documento del costume, quella penetrazione in certi angoli polverosi o viscidi della superficialità cattolica, antiri-formistica, quello sgretolare spesso con un sorriso insieme spietato e ab-bagliante quella tracotanza scettica di tanti italiani. Ne “Il bidone” i vitelloni invecchieranno senza mai diventare adulti, porteranno sul filo del rasoio i loro scherzi, sconteranno la loro inerzia (la forza d’inerzia è l’unica loro forza) con un più duro e, in fondo, ben meritato destino. E che Fellini non sia un moralista “sui generis” ma un moralista risulta, ad esempio, da una sua aperta confessione più che intervista (in “Film 1961” ) quando, dopo aver detto di credere che parlare alla folla è sempre parlare ad ogni singolo uomo che quella folla compone, prosegue “Credo che sia più morale - e più importante - mostrar loro, diciamo così, la vita di un uomo. Allora ognuno secondo la sua sensibilità e sulla base del suo sviluppo interiore, potrà trovare la propria soluzione”. I film di Fellini, pertanto, se vengono situati nella loro data esatta, in quegli anni di crisi, messi cioè sullo sfondo dello infiacchirsi e banalizzarsi di 30
31 buona parte della produzione cinematografica di quegli anni, assumono un loro indubbio valore; nel momento in cui la commedia cinematografica italiana, perduto l’impegno di “Anni difficili” o dello stesso “Miracolo a Milano” o la sorridente finezza di “Sotto il sole di Roma” cominciava ad estenuarsi in una retorica velleitaria che giuocava ai bordi di una pornografìa per adolescenti, quei titoli erano un apporto concreto alla resistenza almeno sul piano del buon gusto. Ma oltre questo, c’era il discorso personale e pungente col quale si mettevano in luce, nella chiarezza dei bianchi e dei neri l’accidia perniciosa di questi eroi del nostro tempo sempre incerti fra la stecca del biliardo e il manganello tricolore e insieme un ben costruito giudizio, una seppur crepuscolare ribellione in un Moraldo ma soprattutto in quel senso di angoscia, di tetraggine, di dura noia che alla fin dei conti o della bella stagione sul mare finisce con l’opprimere, con l’avvilire i vitelloni. “Tu non sei nessuno” , griderà Sordi, finalmente sveglio nella grossa sbronza “noi non siamo nessuno” e gli fa da eco sincera quella sorta di catastrofe ironica e depressiva del plumbeo mattino che ha incalzato da presso il risibile ballo a teatro. Perciò si può asserire, che ad uno sguardo meno in superficie, persone, ambienti, azioni di questo regista s’investono di una loro critica interna che nasce dalle piccole cose, dai piccoli tratti di spillo dati qua e là e non sventola ostentatamente come una bandiera piantata sulle rovine del male. L’inautenticità di questo vitellonaggio appare chiara a chiunque sappia o voglia intendere ed e figlia e madre di quell’arte amara del dolce far niente, della fradicia e ingenua astuzia nazionale, male endemico in un paese di furbi che restano fuori del giuoco. Da lì è venuta fuori la panoramica al flash della “Dolce vita” dove vengono smascherati in tutta la loro nullità i paradisetti artificiali di Via Ve-neto, che rappresentano quasi la punta avanzata di una atrofizzazione morale che si va diffondendo nel paese, i cui elementi si colgono nelle facili idolatrie o mitologie da rotocalco. Siamo di fronte alla linea buona, quindi, a quella che parte da “I vitelloni” , piena del senso di una cronaca sulla quale più si affiora e più si viene a perdere peso specifico e consistenza, quasi perline di un futile giuoco, esseri disabitati dalla coscienza, che godono solo a porre specchi davanti a sé, specchi che non possono finire se non col deformarli e col rivelare le loro smorfie di maschere deluse. “La dolce vita” è la parabola della perdita d’intimità, di chi ad essa ha rinunciato per morboso esibizionismo o per 32 quel mal di vivere, quel maleficio di voler protervamente rifiutare il positivo, il lavoro, che resta oggi l’unica possibilità per l’uomo di creare se stesso e di creare in se stesso rispetto e fiducia e comprensione, di conci-liare, insomma sè soggetto con lo oggetto esterno del mondo e con gli altri. Senza di esso: i gorghi delusorii dello snobismo, della fatua eleganza, del sesso ridotto a passatempo o a un labirinto di sensazioni senza contenuti umani. Affresco quindi del male del secolo, la artificiale intensificazione del ritmo vitale, che si fa sperpero e dissipazione stupida in un ceri-moniale notturno “aristocraticamente” alienato: quell’alienazione che è il conformismo al livello mondano dei mostri sacri calati nella notte che splende d’indifferenza, di vuoti brillii al neon. Così Fellini scopre, e forse proprio perchè non se l’era proposto e credeva di fare, in buona fede, un suo discorso privato, scopre le contraddizioni di un ambiente verso il quale purtroppo si dirigono i sogni di quanti restano inconsapevoli della loro quotidiana salvezza nel lavoro.
E non poche volte si lascia sopraffare da un senso di cristiana pietà e gli viene a mancare allora la giusta dose d’indignazione: ma lo stile ha tutto il vigore di un’attualità portata all’estremo delle sue risultanze, donde le folgoranti visioni di cronaca (dai fenomeni di isterismo erotico a quello religioso a quello degli astratti furori di certi circoli letterarii romani). Il dramma di Marcello è il dramma coscienziale di un Moraldo che ha tradito, in città, la sua vocazione e deve testimoniare minuto per minuto la sua e l’altrui pochezza, in un clima cui e difficile resistere e cui è difficile voltare le spalle e che l’ha bruciato col suo falso calore. Un personaggio, invece, che rivela difetti dell’altra strada è quello di Steiner, una figura che per troppa letteratura, resta estranea all’estro umoroso e reattivo di Fellini e che non riesce a inserirsi nel ritmo sbal-zante e sbalzato del film, e rappresenta proprio l’impastoiarsi del regista nei suoi preconcetti lirico-metafisici che sono la palla al piede del suo ve-ro temperamento, l’inceppo che assunse appunto sproporzionate ambizioni ne “La strada”. “La dolce vita” è invece, senza dubbio un saggio della capacità di riassumere da vicino un mondo amato-odiato, di compendiarlo in immagini di nitido, spiccante, aggressivo reportage nonchè di trasformare logori clichés di attori in personaggi non convenzionali e, occorre ammetterlo, a noi contemporanei. E il successo del film, meritato, ha servito bene a svelare l’umana illu-sione di Fellini di aver detto tutto, di aver esaurito il suo discorso con “La 33 strada” , come lui stesso ebbe a scrivere nel ‘55 confermando una volta di più che l’artista non può fare da commento a se stesso. Ed è per questa ragione che, nonostante certe genericità, certe fram-mentarietà, la strada che noi preferiamo è quella sulla direttiva già espo-sta che va dallo “Sceicco” a “I vitelloni” a “Il bidone” a “La dolce vita”, nonostante l’inserirsi anche in essi di evidenti squilibri dovuti ai soprassalti di umore metafisico che ribaltano dall’altra carreggiata. In queste opere, e in quelle che verranno, e che paiono incamminate anche esse sulla buona - per noi - strada bisogna riconoscere che questo regista ha saputo restituire con un’onestà impastata d’ironia amara e tenera, partecipe e irritata, una buona porzione della nostra stratificata indolenza e della nostra vana dolcificazione e ha saputo dar ampia misura alle sue native doti di cronista di un’epoca difficile cui ha reso testimonianza con slancio, se non con genio. Napoli - Cinemasud, 1 maggio 1962 - Il Mattino, 6 agosto 1965 (versione corta) 34
LA CITTÀ DELLE DONNE Un Don Giovanni interruptus Con “La città delle donne” Fellini torna su temi a lui familiari. Come al solito, il regista riformula e configura le parti del discorso secondo il suo stile “onirico” , eppure nessuno sa come lui quanta lucidità, quanta strategia occorrano per procedere alle riprese e per governare comparse, elettricisti, primarii e comprimarii sull’immenso set collocato a metà strada tra l’immaginazione e la tecnologia. Un po’ di sollievo glielo dà Mastroianni, suo alter ego ventennale, che risuona come uno Stradivari nelle mani del maestro, docile, remissivo, archeggiante proprio come lo svanito dott. Snaporaz che
è il protagonista del film in questione. Da buon Don Giovanni ’80, egli attraversa tutto il limbo (o antinferno? ) dell’universo muliebre, con procedure erotiche in prescrizione e con cento candori di adolescente mammarulo. Si spiegano così tutti gli amplessi interrotti di questo sedicente seduttore che dovrà sperimentare molte stupefacenti sorprese: il marziano è lui, come gli spiattella in faccia la bella sconosciuta ch’egli ha seguito dalla toilette del treno fino all’albergo di campagna. Eppure Snaporaz non rinuncia ad esplorare con mente surriscaldata e testarda abnegazione tutti i luoghi deputati della congiura-rivolta del “sesso debole” . Sono le sequenze migliori del film: la sgretolata assemblea dell’Hotel Miramare, un coacervo di solitarie in cerca di capri espiatorii, la splendida carrellata notturna sulle torve fumatrici in macchina decap-pottata, i cui volti acutamente selezionati da Fellini: (una delle sue qualità 35 culminative) restituiscono certe fisionomie in serie della nostra presente massificazione. Al contrario, la danza delle baiadere tettone sembra il ricalco di quella a suon di scudisciate del prototipo “8½” : solo qualcosa riesce a salvarsi per l’estrosa inserzione di un ritmo di “musical” (e la citazione di Fred Astaire è quasi forzosa, in parallelo con i varii revival in corso). La città delle donne ha migliaia di abitanti, certo più di 1003 e d’ogni forma, d’ogni età, d’ogni temperamento: una costellazione che va dal gruppet-to di allegre bimbotte saltellanti nel corridoio del treno, alle atlete, balleri-ne, schettinatrici della palestra. Un’uguale infinità, ma in effìgie e gemiti Ampex, si ritrova nella magione del dott. Katzone (e qui non solo l’episodio troppo insistito) ma ogni battuta risente di qualche lontana vena di goliardia o di Marc’Aurelio. Nonostante ciò, cromatismo, luce e scenografìa mantengono l’alto tono di surreale ben temperato che è la cifra più “d.o.c.” del dott. Fellini. Proprio quando le giuste parole gli vengono meno, egli dimostra di saper manovrare certa pop art e certo kitsch in direzioni inedite e particolarmente allusive. Dà buone prove di saper passeggiare nel delirio figurativo, di saper accendere Luna Park astrail come li realizzerebbero un Klee (rivisitato da Oldenburg) o un Mirò (rivisto da Wesselman). Ma la vita anche qui non è dolce per Snaporaz: anche l’incontro con la violenta anziana contadina (quella dei “semini” ) viene interrotto e la logica del sogno lo risospinge a ricercare la stazione perduta (XIII della Via Crucis? ). Sul suo nuovo percorso sono ancora sguinzagliate terroriste, lesbiche infoiate, avvocatesse e minossi in gonnella: finisce, naturalmente per essere sequestrato e processato. Né le accuse sono tutte infondate: strumen-talizzazione, separatezza, califfismo, gusto dell’assaggio disimpegnato. Resterà per l’idealista Don Giovanni duro a morire, non un commendato-re ma un pallone ginecomorfo che potrebbe trascinarlo “altrove” ; ma una brigatista a tempo pieno si premura di mitragliarlo e… Snaporaz ricade dall’effìmera navicella nel vagone, di fronte all’odiosamato coniuge. Dunque, flussi di coscienza e d’incoscienza dai contenuti ben selezionati e ben strutturati, un flusso onirico ben orchestrato secondo armonie pre-stabilite, con richiami, rinvii e suggestioni di buona marca. Il tutto conca-tenato con una logica stringente pur germinando da nuclei assurdi o paradossali: un dormire ad occhi spalancati, un ripescare, attraverso le ben limate inquadrature, meditazioni intime, agudezas, cattiverie mentali in una coerenza di discorso, in un’organicità di messaggio, in un’ilarotriste indipendenza di giudizio. Col pensiero visivo ben controllato, Fellini ci 36 dice che il seduttore multiplo è un uomo dall’istinto indeciso, un residuo passivo del passato, che non risponde affatto all’immagine proverbiale della virilità. Amico di tutte, perciò amico di nessuna. In un momento di svolte drammatiche anche se spesso non serie, è giusto che i saggi, nelle loro periodiche e sporadiche sortite, possano usare humour, sarcasmo ed autoironia. Con “La città delle donne” , Fellini dimostra di essere uno di quella nobile, stoica schiera. Napoli - La Voce della Campania, 11 maggio 1980 37
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L’APOCALISSE SECONDO FERRERI L’ombelico del mondo odierno è New York, ai confini del medioevo prossimo venturo, coi suoi black-out, il suo uniforme disordine urbano, senza radici storiche, crocevia di espatriati e di spostati. Sullo sfondo della sua sky-line, il profilo basso del cielo che si staglia grigioverde dietro i grattacie-li, Marco Ferreri dispone le pedine della sua più recente tragicommedia ( “Ciao,
maschio!” ) e si riconferma quell’autore visionario, bizzarro ed esor-bitante che riesce a togliere alle sue pellicole tutte le squame dei possibili conformismi. Luigi l’anarchico, Lafayette l’elettricista tuttofare, la sua stupratrice Angelica, teatrante e femminista innamorata, Mr Flaxman che nel suo museo di figure di cera rievoca invano gli splendori decaduti dell’antica Roma. Fuori scorre lo Hudson contaminato, e il torrente del traffico, con l’ulu-lo attenuato delle sirene: la storia è una galleria senza sblocchi, una Babe-le biodegradata, invasa da ratti proliferanti e onnivori. Sull’ultima spiag-gia, a ridosso della megalopoli, atona e semideserta, giace il corpo di Kong, nero arcangelo caduto sulla sabbia dell’oblio umano a verifica della compenetrazione tra realtà e immaginario. E’ un Apocalisse strisciante e anodina quella che in tal modo Ferreri configura per via di ironiche e parodistiche allusioni e che intreccia con risate nere e nastri di verve cochon e di stizzosa allegria. La scimmietta Cornelio, recuperata dal corpo del suo titanico progenitore, è nata il 25 dicembre a mezzanotte: un povero Anticristo incolpevole che si aggrappa al padre pu-tativo Lafayette e che finirà divorato dai roditori. Sono questi ultimi gli ani-39 mali biblici “pieni di occhi” che dilaniano, si inflazionano, inferociscono a loro agio in questi luoghi di luce verdastra in una kermesse di plastica e di cemento, in cui gli orti hanno qualcosa di anomalo e di innaturale. La turbolenza festosa dei personaggi, il denudamento come rottura del limite convenzionale instaurano anche in questo mosaico policromo quel ritmo di trasgressione che è la filigrana più autentica delle opere del regista (da “L’udienza” a “Dillinger” fino a “L’abbuffata” ). E’ un cinema che svecchia la concezione del romanzo con la corrosività delle sue immagini inattese, con l’uso acuto del “profilmico” , la messa in scena del set, le addizioni di addobbi e di arredi - l’incredibile garçonnière di Lafayette o le stanzette dell’ex tipografo, Luigi Nocello. Lo stesso sonoro è risolto in modi sorprendenti: il linguaggio fischiato del mite e mitigante elettricista, l’anacronistico declamato di Mr Flaxman e il concertato degli squittii scimmieschi e topini, senza dire dei suoni esterni opachi o clamorosi che rendono l’audiosfera della Babilonia 78, nella confusa premonizione del Giudizio Finale. Ferreri col suo realismo metaforico rende vivi e pregnanti tutti questi elementi e le loro interrelazioni che, in genere, si possono cogliere solo nei momenti di eccesso: ecco allora la congruenza delle stilizzazioni iper-boliche delle Cleopatre e dei Neroni di sego, destinati prima ad una meta-morfosi in volti dell’attualità politica e infine ad un olocausto di fumo e fiamme. Tornerà forse Neanderthal e il futuro sarà veramente dei topi? Anche il regista sembra evitare profezie assolute e chiude il suo effervescente apologo millenarista sulla visione quieta di una Nuova Eva col suo Abele ai bordi del grande oceano. Il maleficio delle filastrocche cantate dalla vecchia depressa sarà possibilmente sconfitto dai due e “la culla “non” cadrà col bambino e tutto” : sarà stato solo un ulteriore avvertimento ecologico di cui ha inteso farsi portavoce Ferreri. Napoli - La Voce della Campania, 2 aprile 1978 40
41 L’ ALBERO DEGLI ZOCCOLI Il cascinale del Bergamasco in cui si svolge la vicenda dell‘ultimo film di Ermanno Olmi sembra del tutto separato dal mondo. E’ una sorta di Eden agreste, dove le difficoltà, i conflitti umani, sociali, economici sono appena appena accennati, danno riverberi molto attenuati come il sole dell’al-ba alla cui prima luce faticano questi contadini. Questa “atemporalità” è la cifra più in rilievo dell’intera filigrana narrativa. I due promessi sposi, ad esempio, potrebbero anche muoversi nel ‘600 di Renzo e Lucia, anzi il loro viaggio in città è ancor meno “coinvol-to” di quello di chi si trovò all’assalto del forno delle grucce. Eppure l’epoca è quella dei tumulti sociali soffocati nel sangue dal troppo famigerato Bava Beccaris. Questa può apparire una decifrazione meramente “politica” , quindi piattamente contenutistica. Ma la forma delle componenti fattuali di un’opera non è la prima struttura determinante ai fini dell’organizzazione del discorso estetico? E’ proprio, forse, la selezione dei nuclei delle azioni e dei fatti il procedimento primario con cui l’autore dà corpo all’opera, ne delimita i confini, ne traccia l’ordito e il disegno di fondo. Si può dire allora per Olmi quella che Moravia ha detto recentemente per Manzoni: “come narratore è infantile, come scrittore è straordinario” . Infatti, le sovrastrutture descrittive, analitiche sono di fattura notevolis-sima: uno squisito senso della campagna, un’affettività profonda verso questa gente contadina, un uso del colore e dei mezzi toni spesso straordinario. Il modo stesso in cui vengono diretti questi non-professionisti è quanto di meglio si è avuto da “La terra trema” : ed è questo il titolo a cui il rimando è stato automatico per gran parte dei recensori. Ma in Visconti, pur senza ostensioni partitiche, il polso della vicenda aveva un suo battito dialettico, nè veniva ricacciato in secondo piano il senso della lotta. Qui, invece, dietro il rituale ridondante dei rosarii, delle preghiere, dello sfogo magico-cattolico, sfuma e quasi scompare l’oggettiva contrapposizione di questi lavoratori a chi può rovinarli per il solo taglio d’un albero, quello appunto che Battistin abbatte per ricavarne gli zoccoli per il figlio che fa chilometri per andare e venire dalla scuola. Lo stesso miracolismo di cui predica il curato e di cui è impregnata la fabulazione trova un riscontro troppo immediato nella guarigione che la vedova Runk opera con l’acqua da lei
consacrata nella cappella. Ciò contrasta con molte sequenze di duro determinismo: la mattana tutta terrestre per la perdita del marengo, o l’adozione dell’orfanello in uno slancio 42
43 tra umano o di stretto bisogno economico. Le cose più belle, più naturali restano quelle che sgorgano spontanee nell’empito di un lirismo attivato dalla gioia per la natura: il corteo dei bambini col nonno per l’arrivo della primavera o lo stupore pieno di ar-caico riserbo alle sera della fiera e certe inquadrature che riportano a dimensioni meno liturgiche le riunioni vespertine della comunità. Non che Olmi abbia avuta l’intenzione di creare un contrappeso cattolico a “Novecento” di Bertolucci, ma anche nel “L’albero” viene, fuori, seppur di segno contrario, la stessa pesantezza ideologica: lì la lotta era sbandierata senza sosta, qui troppa armonia umana, decoro, troppa accettabilità insita nella realtà (bambini, natura, cose). E’ raro il confronto coraggioso col negativo o traspare solo di tanto in tanto, ravvolto in un’atmosfera che ovatta il dolore, la rabbia, acciò coope-rando la dolce colonna sonora quasi tutta nel nome di Bach. Le potenzia-lità positive sono quindi metafisiche, dati della fede; viene rimossa la ragione che è analisi del molteplice e può chiarire certi oscuri misteri, prodotti spesso di lampanti ingiustizie e privilegi.
Si comprende bene allora perchè il regista si è indotto a visualizzare questo mondo in retrospettiva storica, facendo affiorare la materia dal magma della memoria e dell’inconscio. Una scelta, dopotutto, di buona fede dato che lo spettatore avverte di essere sconfinato dalla regione dura e problematica del presente in una provincia lontana nel tempo o nello spazio. Il paragone con un costume scomparso ha allora un doppio taglio: può risultare proficuo per una riflessione sul degrado di certi valori ma può rischiare di diventare un impossibile nirvana in cui cullare le proprie ango-sce. E questa è una prospettiva di grado zero come quella che, in ultima analisi si apre alla famiglia di Batistin costretto ad incamminarsi nella notte senza mèta dopo lo sfratto impostogli dal padrone, in fin dei conti deus ex machini del destino di questi sfruttati. Napoli - 1978 44
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PIER PAOLO PASOLINI TRA MITO E REALTÀ In felice contraddizione con le sue affermazioni teoriche, Pasolini smen-tisce con “Edipo re” che ci sia una identità completa tra realtà e cinema, che la “realtà non sia, infine, che del cinema in natura”. E stavolta, per lui lo strumento creativo, il medium dì intervento umano sul mondo, sul materiale grezzo che ci circonda è proprio la struttura di un antichissimo mito. Con gusto e consapevolezza di stile egli tenta un “remake” psicanalitico intrecciato a motivazioni autobiografiche e forse apologetiche; ma, occorre subito dirlo, il salto tra un crepuscolare clima di provincia veneta, di guarnigione belle-époque e la atmosfera primordiale e istintiva di un “re Edipo” si rivela come un salto che porta a delle fratture all’interno stesso del corpo filmico. Prese in sé, le prime sequenze inducono solo a sperare che il regista dia un nuovo “Senso” al cinema italiano, tanta è la precisione dei rapporti cro-matici, dei chiaroscuri, dei pochi dettagli scelti a caratterizzare un momento storico-individuale con una densa aggrumazione di significati iconici. La fusione, purtroppo, tra i due filoni viene a mancare e lo spettatore deve operarla da sé, senza i trapassi, le intime connessioni e motivazioni che il realizzatore è tenuto a dare anche al disotto del tessuto narrativo che emerge sullo schermo. Ed è proprio la differenza di spessore semantico che fa rarefare i raccordi e provoca un iato tra le due vicende, quella realistica e quella mitica. Sono troppo sottintese le infrastrutture culturali (Freud, Jung ecc.) che l’artista avrebbe dovuto ordire sia pure con veloci passaggi di spola, connotativi del più vasto problema umano. Sarebbero così meno eva-46 nescenti quelle immagini di genitori presi dalla loro pienezza di vita, cui il figlioletto sembra attentare con la sua sola presenza. La parte tragica quindi non può risiedere in questa correlazione realistica ma deve legarsi alla matrice mitica e qui non sono poche le belle intuizioni visive: “Piedigonfi” appeso come un agnello sacrificale alla mazza del pastore o quella vasta scenografia architettonico-naturale che rende ad un tempo la rozzezza e la grandiosità dei due poli sociali dello ambiente, i re e i subumani. Eppure, non rаrе volte riesce difficile scaricare il serbatoio di immagini classiche a favore di questo mondo preellenico e preegizio; spesso gli “ex-ploits” figurativi del regista danno uno “choc” alla nostra memoria dato che Edipo resta per noi legato alla Grecia e proprio tramite la grande lingua e il grande stile della drammaturgia sofoclea ed euripidea. In questo senso l’acculturazione delle tradizioni diverse sembra quasi irreversibile quando grandi poeti le hanno assorbite e trasformate nei moduli espressivi tipici della loro civiltà. E’ ardua quindi questa operazione pasoliniana di traslazione nel tempo e nel luogo di un mito saldamente posseduto dall’Atene periclea e ancor più rischiosa data la presenza di un volto non convincente nemmeno sul piano primordiale, quale quello di Citti-Edipo. se, come ben dice lo stesso regista, ne “La lingua scritta dell’azione” “le prime informazioni (su) di un uomo si hanno dal linguaggio della sua fisionomia, del suo comportamento, del suo costume, della sua ritualità, della sua tecnica corpora-le, della sua azione….” allora è evidente che siamo di fronte ad una forza-tura mimica, gestuale e comportamentale dato che da un Cittì non si potevano asportare certe stigmate sociali e fisiche in stridente contrasto con il personaggio mitico; né il ricorso ad una cadenza grecula о sicula di dizione basta a riscattare la diversa impostazione recitativa. Ancor più chiara risalta questa sfasatura allorché essa si situa sullo sfondo di ben altre, e più autentiche, tendenze interpretative quali quelle di un Tiresia, scolpito nel suo indomabile fatalismo da un attore del livello di J.Beck. Superfluo о inserito per motivi estranei alla messa in scena un Davoli; viene invece in primo piano, anche se in contrastanti cadenze coreografi-che, la apparizione di una Mangano sempre più
spettrale, più invasa da splenetica insania: la sua impenetrabile figura lunare allude comunque ad una credibile Giocasta. Il film risente di quelle “acrobazie” , “esplosioni di pensiero” , “ambigue suggestioni” che una linguista come la Corti rimprovera alla teoria “bar-baramente abbozzata” da Pasolini, in attesa di un suo più articolato studio sul “cinema come semiologia della realtà” . Ma il mito è forse realtà? 47 Hegel lo definiva “un pensiero filosofico sulla natura del divino” . Potrebbe forse, secondo i dettami della scuola antropologica anglosassone, po-stularsi come una presentazione generalizzata dei fatti che ricorrono con una certa uniformità nella vita societaria: nascita, morte, lotta con la fame, rapporto tra i sessi etc. Un genere di rappresentazione che per essere essenzializzzato e quindi simbolicamente riduttivo è quanto di meno imi-tativo del reale si possa dare. La interpretazione realistica avrebbe dovuto allora toccare le radici della leggenda, le implicanze relative alla lotta tra le stagioni, il substrato più profondo del mito o riagganciarsi, senza soluzioni di continuità, alle premesse freudiane delle sequenze introduttive, dato che la psicanalisi resta sempre un tentativo di razionalizzare i meccanismi interni del pensiero mitico. In assenza delle prospettive di “una volontà morale illimitata” (Edipo) e data l’interruzione del ritmo compatto dell’azione simbolica (avendo ad essa voluto suturare i richiami alla vicenda moderna), rimane solo la “self-coddling” verità dell’eroe come capro espiatorio e grande veggente (e il cristian-marxismo del regista); rimane oltretutto la genericità dei facili aforismi metastorici per cui le zone tragiche della vita umana sono per natura limitate di numero, cosi che le rassomiglianze tra storie di epoche diverse e sotto cieli lontani sono inevitabili. Pasolini, dunque, nonostante il suo talento e la sua raffinatezza di visione, si è tagliato davanti a sé proprio l’elaborazione contemporanea del mi-to, approdando ad una giustapposizione di narrazioni e non certo ad una ristrutturazione semantica della fabulazione. Si conferma di nuovo quanto ha notato uno studioso come il Lepschy a proposito della disinvoltura estrema che traspare nelle trattazioni linguistiche da parte di certi operatori culturali. Alcuni di questi, come Pasolini, intendono utilizzare troppo frettolosamente certi strumenti di analisi epistemologica e per poca gloria scientifica abdicano anche alla loro coerenza d’artisti e alla loro chiarezza d’autori, volendo giuocare - con un gusto del pericolo tutto nostrano - su due tavoli diversi se non contrastanti e finendo col fare due discorsi diversi come dei ventriloqui brillanti ma confusionari. Napoli - Il Mattino, 24 novembre 1967 48
PASOLINI VIVO Ci sono autori che crescono col passare degli anni e, non certo per ragioni commemorative, sembrano ancor più vivi da morti. E’ il caso di Pasolini, le cui opere filmiche dimostrano di resistere al tempo, all’usura, al-le sentenze e anche a certe indignazioni postume, male secolare di una società poco “corsara” .
A Napoli, il progetto di un ciclo organico da dedicare al regista scomparso tragicamente un anno fa, è stato realizzato dal Circolo del Cinema (CSA) che ha superato brillantemente i mesi di collaudo nella primavera scorsa e ha permesso, ora, tra ottobre e novembre la rilettura di “Accattone” , “Mamma Roma” , “Il Vangelo secondo Matteo” e “Uccellacci e uccellini” . Assente giustificata quindi solo “La ricotta” (da “Ro.Go.Pa.G.” ) per costituire il ciclo integrale del primo stadio creativo. In questi film, il nucleo narrativo scelto dal regista risulta analogo a quello della sua esperienza letteraria: al centro delle vicende ci sono ra-gazzi di vita, marginati, ribelli in cui l’insorgere della coscienza è compromesso dai rapporti violenti che l’ambiente stabilisce intorno a loro. Ma sia Accattone che Ettore e lo stesso Stracci sono più vittime che complici del profondo squilibrio sociale in cui si muovono. Le borgate romane sono gli elementi strutturali del discorso pasoliniano: un vero e proprio universo di diversi, di diseredati, di emarginati, in una parola di sottoproletarii. Al fondo di esse, ribolle però una rabbia non acquietata per lo scarso 49 interesse che “le minoranze dirigenti ed operaie” hanno mostrato per questo vasto settore umano, quasi il marxismo avesse allontanato da sé questo problema in una sorta di “prospettiva tattica” poco realistica. I primi due film del ciclo sono storie emblematiche di giovani dall’anima intorpidita per troppo lunga assenza di umanità, che finiranno col commettere lo sbaglio fatale, penultima stazione della loro via crucis. L’immediatezza e la vivacità di questi ritratti sono notevolissime: lo scrittore rivela una impressionante familiarità col mezzo cinematografico co-me se, usando la penna, avesse visto, anche allora, prima le inquadrature e poi il loro riflesso nell’inchiostro delle pagine scritte. Pasolini, scavando in questa sub-storia, nelle viscere bollenti di questi gruppi emarginati finisce col sentirsi totalmente solidale con quella loro protestataria vitalità, con quella loro “non vita, ma sopravvivenza / forse più lieta della vita… umile fervore cui dà un senso di festa / l’umile corruzione” ( “Le ceneri di Gramsci” ). Approda spesso così ad un cristianesimo terrestre, con qualche tentazione aldilaistica: si spiegano così le figure di prostitute angelicale, Stella, Bruna, Rossana e certi salti di potenziale tra l’orizzonte imbevuto di sporcizia e le solenni arcate della musica bachiana. Ne “Il Vangelo” , trova finalmente una cerniera tra le due anime che lo travagliano: l’identificazione profonda coi poveri e una non violenta rivolta sociale. I riferimenti figurativi sono anche qui un ottimo reticolo per mantenere l’unità della narrazione e il fine primario sembra un verismo fisionomico che dia credibilità ai personaggi, ai loro gesti, al paesaggio che li circonda. Una tecnica superiore di “ingenuità romanzesca” che scavalca i limiti del neorealismo e intensifica l’espressività fino allo spasimo: l’unica lezione presente è quella de “La passione” di Dreyer e sono infanti tutte “passioni” queste storie umane. Può eccettuarsi forse “Uccellaci e uccellini” , difficile parabola su due Parsifal plebei alla ricerca comune di un modo di vita spontaneo, lontano dai teoremi di corvi-intellettuali. Questi, sembra ammiccare Pasolini, vanno digeriti, dopo essere stati spennati e arrostiti. Anche questo ironico messaggio, didascalico e giocoso, conferma l’originale vena poetica dell’autore: la sua poesia in forma di film resta una testimonianza autentica su un continente umano che non può essere trascurato nè dal sociologo laico nè da quello religioso. E ciò ribadisce che i poeti non devono essere banditi nè dimenticati da nessuna repubblica. Napoli - La Voce della Campania, 12 dicembre 1976 50 IL PRIMO PASOLINI Poesia in forma di film Ad una, inchiesta su “Neocapitalismo e letteratura” apparsa su “Nuovi argomenti” diversi anni fa, P.P.Pasolini rispondeva, come era solito, con un pregnante poemetto “Progetto di opere future” ,
preludio ad altri canti generali e di umana contestazione. Incastonati tra gli altri c’erano questi versi: “Ma bisogna deludere”. Solo una nobile broda/d’ispirazioni miste demistifica/se miracolosamente il caos approda/ad una plastica chiarezza, mettiamo/di grifi romanici, coscioni, collotole, toraci/gonfi come pane di pietra grigia che codifica/la piena realtà. Taci, taci, voce di ogni ufficialità, qualunque tu sia. Bisogna deludere. Saltare sulle braci/ come martiri arrostiti e ridicoli/ la via della verità passa anche attraverso i più orrendi/luoghi dell’estetismo, dell’isteria/ del rifacimento folle erudito.” Poche volte, forse, si é dato il caso che un autore condensi con tanta se-lettività i temi intorno ai quali si é adoperato a tessere, la sua opera, sulle più varie gamme di mezzi espressivi, dalla lirica al romanzo al cinema. Oggi, che la sua energia poetica e civile la sua voce di accorato polemista (una riguardosa mancanza di riguardo) é stata spenta e si tenta di cancellarne gli ultimo messaggi ( “Salo” ), é non solo utile ma doveroso affrontare un bilancio, sia pure provvisorio, della sua attività che impronta di sé un quarto di secolo della cultura e della storia italiana, di quella meno indifferente e meno incline al conformismo. Sarebbe certo presuntuoso voler proporre una disamina completa, per quanto schematica o sintetica di tutta la sua produzione più significativa e sarà pertanto più consono attenersi alla sua personalità di regista, di uo-mo che considerava il cinema “la lingua scritta dell’azione”. Con tale sintagma, egli intendeva un modo di comunicazione linguistica “che pare ormai avere un senso assai più preciso e fattuale di quello letterario”. Ad un punto di svolta dalla sua vita, Pasolini aveva quindi avvertito che il cinema riesce a cogliere, con minor tasso di intermediazioni, gli atti e i fatti dell’uomo, a documentarne la personalità più concreta, la fisionomia, la gestualità, gli atteggiamenti e insieme ad esplorare l’ambiente in cui il soggetto vive nei suoi rapporti con le cose, con gli strumenti, con gli altri soggetti. Ma ogni tipo di discorso ritaglia una porzione del reale, una parte di ciò che ci circonda e anche “quello per immagini” non può parlare di tutto: così il colpo d’occhio pasoliniano spazia su quel luogo e su quel tempo che 51 il poeta si é scelto come interesse predominante della sua esperienza non solo letteraria, ma affettiva. Gli elementi strutturali dei suoi primi film rimangono gli stessi dei suoi romanzi e dei suoi poemetti popolari ( “Una vita violenta”- “Ragazzi di vita” etc.): sono le cose, le vicende, i drammi delle borgate romane, universo concentrazionario di emarginati, di diversi, di sottoproletarii ( “coscioni, collottole, toraci gonfi come pane…” ). L’orientamento verso questo limbo a occidente, verso questa zona di subcultura é in lui primariamente emotivo, cioè di adesione personale, di consentaneità psichica, di chiara matrice cristiana. Una sorta di “sociologia empatica” che mette a fuoco questi gruppi numerosi di diseredati e nel contempo porta alla luce lo scarso interesse che le minoranze dirigenti e operaie hanno dimostrato per questo problema sociale particolarmente ebolliente nel centro-sud d’Italia. E’ proprio questa delusione questa rabbia, questo calore umano che inducono il regista a porre a centro della narrazione questi bassorilievi giovanili, esponenti di questo “popolo minore” e lo pungolano a farne spunto e mèta di una vocazione schiettamen-te moraleggiante, compartecipe, coinvolta. “Accattone” (1961) risulta infatti la storia emblematica di uno di questi papponi dall’anima intorpidita per troppa fame e per troppo lunga assenza di umanità. L’immediatezza e la vivacità del ritratto sono notevolissime, perforanti: lo scrittore alla sua prima prova, rivela una incredibile familiarità col mezzo cinematografico come se, usando la penna, avesse visto anche alloro prima le inquadrature di un suo film e poi il loro esile riflesso nell’inchiostro delle pagine scritte. I tuffi dalla spalletta del ponte degli Angeli (con tutta la fila degli angeli alle spalle), gli approcci di Accattone con Stella, le sbronze di zozza, le amare, meditabonde passeggiate e le risse e le scorribande tra battone e magnaccia, tutto serve al poeta per comporre un affresco dinamico purga-toriale, tra esistenziale e popolare, tra palio di buffi e dramma sacro. Il clima oscilla di continuo tra dolore e nausea, eccitazione e lamento, tra miseria e sole glorioso, tra crudeltà e commiserazione: in esso svento-lano come bandiere di magica quarantena mille stracci sporchi, in esso si aggirano creature identificate dai soli soprannomi ( “Accattò”, e “Scuc-
chia” e lo “Sceriffo” etc.) qui le disgrazie piovono come piogge in autunno con un ritmo naturale e addirittura necessario e con uguale naturalezza i personaggi ignorano speranze e lotte civili. In Pasolini é lampante più che il vero e proprio rifiuto della storia, la volontà sanguigna di partecipare globalmente alla vita di questa gente 52 senza connotazioni storiche, senza classe, senza identità sociale. (Marx non l’aveva accantonata nemmeno lui, solo faceva più esatti programmi di ri scatto, quando prevedeva che solo dopo la soluzione dei problemi della classe operaia, ci sarebbe stato spazio e autocoscienza sufficiente per procedere alla umanizzazione reale del “lumpenproletariat” . E infatti, è un po’ miopia di poeta lungimirante non accorgersi che l’ambiente naturale che circonda questi giovani da lui “angelicati” è snatura-to: scarpate aride, praticelli diserbati, malati, scottati, le poche case degne di tal nome anch’esse simili a scatole di scarpe su di un orizzonte “imbevuto di sporcizia” . C’é anche un capovolgimento dei suoni: il riso ha un tono intimidatorio, la campanella un rintocco malefico o iettatorio, gli sbadigli si transvaluta-no in vocalizzi feroci. E’ il risultato del distacco da ogni forma di civiltà, della certezza di esistere che attraverso i denti e arriva allo stomaco per rifluire nel sesso. Ma il deficit teorico-conoscitivo di Pasolini é ampiamente riscattato dalla sua passione solidale che scansa ogni freddezza zoliana e scavalca ogni indagine biologico-sperimentale. In questo senso, in questa direzione si ha l’impressione che anche certi moduli neorealistici siano superati dalla cifra stilistica dello scrittore-regista che così riesce a tener distanti i toni caritativi e umanitarii che venivano a falsare non poche sequenze anche di “Sciuscià” o di “Paisà” . Restano però certe supercompensazioni estetiche: il vagheggiamento della totale innocenza di Stella, e così, la formazione del commento musicale: le grandi arcate cantabili de “La passione” di Bach sono un salto di potenziale espressivo che, in quanto controcanto a quella vita di reietti, va oltre i righi della polemica sociale per attestarsi ai bordi di un’impossibile redenzione mistica. Nella sua discesa agli Inferi, l’autore sembra volersi convincere che quello é un inferno-paradiso: la morte di Accattone, come di ogni carne “battezzata” diviene così il compimento di una messianica profezia su “i poveri di spirito” e assume il colore di una metafisica trasfigurazione. Questo cristianesimo con tentazioni aldilaistiche che è il filo continuo che corre nelle opere di Pierpaolo e si può forse decifrare come il rovescio di una delusione materialistica o anche come la frustrazione di un’ansia poetica che non può attendere i tempi lunghi dell’evoluzione storica e grida contro la mancata salvezza nelle ore brucianti della cronaca. Ma, ripetiamo, la tematizzazione utopica, inscritta giustamente in un 53
54 sapiente poligono di poesia, risulta sempre pervasa di un flusso emozionale di alta temperatura e di commossa sincerità: esse fanno di questa utopia sentimentale un documento estremamente verace sulle contraddizioni che bruciano nella realtà. “Mamma Roma” (1962) viene a confermare questa linea vocazionale: il simbolo iniziale dei maialetti vivi, grugnenti, incravattati, uno col cappel-lo in testa, uno col fiocchetto alla coda, uno con le “giarrettiere spudora-te” é anche troppo plastico ed ostensivo. Tavolate tipo ultima cena, apostoli d’un vangelo burino, meretricio, papponico, schiuma di un’umanità defraudata, oppressa, superalienata, eppure questo terzo mondo d’Italia è concentrato in un pentagramma che sta tra un allegro furioso e una be-stemmia in re maggiore. Il cocktail sonoro é perfetto: caciara di gridi, invettive, grugniti nel più becero e insieme frizzante romanesco, tutto amara verve, tutto degradazione lessicale ( “Morto un pappa, se ne fa ‘n altro!” ) ma la censura aggiunge “one” a “pappa” . Quello che manca a questi porci burini è proprio quello che invano Mamma Roma augura ai due sposini “la Grazia de Dio” : essa è assente in tutte le sue implicazioni socioeconomiche e psicologiche. Allora l’ubriacatura è vista nel suo riscontro gestuale più attendibile che é quello di una volontà tesa a perdere la coscienza di una realtà troppo negativa. Eppure, la protagonista sente inconsciamente che la salvezza per il suo Ettore sarebbe nel cambiare ambiente, andare in una casa nuova, trovare compagni che studiano, in una parola imborghesirsi. Ma il passato di Mamma Roma, remoto e prossimo, le ritorna addosso con ir-ruenza: Carmine, l’ex amante e novello sposo, si ripresenta da lei con tutte le sue sfruttatrici intenzioni: non intende smettere il suo duro mestiere di protettore e Mamma Roma non é libera di rifarsi una dignità, venden-do gli ortaggi al mercato. Eppur e, di notte, nella passeggiata da brilla, alla luce dei falò prossene-tici, essa finisce col ridere, perché a quel livello bisogna ridere, perché so-lo chi ride è salvo. Da ciò deriva che i borghesucci del nuovo quartiere non possono non essere inquadrati che come sporadici farisei, preganti falsamente al suono di un organo sfiatato in una chiesa fintaclassica e semideserta. Ancora una volta il “sogno piccoloborghese” che ardeva sul volto della Magnani risulta infranto, ancora una volta il regista si cala con più simpatia nelle viscere di un gruppo sociale emarginato cui si sente legato da quella protestataria vitalità, da quella strana allegria che surroga ogni istinto di lotta, ogni coscienza rivendicativa. 55 Il giovane figlio di Mamma Roma, deve seguire il suo iter, prima nell’incontro con Bruna, figura simmetrica di Stella di “Accatone” , altra “prostituta innocente” sacralizzata dallo scarto poetico che Pasolini opera rispetto alle connotazioni del reale; poi sul letto di contenzione del sesto Transito, croce di cemento per un ladruncolo buono ma segnato dal fato.
Ma più che vittime sociale, Ettore, come Accattone, come Stracci di “La Ricotta” sono capri espiatorii sacrificati proprio perché vergini e intatti nella loro animale felicità. Il sentimento, nel regista sopraffà le idee con cui si era scontrato nei suoi poemi ed egli non riesce a credere che la svolta tragica di queste vite possa spiegarsi solo col condizionamento economicosociale, con la situazione storico-politica. Diventa quindi una grossa sfida ideologico-stilistica quella che si snoda nelle migliaia di metri di pellicole che vengono prima del “Vangelo secondo Matteo” . Si tratta soprattutto di un verismo recuperato e filtrato attraverso una tecnica di superiore “ingenuità romanzesca” che scavalca anche gli steccati di un realismo sociale e si intensifica negli spasimi di una lirica visuale. L’unica lezione stilistica che forse P.P.Pasolini tiene presente è quella della sovraesposizione continua dell’obbiettivo, tipica del modulo espressivo di un Dreyer ( “Passione di Giovanna d’Arco” ) e per lui, infatti so-no tutte passioni queste storie di sottoproletarii che si concludono con lo scacco finale che una terribile società infligge loro. Un procedimento di intensificazione è anche alla base del parlato, rivelatore di un approccio poetico alla verbalità filmica; in più il dialetto, in tal modo concentrato e arricchito, risulta in funzione straniante rispetto al sovraccarico di partecipazione. Ormai, il regista scrittore è pronto per affrontare un lavoro basilare: “Il Vangelo secondo Matteo” (1964). Esso lo impegna ancora una volta in una lettura mitologica e personale di un testo fondamentale: il mito può infatti sostituire la storia in un discorso estetico e serve a darle una soluzione ideale, anche se tragica e negativa ma sempre esemplare ed esortativa. La configurazione dei personaggi, anche per questa decisione, risulta ancora più concentrica intorno al perno narrativo: il regista ha trovato, forse, la cerniera tra le sue due anime, l’identificazione profonda con i poveri e l’adesione politica a certe ragioni di rivolta sociale. Qui la religione è “La realizzazione fantastica dell’essenza umana” e nello stesso tempo nasce da un luogo ben determinato, da un certo tempo, da un preciso modo di vita (cioè, finalmente, è storicizzata.) Essa è anche quell’ “ebionismo” di cui parla Renan, cioè quel puro 56 disprezzo della ricchezza che informa le religioni orientali e che rappresenta la povertà come unica garanzia per ottenere la salvezza. Ma, in Matteo, Pasolini ha intuito la profonda motivazione per cui gli apologhi e le maledizioni sono orientati tutti contro i potenti gli abbienti anche se non vengono ancora formulati in termini di giustizia sociale. Ciò consente al regista di superare le sue oscillazioni tra passione e ideologia e di scansare scompensi, falsa coscienza e smarginature. Così molte do-mande, rimaste irrisolte nei lavori precedenti dal punto di vista teoretico, si tramutano qui in cifre significanti e si articolano in un messaggio che può essere accettato da chiunque creda nella ricerca della verità come unico dogma possibile. Non pochi punti affioranti dal contesto audiovisivo possono essere approdi per tutti e primo tra i tanti, il senso che la coscienza, umana o divina che sia, é il luogo delle più giuste inquietudini. Da essa continuano a sgorgare, in ogni secolo, in ogni dove le grida contro i mercanti del tempio, le razze di vipere, i sepolcri imbiancati, quelli che vogliono giudicare per sentito dire. L’organicità è raggiunta in tutta la sua consistenza, grazie alla estrema sincerità creativa che riesce a comporre le fratture tra le motivazioni culturali e quelle artistiche. Né dà fastidio l’evocazione di climi figurativi alla Piero della Francesca, quando ci accorgiamo che essi sono rielaborati con felice equilibrio globale nello stampo delle immagini vere e proprie ac-queforti in bianco e nero. Anche qui, come nei film precedenti, l’umanizzazione è talvolta ottenuta con un transfert d’identificazione tra autore e personaggi ( “il Battista” ) ma possiamo dire, in complesso, che si tratta di un Golgota di elevatissi-ma dignità, di una “passione” filmica che si stacca a volo d’aquila da certo cattolicesimo deteriore e da certo ritualismo fariseo, quelle sbobbe sgradevoli che inzuppavano molte edizioni precedenti, su schermo, della vita e morte del Cristo (da De Mille a Duvivier). Ultimo stadio di questo periodo, può considerarsi “Uccellacci e uccelli-
ni” (1965): una parabola complicata da molteplici allusioni e rinvii. Il tracciato ideologico sembra derivare dai canoni interrogativi de “Le ceneri di Gramsci” : “Ma io con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/potrò mai più con pura passione operare/se so che la nostra storia è finita?” e alla sua base si ritrova ancora una volta quella che è stata esat-tamente definita “Una concezione religiosa del lumpenproletariat”. La strutturazione formale appare invece del tutto rinnovata, è a punta secca, senza troppi studi di chiaroscuro e di sfumature, senza ridondanze di sorta. Il contenuto risulta più intellettualizzato e di secondo grado, cioè 57 tra la tenera ironia e certo sarcasmo risentito: non ci sono tracce della obbiettivazione poetica della “sopravvivenza forse più lieta della vita” , e “dell’umile fervore cui dà un senso di festa l’umile corruzione” . Totò e Ninetto, sono, purtuttavia, un padre e un figlio innocenti come dei Parsifal plebei e lazzaroni, sempre in cammino nella loro inconsapevole ricerca, punteggiata però da varii intervalli comici (il balletto intorno al jukebox, la rincorsa della corriera.) Non manca l’angelo (Rossana) anche se il livello più cerebrale dell’ordito ne dà riverberi parodistici, ma gli stessi uccelletti sono angioli con cui Totò, nel suo impulso mistico-euforico vorrebbe dialogare, coesistere, convivere. L’esasperazione ideologica, cioè il nervo più dolente della fisiologia pasoliniana, è stavolta una metafora visuale: il corvo parlante, l’intellettuale di sinistra, pur sempre cosciente della nemesi che lo attende ad ogni svolta di strada e che continua a dipanare i suoi teoremi mentre i due sono assorti nella carne dolce e malinconiosa di quella femmina “bambina e antica quanto la natura” . E’ proprio questo slancio sensuale verso la vita, l’eros, l’orgasmo felicitante che motiva sia l’uccisione-digestione del corvo che l’affresco gotico-funebre per l’esequie di Togliatti. La procedura usata da Pasolini è ancora, al fondo, quella vitalistica, lirico-religiosa che tende, come è stato detto, a riaffermare, in ogni modo, “il significato antiborghese di ogni sacralità” . Eppure lo stesso regista sente che questo discorso è agli sgoccioli, che si avvicina un dirottamento verso nuove maniere di rappresentazione. Con “Uccellacci e uccellini” , si può, appunto, dire conclusa la prima parte di un ciclo. In seguito, Pasolini si calerà in zone più arcaiche (e meno arcadiche) dell’anima, in quei miti arcaiche (e meno arcadiche) ancestrali che sono “Medea” , “Edipo”, “Porcile” , e risalirà, infine verso immaginarii paradisi terrestri all’insegna dell’eros boccaccesco o chauceriano, in quelle mille e una notte che sono fiori fuori della storia contemporanea. In questa prima fase, la poesia resta comunque una rovente e furente testimonianza su un sommerso continente d’umanità che né il sociologo laico né quello religioso possono trascurare. Ciò ribadisce, se ce ne fosse bisogno, che i poeti non devono essere banditi né dimenticati da nessuna repubblica: le loro parole, le loro immagini sono pur sempre una forma che essi cercano di dare al caos, ottenendo una chiarificazione di zone del mondo che i meno veggenti (o i troppo razionali) riuscirebbero altrimenti ad ignorare per tutta la vita. Napoli - Circolo del Cinema, 1987 58
RILEGGENDO IL VANGELO SECONDO PASOLINI
A 35 anni dalla sua tragica morte, la presenza intellettuale di Pier Paolo Pasolini si è andata imponendo sempre più incisivamente nel dibattito culturale attivo in Italia (e in Europa). E si è meglio delineata la sua figura di “eretico sociale” dal forte acume critico e dal coraggioso anticonformismo. Non passa giorno, infatti, che non si leggano citazioni dei suoi scritti poesie, saggi, romanzi- con cui egli ha lanciato penetranti sguardi sulla realtà del nostro tempo. La sua è stata un’opera di smascheramento di illusioni ed utopie allo scopo di svincolarsi da lusinghe e pregiudizi. È stato un porsi al di fuori di comodi recinti ideologici e partitici. E, in prima istanza ha rappresentato un modo di aprirsi alla più ampia comprensione di importanti fenomeni storici, di natura sia laica sia religiosa. E’ significativa, a questo riguardo, la decisione presa nel 1964, di tra-sporre in film “Il Vangelo secondo Matteo” , configurandolo come cronaca di un percorso di riscatto teso al ripristino di valori essenziali alla convivenza pacifica tra gli uomini. Scriveva, appunto, in quel periodo: “Io ritengo valido l’insegnamento cristiano come paradigma etico e come esigenza che non accetta nessun compromesso”. Sicuramente, a sollecitarlo erano anche le circostanze sociopolitiche di quegli anni in cui, dopo il “rapporto Chruščëv” , una crisi radicale scuoteva teorie e dogmi fino ad allora accettati e praticati anche troppo supinamente. Ciò era per lui un ulteriore sprone ad esercitare la propria energia crea-59
tiva e ad approfondire la ricerca sull’importanza della fede cristiana, scartando sia la retorica confessionale che quella laicistica, spesso antireligio-sa a priori. Non è superfluo sottolineare che Pier Paolo aveva vissuto anche lui la felice stagione del pontificato di Giovanni XXIII e goduto di quella temperie di evangelica, paterna tenerezza. A testimoniarlo sarebbe venuta la dedica del film “alla cara, lieta, familiare memoria” del Papa Roncalli. D’altra parte, l’approccio all’opera cinematografica non aveva nulla di improvvisato; essa era stata preparata per gradi: negli anni precedenti, infatti, Pasolini aveva portato sullo schermo i miseri calvari di un Accattone, di un Ettore (in “Mamma Roma” ) nonché la morte in croce dell’affa-mato Stracci, il ladrone dell’episodio de “La ricotta” grottesco ma pieno di compassione (in “Ro.Go.Pa.G. ”, 1963). Ora, però, urgeva l’ansia di confrontarsi con la più grande Passione, quella che da secoli e secoli coinvolgeva buona parte dell’umanità vivente (e vissuta) nella pratica della fede in Cristo. Sul piano della contemporaneità Pasolini era cosciente della bruciante attualità delle parole di quel Giusto, ben sapendo che ancora scribi e farisei abitavano “il Palazzo” e che da esso manovravano il popolo con mac-chinazioni e false promesse. Proprio in antitesi ad esse, egli individuava nel discorso evangelico il pathos autentico della trepidazione amorosa verso il prossimo e verso ogni cosa vivente, dagli uccelli del cielo ai gigli dei campi. In tutto ciò scorgeva un umanesimo integrale che di per sè rappresentava già una salvezza e una redenzione.
60 Come regista, d’altronde, non si nascondeva l’estrema difficoltà delll’opera, poiché avvertiva la necessità di un linguaggio “alto” idoneo a trascrivere il sacro testo e che facesse trasparire “l’intimo lume infinito” che gli si era acceso nell’animo. Occorreva, perciò, un vocabolario di immagini che aderisse in pieno alla prosa essenziale di Matteo. In questo impegno un felice aiuto gli sarebbe venuto dalla riscoperta nei primi anni ‘60 dell’opera di C.T.Dreyer, genio capace di fare del “primo piano” uno specchio dell’anima e di rendere in perfetto chiaroscuro la dialettica dei personaggi e il loro drammatico destino. Era uno stile da assumere non come pura lezione di forma ma come ve-ra e propria struttura narrativa. Ciò gli avrebbe permesso di approdare a quel “realismo creaturale” che, secondo E.Auerbach, “è in grado di mettere in effettivo risalto tutto quel che nell’uomo è soggetto a dolore e caducità” . L’adeguamento a questo modulo espressivo gli avrebbe consentito di portare ad un più elevato livello la comunicazione filmica che nelle precedenti pellicole era forzosamente condizionata dalla connotazione di una Roma sotto-proletaria e “burina” . Il “realismo” dreyeriano era, quindi, la via giusta per instaurare un fraseggio iconico che andasse oltre il fattore psicologico fino a restituire il senso di un risveglio spirituale abbandonando ogni apatia e stolido conformismo. Del resto, la tematica di fondo religioso l’aveva personalmente più volte elaborata (e sofferta) quando - da poeta - si era interrogato sull’angoscia di un’esistenza aliena da amore e speranza. In “Poesia in forma di rosa” aveva scritto, appunto, “della propria vita/ impigliata in un’incompletezza volgare/ che mai fu così volgare/ come in quest’ansia di non avere Cristo/ una faccia che sia amore… senz’altro interesse che l’amore.” Altrove, Pasolini aveva confessato “la brama di uscire dal buio incendio di una giovinezza/ frastornata dall’eternità”. Aveva in tal modo esternato quel fremente desiderio di allontanarsi dal tran tran di una società borghese, divenuta una folla di “uomini vuoti” ab-brancati alle più insulse compensazioni edonistiche. In questa chiave, giungeva a definire il suo tendere al Vangelo come “esporsi/sporgersi ingenuo sull’abisso/ offerto sulla Croce tremando di intelletto e passione” ( “L’usignolo della Chiesa cattolica” ) . 61
L’altra componente del film che riteneva di carattere primario era l’atte-stazione dell’attualità del testo di Matteo. Perciò, dopo i pur scrupolosi sopralluoghi in Palestina, aveva deciso di collocare la sublime vicenda tra Matera e altri piccoli centri del sud d’Italia. Aveva trovato così il riferimento ad una precisa contemporaneità popolare, con una dislocazione geografica nient’affatto arbitraria. Un passo un pò troppo lungo se non pretestuoso verso la cronaca più spiccia lo avrebbe invece spinto a vestire i soldati di Erode da militi fasci-sti e i guerrieri romani da “celerini” scelbiani. Era un soprassalto di quello spirito provocatorio, suo neo caratteriale che, comunque costituiva un marginale difetto nella composizione com-62
plessiva dell’opera, il cui senso metastorico veniva ottimamente da lui disegnato e realizzato. Assai giustamente Pasolini avrebbe fissato il punto focale della narrazione nel “Sermone della Montagna” , grido sovrumano contro gli ingannevoli tesori della terra, e incalzante annuncio della beatitudine come premio ai pacifici, ai misericordiosi, e agli assetati di giustizia. Con rara efficacia, in questa sequenza venivano posti nel massimo risalto i moduli pittorici mutuati da un Masaccio, da un Piero della Francesca e da altri artisti del Rinascimento: un piglio magistrale da gran cineasta allo scopo di cancellare le stereotipate oleografie che, da vari decenni, avevano finito col distorcere il profilo autentico del Nazareno. In più, con sapienti carrellate Pasolini dava le esatte connotazioni dei primi fedeli “sublimati pur nella francescana umiltà dei loro ritratti (S.Petraglia, 1974). Con ogni evidenza, era stata operata una scelta precisa dei tipi fisiono-mici degli apostoli e dello stesso Gesù (il non-attore Enrique Irazoqui), scartando ogni standard divistico o di mera notorietà. Infatti, indipendentemente, da qualunque supposto criterio amicale (o corporativo) Pasolini aveva proceduto alla selezione degli altri interpreti (O.Sestili come Giuda, Natalia Ginzburg come Maria di Betania, Alfonso Gatto come Filippo, F.Leonetti come Erode). Un solo discutibile spunto si poteva rilevare nel ruolo della Madonna affidato alla propria madre Susanna Pasolini (allusione autobiografica che sarebbe stato meglio evitare).
63 D’altra parte, ineccepibile appariva l’impianto storico presumibilmente in linea con la tesi di un Hegel, che aveva considerato Cristo “un inegua-gliabile maestro di virtù ertosi contro credulità, superstizioni e intempe-ranze d’ogni genere… e venuto ad elevare gli animi al di sopra degli scopi e delle brame che muovono gli uomini…” ( “Das Leben Jesu” ) . Si costituiva, così, una griglia interpretativa che non demitizzava affatto la sostanza del grande messaggio impregnato di pietas e caritas. In una tale concezione l’autonomia del pensiero critico non veniva a precludere la libertà di aver fede e la tolleranza s’inverava in attiva fratellanza rivolgendosi alla ricerca del bene comune e dell’amore reciproco. Il credere era rappresentato come energia benefica in grado di promuo-vere la dignità dell’uomo e di instaurare una società giusta e operosa. Né era tradita la forte vena realistica di Matteo dato che il contesto pasoliniano, su quella linea, esponeva chiaramente quali pene e durezze in-tralciassero il cammino verso la salvezza e quanto arduo fosse l’impegno richiesto agli uomini di buona volontà. Sia nell’uno che nell’altro caso non si sbandieravano facili illusioni, visto che il divino Rabbi aveva ben spiegato a quale odio e a quali persecu-zioni potessero andare incontro i suoi seguaci e chiarito, che nonostante tutto, se molti sarebbero stati i chiamati pochi sarebbero stati gli eletti. Nel film il regista non aveva mancato di far vibrare questa drammatica dialettica conscio che anche dopo l’Avvento, una gran parte dell’umanità avrebbe continuato a lacerarsi in faide e sanguinosi conflitti, quasi, “volendo le tenebre più che la luce” (S.Giovanni, III, 19). Forse, proprio a contrappuntare simili note amare aveva voluto, nella colonna sonora, quel fiume di fulgida musica, da Bach a Mozart e dagli spirituals agli epici cori di Prokofiev, fino a alla Messa Luba. Erano, appunto, i suoni atti a risolvere il mistero in armonia e in pacato controcanto ai pianti e ai tormenti che punteggiavano non pochi episodi. Così, gli stessi momenti di silenzio creavano l’impressione di un tempo fuori dal tempo, fatto solo di emozioni e di estasi. Nemmeno trascurabile era il contributo del doppiaggio (E.M.Salerno prestava la sua voce a Irazoqui e modulava i toni e sottotoni del Cristo, ben rendendo sia quelli soffusi di grazia e misericordia, sia quelli saturi di sdegno e di austero rimprovero). In più, Pasolini aveva evitato ridondanti intrusioni verbali rispetto al testo originario ed aveva saputo mantenere il ritmo evolutivo della drammatica vicenda. Con un ottimale montaggio aveva altresì messo in felice consonanza il 64
fraseggio verbale con l’iconografia prescelta, in modo da non turbare la ieraticità del racconto evangelico. Nel complesso, si era attenuto con fedeltà alla Buona Novella che, proprio perché non celava la realtà del mondo, era tesa a infondere negli uomini l’anelito necessario a cancellare malvagità, bassezze e ipocrisie per potere riscoprire la gioia dell’amore e della più serena pace.
In base a tutto ciò, non può sembrare esagerato considerare “Il Vangelo” (secondo Pasolini) un’opera ben al di là delle diverse versioni tentate nel corso della storia del cinema. Basterebbe confrontarla col “Golgotha” di Duvivier o con quelle di tanti mestieranti della pellicola (da “Il Re dei Re” fine al la recente “Passione di Cristo” di M.Gibson giustamente stigmatizzata quale “spettacolo di effe-rato dolorismo” ). A rileggerlo, quindi, con attenzione non si può non sottolineare che ne “Il Vangelo” del poeta-regista la partecipazione ha uno slancio univoco di ragione e di cuore. Perché è chiaro che Pasolini sente che il messaggio che va trascrivendo ha seminato nel mondo perenni valori etici, e senza partire da nessuna retorica concezione di innocenza dell’esistenza umani. Perciò, in tale maniera ha potuto evitare qualunque orpello confessionale o ritualmente bigotto, pervenendo - da vero artista - ad una totalità in cui si trovassero fuse realtà e verità. Ed è chiaro che fin dall’inizio è stato consapevole di “sottoporsi ad un rischio terribile…tra l’ottenere un risultato attendibile e qualcosa di cui (lui) per primo avrebbe inorridito”. 65 Forse ricordando quanto asserito in proposito da Kierkegaard: “il fatto è che perché il giudizio della conoscenza abbia vera consistenza ci si deve buttare allo sbaraglio e far risuonare forte il proprio grido”. Quel grido sublime già certamente insito nel testo di Matteo al quale Pasolini ha unito il suo grido nascente da quell’ “odio-amore per un mondo che ha violato le coscienze nel loro profondo” . A tal fine ha usato tutta “l’arte del non mentire” , quel suo stare al di fuori dei ranghi e dei pregiudizi d’ogni tendenza e d’ogni fazione. Soprattutto, prendendo la giusta distanza dai suoi primi romanzi in cui, nella angosciante desolazione degli ambienti sottoproletari, la speranza finiva per ridursi solo ad una bruta vitalità senza luce né conforto d’affet-to. Mentre, col “Vangelo” appare evidente che il suo itinerario si svolge nel segno della convinzione che “con l’avvento del Cristianesimo si era ravvivata la coscienza dell’uomo, in modo più fervido e fiducioso e che la Passione rimaneva la più alta prova della santificazione dello sforzo umano verso il vero bene.” (B.Croce). Napoli – 3 marzo 2011 66
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CABIRIA: Una retrospettiva d’eccezione al Maggio Fiorentino Il cinema fa, quest’anno, il suo ingresso d’onore al Maggio Fiorentino: al Teatro Verdi viene proiettata “Cabiria” (1914) di G. Pastrone, con musi-ca composta ad hoc ed in pari data da I. Pizzetti. È una retroprima d’eccezione, cui non mancherà una folta parterre di storici, critici, cinéphiles (a 69 anni di distanza dalla effettiva première avvenuta al Costanzi di Roma). La “Sinfonia del fuoco” , come fu denominata la partitura autonoma, verrà eseguita dall’orchestra e dal coro del Maggio Musicale Fiorentino sotto la direzione di Peter Randall. Si tratta certamente di un altro grosso avvenimento audiovisivo dopo il repêchage del “Napoléon” di Gance a Massenzio, evento in bilico tra moda dell’effimero e storicismo di massa.
Prodotta dall’ “Itala Film” (si noti il femminile d’epoca) e diretta dal rag.Giovanni Pastrone (in arte noto come Piero Fosco), la pellicola assume vari titoli provvisori nel corso della lunga lavorazione (tra il 1913 e il 1914): “Trionfo d’amore” , poi “Il romanzo delle fiamme” , infine “Cabiria”. 68 L’astigiano e artigiano Pastrone ha già diretto altri film “storici” come “Agnese Visconti” (1910) e “La caduta di Troia” (1911), ma comprende bene stavolta che occorre per “Cabiria” la malleveria di un mostro sacro del milieu artistico italiano (ed europeo). Fa ricorso così a G.D’Annunzio per il rimaneggiamento del soggetto e la formulazione di adeguate didascalie. Al solito tripudio scenografico di colonne, muri di stucco e arene pseu-doromane si sovrappone la vernice “supermeravigliosa” del Vate che per la settima arte ha teorizzato “visioni fantastiche, catastrofi liriche, imma-ginazioni incredibili” . In un’intervista del marzo del ’14 (al “Corriere della Sera” , l’Immaginifico, dopo aver intascato le 50.000 lire (oro) per la prestazione, declama così le sue mirabolanti glosse all’estasiato cronista: “Sarà un conflitto supremo di due stirpi avverse, condotto dal Genio del Fuoco che tutto divora, tutto doma, artefice sempiterno… la creatura inconsapevole che passa incolume (-) l’ardore dei Fati (sic) è nominata Cabiria, con un nome evocatore di demoni vulcanici… e una grande civiltà crolla, d’un tratto, con i suoi idoli mostruosi”. Le didascalie filmiche che il poeta ha velocemente approntato, con penna d’oca e scrivendo in piedi, sono perfettamente omogenee a questa prosa per il gran pubblico: “La ruina ingente della Patria” ; “gli schiavi cate-nati” ; “Massinissa dilegua nel diserto” , insomma in lingua italiana d’anti-quariato. Il film, virato in più sequenze e prevalentemente in rosso cupo è attra-versato da fumi, fiamme, bagliori e scintille. La statua del dio Moloch in-nalza la sua orripilante mole per oltre quaranta metri; il passaggio delle Alpi viene girato “on location” . In più ci sono le acrobazie dei legionari romani all’assalto di Cartagine e quelle del liberto Maciste (B.Pagano, un ex manovale del porto di Genova) eroe proletario e bonario, prototipo super-muscoloso di tutti i vendicatori di torti (eastern and western). C’è, inoltre, una simulata eruzione dell’Etna, ad opera di ingegnosi arti-ficieri dell’epoca (come dire l’opposto geometrico di quel che avviene in queste settimane) e c’è la rimarchevole battaglia navale per la conquista di Siracusa con Archimede in prima persona che manovra i suoi specchi ustori. Pastrone riesce, di tanto in tanto, a costruire momenti di delicato idillio, compreso quello finale tra la giovane Cabiria e Fulvio Axilla: essi si dicono la tranquilla gioia del loro amore mentre veleggiano verso la Sicilia dopo il trionfo della pax romana. E ci sono autentiche invenzione tecniche come le “carrellate” sui perso-69 naggi che il regista ottiene per la prima volta poggiando la macchina da presa su un aggeggio a quattro ruote. E c’è la luce elettrica usata non co-me semplice surrogato di quella solare, ma per ottenere effetti speciali di chiaroscuro o di controluce. (Per altre priorità, è opportuno dar maggior credito agli storici anglosassoni che considerano il primo piano appannaggio di Porter e i “dettagli simbolici” (sineddochi) merito della gloriosa e misconosciuta “Scuola di Brighton” ). Ci sono, purtroppo, non poche scivolate nel banale e nel truculento e soprattutto c’è quel ricalco del classicismo così pedissequo da suonare sto-nato e falso. “Cabiria” ottiene, comunque, risonanza a livello internazionale: non pochi recensori, soprattutto americani, si accorgono che per lo schermo inizia un’era nuova. Negli U.S.A. il film viene pubblicizzato tout court come opera di D’Annunzio. Un certo D.W.Griffith se lo studierà per mesi e mesi prima di dar mano a “Nascita di una Nazione” e “Intolerance” pervenendo però ad altri livelli estetici. La recitazione dei principali interventi (I.A.Manzini, L.Quaranta, U.Moz-zato, E.Gemelli) si colloca a mezza strada tra una retorica accademico-decadente e una più viva consapevolezza del comportamento mimi-cogestu-ale in un medium che tenta di differenziarsi, per la prima volta, dal melodramma registrato su pellicola. Alcuni vecchi mattatori sono riciclati per l’occasione e
impostano nelle scene-madri un atteggiamento ieratico-to-gato che contrasta con le vivaci coreografie delle comparse (e qualche le-gionario viene scorto in calzini!). Ma, in prospettiva sociologica, “Cabiria” è senza dubbio il più grosso manufatto artisticoindustriale dei suoi tempi (ante prima guerra mondiale). Si diffonde subito la voce, non infondata, che il suo costo ha superato il milione di lire (oro) più di venti miliardi attuali. Resta fuori discussione il fasciano della sua spettacolarità sia pur magniloquente, istrionica, mediterranea. L’integrazione espressiva dovuta alla musica di Ildebrando da Parma (come D’Annunzio appellava il Maestro Pizzetti) è sagace ed efficace: essa occulta non pochi balbettamenti dei fotogrammi, ridà vigore a certe sfasature iconiche, sfuma non pochi infantilismi di questo “travesti-to romanzo d’appendice” . Si riaggancia in molti punti al Verdi più vibran-te e più baritonale e talvolta serve a snellire con leggere arcate sonore quel che di elefantiaco e monumentale grava sul sottile telo bianco. Nonostante questo splendido apporto, si potrebbe dire con Flaubert che “Cabiria” resta “un’opera fatta per un certo tempo, non per tutti i tempi” . Infatti, nella sommatoria algebrica degli ingredienti, prevale l’eco culturale 70 di un gusto strapaesano appena mascherato qua e là da fronde alcionie. L’impressione globale è quella di un sontuoso falso storico, una gran-diosa festa liturgica, adorna di paramenti e fuochi d’artificio, in omaggio devoto ad un mito scomparso e disgregato qual’è quello della “romanità” . Ripreso con altre coreografie e con didascalie urlate da storici balconi salirà lo stesso mito perverso che spingerà tutto un popolo sulla strada di un “imperialismo straccione” e verso la catastrofe degli anni ‘40. Napoli - Le Arti news, aprile-maggio 1983 71
72 IL TESTAMENTO DI ROSSELLINI Sarà, purtroppo una data della storia del cinema il 5 giugno ‘77 che ha segnato la conclusione della vita e dell’opera di Roberto Rossellini.Pochi giorni prima il grande regista aveva fatto trionfare a Cannes “Padre padrone” dei Taviani, consapevole che erano autori di tale stoffa quelli che potevano prendere nelle proprie mani il suo testamento. Maestro a molti (e non solo italiani), è certo che non pochi film di Rossellini hanno rappresentato tappe della cultura-umana, - da “Roma,città aperta” a “Paisà” , fino a “La presa del potere di Luigi XIV” e “Pascal” . Ma soprattutto nelle prime cose egli aveva saputo guardare la cronaca rovente della Resistenza con occhi che scoprivano le esigenze del mutamento e aveva colto in ogni minuto di pellicola quella tensione che rappresentava una svolta di destini, individuali e insieme collettivi. L’immediatezza delle impressioni, la verità nuda del racconto, l’intensificazione della vita erano le conseguenze primarie di questo mettersi in presa diretta con la realtà. I suoi segni filmici avevano un riferimento concreto, non si inscrivevano in un gioco astratto, staccato dai motivi e dai valori dell’esistenza. Anticonformismo, antifilisteismo in questo cattolico estremamente laico erano le bussole adatte per scegliere temi, contenuti culturali, modi di espressione. In lui nessun lusso o voluttà mentale, rivoli di quell’Arcadia perenne che scorre più del Po nella nostra penisola, ma al contrario una continua attivazione di energie morali che riuscivano ad imprimere alle sue immagini una luminosità particolare e una filigrana nuova in concordanza col trasformarsi del mondo. Da ciò quei forti toni sensoriali delle sue inquadrature tese a rendere effetti empatici d’alto grado, con una senso dell’avvicinamento all’organico, al naturale, quella restituzione di un’alta temperatura umana, politica e civile. Sequenze che erano diari gremiti di gridi, di emozioni che compo-nevano il ritratto di una miseria raddoppiata dai disastri della guerra: l’incontro tra lo scugnizzo e Joe ricongiungeva in una geografia più umana, i poli di due razze affratellate da identiche umiliazioni, da uguali offese. Neorealismo significava allora coniugare un presente storico che attingesse ad antichi problemi con urgenza di contemporaneità. Altre esperienze umane e la molteplicità dei fenomeni affrontati esige-vano una varietà di procedure rappresentative e Rossellini ne dava testimonianza precisa nell’arco del suo operosissimo trentennio di attività. Naturalmente, parabole, ascendenti e discendenti; alcuni generosi errori 73
74 alcune freddezze assai atipiche per lui, eppure la rilettura recente di alcune opere minori ( “Il miracolo” ad es.) ha potuto mostrare il suo interesse a fatti inediti, in un discorso precorritore sugli emarginati, sui cuori semplici che gli consentiva di costruire modelli di “popolare” ben lontani dalle astuzie paraindustriali di certi mestieranti. Il gusto di contraddirsi, di non rivendicare dogmatiche certezze estetiche, quella talvolta strana pretesa di ricominciare dal nulla erano sintetiz-zate nella convinzione del valore “didattico” del cinema che diveniva per lui una sorta di impegno sperimentale. Erano queste idee che presiedevano ad ogni nuova creazione e, negli ultimi anni, a quella coerente seppur non sempre riuscita, elaborazione di un’immensa ed originale enciclope-dia visuale le cui voci erano uomini e avvenimenti cosmici (da “Il Messia” ad “Agostino” da “Cartesius” a quel “Marx” di cui aveva cominciato a stendere il trattamento). La sua acuta intelligenza del presente lo induceva a con vincersi sempre più in profondo che in un’epoca postgutemberghiana come la nostra, il racconto filmico era il volume da leggere con attenzione e in quest’attività vedeva le premesse per porre fine al contrasto sotterraneo tra le ultime generazioni e quelle dell’umanesimo scritto e orale. Nel frattempo non demordeva da sapide osservazioni sul professioni-smo per partito preso e certo bla bla di critici presuntuosi e confusionarii. Pochi mesi fa, al Teatrino di Corte aveva risposto a certi sproloqui d’alta acrobazia, snervati e pseudofilologici, che rischiavano dopo la proiezione di un suo capolavoro di staccare i suoi messaggi da ogni collegamento con la mente e il dolore della gente comune, dicendo: “Sono certo comunque che ogni autore e ogni critico deve essere uomo prima che artista o intellettuale…”. Sulla scia della sua luminosa opera, il cinema italiano potrà trovare il percorso giusto per uscire dai pantani del disimpegno politico, morale e mentale mascherato oggi in cento troppo gradevoli, e perciò sgradevoli, modi. Napoli - La Voce della Campania, 19 giugno 1977
75 ROBERTO ROSSELLINI dai primi documentari a “Roma città aperta”(1936-1945) Nato a Roma nel 1906, Roberto Rossellini aveva seguito il tradizionale corso di studi (ginnasio, liceo, università), tipico di un figlio di famiglia borghese benestante. Dopo i vent’anni, però, era cresciuto in lui un acuto interesse per le strutture meccaniche. Si era dedicato, in particolare, alle macchine da presa e di proiezione, cosa non difficile nel suo caso, dato che suo padre era proprietario del “Cinema Corso” in Roma. Così il cinema era diventato una sua passione dato che evidentemente gli era possibile visionare gratuitamente tante pellicole sia italiane che straniere. E si era entusiasmato per “La folla” e per “Alleluia” di King Vidor. In più, in casa del padre aveva occasione di incontrare varie personalità dell’ambiente cinematografico quali Blasetti, Alessandrini, Poggioli. Alcuni di loro cominciarono a chiedergli di collaborare alle sceneggiature che essi andavano scrivendo in preparazione dei film da realizzare. Intanto, per la meritoria iniziativa di Luigi Freddi, nasceva nella capitale, Cinecittà dopo che un vasto incendio aveva distrutto gli stabilimenti della CINES a porta San Giovanni. Molti mesi prima era stato istituito il Centro Sperimentale per cineasti di varie specializzazioni. In tal modo, l’Urbe veniva a costituire il luogo principe della produzione filmica nazionale. Inoltre a Roma venivano pubblicate varie riviste di cultura concernente la “Decima musa” da “Cinema” a “Bianco e Nero” . Vi scrivevano oltre al critico Prof.L.Chiarini, lo storico R.Paollela, anche saggisti e registi stranieri quali V.Pudovkin, Karl Vincent e altri. L’atmosfera romana era quindi più che atta a sollecitare un temperamento creativo come quello di Rossellini alla narrativa per immagini cioè quella Settima Arte che si andava maturando di anno in anno specie dopo l’avvento del sonoro. Di conseguenza niente di strano se l’appena trentenne Rossellini si ac-cingesse a provare la sua stoffa di cineasta con delle graduali esperienze. Esse, al principio, sarebbero costituite in brevi documentari di non più di dieci o 12 minuti. Chiaramente era a conoscenza dei lavori fatti in Piemonte, vari anni prima, da Roberto Omegna e, forse, proprio per questo tendeva ad una prosa documentaria che non ostentasse pretese scientifiche, ma potesse interessare lo spettatore con qualche nuova prospettiva d’indagine. Purtroppo, occorre ammetterlo, di queste cosette non c’è oggi quasi traccia; ciò vale per “Dafne” (1936) e per “L’après-midi d’un faune” (1936) 76
77 che, tra l’altro, si sa che avesse pochissima attinenza sia con la poesia di Mallarmè sia con la composizione di Debussy. Invece, anche perché rieditata qualche anno dopo dalla INCOM è risul-tata reperibile (e in ottimo stato) “Fantasia sottomarina” (1940) che di fantasia ha ben poco. Girata probabilmente in un aquarium, si tratta dell’osservazione minu-ziosa della vita che si svolge al di sotto della superficie del mare: vengono riprese con lucide sequenze le lotte tra numerosi pesci e tra molluschi e altri esseri subacquei (ad esempio lo scorfano contro la murena e l’aggressio-ne di questa contro il polipo che sa bene come divincolarsi e scappare via). I movimenti, e le fughe, e le improvvise emersioni sono registrate con vera perizia e con distacco senza commenti; (sembra sottinteso che ci si rifaccia all’aforisma di Eraclito: “La lotta è la madre di ogni cosa” ). Il regista appare convinto di stare trattando dei simboli naturali della realtà; sarebbe però azzardato affermare che stia provando il concetto di polemos. In seguito egli darà conto - sempre in brevi documentari - di altre indagini naturalistiche o più strettamente zoologiche ( “Il tacchino prepotente” e “Il ruscello di Ripasottile” ). Siamo di fronte, comunque, ad una non convenzionale realtà da scoprire e analizzare; Rossellini tenta di cogliere la trasmutazione di creature e cose oggetti non usuali della ricerca accademica. L’indagine, se non propriamente scientifica è condotta senza preconcetti in piena libertà di idee. Il regista si preoccupa di rendere delle immagini che trovino una loro congruenza nel contesto del discorso. Allo stesso tempo si avverte l’impegno di allontanarsi dalla tentazione di modi preziosi o inutilmente baroc-cheggianti: quelli che aduggiavano tanta produzione del genere negli stessi anni. Nel 1941 Rossellini realizza finalmente una vera e propria pellicola, sia pure anch’essa dalla struttura documentaria: “La nave bianca”. La fotografia è a cura di G.Caracciolo, le scenografie sono di A.Bonetti, il commento musicale è del fratello Renzo. La produzione è del centro cinema del ministero della marina. La durata è quella di un film normale (per quei tempi) cioè di circa un’ora e un quarto. Che sia intervenuta la supervisione del tenente di vascello Francesco De Robertis appare chiaro. Egli aveva esperienza di riprese cinematografiche avendo girato “Uomini sul fondo” e “Alfatau” che avevano ottenuto un successo più che meritato. 78 A questo proposito è giusto notare che i primi 15 minuti della “Nave
bianca” sono la descrizione della battaglia navale dell’incrociatore italiano contro la piccola flotta britannica incontrata sulla sua rotta. Si ha, quindi, la prova della presenza di un tecnico che riesce a darci la rappresentazione dei movimenti dei “pezzi” e il “gioco” dei vari macchina-ri e di tutti i congegni elettrici usati. Solo alla fine dello scontro a fuoco con il ferimento del marinaio Basso e di alcuni suoi camerati pare intervenire la mano di Rossellini. Si assiste, perciò, al ricovero di questi feriti che vengono traghettati dall’incrociatore alla nave ospedaliera “ARNO”. E’ il lato umano della vicenda in cui si esplicano le idee umanitarie del regista romano: “bisogna che l’uomo sia nella lotta ma con una immensa pietà per tutti” . E la compassione si fa evidente anche in occasione di fatti che non sarebbero tanto gravi per i giovani feriti rispetto a quanto visto prima. Ad esempio l’indugiare sul lieve dondolio del lettino chirurgico sul quale Basso viene operato agli occhi dato il muoversi del piroscafo. Un pò fuori tema appare, in realtà, l’annotazione della simpatia sentimentale che alligna pian piano tra Basso e l’infermiera a lui addetta (forse, anche, per la scarsa capacità recitativa della donna che non è sicura-mente un’attrice di professione). Ad ogni modo, “La nave bianca” risulta un film serio se lo si confronta alle commediole sciocche dello stesso periodo (“I telefoni bianchi”, e “Certe farsette liceali”) prodotti per lo schermo che servivano probabilmente a far dimenticare quanto di tragico comportasse la guerra: morti sui fronti di terra e di mare, e perfino nelle grandi città di Milano o Napoli e Torino e Palermo. Senz’altro adeguato appare il commento musicale ad opera del fratello di Rossellini Renzo che sa evitare ogni tono eccessivo anche durante l’iniziale battaglia, e non si rifà ad alcuna impennata eroica. Meno efficace, come accennato, la resa espressiva delle infermiere e dei chirurghi che lavorano sulla nave ospedaliera “ARNO” e si può ben spiegare perché sono persone che nella vita svolgono realmente dei compiti ben diversi. Al solito, le cose migliori risiedono nelle parti meno “tecniche” della vicenda. Lo stile narrativo è chiaro, scorrevole forse anche un po’ elementare in qualche sequenza. L’osservazione puntuale conduce l’autore a guardare con occhio pietoso i traumi cui vengono esposti questi giovani in divisa; essi, dopo tutto, non sono nemmeno lontanamente responsabili del clima di estrema pericolosità cui non è stato loro concesso di potersi sottrarre. E 79 bene ha fatto il regista a non mostrare emblemi di patriottismo: di fatto un’Arma come la Marina militare italiana era tra le meno legate al regime fascista, considerata quasi assolutamente di fede monarchica. Il 1942 è l’anno di “Un pilota ritorna” che dallo schermo risulta con la regia di Roberto Rossellini, il quale però ne ha, in persona, negato la pa-ternità attribuendola ad Alessandrini che era stato il realizzatore di “Luciano Serra pilota” di argomento analogo. Stavolta, comunque, non mancano attori di mestiere quali Massimo Girotti (protagonista), P.Lulli nonché la brava Elli Parvo. La trama del film è semplice: durante un’incursione aerea il tenente pilota Rossati viene abbattuto e fatto prigioniero dai greci alleati degli ingle-si (siamo nel 41 cioè nel secondo anno della guerra mondiale). Il comandante che volava insieme con lui ha subito una grave ferita alla gamba destra che dovrà essere operata. Ci penserà un medico italiano che risiede in Grecia da anni e che verrà aiutato dalla figlia Anna infermiera di professione (la Parvo). Tra lei e il tenente Rossati nasce una simpatia che sfiora il sentimento amoroso. Intanto sotto la pressione delle truppe te-desche, anche i prigionieri italiani sono costretti a cambiare luogo: Rossati ne approfitta e riesce poi con un aereo di cui si è impadronito a ritorna-re in Italia presso il suo distaccamento. Anche in questo caso, come ha ben notato Mario Verdone “prevale una forte curiosità per gli individui che soffrono a causa delle contingenze belliche d’ogni tipo”. Né Rossellini ricorre ad alcun stratagemma di carattere eccezionale.
Egli mantiene sotto stretto controllo la progressione drammatica degli avvenimenti. Solo talvolta la dilatazione dei tempi descrittivi appare fuori misura. Il realismo è convincente, quasi suggestivo come se fosse esso “la forma artistica della verità” (M.V.). Viene così evitato ogni vizio formale, ogni “incantamento” sulle belle immagine: si nota una precisione di montaggio che permette di seguire il racconto con attenzione e sono veramente poche le dispersioni e le digressioni. “Un pilota ritorna” è, però, l’opera che più mostra una certa retorica pa-triottica come volesse offrire un contributo morale ad una parte dell’eser-cito italiano. Questo, in quel momento, subisce perdite e sconfitte in varie zone dell’estesissimo fronte bellico. Ciò potrebbe spiegare il perché della insistenza di Rossellini in varie interviste nel negare la sua responsabilità per quanto riguarda la realizzazione del film. “L’uomo dalla Croce” e il film è girato nel 1943, sceneggiato insieme con 80
81 Asvero Gravelli (del quale è anche il soggetto) e con Alberto Consiglio allora giornalista di grande notorietà. La sequenza iniziale potrebbe trarre in inganno dato che mostra un gruppo di giovani spensierati i quali a tor-so nudo giocano tra loro su di una radura assolata. Si vedrà, invece, che si tratta di soldati dell’ARMIR (il corpo di spediziono italiana in Russia). Es-si sono in attesa del
ritorno dei loro camerati partiti per una azione belli-ca, appoggiata da carri armati sul fronte del Don (ricordiamo che qui per-sero la vita migliaia di italiani). Intanto quando il battaglione rientra dall’azione, risulta che c’è un ferito grave. Appare allora in primo piano il personaggio del cappellano militare, cioè “l’uomo dalla Croce”. Egli è un ecclesiastico pervaso da autentico spirito cristiano, e lo ha ben sottolineato in un suo saggio Mino Argentieri scrivendo che ciò che anima il prete militarizzato “si diversifica senz’altro da un cattolicesimo parroc-chiale e melenso”. Rossellini punta su tali fattori caratteriali anche per dare il giusto colore tragico ad un episodio di quella guerra follemento voluta dal fascismo. La vicenda, poi, si sviluppa anche in altre direzioni: la macchina da presa segue le attività delle contadine del villaggio russo in parte occupato dal battaglione italiano. Si vede infatti la vita che prosegue con le quotidiane azioni per la sopravvivenza. Tra le donne c’è una sola che pare intenzionata a resistere, insieme col compagno che è in qualche modo de-notato come una sorta di commissario politico. Numerosi dettagli, forse anche superflui vengono dati sulla preparazione dell’ennesima azione offensiva. Il comandante del battaglione spiega i problemi tattici ai suoi sottoposti con una dovizia di particolari: il che appare alquanto pleonastica. Ben più significativi appaiono invece quelli della forzata convivenza tra italiani e paesani russi, e vengono illustrati brevi episodi che sfiorano il paradosso ma che conferiscono al racconto una notevole genuinità. Poi, per farla breve, quando scoppiano i combattimenti il cappellano verrà colpito a morte nel tentativo ancor una volta di portare aiuto e conforto ad un ferito. Quindi, anche, in film come “L’uomo dalla Croce” gli stilemi di tipo documentario vengono a sostanziare il realismo rossellinia-no in modo che molte sequenze e inquadrature, possano dimostrare il riferimento a fatti concreti (tanto consueto al regista). E ciò, tra l’altro, gli consente di sfuggire alla retorica patriottarda e ai toni romanzeschi più compiaciuti. 82 Rossellini, come ha ripetuto più volte in tante dichiarazioni, non ha voluto partire da nessuna convinzione e ideologica. Per lui questa è una presa di posizione da scartare in quanto verità imposta, mentre una verità vissuta profondamente può essere solo quella raggiunta attraverso sforzi di coscienza e non per accettazione catechistica. Una tale tendenza appare una sorta di fruttuoso empirismo valido soprattutto in chi si prepara a lavorare in qualche arte non escluso il cinematografo. Perciò, l’accusa portatagli talvolta di “mediocre filosofo e tiepido narratore” appare fuori luogo. Non poche intelligenti monografie sembrano infatti mantenere presente lo sviluppo progressivo che avrà di anno in anno il talento dell’autore qui studiato. Per quanto attiene a “Desiderio” , film girato tra il ‘44 e il ‘45, iniziato da Rossellini, si ha certezza che è stato praticamente elaborato e concluso da Marcello Pagliero (e è giusto ricordare che Roberto Rossellini ha sempre rifiutato di esserne l’autore e stavolta più che motivatamente). La pellicola è una specie di feuilleton con Massimo Girotti ed Elli Parvo più o meno a loro agio nei problematici personaggi. È una vicenda drammatica che si conclude col suicidio della giovane donna secondo la formula decadente del “cinéma poetique” in voga Oltralpe dagli anni ‘35 in poi. Stranamente appaiono, per la sceneggiatura le firme di De Santis e di Antonioni. Sarebbe arduo comunque, individuare e caratterizzare gli elementi ros-selliniani presenti nell’opera che precederebbe “Roma città aperta” (1945) e che volutamente abbiamo posto come limite cronologico a questa nostra ricerca. Piuttosto è essenziale ricordare le qualità non transitorie (a detta dello stesso regista) di quasi ogni suo film, cioè la popolarità e la spiritualità. La prima per la tensione conoscitiva di certi fenomeni collettivi come la guerra o il crollo nazista o la Resistenza.
In più la spiritualità che per Rossellini non coinciderebbe forzosamente con la religiosità ma piuttosto col senso di fratellanza dell’essere umano, la sua capacità di comprensione e di perdono. D’altra parte, in una conversazione con alcuni redattori de “Les cahiers du cinéma” appare di forte rilievo la smentita dell’improvvisazione delle sceneggiature. “L’argomento di ogni mia cosa per lo schermo posso dire che è sempre stato studiato e meditato, senza togliere che alcuni adattamenti siano stati adattati giorno per giorno” dice il regista. 83 In ogni caso, al di là delle questioni tecniche, l’affermazione costante e coerente di Rossellini sarà quella: “di voler mettere in assoluto primo piano i valori della persona umana al di sopra di ogni crimine, errore o malvagità, ma scartando i toni didascalici e predicatori”. Napoli - 8 novembre 2013 84
85 “IL GATTOPARDO” DI VISCONTI Il “Gattopardo” di Visconti, nella sapiente trasposizione di vocaboli essenziali in immagini altrettanto o quasi altrettanto essenziali, resta e si rafforza come la storia di una vasta crisi; crisi individuale e sociale, perdita di fede in se stessi, nella propria funzione di classe, nelle qualità di lie-vito della storia.
In questo senso, l’opera è l’angolo visivo complementare delle altre opere meridionali di Visconti: da una parte l’estrema miseria di ‘Ntoni, di Rocco e i suoi fratelli, sradicati, percossi, umiliati. Dall’altro, il reciproco estremo di un vertice di raffinatezze aristocractiche,pronto a crollare. Forse un più deciso contrappunto interno, tra i volti incensati e imbalsamati dei Salina, dei loro aristocratici pari sarebbe stato in chiave col pensiero dominante del regista, avrebbe reso più significante gli estremi di una contrapposizione dialettica; ma a grandi blocchi nella sua opera si ritrova questa contrapposizione ed è ciò che importa se si pensa ad una produzione non discontinua che dai presagi verghiani di “Ossessione” , sfocia ne “La terra trema” e riappare in tragica traslazione in “Rocco” . Donde la scelta de “Il Gattopardo” da parte di Visconti? Oltre che per una identificazione, come quella rilevata da Moravia tra il Principe Salina e lo stesso regista, una stessa passione per i problemi della storia, lo stesso temperamento di costituzione leopardiana, poco incline alla retorica del progresso e dell’ottimismo programmatico. Il pessimismo di Tomasi è forse proprio della specie di cui parla Visconti quando dice “quanto più l’intelligenza si serve del pessimismo per scavare in fondo le verità della vita, tanto più la volontà si arma di una carica ottimistica, rivoluzionaria” ; quel senso di restituire intatta e obbiet-tivamente l’involuzione di una classe e di una coscienza, simbolo di essa, come avveniva nel borghese Balzac ammirato dal dialettico e materialista storico Engels; non quella “volgare sociologia” tesa più che a illuminare i problemi dal di dentro o a inciderne le linee paraboliche, a suggerire ri-medii spesso tanto facili da apparire ciarlataneschi. Il “senno di poi” di cui ha parlato Vittorini, per surrogare una difesa della sua lapalissiana stroncatura del romanzo, è il senso profondo della storia: il pessimismo del Gattopardo, è scontato o verificato storicamente sul fallimento almeno amministrativo e democratico dell’impresa unitaria di Garibaldi; “gli sciacalli sarebbero venuti e le iene, e i Sedara avrebbero ingrandito il raggio d’azione della loro mafia in embrione passando dal-86
87 l’eliminazione dei suoceri a quella di chiunque potesse opporsi alla loro fame di lupi senza coraggio …” Il plebiscito era stato una mascheratura d’atto politico, aveva soffiato sull’entusiasmo del momento ma non avrebbe consolidato l’unità effetti-va3, non livellato le differenze, anzi, con atti spesso rapaci, le avrebbe aggravate4. E nonostante ciò, a ben vedere Salina sa che quelle scimmie bercianti in sordina, nel ballo sontuosamente funerario sono passate; solo egli non riesce ad andare oltre ad un doloroso scetticismo; resta come un uomo con una incrinatura nel cuore che comprende molto ma non sa come potrà sdi-panarsi una matassa così terribilmente arrufata e in molti fili già marcia.5 Da qui, quella sensazione che il romanzo spesso allontani i fatti e li lasci vagare qua e là nello spazio per la forza di opposte passioni e aspirazio-ni:la segreta simpatia per Tancredi, o gli sbocchi disordinati di virilità del Gattopardo, o la non chiara polemica verso il gesuitismo, male secolare non solo della Chiesa ma di molto laicato, che si apporrà sulla storia d’Italia col tumore di malinteso machiavellismo. Se il Principe nel romanzo, spesso si lascia andare a boutades brillanti come “finché c’è morte c’è speranza,” l’autore interviene subito con un pedale critico a frenare tanto nichilismo e aggiunge che “il principe stesso trovava ridicolo un tale stato di depressione..”. Lo stesso Lampedusa non è chiuso “nell’immobilismo che gli preclude di usare le misure della storia e del reale” (Alicata): il sempre di Tomasi era “…un sempre umano, che poteva durare un secolo, due secoli” 6; Lampedusa come il Balzac di Engels vede l’aristocrazia e la nuova grossa borghesia siciliana “avide di potere, cioè di ozio…” 7 o “la ricchezza come un vino vecchio che lascia cadere nel fondo della botte, le fecce della cu-pidigia, delle cure, della prudenza…” 8. Ogni opera importante, come ha notato Thomas Mann, ha del resto “un volto bifronte ài passato e di avvenire” , e del romanzo si può dire che ha il volto più proteso verso il passato che verso il futuro, ma a ben vedere, lo 3 … “questo Regno d’Italia che si è formato per miracolo, vale a dire non si capisce come.” 4 … “Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca,… Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio…” 5 … “anche le stelle fisse veramente fìsse non sono.” 6 p.219 7 p.35 8 p.45 88 scetticismo del Lampedusa si viene ad avventare più contro un secolo intero di savoiarda incuria, di delusioni politiche; chi guardi fin dentro il guscio delle sue parole, s’accorge che mentre la crosta è intarsiata di finis-sima nostalgia, il gheriglio ha un fermento amaro che è la prima tappa verso l’autocritica; la consapevolezza. Si noti il ritratto del re Ferdinando, ridotto alla sua prima essenza, quella di un re che non può governare se non con la forca, la repressione, un errore, le cui mani e i cui occhi sono quelli stessi degli sbirri o degli spioni e tutto il nobile sdegno del Gattopardo durante il breve colloquio di Caserta. Se Visconti, per economia di impianto figurativo, per concisione di passaggi ha saltato un raccordo così di rilievo nella ideologia dello scrittore, ha avuto in ogni altra parte il merito di dare una
lettura tutta in toni di realismo critico di questo “racconto tra il lirico e il critico”, ne ha spesso esplicitato i significati interni (la magnifica sequenza dell’ardore garibal-dino, nella sua prima fase positiva) ha insomma saputo portare lo scetticismo del Tomasi ad un livello di polemica lucida, seppure continuamente equilibrata alla comprensione per la nota nostalgica (ora pareva che gli astri non obbedissero più “ai suoi calcoli” ); ha saputo intravedere e spesso vedere come la nostalgia del Principe sia soprattutto noia del suo ambiente, indigestione del recitativo aristocratico e alto borghese (si veda la sequenza del ballo: quell’antropomorfismo delle “bertucce crinolinate” , le bruttine filles en fleur della nobiltà palermitana, frutto di un sangue stanco, troppo estenuatosi nelle astuzie e nelle ferocie per mantenere i propri privilegi, “la propria perfezione” . La sottolineatura del fastidio che al Principe dà il colonello Pallavicino, con quella retorica fradicia d’ipocrisia e insieme tutta imbevuta di una di-plomazia militaresca, fra volpina e spontanea che gli stessi capi della Sinistra avrebbero sottovalutato, fin quando si sarebbero trovato di fronte gli eredi dei Pallavicino, i Bava Beccaris, pronti a tramutare il patriottismo in motivo assoluto e ragion sufficiente di ogni repressione. C’è insomma,qui come in “Senso” , un’amplificazione e insieme un’approfondimento delle strutture storiche, il saper portare i frammenti sag-gistici a dimensioni di romanzo; il risalire attraverso cento fili d’acciaio a quel risalto dialettico che Engels, appunto, trovava maggiormente in un autore borghese come Balzac che in uno proletario o proletarizzante come Zola. Nell’autoritratto, che Lampedusa ha fornito di sè, Visconti ha ritrovato tutte le sue profondità, il dominio che gli è familiare di certe complessive situazioni e di ricalco, con mano ferma e larga di narratore ha composto sul 89 volto di un attore quale Lancaster, un lessico sentimentale e sociale, intimo e pieno di risposte all’esterno, di lucidità amare e di acute riflessioni. Il personaggio centrale è quindi tutto valido ed è non poco essendo il perno, il centro d’attrazione e di azione di ogni altro elemento narrativo; così ugualmente è sempre giustificata, sempre calibrata la presenza di un personaggio come Padre Pirrone, coro sfuggente, ambiguo, sotteso; quelle notazioni, degne di Stanislavskij, del continuo uso del fazzoletto per il sudore, intese a denotar’ senza peso, il senso di sporco, di umido, di mollicio nella figura di questo pavido e pure intelligente gesuita, sempre pronto a moltiplicare gli sforzi per sfuggire agli avvenimenti, per mettersi fuori giuoco rispetto alla storia. Può darsi, però, che sarebbe stato di aiuto nella composizione del protagonista un maggiore accenno a quel suo ritrarsi di tanto in tanto negli studi di astronomia, uno scetticismo simile seppure opposto a quello delle fughe da Palermo per i suoi amori mercenarii. Così, il colore spesso non ha reso quanto aveva reso il colore di Aldo (e Krasker) in “Senso” e lo studio troppo minuzioso di certo figurativismo napoletano (in fondo di maniera) o di un decorativismo decisamente troppo splendido, nei ricercatissimi ambienti interni siciliani, ha estenuato certi problemi di primo piano; l’estrema fedeltà verso il testo è ser-vita a lasciargli quella vernice di raffinatezza ottocentesca che quando gli ha preso la mano, l’ha risucchiato un pò troppo verso la cornice più che verso il centro del quadro. Difetto questo che si riscontra in non poche regie teatrali di Visconti. Il ritmo teso, compatto di “Senso” è spesso assente, ci si viene anzi ad imbattere in qualche slittamento nella scelta dei capisaldi descrittii (ad esempio l’assenza di Bendicò, questo cane “che sembrava un cristiano” e che “come le stelle, felicemente incomprensibili, era incapace di produrre angoscia” 9; mutila il discorso di una sua accentuata dialogazione umana; così come la troppo frettolosa notazione dei lavori astronomici del principe non giustifica sul piano intellettuale quel suo astrale e astratto pessimismo che affiora di tanto in tanto sulle considerazioni più acute di buon senso e di satira corposa, come i suoi raggelamenti o le sue solitudini in conflitto con le sue emotive, sanguigne speranze d’uomo.). Comunque, in molte parti è presente, mantenuto ad alto tono quella cadenza stendaliana che corre nel romanzo con vena che cementa insieme anche i passi più apparentemente frammentari; ma nel film al contrario 9 p.105 90 che nel romanzo non risulta affatto la personalità di Tancredi (reso labile, effeminato, tutto smagliature di carattere e deviazioni fisiche da un Delon abbandonato ormai a certe sue défaillances personali che incidono pesantemente sulla raffigurazione dei personaggi). Di
complemento, quasi di risonanza si viene a svuotare la figura, a tutto tondo, di Angelica Sedara. La Cardinale non sente la parte, resta estraniata spesso goffa in quel ridondante disegno a contorni volgari che il regista le ha preparato. Non si riesce a richiamare le notazioni che Tomasi fornisce in chiave di futuro anteriore (per azioni che si danno scontate come già avvenute in futuro): “sarebbe stata una delle più viperine Egerie di Montecitorio o della consulta” ; nè traspare l’educazione ricevuta in un collegio fiorentino (la risata non solo “sale di tono” ma diventa sguaiata, da sgualdrina e il punto bastava farlo con quel tocco acuto di “portò le dita ai denti per metter via un filaccio di carne o d’altro” . Al contrario, tratteggiata con volpino vigore da P.Stoppa, la figura di Calogero Sedara, balza viva, presente, ben legata a tutto l’impianto; senza sembrare, egli è il vero deus ex machina di tutto l’incredibile congegno storico; il suo cinismo soddisfatto, fisiologico è l’unica cosa che si intravede che verrà ad avvantaggiarsi dalle mene politiche più nazionalistiche che sociali, più restauratrici che evolutrici di quel tormentato eppure, in buona parte, sterile periodo storico. Sedara è anche una sorta di mafioso (ante literam?), (la strana morte del suocero, a lupara), si allargherà un giorno per difendere le terre che egli ha sottratto, da laborioso sciacallo, al principe; in questo senso gli eredi dei Gattopardi sono degeneri, ad un feudalesimo indifferente, sta-tico, inetto, sostituiranno un latifondismo avido, spietato, sanguinosa-mente attivo nel proteggere i propri soprusi e i propri privilegi. Stoppa nel finale, è chiuso in questa gioia malvagia del possesso avaro e avido, nella feroce contentezza di chi vede schiacciate le speranze popolari di una perequazione di beni o almeno di umano benessere; ride a denti stretti, con rughe verticali sul volto, rughe di un bluastro buio e torbido come di chi si sente principe per una strana investitura giuntagli da una lontana monarchia, intenzionata solo a cambiare gli uomini non il sistema dei vassallaggi. Nel restituire il paesaggio siciliano; deserto violentato di sole, aspro campo per il sudore degli uomini, dei contadini oppressi, Visconti ha ritrovato però non solo uno sfondo ma il presente nel passato e il passato nel presente e ha riconfermato ampliandola la validità storica della narrazione del Lampedusa, quel muoversi così lento degli anni e degli 91 animi siciliani che rassomiglia più alla immobilità del fato che al volgersi della storia. Ma ha pur reso chiaro che anche il fatalismo è dopotutto, al livello storico, un accumularsi di delusioni che si tramuta in accumularsi di rassegnazioni; donde il bisogno di un trauma, di un fattivo shock esterno per dare un avvio ad un processo di ripresa; l’ideologia della perfezione e insieme del relativismo, come vide Gramsci a proposito di Pirandello “non ha origini libresche o filosofiche, ma è connessa ad esperienze storico culturali, vissute con un apporto minimo di carattere libresco e che in essa ci sono concezioni del mondo che possono riallacciarsi genericamente ad un punto di vista che all’ingrosso può esser definito soggettivistico; e questo punto di vista esiste nella vita stessa, e perfino nella cultura popolare di grado infimo e bel folclore” . Da qui le estreme cristallizzazioni e disgregazioni dell’individualismo: che non possono non condurre l’aristocrazia ad una putrefazione avanzata, ad un linguaggio funerario (in tal senso il controllo lessicale di varie pagine di Tomasi è sintomatico) e i lavoratori ad una rassegnazione che è già consapevole sistema di nuova lotta, di nuova ricerca di solidarietà ( “La Terra trema” ). In un senso, molto lato, s’intende, si potrebbe dire che Visconti non po-tendo trovare in Verga l’opera misteriosa che avrebbe coronato il ciclo dei “Vinti” (La Duchessa di Leyra) ha sentito “Il Gattopardo” come un esatto ersatz di quello, e del resto uno scrittore legato a Verga come De Roberto aveva fornito, pur senza una forza si essenzialità, tale tema in “Vicerè” ; è proseguito così in modo coerente il discorso sul sottofondo storico del Sud, l’aggancio fra gli estremi termini di una parabola che non deve lasciare indifferenti, che si svolge a cerchi concentrici, larghi ma non vaghi e anzi perciò più capienti, con una sottile interpretazione del metodo storico del romanzo. In questo modo, il film senza avere i modi della perfezione, in un bilancio obiettivo di dati negativi e positivi, mostra senz’altro quella “impronta dell’avvenimento reale” che proprio Verga considerava il sigillo più autentico per una narrazione legata ai fatti della vita e della storia. Napoli - Circolo Napoletano del Cinema, 11 maggio 1963 92
IL MERIDIONE DI VISCONTI L’accoglienza, in gran parte negativa, dell’ultima opera di Visconti non deve influire sul giudizio globale che è doveroso dare sul regista scomparso. Il criterio di valutare tutta la produzione alla stregua del punto di approdo finale, anche se molto diffuso, non è dei più giustificabili. Si finisce spesso col partire dagli scompensi e dalle carenze presenti nelle cose recenti per rintracciarne precedenti e prefigurazioni nelle opere più lontane. Un bilancio ragionevole appare quindi quello che parta da un’analisi della cronologia e, nel nostro caso, dei rapporti del regista col meridione che segnano anche l’arco più vivo della parabola. La costellazione dei film meridionali brilla ancora di luce propria e si è potuto verificarlo anche nel breve ciclo che la Tv ha inteso offrire alla meditazione degli spettatori, in genere travolti da torrenti di insignificanti mediometraggi. Nè sembri un paradosso che, ad un secondo grado di lettura, anche un film come “Ossessione” rientri nettamente nell’impostazione visuale che a Visconti è dettata dal suo profondo interesse per la questione meridionale. Quel panorama di depressione sociale ed umana appare angolato sempre più come un simmetrico riscontro a quello che ancor oggi rappresenta il profilo di consistenza del Mezzogiorno. La “questione” viene scoperta da Visconti attraverso una via letteraria (Verga) ed una più nettamente ideologica: nel ‘60, confesserà apertamente di essere stato illuminato da Gramsci “sulla funzione particolare, insostituibile degli intellettuali meridionali per la causa del progresso, una volta capaci di sottrarsi al servilismo del feudo e al mito della burocrazia statale” . Ed è questa complessa coscienza che lo porta a coniugare il presente in 93 quel di Acitrezza, il suo modo estetico di realizzare la “vocazione mili-tante per la sinistra” . Ne “La terra trema” il dramma, nel suo nucleo di sviluppo, è espresso tutto intero come una conseguenza diretta di un conflitto economico mentre la forma di pacato dinamismo pittorico è la più adeguata a rendere un ritmo di dolore che deve farsi ritmo del più profondo sdegno. Come ogni grande opera, il film non nasce da una pura alge-bra mentale e la selezione degli elementi compositivi proviene simulta-neamente da convincimenti tematici e stilistici. Ancora Sud è quella “Hollywood sul Tevere” che viene ritratta dall’autore nella caustica incisione in bianco e nero di “Bellissima” : un apologo senza schemi prefissati, una storia paradigmatica, un modo sottile di mettere a nudo i gelidi calcoli egoistici di un ambiente dove spadroneggia la logica del profitto. Anche in questi “vinti” , però, la giusta presa di coscienza diventa il giusto orientamento per farsi un giorno vincitori della propria sorte. Nè lo stesso regista si farà distogliere dal suo sentito e ragionato itinerario a causa di certi richiami curiali all’ottimismo che, dopo il “miracoloso” ‘48 vengono dal bosco e sottobosco governativo. Dopo la densa policromia di “Senso” , la tematica meridionale riappare con energia tragica in “Rocco e i suoi fratelli” . Il trapianto della famiglia Parondi a Milano risulta indagato in tutti i suoi risvolti: la dispersione morale di Simone, il dolore terrestre e cristiano di Rocco, la fattiva accettazione della realtà in Ciro. Il filo d’acciaio che vibra nella filigrana filmica ha un segno positivo pur attraverso i toni neri del quadro in movimento. Saper vedere la boxe e la prostituzione come poli di una stessa alienazione sociale significa comprendere che “tali colpe” hanno radici nella situazione storica e di esse i proletari portano minime porzioni di responsabilità.
Come ha notato Spinazzola, proprio “Rocco” risulta il tentativo più avanzato per coinvolgere una più vasta platea in un discorso di impianto democratico. Per ciò che attiene ai moduli narrativi e alla raggiunta misura da “romanzo” può ben dirsi che Visconti sceglie di “shakespeareggiare” e non di “schillereggiare” : i suoi personaggi non sono semplici portavoce della vicenda che è invece espressa dalla serrata dialettica dei fatti, delle cose e delle azioni. In pari tempo, riesce ad evitare tutte le trappole di un populismo superficiale e pietista che tende il suo arco estetico dai romanzi di E.Sue fino ai film di Amoroso e Matarazzo. Nè si abbandona ad un grezzo contenutismo, come opinano critici alla Grobian, ma è attento alla formalizzazione delle componenti linguistiche in una struttura compatta e in un dato contorno. Il suo “rispecchiamento dinamico” risulta un procedere conoscitivo che non vuole affatto lasciare il mondo com’è. 94 Su questa linea può accettarsi anche “Il Gattopardo” , sia pure come occasione minore per un nuovo e storicizzato approccio agli strati profondi del meridione: l’atmosfera non è quella di una morte individuale (il principe di Salina) ma collettiva: la fine di quel mondo non può identifi-carsi con la pura vanità della vita ma con quella di una ben determinata classe politica. Ben lungi dall’essere un’esercitazione in “sterili e magni-loquenti fumetti” , si tratta della riflessione più autocritica che, come uomo, può tentare il regista. Da questo punto in poi, la parabola tende a compiersi e, non senza ragione, c’è la progressiva perdita di contatto col Sud. Un autobiografismo sempre più compiaciuto prende il sopravvento sul rapporto creativo del narratore con la società. Napoli - La Voce della Campania, 13 giugno 1976 95 “OSSESSIONE” E LA NASCITA DEL NEOREALISMO L’esperienza acuta, drammatica della seconda guerra mondiale rappresentò la resa dei conti non solo delle ideologie ma della cultura e del sangue d’Europa: nel campo della cinematografia italiana il bilancio si presentava con aspetti devastati e sconsolanti. Erano in pauroso soprannumero i cadaveri da portare al cimitero. “Che i giovanni d’oggi, che son tanti e che vengon su nutrendosi, per ora, solo di santa speranza, tuttavia impazienti per tante cose che hanno da dire, si debbano trovare co-me bastoni tra le ruote, codesti troppo numerosi cadaveri, ostili e diffi-denti, è cosa ben triste.” (Luchino Visconti- “Cadaveri” in Cinema N.119, 10 giugno 1941) Ma sotto le piaghe conformiste, sotto il ciarpame retorico (di un “Assedio dell’Alcazar” ) o la cartapesta imperiale dei varii Scipione l’Africano o il mortuario irrigidimento calligrafico per es. di “Un colpo di pistola” , avevano tuttavia serpeggiato, per riaffiorare di tanto in tanto come acque di doline carsiche, rapidi presagi di realismo quali “1860” di A.Blasetti, o “Montevergine” di Campogalliani o lo stesso “Acciaio” di Ruttmann, il cui soggetto, e la cosa non scevra di significati, era stato steso da Pirandello. Non era stata del tutto cancellata una certa concreta adesione ad una ancor viva tradizione popolare, esemplificata appunto da certi film del Chiarini ( “La bella addormentata” o “La peccatrice” ) o del Poggioli ( “Sissignora” ) o di Vergano ( “Quelli della montagna” ). Ma soprattutto sul piano critico si combatteva una battaglia che individuava ormai apertamente nel regime l’unica soffocante remora alla espressione di problemi vivi, di una realtà, cioè, che comprendesse insieme l’uomo e la società del nostro tempo e del nostro paese. I più avanzati scrittori di quegli anni (i Vittorini, i Pavese, i Cecchi si erano fatti mediatori di una cultura spregiudicata e a larghi tratti francamente democratica, quale il neorinascimento letterario americano e trovavano appunto nella traduzione di quei testi un linguaggio di libertà o di meno avvilita moralità politica. Nella stessa direzione, anche se per altra via, si muovevano, come aveva modo di notare anni fa Guido Aristarco in un suo penetrante studio sull’argomento, (ripreso ed integrato poi nella prefazione a “Nascita del Cinema” (Saggiatore - Milano), si muovevano i Russo, i Pintor che scorge-vano in Verga e perfino in Pisacane la parola che avrebbe potuto rendere, con le necessarie
trasposizioni storiche, il volto più nascosto eppure più vero e più diffuso dell’Italia. (vede Cinema Nuovo N.24, 1 dicembre 1953) 96 Non è perciò un caso se, mentre da una parte De Sica volgeva una sensibile occhiata d’interprete sul mondo piccolo-borghese dove i bambini guar-dano gli adulti e ne restano sgomenti, Blasetti riscopriva l’idillio di tendenza realista in “Quattro passi fra le nuvole” e un documentarista come Antonioni restituiva frammenti di vita contadina, vissuta e sudata dalla “Gente del Po” con un livello figurativo d’impegno parallelo all’impegno umano e sociale. Così il giovane Visconti, con in petto già i presentimenti e il pensiero di Acitrezza, si rivolgeva ad un Cain (e del resto era ciò che aveva fatto lo stesso Pavese di “Paesi tuoi” ) ma riempiendone i vuoti, decadenti o friabi-li, con corposi discorsi che miravano a rompere le dighe dei calligrafi o dei mitologi, e a recuperare, attraverso il populismo di questi scrittori d’oltre Atlantico, la lezione di storia nostrana lasciataci da Verga, Capuana e De Roberto e troppo a lungo soffocata sotto le ceneri del d’annunzianismo e anche del pirandellismo più alla moda. Del resto il valore rivoluzionario di “Ossessione” fu chiaramente avvertito dalla censura fascista, che riconosceva nelle strutture narrative del film tutto ciò che per anni il regime si era adoperato a tener nascosto. Un giovane saggista, il Pietrangeli, oggi, come regista sperduto tra il di-re e il non dire, il fare e il non fare, si interrogava allora sul personaggio di Gino Costa e diceva: “vogliamo dare un’identità vera a quest’uomo? chiamiamolo neorealismo!” Forse era eccessivo questo retrodatare un fenomeno completo con il venire alla luce delle prime opere del periodo postbellico, ma come ipotesi di studio non può venire respinta tout court.
Se da un lato il soggetto era americano e lo stile di Visconti risentiva di quel tirocinio tra il formale e il “nero” da lui espletato in Francia con Renoir, sotto la curvatura dolce ed insinuante degli impasti di luce, nelle fusioni intermedie di bianchi e di neri, di grigi attraversati di scatto da candori violenti, si muovevano personaggi della autentica provincia italiana, con loro scuciti diffetti, con l’afosa indolenza delle zone sottosviluppate, col depresso fervore di chi arranca su salite difficili e, forse, senza meta e se devia, si perde in rivoli di sangue colpevole. Già insomma si avvertivano i sintomi e i primi effetti di quello che F.Parri avrebbe definito “lo stil nuovo italiano” e in cui l’uomo e l’artista non saranno più due entità metafisicamente distinte dato che come vuole Mann “l’arte elimina sempre la parvenza dell’arte”. Questa tendenza a giudicare le cose, le stentate, miserabili cose di casa nostra sgombrando la veduta di tutte le impalcature ingannevoli, era un 97 mode certo di conquistare una moralità intellettuale che si traducesse poi in termini di compiuto linguaggio filmico. Così non si rinnegava già più quella scottante ansia di dire la verità, di gridarla, di confessarci vinti e caduti, unico modo per risorgere e tirare in-nanzi: Gino Costa era infatti un disoccupato, nonostante tutta la sua vivace improntitudine, la sua hollywoodiana prestanza, era solo un disadatto o forse un reduce dalle non chiare guerre di Etiopia e di Spagna, dove aveva imparato ad uccidere per avventura. Così si spiega il giuoco erotico, di evasione, fattosi torbida passione per una donna che aveva barato perfino con se stessa e che lo avrebbe condotto ad un destino tragico ed ignominioso ad un tempo. Erano dunque metafore queste vite affogate, represse nel sudore della provìncia padana, avara e ardua da fecondare, in cui il vino aspro stempe-rava la polvere che s’accumulava sugli strumenti per “il bel canto” . In quest’atmosfera così colta in immediatezza, era un fatto che la stori-cità del presente, la sua calda contemporaneità si presentasse con una urgenza tale che era impossibile a chi volesse discorrere con piena sincerità, non manifestare gli acquitrini, le rogge paludose ed ipocrite a cui un ven-tennio di proteste fanatiche e cieche avevano condotto individuo e società. Il “tempo” , il ritmo suggeriti dal libro di Cain faranno perciò scoprire a Visconti un dramma che era anche il nostro e, forse, soprattutto il nostro. Nè costituiva solo una circostanza il fatto che Visconti e i suoi più diretti collaboratori fossero tutti del gruppo critico di “Cinema” (Alicata, De Santis, Puccini e Pietrangeli). Per questo, indagando, configurando su un metro conosciuto e familiare una materia nata da altre, straniere esperienze, Visconti non rimane in “Ossessione” su un piano distaccato, intellettualistico nonostante il gusto pittorico che smussa troppo spesso certe dure angolosità della luce padana, di una valle arida nonostante il fiume; lungo le indicazioni di intelaiatura narrativa Visconti risale alle sue letture verghiane allo spirito della tradizione realista cui integra però nuovi caratteri umani. E anche se per certi stilemi egli trovava e utilizzava curvature di raccordo tipiche di certo cinema francese tra il ‘30 e il ‘40, egli sembra superare con un impeto ben meditato e motivato certi “astratti furori” con una aspra fedeltà a quella tradizione, trapiantando il clima d’inquietudine dalla situazione sociale nei suoi esponenti individuali e viceversa. I riferimenti a “La bête humaine” di Renoir valgono quindi non come chiave d’interpretazione o come inquadratura critica ma come analogia di stimoli e di humus
culturale. 98
99 La Bassa Padana e i suoi argini: Codigoro, Pontelagoscuro (nomi che anche recentemente hanno fornito gli estremi di una tragica geografia italiana) e Ferrara con le sue viuzze secanti e claustrali e Ancona con le sue strette salite che subito l’allontanano dal mare e le ragazze intasate in vesti cafone e gli uomini dal viso stanco, rigato da solchi grevi sono visti con un approccio disadorno che mette a nudo e senza compromessi tutte le penose smagliature di un’ltalia ‘42. Ed è l’ambiente che determina, che modella pesantemente le figure del racconto fino ad espellerle da sè; e Giovanna e il Bragana sono emblemi di un certo mondo
dell’imprevidenza, dell’indifferenza nostrana del solito miracolismo che è attesa e sogno di impossibili o folli miracoli. E Gino non è come il Frank di Garnett (un risibile rifacimento holly-woodiano della story) “uno che sente un formicolio ai piedi e, perciò, gi-ra” e Giovanna è stata operaia e lo Spagnuolo non sembra occorre spie-garlo come simbolo che tante volte è stata fatta l’allusione a quell’antifa-scismo che non era solo resistenza ciarliera e salottiera da barzellette. Per Giovanna, Visconti avrebbe voluto la Magnani: un incontro che doveva essere rimandato fino a “Bellissima” e all’episodio breve ma non ir-relevante di “Siamo donne” . C’è insomma in “Ossessione” in ogni elemento, per quanto rifuso da quello del romanzo e più o meno stampato in moduli di cinema francese un contenuto, una motivazione morale e ideologica che premono dal di dentro sulle forme esterne e le dimensionano in più nuovi e vitali contorni. Nella storia del cinema italiano, del resto, “Ossessione” è indicativo anche per una svolta nel gusto e nella tecnica della recitazione (rara e forse unica occasione per gli inflazionati Girotti e Calamai, basti pensare i due immersi in quello scempio di truculenze che erano, rispettivamente “La corona di ferro” e la benelliana “Cena delle beffe” . Nelle inquadrature di questi due volti e in quello di Juan de Landa, splendido Bragana) è colto sempre, a distanza ravvicinata, senza strati co-smetici ed esornativi, un attimo di dura, spesso torbida realtà. Si tratta talvolta di illuminanti litoti: si veda ad es. la scena in cui Giovanna, nella sera attaccaticcia, umida di caldo sfoglia la “Domenica del Corriere” e mangia sul tavolo sommerso da un untuoso disordine e da piatti da rigovernare. O la sequenza della piccola lavandaia che rientra nella casa dove sono i due amanti assassini e s’immerge nell’oscurità del corridoio e ascolta alle porte come un piccolo cuore che dovrà corromper-si in tanta miseria. Solo la colonna sonora, a parte le intuizioni magistrali di quei motivetti 100 banali e perciò doppiamente simbolici, messi in bocca a Giovanna “Fio-rin, fiorello…” o di quelle polverose romanze da trattoria quali “Di Pro-venza il mare e il suol…” che il Bragana strepiterà al concorso di “bel canto” nella sua pletorica inconsapevolezza, la colonna sonora, dicevamo, ci sembra non sempre saper aderire con misura e proporzioni tonali al-l’azione; Rosati carica di timbri e di chiaroscuri proprio le scene in cui dovrebbe alleggerire la tensione (e chissà poi se a Visconti sia stato concesso di discutere il missaggio?). In complesso però, lo spunto americano, lo stile di derivazione e di fil-trazione francese, non servirono a tradire il compatto animus italiano, antifascista, “resistente” di Visconti. “Ossessione” rappresentò uno degli av-vii più maturi, più consistenti a quel cinema che nascerà dalle radici di sangue della Resistenza, cui, per salvare i valori del futuro ancor oggi si dovrebbe guardare e non solo per conoscere, per comprendere ma soprattutto per provvedere. Il film rappresentò per il suo autore il banco di prova di quel cinema an-tropomorfico da lui teorizzato, preparato, elaborato del di dentro con serie sperimentazioni culturali. L’immagine è sempre dominate, infatti, dalla presenza viva del volto umano e, nel caso specifico, di una tipologia che l’italiano poteva identificare senza sforzi, sentendola “presa dalla realtà” ; e non solo le maschere dei protagonisti, ma quelle di contorno: l’agente atrabiliare e dedito al suo dovere come alla soddisfazione di una perver-sione segreta, il prete buongustaio e pescatore di trote più che di anime, l’agitatore socialista con il suo fondo di scettico idealismo, gli amici della musica, “melomani” stolidi e provinciali, e perfino i passanti di quelle strade d’Ancona, distratti come in preda ad
una mancanza di vie da prendere, di dignità, nell’ossessione già spenta di una libertà da ritrovare. Più appropriate di tutte le parole di Zavattini, nella sua nota di Diario (in Cinema Nuovo № 54 del 1955) a proposito dell’atmosfera di quei me-si, preparati però da tutti quegli anni di lento, molecolare lavoro di rina-scita, e che Aristarco cita nel saggio che abbiamo tenuto presente: “Allora dall’intensità e fervore della scoperta, derivava che l’artista e l’uomo ap-parissero così uniti, che non si sa bene dove cominciava l’uno e dove finiva l’altro; più che il come, colpiva la cosa da raccontare e se questo movimento postulava l’uomo prima dell’artista, l’artista era felice di venire dopo l’uomo.” Napoli - 1960 101 CONSIDERAZIONI SU UNA DECADENZA L’accento posto da critici pur severi sulle circostanze di tempo e di luogo a giustificazione della infecondità di certi nostri registi è valso forse so-lo a contribuire all’inaridimento delle nuove leve dalle quali era lecito at-tendersi un più spericolato tirocinio. Se infatti il cinema è un’industria con tutti i suoi innegabili ostacoli materiali, il film, come ammonì Chiarini, è un’arte e l’artista è tale in quanto riesce a trarre suggerimenti interiori anche dalle difficoltà e dai limiti circostanti. E’ per questo che il problema del neorealismo ci sembra piuttosto colle-gato all’esaurimento di uno stile aderente a certi dati di un periodo storico; all’attenuarsi, cioè, di quel risentimento poetico, al clima torbido ed insieme epico della nostra crisi di crescenza nazionale. Ciò può forse servire a spiegare dal di dentro certe odierne manieristi-che ed insulse proliferazioni del genere e il suo lasciarsi ipnotizzare dalle più piatte apparenze del costume. E’ un fatto che certi germi di decadenza, presenti anche nelle prime genuine opere (ricordiamo: l’episodio romano di “Paisà” , alcune suggestive sequenze da “Il mulino del Po” o di “Anni diffìcili” ) si sono moltiplicati nella produzione media di questi ultimi anni fino a provocare una diagnosi di perniciosa anemia spirituale. E, purtroppo, si è dovuto constatare anche in film di notevole impegno, come “Il Tetto” di De Sica, quel venir meno dell’armonico trapasso dalla descrizione dell’ambiente all’approfondimento della tematica psicologica che era l’anima e il cuore dei vari “Umberto D.” o “Ladri di biciclette” o “La terra trema” . Si è tralasciata di frequente nella corriva notazione di cronaca la sostanza più vera del dramma umano; se, infatti, la materia sociale può servire da presupposto di un discorso più immediato, più caldo di vita allorchè riesce a trasformarsi in una vigorosa e piena visione della realtà, da sola, inerte e confusa qual è, non può garantire la nobiltà e nemmeno la dignità di un’opera. Insomma uno stile, seppure adeguato alle contingenze di un determinato periodo, non andava difeso come l’unico, imprescindibile modo dell’operare artistico dei nostri giorni. Questo, per la sua stessa natura, non può seguire un dato solco preordinato o formarsi nell’ambito chiuso di una serie di giudizi positivi ad esso antecedenti. E la storia, che non è una foresta pietrificata di allori, ha superato in 102
diverse zone le remore dei facili ammaestramenti “a posteriori” : i registi autentici vivono in avanti e finiscono spesso per svincolarsi da ogni pedagogia ideologica sterilmente legata al passato. Un esempio illuminante a tal proposito crediamo di ravvisare nella curva evolutiva del nostro Visconti che tanto ha infastidito i puntigliosi ama-tori della coerenza e del bizantino spirito di simmetria. Con “Senso” e in fondo anche con “Notti bianche” abbiamo avuto una originale figurazione della crisi dell’epoca attraverso acute metafore della realtà contemporanea. In tali opere l’autore non si è troppo curato di una estroversa coerenza stilistica che avrebbe anzi potuto tradire un senso di repressione e una voglia di concedersi alle facili tentazioni di un modulo espressivo garanti-to (e svuotato) fin troppo da una pacifica circolazione intemazionale. L’attualità storica dell’arte, infatti, quel suo penetrare oltre la corteccia degli avvenimenti non può nè deve essere confusa con la passività del documento dal tono tanto naturale da suonar falso o così dimesso da non re-care più alcuna intima signifìcazione. L’arte è sempre intensificazione del reale, analisi intuitiva delle sue più segrete tensioni e in essa l’elemento sociale non può non sostanziarsi della complessa tematica umana. Chi rifiuterebbe, nel nostro stesso campo, per un malinteso stilistico, la preminenza a un Chaplin, un Ėjzenštejn, un Dreyer? E’ ovvio d’altra parte che il pensiero critico non debba rifiutarsi di analizzare e quindi di valutare quelle opere che siano ad un certo grado di dignità e che hanno ben radicate ragioni d’essere nell’ambiente sociale an-103 che se siano più o meno realizzate artisticamente: la gradualità è infatti modo comune alla intelligenza e alla coscienza dell’uomo perchè possa essere respinto in nome di un estremismo estetizzante, tutto quanto si rivela soltanto un avvicinamento alla completezza di espressione. Ed è proprio per questo che non si può accettare senza ribellioni che uno schietto artigianato traligni necessariamente in puerili evasioni o pedestri tintil-lamenti dei sensi. Alcune di tali opere hanno infatti avuto il pregio di riassumere più da vicino la situazione sociale italiana ed è per questo e forse per una certa parziale coscienza storica, che si è visto in esse il non “plus ultra” dell’espressione artistica. Così come in altri luoghi da noi lontani in cui, sosti-tuendo alla differenziante analisi estetica e storica quella meramente contenutistica, si erano presi per demiurghi quelli che dovevano di lì a pochi anni rivelarsi per grossolani apologeti.
Ci si dovrà rifare ancora una volta a quell’avvertimento di Gramsci, perso parecchio di vista nella nostra infervorata pubblicistica lukasziana, e cioè che “due scrittori possono rappresentare lo stesso momento storico sociale, ma uno può essere artista e l’altro no” e inoltre che “è da distin-guere il giudizio positivo di bellezza artistica e cioè lo stato d’animo d’entusiasmo per l’opera d’arte dall’entusiasmo morale e cioè dalla compar-tecipazione al mondo ideologico dell’artista”. La validità di un film non può quindi derivare dal suo verificare una teoria ristretta in particolari schemi ideologici, ma dal suo partecipare al presente come momento storico. E solo così può spiegarsi come risultino contemporaneamente e si ricollochino con piena vitalità e pieno diritto nella problematica odierna quelle opere di autori cosiddetti classici. Napoli - Corriere dell’Irpinia, 10 marzo 1962 104
IL RETAGGIO CULTURALE DEL “CINEMA” VECCHIA SERIA 105
Uscito dalle strettoie di una grave crisi economica, il cinema italiano presentava a Venezia, nel 1932, un ben magro bilancio di ripresa: “Gli uomini, che mascalzoni!” , sotto la patina intelligente di una commedia senza ambizioni, rivelava tutta l’intelaiatura piccolo-borghese e provincia-le di un regime che si andava irrigidendo in dittatura. Del resto, in quegli anni, il cinema italiano era poco amato dagli italiani: nei circuiti di ogni categoria spadroneggiava Hollywood con i suoi mitici attori, con i prodotti di una più sofisticata maniera di spettacolo, cui presiedevano i numi di Capra, Lubitsch, Mamoulian, Hawks, ecc. Eppure fin da allora fermenta-vano le ribellioni dei molti che credevano nella possibilità di superare “i toni artificiosi, il teatrino filmato o la letteratura da settimanale popolare” .10 A fianco delle realizzazioni e delle teorizzazioni, un po’ farraginose a furia di buona volontà, di un Blasetti, strumenti più affinati di questa rivolta e con maggiore capacità di penetrazione e di convinzione erano (dal febbraio ’33) Cineconvegno - supplemento volante de Il Convegno di Ferrieri - cui collaboravano un Arnheim, un Ragghiami e lo stesso Ferrieri, e (dal 10 luglio 1936) Cinema, alle quali avrebbe fatto séguito (dal gennaio ’37) una rivista ancor più rigorosa e specializzata: Bianco e Nero, che vedeva in primo piano i nomi di Chiarini e Barbaro e che integrava l’opera pratica di questi ultimi in quel seminario di leve neorealistiche che era (e si sarebbe dimostrato) il Centro sperimentale di Roma. Mentre Bianco e Nero dava adito a una saggistica approfondita e con-duceva alla conoscenza delle opere teoriche della grande scuola russa, tramite più immediato nella diffusione di una cultura cinematografica era il quindicinale Cinema, edito da Hoepli, che vedeva la luce due mesi dopo la proclamazione del “fatidico impero” ; proprio in quell’epoca nella quale, come nota Chabod, “se mai era esistita qualche prospettiva di riforma sociale ogni speranza scompare del tutto. Le speranze intorno allo stato corporativo si dileguano bruscamente; tutte le illusioni cadono (… ). La “giustizia sociale” cede il passo alla “potenza globale della nazione in vista della sua espansione nel mondo ” .11 Di lì a poco seguiva, infatti, la tetra avventura reazionaria di Spagna, i cui echi erano sommersi in patria dagli sfolgoranti acuti di un Gigli o di un Lugo o dal Parlami d’amore, Mariù condito in tutte le salse nostrane. In questo clima di contagioso assenteismo, di aperte o sotterranee 10 GROMO M., Cinema italiano (1903-1933), ed. Mondadori, Milano, 1934 11 CHABOD F., L’Italia contemporanea (1918-1948), ed. Einaudi, Torino, 1961. 106 autocensure, di feroce dirigismo littorio, usciva appunto il primo numero di Cinema, a cura di un comitato di redazione composto da Giacomo Pau-lucci di Calboli, Luigi Freddi, Lando Ferretti e Luciano de Feo (quest’ultimo era colui che aveva saputo improvvisare con uno slancio di italiana in-gegnosità la mostra di Venezia). Le immagini della sceneggiatura di Ca-valleria, le foto dei teatri di posa (americani), delle più moderne macchine da ripresa (americane), di una scena (italiana) che nella sua superilluminazione ripeteva pacchianamente le suggestioni dei lussuosi “musicals” americani, illustravano le parole d’apertura di De Feo che rompeva il ghiaccio coi lettori, conversando disinvoltamente delle “magiche porte del teatro di posa” , delle “magiche parolette” Si gira, dei “tonanti numi della parola disincarnata” . Già dal primo numero però abbiamo il controcanto del buon gusto, quella che verrà definita “la mobilitazione dell’estetica crociana” e su questo piano non solo si conferma la funzione progressiva e antifascista di una cultura di respiro europeo, ma si riscontra
chiaramente che la lezione di Consiglio e Debenedetti è la più adeguata a quei tempi tempi in cui i Quaderni del carcere erano ignoti a tutti - perché con i mezzi di quella cultura di estrazione hegeliana si individua già “la falsa poesia dei luoghi comuni, nelle supposte risorse di osservazione dal vero” . L’evoluzione di una grande attrice, la Dietrich, serve già “non come pretesto al-l’aneddoto o al pettegolezzo, ma come tema per indagare i rapporti tra regìa e interpretazione e fino a qual punto l’attore si riduca a materia plastica nelle mani del regista. E con quali risultati nel campo artistico, sociale e di costume.” Tale è il sottotitolo, ben dimostrativo, del primo scritto di Alberto Consiglio e Giacomo Debenedetti.12 D’altra parte, come ha notato Aristarco,13 è riscontrabile da parte di questi due autori una particolare ricerca del “tempo perduto” , nel senso che alcuni di quei saggi sono dedicati ai “divi” del passato, “cioè alle maschere e ai miti del cinema” . Un tempo perduto in cui, appunto, si sanno indagare le radici per un futuro meno sciatto, meno scialbo, meno impe-dito. Per conto suo, con maggiore “realismo” corporativo, Jacopo Comin nota che “ben 50.000 famiglie trovano pane e lavoro nella nostra cinematografia: quasi 30.000 persone sono impegnate solo nei settori più strettamente industriali, quasi 20. 000 concorrono ai settori artistici. Lo Stato coopera alla nuova cinematografia con una cifra di 50 milioni e la 12 Cfr. Cinema, Roma, n. 1, 10 luglio 1936. 13 ARISTARCO G., Storia delle teoriche del film, ed. Einaudi, Torino, 1960 107 Banca del Lavoro con 40 milioni” . Ma la maggioranza degli sguardi, degli articoli è rivolta verso la Mecca: l’America, dove, fra l’altro, come informa Orso Mario Corbino, in quell’anno stesso è entrata in funzione una stazione televisiva sperimentale (nella zona di New York). Sono del resto stranamente frequenti gli articoli su questo neonato mezzo di comunicazione e di spettacolo. E infine a un compromesso di ambigua marca nazionali-stica, è dedicato il primo medaglione di regista: il “siciliano” Frank Capra. Intanto il quadro della produzione italiana al 1 luglio 1936 (primo dell’Impero) segnala i seguenti film: “Amazzoni bianche” di Gennaro Righel-li, “Anonima Roylott” di Raffaello Matarazzo, “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” di Giorgio Simonelli, “Una donna tra due mondi” di Goffredo Alessandrini, “Sette giorni all’altro mondo” di Mario Mattòli e uno strano “Cuor di vagabondo” di Jean Epstein (prodotto dalla Forzano Film) oltre a “Nozze vagabonde” di Guido Brignone. È forse per incrementare una simile produzione che (a p.12 del numero 1) viene presentato il progetto di, quella che era ancora chiamata “La Città del Cinema” : in una foto che correda augustamente l’articolo, il duce, come sempre a mascelle serrate, firma la pergamena che verrà chiusa nella prima pietra di Cinecittà. Per sfuggire a questo malefico influsso, il neorealismo si porterà a vincere le sue prime e più belle battaglie lontano da questo apparato “imperiale” . Contraddizioni ideologiche L’editoriale del n.2 di Cinema non è meno rivelatore, poiché si tratta appunto dello scritto di un “bon à tout faire” , quale padre Agostino Gemelli, su Enciclica e cinematografo, tendente a chiosare le direttive im-partite con la Vigilanti cura da Pio XI all’orbe cattolico. Nell’articolo è presente, del tutto involontariamente, una stroncatura totalitaria di quel tipo di produzione in voga in quegli anni, visto che “contro la colluvie (sic) di pellicole immorali, si cerca di favorire lo sviluppo di un cinema sano, morale, moralizzatore ed educatore” . “Il cinematografo- commen-ta il Gemelli - ci accoglie, come dice il papa, quando le forze fisiche e morali sono rilasciate, perché all’ora in cui ci rechiamo al cinematografo chiediamo un sollievo, una ricreazione.” Ma a fianco di quest’articolo, quasi per un crudele contrasto, si legge un ben più vasto e documentato
saggio su Cinema: arma di guerra aerea: si sta preparando, con la bene-dizione pastorale, la guerra contro i senzadio di Spagna. E del resto, già da qualche anno, padre Gemelli ha preso il brevetto di pilota. Se si considera come esame-campione l’esame di questi due primi numeri, si può ben dire che la struttura di Cinema, così come si mostra a distanza di una generazione, è quella di fermentanti anche se sotterranee 108 contraddizioni ideologiche, culturali, stilistiche. Complesso di “imperialismo” e senso di inferiorità si alternano nei confronti della macchina da sogni americana, per cui Hollywood è l’odiosamata e Doug Fairbanks rappresenta quasi l’inveramento, mal riuscito nel paese del dolce far niente, del conclamato “vivere pericolosamente” . La situazione estetica del cinema è quella, dopotutto, di un’arte da iloti; i pochi intellettuali che si arruolano sotto le sue bandiere hanno l’aria spavalda (e perciò internamente timorosa) di chi entra nella legione stra-niera. Da uno scritto su Shakespeare e lo schermo si desumono, per esempio, fra i lamenti per l’inqualificabile manipolazione operata fin allora nei confronti dei sacri testi, solo auspici non ingiustificati per un maggior rispetto, una più diligente comprensione. Di notevole significato è anche la rubrica Il cinema arte e gli artisti delle altre arti, la cui stessa fine immatura denuncia il pesante astensionismo degli “altri artisti” : fra le risposte più acute e, rispetto ai tempi, assai equilibrate, quelle di Alfredo Casella e Giuseppe Ungaretti ai quali corre sùbito alle labbra il nome di Chaplin. Ma spia alla più diffusa (e ostile) presa di posizione è la risposta di S.E.Romano Romanelli, accademico d’Italia e scultore, che si sbriga in poche righe lapidarie sia del cinema (che è “dinamica” ) sia della scultura (in cui ha “sempre lottato per la statica” ). Il compromesso о il mascheramento politico erano attuati, in quei primi anni, attraverso l’inserzione di qualche scritto di Vittorio Mussolini, erede di quelle caratteristiche anni prima Petrolini aveva stigmatizzate in Nero-ne con la frase: “un popolo di genio può improvvisare anche senza una lira” , preludio ed epitaffio all’Italia proletaria e fascista. Così, su toni di chiara emulazione filiale, nasce il convincimento che “l’Europa è stravec-chia” , (compresa la Germania? allora sì); e che “col fascismo l’Italia fa parte a sé ed è estranea a ogni corrente funesta” ; e come risoluzione, po-co autarchica, in verità, nasce quella di ispirarsi più о meno al vento roseo e giovanile di Hollywood, dove Vittorio anela a recarsi al più presto, per toccare con mano e da vicino quella fetta di paradiso artificiale. Col precedente di questa prosa da ragioniere, allignavano naturalmente sulle pagine di Cinema articoletti dallo stile interiettivo, ansiosi di sottrarsi al logorante processo di discriminazioni culturali che è proprio della critica matura; un andar diritto alle cose, quel “fregarsene” , quello sba-razzarsi di ogni fatica raziocinativa che era il portato più genuino di una “dottrina” smaniosa appunto di diventare “mistica” . Ma, come abbiamo già notato, altri e più impegnati autori ponevano cento trabocchetti a tanto facilismo littorio; abbiamo citato i nomi di Consiglio e Debenedetti ma 109 non possono venir tralasciati quelli di Chiarini, di Puccini (sia Massimo che Gianni), di Arnheim; e quelli dei lettori più preparati e meno passivi che contribuivano con proposte, con soggetti. A titolo non di mera curiosità ma di cronistoria dei primi due anni, troviamo (nel n.24 del 25 giugno 1937) un soggetto di Pietro Germi, da Genova, “Il sobborgo degli uomini neri” che è la sintesi narrativa di quello che, un giorno abbastanza lontano, sarà “L’uomo di paglia” e, nella corrispondenza con i lettori, il colloquio infervorato di un giovanissimo aspirante-critico, Guido Aristarco da Castellucchio (Mantova). Tutte queste voci tendevano, quindi, a essere un coro ammonitore della pochezza creativa, dell’impreparazione culturale di certi quadri della
pubblicistica di allora che contrabbandava per sforzi seri una produzione semioperettistica, semi-melodrammatica, semi-veristica. Su centinaia di film prodotti in quegli anni di orbace quante opere sal-veranno la loro dignità e non più della dignità? Una decina, e sono quei titoli che oggi corrono perfino sulle bocche dei più distratti lettori di storie del cinema italiano. La maggior parte dei registi, qualunquisti in tempi di fideismo, indici e coefficienti di un regime bacato, giocava a scaricaba-rile tra una fantasia di terza mano e una logica a stracci per troppa sfidu-cia, e chi faceva le spese di questo giuoco era la realtà. I film musicali: “Canto alla vita” , “La canzone della mamma” , “Mamma (son tanto felice” ) erano al livello delle fiere paesane; infierivano gli acuti cesellati di Gigli, della Cebotari; i registi tappavano i buchi della produzione con do di petto, terzine, duetti di pancioni sentimentali e “mammaruli” e in questo giardino fiorito di cabalette, di stornelli, di frottole la retorica imperiale trovava lo specchio delle sue più tenere brame. Una svolta decisiva Solo in séguito, all’avvicinarsi di più decisive crisi, Cinema diventerà un vero e proprio fortilizio di “resistenza” culturale; nei primi due anni, invece, si trovano mescolate le tendenze più disparate: da una parte un corre-do di conseguenze, di banalità, di teorie troppo concentrate o troppa di-luite, (il tecnicismo imperversava, quasi che ogni lettore dovesse costruirsi da solo il suo apparecchio di ripresa o il suo televisore; ma le varie correnti isolate della rivista rendevano bene il diagramma dello spirito flui-do, trasformistico che gravitava nell’atmosfera); dall’altra, le indicazioni che si ricavano dai frammenti di dura autocritica, di autoironia, di orientamento realistico erano il segno che non tutto era caduto nel vuoto mistico del “credere, obbedire, combattere” . Il popputo angelo neoclassico che presiedeva a Cinecittà (il pittore si era forse ispirato a una delle tante 110 Myriam di San Servolo che diveggiavano all’ombra dei fasci) non era riuscito a calpestare tutti i cervelli di coloro che al cinema dedicavano il loro serio lavoro. Si rilegga l’editoriale del n.34: “Il difetto principale di alcune nostre strutture cinematografiche è quello di voler improvvisare da una settimana all’altra (… ) la formazione di un soggetto, e su questo imbastire una società, quindi ridurre a un minimo il periodo d’ingaggio di un regista…” 14. Interferenze grottesche e quasi comiche erano quelle, invece, di chi si crucciava, forse in stolida buona fede, che non ci fosse un serio cinema fascista, un serio documentarismo, una visione, a esempio, epica e virile della guerra di Spagna come ne aveva avuta l’opposta barricata avva-lendosi di nomi quali quelli di un Ivens e di un Hemingway. Era chi non riusciva a comprendere che in una società fatta di capitalismo ricoperto di orpelli, di similoro, di smargiassa retorica il giuoco più in voga non poteva non essere che quello di coprirsi gli occhi con le proprie mani e di farla franca e comoda finché il “bluff” durava. E non s’ac-corgeva che, proprio per questa ragione, sotto tanto vantato dinamismo c’erano tutti i cascami più nostalgici degli stiffelius, dei languori muti, lidaborelleggianti, delle serpentine più voluttuose intrecciate intorno ai tendaggi; tutte cose alle quali conferiva prestigio la rievocazione del mo-nocolare accademico d’Italia, Lucio d’Ambra, rievocazione che doveva at-tirare gran parte di quei lettori di Cinema che fossero nell’età tra il brusco e il lusco. Ma ciò che contava era che fin dai primi numeri fosse presente quel sia pur esiguo manipolo d’uomini che intravvedeva già nella svolta verso il realismo l’unico rimedio a tanti telefoni bianchi, a tanta smargias-seria scipionesca. E saranno proprio questi scritti sui quali cominceranno a riflettere quei registi e quei critici che da “Ossessione” in poi realizze-ranno quella svolta con un vigore, con uno slancio insospettabili in uomini usciti da quel clima così pesante.
Per convincersi di ciò bastava rileggere, quasi a caso, ciò che scriveva, per esempio, un Debenedetti che, in più, contribuiva alla formazione di un serio gusto critico nel lettore tramite la rubrica di recensioni In questi giorni: “Il fondo della nostra vita collettiva come slancio, come ricchezza d’impulsi (…) non ha nulla da invidiare a quello della vita americana (…) Né è vero, d’altronde, che la nostra lingua, pregiudicata da grandi e fatali monumenti letterarii, meno si presti alle articolazioni, snodature, prontezze e ripieghi allusivi del “parlato” cinematografico. Si può, su un 14 Cfr. Cinema, Roma, n.34, 25 novembre 1937. 111 registro tutto nostro e senza imprestarci il blend del “gusto americano”, ottenere un dialogo altrettanto vivo. Abbiamo a nostra disposizione tutti i movimenti che i dialetti immettono di continuo nella lingua; abbiamo la controprova che questa lingua, in tutti i campi, serve perfettamente agli usi vivi di un popolo vivo. In Italia si lavora, si ama, si soffre, si gio-isce, si spera parlando sempre in italiano; e in un italiano per nulla irrigidito o impacciato da insaldature accademiche.”15 Sarà questa la lingua di “Roma, città aperta” , di “Senso” , di “Umberto D.” , lingua parlata da uomini vivi pur nella sofferenza, mossi da grandi e attive speranze, lingua di immagini e di suoni tratti dalla più viva realtà di un popolo. Napoli - Cinema Nuovo, luglio - agosto 1962, N.158 15 Cfr. Cinema, Roma, n.34, 23 novembre 1937. 112 IL CINEMA NON SI È FERMATO AD EBOLI “Una nobiltà fondiaria ingorda, violenta, assenteista; una piccola borghesia affamata, desiderosa di imitare le classi superiori, assillata dai nuovi bisogni sviluppantisi col progredire della civiltà, spinta al malfare dalla necessità di guadagnarsi il pane in un paese in cui la ricchezza confluisce nelle mani dei pochi; e finalmente un enorme proleta-riato oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza, se non nella forma.” Questa diagnosi di Salvemini, resa più di mezzo secolo fa, potrebbe servire ancora oggi come strumento atto a scrostare la retorica di certe impalcature conformiste. Retorica tenuta a bada, lungo Varco dei sessanta anni, dalla saggistica più impegnata, dalla densità del pessimismo ver-ghiano, dall’accorato rancore di Pirandello o dalla, sia pur lirica, protesta di un Alvaro che esploravano con differenti ma convergenti squarci di luce l’oscura, misera, avviluppata realtà del mezzogiorno d’Italia. Dopo il ’20, la dittatura spingeva la letteratura verso l’evasione: molti poeti si rifugiavano nello hortus conclusus dove dava i suoi neutri frutti l’albero della lirica ermetica o quello dalle fronde di pagine belle o bianche. In questo periodo, in cui la narrativa, tranne i pochi nomi conosciuti, andava tralasciando o tradendo la grande stagione veristica, il cinema scriveva quasi a caso i suoi pochi titoli validi che potessero porre certe questioni, come quella meridionale, ad un pubblico al quale la complicità del regime col latifondo aveva imposto l’ipocrisia di considerare addirittura “inesistenti” simili problemi. “1860” di Blasetti rappresentava, infatti, la scoperta della grande delusione dei “picciotti” sullo sfondo di una natura e di una società aspre ed ostili: quel loro rimanere, sacrificati, imbrigliati in modi di vita arcaici, arre-trati. “La tavola dei poveri” dello stesso regista dava modo a Viviani di di-segnare un ritratto amaro di certa miseria “dignitosamente” nascosta.
Viviani, per suo conto, si era battuto per la realizzazione cinematografica di un suo dramma di più aperta istanza sociale, “I piscature” scontran-dosi con le reti di quel ragno d’acciaio che era la censura del regime. E solo al margine dell’impianto melodrammatico o dei filamenti della inchiesta era possibile in “Montevergine” e ne “Il pianto delle zitelle” (rispettivamente di Campogalliani e di Pozzi-Bellini) dipanare i grovigli di una storia del Sud intessuta di superstizione e di rassegnazione. Pochissime cose, dunque, per un linguaggio di così attitudinale adesione alla realtà che doveva aspettare ben altri sommovimenti, orizzontali e verticali, di storia, per restituire nel pieno risentimento morale una non 113 minima parte del significato umano del Sud. Le braci della humus culturale erano state covate in profondità dai narratori prima menzionati: dopo il ’40 esse trovavano un’accensione più vasta nella rovente indignazione di un Vittorini, tesa a superare un’ansia fatta so-lo di astratti furori, tesa a porre più concreti interrogativi alla coscienza collettiva: “Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso. Tutti soffrono, ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso (E.V.: “Conversazione in Sicilia ’ ). Negli stessi anni, Visconti, che andava rimeditando la lezione verghia-na, nell’ampia latitudine delle metafore usate in “Ossessione” dava, e non semplicemente di scorcio, un panorama della depressione sociale che, in certe zone del settentrione, rispecchiava quella assai più diffusa ed ende-mica del meridione. E di lì a poco, come seguendo in un diario gremito di gridi, di emozioni ancora a nudo, la lunga marcia delle armate di invasione, Rossellini veniva schizzando i ritratti di una terribile miseria raddoppiata dai disastri della guerra appena spenta. L’episodio napoletano di “Paisà” , l’incontro tra lo scugnizzo e il negro, ricongiungeva in una geografia più umana, i poli di due razze affratellate dalle identiche umiliazioni, dalle identiche offese. In quel clima colto con così istintiva immediatezza, neorealismo significava soprattutto coniugare un presente storico che attingesse ad antichi problemi con urgenza di contemporaneità. Nell’ancora attonità immobilità di certa arte figurativa, nell’impaccio estetizzante di buona parte della narrativa se si eccettuino i Pavese, i Levi, i Bernari e pochi altri, nei confronti di queste arti quasi impreparate ad assorbire con foga spontanea i nuovi contenuti, il cinema si veniva dimo-strando il mezzo più reattivo e più consono a tanta storia taciuta per anni e che si affacciava con più crudele staglio nello spaccato delle rovine morali e materiali della guerra. Il cinema si portava insomma nelle prime file, prendendo in mano la bandiera su cui era scritto che Cristo non doveva né poteva fermarsi ad Eboli. Ma bisognava arrivare alle dimensioni de “La terra trema’’ perché le malattie che da secoli, s’intrecciano e s’inacerbiscono a vicenda, negli strati piu. profondi del Sud venissero guardate in tutta la loro reale durata, con un ritmo calmo del dolore che potesse farsi ritmo del più convinto sdegno. Così in un vinto, come Ntoni la giusta presa di coscienza diventa la giusta direzione per farsi un giorno vincitore della propria sorte. Grosse occasioni sciupate, per un complesso di contraddizioni intime, di ambi-114 zioni incontrollate, di viziate interpretazioni gramsciane si dovevano rive-are, invece, i film di De Santis, per non parlare di quei film solo tangen-zialmente meridionali come “Stromboli” e “Viaggio in Italia” di Rossellini. Non è quindi qui possibile ridimere il buono e il cattivo in opere di questo tipo, sulle quali già altri, come l’Aristarco e il
Chiarini, hanno condotto più ampii discorsi. Sceglieremo quindi come soggetto di esame solo i film più rappresentativi, per un motivo o per l’altro, dell’approccio del Cinema col Mezzogiorno. Lo stesso “Due soldi di speranza ” , ad esempio, se da una parte tradiva lo slittamento verso moduli di gradevole trasformazione del più ruvido impegno neorealistico, serviva dopotutto a compensare, sul piano di una recuperata cifra di stile, le sfasature totali e francamente reazionarie dei varii “Pane, amore e… ’’. Che Castellani venisse sperimentando le differenti corde del suo ingegno veniva testimoniato dalle sue precedenti commedie e più recentemente attestato dalla vasta narrazione de “Il brigante” tentativo che, se sul piano dell’epopea non giungeva alle mete prefisse, doveva riconfermare in lui un autentico interesse per il riscatto di certe masse meridionali costantemente respinte ai margini dello sviluppo democratico. Problemi questi che erano stati agitati con una vena di schietta persua-sione nei film di Germi che vanno da “In nome della legge’’ (forse il primo a mettere in primo piano certe omertà, certe collusioni di natura politica) fino a “Il cammino della speranza” e, in fondo, allo stesso “Il brigante di Tacca del Lupo” . E un’analisi serrata, sociologicamente asciutta, senza per questo rischiare il gelo dei teoremi, intesa a stanare i nodi di vipera della camorra meridionale, è stata operata da Rosi sia con “La sfida” che col più recente “Salvatore Giuliano” . Rosi si è avvalso della matura assimilazione degli stilemi di certo cinema rooseveltiano di denuncia (da Lang, a Hawks a Wellman) fatto di lampeggianti contrasti in bianco e nero. In “Giuliano” il suo documentato slancio civile compone in un montaggio acutissimo e nervoso le concatenazioni di certi punti acerbi dei dati di cronaca che sono quelli che sottintendono (senza troppi sottintesi) responsabilità ben definite. Si tratta di un reportage organizzato in una struttura filmica di fortissimo stile che riesce a conferire ad esso quelle dimensioni storiche che una diversa struttura avrebbe appiattito in una pura e semplice descrizione sensazionale. Opera alta, esemplare, “Rocco” segna poi la convergenza di tutte le esperienze e di tutte le più solide passioni culturali di Visconti, dominate in 115 cinque capitoli che servono a configurare, nelle loro ampie coordinate, temi e conflitti radicati non solo nella disgregazione neo-capitalista dei valori umani ma nel necessario venire a crisi dei miti antichi della terra lucana. Quei fermenti pagani e tragici indagati da Levi in chiave di memoria, da De Martino in studi di etnologia, sono tutti presenti nel sangue della famiglia Parondi con tutta l’asprezza acuita dal trauma sociale e psichico del loro trapianto a Milano: salto non solo di centinaia di chilometri ma di centinaia di anni. Attraverso la dispersione morale di Simone, il dolore terrestre e insieme angelico di Rocco, quel dolore per cui, come dice Levi, “anche l’amore si accompagna più che all’entusiasmo e alla speranza, ad una sorta di rassegnazione” , e attraverso la fattiva accettazione della nuova realtà da parte di Ciro, Visconti mira, nelle conclusioni implicite e non ostentate, ad una tendenza positiva di sviluppo, pur attraverso la tragedia e proprio perché “la colpa tragica sta al di là di una colpa o di un’innocenza ben precisate nei loro limiti e nei loro motivi” (Untersteiner). E cioè una colpa le cui radici profonde sono immerse nella situazione storica di cui l’individuo oppresso porta una porzione spesso minima di responsabilità. E in una terra, come la Sardegna che, nella carta economica d’Europa, può considerarsi più a Sud dello stesso Sud, un giovane documentarista ha saputo indagare da vicino e
senza inutili ornamenti il fenomeno semi-feudale della nascita di un bandito ad Orgosolo: Vittorio De Seta si è liberato nel migliore dei modi dal pericoloso amore per l’inquadratura fine a se stessa, scegliendo come fuoco e nucleo del suo discorso il volto di un pastore sardo implicato, contro ogni sua consapevolezza, in una fitta rete di reati. In sequenze dal rigore flahertiano, egli è venuto bene a rappresentare come “l’innocenza del bandito Michele Iossu non sta nel fatto che viene incolpato di delitti non commessi ma nelle ragioni che il suo mondo ha di ritenerlo innocente: nella misura dell’offesa che egli, come appartenente a tale mondo, quotidianamente riceve e che è la condizione storica del suo essere bandito”.16 Sembra così cominciare ad esser pagato quel contributo del cinema italiano alla esplorazione di un mondo contadino, esplorazione condotta con quell’amorosa comprensione, con quella coscienziosa serietà che usava Scotellaro in un suo ben noto libro-inchiesta. E la riconferma di questa lìnea di impostazione nei rispetti dei termini più acuti della questione meridionale, è stata offerta anche dalla recentis-16Zuri in “Cinema Nuovo” n.154 116
sima opera dei tre giovani documentaristi Orsini e P. e V.Taviani: “Un uomo da bruciare ” . La civile animosità, il coraggio da cui essi sono stati spinti a rintracciare la vita, la lotta e la morte del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale so-no elementi di schietta rottura con un complice silenzio dei tanti che si inducono ancora a tratteggiare un’arcadia sensuale su una terra così intrisa di sangue. Non sappiamo, però, se lo schema di esasperato individualismo in cui si muovono, in duplice ed inversa azione, gli elementi progres-sivi e anarchici della psicologia del protagonista, oscillante tra una sorta di violento slancio e di sofisticato machiavellismo, possa essere la media-zione narrativa più vera di un mondo in cui il senso della storia affiora lento da un suolo di strati grezzi, su cui le ore passano come nel filtro di una antica clessidra e in cui le parole si conficcano come pietre. L’opera nasce comunque genuina, appassionata da quel filone di indignazione che fa capo a Dolci, alle sue inchieste tese a provvedere in pratica e non solo a conoscere in teoria.
E, infatti, se si tien mente agli sbandamenti in chiave di humour di un Germi nel pur gustosissimo “Divorzio all’italiana” o di Lattuada ne il “Mafioso” , può sembrare senz’altro giusto sottrarsi alle esigenze della for-117 ma per sottrarsi alle bellurie del compromesso. Quel compromesso di natura estetizzante che ha succhiato via tutti gli umori amari dal Brancati di Bolognini ( “Il bel Antonio” ); sussisteva, dopotutto, una maggiore fedeltà allo scrittore siciliano nel saldo artigianato di uno Zampa ( “Anni facili” e “Anni difficili” ), autore fra l’altro dell’interessante reportage retrospettivo sulla camorra napoletana: “Processo alla città” e del più recente ma meno riuscito “Anni ruggenti” . E si attendono ancora, purtroppo, le realizzazioni di quei racconti cinematografici che ci avrebbero aperte le porte delle più chiuse, più interne mura del dedalo meridionale e ci riferiamo qui a quei racconti che narratori come Alvaro, Pirro, Prisco, Rea venivano proponendo come soggetti al cinema: “Noi che facciamo crescere il grano” o “Una Moll Flanders napoletana” o l’invito a partire alla caccia del “Moby Dick dei partenopei” (Prisco): “quel loro carattere vulcanico e fatale, eroico e frenetico, strafottente e paziente, coraggioso e rassegnato” . Opere tutte volte a rispecchiare più che il falso oro, il duro piombo di Napoli: quella realtà che Marotta stesso scopre nei disegni di un pittore sardo che ritrae da maestro i personaggi dei purgatoriali gironi napoletani, Giovanni Thermes, la cui Napoli è “quieta e drammatica, alleviata e furiosa come un urlo di mezzanotte nel guanciale” . E del resto, come acutamente notava D.Rea anni fa, in gran parte i registi (e soprattutto quelli locali) “hanno volato sopra la città, come allegri arcangeli, senza scendere nel cuore delle cose, hanno trasformato il dolore del vicolo in farsa e la miseria in folklore”. Quasi a compensare tanta trascuratezza, tante allegre scivolature sembra che Visconti, nella sua traduzione creativa de “Il Gattopardo” venga inserendo uno storicizzante contatto con la realtà più dura e più vera delle cose e degli uomini del Sud. L’atmosfera fondamentale della opera sarà (come ricaviamo da una no-ta di Aristarco nell’ultimo numero di “Cinema Nuovo” ) “…quella di una morte non individuale - del Gattopardo, principe di Salina - bensì collettiva: della fine di un mondo da non identificare, come avviene invece nel Lampedusa, con la vanità della vita, ma di una classe”. Napoli - Sud, novembre 1962 118 DAL NEOREALISMO ALLA RICERCA DI NUOVI IMPEGNI Tempo di fermenti e insieme di crisi per il cinema italiano. E’ forse il momento di inquadrare in una rapida panoramica le inquietudini, i soprassalti, i rinnovamenti che lampeggiano all’orizzonte. Gli autori nuovi (o rinnovatisi) sono veramente alla ricerca di nuovi impegni o di nuove possibilità formali senza però curarsi dei contenuti? E’ una domanda motivata e insieme un problema da circostanziare e da im-postare senza pregiudizi. E quale significato assume il premere dalla peri-feria verso il centro di tante piccole correnti d’avanguardia? Non è facile districarsi in questa pluralità di nomi, di cifre, di ideologie e di contestazioni; ma è evidente ch’esse condizionano anche l’opera di autori affermati ( “Blow-up” di Antonioni o le cose più recenti di Pasolini).
Mentre mettono, per contrasto, in luce una certa involuzione “industriale” di registi della “ancienne vague” : paradigmatico è a questo proposito un film come “Le streghe” , divertissement a cura di Rossi, Bolognini, Visconti e De Sica e in cui Totò salva per un pelo l’episodio di P.P.Pasolini. Del resto, alcuni di questi registi non hanno bisogno di altre prove positive per venir canonizzati nelle storie del cinema e non si può pretendere che oltre i sessanta continuino a prospettare nuove vie e nuovi “revivals”. L’altra evasione negativa è quella verso il western all’italiana, un genere “nato morto” o verso la commedia pseudo-satirica, campi in cui si vanno esercitando i varii Lizzani, Vancini e rispettivamente Lattuada, Germi e Monicelli. Per i “novissimi” il nume è Godard: i suoi ribaltamenti sintattici, le sue tirate ellittiche, le sue ripulse per un cinema costruito anche se talvolta la attitudine a far scorrere l’immagine in un flusso vertiginoso rischia di su-bordinarla più al contesto verbale che a quello visuale. Sembra che Jean Luc abbia per divisa quello che asseriva un poeta tedesco ultraromantico: “Proprio quando si parla per amor delle parole si dicono le verità più forti e originali”. Purtroppo, si sa che un simile stato dì grazia non è sempre concesso, nemmeno a registi dal temperamento “filmico” per costituzione. Ed ecco allora i nipotini cispadani che si sforzano di adeguarsi alla naturalezza del caposcuola, finendo spesso coll’inquinare le genuine qualità formali di Godard con le pesanti questioni che la nostra società, in via di sviluppo, non ha ancora risolte. Si ha così un dispendio di esperienze culturali e vitali che può essere, nello stesso tempo, proficuo e pericoloso; non poche “opere prime” rappresentano, infatti, lo sfogo totale di un’intera personalità e rischiano di 119 diventare delle autobiografie precoci che esauriscono l’autore nei suoi impulsi, nelle sue ragioni narrative, nei suoi temi. Si vedano film quali “Trio” di Mingozzi o “Amore, amore” di Leonardi o “Il giardino delle delizie” di Agosti, tutti e tre dettati da una protesta contro una educazione sbagliata. Si rifiuta, in essi, il personaggio problematico per mettere a fuoco il personaggio comportamentale, isolato in un mondo estremamente privato e che si presume determinato dalla società del benessere. Da ciò discende che l’indagine visuale è uno scandaglio delle degrada-zioni, dei demeriti e degli sfasamenti dell’attuale nostra società, non una ricerca di valori o di convinzioni diverse da poter contrapporre dialettica-mente allo ambiente. Da qui lo scadimento continuo su toni di esasperato (e adolescenziale) erotismo. Ora c’è da dire - a parte i facili moralismi dei retori e l’ipocrisia degli scribi- che anche l’eros, indagato nelle sue componenti energetiche, naturali è certo una conquista della ragione, ma occorre allora non tema-tizzarlo in strutture ossessive, liberarlo proprio da quegli aloni di compiacimento che tradiscono intime inibizioni, desiderii di compensazioni e infine un chiaro background confessionale. Questi giovani arrabbiati non sono, in buona parte, ex alunni di scuole religiose? In più, la volontà di barattare la libertà di discutere problemi più ampi per qualche amplesso o qualche seno nudo non potrebbe essere proprio lo sbocco di una educazione retriva e frustrante, una confusione sulla naturale gerarchia dei problemi che coinvolgono l’uomo? Ecco allora il senso comune della storia e del destino che s’affaccia con più impeto anche se con poca organicità di stile in registi quali De Seta ( “Un uomo a metà” ) o i fratelli Taviani ( “I sovversivi” ) nel mosaico a tas-selli mobili che questi autori
compongono si coniugano vicende che possono essere atipiche o mal poste o ambiziose; ma il tentativo di fondo è quello di correlare gl spunti individuali con i più vasti impegni morali del cittadino, lo sforzo è quello di rendere concentriche le sfere private e pubbliche dell’uomo contemporaneo. In assenza di una tale intenzione (consapevole o inconscia) si è sulla china dell’irrazionalismo, del mistilingui-smo che non può esser confuso col laboratorio semantico che include sempre la diacronia oltre che la sincronia. Quando si finisce col credere che la morfologia è tutto e la sostanza è niente, si approda all’edonismo dell’intelligenza, quel gusto per l’avventura nei territori dell pura origina-lità che rassomigliano a labirinti senza uscita. Il più dotato tra tutti i giovani della “nouvelle vague” italiana resta, fino 120
ad oggi, Marco Bellocchio: già la sua prima opera rivela una grinta, una personalità complicata e corrosiva, senza tentennamenti; l’istituto familiare viene la lui decomposto e smontato con caparbietà. Ne “I pugni in tasca” non solo le cifre figurative, l’uso dell’obbiettivo e l’approssimazione ai dettagli significanti sono fuori di ogni routine, ma l’approccio stesso al-l’argomento è dei più singolari: sottolineature, ispessimenti figurativi, an-nerimenti sono preordinati alla funzione simbolica e polemica voluta di slancio dal giovane regista. Nè sono riscontrabili quegli sviamenti e cinci-schiamenti sperimentali che possono, in certi avanguardisti, sottrarre la narrazione al senso della storia: l’autore non si chiude mai tra comode parentesi formali o fumose cortine fenomeniche, interviene sempre e francamente con le sue convinzioni, con le sue ripulse, le sue scelte culturali (Visconti è una traccia non disdegnata da Bellocchio). Anche nel suo più recente film, di riconfermano queste caratteristiche con in più una capacità di satira, solo di tanto in tanto svenata da puntate di pletorico sarcasmo. Solo così, forse, può spiegarsi il non parteggiare dell’autore per nessuno dei personaggi de “La Cina è vicina” , le giovani “guardie rosse” il cui manuale è il Kamasutra e non il massimario di Mao, il professor Gordini trasformista ingordo di cariche e pieno di putride velleità, tutti giocati dal “rovesciamento della prassi sessuale” . Il bersaglio è, di nuovo, la degenerazione di una famiglia aristocratica (vedi i doni del papa) ed è per questa ragione di struttura che, al contrario del neorealismo, questo modo di descrivere porta a dei passaggi dal pubblico al privato (ricatti, complotti familiari etc. ) Gli stessi giovani “cinesi” sono visti 121 come baobab coltivati in un giardino, piante nane nei confronti degli originali che si accontentano di scherzi goliardici proprio perchè privi del fa-natismo serioso e sessuofobo dei loro idoli lontani.
Vengono fuori, in questo “viaggio elettorale” , gli scompensi, le tare di una pedagogia che ha nel melodramma il suo clou sentimentale: dietro i cori poderosi, e sventagliate di acuti e i cadenzati recitativi Bellocchio viene a scrostare il salmastro del falso entusiasmo, le escrescenze della retorica. Cosi nei secchi dialoghi riesce a sfatare certo “lessico familiare” , a ri-dimensionarlo secondo un modulo aspramente realistico. E’ un’operazione necessaria anche questa affinchè una democrazia si ritrovi a fare i conti esatti con se stessa, senza i tranquillanti della vanagloria o gli eccitanti dell’estremismo infantile. In questo irritante “esercizio spirituale” consiste forse la premessa per un rispecchiamento più ampio, più maturo e meno arrabbiato della nostra società, rispecchiamento che il cinema italiano, nei suoi periodi buoni, ci ha già offerto e non mancherà di offrirci di nuovo. Napoli - 1968 122
NUOVE TENDENZE DEL CINEMA ITALIANO Tentare un bilancio del cinema italiano, sul finire del 1968, non è impresa facile. Sganciatosi dalle ascendenze neorealiste, il lavoro dei registi sì è incamminato su molteplici binarii. Alcuni non hanno resistito al nuovo clima e sono rimasti congelati o bruciati; altri, come Antonioni e Fellini hanno dimostrato una vocazione ad un discorso più. largo, europeo. Questi ultimi hanno cosi consolidato la loro posizione di narratori ad alto livello, interessati alle ansie e alle speranze de l’uomo d’oggi. L’evoluzione dei contenuti ha portato anche ad una rielaborazione del linguaggio: non senza significato, Antonioni ha usato, in “Blow-up” , il colore in maniera estremamente funzionale e simbolica. La sua Londra è un pò l’ombelico di un mondo neocapitalista, sofisticato e dannato. La vicenda è un’allegoria a chiare tinte, dove l’impegno del regista riesce a trasformare un’allucinazione in una presa di coscienza. In “Zabriskie Point” continuerà questa critica ad una classe sociale stri-tolata dagli ingranaggi e dagli imperativi del “consumo” , a detrimento della sostanza umana? Non è facile anticiparlo, ma dall’ultimo colloquio concesso a Moravia, il creatore di “Blowup” sembra confermare l’ipotesi. L’altro autore che ha superato gli sbarramenti dell’aggiornamento è Federico Fellini. Nel lungo episodio ( “Toby Dammit” ) che corona “Tre passi nel delirio” , egli dà la piena misura del suo talento visionario.
In più, Fellini opera un’interpretazione personale del colore ottenendo singolarissime atmosfere e il giusto grado di “surriscaldamento” del mi-123
lieu. Proprio quanto esigeva la storia di “Toby Dammit” . Il suo modo di angolare le situazioni e di ritmare gli avvenimenti si rivela l’unico adeguato a trascrivere certi stilemi alla Poe su di un nastro di celluloide datato 1968. Basti pensare all’intuizione figurativa del diavolo o al senso di amore per la morte reso in sequenze di corsa automobilistica sfrenata, surreale e lucidamente suicida. Col suo istinto per l’espressione fisionomica adatta, colla sua provata capacità a manovrare i cromatismi più difficili, l’opera in lavorazione “Satyricon” (da Petronio Arbitro) non appare più una scommessa invincibile o un sfida dettata dalla presunzione. E veniamo alla generazione di mezzo, non dal punto di vista meramente anagrafico: ai Pasolini, ai Bertolucci, e poi all’esordiente (in cinema) Carmelo Bene. Sono i nomi che hanno campeggiato nell’ultimo, contestato festival di Venezia; sono anche quelli contro i quali si è accanita la censura. Come al solito le forbici si sono aperte minacciose contro i valori intelligenti e le problematiche nuove, mentre da tempo si lasciano correre sugli schermi le grossolanità più provinciali, nonché il pornografismo piccoloborghese. “Teorema” di P.P.Pasolini è certamente un film quanto mai discutibile ma come argomento di cultura, di polemica non sterile. Esso è apparso il frutto più autentico di quella costituzionale contraddizione che tumultua nell’interiore personalità dello scrittore-regista. Un mondo compresso da due forze di uguale intensità: il determinismo economico del capitale e lo 124 svuotamento, all’interno dell’uomo, del messaggio evangelico. “Teorema” resta, comunque, un apologo sottile anche se rischioso e non sempre giustamente cadenzato sulla perdità dei valori che devono sorreg-gere un qualsiasi cammino esistenziale. Pieno di furori estremi, di ipocondrie, di iconoclastie (pantoclasticherie) è “Nostra Signora dei Turchi” opera prima di un collaudato eversore di schemi teatrali (le theatre de la cruauté) qual è Bene. Vengono spalancati davanti alla cinepresa gli abissi del grottesco, del macabro, della farsa volta in tragicommedia. Ma corre lungo ogni inquadrature un compiacimento della clownerie che, a nostro giudizio, sfasa un pò il tutto e pregiudica i risultati. L’altra opera che ha suscitato i rigori di quel tribunale amministrativo della moralità cosiddetta media è “Partner” di B. Bertolucci. Enfant pro-dige del cinema italiano (a 19
anni presentò il suo primo film “La commare secca” ) Bertolucci ha puntato forse troppo in alto sia per il tema, che riecheggia “Il Sosia” di Dostoievskij, sia per la struttura linguistica. Intar-sii veloci di montaggio, tagli da sbalordire Godard, spiazzamenti dei centri dell’attenzione. Qualità aristocratiche del discorso che hanno finito per pesare a sfavore dell’organicità del tema e della comunicatività dell’autore. E qui corre l’obbligo di annotare come sotto queste rivoluzioni di gram-matica e di sintassi c’è qualcosa di diffuso, quasi una lava che bolle nei piccoli ma numerosi crateri della sperimentazione filmica italiana. Da Torino a Roma a Napoli il cinema underground è qualcosa oramai con cui non solo il critico, ma il recensore deve fare un pò i conti, per spiegare da quale humus germoglino tante specie di tentativi, tanti tipi di ricerca del nuovo e tante ribellioni, visto che esse finiscono coll’avere risonanze anche sul sistema percettivo e sulla sensibilità dei registi dal nome affermato. Va riferito, quindi, come anche in Italia si sono moltiplicati i laboratorii di ricerca visuale, in cui vengono utilizzati, feticizzati anche più del necessario certi risultati delle arti che prima erano appellate figurative. Senza voler accennare all’esperienza sulla vasta gamma dell’ottica paranormale e iperbolica di questi realizzatori di “happening” fotocinetici. Fermenti da non sottovalutare ma da saper discernere con sguardo non accecato dall’entusiasmo: spesse volte non si va al dì là di ingenui ritorni al surrealismo, all’irrazionale o al caos squisito del disimpegno. Non è agevole accettare un’ideologia rovesciata per cui “Marx, Lukacs, e Freud” hanno funzionato come “sanguisughe della storia sociale e individuale” in tal caso questi dissenzienti mettono in contestazione proprio gli 125 strumenti della vera contestazione. E la conseguenza è spesso il netto e arbitrario distacco dall’esperienza comune e dalla realtà dell’uomo. Puni-zione ben meritata per chi vuol dimenticare che il vero scandalo nella natura è la ragione umana. Ma altre volte, i procedimenti sul piano dell’arricchimento linguistico sono quelli adatti ad aprire nuove strade all’indagine dell’obbiettivo, rista-gnante in mano a registi compiaciuti della routine e delle forme più anti-quate e monotone. Ecco perciò che la lezione di un giovane come M.Bellocchio sembra la più equilibrata e la piu acuta: ricercare da nuove angolazioni e tramite nuovi punti focali gli attuali contenuti del “romanzo” filmico, senza però cancellare la presenza dei personaggi, di quell’uomo che resta il punto di coagulazione dei problemi che un artista può porsi di fronte. Nell’ironia mortale de “I pugni in tasca” e nella satira politico-sociale de “La Cina è vicina” si capta proprio questo tipo di meditazione, insieme pa-cata e rivoluzionaria. Anche alcuni “film-makers” minori hanno ragioni da vendere contro certi principi totemici della vecchia sinistra, contro certo deteriore zavat-tinismo e arrivano anch’essi nelle loro brevi opere ad una sorta di equilibrato e accettabile sarcasmo. E’ il caso di Baruchello ne “La verifica incerta” , è il caso di “Francesco dell’amore” di De Rinlado, e il caso degli shorts dei fratelli Vergine, di Leonardi, Agosti e altri. Una configurazione particolare assumono invece certi prodotti di giova-nissimi già inseriti nell’industria come R.Faenza o V.Samperi. “Escala-
tion” (1967), come “Grazie, zia” (1967) sono dei risultati precocemente raffinati che rinviano ad un’altra moda che sì affaccia nella cultura italiana: il revival di Sade e la porosa glorificazione della crudeltà come sfidu-cia nell’umano. Film che troppo facilmente soddisfano sia l’intellettuale ai limiti della perplessità che il borghese nella sua “breve rivoluzione” tra il sabato e il lunedì mattina (“Week-end” di Godard). E’ certo però che, pur senza apparire, si sta avverando un grosso mutamento delle strutture dei mezzi produttivi e dei rapporti economici : il film italiano non è molto lontano dal momento in cui si libererà delle più gravose ipoteche dell’industria e del grande spettacolo. Se ancora i suoi materiali non costano quanto una stilografica ed un quaderno la sua cinepresa è diventata senza dubbio uno strumento meno pesante e meno complicato. Suona allora esatta l’osservazione di Chiarini: “Il mito della tecnica sì è infranto e si è dimostrato che chiunque, purché 126 abbia cultura, può girare un film”. Ciò lascia sperare bene per il cinema che si”sta facendo e che si farà qui in Italia. L’icona di Godard è un istituto connotativo assai personale e perciò non facile per spettatori pigri; in cerca di evasioni; la sua è una ricerca di nuove norme linguìstiche in strutture narrative troppo vincolate da paure e da ricalchi; da ciò certi scoppi improvvisi, certe variazioni brusche proma-nanti da una energia cerebrale che tiene soggiogato il cuore e che si transvaluta in un occhio onnivoro nei confronti della realtà multiforme. Anche l’orecchio di Godard, il suo ipersensibile microfono lavora senza tregua, perchè il regista crede all’integrazione audiovisiva e le parole così come sono espresse dai primi piani o nei campi lunghi sono dei segni non meno significanti e pregnanti delle immagini. Bruno, Nana, Charlotte, Pierrot parlano, parlano per scavarsi dentro una ragion d’essere, per superare circostanze rischiose o avventure incredibili. C’è nei loro discorsi l’eco dell’ambiguità ideologica del loro autore ed es-sa promana dal manicheismo tra ragione-bene ed emozione-male, tra logica chiara e passione agitata e torbida. Il sottile legame sovrastrutturale tra questi due poli della vita gli sfugge, ma in quanto artista non gli si può dar torto; isolare un lato negativo, am-plificarlo, portarlo alla temperatura della fiamma bianca e analizzarlo è un procedimento lecito in arte anche se condannabile in filosofia. Perciò nelle cose di Godard si finisce col ritrovare una coerenza d’alto grado: il giuoco, cioè, è serio, condotto con scrupolo, con accanimento e fortissimo impegno della personalità. Ne viene fuori comunque, un’allegoria rapida, serrata, ansiosa (e pessi-mista) del nostro mondo in crisi. Napoli - 1968 127
INGREDIENTI DI SUCCESSI DI MANIERA Il problema della traduzione visiva di testi letterari ha molti aspetti, da-te le difficoltà di analogia tra cinema e narrativa; talvolta, però, l’aspetto più notevole è quello di un libro che sembra scritto in partenza per essere trasposto in immagini. “La donna della domenica” un bestseller di Fruttero e Lucentini è di questa fatta: si è presentato già al suo primo apparire come un’abile rigoverna-tura del genere “giallo” e insieme copione bell’e pronto per lo schermo. Il lasciapassare verso il cinema glielo ha avallato il regista Comencini, che in-tuendo quanto di successo conteneva il testo, ci ha rimesso nell’operazione quanto di più ruspante e inventivo aveva elaborato in altre sue cose. Involontariamente, forse, e gli si è attenuto ai più sottili canoni e alle più aggiornate maniere dell’industria culturale, sia pur mantenendo intat-te le doti personali di mestiere preciso e brillante. Nella vicenda ha trovato amalgamati tutti gli ingredienti del genere, da-to che ai due autori, a furia di esercitare la professione di traduttori, gli è cresciuta una specializzazione in ricalchi sapienti di linee e di stili. La ricetta per la riduzione in film ripete lo stesso tipo di struttura: un pizzico di thrilling, un pò di divismo, una manciata di erotismo. 128 Proprio per non rischiare l’impegno serio, la tematizzazione viene tutta giocata sul piano del “quasi” (quasi umoristico, quasi sociale, quasi sentimentale). Ma il “quasi realismo” , come ricordava Adorno, è il nemico primario del realismo proprio perchè “il conformismo è operato a priori dall’atto di significare in sè, indipendentemente dal significato concreto”. Si veda l’ambientazione sociale, tutta di facciata: questi troppo intelligenti borghesi sono ripresi solo nelle maniere più insignificanti (lo snobismo fonetico, il giardinaggio, la frequentazione delle gallerie etc. ). Mancano proprio le coordinate del luogo e della classe nei suoi ferrei anche se celati rapporti di parassitismo sociale. Non viene invece trascurato il personaggio alla moda,
l’omosessuale, la cui caratterizzazione e spinta fino ai vertici del paradosso (la marcia in ginocchio sulle zebre per farsi perdonare dal maleamato! ). La mimica degli attori è rispettosa della loro routine tradizionale: Mastroianni, Trintignant ripetono il proprio repertorio, per quanto sagace ed esperto: le rassegnate e sornione movenze del primo, le bivalenze del secondo, e rientrano in questo binario anche le occhiate dure e immobili della Bisset nonché la coartata meridionalità di un Caruso. Le equivalenze tra la pagina bianconera e le pellicola pancromatica sono ben rifinite ma tradiscono un atteggiamento che mette in ceppi ogni scatto originale e vivace del cineocchio. La maniera si rivela in tutta la tessitu-ra: la stessa arma del delitto (semiperfetto) non è un cero alla moda nella processione infinita dei fallofori in celluloide? ). Di imprevedibile resta solo il futile gioco forzato del “chi è stato?” . Il regista si lascia sfuggire non poche occasioni per una più puntuale contestazione dei personaggi che manovra con maltrattenuta simpatia, in ultima istanza si lascia prendere al laccio di attori che hanno un troppo consolidato credito di comunicativa. A parte la questione dei generi, si viene a riconfermare così che il realismo critico ha bisogno di facce meno stan-dardizzate: è, infatti, difficile che lo spettatore si svincoli da una sensazione mnemonica che lo lega cordialmente a certi volti, a certa recitazione, a certa presenza. Così, anche per questa via emozionale si viene a dissolvere l’analisi dei personaggi in quanto esponenti di un certo gruppo socioeconomico: sembrano più individui raggruppati casualmente che tipi esprimenti un contesto di rapporti ben denotabili in termini finanziari se non politici. Le parole che essi sscambiano sembrano più ritagliate da un bla-bla stereoti-po che dalla volontà di far risaltare certi vizi di fondo dietro a calcoli ghi-acciati ed dietro a calcoli ghiaccianti ed egoismi irrefrenabili. 129 La maniera pesa su tutto, con la preoccupazione della gradevole impagi-nazione, dell’incastro poliziesco che finiscono per sfocare gli elementi di pernio dell’indagine sociale. La traduzione sembra perciò avvenuta per ragioni esterne sul presupposto di motivi di attualità più che di adesione culturale vissuta in tutte le dimensioni. La “realtà romanzesca” è nemica del discorso critico in un impianto verosimile di fatti e figure, cui occorre ben altra unghiata, ben altra capacità di frugare negli organi vitali. Un altro stile si è venuto imponendo al regista, con una sua logica interna, dovuta alla necessità di inscrivere la vicenda nella configurazione degli avvenimenti “misteriosi” . Gli stessi meccanismi narrativi lo testimoniano: stacchi troppo veloci, salti troppo repentini nel drammatico, spo-stamenti verso facili intrighi e sorprese. Quando ci si inchina al manierismo di un genere non basta il tenace controllo dei pezzi del “puzzle” perchè esso assuma il significato e l’ampi-ezza di un mosaico a tinte scure in cui resti imprigionato l’equivoco volto dell’avidità neocapitalista. Napoli - La Voce della Campania, 18 aprile 1976 130 TESTI POLITICI Da qualche tempo, come accade nei periodi di crisi e di tensione, filtra-no attraverso le maglie dell’industria, opere che rispecchiano più da vicino la situazione politica. In che modo un regista può strutturare il suo messaggio perchè assuma un profilo in cui dominino le caratteristiche dell’impegno cioè della coscienza critica? Si può dire, che come ogni altro linguaggio, anche quello filmico va usato in modo da essere riflesso e rielaborazione di quei fatti che segnano in modo culminativo un certo periodo storico.
Nè da ciò dipende che l’autore debba indossare un’uniforme o sbandie-rare dei vessilli, basta che egli approfondisca i processi reali che conducono a certe svolte, per esprimere la tendenza politica in atto. Si spiega allora come da punti geografici diversi nascano intensi affre-schi sulle lotte del lavoro (il finlandese “Uno sparo in fabbrica” ) o vengano impostate le coordinate della reazione più oscura ( “L’affare della sezione speciale” ) o siano tradotte in dense immagini quelle cartelle diagnosti-che sulla degenerazione in un partito nostrano, redatte da Sciascia in forma di romanzi brevi. C’è insomma una sensibilizzazione verso i “contenuti” che però non e-sclude, anzi esige una parallela acuta attenzione alla strutturazione e allo stile dei testi. Il risultato più avvertibile di queste operazioni è l’intensificazione del quoziente di realismo che presenta il discorso dei registi rispetto a quello di partenza. La configurazione e l’identificazione dei luoghi, dei volti, dei veri gesti li induce a non perdersi in algebre metafisiche, in inutili fraseggi di commento. In “Cadaveri eccellenti” di Rosi, come in “Todo modo” di Petri, a parte se essi risultino adeguati o meno a livello ideologico, si può rilevare che ci sono cifre più chiare nella caratterizzazione di un clima che è quello della cronaca travagliata dei nostri giorni. Nel film francese di C.Gavras sono angolati nella giusta prospettiva certi re-troscena politici, dove agiscono polizie speciali e servizi riservati o meno. In tutti questi testi riescono ad agglomerarsi questioni scottanti in una misura che non è quella del “partito preso” e riesce a non dissolversi quella problematica che è la garanzia dell’autentica ricerca estetica. Ai registi basta farsi testimoni non reticenti delle lotte in corso, delle azioni e delle reazioni, mettendo in luce le cause, le lontane strategie e stratificazioni. Ha osservato con franchezza su “Todo modo” il più diretto interessato, L.Sciascia: “…è un film pasoliniano, nel senso che quel processo che Pasolini voleva fare e non potè fare alla classe dirigente d.c., lo 131
132 ha fatto oggi Petri, un processo come esecuzione”. A ciò si può arrivare, appunto, quando c’è una stretta concordanza tra valori conoscitivi e valori formali, tra una solida acquisizione dei dati e un procedimento di buona iconicità, cioè di immagini che tendono a riferirsi a cose e persone concrete e le riproducano con alta fedeltà. I temi vengono così affrontati nelle loro componenti essenziali, senza che l’opera debba soddisfare la condizione dell’autenticità di tutti i particolari. Le stesse indicazioni finali possono venir accettate come marginali, perchè in ultima analisi quello che conta è la sostanza del discorso centrale, la sua verosimiglianza. Al limite dei punti di “probabile sviluppo” delle vicende si trova necessariamente qualcosa di arbitrario o di soggettivo, perchè anche il miglior artista non può farsi profeta. In massima parte, gli autori citati si rivelano ben decisi a non annegare ogni significato in un mare di fatti e fatterelli (come talvolta fa la cronaca stampata), ma ricavare dai fatti il loro significato. In questa direzione il testo politico vive d’un’altra temperatura morale e scansa le manovre a freddo sui congegni linguistici, tipiche dei film d’evasione o di intrattenimento. Ciò che resta di un tema politico seriamente sviluppato è proprio la chiarezza con cui è stata illuminata la tendenza alla disgregazione antiso-ciale, alla corruzione, alla violenza contro la verace democrazia. E’ il controllo della tipicità delle situazioni che permette ai registi di esplorare le complessità e le contraddizioni delle forze che si confrontano nell’epoca storica, a loro contemporanea. Con questo metodo gli autori mantengono intatta la libertà come coscienza della necessità di testimoniare il vero, senza farsi “pifferai della rivoluzione” , ma offrendo sequenze d’immagini in cui vengano sintetiz-zati i termini della vicenda in cui essi, come tutti gli altri uomini, si trovano immersi. E così vengono a lottare su due fronti, sottraendosi sia alla tentazione di semplificare in slogan appetibili situazioni drammatiche dal punto di vista sociopolitico, sia a quella di evadere dalla reale condizione di cittadini responsabili. Perchè appare anche a loro evidente che i fenomeni
politici non sono imprevedibili come quelli atmosferici ma dipendo-no anche, in gran parte, dalla giusta presa di coscienza di ogni uomo nei loro confronti. Napoli - La Voce della Campania, 16 maggio 1976 133 I MISTERI DI NAPOLI Se si eccettuano poche opere serie, da “Assunta Spina” (di Serena), a “La tavola dei poveri” , dall’episodio di Joe in “Paisà” a “Processo alla città” o a qualche film di Rosi e di Eduardo, Napoli sugli schermi è stata angolata di sbieco o tra i fumi di un sensazionalismo mistificante. Sembra quasi che i suoi problemi, le sue lotte, la condizione umana dei suoi abitanti siano per i nostri registi dei veri e propri misteri. C’è oggi però, tra i tanti revival, una tendenza a ripescare qualche filone di autenticità in quella produzione locale che si freglia dei nomi di un Matarazzo, di un Amoroso o di un Brignone. “Dietro i loro film c’è la frustrazione dei poveri, seppur deviata verso gli interventi provvidenziali e l’accettazione cristiana dello status quo” opina un giovane critico, senza ba-dare che quel seppure è una manciata di pepe che ribalta tutto il sapore della minestra. Ma anche ad analizzarli con più sale e meno aceto, questi prodotti si rivelano per quel che sono: traduzioni affrettate di canzonette di facile successo (e di ancor più facile obsolescenza), sequenze di cartoline sonorizza-te col vociare di guappi in borghese e zemaeste-finte-dorine che si sgolano in passioni retrospettive. Si pensi infatti che il nucleo espressivo di “Catene” sta tutto nella disperazione di un amante abbandonato, nella feroce soddisfazione di un marito vendicatore e nella confusione di un processone che assolve l’onorato omicida. “Lo sciopero dei milioni” (anche la sintassi dei titoli è approssi-mativa) si articola poi sulle complicazioni familiari conseguenti ad una vincita al totocalcio da parte di un impiegato con lo hobby della composizione musicale. E questo per non dire del “Tenente Giorgio” e delle varie ceraselle, madonnelle e schiave del peccato. Appare allora assai dubbio che opere di questo genere assumano una qualche rilevanza ad ogni fine di verità o di atto di vita; il loro populismo smaccato e falsificante disconosce troppi dati di fatto, troppi rapporti essenziali e ogni movimento evolutivo perchè esse vengano esaminate anche col solo parametro sociologico. Questo filone si aggrappa alla cultura d’appendice più vieta, fustigata con nitida ironia da Marx a proposito de “I misteri di Parigi” in cui “una ipocrita fantasia fa sì che Fleur de Marie si trasformi dapprima in peccatrice pentita, poi in monaca e infine da monaca in cadavere” . (Quasi un paradigma dei film qui in questione). Al di là di ogni reale senso delle contraddizioni, Matarazzo e Co., non 134
fanno che scavare baratri artificiosi tra buoni e cattivi. Essi vengono così a scansare i termini effettivi dei conflitti individuali e sociali o li avvolgono in oscuri e farraginosi involucri sentimentali; si finisce così per concretare solo una casistica di venture e sventure, catene ineluttabili che costringono ad accettare tutto con passivo e superstizioso fatalismo. La stessa recitazione truculenta, manierata, enfatizzata intorbida anche qualche raro fondo di vita collettiva; la sua ricchezza di impulsi spontanei ne risulta così amplificata e distorta e sfocia in lenocinii viscerali e lacri-mogeni. Ciò che emerge veramente nel tessuto spettacolare è una fissa attenzione ai trucchi del cafè-chantant, ai tranelli emotivi delle sceneggiate più bastarde (quelle rimaneggiate da autori piccoloborghesi a fini autentica-mente commerciali). La stessa impostazione delle vicende finisce con lo svelare degli schemi prefissati assai più vicini al melodramma minore che al verace folklore ed essa, in ultima analisi, approda ad una compiuta apologia di costume che è volontà di conservazione delle scorie del passato. Proprio per questa scarsa tipicità e verosimiglianza delle rappresenta-135 zioni, appare fuori centro o fuorviante l’appiglio ad un’indagine mediata su fenomeni che non testimoniano sulla realtà di un popolo o sulla sua peculiare civiltà. E questo conferma che quando astuzie d’intreccio, colpi di scena e congegni spettacolari rimpiazzano ogni dialogo vivo, ogni credibile struttura narrativa, vengono a cancellarsi sul piano critico e creativo sia la coscienza dell’autore che quella dello spettatore. Napoli - La Voce della Campania, 5 settembre 1976 136 A SCUOLA DI SQUADRISMO E’ l’ultimo filone alla moda nel cinema nostrano ed è venuto a rimpin-guare le casse di molte produzioni, vedove dello spaghetti western. Per la sua corrività, per i modi spicci, per il gusto delle vie di fatto non può essere confuso con il film giallo о thriller, di matrice anglosassone, che punta su di un traliccio psicologico e su indagini pertinenti a cause ed effetti. “Squadra antifurto” , “Squadra antirapina” , “Napoli spara” , “L’Italia spara” etc. etc. sono titoli emblematici di questa tendenza che trova i suoi progenitori nei film americani tipo “G.Men” di Keighley, “Scarface” di Hawks о in certe veloci pellicole di Hathaway, senza dire di quei fumetti di un eroe manesco e sbrigativo quale Dick Tracy. Rappresentano comunque un sintomo dei nostri tempi così come i pro-totipi hollywoodiani erano il riflesso del proibizionismo e della sanguinosa concorrenza tra le gang di Chicago e di New York.
Occorre ammettere altresì che opere come quelle citate hanno in sé molti ingredienti tipici del fascino cinematografico: il dinamismo, l’acca-vallarsi dei fatti, la tensione ininterrotta, la rapida e scattante gestualità. Ma tali fattori hanno un risvolto riduttivo, conducono all’eccesso di sem-plificazione e il manicheismo che si svela alla base di questa “poetica della violenza” fà sì che anche la controparte, cioè il poliziotto, un superman scatenato e pieno di giusta rabbia, non arretri in breve volgere di sequenze, di fronte a nessuna atrocità о crudeltà. Il risultato è che il protagonista, presunto positivo, non si distingue gran che dai suoi avversari fuori legge, sia nel metodo che nella concezione ed esecuzione della lotta. In questo fumo (e fiamma) di ambiguità, non è facile rendersi conto se simili prodotti siano confezionati in mala fede о con dosi-urto di ingenuità e grossolanità: è certo però che essi provengono da una tattica commerciale sprovvista di cultura e di reale volontà d’analisi. Il sensazionale e il prodigioso ne costituiscono le strutture portanti: la sospensione di molte leggi naturali è quella che consente all’eroe miracoli di coraggio e di resistenza fisica. Il pernio della vicenda è sempre lui, l’onnipresente poliziotto-killer: un Achille senza tallone, un semidio metropolitano, un superatleta che non ca-de mai in superallenamento. In lui la paura si trasforma subito in gusto per l’avventura e l’ansia è solo una passeggera e/o fluttuante indisposizione. Intorno a lui, l’ambiente suscita solo emozioni lugubri e repellenti: è una giungla d’asfalto, un labirinto di vicoli (semmai ricavato da un’imma-ginaria topografia partenopea), oppure è una geometria di autostrade, spesso, stranamente deserte. 137 Pistole e fuori - serie sono sempre in primo piano: la seconda concede alla cinepresa acrobazie che una volta erano appannaggio delle carrellate western: le vetture corrono, ballano, saltano, scendono scale o si arrampi-cano in sesto grado. Né viene mai delucidata fino in fondo la ragione per cui il detective, il giustiziere diurno e notturno, è entrato in conflitto con la banda: basta che la fisionomia dei suoi avversarii sia incasellata nello schema figurativo a tre scompartì: a) spietatezza, b) malvagità, c) machiavellismo. La reazione del poliziotto è, secondo i canoni newtoniani, opposta ed uguale: ad es. Mark, un agente che si traveste da hippy, fa un doppio gioco anche troppo spregiudicato, lasciando che si realizzino molti attentati pur di cogliere i mandati e a metà storia egli si inserisce con troppa souplesse nella gang criminale e terroristica che si sente in piena sintonia con lui. Quest’eroe, insomma, dondola su di un ambiguo confine tra società civile e malavita, senza rendere vera testimonianza al bene giuridico o sociale. Ciò che lo aiuta di continuo è un ordito incredibile di coincidenze favo-revoli o di imprevidenze suggestive (da parte dei “cattivi” ); per parte sua non mostra alcun ritegno a spargere sangue, a sparare all’impazzata e, nelle soste, a correre dietro ad ogni mini-gonna. D’altronde, secondo l’intramontabile tradizione lombrosiana, i suoi ne-mici non hanno né fattezze né motivazioni umane, sono esseri vegetali, truci ed inscrutabili, insomma colpevoli per costituzione (non repubblica-na), così come donne e bambini sono innocenti per definizione. C’è qualcosa della “tragedia di vendetta” elisabettiana che costituisce talvolta il tenebroso fascino di simili pellicole, ma è certo che questa re-gressione di quattro secoli nella mentalità e nella procedura è una pedagogia legale alla rovescia. E, pur volendo concedere che i Milian, i Testi, i Merli finiscono, in sostanza, con lo spacciare solo
artefatti manichini e con lo spillare sangue finto (a 10.000 lire la tanica), essi comunque servono come modelli di comportamento squadristico ai già inquieti ed erudi-bili spettatori. Napoli - La Voce della Campania, 27 marzo 1977 138
GIALLO TRICOLORE “Il gatto dagli occhi di giada” di A.Bido viene a confermare, se ce ne fosse bisogno, l’impossibilità di un giallo classico da parte di un nostro regista, esordiente o meno. Il punto più vicino al bersaglio è stato forse rag-giunto, qualche anno fa, dal “maestro” di Bido, Dario Argento, con “Quattro mosche di velluto grigio” che pure mostra notevoli digressioni rispetto ai modelli cui l’autore ha sempre dichiarato di rifarsi. Alla fonte, una simile difficoltà espressiva risulta conseguenza dei vuoti apertisi, e non da ora, nella produzione italiana di media dignità e plausi-bilità, ma le motivazioni interne, strutturali degli ormai ripetuti fallimenti vanno ricercate soprattutto nella confusione che lo stesso Argento ha operato tra “horror film” spaventoso e sanguinolento e “mystery film” ricco di reticoli psicologici e di trovate deduttive. Si spiega così perché Hitchcock venga spesso dirottato verso altri porti dai suoi sedicenti seguaci che non studiano affatto le loro mosse come su di una impegnativa scacchiera ma ricorrono a trucchi macabri, suggestioni e grida subumane e si compiacciono di una messa in scena da macelleria. Anche in questo “Gatto” tipico giallo all’italiana, la vicenda appare co-struita a blocchi che ora si intersecano ora si trovano giustapposti, ora si agganciano ora si muovono con moto proprio e su piani nettamente indi-pendenti. Lo sviluppo dei fatti non segue una linea di reale concatenazio-ne anche se talvolta certe sequenze capitano a puntino in una giungla di equivoci visuali e auditivi. Non per nulla, il criminale è un mostro-squillo (trasteverino? ) che si in-139 duce a telefonare alle sue vittime per fissare appuntamenti definitivi ed è tale “miracolismo” negativo a chiarire perché tra mistero e soluzione viene a mancare la giusta serie di avvenimenti in successione tale da giustificare, a ritroso, tutte le prove conclusive addotte contro il colpevole all’atto dello smascheramento. Si concreta così il caso esemplare in cui l’autore sa dove sta andando ma lo spettatore non capisce dove si voglia o si possa condurlo: ciò, contraria-mente a quanto si immagina, rallenta la tensione, scompiglia il ritmo dell’
attenzione, in sostanza sconfigge tutti gli sforzi di chi e seduto in poltrona, lasciandogli a disposizione solo “i giocattoli della paura” , buoni per stimo-lazioni sensomotorie o viscerali che annullano il febbrile accavallamento delle ipotesi, il solo che incalzi i minuti, li ingoi, li faccia dimenticare. L’uso dei tempi forti (emozionali) e dei tempi deboli (descrittivi) si fa arbitrario, come gratuito assolutamente è il finale in chiave politica; i meccanismi sono, insomma, ben lubrificati ma inseriti in un orologio cui manca il bilanciere, cioè il centro nervoso di ogni movimento equilibrato. Nel giallo, di massima, questo fatto assume un peso specifico superiore al normale, dato che il genere per conto suo già ignora i complessi chiaroscuri della coscienza e le intermittenze del cuore, affidandosi ad un concetto della realtà più romanzesco che verosimile. Si comprende facilmente allora come anche stavolta il prodotto tricolore venga scaricato sul solito binario del “cinema nero” con striature sadi-che e colpi a sensazione, in cui ogni sorpresa è possibile e insieme inat-tendibile. Ciò serve a far rimpiangere allo spettatore non smemorato i lontani Lang e Siodmack, nonché i più recenti Polansky di “Chinatown” e de “L’inquilino” . Si ribadisce così, puntualmente, l’estraneità della nostra produzione a questo tipo di narrazione filmica senza nemmeno la speranza che i nostri autori possano trovare, nella tradizione letteraria o teatrale, antenati pronti a suggerir loro strade o labirinti più congeniali e più efficienti. Napoli - La Voce della Campania, 11 settembre 1977 140
REALISTI NON FILOTERRORISTI Un vero e proprio vespaio ha sollevato l’accusa rivolta dal critico francese, Pierre Billard, all’intera intellighenzia del cinema italiano, di aver contribuito a destabilizzare le istituzioni della Repubblica. Con pronto senso reattivo hanno già risposto l’Anac e, in prima persona, non pochi registi e sceneggiatori, da Rosi a Petri, da Pirro a Damiani, mettendo in difficoltà, in un serrato dibattito, il loro improvvisato pubblico ministero. Si sono chiesti, infatti, se non fosse sotto processo il loro stile realistico, la capacità emotivo-cognitiva di registrare il dinamismo degli avvenimenti e delle tendenze sociali, se non ritornasse cioè la vecchia superstizione di dar colpa del maltempo ai metereologi e dell’eczema allo specchio che lo mostra.
E’ sempre il caso di ribadire che quando, in momenti di grave crisi, non si arrestano i veri colpevoli, si commettono negligenze badiali e non si pu-niscono golpisti e ordinovisti, sospettare del libero pensiero, anche di quello visivo, è più che pericoloso perché è sempre questo il primo passo per soffocare la circolazione delle idee che è il nucleo germinativo della democrazia. Per Billard “i nipotini di “Ladri di biciclette” (!) non hanno tradito la loro ascendenza: sono restati fedeli ai drammi del quotidiano e del pam-phlet sociale”. Sembrerebbe un elogio al grande filone realista del nostro cinema, ma non lo è se si tien conto che il polemista d’oltralpe, continua la sua diatriba imputando ai nostri maggiori registi di essersi autoaccecati 141 nei confronti di un certo vivaio socioculturale che, secondo lui, avrebbe generato le BR. E’ già assai notevole la presunzione di aver da solo il ban-dolo della matassa in mano, dato che le ipotesi identificative sono tutte in ballo (e in tutte le direzioni) anche per gli esperti direttamente interessi al terribile “affaire” . Ma l’errore di fondo è quello di non comprendere che un ribellismo bakuniniano di questo genere non può non uscire che dalla logica di una subcultura decadente e dagli strati di una piccola borghesia estremista ed infantile, la quale, di fatto, ripudia il lavoro con le masse e per le masse. Ancora più eclatante, per un addetto ai lavori, è poi l’incapacità di un’esatta lettura dei testi filmici di quest’ultimo decennio che sono tutt’altro che un’istigazione a questo genere di rivoluzione “privata” , dettata forse da un’esistenzialismo o da un dadaismo perversamente “armati” . E vediamo, anche se a volo la filmografia dei maggiori indiziati: Ne “La proprietà non è più un furto” , come ne “La classe operaia va in paradiso” , Petri ha reso con chiaro senso problematico le lacerazioni dell’uomo contemporaneo tra i miti della rivolta e i miti del benessere borghese. La prima opera individuava nello squilibrato giovane tutti gli scompensi di un’ideologia male assimilata e ancor peggio applicata. E un nostro giovane regista. Bellocchio, in “Nel nome del padre” non vi-sualizzava forse nel cupo collegio romano, di impronta cattolica, l’esasperazione di una contestazione nevrotica ed oltranzista pronta a sfociare in un sadismo politico di marca nazista (al riguardo, il personaggio di Angelo risultava nettamente emblematico) e non si può dire che il regista se ne sentisse complice o zelatore. E già qualche anno prima, Bertolucci con “Partner” non aveva sollevato la pietra che nascondeva il groviglio di vipere ag it antisi nella mente di un giovane dominato da un’aberrante so-lipsismo nichilista, e perciò antidemocratico e antistorico. E qual è il senso profondo della dolorosa ma sincera operazione estetica dei Taviani, sia in “S.Michele aveva un gallo” che in “Allonsanfan” se non quello di rappresentare la crisi e il riflusso di un’immatura istanza rivoluzionaria? Né c’è qualcosa di falso o di manipolato anche nei film di Damiani, cronista attento delle trame oscure di questi anni. A tal proposito è giusto notare che si tratta dell’opposto simmetrico di ciò che le foto de “L’Espresso” intendono mettere in analogia: Volonté è il poliziotto che spara per difendersi, non è il pitrentottista omicida della famosa copertina. E che il magistrato venga ammazzato non è mera fantasticheria, come non è pura supposizione che i servizi segreti “devianti” non si siano dis-142 solti nell’etere. Hanno detto bene questi registi affermando che continue-ranno a coltivare l’insoddisfazione civica per i molti ritardi e le numerose inadempienze costituzionali, continuando ad allargare l’ottica realista in modo che le problematiche
personali siano sempre e meglio connesse organicamente con la storia della nostra società. Perché anche per i registi, il solo onore che resta è quello di un lucido intelletto teso verso la verità, quella sì sempre rivoluzionaria, a dispetto di ogni grande o piccolo inquisitore. Napoli - La Voce della Campania, 28 maggio 1978 143
144 FLAIANO POSTUMO Le glorie postume sono un po’ la specialità del nostro Belpaese. Lo sono state Dante e Campanella e Belli, e, in tempi più vicini a noi, Svevo e Morselli. Lo è oggi anche Ennio Flaiano: a Roma, dove avevano rifiutato o disertato le sue commedie c’è addirittura un tèatro intitolato al suo nome e nell’editoria schiere di
premiati letterati stanno curando i suoi inediti. Tra le cose recentemente venute alla luce, sono queste sue recensioni di film, chiamate con gusto peculiarmente antiflaianesco: “Lettere di amore al cinema” . In verità, il cinema italiano è in forte debito con quest’autore, non solo spiritoso ma acuto e rovente, e dotato di una sua onesta intransi-genza senza spavalderia. Gli devono molto Fellini e Antonioni, Blasetti e Zampa, e perfino Maselli e Petri. Gli è in debito la stessa Tv che lo spedì come documentarista in Canada, spiazzandolo un poco dal suo mestiere come è usa fare con non pochi intellettuali. Da buon levriero senza collare, Flaiano, tra il 1939 e il 1951, cambia molte testate (da “Oggi” a “Documento” , da “Bis” fino all’ “Europeo” ) eppure mantiene intatta la sua agilità mentale di osservatore senza maschere e senza pregiudizi. Il suo cervello prensile e percettivo annota tutta le pac-chianerie delle pellicole tardofasciste, i loro titoli “platinati” le confusioni geoetnografiche di sedicenti registi e presunti autori dello schermo. Vede bene come nel 75% dei casi questo cinema sia uno “spreco d’immagini” , un flusso d’inquadrature sparpagliate che “rotolano verso la parola fine” . La sua logica vigile e il gusto affinato gli fanno scartare “il criterio dell’emozione coercitiva” e gli consentono di rilevare l’incallimen-to progressivo di certi logori schemi narrativi o di quelli che lui chiama “le più inutili ed insistite reticenze” (del filone giallo o giallorosa). I film fiume gli appaiono “poco adatti alla navigazione” e così certe operine patetiche e sentimentali “minacciano di diventare sempre più intime” per una sorta di vischioso compiacimento che Flaiano non esita a de-finire “pornografia dei sentimenti” . Le sue narici sensibili snobbano i fasulli tartufi dei Duvivier e dei Capra, ma quando appaiono “Ossessione” e “Roma, città aperta” non cadono nella routine neutra di chi aspetterà il senno di poi per prendere posizione. Egli ha il coraggio degli ingenui e si slancia a difendere questo nuovo cinema e questo rinnovato metodo di cui ha intuito lo slancio vitale, la presa in diretta con la realtà di un popolo. I suoi protagonisti gli vanno a sangue perché “vivi, parlanti, spogli di retorica” come personaggi di “antiromanzi che riconducono alla verità” . 145 Sente che Rossellini, De Sica e Visconti servono a distaccare la produzione italiana da una “allegra concezione del mondo” , dalle solite “frasi fatte a macchina” e dalle “eccessive risorse fotografiche” . Già agli inizi degli anni ‘50 vede con sagacia la doppia e antitetica carreggiata di chi si ostina a fare “Miracolo a Milano” e “Prima comunione” e “Luci del varietà” e quella di chi comincia a strambottare coi “Poveri ma belli” e altri cascami popolareschi che porteranno alle “affermazioni ga-strosessuali” degli anni avvenire. Sacre arrabbiature lo portano a frustare le smanie, gli scatti, le leziosaggini di quelle che verranno definite da una subcultura dilagante “le mag-giorate fisiche” . Flaiano subodora ormai l’imminenza di quei filoni ch’egli definisce come “olfattivo-dialettali” e che saranno gran parte del cinema “imbizzarrito” . Continua imperterrito, sia come sceneggiatore che come critico, la sua lotta a favore di quelli che non tramonteranno. In ciò ben lontano dagli attuali “neobalilla” di Pesaro che scagliano sassi a tutti i venti e finiscono col selezionare alla rovescia, come se la scelta non dovesse interessare anche lontane generazioni di cittadini responsabili.
Quasi come premonendo simili “imbizzarrimcnti” , scrive ad un certo punto: “Chi ricorda oggi il visconte d’Agincourt? Eppure nei primi dell‘800 quel visconte scrisse una cinquantina di romanzi che andarono a ruba” . Proprio l’opposto di quanto è successo a Flaiano che ha dovuto attendere l’inumazione perché tre quarti dei suoi scritti venissero pubblicati o almeno fatti circolare in modo meno clandestino. Napoli - La Voce della Campania, 10 settembre 1978 146
LA NAPOLI D’OGGI: UN CUBO RUBIK PER I REGISTI Già nel 1984 un film come “Mi manda Picone” di N. Loy si rivela paradigmatico. Al di là del risultato estetico, infatti, esso rende bene le cento contraddizioni di una situazione socioculturale. Napoli, come Picone, è vi-va, è morta, l’hanno fatta sparire, è ricca, è povera? Sono tutti interrogativi cui si potrebbe rispondere con altri interrogativi. Certamente, Napoli non è una città facile da decifrare o da inserire in coordinate lineari. Come un cubo Rubik, registi di svariata estrazione e di diverso livello la tastano e la manovrano senza poterne trarre una faccia di colore omogeneo. Lo stesso Loy, nel film citato, rinuncia subito ad un percorso narrativo univoco e, sulla grigli metaforica di Elvio Porta (che ha sceneggiato il soggetto) imposta un discorso policentrico di avvincente ambiguità. Anche i più recenti film sulla megalopoli partenopea finiscono col riflettere la frammentazione della struttura comunitaria tra degrado e cultura, tra emergenza e anomia, tra fermenti civili e neoplasie feudali. E’ chiaro che appartengono ormai all’archivio storico o all’archeologia le lacrime napoletane e le varie Ceraselle e Maruzzelle. E si sono spenti anche gli ultimi echi delle sceneggiate alla Merola e si sono dileguate dagli schermi le pantomime fescennine alla Totò. Le suggestioni arrivano, forse, da quel duro filone della “Napoli, New York, Palermo” e dalla “lingua tosta” del melodramma espressionista di uno Schroeter ( “Nel regno di Napoli” ). 147 Su questa pista, si pone, infatti “Un complicato intrigo” della Wertmüller anche se il tema viene barocchizzato in certo modulazioni diverse. Co-me capita spesso nelle opere di questa estrosa regista, il grottesco sopraffà troppe inquadrature fino a sbilanciare la
vicenda (il calvario delle madri-coraggio per salvare i figli dalla crocefissione della droga). Omicidi firmati troppo sarcasticamente, rapsodie di primi piani folclori-ci pesano sul discorso complessivo fino a cancellarne larghi margini di persuasività. Si capisce, allora, come un autore di maggior equilibrio quale E.Scola abbia cercato in “Maccheroni” (1985), l’adesione alla problematica napoletana in toni mediati tra comprensione e nostalgia. L’architettura del racconto in forma bilaterale, tra due voci e prospettive diverse, finisce con lo svelare qualche sapida verità e qualche nota acuta della “armonia perduta” . E se Mastroianni mostra qualche défaillance nelle vesti di Totonno, J.Lemmon lo sorregge col suo controcanto di coro straniero ma non estraneo. Su di un altro versante, si situa “Il camorrista” (1986) di G.Tornatore, non privo di robusto impianto. Però, nello strutturare la biografia di un esponente apicale della malavita il giovane regista parte da un diagramma un pò troppo semplificato. Viene così solo a sfiorare il ritratto a tutto tondo del “professore” e a lasciare in penombra gli intrecci sociali e politici del fenomeno. Viene quindi a mancare quello spessore rappresentativo che potrebbe riscattare il reportage filmico dalla mera cronaca nera. Da questo groviglio di difficoltà espressive si può ben comprendere co-me diversi altri autori, con l’arduo poliedro tra le mani, preferiscano scherzarci su, anche se talvolta a denti stretti. E’ il caso dell’ing.De Crescenzo e dei suoi due “Bellavista” : partito come sceneggiatore “locale” di Arbore (in “FFSS” ) egli trasporta tipi e macchiet-te dalle sue pagine alle inquadrature. Il suo spicciolo sistema di filosofia quotidiana trova, solo di tanto in tanto, il giusto “fuoco” e la adeguata gestualità e allora scoccano scenette gustose e sequenze veramente veraci. Ma, nella sommatoria finale di tutti gli ingredienti, anche egli finisce col ritrovarsi addosso incollate quelle strane ali di “allegro arcangelo” in volo di basso profilo sul vulcanico golfo. E di ancor più friabile lepidezza si rivela la vena di un Pazzaglia col suo teatrino casalingo cinematografato alias “Separati in casa” (1986) Si tratta di una atipica situazione coniugale spezzettala in minisketch da cabaret per risatine a buon mercato. Lo spunto di partenza viene annacquato in 148 molteplici maniere; lo stile è solò raramente risarcito sul piano del linguaggio filmico. Timbrature marcatamente nostalgiche e finale concilia-torio ed oltranza ne fanno una storia “a tarallucci e whisky” . Uno degli ultimi a tentare la soluzione del terribile cubo targato Napoli è l’ex attore principe della Wertmüller, G.C.Giannini: in “Ternosecco” (1986) anch’egli fa sfilare tutti i luoghi deputati della tragicommedia partenopea: Spaccanapoli, il bancolotto, i vicoli spagnoli, Poggioreale etc. E su questi sfondi alla Serao egli fa muovere (anche troppo) un’etnia quasi zoo-morfa come in un horror in versione greculo-scarpettiana. Da fedele pupil-lo della sua Pigmaliona ne ricalca le orme e, purtroppo, anche i più vistosi stereotipi. Le poche cose autentiche finiscono con l’affogare in un magma eccessivamente policromo contrappuntato da un “sound” piedigrottesco. Maggiore sagacia di racconto si può riscontare, invece, ne “La casa in bilico” (1986) di due giovani registi con qualche buone esperienza di documentario, Antonietta Do Lillo e Giorgio Magliulo riescono, infatti, nel loro primo film a tessere
una storia svincolata da topografie e costumi ormai consunti. I personaggi, affidati a solidi interpreti (da M.Vlady a R.Cuc-ciolla a L.Pistilli), sono esponenti di quella terza età che costituisce una drammatica fascia della popolazione del nostro paese. Accedere con la macchina da presa in questi territori solo statisticamen-te conosciuti è un’operazione già di per sé meritoria, E in più i due autori riescono a dipanare la storia con psicologica credibilità, cogliendo i momenti salienti di un procedere faticoso di esistenze superstiti. In questa maturità di visione pare di poter ravvisare un impegno per discorsi che, superati certi limiti campanilistici, si concertino con quelli di più valido respiro europeo. Napoli - 1986 149 INDICE DEI NOMI ADORNO Theodor Ludwig BLASETTI Alessandro, 76, 96, 97, Wiesengrund, 129 106, 113, 145 AGOSTI Silvano, 120, 126 BOLOGNINI Mauro, 118, 119 ALESSANDRINI Goffredo, 76, 80, 108 BONETTI Amleto, 78 ALICATA Mario, 88, 98 BORRELLI Lyda, 13 ALVARO Corrado, 113, 118 BRACCO Roberto, 13 AMOROSO Roberto, 94, 134 BRIGNONE Guido, 108, 134 ANTONIONI Michelangelo, 1, 7, 15, BYRON George Gordon Lord, 27 16, 17, 18, 20, 21, 23, 24, 83, 97, 119, 123, 145 CAIN James M., 97, 98 ARBORE Renzo, 148 CALAMAI Clara, 100 ARCHIMEDE, 69 CAMPANELLA Tommaso, 145 ARGENTIERI Mino, 82 CAMPOGALLIANI Carlo, 96, 113 ARGENTO Dario, 139 CAPOZZI Alberto, 13 ARISTARCO Guido, 96, 101, 107, 110, CAPRA Frank, 106, 108, 145 115, 118
CAPUANA Luigi, 97 ARNHEIM Rudolf, 106, 110 CARACCIOLO Giuseppe, 78 ASTAIRE Fred, 36 CARDINALE Claudia, 91 AUERBACH Erich, 61 CARNEVALE Salvatore, 117 CARUSO Pino, 129 BACH Johann Sebastian, 44, 53, 64 CASELLA Alfredo, 109 BALZAC Honoré de, 86, 88, 89 CASTELLANI Renato, 27, 115 BARUCHELLO Gianfranco, 126 CEBOTARI Maria, 110 BARBARO Umberto, 106 CECCHI Emilio, 96 BECK Julian, 47 CHABOD Federico, 106 BELLI Gioachino, 145 CHAPLIN Charles, 27, 103, 109 BELLOCCHIO Marco, 121, 122, 126, CHIARINI Luigi, 76, 96, 102, 106, 142 110, 115, 126 BENE Carmelo, 124, 125 CHRUŠČËV Nikita Sergeevič, 59 BERNARI Carlo, 114 CITTI Franco, 47 BERNHARDT Sarah, 12 CLEOPATRA, 40 BERTINI Francesca, 13 COHL Émile, 13 BERTOLINI Francesco, 13 COMIN Jacopo, 107 BERTOLUCCI Bernardo, 44, 124, 125, CONSIGLIO Alberto, 82, 107, 110 142 CORBINO ORSO Mario, 108 BIDO Antonio, 139 CORTI Maria, 47
BILLARD Pierre, 141 CROCE Benedetto, 13, 61, 66 BISSET Jacqueline, 129 CUCCIOLLA Riccardo, 149 150 D’AMBRA Lucio, (Renato Eduardo ENGELS Friedrich, 86, 88, 89 MANGANELLA), 111 EPSTEIN Jean, 108 D’ANNUNZIO Gabriele, 69, 70 ERACLITO, 78 DAMIANI Damiano, 141, 142 FAENZA Roberto, 126 DANTE ALIGHIERI, 145 FAIRBANKS Doug, 109 DE CRESCENZO Luciano, 148 FELLINI Federico, 1, 26, 27, 29, 30, DE FEO Luciano, 107 33, 35, 36, 37, 123, 145 DE FILIPPO Eduardo, 134 FERDINANDO re, 89 DE LANDA Juan, 100 FERRERI Marco, 1, 39, 40 DE LILLO Antonietta, 149 FERRETTI Lando, 107 DE MARTINO Ernesto, 116 FERRIERI Enzo, 106 DE MILLE Cecil, 57 FLAIANO Ennio, 145, 146 DE RINALDO Nicola, 126 FLAUBERT Gustave, 70 DE ROBERTIS Francesco, 78, 92, 97 FREDDI Luigi, 76, 107 DE ROBERTO Federico, 92 FREUD Sigmund, 46, 125 DE SANTIS Giuseppe, 83, 98 FRUTTERO Carlo, 128 DE SETA Vittorio, 116, 120
DE SICA Vittorio, 30, 97, 102,116, GAD Urban, 13 119, 146 GANCE Abel, 68 DEBENEDETTI Giacomo, 107, 110, GARDIN Vladimir Rostislavovič, 13 111 GARIBALDI Giuseppe, 86 DEBUSSY Claude, 78 GARNETT Tay, 100 DEED André, 13 GATTO Alfonso, 63, 139 DELLA FRANCESCA Piero, 57, 63 GAVRAS Kōnstantinos COSTADELON Alain, 91 GAVRAS, 131 DESFONTAINES Henri 12 GEMELLI Enrico, 70 DIETRICH Marlene, 107 GEMELLI padre Agostino, 108 DI SAN SERVOLO, Myriam (PETACCI GERMI Pietro, 110, 115, 117, 119 Myriam), 111 GIANNINI Giancarlo, 149 DOLCI Danilo, 117 GIBSON Mel, 65 DOSTOIEVSKIJ Fëdor Michajlovič, GIGLI Beniamino, 106, 110 125 GINZBURG Natalia, 63 DREYER Carl Theodor, 50, 56, 61, GIOVANNI XXIII, 60 103 GIROTTI Massimo, 80, 83, 100 DUVIVIER Julien, 57, 65, 145 GODARD Jean-Luc, 119, 125, 126, 127 ĖJZENŠTEJN Sergej Michajlovič, 15,
GRAMSCI Antonio, 13, 50, 57, 92, 103 93, 104 ELIOT Thomas Stearns, 15, 16, 17 GRAVELLI Asvero, 82 151 GRAZIATI Aldo, 90 LULLI Piero, 80 GRIFFITH David Wark, 13, 70 LUMIÈRE Louis, 12 GUAZZONI Enrico 13 GUILLAUME Ferdinand, 13 MAGGI Luigi, 13 MAGLIULO Giorgio, 149 HATHAWAY Henry, 137 MALLARMÉ Stéphane, 78 HAWKS Howard, 106, 115, 137 MAMOULIAN Rouben, 106 HEGEL Georg Wilhelm Friedrich, MANGANO Silvana, 47 48, 64 MANN Thomas, 88, 97 HEMINGWAY Ernest, 111 MANZINI Italia Almirante, 70 HITCHCOCK Alfred, 139 MANZONI Alessandro 42 HUGO Victor, 27 MAROTTA Giuseppe, 118 MARX Karl, 53, 75, 125, 134 IRAZOQUI Enrique, 63, 64 MASACCIO Tommaso di ser IVENS Joris, 111 Giovanni di Mone Cassai, 63 MASELLI Francesco, 145 JACOBS Lewis, 13 MASINA Giulietta, 27 JUNG Carl, 46 MASTROIANNI Marcello, 33, 35, 129,
148 KEIGHLEY William, 137 MATARAZZO Rafaello, 94, 108, 134 KIERKEGAARD Søren, 66 MATTOLI Mario, 108 KLEE Paul, 36 MCCAY Winsor, 13 KRASKER Robert, 90 MERCANTON Louis 12 MEROLA Mario, 147 LAMPEDUSA Tomasi di, 86, 88, 89, MINGOZZI Gianfranco, 120 91, 118 MIRÒ Joan, 36 LANCASTER Burt, 90 MONICELLI Mario, 119 LANG Fritz, 115, 140 MORAVIA Alberto, 42, 86, 123 LATTUADA Alberto, 26, 27, 117, 119 MORSELLI Guido, 145 LEMMON Jack, 148 MOZART Wolfgang Amadeus, 64 LEONARDI Alfredo, 120, 126 MOZZATO Umberto, 70 LEONETTI Francesco, 63 MUSSOLINI Vittorio, 109 LEPSCHY Giulio Ciro, 48 LEVI Primo, 114, 116 NERONE, 40 LIZZANI Carlo, 119 NIELSEN Asta, 13 LOY Nanni, 147 NOTARI Elvira, 13 LUBITSCH Ernst, 106 LUCENTINI Franco, 128 OLDENBURG Claes, 36 LUKACS György, 125 OLMI Ermanno, 1, 42, 44
152 OMEGNA Roberto, 76 PUCCINI Gianni, 98, 110 ORSINI Valentino, 117 PUDOVKIN Vsevolod Illarionovic, 76 QUARANTA Lidia, 70 PADOVAN Adolfo, 13 PAGANO Bartolomeo, 69 RAGGHIAMI Carlo Ludovico, 106 PAGLIERO Marcello, 83 RANDALL Peter, 68 PAOLLELA Roberto, 76 REA Domenico, 118 PARRI Ferrucio, 97 RENAN Ernest, 56 PARVO Elli, 80, 83 RENOIR Jean, 97, 98 PASOLINI Pier Paolo, 1, 7, 46, 47, 48, RIGHELLI Gennaro, 108 49, 50, 51, 52, 53, 56, 57, 58, 59, 60, ROMANELLI Romano, 109 61, 63, 64, 65, 66, 119, 124, 131 RONCALLI Angelo, 60 PASOLINI Susanna, 63 ROSATI Giuseppe, 101 PASTRONE Giovanni (Piero FOSCO), ROSI Francesco, 115, 131, 134, 141 68, 69 ROSSELLINI Renzo, 78, 79 PAULUCCI DI CALBOLI Giacomo, 107 26, 73, 76, 78, 79, 80, 82, 83, 84, PAVESE Cesare, 96, 97, 114 114, 146 PAZZAGLIA Riccardo, 148 RUSSO Luigi, 96 PETRAGLIA Sandro, 63 RUTTMANN Walter, 96 PETRI Elio, 131, 133, 141, 142, 145 PETROLINI Ettore, 109 SADE Marchese de, 126
PETRONIO Arbitro Gaio, 124 SALERNO Enrico Maria, 10, 64 PIETRANGELI Antonio, 97, 98 SALVEMINI Gaetano, 113 PINTOR Giaime, 96 SAMPERI Salvatore, 126 PIO XI, 108 SAN MATTEO Evangelista, 49, 56, 57, PIRANDELLO Luigi, 92, 96, 113 59, 61, 62, 64, 66 PIRRO Ugo, 118, 141 SCARFOGLIO Edoardo, 13 PISACANE Carlo, 96 SCIASCIA Leonardo, 131 PISTILLI Luigi, 149 SCOLA Ettore, 148 PIZZETTI Ildebrando, 68, 70 SERENA Gustavo, 134 POE Edgar Allan , 124 SESTILI Otello, 63 POGGIOLI Ferdinando Maria, 76, 96 SHAKESPEARE William, 6, 109 POLANSKI Roman, 140 SIMONELLI Giorgio, 108 PORTA Elvio, 147 SIODMAK Robert, 140 PORTER Edwin Stanton, 70 SORDI Alberto, 30, 32 POUCTAL Henri, 12 SPINAZZOLA Vittorio, 94 POZZI-BELLINI Giacomo, 113 STANISLAVSKIJ Konstantin PRISCO Michele, 118 Sergeevic, 90 PROKOFIEV Sergej Sergeevic, 64 STOPPA Paolo, 91 153 SUE Eugène, 94 VERGANO Aldo, 96
SVEVO Italo, 145 VERGINE Antonio e Aldo, 126 TARLARINI Mary, 13 VINCENT Karl, 76 TAVIANI Paolo e Vittorio, 73, 117, VISCONTI Luchino, 1, 26, 42, 69, 86, 120, 142 89, 90, 91, 92, 93, 94, 96, 97, 98, THERMES Giovanni, 118 100, 101, 103, 114, 115, 116, 118, 119, TOGLIATTI Palmiro, 58 121, 146 TORNATORE Giuseppe, 148 VITTORINI Elio, 86, 96, 114 TOTÒ Antonio DE CURTIS, 6, 7, 58, VIVIANI Rafaelle, 13, 113 119, 147 VLADY Marina POLIAKOVA TRINTIGNANT Jean-Louis, 129 BAIDAROVA Marina Vladimirovna, TRONCONE Roberto, 13 149 UNGARETTI Giuseppe, 109 WELLMAN William A., 115 UNTERSTEINER Mario, 116 WERTMÜLLER Lina, 148, 149 WESSELMANN Tom, 36 VANCINI Florestano, 119 VERDI Giuseppe, 70 ZAMPA Luigi, 118, 145 VERDONE Mario, 80 ZAVATTINI Cesare, 30, 101 VERGA Giovanni, 92, 93, 96, 97 ZOLA Émile, 89 154 INDICE DEI FILM 1860 (1934), 96, 113 Due soldi di speranza (1952),
8½ (1963), 36 27,115 Accattone (1961), 49, 52 Edipo re (1967), 46, 58 Acciaio (1933), 96 Enoch Arden (1911), 13 Agnese Visconti (1910), 69 Escalation (1967), 126 Agostino d’Ippona (1972), 75 Europa ’51 (1952), 26 Alleluja (1929), 76 Allonsanfan (1974), 142 Fantasia sottomarina (1940), 78 Amazzoni bianche (1936), 108 FFSS (1983), 148 Amore, amore (1966-68), 120 Anna Karenina (1914), 13 G.Men (1935), 137 Anni difficili (1948), 32, 102, 118 Gente del Po (1947), 97 Anni facili (1953), 118 Gerusalemme liberata(1910), 13 Assunta Spina (1915), 134 Gli anni ruggenti (1962), 118 Gli uomini, che mascalzoni! (1932), Bellavista (1984 - 85), 148 106 Bellissima (1951), 94, 100 Golgotha (1935), 65 Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno Grazie, zia (1967), 126 (1936), 108 Blaise Pascal (1971), 73 I pugni in tasca (1965), 121, 126 Blow-up (1966), 119, 123 I sovversivi (1967), 120 I vitelloni (1953), 27, 29, 30, 32, 34 Cabiria (1914), 68, 69, 70
Identificazione di una donna Cadaveri eccellenti (1976), 131 (1982), 21 Canto della vita (1945), 110 Il bel Antonio (1960), 118 Cartesius (1974), 75 Il bidone (1955), 27, 30, 34 Catene (1949), 134 Il brigante di Tacca del Lupo Chinatown (1974), 140 (1952), 115 Ciao, maschio! (1978), 39 Il brigante (1961), 115 Cronaca di un amore (1950), 18, Il cammino della speranza (1950), 20, 22 115 Cuor di vagabondo (1936), 108 Il camorrista (1986), 148 Il cappotto (1952), 27 Dafne (1936), 76 Il deserto rosso (1964), 17 Desiderio (1944-45), 83 Il gatto dagli occhi di giada (1977), Dillinger è morto (1969), 40 139 Divorzio all’italiana (1961), 117 155 Il Gattopardo (1963), 86, 92, 95, La presa del potere di Luigi XIV 118 (1966), 73 Il giardino delle delizie (1967), 120 La proprietà non è più un furto Il grido (1957), 17, 20 (1973), 142 Il Messia (1975), 75 La regina Elisabetta (1912), 12
Il mulino del Po (1949), 102 La ricotta (1963), 49, 56, 60 Il pianto delle zitelle (1939), 113 La sfida (1958), 115 Il Re dei Re (1961), 65 La signora senza camelie (1953), 18 Il ruscello di Ripasottile (1941), 78 La strada (1954), 27, 30, 33, 34 Il tacchino prepotente (1939), 78 La tavola dei poveri (1932), 113, Il tenente Giorgio (1952), 134 134 Il Vangelo secondo Matteo (1964), La terra trema (1948), 26, 42, 86, 49, 50, 56, 59, 66 92, 94, 102, 114 In nome della legge’’(1949), 115 Ladri di biciclette (1948), 26, 102, Intolerance (1916), 70 141 L’affare della sezione speciale L’abisso (1910), 13 (1975), 131 L’anonima Roylott (1936), 108 L’albero degli zoccoli (1978), 44 L’avventura (1960), 17, 21 L’après-midi d’un faune (1937), 76 L’eclisse (1962), 17, 21 L’assedio dell’Alcazar (1940), 96 La bella addormentata” (1942), 96 Le amiche (1955), 18 La bête humaine (1938), 98 Le notti bianche (1957), 103 La caduta di Troia (1910), 69 Le notti di Cabiria (1957), 27 La casa in bilico (1986), 149 Le streghe (1967), 119 La Cina è vicina (1967), 121, 126
L’inferno (1911), 13 La città delle donne (1980), 35, 37 L’inquilino del terzo piano (1976), La classe operaia va in paradiso 140 (1976), 142 Little Nemo (1911), 13 La commare secca (1962), 125 Lo sceicco bianco (1952), 27, 34 La dolce vita (1960), 27, 32, 33, 34 Lo sciopero dei milioni (1947), 134 La donna della domenica (1975), Luci del varietà (1950), 27, 146 128 L’udienza (1971), 40 La folla (1928), 76 L’uomo dalla Croce (1943), 80, 82 La grande abbuffata (1973), 40 L’uomo di paglia (1958) La nave bianca (1941), 78, 79 La notte (1961), 17, 22 Maccheroni (1985), 148 La Passione di Cristo (2004), 65 Mafioso (1962), 117 La peccatrice (1940), 96 Mamma Roma (1962), 49, 55, 60 Mamma (1941), 110 156 Medea (1969), 58 Rocco e i suo fratelli (1960), 86, Mi manda Picone (1983), 147 94, 115 Miracolo a Milano (1951), 32, 146 Roma città aperta (1945), 73, 76, Montevergine (1939), 96, 113 83, 112, 145 Napoléon (1927), 68 S.Michele aveva un gallo (1972),
Napoli spara! (1977), 137 142 Napoli, Palermo, New York (1961), Salò 0 le 120 giornate di Sodoma 147 (1975), 51 Nascita di una nazione (1915), 70 Salvatore Giuliano (1962), 115 Nel nome del padre (1972), 142 Scarface (1932), 137 Nel regno di Napoli (1979), 147 Sciuscià (1946), 53 Nostra signora dei Turchi (1968), Senso (1954), 26, 46, 89, 90, 94, 125 103, 112 Novecento (1976), 44 Separati in casa (1986), 148 Nozze d’oro (1911), 13 Sette giorni all’altro mondo (1936), Nozze vagabonde (1936), 108 108 Siamo donne (1953), 100 Ossessione (1943), 18, 86, 93, 97, Sissignora (1941), 96 98, 100, 101, 111, 114, 145 Sotto il sole di Roma (1948), 32 Squadra antifurto (1975), 137 Paisà (1946), 26, 53, 73, 102, 114, Stromboli (1950), 26, 115 134 Pane, amore e…, 115 Teorema (1968), 124, 125 Partner (1968), 125, 142 Ternosecco (1986), 149 Passione di Giovanna d’Arco Testa per testa (1912), 13 (1928), 50, 56
Toby Dammit (1968), 123, 124 Porcile (1969), 58 Todo modo (1976), 131 Poveri ma belli (1957), 146 Tre passi nel delirio (1968), 123 Prima comunione (1950), 146 Trio (1967), 120 Processo alla città (1953), 118, 134 Uccellacci e uccellini (1966), 49, Quattro mosche di velluto grigio 50, 57, 58 (1971), 139 Umberto D. (1952), 102, 112 Quattro passi fra le nuvole (1942), Un colpo di pistola (1942), 96 97 Un complicato intrigo di donne, Quelli della montagna (1943), 96 vicoli e delitti (1985), 148 Quo vadis (1913), 13 Un pilota ritorna (1942), 80 Un uomo a metà (1966), 120 Ro.Go.Pa.G. (1963), 49, 60 157 Un uomo da bruciare (1962), 117 Week-end (1967), 126 Una donna tra due mondi (1936), Werther (1910), 12 108 Uno sparo in fabbrica (1973), 131 Zabriskie Point (1970), 123 Zigomar (1911), 12 Viaggio in Italia (1953), 115 158
Document Outline IN MEMORIAM Dello stesso autore Indice BIOGRAFIA “A GUISA DI PREFAZIONE…” UNA “WASTE LAND” ITALIANA ANTONIONI IN RETROPSPETTIVA L’ULTIMO ANTONIO Identificazione di un regista GLI SQUALLIDI EROI DEL NOSTRO TEMPO Tema dominante della “denuncia” felliniana LA CITTA’ DELLE DONNE L’APOCALISSE SECONDO FERRERI L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI PIER PAOLO PASOLINI TRA MITO E REALTA’ PASOLINI VIVO IL PRIMO PASOLINI Poesia in forma di film RILEGGENDO IL VANGELO SECONDO PASOLINI CABIRIA: Una retrospettiva d’eccezione al Maggio Fiorentino IL TESTAMENTO DI ROSSELLINI ROBERTO ROSSELLINI dai primi documentari a “Roma città aperta” (1936-1945) “IL GATTOPARDO” DI VISCONTI IL MERIDIONE DI VISCONTI “0SSESSIONE” E LA NASCITA DEL NEOREALISMO CONSIDERAZIONI SU UNA DECADENZA IL RETAGGIO CULTURALE DEL “CINEMA” VECCHIA SERIA IL CINEMA NON SI E’ FERMATO AD EBOLI DAL NEOREALISMO ALLA RICERCA DI NUOVI IMPEGNI NUOVE TENDENZE DEL CINEMA ITALIANO INGREDIENTI DI SUCCESSI DI MANIERA TESTI POLITICI I MISTERI DI NAPOLI A SCUOLA DI SQUADRISMO
GIALLO TRICOLORE REALISTI NON FILOTERRORISTI FLAIANO POSTUMO LA NAPOLI D’OGGI: UN CUBO RUBIK PER I REGISTI Indice dei nomi Indice dei film