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Italian Pages 109 [77] Year 2019
SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA 6 REGISTI FRANCESI C.Autant-Lara J.Becker, R.Bresson R.Clair, H-G.Clouzot J-L.Godard J.Renoir, A.Resnais J.Tati, F.Truffaut J.Vigo e altri saggi 1
Copyright 2019 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione, fotografie e progetto grafico a cura di Marina Napolitano Doriomedoff 2
3 4 IN MEMORIAM “Il mio modello di virtù: tutti quelli che hanno speso la propria vita al servizio dell’intelletto e hanno mantenuto questa passione oltre gli ottant’anni e fino all’ultimo.” CZESŁAW MIŁOSZ- Il cagnolino lungo la strada A mio marito Napoli 31 marzo 2014 – 31 marzo 2019 5
DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood, Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 ANSIA VIVA – Momenti lirici Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 1: Ingmar Bergman Robert Bresson Andrej Arsen’evič Tarkovskij Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 Volume 2: Shakespeare sullo schermo, Laurence Olivier, Akira Kurosawa,… Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 Volume 3: Film significato e realtà Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2017-2018 Volume 4: Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico Tra gelo e disgelo & altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2018 Volume 5: Napoli nello specchio del cinema (Registi e film nel II dopoguerra dal 1945 al 1990), I circoli del cinema a Napoli (1947 – 1968) e altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2019 6 INDICE IN MEMORIAM 5 Dello stesso autore 6 BIOGRAFIA 9 “A GUISA DI PREFAZIONE…” 11 TATI O DELL’HUMORISMO LIRICO 13 BILANCIO DI RENÉ CLAIR 18 BRESSON: UN REGISTA SENZA ORNAMENTI
28 JEAN VIGO: CINEMA-VERITÀ E POESIA 33 CLAUDE AUTANT-LARA: O DELLA “VECCHIA ONDATA” 38 ALAIN RESNAIS, SIMBOLO E DOCUMENTO 44 JACQUES BECKER O DEL REALISMO POETICO 50 TRUFFAUT IN TV 56 UN DOVEROSO OMAGGIO A H-G. CLOUZOT 61 L’ÂGE D’OR DU COMIQUE 77 GODARD O DEI GELIDI FURORI 83 CINEMA E LETTERATURE IN RENOIR 91 UN SORRISO RISCHIOSO 97 CINEMA E STAMPA 99 Indice dei nomi 102 Indice dei film 105 7
8 BIOGRAFIA Antonio NAPOLITANO (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics” . Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo”1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. 1 “Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne
assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo“ intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 9 Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato nel 2014 dalla rivista “Arte e carte”.2 2 Per evitare ogni confusione sul nome, mio marito non ha mai scritto su pagine web come taxidrivers, lospaziobianco, close-up e altre simile. Ne si è interessato a questo tipo di film. 10 “A GUISA DI PREFAZIONE…” …“Da quando la cinefilia ha usurpato il posto della critica cinematografica questo “populismo estetico” ha invaso le sale e le menti dei più sprov-veduti dato il discreto volume d’affari al boxoffice. Una speculazione per tenere in ostaggio le platee come in incubi ad occhi aperti o sotto shock. Insomma “tout se tient” in un clima di subcultura di massa, in cui impe-ra il kitsch, il trash e lo shit (in barattolo!). Insomma come ha notato R.Faenza “anche il cinema va perdendo contatto con l’umano” . E nelle TV c’è una sorta di selezione alla rovescia, dato che, ormai da anni, vengono cancellati gli autori più validi e viene dato enorme spazio a mediocri o cattivi maestri, con spettacoli “a fumetti” o di gusto deteriore, cose lontane mille miglia dall’Arte delle immagini in movimento. Così che mentre dei registi “ventriloqui” magnificano loro prodotti, ri-sultano anche del tutto emarginate le serie valutazioni e i commenti di una critica capace di distinguere tra l’autentico e il fasullo, e tra il miele e la droga.” ANTONIO NAPOLITANO 14 luglio 2010 11
12 TATI O DELL’UMORISMO LIRICO Se per certi elementi esteriori il personaggio creato da Tati sembra ri-collegarsi ad alcuni sketches di assi del circo (ad es. quello della bicicletta del famoso Jackson) ben altro è il clima e lo spirito nel quale si muove Hulot col suo anacronistico mezzo meccanico. Siamo cioè ugualmente lontani dalla serie di exploits a circuito chiuso dei clowns e dalle loro dinamistiche diavolerie da cui derivarono un Se-mon, o un Sennett della prima maniera. Se proprio volessimo riconoscergli un maestro, per concedere un po’ di ragione alle esigenze genealogiche degli storici, lo ritroveremmo semmai, sulla scorta dell’acuto giudizio di Bazin, nel grande Linder: anche Tati infatti trae dal transitorio e dai provvisori atteggiamenti dell’uomo a lui contemporaneo un disegno non frettoloso della realtà provinciale o borghese; la sua arabescata pantomima, l’imperturbabilità del suo silenzio, il suo volto simpaticamente immobile possono farsi risalire (con molta buona volontà) a quella grande fonte, ma assumono necessariamente un tim-bro nuovo ed un originale significato. Hulot nasce da un’attenta, incantata ed insieme disarmonica osserva-zione della realtà: nella esasperante cortesia, nel rituale mimico, la sua trasmigrante ed attonita figura si rivela man mano come il fantasma romantico ed infantile della nostra collettiva anima moderna. Hulot è un fanciullone cresciuto nella nostalgia e nella incomprensione del mondo (ma che non si duole d’esser cresciuto, pur essendo a suo mo-do certamente un poeta); il suo spirito venato da uno scetticismo alieno comunque da facili disperazioni e pungenti sarcasmi si decanta in un’atmosfera nuova che saremmo tentati di chiamare di umorismo lirico. Meno amaro e profondo di Charlot, senza cadere nel saccarinoso, meno funambolico ed insospettato di un Langdon o di un Deed, senza perciò essere strascicato, meno caustico e parodistico di un Totò ma di lui ben più articolato, più aderente allo svolgersi degli avvenimenti di cui è insieme protagonista e coro. Si può da ciò arguire che proprio la sua spiccante personalità l’ha indotto a riprendere, con l’ultimo film, quella resistente materia dei tempi mo-derni già dominata e plasmata in differenti guise da Chaplin e da Clair e che sembrava pertanto esaurita: con la sua grazia maldestra, con la sua spensierata malinconia egli ha saputo soffiarvi dentro una vita rinnovata evitando così il sicuro ma mediocre porto del manierismo.
Ciò che infatti contraddistingue la sua regìa è proprio quel concertato di 13 toni minori, senza forti nè crescendi cui ottimamente si addicono i toni di dolce pastello adoperati per “Mon oncle” . Se talvolta, di scorcio, egli ci lascia intravvedere il grottesco rovescio della benevola farsa, lo fa senza alcuna aggressività, con più sale che ace-to, come voleva il buon Montaigne. La sua è una visione in un certo senso incorporea della società; se fosse centrata, aspra, mitragliante, se fosse compassata ma crudele, risentita ma non commossa, non sarebbe più di Tati, sarebbe di Chaplin o di Clair; ed è invece quella tenera luce aperta sulle cose, quel disincanto ancora pieno di illusione, quella sommessa ed umana partecipazione con chi al tempo stesso egli prende in giro, che riescono a farne una cosa tutta sua. Il linguaggio ch’egli usa è di estrema semplicità, senza cìncischiature tecniche, tutto risolto in una pantomima rigorosa; una serie ininterrotta di notazioni angolatissime che hanno l’aria trascurata del fatto occasiona-le, del fortuito e si compongono invece in una catena di episodi da non poter facilmente allentare: c’è come una mano vigile e nervosa che ricava dai supposti frammentàri guizzi di humour un disegno continuo: l’intarsio dei varii motivi, il dialettico e vivace contrapporsi dei personaggi - simbolo accomunati sempre dal denominatore - Hulot. E’ una sottile, aerea vis comica in cui è stato calato il senso di un’umanità che ha trovato il suo equilibrio e la sua serenità nella malinconia, il suo coraggio nell’affettuosa nostalgia, le cui uniche ragioni sono quelle della fantasia e del cuore, com’è nel regno dei piccoli per i quali Hulot non dissimula la sua predilezione ed ai quali non lesina la sua complicità. Sotto questo velo di bonaria ironia, non si nasconde la ruvidezza polemica del moralista: i personaggi chiave del suo discorso, il postino, lo sco-pino ciarliero e svogliato, il logoro e panciuto industriale, la madre di fa-miglia pletorica ed efficientissima, sono soffusi di un’aura di comprensione, come i primi caduti di una guerra che era perduta a priori, l’inutile eppure umanissima resistenza contro l’arido tecnicismo che comporta il progresso; nasce così in “Mon oncle” quel sentimento crepuscolare della vita, quella patina di quieta tristezza che, già presente nelle “Vacances” si rivela meno in ombra nel vecchio quartiere alla Utrillo dagli impasti cro-matici di una tenerezza antica e struggente, coi suoi abitanti di favola che sona più una rimembranza che una realtà. Questo lirismo che incorpora la satira, sfumandola, levigandola senza appiattirla è il nuovo modo di guardare il mondo che possiede l’occhio di Tati: Hulot è insomma il puro folle della nostra epoca che su un biciclo o su una sgangherata macchina va alla ricerca di una verità ch’egli sa 14
15 più che perduta; vibra in lui più il rimpianto del buonsenso che della libertà individuale (tanto cara a Chaplin talvolta in maniera intollerante); un buonsenso che riuscirebbe forse a contemperare i suoi interessi fanciul-leschi con quelli seri o tetri degli altri, anche di coloro che vogliono a tutti i costi proiettarsi nel futuro, automatizzarsi, sterilizzarsi; questi egli sogguarda col suo fermo sorriso lunare mentre si arrabbattano con cose disadatte alla vera misura dell’uomo, immersi come sono in quiproquo tecnici per cui nemmeno un piccolo ricevimento all’aperto può concludersi senza infortuni di varia rilevanza. A loro contatto Hulot diventa naturalmente generatore di disordine, ma tale confusione è quella stessa che accade talvolta a noi nel contrasto o nell’urto con la complicata macchina sociale; il suo è pertanto un gustoso, piccolo poema di gesta borghesi. Resta da notare la particolare sensibilità che ha Tati per il sonoro: le parole sono spesso mere sfaldature o incoerenze fonetiche che sottolineano la sostanza comica delle vicende ; i fuochi d’artificio (nelle “Vacanze” ), i palloncini bruciati dal sigaro (in “Giorno di Festa” ) la sinfonia dei segnali delle auto (in “Mio zio” ) costituiscono nella compiuta sintesi audiovisiva degli autentici pezzi d’antologia; così come riescono a diventare dei significanti leitmotiven lo slogan veloce del postino gridato a mezza voce o il gorgoglio con variazioni da gargarismi del pesce-fontana. Forse solo nell’ultimo film l’insistenza di un motivo musicale pure ap-propriatissimo si fa controproducente rispetto alla sua funzione di alleg-gerire la immagine, così come si avverte certamente nella brillante raggie-ra della trilogia lo scatto a vuoto di qualche gag manifestamente precosti-tuita o di mero raccordo; ma molto più frequenti sono le punte di dia-mante della sua invenzione comica che scalfiscono la scorza delle situazioni fino a farne zampillare il loro succo agrodolce. Se quindi la storia di Hulot (perchè non chiamare così anche il postino di “Jour de fête” ?) non è del tutto immune da leggeri squilibri narrativi, fra alti voli e ricognizioni a fil di terra, fra impennate di fantasia creatrice e ammaraggi di fortuna, è pur vero che in essa l’attivo supera nobilmente il passivo e ciò non deve parer poco se si considera che il libro mastro aperto da Tati sugli schermi è quello difficilissimo dell’umorismo, risolto, come abbiamo tentato di dimostrare, in chiave lirica. Napoli - L’Altro Cinema n.68 Settembre 1959 16
17 BILANCIO DI RENÉ CLAIR Il surrealismo fu un bisogno di allucinazioni visive e sentimentali nato forse in reazione ai troppo verosimili assunti del naturalismo zoliano e postzoliano. In un clima di tal genere si trovò a fare le sue prime esperienze di scrittore e di giornalista René Chomette, in seguito noto e famoso collo pseudoni-mo di Clair, parola in cui suona come un programma di “clarté” cartesiana. Al cinema egli si accostò come aiuto di Baroncelli proprio mentre il cinema francese rivelava da una parte la raffinata e fotogenica socialità di un Delluc o di un l’Herbier e dall’altra gli acuti o bizzarri sperimentalismi di un Man Ray o di un Léger. Erano tempi in cui strane parole, come Dada, Frottage etc. testimonia-vano del disorientamento di tutta una cultura e pretendevano invece di ergersi a punti di approdo o sintesi di essa; c’erano infatti più manifesti che idee, più polemiche che passioni; la psicanalisi aveva raggiunto l’acme del suo complesso di superiorità. Solo su questo sfondo possono essere compresi film come “L’Âge d’or” o “Un chien andalou” di Dali e Bunuel che mostrano, secondo l’elenco certo non tendenzioso di Max Ernst “la vacca nel letto, il vescovo e la giraffa gettati dalla finestra, gli asini sul pianoforte, il masochismo del poeta che assiste ai giuochi erotici della coppia etc. etc.”.
E proprio come uno dei fiori più squisiti del Dada spunta nel ‘24 “Entr’acte” la cosidetta “sintassi cinegrafìca” di Clair la cui sequenza dello stra-vagantissimo funerale resta ancor oggi a esemplificazione di tutta l’arte di allora. Ma “Entr’acte” non costituiva il primo exploit del giovane regista che già un anno prima aveva avuto modo di rivelare in “Paris qui dort” il suo equilibrato gusto per l’assurdo e un umoroso senso del ritmo in cui egli, come in un collage animato che seguisse il corso di strampalati pensieri, confondeva’oggetto con soggetto e si atteggiava a benevolo mago delle immagini. Anche “Le Fantôme du Moulin rouge” e “Le Voyage imaginaire” ricon-fermarono l’agile fantasia fìlmica di Clair che non disdegnava poi di farsi tentare da un film d’avventure quale “La Proie du vent”. Ma il suo primo autentico contributo alla storia del cinema fu rappresentato dalla trascrizione, in chiave di balletto, della farsa di Labiche, “Un cappello di paglia di Firenze”. Questa veniva essenzializzata e costretta. Molti avevano troppo mancato di tatto con la grande tradizione, col patrimonio 18
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20 sentimentale e con le ancor salde radici storiche della umanità. Clair si trovava così a dover ripensare il suo mondo poetico, non a ripu-diarlo ma a ricrearlo secondo una più affinata ed intenerita sensibilità. Era ormai pronto a tralasciare quanto di frigido, di fine a se stesso potesse avere il giuoco della pura intelligenza. Nascono così “Sous les toits de Paris” e “Quatorze JuiIlet” dove però il patetico e il sentimentale sono ancora controllati con sapienti tocchi d’ironia; le vicende sentimentali si lievitano spesso in un’atmosfera di balletto, la stessa tristezza ha rade lacrime come una capricciosa pioggia d’aprile. Un pieno controcanto di favola è rappresentato da “Le Million” che co-me fu detto rappresenta il mito ringiovanito di Cenerentola; di esso si può parlare come di favola musicale solo nel senso sublimato della espressione; siamo di fronte ad un “esprit de fìnesse” che si è fatto immagine, immagini che si trasfigurano in ritmi, ritmi che sono humour, satira, scherzo, scintillio. Quanti in questa favola vogliono vedere il cerebrale, il riflessivo e perfino il calcolatore, perdono di vista il malinconico osservatore delle eterne illusioni dell’uomo. Valga per tutte la sequenza dell’amore dei due inna-morati sul palcoscenico mentre i cantanti si urlano le loro false passioni: la
cartapesta si vivifica, assume piena realtà per la luce sorgiva del sentimento che su di essa proietta la tenera vicenda dei due giovani. Anche in “À nous la liberté” , un tema che a qualche critico schematico è parso addirittura “engagé” , Clair cala invece in un’atmosfera di sapido vaudeville un fragile spunto satirico. C’è ormai tutto il maturo estro di un regista che quasi si diverte a rifare il verso a quei pessimisti irriversibili e “mil-lenarii” che hanno sempre popolato la cultura accademica di ogni paese. Non che a lui stesso non scappi talvolta qualche preoccupazione (allora il riso si ferma in una smorfia pensosa): si ha infatti l’impressione ch’egli di tanto in tanto riesca a contrabbandare qualche sua idea seriosa, sotto il velo della burla, qualche suo ponderato moralismo; comunque siamo ben lontani dal clima dei vari RUR o da simili oppressive apologie dell’umane-simo integrale: il finale, ad esempio, è tutto dettato dal segreto amore di Clair per un anarchismo fattosi mite gioia di vivere. Per ciò che concerne lo stile può dirsi del tutto superata la gag, la trovata comica atomistica; le storie sono racconti tessuti tutti d’un flato pieni di verve e di un vivace brio intellettuale. Molto appropriatamente Viazzi definiva “Quatorze Juillet” “il film clairiano apparentemente meno costruito e invece in realtà, quello in cui l’unità tra senso interno ed estrinsecazione ritmofigurativa è la più raggiunta e la più fusa nel-21 l’atto, il quale in sè comprende ogni valore portato alla realizzazione”. Nel detto film, il tono di Clair, peraltro, si arricchisce di poetica grazia, nella filigranata descrizione di un amore che si snoda fra un ballo in piazza, uno stupido litigio, una tenera riconciliazione sotto la pioggia. C’è in esso un amoroso studio del dettaglio, delle figure di contorno (la banda dei suonatori ad es.) per cui balza vivo tutto il paesaggio umano di una Parigi minore, ancora un po’ grigia ma pronta ad aprirsi al sole. Quanto il gusto creativo del grande regista francese abbia influenzato i cineasti stranieri è facilmente esemplificato dalla commedia italiana e tedesca di quel tempo e soprattutto dalle pièces hollywoodiane dei vari Mamoulian, La Cava etc. Ancora oggi qualche regista coglie l’occasione per ricordarsi del “maestro” : il più recente omaggio a Clair può essere considerata secondo noi la sequenza del professore di ginnastica ne “Les 400 coups” di Truffaut. Proprio però mentre la lezione di Clair era ascoltata (e portata ad un livello spesso banale) oltralpe oltre Reno ed oltre oceano; aveva inizio la parabola discendente del regista. Dopo aver già accusato una certa stanchezza ne “Le Dernier Milliardaire” Clair si reca in Inghilterra dove gira “The Ghost goes west” e “Break the news” ; ma si tratta di opere troppo premeditate, veri e propri pezzi di orologeria umoristica, dove non sussiste più margine per il libero slancio della fantasia e dove il conformismo industriale costringe l’autore in sche-mi rigidi seppure brillanti. Quando nel ‘39 egli tornerà in patria, vivrà l’amara vicenda di “L’air pur” che se avesse potuto esser finito avrebbe rivelato tutta la sensibile penetrazione del regista nel mondo dell’infanzia. Questo sconcerto e il clima premonitorio della catastrofe europea lo inducono ad accettare le offerte americane. Di questa sua avventura egli detterà l’epitaffio nella prefazione al volume, di Florey “Hollywood d’hier et d’aujourd’hui” , in cui parlerà accora-tamente di registi ridotti a impiegati di banca che firmano assegni se non falsi almeno privi di cifra personale; infatti nei suoi lavori americani “I married a witch” , “It happened to-morrow” etc. a parte qualche trovata, qualche gustosa battuta, si avverte in profondo la totale passività del regista di fronte alla materia narrata, la routine dell’intelligenza che si fa maniera e poi maniera della maniera; una immobile foresta dove lo “iron scenario” ha fossilizzato tutto. Il grande ritorno di fiamma di Clair è costituito nel 1947 dal suo “Le 22
23 silence est d’or” , quasi epitome di tutta la sua operosa attività di regista. Rientrato in Francia ancora una volta, nell’euforia della dolce pace e della dolce patria ritrovata, egli ritorna alle grandi sorgenti della vena comica francese: il soggetto è infatti esemplificato su “L’école des femmes” di Mo-lière. Arnolfo diventerà Emilio, un Maurice Chevalier che entra finalmente e di pieno diritto nella storia del cinema. Il clima della Parigi dei Lumière о dei Méliès viene ricreato con una splendida impennata di bravura e di tenerezza; ritorna il gentile leitmotiv dell’amicizia e ritornano il Café concert e il popolo minuto, e gli allegri о patetici boulevards della Ville lumière. Stavolta una strana commozione, sottile e acre come un fumo, servirà da pedale: è la storia di uno scetticismo deluso, che non ha saputo о voluto affrontare gli splendidi rischi del sentimento e ne resta amaramente tagliato fuori. Il regista partecipa col suo sorriso, con le sue ben nascoste lacrime che addolciscono l’ironia e nell’aria pura di casa ritrova tutta la felice perfezione del suo stile ispirato. Tutto si svolge come in un ricordo vivo che riesca a impersonarsi in una rinnovata eppure antica realtà.
Con “Il silenzio è d’oro” possiamo ormai dire di trovarci al vertice della sensibilità clairiana per i toni minori della vicenda umana. In esso c’è un riuscito connubio di finezza e di geometria, e in esso si compie un discorso sottile ma certo non superficiale sulle ragioni del cuore che la ragione non può conoscere. C’è la piena maturazione di un clima fatto tutto di serena malinconia. Ma dopo “Il silenzio è d’oro” , ancora una volta inizia il declino, di nuovo si viene disperdendo la coerenza dello stile clairiano: i temi si inceppa-no in una problematica poco congeniale all’autore (si veda per es. “La Beauté du diable” con quelle allusioni che hanno una pesantezza insolita per la mano di Clair, un impegno ideologico che opprime la chiarezza e deforma lo stile umoroso in una prolissa allegoria. Una lieve ripresa va registrata, seppure sul piano del puro divertissement, con “Les Belles de nuit”, ma anche qui la nota in sordina è quella della ripetizione o della nostalgia. A questi vuoti il regista tenta di sopperire con una sorta di nuovo orientamento, quasi in ricerca di una seconda personalità dato che la prima pare che non gli si attagli più. Nasce così quel gustoso, raffinato tableau letterario de “Les Grandes Manoeuvres” . Qui egli svela il retroscena angustiato della “belle époque” vista appunto con occhi disincantati. Ma anche in quest’opera è palese il contraste fra la prima parte giuocata in chiave di spigliata ironia, con un 24
25 “tempo” alla Feydeau e la seconda in cui lo stesso giuoco s’intorbida fino a sforare la tragedia e il cinismo brillante del protagonista si angoscia in un sottile caso di coscienza. C’è di notevole la esperienza del colore dominato in forme non estroverse dalla sagacia di Clair che restituisce tutto un clima ed un’epoca. Anche con l’ultimo film, “Porte des lilas” , il regista rischia la contamina-zione con temi estranei al suo vero mondo poetico, con quei drammi, cioè, filtrati attraverso il “sociale fantastico” di un Carco, o di un Mac Orlan e in cui si può cogliere l’eco attutita dei miti dello Ourcq di Marcel Carné. Resiste naturalmente ancora la freschezza dell’inventiva e soprattutto la signorilità del tratto, ma quella pensosità grigia, quell’ingolfarsi in casi limiti (il gangster ricercato per omicidio, reso fra l’altro da Vidal con un’imperizia che ha del grottesco) spingono la favola su di un piano di superflua drammatizzazione: si avverte come il mescolarsi di una acqua leg-gera con un corso torbido di cronaca nera che straripa spesso nel “mélo”. E così naufragano la grazia e l’incanto di certe situazioni e la classe di un Brasseur è costretta a sostenere quasi tutto il peso della vicenda. E’ sfu-mata l’ironia, il patetico, il sottile giuoco della speranza, restano brume e pistole, seduzioni e morti che non convincono. Il tentativo quindi da parte di Clair di tracciare coordinate più ampie l’ha distolto dal suo più autentico discorso ed è servito solo a fratturare la coerenza stilistica della sua attività di regista. Del resto queste incertezze, questi squilibri si ricollegano alle ben note dichiarazioni programmatiche rilasciate dal regista a Venezia appena qualche anno fa che precisavano il suo impegno in nuovi temi di natura drammatica. Noi ci domandiamo come sia possibile che Clair non creda più nel sorriso, nella arguzia bonaria o ironica che furono le cifre vere della sua operosa attività e come possa disconoscere la segreta forza morale delle sue chiare, aeree favole d’un tempo. Napoli - L’Altro Cinema n.68 Maggio 1960 26
27 BRESSON: UN REGISTA SENZA ORNAMENTI “Il Processo di Giovanna d’Arco” presentato l’anno scorso a Cannes e che apparirà tra breve in Italia, ha riproposto il nome di Robert Bresson, nome non certo frequente nelle cronache del cinema. Con questo suo ultimo lavoro, il regista francese non ha inteso misurar-si con quel classico che è “La passion de Jeanne d’Arc” di C.T.Dreyer, ma ha voluto offrire una sua documentata versione di uno dei fatti più rile-vanti della storia di Francia. Questo film viene dopo il discusso successo di “Pickpocket” (1959) e dopo la grande e meritata affermazione di “Un condannato a morte è fuggito” (1956). E’ doveroso e significativo ricordare che Bresson ha girato in quasi venti anni appena sei film e ciò lo apparenta per altro verso al rigorismo morale ed intellettuale di Dreyer. Forse per la sua esperienza di pittore (non domenicale) egli è uno dei pochi che credono alla essenzialità delle immagini e che si induce ad evitare ogni compiacimento e ogni inutile ornamento. La sua attività ha inìzio nel ’43 con “Les Anges du péché” , accolto senza riserve dalla critica. Nel ’45 presenta un’opera più impegnativa: “Les dames du Bois de Boulogne” , ispirato a “Jacques le fataliste” di Diderot. Gli unici scoli da superare sembrano un certo gelo intellettuale e quella volontà, pur cristallina, di astrarre i personaggi da ogni riferimento a tempi e a luoghi. Finalmente, quattro anni dopo, l’incontro con un testo di segreto calore umano quale “Journal d’un curé de campagne” di Bernanos porta Bresson ad un completo equilibrio tra strutture narrative ed intensità introspettive. In quasi tutte le sequenze egli riesce ad utilizzare i particolari più minuti delle cose vive e delle cose morte; ma soprattutto arriva a creare un ritmo interno che rinsalda quello che il preziosismo delle immagini potrebbe svuotare. Ciò che guida Bresson nella scelta degli interpreti è la loro somiglianza morale (e non fisica) coi suoi personaggi e ciò vale sia per Giovanna, che per il curato che per il tenente Fontaine di “Un condannato a morte” . In questa opera, vengono costretti in unità ritmo figurativa i motivi esterni ed interni del prigioniero che si costruisce la sua speranza di fuga, che è speranza di dignità e di vera vita. Le mani che fabbricano i rudimen-tali mezzi per l’evasione diventano simboli plastici di un pensiero dominante, pensiero di libertà che viene trasmesso per immagini disadorne ma nette e lucide nella loro sobrietà. 28
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30 “Il vento soffia dove vuole” sono le parole di Cristo a Nicodemo che Bresson ha imposto al film come sottotitolo. E una ispirata semplicità è l’anima del racconto che se, a prima vista o da lontano, può apparire mo-nocorde, rivela da vicino una insospettata ricchezza d’intarsii. Il regista svolge il tempo della vicenda, lo contrae o lo dilata secondan-do il battito del cuore del protagonista; attraverso rigorosi primi piani, configura il dialogo di quello sguardo coi poveri oggetti della cella o con gli sguardi disperati ma virili degli altri internati nel carcere nazista: in questi momenti d’incontro, s’accende il bianco della solidarietà ritrovata e zampilla come una sorgente, il leitmotiv mozartiano con tutti i suoi limpi-di presagi di libertà. Siamo di fronte ad un realismo che è ben lontano dalla passiva registra-zione della realtà; esso assume densità proprio dal rifiuto di superflue di-gressioni in chiave d’avventura. Come in tutte le sue opere, dove si, sarebbe potuto avere una scena straziante o clamorosa, Bresson ha preferito una pacata allusione: è il suo senso classico della tragedia. Lo spettatore si trova così di fronte ad uno schermo divenuto specchio profondo dell’uomo, perchè il coraggio interiore è riuscito a farsi stile. Un monito, questo, severo per i nostri tempi difficili sì, ma nei quali troppo spesso si invocano giustificazioni per compromessi che sono ad un tempo estetici e morali. Napoli – Il Mattino, 8 Ottobre 1963 31
32 JEAN VIGO: CINEMA-VERITÀ E POESIA Fra qualche mese saranno trent’anni dalla morte di Jean Vigo, un uomo di cinema cui non sono stati ancora rimessi tutti i debiti. L’attività di Vigo si venne concentrando, tra il‘27 e il ‘34, nel crepuscolo dell’avanguardia, realizzando progetti scarni ma serii dove l’esperimento salisse, per raccordi conchiusi, fino all’altezza della tradizione. Era, del resto, il momento dei bilanci più maturi anche per le correnti più iconoclaste, l’alba della seconda Pleiade: dopo i Delluc, i Feyder, i Gance si profilavano i Carné, i Grémillon, i Clair. Oggi che sembra una grossa e nuova scoperta il cinema-verità, è giusto ricordare che per mesi e mesi Vigo camminò per Nizza con una minuscola cinepresa celata sotto il soprabito per portare a termine quel reportage che doveva dargli una precoce ed amara fama: “À propos de Nice” (1930). L’occhio dell’obbiettivo non vagava a casaccio, partiva da una precisa irritazione morale, tendeva, come osservava il regista, “alla generalizza-zione delle grossolane gioie poste sotto il segno del grottesco, della carne e della morte.” Venivano restituiti gli artifici cosmetici di una città senza vita, di un Carnevale senza allegria e le bizzarrie oscene dei visitatori in-vernali incupiti nella ricerca ansiosa di svaghi. Ma insieme alle nudità stravaganti, allo snobismo da farsa, Vigo esplorava i
quartieri poveri della città ritiratisi in se stessi, quasi a proteggersi da turisti senza scrupolo e senz’altra meta che il proprio vuoto interiore. Il regista recuperava, per esteso, la sua indignazione, covata fin da ragazzo, fin dalla morte del padre, l’anarchico Eugène Vigo, direttore del “Bonnet Rouge” , morto in fortezza nel ‘18, prima di comparire davanti ad una corte marziale. Nonostante le aspre censure, sociali e commerciali, Vigo tenne duro, anche in “Taris, roi de l’eau” (1931) la vita sembrava ritratta alla sprov-vista eppure si avvertiva una sguardo carico di poesia, di odio-amore per quella esistenza che fluiva libera insieme ai brividi dell’acqua increspata. Il giovane regista era già arrivato al suo punto di crisi narrativa, al bivio tra una struttura originale e un’impostazione più profonda del racconto cinematografico. L’impulso determinante sarebbe venuto dall’implacato ricordo della propria infanzia: “Zéro de conduite” (1933) supera, in questo senso, l’ironia geometrica di un Clair, senza esaurirsi in un pamphlet d’alta classe stilistica. E’ una frustata alla base della società, a quel rigido e risibile formalismo 33 scolastico che può diventare, al limite, crudeltà, dittatura o paranoia. Eppure le immagini sono piene di un sottotesto accorato, limpido che sfugge alla vis deformante: sono le sequenze in cui circola l’aria pura degli anni verdi; Vigo si rivela maestro in un discorso diretto-indiretto in cui sfociano flussi di coscienza e linee calde di memoria. L’uso di angolazioni originali, di punti di vista obliqui, di riprese dal basso non sono passatempi o dilatazioni gratuite delle dimensioni umane; “con simili accorgimenti- scrive Kracauer- Vigo riesce a trasformare uno scom-partimento di treno in una capanna magica in cui due ragazzi, inebriati dalle proprie millanterie e trovate, finiscono col fluttuare nell’aria.” Vigo usa l’obiettivo come un eccitante non come un anestetico, si scio-glie da ogni formula, da ogni ormeggio ad autori più o meno consacrati; tuttavia resta nel solco della storia, al cui centro pone non un ordine pre-stabilito ma le vive esigenze dell’uomo che è tale anche se ragazzo, scolaro e discolo. Nel finale di “Zéro de conduite” , la rivolta del dormitorio, mentre coin-volge nel suo umore proteste più ampie, si lievita di lirismo in quel pulvi-scolo di bianche piume, nella danza lunare delle camicie dei ribelli. Il regno dei mercantucci del noleggio tenne fuori dei suoi recinti questa tenera e corrosiva storia d’infanzia; per il successivo e ultimo film “L’Atalante, ou le chaland qui passe” (1934) Vigo dovette far ricorso ai suoi amici come attori, comparse, finanziatori. In scene di “liaison” , come quella della stazione, si potevano riconoscere Chavance, i fratelli Prévert, e Breton e Artaud. Il soggetto non era gran che, aveva striature di evidente banalità, non era stato di pieno gradimento per lo stesso Vigo; ma, nelle sue mani la vicenda si trasfigurava: da una trama di noiosi andirivieni sentimentali (lui, “patron” di un barcone fluviale e lei, moglie riottosa e in preda a borghesi rêveries, il regista estraeva notazioni acute sulle passioni sofferte da uomini comuni e una suggestiva intensificazione del quotidiano: lo sciac-quio, il battito dei motori, l’acciottolio della ghiaia sull’argine diventavano il lessico di un dramma che si svolgeva tra le pieghe di giornate apparentemente normali. Michel Simon, nella figura di Père Jules, rendeva con la sua aria sornio-na e caricaturale il “nostromo” della chiatta, quello che seguendo un suo goffo buon senso, avrebbe ritrovato a terra la moglie del “capitano” per riportargliela pentita e rinnovata; la caratterizzazione di questo vecchio “matelot” era tutta legata al materiale plastico e sonoro, ai suoi gatti, al suo accordéon ai suoi mugugnamenti di solitario buontempone. 34
35 L’ambiente anticipava gli anni, quasi ritagliato com’era da quel contesto più ampio della banlieue che avrebbe costituito il paesaggio cardine del cinema francese d’anteguerra. Vigo era soprattutto attento allo “esprit routinier” della vicenda e a quelle punte aspre di dolore che sopravveni-vano d’un tratto nella vita del marinaio abbandonato. La Senna era quella stessa di Apollinaire “acqua viva, come la vita lenta, come la speranza violenta…” e “l’Atalante” si affermava come raffigurazione insolita di cose solite, fedele alla natura e ai sentimenti del luogo e spingeva gli spettatori ad uscire dalle loro stanche abitudini, richiamando impressioni che già pullulavano nei recessi delle loro anime. Non mancavano, d’altronde, appesantimenti, monotonie o poncifs spe-cie nell’atmosfera di contorno o nello sdilinquimento del leitmotiv musicale, imposto dagli amici come specchietto per le allodole da botteghino. Nè è lecito supporre che corso avrebbe preso l’opera di Vigo se la morte non lo avesse colto nel ‘34, ma è possibile dire che il giovane regista aveva già e in più aspetti rispecchiato una realtà non minore, tutta rivissuta allo interno prima di esser resa visibile agli altri. Napoli, Il Mattino, 28 febbraio 1964 36
37 CLAUDE AUTANT-LARA: O DELLA “VECCHIA ONDATA” L’apparizione in circuito normale, a circa vent’anni dalla sua realizzazione, de “Le Diable au corps” , ha riportato un cerchio di luce sulla personalità di uno dei decani della “vecchia ondata” del cinema francese, con-fermandone le doti e la “maîtrise” di grande artigiano. Nato agli inizi del secolo, Claude Autant-Lara, allievo della Ecole des Beaux-Arts, inizia come scenografo e aiuto-regista per L’Herbier e per lungo tempo risentirà di questo apprentissage con un discepolo dei decadenti. Nel ‘23 egli girerà la sua prima cosa autonoma “Faits divers” che testimonia del fervore di ricerca linguistica e che per questo estremo speri-mentalismo attenderà due anni per essere proiettata in pubblico. Nel ‘26 firma le scene della “Nana” di Renoir e nel ‘28 un altro contributo al revanscismo antinaturalistioo dell’avanguardia con “Construire un feu” . Per diversi anni, poi, quasi a scontare la sua foga giovanile, il regista si nasconde, gira pochissimo e vive all’ombra di Clair. Dal ‘30 al ‘32 è ad Hollywood dove cura versioni francesi di film americani più o meno deco-rosi. Poi nel ‘32, un anonimo “Ciboulette” , subito dopo il rientro in patria: la sceneggiatura di Aurenche che d’ora in poi sarà il collaboratore più in-fluente di Lara,
e l’innesto dei dialoghi di Prévert salva in qualche zona questa “larmoyante et joyeuse” operetta di Croisset e Hahn. Altri anni di oscuro artigianato e poi nel ‘41 un’altra prova con “Le Mariage de Chiffon” e “Lettres d’amour” : dice bene Sadoul, “proveniente dall’avanguardia, AutantLara si rifugiava ironicamente negli intrecci an-tiquati del secolo passato” . Finalmente, nel ‘42 “Douce” dimostrava una capacità di scrutare l’idillio, di aprire una vena di passione amara che, in anni sterili, salvava il nome del regista e lo avviava verso un processo di maturazione non reversibile. Aurenche e Bost restavano i suoi collabora-tori ma ormai l’immagine parlava sopraffacendo i dialoghi ed aveva le cifre del regista, ciò che si può provare con lo squallore espressivo di altre immagini di altri registi che ugualmente si avvalevano di quelle due firme di sceneggiatori. Dopo un’altra battuta d’arresto con “Sylvie et le Fantôme” (1945), ecco finalmente (nel ‘47) “Le Diable au corps” (da Radiguet): Gérard Philipe e Micheline Presle sono i due cuori acerbi che intrecciano i loro moti di amoroso egoismo a dispetto degli adulti che non sanno offrir loro se non guerra e sapore di morte. Eppure, quasi a sconfitta di tanta indifferenza e di tanto colpevole rinchiudersi in sé, la morte arriverà anche per Marta e 38
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40 François si vedrà di colpo cresciuto, responsabile e disperato. La scelta del volto di Philipe esprime già una soluzione; quella sua innocente e penetrante intelligenza del mondo, quel suo sguardo franco eppure teso a chiedere alla vita tutto ciò che essa ha di appassionato, di forte, di romantico. In questo senso nel protagonista si avverte una inconsapevole rivolta e il suo chiuso sorriso sembra assumere un tono critico verso la storia che cammina per sentieri così violenti ed inumani. E’ l’unica protesta che un adolescente può avanzare nel suo anarchico convincimento, nella sua confusa ribellione contro l’insana saggezza dei padri. Lo stile figurativo del film si richiama splendidamente a certe imposta-zioni del tardo ottocento francese, la luce è spesso quella vibratile e precisa degli impressionisti, pur se non mancano stereotipi filmici e proprio nella tanto discussa sequenza del primo amplesso fra gli amanti. Ma la nitida analisi dei caratteri, o della banlieue 1918, e la sobrietà e la discrezione morale del regista fanno di questa straziante storia d’adulterio una delle più delicate traduzioni per immagini. Non si comprende affatto la grossolana gaffe della censura che ha tenuto lontano per anni e anni questa pellicola dalle sale di proiezione (se non forse uno strano rispetto verso i reduci). Nel ‘53, dopo la storia tutta parigina e mignonne de “Le Bon Dieu sans
confession” , Autant-Lara gira una storia d’infanzia dal libro della miglior Colette: “Le Blé en herbe” . Nel ‘54, un nuovo film che confermerà il gusto creativo del regista: “Le Rouge et le Noir” (da Stendhal). Julien Sorel trova in Gérard Philipe il suo interprete più vero, non si fa fatica a credere a questo “Robespierre lanciato nella vita civile” , dato che l’attore arriva a fondere gli elementi complessi del personaggio e ad immedesimarsi in essi con passione e chiarezza; il colore, l’architettura, i costumi sono in funzione dei personaggi che assumono sul volto la luce, le rughe, i fremiti di chi si solleva contro una congiura di ipocrisia. L’anno seguente, dopo una “Marguerite de la nuit” di tutto riposo, il regista lavora ad un film di tutt’altro genere ma ugualmente concluso e sti-molante: “La traversata di Parigi” , una maliziosa novella sull’occupazione tedesca, da Aymé. Grandgil e Martin, pittore celebre l’uno e piccolo buon diavolo l’altro, per un trasporto di borsa nera, finiranno nelle mani delle SS. Ma il pesce grosso romperà la rete, il piccolo finirà in campo di concen-tramento, anche se, per evitare toni di tragedia, lo vedremo nel finale ricomparire come facchino alla Gare de Lyon. Solo l’acume volterriano di Lara può costringere lo spettatore a seguire per due ore una coppia di uomini maturi alle prese con una situazione 41 grottesca, stravagante ma senza nessun zuccherino sentimentale, l’atmosfera truce e da lugubre mascherata degli ultimi mesi della guerra è tutta inquadrata con segni indovinati e graffianti. Nel ‘58, “En cas de malheur” (da Simenon) è la prova del nove dell’eclettismo di questo regista di vecchia ondata: pur sopraffatto dal manierismo di due mostri sacri (per differenti ragioni): Gabin e la Bardot, egli ritrova una corrosività di confronti psicologici e estrae dal giallo notazioni di costume non proprio dozzinali. Nel ‘59 “Il giocatore” , da Dostojevskij si rivela una posta troppo alta sia per lui che per Philipe; così ritorna ai toni minori anche se acidi di Aymé de “La Giumenta verde” e al diafano lawrencismo di Quarantotti Gambini “Le regate di S.Francisco” (1960) : quest’ultimo, per certi versi, si ricollega a “Le Diable au corps” : l’adolescenza come rischioso promontorio da cui guardare alla realtà dei grandi e come scoppio dei più oscuri istinti vitali. Dopo qualche altra prova, più o meno di mestiere, come “Le Bois des amants” Autant-Lara presenta a Venezia nel ‘61 “Non uccidere” sul tema degli obiettori di coscienza; il traliccio narrativo è di tipo umanitario più che storico, ma attraverso un lavoro scrupoloso di lima Autant-Lara supera lo scoglio della retorica e arriva spesso al cuore della questione morale. In questo senso, il film si illumina di un alone autenticamente pacifista: “L’odio antico dei padri ha sconvolto la terra… ma per ricominciare non contate su me!” Napoli – Il Mattino, 17 Aprile 1964 42
43 ALAIN RESNAIS, SIMBOLO E DOCUMENTO Fin dai suoi primi documentari sull’arte, Resnais ha inteso proporre una rappresentazione che corrispondesse alla sua stessa vita affettiva e mentale; fin dall’inizio ha compreso che le immagini, come le parole, so-no, dei segni che possono rinviare a delle idee, a dei concetti come a delle emozioni. Ciò che conta, per questo regista, è la realtà presa in profondo, ciò che si arriva ad indovinare dei suoi aspetti nascosti, ciò che occorre ricercare per potersene dire sicuri. Nel “Van Gogh” (1947) quello che gli preme non è la fedeltà all’intenzione del pittore; ma il rintracciarne l’oscuro cammino spirituale attraverso un’autobiografia figurativa. Lo stesso avviene per “Gauguin” e per il primo esperimento di critofilm su Picasso che prelude all’ottimo “Guernica” (1950): in quest’ultimo, per una reazione passionale, Resnais suscita un ritmo da shock, la reazione è commisurata alla violenza disumana dell’atto, all’assurda criminalità nazista; in sequenze di grande intuito visivo i personaggi-figure di Picasso (dei periodi blu e rosa) si accartocciano, lacerati dall’urlo dell’assalto ae-reo; il quadro rivela le sue forme spaccate, sconvolte, lampeggiate. Nella deflagrazione del sentimento, si giustifica la scompagine operata dal pittore e quel simbolismo così tormentato e così marcato. Nè va dimenticato il cortometraggio “Anche le statue muoiono” (1953) (coll. di Chris Marker) che venne proibito dalla censura per aver mostrato la correlazione esistente tra colonialismo e decadenza dell’arte negra. Quasi a dispetto della decisione autoritaria, una schiera di liberi intellettuali francesi volle insignire questo lavoro del premio “Jean Vigo”. In “Toute la mémoire du monde” , originale documentario sulla Bibliote-ca Nazionale di Parigi, ritroviamo la curiosità inquieta con la quale Resnais scruta le cose: è una passeggiata ansiosa, tesa a captare i significati di quel vasto museo Grévin dove sono relegati (e spesso imbalsamati) i valori spirituali dell’uomo. Sotto l’aspetto tecnico, la souplesse dei passag-gi, dei raccordi ci rammenta il lungo noviziato di Resnais come montatore (da “Paris 1900” a “Aux frontières de l’homme” di N.Vadrès). Resnais realizza appieno che il vero ritmo non è quello temporale aggiunto a quello spaziale ma uno che sìa insieme funzione ed espressione delle coordinate spazio-temporali. Non si tratta di
ottenere un mero accu-mulo di variabili geometriche ma di far sì che i movimenti di camera, sottolineando lo spostamento degli oggetti e delle figure, assumano una struttura drammatica. 44
45 Ciò comporta un sottrarsi al compiacimento, all evasione verso i sogni dove i problemi reali, interni ed esterni, vengono persi di vista. Questo impegno, nell’ambito della ricerca formale, viene ribadito da “Notte e Nebbia” (1956) dove la attenzione è tutta centrata sull’assurda primavera che non può cancellare col suo verde, col fluire dei suoi ruscelli quel coa-gulo di dolore, cemento e ferro spinato che è Auschwitz. I grigi relitti del lager racchiudono ancora i germi dell’orrore,della disumana notte che annientò la fiducia in una pace disarmata, fondata sulla pietà o sulla comprensione. Ormai maturo per. un più lungo discorso, Resnais gira “Hiroshima, mon amour” (1959): attraverso il ricordo che, nelle intermittenze del cuore, è sempre un vivo presente, la ragazza di Nevers si immedesima con la tragedia della città giapponese; ma l’amore di chi può chiamarsi Hiroshima sarà difficile se non impossibile. Proust, filtrato attraverso i dialoghi della Duras, non è per il regista uno schemario di modelli immobili, di sollecitazioni meccaniche,
serve a dare spessore ad una rivendicazione, a liberare la denuncia della mostruosità atomica, dalle formulazioni di arida propaganda. Si veda come vengano analizzate, intarsiate le psicologie dei personaggi e dell’ambiente, come vengano richiamate le immagini del disperato passato; lo stile sembra stancare per via dì una prolissità implacabile, di una decelerazione di sequenze, ma si finisce invece col gustarne la molecola-rità e per scoprirci un realismo di notevole precisione. Così come nei documentari d’arte o nel più recente, “Le Chant du styréne” (1958) l’aneddoto è superato, risulta chiaro che l’umano si trova nei gesti, negli sguardi ma anche in tutti i dettagli, anche inanimati, che cir-condano, lambiscono l’uomo. I rischi di questo stile sono però, appena oltre la soglia: soggettivismo fine a se stesso, culto dell’immagine bella. E mentre fino a “Hiroshima”, simbolo e documento fanno amalgama, convi-vono in circostanze felici, ne “L’anno scorso a Marienbad” (1961), trasci-nato per mano da Arianna Robbe Grillet, Resnais si sperde nel labirinto, resta con un solo lato della sua personalità, “il lato fantasmagorico della realtà vissuta dal nostro spirito” . E’ la stessa poetica presente ne “La tenda Rossa” di Astruc, altra pagina bianca del cinema francese, dedicata a quei silenzi ambigui che, per nascondere cose troppo grandi, finiscono col nascondere il vuoto. L’amplificazione incontrollata degli stati d’animo (volutamente incontrollata: quasi azioni libere in causa), tradisce qua e là il manierismo; il 46
47 materiale è spesso retrodatabile, di oscura matrice dannunziana, dove sono merlettature senza vestito e quindi senza corpo, dove si raggiunge quella perfezione che, come ben diceva il Serra “suona falsa”. Sono i traguardi naturali della “école du refus” : quel dirsi niente, quel guardarsi agli specchi, senza mai discutere, arrabbiarsi, precisarsi è la tela vuota dei rapporti umani, dove è assente perfino il senso dell’angoscia che darebbe significato alla vicenda; si è come introdotti nel laboratorio di una intelligenza sottilissima, non in presenza di un’opera viva. La sterilità si traduce, in splendidi crittogrammi, i personaggi in mani-chini elegantissimi ed esangui, l’attenzione alla forma si degrada a osses-sione dello stile e tutto sfocia in quel gran mare dello arbitrario che può complicarsi all’infinito, senza mai agganciarsi a un qualsiasi problema morale o sociale. Non conosciamo l’ultimo documentario di Resnais, ma possiamo dire che con “Muriel” (1963) il regista è rientrato tangenzialmente nella sfera di “Hiroshima” , con una certa collocazione storica dei ricordi, con, l’uso dei “tropismi” indirizzato alla ricerca dell’uomo totale, non infranto in un caleidoscopio di sensazioni che negano il mondo reale. (Robbe Grillet, dal canto suo, e in conformità a “Marienbad” ha perseverato con “L’Immortale” nella raffigurazione geometrica ed immobile del paesaggio e dei personaggi, costruendo a freddo una opera dall’ordito spesso contrad-dittorio e privo di riferimenti ad ogni verosimile affettivo o temporale, dove ogni simbolo rinvia ad una cantilenante metafisica del mistero). E’ per questo che, se Resnais saprà sviluppare con le sue proprie forze il suo contenuto, gli capiterà di colmare le sue lacune e di dare un fonda-mento più concreto al suo lavoro futuro. Napoli – Il Mattino, 19 Giugno 1964 48
49 JACQUES BECKER O DEL REALISMO POETICO Roger Manvelli nota fin un suo acuto studio sul cinema francese che, per fortuna, il fallimento delle principali case di produzione verso il 1935, dette ai registi indipendenti la possibilità di fare film i quali costituirono, malgrado il loro numero limitato, la famosa “Scuola Francese” che potrebbe venir chiamata del “realismo poetico” . E infatti alcune sigle di questa tendenza narrativa furono le poche e gene-riche cerniere che univano i nomi di Renoir e Carné, di Feyder e Becker. Jacques Becker è forse il meno noto dei quattro ma non certo il minore: la sua carriera priva di éclat ha una perseveranza che testimonia della pazien-za e della passione da lui portate verso il linguaggio delle immagini. Dal 1932 al 1938 fa il suo tirocinio presso l’ “anziano” Renoir, facendo coincidere il fruttuoso apprendimento con il vivo interesse per la teoria e per la buona letteratura, senza respingere occasioni, senza mettere da parte offerte artigianali ritenendo che anche nel lavoro controvoglia si può (e meglio) esercitare il gusto, la facoltà di discriminazione e tesauriz-zare tali esperienze per il futuro. Accanto al lavoro di assistenza alla regia, già nel 1935 firma “Le commissaire est bon enfant” dove scarta di slancio l’elogio consueto della vita av-venturosa e del piccolo demiurgo che domina e intreccia i destini individuali; il tocco di simpatia, di umore rosa non scivola mai nel grazioso o nel patetico. Su più basse tonalità, “L’or du Cristobal” (1940) si accontenta spesso di un uso meccanico delle sequenze, punteggiato com’è da effetti da feuilleton. Ciononostante le qualità di Becker riescono a mettere in aria, una tensione che vale da clima reale intorno a personaggi convenzionali. Nel 1942, un’opera asciutta, piena di tendini pronti alla flessione e allo scatto, “Dernier atout” è la prima prova nel campo del poliziesco; anche se il film risente di tutti i Simenon e Mac Orlan che gli premono alle spalle imbocca un suo proprio binario, lucido e ben incrociato. Il primo lavoro tutto concluso è quello dell’anno seguente (1943): “Goupi mains rouges” (da P.Véry): Becker crea nell’ombra fìtta di un paesaggio contadino un quadro minuzioso ma non sovraccarico di astuti fruscii: la casa del bracconiere, il suo muoversi lento e
calcolato, l’agitarsi cupo degli altri, tutto indirizza verso un solco più antico e più nobile la Vena “gialla” di Véry. Il senso finale è la sottomissione, senza accecamento, alle leggi del grande bosco e l’ostacolo maggiore è stato superato, è stata evitata la nomenclatura delle cause che danno vita alla caccia di frodo. Ma “Goupi” suonava pieno di metafore per l’occupante tedesco, nel suo 50
51 verificare come naturali certe trasgressioni, certe disobbedienze e il regista fu costretto a virare verso soggetti più frivoli e più friabili. “Falbalas” , (1945) portato avanti con stanchezza e malcontento per quasi tre anni, si impernia sul mondo del la “haute couture” parigina e non ne trae che poveri risultati. Finalmente, nel dopoguerra, con “Antoine et Antoinette” (1947) Becker recupera e supera il “realismo poetico” scostando molte sue fuliggini “nere” , animandolo di un gusto per il tipico e per il comune in “un omaggio caloroso alla gentilezza robusta e allegra degli operai francesi” (Sadoul). Si tratta di una variazione personalissima sul tema clairiano del bigliet-to di lotteria, tutta calata nelle mezze tinte dalle striature argentine.
Quest’umile verità, questo rovescio “normale” del mondo mitico della banlieue ha una forza di comunicazione equilibrata, scorrevole, senza sbalzi di voltaggio (il neo-realismo era stato l’appoggio su cui livellare i propri ideali narrativi); lo stesso non casuale interesse per la poesia del quotidiano porta a “Rendez-vous de Juillet” (1949) e pone questo film sulla stessa linea di forza del precedente. “Edouard et Caroline” è invece, purtroppo, un bis imposto dall’industria a un regista che si rifiutava di ricorrere ai mille trucchi del suo corredo tecnico per attenersi alle regole e al ritmo della realtà. Il ricalco porta a moltiplicare gli appigli naturalistici, eppure si tratta di incrinature più che di crepe. Di questi film si ricorde-ranno i Truffaut, i Demy, i Malle nei loro momenti di pudore, di intimi-smo di ambiente. Nel 1951, come in un soprassalto di creatività, Becker gira la sua cosa più bella e più duratura: “Casque d’or” : solo per una cronologia dogmatica si può considerare questo film viziato da gusto “retrospettivo” ; il rifarsi ad una cronaca giudiziaria dei primi del ’900 serve a trovare, invece, il centro di gravità di tutta un’epoca e il gheriglio di certe maturazioni esterne. Manda, falegname di Belleville; incontra Maria, detta “casque d’or” come un destino d’amore e di morte; l’amicizia con Raymond è l’altro lato autentico della sua vita, oscura e insignificante dall’orfanotrofio a quel giorno. L’amore per la casta e appassionata gigolette non viene svolto da Becker sul filo del fatalismo caro ai réalisateurs d’anteguerra; l’indigenza morale del milieu nasce dalla miseria materiale, è essa, in fondo, che determina le tappe del cammino verso il corrusco ghigno della ghigliottina. Gli elementi di sviluppo non sono rubati con mano facile al populismo di tanta letteratura, anzi Becker si rifà alle atmosfere dense di luce-ombra della pittura, alla “féerie humaine” dei classici e ripudia ogni esagerazione della sensibilità e ogni partito preso. 52
53 Il volto della Signoret o di S.Reggiani, la fotografia di Lefebvre, la musica di Van Parys sono amalgamati in un flusso di coscienza che è immagine dell’epoca e documento di indubbia veridicità. Becker ottiene una spe-cularità priva di false luci o di rifrazioni precostruite: la volpina ferocia del capobanda Leca è impostata su un gioco nervoso, credibilissimo; i bal-li di periferia, il groviglio domenicale di apaches e borghesi, le giornate di calmo amore a Joinville, così tiepide di sole nascosto, di campestre solitu-dine sono le controrime ai bistrò, ai cellulari, alle strette strade della ma-lavita; il bianco liliaceo si oppone al nero catrame, si fonde al grigio ferri-gno e presago degli interni. Così, nella sequenza finale dell’esecuzione di Manda, cui “casco d’oro” assiste dalla finestra di un piccolo albergo, Becker trova nell’angoscia im-pietrita dei volti il controveleno alla tragedia gridata e lacrimata. Nel 1953, con “Grisbi” , il regista mostra di saper umanizzare un banale episodio di cronaca nera con una meditazione sulla solidarietà virile e sul sopraggiungere della stanca ed ingrata vecchiaia. La censura ha tenuto, ferma quattro anni “Casque d’or” dirottando Becker sul sentiero avvilente di “Rue de l’Estrapade” (1954) o degli “Ali Baba” (1954) o “Arsenio Lupin” (1956). Nel 1960, come in un ultimo sforzo di protesta viene fuori “Le Trou” centrato ancora sui temi dell’amicizia e della dignità che possono trovarsi, come diamanti, nei torrenti più melmosi; ma su questa rivincita si spegne il cuore di Becker e si chiude quel suo occhio volto alla realtà ma avido di poesia. Napoli – Il Mattino, 31 Luglio 1964 54
55 TRUFFAUT IN TV Il ciclo, ormai concluso, delle opere del regista francese apparse sul piccolo schermo permette un bilancio, sia pure provvisorio, di questo espo-nente della “nouvelle vague” , cioè di un movimento che caratterizzò l’intero cinema francese degli anni ‘60. Fautore della “politique des auteurs” , il giovane critico dei “Cahiers” affrontò subito la cinepresa con l’impeto autobiografico che è tipico dell’età verde, usandola quindi come strumen-to di liberazione e di esorcismo. Si spiega così come “I 400 colpi” resta ancora, alla revisione, una delle cose più sincere ed incisive di Truffaut, inizio della vita in celluloide di Antoine Doinel, che verrà dal regista pedinato in molti successivi stadii della sua vita d’uomo. E’ un io vero e vivace anche se dotato di un certo narcisismo e perciò non troppo definibile da “Antoine e Colette” (1962) a “Baci perduti” , fino a “Domicilio coniugale” (1970): risulta così un personaggio tutto intero sullo sfondo del quale si costruisce tutta una piccola commedia umana con notazioni, vibranti, sfumate e con ritmi da minuet-to (il nome di Clair è stato fatto a ragion veduta). Su un versante più inclinato verso la letteratura si colloca “Jules e Jim” che resta, sia pure nell’ambito del triangolo borghese, un racconto di den-sa ambiguità centrato sul ritratto di Catherine (Jeanne Moreau) che si staglia come il paradigma di una non-scelta per troppo amore, e quindi di un eros che si dirige verso l’autodistruzione. Questa commedia che sa di tragedia è quanto di meno “furbastro e dol-ciastro” il regista abbia potuto configurare pur nell’accettazione dell’amoralità tradizionale. Vien da chiedersi pertanto se sia sempre un sintomo di reazione politica quello di evidenziare un nodo della individualità che impedisce di scavalcare i limiti della sovrastruttura sociale. A critici esigenti, e in fondo, utopici come Fofi non va giù nemmeno “Il ragazzo selvaggio” (e se ne veda la stroncatura ripubblicata nel non siste-matico ma foltissimo “Capire con il cinema” , di recente edizione) Pare invece che lo stile illuministico, un po’ distaccato e un po’ pedagogico resti ancora una procedura raziocinata utile a far comprendere certi fenomeni a ceti ottusi che raramente soffrono di attacchi di coscienza. Una lotta che il giovane Itard conduce per far emergere una persona da un passato preistorico in cui è stata ributtata e rappresentata con chiarezza e con geometrico procedere d’immagini. Non
sembra affatto che Truffaut sia qui “influenzato da un’ideologia ottimista e bigotta insieme” , ma forse da quell’etica dello sfondo educativo (ed autoeducativo) che è poi il 56
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58 risvolto dello stesso “Fahrenheit 451” che definiva, per assurda proiezione in un futuro possibile, il significato profondo della cultura: quei libri non libreschi che rischiano sempre il rogo nei corsi e ricorsi della storia (e non solo di quella occidentale). Dove Truffaut sembra giocare in un territorio poco congeniale è in “La sposa in nero” : ci sono tracce di Hitchcock maldigerito e un umorismo macabro non sempre risolto. La disfunzione dell’immaginazione visuale è qui fin troppo evidente e lo stile sembra evolversi all’indietro, con strani atterraggi e improvvise levitazioni sconcertanti e poco motivate. La stessa “Adele H.” evidenzia un’aritmetica dell’inconscio femminile che non sempre riesce ad articolarsi in sequenze persuasive (nonostante l’indiscutibile bravura degli interpreti): il neoromanticismo non trova il suo punto di coagulazione e scorre con uno slancio di “troppa grazia”. In “Effetto notte” , invece, la perizia estrema dell’autore conduce un discorso di estremo interesse, quello del cosiddetto “metalinguaggio” cioè un parlare del cinema col cinema e viene fuori un “work progress” di grande freschezza e un’analisi dell’operazione “ripresa” che arriva a sottigliezze notevolissime. Appunti, citazioni e frammenti ripescati con innocente memoria vagano invece senza effettiva aggregazione nell’opera più recente “Gli anni in tasca” : un discorso sentimentale che non trova unificazione né concentra-zione. Eppure anche in essa fa capolino la tipica capacità dell’autore di cogliere le bruttezze, le inadeguatezze e le ironie dell’esistenza. Ed è questa che resta per ora la cifra più caratteristica di un regista che varrà la pena di seguire ancora nella sua carriera non certo conclusa. Napoli – La voce della Campania, 17 Luglio 1977 59
60 UN DOVEROSO OMAGGIO A H-G. CLOUZOT FRANCE CINEMA ‘98 a FIRENZE Nel capoluogo toscano, nell’ambito di “France-Cinéma ‘98” è stata proiettata un’esauriente retrospettiva di H.G. Clouzot, curata da F.Pieri e voluta e introdotta dal direttore dell’interessante rassegna, A.Tassone. Un’occasione d’oro per rivisitare un autore da troppo tempo trascurato e da molti sottovalutato. Lo spettatore, tra l’altro, ha potuto trovare una vera guida all’“opera omnia” del regista nel saggio di P.Mérijeau inserito nel catalogo (ed.Il Castoro”). Clouzot nasce a Niort, piccolo centro della Vandea, nel 1907, da un padre libraio divenuto poi editore per proprio conto. Viene avviato alla carriera di ufficiale di marina ma ben presto dovrà abbandonare la Scuola Navale di Brest perchè gli viene riscontrato un de-ficit di vista. Si stabilirà, allora, a Parigi a casa di uno zio, funzionario presso il Museo Galliéra, ricco di stimolanti curiosità artistiche e artigianali. Frequenta teatri e cinema senza sosta, con passione crescente e pur di entrare nel “milieu” accetta di scrivere parole e versi per chansonnier noti e meno noti.
La prima prova di sceneggiatore la fa con H.Jeanson per un film che resterà sulla carta. Ma questo è il primo passo per lavorare poi con uomini quali L’Herbier, Decoin e lo stesso Gallone allora molto attivo tra Francia e Germania. Gli resta perfino del tempo per scriver note, corrispondenze e recensioni sul cinema per il quotidiano “Paris-Midi” . Ad appena venticinque anni gli si offre l’opportunità di andar a lavorare a Neue Babelsberg, in quel di Berlino ove farà preziose esperienze con registi della tempra di Litvak, e E.A.Dupont, esponenti di quell’espressionismo che il nazismo sopravveniente rinnegherà e sospingerà verso altri paesi. Al rientro dalla Germania, una malattia polmonare lo inchioderà per qualche anno in un letto di clinica. Come capiterà anche a Moravia, Clouzot ne approfitterà per sprofondarsi in letture di classici, da Montaigne a Diderot, da Balzac a Proust. Molto tempo dopo, con acre umorismo, confesserà ad un indiscreto cro-nista de “Le Figaro” : “Si, in fondo, la mia cultura la devo al sanatorio!” Oggi, appare chiaro anche che questa Tbc, non domata prima del‘38, lo tiene lontano dall’influenza dominante del “realismo poetico” di Duvivier e dei Carné e dalla pesante retorica del “Front Populaire” . Ma i lavori che gli si propongono sono ben poca cose, adattamenti di 61
62 “pièces” teatrali presunte-brillanti o frettolose trascrizioni per lo schermo di insipidi romanzetti. Ciò gli consente, tuttavia, di rimanere nel “giro” e di far amicizia con attori del calibro di un Jouvet o di un Fresnay. Nel 1941 c’è l’incontro con il “giallista” belga, Simenon, da un cui libro trae la sceneggiatura per “Les Inconnus dans la maison”. Già in quest’intervento, un critico avveduto come Lourcelles trova “ancor meglio sottolineata una certa provincia francofona rappresentata in tutta la sua cruda verità” . Finalmente, verso la fine dello stesso annoi, gli spetta di girare, a 34 anni, il suo primo lungometraggio! “L’assassino abita al 21”. Vi agiscono come interpreti la sua compagna di allora, Suzy Delair, nonché P.Fres-nay e P.Larquey che Mérijeau ben definisce “attore-feticcio” di Clouzot, per l’alta frequenza delle sue apparizioni nei film del regista. La cifra più autentica del racconto filmico è il ben orchestrato gioco alle spalle dei personaggi stessi (e perfino del pubblico). Il finale a sorpresa di questo “polar” (policier-noir) conferma il tono tra il grottesco e l’ironico della rappresentazione che procede, senza cadute, con un wit degno di A.Christie. Di ben diverso tessuto e colore chiaroscurale è “II corvo” che il regista porta a termine nel 1942. Il film risulta tratto da una ben articolata sceneggiatura redatta anni prima dell’occupazione tedesca da Louis Chavance, col titolo primitivo di “L’occhio del serpente” . E’ una cupa storia di minacciose lettere anonime che incutono paura ed angoscia ad un intero paese della provincia francese (che il regista ben conosce per esservi nato e vissuto a lungo). Avvenimenti e stati d’animo sono ben selezionati e incastrati tra loro in un intarsio di perversioni e rancori ignominiosi. Lo stile è quello di un acquaforte realistica al limite dell’espressionismo,con squarci di luce sinistra che scoprono fisionomie acide o stravolte dall’ansia. La sequenza chiave è quella in cui lo psichiatra folle fa oscillare una lampada di fronte al dott.Germain, chiedendogli maniacalmente “Dov’è la luce e dov’è l’ombra?” , quasi per lui male e bene fossero interscambiabili. Altro momento memorabile è quello del tentato linciaggio dell’infermie-ra risolto dal regista col mostrare solo il volto della donna esasperata e facendo udire - fuori campo - le urla degli inseguitori contrappuntate dalle lontane litanie funebri. Le prove offerte da Fresnay, da Larquey, dalla Lederc sono magistrali e indimenticabile è Sylvie nella parte finale in cui, vestita interamente a 63
64 lutto stretto per il suicìdio del figlio incolpevole,esce dall’abitazione del “corvo” con l’aria di un’Erinni placata da un sacro gesto di vendetta. Nel ‘44, questo film costerà al regista uno strano seppur breve processo davanti al “Comitato per l’epurazione” conseguente all’avvenuta liberazione della Francia. Gli sarà facile dimostrare che il suo bersaglio è stato proprio la disonore-vole pratica delle delazioni e delle calunnie in uso in quegli anni di oppres-sione nazista. Oggi, infatti, gli studi in merito di un Siclier o di una Ehrlich hanno chiarito come l’etichetta di “Cinéma de Vichy” sia stata pretestuosa e fuorviante. E R.Prédal ha confermato nella sua più recente “Storia” quanto “Il corvo” fosse dispiaciuto soprattutto agli occupanti tedeschi. Passerà, comunque, qualche annetto prima che il regista possa dar il via alla successiva opera che sarà “Quai des orfèvres” (1947). E’ un film tratto da un romanzo di un altro giallista, S.A.Steeman, belga come Simenon. Per un’ironia linguistica il titolo italiano corrisponderà a quello originale del testo di partenza: “Legittima difesa” . Al centro di questo “polar” cinematografico si situa la figura dell’ispettore Antoine, resa magistralmente da Jouvet. Il grande “comédien” compone qui il ritratto in piedi di un uomo che tra le non poche virtù ha quella di dis-simulare la sua umanità sotto una maschera di “atarassia” professionale. Clouzot gli affianca, in un mosaico ben variegato, altri medaglioni inte-ressanti, da quello del tassista (il fedele Larquey) o della cantante-coquet-te (S.Delair), fino a quello del coniuge geloso di lei, un giovane B.Blier, dalla psiche infiammabile ma, in fondo, pacifica. La parte ingrata del produttore erotomane è affidata ad un maestro delle scene francesi, Charles Dullin. Poche battute dalla pregnanza polisemica sono da lui profferi-te, tra cui quella indimenticabile, in risposta alla modella che chiede se deve “togliersi tutto” : “Ma no, bambina, le scarpe no, mai le scarpe…” . Par di udire un’eco della Madama Pace pirandelliana cioè di un autore cui Dullin dedicò mirabili messe in scena. Ma Antoine-Jouvet grandeggia in ogni sequenza, tra pudore dei sentimenti e magnanimità occultate con “una lezione fuor d’ogni routine e aliena da ogni trucco istrionico” . (J.Mitry). Lo stesso Sadoul, poco incline alle tenerezze verso il regista, lo paragona al celebratissimo Hitchcock, pur tenendo conto delle radici letterarie assolutamente diverse. Nel ‘49, Clouzot pone mano a “Manon” , antica vicenda che lui intende trasporre in termini contemporanei, nel marasma morale degli anni ‘45 e seguenti. La scelta della protagonista, una ragazzina sconosciuta - Cécile 65
Aubry - è in giusta chiave con questa decisione. Giovani ma non così ine-sperti sono un Reggiani e un Auclair che reggono i ruoli rispettivamente del fratello di a e del suo amante Desgrieux qui in veste di ex-partigiano che ha perduto la testa per la ragazza. Tra i malevoli si diffonde la voce del sadismo di Clouzot verso questi interpreti, ma la sua è l’usuale intransigenza di un direttore che assume da solo la responsabilità della riuscita del film. La vicenda dei due famosi amanti è raccontata in flashback: Manon è una giovane sventata, compromessasi con i nazisti ed è in fuga verso la Palestina, per scampare a qualche condanna o taglio di capelli. Il partigiano Roberto, infiammato di lei, vuole accompagnarla, dopo aver fatto fuori Léon, il fratello sfruttatore. I due giungono sulle sponde del paese mediorientale, ma Manon rimar-rà casualmente uccisa da un colpo di fucile beduino e Desgrieux la seppel-lirà sotto l’arida sabbia di quel deserto, in una scena che i detrattori del regista si affannano subito a definire di “irritante necrofilia” . C’è una strana levata di scudi contro questa pellicola, da destra e da sinistra; dà fastidio il rovesciamento di certi tabu borghesi e l’anticonformi-smo, in fondo romantico, dell’autore quando aggiunge alle battute classi-che del romanzo di Prévost quella che afferma: “Niente è sporco quando si ama!” . In Italia “Manon” viene boicottata in modo tartufesco, vietandone il doppiaggio e scoraggiando cosi la più vasta platea. (Ma a Venezia il film ha ottenuto il primo premio!) Nello stesso ’49, Clouzot viene invitato a dirigere uno dei quattro episodi del film “Le Retour de Jean” (insieme a Cayatte, Lampin e Dreville). Questo mediometraggio dalla scarna e concisa drammaticità ha illumi-nato con il suo alto stile uno dei pomeriggi più affascinanti di “France Cinéma ’98” a Firenze. Un perfetto kammerspiel (sconosciuto ai più e dominato dalla carismatica interpretazione del sempre più profondo Jouvet). La vicenda è lineare: nella cameretta d’albergo del reduce Jean Girard, zoppo per i maltrattamenti dei “boches” nei lager militari capita, da fuggiasco, proprio un ex-aguzzino di quei campi, braccato da militari e poliziotti francesi. E Jean riversa sull’uomo ferito tutto il rancore e l’odio che gli ribollono dentro da lungo tempo. Nell’escalation del suo furore, in un breve intervallo di coscienza, Jean si rende conto che anche lui sta assumendo il comportamento di un tor-turatore privo d’ogni briciolo di pietà. E Jouvet anima questi soprassalti di umanità con i toni e i timbri 66
67 perfetti nel dominio della sua fisionomia. I campi e controcampi del regista tra il volto del reduce e quello del “boche” ferito sono un contrappunto di una drammaticità percussiva che non dà scampo allo spettatore. Così la scena della preparazione della siringa letale da parte di Jean arria come una soluzione estreme che non si sa più se di vendetta o di eutanasia. Nell’opera successiva, Clouzot pare voler dimostrare che non son poche le frecce al suo arco: “Miquette et sa mère” (“Un marito per mia madre”) (1950) è una sorta di vaudeville leggero ed effervescente. La sfida appare ancor più decisa se si pensa che oltre Bourvil e la Delor-me il regista utilizza lo stesso Jouvet, ma nella parte di un guitto tra il ri-dicolo e il brillante. Ciò conferma che gli ingegni tragici hanno anche risvolti di piena comicità (l’angosciante Bergman non ha forse diretto cinque o sei tra le più deliziose pellicole di humour erotico?) Dal ‘50 in poi, per qualche anno è tempo di riflessioni e di ricerche: Clouzot va in Brasile con la sua nuova compagne, Vera Amado. Lo interessano certi riti e miti di questa grande terra desolata e Vera lo induce a frequentare i luoghi deputati a queste cerimonie feticiste, in cui essa crede ciecamente. E’ una strabiliante esperienza da cui, però, verrà fuori solo un libro di appunti etnologici: “Il Cavallo degli Dei” (1951) Ritornato in patria, il regista sottopone ai produttori altri suoi progetti, tra cui perfino un “Misantropo” e “Il potere e la gloria” (da G.Greene). Dopo qualche anno di trattative, verrà accettato il “treatment” de “Le salaire de la peur” (“Vite vendute”) (1952) Vengono scritturate persone ad hoc: Montand (per un Mario tosco-pari-gino), Peter Van Eyck (il biondo Jo) e gli espertissimi Vanel e Folco Lulli (il duro artificiere e il mite quanto vulcanico muratore italiano). E’ una storia quasi tutta al maschile e Vera Clouzot stessa è collocata in una parte accessoria anche se di rilievo espressivo. Si tratta, infatti, di un viaggio per trasportare un micidiale carico di nitroglicerina, in una zona dell’America latina, ricostruita in una plaga della Camargue. Il regista riesce ad imporre all’azione un ritmo impeccabile e implacabile, concentrando la suspense in ogni naturale snodo degli avvenimenti. Giustamente, subito dopo la prima, P.Kast definisce l’opera: “una tragedia dell’assurdità e delle cieche imprese umane”. Ci sono brani memorabili di alta fusione audiovisiva, come quello del-68
69 l’agonia di Jo, connotata in parallelo dall’urlo della sirena dell’automezzo che va in decrescendo mentre il volto del biondo scandinavo scompare tra le lingue di fuoco. Il film riscuote, invero, successo di pubblico e di critica conquistando anche il “Palmarès” a Cannes ‘53. Si capisce che il regista rapporta la vicenda alla situazione sociale del ter-zo mondo, alla sua miseria e cronica disoccupazione. Clouzot ne dà conto in molte scene-chiave, come quella del comizio dì protesta all’arrivo delle vit-time e la susseguente colluttazione degli operai con i “capibastone” : divam-pa la rivolta contro questi feroci suscitatori di “omicidi bianchi” . E l’umanità non è cancellata dal clima di thriller, ma affiora continua-mente dai volti di quei quattro amici temerarii, in ogni circostanza che tende ad affratellarli. Nel 1954, Clouzot torna alla linea privilegiata con “Les Diaboliques” e nel cast infila non solo Vera, ma Vanel e il fedele Larquey oltre alla splendida Simone Signoret e Paul Meurisse. E’ di nuovo giallo venato di hiumour nero: la moglie e l’amante di un dispotico preside di provincia decidono di farlo fuori, insieme. C’è chi lavora contro di loro: un testardo ispettore degno della tradizione dei Javert e reso da Vanel con un supplemento d’anima e di buon senso contadino.
Bazin vedrà questi personaggi disposti “in ordine geometrico, quasi pezzi di scacchi su di una scacchiera” . E infatti questo “giallo” dalle striature scure ha tutti gli incastri perfettamente aderenti, congegnati in meccanismi d’alta orologeria. Non mancano antifrasi di humour nero come la sequenza in cui – mentre si cerca il cadavere, la maestra, fa coniugare il verbo inglese “to find”. Il dominio del difficile stile è completo, senza sfasature nè ridondanze e viene confermato ad ogni istante dall’asciuttezza dei battibecchi, dalla plasticità delle inquadrature e dalla metronomia del montaggio. Con ottime ragioni, il film verrà insignito del non comune onore del “Prix Delluc” del 1955. Nel 1956, contro le affermazioni di chi lo accusa di “monotonia temati-ca”, Clouzot opera una nuova sterzata con “Le Mystère Picasso” . Con esso, intende analizzare dal vivo il “work in progress” di un genio della pittura del ‘900. Così, sequenza dopo sequenza, il configurarsi dei disegni è restituito in tempo reale dalle congeniali riprese di Clouzot. Forme, curve, fisionomie, gestalten pittoriche nascono e crescono davanti all’obbiettivo del regista senza soluzione di continuità, quasi attinte 70
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direttamente alla mente e all’occhio dell’artista ispano-francese. Ritocchi, aggiusti, pentimenti, riformulazioni iconiche sono registrati “a specchio” in un dinamismo spazio-temporale che ha qualcosa di drammatico, come di un parto emotivo-cognitivo: non senza ragione qualcuno parlerà di un “documentario bergsoniano” . Lo slancio vitale della creatività è, infatti, inglobato nella pellicola che scorre parallelamente ad essa. Perciò, non c’è bisogno di alcun elemento biografico o descrittivo e basta la musica di Auric che si pone in contrappunto felice all’agire figurativo. L’anno seguente, viene alla luce “Les espions” , film sfortunato che circolerà assai poco, per i troppi fraintendimenti di cui rimane vittima. Giustamente, invece, Tassone lo qualifica “un formidabile apologo sull’assurdo nell’epoca della guerra fredda”. In tale opera c’è un indistricabile giuoco di nodi tra violenza ed ironia, tra cinismo ed humour:basti riflettere alla scelta di P.Ustinov quale uno dei protagonisti, un “pince -sans-rire” di alta valenza e allo stesso exploit eroicomico di un Sam Jaffe (il prof.teutonico di “Giungla d’asfalto” ). Sono caratterizzazioni brillanti che danno conto del vero punto di vista del regista nei confronti di questi “superagenti segreti” pronti sempre a vendersi e a cambiar di campo. (Il vessillo in cui credono è trapunto di oro e di banconote). La reazione del pubblico e di buona parte della stampa è di perplessità e di stupore, come di fronte ad un Kafka che si scopra intriso di raffinato sarcasmo. L’insuccesso di cassetta porta conseguente perfino sulla salute del regista, dato il diffuso risentimento mostrato verso di lui dai prudenti produttori. Nei quasi due decenni che seguono a “Les Espions” che è del 1957, Clouzot non riuscirà a girare più di due o tre film. Per il primo della terna, “La verità” ( 1960) si garantirà l’interesse della platea con due star popolari, ognuno per diverse ragioni, la Bardot e Jean Gabin. Il livello d’impegno non è certamente di routine, perchè in questo poliziesco-giudiziario si svelano progressivamente le analisi impietose dei meccanismi della legge penale (la parola “giustizia” è termine troppo alto per venir qui usata). Grazie ai due mostri sacri, il film fila liscio e in modo accattivante, ben oltre quel “giuoco di prestigio o di destrezza” di cui parlerà maliziosamente Charensol. E’, invece, sintomatico che vari anni dopo, finalmente matura, la Bardot 72
73 riconoscerà che “è stata la sua prova migliore” . Nel ‘64, “L’enfer” sarà una pellicola che non sarà mai condotta in porto e il susseguirsi delle delusioni procurerà al regista un secondo infarto. Come lavoro meno faticoso, Clouzot - tra il ’66 e il ’67, accetta fortuna-tamente l’incarico di metter in scena alcuni concerti dei Wiener Filarmo-niker (sotto la bacchetta di Karajan). Ne vengono fuori documentari musicali tra i più preziosi; lo stesso direttore ne resta a tal punto ammirato da inviare una lettera di devoti rin-graziamenti al regista francese per “la testimonianza data di audacia e di efficacia” e “si toglie il cappello davanti a lui” . Mozart, Beethoven, Schumann, Verdi si stagliano in tutta la loro intensità emotiva in queste pagine filmiche che sono modelli esemplari di linguaggio audiovisivo. E Mérijeau fa bene ad annotare, nel suo preciso saggio, “forse, mai prima di allora la musica è stata filmata e servita in tal modo, come rivelata a se stessa”. L’ultimo lavoro di Clouzot sarà, nel 1968, “La Prisonnière” che procederà a sbalzi, incagliandosi troppe volte in difficoltà finanziarie e di salute. (Dopo la morte di Vera, il regista si è sposato con la terza compagna, Ines). Nel cielo di quell’anno ci sono i tuoni e i lampi della “contestazione glo-bale” : i “Cahiers” parlano di Clouzot, e di Clément e di Autant-Lara come di “gente marcita a furia di correre appresso al denaro” . (!)Henri-Georges è stato apostrofato col titolo di “vecchio imbecille” . E, invece, “La Prisonnière” marcia male proprio a causa di difficoltà ma-teriali di tutti i tipi. Anche la ricerca di sperimentazioni figurative nuove e la mania di riscoprire Sade non giovano alla realizzazione dell’opera. Tra gli interpreti si salva solo Terzieff che nel clima erotomaniaco del film riempie il suo ruolo con adeguata performance tra il gelido e il superbo, come un personaggio de “Les liaisons dangereuses” . L’accoglienza è fredda nel giorno di fine novembre Clouzot, di ritorno, a casa, ha un vero e proprio collasso nervoso, dopo il quale resta praticamente inoperoso. Nel 1977, la sua Ines fedele ed affettuosa lo trova inanimato su di una poltrona di casa mentre ancora gira sul grammofono il disco di Berlioz, ultima passione del regista di Niort. Si conclude così l’esistenza di un uomo di grande talento che, a torto, diversi hanno voluto etichettare come “artista maledetto o diabolico” con l’uso di categorie extraestetiche che servirebbero, allora, ad escludere dalla storia delle rispettive arti anche Caravaggio, Villon o Stradella e tanti altri fino a Stroheim. Ad un’analisi meno preconcetta e meno superficiale, come quella che si 74 è avuta modo di fare a Firenze, si è visto che la finezza delle sue suspense non hanno molto da invidiare a quelle di Hitchcock, dato che non si fa mai ricorso agli effettacci più volgari dell’horror
o del thriller. Clouzot non è un epigono dei compilatori di pellicole sensazionali e raccapriccianti, ma anzi mostra sempre una filigrana di moralità indignata verso i vizi capitali dell’uomo. Nello scansare il facile manicheismo mette a fuoco ambienti corrotti e e loschi, grondanti ipocrisie d’ogni genere (da “Il Corvo” fino a “La verità” ). Si stacca, con i suoi sottili e problematici intrecci da quel “cinismo totale e completo scetticismo” che un pur bravo critico gli voleva attribuire (G.Viazzi). Ha pagato caro la sua lotta su due fronti, contro i luoghi comuni e contro il progressismo di maniera (e le sue radici di utopico rousseauianesimo). Questo di “France-cinéma‘98” è sembrato, pertanto, un doveroso omaggio venuto a risarcire il grande regista di tante reticenze, trascuraggini e mezzi silenzi; ristabilendo tante verità e facendo chiaro che nel “cinéma de papa” c’erano anche vessilli di indipendenza morale ed estetica di notevole valore. Che anche il cinema, insomma, non comincia dal ‘68, come tanti slogan presuntuosi pretendevano. Un giusto riconoscimento, quindi, tributato all’opera complessiva di una personalità che ha segnato un periodo non oscuro dell’arte filmica, al di là degli equivoci ideologici ed ermeneutici. Un modo per inserirla nella più esatta prospettiva, a prescindere da pregiudizi e malevolenze viscerali. Non per una commemorazione provvisoria ed effimera ma per ricollocare i film del regista al posto che ad essi spetta nella storia della Settima arte. Firenze-Napoli – Novembre Ottobre 1998 75
76 L’ÂGE D’OR DU COMIQUE Appena nato, il cinema se ne parte già per due strade diverse: il documentario di Lumière ( “nature prise sur le fait” ) e lo spettacolo “fanta-smagorique” di Méliès. Un punto d’incontro tra queste due vie lo si ritrova nel comico: “L’Arroseur arrosé” col suo spicciolo realismo, nella sua filigrana di aneddoto tende allo stesso scopo di “À la conquête du Pôle” : in tutti e due può rin-tracciarsi lo steso invito alla irriverenza, al non conformismo, alla satira. Lumière, tecnico più che artista, si fermerà presto; si contenterà, dopo poche altre prove, di aver legato il suo nome ad un brevetto d’importanza anche per lui imprevedibile (la vignetta di quella sua prima comica resterà nella storia come l’incunabulo dei manifesti cinematografici); Méliès si darà anche troppo da fare e sempre alla sua maniera bislacca, tra voli e fumi di una fantasia parodistica e surriscaldata. I trucchi scenici, l’imaginazione cocasse, il suo “demone del disegno” lo agevoleranno nella carriera di mago: la sua sarà una fantascienza nel senso più ciranesco della parola. Da “L’Empire di Neptune” a “Le voyage dans la Lune” (o “à travers l’impossible” ) è tutta una frenologia burlesca proiettata sullo schermo a ritmo di cake-walk. Quasi senza saperlo la tela diventa il laboratorio vivo di certi giuochi letterarii del periodo, di certo dada, frottage ma con un gusto pieno del divertissement che procederà dalla tradizioni mescolate di un Per-rault e di un Verne, travestiti da primedonne di music-hall. Nelle pièces rimaste, la gaia scienza di Méliès si rivela un’indagine gio-cosa nello assurdo, un arguto favolare sui costumi e sulle stranezze degli uomini. Gli strumenti grammaticali saranno quelli della sovraimpressione, della esposizione doppia o multipla, della “photographie spirite” . E merito non piccolo sarà quello d’i appoggiarsi al teatro come all’unica forma di cultura da cui ricavare al più presto un pedigree per un’arte neona-ta e, secondo molti, priva di ascendenze legittime. Saranno allora féeries, rocailleries o cocasseries ma sarà anche questo il tirocinio indispensabile all’ immagine per reperire un linguaggio meno primitivo o, dopotutto, meno abborracciato. Dagli antichi gesti e dalle silenziose metafore di un teatro dell’arte raffi-natosi, in Francia, nei toni mondani del teatro boulevardier, dal vaudeville e dalla farsa molieresca, dalla grazia del jongleur e dalla immediatezza del clown nasce la svelta figurina di Max Linder. La sua arte, rispetto a quella dei rivali o predecessori, un Deed, un 77
78 Guillaume, è più sapida perché più stilizzata: specchio deformante di tutta un’epoca (detta bella), di tutta una joie de vivre, di una fin de siècle che si prolunga, paradossalmente, fin oltre l’inizio del nuovo secolo. La caratterizzazione sembra ottenuta dallo esterno, insistendo sullo ab-bigliamento ma è proprio per il gusto di una scelta acuta (il dandy parigi-no vestito dai grandi magazzini) che il personaggio rivela subito una sua ricca psicologia interiore e si staglia su di un quadro il cui sfondo è il senso del provvisorio e la notazione della più labile circostanza. Max inizierà quella guerra privata con gli oggetti (un bottone, una sedia, una scopa) che serve ad individuare, a sottolineare la buffa dialettica dell’uomo col mondo che lo imprigiona; perciò la trovata si ramifica in cento direzioni senza disperdersi e ha l’agio di rifiutare l’abuso dei mezzi meccanici. In Linder quindi la rapidità del linguaggio non è un apriori come sarà per le slapsticks di Sennett ma sussiste quando corrisponde al bisogno dell’estro, non perde mai la cifra del buonumore nè traligna in ridanciana violenza: l’attore diventa quasi quel superburattino (di cui sognava Craig) che, nella sua pantomima sapiente, è come un corpo “allo stato del’ estasi espressiva” .
Il comico ha una sua propria forza chè se gli è vietato o se non mira a guardare in su, sa, in compenso, ben girare gli occhi intorno e sotto di sè e quel suo fraseggiare universale fatto di gesti, di cenni, di movimenti trova in questi anni d’oro la sua più vera identità dato che nel cinema lo spazio perde anch’esso ogni staticità e passività. Se si pensa poi ad un’ altra componente della comicità, la configurazio-ne cioè, di cose tra loro incompatibili o incongrue o alla sua sorgente che si può rintracciare in una istintiva involontarietà o irragionevolezza, si può comprendere come l’apprendistato surrealista di Clair sia servito a ravvivare e a far risplendere il suo temperamento humoriste. In “Paris qui dort” si rivela tutto il suo equilibrato gusto per l’assurdo, in una sorta di collage animato che segua il filo di strampalati pensieri, (una reazione allora salutare ai troppo verosimili assunti postzoliani): così il riso che canta o trema appena sul labbro dello spettatore non è un castigo sociale ma è pur sempre un riso che illumina la realtà. In una Parigi pietrificata la goffamente armoniosa Tour Eiffel conquista la sua lirica personalità e si libera, nello scorrere delle immagini clairiane, dalla feroce banalizzazione cui è stata sottoposta da milionì di turisti in fregola di souvenirs fotografici. Nè Clair mancherà di tatto, a modo suo, con la grande tradizione dello 79
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spettacolo francese: un omaggio ad esso, ai suoi “ballets” , al suo miglior vaudeville lo rende con “Un chapeau de paille d’Italie” . La farsa di Labiche viene così costretta a restituire tutto il suo dinamismo con un montaggio tagliente che si sviluppa con raro esprit de géométrie. Un’opera nata quasi in sfida al teatro, al suo ritmo forzosamente moderato cantabile che straripa dai limiti del boccascena e giuoca sullo schermo con tutta la sua più vitale frenesia. Pièce a prova di ipocondria, carica delle sue genuine sollecitazioni alla risata, pur al limite di una estrema tensione ritmica e intellettuale. Con essa Clair dimostra di aver superato quegli espedienti talvolta ec-cessivamente brillanti con i quali una situazione comica veniva presa d’assalto ed esaurita nel vertiginoso volgere di 100 o 200 metri di pellicola; anzi in qualche istante della sua narrazione la fantasia già si scosta del mero giuco dell’intelligenza per recuperare sensibilità e tenerezza: primi sussulti della sua seconda e non meno félice vena che scorrerà da “Le Million” fino al grande delta di “Le silence est d’or” . Per altre vie, per eclettici esperimenti di favola e di realtà, arriverà al comico un’altro regista che solo anni più tardi troverà il punto della autentica maturità: con “Tire-au-flanc” (gli scansafatiche o più crudamente, col nostro argot militare “i lavativi” ). Renoir inizierà in sordina e come in una ouverture ironica quella sua riflessione sulla inconsistenza dello spirito guerriero, riflessione che do-vrà culminare sul piano drammatico nelle compiute immagini de “La Grande Illusion” . In questo bozzetto giovanile e scherzoso, invece, lontano da ogni pre-monizione di conflitti, affiora sia pure in superficie, il gusto della satira; non mancano sequenze di grande effetto, come l’annaspare grottesco ed esilarante dei “tire-au-flancs” sperduti nel bosco nel corso di una esercitazione con maschere antigas o i giuochi di caserma ritmati secondo un regolamento squadernato alla rovescia o, all’inizio, la burbarzosa dignità ufficialesca defiorata con pochi colpi bene aggiustati, come in una pocha-de che sa il fatto suo. E’ il 1929 e già da qualche anno il comico si è fatto, con Chaplin, completa e profonda consapevolezza della vita di tutti; forse per questo in Francia si cercheranno altre vie: Clair, dopo “À nous la liberté” si orienterà verso il patetico controllato dalla ironia, Renoir verso tableaux letterarii e pittorici di grande finezza; ma sarà stato soprattutto l’approssimarsi di altre tempeste europee che avrà definitivamente segnato il tramonto de “l’Âge d’or du comique” . Napoli – Positano, 1961 81
82 GODARD O DEI GELIDI FURORI Fin dalle primissime cose traspare, in Godard, la tendenza a provocare ad irritare, sollecitare reazioni estreme, disgusti o feticismi. Topo di cine-teca, si nutre di predilezioni bizzarre o farraginose: da Hitchcock a Rossellini, da Mankiewicz a Renoir a Jean Rouch. Per la recitazione si attiene a Brecht, alla estraneazione, al Verfrem-dungseffekt. Del cinema americano lo attraggono certi stilemi minori, certe scelte di tempo, di periodizzazione. Ogni emozione viene spinta in contumacia dal suo “esprit de geométrie” : da ciò lo stile “dépouillé” , impietoso, talvolta austero, costellato di scatti, di gelidi furori che pure tradiscono un’amarezza, un’indignazione di fondo, anche se non hai enunciata, esplicitata. Diderotiano, brechtiano, paradossale sente che per lui la realtà è l’infinità dei mondi, degli oggetti, degli eventi: cerca il semplice nei molteplice, perfino nel caos. Capofila dei “Cahiers” e dalla nouvelle vague: in lui il tirocinio della critica é un modo di compitare ad alta voce, in pubblico le sue esperienze, suoi gusti e le sue repulsioni, o una maniera di confrontarsi con altri modi di esprimersi o, forse, di ritrovarsi in essi. “Frequentare i cineclubs, il Trocadero era già pensare cinematograficamente più che pensare al cinema” . Dirà poi: “tutte le strade conducono a “Roma, città aperta” , ma il suo Rossellini é quello filtrato attraverso le sottili disanime di un Bazin, con-taminato con i film inchiesta, la sociologia di Morin e la tecnica TV. Altrove: “Faccio saggi in forma di romanzi e li filmo invece di scriverli” poiché per lui “c’è una grandissima continuità in tutti i modi di esprimersi” . L’io è sempre presente nelle sue cose, e si ripresenta con puntualità: ma l’invito allo spettatore è quello, di sdrammatizzare, a rendersi critico, a non farsi trasportare verso l’identificazione. Così ad esempio le didascalie brechtiane di “Vivre sa vie” anticipano il contenuto delle sequenze, in mo-do che il centro d’interessi non sia solo “il che cosa accadrà”. Dopo’inizi timidi e autarchici (Maupassant in dieci minuti, dei docu-mentarii, certe reminiscenze di Vico) Godard compie il gran salto verso una prosa personale, ellittica e scorrevole: “À bout de souffle” (1960): i temi sono quasi dei pretesti per mettere a sesto una musica ritmica del linguaggio
visivo: millimetrati i rapporti di attacco e di stacco, la fram-mentazione progressiva, la “serendipity” , cioè l’estrema ricerca formale nel casuale. 83
84 Eppure, talvolta, il casuale può degradarsi ad equivoco o giocare tiri mancini: in “All’ ultimo respiro” , Michel con i suoi atti gratuiti, Patricia, l’americanina dalla simpatica e frigida amoralità, la pervicace immobilità della vicenda alludono forse alla demisticazione di certi film noir tipo Pe-pé le Moko, ma le analogie di struttura servono solo a ribaltare le equazio-ni, non a contestarle: la filosofia dominante anche qui è quella del nulla: “Tra il dolore o il nulla, scelgo il nulla” dice Michel. Nonostante il nichilismo, l’alta doso di cinismo, Godard non cade mai nel convenzionaie o nonostante lo esaltazioni momentanee, non è un regista d’occasione. Sa depurare l’immagine di molte scorie, di molti pas-saggi inutili, sfugge al metodo o insegue un suo metodo fatto di veloci contrasti, di amare contraddizioni, di illuminanti improvvisazioni. Riesce a mettere in evidenza nuovi temperamenti: quello tipico, freddo e attualissimo di Karina, e il volto sghembo, sapido e sarcastico di Bel-mondo il montaggio sembra buttato lì senza convinzione ed invece è calcolato con passione, studiato con puntiglio: solo l’insorgenza di qualsiasi emozione
viene messa subito sotto scacco. Quando le passioni si insinua-no e pretendono il loro posto, Godard scarta le immagini ad esse relative e immette il dialogo, per timore che la mimica del volto tradisca il flusso irrazionale della coscienza. La sua metafisica antecartesiana (o ante “Passione de l’homme” ) è un nucleo che si dipana parallelo alle ricerche di linguaggio e di tecniche in-novatrici: arriflex, caméra-stylo, cinéverité sono tutti strumenti viene smontata la grammatica arcaica: Godard è capofila di nuovo, come sui Cahiers, primo davanti a Truffaut. Chabrol, Malle etc. Ma non sono poche in questa rivoluzione linguistica le smagliature, gli scompensi: si domanda un critico inglese: “E’ forse questo linguaggio uno stato confusionario altamente sofisticato o è l’inizio di un discorso sulle confusioni del mondo contemporaneo” ? Godard cerca di non confessarsi, evita di partecipare, di impegnarsi, di dichiararsi; diventa spesso un occhio dalla freddezza di una fotocellula, eppure dietro il cinismo de “Le Petit Soldat” si intravvedono certi squarci raggrumati di realtà. Bruno, il piccolo soldato, come Michel, come Lemmy (di Alphaville) sono uomini con un cervello che reagisce violentemente al condiziona-mento ambientale, in nome di una qualsiasi libertà a tutti i costi. Le interviste di Godard non aiutano ad identificare i suoi personaggi, dice di Nana (di “Vivre sa vie” ) è una che vende il corpo ma trattiene l’anima (parafrasi di Montaigne). A noi non sembra così, e in questa assenza 85 d’anima troviamo la contemporaneità folgorante della vicenda, il pregio del film: Nanà Kleinfrankheim non tiene l’anima per sè perchè abdica alla indivi dualità, finisce con diventare un oggetto, una persona che per troppa disponibilità si “mercifica” : la prostituzione è una delle estreme forme di alienazione del sentimento sociale di amore, di simpatia, di partecipazione. “Vivre sa vie” si svolge per lucidi capitoli, con didascalie che contrap-puntano quelle della Passione di Jeanne d’Arc (Dreyer), come in un con-troaltare profano: ma la fine di Nanà è la controprova della sua reificazione. Per farsi un anima od almeno una coscienza occorre stare in guardia, decidere minuto per minuto del proprio desti no, armarsi di qualche convinzione, non lasciarsi prendere dall’indifferenza, dalla noia, dalla re-sa al pessimismo (comodo rifugio per chi sceglie il minor sforzo, la passività, le carriere facili: cinema, vita, ecc; ) E bisogna saper pensare cioè parlare, anche se necessario sbagliare: sono le parole di Brice Parain, Porthos muore perchè non aveva mai pensato che si dovesse pensare, e gli capita questo pensiero nel momento meno opportuno. Come Porthos, finisce Nanà, e come lui anche Bruno Forestier che aveva creduto “a quel piccolo, duro oggetto, nero incorruttibile che è il mitra.” Un altro tema efficace affiora con chiarezza dalla filmografia di Godard ed è la sua ben misogenia: Michel, Bruno, Pierrot (nel Bandito delle 11) sono tutti traditi dalle loro compagne. Ma più in generale i personaggi di Godard vivono in un limbo non pre-cisato: la Parigi anonima di “Fino all’ultimo respiro” o “Vivre sa vie” e de “La femme mariée” , la Svizzera di “Le Petit Soldat” o la Provence di “Pierrot le fou” o la stessa Alphaville dì Ivan Johnson alias Lemmy Caution: luoghi inodori, asettici, privi di passato, di radici che non evocano ricordi; sambienti neutri adatti a scatenarvi i gelidi furori di allegorie estremizzate artificialmente. Luoghi dove trova ampia possibilità di sviluppo la lotta cupa tra illusione e realtà, tra esistenza vuota e norme di vita. Lotta che il registra mantiene nell’ambito di sottotoni, di understatement cosi che la violenza ovattata diventi più angosciosa proprio perchè non trova sfogo nei rumori, negli strepiti che ne giustificano la presenza. Ciò promana dal rigore, dalla lucidità del documento sociologico che spesso hanno la meglio sulla confusione ideologica: così “Vivre sa vie” è soprattutto un saggio di alta classe sulla donnaoggetto di consumo, sul la sua vita squallida anche se igienicamente impeccabile e bene integrata nelle infrastrutture del neocapitalismo. Nanà non è quella di Zolà, piena di umanità appassionata anche se deviata, è una macchina morbida, ser-vizievole, anzi un servomeccanismo dell’industria pseudosessuale di una 86
87 ben precisa comunità. Con il suo non opporsi o con l’opporsi quando è troppo tardi, essa è e si sente “corresponsabile” ; lo dichiara ad Yvette nel sesto episodio. Il finale è il risultato matematico di un teorema dalle pre-messe ferree, un determinismo tanto rigido da parere tragico. “Il bandito delle undici” ha, invece, uno svolgimento rocambolesco, a pannelli mobili, intercambiabili, a riquadri da fumetto. Riaffiora il gioco e con esso il cinismo, e il senso troppo ludico dell’intreccio. Sono le intermittenze della ragione: quando i furori dell’intelligenza non mordono sul vivo e sul reale. Viene meno la grinta e s’instaura un processo di inaridi-mento di regressione espressiva. “Alphaville” contiene in sè lo stesso mondo di “À bout de soufflé” o di “Il bandito delle 11” proiettato molto in avanti, diagrammato secondo linee narrative più geometriche: anche qui le emozioni sono eliminate o prosti-tuite (reificate); e il ritmo naturale è quello della transgressione, cioè la violenza in ogni sua guisa. Lemmy uccide con la stessa facilità di Michel e i suoi rapporti con Natascia sono gelidi, volitivi e impersonali come quelli di Michel con l’americanina.. Inconsapevoli e disponibili fino allo assurdo sono gli atteggiamenti di
“Une femme mariée” : forse un momento in cui Godard ritrova il significato della sensualità materna che lenisce gli affanni virili o si obbiettivizza in una meccanica dal giuoco soddisfatto di se stesso. In genere, i personaggi di Godard sono figure che nuotano in un enorme aquario grigiastro sottomesse a percorsi strani pur ben formulati nelle loro tappe, eppure preda, di speranze congelate noi cuori: da ciò quell’il-luminazione solemne alla Dreyer (in “Vivre sa vie” come in “Alphaville” ), da ciò però anche quelle sequenze in negativo che avvertono che si tratta di una “pièce” e non della vita. L’icone di Godard è un istituto connotativi assai personale e perciò non facile per, spettatori pigri; in cerca di evasioni; la sua è una ricerca di nuove norme linguistiche in strutture troppe vincolate da paure e da ricalchi; da ciò certi scoppi improvvisi certe variazioni brusche promananti da una energia cerebrale che tiene soggiogato il cuore e che si transvaluta in occhio onnivoro nei confronti della realtà multiforme. Anche l’orecchio di Godard, il suo ipersensibile microfono lavora senza tregua, perché il regista crede all’integrazione audiovisiva e le parole cosi come sono espresse dai primi piani o nei campi lunghi sono dei segni non meno significanti e pregnanti delle immagini. Bruno, Nanà, Charlotte, Pierrot parlano, parlano per scavarsi dentro una ragion d’essere per superare circostanze rischiose o avventure incredibili. 88
C’è nei loro discorsi l’eco dell’ambiguità ideologica del loro autore ed essa promana dal manicheismo tra ragione-bene ed emozione-male, tra logica chiara e passione agitata e torbida. Il sottile legame sovrastrutturale tra questi due poli della vita gli sfugge, ma in quanto artista non gli si può dar torto: isolare un lato negativo, por-tarlo alla temperatura della fiamma bianca é un procedimento lecito in arte anche se condannabile in filosofia. Perciò nelle cose di Godard si finisce col ritrovare una coerenza d’alto grado: il giuoco cioé, è serio, condotto con scrupolo, con accanimento e fortissimo impegno della personalità. Ne viene fuori comunque, un’allegoria rapida, serrata, ansiosa del mondo in crisi. Napoli – Giovane Cinema, 1965 89
90 CINEMA E LETTERATURE IN RENOIR La revisione critica che il Circolo Napoletano del Cinema ha operato nei riguardi, delle tendenze, dei significati, nella cultura presenti nell’opera di Jean Renoir, si è rivelata non soltanto opportuna ma proficua. La duplice e opposta idea che ci si può fare a proposito di due film di co-sì disparato e quasi contrastante valore, quali “Les Bas-fonds” e “Une partie de campagne” ha confermato la inquadratura del problema proposta dal Pandolfi nel suo “Il cinema nella storia” : “Jean Renoir non si è mai indirizzato verso propositi superiori alle sue chances. Ha tenuto presente i limiti della situazione e non ha coltivato illusioni dentro di sè. Lo ha sempre sorretto una sagace ironia, un senso vigile e obbiettivo della realtà e del mondo in cui gli avviene di vivere… La stessa personalità di Renoir non è di per sè tale da imporsi attraverso un contenuto preciso. Riflette le tendenze della propria epoca, un certo colore iella narrativa francese, populista e pacifista, al seguito di Zola e di Rolland.” L’eclettismo di Renoir è evidente; più evidenti ancora, sono, in certe sue cose ( “Les Bas-fonds”, ripetiamo) i suoi squilibri e le gravi incoerenze di stile. Ricordiamo altri film ugualmente validi: “Une partie de campagne”
e “La Bête humaine” . Nell’incontro che egli fa di Maupassant, una radice vera della anima parigina e francese, il regista riesce a filtrare senza snervarlo il naturalismo grottesco dello scrittore e ad intriderlo, a volte, di una struggente poesia da idillio, attraverso i sensuosi e sottili modi figurativi dell’impressionismo, derivati quasi da una consuetudine familiare con una simile tecnica pittorica. Ciò viene ad attestare che è possibile e forse auspicabile (e ritorniamo ai nomi di un Bresson, dì un Visconti) un cinema letterario, in cui cinema e letteratura non siano una miscellazione arbitraria, una sovraimpressione gratuita o di comodo, ma in cui tutti e due abbiano da guadagnare e non da perdere. Del resto l’influenza della letteratura sul cinema è stata sempre di un certo rilievo seppur non sempre le incarnazioni felici: basti pensare che la sta-gione più autentica del cinema muto italiano si rivelò proprio da quel connubio come testimoniano “Assunta Spina” , “Sperduti nel buio” , “Cenere” etc. L’incarnazione felice è però soprattutto quella in cui l’attingere un soggetto, un tema alla letteratura non sia un ripiego, ma un recupero vivo delle proprie letture, della propria tradizione narrativa dei propri valori umani. 91
92 La fedeltà, o almeno il rispetto verso il testo esiste solo in quanto esista non tanto la pedissequa trascrizione ma la consentaneità allo spirito, al significato dell’autore che il regista ha scelto. Perciò un Gorkij, quello dei “Bassi-fondi” così lontano dal gusto e dalla formazione di Renoir gli ha giuocato, sul piano di una incongrua e a tratti addirittura risibile trasposi-zione, un tiro mancino. Ma poi Maupassant, e meglio ancora Zola, che già in “Nana” aveva rappresentato un più sicuro punto d’approdo. E se è vero, come a noi sembra vero, quanto afferma Hauser a proposito di una correlazione storica tra impressionismo e naturalismo, ci vien fatto allora di pensare che il naturalismo de “La Bête humaine” , in cui i termini della ideologia zoliana sono liberamente interpretati dal regista, sia un naturalismo peculiare che rompe, cioè, gli argini di uno schema e di un rigido programma positivistico. Del resto, Zola stesso “non era sfuggito - sono parole di Hauser - “al destino del suo secolo: il metodo era sperimentale, calcolatore ma il suo genio soffriva o gioiva di romanticismo, di arditezze e di sentimento ancora tumultuante.” Quello che spesso Zola riteneva esperimento era, in sostanza, osserva-zione della molteplicità della vita di certe classi sociali, di certi ambienti in cui al posto dei singoli fenomeni concreti erano calate sulla pagina delle vigorose e spesso sanguigne allegorie. Così l’ambiente ferroviario, “le vaporiere” di Renoir si transvalutano sullo schermo e nel ritmo impressionistico proprio del cinema, in simboli. Così il ritratto di Sévérine è quello di una delle sue tante “chiennes” impa-state d’ipocrisia, di sensualità, di calcolo. Emblematica è a questo proposito la presentazione iniziale del personaggio mentre accarezza il gatto di cui condivide la natura accidiosa e sornio-na. E’ da dire che la scelta di una Simon si rivela, già al suo primo apparire, la risoluzione compiuta di un problema espressivo per la sua aria di falsa ingenua, di fanciullesca commediante, di bambola spuria e viziata. Ma i simboli predominanti restano il treno: ancora esemplare si ritrova la sequenza d’apertura, la corsa Parigi-Le Havre vista dalla locomotiva e sulla locomotiva: brano, a suo tempo, magistralmente analizzato dal Chiarini. “La Bête humaine” è quindi frutto di esperienza più mature; viene, del resto, dopo “La Grande Illusion” e poco prima de “La Règle du jeu” . E’ il momento in cui Renoir dichiarava: “Quel che so è che ora comincio a ca-pire come devo lavorare. So che sono francese e che devo lavorare in senso assolutamente nazionale. So che così, anzi, posso comunicare con 93
94 la gente d’altre nazioni e fare opera d’internazionalismo concreto… ” La prova, seppure a contrario, della validità di questi orientamenti saranno proprio gli sbandamenti in senso extranazionale che Renoir subirà nel periodo americano e postamericano e che lo condanneranno ad una crisi che oggi, ancora, pur fra divertissements e pastiches d’alto livello, sembra insanabile. In “La Bête humaine” , invece, la vena zoliana è rifusa ma non dispersa nella narrazione per immagini e mantiene o intensifica addirittura certa complessità, anche se non sempre si sottrae a lacune o soprassalti formali. Essa serve a rendere nel pessimismo, nella ineluttabilità di certe tare fisi-che e morali, un clima di premonizioni: è una radioscopia di gravi inquietu-dini, di coscienze negative per una lunga sedimentazione di compromessi. La forza di Renoir sta proprio nell’attenuazione di certi schematismi, di certi determinismi zoliani e nell’aver saputo immettere, al loro posto, un’atmosfera genuina di dramma vissuto sullo sfondo di un ceto operaio quale quello dei ferrovieri francesi,e nel clima che era il clima dell’anteguerra. Jacques Lantier è “una vittima della vigliaccheria della vita” , come di-ce Sadoul, ma è anche il simbolo estremo di un compiacimento nel male allorché lo si teme senza il coraggio di disfarsene. Ed è in chiave con quest’ultima annotazione ricordare come Jean Gabin raffiguri ancora una volta, dopo Pepé le Mokò e quasi contemporaneamente al disertore di “Quai des brumes” questa sorta di disperazione accettata, quasi senza discutere, senza porsi altri e più virili interrogativi. Le svolte esteriori del destino qui premono dal di fuori in tutte le direzioni e in profondità, come sarà per la storia della Francia di lì a poco: e sono percio,per Renoir, anticipazioni individuali di crisi più intense e più estese. Nè può venir fatto di dimenticare,visionando la opera di Zola-Renoir che proprio in quel tempo lavorava col regista francese, Luchino Visconti.: sono molti gli spunti di ambientazione (la gara del
bel canto, la torrida sensualità che invischia i sentimenti) che sarebbero stati trapiantati in “Ossessione” , ma con una scorza tutta italiana e con un innesto di circo-stanziata polemica civile. Per quanto riguarda la critica, va detto che uomini come Barbaro e Pasinetti compresero immediatamente la positività di una tale opera: il primo scriveva del “prodigio di quel mondo di treni che si colora degli stati d’animo dei tremendi protagonisti, di cui parla ad ogni momento e con cui urla di disperazione perfino nel paesaggio, terso e segnato dal riflesso d’acciaio delle rotaie: come un’atrocità che è dentro il cuore e non ci si può gettare alle spalle nella corsa… “. 95 E Pasinetti: “Il regista mantiene sempre un distacco dagli episodi che narra; gli attori usano di una recitazione sobria, misurata quasi che avesse voluto esporre cronisticamente, senza proporre osservazioni particolari ma con tecnica esatta una vicenda che tragicamente si conclude.” (“Cinema” sett.39) Ma non meno istruttive sono le sdegnate recensioni di due “critici” litto-rii: “La bestia umana” … ci ha fatto assistere a due omicidii e a un suicidio; ve n’è quanto basta per deplorare che tanto ingegno e tanta fatica siano spesi per far vivere sullo schermo lo scatenarsi dei più bassi istinti umani. Due assassinii ed un suicidio non apportano certamente nè una lezione di morale nè un insegnamento a vivere secondo le leggi che rego-lano il consorzio umano.” (G.Avon Caffi ne “Il regime fascista” 28 agosto 1939). “Un film francese che per il gusto dell’orrido e del terribile supera ogni altro film del genere… E’ chiaro che ci troviamo nel campo della patolo-gia e che la intelligenza dei realizzatori si china sull’orlo della follia e della degene razione, dimostrando la propria incapacità a sollevarsi a visioni più ideali…” . (G.Paolucci ne “Il giornale di Genova” del 29 agosto 1939) Anche per queste riesumazioni di una mentalità,del resto ancora attuale, le retrospettive possano contare molti punti al loro attivo perché “fare vera storia è fare sempre storia del presente”. Napoli-Sorrento, 1964 96 UN SORRISO RISCHIOSO La proiezione a Napoli de “Il sorriso verticale” di R.Lapoujade (in ante-prima al Circolo del Cinema e poi al “NO”), può servire a riflettere in modo più approfondito su quel movimento che ha fermentato nell’ultimo decennio, tra Usa ed Europa, e che è stato etichettato della “neoavanguardia” . Appare ora chiaro che ciò che lo ha caratterizzato è stato soprattutto l’intento sperimentale, la ricerca di nuove vie linguistiche, il rifiuto del compromesso commerciale. Tra i rischi più evidenti e più in emersione, quello di riproporre l’arte come sogno; questo porta a dimenticare che il regista ha e deve avere un’intenzione di comunicare e quindi una volontà di organizzare il suo discorso in modo da renderlo recepibile. Nel momento onirico manca invece ogni coerenza e lucidità ed è stato ben detto che, durante il sogno, noi “veniamo sognati” siamo cioè soggetti passivi di flussi inconsci o di residui diurni. Nè basta, come in Lapoujade, il richiamo a precedenti illustri come “il teatro della crudeltà” , per giustificare inquadrature stravolte e deliranti: perso il controllo, la fantasia sconfina nel cinismo estetico e il repertorio sadico de “Il sorriso verticale” è molto istruttivo al riguardo. I brandelli dell’esistenza di J. Relde, storico e deputato, in stato di coma dopo un incidente sono troppo dissociati anche sul piano narrativo, cioè scomposti e colorati oltre ogni misura. In più, si intrecciano con i quadri viventi di un suo saggio su Giovanna d’Arco (tanto per cambiar solfa!) e coi ricordi intermittenti di una vicenda coniugale vista da una prospettiva egotica (se non paranoica). Questi ritornelli di flashback non trovano giustificazioni e così molti frammenti sono corpi estranei al film, citazioni in relazione anomala al contesto. Lo spezzettamento delle parti del discorso è il prodotto probabile dell’incapacità di raccogliere in un tutto le molecole visuali, i barlumi di un mondo che sfugge all’autore (si pensi invece al senso di globalità in Joyce o alla scorrevolezza sintetica di un Bunuel). C’è, insomma più caos che simbolo, più gusto per l’atrocità sessuale (del restò molto alla moda) che punto di vista innovatore: quelle allucinazioni al chiaro di sole su spiagge apocalittiche e tra
baccanti fallovore sembrano tolte di peso dai bisunti manuali alla Krafft-Ebing. Allora è facile sospet-tare una volontà di colpire basso, di sbalordire lo spettatore. La neoavanguardia, nelle sue proposte più valide, aveva escluso questi 97 facili fuochi d’artificio, queste sorprese contenutistiche che mirano a sensazioni aristocratiche; aveva eliminato proprio certi canoni troppo calcifi-cati, e certi status quo della narrazione filmica; aveva contribuito, come dimostrammo in saggi d’altra dimensione, ad aprire nuovi varchi in terre-ni realmente inesplorati, come capita sempre a chi corre in buona fede l’avventura della poesia. E solo su questo itinerario può ancora essere un lievito non inutile per la produzione “normale” una forza di propulsione e trasformazione a servizio di quei registi che vogliono dire qualcosa d’interessante. Nel “Sorriso verticale” i rischi della creatività sono saliti, invece, ad una temperatura così alta che sono finiti nel cratere dell’autodistruzione, in quel magma che riduce tutto allo stesso stato. L’intellettuale, da interlo-cutore scomodo qual è, deve registrare tale disorientamento, tale confusione e dispersione e annotare con vigore che non sempre è stato marcato il confine tra originalità e stravaganza, pur ribadendo per i Lapoujade il pieno diritto ad esprimersi così. Il pluralismo culturale deve accettare proprio questo principio, ma non può garantirne il successo: è questa correlazione apparentemente con-traddittoria che forse viene a chiarire qual è il nucleo vitale della convi-venza democratica anche sul terreno estetico. Napoli – La voce della Campania, 27 Febbraio 1977 98
CINEMA E STAMPA In un’acuta indagine due autori francesi, Renè Jeanne e Charles Ford, esaminano i rapporti intercorrenti tra le due attività
La collana “Acropoli” delle Edizioni Scientifiche Italiane presenta, in questi giorni, il suo sesto volume “Cinema e stampa” , dedicato ai rapporti intercorrenti fra le due attività. Il libro, di veste elegante - copertina originale di G. Thermes - viene ad allargare la sfera di interessi della collana. attenuando l’ipoteca storico-economica e ribadendo importanza sociologica (e non strettamente sociologica) che assume il cinema, ormai oltre la soglia della sua età adulta. L’indagine di due autori, René Jeanne e Charles Ford, già redattori della Radiodiffusione francese e apprezzati saggisti di cinema, “accentra l’attenzione sulla rassegna storica dei giudizi, degli stati d’animo, delle emozioni delle condanne e degli assensi suscitati dalla prodigiosa invenzione” , come nota nella sua limpi-da prefazione Antonio Palermo, curatore di questa edizione italiana. La disamina viene articolata sull’arco di tempo che va dal dicembre 1895 (Lumière) fino ad oggi e, per onestà intellettuale e rigore di informazione, è circoscritta alle vicende del cinema e della stampa in Francia. Ma, secondo noi, sia per frequenti analogie che per paralleli cronologici, serve ad illuminare le vicende (o vicissitudini) del cinema in altri Paesi, primo fra tutti l’Italia. La sfiducia degli intellettuali, il loro lento arruolamento in quella “legio-ne straniera delle arti” , la disputa sul “piacere da iloti” , la lotta insomma per una cultura cinematografica e per una sua dignità sono, in panorami-che efficaci e in primi piani opportuni, le sequenze che formano il libro. Solo nel 1918 compare, sui quotidiani francesi, la prima recensione che si confonde ancora con un soffietto; qualche anno dopo un Delluc o un 99 Moussinac (o lo stesso Canudo, “le petit barésien” ) sottrarranno il mestiere della recensione alla routine avvilente o, perfino, al sospetto di inser-zione manovrata dalla produzione. Verranno fuori allora, contraddizioni, polemiche o, nel caso di Moussinac, veri e propri procedimenti penali che finiranno però col sancire in ultima istanza il diritto del critico alla libertà di giudizio. Il pretesto della querela era che recensioni ripetutamente sfa-vorevoli ledevano l’interesse economico di un manufatto commerciale e di una ditta regolarmente costituita. Non mancava il rovescio della medaglia: l’abborracciamento di “critiche”, l’improvvisazione di una “cultura filmica” , specifica o meno, per cui il so-ciologo Lucien Wahl fin dal ’25 si trova a dover raccomandare che “per fa-re della critica cinematografica, bisogna aver studiato un pò il cinema” . “Parecchi cronisti - dice il Wahl - malgrado resistenza di cineteche e di cine-club, quando si occupano di un film, si comportano come se igno-rassero che prima del sonoro c’è stato il muto, etc. etc…” . Crepitava insomma la rivolta contro la critica digestiva, apologetica, consolatoria; era un modo per annettere nuovi valori alla zona neutra o ambigua del bianco e nero, per distinguere tra informazione e giudizio. I rapporti stampa-cinema si organizzano poco a poco: fa impressione la prima spedizione giornalistica alla Baia di Paimpol, mentre De Baroncelli gira “Pescatori d’Islanda” (da Loti).
Molte rubriche restano comunque repertori e palestre di pettegolezzi, malignità, insinuazioni; spesso la loro funzione mascherata è quella della pubblicità indiretta. A sua volta il cinema, fin dall’esordio, è a servizio della propaganda commerciale: nel 1898 si ha la pubblicità luminosa per mezzo di “shorts” e Méliés vanta la mostarda “Bornibus” e la farina “Nestlé” . Nell’altro settore, quasi per compensazione, si crea un clima di snobismo culturale; critici come Vuillermoz, George, R.Clair danno il loro appoggio alle opere sperimentali di Epstein, di l’Herbier, di Gance. Ma ancora nel ’58, ad un’inchiesta motivazionale sulla scelta dello spettacolo, solo 11% ammetterà di recarsi a cinema, stimolato da una recensione favorevole. Un largo capitolo viene poi dedicato dagli autori alla censura: “Perchè chi insozza i cervelli non è punito come chi avvelena i corpi?” : la querelle nasce sulla stampa con l’avvento stesso del cinema (i due minuti delle “Lutteuses” , suggestivamente seminude) e persiste testarda pur variando-ne le causali, le indignazioni e la stessa fisionomia degli scandali. “La grande parata” viene messa sotto accusa per non aver reso alla Francia la parte dovutale nella vittoria del 18, il sesso dà fastidio, l’erotismo pruriti. Ciononostante gli uffici stampa lanciano i festival proprio all’insegna delle 100 scene scabrose, degli scandaletti rimediati alla buona; e intanto riviste co-me “L’Illustration” traggono racconti per il grosso pubblico da sceneggia-ture originali, surriscaldate e condite con una prosa greve e ruffiana. E fin dall’inizio è nata una nuova stampa, la stampa filmata: reportages, notiziari, film di montaggio e perfino attualità posticce (specialisti di soli-to Méliès e F.Zecca, immortalatosi per la fatidica frase: “Sto rifacendo Shakespeare, a quante belle cose è passato accanto quell’animale!” ). In complesso la stampa coesiste facilmente col cinema, al contrario della TV, sua sleale concorrente, per cui concludono gli autori: “Sia che l’informazione conservi le sue attuali strutture, sia che si evolva verso forme oggi difficilmente prevedibili, certo è che essa ha subito a causa del cinema una rivoluzione che neanche E.De Girardin, maestro dell’informazione nel sec. XIX e che si vantava di escogitare un’idea al giorno, avrebbe saputo neppure immaginare” . Napoli, Il Mattino, 29 maggio 1964 101 INDICE DEI NOMI * Illustrazioni APOLLINAIRE Guillaume, 36 CHIARINI Luigi, 93 ARTAUD Antonin, 34 CHRISTIE Agatha, 63 ASTRUC Alexandre, 46 CLAIR René, 13, 14, *17, 18, 21, 22, AUBRY Cécile,*64, 66 24, 26, 33, 38, 56, 79, 81, 100 AURENCHE Jean, 38 CLÉMENT René, 74 AURIC Georges, 72 CLOUZOT Henri-Georges, *60, 61, AUTANT-LARA Claude, *37, 38, 41, 63, 65, 66, 68, 70, 72, 74, 75 42, 74
CLOUZOT Inès, 74 AVON CAFFI Giuseppe, 96 CLOUZOT Vera GIBSON AMADO, 68, 70, *71, 74 BALZAC Honoré de, 61 COLETTE Sidonie-Gabrielle, 41 BARBARO Umberto, 95 CRAIG Gordon, 79 BARDOT Brigitte, 42, *71, 72 BARONCELLI Jacques de, 18, 100 DALI Salvador, 18 BAZIN André, 13, 70, 83 DECOIN Henri, 61 BECKER Jacques, *49, 50, 52, 54 DEED André, 13, 77 BEETHOVEN Ludwig van, 74 DELAIR Suzy, 63, 65 BELMONDO Jean-Paul, *84, 85 DELLUC Louis, 18, 33, 70, 99 BERLIOZ Hector, 74 DEMY Jacques, 52 BERNANOS Georges, 28 DIDEROT Denis, 28, 61 BLIER Bernard, 65 DREVILLE Jean, 66 BRESSON Robert, *27, 28, 31, 91 DREYER Carl Theodor, 28, 86, 88 BRETON André, 34 DULLIN Charles, 65 BUÑUEL Luis, 18, 97 DUPONT Ewald André, 61 DURAS Marguerite, 46 CANUDO Ricciotto, 99 DUVIVIER Julien, 61 CARAVAGGIO Michelangelo MERISI da, 74 EHRLICH Evelyn, 65 CARCO Francis, 26 EPSTEIN Jean, 100 CARNÉ Marcel, 26, 33, 50, 61 ERNST Max, 18 CAYATTE André, 66
CHABROL Claude, 85 FAENZA Roberto, 11 CHAPLIN Charlie, 13, 14, 16, 81 FEYDEAU Georges, 26 CHARENSOL Georges, 72 FEYDER Jacques, 33, 50 CHAVANCE Louis, 34 FLOREY Robert, 22 CHEVALIER Maurice, *23, 24 FOFI Goffredo, 56 102 FORD Charles, 99 LEFEBVRE Robert, 54 FRESNAY Pierre, *62, 63 LÉGER Fernand, 18 L’HERBIER Marcel, 18, 38, 61 GABIN Jean, *40, 42, 72, *92, *94, LINDER Max (Gabriel LEUVIELLE), 95 13, 77, 79 GALLONE Carmine, 61 LITVAK Anatole, 61 GANCE Abel, 33, 100 LOTI Pierre, 100 GEORGE Waldemar, 100 LULLI Folco, 68 GIRARDIN Émile de, 101 LUMIÈRE Louis, 24, 77, 99 GODARD Jean-Luc, *82, 83, 85, 86, MAC ORLAN Pierre, 26, 50 88, 89 MALLE Louis, 52, 85 GOR’KIJ Maksim, 93 MAMOULIAN Rouben, 22 GREENE Graham, 68 MAN RAY Emmanuel RADNITZKY, GRÉMILLON Jean, 33 18 MANKIEWICZ Joseph L., 83 HAUSER Fernand, 93 MARKER Chris, 44 HITCHCOCK Alfred, 59, 65, 75, 83
MAUPASSANT Guy de, 83, 91, 93 MÉLIÈS Georges, 24,*76, 77, 100, JAFFE Sam, 72 101 JEANNE René, 28, 56, 86, 99 MÉRIJEAU Pascal, 61, 63, 74 JEANSON Henri, 61 MEURISSE Paul, 70 JOUVET Louis, 63, *64, 65, 66, *67, MITRY Jean, 65 68, *69, *92 MOLIÈRE Jean-Baptiste POQUELIN dit, 24 KAFKA Franz, 72 MONTAIGNE Michel Eyquem de, KARAJAN Herbert von, *73, 74 14, 61, 85 KARINA Anna, *84, 85 MONTAND Yves, 68, *69 KAST Pierre, 68 MOREAU Jeanne, *52, 56 KRACAUER Siegfried, 34 MORIN Edgar, 83 KRAFFT-EBING Richard von, 97 MOUSSINAC Léon, 99, 100 MOZART Wolfgang Amadeus, 74 L’HERBIER Marcel, 100 LA CAVA Gregory, 22 PANDOLFI Vito, 91 LABICHE Eugène, 81 PAOLUCCI Giovanni, 96 LAMPIN Georges, 66 PARAIN Brice, 86 LANGDON Harry, 13 PASINETTI Francesco, 9, 95, 96 LAPOUJADE Robert, 97, 98 PERRAULT Charles, 77 LARQUEY Pierre, *62, 63, 65, 70 PHILIPE Gérard, *25, 38, *39, 41, LEDERC Ginette, 63 42 103
PICASSO Pablo, 44 STROHEIM Erich von, 74 PIERI Françoise, 61 SYLVIE, Louise Pauline PRÉDAL René, 65 MAINGUENÉ, 38, 63 PRESLE Micheline, 38, *39 PRÉVERT Jacques et Pierre, 34 TASSONE Aldo, 61, 72 PRÉVOST Antoine François TATI Jacques TATISCHEFF, *12, 13, PRÉVOST d’EXILES abbé, 66 14, 16 PROUST Marcel, 46, 61 TERZIEFF Laurent, 74 THERMES Giovanni, 99 QUARANTOTTI GAMBINI Pier TOTÒ Antonio DE CURTIS, 13 Antonio, 42 TRUFFAUT François, 22, 52, *55, 56, 59, 85 REGGIANI Serge, *51, 54, 66 USTINOV Peter, 72, *73 RENOIR Jean, 38, 50, 81, 83,*90, VAN EYCK Peter, 68 91, 93, 95 VAN PARYS Georges, 54 RESNAIS Alain, *43, 44, 46, 48 VANEL Charles, 68, 70 ROBBE GRILLET Alain, 46, 48 VEDRÈS Nicole, 44 ROLLAND Romain, 91 VERDI Giuseppe, 74 ROSSELLINI Roberto, 10, 83 VERNE Jules, 77 ROUCH Jean, 83 VÉRY Pierre, 50 SADE Donatien Alphonse François VIAZZI Glauco, 21, 75 marquis de, 74 VICO Giambattista, 83 SADOUL Georges, 38, 52, 65, 95
VIGO Eugène, 33 SCHUMANN Robert, 74 VIGO Jean, *32, 33, 34, 36, 44 SEMON Larry, 13 VILLON François, 74 SENNETT SENNETT Mack (Michael VISCONTI Luchino, 91, 95 SINNOTT), 13, 79 VUILLERMOZ Émile, 100 SERRA Maurizio, 48 SHAKESPEARE William, 101 WAHL Lucien, 100 SICLIER Jacques, 65 SIGNORET Simone, *51, *53, 54, 70, ZECCA Ferdinand, 101 *71 ZOLA Émile, 86, 91, 93, 95 SIMENON Georges, 42, 50, 63, 65 SIMON Michel, *25, 34, *35, SIMON Simone, 93 STEEMAN Stanislas-André, 65 STENDHAL Henri BEYLE, 41 STRADELLA Antonio Alessandro BONCOMPAGNO, 74 104 INDICE DEI FILM * Illustrazioni À bout de souffle (1960), 83, *84, 88 À la conquête du Pôle (1912), 77, *78 À nous la liberté (1931), 21,*23, 81 À propos de Nice (1930), 33 Adele H. (L’Histoire d’Adèle H. - 1975), 59 Ali Babà (Ali Baba et les Quarante voleurs - 1954), 54 Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (1965), 85, *87, 88 Anche le statue muoiono (Les Statues meurent aussi -1953), 44 Antoine e Colette (1962), 56 Antoine et Antoinette (1947), *51, 52 Arsenio Lupin (Les Aventures d’Arsène Lupin - 1957), 54 Assunta Spina (1915), 91 Aux frontières de l’homme (1953), 44 Baci perduti (Baisers volés - 1968), 56 Bandito delle 11 (Pierrot le Fou - 1965), 86
Break the news (1938), 22 Casque d’or (1952), *51, 52, *53, 54 Cenere (1916), 91 Ciboulette (1933), 38 Construire un feu (1928), 38 Dernier atout (1942), 50 Domicilio coniugale (Domicile conjugal - 1970), 56 Douce (1943), 38 Edouard et Caroline (1951), 52 Effetto notte (La Nuit américaine - 1973), *58, 59 En cas de malheur (1958), 42 Entr’acte (1924), 18 Fahrenheit 451 (1966), *58, 59 Faits divers (1923), 38 Falbalas (1945), 52 Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle - 1960), 85, 86 105 Gauguin (1950), 44 Giorno di Festa (Jour de fête - 1949), 16 Giungla d’asfalto ((The Asphalt Jungle - 1950), 72 Gli anni in tasca (L’Argent de poche - 1975), 59 Goupi Mains rouges (1943), 50 Grisbì (Touchez pas au grisbi - 1954), 54 Guernica (1950), 44 Hiroshima, mon amour (1959), *45, 46, 48 I 400 colpi (Les Quatre Cents Coups - 1959), 56, *57 I married a witch (1942), 22 II corvo (Le Corbeau - 1943), *62, 63 Il bandito delle 11 (Pierrot le Fou - 1965), 88 Il giocatore (Le Joueur - 1958), 42 Il Processo di Giovanna d’Arco (Procès de Jeanne d’Arc - 1962), 28, *29 Il ragazzo selvaggio (L’Enfant sauvage - 1969), 56 Il silenzio è d’oro (Le silence est d’or - 1947), *23, 24 Il sorriso verticale (Le Sourire vertical - 1973), 97, 98 It happened to-morrow (1944), 22 Jour de fête (1949), *15, 16 Journal d’un curé de campagne (1951), 28, *30 Jules e Jim (Jules et Jim - 1962), 56,*57 L’Âge d’or (1930), 18 L’air pur (1939), 22 L’anno scorso a Marienbad (L’Année dernière à Marienbad- 1961), 46, *47
L’Arroseur arrosé (1895), 77, *78 L’assassino abita al 21 (L’assassin habite au 21 - 1942), *62, 63 L’Atalante, ou le chaland qui passe (1934), 34, *35, 36 L’Empire di Neptune (Le Royaume des fées - 1903), 77 L’Or du Cristobal (1940), 50 La Beauté du diable (1950), 24, *25 La bestia umana (La Bête humaine - 1938), 96 La Bête humaine (1938), 91, 93, *94, 95 La Giumenta verde (La Jument verte - 1959), 42 La Grande Illusion (1937), 81, 93 106 La grande parata (1925), 100 La passion de Jeanne d’Arc (1928), 28 La Prisonnière (1968), 74 La Proie du vent (1927), 18 La Règle du jeu (1939), 93 La sposa in nero (La Mariée était en noir - 1968), 59 La tenda Rossa (Le Rideau cramoisi - 1952 ), 46 La traversata di Parigi (La Traversée de Paris - 1956), *40, 41 La verità (La Vérité - 1960), *71, 72, 75 L’Enfer (1964), 74 Le Blé en herbe (1954), *39, 41 Le Bois des amants (1960), 42 Le Bon Dieu sans confession (1953), 41 Le Chant du styrène (1958), 46 Le commissaire est bon enfant (1935), 50 Le Dernier Milliardaire (1934), 22 Le Diable au corps (1947), 38, *39, 42 Le Fantôme du Moulin-Rouge (1925), 18 Le Mariage de Chiffon (1941), 38 Le Million (1931), *20, 21, 81 Le Mystère Picasso (1956), 70 Le Petit Soldat (1960), *84, 85, 86 Le Quai des brumes (1938), 95 Le regate di S.Francisco (Les Régates de San Francisco - 1960), 42 Le Retour de Jean (1949), 66, *67 Le Rouge et le Noir (1954), *40, 41 Le salaire de la peur (Vite vendute - 1952), 68, *69 Le silence est d’or (1947), *23, 24, 81 Le Trou (1960), *53, 54 Le voyage dans la Lune (1902), 77 Le Voyage imaginaire (1926), 18
Les Anges du péché (1943), 28 Les Bas-fonds (1936), 91, *92 Les Belles de nuit (1952), 24 Les Dames du Bois de Boulogne (1945), 28, *29 Les Diaboliques (1955), 70, *71 Les Espions (1957), 72, *73 Les Grandes Manoeuvres (1955), 24, *25 Les Inconnus dans la maison (1942), 63 107 Les Vacances de monsieur Hulot (1953), 14, *15, 16 Lettres d’amour (1942), 38 Lutteuses (1897), 100 Manon (1949), *64, 65, 66 Marguerite de la nuit (1955), 41 Mio zio (Mon oncle - 1958), 16 Miquette et sa mère (Un marito per mia madre- 1949), 68 Mon oncle (1958), 14 Muriel (1963), 48 Nana (1926), 38, 93 Non uccidere (Tu ne tueras point - 1961), 42 Notte e Nebbia (Nuit et brouillard - 1956), *45, 46 Ossessione (1943), 95 Paris 1900 (1946), 44 Paris qui dort (1925), 18, 79, *80 Passione di Jeanne d’Arc (1928), 86 Pescatori d’Islanda (Pêcheur d’Islande - 1924), 100 Pickpocket (1959), 28 Pierrot le fou (1965), 86 Porte des lilas (1957), 26 Quai des orfèvres (1947), *64, 65 Quatorze JuiIlet (1933), *20, 21 Rendez-vous de Juillet (1949), 52 Roma, città aperta (1945), 83 Rue de l’Estrapade (1953), 54 Sorriso verticale (Le Sourire vertical - 1973), 98 Sous les toits de Paris (1930), *19, 21 Sperduti nel buio (1914), 91 Sylvie et le Fantôme (1946), 38 Taris, roi de l’eau (1931), 33 The Ghost goes west (1935), 22 108 Tire-au-flanc (1928), 81
Toute la mémoire du monde (1956), 44 Un cappello di paglia di Firenze (Un chapeau de paille d’Italie -1928), 18 Un chapeau de paille d’Italie (1928), *19, 81 Un chien andalou (1929), 18 Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé 1956), 28, *30 Une femme mariée (1964), 86, 88 Une partie de campagne (1936), 91, *92 Van Gogh (1947), 44 Vivre sa vie (1962), 83, 85, 86, *87, 88 Zéro de conduite (1933), 33, 34, *35 109
Document Outline IN MEMORIAM Dello stesso autore BIOGRAFIA “A GUISA DI PREFAZIONE…” TATI o dell’umorismo lirico BILANCIO DI RENE CLAIR BRESSON: un regista senza ornamenti JEAN VIGO: Cinema-verità e poesia CLAUDE AUTANT-LARA: o della “vecchia ondata” ALAIN RESNAIS: simbolo e documento JACQUES BECKER o del realismo poetico TRUFFAUT IN TV UN DOVEROSO OMAGGIO A H-G.CLOUZOT L’AGE D’OR DU COMIQUE GODARD o dei gelidi furori CINEMA E LETTERATURA IN RENOIR UN SORRISO RISCHIOSO CINEMA E STAMPA Indice dei nomi Indice dei film