191 21 5MB
Italian Pages 294 [289] Year 2009
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Cinema e storia 15 Collana diretta da Pasquale Iaccio
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Rock around the screen Storie di cinema e musica pop
a cura di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito
con due interviste inedite a Julien Temple e Carlo Verdone
Liguori Editore
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INDICE
1 suoni nel buio: un’introduzione di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito
Prima parte Storia e storie 7 Teen-rock movies: la rivoluzione di Elvis e del rock ‘n’ roll di Diego Del Pozzo 49 Dalla Terra alla Luna. Cinema, musica e controcultura: i documentari sui megaraduni pop, da Monterey all’isola di Wight di Vincenzo Esposito
Seconda parte Temi e generi 85 Rockumentary: uno sguardo sul genere di Simone Arcagni 97 Rock & Mock: quando il duro si fa gioco. L’immagine comica del rock su grande e piccolo schermo di Rosario Gallone 105 sguardi sul palco: il rockumentary d’autore di Alberto Castellano 117 appunti sull’Opera-rock cinematografica di Giacomo Fabbrocino
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viii
INDICE
127 Tutto il cinema in un clip. Forme e modi della citazione filmica nel video musicale di Bruno Di Marino
Terza parte Sguardi e corpi d’autore 141 Dylan, alias, Judas e la canzone-film di Antonio Tricomi 155 Campi di celluloide per sempre: il cinema dei Beatles di Michelangelo Iossa 167 I Pink Floyd: la musica, il palco, la vita, il cinema, il muro di Giandomenico Curi 191 The Men Who Fell to Earth. ascesa e caduta del corpo della rock star di Corrado Morra
Quarta parte Testimonianze 209 Intervista a Julien Temple a cura di Fabio Maiello 215 Intervista a Carlo Verdone a cura di Fabio Maiello 227 Intervista a Gaetano Curreri (stadio) a cura di Fabio Maiello 231 Intervista a Fabio Liberatori a cura di Fabio Maiello 237 Bibliografia 241 Gli autori
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si ringraziano Pasquale Iaccio, stefano Manferlotti, Julien Temple, Carlo Verdone, Gaetano Curreri, Fabio Liberatori.
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Dedico questo libro alle mie due rock star preferite, Ida e Gabriella. Diego
Alle mie preferite, Maria Rosaria e Greta, auguro tanta buona musica. Vincenzo
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sUONI NEL BUIO: UN’INTRODUZIONE di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito
We learned more from a three minute record than we ever learned in school1. (Bruce Springsteen, No surrender, 1984)
suono, silenzio… Luce, buio. antinomie che contengono in nuce il senso ultimo (e misterioso) delle due arti che abbiamo cercato di mettere a confronto in questo libro: musica e cinema. antinomie fittizie; in realtà concettualmente contigue e comunicanti. «Il suono di per sé non è un fenomeno indipendente – sostiene Daniel Barenboim – ma è in costante e imprescindibile relazione con il silenzio. La prima nota non rappresenta l’inizio, essa proviene dal silenzio che la precede»2. analogamente, la restituzione del movimento, propria della “impressione di realtà” che si libera dalla visione di un film, è il prodotto di un riempimento mentale (l’effetto Phi) di uno scarto reale tra un fotogramma e l’altro; ovvero la spaziatura, prodotta dall’otturatore, che dà poi vita sullo schermo a fasi alternate di luce e buio. Non esiste musica senza silenzio, non esiste cinema senza oscurità; e potremmo aggiungere, non esiste cinema senza suoni. se è vero che i sensi della vista e dell’udito sono tra di loro strettamente collegati – in quanto veicoli principali della nostra percezione del mondo circostante – allora l’incontro non poteva che avvenire, in maniera naturale e spontanea, nell’istante stesso in cui il cinematografo è nato.
1 «abbiamo imparato da una canzone di tre minuti più di quanto abbiamo mai appreso a scuola». 2 Daniel Barenboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 7.
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ROCk aROUND ThE sCREEN
Diversamente da quanto solitamente si sostiene, infatti, i suoni (e la musica) non sono stati introdotti nel buio delle sale cinematografiche di fine Ottocento per coprire i fastidiosi rumori delle primitive macchine di proiezione (i rumori non sono forse suoni?). Il cinema ha attirato a sé i suoni perché tra tutte le arti era quella che maggiormente aspirava a diventare pura imitation of life; e la vita reale è fatta di immagini e suoni. Michel Chion ci ricorda che «le percezioni sonora e visiva […] nel contratto audiovisivo […] si influenzano a vicenda e si prestano l’una all’altra, per contaminazione e proiezione, le rispettive proprietà»3. Il suono riesce a modificare la percezione dell’immagine, così come quest’ultima riesce a fare col suono. Chion definisce questo processo «reciprocità del valore aggiunto»4. Cinema e musica sono sempre stati uniti da un legame genetico: come dimostrano i primi scritti teorici degli anni Dieci e Venti di Germaine Dulac, Marcel L’herbier, Émile Vuillermoz; o l’atteggiamento lungimirante dei grandi musicisti europei che per primi composero musiche originali per il grande schermo (saint-saëns, Pizzetti, Prokof’ev, �ostakovic˘), dando vita a un genere musicale ben definito, la musica per film. Non è stata, però, unicamente la tradizione musicale eurocolta (quella comunemente chiamata “classica”) a definire i confini del genere; la popular music ha avuto esattamente lo stesso peso nell’atto di codificazione iniziale, ritagliandosi uno spazio importante nei film ben prima degli anni Cinquanta e dell’era del rock ‘n’ roll. Ricordiamo, in questa sede, soltanto alcuni degli esempi più fecondi di contaminazione tra cinema e musica popular: D. W. Griffith compilò la cue sheet del suo monumentale The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1914) inserendo brani della tradizione popular come Bonnie Blue Flag, Dixie e Home! Sweet Home! accanto alla Cavalcata delle Valchirie di Wagner e alla suite del Peer Gynt di Grieg; Josef Von sternberg, in Der Blaüe Engel (L’angelo azzurro, 1930), affidò alla voce di Marlene Dietrich le canzoni “leggere” di Friedrich hollaender e a Mozart le note “pesanti” del Flauto Magico; In Casablanca (Id., 1942), Michael Curtiz osò sfidare la sacralità del sinfonismo di Max steiner scegliendo come momento cardine del film la canzone di herman hupfeld As 3 Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 1997, p. 16. 4 Ivi, p. 25.
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sUONI NEL BUIO: UN’INTRODUZIONE
Time Goes By, cantata da Dooley Wilson; e così fece hitchcock in The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, 1956), nel quale, accanto alle gravi dissonanze del rinnovatore Bernard herrmann, piazzò due popular songs di Livingston e Evans, We’ll Love Again e l’ormai famosissima Whatever Will Be, Will Be (Que Sera, Sera). E l’elenco potrebbe continuare e comprendere altri innumerevoli esempi provenienti dalle principali cinematografie di tutto il mondo. Indubbiamente, però, l’avvento del rock ‘n’ roll, alla metà degli anni Cinquanta, segna una cesura epocale nella storia dei rapporti tra cinema e musica; anche perché la “nuova” musica – che tale non è, in quanto si rifà agli stilemi ritmici propri del rhythm ‘n’ blues e di altre musiche nere americane, adattandoli ai gusti e alle esigenze di un pubblico più ampio e prevalentemente bianco – si sviluppa in un’epoca segnata da notevoli miglioramenti della tecnologia e, soprattutto, da una inedita integrazione – che potremmo definire “cultural-industriale” – tra media differenti, anticipando la tendenza odierna di un mercato dominato dalle multinazionali globali dell’entertainment. Il rock diventa, dunque, la colonna sonora della nuova società industriale che caratterizza gli stati Uniti e il mondo a partire dai Fifties: una società segnata da profondi sconvolgimenti sociali e culturali, primo tra tutti l’emergere dei teenagers come categoria a sé stante. Da questo punto in poi della storia del Novecento, allora, il rock diventa la “musica giovane” per eccellenza, legandosi in maniera indissolubile al proprio pubblico di riferimento, lungo i decenni e ben oltre il dato meramente anagrafico (tutti i giovani, prima o poi, diventano adulti e poi invecchiano; ma il rock resta a far compagnia durante il loro intero itinerario esistenziale). Naturalmente, il rock s’intreccia in maniera sempre più stretta con l’altra “arte giovane” novecentesca per antonomasia, ovvero il cinema, iniziando a influenzare sempre più massicciamente poetiche autoriali e specifiche parabole produttive (a sua volta venendone influenzato). Basti pensare, per riferirsi all’esempio più eclatante, all’intera generazione di registi e interpreti della cosiddetta New hollywood, cioè a coloro che, nei decenni settanta e Ottanta, tirano fuori la “Mecca del cinema” dalle secche di una crisi apparentemente irreversibile, riproponendola con forza come luogo-guida dell’immaginario collettivo mondiale: si tratta di una generazione indubbiamente rock, come dimostrano chiaramente i film di ciascuno, da scorsese e Coppola a Lucas e spielberg, per limitarsi soltanto ai più importanti.
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ROCk aROUND ThE sCREEN
Quelle che abbiamo voluto raccontare in questo libro sono storie artistiche e produttive, culturali e industriali che si sono sviluppate, per tutta la seconda metà del Novecento e fino a oggi, all’insegna dell’affascinante “abbraccio” tra cinema giovane – innanzitutto nello spirito – e musica rock. Lo abbiamo fatto cercando di dare conto dei principali snodi cronologici, privilegiando però itinerari volutamente ondivaghi, in grado di far percepire al lettore il “suono” e magari il “corpo” del rock al cinema. Per questo motivo, non abbiamo voluto inseguire intenti di natura enciclopedica, lasciando liberi i vari autori di declinare, secondo i propri interessi e le rispettive inclinazioni, un tema talmente vasto da coincidere quasi con quello dello sviluppo della cultura giovanile tardo-novecentesca. Così, siamo partiti – noi due – dai teen-rock movies degli anni Cinquanta con e senza Elvis, per arrivare al fondamentale snodo a cavallo del sessantotto con i grandi raduni rock e la perdita d’innocenza di una generazione che, forse, innocente non è stata mai davvero. E, poi, abbiamo passato in rassegna, in modo che speriamo sia considerato originale e suggestivo, forme, temi e generi specifici: simone arcagni sui rockumentaries e Rosario Gallone sulle falsificazioni dell’universo mock; alberto Castellano sugli “sguardi d’autore” e Giacomo Fabbrocino sulla rock opera; Michelangelo Iossa e Giandomenico Curi sulle filmografie emblematiche dei Beatles e dei Pink Floyd; antonio Tricomi su un Dylan perennemente “altrove” e Corrado Morra sull’ascesa e la caduta del corpo-rock; Bruno Di Marino sui procedimenti stilistici che hanno marchiato la contemporaneità video-filmica. Infine, abbiamo pensato di far parlare direttamente alcuni protagonisti, per esempio Julien Temple e Carlo Verdone, nelle interviste curate da Fabio Maiello. a tutti gli autori coinvolti va, naturalmente, il nostro ringraziamento più sentito. Di ognuno, infatti, abbiamo apprezzato la disponibilità e la passione con la quale si è fatto coinvolgere in questo progetto, oltre che la qualità dei rispettivi contributi. Il rock e il cinema, d’altra parte, sono fatti per essere fruiti in maniera collettiva, in compagnia di amici e sodali con i quali condividere, al di là della singola occasione professionale, lo stupore e la gioia per un nuovo ascolto più o meno underground o per una visione recuperata chissà all’interno di quale scrigno pieno di segreti. E allora: suono, silenzio… luce, buio; la cerimonia sta per cominciare…
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PRIMA PARTE sTORIa E sTORIE
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TEEN-ROCK MOVIES: La RIVOLUZIONE DI ELVIs E DEL ROCk ‘N’ ROLL di Diego Del Pozzo
Non si va in nessun posto: questo lo facevano i nostri nonni. Si va e via. (Johnny – Marlon Brando, Il selvaggio, 1954) Non sarei mai riuscito a farmi una ragazza se non ci fosse stato Elvis, ne sono certo. (John Carpenter)1 Girovagano ammucchiati come greggi, ascoltano una musica che sembra provenire dalla gabbia degli uccelli della giungla allo zoo, e, posso dirlo, si comportano come i selvaggi in Africa. (J. Edgar Hoover, 1956)2
Intro Bisognerebbe aver vissuto negli stati Uniti degli anni Cinquanta, essere stati giovani allora, per capire davvero fino in fondo l’impatto dirompente che ebbero Elvis Presley e il rock ‘n’ roll sulla società dell’epoca. Discuterne oltre mezzo secolo più tardi, infatti, può servire a tenerne vivo il ricordo e analizzarne gli esiti, ma non ci farà mai capire “davvero”, sentendone gli effetti sulla pelle e nelle budella, ciò che 1 Giulia D’agnolo Vallan e Roberto Turigliatto, “Conversazione con John Carpenter”, in: Giulia D’agnolo Vallan e Roberto Turigliatto (a cura di), John Carpenter, Torino Film Festival, Lindau, Torino, 1999, p. 58. 2 John Edgar hoover è stato il potentissimo capo del FBI dal 1924 al 1972, sotto ben otto presidenti degli stati Uniti. La sua frase è citata in: Linda Berton, Videoclip, Mondadori, Milano, 2007, p. 97.
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ROCk aROUND ThE sCREEN
Elvis significò per le ragazze e i ragazzi americani di quel periodo: una rivoluzione dei corpi e delle menti, pacifica e gioiosa, sessual-culturale, che a colpi di bacino (Elvis the Pelvis3) e grazie al “suo” rock ‘n’ roll cambiò tutto, senza più possibilità di tornare indietro. Ma qual è il contesto storico-sociale nel quale Presley e questa “nuova” musica spuntano fuori, così all’improvviso, contribuendo a mutarne irrimediabilmente le coordinate?
Un Paese “addormentato” Gli stati Uniti degli anni Cinquanta sono un Paese attraversato da una voglia irresistibile di “rispettabilità” e “normalità”: caratteristiche con le quali riuscire a occultare, innanzitutto a se stessi, l’innocenza definitivamente perduta in seguito a eventi campali come l’entrata in guerra e, soprattutto, il lancio delle bombe atomiche sul Giappone, in chiusura del secondo conflitto mondiale. Questo periodo storico particolarissimo, che per comodità definiremo “anni Cinquanta” e che rappresenta un momento di autentica cesura tra due epoche differenti, va fatto coincidere dunque, per il discorso che ci apprestiamo a fare, con un arco temporale ben più ampio di quello decennale: facendo nostro ciò che sostiene Robert sklar4, infatti, possiamo farlo iniziare nel 1945 per chiuderlo addirittura nel 1963. agli estremi di questa periodizzazione collocheremo due eventi portatori di svolte epocali nella storia statunitense (e mondiale): da un lato, l’esplosione delle due bombe atomiche su hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945; dall’altro, l’assassinio del presidente John Fitzgerald kennedy a Dallas il 22 Novembre 1963. alle prime date possiamo, infatti, far risalire la nascita, nell’opinione pubblica americana, della psicosi atomica derivante dalla consapevolezza che la potenza nucleare fosse la chiave di volta della politica internazionale, in quanto fattore che avrebbe dato, a chi la detenesse, il controllo del mondo; e da tale psicosi prendono il via, un po’ su tutto il territorio statunitense, persino nuovi modi di socialità quotidiana. alla seconda 3 Elvis “Il Bacino”, appunto. Nel presente saggio, ove non diversamente indicato, le traduzioni da testi stranieri s’intendono a cura dell’autore. 4 Il quale sintetizza molto bene che «[…] le forme standard di periodizzazione storica, basate su decenni, non sono sempre le più adatte a strutturare i periodi della storia dei mass media […]»: Robert sklar, “Dopo lo studio system”, in: aa.Vv., Hollywood verso la televisione, Marsilio, Venezia, 1983, p. 18.
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TEEN-ROCK MOVIES
data, invece, associamo il momento nel quale, simbolicamente, l’americano medio si risveglia come da un bel sogno durato, appunto, più di dieci anni e si accorge di aver perso la sua, assai presunta, innocenza, pronto ad affacciarsi a una nuova fase nella storia del proprio Paese e del mondo intero: gli anni sessanta. Gli stati Uniti, dunque, sono avvolti per oltre un quindicennio da un clima “addormentato” e perbenista, simile a una opprimente e pesantissima maschera, destinata a essere squarciata poco a poco, nel corso di questo periodo, fino a venire sfilata e definitivamente gettata via quando, come detto, il presidente kennedy viene assassinato a Dallas nel 1963: è soltanto allora, infatti, che la “Nuova america” si guarda meglio allo specchio e ammette che, in realtà, non si piace per niente. Durante gli anni Cinquanta, gli stati Uniti sono segnati da grossi cambiamenti nel modo di vivere della gente. La fine della guerra, infatti, porta a un incremento delle nascite e a una generale espansione economica. Tra il 1948 e il 1963, per esempio, i salari reali dei lavoratori delle industrie crescono di più rispetto ai prezzi e il crescente benessere provoca un ampliamento della cosiddetta “middle class”. Con questo termine si vuole indicare non soltanto la classe sociale occupante le fasce mediane nella scala dei redditi, ma, soprattutto, un universo compatto, caratterizzato da unico stile di vita, luogo di residenza, valori, obiettivi. «La classe media includeva un segmento sociale che andava dai redditi operai più alti, fino ai livelli dirigenziali inferiori: la parte della popolazione che fu allora protagonista dei traslochi in massa dai quartieri urbani alle aree residenziali suburbane; dagli appartamenti alle casette unifamiliari»5. Caratteristico del periodo, infatti, è l’abbandono del quale vengono fatti oggetto i quartieri centrali delle metropoli, da parte, appunto, dei ceti medi, per i quali l’obiettivo diventa la casetta nel suburb. Parallelamente, si verifica un flusso migratorio opposto, riguardante gli elementi più poveri della società e le categorie tradizionalmente più penalizzate, come gli afro-americani e gli immigrati: è sempre in questo periodo, infatti, che interi quartieri cittadini si trasformano in ghetti. Il secondo fenomeno, chiaramente, non viene pubblicizzato quanto la nascita dei rigogliosi suburbs o degli imponenti centri commerciali suburbani. I mass media ci hanno tramandato, infatti, una immagine degli stati Uniti di questi anni come patria del benessere, dove sembra 5
Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, Giunti, Firenze, 1992, p. 133.
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ROCk aROUND ThE sCREEN
addirittura che la classe operaia sia scomparsa totalmente. La stessa televisione, ormai dominatrice tra i mass media (nel 1958 è presente in 42 milioni di abitazioni), ci ha trasmesso una immagine fortemente tipizzata del Paese e dell’american way of life, per esempio attraverso tante serie televisive ambientate in «[…] un mondo fatto solo di piccole questioni tra persone simpatiche, bianche, che non avevano problemi seri e che abitavano felici in casette suburbane, fianco a fianco con altri come loro, in un paese che non si vedeva mai, ma che si indovinava felice. anche se non mancarono alcune eccezioni, la famiglia di quel tipo fu la protagonista assoluta della commedia televisiva. Ed i ruoli, al suo interno, ripetevano quelli che la vita e cultura attribuivano a marito e moglie nella società»6.
La vita nei sobborghi residenziali è improntata al massimo conformismo in ogni tipo di relazione sociale: si tende, in modo naturale, all’isolamento nel chiuso della vita familiare; atteggiamento che rafforza ulteriormente l’aspetto difensivo presente nella vita di tante famiglie di classe media, le quali si sottopongono di continuo ai più strenui sacrifici (spesso conducendo un tenore di vita superiore al proprio reddito) pur di mantenere la condizione sociale finalmente raggiunta, simboleggiata dai feticci della casa e dell’automobile. E proprio le auto degli anni Cinquanta, non a caso, sono autentici simboli dell’opulenza: grandi, piene di luci, di parti cromate e sporgenze, con le tipiche pinne posteriori, che richiamano le forme dei nuovi aerei a reazione. D’altronde, l’automobile si rende assolutamente necessaria per il nuovo tipo di socialità suburbana: le distanze tra i centri commerciali e finanziari delle grandi città e le casette di periferia, infatti, possono essere coperte principalmente con l’automobile; le donne vanno a fare le loro spese in auto nei mall (i grandi centri commerciali suburbani); nei quartieri centrali delle metropoli i cinema chiudono, mentre nei sobborghi si moltiplicano i drive-in, cinema all’aperto dove poter andare in auto. E l’enorme espansione della motorizzazione privata, assieme all’incremento del pendolarismo lavorativo, provoca anche ulteriori trasformazioni fisiche delle città, con l’abbattimento di interi quartieri, ormai fatiscenti e abbandonati, per costruire le ampie e veloci superstrade, deputate a collegare sobborghi e centri cittadini. Il conformismo del periodo deriva, in buona parte, da tre fattori principali: l’emergere prepotente della cultura di massa e della 6
Ivi, pp. 147-148.
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TEEN-ROCK MOVIES
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televisione; una fortissima voglia di “normalizzazione” e normalità, dopo gli orrori della guerra (che, del resto, hanno toccato piuttosto marginalmente gli stati Uniti rispetto al resto del mondo); infine, quel fenomeno poi andato sotto il nome di maccartismo, causa di un diffuso clima di isteria e paranoia derivante dallo strumentale sbandieramento del pericolo comunista e deleterio per qualsiasi atteggiamento anticonformista o di dissenso, che non esita a essere immediatamente etichettato come deviante o sovversivo. Tutto ciò, in ogni caso, è valido fino alla metà del decennio Cinquanta, poiché già a partire dalla seconda parte di questi silent Fifties proprio il rock ‘n’ roll avrebbe massicciamente contribuito a far deflagrare, in modo violento, questioni fino ad allora occultate dal conformismo sociale del periodo, per esempio i problemi razziali e i malesseri generazionali, aprendo di fatto al “mondo nuovo” degli anni sessanta.
L’industria cinematografica e musicale negli anni Cinquanta anche per un inquadramento dell’industria cinematografica e musicale statunitense del periodo, bisogna necessariamente rifarsi ad alcune date precedenti il 1950. Per quel che riguarda il cinema, per esempio, è necessario fare un passo indietro fino al 1946, quando l’industria hollywoodiana raggiunge i suoi migliori risultati di sempre, arrivando a un numero settimanale di spettatori pari a quasi i tre quarti del “pubblico potenziale” (la media delle presenze settimanali al cinema è, infatti, di 90 milioni di persone e le sale sono ben 21.500, il più alto numero mai toccato nel paese). Da allora, però, inizia un inesorabile declino che giunge ai suoi esiti più preoccupanti nel corso degli anni sessanta. Il 1947, invece, segna l’inizio delle prime udienze sulla presunta infiltrazione comunista a hollywood da parte della Commissione d’inchiesta del senato per le attività antiamericane (hUaC), con la conseguente imputazione di dieci importanti esponenti della comunità hollywoodiana per oltraggio al Congresso e con l’inizio delle liste nere che hanno un impatto rilevante sul cinema del periodo. Nel 1948, poi, la Corte suprema degli stati Uniti delibera in merito al caso “U.s. Vs. Paramount Pictures Inc.”.
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«La sentenza antitrust del 1948, il cosiddetto “Decreto Paramount”, spezza il ciclo integrato di produzione, distribuzione ed esercizio con il quale le majors di hollywood dominano il mercato – costringendole a vendere le proprie catene di sale – e mette la parola fine all’era classica dello studio system, facendo entrare la “Mecca del cinema” in una profonda crisi economica e di identità che può essere solo parzialmente spiegata con la contemporanea esplosione della televisione»7.
Nello stesso anno, comunque, i network televisivi propongono un palinsesto completo nella fascia oraria di maggior ascolto e per l’intera settimana. Durante il 1949 avvengono le prime, effettive separazioni delle sale dalle compagnie di produzione e distribuzione, con la Paramount che cede i propri cinema. Parallelamente, la televisione prosegue nella sua irresistibile ascesa: i palinsesti sono, ormai, pieni in tutti gli spazi settimanali nella fascia oraria compresa tra le 19 e le 23, mentre i biglietti venduti ai botteghini delle sale cinematografiche continuano a calare costantemente e inesorabilmente. Nel 1950, il numero degli apparecchi televisivi venduti nel paese sale dai 6.500 del 1945 fino a sette milioni e mezzo (otto anni più tardi, come scritto poco fa, le tv saranno presenti in ben 42 milioni di case americane): «[…] poche cifre ma sufficienti – fa notare opportunamente Franco La Polla – a fornire il quadro di un’america cinematografica ormai entrata nel tunnel della crisi»8. La conseguenza di tutto ciò è ben evidenziata, a sua volta, da Michael Wood, il quale sottolinea come, in questi anni, vada perdendosi progressivamente «[…] l’abitudine di andare al cinema, quella sorta di coazione culturale che ti spingeva fedelmente al cinema, una volta o due la settimana, qualunque cosa si stesse proiettando»9. Per quanto riguarda il mercato discografico, invece, tra la fine degli anni Quaranta e la metà dei Cinquanta esso è dominato da Decca, Capitol, Columbia e RCa Victor. a queste majors, a partire dal 1955, iniziano a fare concorrenza diretta alcune case indipendenti come sun, Chess, atlantic, tutte particolarmente legate, non a caso, alla rivoluzione del rhythm ‘n’ blues e del rock ‘n’ roll. L’evoluzione tecnologica influenza profondamente le “politiche” dell’industria discografica e, conseguentemente, i modi del consumo di musica pre-registrata. Basti pensare a due strumenti formidabili come 7 Diego Del Pozzo, Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani, Lindau, Torino, 2002, p. 35. 8 Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 153. 9 Michael Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979, p. 174.
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il juke-box e il nuovo disco a microsolco. Nel primo caso, i successivi perfezionamenti ne aumentano, proprio in questi anni, il numero delle selezioni musicali possibili – cento brani nel 1948, addirittura duecento nel 1955 – e le potenzialità di amplificazione sonora. «Negli anni cinquanta il juke-box è lo strumento più diffuso e potente per la riproduzione della musica: oltrepassa di gran lunga la potenza dei già imponenti radiogrammofoni casalinghi, ha altoparlanti di grande diametro adatti alla diffusione ad alto volume delle frequenze più gravi, è destinato a riempire di musica ambienti pubblici affollati»10. Nel secondo caso, l’introduzione dei nuovi dischi a microsolco, quelli a 33 giri nel 1948 e a 45 giri l’anno dopo, permette di ospitare una durata maggiore della musica registrata e, allo stesso tempo, di riprodurre una gamma di frequenze più estesa sia verso l’alto che verso il basso. «La maggiore fedeltà dei dischi microsolco […] è determinata anche dal perfezionamento delle apparecchiature a monte nel processo di registrazione: preda di guerra (era stato sviluppato in Germania) il registratore a nastro viene usato per fissare ed elaborare i suoni, prima che il risultato desiderato venga trasferito alla matrice del disco»11, con conseguente controllo più accurato delle esecuzioni e della resa timbrica. In parallelo con l’evoluzione tecnologica dell’industria musicale e con la diffusione sempre più capillare dei suoi prodotti diventa, così, sempre più stretto e diretto il rapporto con l’industria cinematografica (e con i network televisivi), anche a causa della crisi di una hollywood costantemente a caccia di nuove idee ma, soprattutto, di nuove fonti di profitto. si consolida, in questi anni, quella pratica dell’integrazione tra media differenti che sarà, più avanti, caratteristica della politica delle grandi multinazionali dell’Entertainment. «Così come era accaduto con l’editoria musicale – e dopo l’episodico ma sintomatico acquisto della Brunswick Records, nel 1930, da parte della Warner –, ora hollywood intravede sviluppi interessanti nel campo dei tie-ins tra cinema e musica registrata e si lascia allettare dai profitti di un mercato segnalato in enorme espansione: se a metà degli anni quaranta la MGM crea una propria specifica sussidiaria di produzione musicale e discografica, nel 1952 l’Universal “accetta” di essere inglobata dalla Decca Records – segno forte di un mutato orizzonte –, mentre tra il 1958 e il 1959 più o meno tutte le Majors si dotano di succursali
10 Franco Fabbri, Il suono in cui viviamo, Il saggiatore, Milano, 2008 (terza edizione ampliata), p. 35. 11 Ibidem.
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musical-discografiche, creandole al proprio interno o acquistandone di già esistenti»12.
Insomma, il dado è tratto. «Il paesaggio della musica diventa irriconoscibile, sebbene fino a pochissimo tempo prima le forme organizzative fossero ancora simili a quelle dei primi decenni del secolo»13. La riorganizzata e potenziata industria della musica registrata diventa, dunque, la nuova “gallina dalle uova d’oro” per le majors dell’Intrattenimento. Infatti, è vero che «[…] l’avvento del grammofono e dei dischi aveva gradualmente conquistato il pubblico e l’industria fin dagli anni Venti, ma è solo negli anni Cinquanta, anzi alla metà degli anni Cinquanta, che i dischi fanno guadagnare all’industria più che la musica stampata»14. Fino ad allora, a condurre il gioco erano stati gli editori, non certo i discografici. s’intravede, quindi, all’orizzonte una Nuova Frontiera. anche perché, rispetto al passato, adesso c’è un pubblico potenziale che fino a qualche anno prima nemmeno esisteva, almeno nei termini che vedremo tra poco: si tratta del pubblico giovanile.
Nuova linfa per l’industria dell’intrattenimento: la “nascita” del giovane Nel corso degli anni Cinquanta, c’è una novità travolgente che fa irruzione sulla scena della società americana: si tratta dei giovani, intesi come nuova categoria sociale (diversa sia dal bambino-adolescente che dall’adulto) «[…] la cui identità è sempre più oggetto dei film hollywoodiani e il cui consumo di cinema si inserisce in quello più ampio di una varietà di prodotti e di forme culturali giovanili»15. Tale fenomeno è una conseguenza diretta dell’accresciuto benessere economico generale, che assicura ai teenagers americani un potere d’acquisto di gran lunga superiore rispetto a quello dei loro coetanei 12 Franco Minganti, “L’influenza di radio, popular music e jazz”, in: Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, Volume secondo: gli stati Uniti, Tomo secondo, Einaudi, Torino, 2000, p. 1493. 13 Ernesto assante e Gino Castaldo, Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano, Einaudi, Torino, 2004, p. 121. 14 Ibidem. 15 James hay, “Cinema e televisione”, in: Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, cit., p. 1700.
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di una quindicina d’anni prima16: addirittura, nel 1958 gli adolescenti statunitensi possono contare su circa il quadruplo dei soldi da spendere rispetto ai loro coetanei del 1945, con la media individuale che si assesta sui dieci dollari settimanali contro due e mezzo, per un “potere d’acquisto” miliardario stimato in 9,5 miliardi di dollari annui. Basti questo dato, dunque, per comprendere come – nonostante, in realtà, sia ancora elevato il numero di ragazzi e ragazze che crescono in condizioni di ristrettezza economica – i “giovani” diventino rapidamente il principale affare del decennio. Di conseguenza, gli investimenti nel campo dell’intrattenimento giovanile aumentano vorticosamente, com’è ovvio, anche sulla spinta di una sempre più dominante e invasiva cultura di massa, che con la proposta di modelli omologanti e la creazione di “bisogni indotti”, attraverso i vari media, stimola i teenagers americani a “consumare”, per poter essere sempre più simili agli idoli che la stessa industria propone loro. Tipico di questo nuovo mercato è, per esempio, l’utilizzo di sondaggi di opinione per anticipare, o persino costruire da zero, le nuove mode giovanili. E, in un simile contesto, cultura giovanile e cultura popolare “di massa” iniziano a intrecciarsi in maniera sempre più indissolubile, fin quasi a coincidere, in molti casi, l’una con l’altra: così, rock ‘n’ roll, fumetti e narrativa pulp, b-movies dell’orrore e di fantascienza diventano elementi estremamente diffusi – e caratterizzanti – nella vita quotidiana dei teenagers americani, i quali adesso sono in grado di spendere di più per i loro svaghi, rispetto al recente passato. Non è un caso, allora, che nel sempre più variegato panorama dei mass media sia proprio la televisione – visibile gratuitamente nei tinelli domestici delle famiglie borghesi della “Nuova america” – a interessarsi in modo meno approfondito di questo segmento sociale emergente e dei suoi bisogni culturali. sullo schermo domestico, infatti, sono davvero pochi i programmi specificamente pensati per i teenagers e realizzati con contenuti di loro interesse: l’unica, parziale, eccezione è rappresentata proprio dalle trasmissioni musicali. Differente, invece, appare l’atteggiamento dell’industria del cinema, come emerge da questa approfondita descrizione di James hay: «L’unica forma di televisione concepita, e offerta sul mercato, per il pubblico dei minorenni è costituita, sino alla metà degli anni cinquan16
Cfr. Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, cit., p. 135.
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ta, dai programmi di ballo, di cui American Bandstand di Dick Clark è il più famoso su scala nazionale. […] hollywood inizia invece a produrre ogni sorta di pellicole destinate al pubblico dei minorenni: […] dai film sul rock ‘n’ roll quali Il re del rock and roll (Will Price, 1956), Rock Baby, Rock It (Murray Douglas sporup, 1957) e Gli indiavolati (Richard Bartlett, 1956) a quelli che mettono in scena romanzi d’amore adolescenziali […]; per non parlare dei film interpretati da Elvis Presley quali Amami teneramente (hal kanter, 1957) e Il delinquente del rock & roll (Richard Thorpe, 1957). Il successo di Elvis si basa sulla relazione fra televisione, radio, dischi a 45 e 78 giri e cinema, tra music hall, sala cinematografica e abitazione che si viene a creare in quegli anni» 17.
Dunque, è certamente nel giusto chi evidenzia come gli anni Cinquanta segnino la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, per quanto concerne il ruolo che hollywood riveste come referente e parametro sociale. Così, «[…] nel 1955, l’industria cinematografica comincia a considerare e a sfruttare il mercato giovanile: il successo di Senza tregua il rock ‘n’ roll (Fred F. sears, 1956) dimostra che i film per ragazzi possono garantire un buon successo e comincia davvero un genere nuovo: il teenpic, il film per un pubblico di teenagers. Nel 1960 le Majors hanno già assorbito questo nuovo genere e l’hanno fatto proprio […]»18.
a tale proposito, va sottolineato come questa tipologia di film si inserisca perfettamente tra la relativa mancanza di programmi televisivi destinati ai giovani – con i cineasti hollywoodiani che iniziano a trarre vantaggio proprio dalla centralità della televisione nella vita domestica – e il nuovo regime di mobilità e privacy che contraddistingue la società americana del periodo. L’importanza del nuovo filone è tale che «[…] alcuni storici del cinema considerano i film destinati ai teenager la forma più importante della cinematografia hollywoodiana degli anni cinquanta, mentre la televisione che si rivolge al pubblico giovanile subisce numerose trasformazioni»19.
17 James hay, “Cinema e televisione”, in: Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, cit., p. 1700. 18 Douglas Gomery, “La nuova hollywood. Le strutture produttive si rinnovano”, in: Ivi, p. 1152. 19 James hay, “Cinema e televisione”, in: Ivi, p. 1701.
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Cultura rock e disagio giovanile L’irruzione dei teenagers sulla scena della società americana degli anni Cinquanta suscita ancora maggiore sensazione proprio perché avviene in un periodo assolutamente sfavorevole dal punto di vista socio-culturale: in un contesto, cioè, che ha come proprio pilastro psicologico la felicità della classe media, basata sulla cultura del benessere e su una esaltazione calvinista della produttività del lavoro umano, quasi come una religione positiva che si sposa alla perfezione col moralismo capitalista e viene ancor più esaltata dal clima della “caccia alle streghe” anti-comunista. Questo perché «[…] la generazione che negli anni cinquanta compiva i suoi cinquant’anni aveva conosciuto in età già adulta i disagi della guerra e ora sognava un’america simile a quella dell’anteguerra, isolata dal resto del mondo come per evitare il contagio (il pericolo rosso era solo il più appariscente dei rischi, ma ce n’erano molti altri, a cominciare dall’inarrestabile corrente dell’immigrazione). Era una generazione gelosa della sua piccola felicità»20.
a tale universo valoriale si oppone con decisione quello della generazione successiva, formata da coloro che hanno vissuto la guerra in condizioni molto diverse, spesso confondendone i “fantasmi” con le proprie fantasie infantili e, però, subendo al tempo stesso traumi come, per esempio, l’assenza forzata di uno dei due genitori. Questa generazione di young americans «[…] non poteva nutrire nostalgie verso un passato che non aveva conosciuto e sentiva di non potere aderire alle aspirazioni dei padri, a questa richiesta di felicità nell’abbondanza»21. Diventa quasi inevitabile, dunque, una frattura generazionale che appare «[…] diffusa in ogni strato della società, ma si manifestava con maggiore evidenza nella classe media che, più degli altri ceti, tendeva a dare un’immagine definita di sé»22. Come sottolinea acutamente il musicologo Franco Fabbri, «[…] inizia a delinearsi negli Usa, con vari anni di anticipo sull’Europa ancora prostrata dalle distruzioni, la contraddizione fra il nuovo benessere, la possibilità di spendere che man mano si estenderà agli stessi
20
stefano Masi, Nicholas Ray, Il Castoro Cinema / La Nuova Italia, Firenze, 1983, p.
56. 21 22
Ibidem. Ibidem.
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baby-boomers, e una società angosciata dalla guerra fredda, governata da una classe dirigente che ha fatto mille sacrifici, molto poco disposta a concedere ai giovani il divertimento, la spregiudicatezza nei costumi, la vaghezza spensierata che a suo tempo non ha potuto assaporare»23.
E se, nel decennio successivo, il senso di insoddisfazione strisciante nella componente più giovane della società sarà tra le cause scatenanti del vastissimo movimento d’opinione che, dai College, si estenderà all’intera società americana, già nella seconda metà degli anni Cinquanta tali fermenti trovano modo di diffondersi attraverso le “nuove” forme d’arte e d’espressione rivolte ai giovani: in primis, la musica rock e un certo tipo di cinema, “progettato” con estrema abilità dai creativi hollywoodiani per incarnare al meglio il disordine esistenziale e le tensioni generazionali del periodo. L’immaginario collettivo che scaturisce da tali prodotti culturalindustriali ha, inevitabilmente, ben poco da spartire col passato, anche prossimo, basandosi invece su modelli e comportamenti addirittura inimmaginabili fino a pochi anni prima. Tra il 1954 e il 1955, in particolare, escono nelle sale cinematografiche americane due film di grande successo, destinati – per usare una frase fatta – a segnare un’epoca, soprattutto grazie ai due “antieroi” maschili che sono al centro delle rispettive trame: sto parlando di The Wild One (Il selvaggio, 1954) di Laszlo Benedek e di Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, 1955) di Nicholas Ray. I protagonisti maschili delle due pellicole sono, nell’ordine, Marlon Brando e James Dean. Il personaggio del primo, come già nel coevo On the Waterfront (Fronte del porto, 1954) di Elia kazan, si mostra insofferente verso qualsiasi forma di autorità, disciplina, convenzione; quello del secondo – in modo simile ai due interpretati nei contemporanei East of Eden (La valle dell’Eden, 1955) di Elia kazan e The Giant (Il gigante, 1955) di George stevens – è, invece, un ragazzo nevrotico e insicuro, sradicato dalla famiglia e desideroso di rapporti interpersonali fondati su un’autenticità che non ritrova più attorno a sé. Entrambi questi film – pur sfoggiando due colonne sonore che nulla hanno a che vedere con la “nuova” musica24 – mostrano un’attitudine che potrebbe essere, senz’altro, definita “rock”, anche per quel che concerne il look 23
Franco Fabbri, Il suono in cui viviamo, cit., p. 37. Nel film di Benedek, infatti, la colonna sonora è costituita da temi jazz interpretati da shorty Rogers and his Giants; in quello di Ray, invece, la soundtrack, più classica, è composta da Leonard Rosenman. 24
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e gli atteggiamenti dei personaggi, oltre che per una più complessiva Weltanschauung25. Ne Il selvaggio, il personaggio di Johnny interpretato da Marlon Brando è costantemente guardato con sospetto e accusato, indipendentemente dalle sue azioni, per il solo fatto di essere un possibile elemento sovvertitore dell’ordine costituito. Egli, infatti, è diverso anche iconograficamente, tutto vestito di nero, mentre gli americani medi della cittadina di provincia descritta nel film indossano abiti bianchi, o comunque chiari. addirittura, nella sequenza dell’inseguimento di Johnny da parte dell’intero paese, si ha la strana sensazione di trovarsi – con un balzo in avanti di appena due anni – nella “pacifica” (pacificata?) santa Mira del fantascientifico Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, 1956) di Don siegel, tanto simili sono atmosfera e ambientazione, a partire da quelle strade notturne, dapprima deserte e poi stracolme di corpi (ultra?) che inseguono il diverso e tentano, al tempo stesso, di fagocitarlo e di espellerlo come un virus. alcune frasi pronunciate da Johnny-Brando nel corso del film – «L’importante è scappare», per esempio – fanno quasi da manifesti ideologici per i teenagers statunitensi. Proprio come le motociclette, le giacche di cuoio nero, i pantaloni attillati, i capelli imbrillantinati diventano veri e propri simboli visivi della distanza tra i giovani e l’Establishment e della barriera che isola le nuove generazioni dal resto della società: simboli che vengono ripresi, pari pari, dalla nascente “cultura rock”, grazie alla decisiva mediazione di Elvis Presley. altro “isolato”, passando a Gioventù bruciata, è il personaggio di Jimmy stark (James Dean), figlio unico di buona famiglia borghese, dunque senza alcun motivo, agli occhi dell’america calvinista degli anni Cinquanta, per ribellarsi al mondo degli adulti. In realtà, il suo è un carattere straordinariamente “rock”, destinato a influenzare profondamente la cultura giovanile a venire: bisognoso di autenticità, infatti, Jimmy trova un amico nel tormentato Plato (sal Mineo) e conquista il cuore di Judy (Nathalie Wood), la ragazza di un suo rivale morto in un incidente d’auto. alla fine del film, il giovane si ritrova inseguito dalla polizia, assieme a Plato e Judy, fino a che, per un errore, lo stesso Plato viene ucciso dai poliziotti, mettendo fine alla famiglia “alternativa” che i tre giovani avevano formato insieme. Il film 25
Cfr. Giancarlo Magnano san Lio, Forme del sapere e struttura della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung. Dopo Dilthey, Rubbettino, Catanzaro, 2007.
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impone definitivamente James Dean come mito di una generazione e la sua morte, il 30 settembre di quel 1955, fa il resto, imprimendolo per sempre nella memoria dei ragazzi americani (e non soltanto), così come appare sullo schermo: giovane, bello, fragile, tormentato, maledetto e ribelle. Il Jimmy stark di questo film, oltre a essere l’incarnazione di molti temi tipici del cinema di Nicholas Ray – l’impossibile rapporto padrefiglio o l’attenzione agli adolescenti violenti, per esempio – rappresenta anche un personaggio di grande attualità nell’america degli anni Cinquanta; o sarebbe meglio dire nel suo immaginario collettivo. «Era un decennio in cui i genitori temevano lo spettro della delinquenza giovanile: il mitico teppista ragazzino appoggiato alla porta di un bar della Nostra Città, i capelli unti di Vitalis o Brylcreem, il pacchetto di Lucky strike infilato sotto la spallina del giubbotto di pelle da motociclista, la sigaretta all’angolo della bocca, e il coltello a serramanico nuovo nella tasca dei jeans, in attesa di un ragazzino da picchiare, un genitore da infastidire e imbarazzare, una ragazza da aggredire o forse un cane da seviziare e poi uccidere... o forse viceversa. E da quell’immagine, un tempo così temuta, nascevano James Dean e/o Vic Morrow. [...] In quel periodo, i giornali e le riviste della stampa popolare vedevano giovani James Dean ovunque, allo stesso modo in cui questi stessi organi del quarto stato avevano pochi anni prima visto comunisti ovunque. [...] L’ombra del temutissimo teppista si allungava. [...] Ma così come si vide che c’erano meno comunisti e meno agenti della quinta colonna di quanto si sospettasse, anche l’ombra del Terribile James Dean risultò sopravvalutata»26.
Più che teppisti veri e propri, insomma, questi “nuovi” giovani americani degli anni Cinquanta vanno considerati, in realtà, soprattutto come anime sbandate, che vivono sulla propria pelle le contraddizioni di una società – quella degli adulti – alla quale sentono di non appartenere e nei confronti della quale provano un disagio sempre più profondo. Tale disagio necessita di un megafono attraverso il quale possa essere urlato a squarciagola: questo formidabile “megafono”, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, è proprio lo “scandaloso” rock ‘n’ roll, che non a caso diventa, ben presto, la colonna sonora ricorrente della nuova cultura giovanile e, allo stesso tempo, del cinema più vitale e irriverente del periodo.
26
stephen king, Danse Macabre, Theoria, Roma-Napoli, 1992, pp. 63-64.
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Il rock ‘n’ roll arriva al cinema Va riconosciuto al regista Richard Brooks l’indiscutibile coraggio di aver fortemente voluto il brano Rock Around the Clock per i titoli di testa e coda del suo Blackboard Jungle (Il seme della violenza, 1955), lanciando in questo modo ovunque nel mondo l’allora sconosciuto cantante Bill haley, ma al tempo stesso, proponendo per la prima volta un’associazione immediata tra i temi della ribellione e violenza giovanile e il rock ‘n’ roll. Il seme della violenza, infatti, desta scalpore nell’estate 1955 principalmente per la crudezza con la quale sono descritti sia i modi di vita della gioventù americana ribelle sia, soprattutto, la violenta quotidianità dei quartieri-ghetto presenti nelle principali città del Paese. «È il 1955, lo stesso anno di Gioventù bruciata […], il film impone definitivamente James Dean come mito di un’intera generazione. Gli studenti della scuola del Bronx in cui il professor Dadier è stato convocato per un colloquio sono acconciati come il giovane divo: ciuffo, capelli imbrillantinati pettinati all’indietro, t-shirt bianca e jeans col risvolto. sono sufficienti pochi gesti per suggerire con estrema precisione un approccio alla vita: il ballo selvaggio e disordinato nel cortile della scuola, uno studente che esce a testa in giù dalla porta principale dell’edificio, i cenni strafottenti nei confronti del nuovo insegnante, la sigaretta in bocca o appoggiata dietro le orecchie, i fischi di approvazione verso una giovane donna che transita sul marciapiede adiacente. […] a metà degli anni Cinquanta, la parola “Rock ‘n’ Roll” è sinonimo di emergenza giovanile»27.
Questo universo tanto “scandaloso”, comunque, è inquadrato nel film dal punto di vista progressista del giovane professore interpretato da Glenn Ford, impegnato in un autentico itinerario esistenziale che gli fa superare, pian piano, le diffidenze iniziali nei confronti dei riluttanti studenti della high school newyorkese nella quale va a insegnare. Emblematico, da tale punto di vista, è il rapporto col ribelle per antonomasia del film, il personaggio dello studente nero Gregory Miller che lancia sul grande schermo un giovane ma già molto bravo sidney Poitier: la relazione tra i due, resa ancora più intensa ed espressiva proprio dall’utilizzo simbolico che del rock ‘n’ roll si fa nel film, si evolve, infatti, da una reciproca diffidenza e un contrasto profondo a una maggiore comprensione e collaborazione. Dal punto 27
Umberto Mosca, Cinema e rock, Utet, Torino, 2008, pp. 5-6.
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di vista narrativo, sembra quasi una metafora della percezione sociale e culturale che si ha del rock ‘n’ roll all’epoca di uscita de Il seme della violenza. Di poco successive al grande successo del film di Brooks, però, sono due pellicole prodotte da sam katzman e dirette dall’onesto artigiano Fred F. sears a inaugurare il filone della cosiddetta exploitation basata sul binomio tra ribellione e musica giovanile: Teenage Crime Wave (1955) e l’omonima Rock Around the Clock (senza tregua il rock ‘n’ roll, 1956). In particolare, mentre il primo film si concentra soprattutto sui temi della devianza minorile, in questa seconda pellicola – niente più che una stereotipata commediola musicale imperniata sulla scalata di una band verso il successo, grazie alle nuove, scatenate sonorità – Bill haley and his Comets cantano, oltre alla già nota canzone del titolo originale, anche See You Later Alligator e Razzle Dazzle, mentre i Platters eseguono Only You e The Great Pretender. Da questo momento, diventa normale, per attirare al cinema il pubblico più giovane, utilizzare esplicitamente brani rock all’interno delle colonne sonore dei film, proprio per favorire la maggiore identificazione possibile con una platea sempre più affascinata dalla nuova musica. si inaugura, tra mondo del cinema e mondo del pop-rock, un rapporto forte basato su regole non scritte ma già ben definite. «L’attrazione tra registi e pop star non è un mistero. I nomi famosi del pop mettono a disposizione – almeno in teoria – il carisma e il pubblico, mentre i film offrono loro l’occasione per apparire sotto i più diversi aspetti e per prolungare la propria vita lavorativa oltre i capricci affettivi dei teenager»28. Cinema e musica rock si compenetrano tra loro, dunque, all’insegna di una nuova estetica giovanilistica che cavalca i malesseri generazionali del periodo con una ricetta accattivante fatta di ribellione e violenza, qualche riferimento sessuale e, naturalmente, sonorità aggressive che miscelano, in modo per l’epoca socialmente “eversivo” e “politicamente scorretto”, musiche nere e bianche come il rhythm ‘n’ blues e il country. Conseguentemente, i film del periodo iniziano a interrogarsi sulla natura stessa del rock ‘n’ roll, sui suoi “valori” e «[…] sul profilo dei suoi interpreti, ponendosi sin da subito il proble28 Ben Thompson, “Pop and Film: The Charisma Crossover”, in: Jonathan Romney e adrian Wootton (a cura di), Celluloid Jukebox. Popular Music and the Movies Since the 50s, British Film Institute, London, 1995, p. 33.
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ma della reazione dello spettatore di fronte a questa nuova forma di espressione»29. In particolare, il cinema prova, in qualche modo, a trovare la collocazione più adatta alla nuova musica nel più ampio contesto della cultura di massa, cercando di decodificarne l’eventuale rapporto con i valori della tradizione e, al tempo stesso, l’impatto di una forza di rottura che già s’intuisce essere sconvolgente. Così, un aspetto significativo della rappresentazione del rock ‘n’ roll nel cinema americano di questo periodo «[…] è costituito dalla definizione del carattere fisico della musica attraverso i personaggi che la interpretano. In un film come Il seme della violenza emergono caratteri di istinto, selvatichezza e minaccia a sfondo sessuale, mentre in Gangster cerca moglie prevale il dato della provocante sensualità, così come nei primi film con Elvis Presley (Fratelli rivali, Il delinquente del rock ‘n’ roll, La via del male), dove si pone puntualmente il problema del controllo di un’esuberante fisicità. sin dal principio, il Rock ‘n’ Roll e le istanze narrative che di volta in volta sono incaricate di interpretarne lo spirito vengono immersi in una situazione in cui prevale la dimensione della vita concreta, vissuta e reale»30.
Il successo de Il seme della violenza convince i produttori hollywoodiani a tuffarsi a pesce nel nuovo filone, intuendone gli enormi margini di redditività: iniziano, così, a proliferare i film musicali rivolti a un pubblico di teenagers, spesso interpretati proprio da adolescenti o da attori che fingono di esserlo. Tra i produttori più veloci a cogliere le potenzialità del teen-rock movie c’è, senz’altro, il già citato sam katzman, classica figura di self-made man capace di farsi le ossa a hollywood dall’età di tredici anni, lavorando in tutti i ruoli e salendo un gradino alla volta. «Per la sua abilità nel produrre film in tempi brevissimi e con budget ridotti all’osso si guadagna il titolo di “king of the Quickies”, re dei film economici, pellicole che per lo più servono da “secondo” spettacolo, in accompagnamento a un titolo più rilevante»31. Nel 1956 katzman perfeziona la sua formula, producendo per la Columbia il succitato Senza tregua il rock ‘n’ roll e Don’t Knock the
29
Umberto Mosca, Cinema e rock, cit., p. 3. Ibidem. 31 augusto Morini, “Gli anni ‘50”, in: simone arcagni e Domenico De Gaetano, Cinema e rock. Cinquant’anni di contaminazioni tra musica e immagini, Gs Editrice, santhià (Vicenza), 1999, p. 25. 30
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Rock (I frenetici, 1956), entrambi diretti da Fred F. sears, regista che a sua volta si specializza nel genere, tanto da dirigere una decina di pellicole imperniate su storie di adolescenti più o meno ribelli e violenti, sentimentalismo a buon mercato e nuovi suoni rock. «Le trame sono molto semplici e lineari, se non addirittura inesistenti, e servono da semplice pretesto per poter esibire i cantanti di rock ‘n’ roll ma, soprattutto all’inizio, si cerca anche in qualche modo di “giustificare” il nuovo ritmo travolgente e di “spiegare” che, in realtà, non è poi così violento come sembra essere»32. Non è un caso, allora, che in alcuni di questi film – impegnato proprio in una funzione esplicativa evidentemente ritenuta indispensabile – reciti anche il celebre disc jockey alan Freed, il quale compare, infatti, in Senza tregua il rock ‘n’ roll e ne I frenetici, oltre che in altre tre pellicole emblematiche come Rock Rock Rock (Il re del rock and roll, 1956) di Will Price, Mister Rock and Roll (Id., 1957) di Charles Dubin e Go, Johnny, Go! (Dai, Johnny, dai!, 1958) di Paul Landres. La figura di Freed riveste grande importanza in questi primi anni “rockeggianti”. Disc jockey radiofonico popolarissimo negli stati Uniti del periodo, infatti, alan Freed è considerato addirittura l’inventore della definizione “rock ‘n’ roll”, termine che lui utilizza già nella seconda metà del 1951 durante il suo show di successo trasmesso dalle frequenze della radio WJW di Cleveland, «[…] quando decide di dare spazio nella sua trasmissione ai dischi di r ‘n’ b. Per evitare però noie di carattere razziale33, pensa di ribattezzare questo genere usando due parole che ricorrono spesso, con sottintesi di natura sessuale, nei testi di queste canzoni: “rock” e “roll”. La sua trasmissione alla WJW dal titolo Moondog House Show […] diventa ora il Moondog Rock ‘n’ Roll Party e la popolarità di Freed cresce di pari passo con quella del rock ‘n’ roll»34.
Il disc jockey, tra l’altro, ha anche il merito di organizzare il primo mega-raduno rock della storia: è il 21 marzo 1952 e alla Cleveland arena è previsto lo svolgimento del Moondog Coronation Ball, per il quale Freed ha ingaggiato star come i Dominoes e artisti meno noti 32
Ivi, p. 20. Il rhythm ‘n’ blues, in questi anni, è ancora considerato unicamente una “musica per neri”, tanto che i suoi dischi sono relegati nel settore dei race records all’interno dei negozi di musica. 34 Gianluca Testani e Mauro Eufrosini, Enciclopedia del rock. Tutti i protagonisti e gli album dalle origini a oggi – Volume 4, arcana / Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006, p. 1166. 33
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come Tiny Grimes and the Rockin’ highlanders, Vanetta Dillard e Danny Cobb. «alla fine l’autentico protagonista della serata fu il pubblico: 25.000 persone stipate in uno spazio che poteva contenerne al massimo 10.000. Porte e finestre andarono distrutte, intervenne la polizia e il concerto fu interrotto. Il rock ‘n’ roll si era guadagnato i primi titoli sui giornali»35. La parabola di alan Freed si sviluppa in parallelo con quella del rock ‘n’ roll più “selvaggio” e genuino degli anni 1955-1957: la sua è una figura chiave e al tempo stesso un simbolo di questo primo periodo. a partire dal 1958, come vedremo, tutto cambierà, sia per Freed che per la “nuova” musica. Tornando al rapporto sempre più saldo tra cinema e rock ‘n’ roll, va segnalato a partire dal 1956 un ulteriore intensificarsi di questo tipo di produzioni, prevalentemente destinate al sempre più ramificato circuito dei drive-in suburbani. Tra i titoli di successo del periodo spiccano, oltre a quelli già citati in precedenza e a quelli interpretati da Elvis Presley (oggetto di una successiva analisi), anche Shake, Rattle and Rock (Processo al rock and roll, 1956) di Edward L. Cahn, Rock, Pretty Baby (Gli indiavolati, 1956) di Richard Bartlett, l’originale musical The Girl Can’t Help It (Gangster cerca moglie, 1956) di Frank Tashlin (ne parleremo più avanti, perché presenta aspetti peculiari decisamente interessanti), Untamed Youth (Ragazze senza nome, 1957) di howard W. koch, Jamboree (1957) di Roy Lockwood, Rock All Night (1957) di Roger Corman: film spesso molto simili tra loro, con titoli generalmente tratti da canzoni “gettonatissime”36 e presenza massiccia dei più amati divi rock del tempo (tra i più coinvolti, ci sono il già citato Bill haley, Little Richard, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Fats Domino, Carl Perkins, i Platters, Eddie Cochran). La struttura di queste pellicole è costruita in modo tale da produrre uno sviluppo delle risibili trame inteso unicamente come legame tra le varie sequenze delle scatenate esibizioni canore degli artisti rock. E riflettendoci bene, il meccanismo di questi film, come in ogni prodotto di exploitation che si rispetti, appare pressoché identico a quello dei porno, nei quali le sequenze “di raccordo” non hanno alcun valore drammaturgico se non quello di legare tra loro i momenti dell’atto sessuale più o meno esplicito: qui accade la stessa cosa con le esibizioni 35 Mark Paytress, Io c’ero. I più grandi show della storia rock & pop, Giunti, Firenze, 2007, p. 17. 36 Nel senso letterale del termine, in quanto ascoltate soprattutto inserendo gli appositi gettoni (o monete) nelle fessure dei juke-box massicciamente presenti nei locali pubblici e nei luoghi di ritrovo e d’intrattenimento.
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rock, che costituiscono certamente i momenti più attesi – o forse gli unici – da parte dei giovani spettatori.
Roger Corman e la rock exploitation Maestro in questo genere di film diventa, ben presto, il “rampante” Roger Corman, un giovane e già attivissimo cineasta nato a Detroit il 5 aprile 1926 e destinato a lasciare una traccia profonda sull’evoluzione del cinema americano e mondiale37. Nei cinque anni compresi tra il 1955 e il 1960, Corman realizza addirittura 23 film, attraversando tutti i generi più o meno conosciuti, tra i quali il teen-rock movie, con costi di produzione ridotti all’osso e tempi di realizzazione talmente veloci da permettergli, spesso, di girare più film con gli stessi attori, pagandoli per la durata di un’unica scrittura. I film di Corman possono essere orgogliosamente definiti exploitation, termine al quale il critico cinematografico Roberto silvestri, in un suo importante saggio dedicato al regista, associa i concetti di «utilizzazione, sfruttamento, strumentalizzazione dei bisogni primari d’immaginario»38. E silvestri prosegue: «sono film che promettono più di quello che ti faranno vedere. sono film che è meglio raccontare che osservare. Ma non devono solo ipnotizzare la sottocultura giovanile, devono influenzarla, creare mode, manie e personaggi. sono film il cui fuori campo e fuori testo è più suggestivo ancora delle paure, delle basse pulsioni e delle fughe d’immaginario che suscitano. Ma devono essere “sfatti” in un certo modo, “trash” glorioso, che riluccichi nell’immondizia che ci circonda. L’exploitation film che rinasce nei primi anni ‘50 a mano a mano che si smantella il codice hays di autocensura ha illustri padri nella preistoria del cinema muto, passa nella clandestinità durante il new deal (ma se si scheggia
37 L’importanza di Roger Corman nel processo di rinnovamento del cinema statunitense appare oggi enorme: figura di cineasta “totale”, infatti, egli ha non soltanto lanciato gli uomini di cinema responsabili della Hollywood Renaissance durante i decenni settanta e Ottanta – cioè i vari Francis Ford Coppola, Martin scorsese, Robert De Niro, Jack Nicholson, Dennis hopper, Jonathan Demme, Joe Dante, James Cameron, sylvester stallone; per citarne solo alcuni – ma, più in generale, ha influenzato in modo profondo l’immaginario di coloro che oggi reggono, con le loro produzioni, le sorti del cinema in america e nel mondo: bastino i nomi di John Landis, David Lynch, steven spielberg, George Lucas, Brian De Palma, Rob Reiner, Joel ed Ethan Coen, sam Raimi, John Carpenter, Robert Zemeckis, Tim Burton, kathryn Bigelow, Quentin Tarantino e Robert Rodriguez. 38 Roberto silvestri, “Exploitation Corman. Le mani del tempo”, in: Emanuela Martini (a cura di), Roger Corman 1, Bergamo Film Meeting, Bergamo, 1991, p. 46.
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tra i gangsters movies e tra i dead end kids qualcosa si scopre) e nelle riviste anni ‘40 tipo Sensation»39.
servendosi di uno staff tecnico ricorrente composto da Floyd Crosby alla fotografia (è il grande operatore di Murnau e Flaherty, Premio Oscar 1931), Charles Griffith alla sceneggiatura e Daniel haller alla scenografia, Corman lavora a ritmo serratissimo, prevalentemente per una nuova società, fondata appena nel 1954 da samuel Z. arkoff e James h. Nicholson: si tratta della ormai “mitica” aIP, l’american International Pictures. I due fondatori mostrano immediatamente – in questo, ben assecondati proprio da Corman – un grande coraggio nelle scelte e, soprattutto, una enorme capacità di fiutare le tendenze del mercato e, di conseguenza, adattarvisi cambiando di continuo pelle e strategia. In tal modo, la piccola e agile aIP riesce ad attraversare da protagonista più di un ventennio di storia del cinema americano e mondiale. L’intuizione che, in particolar modo, determina la fortuna commerciale dello studio di arkoff, Nicholson e Corman è quella che li porta, una volta analizzato accuratamente il mercato di riferimento, a specializzarsi non in un genere o in un filone, ma in una precisa fetta di consumo, cioè quella compresa tra i 13 e i 25 anni. In ciò alla aIP sono di gran lunga più veloci rispetto alle majors: il loro obiettivo, infatti, diventa ben presto il “popolo dei drive-in”, quello composto dai teenagers motorizzati che, ormai, rappresentano, col nuovo e accresciuto potere di acquisto che li contraddistingue, un enorme mercato vergine, ancora in buona parte inesplorato dalle produzioni cinematografiche degli studios principali. «Non ho mai capito per quale ragione – s’è chiesto, in seguito, lo stesso Roger Corman – passarono più di quindici anni prima che le major si decidessero a investire in film per l’estate, destinati al pubblico giovanile. Jim e sam ci arrivarono subito»40. La ricetta dei teen-rock movies firmati Corman e realizzati per la aIP ma anche per altri marchi indipendenti come howCo International e allied artists è molto semplice: protagonisti adolescenti, tanto rock ‘n’ roll, un po’ di malessere e violenza giovanile, bassi costi e alta velocità di realizzazione, durata compresa tra i 60 e i 75 minuti. Nascono così, in rapida sequenza, pellicole come il già citato Rock All Night, Sorority Girl (1957), Teenage Doll (1957) e Carnival Rock 39
Ivi, pp. 46-47. Roger Corman (in collaborazione con Jim Jerome), Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro, Lindau, Torino, 1998, p. 60. 40
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(1957). Quando viene distribuito il primo di questi titoli, Rock All Night, Roger Corman ha già diretto altri tredici film e può, quindi, contare su una professionalità ormai già ben consolidata. «Erano previsti sette giorni di riprese, ma ci furono – racconta Corman – diverse complicazioni. La aip aveva scritturato i Platters, che dovevano cantare e anche apparire in alcune scene. Ma ci fu un errore nel piano di lavorazione, in quei giorni i Platters erano in tournée e non poterono venire a hollywood. Dovemmo eliminarli dalla sceneggiatura dal giorno alla notte, girare il resto del film e aspettare che fossero disponibili almeno per una parte della storia. alla fine riuscii a portarli per un giorno in uno studio, dove cantarono in playback due canzoni»41.
Protagonista della pellicola è Dick Miller, che interpreta shorty, un giovane disadattato dalla bassa statura ma dall’elevata carica di aggressività che lo fa cacciare continuamente nei guai. Il film si svolge quasi completamente all’interno di un rock-bar, al’s Place, dove un assassino prende i clienti in ostaggio. Ovviamente, sarà proprio shorty a risolvere la faccenda, riuscendo persino a conquistare la cantante del locale. strutturalmente chiuso e ambientato quasi in un unico interno, ma con un ritmo narrativo estremamente fluido, il film propone numerosi brani rock in sottofondo, soprattutto dei succitati Platters e dei Blockbusters. I due successivi teen movies cormaniani, Sorority Girl e Teenage Doll, lasciano un po’ da parte il rock ‘n’ roll per concentrarsi soprattutto sui temi della devianza giovanile. Il primo è un atipico college movie, nel quale sabra, interpretata da un’aggressiva e cattivissima susan Cabot, è una ragazza “facile” con problemi d’inserimento nel Campus e conseguente reazione violenta ai danni di alcune sue compagne. Il secondo Teenage Doll propone, invece, una interessante rilettura dei film di bande, con una ragazza capobanda e una coraggiosa inversione dei ruoli tradizionali: vi si racconta la storia di Barbara (che ha il volto di June kennery), capo della gang delle Vandelettes, la quale uccide una ragazza della banda rivale e, quindi, deve vedersela con gli amici della morta. I bianchi e neri decisi della fotografia di Floyd Crosby, perfetti per creare la giusta atmosfera delle strade notturne luccicanti sotto la pioggia, rendono questa pellicola una tra le più interessanti di Corman dal punto di vista formale.
41
Ivi, p. 61.
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Il regista ritorna al rock ‘n’ roll con Carnival Rock, che infatti presenta una colonna sonora piena di successi di artisti come Platters, shadows, Blockbusters e Frankie Ray. Il film propone un classico triangolo amoroso: ne sono protagonisti un ex comico di music hall, Christy Christakos (David J. stewart), che apre un locale per teenagers vicino al mare; Natalie Cook (susan Cabot), la cantante di questo nuovo night-club; stanley (Brian G. hutton), un giocatore di carte professionista del quale è innamorata Natalie. Tra i due uomini, entrambi invaghiti della cantante, iniziano contrasti e provocazioni, che culminano in una partita a carte nella quale Christy perde il locale. Come si può ben immaginare, comunque, la trama resta poco più di un pretesto, per dare un minimo di forma drammaturgica alla successione di brani rock eseguiti dai tanti artisti che cantano e suonano nel locale. In ogni, caso, però, fa notare acutamente uno studioso attento e raffinato come Franco La Polla, «[…] Corman può vantare a sua personale caratteristica una continua rielaborazione dell’arsenale povero del B-movie di genere specifico. […] Non si limita a riprodurre i modelli poveri del B-movie, ma li esaspera in una direzione che […] è comparabile a certi procedimenti dell’avanguardia artistica contemporanea. sia ben chiaro: non si tratta minimamente di parodia. Corman non intende burlarsi di nulla; la sua è piuttosto un’operazione seria che sfocia in un risultato ironico»42.
Pur nella loro fragilità narrativa, comunque, tutti questi film indipendenti, cormaniani e non, si caratterizzano quasi sempre per una freschezza e una sincerità che ben accompagnano, e probabilmente favoriscono, l’esplosione del rock ‘n’ roll negli anni compresi tra il 1955 e il 1957. seppure in ritardo, poi, anche gli studios hollywoodiani si buttano sul “mercato” dei teen-rock movies, causando, però, una probabilmente inevitabile normalizzazione del genere, parallela a quella in atto nei confronti della “nuova” musica. Un primo segnale in tale direzione lo si ha già nel 1956, quando Frank Tashlin – talentuoso specialista della commedia hollywoodiana, in seguito regista dei migliori film della coppia formata da Jerry Lewis e Dean Martin – dirige per la Twentieth Century Fox Gangster cerca moglie, l’opera nella quale, suggerisce Umberto Mosca, «[…] si registra 42
Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino, 1999, pp. 47-48.
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la normalizzazione di questo genere musicale nell’immaginario collettivo»43, nel senso che viene reso evidente «[…] come il cinema consideri questo genere di musica una componente culturale imprescindibile nell’america della metà degli anni Cinquanta. Un elemento che vale la pena inserire in un contesto narrativo più ampio per trarne ulteriore spettacolo»44. Insomma, in Gangster cerca moglie viene chiaramente espressa una visione del rock ‘n’ roll e del suo ruolo concentrata «[…] sugli aspetti più omogenei a quella dimensione di show e di puro intrattenimento che caratterizza il mondo dello spettacolo tout court, fissandone più gli aspetti di continuità con stili musicali precedenti che non quelli di rottura o di irriducibilità. Qualcosa di nuovo, dunque, ma anche qualcosa di ampiamente assorbibile e controllabile»45. Non a caso, allora, Tashlin inserisce il rock ‘n’ roll all’interno di quello che, dal punto di vista estetico, è a tutti gli effetti un musical classico, quindi riconducendone i caratteri di rottura e novità a un immaginario tradizionale già ampiamente consolidato da decenni di cinema hollywoodiano. Gangster cerca moglie ruota intorno ai tentativi di un gangster un po’ in disarmo, il Fats Murdock interpretato da Edmond O’Brien, di trasformare la sua amichetta Gerry Jordan (che ha il volto e il fisico della prorompente Jayne Mansfield) in una star musicale, grazie ai servigi dell’agente artistico Tom Miller (Tom Ewell), specializzato in grossi lanci promozionali. Naturalmente, la ragazza non presenta alcuna dote oltre a quelle fisiche; così il manager decide di farla sfondare proprio nel rock ‘n’ roll. Costruito su una serie di divertenti equivoci tipici della screwball comedy, il film non evita di sottolineare, dunque, quanto scarse siano – nella comune percezione dell’epoca – le qualità artistiche di coloro che si cimentano col rock. appare paradossale e beffardo, allora, che di questa simpatica commedia restino nella memoria, assieme alla fisicità mozzafiato della Mansfield, soprattutto gli innumerevoli numeri musicali affidati a rockers della prima ora del calibro di Little Richard, Fats Domino, Gene Vincent, i Platters, Eddie Cochran, abbey Lincoln. sia hollywood che i produttori indipendenti continuano, comunque, a sfruttare il filone del teen-rock movie finché possono. Però, poiché una legge non scritta dell’industria dell’intrattenimento vuole 43 44 45
Umberto Mosca, Cinema e rock, cit., p. 10. Ibidem. Ibidem.
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che anche i fenomeni sociali spontanei, nel momento in cui incontrano il favore di un ampio pubblico, vengano inglobati e riprodotti artificialmente, dopo essere stati debitamente “ripuliti” e resi più presentabili, ciò accade ovviamente anche al rock ‘n’ roll delle origini, che da fenomeno “antagonista”, socialmente eretico e politicamente scorretto – prima di tutto perché contamina musica bianca e black music – diventa, sul finire del decennio, puro frivolo intrattenimento. È per questo che, anche al cinema, si passa dallo spirito eversivo dei vari Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis e compagnia a una sorta di “restaurazione” affidata ai Pat Boone, Neil sedaka, Paul anka, Tommy sands, Fabian, Bobby Darin, Connie Francis, Frankie avalon e annette Funicello, teen idols popolarissimi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei sessanta, quando sono presenti in diverse decine di film che, ben presto, vanno a costituire un vero e proprio nuovo sottogenere all’acqua di rosa: il beach movie, così denominato proprio per il ricorrente ricorso a inoffensive storie “da spiaggia”. È in questo momento che si esplicitano per la prima volta tutte le contraddizioni che, invece, sono insite nel rock ‘n’ roll stesso, fin dalla nascita in continuo oscillare tra arte e merce, «esigenze espressive e di mercato, spontaneità e calcolo, cultura e industria, sovversività e organizzazione di consenso»46. E tali contraddizioni sono incarnate in modo straordinariamente fedele nella figura artistica e umana di Elvis Presley. «[…] Divenuto il più potente idolo giovanile mai apparso, fa di tutto per frenare gli aspetti più ribellistici del suo personaggio. Quando viene chiamato alla leva, accetta di buon grado, sfruttando l’occasione per dimostrarsi buon patriota e bravo cittadino. In qualche modo, da “rivoluzionario”, sebbene in gran parte istintivo, si trasforma in conservatore, inaugurando una dinamica che sarà spesso presente nella storia del rock. anche i suoi tanti film, sdolcinati e banali, sembrano andare in questa direzione rassicurante. Mai nella storia del rock, che pure di voltafaccia ne ha visti tanti, si è visto nello stesso personaggio un tale miscuglio di ribellismo e conservatorismo. Le sue prime performance sono le più sboccate e inquietanti che si siano mai viste sulla scena pop, ma poi non si tira indietro all’idea di incidere O’ sole mio in inglese; faceva abuso di droghe di ogni tipo, ma appena poté fece di tutto per diventare un poliziotto onorario. Era uso a praticare disinvoltamente un bel numero di perversioni sessuali, ma volle una moglie vergine, scelta bambina e tenuta in serbo per lui fino al momento del matrimonio»47. 46 47
Gino Castaldo, La Terra Promessa, Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 23-24. Ivi, pp. 61-62.
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Elvis Contrariamente all’idea comune che si può avere riguardo agli idoli degli anni d’esordio del rock ‘n’ roll, Elvis aron (poi cambiato in aaron) Presley si presenta allo sguardo critico come personaggio di rara complessità, quasi da romanzo psicologico. E questo fin dal momento della nascita, caratterizzata dalla contemporanea morte del gemello Jesse Garon, episodio che secondo molti biografi influenza in maniera determinante la personalità dell’artista, soprattutto per ciò che concerne la sua “duplicità”. Per proseguire, poi, col suo precocissimo talento e l’incredibile esordio che lo proietta immediatamente nell’empireo riservato alle star; e ancora, col rapporto viscerale e quasi morboso con la mamma e quello di amore-odio e quasi dipendenza col suo manager, il Colonnello Parker; e il controverso servizio militare, l’abuso di farmaci e anfetamine, la cronica insonnia, una tutto sommato deludente carriera cinematografica quasi subita in modo passivo, l’irrazionale generosità, il leggendario comeback del 1968, l’ossessione per il misticismo, i tristi anni del tramonto all’insegna del kitsch e dell’assoluta autoreferenzialità, col fisico appesantito e irrimediabilmente segnato dagli eccessi; per finire con la tragica scomparsa prematura (a soli 42 anni), in quello stesso 1977 che segna la rinascita della cultura giovanile alla cui esplosione lui ha massicciamente contributo appena vent’anni prima. Ma per parlare in modo più approfondito di Elvis bisogna necessariamente fare un salto all’indietro e ritornare a quando tutto ha inizio. siamo a Memphis, Tennessee. È la sera di mercoledì 6 luglio 1954. Fuori fa caldo e tutto scorre come sempre. Nessuno può immaginare che di lì a poco, in un piccolo studio di registrazione al numero 706 di Union avenue, tra la Marshall e la Manassas, si scriverà la storia. «Elvis aaron Presley, un giovane autista della ditta Crown Electric con la passione del canto, è reduce da una dura giornata di lavoro e non si è ancora ripreso dalle emozioni di quella settimana. I due giorni prima, in uno dei più noti studi della sua città, ha coronato un sogno registrando una serie di canzoni con il produttore sam Phillips, che è stato così contento delle incisioni da promettere un disco per la sua etichetta sun. […] Un giovane chitarrista, scotty Moore, un bassista anche lui di primo pelo, Bill Black: e poi Elvis, con la forza dei suoi diciannove anni, la sua voce da Roy Brown e quei modi country hillbilly però un po’ diversi, così speciali. sam Phillips era in cabina di regia, ascoltava e lasciava i registratori accesi. Una cosa informale, a ruota libera, senza una scaletta
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fissa. a un certo punto Phillips si è acceso. aveva la porta della cabina aperta, stava trafficando chissà con cosa quando ha colto Elvis che scherzava con una canzone pescata al volo dai suoi ricordi. Un vecchio rhythm & blues che non ricordava più nessuno, That’s Alright Mama di arthur “Big Boy” Crudup. anche Bill si è fatto prendere, ha afferrato il basso e gli è andato dietro: e scotty si è unito in fretta, chissà per andare dove. È stato a quel punto che Phillips ha chiuso la porta della cabina, ha messo a posto il nastro e tutto serio ha domandato: “Cosa state facendo?”. “Boh!” è stata la risposta. “Non abbiamo la minima idea”. “Be’, qualunque cosa fosse, trovate un inizio e rifatela”»48.
Questa lunga rievocazione “leggendaria” di Riccardo Bertoncelli ci serve per provare a respirare il clima febbricitante ed eccitato di un momento speciale, per riandare col cuore e magari con i sensi a una serata come tante, destinata invece a mutare per sempre il corso della popular music. Elvis Presley, nato l’8 gennaio 1935 a Tupelo nel Mississippi da Vernon e Gladys smith, è, senza ombra di dubbio, il mito più potente costruito dall’industria dello spettacolo a stelle e strisce durante l’intero Ventesimo secolo. Dal suo apparire sulla scena, intorno alla metà degli anni Cinquanta, assurge immediatamente a principale punto di riferimento per l’immaginario collettivo giovanile statunitense e mondiale. E resterà tale, “regnando” incontrastato, almeno fino alla comparsa dei Beatles. Memphis, dicevamo. I Presley vi si trasferiscono nel novembre 1948, assieme al loro unico figlio Elvis, che ha quindici anni e parecchi problemi d’integrazione nella nuova realtà. Mamma Gladys ha già regalato la prima chitarra al suo adorato figliolo, fondamentalmente per tenerlo lontano dai guai. «Elvis cantava ballate country strappalacrime, spiritual, musica della comunità. alla radio, egli ascoltava insieme alla sua famiglia l’antica musica della Carter Family e di Jimmie Rodgers, le star contemporanee come Roy acuff, Ernest Tubb, Bob Wills, hank Williams, e i gruppi di gospel bianco come i Blackwood Brothers. Elvis toccò il cuore tenero della musica americana quando ascoltò e imitò Dean Martin e la musica operistica di Mario Lanza; ascoltò i cantanti blues del Mississippi come Big Bill Broonzy, Big Boy Crudup, Lonnie Johnson e la nuova musica di Memphis di Rufus Thomas e Johnny ace, per lo più quando non c’era nessuno in giro, perché quella musica era naturalmente disapprovata»49. 48
Riccardo Bertoncelli, Storia leggendaria della musica rock, Giunti, Firenze, 1999, p. 9. Greil Marcus, Mystery Train. Visioni d’America nel rock, Editori Riuniti, Roma, 2001, p. 180. 49
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Intanto, anche sam Phillips era arrivato in città già da qualche anno, nel 1945, per lavorare come tecnico del suono e occasionale dj nella radio locale WREC, dove conosce Marion keisker, molto nota a Memphis per il suo programma radiofonico Kitty Kelly. appena cinque anni dopo, nel 1950, mentre la famiglia Presley prosegue nel difficoltoso ambientamento, sam Phillips stringe un forte legame di amicizia col suo quasi omonimo Dewey, geniale disc jockey della stazione radio WhBQ che trasmette dal Gayoso hotel. L’albergo si trova proprio in fondo alla Union dove, sei mesi prima, sam ha aperto il Memphis Recording service, un suo piccolo studio nel quale intende registrare «[…] artisti neri del sud che volevano fare un disco, e che non sapevano dove andare… ho deciso di aprire uno studio – ricorda ancora Phillips – proprio per fare dei dischi con alcuni di questi grandi artisti neri»50. I suoi dischi sam li distribuisce attraverso la piccola etichetta che fonda nel 1952, anche grazie all’aiuto dell’amica Marion: la sun Records. E la nuova casa discografica si specializza in quella stessa musica che la star Dewey Phillips trasmette in radio durante il suo seguitissimo programma: sarà proprio l’amore comune per le sonorità “black” a far avvicinare sempre di più questi due giovani uomini, destinati poi a ricoprire un ruolo fondamentale nella diffusione della musica che alan Freed sta per ribattezzare rock ‘n’ roll. Per i due si tratta di attendere appena qualche anno. Torniamo così al 1954, per la precisione alle registrazioni del diciannovenne Elvis nello studio di sam Phillips, perché da lì in poi tutto cambia a velocità incredibile. La sera del 7 luglio, infatti, un sam entusiasta porta all’amico Dewey l’acetato con una incisione del giorno prima, chiedendogli di trasmetterla durante il suo programma radiofonico: il disco contiene la versione di That’s Alright Mama cantata dal giovane Elvis. «Dalla sun hanno chiamato subito casa Presley, raccomandando di sintonizzarsi sulle onde della WhBQ: dalle 9 in avanti, ogni minuto è buono per quella favolosa “prima”. a casa Presley sono tutti eccitati. Elvis di più. Non ce la farà mai ad aspettare quell’ora e quel fatidico passaggio. […] Lui andrà al suo cinema preferito per scaricare la tensione; quella sera danno Mezzogiorno di fuoco, con Gary Cooper e Grace kelly. Chissà quale scena sta vedendo Elvis, chissà a cosa sta pensando quando con i suoi ruvidi modi da cowboy Dewey Phillips introduce al
50
Cfr. Peter Guralnick, Elvis. L’ultimo treno per Memphis, Memphis Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004, p. 17.
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pubblico della radio e all’ignaro pianeta That’s Alright Mama e il giovane, implume Elvis aaron Presley. La storia non ce lo dice. Ci dice, però, che tempo cinque minuti, dieci minuti, il centralino dell’emittente impazzisce per le chiamate del pubblico. Tutti vogliono ascoltare ancora “quella canzone” e avere qualche notizia in più su quel giovane cantante con la scossa in gola. Phillips ritrasmette il brano una, due, cinque volte, poi alza il telefono e chiama i signori Presley; che trovino il loro ragazzo e lo mandino subito in radio, a quel punto per calmare il pubblico ci vuole un’intervista. “signor Phillips, io non so cosa vuol dire essere intervistato” balbetta Elvis sulla seggiola dello studio. […] “Tranquillo, figliolo” lo rassicura il dj. “Basta che non dici parolacce. E adesso, raccontami qualcosa di te”»51.
Il primo singolo di Elvis Presley esce ufficialmente il 19 luglio 1954 e, in pochi giorni, vende più di ventimila copie, prevalentemente nelle zone intorno a Memphis. Il disco contiene su un lato That’s Alright Mama e sull’altro Blue Moon of Kentucky, rispettivamente un blues con influenze country e un country con influenze blues, inusuale ma assolutamente voluto accoppiamento che, per una precisa scelta stilistica, sarà mantenuto anche nei successivi singoli di Elvis su etichetta sun52, coerentemente col sogno di sam Phillips di riunire musica nera e bianca in un unico interprete bianco che canti e abbia il feeling di un nero. Greil Marcus definisce, giustamente, questa “nuova” musica prodotta dalla sun Records «[…] minacciosa, divertente, piena di ritmo e scoppiettante di esuberanza, determinazione e urgenza, piena di novità cosciente di sé e di sperimentazione. Molti degli stili del primo rock ‘n’ roll – prosegue Marcus – erano variazioni di forme nere che si erano sviluppate prima che il pubblico bianco vi si avvicinasse e forzasse queste forme a diventare tali»53. In questi brani, la voce di Elvis, amplificata dall’eco, è incisiva e tagliente come una lama, tanto da provocare la pelle d’oca, mentre la chitarra di scotty Moore e il basso di Bill Black imprimono un ritmo esaltante e assolutamente innovativo. I suoi dischi iniziano a essere sempre più presenti sugli scaffali dei negozi del sud degli stati Uniti, mentre Elvis – che, nel frattempo, inserisce anche il batterista D.J. Fontana nella sua piccola band – si tuffa in una intensissima attività “live”, costruendosi una popolarità sempre più solida, concerto dopo 51
Riccardo Bertoncelli, Storia leggendaria della musica rock, cit., p. 10. settembre 1954: Good Rockin’ Tonight / I Don’t Care If the Sun Don’t Shine; gennaio 1955: Milkcow Blues Boogie / You’re a Heartbreaker; aprile 1955: Baby Let’s Play House / I’m Left You’re Right She’s Gone; agosto 1955: Mystery Train / I Forgot to Remember to Forget. 53 Greil Marcus, Mystery Train. Visioni d’America nel rock, cit., p. 185. 52
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concerto. I resoconti di queste prime esibizioni dal vivo sono concordi e «[…] fanno pensare ad un conato di pura energia, a un elettrico spasmo erotico, che a metà degli anni cinquanta dovette sembrare una deflagrazione incontrollabile»54. Nel biennio 1954-1955, Elvis si esibisce in più di duecento show dal vivo, anche se sempre negli stati meridionali, consolidando comunque la sua fama soprattutto grazie all’indubbia spettacolarità delle esibizioni e a una presenza scenica rivoluzionaria quanto il modo di cantare e interpretare i vari brani. Modo di cantare che, peraltro, si evolve costantemente almeno fino al 1956. «Lo stile canoro che Elvis tirò fuori tra il 1955 e il 1956 era rivoluzionario come quelli che avevano inventato Louis armstrong negli anni Venti, hank Williams negli anni Quaranta e Ray Charles più o meno nello stesso periodo di Elvis: un vocabolario canoro straordinario. Molte delle sue caratteristiche di maggior rilievo si possono ritrovare in forma leggermente meno esagerata nello stile di Clyde McPhatter dei Drifters, specialmente nella hit del 1953 Money Honey, reinterpretata anche da Elvis per la sua prima session per la RCa; ma nel suo caso c’era qualcosa di nuovo, una sorta di parodia, forse addirittura una parodia di se stesso, un’esagerazione che giustificava il famoso commento di Elvis, “Non assomiglio a nessuno”. Gli ingredienti principali di questo vocabolario erano due approcci completamente diversi ai registri più alti e a quelli più bassi: un trillo baritonale che risuonava come se qualcuno lo stesse pestando sul petto, e un tenore così puro da risultare spettrale. Questa miscela era condita da un singhiozzo ancora più brusco della voce rotta dal pianto brevettata da hank Williams (e resa celebre da Lovesick Blues), una disinvoltura con le blue notes che pochi altri cantanti bianchi avevano mai mostrato»55.
La voce di Elvis, dunque, è qualcosa di realmente mai sentito prima. E molto significativo, a tal proposito, è il ricordo-omaggio di Robert Plant, il cantante dei Led Zeppelin dotato a sua volta di una tra le voci maschili più belle dell’intera storia del rock: «[…] questa voce, che era assolutamente al posto giusto. Una voce sicura, insinuante, che non faceva prigionieri. Possedeva quei grandiosi urli e quei momenti in picchiata, quelle tenute, quel modo di avventarsi sulla nota come un uccello predatore»56. 54
Gino Castaldo, La Terra Promessa, cit., p. 53. hugh Barker e Yuval Taylor, Musica di plastica. La ricerca dell’autenticità nella musica pop, Isbn Edizioni, Milano, 2009, p. 85. 56 Robert Plant, Elvis Presley / Dossier I migliori 100 cantanti di tutti i tempi, in: «Rolling stone Magazine» n.° 64, febbraio 2009, p. 49. Per la cronaca, nel referendum tra addetti 55
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Il 16 aprile 1955 avviene il fondamentale incontro col “Colonnello” Thomas Parker, che diventa suo manager e, in tale ruolo, contribuisce più di chiunque altro alla leggenda di Elvis Presley, ma anche a quel massiccio sfruttamento commerciale che, probabilmente, va annoverato tra le concause della crescente insoddisfazione esistenziale che favorisce, poi, il precoce e irreversibile declino del “re del rock ‘n’ roll”. Nel 1955, però, Elvis è ancora in piena, irresistibile ascesa: le vendite dei dischi aumentano, le esibizioni dal vivo s’infittiscono, inizia a fare capolino negli show televisivi, anche le radio al di sopra della Mason-Dixon Line57 cominciano a programmare i suoi brani con un successo travolgente ovunque. sulla scia di questi trionfi, il Colonnello Parker – che dall’estate diventa, a tempo pieno, il manager del giovane artista – riesce a negoziare un lucroso contratto con la major RCa Victor, la quale si aggiudica il cantante per la somma di quarantamila dollari, «[…] venticinquemila versati dalla RCa e quindicimila dalla casa editrice hill and Range […] che acquisisce i diritti delle canzoni di Presley. Di questa cifra, trentacinquemila dollari vanno a Phillips, mentre cinquemila (per royalties arretrate) finiscono direttamente a Presley, che comprerà la prima di molte Cadillac»58. In seguito al cambio di etichetta, la RCa ripubblica i cinque singoli sun e, il 10 e 11 gennaio a Nashville, porta Elvis in studio di registrazione per una nuova session, dalla quale è tratto il singolo contenente Heartbreak Hotel e I Was the One. Il disco diventa il primo million seller del cantante, entra in classifica a marzo e rimane al primo posto per otto settimane, diventando disco dell’anno. Ma durante quello stesso anno sono ben undici le presenze di Elvis nella Top 40 di Billboard, sia con i lati a che con i lati B dei suoi singoli: oltre ai già citati due pezzi del disco d’esordio su RCa, vanno menzionati altri brani celeberrimi come Blue Suede Shoes, I Want You I Need You I Love You, Don’t Be Cruel, Hound Dog e Love Me Tender. In cinque casi, le canzoni arrivano al primo posto in classifica, per un totale di venticinque settimane, record che lo stesso Elvis supera l’anno dopo. «Tutto quello che Elvis ha inciso nel 1956 è l’arcadia del rock ‘n’ roll, ai lavori, pubblicato in questo numero della rivista, Elvis s’è piazzato al terzo posto, preceduto da aretha Franklin (1°) e Ray Charles (2°). 57 Ci si riferisce alla linea di confine tra Pennsylvania e Maryland tracciata da Charles Mason e Jeremiah Dixon nel Diciottesimo secolo, poi divenuta simbolo di separazione tra stati del Nord e stati del sud. 58 Gianluca Testani e Mauro Eufrosini, Enciclopedia del rock. Tutti i protagonisti e gli album dalle origini a oggi – Volume 8, cit., p. 2281.
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il massimo punto di riferimento, il santino di pura e innocente energia a cui tutti, o quasi, pagheranno il tributo»59. Un’ascesa così inarrestabile, per poter essere meglio compresa, va certamente inserita nel più ampio contesto storico-sociale dell’epoca. La pensa così un importante teorico della popular music come Richard Middleton, secondo il quale il successo del giovane cantante è dovuto a come Elvis, «[…] prendendo una serie di elementi musicali, testuali ed esecutivi preesistenti, li riarticolò in un nuovo modello determinato dall’intersezione e intermediazione di certe immagini di classe (proletaria), di etnicità (afroamericano/bianco povero), di età (i “giovani”), di sesso (maschile) e di nazionalità (il sud degli stati Uniti). Il principio articolatorio, che governa il significato sociale di questa musica per il suo pubblico, deve essere definito nei termini di una congiunzione fra nuove rappresentazioni di svago, corpo, rapporti fra i sessi e consumo capitalistico, legati a loro volta alla posizione socio-economica effettivamente nuova di questo pubblico nella società capitalistica del dopoguerra»60.
Tale successo, comunque, ha come conseguenza quasi inevitabile l’approdo di Elvis a hollywood; inevitabile soprattutto se si è gestiti da un manager abile e rapace come il Colonnello, che fa di tutto per accrescere in modo esponenziale guadagni e popolarità del suo assistito. Il 1956, dunque, è anche l’anno del debutto cinematografico di Elvis Presley, che appare tra i protagonisti di Love Me Tender (Fratelli rivali, 1956), pellicola senza nessuna pretesa diretta da Robert D. Webb e costruita su misura per far conoscere al pubblico le doti canore del giovane artista. «Nell’imminenza di qualcosa che non aveva mai sperimentato prima, sembrava stranamente sereno – ma perché non avrebbe dovuto esserlo poi? Tutto quello che aveva sempre sognato finora si era avverato. “ho studiato Marlon Brando”, confidò a Lloyd shearer quando shearer era arrivato a Memphis per scrivere un articolo per il “sunday Parade” il mese prima. “ho studiato il povero Jimmy Dean. ho fatto uno studio su me stesso, e so perché le ragazze, almeno quelle più giovani, ci seguono con tanto entusiasmo. siamo tetri, sempre immersi nei nostri pensieri, e siamo una specie di minaccia. Non so nulla di hollywood, ma so che non sei sexy se ridi. Non puoi essere un ribelle se sorridi”»61. 59 Ernesto assante e Gino Castaldo, 33 dischi senza i quali non si può vivere. Il racconto di un’epoca, Einaudi, Torino, 2007, p. 391. 60 Richard Middleton, Studiare la popular music, Feltrinelli, Milano, 2007 (seconda edizione), p. 29. 61 Peter Guralnick, Elvis. L’ultimo treno per Memphis, cit., p. 347.
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Nel filmetto, un western di serie B ambientato ai tempi della Guerra di secessione, Elvis interpreta Clint Reno, il fratello minore di Vance (Richard Egan), un reduce che, tornato a casa, lo trova fidanzato con la sua ragazza Cathy (Debra Paget). Da qui, ovviamente, scaturiscono forti conflitti tra i due fratelli. Interessante, in un film per il resto assolutamente trascurabile, è la scelta di inserire Elvis in un contesto “altro”, cioè quello rurale dell’america ai tempi della guerra civile; e, soprattutto, la scelta di far morire il suo personaggio: quasi a dimostrazione di come il cinema intenda rivendicare la propria autonomia nei confronti della musica, provando a indirizzare e influenzare la percezione della figura di Elvis presso il grande pubblico. Nonostante ciò, però, i momenti più riusciti restano proprio quelli nei quali Presley riafferma la propria specifica identità artistica, cantando da par suo Let Me, We’re Gonna Move to a Better Home, Poor Boy e, soprattutto, la romantica hit Love Me Tender, basata sul tema folk traditional di Aura Lee (1861) e che dà il titolo originale alla pellicola. La presenza del “re del rock ‘n’ roll” “costringe” la Twentieth Century Fox a distribuire il film in un numero record di copie, ben 575, con i risultati al botteghino che, comunque, ripagano ampiamente lo sforzo62. Il film successivo di Elvis è Loving You (amami teneramente, 1957) di hal kanter e lo vede recitare assieme a star già affermate come Lizabeth scott e Wendell Corey, un’altra nuova scoperta come Dolores hart e un pittoresco caratterista come James Gleason. Elvis è ormai una stella che va ben oltre l’ambito strettamente musicale, grazie soprattutto alle numerose esibizioni televisive: fino a gennaio 1957 sono ben dodici, dallo Stage Show al Milton Berle Show (quaranta milioni di telespettatori), fino alle varie apparizioni all’Ed Sullivan Show, tra le quali resta nella storia quella del 9 settembre 1956, con i suoi cinquantaquattro milioni di telespettatori e un incredibile 82,6 per cento di share. Amami teneramente è prodotto per la Paramount da una “vecchia volpe” come hal B. Wallis, che intuisce subito le potenzialità anche cinematografiche di Elvis e immagina per lui una lunga carriera sul grande schermo. Nel film, Presley interpreta un personaggio decisamente autobiografico: quello del giovane camionista Deke Rivers, che la scaltra manager Glenda Markle (Lizabeth scott) trasforma in cantante professionista di grande successo, dopo una serie 62 Il costo di circa un milione di dollari viene recuperato già nei primi tre giorni di programmazione, mentre nei primi dieci giorni di programmazione il film incassa addirittura 4,5 milioni di dollari.
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di vicissitudini amorose ed esistenziali. «Elvis – scrive il suo biografo Peter Guralnick – sembrava davvero in perfetta sintonia, come gli era riuscito solo in parte nel suo film di debutto, e le sue performance musicali erano riproduzioni straordinarie del suo spettacolo dal vivo, anche se non nel vero senso della parola, ma almeno quanto bastava per fugare ogni dubbio sul talento di quel tizio di cui si parlava tanto»63. In particolare, sullo schermo il protagonista canta ottime versioni di Got a Lot o’ Livin’ to Do!, Party, Teddy Bear, Hot Dog, Lonesome Cowboy, Mean Woman Blues, oltre alla title track Loving You. Quello che Elvis gira subito dopo Amami teneramente è, senz’altro, il suo film più riuscito e interessante assieme al successivo La via del male, non soltanto per gli ancor più espliciti riferimenti alla biografia del giovane cantante. La pellicola in questione s’intitola Jailhouse Rock (Il delinquente del rock ‘n’ roll, 1957), è prodotta dalla Metro Goldwyn Mayer e diretta con mano sicura da Richard Thorpe. Elvis vi interpreta Vince Everett, un irrequieto e fascinoso ex galeotto che, gradino dopo gradino, sale lungo la scala del successo, prima musicale e poi cinematografico. Dopo aver privilegiato denaro e fama, nel finale il Nostro “si redime” e comprende che cosa conta davvero nella vita. accanto a Elvis recitano Judy Tyler (che interpreta la manager discografica Peggy Van alden), Mickey shaughnessy (hunk, o Dick nell’edizione italiana, il compagno di cella di Vince) e poi Vaughn Taylor, Jennifer holden, Dean Jones, anne Neyland. Particolarmente riuscita, nella ricostruzione di Thorpe, appare l’alternanza tra scene drammatiche (che reggono sempre ottimamente per credibilità e tensione interna) e numeri musicali di altissimo livello per ritmo delle coreografie e qualità delle interpretazioni canore; in particolare, la magnifica colonna sonora di Jerry Leiber e Mike stoller include una serie mozzafiato di grandi canzoni elvisiane: Young and Beautiful, I Want to Be Free, Don’t Leave Me Now, Treat Me Nice, ovviamente Jailhouse Rock, Baby I Don’t Care. Certamente, dunque, Il delinquente del rock ‘n’ roll può essere considerato come «[...] il film di Elvis che più ha influenzato la rappresentazione visiva della musica popolare»64. addirittura, la celeberrima sequenza nella quale egli canta davanti alle telecamere la hit Jailhouse Rock, «[...] in un impianto coreografico che riproduce, stilizzandolo,
63 64
Peter Guralnick, Elvis. L’ultimo treno per Memphis, cit., p. 413. Linda Berton, Videoclip, cit., p. 88.
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l’ambiente carcerario»65, viene vista da molti critici come uno dei primi esempi di videoclip musicale assimilabile concettualmente a quelli della MTV Generation. anche se, considerando come per l’intero film il suo Vince Everett oscilli continuamente tra urgenza espressiva e adattamento alle leggi dello show business, si può essere d’accordo con Umberto Mosca, quando fa acutamente notare che quella stessa sequenza «[...] costituisce la sublimazione estetica del fatto che le seconde hanno ingabbiato la prima»66. Un’altra interessante novità di questo film è da ricercare nel modo attraverso il quale è drammatizzata quella che, nelle sequenze iniziali, appare come la scontata equazione giovane-delinquente già declinata in tanti altri teen-rock movies del periodo. se la novità comune a tutti i film con Elvis è, infatti, che il giovane ribelle diventa protagonista e non più spalla o antagonista, il tratto originale de Il delinquente del rock ‘n’ roll risiede nella «[...] tensione costante tra aggressività e tenerezza»67, elementi a partire dai quali si sviluppa l’approfondimento del suo personaggio lungo l’intero film e, al tempo stesso, «[...] è possibile leggere il permanere di una ambiguità di fondo legata al genere di musica di cui egli stesso è il principale interprete. Il delinquente del rock ‘n’ roll, insieme al successivo La via del male, rappresenta il tentativo riuscito da parte del cinema di lavorare sullo spirito del Rock ‘n’ Roll inteso come pulsione necessaria per esprimere un’inquietudine profonda e incontrollabile. In tal senso, il personaggio di Vince Everett, con tutte le sue contraddizioni, si pone come il paradigma di una concezione dialettica e problematica della vita e del modello americano degli anni Cinquanta, prima delle rassicuranti semplificazioni cui perverrà l’Elvis dei film successivi, trasformato dall’esperienza militare»68.
Il film diretto da Richard Thorpe incassa oltre quattro milioni di dollari nel solo 1957. L’astro di Elvis è sempre più luminoso, come testimoniano anche le vendite record dei tanti singoli e dei primi due, memorabili album su RCa, intitolati con ben poca originalità Elvis Presley (1956) ed Elvis (1956). Il successivo King Creole (La via del male, 1958) vede Presley lavorare nuovamente in una produzione cinematografica di hal B. Wallis per la Paramount, ma stavolta con la piacevole novità di essere diretto 65 66 67 68
Umberto Mosca, Cinema e rock, cit., p. 24. Ivi, p. 25. Ivi, p. 21. Ivi, p. 22.
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da un grande regista hollywoodiano come Michael Curtiz e di recitare accanto a interpreti già piuttosto affermati come Carolyn Jones, Dolores hart, Dean Jagger, Walter Matthau, Liliane Montevecchi, Vic Morrow. Prima di conoscerlo di persona, proprio «[…] Curtiz dichiarò che pensava che Elvis fosse un tipo molto presuntuoso, ma quando cominciò a lavorare con lui, cambiò idea: “No, è un ragazzo d’oro, diventerà un attore meraviglioso”»69. E la stima del regista di Casablanca (Id., 1942) emerge nitida anche da questo ulteriore ricordo: «Era molto concentrato, molto attento alla sua interpretazione. Per un ragazzo agli inizi di carriera aveva un grande senso del tempo; e si notava una grande onestà nel suo stile di recitazione. sapeva ascoltare, e alla fine diventò davvero il suo personaggio, il giovane Danny nel film. Proprio come succedeva nella sua musica, era davvero preso dalla recitazione; lo guardavi negli occhi e, ragazzi, brillavano sul serio»70.
Il feeling tra i due è evidente; e anche grazie a questa intesa naturale, Michael Curtiz diventa il regista che riesce a utilizzare meglio il talento innato dell’Elvis attore, peraltro inserendolo nel contesto di «un superbo film noir»71. Questa proficua collaborazione e le intense parole di un regista tanto esperto e dotato rendono ancora più grande il rimpianto per come si sarebbe potuto sviluppare il rapporto tra Elvis Presley e il cinema, con scelte più attente alla qualità e meno all’aspetto puramente commerciale. Per lavorare in La via del male, comunque, Elvis chiede e ottiene una proroga di otto settimane sull’inizio del servizio militare, a dimostrazione del suo profondo coinvolgimento nel progetto. E i risultati, come detto, si vedono chiaramente: nel film, infatti, Elvis appare più bravo e convincente che mai, nel ruolo di Danny Fisher, un giovane cantante di night-club di New Orleans dapprima trascinato nel mondo della malavita e poi redento grazie al suo talento vocale e ai valori dell’amicizia e dell’amore. «L’Elvis de La via del male è migliore di quello de Il delinquente del Rock ‘n’ Roll, e non soltanto come individuo, ma anche come musicista. Intanto non è attraverso una miracolosa conversione finale che il personaggio ritrova un’armonia degli affetti, ma grazie a una costante ricerca morale. […] Ma anche la sua statura artistica pare essere decisamente più complessa e articolata di quanto non risultasse nel film 69
Peter Guralnick, Elvis. L’ultimo treno per Memphis, cit., p. 474. Ibidem. 71 hubert Niogret, Les images d’Elvis / Dossier Rock ‘n’ roll et cinéma, in: «Positif» n.° 566, aprile 2008, Paris, p. 103. 70
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precedente. È come se da un film all’altro fosse l’immagine complessiva ad essere maturata, rispondendo innanzitutto alla necessità di una costante evoluzione dello stile indispensabile per mantenere intatta la curiosità del pubblico»72.
Dal punto di vista squisitamente musicale, il film si fa ricordare per l’ennesima sequenza di canzoni memorabili eseguite dal protagonista: Crawfish, Steadfast Loyal and True, Lover Doll, Trouble, Dixieland Rock, Young Dreams, New Orleans, Hard Headed Woman, King Creole, Don’t Ask Me Why, As Long As I Have You. stavolta, però, Curtiz dota la pellicola anche di una vera e propria colonna sonora, composta da Walter scharf e «[…] capace di descrivere a sua volta il clima drammatico. Nella maggior parte degli altri film di Elvis, invece, la colonna sonora si accontenta semplicemente di riempire le sequenze di canzoni»73. Il popolarissimo “re del rock ‘n’ roll”, dunque, sembra essere giunto alla piena maturità artistica anche come interprete cinematografico. Purtroppo, però, di lì a qualche mese tutto è destinato a cambiare. Il 24 marzo 1958, infatti, Elvis Presley inizia il servizio militare in arkansas, Texas e poi Germania. Trascorrono due anni, nel corso dei quali non registra nuove canzoni e continua a vendere dischi come se nulla fosse soltanto perché la “macchina da soldi” messa in moto dal Colonnello Parker appare inarrestabile. L’album Elvis Is Back del 1960 segna, dunque, il ritorno in pista di un “re” che, almeno agli occhi del suo pubblico, non ha mai abdicato. Dentro di lui, invece, qualcosa s’è rotto. «Non è il servizio militare in sé ad avere cambiato Elvis, ma due eventi intervenuti nel frattempo. Nell’agosto 1958 è morta all’improvviso la madre e il ragazzo è stato schiantato dal dolore. È sensato affermare, considerata la devozione che nutriva per la figura materna e quanto essa si fosse rivelata fino a quel punto un elemento equilibratore nella sua vita, che se Gladys non se ne fosse andata anzitempo le inclinazioni autodistruttive del figlio non sarebbero emerse. E poco dopo ha conosciuto le anfetamine, vera droga “di stato” dal momento che l’esercito statunitense ne è prodigo con i suoi componenti per averli sempre belli scattanti. Iperattivo di suo, Elvis aggiunge benzina alla sua fiamma e come stupirsi se brucerà in fretta? Dalla Germania è rientrato con un bottiglione da due litri colmo di pasticche ed essendo colui che è, com72
Umberto Mosca, Cinema e rock, cit., p. 28. hubert Niogret, Les images d’Elvis / Dossier Rock ‘n’ roll et cinéma, in: «Positif», cit., pp. 103-104. 73
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binazione irresistibile di carisma e ricchezza, non avrà mai difficoltà a trovare medici compiacenti disposti a rifornirlo di quelle o di qualunque altra porcheria farmaceutica che con inesauribile fantasia scoverà in prontuari medici mandati a memoria»74.
Intanto il Colonnello Parker, attento più ai guadagni che alla qualità dei prodotti, spinge Elvis a partecipare a innumerevoli film, nessuno dei quali non soltanto mai entrato nella storia del cinema ma nemmeno elevatosi oltre una stiracchiata sufficienza. Per tutti gli anni sessanta sono addirittura ventisette le pellicole nelle quali Presley recita75: tutte, o quasi, commediole leggere nelle quali il suo personaggio lotta per il proprio avvenire e, alla fine, conquista la ragazza di turno; girate in località turistiche da sogno e, naturalmente, infarcite di sue canzoni. Dal 1961 al 1968, infatti, Elvis smette di esibirsi dal vivo e per vederlo cantare bisogna andare al cinema: ecco così spiegato il clamoroso successo di pubblico di questi film dalla sostanza tanto esile. D’altra parte, quasi tutti i suoi album del decennio sono colonne sonore delle pellicole che interpreta. «Il Colonnello non recepirà mai il suo desiderio di fare del cinema degno, limitandosi invece a procurargli contratti sontuosi e sinergicamente intrecciati con l’attività discografica e giungendo nel 1975 a rifiutare, per una questione di dollari, una parte nel film A Star Is Born, che avrebbe potuto dare un senso ai trentuno precedenti»76. Il 1968 è un anno di svolta anche per Elvis Presley, che torna a esibirsi in pubblico in occasione delle Burbank Sessions, sette ore di straordinario materiale che producono un clamoroso Elvis NBC Tv Special, meglio conosciuto come Comeback Show. Due album notevoli come From Elvis In Memphis (1969) e From Memphis to Vegas/From Vegas to Memphis (1969) chiudono il decennio e fanno tornare in Elvis la voglia di frequentare con rinnovata assiduità un pubblico che non ha mai smesso di amarlo: il risultato è oltre mille concerti in sette anni, pur senza mai uscire dagli stati Uniti.
74 Eddy Cilìa, Elvis Presley. Una storia americana, in: «Mucchio/Extra» n.° 5, primavera 2002, Roma, p. 36. 75 Tra queste, vanno ricordate: G.I. Blues (Cafè Europa, 1960) di Norman Taurog, una eccezione come il western Flaming Star (stella di fuoco, 1961) di Don siegel, Blue Hawaii (Id., 1961) e Girls! Girls! Girls! (Cento ragazze e un marinaio, 1962) entrambi di Taurog, Fun In Acapulco (L’idolo di acapulco, 1963) di Richard Thorpe, Viva Las Vegas (Id., 1964) di George sidney, Girl Happy (Pazzo per le donne, 1965) di Boris sagal, Spinout (Voglio sposarle tutte, 1966) di Taurog. 76 Eddy Cilìa, Elvis Presley. Una storia americana, in: «Mucchio/Extra», cit., p. 35.
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Purtroppo, però, la fine si avvicina: l’equilibrio di Elvis diventa sempre più fragile, mangia in continuazione e ingrassa a vista d’occhio, abusa di farmaci e viene ricoverato sempre più spesso in ospedale. Il divorzio dalla moglie Priscilla, nel 1973, fa il resto. Così, nonostante l’attività “live” vada avanti fino a poco prima della morte, il 16 agosto 1977 il “re” si spegne nella sua reggia di Graceland a Memphis, mettendo ufficialmente fine a una prima “epoca d’oro” del rock ‘n’ roll che, però, di fatto si era già chiusa tra il 1958 e il 1959.
Outro: 1959 La rivoluzione spontanea del rock ‘n’ roll, in effetti, dura pochissimo: giusto qualche anno, tra il 1955 e il 1957. Già l’anno successivo, infatti, con l’ingresso in campo delle majors discografiche e cinematografiche il nuovo fenomeno musicale e sociale inizia a essere “normalizzato” e, come abbiamo visto, reso piuttosto inoffensivo. simbolica del passaggio dall’epoca della trasgressione a quella del compromesso commerciale è, secondo molti, proprio la data d’inizio del servizio militare di Elvis Presley. Il 24 marzo 1958, infatti, il famoso taglio di capelli del “ribelle” per antonomasia segna, soprattutto dal punto di vista simbolico, il suo passaggio da “oscena” minaccia antisociale a inoffensivo all american boy, decretandone «[…] la rinuncia alla sua potenziale carica eversiva, l’abdicazione alle regole del perbenismo e della convivenza borghese»77. Per uno strano scherzo del destino, in questo breve lasso di tempo si verificano altri avvenimenti di grande significato per le future evoluzioni (o involuzioni) del rock ‘n’ roll. sempre il medesimo anno, infatti, si apre col ritiro dalle scene di Little Richard, che annuncia di voler entrare in seminario per seguire una improvvisa vocazione religiosa e redimersi dalla sua condotta di vita peccaminosa: e pensare che proprio lui si era proposto, fino a quel momento, come l’interprete più esplosivo e trasgressivo della neonata scena rock ‘n’ roll. Pochi mesi dopo, tocca al geniale pianista Jerry Lee Lewis, che nel corso di una tournée in Inghilterra porta con sé la moglie Myra, poco più che tredicenne: nasce uno scandalo enorme sulla stampa britannica e, al ritorno in patria, Jerry Lee deve subire un 77
Ernesto assante e Gino Castaldo, Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano, cit., p. 183.
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autentico linciaggio mediatico, in seguito al quale cade velocemente in disgrazia. altro giro e altra corsa: il grande Chuck Berry, ancora durante il 1958, entra sempre di più nel mirino delle associazioni segregazioniste, a causa delle sue frequentazioni con numerose donne bianche; la pressione mediatica sempre più forte gli causa una serie di disavventure giudiziarie, che lo portano a essere incriminato, condannato e addirittura arrestato per aver condotto, “per scopi immorali”, una ragazza minorenne da El Paso a saint Louis. anche alan Freed, il disc jockey che per primo aveva intuito le potenzialità della “nuova” musica e che tanto si era adoperato per la sua divulgazione, resta coinvolto in uno scandalo sollevato da alcuni senatori sollecitati dalla potentissima asCaP (american society of Composers, authors and Publishers) per colpire la BMI (Broadcast Music Incorporated, più legata alle etichette discografiche e radio indipendenti): Freed, infatti, viene accusato di essere stato pagato proprio dalla BMI per programmare i dischi nei suoi show, diventando così il capro espiatorio di questa vicenda, che gli rovina irrimediabilmente la carriera e lo porta a rifugiarsi nell’alcool e a morire in disgrazia il 20 gennaio 196578. La drammatica chiusura del cerchio, però, avviene all’inizio del 1959, per la precisione il 3 febbraio. Verso l’una di quella notte, nei dintorni di Mason City nell’Iowa, un piccolo aeroplano Beechcraft Bonanza si schianta al suolo a causa di una violenta bufera, senza lasciare nessun superstite: a bordo ci sono, assieme al pilota, anche i tre musicisti Big Bopper, Richie Valens e, soprattutto, Charles hardin halley, cioè l’amatissima star del rock ‘n’ roll Buddy holly, che in appena un anno e mezzo di carriera era riuscito a portare il rock ‘n’ roll verso la modernità pop. «a soli 22 anni se ne andò tragicamente il personaggio che aveva in mano il futuro del rock and roll. Con le sue intuizioni melodiche, con l’enfasi ritmica che attingeva in egual misura sia dal rhythm & blues che dal country, holly sintetizzava l’intelligenza compositiva di Chuck Berry, l’originalità ritmica di Bo Diddley e la sensibilità pop di Elvis Presley. È incredibile pensare a quanto sia riuscito a lasciare il segno in così poco tempo»79.
78 Cfr. Carmelo Genovese, La fine di un’epoca. Ecco come tra il ‘58 e il ‘59 si infranse l’onda lunga di Elvis, in: «Jam» n.° 156, febbraio 2009, p. 49. 79 Carmelo Genovese, Il destino di Buddy. Un anno e mezzo nella vita dell’inventore del pop-rock, in: «Jam», cit., p. 48.
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Da allora, il 3 febbraio 1959 diventa per gli appassionati The Day the Music Died80, il giorno nel quale è morta la musica. Per fortuna, però, il rock non muore affatto alla fine dei Fifties, ma anzi si avvia verso nuove, affascinanti direzioni con l’inizio del decennio successivo: quegli anni sessanta destinati a sconvolgere di nuovo l’universo in perenne movimento della cultura giovanile. Ma questa è decisamente un’altra storia.
80 Nel 1971, il cantautore Don McLean scrive una canzone destinata a un enorme successo: s’intitola American Pie e contiene un verso ricorrente dedicato proprio al “giorno nel quale è morta la musica”.
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DaLLa TERRa aLLa LUNa CINEMa, MUsICa E CONTROCULTURa: I DOCUMENTaRI sUI MEGaRaDUNI POP, Da MONTEREY aLL’IsOLa DI WIGhT di Vincenzo Esposito
Ho imparato che se uno procede con sicurezza in direzione dei propri sogni, e osa vivere la vita che ha immaginato, incontrerà un successo inaspettato in breve tempo. (Henry David Thoreau, Walden, 1854) Billy Pilgrim ha viaggiato nel Tempo. […] Ha visto la propria nascita e la propria morte molte volte, dice, e rivive di tanto in tanto tutti i fatti accaduti nel frattempo. (Kurt Vonnegut Jr., Mattatoio n° 5, 1969) Un sogno che non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio? (Bruce Springsteen, The River, 1980)
Prologo: l’ultimo uomo sulla Terra Una vecchia Ford si aggira per le strade di una metropoli deserta e spettrale: Los angeles, città attraversata dal segno dell’apocalisse. L’individuo al volante è l’ultimo esemplare della razza umana rimasto sulla Terra, l’unico sopravvissuto ad un ferale attacco batteriologico. Per ingannare il tempo entra in una sala cinematografica fatiscente. Un’insegna a caratteri cubitali ha cristallizzato il titolo dell’ultimo film in cartellone prima del disastro: Woodstock: 3 Days of Peace and Music. L’uomo guarda i vecchi poster affissi all’entrata e esclama, con una punta di sarcasmo: «È in programmazione da più di sei anni, ormai». La sua familiarità con la struttura ci indica che non è la prima volta che compie quel rito: sale in cabina di proiezione e
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monta personalmente la pellicola; poi scende in platea e guarda il film ripetendo le battute a memoria. sullo schermo appaiono migliaia di hippies che vivono l’esperienza esaltante del più grande raduno musicale di tutti i tempi. Uno degli organizzatori dell’evento, un figlio dei fiori, si confessa ai microfoni di un giornalista: «È una cosa meravigliosa… Dovete rendervi conto della trasformazione che ho subito in questi tre giorni». L’ultimo uomo sulla Terra osserva quelle immagini di amore e musica con un sentimento misto di invidia e rimpianto: quel mondo è scomparso per sempre! E allora, per farsi coraggio, ripete ad alta voce le parole del giovane: «Ma cos’è veramente importante, se non possiamo vivere insieme e essere felici?». Robert Neville, il solitario eroe interpretato da Charlton heston, ha il tempo ancora per una battuta, prima di lasciare il buio della sala: «Film così non se fanno più!». La sequenza che ho appena descritto si riferisce a The Omega Man (1975: occhi bianchi sul pianeta Terra, 1971) film che Boris sagal ha liberamente tratto dal libro Io sono leggenda di Richard Matheson. abbiamo scelto di iniziare con questo breve prologo il saggio dedicato ai documentari sui megaraduni pop degli ultimi anni sessanta, perché crediamo vi sia sintetizzato il significato profondo del sogno (infranto) della Woodstock Generation: un’umanità che ha smesso di palpitare proprio quando il documento filmato del memorabile evento è uscito nelle sale. Da quel momento, il viaggio impossibile di una generazione ha perso le coordinate oniriche e, nel meccanismo della reiterazione, si è gradualmente pietrificato in mito. Questa sequenza trova un’immagine speculare nel fulcro di un altro racconto di science fiction, Einstein perduto, scritto nel 1967 da samuel R. Delany, nel quale si narra di una razza aliena che ha ripopolato il mondo dopo la sparizione dei terrestri, e di questi cerca di studiare l’esistenza e l’essenza appropriandosi delle loro leggende, dei loro miti, della loro musica: «abbiamo impiegato molto tempo ad assorbire il lato razionale di questo mondo – si legge nel primo capitolo del libro – e ora, il lato irrazionale si presenta ugualmente problematico. Ti ricordi la leggenda dei Beatles? Ti ricordi Ringo, l’unico del gruppo che non cantava, o almeno così recitano le prime versioni di questa leggenda. Dopo una notte di un giorno difficile [a hard day’s night, ndt.] lui e gli altri Beatles furono fatti a pezzi da ragazze urlanti. […] Ma questa è solo la versione recente
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di un mito molto più antico, di cui non si sa molto. In quella storia Ringo si chiamava Orfeo!»1.
Nel Pantheon futuristico di Delany, quindi, le divinità elleniche sono state sostituite dalle icone del rock: i Beatles e Dylan alle pendici del monte Olimpo. Di nuovo il sogno invece del mito: e il viaggio ricomincia. Infine, ci piace ricordare che la fantascienza e il rock trovarono una definitiva osmosi istituzionale nel 1969, quando la Tv pubblica inglese (BBC) trasmise in diretta le immagini dello sbarco dell’uomo sulla Luna col sottofondo di un brano dei Pink Floyd, Moonhead, appositamente commissionato2. In questa overdrive interstellare dalla Terra alla Luna, puntellata di sogni e materia (mitica), si inseriscono le rappresentazioni documentaristiche dei concerti di Monterey, Woodstock, altamont, isola di Wight3: sintesi esemplari della parabola utopica di una generazione (quella a cavallo degli anni sessanta e settanta) che credeva di essere entrata nell’Era dell’acquario, l’epoca dei grandi cambiamenti4.
L’era dell’Acquario L’utopia moderna di un mondo migliore non poteva che nascere nella “Terra di fantasia”, la California: ultima inafferrabile meta del cammino verso la Frontiera, oltre la quale, però, si annida il Nulla. Il comandante Juan Rodriguez Cabrillo, colui che nel 1542 inconsapevolmente la scoprì, dichiarò che la California non esisteva. I primi colonizzatori del XVI secolo, non prestandogli fede, pensavano fosse un’isola abitata dalla regina delle amazzoni; che tuttavia non fu mai 1 Il libro trovò uno spazio editoriale in Italia all’inizio degli anni settanta: samuel R. Delany, Einstein perduto, La tribuna, Piacenza, 1971. Non essendo riusciti a recuperare una copia di quella versione italiana – del resto mai più ripubblicata – ci siamo serviti dell’ultima edizione in lingua inglese disponibile: samuel R. Delany, The Einstein Intersection, Wesleyan University Press, hanover & London, 1998, p. 9. a tale proposito, aggiungiamo che, ove non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono a cura dell’autore. 2 Pur non essendo mai apparso in album ufficiali della band inglese, il brano Moonhead è stato inserito in alcuni bootlegs famosi, tra cui: With/Without e Wavelenghts. 3 Ove non diversamente indicato, le versioni dei film analizzati in questo saggio sono sempre quelle originali. Non abbiamo tenuto conto, cioè, delle varie versioni director’s cut o extended esistenti oggi in formato DVD, perché poco utili ai fini del nostro discorso. 4 Negli anni sessanta, l’espressione “Era dell’acquario” era utilizzata per indicare l’arrivo imminente di un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici, e i movimenti culturali alternativi, come ad esempio gli hippies, venivano considerati presagi del cambiamento.
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trovata. Il pirata-gentiluomo Francis Drake, nel 1579, non riuscì ad approdare nella baia di san Francisco, giacché il suo vascello smarrì la rotta nella bruma. Quando le nebbie del tempo si diradarono, e fu chiaro a tutti che quella apparente Never-never Land era in realtà la Terra dell’oro, venne tracciato, sulla pelle di 300.000 nativi, El Camino Real (più o meno l’odierna highway 101). In questo luogo di ombre abitato dal sole, un americano dal nome italiano, Ferlinghetti, aprì una libreria, negli anni Cinquanta del 1900. In breve tempo, grazie al suo negozietto, il vecchio quartiere di North Beach, a san Francisco, si popolò di poeti beat: Burroughs, Ginsberg, Orlovsky, McClure, snyder. Intellettuali che partivano dalle ispirazioni Zen (la rivalutazione del mondo naturale), dal trascendentalismo ottocentesco (Thoreau, Emerson), e dall’ansia libertaria che aveva sempre contraddistinto la letteratura del Nord america da Whitman a steinbeck, per approdare a un linguaggio nuovo, affetto dalla sincope allucinogena, e in grado di offrire un antidoto al veleno del neomaterialismo di Eisenhower. Proprio dalla City Lights Bookstore, piccolo palcoscenico letterario all’angolo tra la Columbus avenue e Broadway street, allen Ginsberg, nel 1956, lanciò il suo Urlo contro la Nazione. Il poema (una delle opere più importanti della Beat Generation) si apriva con un incipit che – al pari del dream speech di Luther king a Washington nel 1963 – avrebbe segnato un’epoca: «ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia»5. Tuttavia, quella stessa follia aveva ben partorito capolavori del jazz, della narrativa, della pittura. Circolo vizioso: distruggersi per rigenerarsi! Visioni perdute in attesa di tempi migliori, come nella canzone di Joni Mitchell The Circle Game, immortalata nel film The Strawberry Statement (Fragole e sangue, 1970): «I suoi sogni sono svaniti, altri più grandi si avvereranno». Il quartiere di North Beach rimase un’isola beat fino alla metà degli anni sessanta, quando nuovi venti di cambiamento cominciarono a spirare da Est e da sud, contaminando l’aria salata della California col folk e le rivendicazioni del movimento per i diritti civili, con le canzoni dei Beatles e le tendenze spirituali orientaleggianti. Nel 1965 i Byrds incisero una versione elettrica di Mr. Tambourine Man di Bob Dylan, e i Beatles inserirono per la prima volta strumentazioni indiane in un brano pop, Norwegian Wood, dimostrando in tal modo che la 5
allen Ginsberg, The Howl and Other Poems, City Lights Books (Pocket Poets series), san Francisco, 2001, p. 9.
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musica dei giovani poteva appropriarsi di qualsiasi suono. Il sogno si espanse, e sembrò davvero potersi avverare: «Giocando con l’Esistenza fino alla morte»; o semplicemente seguendo l’Uomo del Tamburino nel «tintinnio del mattino»6. anche lo scrittore John steinbeck – californiano doc – prima di morire fiutò il profumo del cambiamento, e così lo ghermì: «Il mondo è aperto dinanzi a noi come mai lo fu nel passato; e, per la prima volta nell’esperienza dell’umanità, abbiamo gli strumenti per scoprirlo. […] Il cielo è aperto sopra di noi: per la prima volta, siamo in grado di correrlo. La rivolta è ovunque nell’aria; nelle violenze delle lunghe estati calde, nel risentimento contro l’ineguaglianza, contro la cinica crudeltà. E c’è una rabbia sorda contro ogni ostacolo, ogni ritardo, contro la lunghezza stessa di questa fase in cui ci prepariamo a partire per il gran viaggio. sarà il viaggio forse più lungo, più scuro di quanto mai ne facemmo: ma al suo termine avrà la luce più vivida»7.
Gli ostacoli sul cammino verso “la luce”, in effetti, erano tanti: in primo luogo, una guerra insensata che gli states stavano combattendo in Vietnam contro il volere di molti americani (e non solo); poi, la frattura generazionale che si era venuta a creare tra padri e figli, tra i valori (patria, casa, famiglia) di coloro che erano usciti vincitori dal secondo conflitto mondiale e i ragazzi dei sixties che di questi valori non sapevano cosa farsene. Nel 1965, il folk singer Phil Ochs incise un disco dal titolo I Ain’t Marching Anymore, nel quale cantava: «Guarda tutto ciò che abbiamo conquistato con la sciabola e il fucile/E dimmi se è servito a qualcosa». Gli adulti americani, intorno alla metà degli anni sessanta, erano terrorizzati dai giovani e, paradossalmente, dai loro nuovi ideali di pace, amore, tolleranza; mal sopportavano, inoltre, il senso di libertà di una generazione che sfuggiva alla società conformista traendo coraggio dalla musica. In quanto elemento catalizzatore della cultura giovanile, la musica diventò il collante di tutte le frange del Movimento di opposizione: gli hippies, gli esponenti della Nuova sinistra, gli ultimi beat, gli studenti di Berkeley, che per primi lanciarono la “moda” dell’occupazione universitaria8.
6 I due versi si riferiscono rispettivamente alle canzoni, Tomorrow Never Knows dei Beatles e Mr. Tambourine Man di Bob Dylan, entrambe del 1965. 7 John steinbeck, I ribelli ci salveranno, in: «L’Europeo», no 33, 1966. 8 La prima rivolta universitaria scoppiò a Berkeley, l’8 ottobre 1964. all’epoca, il sistema universitario statale californiano – pubblico, aperto a tutti e gratuito per la maggior parte degli studenti – era considerato il migliore degli stati Uniti, e comprendeva 9 sedi sparse
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Il pop fu un unico grande flusso sonoro che fece da sottofondo (e talvolta anche da “soprafondo”) al fenomeno che Theodore Roszak definì “controcultura”. Nel suo libro del 1968 Nascita di una controcultura9, Roszak sintetizzava il pensiero dei principali artefici della cultura di opposizione al mainstream tecnocratico: dal marxismo eretico di Marcuse, alla psicoanalisi di Norman Brown, che vedeva nell’Eros una forza di liberazione; dalle spinte beat di Ginsberg a quelle misticoorientaleggianti di alan Watts; dalle utopie urbanistiche di Paul Goodman a quelle lisergiche di Timothy Leary. La sua analisi sociologica non si limitava ad una ricapitolazione dei processi formativi: suggeriva un percorso alternativo rispetto alla logica del pensiero occidentale; auspicava la (ri)acquisizione degli istinti primitivi irrazionali in grado di rendere l’“uomo nuovo” immune al canto delle sirene capitalistiche. Più concretamente, Roszak vedeva raffigurato nello stile di vita degli hippies (portatori sani del virus controculturale) l’effige rivoluzionaria della “politica dell’interiorità”. Le abitudini giovanili che infastidivano la cultura dominante americana erano esemplificate dall’emergente comunità di haight-ashbury, il quartiere di san Francisco che, intanto, aveva scalzato North Beach nella classifica dei luoghi di culto della nuova generazione. Chi non trovava casa nel vecchio centro, poteva facilmente trovarne una a poco prezzo a haight-ashbury, distretto occidentale quasi disabitato. In meno di un anno – dal 1966 al 1967 – il quartiere divenne la capitale del rinnovamento in tutti i campi: politico, sociale, sessuale, culturale, e musicale. Perfino Ronald Reagan, che era diventato Governatore della California perseguitando i capelloni e promettendo di
per la regione, alcune delle quali di grande prestigio, come Berkeley, stanford, Palo alto, san Francisco. Il corpo insegnante annoverava, nella seconda metà degli anni sessanta, ben 13 Premi Nobel nonché alcuni dei più importanti intellettuali del tempo, tra cui herbert Marcuse e Theodore Roszak, che offrirono le basi filosofiche e sociologiche alla contestazione studentesca. Fu proprio in queste università modello che scoppiarono le prime rivolte, che in breve si estesero a tutti gli stati Uniti. In California gli studenti ottennero il diritto di organizzare liberamente dibattiti politici e manifestazioni culturali. Il loro motto divenne “student Power”, e in virtù di quel potere partecipavano perfino alla scelta delle materie di studio. Per bloccare l’avanzata del Movimento, il Governatore della California Ronald Reagan propose l’introduzione di una tassa di iscrizione universitaria, minacciò i leader studenteschi di possibili ritorsioni legali, e infine mandò gli agenti di polizia nei campus. Per ulteriori approfondimenti su questo tema, consigliamo la visione di un interessante documentario di antonello Branca, California: Il dissenso (1967). 9 Il titolo integrale del libro è The Making of a Counter Culture: Reflections on the Technocratic Society and Its Youthful Opposition, University of California Press, Berkeley, 1969. Cfr., in particolare, i capitoli III-VI.
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«ripulire il casino a Berkeley»10, non riuscì a smantellare quella enclave hippie. Proprio lì, la mattina del 14 gennaio 1967, scoppiò la summer of Love: anche se, per la verità, era inverno! I poeti allen Ginsberg e Gary snyder guidarono una marcia della pace fino al Golden Gate Park, dove un giornale underground, il «san Francisco Oracle», aveva preparato un evento senza precedenti11: lo human Be-In, un megaraduno di tutti gli alternativi della Bay area, compresi alcuni musicisti, popolari tra gli abitanti della zona, ma poco noti nel resto del Paese. In pratica aveva accettato di esibirsi gratis tutta la nuova leva pop di san Francisco: dagli psichedelici Grateful Dead e Jefferson airplane, ai comunisti Country Joe and the Fish; dai bluesy Big Brother and the holding Company (il gruppo di Janis Joplin), fino agli acidi Quicksilver Messenger service, le cui performance dal vivo erano considerate insuperabili. L’inizio della manifestazione era stato fissato per le ore tredici, sebbene la gente avesse cominciato ad affluire sul luogo fin dalle dieci del mattino. ad inaugurare il raduno c’erano, oltre a Ginsberg e snyder, Michael McClure, Lawrence Ferlinghetti, Jerry Rubin, e il dottor Timothy Leary, che per l’occasione rispolverò uno slogan coniato l’anno precedente: Turn On, Tune In, Drop Out (accenditi, sintonizzati, Estraniati), con chiari riferimenti all’uso dell’LsD, ma che voleva anche incitare i giovani ad “accendere” le forze interiori, a “sintonizzarsi” col mondo circostante trovando il modo di esprimersi, e infine a “estraniarsi”, cioè rendersi indipendenti dalla società dei consumi. In sintesi, bisognava esserci (be-in), ma in modo diverso. E tutti quelli che contavano nell’ambiente artistico-culturale dell’area di san Francisco c’erano, compresi tanti produttori e manager musicali alla ricerca di nuovi talenti. Presentando la manifestazione, allen Cohen, direttore del «san Francisco Oracle», scrisse: «Con entusiasmo, sta finalmente per avere luogo un’unione tra amore e attivismo, precedentemente separati da stereotipi e dogmi categorici»12.
10 In: William O’Neill, Coming Apart: an Informal History of America in the 1960s, Quadrangle Books, Chicago, 1971, p. 655. Ronald Reagan, impegnato politicamente nel Partito Repubblicano fin dai primi anni sessanta, conquistò il posto di Governatore della California nelle elezioni del 1966, battendo il democratico Pat Brown. Rimase in carica fino al 1975. Diventò Presidente degli Usa nel 1980. 11 Il magazine della Bay area, in realtà, l’anno precedente (il 6 ottobre 1966), aveva organizzato un raduno analogo, il Love Pegeant Rally, a cui pure avevano preso parte scrittori, poeti, giornalisti e gruppi rock. La manifestazione, però, non aveva ottenuto il successo mediatico sperato. 12 In: Terry h. andreson, The Movement and the Sixties: Protest in America from Greensboro to Wounded Knee, Oxford University Press, Oxford, 1995, p. 172.
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Lo human Be-In fu il primo raduno hippie a richiamare un numero consistente di spettatori (circa ventimila), e a comunicare esclusivamente attraverso il linguaggio della musica. L’evento svegliò anche le grandi case discografiche (Columbia, Rca, Elektra, Capitol) e fece intuire che si potevano ricavare degli ottimi profitti anche producendo suoni underground, alternativi, psichedelici13. Infine, spianò la strada ai megaraduni pop, il cui prototipo perfetto è da ricercare a qualche chilometro di distanza da san Francisco, nella città di Monterey.
Monterey: la conquista dello spazio Il Festival di Monterey (Monterey International Pop Music Festival), tenutosi nei giorni 16-18 giugno 1967, inaugurò una pratica musicale dal vivo che sarebbe diventata un’esperienza comune durante gli ultimi anni sessanta: il megaraduno pop. Nato come risposta ai grandi happening jazz e folk14, Monterey divenne – anche grazie al documentario girato da D. a. Pennebaker, Monterey Pop (Id., 1968)15 – il luogo simbolo della sintesi (contro)culturale di fine decennio. In quei giorni il palcoscenico della cittadina californiana si trasformò in un cronotopo sincretico, in cui le diversità si fusero portando allo scoperto l’underground. Le capitali della musica giovanile dell’epoca (san Francisco, Los angeles, New York, Londra) ebbero finalmente modo di sancire i loro primati. La musica bianca e quella nera condivisero lo stesso pubblico (l’esibizione di Otis Redding a Monterey fu la prima che l’artista di colore tenne di fronte ad una grande audience mista). Occidente e Oriente si alternarono sotto lo stesso sole (il film si chiude con una lunga e ipnotica performance del grande musicista indiano Ravi shankar)16. artisti e pubblico, confusi dal 13 sulla genesi dei rapporti tra la musica rock e le grandi majors si veda: steve Chapple e Reebee Garofano, Rock ‘n’ Roll Is Here to Pay: The History and Politics of the Music Industry, Nelson-hall, Chicago, 1977. 14 Gli appassionati di musica jazz, per esempio, fin dal 1954, potevano incontrarsi al Newport Jazz Festival, o al Monterey Jazz Festival, nato nel 1958. Gli amanti della musica folk, invece, potevano contare sul Newport Folk Festival, fondato da Pete seeger nel 1959, o sul Philadelphia Folk Festival di Gene shay, attivo dal 1962. 15 Il film, girato nel 1967, venne distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 26 dicembre 1968. 16 L’eco della serafica esibizione di shankar a Monterey fu talmente ampia che l’anno seguente il regista Blake Edwards decise di riprenderla, in forma parodistica, nel suo capolavoro The Party (hollywood Party, 1968). subito dopo il prologo del film, infatti,
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medesimo fumo psichedelico, credettero di poter abbattere la “quarta parete” esistente tra stage e off-stage (sono frequenti nel documentario di Pennebaker le inquadrature dedicate agli artisti che si mischiano col pubblico per assistere ai concerti dei loro colleghi). a Monterey si celebrò con allegria il funerale della forma-canzone, si diede il benvenuto all’improvvisazione e alla jam sperimentale (la disgregazione dello schema verse-bridge-chorus sarebbe apparsa, a tutti, ancora più evidente se Pennebaker non avesse operato tagli e missaggi – anche all’interno dei singoli pezzi – in sede di montaggio). Infine, la performance live si liberò dell’ingessatura folk e conquistò lo spazio scenico con la forza di un nuovo corpo-rock, completato da portentose protesi a forma di strumenti musicali (si pensi, ad esempio, alla chitarra elettrica di Jimi hendrix, o alla batteria di keith Moon degli Who). Non che tutto ciò non fosse avvenuto in precedenza; mai si era palesato, però, in maniera così massiccia, e soprattutto nessuno lo aveva impresso su pellicola prima di allora. Monterey fu l’ultima fermata di un percorso di frontiera lungo e tortuoso, e al tempo stesso un crocevia dal quale si dipanarono nuovi itinerari, resi maggiormente intelligibili dalla mappatura audiovisiva di Pennebaker. Fu il regista Bob Rafelson a tirare Donn alan Pennebaker nel “ciclone Monterey”17, prima ancora che il network televisivo aBC si aggiudicasse l’opzione sui diritti di trasmissione del film. aveva saputo del suo documentario su Bob Dylan, e gli sembrava la persona adatta a filmare il megaconcerto che i suoi amici Lou adler e John Phillips – rispettivamente manager e cantante del gruppo The Mamas & The Papas – stavano organizzando. Mentre il loro 45 giri, California Dreaming, continuava a suonare nei jukebox di mezzo mondo, i due condussero Pennebaker sui luoghi dove si sarebbe svolto l’evento, spiegandogli che il festival non avrebbe avuto scopi di lucro e il ricavato di tutti i profitti sarebbe stato devoluto in beneficenza tramite una fondazione, la Monterey Foundation, tutt’ora viva e operante. «Lou adler era per metà indiano e aveva una visione mistica in tutto ciò che faceva – dirà in seguito lo stesso Pennebaker – lui e
sui titoli di testa, vediamo il simpatico indiano interpretato da Peter sellers seduto in un’analoga posa yoga mentre suona imperturbato lo stesso strumento “esotico” usato da Ravi shankar a Monterey, il sitar. 17 La definizione è dello stesso Pennebaker: «What happened at Monterey was I found myself in the middle of this cyclonic thing». Cfr., Dave saunders, Direct Cinema. Observational Documentary and the Politics of the Sixties, Wallflower Press, Londra, 2007, p. 84.
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Phillips stavano preparando un gioco molto interessante»18. Un gioco che la professionalità del documentarista avrebbe trasformato in un evento mediatico di grande portata. Pennebaker era semplicemente l’uomo giusto! In primo luogo perché la sua filmografia comprendeva già alcuni esempi di musica filmata: il già accennato dylaniano Dont [sic] Look Back (Id., 1967), realizzato nel 1965, e poi, andando a ritroso, Lambert & C. (1964), cortometraggio che ritrae Dave Lambert con un quintetto durante un’audizione per la RCa, e infine Daybreak Express (1953) stravagante viaggio in treno alla ricerca di immagini da abbinare alla musica di Duke Ellington. Ma più di ogni altra cosa era l’idea(le) del Direct Cinema, che Pennebaker perseguiva da quasi un decennio, a costituire l’impalcatura estetica perfetta su cui edificare l’etica del megaraduno giovanile. Nel 1959, infatti, Pennebaker, Robert Drew, i fratelli albert e David Maysles, e il documentarista inglese Richard Leacock si erano riuniti per formare un collettivo denominato Drew associates. Lo scopo era quello di riscrivere le regole del documentario, partendo dalle competenze pregresse dei singoli componenti del gruppo: Drew, ad esempio, lavorava alla rivista «Life» e voleva trasferire l’esperienza del fotogiornalismo al cinema; Leacock, invece, era il canale di comunicazione con la tradizione del documentarismo di scuola britannica. La sinergia tendeva verso un cinema diretto, senza sceneggiatura, calzante alla realtà fenomenica e alla “verità rappresentabile”. La sperimentazione prevedeva un nuovo metodo, ma anche nuove attrezzature tecniche in grado di attuarlo. Quando D. a. Pennebaker accettò l’incarico di dirigere il documentario sul Festival di Monterey, alcune innovazioni adottate e/o sviluppate dal collettivo nel campo della ripresa cinematografica erano ormai giunte a maturazione. Grazie anche ai loro sforzi ingegneristici era diventato possibile utilizzare delle agilissime cineprese in 16mm con supporto sonoro pienamente sincronizzato. senza lo sviluppo delle “camere mobili” debitamente modificate da Pennebaker (auricon con obiettivi angenieux, arriflex e Eclair-Coutant), senza le due consolle portatili a 8 piste e il banco di montaggio steenbeck (che consentirono al regista di costruire raffinatissimi editing sonori in sede di post-produzione), le novità musicali proposte sul palco di Monterey 18
harvey kubernik, Hollywood Shack Job, Rock Music in Film and on Your Screen, University of New York Press, albuquerque, 2006, p. 19.
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non sarebbero mai state apprezzate sufficientemente. senza il tocco leggero e invisibile di Pennebaker, agli spettatori non sarebbe stata restituita la sensazione di assistere alla celebrazione di una generazione in movimento, tesa a occupare nuovi territori culturali, e a porsi in sintonia mentale, oltre che corporea, con l’espansione sonora che i musicisti stavano sperimentando. Il documentario fotografa la metamorfosi dell’artista pop, colto nell’atto di svestire i panni adolescenziali dello stimolatore fisico (rock’n’roller), e pronto a indossare quelli del provocatore della mente. Monterey Pop, in fondo, è una sorta di road movie che esplora, anche meglio di certi film di culto come Easy Rider (Easy Rider – Libertà e paura, 1969) la coscienza collettiva della generazione dei sixties, e ne svela le sfumature nascoste dietro i paraventi psichedelici. subito dopo i titoli di testa, il film di Pennebaker si apre con un auspicio “rubato” ad una ragazza del pubblico: «sarà come essere a Pasqua e Natale e Capodanno e il giorno del compleanno, tutti insieme… Le vibrazioni stanno per fluttuare ovunque». a seguire il regista costruisce un vero e proprio videoclip promozionale della cultura hippie germogliata intorno alla Bay area. sulle note del brano di scott Mckenzie San Francisco (Be Sure to Wear Some Flowers in Your Hair), si susseguono immagini di giovani figli dei fiori belli e solari, quasi a voler smentire con la “verità del cinema” le infamanti parole pronunciate da Ronald Reagan qualche mese prima: «Gli hippies si vestono come Tarzan, hanno capelli come Jane, puzzano come Cheetah»19. Il brano di Mckenzie (non in versione live) funziona come musica extradiegetica di accompagnamento nel breve viaggio alla scoperta del popolo di Monterey. L’atterraggio di un aereo della Pacific dà finalmente il via al concerto vero e proprio. Efficacemente Pennebaker opera un missaggio tra il roboante rumore dei motori del velivolo e le prime note introduttive di California Dreaming dei Mamas & Papas. Il raccordo sonoro si conclude con uno stacco sui musicisti sul palco, proprio mentre intonano la prima strofa. L’aereo è atterrato: la scena sembra suggerire, per analogia, che il sogno californiano finalmente si è avverato. La canzone era stata composta nel 1965, in un giorno d’inverno a New York, quando il sole dell’Ovest sembrava lontano e irraggiungibile. Il sogno innocente dei Mamas & Papas si è ora concretizzato, ma si sta anche già consumando: non a caso il primo verso della canzone recita 19
In: William O’Neill, Coming Apart: an Informal History of America in the 1960s, cit., p. 670.
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emblematicamente, «Tutte le foglie sono appassite/E il cielo è grigio». Come nella logica del Circle Game, altre spinte oniriche, più grandi, incalzavano quella generazione. anche sul piano più strettamente musicale, del resto, il quartetto americano rappresentava un modello da superare: con i suoi zuccherosi impasti vocali, e i prevedibili backbeats. Oltre il sogno “in tempi pari” c’era l’impegno politico dei Country Joe and the Fish, e l’intensa performance free-form di hugh Masekela, sicuramente tra le cose migliori del concerto ripreso da Pennebaker. Un’altra breve sosta per ascoltare le parole del pubblico: «attendiamo una nuova ondata di band, che farà apparire tutto il resto… solo stronzate!». Nel film non ci sono molte interviste ai ragazzi del pubblico, ma quelle che appaiono sono estremamente efficaci, e danno ossigeno alle progressioni drammaturgiche. Quest’ultima dichiarazione, ad esempio, rappresenta un buon intermezzo, in attesa di lanciare i numeri musicali più incisivi del film: Big Brother and the holding Company, ma soprattutto Jimi hendrix Experience e The Who. Ovvero, il nuovo che avanzava. Le tre band erano quasi sconosciute negli Usa. Janis Joplin e gli holding si esibivano per la prima volta di fronte ad una audience così numerosa, e sebbene avessero già un manager importante (Chet helms), non avevano ancora inciso il loro primo album, che arriverà poco dopo il festival. Jimi hendrix aveva già avuto successo in Gran Bretagna (era lì che si era trasferito il ragazzo di seattle non riuscendo a sfondare in america), ma il primo long playing, Are You Experienced?, non era stato ancora distribuito in america quando si esibì a Monterey. Infine, The Who, gruppo inglese ormai già al loro secondo LP e molto popolare in casa, ma i cui primi lavori non avevano scalato neanche la top 100 statunitense. C’erano anche altri aspetti che accomunavano il passato (e in parte anche il triste futuro) di queste tre band: a differenza di molti colleghi che si esibirono a Monterey, Joplin, hendrix e Who non avevano mai avuto alcun legame con la tradizione folk americana, ed era anche difficile considerarli vicini alle incalzanti tendenze psichedeliche. I Mamas & Papas, i Byrds, i Buffalo springfield, simon & Garfunkel avevano tutti attraversato una fase folk; i Jefferson airplane, Country Joe e i Grateful Dead (questi ultimi non inclusi nel documentario, ma presenti al festival) erano da poco usciti da una fase di folk-rock creando il nuovo sound psichedelico. hendrix, Joplin e Who, invece, attingevano da solide radici blues, sebbene parlassero il linguaggio del “meta-rock”. Un rock che cominciava, in maniera consapevole, a riflettere su se stes-
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so, sulle proprie origini (e a giocare con esse), arrivando perfino ad autodistruggersi di fronte al pubblico. se è vero che a Monterey la musica pop è entrata in una fase matura, è altrettanto inconfutabile che i numeri musicali di questi tre nuclei hanno gettato le basi del rock post-moderno. Di hippie avevano forse solo i vestiti; la violenza fisica e sonora sprigionata nelle loro performance era distante anni luce dal mellifluo timbro jingle jangle dei Byrds, dai fiori nei capelli di Mckenzie, e perfino dai trip surrealisti dei Jefferson airplane. se li avesse visti Reagan avrebbe detto che quelli erano davvero dei tipi poco raccomandabili: altro che Tarzan! Tutte e tre le esibizioni inserite nel documentario sono estrapolate dall’ultimo giorno del festival, il 18 giugno. alla fine di Ball & Chain, cover r&b interpretata istericamente da Janis Joplin, Pennebaker, in un momento di vero Direct Cinema, si intrufola tra il pubblico e ferma un primo piano di Mama Cass (paffuta cantante dei Mamas & Papas) mentre guarda annichilita la giovane Joplin e disegna un labiale inconfondibile: «Wow!». Oggi, questo semplice montaggio alternato, che in un paio di inquadrature ci porta dal proscenio alla platea, appare come il segnale di un imminente cambio di staffetta. Durante l’esibizione degli Who, sono ancora i controcampi “rubati” dal pubblico a dare il segno della rivoluzione che sta avvenendo. I membri della band, in uno scatto di violenza liberatoria, mandano in frantumi chitarre e tamburi dopo una versione aggressiva e assordante di My Generation, nella quale arrivano perfino a invocare la Morte: «spero di morire prima di diventare vecchio!». I giovani allegri e spensierati affluiti a Monterey pensando di trovare solo “peace & love”, ora hanno stampata sul volto l’espressione di chi, “in anticipo sul proprio stupore”, ha visto i fuochi delle barricate del ‘68. Del resto, John Entwistle, bassista del gruppo, lo aveva promesso anche prima di iniziare a suonare. avvicinandosi al microfono aveva sentenziato: «Con questo pezzo finisce tutto!». Già, ma solo per poi ricominciare, perché: «se la controcultura è mito, conta la sua capacità di trasformarsi in sogno, in risorsa per immaginare un cambiamento, più ancora della sua effettiva realizzazione. Per questo, i più grandi idilli della controcultura sono idilli interrotti, […] che nel rimpianto per l’esperienza fallita trovano un modo per riaffermarne l’insopprimibile spinta propulsiva»20. 20
salvatore Proietti, Hippies! Dall’India alla California, la road map del ‘68, Banda Larga, Roma, 2008, p. 138.
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Nel set di Jimi hendrix, infatti, c’è tutto: la distruzione della strumentazione (simile a quella del finale degli Who), ma anche l’inizio di una nuova fase. Wild Thing è la canzone (se ancora si può parlare di forma-canzone per questo rifacimento del pezzo di Chip Taylor) che Pennebaker ha acutamente incluso nel documentario. La sua esibizione a Monterey, entrata ormai nella leggenda, ha espanso i confini del suono della chitarra elettrica come mai era accaduto in precedenza. Molte delle “innovazioni” esibite dall’artista davanti alle cineprese riassumevano percorsi già esistenti: il famoso pedale Wah-wah, ad esempio, lo aveva “copiato” da Frank Zappa; il feedback inteso non più come spiacevole rumore (il cosiddetto “effetto innesco”), ma come suono da impastare melodicamente tra le note, lo aveva scoperto nei locali londinesi tipo UFO o Marquee Club; e naturalmente i vertiginosi bendings discendevano dal glissando di tradizione blues. Quindi, non furono i “trucchi” a impressionare. E probabilmente nemmeno l’“atto sessuale” consumato con la sua Fender stratocaster, poi data alle fiamme e fracassata. Fu lo stile che a Monterey gli fece guadagnare il titolo di primo guitar hero dell’era pop. In lui (a differenza di altri grandi virtuosi della sei corde come Eric Clapton o Jeff Beck) la tecnica musicale e la tecnologia agivano all’interno di un nuovo contesto estetico e sociale. Tutto rimandava ad una dimensione dialettica, ad un continuo confronto ideologico tra l’artista e un Doppelgänger immaginario: i suoi disperati riff, spezzati da assoli selvaggi, sembravano provenire da un universo parallelo; l’apparente leggerezza, con cui passava dal ruolo di chitarra solista a quello di chitarra ritmica, dava l’impressione che a suonare fossero davvero in due; infine, la sfrontatezza con la quale infilzava le sue canzoni destrutturate con melodie prese da repertori “estranei”, produceva sfregi su corpi musicali ritenuti inviolabili. a Woodstock lo farà con l’inno americano, creando una “scandalosa” versione pastiche di The Star-Spangled Banner, a Monterey, in Wild Thing, se la prese con Frank sinatra. E così proprio mentre sta per lanciarsi in un assolo sentiamo il refrain di Strangers in the Night, canzone (questa sì!) portata al successo dal cantante italo-americano proprio l’anno prima. Pennebaker gli incolla addosso la 16mm, scegliendo spesso inquadrature strette, intuendo – sicuramente meglio dei discografici americani che lo avevano costretto ad espatriare – che quel musicista di colore aveva qualcosa di diverso da tutti gli altri. adattando un verso di una celebre canzone di Bruce springsteen potremmo concludere che, quella sera, hendrix imbracciò la chitarra e davvero imparò a farla
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parlare21. Le parole che si udirono, tra un trillo e un vibrato, furono chiare: «strangers in the night, two lonely people/We were strangers in the night». Due esseri (in uno) proiettati nel futuro, lanciati nello spazio, dritti verso la Luna. Proprio così scrisse un critico americano qualche tempo dopo: «hendrix è stupefacente: spero proprio arrivi per primo sulla Luna. se continua al ritmo attuale, ce la farà»22.
Woodstock: un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità Dopo una breve descrizione della superficie lunare, «Grana molto fine... quasi come la polvere», e aver pronunciato la storica frase, «Questo è un piccolo passo per l’uomo e un grande balzo per l’umanità», Neil armstrong scese dalla navicella, e diventò il primo uomo a camminare su un altro corpo celeste. Era il 20 luglio 1969. Jimi hendrix evidentemente aveva mancato l’appuntamento con la storia: in quei giorni si trovava in Marocco, dove una chiromante gli aveva predetto che presto sarebbe stato accolto da una grande folla, e poi sarebbe morto. Il viaggio sulla Luna di sicuro distolse per un po’ l’attenzione degli americani dalle sanguinose vicende accadute nell’ultimo anno. Il 1° febbraio 1968, un soldato Viet Cong venne giustiziato sommariamente da un ufficiale dell’esercito del sud Vietnam, alleato degli Usa. accadde sulla pubblica piazza, davanti alle telecamere, e l’immagine rimbalzò con tutto il suo carico simbolico fin nelle case degli americani, aiutando a far spostare l’opinione pubblica sul fronte pacifista. Il 4 aprile, a Memphis, venne assassinato Martin Luther king, leader afroamericano del movimento per i diritti civili. Il 6 giugno la stessa sorte toccò al senatore Bob kennedy, allora in corsa per la Casa Bianca alle primarie del Partito Democratico. Per quasi cento giorni le strade delle maggiori città americane furono sconvolte dai disordini e dalle violenze scoppiate tra le comunità nere in seguito all’assassinio del reverendo king; inclusa san Francisco, città ormai sempre più lontana dal modello peace & love immaginato dagli hippies e prossima alla metamorfosi violenta che la vedrà protagonista
21 La celebre canzone di springsteen è Thunder Road, nella quale il songwriter americano canta: «Well, I got this guitar and I learned how to make it talk». 22 In: Charles R. Cross, La stanza degli specchi. Jimi Hendrix: la vita, i sogni, gli incubi, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 293.
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del cliché cinematografico amplificato dall’implacabile ispettore Callahan. Come corollario di un anno tragico, proprio sotto il sole della California, si allungò un’ombra esiziale che avrebbe messo seriamente in crisi il movimento hippie. Nella notte di Capodanno, un mediocre cantante folk di nome Charles Manson – scheggia impazzita della comunità di haight-ashbury – diede vita ad una violenta setta satanica, lasciandosi ispirare da una canzone dei Beatles dal titolo “scivoloso”, Helter Skelter. Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1969, una settimana prima dell’inizio del Festival di Woodstock, il clan di Manson compì la sua azione più efferata, trucidando cinque persone, tra cui sharon Tate, attrice hollywoodiana sposata con il regista Roman Polanski, e incinta di otto mesi. al di sopra di questo cielo plumbeo si erano spinti armstrong, Collins e aldrin, i tre astronauti della missione apollo 11, e sotto di esso quattro giovani, Micheal Lang, artie kornfeld, John Roberts e Joel Rosenman, si accingevano a dar vita al più grande megaraduno della storia del rock: The Woodstock Music and Art Fair23, festival prodotto con i capitali limitati degli organizzatori e con quelli “illimitati” anticipati dalla Warner Bros, che da quell’evento aveva deciso di ricavarne un film, Woodstock: 3 Days of Peace and Music (Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, 1970)24. Il fenomeno mediatico di Woodstock, ampliato dal successo commerciale del documentario, va calato nel suo contesto storico (e mitico). Lontana dalla West Coast, una folla sterminata di persone (cinquecentomila, forse più) assistette, per tre giorni, a una serie lunghissima di numeri musicali: Joan Baez, Jefferson airplane, Joe Cocker, Country Joe and the Fish, Richie havens, Crosby, stills & Nash, The Who, santana, Canned heat, Creedence Clearwater Revival, Janis Joplin, Jimi hendrix e altri ancora. “Una esposizione sotto il segno dell’acquario”, così recitava la locandina dell’epoca. Il sogno americano, dopo aver toccato il suo punto più occidentale con Monterey, stava tornando indietro, verso Est, come nel viaggio di Easy Rider, dove i 23
Il festival, in realtà, non si svolse nella cittadina di Woodstock, perché gli amministratori locali negarono, poco prima dell’inizio della manifestazione, i permessi agli organizzatori, i quali dovettero spostarsi nella vicina White Lake, Bethel (stato di New York), nella fattoria di Max Yasgur. Ciò nonostante il nome originario fu ugualmente conservato perché tutti i marchi erano già stati depositati col nome di Woodstock. 24 Il film, realizzato in occasione del festival nel 1969, venne distribuito negli stati Uniti a partire dal 26 marzo 1970.
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due motociclisti Wyatt e Billy vanno alla ricerca di un sogno, che però non riescono a trovare, forse proprio perché lo rincorrono ad Oriente. a Est invece che a Ovest, quindi, ma soprattutto in campagna invece che in città. In quest’ultimo aspetto risiede una delle peculiarità di Woodstock: la grande comunità hippie si assiepò nell’enorme distesa verde della fattoria di Max Yasgur configurandosi come un popolo in fuga dalla città, in cerca di un consesso spirituale con la Natura e di un’utopica società pre-capitalistica e pre-tecnologica. Una materia che si annunciava epica, e che il documentario di Michael Wadleigh ha avuto il merito di saper rappresentare. ad anni di distanza è stato lo stesso regista a ricucire il concetto: «si vedono i ragazzi che lasciano le città per la campagna. Tornano alla terra, all’innocenza della Natura. […] si tratta di uno stato mentale, di un ritorno al Giardino, ovunque esso sia»25. Una dichiarazione che è in perfetta sintonia con la canzone dei Canned heat, intitolata appunto Going Up the Country, che ascoltiamo nella lunga scena iniziale del film: «sto andando in campagna, ragazza, non vuoi venire?/sto andando in un posto dove non sono mai stato prima/Non so dirti dove esattamente/Potremmo perfino lasciare gli Usa/Perché si tratta di un gioco completamente nuovo, e io ho voglia di giocare».
secondo il regista, quindi, il festival di Woodstock esemplificava l’aspirazione hippie al “ritiro agreste”, a cui pure aveva fatto cenno il poeta beat Gary snyder, secondo il quale nel primitivismo era possibile afferrare un presente mitologico, scevro dai vizi cronologici della storia. Non un ritorno al passato, piuttosto la ricerca di un luogo primitivo atemporale; un tentativo di integrare il tempo storico nel tempo cosmico, ciclico, infinito. Perché, come scriveva nello stesso anno di Woodstock lo scrittore kurt Vonnegut in Mattatoio n° 5, «È solo una nostra illusione di terrestri quella di credere che a un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che una volta che un istante è trascorso è trascorso per sempre»26. La pellicola si apre con una dichiarazione rilasciata da un certo sidney Westerville, proprietario di un esercizio commerciale situato 25 La dichiarazione di Michael Wadleigh è tratta dalla Enciclopedia Britannica on Line: The Woodstock Generation, «Britannica on Line», www.britannica.com/psychedelic/textonly/ woodstockgeneration.html. accesso: 18 novembre 2008. 26 kurt Vonnegut, Mattatoio n° 5, o la crociata dei bambini, arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1970, p. 21.
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nei dintorni del luogo della manifestazione: «Ero qui quando la folla arrivò. Ci aspettavamo cinquantamila persone, e invece ne arrivarono un milione. Quei ragazzi erano fantastici. […] È stata una cosa enorme, troppo grande per il mondo. Ne avrete un’idea quando vedrete il film». Il simpatico commerciante parla al passato, ma il festival, per chi guarda il film, non è ancora cominciato. Il regista, è chiaro, ha scelto di dare alla pellicola una cornice narrativa che trasforma il nucleo del documentario in un unico lungo flashback. Il tono del discorso e la sua collocazione temporale imprimono al racconto una misura epica. Dal futuro si torna al passato, ai giorni immediatamente antecedenti all’inizio del concerto. Uomini a lavoro: gru, trattori, filo spinato, reticolati, recinti, sembra quasi di assistere alla costruzione di una moderna riserva indiana. E poi loro, i ragazzi della Woodstock Nation, in esodo verso la Terra promessa. La musica, ancora in fase non diegetica (Long Time Coming e Going Up the Country), aggiusta le geometrie visive che regolano la distanza tra sogno e realtà. Cala l’ultima notte prima del principio. Lo schermo si sdoppia e svela il tratto distintivo dello stile adottato dal regista: la simultaneità dei punti di vista. attraverso l’uso frequente della pratica dello splitscreen (cioè dello schermo occupato contemporaneamente da due o più inquadrature), Wadleigh intende rappresentare qualcosa di “irrappresentabile”, un evento che è stato «troppo grande per il mondo», e che quindi rischia di essere troppo grande anche per il cinema. Lo splitscreen è il cuore del film, ne scandisce il ritmo dall’interno, liberando la narrazione dalla tradizionale logica dei raccordi tra inquadrature. Esse, al contrario, fluiscono liberamente e parallelamente, talvolta ignorando le strutture spazio-temporali. anche i concetti fondamentali di scena e sequenza sono fortemente compromessi. Lo split-screen non era una novità nel 1969, ma in quest’opera entra in “comunione spirituale” col Movimento giovanile. Ne rappresenta la poliedricità, le sfaccettature, le spinte utopiche; e inevitabilmente le contraddizioni, anche quelle più stridenti. Nella confusione della molteplicità dei piani narrativi capita perfino di scorgere, alle spalle del proprietario di un negozietto, un piccolo stand con i quotidiani del 15 agosto. su uno di essi è appena leggibile il titolo seguente: «sharon’s Pals Balk at the Probe» [Gli amici di sharon (Tate, ndt.) ostacolano le indagini]. Uno strillo casuale? Forse, ma non importa. Charles Manson è arrivato, come un convitato di pietra, fino a Woodstock: capitale di una geografia immaginaria in grado di contenere anche il suo mostruoso
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ego, e segnalare che «chi partecipa al sogno non necessariamente è discendente diretto delle persone a cui è successo davvero»27. Fatto sta che da questo momento in poi si incomincia a respirare un’aria di dissoluzione: per sottolineare il grande afflusso di persone il regista inquadra dall’elicottero code interminabili di automobili paralizzate nel traffico; arlo Guthrie (figlio del famoso Woody Guthrie) dichiara fiero alle cineprese che lo stato di New York ha deciso di chiudere l’arteria principale di comunicazione, ignorando evidentemente la gravità della situazione; l’improvvisa e violenta pioggia del secondo giorno trasforma il Giardino in una immensa palude fangosa dai contorni danteschi, nella quale la grande comunità non potrà fare altro che rotolarsi, anche se allegramente. si fa largo l’ipotesi che il documentario su Woodstock, nell’ansia di rappresentare l’inizio di una nuova era, abbia invece fotografato, inconsapevolmente, l’esistenza di una deviazione sbagliata sulla rotta dell’american Dream. Nel documentario, l’ordine di apparizione degli artisti – che non combacia minimamente con ciò che davvero accadde al festival – offre altri spunti di riflessione a proposito dei contrasti esistenti in seno al popolo di Woodstock. Prendiamo ad esempio le esibizioni di Joan Baez e The Who, che nella realtà si sono svolte a circa 24 ore di distanza l’una dall’altra, e che invece nel film di Wadleigh sono poste in successione. Due numeri notturni, per così dire, che si riferiscono a due notti diverse: quella del 15 agosto la Baez e quella del 16 gli Who. In mezzo c’erano state tante altre esibizioni, oltre che il famigerato diluvio. Il regista li accosta creando un notevole effetto di straniamento. La cantante folk e il gruppo britannico di rock duro incarnavano le ali estreme del Movimento: emblema dell’impegno civile e politico la Baez (insieme all’assente Bob Dylan), fautori di una musica nichilista e violenta gli Who. angelica la prima, nella sua interpretazione “a cappella” del vecchio spiritual di fine Ottocento Swing Low, Sweet Chariot, diabolici gli altri nell’esecuzione di Tommy (nel film rimarrà solo l’appendice, See Me, Feel Me), rock opera che racconta la storia disperata di un ragazzino cieco, sordo e muto. Joan Baez termina la sua parte con un «amen» che riecheggia nell’aria ormai gravida di segnali temporaleschi. 27 Il passo citato è tratto da un saggio di John steinbeck pubblicato nel 1966, da poco disponibile anche in Italia: John steinbeck, “Paradosso e sogno”, in: L’America e gli americani, alet Edizioni, Padova, 2008, p. 241.
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Pochi secondi di buio; poi sulla sinistra dello schermo si apre un’inquadratura (in realtà un fermo immagine) sottolineata da una potente distorsione elettrica. altri fotogrammi in successione (frame-by-frame) e scopriamo Pete Townshend, chitarrista del gruppo inglese, vestito con una tuta bianca, bloccato in uno dei suoi memorabili salti; abbigliamento e taglio di capelli che lo rendono simile ad uno dei ragazzacci violenti dell’Arancia meccanica28. E agendo proprio come uno dei drughi scaraventerà giù dal palco l’innocuo abbie hoffman in cerca di un piccolo spazio per i suoi comizi sui diritti civili: «Giù dal mio fottuto palco, brutto stronzo!», gli risponderà lo schizoide Townshend, brandendo la chitarra come una mazza da baseball. Purtroppo Wadleigh ha censurato questo straordinario episodio, che sarebbe stato un perfetto prologo della tragedia di altamont, di cui daremo conto nel prossimo paragrafo. ha lasciato dentro, invece, una versione protopunk di Summertime Blues, che grazie agli accordi ritmici rintronanti di Pete Townshed disegna in chiave prospettica gli sviluppi musicali dei dieci anni seguenti. Passato, presente, futuro sono categorie temporali evocate spesso dagli stessi artisti durante i loro concerti: John sebastian, finito sul palco per caso, si rivolge emozionato al pubblico raccontando della nascita di un bambino, notizia che ha appreso poco prima di arrivare a Woodstock, e guardando stupefatto la folla aggiunge: «Non ho mai visto niente del genere. Forse ce n’era un’idea al Festival di Newport, ma era roba loro, era un altro discorso». sebastian crea un ideale ponte tra il passato del Newport Folk Festival, e il futuro rappresentato dal bambino nato nei giorni di Woodstock. E ancora, sly stone and the Family, nel loro tentativo di coinvolgere il pubblico in un momento di canto collettivo, auspicano il ritorno ad una sana abitudine del passato, la vecchia pratica del singalong caduta in disuso nell’era della psichedelia: «Capita spesso che ci sia un pubblico capace di cantare – dice sly – ma che per ragioni ormai note non voglia più farlo. Noi abbiamo bisogno della partecipazione, anche se a molti non piace perché pensano che sia di vecchio stampo, ma dovete capire che si tratta solo di una sensazione: e se era buona in passato, lo sarà sempre». 28 Il look di Pete Townshend è simile a quello dei drughi del film di kubrick, che però uscirà sugli schermi solo due anni dopo Woodstock. I personaggi dell’omonimo romanzo di anthony Burgess che è alla base del film, com’è noto, vestono in maniera completamente diversa. Viene da pensare, quindi, che sia stato proprio Townshend il modello estetico dei personaggi cinematografici kubrickiani; anche se non è dimostrabile.
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Woodstock è davvero un vortice atemporale, un presente immanente che, nel tentativo di rappresentare il futuro col meccanismo della reiterazione, pietrifica il sogno in mito. Nel documentario di Wadleigh sembra proprio che la Woodstock Nation sia finita in un “fuori orario” mitologico. Col più celebre “fuori orario” della storia del cinema rock, infatti, si chiudono il concerto e il film: l’esibizione di Jimi hendrix. Il chitarrista avrebbe dovuto concludere la manifestazione nella notte del 17 agosto. Ma i ritardi, dovuti alla pressoché totale disorganizzazione, lo costringono ad uscire sul palco alle sette di mattina del giorno seguente, quando cioè il festival è ufficialmente concluso. Davanti a lui ci sono solo poche migliaia di persone immerse in un desolato paesaggio lunare. Il popolo di Woodstock non c’è più. Il film ora evoca anche uno spettrale fuori campo. L’esibizione forse più famosa della carriera di hendrix è in realtà avvenuta in un luogo fantasma. ai primi piani delle mani di hendrix, che corrono veloci sul corpo della chitarra color bianco latte, il regista alterna controcampi che illuminano gli ultimi sopravvissuti: ectoplasmi che vagano in una Waste Land eliotiana afflitta dal mito dell’eterno ritorno e dall’abolizione dello spazio-tempo. hendrix suona (e deforma) l’inno americano con una carica espressiva (ed eversiva) che sembra raccogliere tutte le contraddizioni di un Movimento giovanile sempre più avvitato su se stesso, di una musica rivoluzionaria ormai piegata agli interessi del mercato, e di un’epoca che sa di amore e morte. «In quel momento hendrix vede tutto quello che c’è da vedere – ci ricorda Gino Castaldo –, vede se stesso morire, vede la fine della musica, la fine del tempo»29. Poi Star-Spangled Banner, come per magia, si fonde con Purple Haze: brano con sinuose curve melodiche, “inquinate” dalla presenza drammatica dell’intervallo di Tritono, altrimenti conosciuto come il “Diabolus in musica”30. Nei versi si scorge un esile margine per approdare nuovamente sui lidi onirici: «Una foschia porpora mi 29
Gino Castaldo, Il buio, il fuoco, il desiderio. Ode in morte della musica, Einaudi, Torino, 2008, p. 5. 30 L’intervallo di Tritono, più propriamente detto “intervallo di quarta eccedente”, è la distanza di tre toni tra una nota e l’altra; per esempio tra il Do e il Fa diesis. alcuni secoli addietro questo intervallo appariva talmente dissonante da essere identificato come opera di Lucifero, appunto il “Diabolus in musica”. È, inoltre, interessante notare come l’intervallo di Tritono sia stato impiegato di frequente dai gruppi di progressive rock degli anni settanta, «contribuendo al tono scuro di vari brani». a tale proposito, si veda: Franco Fabbri, “acquiring the Taste”, in: Il suono in cui viviamo (terza edizione, ampliata), Il saggiatore, Milano, 2008, p. 236.
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riempie gli occhi/Non so se è giorno o notte/È già domani, o è solo la fine del tempo/Perdonatemi mentre bacio il cielo». Il regista sembra voler concedere ad hendrix un’ultima chance: lo inquadra dal basso, incastonando la sua figura adamantina sotto la volta celeste; perché, in fondo, «la musica è finita un’infinità di volte, ma ogni volta ribadendo la sua vitalità»31.
Il gigante annegato: la tragedia di Altamont a mezzanotte del 2 luglio 1969, Brian Jones, membro fondatore dei Rolling stones, viene trovato morto annegato nella piscina di casa sua, nel sussex. Il decesso è stato provocato da un cocktail di droghe e alcol. È il primo di una lunga serie di eroi musicali moderni sacrificati giovanissimi sull’altare del pop: dopo di lui, nel giro di soli due anni, scompariranno Janis Joplin, Jimi hendrix, al Wilson dei Canned heat e Jim Morrison dei Doors, solo per citare i più famosi. La sua fine schiude definitivamente la dimensione simbolica esistente intorno al corpo-rock: in vita amato, ammirato, studiato, e infine – passando dal piano della metafora a quello letterale post mortem – smembrato, vivisezionato, analizzato. Ridiventando, al suo ricucirsi, oggetto di nuovi stupori e rinnovate ammirazioni. «a ogni nuova morte il mistero della morte si arricchiva di nuove suggestioni – ha scritto Zachary Lazar in un romanzo dedicato proprio a questi avvenimenti – e il fascino carismatico delle vittime svincolava il mondo degli esseri umani dal suo legame con la terra»32. Ma la “caduta” di un’icona del rock allude inevitabilmente ad altro; come nel racconto di J. G. Ballard del 1966, Il gigante annegato, dove il corpo scarnificato di un titano misteriosamente annegato diventa metafora dell’ineluttabile processo di dissoluzione della società, e perfino foriero di catastrofi imminenti. Due giorni dopo la morte di Brian Jones i Rolling stones trasformano un concerto a hyde Park in un commovente tributo all’amico scomparso. Mick Jagger legge dei versi tratti dall’Adonais di shelley: «L’Uno rimane, i molti cambiano e passano; i Cieli sempre splendono, le ombre della Terra volano; la vita, come una cupola di vetro variopinto,
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Gino Castaldo, Il buio, il fuoco, il desiderio. Ode in morte della musica, cit., p. 7. Zachary Lazar, Sway, Einaudi, Torino, 2009, pp. 196-197.
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colora e macchia il bianco raggio dell’eterno, finché la Morte non la manda in pezzi»33.
Poi migliaia di farfalle vengono liberate in segno di romantico commiato: asfissiate dalla lunga permanenza in scatole di cartone, cadono tramortite sulle teste degli spettatori nel giro di pochi istanti. Prima degli stones sale sul palco un gruppo di sconosciuti: i king Crimson. Durante l’esecuzione di 21st Century Schizoid Man, una gigantografia di Brian Jones casca sulla testa di Greg Lake, cantante del gruppo di supporto, e quasi lo ammazza34. strana musica quella dei Crimson, niente a che vedere con gli stones. Non cantano né di sesso né di droghe, e nemmeno di proteste civili. sono psichiatri del rock, preferiscono occuparsi della mente malata dell’uomo moderno: «sono all’esterno che guardo all’interno/Cosa vedo? Molta confusione»35. se non fossero stati troppo impegnati a preservare la loro immagine di “più grande rock‘n’roll band del mondo”, anche gli stones avrebbero potuto vederla. I preparativi per il loro tour americano incombevano, e il concerto a hyde Park, filmato da Jo Durden-smith e Leslie Woodhead per la Granada Television, avrebbe fatto da lancio. In quello stesso periodo gli stones erano stati protagonisti di altri due film: Rock‘n’Roll Circus (Id., 1968) diretto per la BBC da Michael Lindsay-hogg e One Plus One/Sympathy for the Devil (Id., 1968) di Jean-Luc Godard. Da un paio d’anni ormai il super gruppo britannico flirtava col diavolo e la sua musica: Their Satanic Majesties Request, del 1967, aveva aperto le danze (macabre) e l’anno seguente la travolgente Sympathy for the Devil aveva rincarato la dose con un testo chiaramente ispirato all’incipit inquietante de Il maestro e Margherita di Bulgakov. a lungo evocato, satana pensò bene di attenderli ad altamont, con i suoi emissari, gli hell’s angels. La tragedia consumatasi allo speedway di altamont il 6 dicembre 1969 nei pressi di san Francisco, durante il megaraduno voluto fortemente dai Rolling stones per chiudere in bellezza il loro 33
Ivi, p. 201. Non esistono immagini di questo curioso episodio, tuttavia la letteratura sull’argomento ne fa menzione. Ci limitiamo, in questa sede, a segnalare la nostra fonte principale: sid smith, In the Court of King Crimson, helter skelter Publishing, London, 2001, p. 52. Recentemente, l’episodio è stato riportato anche in: Valeria Rusconi, Dancing with Mr. D, «La Repubblica XL», n° 42, febbraio 2009, p. 50. 35 Il verso è tratto dal brano I Talk to the Wind, contenuto, come anche 21st Century Schizoid Man, nell’album d’esordio dei king Crimson, In the Court of Crimson King, pubblicato 4 mesi dopo il concerto ad hyde Park con gli stones. 34
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tour americano, in fondo, sembra proprio uno dei diabolici rivoli del romanzo del grande scrittore russo. Gimme Shelter36 (Id., 1970), il documentario che David e albert Maysles ne trassero, rimane ancora oggi uno dei più interessanti esempi di cinema rock. Jean-Luc Godard considerava i fratelli Maysles i più grandi cameramen americani37, e li segnalò agli stones per il loro prossimo documentario. Inoltre, i due giovani registi di Boston, accoliti del Direct Cinema come Pennebaker, avevano già realizzato What’s Happening! The Beatles in America (1964), uno splendido film sulla prima visita negli stati Uniti degli eterni rivali dei Rolling stones38. Gimme Shelter documenta gli ultimi dieci giorni del tour statunitense della band di Jagger e Richards: dall’esibizione al Madison square Garden di New York, fino al raduno di altamont, al quale presero parte anche i Jefferson airplane, santana, Ike & Tina Turner, i Flying Burrito Brothers, e un pubblico quasi pari a quello di Woodstock. Il servizio d’ordine del colossale evento fu affidato agli hell’s angels, una squadra di motociclisti violenti e alcolizzati che trasformò un pacifico happening hippie in un bagno di sangue. L’incipit del documentario è costituito da una versione live di Jumping Jack Flash. Quindi, la linea narrativa si sposta in avanti con una ellissi: alla fine del numero, Mick Jagger ringrazia il pubblico newyorkese e elargisce complimenti al batterista Charlie Watts39 (effettivamente mai così in forma). Uno stacco sullo stesso Watts, seduto alla moviola insieme ai registi, ci indica che stavamo guardando (con loro) delle immagini ancora in fase di lavorazione. anche Gimme Shel36
Il film, girato nel 1969, uscì nelle sale cinematografiche americane il 6 dicembre 1970. Nei credits, accanto ai nomi dei fratelli Maysles comparve anche quello di Charlotte Zwerin, che tuttavia curò solo il montaggio. 37 Cfr. Jonathan B. Vogels, The Direct Cinema of David & Albert Maysles, southern Illinois University Press, Carbondale, 2005, p. 5. 38 Le analogie tra What’s Happening! The Beatles in America e Gimme Shelter non sono poche. ad esempio, entrambi i film iniziano con i musicisti che guardano le loro immagini in uno schermo: nel primo ci sono i Beatles che si osservano in televisione; nell’altro gli stones si specchiano alla moviola. 39 I fratelli Maysles affidarono al batterista Charlie Watts un ruolo di primo piano nel documentario, rinnovando la scelta che aveva già fatto Peter Whitehead nel suo film “maledetto” sui Rolling stones, Charlie is My Darling (Id., 1966). Negli stessi anni, anche il batterista Ringo starr diventava – come ci ricorda Michelangelo Iossa nel suo saggio contenuto in questo volume – la figura centrale della pentalogia cinematografica beatlesiana. Proprio grazie al cinema (e nel cinema), quindi, la figura del batterista – apparentemente lontana dall’esibizionismo del frontman – conquistava un posto di prima fila, ribaltando le rigide regole del palcoscenico rock che vedevano il drummer inevitabilmente relegato “sullo sfondo”.
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ter, al pari di Woodstock, non racconta gli eventi seguendo un ordine cronologico. I piani narrativi sono sostanzialmente due, con altrettante dimensioni spazio-temporali: il primo è quello rappresentato dal girato realizzato dai registi al seguito della band; il secondo, invece, è dato dalle reazioni degli stones di fronte a quelle stesse immagini che scorrono sul monitor del banco steenbeck e che evidentemente sono ancora in fase di post-produzione. Un vero e proprio esercizio di montaggio funambolico, insomma, che, col pretesto della “musica del diavolo”, esibisce una delle più intelligenti riflessioni sull’ambiguità del gioco cinematografico. La prima sollecitazione emotiva a cui vengono sottoposti gli stones (in particolare Jagger e Watts), però, è di natura sonora, e giunge proprio all’inizio, quando i fratelli Maysles li “costringono” ad ascoltare degli stralci di una trasmissione radiofonica mandata in onda dalla stazione ksaN di san Francisco all’indomani della tragedia di altamont: «Lo speaker – “Il tour degli stones è finito con un concerto allo speedway di altamont, davanti a 300.000 persone. Ci sono state quattro nascite, quattro morti e tanti scontri. Ci è stato detto che un ragazzo è stato accoltellato a morte davanti al palco da un membro degli hell’s angels. Noi non l’abbiamo visto, ma vorremmo sapere cosa avete visto voi”».
L’invito del commentatore viene prontamente raccolto sia da uno degli organizzatori (sam Cutler), sia dal capo degli hell’s angels (sonny Barger): «Cutler – “Gli angels hanno fatto del loro meglio in una situazione difficile. a loro modo hanno cercato di dare una mano”. Barger – “Io non sono un poliziotto, e non sono andato lì per fare il poliziotto. E questo (… censurato) di Mick Jagger ha dato tutta la colpa agli angels”».
a questo punto i Maysles inquadrano Mick Jagger che segue stupito e in silenzio le farneticazioni di Barger: «Barger – “E credo che ci siamo lasciati fottere dal più grande idiota che abbia mai incontrato. […] Mi avevano detto di sedermi a bordo palco e di non far salire nessuno, e che così avrei potuto bere birra a volontà. Io non sono un tipo che mette pace. E potete pure dire che quelli erano pacifici figli dei fiori e questo e quello, ma erano pieni di droga […] e se ne andavano in giro saltando e urlando. […] Ma quando salti addosso a uno di noi, allora ti fai molto male”».
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Questa sequenza ci trasmette – senza farcela ancora vedere – la spirale di follia che circondò tutti quella sera a altamont: il pubblico, gli organizzatori, il servizio di sicurezza, i Rolling stones e perfino i registi, in seguito accusati, ingiustamente, di aver messo in scena una specie di snuff movie40. «Che follia, che vergogna!», dirà, infatti, Charlie Watts in un attimo di ritrovata lucidità. Ma a questo punto la pietra ha cominciato a rotolare e travolge tutto. La narrazione corre veloce verso le immagini evocate, quelle in cui si vedrà “la morte in diretta” di un giovane diciottenne di colore accoltellato da un angelo dell’inferno davanti al doppio sguardo di Mick Jagger: quello ametropico lanciato dal palco e quello emmetropico incollato davanti all’implacabile moviola. La musica passa in secondo piano. L’aspettativa creata ad arte dai fratelli Maysles nella prima scena è tale che perfino le sequenze dei disordini, che hanno luogo durante le esibizioni degli altri gruppi, scivolano via “leggere”: branchi di hell’s angels inferociti si fiondano sul pubblico pestandolo con mazze e spranghe; gente scaraventata a calci giù dal palco; e gli artisti presi a pugni. alcuni gruppi si rifiutano di suonare (i Grateful Dead, per esempio). L’esterrefatta Grace slick, leader dei Jefferson airplane, cerca di riportare tutti alla calma. Il suo collega Marty Balin è stato appena malmenato da uno degli angels: «Calma, calma, cosa succede?», grida. Per tutta risposta uno degli energumeni a bordo palco le si avvicina con fare minaccioso e chiude la faccenda con una battuta che sembra uscita da un film di Martin scorsese: «Ce l’hai con me? Vuoi sapere cosa succede… succede che voi siete il problema!». Ecco, finalmente, il punto! Nel loro delirio violento, quel giorno, gli hell’s angels di altamont tirarono fuori un’amara verità, che nes40 all’epoca dei fatti di altamont l’espressione snuff movie non era stata ancora coniata, ma il senso delle accuse rivolte ai registi riconduceva proprio a un tipo di film che metteva in scena violenze, torture e perfino uccisioni reali davanti alle cineprese. Essa è stata usata per la prima volta nel 1971 da Ed sanders, in un saggio dedicato alla storia di Charles Manson, The Family: The Story of Charles Manson’s Dune Buggy Attack Battalion. In questo libro sanders sostiene che esista un filmato amatoriale della strage di Bel air nella quale morì anche l’attrice sharon Tate; e gli autori sarebbero gli stessi assassini. Il filmato, però, non è mai stato trovato. Cionondimeno, il termine snuff associato in maniera diretta al mondo del cinema è diventato universalmente noto nel 1976, quando Michael Findlay, Roberta Findlay e horacio Fredriksson girarono un film dal titolo The Slaughter, che ancora una volta riguardava la ricostruzione degli omicidi del clan di Manson. Per biechi motivi commerciali i registi misero in giro delle voci secondo le quali le efferatezze della pellicola non erano semplici finzioni, ma pura realtà. Grazie a questa trovata pubblicitaria di dubbio gusto il film guadagnò una enorme popolarità e venne ribattezzato Snuff.
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suno avrebbe voluto sentire, e tanto meno vedere. Gimme Shelter l’ha saputa documentare in forma drammatica come mai nessuno aveva saputo fare in precedenza: il “problema” erano gli artisti sul palco e il mondo dello show biz che vi stava dietro. si dice spesso che altamont abbia marcato la fine di un’era. Forse è eccessivo: di sicuro, da quel momento in poi, fu molto difficile far passare l’idea che i megaraduni (e la musica rock) fossero solo un’ondata di pace e amore. Frank Zappa, abbattendo per primo il muro di ipocrisia, lo aveva già denunciato l’anno precedente con un album dal titolo esplicito: We’re Only in It for the Money [Ci siamo dentro solo per soldi].
La scomparsa della Luna: la commedia dell’isola di Wight «sai cos’è l’isola di Wight/È per noi l’isola di chi/ha negli occhi il blu della gioventù/Di chi canta hippi hippi pi». Iniziava così una famosa canzone dei Dik Dik41, ma è meglio lasciarla perdere… se davvero vogliamo scoprire cos’è l’isola di Wight, risulterà più proficuo partire da un’altra canzone. La cantava Bob Dylan: proviamo a fidarci. «Ora che la Luna è quasi scomparsa/Le stelle incominciano a nascondersi/La chiromante ha tolto le tende/[…] Il Buon samaritano si sta preparando per lo show/andrà al carnevale stanotte, a Desolation Row». Il songwriter americano scrisse Desolation Row ispirandosi a un romanzo di John steinbeck intitolato Cannery Row, opera tragicomica ambientata a Monterey durante la Grande Depressione. La Luna, la chiromante, Monterey, steinbeck: quante piacevoli ricorrenti coincidenze in questo finale di partita. I ragazzi che parteciparono alla terza e ultima edizione del Festival dell’isola di Wight – quella immortalata nel film di Murray Lerner dal titolo Message to Love: Isle of Wight Festival 197042 (Id., 1997) – conoscevano bene il significato dei versi di questa canzone. arrivarono in seicentomila, almeno così recita una didascalia all’inizio del film. E quasi tutti senza biglietto, potremmo aggiungere. 41
La canzone cantata dai Dik Dik si intitola appunto L’isola di Wight, ed è in realtà la cover di un pezzo francese scritto da Michel Delpech nel 1969. La canzone originale si riferiva, però, alla seconda edizione del Festival di Wight, quella del 1969 a cui partecipò anche Bob Dylan. 42 Il film di Lerner, girato nel 1970, è stato distribuito solo nel 1997, perché gli organizzatori del concerto, nonché alcuni musicisti che presero parte al megaraduno, ne hanno impedito per anni la circolazione.
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I pochi che lo avevano acquistato furono introdotti all’interno di una cittadella protetta da un solido muro di lamiere. Il resto del popolo hippie, che non aveva voluto spendere tre sterline per l’acquisto del titolo di accesso, si assiepò ai piedi di una collina adiacente al palco, e guarda caso la ribattezzò proprio Desolation Row. Da quel luogo sarebbe partito il loro urlo di protesta: «I giorni precedenti al terzo e ultimo Festival dell’isola di Wight (che è uno spartiacque tra la musica degli anni sessanta e quella del nuovo decennio) erano stati carichi di tensione. Gli organizzatori avevano tentato di resistere alle pressioni dei fan più militanti, tra cui un contingente di studenti francesi reduci dalle manifestazioni di Parigi, che volevano che i cinque giorni di concerto fossero gratis. Tentavano di mettere delle barriere attorno al palco e gli studenti le abbattevano. I giovani poi avevano occupato una collina vicina da cui si vedeva perfettamente lo spettacolo, cosa che pesò fortemente sulla vendita dei biglietti e causò il fallimento economico del concerto»43.
Quella del terzo Festival di Wight è la storia di una lunga ed estenuante battaglia (durata 5 giorni, dal 26 al 30 agosto 1970), che vide contrapposte due fazioni: i ragazzi della “desolazione dylaniana”, i quali evidentemente si chiedevano, “perché pagare per essere felici?” (per usare il titolo di un interessante documentario di Marco Ferreri)44, e coloro i quali (artisti, manager e organizzatori) sostenevano che la felicità, soprattutto quella musicale, dovesse sempre avere un prezzo. Lo scontro si consumò senza spargimenti di sangue, per fortuna, e anzi il documentario di Lerner ne ha saputo evidenziare, con efficacia, i contorni grotteschi, talvolta perfino comici. Ma il tono da commedia buffa non nasconde le asprezze di un evento che avrebbe chiuso per sempre un ciclo di illusioni. Tre anni soltanto separavano Monterey 43 howard sounes, Anni 70, la musica, le idee, i miti, Editori Laterza, Bari, 2007, pp, 48-49. 44 Perché pagare per essere felici!! (1976) è un documentario di Marco Ferreri girato nel 1970. si tratta di un mediometraggio di 46 minuti, nel quale il regista ripercorre le strade del Nord america alla ricerca delle radici della controcultura giovanile. Tra le altre cose, nel film si assiste a uno scontro tra la polizia e il pubblico (sfornito di biglietti) di un grande evento rock. La location esatta non viene esplicitata. secondo le poche fonti a disposizione il concerto in questione sarebbe il Powder Ridge Rock Festival, programmato dal 30 luglio al 2 agosto 1970, e cancellato dall’FBI a poche ore dall’inizio per motivi di ordine pubblico. a queste immagini, però, Ferreri ne abbina delle altre che, secondo una nostra ricostruzione, si riferiscono a un piccolo raduno organizzato sempre nel 1970 ad alberta, in Canada, al quale parteciparono artisti poco noti quali, Luke and the apostoles, atlantis, The Mountain. Il documentario fu mandato in onda dalla Rai nel 1976.
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dalla terza e ultima edizione del Festival di Wight, ma nell’era dell’acquario assunsero la densità del Giurassico. Chi si sarebbe mai immaginato, ad esempio, nel 1967, di vedere delle rock star contestate dal loro stesso pubblico, e costrette a rinchiudersi dietro una “cortina di ferro” ad occuparsi unicamente dei loro cachet? Chi avrebbe mai creduto, durante la summer of Love, di dover assistere un giorno a un raduno inaugurato da un inferocito Master of Cerimonies con un lessico da locandiere dell’East End? – «abbiamo messo su questo festival con grande amore, bastardi! – Urla alla folla – abbiamo lavorato un intero anno per voi, porci! E adesso volete abbattere il muro e distruggere tutto. allora andate all’inferno!». E, infine, quale regista, solo un paio di anni prima, avrebbe mai osato iniziare un documentario su un megaraduno di tale portata abbinando le riprese dall’alto dell’epica silhouette della più bella isola della Manica con una marcia militare (There’s Always Been an England), sbertucciata dalla voce di un giullare pop come Tiny Tim: per di più incartata in un gracchiante megafono, come se si trattasse di annunciare un nuovo episodio del Monty Python’s Flying Circus45? Eppure tutto questo, e anche di più, successe al Festival di Wight, o almeno nella sua rappresentazione cinematografica, diretta con coraggio e determinazione da un giovane artista del New Jersey, Murray Lerner. Il regista aveva al suo attivo un documentario sul Festival folk di Newport dal titolo Festival! (1967) ed ebbe l’idea di girare un altro documentario su un megaraduno dopo aver visto Woodstock: «Pensavo che Woodstock sorvolasse su troppe cose. avvertivo che dietro le quinte erano accaduti fatti simili a quelli che poi io avrei raccontato nel mio film, ma mi era stato impedito di vederli, perché? Quella pellicola era tutta “pace e amore”; e io non ci credevo!»46.
Message to Love è l’anti Woodstock per antonomasia. È un film che celebra, a modo suo, l’inizio di un’era nuova, gli anni settanta, e scrive sulla tomba del decennio precedente un epitaffio amaro al45
Il 5 ottobre 1969, circa un anno prima della terza edizione del Festival di Wight, i Monty Python diedero il via, sulla BBC, alla prima serie del Flying Circus. Ogni episodio, iniziava con un divertente cutout accompagnato da una marcia militare (la Liberty Bell March), eseguita in versione parodistica, con tanto di pernacchia finale. 46 Intervista a Murray Lerner in: Raul hernandez, The Wight Stuff. Message to Love: This Ain’t No Woodstock, http://www.austinchronicle.com/gyrobase/Issue/story?oid=oid:529141. accesso: 4 gennaio 2009.
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meno quanto il verso di springsteen che abbiamo posto in esergo a questo saggio: «Un sogno che non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio?». Di sicuro sull’isola di Wight quel sogno si tramutò in un ridicolo incubo per manager, organizzatori e molti artisti in cartellone. In ordine sparso, nel documentario di Lerner vediamo: kris kristofferson che lascia in anticipo il set perché sommerso dai fischi; Joan Baez che risponde infastidita alle incalzanti domande dell’intervistatore, «La questione dei ragazzi che vogliono entrare gratis – dice – è molto difficile da gestire, anche per me. Perché per loro io rappresento una persona che ha i soldi, e questo li fa arrabbiare. anche se dovessero pagare solo 15 centesimi, sarebbero 15 centesimi di troppo. E io non voglio fare un concerto gratuito solo perché loro vogliono obbligarmi a farlo»;
Tiny Tim che si dice favorevole a un concerto gratuito, salvo poi essere smentito dalle dichiarazioni di uno degli organizzatori, che ai microfoni di Lerner confessa di averlo dovuto pagare in anticipo, e in cash, per convincerlo a salire sul palco; i ragazzi di Desolation Row che accusano gli organizzatori di aver costruito «un campo di concentramento psichedelico»; e ancora, manager e organizzatori “spiati” dalle cineprese mentre si riuniscono intorno a una montagna di banconote, come se stessero spartendo il bottino di una rapina; e, infine, il patetico tentativo di Joni Mitchell di zittire, con voce rotta e lacrime agli occhi, la rumorosa contestazione dei fans, «Capite, sarò un po’ strana, ma se sono seduta quassù e sento questa gente che fa rumore… mi innervosisco, mi dimentico le parole, mi arrabbio, ed è proprio un casino! state a sentire un minuto. state a sentire, va bene? Vi comportate come se foste dei turisti!».
Proprio lei, che qualche minuto prima aveva celebrato il mito di Woodstock, cantando l’omonima canzone dedicata ai sogni di quel famoso raduno. Le sequenze brevi e frenetiche del film, il montaggio “allegro” che scompone non soltanto la linearità cronologica del festival ma anche quella delle esibizioni dei singoli gruppi, nonché l’uso frequente della macchina a spalla, restituiscono allo spettatore la sensazione di assistere “in diretta” alla disgregazione delle istanze politiche autenticamente pacifiste che il Movimento giovanile (soprattutto in Europa) stava affrontando nella prima fase post-sessantottina. Il 1970, ricordiamolo,
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fu l’anno in cui comparvero, per la prima volta, alcune famose sigle terroristiche: la RaF in Germania, le BR in Italia, i Fedayyìn palestinesi del settembre Nero, le frange marxiste dell’IRa irlandese. Non va sottovalutata, quindi, la valenza fortemente simbolica della location del Festival (un’isola!), che il regista coglie e traduce brillantemente in una più ampia metafora sui limiti e i confini dell’utopia degli anni sessanta. Davanti alle cineprese di un Murray Lerner niente affatto invisibile, e a tratti perfino compiaciuto, un giovane hippie spiega come illustrerebbe agli spettatori il senso di quell’avvenimento: «Metterei all’inizio del film delle immagini di un campo completamente vuoto, e alla fine nuovamente un campo vuoto, e noi zingari invisibili nel mezzo». Il regista se la ride, come se sapesse in anticipo che da quell’isola (quasi) nessuno uscirà vivo; e non solo in senso metaforico, per alcuni. Jimi hendrix, il protagonista principale di questo nostro lungo viaggio – confermando la previsione della chiromante marocchina – morirà di lì a due settimane, proprio in terra d’albione. Janis Joplin (assente al Festival di Wight, ma protagonista di Monterey e Woodstock) scomparirà un mese dopo. Jim Morrison dei Doors finirà i suoi giorni a un anno di distanza, anche se sull’isola, in fondo, appare già morto: si presenta con un look spettrale, fisicamente somigliante all’icona demoniaca di Charles Manson; si rinchiude in un flebile cono di luce e costringe il regista a riprenderlo senza l’ausilio di riflettori aggiuntivi; ed esegue, manco a dirlo, due canzoni dal sapore sulfureo, The End e When the Music’s Over. I più fortunati decideranno di non partecipare mai più ai megaraduni, che del resto spariranno quasi del tutto o cambieranno natura. Una strage annunciata, insomma, con un sorriso sulle labbra. Gli unici che riuscirono a trarre vantaggi dall’isola di Wight (e perfino a strappare applausi, volendo prestar fede ai controcampi di Lerner) furono i gruppi inglesi come The Who e Free, e soprattutto quelli vicini alle istanze del nascente progressive rock; la musica che avrebbe dominato le scene nei successivi cinque o sei anni, nonostante l’ostracismo di una certa stampa americana abbagliata dai lustrini del Gonzo Journalism di Lester Bangs. È interessante, a tale proposito, il ricordo di Tony Pagliuca, del gruppo Le Orme: «sono stato all’isola di Wight, il festival del 1970 in cui c’erano Jimi hendrix e i Doors. […] Eravamo andati soprattutto per vedere Emerson Lake & Palmer. […] avevamo bisogno di una conferma, […] insistevo
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nel dire che la forma canzone fosse superata, che veniva meglio se frammentata da musica jazz e blues. Volevamo una verifica e siamo andati a coglierla sul posto. […] La forma progressive non è stata un’illusione, magari un passaggio obbligato, perché occorreva verificare cosa si poteva inserire o meno in una canzone. […] Dopo aver visto il Festival dell’Isola di Wight fu chiaro a tutti che non potevamo più fare la solita canzone con strofa e ritornello»47.
Proprio in quella occasione Emerson, Lake & Palmer ebbero modo di farsi conoscere al grande pubblico, con una versione rock di Pictures at an Exibition di Modest Petrovicˇ Musorgskij; e così pure i Jethro Tull, con il loro personalissimo stile impastato di British folk, blues e musica eurocolta. Nel bene e nel male questi protagonisti sembravano voler continuare a parlare la lingua dell’utopia: attraverso la contaminazione (orizzontale) dei generi e l’abbattimento (verticale) delle categorie culturali di “alto” e “basso”. Quanto tutto ciò fosse velleitario lo si scoprirà solo alla fine del decennio settanta. Intanto, sull’isola di Wight, sembravano gli unici capaci di interpretare correttamente la scritta lasciata dai ragazzi di Desolation Row sul muro di lamiera del campo di concentramento psichedelico: «Moon People United!», un ultimo appello a restare uniti, a non smarrire la rotta verso la Luna.
Epilogo: echi ed eclissi Dal sole della California al pantano di Woodstock, dalla follia di altamont all’ultima spiaggia dell’isola di Wight, nella cui risacca finì per corrodersi, inesorabilmente, l’aura mitica dei megaraduni. Il degno epilogo di questo racconto, iniziato in un cinema fatiscente di Los angeles, si trova, a nostro avviso, tra le rovine di Pompei, in un caldo autunno italiano del 1971. Non in un palpitante megaraduno, bensì nel suo esatto contrario: un desolato concerto a porte chiuse, celebrato privatamente in un anfiteatro vuoto; dove i Pink Floyd, in assenza di umanità, si esibiscono davanti ai volti pietrificati di statue millenarie. Pink Floyd: Live at Pompeii48 (Pink Floyd a Pompei, 1972) – realizzato dal regista adrian Maben, e da lui stesso definito un film «anti 47
In Giordano Casiraghi, Anni 70. Generazione Rock, Editori Riuniti, Roma, 2005, p.
128. 48
Il film venne prodotto con i capitali delle televisioni pubbliche di tre paesi europei: Francia, Belgio, Germania. L’intenzione iniziale era quella di destinarlo unicamente al pub-
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Woodstock»49 – inizia con un totale dall’alto dell’antico anfiteatro; seguito da uno zoom a stringere che svela lentamente i musicisti avvolti da un imponente impianto di amplificazione, come se i suoni dovessero raggiungere orecchie distanti anni luce. L’incipit di Echoes, Part I fende il silenzio del Tempo con gli acuti di un sonar filtrato da un effetto Leslie. La carrellata ottica si avvicina alla band rispettando l’asse segnato dal drum-kit di Nick Mason – sulle cui due grancasse sono dipinte altrettante raggiere solari – e si arresta solo davanti all’incedere dei primi versi cantati da David Gilmour e Rick Wright: «Lassù l’albatros rimane sospeso nell’aria/E nelle profondità al di sotto delle onde/Nei labirinti delle caverne di corallo/L’eco di un tempo lontano, giunge sinuoso attraverso la sabbia». Il passato ritorna a vivere, ma in un presente in cui la Luna è scomparsa e anche il sole si è eclissato. La nuova sfida utopistica lanciata dai Floyd in Set the Controls for the Heart of the Sun, di impostare i comandi dell’astronave per raggiungere il cuore del disco solare, quindi, serve a poco; giacché, questa volta, la meta non è raggiungibile, neanche con la forza della fantascienza. L’Era dell’acquario è finita, tra le polveri degli scavi archeologici. Da quella Dust of Time risorgerà il rock degli anni settanta: narcisista, cerebrale, glamorous, senza più pretese di voler cambiare il mondo (se non quello interiore). Il film termina con Echoes, Part II, che incornicia l’opera in una perfetta struttura circolare, e ci porta al cospetto di un ultimo uomo rimasto sulla Terra: forse lo stesso che avevamo incontrato all’inizio del nostro percorso. Un disperato in cerca di calore, che per farsi coraggio ripete: «Non c’è nessuno che mi canti ninnananne/Nessuno che mi faccia chiudere gli occhi/E allora spalanco le finestre, e striscio verso di te attraversando il cielo». Di nuovo in viaggio? Forse, dalla Terra… al lato oscuro della Luna.
blico televisivo, ma dopo la buona accoglienza riservata al film durante la prima proiezione avvenuta nel settembre 1972 all’Edinburgh arts Festival, si pensò di immetterlo anche nel circuito theatrical. In quella occasione l’opera di Maben venne presentata col titolo internazionale inglese da noi ripreso nel testo, e non col titolo francese Les Pink Floyd à Pompei, a cui alcuni dizionari del cinema fanno erroneamente riferimento. Ribadiamo che, anche in questo caso, abbiamo analizzato la versione originale del film e non il director’s cut disponibile in DVD. 49 L’affermazione è tratta da un’intervista inserita nei contenuti speciali del DVD Pink Floyd: Live at Pompeii. The Director’s Cut, distribuito dalla Universal Pictures nel 2003.
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SECONDA PARTE TEMI E GENERI
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ROCKUMENTARY: UNO sGUaRDO sUL GENERE di Simone Arcagni
Innanzitutto, che cos’è il rockumentary? Come il termine stesso dice è un documentario sul rock, che ha il rock, la musica, i personaggi, le storie, la sua mitologia come oggetto. L’unione tra le due parole viene modellata sulla precedente definizione di mockumentary, che sta ad indicare documentari falsi, documentazioni cioè su cose irreali, mai esistite, mai avvenute, un gioco stilistico spesso esilarante come nel caso di This Is Spinal Tap (Id., 1984) di Rob Reiner1, a volte persino film d’autore come lo splendido Forgotten Silver (Id., 1995) di Peter Jackson. Ma tornando al rockumentary, bisogna cercare di andare più a fondo, dato che la produzione di questo particolare tipo di film è davvero vasta e soprattutto particolarmente variegata. Inizierei abbracciando la tripartizione che opera Wootton2 dei generi del rockumentary: the concert movie (1), the tour concert movie (2) e the documentary profile of living or dead stars (3)3.
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Proprio This Is Spinal Tap è il film per cui per la prima volta viene usato il termine mockumentary, ma anche il primo in cui si cita la definizione di rockumentary: infatti il finto regista protagonista del film afferma di essere in procinto di realizzare un documentario rock, un “rockumentary”, registrando il tour americano della band spinal Tap (ovviamente falsa). 2 Cfr., adrian Wootton, “The Do’s and Don’ts of Rock Documentaries”, in: Jonathan Romney e adrian Wootton (a cura di), Celluloid Jukebox: Popular Music and the Movies Since the 50s, British Film Institute, London, 1995. 3 ad essere precisi si potrebbe parlare almeno di sette categorie (che però vengono ben riassunte nelle tre che abbiamo dato): 1) il live (la semplice ripresa della performance); 2) l’universo live (il concerto, il dietro le quinte, il pubblico); 3) l’universo live e l’immaginario (concerto e immagini “fantastiche”, con inserti narrativi e cartoon); 4) biopic (il film documentario biografico); 5) rocku-fiction (la docu-fiction rock, come A Hard Day’s Night del 1964 di Richard Lester sui Beatles); 6) il carosello di canzoni (in cui “passano” diversi brani e diverse performance magari di artisti diversi e magari registrati in tempi e
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The Concert Movie si tratta dei film concerto “puri”, come i recenti Neil Young: Heart of Gold (Id., 2006) di Jonathan Demme, U2 3D (Id., 2007) di Catherine Owens e Mark Pellington e Shine a Light (Id., 2008) di Martin scorsese (protagonisti i Rolling stones), mentre, per citarne alcuni “storici”, possiamo menzionare Cream’s Farewell Concert (Id., 1968) di Tony Palmer, The Stones in the Park (Id., 1969) di Jo Durden-smith, Johnny Cash at San Quentin (Id., 1969) di Jo Durden-smith e Michael Darlow, The Cure in Orange (Id., 1987) di Tim Pope. si tratta delle riprese di un concerto dove la cinepresa tenta di documentare al meglio la performance: lo spettacolo dei gesti e degli atti sul palco, la magia del suono, ma anche l’energia che scorre tra pubblico e artista. Il film concerto è una sorta di testo-consolazione per quanti non hanno potuto esserci o per chi, proprio perché era presente, vuole rivivere, “mediata”, quella esperienza. Wootton parla di esperienza vicaria e memoria dell’evento: «La maggior parte degli spettatori guarda film-concerto per una o due ragioni: o perché non erano presenti al concerto che è stato filmato, e perciò vogliono averne un’esperienza indiretta, oppure c’erano e vogliono rivivere il loro ricordo dell’evento»4. si tratta cioè di un surrogato dell’irripetibilità del fatto live che il film invece ingabbia e ferma una volta per sempre. Per questo motivo, da subito, la regia di questi film ha cercato di puntare su un surplus emotivo da donare agli spettatori “in differita”. Cinepresa mobile, dettagli, stacchi veloci di montaggio (gli stessi che userà il promo clip, prima, e il videoclip, in seguito). Fin dai documenti televisivi o cinematografici degli anni Cinquanta5, il film concerto dimostra una volontà di emozionare usando il mezzo cinematografico, insomma: poco alla volta il film concerto inizia ad avere una sua autonomia di testo. luoghi diversi); 7) il making of (storia del making of di un disco, realizzando interviste e usando materiali dell’epoca). 4 adrian Wootton, “The Do’s and Don’ts of Rock Documentaries”, in: Jonathan Romney e adrian Wootton (a cura di), Celluloid Jukebox: Popular Music and the Movies Since the 50s, cit., p. 95. Ove non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono a cura dell’autore. 5 Un enorme magazzino di frammenti live o di live realizzati in studio è rappresentato dai filmati realizzati per i video jukebox che permettevano, oltre ad ascoltare il proprio brano preferito, anche di vedere i musicisti in azione. I soundies per esempio – considerati gli antenati del videoclip – erano filmati in cui una band o un musicista interpretava una canzone. Esistevano anche dei jukebox video che ne permettevano la visione, oppure venivano trasmessi in televisione. Molti di questi filmati sono finiti all’interno di rockumentary come footage di repertorio.
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ROCKUMENTARY: UNO sGUaRDO sUL GENERE
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Cream’s Farewell Concert, per esempio, è davvero un testo germinale per il music video con i suoi zoom, i movimenti a schiaffo, i dettagli, i cromatismi, il montaggio rapido. La performance diviene così il luogo dove il cinema può dipanare le sue potenzialità spettacolari e ricreare un testo ulteriore. In questo senso ci sono film concerto che hanno persino un andamento narrativo, solitamente perché lo spettacolo, la performance stessa, ha una struttura narrativa che il cinema riesce a rendere ancora più salda attraverso il montaggio. Un primo esempio può essere The Rolling Stones: Rock ‘n’ Roll Circus (Id., 1968) di Michael Lindsayhogg un film voluto dai Rolling stones che immaginano un grande spettacolo rock ricco di ospiti (da John Lennon ai Jethro Tull) ambientato in una pista da circo con i Nostri nelle vesti di presentatori. Ma pensiamo anche a Stop Making Sense (Id., 1984) di Jonathan Demme che documenta i Talking heads in concerto. Lo spettacolo ideato da David Byrne inizia nella semplicità più totale di un uomo e una chitarra e si complica sempre più con l’aggiunta di musicisti, schermi, scenografie etc. Demme asseconda questo fluire, combinando piani lunghi, medi, primi piani e dettagli, facendo un editing molto fluido e nello stesso tempo secco, realizzando così un vero capolavoro cinematografico. Un altro esempio è Tom Waits: Big Time (Id., 1987) di Chris Blum, dove il moderno crooner rock si sdoppia e realizza una sorta di grande piano bar o un grande caffè concerto: il regista gioca sull’ambivalenza dei due registri, dei due Tom Waits, asseconda la sua narrazione on stage e realizza così una sorta di musical. stesso discorso vale per Laurie anderson che progetta uno spettacolo musicale multimediale, Home of the Brave (Id., 1986) di Laurie anderson, e lo riprende proprio come un film, nelle sue fasi, i suoi discorsi (per esempio l’intro sulla tecnologia digitale realizzato come una lezione su mega schermo). Un film vero e proprio, quindi, che magari si serve proprio delle tecnologie cinematografiche per amplificare la sua portata spettacolare. Non è un caso che molti rockumentary sono passati alla storia anche per le loro sperimentazioni tecnologiche nel campo sonoro o in quello visivo. The Last Waltz (L’ultimo valzer, 1978) di Martin scorsese usava per la prima volta il multipista Dolby, lo stesso scorsese nel suo recente Shine a Light sui Rolling stones effettua una eccezionale sperimentazione sulla profondità sonora6. Nella stagione 2007/2008 due 6
Per maggiori informazioni riguardo alla storia tecnologica del suono cinematografico
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film musicali hanno avuto il compito di veicolare la nuova tecnologia 3D, il 3D stereoscopico digitale: si tratta del musical adolescenziale Hannah Montana & Miley Cyrus: Best of Both Worlds Concert (Id., 2007) di Bruce hendriks e del film concerto U2 3D. Ma oltre a spettacoli dalla forte connotazione teatrale e quindi con uno sviluppo narrativo, abbiamo vere e proprie contaminazioni tra fiction e non fiction. In Led Zeppelin – The Song Remains the Same (Id., 1976) di Peter Clifton e Joe Massot, oltre alla performance della band inglese si costruisce una storia fantastica legata alle tanto amate – da Robert Plant e Jimmy Page – mitologie nordiche e una storia noir. Insomma negli interstizi della performance si intrufola il cinema narrativo, come nel caso di 200 Motels (Id., 1971) di Frank Zappa: il geniale musicista americano – in questo caso anche nelle vesti di regista – dirige un film (tra l’altro, il primo lungometraggio realizzato con telecamere ad alta definizione) surreale, in cui a fianco delle spassose e grottesche performance delle Mothers of Invention troviamo uno sviluppo narrativo altrettanto surreale. L’immaginario dei musicisti si serve sempre più del mezzo cinematografico, su una scia che inizia con i film di Elvis Presley, continua con i Beatles e arriva al moderno videoclip. Non è un caso allora che A Hard Day’s Night (Tutti per uno, 1964) di Richard Lester con i Beatles nasca come un documentario sulla cosiddetta beatlemania e si trasformi in corso d’opera in un film di finzione, una sorta di docu-fiction7. Il confine si fa labile tra fiction e non fiction e in questo territorio ibrido nasce il videoclip: l’idea di un filmato promozionale di un brano che deve mettere in scena sia i musicisti ma anche, possibilmente, il loro universo (fatto di colori, tagli di capelli, vestiari, ma anche immagini, sogni o incubi e via dicendo…).
The Tour Concert Movie Ma, ritornando al documentario, non possiamo che essere d’accordo con Romney, per cui la vera spinta ad offrire qualcosa in più delrimando a Paola Valentini, Il suono nel cinema. Storia, teoria e tecniche, Marsilio, Venezia, 2006. 7 si potrebbe tracciare una piccola storia della docu-fiction rock che si può far nascere con Tutti per uno e che, con fini ed esiti differenti, comprende film come Good Times (Tempi felici, 1967) di William Friedkin, Head (sogni perduti – head, 1968) di Bob Rafelson, Rude Boy (Id., 1980) di Jack hazan e David Mingway.
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ROCKUMENTARY: UNO sGUaRDO sUL GENERE
la semplice emozione vicaria di un concerto arriva con l’accesso al backstage, luogo del mistero, dove si spinge la fantasia e la curiosità del fan. Luogo da svelare per rendere ancora più stretto il legame che unisce fan e star, il backstage diviene allora la vera frontiera del documentario rock: «Il backstage è il più efficace concetto ideato per separare il musicista e il fan. È uno spazio privato, un mondo dietro il sipario nel quale per supposizione dimora, protetta dalla vista, la realtà, l’ineffabile preziosa essenza del musicista stesso. […] al pubblico di norma non è permesso oltrepassare il sacro velo, ma per convenzione il documentario rock include scene che riprendono per noi il backstage e ce lo offrono proponendoci una allettante occhiata alla realtà dietro lo spettacolo»8.
Nel backstage si compie l’avvicinamento totale con il proprio idolo, e nello stesso tempo si segna la distanza definitiva con esso. Proprio come per una stella del cinema, la prossimità più estrema lo porta ad essere ancora più lontano e intoccabile. Nel backstage si gioca anche il rapporto tra vero e falso. Un rapporto ambiguo perché le riprese nel dietro le quinte non garantiscono la veridicità del personaggio, anzi spesso sono manipolate e recitate proprio per dare un tipo di immagine, per fornire un ritratto predefinito. In particolare il tour diviene il luogo privilegiato in cui fare apparire questa ambivalenza tra palco e camerini, tra personaggio privato e personaggio pubblico. Dont Look Back (Id., 1967) e Eat the Document (Id., 1971), entrambi di Pennebacker ed entrambi su Dylan, sono infatti due splendidi ritratti di artista in tournée, tra l’esibizione e i suoi spazi privati. Così come Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (Id., 1982) di D. a. Pennebaker, gioca su tre livelli: il teatro dove avviene lo spettacolo in una comunione tra musicisti e pubblico; fuori dal teatro, dove i fan si raccontano, si trovano, si manifestano nei loro trucchi e nel vestiario che imita il loro idolo, e infine nei camerini dove invece Bowie si appresta a trasformarsi in Ziggy stardust, la sua creatura. Charlie Is My Darling (1967) di Peter Whitehead segue il tour irlandese dei giovani Rolling stones, mentre The Road to God Knows Where (1990) di Uli M. shuppel, seguendo il tour di Nick Cave &
8 Jonathan Romney, “access all areas: the Real space of Rock Documentary”, in Jonathan Romney e adrian Wootton (a cura di), Celluloid Jukebox: Popular Music and the Movies Since the 50s, cit., p. 83.
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the Bad seeds traccia anche un ritratto autodistruttivo del musicista australiano tra droga, alcool e depressione. Il backstage da questo punto di vista, rivela un aspetto privato del musicista, offrendoci squarci realistici del suo mondo, entrando così, per il tramite di quel potente mezzo del cinema documentario che è l’intervista, nella terza categoria definita da Wootton: il profilo di una star, la biografia.
The Documentary Profile of Living or Dead Stars Forse uno dei più bei documentari biografici è il recente No Direction Home: Bob Dylan (No Direction home, 2005) di Martin scorsese, un ritratto di Dylan attraverso una lunga intervista, spezzoni di film e di filmati televisivi, interviste, foto. Insomma un enorme mosaico sulla figura carismatica di Dylan. Toccante è anche Year of the Horse (Id., 1997) di Jim Jarmush sui Crazy horse, la band di Neil Young: le riprese di un concerto della band sono inframmezzate da interviste che propongono la loro storia, fatta di blues e rock, di tournée, di amicizia, di droga e di morte. O, ancora, Lou Reed. Rock ‘n’ Roll Heart (Id., 1998) di Timothy Greenfield-sanders. si tratta di storie spesso sofferte, come quella di Chuck Berry, raccontata in Chuck Berry: Hail! Hail! Rock ‘n’ Roll (Id., 1987) di Taylor hackford. Mentre biografie di musicisti venuti a mancare sono l’ormai “classico” Imagine: John Lennon (Id., 1988) di andrew solt e due film molto diversi e molto belli su Joe strummer, Let’s Rock Again (Id., 2006) di Dick Rude e Joe Strummer: The Future Is Unwritten (Il futuro non è scritto – Joe strummer, 2007) di Julian Temple. Mentre Kurt and Courtney (kurt e Courtney, 1998) di Nick Broomfield ha i modi del reportage giornalistico: il regista cerca di tracciare un ritratto di kurt Cobain, ma il film si trasforma in una sorta di atto d’accusa nei confronti della moglie, Courtney Love. Mentre è una semplice intervista, diretta, senza fronzoli, eppure uno dei più bei ritratti di musicista, Hey! Is Dee Dee Home? (2003) di Lech kowalski: un film iniziato quando ancora il membro della mitica band Ramones era in vita, e divenuto poi estremo omaggio al punk scomparso a causa dei troppi eccessi. Ma i “profili” possono essere anche “manipolati”, come nel caso di Truth or Dare – In Bed with Madonna (a letto con Madonna, 1991) di
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ROCKUMENTARY: UNO sGUaRDO sUL GENERE
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alek keshishian, un manifesto dell’ingerenza dell’artista sulla propria immagine (ma già Dylan ammetteva che anche dietro le quinte, di fronte alla cinepresa invadente di Pennebacker, si trovava a recitare, a fingere)9; mentre, di contro, la libertà totale data dagli stones nella ripresa del loro tour porta ad un ritratto eccessivo, tanto da essere censurato dagli stessi musicisti: è il caso dello “scandaloso” (per le riprese “crude” di sesso e di droga) Cocksucker Blues (Id., 1976) di Robert Frank e Daniel seymour. Tra verità e invenzione si gioca anche il rapporto spesso ambiguo tra i musicisti e il film, spesso loro stessi sono i finanziatori, i produttori e, in casi limite, persino i registi dei propri documentari. se nel caso di Bob Dylan, Frank Zappa, Neil Young e Prince abbiamo artisti perfezionisti, con un mondo poetico complesso da comunicare che, di conseguenza, si assumono la responsabilità in prima persona di usare anche il mezzo cinematografico, in altri casi, come quello già citato di Madonna – ma lo stesso discorso vale anche per U2: Rattle and Hum (Id., 1988) di Phil Joanou – si tratta di servirsi del documentario nello stesso modo in cui ci si serve del videoclip, cioè per promuovere e celebrare la propria immagine. Diverso è il caso di film come Gimme Shelter (Id., 1970) di David e albert Maysles, Let It Be (Let It Be – Un giorno con i Beatles, 1970) di Michael Lindsay-hogg o Sweet Toronto (1970) di D. a. Pennebacker, in cui il “caso” pone al centro un “incidente”, una casualità che però il lavoro d’autore del regista – nonostante la committenza – spinge a proporlo agli spettatori. In Gimme Shelter si tratta del famoso omicidio di uno spettatore di colore da parte degli hell’s angels chiamati a fare da servizio d’ordine. In Let It Be a causa dei litigi dei Beatles e della presenza ingombrante di Yoko Ono il documento sulla nascita del nuovo album si trasforma nel documento della morte definitiva della band. In Sweet Toronto lo stesso Lennon e il fido Clapton alla chitarra rimangono sbalorditi di fronte alle improvvisazioni più rumoristiche che canore e alla performance poco rock e molto fredda e concettuale di Yoko Ono: è comunque la nascita della Plastic Ono Band e di una nuova fase nella carriera di Lennon.
9 Dylan si riferisce al film diretto da D. a. Pennebacker, Dont Look Back, che riprende la sua tournèe del 1965 in Inghilterra, e al film Eat the Document, sempre di Pennebaker, che documenta il tour europeo del 1966 con The Band. Per ulteriori approfondimenti sul cinema di D. a. Pennebacker si rimanda al seguente volume: Luca Mosso (a cura di), Pennebacker Associates. Cinema, musica e utopie, agenzia X, Milano, 2007.
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Sociologia del rock I mitici Sixties Gimme Shelter è un testo chiave per capire il legame stretto tra rock e mondo dei giovani e, in particolare nel periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, tra rock, società e cultura; e, quindi, l’importanza storica dei documentari che riprendono questa realtà. Che il fenomeno degli anni sessanta fosse più sociale che prettamente musicale lo si può facilmente evincere da un piccolo film: The Beatles Live at Shea Stadium (1965) di Jo Durden-smith. Film che nasce per essere la documentazione di un concerto dei Beatles, girato con un approccio “neutro” e celebrativo e si trasforma in un’importante testimonianza della beatlemania, un documento “sociologico”, con il pubblico che va in delirio per i quattro musicisti, fino a coprire il suono della band con le proprie urla (il paradosso del fanatismo che annulla la fonte del proprio piacere). Il rock non è solo musica ma anche immagine, politica, cultura giovanile e culture antagoniste: già negli anni Cinquanta, agli albori della musica rock’n’roll, il mondo musicale si avvale di un immaginario visivo vasto che va dai “ragazzi selvaggi” alla James Dean e Marlon Brando fino ai teddy boy. Rock’n’roll allude apertamente al sesso, incita ad una libertà sfrenata, conia un proprio gergo, a tratti piuttosto irriverente, chiama i giovani a raccolta a riconoscersi come categoria sociale (cosa che accadrà da lì a poco con gli anni sessanta e la nascita del concetto di teenager). Rock allora sono anche i jeans, i giubbotti di pelle, i capelli col gel prima e lunghi e selvaggi poi. L’universo del rock si allarga ben oltre la sfera musicale e il documentario rock inizia, dagli anni sessanta (e non a caso, visto il fermento del mondo giovanile in quel decennio), ad occuparsi della “società del rock”. Pensiamo a Woodstock: 3 Days of Peace and Music (Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, 1970) di Michael Wadleigh, film culto degli anni sessanta, film concerto, ma solo in parte, perché in effetti si tratta di un grande affresco sul popolo di Woodstock, sui giovani, sui “figli dei fiori”, sul loro modo di vestire e di parlare, sui loro pensieri politici e la loro visione del mondo. Nel film di Wadleigh protagonisti sono i giovani, gli hippie che si dedicano alle droghe, con i loro simboli antimilitaristi e pacifisti, con i colori acidi della rivoluzione psichedelica, con la libertà dei costumi. La musica rock è la colonna sonora di un modo di vedere il mondo, di una maniera di recepire e leggere la realtà, che ha una serie
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di codici soprattutto estetici e visivi. Da questo punto di vista ho già avuto modo di affermare10 come la storia del rock sia inseparabile dal suo aspetto visivo (dal ciuffo e gli ancheggiamenti di Elvis Presley ai “caschetti” dei Beatles, dai vestiti psichedelici di Jimi hendrix alle creste punk): «[…] è Dont Look Back che definisce regole, pratiche e approcci da cui non si potrà più prescindere; […] Pennebaker non si sofferma solo sull’ambiguità del divismo come aveva fatto con Jane (1962), ma coglie, forse in maniera ancora inconsapevole (o almeno meno consapevole di quanto avverrà con Monterey Pop, 1969), la svolta epocale di quella stagione musicale, dove le performance assumono un significato sociale, culturale e persino politico. Dove la trasmissione di contenuti passa anche attraverso il vestiario (il look), il suono e il collegamento affettivo che si instaura tra musicista e pubblico»11.
Nella New York del New american Cinema di Jonas Mekas e di andy Warhol – che lascia il segno anche nella storia del rockumentary con il suo The Velvet Underground and Nico (1966) – crescono documentaristi come Richard Leacock, l’operatore di Lousiana Story (Id., 1948) di Robert J. Flaherty, quindi vero e proprio anello di congiunzione tra la “vecchia guardia” e la “nuova onda”, i fratelli albert e David Maysles e D. a. Pennebaker, tutti quanti riuniti dal giornalista e produttore Robert Drew nella Drew associates, il centro di elaborazione di un nuovo approccio al documentario e di un nuovo sguardo sulla realtà che intanto – siamo agli inizi degli anni sessanta – mostra i primi segnali di una trasformazione in atto. Insomma, come ricorda anche Roberto Nepoti: «Cinema d’autore più di quanto non si ammetta comunemente, il rockumentary si istituisce su prototipi realizzati da alcuni fra i migliori filmakers americani del diretto»12. E non va neanche dimenticato che questo nuovo sguardo “diretto”, sulle cose che accadono, viene agevolato – soprattutto nel caso del rockumentary, data l’importanza del suono per questi film – da innovazioni tecnologiche nelle apparecchiature cinematografiche “leggere”, 10 simone arcagni, “La musica visiva: rock-movie, rockumentary e music video”, in: alessandro amaducci e simone arcagni, Music Video, kaplan, Torino, 2007, pp. 11-37 e simone arcagni, “Modi e forme di assunzione del cinema nel videoclip”, in: Luciano De Giusti (a cura di), Immagini migranti. Forme intermediali del cinema nell’era digitale, Marsilio, Venezia, 2008, pp. 179-192. 11 simone arcagni, “La musica visiva: rock-movie, rockumentary e music video”, in: alessandro amaducci e simone arcagni, Music Video, cit., p. 41. 12 Roberto Nepoti, Storia del documentario, Patron, Bologna, 1998, p. 130.
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come l’arriflex 16mm, la Eclair-Coutant insonorizzata e i magnetofoni Nagra, oltre alla consolle mobile a più piste. Le cineprese del nuovo documentario rock testimoniano, per esempio, la pacifica occupazione di Monterey Pop (Id., 1968) di D. a. Pennebaker, così come i suoni, i colori, i vestiari, gli atteggiamenti del pubblico e dei musicisti sul palco: dall’incredibile performance al sitar di Ravi shankar alle esplosioni psichedeliche dei Jefferson airplane e quelle blues di Janis Joplin, fino al rito pagano di Jimi hendrix e la sua chitarra. Ma testimoniano anche, pochi anni dopo, le proteste e le occupazioni del palco da parte di un’ala dura del pubblico in Message to Love: The Isle of Wight Festival 1970 (Id., 1997) di Murray Lerner. Marco Ferreri si interroga sul movimento giovanile proprio a partire dai grandi festival rock nel suo Perché pagare per essere felici? (1976) mentre Grifi è testimone del venir meno di una utopia nel suo Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976). Prendiamo ad esempio l’importanza storica di Woodstock, luogo mitico di una generazione e confronto costante tra diverse generazioni di giovani, tanto che il documentario continua a relazionarsi con esso: pensiamo al Woodstock Director’s Cut (Id., 1994) di Wadleigh (con circa 40 minuti di girato in più per un totale di 216 minuti), o a My Generation (Id., 2000) di Barbara kopple (un ritratto delle tre edizioni del festival che mette in relazione passato e presente, filmati d’epoca e recenti), o ancora Woodstock Diary (Id., 1994) di Chris hegedus, Erez Laufer e Pennebacker. Grandi raduni, giovani, società, cultura e politica, una commistione che dura nel tempo, per esempio Wattstax (1973) di Mel stuart (sulla cosiddetta “Woodstock nera”) documenta il concerto organizzato a Los angeles dalla etichetta stax per commemorare i sette anni passati dall’attacco razzista nel quartiere Watts nella metropoli californiana, con 100.000 persone a vedere e ascoltare i musicisti neri (albert king, Rufus Thomas, Carla Thomas, Tempress & Frederick knight, staple singers, Emotions, Isaac hayes etc.). Ma possiamo citare anche The Concert for Bangladesh (Id., 1972) di saul swimmer, che dà il via ai grandi concerti umanitari, i cosiddetti benefit concerts, come No Nukes (Id., 1980) di Daniel Goldberg, anthony Potenza e Julian schlossberg o Live Aid (Id., 1985). Punk La grande stagione del rock è anche quella dei movimenti giovanili, delle occupazioni dell’università, di una società occidentale che, a par-
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tire, dai giovani, sperimenta, o quanto meno progetta, modelli sociali e politici diversi. Il tramonto di quella stagione sta tutto nelle morti eccellenti di Jim Morrison, Jimi hendrix, Janis Joplin, ma anche nel risorgere di una nuova violenza, come testimoniano Gimme Shelter e Message to Love: The Isle of Wight Festival 1970. Eppure ci sarà ancora una breve stagione in cui un movimento giovanile musicale, ma non solo, prova a realizzare una personale visione del mondo e a proporre quindi un proprio universo estetico e culturale: si tratta del punk. E non a caso il documentarismo punk è uno dei momenti più esaltanti della storia del rockumentary. a partire da Blank Generation (1976) di Ivan kral e amos Poe, cioè il manifesto delle band che gravitano attorno al CBGB’s di New York (Ramones, Talking haeds, Television, Patti smith etc.), con le riprese in super 8 dal bianco e nero sporco, realizzate con la macchina a mano, evitando con cura qualsiasi accorgimento atto ad abbellire le performance: qui il suono è addirittura fuori sincrono provocando uno sfasamento quasi irritante. In quello stesso periodo, in Inghilterra, Don Letts documenta, in Punk Rock Movie (Id., 1978), le notti punk al Roxy Club (sex Pistols, Clash, slits, siouxsie & the Banshees, Generation X, X-Ray-spex, Johnny Thunder, Wayne County, subway sect, alternative TV). Il risultato è, anche qui, un film sporco, dilettantesco, eppure in grado di proporre uno squarcio diretto sul mondo del punk: le band, il pubblico, i balli (il violento pogo), il vestiario, il gergo. Punk in London (1977) e D.O.A. (1980), entrambi di Lech kowalski testimoniano, nella stessa forma cinematografica, questa estetica del do it yourself, dello sporco, dell’arrabbiato. In D.O.A. assistiamo al tour americano dei sex Pistols, con la parabola autodistruttiva di sid Vicious (nel film c’è anche la famosa sequenza di Vicious che sanguina sul palco e che picchia uno spettatore con il suo basso). Certo, oltre al realismo “diretto” di kowalski, anche nel punk troviamo forme di celebrazione, come nel famoso The Great Rock ‘n’ Roll Swindle (La grande truffa del rock’n’roll, 1980) di Julien Temple (che tornerà ad occuparsi dei Pistols con The Filth and the Fury (sex Pistols – Oscenità e furore, 2000) un documentario, ma anche un film-saggio sul punk e sui sex Pistols, una evidente operazione di immagine curata dal loro mentore Malcolm McLaren. sconvolgente, invece, per la sua diretta brutalità (con interviste e spezzoni di performance live) è il ritratto della scena punk losangelina realizzato da Penelope spheeris con The Decline of Western Civilization
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(1981): un progetto su Los angeles e la musica “dura” (ma soprattutto sui musicisti, sul loro modo di vivere e di vedere la società e la cultura) che la spheeris ha portato avanti nel tempo, arrivando alla realizzazione di una famosa trilogia che oltre al primo film comprende anche The Decline of Western Civilization part II: The Metal Years (1988) e The Decline of Western Civilization: part III ( 1998). Oggi: tra forme enciclopediche e nuovi supporti Oggi i filmati d’epoca hanno un enorme valore e, in molti casi, sono gli stessi autori – quando possibile – a rimettere mano ai propri lavori. Così, per fare un esempio illustre, Pennebaker sta lavorando sui suoi materiali per ritrovare degli inediti, per rimontare nuovi e vecchi spezzoni, magari remasterizzare il suono o addirittura restaurare la pellicola. Parallelamente, vengono sempre più spesso messe in cantiere opere di recupero storico particolarmente complesse, come è stato il caso di The Beatles Anthology13 (Id., 1995) forte di dieci ore di registrazione in totale, progettata dai membri della stessa band; o, più recentemente, come per il progetto The Blues (Id., 2002-2003), curato da Martin scorsese, formato da sette documentari realizzati dai registi Wim Wenders, lo stesso scorsese, Clint Eastwood, Mike Figgis, Richard Pearce, Charles Burnett, Marc Levin, prodotti dal network PBs. In tutti questi casi, è ancora una volta l’avanzamento della tecnologia a rendere possibile operazioni simili. Il supporto del DVD, infatti, favorisce il recupero di filmati d’epoca, di spezzoni, di videoclip ecc. Di conseguenza, sul mercato odierno abbondano esempi di ottime collazioni di materiali diversi, che vanno a formare ritratti di musicisti ricchi, variegati e complessi. E sembra essere proprio questa la frontiera più originale del rockumentary oggi.
13 Il documentario è stato realizzato e mandato in onda a puntate negli Usa nel 1995. Una versione ampliata e rimasterizata è stata messa in circolazione in formato DVD a partire dal 2003.
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ROCK & MOCK: QUaNDO IL DURO sI Fa GIOCO. L’IMMaGINE COMICa DEL ROCk sU GRaNDE E PICCOLO sChERMO di Rosario Gallone
Quando in Italia fu pubblicato il primo (vero) disco dei Rutles1, le riviste specializzate lo stroncarono. I Rutles erano colpevoli di “lesa maestà”, i loro pezzi erano troppo simili a quelli dei Beatles2. In pochi capirono la natura parodica dell’operazione, ma, del resto, quarant’anni prima, il 30 ottobre del 1938, una versione radiofonica, sulla CBs, del romanzo La guerra dei mondi di h.G.Wells, realizzata dal Mercury Theatre di Orson Welles nelle forme del reportage giornalistico, con tanto di collegamenti dai luoghi dell’invasione ed interviste a sgomenti testimoni, scatenò il panico negli ascoltatori3 che si riversarono nelle strade in cerca di vie di fuga e presero d’assalto i centralini della polizia e delle autorità4. 1 The Rutles fu pubblicato il 24 febbraio del 1978 per sfruttare il traino del film The Rutles – All You Need Is Cash. La copertina era divisa in quattro sezioni ognuna delle quali era la parodia di una celeberrima cover dei Beatles: Meet the Rutles, The Tragical History Tour, Sgt. Rutter’s Only Darts Club Band e Let It Rot. Ma la palma della prima parodia di una copertina dei Fab Four spetta a Frank Zappa il quale nel 1968 pubblicò We’re Only in It for the Money, presa in giro di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band di appena un anno prima. 2 Nel 1976 una radio libera napoletana annunciò la presenza in studio dei Beatles, fatti riunire dall’allora Presidente della squadra di calcio del Napoli, per celebrare la partita Napoli-Liverpool. Uno scherzo evidente fin dall’inizio e che divenne palese quando gli shampoo, questo il nome del gruppo, cominciarono a cantare in napoletano sulle note dei Fab Four. 3 «Furono le dimensioni della reazione ad essere sbalorditive. sei minuti dopo che eravamo andati in onda le case si svuotavano e le chiese si riempivano; da Nashville a Minneapolis la gente alzava invocazioni e si lacerava gli abiti per strada. Cominciammo a renderci conto, mentre stavamo distruggendo il New Jersey, che avevamo sottostimato l’estensione della vena di follia della nostra america». Peter Bogdanovich e Orson Welles, Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano, 1996, p. 52 4 Un esperimento del genere, in Italia, fu posto in essere da anton Giulio Majano il
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Lo stesso Welles tornò sull’argomento con F for Fake (F come falso – Verità e menzogna, 1973), un pamphlet eterogeneo in cui si incrociano i giochi di prestigio del regista/demiurgo alla storia di Elmyr De hory ed altri falsari, il tutto per sostenere la tesi di un’arte che dice la verità mentendo. Nel caso dei Rutles, però, i “polli” non erano semplice pubblico, audience, ma addetti ai lavori, critici specializzati, in una parola intenditori e non fra-intenditori. Ma chi erano in realtà i Rutles e quali le loro origini? Nel 1975 Eric Idle, uno dei componenti dei Monty Python, realizzò per la BBC 2 uno show dal titolo Rutland Weekend Television5. Furono programmate due serie, una dal 12 maggio al 16 giugno 1975 ed una dal 12 novembre al 24 dicembre 1976. Il 26 dicembre del 1975, andò in onda una puntata natalizia speciale, durante i titoli di coda della quale l’ospite George harrison eseguì The Pirate Song, scritta da harrison stesso insieme con Eric Idle. La nascita dei Rutles aveva avuto da uno “scarafaggio” in persona la sua benedizione6. Nel primo episodio della seconda serie, in uno sketch sulle persone affette da mal d’amore, fece la sua comparsa prima Neil Innes che cantava I Must Be In Love ed all’improvviso, in b/n ed in perfetto stile A Hard Day’s Night (Tutti per uno, 1964)7, l’intera band composta,
9 giugno del 1959 sul Programma Nazionale della Rai. La trasmissione della Medea fu interrotta dalla notizia del rapimento da parte di Enrico Maria salerno del figlio (mai) avuto con alida Valli. I telespettatori, su invito degli autori, avrebbero dovuto chiamare per segnalazioni il 696, cosa che effettivamente fecero, nonostante l’implausibilità della notizia e la presenza di due conosciuti e riconoscibili attori (Tino Bianchi e Ferruccio De Ceresa) nei panni di un funzionario di polizia e di uno psicologo. 5 Un inesistente canale televisivo della piccolissima contea di Rutland (talmente piccola da essere cancellata nel 1974) che alludeva ironicamente al London Weekend Television, la stazione britannica, affiliata all’Indipendent Television, che trasmetteva durante il weekend, mentre l’altra era visibile dal lunedì al venerdì. 6 I collegamenti tra Beatles e Rutles sono anche altri: Neil Innes era fondatore della Bonzo Dog Doo Dah Band di cui i Beatles erano ammiratori al punto da volerli nel loro film tv Magical Mistery Tour (Id., 1967). Paul McCartney, inoltre, produsse, nel 1968, la loro I’m The Urban Spaceman. 7 A Hard Day’s Night ispirò anche nel 1966, la serie tv americana The Monkees. Protagonista un gruppo clone dei Beatles, appositamente creato e formato da Davy Jones (un dj inglese), Micky Dolenz, Michael Nesmith e Peter Tork. Ciascuna puntata vedeva la rock band coinvolta in avventure ed intrecci che si dipanavano tra un brano ed un altro. Nel 1968, Head (sogni perduti), diretto da Bob Rafelson (che della serie era ideatore e produttore esecutivo insieme con Bert schneider), satireggiava sulla natura essenzialmente mediatica dei Monkees (i quattro furono scelti per la loro telegenia – del resto solo Nesmith e Tork avevano avuto esperienze in campo musicale –, per cui suonavano e cantavano in playback), ma la “musica” rock non perdeva neanche in questa pellicola la sua sacralità.
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ROCK & MOCK: QUaNDO IL DURO sI Fa GIOCO
oltre che da Innes e da Eric Idle, da Ricky Fataar e John halsey8. Il 2 ottobre del 1976, nella terza puntata della seconda serie dello show NBC Saturday Night Live, l’attrice Jane Curtain fece del suo meglio per evitare che l’ospite, Eric Idle, eseguisse la sua versione di Here Comes the Sun. Il 23 aprile del 1977, Idle tornò al Saturday Night Live per condurre una puntata speciale intitolata Save Great Britain Telethon. Lo scopo era quello di raccogliere offerte in danaro per aiutare la terra d’albione a tirarsi fuori dalla crisi finanziaria di fine anni settanta e, tra gli artisti inglesi invitati ad esibirsi, comparve Ron Nasty (ovvero Neil Innes) che, sedutosi ad un pianoforte bianco, eseguì Cheese & Onions. I Rutles erano sbarcati in america. Nel 1978 George harrison, insieme con Lorne Michaels del Saturday Night Live, produsse All You Need Is Cash, un finto documentario sui Rutles. sebbene il neologismo non fosse ancora stato coniato, All You Need Is Cash è, a tutti gli effetti, un mockumentary9, i cui bersagli, però, sono la compostezza e l’impassibilità dei reporter inglesi della BBC10 e la Beatlesmania, piuttosto che la loro musica, la quale, anzi, malgrado (o, forse, proprio in quanto) parodiata nei testi, viene sostanzialmente celebrata ed idolatrata come oggetto di culto. Insomma sembra quasi che pubblico, addetti ai lavori, critici, non amino scherzare sul rock11. a ben rifletterci, infatti, è esiguo il numero 8 I nomi da Rutles erano rispettivamente Ron Nasty (parodia di John Lennon), Dirk McQuickly (parodia di Paul McCartney), stig O’ hara (parodia di George harrison) e kevin (Pete Best). Quest’ultimo nel film All You Need Is Cash sarà sostituito da Barry Wom (parodia di Ringo starr) interpretato sempre da John halsey. Il quinto Rutle, del periodo di amburgo, Leppo (parodia di stuart sutcliffe) fu interpretato da Ollie halsall che prestava anche la voce, nelle esecuzioni, al McQuickly di Eric Idle. 9 Il mockumentary è un falso documentario. Negli ultimi anni ci siamo abituati al termine, dato il successo di film quali Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan (Borat: studio culturale sull’america a beneficio della gloriosa nazione del kazakistan, 2006) o Death of a President (Death of a President – Morte di un presidente, 2006). sull’argomento vedi Jane Roscoe, Craig hight, Faking It: Mock-Documentary and Subversion of Factuality, Manchester University Press, Manchester, 2001, p. 100 e ss. in cui i due autori introducono il concetto di “mock degree”, una sorta di “coefficiente mock” caratterizzante i falsi documentari: il degree 1 è quello della “parody”, chiaramente il più diffuso, mentre i degree 2 e 3, più problematici, sono quelli della “critique and hoax” e della “deconstruction”. 10 Idle, il giornalista/guida, è costretto, di volta in volta: ad inseguire il camera car, quando non ne viene addirittura travolto nonostante sia sulle famose strisce di abbey Road; a liberarsi dei topi che infestano quel che è rimasto del Der Rat keller, il locale di Reeperbahn ad amburgo, dove i Rutles si esibirono ad inizio carriera; ad ascoltare testimonianze decisamente improbabili, salvo poi vendicarsi non lasciando parlare il personaggio del poeta di Liverpool, Roger McGough 11 Serious About Music è il payoff della rivista Record Collector, pubblicata per la prima volta nel 1979 e dedicata al collezionismo musicale.
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di commedie o film comici sul rock in una storia del cinema che, invece, della musica rock si è servita ampiamente come colonna sonora, a partire da Blackboard Jungle (Il seme della violenza, 1955), primo film mainstream ad avere brani rock (tra gli altri, Rock Around the Clock di Bill haley sui titoli di testa) nella colonna sonora. Non deve essere un caso se il film scelto per lanciare Elvis Presley sul grande schermo sia un western drammatico, Love Me Tender (Fratelli rivali, 1956), cui faranno seguito altri due film “seri”, Jailhouse Rock (Il delinquente del Rock ‘n’ Roll, 1957) e King Creole (La via del male, 1958), mentre solo alla quarta esperienza, con G.I. Blues (Cafè Europa, 1960), The Pelvis si cimenta con la commedia. Così come nelle tante altre in cui comparirà successivamente12, però, il rock qui è accessorio rispetto al soggetto del film. Il “Re”, in altri termini, interpreta per lo più convenzionali commedie romantiche, dall’intreccio finanche risibile, in cui l’elemento paratestuale (la presenza tra gli interpreti di Presley) conta più di quello testuale (la trama) per il successo in sala. Il rock, come nel suo battesimo cinematografico già citato di Il seme della violenza, è motore dell’azione in pellicole drammatiche a sfondo sociale sulla devianza giovanile, o in pellicole exploitation sulla devianza giovanile13. Nel giro di dieci anni le trasformazioni socioculturali fecero sentire la propria influenza. L’Era dell’acquario, la contestazione giovanile, la “rivoluzione” non comportarono, però, sostanziali cambiamenti nell’approccio cinematografico al rock. a cambiare fu l’anagrafe dei registi e degli sceneggiatori (giovani come i fruitori di musica rock e dei film che, per essi, si confezionavano), sicché a fine ‘60 la settima arte registrò il rock non più come strumento di corruzione, ma come strumento di liberazione. E i rocker, da pericolosi, divennero eroi mitici, spesso protagonisti di parabole di rise & fall14 che ne presupponevano quasi la natura messianica, aedi di sé stessi e delle proprie gesta che 12 alcuni titoli emblematici: Blue Hawaii (Id., 1961), It Happened at the World’s Fair (Bionde, rosse, brune..., 1962), Girls! Girls! Girls! (Cento ragazze e un marinaio, 1962), Fun in Acapulco (L’idolo di acapulco, 1963), Kissin’ Cousins (Il monte di Venere, 1964), Viva Las Vegas (id., 1964), Girl Happy (Pazzo per le donne, 1965), Paradise Hawaiian Style (Paradiso hawaiano, 1966), Spinout (Voglio sposarle tutte, 1966), Clambake (Miliardario... ma bagnino, 1967). 13 Visto il successo di Rock Around the Clock (senza tregua il rock ‘n’ roll, 1956), Roger Corman diresse, nel solo 1957, quattro roxploitation, ovvero quattro pellicole exploitation sul rock: Rock All Night, Teenage Doll, Carnival Rock, Sorority Girl. 14 si pensi ai protagonisti eponimi delle opere rock Jesus Christ Superstar (Id., 1973), Orfeo 9 (Id., 1973) e Tommy (Id., 1975). sull’argomento vedi i saggi di Giacomo Fabbrocino e Corrado Morra contenuti in questo volume.
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ROCK & MOCK: QUaNDO IL DURO sI Fa GIOCO
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milioni di giovani seguivano ascoltando dischi e nastri registrati oppure live in concerti e raduni epocali che, a loro volta, venivano immortalati su pellicola in opere quali Monterey Pop (Id. 1969) o Woodstock: 3 Days of Peace and Music (Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, 1970)15. Il rock è uno stile di vita ed il rocker ne è il suo cantore. In questa nuova veste (positivizzata perché ci si rivolge ai ragazzi e non più ai loro genitori) le rockstar irrompono sul grande schermo anche in commedie, ma siamo ben lontani dal ridere del rock. In Rock ‘n’ Roll High School (Id., 1979), ad esempio, i bersagli della fracassona satira demenziale orchestrata da allan arkush e Joe Dante sono l’istituzione scolastica ed il delirante fanatismo di alcuni suoi esponenti (la Preside, Miss Evelyn Togar, conduce esperimenti sui topi per dimostrare gli effetti devastanti della musica rock che, effettivamente, fa esplodere le piccole cavie; tuttavia ad un concerto un topo gigante vien fatto entrare perché provvisto di paraorecchi), mentre i Ramones, il gruppo punk-rock protagonista della storia, piombano quali dei ex machina a guidare la rivolta degli studenti, che mette di fronte la vitale an/archìa adolescenziale e l’ingessata archìa delle autorità, fino alla letterale esplosione finale che cita apertamente Zéro de conduite di Jean Vigo (Zero in condotta, 1933). Insomma, siamo addirittura in fase Bildungsroman. Una fase duratura, come dimostrano i recenti Almost Famous (Quasi famosi, 2000), School of Rock (Id., 2003) e The Boat That Rocked (I Love Radio Rock, 2009) il cui tema continua a poter essere racchiuso nella parafrasi dal latino historia (del rock) magistra vitae est. anche i Tenacious D. (al secolo Jack Black e kyle Gass che, a dispetto di un fisico non propriamente da rockstar, sono due signori musicisti), nella loro prima divertente e divertita esperienza cinematografica Tenacious D. & the Pick of Destiny (Tenacious D. e il destino del rock, 2006) sfidano il diavolo (interpretato da Dave Grohl dei Foo Fighters), mentre nell’incipit un giovanissimo JB, dopo una sonora lezione del padre (Meat Loaf), prega, in musica, Dio (nel senso del cantante heavy metal Ronnie James Dio!) chiedendogli di indicargli la strada ed affermando «Il rock non è opera del diavolo, è una splendida magia». si tratta di un film decisamente comico dalle cui gag, però, ancora una volta, la musica rock esce indenne se non 15
sui documentari incentrati sui megaraduni rock vedi il saggio di Vincenzo Esposito contenuto in questo volume.
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rafforzata nel suo ruolo salvifico, nonché come strumento di riscatto dei freak. E che dire di Airheads (airheads – Una band da lanciare, 1994) in cui i tre protagonisti, rocker puri, alla fine prevalgono sulla finta ed ipocrita industria discografica rappresentata da Milo Jackson (curiosamente interpretato dal Michael Mckean di This Is Spinal Tap) e Jimmie Wing? Nessuno sembra avere il coraggio di prendere in giro le rockstar se non le rockstar stesse, come l’alice Cooper autoironico nella scena al ristorante in Roadie (Roadie – La via del rock, 1980), l’Ozzy Osbourne del reality The Osbournes, o i Trip16 di Terzo canale – Avventura a Montecarlo (1970)17. Curiosa premura, visto che la parodia, come testimoniato dall’etimo greco di origine (la preposizione parà che indica vicinanza, ma anche lontananza, e odè che sta per ode, canto), si effettua su soggetti/oggetti di culto/devozione. Ragion per cui la migliore, se non l’unica, pellicola che riesce a scherzare sul rock, miti e riti compresi, è This Is Spinal Tap (Id., 1984) un mockumentary diretto nel 1984 da Rob Reiner che vi recita anche nel ruolo del regista di spot Martin Di Bergi al seguito del gruppo heavy metal britannico spinal Tap18 durante un tour americano in occasione dell’uscita dell’album Smell the Glove. Naturalmente, come si conviene ad un’operazione mock, gruppo, tour americano ed album sono inventati di sana pianta. This Is Spinal Tap non è il primo falso documentario della storia del cinema19, ma fu proprio Rob Reiner, in occasione di un’intervista sul film, a definirlo con questo neologismo ottenuto so16 Band fondata a Londra nel 1966 da Riki Maiocchi, fuoriuscito dei Camaleonti, e nella quale, all’inizio, suonò Richie Blackmore prima di creare, nel 1968, i Deep Purple. La formazione degli anni settanta, quella che incise per la RCa in Italia, era composta da Billy Gray, Joe Vescovi, arvid anderssen, Pino sinnone. 17 Diretto da Giulio Paradisi, il film è, a dirla tutta, un musicarello demenziale in cui il gruppo protagonista parte, con un furgone hippie (quasi un incrocio tra il bus del Magical Mistery Tour dei Beatles ed il Van della Misteri & affini del cartoon Scooby Doo), in direzione Montecarlo per un megaraduno rock. Dopo aver vagato in Italia, grazie alle indicazioni errate di un Mal di volta in volta su un cavallo o star di fotoromanzi, giungono alle Terme di Caracalla dove è in corso effettivamente una manifestazione musicale organizzata da Radio Montecarlo. Da rilevare, inoltre, che i Trip si esibiscono in playback su brani cantati dai New Trolls. 18 I componenti sono David st. hubbins (Michael Mckean), Nigel Tufnel (Christopher Guest), Derek smalls (harry shearer). I tre attori sono anche autori delle canzoni, insieme con Rob Reiner, e reali esecutori delle stesse. 19 Mockumentary precedenti al lavoro di Reiner sono, di sicuro: David Holman’s Diary (Id., 1967) di Jim McBride, autore poi di un convenzionale biopic su Jerry Lee Lewis, Great Balls of Fire! (Great Balls of Fire! – Vampate di fuoco, 1989); l’opera prima di Peter Greenaway The Falls (Id., 1980) o il celeberrimo Zelig di Woody allen (Id., 1983). Di quest’ultimo anche l’esordio dietro la m.d.p., Take the Money and Run (Prendi i soldi e scappa, 1969), presenta momenti fittiziamente documentaristici.
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stituendo al prefisso “rock” di rockumentary (il film è, come indicato dal sottotitolo, “a Rockumentary by Martin Di Bergi”) il termine “mock”20, che come sostantivo significa “finto”, mentre come verbo sta per “prendersi gioco, fare il verso a”. Linguisticamente i rockumentary di riferimento sono soprattutto The Last Waltz (L’ultimo valzer, 1978)21 e Dont Look Back (Id., 1967), ma qui, a differenza di quanto accade in The Rutles22, è il mondo del rock ad essere mocked. L’elenco dei luoghi comuni irrisi va dai frequenti cambiamenti del nome del gruppo23, agli incidenti mortali sui generis occorsi ai batteristi (uno morto in uno strano incidente di giardinaggio, un altro soffocato in vomito non suo24, uno per autocombustione), al sessismo esplicito dei testi delle canzoni (in più Nigel definisce il proprio membro, ben in evidenza coi pantaloni stretti, “l’armadillo”), alla misoginia sublimata nelle copertine degli album (quella solo descritta – non la vedremo mai perché censurata dalla casa discografica – di smell the Glove raffigura una donna nuda a quattro zampe tenuta al guinzaglio da qualcuno che le porge un guanto nero da odorare). Non mancano, poi, gag indirizzate a musicisti ben precisi: l’assolo di Nigel che suona la chitarra con un violino (Jimmy Page dei Led Zeppelin suonava la sua 20 Il lavoro di Rob Reiner viene definito «una sorta di pietra miliare nell’ambito della forma mock-documentario» in Jane Roscoe, Craig hight, Faking It: Mock-Documentary and Subversion of Factuality, cit., pp.120-121. 21 Il film di Martin scorsese, incentrato sull’ultimo concerto del gruppo The Band al teatro Winterland di san Francisco il 25 novembre del 1976, ha avuto la sua parodia testuale con The Last Polka (Id., 1985) un film per la tv di John Blanchard, scritto da Eugene Levy e John Candy che vi figurano anche nei panni, decisamente kitsch, dei fratelli shmenge, due immigrati dalla Leutonia (sic!), di cui si ricostruisce la storia attraverso interviste, riprese amatoriali e fotografie alternate alle registrazioni video del loro ultimo concerto. 22 anche in The Rutles 2: Can’t Buy Me Lunch (Id., 2002) il bersaglio è sempre il medium televisivo: il solito intervistatore è costretto ad inseguire la telecamera fin dentro la casa di una donna, per non parlare della gaffe con Mike Nichols cui attribuisce erroneamente la regia di The Godfather (Il padrino, 1972). In Walk Hard: The Dewey Cox Story (Walk hard: La storia di Dewey Cox, 2007), come si conviene ad uno spoof (genere metacinematografico per eccellenza), si prende in giro il biopic musicale, quindi ancora una volta la settima e non la seconda arte. Julien Temple, invece, con The Great Rock’n Roll Swindle (La grande truffa del Rock ‘n Roll, 1980), compie un’operazione inversa a quella di Reiner realizzando un documentario in forma di fiction sulla creazione dei sex Pistols ad opera del manager Malcom McLaren. 23 In origine David suona nei Creatures, mentre Nigel è nei Lovely Ladies, poi insieme fondano The Originals che sono costretti a cambiare in The New Originals, data l’esistenza di un altro gruppo con lo stesso nome. Diventati questi ultimi The Regulars, pensano di potersi riappropriare di The Originals, ma diventano The Thames Men prima del definitivo spinal Tap. 24 Riferimento dissacrante ai tanti musicisti soffocati nel proprio vomito: dalla leggenda che vuole Jimi hendrix deceduto in questo modo, a John Bonham, batterista dei Led Zeppelin, passando per Bon scott degli aC/DC.
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con un archetto) o l’esilarante esibizione a tema sul pezzo “stonehenge” (una scenografia riproducente i dolmen di stonehenge occupava il palco del Born again Tour dei Black sabbath nel 198325). Come detto, il prefisso parà indica, in greco, sia prossimità che distanza; This Is Spinal Tap, infatti, fa quello che una vera parodia dovrebbe fare, ovvero, per dirla con Bachtin, «incorona e detronizza al tempo stesso»26 gli eroi, i miti (le rockstar in questo caso) ed in fondo, per tornare a F for Fake, dice la verità mentendo27. Cosa che, al contrario, non fanno una serie di titoli comici che quasi ridicolizzano il rock. Tra questi: Still Crazy (Id., 1998) che, sebbene ispirato al ritorno in scena di The animals, sbeffeggia la moda delle reunion di band rock fuori tempo massimo; oppure Full of It (14 anni vergine, 2007) e The Rocker (The Rocker – Il batterista nudo, 2008) in cui la presa in giro dei rocker classici ha un che di reazionario28. Del resto, le band rock sembrano sempre più “brand” rock, come testimoniato dal successo dei Jonas Brothers, protagonisti di Camp Rock 1 e 2 (Id., 2008 e 2009), a marchio Disney. Che, (guarda un po’!) coproduce in Italia Questa notte è ancora nostra (2008) in cui un gruppo rock (?), il cui frontman è Nicolas Vaporidis, si esibisce con successo, in un locale, alle audizioni per uno di quei megaconcerti estivi sponsorizzati da un gelato. Il rock, però, seria o meno che sia, è un’altra cosa.
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su http://www.imdb.com/title/tt0088258/trivia (accesso del 25/6/2009), tuttavia, si legge che la sequenza del concerto con la miniscultura del dolmen risalirebbe ad una versione di 20 minuti che regista ed attori girarono nel 1982 per ottenere i finanziamenti necessari a completare il lungometraggio, e, pertanto, addirittura precederebbe il Tour in questione dei Black sabbath. 26 Mikhail Mikhailovich Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare nel Medioevo e nel Rinascimento, Einaudi, Torino, 1979, p. 168. 27 Confrontando le interviste, reali, di scorsese ai membri di The Band, in The Last Waltz (che parlano di “pupe sculettanti” o del giorno in cui suonarono in un locale di Jack Ruby, l’assassino di Lee harvey Oswald, mentre Robbie Robertson finge di prendere al volo una mosca con la mano), e quelle finte di Martin Di Bergi agli spinal Tap, è davvero difficile distinguere il ridicolo autentico dal ridicolo artato. 28 Il protagonista di Full of It inventa una frottola sul padre, indicandolo come rocker, ma quando, magicamente, le sue bugie si avverano, si rende conto che è meglio il genitore che ha di quello che vorrebbe; in The Rocker in occasione dell’esibizione finale, Robert ‘Fish’ Fishman incontra il gruppo da cui è stato allontanato ed accorgendosi di quanto siano finiti male, completamente rimbecilliti dalle droghe, conclude che, in fondo e nonostante la differenza di età, è preferibile suonare per gli a.D.D., giovane band, sana ed autentica.
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sGUaRDI sUL PaLCO: IL ROCKUMENTARY D’aUTORE di Alberto Castellano
C’è una vecchia questione (felicemente) irrisolta che riguarda la teoria e la pratica del documentario con naturali ripercussioni sul piano estetico, formale, narrativo, linguistico. È una contrapposizione, che risale all’avvento del sonoro, tra due tendenze incarnate da due maestri, due grandi documentaristi, Robert Flaherty e Dziga Vertov. La prima privilegia il momento delle riprese, considera centrale l’atto del filmare, la seconda considera invece il montaggio la fase creativa fondamentale, quella che sfruttando tutte le potenzialità tecnico-espressive dell’editing riesce sulla base del materiale del reale a operare una “ricreazione del mondo”. Quest’ultima in particolare – dalla quale discendono con analogie e differenze, pertinenza ma anche equivoci, il pedinamento zavattiniano e il “cinema-verità” – si basa sulla teoria vertoviana del “cineocchio”, della “realtà colta di sorpresa”, della “vita colta alla sprovvista”. Le due tendenze hanno partorito negli anni una radicalizzazione di due tipologie di cineasti: il documentarista “invisibile”, quello che vuole (cerca di) riprendere le persone a loro insaputa, e vuole evitare che la macchina da presa possa alterare i gesti e comportamenti, e il documentarista “visibile”, quello che appare sullo schermo, che è presente nel campo visivo, che crea un rapporto con il soggetto ripreso secondo un percorso drammaturgico e addirittura in alcuni casi (per narcisismo o per necessità) è quasi coprotagonista nelle interviste o testimonianze (vedi il Calopresti del recente documentario sulla Thyssenkrupp). a pensarci bene il documentario musicale, l’opera che registra un concerto, il film che registra un evento musicale o un happening a base di musica, mette indirettamente d’accordo le due figure di ci-
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neasti, fa coesistere due concetti di documentarismo, perché c’è un autore visibile al pubblico live e alla band durante le riprese (oltre tutto è un intervento professionale sancito da accordi contrattuali, permessi, autorizzazioni, liberatorie) e uno “invisibile” allo spettatore, un autore indefinito da uno stile standard, l’artefice di un’operazione “impersonale”. Ciò che poi rende particolare il rockumentary1 (utilizziamo questo neologismo anche per comodità semplificativa) è l’oggetto stesso del film, perché se la materia prima del cinema documentario in genere è il “reale”, nel caso delle esibizioni delle band si tratta di riprendere un evento sì reale ma organizzato, programmato, che si consuma alla presenza di un pubblico che assiste comunque a una “messa in scena”, il cineasta di turno deve documentare una rappresentazione musicale live e le reazioni più diverse del pubblico (che è quasi uno spettacolo a sé), insomma deve registrare un rapporto tra chi suona e chi ascolta legato da una tacita dose di fiction. E sempre a proposito del filmare l’evento musicale, del documentare un happening che – al di là del ripetersi nelle tournée – è sempre unico e irripetibile, sono calzanti le considerazioni di Jean-Louis Comolli nel suo ottimo saggio Vedere e potere in merito al “potere di mostrare” del cinema, al rapporto tra il visibile e il non-visibile2. Perché in effetti l’atto di filmare un concerto si alimenta di una visione supplementare rispetto al rito di massa o meglio la “registrazione” che varia da regista a regista con un punto di vista personale offre una visione/ascolto che non è quella delle migliaia di fans, sia per oggettivi motivi tecnico-logistici (la distanza, i dettagli, il livello sonoro, il diverso rapporto tra performance fisica e musica suonata), sia per la percezione completamente diversa dell’evento: quella di chi lo vive come esperienza fisica unica, di chi vede/ascolta dal vivo i musicisti in un trip collettivo irripetibile con una visione d’insieme e quella di chi ne fruisce da solo (al cinema, in televisione o con supporto DVD) da un punto d’osservazione anche questo esclusivo ma con la possibilità di replicare la visione, vivisezionarla, analizzarla, arricchendola con gli extra, interviste e backstage. Il cineasta insomma in questo caso ha un potere di mostrare porzioni di non-visibile, di elementi e aspetti negati alla massa, esclusi dal consumo collettivo (è un po’ quello che accade per le partite di calcio, e gli eventi sportivi 1 Per una più dettagliata analisi del genere rockumentary si veda il saggio di simone arcagni contenuto in questo stesso volume. 2 Jean-Louis Comolli, Vedere e potere, Donzelli, Roma, 2006, p. 4.
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in genere, viste allo stadio o in tv). Naturalmente la differenza investe anche il contrasto tra l’isolamento dello spettatore cinetelevisivo e il momento aggregante del concerto. se il cinema documentario realizza una riduzione del cinema all’essenziale, cioè il corpo e la macchina, si alimenta di un rapporto immediato, diretto tra la macchina da presa e i corpi filmati, i documentari di musica, del rock nello specifico, portano alle estreme conseguenze espressive e percettive il contatto tra il mezzo tecnico e i “corpi al lavoro”, perché in questi casi (in particolare dei concerti) si tratta di una complice operazione, di una molto moderna integrazione tra la macchina tecnologica e le macchine umane, non sono corpi che la camera deve cercare, spiare, seguire, filmare in movimento ma di performers che si muovono con le più classiche unità di tempo, luogo e azione, che scoprono tutte le loro carte espressive fisico-sonore che possono essere restituite dalle più varie articolazioni. Ecco, da questi sguardi d’autore su corpi musicali bisogna partire per esemplificare alcuni dei più significativi percorsi possibili per reinventare/rivedere/riascoltare alcune mitiche band, alcuni leggendari rockers, alcuni artisti soprattutto di ieri che hanno fatto la storia del rock e hanno potuto testimoniare la loro statura – anche quella più nascosta – grazie ad alcuni grandi cineasti. Jonathan Demme, Martin scorsese, Julien Temple, Jean-Luc Godard sono gli autori-chiave che hanno ridisegnato l’approccio tradizionale al concerto e ai protagonisti della popular music in generale. L’esordio nel rockumentary di due autori della stessa generazione come Demme e scorsese, che hanno in comune l’apprendistato nella Factory di Roger Corman, presenta dinamiche e motivazioni molto diverse. a proposito di Stop Making Sense (Id., 1984) Demme, folgorato da un concerto dei Talking heads dichiarò: «Vado molto spesso ai concerti ma quella è stata l’unica volta che mi è capitato, alla fine, di uscire pensando ossessivamente di trarne un film. Il progetto visivo dello spettacolo stesso è costituito da elementi fortemente cinematografici. Oltre a questo ho avuto dallo spettacolo una singolare impressione narrativa, indescrivibile, che peraltro non tento neanche di spiegare, come se stessi guardando una storia, come se apparisse un nuovo gruppo di personaggi ogni volta che David cominciava una nuova canzone. alla fine mi sono commosso, divertito e stimolato»3.
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Intervista a Jonathan Demme a cura di M. Dare in: «L.a. Weekly», Novembre 1984, pp. 9-15.
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Con spirito ben diverso Martin scorsese affrontò il progetto di The Last Waltz (L’ultimo valzer, 1978) nato in occasione dell’ultimo concerto che, prima di sciogliersi dopo sedici anni di attività, il complesso canadese The Band diede al teatro Winterland di san Francisco il Giorno del Ringraziamento, il 25 novembre del 1976: «Durante l’ultima settimana di riprese di New York, New York mi hanno proposto di filmare il concerto e non ho esitato un secondo, sono da sempre un fan della Band. In un primo momento però pensavo che l’evento meritasse di essere filmato per gli archivi in 16 mm., poi decisi di girare in 35 mm., con il sonoro sincronizzato e con sette macchine da presa, il gruppo avrebbe finanziato l’acquisto del materiale. Preparai una sorta di sceneggiatura di duecento pagine in modo che, quando una macchina da presa avrebbe terminato la pellicola, avremmo saputo quale altra macchina doveva iniziare a girare e da quale punto. Quando la Band cominciò a suonare non si sentiva più nulla, ma alla fine nonostante la confusione riuscimmo a riprendere in modo soddisfacente e quando vidi il girato capii che avrebbe potuto diventare un film. alcuni mesi dopo Robbie Robertson decise di inserire nel film anche delle interviste che dovevo fare io. Filmavo con due macchine a 35 mm e non sapevo quello che gli intervistati avrebbero fatto. Il film uscì finalmente nel 1978»4.
Gli apparati messi in moto prima, durante e dopo il concerto sono tipicamente scorsesiani, esemplificano il suo proverbiale metodo di lavoro, mentre Demme si “limita” a riprendere l’evento live. Ma i due cineasti condividono l’intenzione di non riprendere il pubblico, l’idea di escludere la platea, di lasciare fuori campo i numerosi fans. scelta concettuale e visiva comune ad alcuni autori che si sono misurati con il genere, interrompendo la tradizione dei documentari anni settanta modello Woodstock: 3 Days of Peace and Music (Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, 1970) – film al quale lo stesso scorsese collaborò in fase di montaggio – che invece puntavano molto sullo sguardo d’insieme, sulla celebrazione dell’evento in senso pieno e totale, sull’imprescindibilità della visualizzazione dei raduni oceanici, delle folle sterminate, degli happening totali, delle maratone estenuanti a base di sesso, droga e rock’n’roll, sul coprotagonismo dei tanti che vivevano un concerto come un’esperienza fisica unica, e concentrando lo sguardo sulle band. 4
In: David Thompson e Ian Christie (a cura di ), Scorsese secondo Scorsese, Ubulibri, Milano, 1991, pp. 100-103.
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Stop Making Sense, segnò il sodalizio tra Demme e David Byrne, “testa pensante” delle “teste parlanti”, che avrebbe lasciato il segno artistico nei successivi film di fiction. Il regista coglie nel concerto progettato da Byrne le potenzialità di struttura narrativa e lavora sul problematico equilibrio tra le riprese veloci, improvvisate, documentarie e un percorso formale con il quale dare alla performance dal vivo una forza comunicativa e sull’incrocio, fino alla fusione totale, tra immagine e suono per trasformare la ripresa di un concerto in un’esperienza “altra” per lo spettatore. scrive anton Giulio Mancino nel suo saggio Angeli selvaggi su Demme e scorsese: «Il pubblico non vive l’esperienza del film come surrogato dell’immersione totale, altrimenti offerta dal concerto. Nella pellicola il pubblico non ha modo di “riconoscersi” ed “identificarsi” al di là del palcoscenico dove si svolge l’esibizione. Gli spettatori “accreditabili” sono solo quelli in sala che assistono al film, la cui storia non potrebbe che svolgersi su quello schermo»5.
Infatti non ci sono controcampi sulla platea, né effetti speciali o digressioni, tutto è giocato sulla concentrazione emotiva, sull’attenzione per i gesti, la trama, le luci, i suoni. anche scorsese per l’ultimo concerto della Band rinuncia a riprendere il pubblico, a lui interessa descrivere l’intensità del rapporto che lega i musicisti, non le reazioni del pubblico. Facendo coesistere l’oggettività documentaria e la sua vocazione all’affabulazione, il suo talento narrativo, il regista italoamericano costruisce un pregevole percorso audiovisivo con il quale fa (ri)ascoltare 26 canzoni eseguite oltre che dalla Band, da Bob Dylan, Joni Mithell, Neil Diamond, Neil Young, Van Morrison, Eric Clapton, Ringo starr, Muddy Waters e intervallate da tante brevi interviste e alcune poesie di Ferlinghetti. Stop Making Sense e L’ultimo valzer non sono state le uniche incursioni di Demme e scorsese nel documentario musicale. L’autore di The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, 1991) recentemente, dopo più di vent’anni, è tornato a filmare la musica rock per immortalare un altro evento non solo e non tanto perché il protagonista è un gigante come Neil Young, quanto per il momento particolare in cui è avvenuto il concerto. Neil Young: Heart of Gold (Id., 2006) cattura la statura del musicista nell’ottica del soffio vitale che emana la sua toccante performance che vuole andare oltre la musica. Nel5
anton Giulio Mancino, Angeli selvaggi, Métis Editrice, Chieti, 1995, p. 349.
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l’agosto del 2005, reduce da un difficile intervento chirurgico e dalla perdita del padre, Young registra nel “tempio” del Ryman auditorium di Nashville, l’anteprima dell’album Prairie Wind. Il sessantenne cantante canadese accompagnato da una band si divide tra chitarra, banjo e piano comunicando un esclusivo legame tra arte e vita. I musicisti/attori entrano ed escono dal set a seconda degli arrangiamenti, le varie macchine da presa si muovono in sintonia con le note, tra le interviste prima del concerto e alcuni aneddoti raccontati dal palco affiora il tema della morte. La scelta di filmare un concerto lasciando fuori campo il pubblico trova qui un’esasperazione concettuale quando Young esegue da solo di fronte a una sala vuota The Old Laughing Lady. scorsese, invece, prima di tornare a un concerto vero e proprio con Shine a Light (Id., 2008) ha reso omaggio a Bob Dylan con No Direction Home: Bob Dylan (No Direction home, 2005). In tre ore e mezza attraversa in lungo e in largo l’universo dylaniano cercando di ricomporre gli aspetti dell’uomo, dell’artista, del mito con un racconto dettagliato e ricco di testimonianze, scoperte, indiscrezioni, aneddoti e soprattutto d’immagini. L’ascesa alla follia della giovane star si articola in vari momenti: lo si vede ventiquattrenne magrissimo e con occhiali scuri, si vedono immagini televisive in bianco e nero di un festival primi anni sessanta, di quello di Newport del ‘65 segnato dalle contestazioni per la “svolta elettrica”, e le sequenze a colori del tour britannico del ‘66, lo si vede strafatto e con la sigaretta che si consuma tra le dita mentre si tocca i riccioli e si stropiccia gli occhi. Ci sono anche la storia di un’adolescenza trascorsa in una povera cittadina di minatori, il faticoso viaggio a New York in un inverno freddo e nevoso, l’ossessione di Woody Guthrie, i ricordi degli amici del Greenwich e di Joan Baez e della loro love story. Dylan in persona si racconta senza paure e ogni tanto guarda in macchina. Con Shine a Light l’autore di Taxi Driver (Id., 1976) torna al film-concerto ma si misura con i Rolling stones, la rock-machine per eccellenza, corpi come quelli di Mick Jagger, keith Richards, Ronnie Wood, Charlie Watts, esplosivo concentrato psicofisico. L’occasione è stato il concerto speciale tenuto dalla band il 29 ottobre 2006 al Beacon Theatre di New York per la Clinton Foundation. Il documentario discutibile e discusso – con polemiche da parte di Jagger prima, durante e dopo le riprese – ha una genesi inedita, un approccio originale all’evento ed è interessante per come risolve e stravolge il rapporto tra la fredda registrazione del concerto e l’emotivo coinvolgimento del
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pubblico dal vivo. Le tappe del percorso artistico degli stones sono rievocate dalle canzoni, ma anche da frammenti originali di interviste dagli anni settanta fino a quella realizzata prima del concerto, stralci di trasmissioni televisive, inseriti tra un brano e l’altro. sul palco si alternano anche altre star come Jack White, Buddy Guy, Christina aguilera. Fin qui tutto rientra in una “normale” operazione di “cineconcerto”. La novità sta nel fatto che alla performance assistono poche centinaia di spettatori e che il regista ha piazzato una ventina di macchine da presa. In quel teatro di New York si consuma un incontro tra cinema documentaristico e musica diverso dal solito: qui non c’è un regista che filma un evento musicale nella sua totale spontaneità ma tanti indiscreti occhi meccanici “a vista” che condizionano in qualche modo la reazione dei fans, creano le premesse per dare all’happening la forma di una messa in scena finalizzata alla realizzazione di un filmato che si potrà vedere al cinema o in DVD. Gli stones lavorano come se nulla fosse, suonano senza risparmiare energie e senza badare più di tanto a ciò che c’è intorno, ma gli spettatori non possono ignorare la presenza del cinema nel teatro, avvertono fisicamente la trasformazione della natura di un’esperienza, vivono l’ibridazione del concerto nel senso che il cinema fa sentire una presenza nel suo svolgersi, l’esperienza dal vivo viene mediata dal cinema, un pubblico presente e partecipante diventa immobile e disperso, un pubblico che quasi fa da figurante, è necessario per la finzione e rappresenta in parte quello più vasto che sarà raggiunto da altri canali. Il cinema però fa sentire la sua presenza soprattutto attraverso la presenza di scorsese stesso. In realtà lo spiegamento dei mezzi tecnici non viene ostentato, le cineprese non sono invadenti, non danno fastidio né al pubblico né agli stones, riescono quasi a nascondersi. È l’autore che metalinguisticamente e un po’ narcisisticamente fa sentire il suo ruolo, apparendo nel prologo mentre sistema l’apparato di ripresa con vari problemi tecnici da risolvere e nell’epilogo, e interferisce nella scelta dei brani da eseguire, prediligendo quelli più lenti perché consentono di indugiare sui volti con i primi piani e risultano narrativamente più funzionali. La band aveva già ispirato la sperimentazione di tutt’altro segno di Jean-Luc Godard, un maestro che ancora oggi continua a interrogarsi sul rapporto tra suono e immagine, sulle potenzialità del mezzo audiovisivo. Con One Plus One/Sympathy for the Devil (Id., 1968) uno dei fondatori della Nouvelle Vague, girò in pieno sessantotto un film sui Rolling stones alla maniera sua, mescolando fiction e documentario,
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contaminando i linguaggi, utilizzando la musica anche come pretesto per parlare di politica, per sintonizzarsi sugli umori del maggio francese. Il film è strutturato in cinque episodi, uno dei quali fa da leitmotiv: la ripresa di una serie di prove che i Rolling stones fanno per registrare un disco in una sala d’incisione. Con le quattro storie intrecciate di una donna che gira per le strade della swinging London degli anni sessanta scrivendo slogan politici o fantapolitici sui muri, del titolare fascista di una libreria specializzata in pubblicazioni pornografiche che picchia due ebrei e un gruppo di giovani di sinistra, di alcuni neri del Black Power che leggono testi rivoluzionari in un cimitero di automobili e sparano raffiche di mitra contro delle ragazze bianche, di una troupe televisiva impegnata con cineprese e microfoni a intervistare una donna in un bosco, Godard traccia un colorato e confuso affresco in cui si mescolano alcuni temi a lui cari e l’attualità politica per alludere alla fine della civiltà occidentale e dei suoi miti di fronte all’avanzare di una cultura nuova. La voluta confusione delle immagini con una voce off che legge strani testi sovrapponendosi ai dialoghi e divagazioni surreali è funzionale all’anarchia (ideologica, narrativa, formale) del film. E nel finale il sacrificio della donna cosparsa di sangue finto è suggellato proprio da Mick Jagger che con Sympathy for the Devil canta la morte di Cristo. Tra Godard e scorsese c’è stato anche hal ashby che filmò tre diverse performance dei Rolling stones durante il tour del 1981. Time Is on Our Side – The Rolling Stones (Id., 1982) è un film-concerto un po’ stanco e anonimo, se non altro perché il regista si limita a mettersi passivamente al servizio dello spettacolo eccessivo e delle provocazioni di Mick Jagger. su altre due band che hanno segnato la storia del rock, i sex Pistols e i Clash, ha concentrato il suo sguardo documentaristico d’autore Julien Temple, regista inglese che si è fatto le ossa nel videoclip. alla ripresa ieratica e monodirezionale del concerto, alla registrazione dell’evento circoscritta nello spazio e nel tempo, Temple preferisce però l’approccio pluridirezionale, multilinguistico, la contaminazione. E da The Great Rock ‘n’ Roll Swindle (La grande truffa del rock ‘n’ roll, 1980) a Joe Strummer: The Future Is Unwritten (Il futuro non è scritto – Joe strummer, 2007) il suo stile non è molto cambiato. Per rendere omaggio ai sex Pistols, il gruppo inglese che inaugurò la stagione del punk rock, l’ala estrema della musica rock degli anni settanta, diventandone l’espressione più violenta e provocatoria, Temple utilizzò il punto di vista di Malcolm McLaren, il decalogo
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dell’impresario della band (dieci lezioni sul modo di truffare l’industria discografica). alternando fiction e cinema diretto, materiale documentario girato in super 8, 16mm e 35 mm, videotape e cartoni animati, il film, dietro l’apparente forma dell’ascesa e caduta di una rock star, svela invece con una certa spregiudicatezza i retroscena della gestione manageriale di McLaren, che si era servito dei Pistols per organizzare la sua colossale truffa. Quasi vent’anni dopo con The Filth and the Fury (sex Pistols – Oscenità e furore, 2000) Temple ha tracciato invece un ritratto incisivo e preciso – pubblico e privato al tempo stesso – della band che in un paio d’anni stravolse le regole del mondo musicale. ha visionato molte ore di filmati d’epoca (telegiornali, concerti, show interrotti dalla polizia) e ha intervistato i protagonisti, tranne il bassista del gruppo sid Vicious, morto nel 1979 per una overdose di eroina. Questo lavoro di sperimentazione linguistica e formale raggiunge nella maturità una forza “ideologica” e un’espressività filosofica con il biopic Il futuro non è scritto, dedicato a Joe strummer, lo “strimpellatore” di West London, il cantante della leggendaria band dei Clash. Invece di filmare i corpi in azione (musicale), i rituali scenici dei gruppi rock, Temple si concentra sulla voce nuda e disperata di strummer, sull’unico veicolo di comunicazione possibile delle sue passioni e delle sue tensioni, invitando lo spettatore-ascoltatore ad abbandonarsi a un viaggio intimo nella complessità artistica, umana e politica del cantante. E intorno alla centralità della voce costruisce un racconto polifonico, una storia a più voci funzionali a una visione d’insieme del personaggio, a una ricomposizione univoca delle sue varie sfaccettature. anche stavolta utilizza materiali eterogenei, formati e origini diverse, ma a differenza delle sperimentazioni precedenti che producevano frammentazioni e dispersioni sotto il segno del caos stilistico e dell’estetica punk, in questo caso tutto è subordinato a un’unità narrativa, a una celebrazione corale, al profilo unitario di un artista pensato non come icona astratta ma come soggetto storico relazionato al proprio tempo. Non a caso è stato scelto un espediente narrativo unificante: raccolti attorno al fuoco in diverse località del globo, amici, musicisti e ammiratori più o meno celebri si ritrovano per ricordare la leggenda di strummer a cinque anni dalla sua prematura morte. E per dare maggiore coerenza espressiva e formale alla scelta strutturale del flusso vocale, il regista ha dato rilevanza semantica alle registrazioni di London Calling, la trasmissione radiofonica della BBC condotta con grande successo da strummer fra il 1998 e il 2002. Inseriti con abilità fra immagi-
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ni d’archivio, film di famiglia, vecchie foto, filmati di vario genere, registrazioni video di concerti, interviste, stralci di cronaca, vignette e disegni dello stesso Joe, gli estratti radiofonici hanno l’effetto di ritagliare un percorso narrativo-guida. La voce ruvida e inconfondibile di strummer finisce per diventare la fonte narrativa principale, il musicista racconta (e si racconta) nel presente e in prima persona la sua vicenda, creando attraverso la sua voce un feeling esclusivo tra narratore e spettatore, che si trasforma soprattutto in ascoltatore intimo, complice, e sente ridursi l’oggettiva distanza visiva. attorno ai falò in un clima di calore, amicizia e fraternità, proprio come piaceva a strummer, sono chiamati a testimoniare gli ex membri dei Clash e altre band, le due mogli e vari parenti, compagni di scuola, vecchi amici, ma anche le numerose celebrità che lo frequentavano (anche attori e registi come John Cusack, Johnny Depp, Matt Dillon, steve Buscemi, Martin scorsese, Jim Jarmusch). E tra una testimonianza e l’altra, tra un aneddoto dell’amico d’infanzia e un racconto crudo, viene ricostruita cronologicamente la sua vita: l’infanzia, l’adolescenza segnata da una rigida educazione, la tormentata gioventù funestata dal suicidio del fratello maggiore, la ricerca hippie dell’utopia, la nascita, l’ascesa e la crisi del punk e dei Clash, l’isolamento e lo smarrimento, le nuove avventure in radio e con la nuova band, i Mescaleros. amico e coetaneo di strummer, Temple vuole parlare però anche di una generazione con i suoi desideri e le sue contraddizioni sullo sfondo sociale di un’epoca e fa emergere con tenera complicità l’impegno politico dell’artista con i suoi ideali della lotta contro la povertà, le sue insicurezze, la sua conflittuale creatività. sia pure con incursioni episodiche nel mondo del rock, anche altri registi hanno lasciato un segno nel campo del rockumentary. Tre film realizzati nello stesso periodo che raccontano da angolazioni diverse, tre band diverse in contesti diversi. In Chuck Berry: Hail! Hail! Rock ‘n’ Roll (Id., 1987) Taylor hackford registra, con la passione e la nostalgia del fan, il concerto tenuto da Chuck Berry nel 1986 a st. Louis, sua città natale, per festeggiare il sessantesimo compleanno, intercalando numerose interviste con personaggi del rock tra i quali Little Richards, Willie Dixon, Bruce springsteen. Con U2: Rattle and Hum (Id., 1988) invece Phil Joanou per filmare la band irlandese degli U2 nel loro giro attraverso gli stati Uniti, sceglie la strada delle riprese immediate e virtuosistiche, del montag-
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gio funzionale, delle immagini concatenate in sintonia con il ritmo della musica. E tra una canzone e l’altra i musicisti espongono il loro pensiero circa l’apartheid, il razzismo, la disinformazione dei media, il terrorismo, la religione. amos Gitai con Brand New Day (1987) scrive, infine, una pagina molto interessante nel filone. Per il grande autore israeliano, il cui cinema è tutto segnato dal labile confine tra documentario e fiction, infatti, il viaggio degli Eurythmics in Giappone, ultima tappa del loro tour, è un ennesimo pretesto per continuare a esplorare il rapporto tra spazio e tempo, a sperimentare le potenzialità audiovisive del cinema. I due musicisti del gruppo Dave stewart e annie Lennox, affascinati dall’ambiente che li circonda, esplorano le possibilità di utilizzare il suono e le immagini del Giappone e durante il loro itinerario pieno di concerti e di incontri conducono una propria ricerca interiore, rivelano le loro personalità, la natura della loro collaborazione e della passione che li unisce. È il viaggio di chi produce suoni nello spazio sonoro di un altro paese. Dice lo stesso Gitai: «abitualmente si guardano le immagini di un film. Qui le immagini funzionano come il ritratto del suono»6.
6
Dichiarazione del regista amos Gitai contenuta nel catalogo del 5° Festival Internazionale Cinema Giovani (poi Torino Film Festival), 1987.
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INSERTO fOTOgRAfICO
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1. alan Freed (Mister Rock ‘n’ Roll) a Cleveland (1952)
2. Elvis Presley al Milton Berle Show (1956)
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3. Elvis Presley al Milton Berle Show (1956)
4. Elvis durante il servizio militare
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5. haight-ashbury. Jerry Garcia (centro) dei Grateful Dead, Rock scully (sinistra) manager del gruppo e lo scrittore Tom Wolfe
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6. Poster originale del film Monterey Pop di D. a. Pennebaker
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7. Jimi hendrix a Monterey
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8. Il grande musicista indiano Ravi shankar a Monterey
9. Peter sellers “fa l’indiano” nel film Hollywood Party
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10. Janis Joplin a Monterey
11. Un poster del Festival di Woodstock
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12. Poster originale del film Woodstock
13. Il popolo di Woodstock visto dal palco
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14. Pete Townshend degli Who a Woodstock
15. Il popolo di Woodstock, fuori orario, durante l’esibizione di Jimi hendrix
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16. Poster originale del film Gimme Shelter dei fratelli Maysles
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17. Jim Morrison al 3° Festival dell’isola di Wight
18. L’arresto di Charles Manson
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19. Poster originale del documentario di Pennebaker su Bob Dylan Dont Look Back
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20. La copertina dell’album The Freewheelin’ Bob Dylan
21. Tom Cruise e Penelope Cruz riproducono la copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan nel film Vanilla Sky
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22. Bob Dylan (alias) nel film Pat Garrett & Billy the Kid diretto da sam Peckinpah
23. Bob Dylan (Jack Fate) nel film Masked and Anonymous
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24. Cate Blanchett interpreta Bob Dylan nel film Io non sono qui
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25. Cate Blanchett nei panni di Bob Dylan nel film Io non sono qui
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26. Locandina del film A Hard Day’s Night
27. Ringo starr durante le riprese di A Hard Day’s Night
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28. Locandina del film Help!
29. Locandina del film Yellow Submarine
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30. I Beatles suonano sul tetto della apple Records (gennaio 1969)
31. I Pink Floyd nell’anfiteatro di Pompei
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32. Locandina del film More di Barbet schroeder con la colonna sonora dei Pink Floyd
33. Il progetto del palco per The Wall Live in Berlin
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34. Locandina del film Zabriskie Point di Michelangelo antonioni con musiche dei Pink Floyd
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35. Poster del film Pink Floyd – The Wall di alan Parker
36. Bob Geldof, attore protagonista del film The Wall
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37. Mick Jagger nel film Sadismo
38. Locandina originale del film L’uomo che cadde sulla Terra
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39. David Bowie nel film L’uomo che cadde sulla Terra
40. Poster del film This Is Spinal Tap
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41. La locandina del film Heart of Gold di Jonathan Demme
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42. Il regista Martin scorsese con i Rolling stones durante le riprese di Shine a Light
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43. keith Richards dei Rolling stones durante il concerto ripreso da scorsese
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44. Tito schipa jr. regista del film Orfeo 9
45. Elton John e Roger Daltrey nel film Tommy
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46. Carlo Verdone
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47. Julien Temple
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aPPUNTI sULL’OPERa-ROCk CINEMaTOGRaFICa di Giacomo Fabbrocino
se, come da definizione, l’opera lirica, o melodramma, è una rappresentazione in cui un’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto1, per opera-rock si deve intendere uno spettacolo in cui tutto il dialogico sia prodotto allo spettatore sotto forma di brani rock. Film come Hair (Id., 1979) di Milos Forman o The Rocky Horror Picture Show (Id., 1975) di Jim sharman, che pure sono incontri fondamentali tra rock e cinema, alternano scene di dialogo a numeri musicali e non rientrano quindi in questa categoria: sono “semplicemente” dei musical con una colonna sonora rock. si è deciso pertanto di prendere in analisi, senza pretesa di esaurire l’argomento, solo alcuni film che rispettino la struttura che abbiamo appena definito: Jesus Christ Superstar (Id., 1973), Orfeo 9 (1973), Tommy (Id., 1975), Pink Floyd – The Wall (Id., 1982) ed Evita (Id., 1996). Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, uscito nell’agosto del 1973, è tradizionalmente indicato come la prima opera-rock cinematografica. Questo primato gli è conteso solo dal film italiano Orfeo 9 di Tito schipa Jr., uscito, stando all’Internet Movie Database, due soli mesi prima. L’opera-rock di andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (libretto) giunse all’adattamento cinematografico dopo essere già stata veicolata da un doppio album uscito nel 1970, da rappresentazioni a Broadway nel 1971 e nel West End londinese nel 1972, anno nel quale ottenne cinque nomination – miglior colonna sonora originale, miglior attore non protagonista (Ben Vereen – Judas), miglior scenografia (Robin Wagner), costumi (Randy Barcelo) e disegno luci (Jules 1
Cfr., Tullio De Mauro, Dizionario della lingua italiana, Paravia, Torino, 2000.
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Fisher) – ma nessun premio ai Tony awards, gli “Oscar del teatro”. a Londra, Jesus Christ Superstar è attualmente il quinto musical più rappresentato di tutti i tempi, ed il film, sebbene ad occhi severi possa facilmente apparire datato, è ancora oggi notissimo ed amato grazie ad uno score di grande impatto, a performers in stato di grazia e al suo stato d’animo giovanilmente rivoluzionario e pacifista. Le prime inquadrature ci mostrano un deserto nel quale appare un autobus che trasporta sul tetto una grossa croce. L’autobus si ferma e ne scende un nutrito gruppo di giovani dall’aspetto hippie che ci può facilmente far pensare ad un gruppo rock con roadies e groupies al seguito (il festival di Woodstock, ricordiamolo, si tenne nell’agosto del 1969, pochi mesi prima dell’uscita del disco, e la sua risonanza mediatica non può, ancora oggi, non influire sulla percezione di queste immagini). all’apparire di armi da fuoco, che sembrano più che altro oggetti di scena, nasce il dubbio che costoro siano in realtà i membri di una compagnia teatrale che si predispone ad allestire uno spettacolo nel deserto. subito dopo che un poderoso dolly ci ha mostrato l’imponente croce, mentre viene scaricata e deposta dal tettuccio del bus, vediamo i ragazzi indossare costumi di scena e capiamo che sono in realtà attori. Riconosciamo tutti i personaggi principali: Judas, Mary Magdalene, Pontius Pilate, king herod, Caiaphas, simon Zealotes. ad ognuno di loro è riservato almeno un primo piano, ma non a Jesus Christ – interpretato da un Ted Neeley biondo, vestito di banco e dallo sguardo serafico – che sembra apparire dal nulla mentre, inquadrato dal basso, si staglia contro il cielo azzurro allargando le braccia in segno ecumenico. a questo punto il famosissimo tema Superstar si fa largo nella ouverture. ancora poche inquadrature ed il cartello del titolo fugherà ogni dubbio: è di una superstar che stiamo parlando. Ed è attraverso una tecnica tipicamente cinematografica che Jewison ci parla, subito dopo, di questa superstar: la presenta, infatti, attraverso quel che ne dice, o meglio canta, Judas (Carl anderson), suo contraltare, figura centrale del film e sorta di continuo piano d’ascolto attivo. Mentre Jesus, in lontananza, si muove tra la gente riverito ed idolatrato da una piccola folla plaudente di apostoli, Judas canta di quel che pensa del suo maestro: avrebbe fatto meglio a seguire il padre e a diventare così un falegname; egli stesso è ormai più importante delle idee di cui si è fatto portatore ed ha attirato troppa attenzione. La folla, continua Judas, fa paura, e troppa attenzione non fa bene alla causa dei sottomessi figli di Israele. Durante questa scena Jesus è inquadrato costantemente da un teleobiettivo, circondato da donne,
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uomini e bambini, che sono evidentemente suoi fan e dividono con lui lo spazio dell’inquadratura. L’unica voce critica è proprio quella di Judas, il cui isolamento è sottolineato dalla sua collocazione. Durante il suo numero di canto Judas è infatti sulla cima di una montagna che ci è mostrata all’inizio della scena ed al suo termine – per essere abbandonata – da due zoom, rispettivamente a stringere e ad allargare. Nella terza scena Judas e Jesus si trovano nello stesso ambiente: una grotta dove si sta consumando una cena, alla presenza di alcuni discepoli. Il comportamento gentile di Jesus verso Mary Magdalene offre il destro a Judas per dichiarare il proprio conflitto con il suo maestro. Questa volta sono i discepoli a fungere da piano d’ascolto reattivo; dapprima sembrano accettare le critiche di Judas come sensate, poi, apostrofati da Jesus, tornano col cuore al loro condottiero, sanzionando con una serie di sguardi severi il discepolo ribelle. Un primo piano minaccioso di Judas chiude la scena: il film si apre subito sul tema del conflitto. Conflitto che sarà soprattutto tra Caiaphas – simbolo del potere costituito e della burocrazia, vestito di nero e non tanto dissimile dalle scure figure di The Wall – e la folla multicolore al seguito di Jesus – simbolo della nuova generazione che chiede, seppur confusamente, cambiamenti sociali. Tale conflitto è evidenziato anche dalla composizione delle inquadrature: quelle che mostrano il sommo sacerdote ed i suoi seguaci hanno per sfondo una Gerusalemme in rovina ed una gabbia di impalcature e tubi metallici; quelle in cui compaiono Jesus e la giovanile folla festante che lo segue hanno per sfondo un terso cielo azzurro che enfatizza i colori accesi dei loro vestiti. Il film condurrà il tema dello scontro tra vecchio e nuovo e tra giusto e sbagliato senza risolverlo. anche al termine della scena della cacciata dei mercanti dal tempio, ad esempio, Judas appare come piano d’ascolto che, disapprovando, mette in crisi la posizione morale dello spettatore, molto più facilmente condotto ad approvare le azioni di un protagonista quando queste sono accolte da piani d’ascolto simpatetici. E al personaggio di Jesus, che in questo film non ha neanche madre, piani d’ascolto di questo tipo non sono mai concessi. Jesus Christ Superstar procede fino alla crocifissione di Jesus mantenendo una struttura narrativa molto lineare: ad ogni brano dello score corrisponde una scena, ed ogni scena appare come un momento isolato del plot. a Jewison e al direttore della fotografia Douglas slocombe va riconosciuto il merito di inquadrature molto suggestive che, a dispetto di una location (il deserto israeliano) che ha da offrire ben poca varietà, e nonostante una certa staticità dei piani, offrono
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all’occhio dello spettatore molta bellezza su cui posarsi, almeno fino al brusco risveglio finale. Quando il sacrificio di Jesus sarà compiuto, lo spettatore diventerà consapevole di aver assistito ad un’unica lunga mise en abyme. al termine del film, infatti, gli attori dismettono gli abiti di scena e persino i nerovestiti sacerdoti del sinedrio tornano all’originario e colorato aspetto da hippie. Tutti abbandonano Jesus sulla croce senza una parola e come se nulla fosse mai accaduto. Del messia non sarà mostrata la resurrezione. La sua morte, sottolineata dall’unico momento di silenzio del film, pone fine a tutte le tensioni. Questo semplice e quasi ingenuo stratagemma metalinguistico, che prende forma nella prima e nell’ultima scena e lungi dall’essere uno sterile dispositivo postmoderno, sembra voler sinceramente mettere in relazione il mondo “reale” con il mondo “possibile” per eccellenza, un mondo dove è possibile un’alleanza tra uomo e divinità. La cosa funziona e introduce nel genere un tema: quello della rockstar che, dapprima adorata, sarà poi ciò che la società dovrà immolare per purificarsi. Tema che ritroveremo, pur nelle sue variazioni, anche nelle altre opere-rock che si prenderanno in esame, nelle quali il motore del plot è sempre un individuo ribelle e portatore di idee rivoluzionarie. Un individuo che dapprima assurge al ruolo di condottiero e che poi la massa fagociterà senza pietà. Orfeo 9, opera-rock scritta (musica e testi) da Tito schipa Jr., figlio del grande tenore Tito schipa, debuttò il 27 gennaio del 1970 al Teatro sistina di Roma e può probabilmente vantare di essere la prima opera-rock della storia ad essere stata messa in scena in un teatro. alla prima teatrale seguirono la versione su doppio vinile, pubblicata dalla Fonit Cetra (il disco è l’unico doppio album italiano che, ad oggi, non sia mai uscito di catalogo), ed un film televisivo, prodotto dalla RaI nel 1973 per il suo settore di programmi sperimentali. Il film – recentemente restaurato e proiettato nel settembre del 2008 alla 65° Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia – ricolloca negli anni settanta il mito di Orfeo, che qui è un giovane figlio dei fiori che vive con altri ragazzi in una chiesa sconsacrata di campagna. Di temperamento schivo e solitario, Orfeo (interpretato dallo stesso schipa) si innamora, ricambiato, di una nuova arrivata nella comunità: Euridice. Un losco “venditore” di felicità artificiali (un efficacissimo Renato Zero) la strapperà però al giovane, che a questo punto intraprenderà un “viaggio” alla ricerca della donna amata nella grande città, luogo infernale di alienazione e sofferenza, metafora del degrado umano.
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L’audace film diretto da schipa (allora ventisettenne) condivide sorprendentemente con Jesus Christ Superstar l’atmosfera hippie, la netta divisione in due atti, la successione di scene imbastite sui singoli brani musicali e il disvelamento metalinguistico del dispositivo narrativo nella prima e nell’ultima scena. Orfeo 9 si apre, infatti, in uno studio di registrazione dove il futuro Premio Oscar Bill Conti (qui responsabile della strumentazione e degli arrangiamenti), lo stesso Tito schipa Jr. ed un gruppo rock assistito da tre vocalist (Loredana Berté, Penny Brown e Marco Piacente, definiti nei titoli di coda “I narratori”) eseguono un brano che è un invito cantato allo spettatore ad entrare nel mondo descritto dal film. Questa prima scena si apre, forse per voluto contrasto con l’ininterrotto fluire di musica che seguirà, in assenza di sonoro. In una didascalia da film muto leggiamo le parole che schipa rivolge a Conti: «ho bisogno di solo tre note per iniziare». Da quel momento la musica e la storia del film inizieranno a dispiegarsi. Lo stratagemma suggerisce che quel che vedremo sarà il frutto improvvisato dell’attività creatrice di un artista extradiegetico. Orfeo, d’altro canto, rappresenta la condizione di solitudine dell’artista, ed il numero 9 del titolo, come reso esplicito da un poster inquadrato nella prima scena, rimanda al brano sperimentale di musica concreta dei Beatles Revolution 9, incluso nel White Album e pubblicato, pochi anni prima, nel 1968. E l’attitudine sperimentale, a dispetto del budget limitato (quaranta milioni di lire), è evidente in Orfeo 9. Dopo la prima scena di cui si è già parlato, e dopo titoli di testa che definiscono il film “Un’opera pop”, la regia farà frequente ricorso a jump cut formalisti, inserti extradiegetici, cromatismi non naturalistici e inquadrature di durata quasi subliminale. anche il profilmico assolve in maniera creativa alla funzione connotativa: quando Orfeo è vittima delle sue illusioni e delle sue incertezze le scenografie ricostruite in studio appaiono in tutta la loro artificialità, ed un trucco di stampo glam sul viso di alcuni personaggi ne rivela la natura fittizia o, quantomeno, proditoria. Visivamente fantasioso ed accattivante, a dispetto della povertà di mezzi, il film procede per poco meno di un’ora e mezza in assoluta libertà stilistica: passaggi dal bianco e nero al colore, frammenti di animazione, accenni di coreografie da musical ed un uso scenografico intelligente delle location rendono la visione un’esperienza peculiare, mai stancante, fino ad un finale malinconico ed aperto, che forse non ci si aspetterebbe.
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I temi centrali dell’opera sono l’isolamento dell’artista ed i drammi della tossicodipendenza e dell’alienazione urbana; le citazioni letterarie (Tagore), il rimando alla mitologia classica e la ricchezza della partitura musicale ricordano, poi, l’allora nascente progressive rock inglese. Orfeo 9 è insomma un’operazione artistica che avrebbe meritato più fama di quella trapelata attraverso le maglie dell’ostracismo della TV di stato italiana, che trasmise il film solo due anni dopo la sua realizzazione e senza troppo clamore per via del suo stile innovativo e degli argomenti scottanti in esso trattati. Mentre scriviamo si sa che la Medusa e la Lucky Red stanno preparando l’edizione DVD del film, i cui diritti sono stati acquistati da Renato Zero. Il disco Tommy degli Who, pubblicato il 23 maggio 1969, è in genere riconosciuto come la prima opera-rock della storia. Leggenda vuole che Arthur (or the Decline and Fall of the British Empire), dei kinks, pubblicato verso la fine dello stesso anno, sarebbe stato concepito ben prima, ed in funzione di un programmato adattamento per la Granada TV2. Eppure il progetto televisivo non andò in porto, mentre l’uscita del disco fu rimandata di ben cinque anni. Tommy, come dichiarato dal suo artefice Pete Townshend, vuole essere un attacco all’ipocrisia delle religioni organizzate. Racconta di un ragazzo che, divenuto da bambino psicosomaticamente sordo, cieco e muto, raggiunge lo status di superstar e di nuovo messia giovanile dopo un trionfale ingresso nello stardom come campione mondiale di flipper. Riacquistati udito, voce e vista, e con esse la libertà, il protagonista dell’opera diventerà oggetto di speculazione da parte dell’industria dei dischi e dei gadget, ed i suoi seguaci, delusi da tanto materialismo, ne chiederanno a gran voce la testa. Il film (1975) che ne trasse ken Russell ha in comune con Orfeo 9 e Jesus Christ Superstar un protagonista di caratura mitica che si rapporta come individuo speciale alla massa: l’eroe eponimo del film del regista inglese, dopo il superamento di un edipo somatizzato allo stremo (oltre che muto e sordo, il personaggio creato da Pete Townshend è, come il figlio di Giocasta, responsabile indiretto della morte del padre, eroticamente attratto dalla madre, cieco e zoppo), diventa una figura simile al Cristo del film di Jewison: biondo e bellissimo attira a sé una folta massa di giovani che, però, lo abbandonerà al suo 2
Cfr., Riccardo Bertoncelli, Storia leggendaria della musica rock, Giunti, Firenze, 2000, p. 78.
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destino al termine del film. se in Jesus Christ Superstar il messia viene lasciato sulla croce nel disinteresse generale di chi lo seguiva ed amava, Tommy (che sullo schermo ha il volto di Roger Daltrey, il cantante degli Who) scamperà per puro caso all’ira dei suoi seguaci delusi, e troverà ragione d’essere solo nell’invocare un dio non meglio definito, forse ispirato dal pensiero panteista del mistico indiano Meher Baba. Quest’ultimo, per ammissione dello stesso Townshend, aveva influenzato il concepimento dell’opera. Meher Baba (1894 – 1969) è noto, tra l’altro, per la sua avversione all’LsD e per la sua scelta di silenzio, che lo portò a tacere dal 1925 alla fine dei suoi giorni. Il silenzio e l’avversione agli allucinogeni, del resto, sono due temi che si ritrovano anche nella rock-opera. se nelle idee Tommy è ispirato al misticismo orientale, nei fatti è totalmente impregnato di immaginario pop occidentale. Dagli arredi agli oggetti di design, fino alla presenza nel cast di icone pop come Elton John, Eric Clapton e Tina Turner, tutto sa di immaginario angloamericano. Va detto però che le popstar appena citate appaiono in ruoli di antagonisti e che il possesso degli oggetti e della ricchezza verrà ripudiato da Tommy nel finale. anche qui, come nei due film precedentemente esaminati, si avvertono forti i temi dell’alienazione urbana (Tommy alla fine troverà se stesso fuggendo nella stessa natura selvaggia in cui i suoi genitori lo avevano concepito) e dell’antimilitarismo (in Jesus Christ Superstar appaiono carri armati e jet da guerra nel deserto, mentre il padre di Tommy, pilota durante la seconda guerra mondiale, viene abbattuto durante una missione) e tutta l’opera è leggibile attraverso le teorie freudiane e attraverso quelle comportamentiste di John Watson (1878 – 1958) secondo le quali l’uomo è privo di libero arbitrio e può essere solo il prodotto delle sue esperienze. La mescolanza stridente di influenze disparate non impedisce a Tommy di essere un rutilante vortice di suoni e colori di grande impatto cinematografico. La ricchezza visiva del film è forse il risultato migliore al quale giunge il visionario ken Russell, il quale, però, firma un film che si chiude con la protesta contro il merchandising, per poi annunciare, in un grosso cartello alla fine dei titoli di coda, che la colonna sonora è disponibile su dischi Polygram. Pink Floyd – The Wall (1982) è l’adattamento cinematografico, ad opera del regista inglese alan Parker, del concept album dei Pink Floyd The Wall (1979). Il film, sceneggiato da Roger Waters, non ripropone
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rigorosamente la scaletta dei brani dell’album, e segue – attraverso una fluida alternanza di un piano reale e di un piano onirico/allucinato – la vita di Pink (Bob Geldof), dalla sua infanzia di orfano di guerra e figlio di una madre iperprotettiva e castrante al suo crollo psichico, quando è ormai una rockstar di fama mondiale con un matrimonio fallito alle spalle e severi problemi di autocontrollo e di relazione al mondo esterno. Gran parte di quel che vediamo sullo schermo è, in realtà, l’insieme dei ricordi e delle allucinazioni di Pink mentre giace senza coscienza, dopo una crisi di rabbia, nella sua devastata camera d’albergo. Il film, insomma, si avvale della nota struttura del racconto An Occurrence at Owl Creek Bridge di ambrose Bierce, che concentra una piccola ed allucinata odissea personale in pochi istanti reali. Molte sono le somiglianze tra Pink Floyd – The Wall e Tommy: in entrambi i film, tra le prime scene, ve ne è una ambientata durante gli ultimi atti della seconda guerra mondiale in cui prima si mostra il protagonista da bambino, orfano di guerra, e successivamente, mediante la tecnica dell’animazione (qui ad opera di Gerald scarfe), sciami di aerei da guerra trasformarsi in croci e poi in lapidi cimiteriali. sia Tommy sia Pink perdono la voglia e la capacità di socializzare ed interagire con gli altri esseri umani perché condizionati da episodi familiari – che sono conseguenza della barbarie sociale – e da un sistema repressivo e violento (nel film di alan Parker le scuole sono descritte come campi di sterminio nazisti). I due personaggi, inoltre, distruggono (Tommy realmente, Pink solo nella sua dimensione fantastica) le loro immagini allo specchio per rimediare alla scissione della loro personalità prima di diventare uno leader spirituale e l’altro una inquietante reincarnazione di hitler. Entrambi i film prendono forma intorno ad un registro visionario e psichedelico, del quale oggi possiamo dire, con certezza, che abbia molto influenzato l’estetica del videoclip per molti anni a venire. alan Parker, tuttavia, ha confezionato un découpage più complesso. In Tommy esche per la meraviglia dello spettatore non sono solo le scenografie e l’uso smargiasso del profilmico, ma anche i raccordi di montaggio e gli studiati movimenti di macchina. In Pink Floyd – The Wall sono presenti tre brevi momenti in cui è possibile udire dialoghi parlati, ma le voci dei personaggi sono in secondo piano rispetto alla musica, appena udibili e non necessari alla comprensione di un film che, mettendosi al servizio dell’opera musicale di Waters, sembra voler ribaltare il tradizionale rapporto cinematografico tra sonoro e visivo. La regia affida alle immagini il compito di donare “valore aggiunto”
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ai suoni, arricchendoli di carica informativa ed espressiva sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha, e soprattutto nel ricordo che se ne conserva, che quell’informazione o quell’espressione derivino naturalmente da ciò che si sente e che siano già contenute nelle musiche3. Rispetto a Tommy e a Jesus Christ Superstar il film di alan Parker rende più aspro ed evidente il tema del rapporto di amore e conflitto che nasce tra fan e rockstar. all’inizio del film, attraverso un montaggio parallelo che alterna inquadrature su giovani fan di Pink che forzano un cancello per correre verso il palco ed inquadrature che mostrano un plotone di soldati che corrono armati verso il nemico durante una battaglia, alan Parker e Roger Waters rendono una dichiarazione chiara e limpida, che si fa ancora più severa quando le inquadrature successive ci svelano che quei fan stanno correndo, non già verso un concerto, ma verso un discorso pubblico della versione hitleriana del loro idolo, che canta: «Così pensavate che vi sarebbe piaciuto andare allo spettacolo/Per sentire il caldo brivido della confusione, quel calore trasognato di chi è sempre distratto/Ditemi, dolcezze, c’è qualcosa che vi sfugge?/Non è questo quel che vi aspettavate di vedere?». Con Evita (1996), alan Parker torna a cimentarsi con l’operarock. La materia prima è di nuovo fornita al poco frequentato genere cinematografico da Tim Rice ed andrew Lloyd Webber, che, in un album del 1976 e successivamente in un musical che debuttò nel West End nel 1978, raccontarono in musica la vita di Eva Duarte Perón e la sua ascesa da ragazza povera a first lady d’argentina, al fianco di Juan Perón, fino alla morte per cancro a soli trentatré anni. Tanto The Wall è un film denso di surrealismo e delirio visivo, quanto Evita è pacato, patinato e lineare. attori di primo piano (Madonna nel ruolo principale e antonio Banderas in quello di “Che”, sorta di simbolo del popolo) ed una sontuosa fotografia di Darius khondji – che scurisce appena i toni cromatici tipici di Michael seresin, fido cinematographer di Parker – rendono il film godibile, sebbene non fondamentale: lo score è da primati in classifica, ma un po’ troppo ripetitivo per un lungometraggio di due ore. Il soggetto, inoltre, è avvincente, ma dai personaggi trapela poca umanità perché si possa amarli davvero. 3
Ci riferiamo al concetto di “valore aggiunto” così come enunciato da Michel Chion. Cfr., L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 1997, p. 12.
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anche in Evita si narra di un personaggio sacrificale che si rapporta personalmente alla massa, stagliandosene: «Io sono la salvatrice, così mi chiamano/[...] Perché dovete sapere cosa otterrete da me/Un tocco di qualità/Da star argentina», canta Madonna. stavolta, però, alla star mediatica e cristologicamente configurata per il sacrificio di sé sono concessi numerosi piani d’ascolto che ne approvano l’operato, a partire dalle reazioni della gente alla sua morte (che le concede lo status di idolo), mostrate nella prima scena. Fatto peculiare questo, poiché Eva Perón fu in realtà un personaggio ambiguo, che fornì una copertura glamour alla dittatura filofascista del marito, che deluse i poveri e che dilapidò i fondi per la carità. a ventisei anni di distanza dall’uscita nelle sale di Jesus Christ Superstar, insomma, anche l’opera-rock cinematografica sembra dichiarare la resa delle armi. Il dopoguerra è dimenticato, la rivoluzione culturale del ‘68 non serve più. Lontana dall’essere necessaria, l’ultima opera-rock per il cinema si configura, degna figlia del decennio che la concepisce, come l’ennesimo rimescolamento postmoderno di stilemi nati per altre necessità.
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TUTTO IL CINEMa IN UN CLIP. FORME E MODI DELLa CITaZIONE FILMICa NEL VIDEO MUsICaLE di Bruno Di Marino
Il videoclip vive e vegeta sulla citazione. Possiamo dire, anzi, che è il suo elemento naturale. Poiché è proprio l’estetica frammentaria che vi è alla base, la logica del prelievo, del “ritaglio” (to clip), a richiedere un continuo assorbimento da altri testi – non solo audiovisivi, ma anche grafici, pittorici, eccetera – di dettagli, particolari, azioni, personaggi, intere sequenze. L’intento parodistico, la rivisitazione, la rielaborazione di topoi decontestualizzati e ricombinati all’interno di una successione di quadri, sono a volte il fulcro stesso di un music video che, non essendo costruito su una struttura lineare-narrativa, si nutre di una proliferazione e sedimentazione di immagini prese in prestito da altri immaginari1. Porsi la questione se si tratti, caso per caso, di esplicito omaggio o di plagio, di tributo dichiarato o di furto non autorizzato, è del tutto fuori luogo. I lacerti visivi che si ricompongono, spesso en passant, in una trama di dissolvimenti e ripetizioni totalmente de-centrata, fagocitati nel corpo onnivoro della musica da vedere, diventano qualcos’altro. sono il frutto di un’espropriazione naturale più che di un’appropriazione indebita o, ancor meglio, di un esproprio “politico”, nel senso che il video musicale rivendica la semplificazione di qualsiasi modello “alto” o “basso” che sia, in nome di un’immediata comprensione da parte del pubblico. La citazione nel clip rappresenta in definitiva il grado di massima democrazia del visivo. 1 sull’argomento mi sono soffermato in Clip! 20 anni di musica in video (1981-2001), Castelvecchi, Roma, 2001; e nel saggio introduttivo alla rassegna Videoromanza: “Il clip musicale made in Italy, da Mister Fantasy all’autoparodia (1981-2005)”, in: Catalogo “Linea D’ombra – salerno Film Festival”, aprile 2005.
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Il cinema, suo parente prossimo, è uno dei campi al quale attingere in primis. attraverso la citazione e la parodia di generi, autori, film, ma anche mediante la ricostruzione di semplici atmosfere, il rimando ad ambienti e set, l’allusione tematica, il cinema costituisce un serbatoio pressoché inesauribile e rinnovabile, un universo parallelo abbastanza noto al grande pubblico perché il gioco di riferimenti – latenti o messi in risalto – possa funzionare. In realtà l’atteggiamento degli autori di video musicali è ambivalente. La complicità nei confronti dello spettatore che dovrà indovinare la citazione può anche rovesciarsi in una sorta di congiura ai suoi danni, non tanto perché la citazione è nascosta, quanto perché il testo originario da cui essa è prelevata è poco conosciuto. In letteratura, ad esempio, «la citazione implicita – come ricorda Elio Franzini – […] è utilizzata per “distinguere” il lettore colto da chi colto non è. Riconoscere la citazione implicita è un “gioco” di ruolo che qualifica un determinato “ceto” intellettuale. Peraltro, in ogni comunità, l’uso distintivo della citazione implicita è elemento coesivo, di reciproco riconoscimento (ulteriore qualità empirica di tale citazione)»2. Nel caso del videoclip a questo “gioco di ruolo” sono volutamente invitati a partecipare pochi cinéphiles. Pensiamo ad alcuni “furti” dalla storia del cinema d’avanguardia o sperimentale. solo tre esempi: Love Is Strangest Wave (1987) di andy summers cita Ritual in Transfigured Time (1946) di Maya Deren; D.O.A. (2005) di Michael Palmieri per i Foo Fighters è invece dichiaratamente ispirato a due cortometraggi realizzati alla fine degli anni settanta dal cineasta polacco Zbigniew Rybczynski: Weg Zum Nachbarn e Mein Fenster; Chiedi Chiedi (2003) di Frankie-hi-NRG, diretto da lui stesso, contiene riferimenti a Un chien andalou (Id., 1929) di Buñuel e Dalì (film tra l’altro citato di frequente nei video musicali). a parte il livello di difficoltà o meno nel riconoscere il prelievo, la citazione cinematografica nel clip può attuarsi in diverse forme e mediante differenti modalità. Proviamo ad elencare le tre principali: a) attraverso il prelievo diretto di uno spezzone tratto dal film. Naturalmente l’inserimento può essere più o meno breve; nel caso in cui un intero videoclip sia costituito da immagini tratte da uno o più film, magari dello stesso autore, ci troveremmo di fronte ad 2 Elio Franzini, “La citazione invisibile”, in: atti del convegno Seminario sulla citazione, Bertinoro, 26-27 settembre 2001, pubblicati in «Leitmotiv – Motivi di estetica e di filosofia delle arti», n°. 2, 2002, p. 66.
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TUTTO IL CINEMa IN UN CLIP
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un’operazione di found-footage vero e proprio. È il caso di Heaven for Everyone (1995) realizzato da David Mallet per i Queen, formato da un semplice assemblaggio di alcuni film di Méliès. Ma la sottrazione di una sequenza cinematografica dal suo contesto originale può essere più limitata e circoscritta, oltre che presentata all’interno di un dispositivo (trasmessa da un televisore, proiettata in una sala cinematografica…); b) attraverso la ricreazione, reinterpretazione, riduzione a parodia ispirata sia a film che a sequenze di film, sia a semplici elementi, atmosfere, suggestioni, ecc. a questa categoria può appartenere anche l’auto-citazione, quando cioè il regista del video è anche il regista del film che viene citato: per esempio in Thriller (1983), John Landis rende omaggio al suo An American Werewolf in London (Un lupo mannaro americano a Londra, 1981) in Dancing on the Ceiling (1986) stanley Donen adotta lo stesso espediente tecnico utilizzato per Royal Wedding (sua altezza si sposa, 1951); c) esiste poi la forma cosiddetta del clip-trailer, in cui ci troviamo di fronte a una citazione di carattere “promozionale”; ovvero il video fa riferimento esplicito a un film di cui è anche colonna sonora. Le modalità della messa in scena variano parecchio: nel video possono apparire uno o più interpreti del film, oppure comparirvi determinati elementi; il clip può essere stato girato nello stesso set del film, eccetera. La presenza di citazioni di per sé non determina la struttura del videoclip che può essere di due tipi: 1) narrativo; 2) meta-narrativo o concettuale. Nel primo caso la citazione viene elevata a trama, diventa motore della diegesi, si articola in una storia che ha puntuali rimandi all’immaginario cinematografico. Nel secondo caso non c’è una narrazione ma semmai una riflessione sul meccanismo narrativo e sulla facoltà mitopoietica propria del cinema. Il protagonista non è tanto il plot quanto il dispositivo, e la citazione è presentata sotto forma di una continua mise en abime. È indubbiamente questo il caso più interessante, poiché la citazione vive per così dire di luce propria, ha una sua autonomia visiva, è protagonista del video “in quanto citazione” e non “giustificata” da uno svolgimento narrativo. È ancora narrazione, ma frantumata, dissolta, ricondotta all’artificio, al dietro-le-quinte di una finzione in divenire.
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Citazioni metanarrative This Is Hardcore (1998) di Doug Nichol per la band inglese dei Pulp è uno dei video musicali degli anni Novanta più significativo in questo senso, per i suoi rimandi non a film specifici ma a situazioni particolarmente connotate. se dovessimo fare un parallelo con le arti visive, Nichol lavora un po’ come Cindy sherman che, nei suoi Film stills, non si rifà mai a opere filmiche precise, non ricalca determinate sequenze, ma le ricrea ex-novo desumendone gli elementi da un catalogo di stereotipi e ricombinandoli tra loro. La definizione che è stata data è quella di «copie senza originale». In This Is Hardcore il front man dei Pulp, Jarvis Cocker, si ritrova per così dire catapultato in sequenze cinematografiche ispirate ai vari generi del cinema classico hollywoodiano, dal noir al melodramma, dalla commedia al musical. I vari spezzoni ricostruiscono perfettamente atmosfere anni Quaranta e Cinquanta, ma caricando alcuni elementi in direzione iperrealista, a cominciare da uno strabiliante lavoro sul colore. Passiamo così da Cocker che prova a fare il playback, legato e imbavagliato davanti a una sofisticata bionda impellicciata in quello che è il classico ufficio da detective alla hammett, a riprese girate in studio con il trasparente, da una rissa a un omicidio, fino a una coloratissima coreografia in cui il musicista canta circondato da uno stuolo di ballerine con piume di struzzo. Frammenti di visioni, elaborazioni di codici e stereotipi che ricordano il cinema di sirk, hitchcock, hawks, Preminger, Minnelli, filtrati però attraverso lo sguardo metafisico di un David Lynch o di un Gregory Crewdson, artista visuale che realizza fotografie con attori famosi e con una vera e propria troupe cinematografica. Insomma This Is Hardcore è una mescolanza di tanti diversi trailer scanditi da code di inizio e fine rullo o da ciak in campo, per svelare quella che è la grande macchina della finzione cinematografica. Il rimando alla macchina-cinema, al set come luogo fisico e mentale, spazio di produzione filmica ma anche onirica, lo ritroviamo in un altro sorprendente clip realizzato sempre in quello stesso 1998 da Dom & Nic per la rock band americana degli smashing Pumpkins: Ava Adore. Il cantante del gruppo, Billy Corgan, nei panni di Nosferatu, con la testa calva e pallida, gli occhi cerchiati di rosso, le unghia lunghe e un vestito nero che gli arriva fino ai piedi, attraversa tanti ambienti contigui, ricostruiti in un teatro di posa, in un piano sequenza solo simulato, poiché è ottenuto da mascherini elettronici. I set cinematografici sono popolati da strani personaggi e sono tutti simultaneamente in attività
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(sono classici e moderni, surreali e inquietanti, rappresentano larvatamente diversi generi: la fantascienza, il porno, il film in costume). Il cantante degli smashing Pumpkins cantando, entra ed esce – assieme al bassista D’arcy Wretzky e a James Iha – da un “quadro” a quello vicino, mentre scorgiamo i binari, le luci, le macchine da presa, la troupe: insomma il dietro-le-quinte della finzione. L’ultima scenografia è una sala cinematografica: sullo schermo vengono proiettate le immagini in diretta del video stesso e l’inquadratura conclusiva è un tipico effetto elettronico, il feedback – per cui una telecamera puntata su un monitor collegato a essa, rimanda all’infinito la sua immagine, come due specchi messi l’uno di fronte all’altro –, che annulla ogni possibile visione, alludendo così alla natura effimera dell’arte cinematografica che si dissolve nel momento stesso in cui prende forma. In altre due occasioni gli smashing Pumpkins si confrontano con l’immaginario cinematografico dei primordi: nel bellissimo Tonight Tonight (1996) di Dayton & Faris remake de Le voyage dans la lune (Il viaggio nella luna, 1902) di Méliès e in Stand Inside Your Love (1999) di W.I.Z. dove personaggi truccati come nel cinema muto rievocano il testo della Salomè di Wilde illustrata da aubrey Beardsley. Gli stessi Dayton & Faris sono del resto gli autori di un altro bellissimo clip per i Red hot Chili Peppers, Otherside (2000), stavolta ispirato al film espressionista e alle scenografie dipinte di film come Das cabinett des Dr. Caligari (Il Gabinetto del dottor Caligari, 1920), di Robert Wiene. L’espressionismo – e soprattutto un autore che in quell’ambito ha iniziato la sua attività, Fritz Lang – sono due punti di riferimento fondamentali per il video degli anni Ottanta. La versione di Metropolis (Id., 1926) rimusicata da Moroder, fa ritornare improvvisamente di moda il capolavoro del regista tedesco, archetipo futurista. L’operazione di Moroder ha rappresentato bene l’idea del videoclip come medium legato alla modernità. Le sequenze del film di Lang, accompagnate dai vari brani prodotti dal musicista, vanno riletti dunque come tanti singoli video. È a partire da tale destrutturazione che nasce la consapevolezza di quanto il cinema muto, proprio per la mancanza di un sonoro preesistente (se si eccettua la partitura originale eseguita dal vivo) e quindi per la musicalità e la ritmicità insita in ciascuna sua immagine, sia manipolabile ai fini videomusicali. al di là delle singole opere, appare fondamentale l’influenza esercitata da Metropolis sull’immaginario pop-rock, a cominciare da Radio Ga Ga e I Want to Break Free realizzati nel 1984 da David Mallet per i Queen (Mercury aveva cantato per la colonna sonora del film di Moroder
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un altro brano, Love Kills). a questi va aggiunto per esempio Express Yourself (1989) di David Fincher per Madonna. Così come omaggi a Lang sono rappresentati dal clip Dr. Mabuse (1985) dei Propaganda per la regia di anton Corbijn (che fin dal titolo non lascia dubbi sulle ascendenze langhiane) e The Telephone Call (1987) dei kraftwerk. Per quanto riguarda i generi più citati dal videoclip è naturale che al primo posto vi sia il musical. Così West Side Story (Id., 1961) di Robert Wise, diventa il modello al quale attinge una svariata serie di clip girati per le strade, accuratamente ricostruite in studio: Sad Song (1984) di Elton John, Beat It (1983) di Michael Jackson, When I Think of You (1986) di sua sorella Janet, solo per limitarci ai lavori della prima metà degli anni Ottanta; mentre un film come On the Town (Un giorno a New York, 1949) di Donen diventa il referente esplicito del video You Are the One (1988), diretto da Damon heath per il gruppo norvegese degli a-ha. Ma quella che resta ancora oggi la rilettura più singolare e straniante del musical cinematografico è It’s Oh So Quiet (1995) ideato da spike Jonze per Björk: la cantante islandese entra nell’officina di un gommista o cammina per la strada, passando continuamente da una dimensione quotidiana rallentata (in cui esprime lo stato d’animo di fronte all’assenza dell’amato) a momenti improvvisi dove la gente si mette a ballare e a cantare. a suggerire questo trapasso è la struttura stessa del brano, costruita sulle variazioni ritmiche. Lo schizofrenico entrare e uscire dalla finzione coreografica, si avverte ancora più marcatamente poiché, a differenza di un film, il tutto viene sintetizzato in pochi minuti. È vedendo It’s Oh So Quiet che Lars Von Trier ha avuto l’idea di chiamare Björk, costruendo per lei e su di lei il bellissimo Dancer in the Dark (Id., 1999), tentando l’innesto tra musical e melodramma. Ma sia il video di Jonze che il film di Von Trier, sono in parte debitori nei confronti degli splendidi film del regista francese Jacques Demy, interamente cantati, frutto di una singolare commistione tra melò, commedia, cinema d’autore e musical, il tutto in una dimensione di forte realismo quotidiano. Non minore è il fascino esercitato sul clip dal cinema di serie B, che offre totale libertà nello stravolgere il prototipo originario. Per esempio Earth vs Flying Saucers (1983) dei Residents, in cui vengono ritoccati graficamente spezzoni di un b-movie di fantascienza anni Quaranta. Diana Ross nel suo sexy Eaten Alive (1985) incarna una femmina-pantera che sembra uscita da The Island of Dr. Moreau (L’isola del dottor Moreau, 1977) di Don Taylor. The Man with the Red Face (2000) del
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francese Laurent Garnier (regia: siraj Jhaveri), è ambientato nella friggitoria di una città indiana dove la tv trasmette sequenze di vari film (a metà del clip il sonoro di una pellicola di arti marziali interrompe il brano techno). Uno degli esempi più riusciti di questi ultimi anni è però rappresentato dal demenziale Body Movin’ (1998) dei Beastie Boys (regia: spike Jonze), che strizza l’occhio al film che Mario Bava trasse nel 1967 dal famoso fumetto nostrano Diabolik. Tanto è vero che le diverse sequenze surreali e d’azione del clip, si concludono con il logo “Diabolik”, seguito dalla dicitura “colore della technicolor”. Il Diabolik di Bava è anche il modello dell’unico clip musicale girato dal figlio Lamberto, in omaggio al padre, per i Tiromancino: Amore impossibile (2004). al cinema d’azione e in particolare a pellicole di “puro movimento” tipo Speed (Id., 1994) di Jan De Bont si rifà M.O.R. (1997) dei Blur (regia: John hardwick), interpretato da stuntman che si cimentano in una serie di pericolosissime scene acrobatiche, sostituendosi ai cinque componenti della band. Le loro fughe a piedi, su motociclette, idrovolanti o sospesi a una corda nel cielo, non conducono in effetti assolutamente a nulla, se non a un finale ironico e autoreferenziale: corrompere a suon di banconote due camionisti perseguitati per l’intera durata del video i quali, improvvisamente, si trovano in faccia a un autotreno con la scritta “The End”, che gli viene contro a tutta velocità.
Lo sguardo “rubato” dei maestri Orson Welles, stanley kubrick e alfred hitchcock sono altri tre maestri della storia del cinema ampiamente saccheggiati dalla videomusica. all’immaginario di Welles si è attinto soprattutto negli Ottanta: Russians (1986) di Jean-Baptiste Mondino per sting è il caso più famoso di omaggio a Citizen Kane (Quarto potere, 1941), con il giornalista che accede nell’asettica sala di lettura fuori dallo spazio e dal tempo, per consultare documenti riservati e ricostruire così la biografia del magnate dell’editoria. Qui si tratta in realtà di un anziano signore che sfoglia un album con le foto del passato. Il capolavoro wellesiano è citato anche nel clip di Madonna Oh Father (1989; regia di Fincher), che inizia con una carrellata all’indietro – dalla bambina fuori nella neve all’interno dove è appena morta la madre – perfetta citazione della sequenza nella quale kane bambino gioca con la slitta Rosebud, il cui nome diventa l’elemento enigmatico e metaforico dell’intero lungometraggio.
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Pressoché infiniti sono gli omaggi a kubrick, a cominciare da 2001: A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio, 1968). a parte il monolito, che compare in diversi video, è soprattutto la stanza stile impero della sequenza finale a farla da padrona (vedi I Want Your Love, 2000, dei French affair; I Don’t Know What You Want But I Can’t Give It Any More, 1999, di Pedro Romhanyi per i Pet shop Boys). anche Moby in Natural Blues (2000, regia: David Lachapelle) si richiama all’epilogo di 2001, quando – sorretto dall’attrice Cristina Ricci come nell’iconografia della pietas – il suo corpo decrepito da anziano, si trasforma in quello di un neonato. The Universal (1995) dei Blur (regia: Jonathan Glazer) riecheggia A Clockwork Orange (arancia Meccanica, 1971): vestiti di bianco come alex e la sua gang, la band inglese si trova all’interno di un locale post-moderno che ricorda tanto il Milk Bar concepito da kubrick. Una perfetta rivisitazione – in chiave fortemente parodistica – di Lolita (Id., 1962) è rappresentata dal clip di Say It, Say It (1986) della bionda E. G. Daily che si diverte a interpretare l’erotica ninfetta sotto la direzione di Dominic sena. Il corridoio che al ralenti si riempie di sangue nel video Licking Cream (1999) di sevendust (con la partecipazione di skin) è invece una citazione da Shining (Id., 1980), altro film cui molti videoclip hanno attinto, tra essi Karmacoma (1999) dei Massive attack, firmato da Jonathan Glazer, ambientato in un albergo dove – oltre alle terrificanti gemelle desunte da kubrick dall’universo fotografico di Diane arbus – troviamo altri topoi cinematografici (lo scrittore di Barton Fink, 1991, dei fratelli Cohen, ad esempio; o una citazione da Videodrome, 1983, di David Cronenberg). sempre a Shining si ispira in parte Tripping (2005) di Johan Renck per Robbie Williams, ma soprattutto The Kill (2006) dei 30 seconds to Mars, diretto da Bartholomew Cubbins, pseudonimo del leader della band americana, Jared Leto, che nel video si imbatte nel suo doppio, anche lui musicista, uscito fuori dalla famosa festa del 1921 che concludeva il film. Il set ideato da ken adam per Dr. Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, 1964) è ricostruito in Time Is Running Out (2003) di John hillcoat per i Muse. Non si può, infine, fare a meno di pensare a Eyes Wide Shut (Id., 1999) guardando la versione porno (dunque censurata e praticamente invisibile) di Protege moi (2004) dei Placebo, realizzata in un solo piano-sequenza dal francese Gaspard Noé. E passiamo a hitchcock. I Landscape nel 1981 citavano Psycho (Psyco, 1960) fin dal titolo del brano My Name Is Norman Bates,
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di conseguenza anche il video – diretto da Millaney e Grant – è stato girato in bianco e nero nello stesso stile con una serie di effetti horror, ambientandolo in una casa del suffolk che ricorda tanto la dimora del film. Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) ha invece ispirato un altro video del 1981, Neighbours dei Rolling stones firmato da Michael Lindsay-hogg: il set è costituito dalla tipica facciata di un palazzo newyorkese, con sei finestre che incorniciano altrettanti personaggi e situazioni (tra cui un cinese che si esercita col karaté, un uomo che sistema in una valigia strumenti insanguinati, oltre naturalmente a Jagger e compagni), collegate tra loro da panoramiche e zoom. Ma hitchcockiano è anche Last Cup of Sorrow (1997) di Joseph kahn per il brano dei Faith No More: il clip rende omaggio a Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) dall’inizio alla fine, ricreando dall’incipit sui tetti fino all’epilogo sul campanile, e del resto, essendo la band di san Francisco, città dove Vertigo è ambientato, si è trattato di una scelta quasi obbligata. altri recenti video si rifanno all’immaginario del regista inglese, da There There (2003) di Chris hopewell per i Radiohead a Walk Away (2005) di scott Lyon per la band Franz Ferdinand a You Know Me Better (2008) di Jaron albertin per Roisin Murphy. Un altro regista piuttosto amato dai video(clip)makers è alejandro Jodorowsky. sembra davvero che le citazioni dal suo cinema abbondino nel video musicale degli ultimissimi tempi. Ciò attesta che film come El Topo (Id., 1971) e The Holy Mountain (La montagna sacra, 1973) continuano ad influenzare la cultura visiva tout court, esattamente come all’epoca della loro uscita alimentavano quella più specificamente underground. ancora oggi le sue immagini visionarie, le sequenze o addirittura le inquadrature “sintetiche” – in quanto capaci di sintetizzare al loro interno una serie di azioni, simboli e temi in forma di metafora – diventano modelli per gli autori di video musicali e per i loro “quadri” da accordare con la musica che hanno la funzione di accompagnare. Tributi dunque, omaggi, ma anche plagi non dichiarati, dettati dalla necessità di rifarsi a un immaginario insuperato anche nella sua costruzione spettacolare, nel suo violento impatto poetico-visionario. Il fatto che John Lennon fosse il primo estimatore dei film di Jodorowsky la dice lunga sulla potenza, anche musicale, e sui risvolti anarchici e rivoluzionari (in continuità con la rivoluzione creativa del surrealismo) connaturati alle immagini di questo alchimista del cinema. Poesia e violenza convulse e immediate, in grado di arrivare diret-
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tamente allo spettatore come le note o le parole di una canzone. Così in Time to Pretend (2008) realizzato da Ray Tontori per gli MGMT, a un certo punto viene ricostruita, come un perfetto ricalco, la sequenza de La montagna sacra in cui i sette potenti bruciano le loro ricchezze in banconote, intorno ad un tavolo circolare che, visto dall’alto, assume la forma di un occhio. altro prelievo piuttosto puntuale da La montagna sacra è contenuto in Heartbeat (2008) dei Late of the Pier, regia dei Megaforce: stavolta ad essere citato è uno degli ambienti del gabinetto dell’alchimista (interpretato nel film dallo stesso Jodorowsky); ma la differenza sostanziale è che nel video la figura la cui testa è nascosta da un enorme cappello nero non è maschile bensì femminile. Diverso è il caso del clip L.E.S. artistes (2008) diretto da Nima Nourizadeh per i santogold, dove il “furto” è forse meno evidente, ma è difficile credere che non vi sia un collegamento con il film di Jodorowsky e in particolare con le scene della repressione da parte della polizia di axon sui pacifici manifestanti, la cui morte è trasfigurata in una sorta di performance: dalle viscere di uomini e donne fuoriescono frutti, uccelli, fiotti di liquido colorato. In modo molto simile nel video di Nourizadeh vengono feriti “creativamente” a morte una serie di ragazzi e ragazze e la violenza anche qui si traduce in una surreale esplosione di colori: liquido verde, fumogeni azzurri, getti di vernice rossa, salsicce al posto delle budella, cocomeri frantumati, eccetera. Possiamo invece ritrovare un rimando a El Topo nell’incipit di un clip della band americana The killers, All These Things That I’ve Done (2005) di Corbijn: il cantante, vestito da cowboy, cade stecchito in una pozzanghera, cantando per alcuni secondi sott’acqua il lip synch del brano; difficile non pensare – anche se l’angolazione e il modo in cui il corpo cade sono diversi – alla morte di uno dei pistoleri uccisi dal protagonista nella prima parte del surreale western di Jodorowsky, con la pozza che si colora rapidamente di rosso. Il volto di Brandon Flowers ormai cadavere, filmato dall’interno della pozza, è però una citazione da Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) di Billy Wilder, mentre il resto del video – con la band musicale sfidata da quattro indomite ragazze – si rifà ad uno dei film più celebri di Russ Meyer, Faster Pussycat, Kill! Kill! (Id., 1966). Questo lungo campionario di citazioni è naturalmente solo indicativo di alcune tendenze, ossessioni, predilezioni da parte dei registi di music video che, in questo modo, da un lato dichiarano le proprie passioni cinefile, dall’altro hanno la possibilità di riutilizzare le idee di grandi film o di grandi maestri laddove siano pertinenti con le at-
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mosfere, le situazioni e, a volte, i contenuti espressi dalle canzoni. La citazione attesta una dipendenza ancora oggi innegabile da parte del music video nei confronti dell’arte cinematografica, anche se il tipo di lavoro sulla citazione e le modalità di inserimento nella trama videomusicale sono piuttosto mutate, affinandosi, in alcuni casi mimetizzandosi, diventando meno spudorate e più sottili, meno prevedibili e più ricercate, pur non rinunciando a configurarsi in un meccanismo di “finzione” (non nel senso di menzogna progettata, ma di verità volutamente velata), di esplicitare il senso di una “mancanza”, la necessità di una sostituzione: tutti concetti legati alla questione della citazione e analizzati, in un interessante saggio, da Micla Petrelli3. Pur essendosi il music video totalmente affrancato dal cinema come modello strutturale, come forma linguistica dominante e generatrice4, esso non può fare a meno di rivolgersi alla storia delle immagini in movimento come archivio, sconfinata e babilonica library. La memoria del cinema ha il potere – anche con una sola inquadratura data in prestito – di far sprofondare il distratto spettatore videomusicale negli abissi di una rappresentazione frammentata, di una narrazione che procede per continui salti e lampeggiamenti, di spiazzarlo rispetto a un dejàvu che deve elaborare, sia se immediatamente riconoscibile e dunque riconducibile a un testo ben preciso, sia se destinato a restare ignoto e misterioso, come un elemento sottotraccia che si riverbera sulle altre immagini della serie, volutamente estraneo rispetto al contesto, come qualcosa che «allontana dal testo senza distruggerlo»5.
3 Micla Petrelli, “Il gesto della citazione”, in: atti del convegno Seminario sulla citazione, cit., pp. 71-86. 4 Il video Che idea realizzato nel 2005 dai fratelli Manetti per i Flaminio Maphia è un valido esempio di questo consolidamento dell’immaginario videomusicale che ha come conseguenza quella che potremmo definire “autarchia citazionista” del videoclip rispetto agli altri ambiti dell’immagine in movimento. In Che idea, infatti, vengono citati circa una decina di altri clip italiani degli ultimi anni, con i due rapper romani che li re-interpretano, vestendo i panni dei loro colleghi. alcuni di questi video “rubati” sono degli stessi Manetti, dunque ci troviamo di fronte a un duplice caso di autocitazione: a livello di genere e a livello di autore. 5 Elio Franzini, cit., pp. 68-69. Lo studioso di estetica, sempre a proposito della citazione implicita, scrive che essa rappresenta «[…] un modo figurale per introdurre al problema del simbolico e delle sue forme di espressività, in cui si presenta intuitivamente una conoscenza che non è soltanto intuitiva, ma che non può essere esplicitata senza questo fondamento originario. Il che significa […] che la citazione implicita, con il suo rinvio all’invisibile e alla sua precategoriale espressività, ha nei testi […] una funzione “retorica”: è appunto “figura”, che svolge un ben preciso ruolo espressivo nei testi in cui appare».
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TERZA PARTE sGUaRDI E CORPI D’aUTORE
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DYLaN, aLIas, JUDas E La CaNZONE-FILM di antonio Tricomi
«Colpi di pistola echeggiano in un bar di notte. Entra Patty Valentine dalla sala di sopra. Vede il barista in una pozza di sangue. Grida mio Dio, li hanno ammazzati tutti»1. sono i primi versi di Hurricane di Bob Dylan, brano d’apertura dell’album Desire, anno 1975. Un disco di svolta. Per qualche critico, che parla di inizio di una “fase cinematografica” nella produzione del cantautore americano, nato nel 1941 e attivo professionalmente dal 1962. Per i fan, che sobbalzano trovandosi tra le mani un disco in cui per la prima volta il loro idolo si avvale di un co-autore per i testi. Proprio lui, noto soprattutto per l’importanza e la bellezza delle liriche. Forse a torto, perché certo la sua musica non è inferiore alle sue parole. Il co-autore di Desire si chiama Jacques Levy, drammaturgo e regista di Broadway e autore per i Byrds, una delle più importanti band americane degli anni sessanta-settanta. Bizzarra alleanza tra un prestigioso autore di testi come Levy, scomparso nel 2004, e un “poeta” conclamato come Dylan, che con i testi poteva certamente cavarsela da solo. Nasce così Desire, nove canzoni di cui sette firmate con Levy. Hurricane, lungo brano dal formidabile impatto, rievoca la vicenda del pugile afro-americano Rubin Carter, in prigione dal 1966 per un reato di omicidio plurimo mai provato. «Per qualcosa che non ha fatto sbattuto nella cella di una prigione Mentre una volta poteva essere il campione del mondo»2.
1 Bob Dylan e Jacques Levy, Hurricane, inclusa nell’album Desire, Columbia, 1975. Ove non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono a cura dell’autore. 2 Ivi.
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Dylan e Levy studiano le carte processuali. Rileggono i giornali dell’epoca. scrivono il testo come una vera e propria sceneggiatura, ricca di dettagli e densa di atmosfera. Ecco, allora, cosa vogliono dire i critici che parlano di fase cinematografica. Una svolta, dopo la fase visionaria e surrealistica che rese celebri i testi di Dylan a partire dalla prima metà degli anni sessanta? Intanto il musicista si spende per Rubin “hurricane” Carter. Concerti, dichiarazioni pubbliche. senza ottenere granché. Non subito. Passano gli anni. Nel 1988 emergono nuovi elementi che provano l’innocenza del pugile. Carter esce di galera. Nel 1999 il regista canadese Norman Jewison – In the Heat of the Night (La calda notte dell’ispettore Tibbs, 1969), Jesus Christ Superstar (Id., 1973), Moonstruck, (stregata dalla Luna, 1987) – racconta la storia nel film The Hurricane (hurricane – Il grido dell’innocenza, 1999), protagonista Denzel Washington. Naturalmente la canzone di Dylan vi gioca un ruolo fondamentale: lo stesso musicista appare fugacemente mentre la esegue in concerto. Ma non è tutto qui. La sceneggiatura del film ricalca fedelmente in più punti i versi di Dylan e Levy. «Patty vede tre corpi stesi a terra E un altro uomo chiamato Bello che si muove misteriosamente. “Non sono stato io”, dice, alzando le mani “stavo solo ripulendo la cassa, capiscimi”. […] Un poliziotto disse, “aspettate un momento ragazzi, questo qui non è morto” Così lo portano al pronto soccorso E anche se quest’uomo vedeva a malapena Gli dissero che poteva identificare il colpevole. Le quattro di mattina e Rubin viene trasferito, Lo portano all’ospedale, lo accompagnano sopra. Il ferito lo guarda con il suo unico occhio agonizzante Dice, “Perché lo avete portato qui? Non è lui il tizio”»3.
su Desire c’è un altro brano scritto con Levy, Romance in Durango. È una canzone-western, cantata in inglese e in spagnolo. Tre anni dopo Fabrizio De andré e Massimo Bubola la tradurranno, in italiano e in napoletano, per l’album di De andré Rimini. Non con gli stessi risultati dell’originale, anche se a Dylan piacerà. Durango è la città messicana in cui Bob aveva vissuto nel 1972, durante le riprese del film di sam Peckinpah Pat Garrett and Billy the Kid (Pat Garrett e Billy 3
Ivi.
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DYLaN, aLIas, JUDas E La CaNZONE-FILM
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the kid, 1973), che uscirà l’anno dopo. Bob era uno dei protagonisti, con kris kristofferson e James Coburn, nonché l’autore della colonna sonora. Ma Romance in Durango non c’entra con quelle musiche, anche se un po’ ne risente: un’altra canzone-film, come Hurricane; un’altra sceneggiatura in musica. «Cos’era quel tuono che ho sentito? Vibra la mia testa, un dolore acuto siediti qui, non dire una parola Oh, non può essere che mi hanno steso? Presto Magdalena prendi il mio fucile Lo vedi quel lampo tra le colline? Prendi bene la mira, piccolina Forse non superiamo la notte. Non piangere mia cara Dio veglia su di noi Presto il cavallo ci porterà a Durango. abbracciami vita mia Presto il deserto scomparirà Presto ballerai il fandango»4.
E visto che ci siamo, due parole su Pat Garrett e Billy the Kid. Ovvero, il tema del traditore e dell’eroe secondo sam Peckinpah. È il 1972, Dylan non pubblica dischi da due anni e non va in tournée da sei: soltanto una controversa esibizione all’isola di Wight nel 1969 e l’apparizione al Concerto per il Bangladesh con George harrison nel 1971. sono gli anni del ritiro. Poco più che trentenne, Bob ha una moglie e cinque figli (una sesta arriverà nel 1986, dal secondo matrimonio). Non è la più l’esangue rockstar degli anni sessanta, ma un signorotto di campagna dall’aria florida, capelli corti e barbetta. Vive a Woodstock, proprio nel periodo del leggendario festival, a cui si rifiuta di partecipare. I fan gli entrano in casa, vogliono sapere da lui perché ha tradito5. Tradito cosa? «Volevano discutere con me delle cose più strambe. Joan Baez andava in giro a dire che avevo abiurato al mio ruolo di profeta. Ma quella gente non ascoltava bene le mie canzoni: da nessuna parte c’è scritto che volevo essere il profeta di qualcosa»6. 4 Bob Dylan e Jacques Levy, Romance in Durango, inclusa nell’album Desire, Columbia, 1975. 5 Cfr. Bob Dylan, Chronicles vol. 1, simon & schuster, New York, 2004. 6 Dichiarazione rilasciata a Jeff Rosen in una intervista presente nel film No Direction Home: Bob Dylan (No Direction Home, 2005, Martin scorsese).
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Con mossa a sorpresa, il musicista torna a vivere nel Greenwich Village di New York, in McDougal street. Ma i chierici della rivoluzione gli rovistano nella spazzatura, cercando prove della sua corruzione borghese. Nuovo trasferimento in un ranch in arizona. «Vivevo a Phoenix e ascoltavo Neil Young alla radio, cantava Heart of Gold. Merda, dicevo, ma questo sono io. Neil Young mi piace molto, Ma mi infastidiva Heart of Gold. sembrava una mia canzone, ma non lo era»7. È in questa fase d’insofferenza che giunge la proposta di Peckinpah, che il cinefilo Dylan accetta immediatamente. Il mito americano del fuorilegge, cosa c’è di più dylaniano? E poi. Il ruolo di Billy the kid è affidato a kristofferson, fino ad allora più noto come cantante, amico di Dylan da anni: aveva cominciato facendo le pulizie negli studi di Nashville in cui Bob registrava l’album Blonde on Blonde nel 1966. E il personaggio interpretato da Dylan si chiama alias. Come dire, Dylan e il suo doppio. a un certo punto, nel film, qualcuno gli chiede: «E tu chi sei?». «Che razza di domanda», risponde Bob8. Il film produce un disco con la colonna sonora, che i puristi non considerano neanche un album ufficiale di Dylan. Contiene diversi brani strumentali, più versioni di un bel pezzo chiamato semplicemente Billy e quella che sarebbe diventata una delle più famose canzoni di Bob, Knockin’ on Heaven’s Door, più di 150 cover in tutto il mondo. «Mamma, toglimi questo distintivo Non mi serve più. si fa buio, troppo buio per vedere Lo sento, sto bussando alla porta del paradiso»9.
È una canzone sulla morte. E accompagna una scena di morte: un anziano servitore della legge si trascina agonizzante sulla riva di un fiume, seguito a distanza dalla sua donna. I due si guardano negli occhi mentre la vita scivola via. Neanche una parola, soltanto Dylan che canta. Grande musica e grande cinema. Ma poi la canzone avrà vita propria. Quanti altri hanno scritto canzoni sulla morte? Non molti. Jacques Brel: La mort, tradotta da David Bowie come My Death. Poi De andrè, La morte, fortemente ispirata a George Brassens. Franco Battiato: La porta dello spavento supremo. Mogol e Battisti: Respirando, 7
Cfr. Michele Murino e salvatore Esposito, Bob Dylan, Editori Riuniti Roma, 2005. Rudy Wurlitzer, sceneggiatura del film Pat Garrett & Billy the Kid (Id., 1973). 9 Bob Dylan, Knockin’ on Heaven’s Door, inclusa nell’album Pat Garrett & Billy the Kid, Columbia, 1973. 8
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Una giornata uggiosa. Dylan canterà Knockin’ on Heaven’s Door a Bologna nel 1997 al cospetto di papa Woytila. Evento duramente criticato dall’allora cardinale Ratzinger, secondo il quale la gioventù non aveva bisogno di falsi profeti. Quell’anno esce uno degli album più belli di Bob, Time Out of Mind. Dentro c’è una canzone che ancora una volta parla di morte. Ma questa volta è la morte dello stesso autore: Dylan ha 56 anni, ma già comincia a pensarci. In quell’anno rischia forte per un’infezione alla membrana che avvolge il cuore, ma forse questo non c’entra. La canzone si chiama Not Dark Yet. «Qui sono nato e qui morirò contro la mia volontà sembra che mi stia muovendo ma in realtà sto fermo Ogni nervo nel mio corpo è nudo e intorpidito Non ricordo com’è che sono venuto qui per poi andarmene Non riesco neanche a sentire il mormorio di una preghiera Non è ancora buio, ma presto lo sarà»10.
Ma questi sono già gli anni Novanta, decennio felice per la produzione dylaniana. Un po’ meno lo erano stati gli Ottanta, con due album-capolavoro, Infidels e Oh Mercy, ma altri dischi imbarazzanti. Perché diversi suoi dischi lo sono. Perché la sua carriera è tutt’altro che rigorosa. Perché si è rifiutato di pubblicare grandi canzoni per poi infarcire i suoi dischi di scialbi quanto eleganti riempitivi. Ma è ugualmente riuscito a essere il più grande. Nel 1986 esce l’album Knocked out Loaded, appunto uno dei meno felici. Ma c’è una canzone di undici minuti chiamata Brownsville Girl. secondo i fan più integralisti è l’unico motivo per acquistare il disco. Dylan, undici anni dopo Hurricane, si avvale ancora una volta di un co-autore per il testo. E che co-autore: si tratta dell’attore-scrittore sam shepard, che mosse i primi passi nel 1978 come co-sceneggiatore dell’unico film diretto da Dylan, Renaldo & Clara (1978). shepard scrive per il cinema così come Levy scriveva per il teatro: Dylan ha ancora una volta bisogno di qualcuno che lo assista nella stesura di un racconto per immagini. «Be’, una volta ho visto un film, La storia di un uomo che attraversava il deserto a cavallo, Protagonista Gregory Peck. Fu sparato da un ragazzo affamato che voleva farsi un nome. La gente di città voleva pestarlo e appenderlo per il collo.
10
Bob Dylan, Not Dark Yet, inclusa nell’album Time out of Mind, Columbia, 1997.
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allora lo sceriffo picchiò questo ragazzo a sangue Mentre l’agonizzante pistolero giaceva sotto il sole Esalando l’ultimo respiro. Lascialo libero, lascialo andare, Lascia che dica di avermi lealmente battuto in duello, Voglio che sappia come ci si sente ad affrontare ogni giorno la morte»11.
si parla ancora di morte. Ma non si tratta di una canzone-western, o non solo: dopo queste prime due strofe, il racconto fa un salto: «Be’, guardavo questa roba e ne ero conquistato E sai, era come fossi stato colpito da una palla incatenata. Non riesco a credere che abbiamo vissuto insieme così a lungo E siamo ancora divisi. Il ricordo di te risuona alle mie spalle come un treno in corsa»12.
Dylan e shepard raccontano una storia d’amore e di rimpianto. E questo racconto viene intervallato, in montaggio alternato, con la rievocazione del film di henry king The Gunfighter (Romantico avventuriero, 1950). Più che un omaggio al cinema, l’omaggio a un singolo film, amato nell’adolescenza sia da Dylan che da shepard. Come attore molto amato è stato Gregory Peck, a sua volta un fan di Dylan. Brownsville Girl è l’apoteosi della canzone-film. «Una volta ho visto un film, credo di averlo visto due volte di seguito. Non ricordo chi ero o dove fossi diretto. Tutto ciò che ricordo è che il protagonista era Gregory Peck, Portava una pistola e gli spararono alle spalle. sembra molto tempo fa, molto prima che le stelle cadessero a pezzi»13.
Lunghi pomeriggi al cinema, nell’adolescenza di Robert allen Zimmerman, che nel 1962 assumerà legalmente il nome di Robert Dylan. Minnesota, anni Cinquanta: tutte le biografie sono concordi nel raccontare che, accanto agli idoli musicali (i primi rocker Elvis Presley e Little Richard, poi i bluesmen Robert Johnson e hank Wil11 Bob Dylan e sam shepard, Brownsville Girl, inclusa nell’album Knocked out Loaded, Columbia, 1986. 12 Ivi. 13 Ivi.
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liams, poi ancora i folksinger Woody Guthrie e Pete seeger), c’erano anche idoli cinematografici: James Dean su tutti, ma possiamo azzardare anche Marlon Brando e Paul Newman (di Gregory Peck abbiamo detto). Insomma, il grande cinema classico americano che dominava gli schermi negli anni in cui il futuro cantautore era adolescente. Un immaginario cui Dylan sarà sempre fedele. Nelle sue canzoni vengono continuamente citate le star del cinema. Nella sola I Shall Be Free vengono messi in fila Brigitte Bardot, anita Ekberg, sofia Loren, Elizabeth Taylor, Richard Burton. Poi, più tardi, Clark Gable in Don’t Fall Apart on Me Tonight e Peter O’Toole in Clean Cut Kid. E si potrebbe andare avanti per ore. Ma prima c’è la spinosa questione Mr.Tambourine Man, anno 1965. Tanto vale allora affrontarla. «hey! signor Tamburino, suonami una canzone, Non ho sonno e non so dove andare. hey! signor Tamburino, suonami una canzone, Nel tintinnìo del mattino ti seguirò»14.
La leggenda intorno a questa canzone è piuttosto nota. “Mr. Tambourine” era all’epoca una marca di cartine da sigarette. Buone, va da sé, per ogni tipo di sigaretta. E allora la marijuana e l’hashish non erano come ora il passatempo finto-trasgressivo di chiunque abbia compiuto tredici anni. No, negli anni sessanta quella era “la droga”. E in modo particolare la droga degli artisti. Dylan ne faceva largo uso, un’abitudine che pare abbia conservato fino agli anni della maturità. Per i banalizzatori sempre in agguato fu facile affibbiare al musicista, dopo l’etichetta di “profeta della rivoluzione”, anche quella di “profeta dello sballo”. Così, in quattro e quattr’otto, Mr.Tambourine Man divenne l’inno al fumo. Due anni dopo Lou Reed scriveva Heroin, l’inno al buco. Come dire, il trionfo del luogo comune: rock uguale droga. Però le cose non stavano esattamente così. Dylan spiegherà più volte di essere, naturalmente, a conoscenza di quella marca di cartine, ma che non c’entrava nulla con la canzone: Mr.Tambourine Man gli era stata ispirata dal suonatore di tamburino che appare nel film di Federico Fellini La strada (1954). Dunque cinema, non droga. Oppure cinema come droga.
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Bob Dylan, Mr. Tambourine Man, inclusa nell’album Bringing It All Back Home, Columbia, 1965.
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«Fammi dimenticare l’oggi fino a domani»15.
appare dunque quasi inevitabile, per Dylan, anche una carriera parallela d’attore. Poca cosa, rispetto a quella di musicista. Ma insomma. Di Pat Garrett e Billy the Kid abbiamo detto. Più tardi Bob sarà protagonista di altri due film, Hearts of Fire (Id., 1987) di Richard Marquand accanto a Rupert Everett e Masked & Anonymous (Id., 2003) di Larry Charles. In entrambi i casi, Dylan interpreta il ruolo di ciò che lui non sarà mai: una rockstar sul viale del tramonto. Nel primo caso il personaggio si chiama Billy Parker, nel secondo Jack Fate. Vale la pena notare che Jack Frost è lo pseudonimo con cui Dylan firma la produzione dei suoi dischi. E che fate, destino, è una delle parole che appare più spesso nelle sue canzoni. Insomma, siamo di nuovo agli alias. Rupert Everett, parlando anni dopo di Hearts of Fire, un po’ snobisticamente dirà: «È forse il film più brutto che ho fatto. ho accettato di farlo solo perché Dylan era nel cast. Ci divertivamo un mondo suonando la chitarra per ore»16. Diverso è il caso di Masked & Anonymous. Dopo le canzoni-film, siamo al film-canzone. Cast di lusso: accanto a Bob, che firma anche la sceneggiatura assieme al regista, ci sono Jessica Lange (moglie di sam shepard), Jeff Bridges, Penelope Cruz, John Goodman. Nella colonna sonora ben quattordici canzoni tutte scritte o arrangiate da Dylan. soltanto in quattro casi è lui a cantare. E per la prima volta, ai suoi epigoni italiani viene data una visibilità planetaria. Francesco De Gregori canta in italiano If You See Her Say Hello. Chissà se Bob ha mai ascoltato la sua celebre Buonanotte fiorellino, del 1975, che somiglia davvero tanto a un pezzo che si chiama Winterlude e che sta sull’album di Dylan New Morning (1970). Ma clamoroso è il caso degli articolo 31. I due rapper italiani elaborano in maniera egregia il testo di Like a Rolling Stone: più che una traduzione letterale, una divagazione sul tema. Il brano viene intitolato Come una pietra scalciata, ed è firmato Dylan-Perrini-aleotti. Il leggendario refrain, con la voce originale di Bob, viene inevitabilmente campionato. «Come ci sente Essere soli Del tutto sconosciuti 15
Ivi. Dichiarazione raccolta dall’autore al Giffoni Film Festival, Giffoni Valle Piana (salerno), luglio 2000. 16
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senza una casa dove andare Come una pietra che rotola»17.
Dylan appare fugacemente come attore anche in altri film: Backtrack (Ore contate, 1990) di e con Dennis hopper18 e Paradise Cove (Id., 1999) con Ben Gazzara. Ma naturalmente è anche il protagonista dell’unico film da lui diretto, Renaldo & Clara, del 1978. Un docudrama di quattro ore, poi ridotto a due e mezza, realizzato durante le due tranche della Rolling Thunder Revue, che attraversò gli stati Uniti nel 1975 e nel 1976. Il film, la cui sceneggiatura è firmata da Dylan con shepard, corre su due binari. Le performance dal vivo di Bob e dei suoi amici Joan Baez, Roger McGuinn, Ramblin’ Jack Elliott. E fin qui ci siamo. Dylan appare in scena con il viso pesantemente truccato, spesso un gran cappello gli mette in ombra lo sguardo. Mascherato e anonimo. Gli album Blood on the Tracks e Desire forniscono la gran parte del materiale. «Presto la mattina il sole splendeva, Me ne stavo a letto Chiedendomi se lei fosse cambiata se i capelli li avesse ancora rossi»19.
Persino i personaggi delle canzoni, come in Tangled up in Blue, sono in continua evoluzione. La loro identità non è mai certa. Così come in questa pletorica, spiazzante pellicola. Due binari, dicevamo. Parallelamente ai concerti, scorre una storia bizzarra. Tra gli attori appaiono sara Dylan (prima moglie dell’artista), Joan Baez, allen Ginsberg, harry Dean stanton. Un po’ recitano, un po’ sono loro stessi, un po’ si fingono personaggi di una saga cavalleresca. Bob è Renaldo, sara è Clara. C’è anche un personaggio che si chiama Dylan, ma lo interpreta il cantante Ronnie hawkins. Qualcuno chiede a Bob chi è Bob e Bob indica Ronnie. siamo ancora agli alias e alle domande cui non si può rispondere. Ma questa volta il pubblico di tutto mondo sa come rispondere a quest’avventura, forse ispirata al cinema intellettuale europeo del decennio precedente: Bob, è meglio se canti. 17 Bob Dylan, Like a Rolling Stone, inclusa nell’album Highway 61 Revisited, Columbia, 1965. 18 Il film, uscito negli stati Uniti senza la firma di hopper ma sotto lo pseudonimo alan smithee, a causa di controversie riguardanti il montaggio, sarà poi rititolato Catchfire. 19 Bob Dylan, Tangled up in Blue, inclusa nell’album Blood on the Tracks, Columbia, 1974.
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«La gente è pazza e i tempi sono strani sono chiuso dentro, sono fuori dal giro Una volta m’importava, ma le cose sono cambiate»20.
Con Things Have Changed, una delle sue migliori di sempre, Dylan vince nel 2001 l’Oscar per la canzone originale. Il film è Wonder Boys (Id., 2000) di Curtis hanson con Michael Douglas, Robert Downey Jr. e Tobey McGuire. Una vicenda spietata, ambientata nel mondo feroce dell’editoria. Nella colonna sonora, antiche canzoni di Dylan, Leonard Cohen, Neil Young. E sui titoli di coda parte Things Have Changed. Durante la Notte degli Oscar del 2001, Bob è in tour in australia (è quasi sempre in tour, fa cento concerti l’anno). a Los angeles, Jennifer Lopez apre la fatidica busta: «and the Winner is… Bob Dylan!»21. Il vincitore è in collegamento da sydney: sta per andare in scena. Fa un gesto come per sollevare in alto la chitarra, come fosse un vessillo. «È sorprendente», dice. E ringrazia l’academy «per aver avuto il coraggio di premiare una canzone che non gira intorno alle cose e non finge di essere cieca rispetto alla natura umana». E ciò detto, la esegue insieme alla sua band. Dopo di allora, per alcuni mesi, l’Oscar sarà esibito durante i concerti, in equilibrio su un amplificatore. Ma è proprio quello vero? In quel periodo Michael Douglas diventerà padre di un bambino cui verrà imposto il nome di Dylan. Da Things Have Changed viene tratto un bel videoclip, sempre diretto da Curtis hanson, con Bob che recita finalmente in maniera accettabile. E naturalmente canta da par suo, sia pure in playback. «Questo posto non va bene per me sono nella città sbagliata, dovrei essere a hollywood»22.
Ma la voce di Dylan si ascolta anche in altri film. In Natural Born Killers (assassini nati – Natural Born killers, 1994) di Oliver stone canta You Belong to Me, canzone non sua che non appare su nessun disco e che nel 2008 godrà del privilegio di una cover realizzata da Carla Bruni sarkozy. Canta l’antica Fourth Time Around in Vanilla Sky (Id., 2001) di Cameron Crowe, con Tom Cruise e Penolope Cruz. Qui però c’è spazio per una citazione più raffinata: il regista riproduce 20 Bob Dylan, Things Have Changed, inclusa nella colonna sonora del film Wonder Boys. 21 La formula rituale che viene pronunciata al momento dell’apertura della busta contenente il nominativo dell’artista o film premiato. In italiano: «E il vincitore è…». 22 Ivi.
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esattamente in un’inquadratura la copertina dell’album The Freewhelin’ Bob Dylan, con il musicista e la sua ragazza di allora, suze, che camminano abbracciati in una strada del Village tra cumuli di neve. al posto di Bob e suze ci sono Tom e Penelope, all’epoca realmente fidanzati. E la storia ci spiegherà che quello era il disco preferito dal personaggio di Cruise. Ma la massima celebrazione di Dylan sul grande schermo arriverà nel 2007. «E sto esitando per la tentazione Per timore che possa sfuggirmi Che possa non seguirmi Ma là non ci sono, me ne sono andato»23.
L’enigmatica I’m Not There è una delle grandi canzoni segrete di Bob, scritta nel 1967, registrata a Woodstock con la Band e mai apparsa su disco. Il regista Todd haynes, che aveva già raccontato le vicende di David Bowie e Iggy Pop in Velvet Goldmine (Id., 1998), dirige quarant’anni dopo un film “ispirato alla vita e alla musica di Bob Dylan” e gli dà proprio quel titolo, I’m Not There (2007), che in Italia viene tradotto Io non sono qui. Poco male, il senso viene salvato: Dylan è comunque quello che non c’è, che è altrove, che è “un altro”: come annunciava arthur Rimbaud, forse il suo poeta preferito. Un altro e tanti altri. a interpretare Dylan sullo schermo vengono chiamati ben sei attori: Cate Blanchett, heath Ledger, Christian Bale, Richard Gere, Ben Whishaw e il giovanissimo Marcus Carl Franklyn. altro che alias, qui siamo all’esplosione e alla frantumazione delle identità. Tutti cantano canzoni di Dylan. Lo stesso Dylan, fuori campo, canta canzoni di Dylan. I personaggi si chiamano Judas (così fu bollato Bob quando iniziò a “tradire la rivoluzione”), oppure arthur come Rimbaud, oppure Woody come Woody Guthrie. La performance di Cate Blanchett è struggente. Nell’episodio, ambientato in Inghilterra, fanno una fugace apparizione anche i Beatles in una citazione lesteriana, ispirata cioè al giocoso surrealismo delle due pellicole realizzate dai quattro di Liverpool con il regista Richard Lester: naturalmente l’incontro con i Beatles, a Londra nel 1966, ci fu davvero. E viene riprodotto il concerto di Manchester, quello in cui Dylan viene contestato da una parte del pubblico e chiamato Judas da un fan deluso: il regista ricalca con filologica precisione le immagini del documentario 23
Bob Dylan, I’m Not There, inclusa nella colonna sonora del film omonimo diretto da Todd haynes nel 2007.
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di D.a. Pennebaker Dont Look Back (Id., 1967), poi utilizzate da Martin scorsese nel suo No Direction Home: Bob Dylan (No Direction home, 2005). La Blanchett vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia ma il premio, coerentemente con un film che fa delle sovrapposizioni identitarie la sua forza, viene ritirato da un altro, da un alias: il grande e sfortunato heath Ledger. I’m Not There è un film dylaniano per dylaniani, un film di culto che celebra un culto e che, però, riesce a catturare anche i non adepti. E finalmente la canzone viene pubblicata, quarant’anni dopo essere stata incisa, sul doppio cd con la colonna sonora del film. Dylan approva a distanza. «Ma là non ci sono, me sono andato»24.
Quasi insieme ad I’m Not There, arriva nelle sale un altro biopic. Questa volta Dylan non è il protagonista, ma soltanto uno dei personaggi, anche se sotto falso nome (Billy). solo che in questo caso il cantautore è ben lungi dall’approvare. anzi, si deve all’azione legale da lui intrapresa contro Factory Girl (Id., 2006) se questa pregevole pellicola, diretta da George hickenlooper, arriva in sala con un anno di ritardo sulla data prevista. È la storia di Edie sedgwick (ottimamente interpretata da sienna Miller), modella glamour e attrice per andy Warhol. scomparsa nel 1971 a 28 anni, Edie è stata un’amica e forse un’amante di Bob. all’esile e vulnerabile modella sono dedicate alcune canzoni dell’album Blonde on Blonde. La più esplicita è Just Like a Woman, tra i vertici dell’arte dylaniana. «Nessuno deve credere Che la ragazza non sarà benedetta Finché si accorgerà che è come tutti gli altri Con la sua nebbia, la sua anfetamina e le sue perle»25.
Intorno al 1965, Dylan e Warhol sono i due leader indiscussi della controcultura newyorkese. Non essendo, nessuno dei due, nato a New York. Ciascuno a capo di un gruppo, di una lobby. Con storie troppo diverse, però. Dylan molto etero, Warhol molto gay. Dylan radicato nella cultura popolare, Warhol nel mondo dell’intellettualismo chic. Il primo idolo dei giovani ribelli, il secondo della fatua borghesia metropolitana. Diverse anche le droghe: Dylan marijuana, Warhol eroina e 24
Ivi. Bob Dylan, Just Like a Woman, inclusa nell’album Blonde on Blonde, Columbia, 1966. 25
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amfetamina. E in mezzo, la bella e infelice Edie. Bob cerca di sottrarla all’influenza di andy e del suo giro, del quale all’epoca fa parte anche Lou Reed: alla Factory di Warhol, Bob attribuisce la rovina della ragazza e la sua dipendenza dalle droghe pesanti. Quarant’anni dopo, forse per motivi opposti, Dylan e Reed polemizzano con gli autori di Factory Girl e Bob cerca addirittura di bloccare l’uscita del film, dal quale si ritiene danneggiato: riuscirà soltanto a ritardarla. altro si potrebbe dire. Dei molti e interessanti videoclip. Dei due elegantissimi spot. Il primo, Angels in Venice, realizzato nel 2004 per Victoria’s secret, biancheria intima per donna: vi appare anche la top model adriana Lima e Dylan canta Love Sick. Nel 2007 lo spot per la Cadillac Escalade. In entrambi i casi, ulteriori accuse di tradimento: Judas! Poi si potrebbe dire del figlio regista: Jesse Dylan, il primo della nidiata, nato nel 1966 e autore di American Wedding (american Pie – Il matrimonio, 2003) ma anche di alcuni videoclip tra cui Yes We Can per Barack Obama. La sera dell’elezione del primo presidente nero, il 4 novembre 2008, Dylan è in concerto nell’auditorium dell’università di Minneapolis, che aveva brevemente frequentato da ragazzo ma nella quale si esibisce per la prima volta: cortocircuiti della storia. L’artista è stranamente loquace: «sono nato nell’anno del bombardamento di Pearl harbor e fin da allora ho vissuto in un’epoca di oscurità. Ma ora sembra che le cose stiano cambiando»26. E attacca una bella versione del suo classico Blowin’ in the Wind: stesso testo, melodia completamente riscritta. Ma ancora si potrebbe parlare del rapporto di Bob con Dustin hoffmann, il suo alias a hollywood. Nel 1971 hoffmann, all’epoca piuttosto somigliante a Dylan, interpreta in Who Is Harry Kellerman and Why Is He Saying Those Terrible Things About Me? (Chi è harry kellerman e perché parla male di me?, 1971) il ruolo di una rockstar schizofrenica. Qualche anno più tardi sarà Lenny Bruce nel film di Bob Fosse Lenny (Id., 1974): è la storia dell’irriverente comico americano, attivo negli anni sessanta e morto di droga; uno tra gli artisti più apprezzati da Bob, che nel 1981 gli dedicherà una canzone. 26
La dichiarazione è riportata in un video diffuso il 7 novembre 2008 sul sito del quotidiano «La Repubblica» (www.repubblica.it), accompagnato dal titolo Dylan e Baez per Obama e dal sommario Le due leggende della musica in due concerti diversi hanno celebrato la vittoria di Barack. La frase è pronunciata da Dylan nel corso del suo concerto del 4 novembre 2008 al Northrope auditorium di Minneapolis, Minnesota. Il video è presente nella sezione “archivio” del sito www.repubblica.it al seguente indirizzo: http://tv.repubblica.it/home_page.php?playmode=player&cont_id=26128&ref=search.
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si potrebbe anche parlare di uno degli ultimi album di Dylan, intitolato Modern Times come il capolavoro di Chaplin. E ricordare che qualche decennio fa qualcuno definiva Bob una figura chapliniana. Insomma, tanto altro si potrebbe dire. Ma, che siate adepti o che non lo siate, mentre state leggendo queste righe Bob Dylan è già altrove. E il cinema gli gira sempre intorno. Il suo album più recente, Together Through Life, nasce su input di Olivier Dahan: «Il regista francese – racconta Bob – mi ha contattato chiedendomi una canzone per un nuovo film ancora da girare. Il film è una specie di viaggio alla scoperta di se stessi, ma l’unica cosa un po’ più precisa che mi ha detto è stata che gli serviva una ballata per il personaggio principale, da cantare verso la fine del film»27. Così Dylan scrive Life Is Hard e poi, in preda all’ispirazione, le altre nove canzoni che formano l’album, «[…] che però – conclude Bob – ha poi preso una sua specifica direzione»28. Esattamente l’opposto del suo autore, che probabilmente adesso avrà cambiato nuovamente direzione. altrove. Non qui.
27 Dichiarazione contenuta nella lunga intervista Bob Dylan Talks About the New Album with Bill Flanagan, pubblicata sul sito ufficiale www.bobdylan.com ad aprile 2009. L’intervista, lunga sei pagine, può essere letta all’indirizzo: http://www.bobdylan.com/#/ conversation. 28 Ivi.
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CaMPI DI CELLULOIDE PER sEMPRE: IL CINEMa DEI BEaTLEs di Michelangelo Iossa
Prima scena. Il film è Sister Act (sister act – Una svitata in abito da suora, 1992) di Emile ardolino. Nella sequenza iniziale della pellicola la piccola Deloris Van Cartier (futura suor Maria Claretta, interpretata nel film da Whoopi Goldberg) è tra i banchi di scuola e viene interrogata dalla sua maestra, una suora impegnata ad insegnare catechesi: «Chi sono i quattro evangelisti?». Risposta della Van Cartier: «John (Giovanni)». La suora annuisce. «Paul (Paolo)… – Molto bene – …George e Ringo!». I Beatles al di sopra della cristianità… seconda scena. Il film è Apollo 13 (Id., 1995) di Ron howard con Tom hanks nella parte del leggendario astronauta Jim Lovell. Quello di “houston, abbiamo un problema”, tanto per intendersi. È l’aprile del 1970. La Nasa, i vertici militari e i media sono concentrati sulla nuova missione di conquista della Luna e Lovell saluta i familiari con emozione. La figlia non esce dalla camera: «È in lutto per lo scioglimento dei Beatles», spiegherà la madre all’incredulo Lovell/hanks. I Beatles al di sopra della Luna… Terza scena. Il film è Sliding Doors (Id., 1998) di Peter howitt. helen, interpretata da Gwyneth Paltrow, sale sulla metropolitana – in uno dei due possibili “percorsi” individuati dal film – e siede accanto a James, impersonato dall’attore John hannah. accanto a loro un ragazzo con le cuffiette nelle orecchie ascolta i Beatles a tutto volume. James commenta: «Tutti conoscono a memoria le canzoni dei Beatles. Qualcuno ha dimostrato che fanno parte del nostro patrimonio genetico sin dalla nascita, da quando siamo nel feto (in inglese: foetus, nda.). avrebbero dovuto chiamarli Featles, non Beatles!»1. I 1
Ove non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono a cura dell’autore.
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Beatles al di sopra della genetica… Quarta e ultima scena. Il film è The Darjeeling Limited (Il treno per il Darjeeling, 2007) di Wes anderson. Gli attori adrien Brody, Owen Wilson e Roman Coppola salgono a bordo del treno Darjeeling Limited, in un viaggio alla scoperta dell’India e alla ricerca di loro stessi, affrontando un percorso che evoca la trasferta beatlesiana del 1968 nell’ashram del Maharishi Mahesh Yogi. I tre vestono quasi come i Beatles della copertina di Abbey Road e Roman Coppola è sempre scalzo, proprio come Paul McCartney sulle leggendarie strisce pedonali londinesi. I Beatles al di sopra del Gange… Un piccolo e innocente gioco di citazioni cinematografiche che propone uno sguardo sull’universo beatlesiano, sulle sue connessioni con la cinematografia contemporanea e, soprattutto, su un preciso profilo estetico beatlesiano fatto di celluloide, che va di pari passo con la carriera musicale del favoloso quartetto di Liverpool. senza contare, naturalmente, i riferimenti cinematografici direttamente collegati all’epopea beatlesiana: Backbeat (Id., 1993) di Iain softley, è una riuscitissima fotografia dei “Beatles prima dei Beatles”, in una amburgo licenziosa e affollata del 1960, la stessa città raccontata ne I magliari (1959) di Francesco Rosi. Across the Universe (Id., 2007) di Julie Taymor, è un calibrato musical con Jim sturgess, basato su trentatré brani del canzoniere beatlesiano. Two of Us (Id., 2000) di Michael Lindsay-hogg, è un mediometraggio per la TV che evoca l’incontro tra John Lennon e Paul McCartney alla metà degli anni settanta, nell’appartamento newyorchese di John e Yoko Ono. Un appartamento che è, a sua volta, parte di un’icona cinematografica: il Dakota Building, edificio in cui abitava Lennon e che fece da set per Rosemary’s Baby (Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York, 1968) film di Roman Polanski con Mia Farrow. Davanti a quel portone John Lennon venne ucciso per mano di Mark David Chapman, in quella sera dell’8 dicembre 1980 in cui «morirono per sempre gli anni sessanta»2. Quando i Beatles varcarono per la prima volta la soglia degli studi EMI di abbey Road, rimasero colpiti dal curriculum di George Martin, che di lì a poco sarebbe divenuto “il quinto Beatle” per antonomasia. Non fu tanto la sua attività di produttore musicale a destare l’interesse dei quattro – John, Paul, George e il batterista Pete Best – quanto piuttosto il suo lavoro di responsabile e supervisore delle 2
Georg Diez, Beatles contro Rolling Stones, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 15.
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registrazioni del programma radiofonico The Goon Show. La trasmissione era un autentico fenomeno di culto nell’Inghilterra dei tardi anni Cinquanta, grazie anche al suo protagonista, Peter sellers, che si sarebbe rivelato al mondo come uno dei più grandi talenti della cinematografia britannica e internazionale. L’interprete di Being There (Oltre il giardino, 1979) e Pink Panther, (La pantera rosa, 1963) avrebbe incrociato il percorso dei Beatles molte volte: nel 1965 il testo di A Hard Day’s Night venne recitato da un esilarante Peter sellers in costume shakespeariano per la TV inglese e divenne uno dei suoi numeri più amati dal pubblico, tanto che il 45 giri che ne scaturì raggiunse la Top 20 britannica. La pièce proposta da sellers non solo favorì la nascita di un legame di amicizia con i Fab Four ma contribuì alla diffusione dei testi dei brani dei Beatles, spesso “oscurati” dalle loro celebri musiche: nel corso degli ultimi decenni, grandissimi attori si sono cimentati nella lettura di testi beatlesiani, da sir sean Connery a Goldie hawn, da Robin Williams a Dudley Moore. sellers avrebbe poi affiancato Ringo starr nel film The Magic Christian (Magic Christian, 1969) di Joseph McGrath e sarebbe divenuto uno dei più cari amici di George harrison a metà degli anni settanta. Quattro ragazzi arrivano in una piccola città dell’Inghilterra. I cittadini li accolgono con disprezzo. La figlia del sindaco si innamora di uno di loro; il sindaco osteggia questo rapporto. I cattivi arrivano in città, ma il luogo viene salvato dall’intervento dei Beatles che cantano tra la folla festante. Il sindaco è felice e dà la sua benedizione affinché il Beatle sposi sua figlia. Quella sinora presentata è esattamente la sceneggiatura che i Beatles non avrebbero mai voluto per uno dei loro film! L’intelligenza nello scegliere l’autore e il regista del loro primo film – rispettivamente alun Owen e Richard Lester – e la lungimiranza nel selezionare le proposte hanno permesso ai Beatles di essere protagonisti di film mai banali. Un rapporto intenso, quello tra i Beatles e il mondo di celluloide, celebrato dalla pentalogia costituita da A Hard Day’s Night (Tutti per uno, 1964) di Richard Lester, Help! (aiuto!, 1965) di Richard Lester, Magical Mystery Tour (Id., 1967) dei Beatles, Yellow Submarine (Il sottomarino Giallo, 1968) di George Dunning, Let It Be (Let It Be – Un giorno con i Beatles, 1970) di Michael Lindsay-hogg. Un surreale videoclip ante-litteram in bianco e nero, un irregolare filmparodia delle spy-story bondiane, un mediometraggio sperimentale
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per la TV, un eccellente film a cartoni animati e un documentario ai limiti del reality-show: i Beatles non si sono fatti mancare proprio nulla. E nessuna delle cinque pellicole può essere assimilabile a un “musicarello” degli anni sessanta o a uno degli “indecorosi” film con Elvis Presley. Nel 1965, la band inglese incontrò proprio “Re Elvis”, e quest’ultimo, parlando con John Lennon, esclamò: «ho visto il vostro film e non mi ha convinto molto». Lennon rispose sardonico: «Ma ti sei mai rivisto nei tuoi film?»3. La popolarità di Lennon, McCartney, harrison e starr nel 1964 era davvero alle stelle: la proposta di realizzare un film che vedesse protagonisti i quattro liverpooliani e i loro brani era un’occasione imperdibile per l’industria cinematografia inglese, per la EMI e per gli stessi Beatles. La proposta avanzata nel 1963 dalla United artists si concretizzò nella realizzazione di A Hard Day’s Night, originariamente battezzato Beatlemania fino alla nascita del definitivo titolo e dell’omonimo brano. Il 19 marzo 1964 i quattro musicisti erano impegnati ai Twickenham studios di Londra per le riprese del loro primo film, ma il management propose loro un programma giornaliero sfiancante: dopo le riprese del film, i Beatles si sottoposero alle domande di un intervistatore della BBC per una puntata di Movie-Go-Round; all’ora di pranzo erano al Dorchester hotel per ricevere il premio show Business Personalities of 1963 dalle mani del futuro Premier britannico harold Wilson; in serata li attendeva il BBC Television Theatre per la prima esibizione del quartetto a Top of the Pops, popolare show televisivo. In serata, uno sfinito Ringo starr esclamò «It’s been a hard day!» (È stata una giornata faticosa); notando poi il cielo stellato, aggiunse, «It’s been a hard day’s night!» (È stata la notte di una giornata faticosa)4. Questa frase venne annoverata tra quelli che gli altri tre Beatles definivano “ringoismi” e diede il titolo al primo lungometraggio dei Beatles, offrendo lo spunto per la composizione della title-track. La canzone A Hard Day’s Night venne composta prevalentemente da John Lennon su commissione: il 45 giri A Hard Day’s Night/Things 3 L’episodio è riportato nel documentario di alf Bicknell, The Beatles Chronicles (2008). 4 Cfr., Michelangelo Iossa, Le Canzoni dei Beatles, Editori Riuniti, Roma, 2004, p. 78, nonché The Charmer. The Cynic. The Thinker. The Comic. – How “A Hard Day’s Night” Made the Beatles in: «Mojo», n° 108, novembre 2002.
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We Said Today in brevissimo tempo raggiunse la cima delle classifiche inglesi e statunitensi garantendo al film d’esordio dei Beatles un successo straordinario e consentendo ai quattro musicisti di conquistare un Grammy award nella categoria Migliore Esecuzione Vocale di Gruppo. Per la verità, la sequenza dedicata al brano I Should Have Known Better è l’unica in linea con i lungometraggi musicali degli anni sessanta: senza una ragione precisa e senza alcun legame con la vicenda del film, i quattro iniziano a cantare questo brano all’interno di una gabbia in un vagone merci, dopo una divertente partita a carte. In tal senso, I Should Have Known Better potrebbe essere considerato il primo videoclip tratto da un film (o anche “promo-videoclip” di un film) della storia del cinema musicale. Prezioso fu il talento di Richard Lester, regista apprezzato dagli stessi Beatles per il suo surreale film The Running Jumping & Standing Still Film (Id., 1960) con spike Milligan, già protagonista del citato Goon Show: Lester esaltò ogni singolo brano utilizzato nel film valorizzandone l’espressività e facendo guadagnare alla pellicola un inatteso plauso dalla giuria del Festival del Cinema di Cannes nel 1964. ad affiancare i Fab Four furono due tra i migliori caratteristi inglesi dell’epoca, l’anziano protagonista della serie cult Steptoe and Son Wilfrid Brambell e l’attore di origine italiana Victor spinetti. Quest’ultimo vanta ancor oggi un piccolo record personale, avendo affiancato i Beatles anche nei film Help! e Magical Mystery Tour, in un loro show natalizio e il solo Paul McCartney nel promo-video di London Town dei tardi anni settanta. sotto il profilo professionale, il 1965 fu per i Beatles una replica fedele del 1964: un glorioso tour europeo, il successo di pubblico negli Usa e un nuovo film con Richard Lester. senza dubbio meno avvincente di A Hard Day’s Night, la seconda pellicola interpretata dai Beatles consolidò la fama cinematografica dei quattro, che sfornarono per l’occasione brani come Ticket to Ride, I Need You, You’ve Got to Hide Your Love Away e la stessa Help!. Fu il singolo Ticket to Ride ad anticipare l’uscita del film e dell’album Help!: avendo ancora un titolo provvisorio per il film, la casa discografica statunitense Capitol Records (consociata alla EMI) promosse il 45 giri con lo slogan “Tratto dalla colonna sonora del lungometraggio Eight Arms to Hold You della United artists”. Otto braccia per stringerti era, infatti, il primo titolo del film: inevitabile il riferimento al successo I Want to Hold Your Hand dell’anno precedente.
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Giunto quasi al termine delle riprese del secondo film con i Beatles, Richard Lester suggerì di cambiare titolo al lungometraggio in favore del più incisivo Help!. Il suggerimento del regista si trasformò in un pretesto immediato per Lennon che, con un piccolo contributo di McCartney, ripeté l’impresa di A Hard Day’s Night: il giorno dopo aver scelto il titolo, la canzone Help! era praticamente pronta per essere registrata. «Ero io ad aver bisogno di aiuto: quella canzone parlava di me»5, avrebbe ricordato il chitarrista dei Beatles. Realizzato su pellicola a colori e con un budget più ampio rispetto ad A Hard Day’s Night, il film faceva il verso al più importante fenomeno cinematografico Made in Uk degli anni sessanta, la saga dell’agente segreto britannico James Bond – 007, nata dalla penna dello scrittore Ian Fleming e interpretata in quegli anni da un impareggiabile sean Connery. Per un curioso scherzo del destino le carriere dei Beatles e del Bond cinematografico ebbero inizio contemporaneamente: il primo singolo dei Fabs, Love Me Do, e il primo film della saga bondiana, Dr. No (agente 007 – Licenza di Uccidere, 1962), uscirono il 5 ottobre 1962. Fu quello, probabilmente, il giorno in cui “nacquero gli anni sessanta”. Le esotiche location dei film interpretati dall’affascinante Connery, l’abile regia di Terence Young e Guy hamilton, i gadgets futuristici apparsi in Goldfinger (agente 007 – Missione Goldfinger, 1964) e From Russia with Love (agente 007 – Dalla Russia con amore, 1963) e il citato Dr. No, furono l’elemento base da cui prese il via la parodia proposta dai Beatles e dal fido Lester, arricchita dalle canzoni del quartetto, dallo humour nord-inglese del cast e da surreali siparietti comici infilati a sorpresa nel film, ambientato tra le Bahamas, la Piana di salisbury, Londra e le alpi svizzere. Nel disco Help!, ma non nella sua colonna sonora, era peraltro contenuta la canzone Act Naturally di Buck Owens. Il brano era cantato da Ringo starr e alludeva al mondo del grande schermo: con molta probabilità i Beatles lo affidarono al batterista per sottolinearne ironicamente la sua natura di attore. In maniera del tutto inaspettata, infatti, il batterista inglese sarebbe divenuto il vero protagonista di ben quattro capitoli della pentalogia cinematografica beatlesiana: il desiderio di starr di evadere dalle pressioni della Beatlemania caratterizzava A Hard Day’s Night, la caccia all’anello indossato dal batterista era il tema chiave del film Help!, il viaggio condiviso dal musicista con la 5
Michelangelo Iossa, Le canzoni dei Beatles, cit., p. 124.
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petulante zia Jessie era il leit-motiv di Magical Mystery Tour, e indubbia è anche la centralità di starr in veste di cartone animato nel film d’animazione Yellow Submarine del 1968. Due anni dopo l’uscita di Help!, i Beatles erano de facto una band distante anni luce dal quartetto zazzeruto degli esordi: la variopinta estate del 1967, l’Estate dell’amore scandita al suono di All You Need Is Love aveva trovato nei Beatles i suoi migliori ambasciatori. Il discomonumento Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band fu la colonna sonora di quella stagione dorata e assurse al rango di punto di riferimento creativo per i seguaci della summer of Love. Un episodio spense bruscamente gli entusiasmi di quella promettente estate: il 27 agosto 1967 – mentre i Beatles erano nel Galles per uno dei loro primi incontri con il guru Maharishi Mahesh Yogi – il trentaduenne manager della band, Brian Epstein, perse la vita a causa di un letale miscuglio di droghe mentre era nella sua dimora londinese di Chapel street. La scomparsa dell’uomo «che aveva costruito il mito dei Beatles»6 fu l’inizio di quel lento processo che, in meno di tre anni, avrebbe portato allo scioglimento dei Fab Four. su decisione comune dei quattro musicisti, la gestione della macchina-Beatles venne affidata ai suoi stessi componenti: «Nessuno dei ragazzi era in grado di diventare il manager del gruppo»7, avrebbe ricordato il produttore George Martin. Fu la progettualità inarrestabile di Paul McCartney a far da sfondo all’ultimo triennio di vita della band. Nell’aprile 1967, il bassista aveva intrapreso un viaggio in america per raggiungere l’attrice Jane asher, sua fidanzata dell’epoca, per assistere alla sua tournée teatrale. In quel periodo McCartney venne a conoscenza dei Merry Pranksters, compagnia statunitense di hippies e seguaci della cultura LsD, che girava gli stati Uniti a bordo di un variopinto pullman e aveva il suo profeta nello scrittore ken kesey. Fu questo clima culturale di matrice californiana a ispirare la composizione del brano Magical Mystery Tour, inciso dai Beatles subito dopo la conclusione dei lavori di Sgt. Pepper e la cui pubblicazione venne presa in considerazione solo nell’autunno del 1967. 6 Così viene definito Epstein in: Livio sacchi (a cura di), The Beatles Anthology, Rizzoli, Milano, 2000; nonché nel musical teatrale Eppy, ispirato alla figura del manager del quartetto e diretto da Romy Padovano nel 2000. 7 Dichiarazione contenuta nel documentario di Geoff Wonfor, The Beatles Anthology (Id., 1995), versione ampliata in DVD nel 2003.
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Concepito come un inno della cultura on the road degli anni sessanta, Magical Mystery Tour divenne la traccia-guida del primo progetto cinematografico firmato dal nuovo management dei Beatles. Lennon, McCartney, harrison e starr curarono, infatti, la regia e la produzione del mediometraggio televisivo Magical Mystery Tour, nonché la relativa colonna sonora. Trasmesso nel Regno Unito dalla BBC, durante le feste natalizie, il film si trasformò nel primo autentico insuccesso di critica e di pubblico mai registrato dalla band. La colonna sonora del road movie beatlesiano venne pubblicata in Inghilterra l’8 dicembre 1967 su doppio extended-play, conteneva sei nuovi brani ed era corredato da un libro con fotografie di John kelly, illustrazioni di Bob Gibson e testi curati dal press agent Tony Barrow e dai road managers Neil aspinall e Mal Evans. La colonna sonora di Magical Mystery Tour si trasformò nell’ennesimo successo di vendite per la band: le canzoni Magical Mystery Tour, The Fool on the Hill e I Am the Walrus sono ancor oggi annoverate tra le migliori del canzoniere del quartetto di Liverpool. «C’era una volta, o forse due, un posto chiamato Pepperland...». Con questo incipit si apriva la storia di Yellow Submarine, quarto film della cinematografia beatlesiana, presentato nelle sale inglesi nel luglio 1968. Yellow Submarine era un lungometraggio a cartoni animati prodotto dalla king Features e dalla apple Films che prendeva il nome dalla canzone firmata Lennon/McCartney apparsa sul 33 giri Revolver, del 1966. Per tener fede al loro contratto con la United artists, i Beatles dovevano realizzare un terzo film dopo le prime due pellicole dirette da Lester: nel 1967 il docente universitario al Brodax, produttore di una fortunatissima serie di cartoni animati dedicati ai Fab Four trasmessi negli Usa in piena beatlemania, propose al manager Brian Epstein il progetto di un film d’animazione ispirato agli ideali della summer of Love e arricchito da ampi riferimenti all’immaginaria Banda del sergente Pepper8. Il grado di interesse che i Beatles mostrarono inizialmente nei confronti dell’intero progetto era in verità piuttosto scarso, nonostan8 Michelangelo Iossa, Le canzoni dei Beatles, cit., p. 311, nonché The Beatles – Yellow Submarine? The Flintsones on LSD! Paul, George, Ringo and Crew Tell the Full Story in «Mojo», n° 71, ottobre 1999.
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te ai quattro fosse stato chiesto di realizzare pochi brani destinati ad occupare solo il lato a dell’album/colonna sonora. Ogni volta che la registrazione di un brano non era all’altezza della consueta produzione della band, John Lennon esclamava: «andrà bene per il film Yellow Submarine!»9. sottovalutato dagli stessi Fab Four nelle sue fasi embrionali, il film divenne una delle più apprezzate produzioni legate all’universo-Beatles ed è, con A Hard Day’s Night, la migliore e più organica pellicola della pentalogia cinematografica beatlesiana. Non essendo direttamente coinvolti nelle fasi produttive del lungometraggio, i quattro non si resero conto della rilevanza del progetto, fino a quando non videro il prodotto finito: al termine di una proiezione riservata della pellicola, i Beatles chiesero di recitare “in carne ed ossa” in uno spiritoso cameo destinato ad occupare i minuti conclusivi del film. Questa la vicenda: un luogo immaginario denominato Pepperland viene praticamente annientato dalla furia dei Biechi Blu; l’unico a salvarsi è l’anziano direttore d’orchestra Old Fred che riesce a fuggire a bordo di un sottomarino giallo. Raggiunta la città di Liverpool, Fred convoca i quattro Beatles e li invita a salire sul sommergibile per affrontare un viaggio attraverso il Mare del Tempo, il Mare dei Buchi e il Mare dei Mostri prima di giungere a Pepperland. Conquistata la meta, i quattro si camuffano da Banda dei Cuori solitari del sergente Pepper e riportano musica, gioia, armonia e amore nella cittadina. Concepito come risposta psichedelica alle produzioni disneyiane, il film Yellow Submarine, di George Dunning divenne immediatamente un cult-movie d’animazione. Gran parte del suo successo è da attribuire al valore dello staff coinvolto nella produzione del film: il designer heinz Edelmann (art director), George Martin (direttore della parte musicale), lo scrittore Lee Minoff (sceneggiatore), l’autore di Love Story (Id., 1970) Erich segal (sceneggiatore), l’animation director Bob Balser (sue le future animazioni dei Jackson 5 e dei Peanuts), il fondatore di TV Cartoons, John Coates (production supervisor). Per offrire la voce ai personaggi del film non vennero convocati i Beatles, ma alcuni dei migliori caratteristi e attori britannici: John Clive, voce di Lennon e protagonista nei film The Italian Job (Un colpo all’italiana, 1969); Geoffrey hughes, voce di McCartney e volto della serie televisiva Coronation Street; e Paul angelis, voce di Ringo starr 9
Ibidem.
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e del capo dei Blue Meanies, nonché protagonista di film come For Your Eyes Only (agente 007 – solo per i tuoi occhi, 1981). La lavorazione del film coinvolse una quarantina di animatori e circa centoquaranta tecnici: Yellow Submarine – il cui sottotitolo è Nothing Is Real, verso preso a prestito dal testo della canzone Strawberry Fields Forever – divenne un’autentica pietra miliare dell’animazione sperimentale e del concept grafico, iconico e pittorico degli anni sessanta. Il 1969 fu l’anno in cui si consumò lo scioglimento effettivo dei Beatles, sancito solo nel 1970 da una comunicazione ufficiale. L’anno fu caratterizzato dalla pubblicazione del disco-capolavoro Abbey Road, ma si aprì, in realtà, con una proposta avanzata da Paul McCartney, ormai divenuto manager in pectore della formazione. salutato con interesse da John Lennon, approvato pigramente da Ringo starr e immediatamente bocciato da George harrison, il suggerimento consisteva nel portare nuovamente in scena i Beatles in versione live, proprio come ai tempi del Cavern Club di Liverpool e dello star-Club di amburgo10. Intitolato Get Back (“ritorno agli esordi”, appunto), questo progetto si basava sulla riproposizione di quelle canzoni che erano state al centro della crescita musicale del gruppo. Le prove, le registrazioni e il live conclusivo dell’intero progetto sarebbero state testimoniate da un film documentario diretto da Michael Lindsay-hogg (regista di Two of Us, citato all’inizio del presente saggio) da trasmettere sulla TV inglese e statunitense. Il lungometraggio, intitolato Get Back, avrebbe portato nuovamente i Beatles all’attenzione del grande pubblico. L’intero film doveva, nelle intenzioni originarie, culminare con le riprese di un mastodontico live in uno dei luoghi preferiti dai Fab Four: un antico anfiteatro greco, la Roundhouse di Londra, una nave in viaggio sull’oceano, la cattedrale di Liverpool, il deserto del sahara, il London Palladium o l’anfiteatro romano di Tripoli. Per tagliar corto e portare a termine il progetto Get Back, i Beatles scelsero di tenere un concerto a sorpresa il 30 gennaio 1969 sul tetto della loro casa discografica apple, nella strada londinese savile Row. Il “concerto sul tetto” si trasformò nell’ultima occasione in cui i Beatles suonarono insieme durante un live pubblico: una quarantina di minuti in una fredda mattinata d’inverno per chiudere la carriera del gruppo più amato della storia del rock… 10
Ivi, p. 351.
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Il progetto si arenò penosamente, nonostante fossero state realizzate lunghe riprese video delle tante prove effettuate dai Beatles presso i Twickenham studios di Londra, con il supporto dell’organista Billy Preston. «alla fine è stato realizzato un documentario, con le imperfezioni e tutto. […] abbiamo scelto la musica e si è trattato di un album onesto, quello che loro volevano. Ma è rimasto fermo per molto tempo perché il documentario sembrava non piacesse a nessuno con tutti quegli errori»11, avrebbe ammesso il produttore George Martin. L’album e il film-documentario che nacquero da questa esperienza videro la luce oltre quindici mesi più tardi e accompagnarono lo scioglimento ufficiale della band: il progetto venne ribattezzato Let It Be, e dell’originario titolo Get Back rimase solo l’omonima canzone, apparsa su 45 giri nell’aprile 1969 e inserita nuovamente – in una versione diversa – nell’album Let It Be del maggio 1970. Il film – a metà strada tra il rockumentary e il reality show – conquistò un Oscar nel 1970 nella categoria Migliore Colonna sonora Originale; fu l’unica statuetta dell’academy award vinta dal quartetto. Un addio al cinema degno delle star hollywoodiane: niente male per quattro musicisti di Liverpool!
11
Ibidem.
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I PINk FLOYD: La MUsICa, IL PaLCO, La VITa, IL CINEMa, IL MURO di Giandomenico Curi
I light show Le prime recensioni dello spettacolo dal vivo Psychodelphia Versus Ian Smith1, a cui parteciparono anche i Pink Floyd il 3 dicembre 1966, parlano di «diapositive piene di colori, inquietanti, belle e grottesche insieme»2. Immagini che si mischiano con il suono promettente della band, che attirano l’attenzione del pubblico più della band, in un crescendo sorprendente dove le immagini man mano «si fondono, fioriscono, esplodono, spariscono»3. Prima alla Roundhouse, poi al Commonwealth Institute, dove durante uno spettacolo di “Music in Color”, Mark Boyle fa colare delle sostanze gelatinose tra due placche di vetro che poi proietta su un grande schermo dietro la band. Nick Mason, batterista del gruppo inglese, ricorda una serata all’università di Essex con un tipo che aveva messo a punto un sistema di proiezione sincronizzato con la musica. Una vera rivoluzione. L’inventore si chiamava Joe Gannon, subito arruolato dalla band. «È allora – dice Mason – che il periodo psichedelico è veramente cominciato»4. Ci sono molte immagini di quel periodo, confuse e di pessima qualità,
1 Il 3 dicembre 1966 i Pink Floyd presero parte ad un concerto in favore del popolo della Rhodesia del sud (oggi Zimbawe) e contro la politica razzista del Governatore Ian smith. L’evento si svolse alla Roundhouse di Londra. 2 In Nick Mason, Inside Out. A Personal History of Pink Floyd, Weidenfeld & Nicolson, London, 2004. 3 sono parole del «New Musical Express», riprese in Gianfranco salvatore (a cura di ), Pink Floyd The Wall. Rock e multimedialità, stampa alternativa, Roma, 2005, pp. 53-54. 4 Intervista a Nick Mason apparsa in: «Disc and Music Echo», 25 marzo 1967.
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a parte forse la sequenza di Peter Whitehead5 girata all’UFO Club di Tottenham Court Road; quella di Interstellar Overdrive, della maglietta a strisce e dei famosi occhi spiritati di syd Barrett. I Pink Floyd hanno sempre cercato un rapporto con l’immagine, con la visione, con il cinema, con qualcosa che aiutasse la messa in scena e la comprensione della loro musica, non esattamente facile o commerciale. Da qui tutta una serie di tentativi nella direzione dei mixed media. E mentre la loro musica metteva da parte gli standard del blues per spostarsi verso esecuzioni in forma libera, fatte di lunghe improvvisazioni distorte e ipnotiche, i loro tecnici mettevano a punto un progetto integrato di suoni e visioni, da realizzare attraverso un uso creativo dei proiettori, delle diapositive, del colore, delle luci strobo sparate sul palco e sul pubblico. siamo in piena psichedelia, e i Floyd cercano con ostinazione questo rapporto con l’immagine, con la sperimentazione visiva, con il cinema.
Zabriskie Point E il cinema arriva subito dopo, prima sulla colonna sonora di un film ormai introvabile, The Committee (1968) di Peter sykes sul tema del totalitarismo e del controllo delle masse (opera oscura, kafkiana, con lampi di dadaismo e surrealismo); e subito dopo c’è l’incontro con antonioni per un film fondamentale, Zabriskie Point (Id., 1969). Una storia un po’ squilibrata sul destino dell’uomo, ambientata in un paese simbolo come l’america, con al centro l’idea forte del deserto e della depressione (la modernità americana), che solo una nuova generazione di ribelli può restituire alla vita, attraverso le forme dell’invenzione creativa e visionaria, attraverso l’amore come liberazione, fuori dal grande meccanismo del consumo. È chiaro che in una storia del genere è fondamentale il rapporto con la visione, e soprattutto con la musica, l’unica in grado di dare alle immagini quel valore amplificato che le rende comunque potenti, fuori dal tempo. Ed è ancora la musica psichedelica, soprattutto quella dei Floyd, che funziona, e che garantisce al film uno dei finali più belli della storia del cinema: un pezzo apocalittico, Come in Number 51, Your Time Is Up – variazione di Careful with That Axe Eugene. È 5
La sequenza a cui si fa riferimento è inserita nel documentario di Peter Whitehead, Tonite Let’s All Make Love in London (Id., 1967).
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la scena dell’esplosione della villa, resa straordinariamente dalle chitarre e dalle voci distorte dei Pink Floyd che ipnotizzano lo spettatore con una sospensione tra il religioso, il filosofico e lo psichedelico, da fine millennio. È l’universo del benessere che va a pezzi, consumato a rallentatore da 17 macchine da presa. Un finale potente, sognante e cinico al tempo stesso, utopico e cupo, tragicamente futuristico, da guerra nucleare. Ci sono qui già una serie di tematiche che saranno poi presenti nella musica e nei testi dei Pink Floyd. a cominciare dall’opposizione centrale tra vita e morte, o più freudianamente tra Eros e Tanatos. Infatti l’altra scena famosa, ma questa volta con la musica di Jerry Garcia, è quella della valle dell’amore, delle mille coppie nude sparse a fecondare il deserto. Qui, nel finale, c’è morte e apocalisse. Ci sono le urla selvagge e folli di un isterico e scatenato Roger Waters, che sembra “esplodere” insieme ad antonioni, e decollare con quella pioggia di fumo e fiamme, di prodotti della civiltà del consumi, libri, macchine, cibi in scatola, vestiti, elettrodomestici, macchine da scrivere e televisori. Una disintegrazione-distruzione che rimanda al crollo del muro di The Wall e di cui si ricorderà Polanski nel clip di Vasco Rossi, Angeli.
I film di schroeder: More e La vallée Barbet schroeder era un allievo di Godard, e forse proprio questo coté intellettuale alla fine aveva convinto i Floyd ad accettare di realizzare la colonna sonora di More (More – Di più, ancora di più, 1969). In realtà avevano tutti una gran voglia di occuparsi di cinema, anche per uscire dal solito giro inglese dei concerti tutti uguali e da una crisi produttiva che cominciava a farsi sentire. «I film – ricorda infatti Richard Wright, il secondo Floyd che se ne è andato, dopo la scomparsa di syd Barrett l’anno scorso – sembravano la migliore risposta ai nostri problemi di quel periodo. sarebbe stato bello fare un film di fantascienza, anche perché allora la nostra musica si muoveva esattamente in quella direzione»6. E a proposito di fantascienza, è noto che uno dei più grandi rimpianti di Roger Waters è quello di non aver fatto la colonna sonora di 2001: a Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) di kubrick, 6
In: Rick sanders, Pink Floyd, Futura Publications Limited & Weidenfeld & Nicols, London, 1976.
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che tra l’altro, soprattutto nella parte finale ha un suono decisamente floydiano. In realtà l’esperienza di More non fu, almeno all’inizio, esattamente esaltante. «Era un lavoro su commissione. – Ricorda Gilmour – arrivi in studio senza niente, e lavori finché non esce un po’ di musica giusta. Metti giù delle cose e chiedi se va bene. Poi ci lavori un po’ sopra. Non è come quando fai musica per te stesso. È più veloce, più a tirar via»7. Tutto cambia quando interviene la Emi che trasforma quell’impegno in uno preciso progetto discografico. Un film sulla droga, girato tra la Germania, Parigi e Ibiza, ambizioso e pericoloso. Un film sulla fuga, l’alienazione, la marginalità, la ricerca dell’assoluto, con dentro la storia drammatica di due innamorati tossici. Una denuncia che tuttavia si perde nell’ambiguità “poetica” con cui sono presentati i vari personaggi. «Non è né un film sulla droga né un film sui giovani. – spiega schroeder – Il mio film è la storia di una passione nella quale uno dei due è incapace di amare perché la sua passione non è corrisposta. Io non sono contro la droga, non è che si può fare un film a favore dell’eroina. L’eroina è un viaggio di morte»8. E ogni tappa di questo viaggio è accompagnata dalla colonna dei Pink Floyd. Una musica sempre giusta, funzionale, discreta ma presente e ben riconoscibile, che si incolla esattamente alle immagini e allo spirito del film. Una musica che segna esattamente la perdizione progressiva dentro i labirinti del sesso, della follia, della tossicodipendenza. «I Pink Floyd – continua schroeder – hanno composto una musica perfetta, ideale. hanno trovato un elemento magico fantastico, e soprattutto il senso dello spazio. È veramente una musica completa, non delle semplici canzoni»9. Tre anni dopo, nel 1972, esce La Vallée (Id., 1972) ancora un film tra documentario e fiction, tra antropologia e assoluto, sempre con gli hippies protagonisti (ma in una chiave più chic ed esotica). E questa volta si tratta di un viaggio nella foresta della Nuova Guinea, alla ricerca di una specie di paradiso perduto, appunto la valle degli dei. Ma il film non cammina, gira a vuoto, nonostante la presenza di Jean-Pierre kalfon e Bulle Ogier, e l’evocazione suggestiva di Carlos Castaneda e della sua erba del diavolo. E nonostante la presenza dei Pink Floyd,
7
In Nick Mason, Inside Out. A Personal History of Pink Floyd, cit. Ph. Paringaux, Entretien avec Barbet Schroeder, «Rock & Folk», n° 32, settembre 1969. 9 Ibidem. 8
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che spingono fuori dalle immagini una colonna sonora che sicuramente conta più del girato: musica spaziale, rivoluzionaria, mistica, planante, drammatica. anche qui grande presenza della chitarra solista di David Gilmour, così come della sua voce. Diventerà un disco di successo, Obscured by Clouds, dal titolo del primo solco della facciata a, che per anni sarà l’apertura dei loro concerti (oltre che del film).
The Body e Rollo The Body (Id., 1970) è invece un curioso documentario sulla “biologia pop” diretto da Roy Battersby. Un film che vede lavorare insieme Ron Geesin, già pianista di jazz, e Roger Waters, il bassista dei Floyd più che mai affascinato dalle storie improbabili e dalla musica per il cinema. Un documentario scientifico e acido, intelligente e divertente, con la voce narrante affidata a Vanessa Redgrave, mentre in colonna sonora Geesin e Waters mischiano di tutto: pop e classico, ma anche “biomusica”, compresa una serie di suoni fatti con il corpo umano (respiri, risate, sussurri, ritmi delle mani e dei piedi, scoreggine e via rumoreggiando). Nel finale c’è anche un brano, Give Birth to a Smile, che vede schierati tutti i Pink Floyd (non accreditati). Ma c’è un altro film che va qui ricordato, anche se il progetto poi non andò a buon fine. Più che un film, una vera e propria serie di cartoni animati, decisamente curiosa e interessante, su cui il gruppo aveva incominciato a lavorare all’inizio del 1970, e che doveva intitolarsi Rollo, dal nome del protagonista. sceneggiatore e regista doveva essere il grande alan aldridge, quello che aveva illustrato il libro con i testi dei Beatles. «Era una storia magnifica. – Ricorda Roger Waters – L’idea base era che c’era questo ragazzo, Rollo, che sta a letto, e comincia a sognare. Non si capisce bene... O forse è tutto vero. E all’improvviso il letto si sveglia, e ne escono due occhi, mentre anche le gambe cominciano a crescere sotto. E poi vediamo che il letto salta fuori dalla casa e si mette a correre per la strada, con dei movimenti di ripresa fantastici. E alla fine vola in cielo. E quando ci arriva, la luna si sta fumando un grosso sigaro, che ben presto si trasforma in un’astronave. Niente, poi c’è un amico di Rollo, il Professor Creator, con il suo cane robot, che lo accompagna in una serie di avventure folli, fino alla vittoria finale dei tre contro una nuova razza di giganti scavatori di gallerie...»10. 10
In: Nicholas schaffner, Pink Floyd, lo scrigno dei segreti, arcana, Roma, 2002, p 167.
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Del film è rimasto solo uno storyboard geniale, realizzato da un gruppo di disegnatori olandesi, e niente più.
Pink Floyd a Pompei altro film fondamentale e leggendario, quello realizzato dai Pink Floyd e dal regista adrian Maben nel 1971, in Italia, all’interno degli scavi di Pompei: Pink Floyd: Live at Pompeii (Pink Floyd a Pompei, 1972) appunto. Un set magico e una fotografia fantastica. Merito dei due direttori della fotografia, Willy kurane e soprattutto Gabor Pogany, italiano di origine ungherese. Il risultato è una vera e propria performance alta, un sogno floydiano che miracolosamente riesce a legare lo spirito della storia pompeiana (la magia e l’essenza del luogo) a quello della “musica concreta”, psichedelica e funambolica del gruppo inglese. Dopo una serie di inquadrature fisse a raccontare le strade e le rovine di Pompei, la prima immagine che ci riguarda è un totale dall’alto che abbraccia il piccolo anfiteatro circolare, con i preparativi, la band, i tecnici, gli strumenti, le pedane, i camion, i proiettori. Una musica elettronica e battuta che cresce, i titoli di testa, e il lettering della prima canzone, celeste su nero, Echoes Part I. Zoom a stringere dello stesso totale, la band che sta già suonando, la troupe, i binari del carrello che attraversano tutto lo spazio. Poi il canto, reso attraverso un montaggio di primi piani di facce di pietra alternati ai primi piani dei due cantanti della band, Waters e Gilmour. Il secondo brano, Careful with That Axe Eugene, parte con il primo piano enorme e impressionante di un antico mosaico che rappresenta una strana faccia, a metà tra un teschio e una scimmia. Poi in esterni, di notte, con la band più compatta, raccolta sotto i riflettori, spesso in controluce. Lo stesso controluce che accompagna i quatto Floyd, di giorno, mentre viaggiano nei dintorni di Pompei, tra mare, rocce e discese desertiche. Poi il ritmo diventa più drammatico e la musica più intensa: prepara la grande immagine dell’eruzione del Vesuvio. La batteria di One of These Days I’m Going to Cut You into Little Pieces si compone a stacchi veloci, a sinc, come seguendo la follia di un bambino. E quando il brano è finalmente decollato, ecco un dolly lento e potente che si alza sulla band e l’intero set, davanti ad una luce incredibile, a cavallo tra il tramonto e la notte. E la notte, insieme a Mason il batterista, diventa l’altro protagonista di questa sezione. La notte che decide spazio e luce, che taglia il tempo, inseguita da
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una batteria micidiale, che viaggia tra le mitragliate del rullante e le esplosioni in controluce di un gigantesco gong. Con A Saucerful of Secrets si ritorna al pieno sole, la luce che gioca con gli strumenti, ora allegra e ballerina, ora improvvisamente drammatica. sono ancora le percussioni, basso e batteria, a decidere ritmo e immagini. solo verso il finale ritorna la calma delle tastiere e la visione alta di Pompei con i suoi confini lontani. Ma le ultime immagini sono tirate da un carrello velocissimo, stretto, da mal di mare, alla spike Lee. La notte ritorna con Set the Controls for the Heart of the Sun. Ci sono i quattro Floyd al centro circondati da un mare di luce. E c’è un carrello circolare, lento e sfondato dai proiettori, che va man mano a sovrapporsi a un canto leggero, a metà tra il lamento e la cantilena. Le pause improvvise di vento sono invece affreschi pompeiani che sembrano arrivare da chissà dove, dal Tempo e dal buio, nudi, mostri, facce e dettagli che si integrano perfettamente con la musica e i primi piani dei Pink Floyd. Dopo la breve sequenza di Mademoiselle Nobs (quasi una ninnananna lacerata dalle urla di un cane randagio), la chiusura con Echoes Part II, che in qualche modo, dolcemente e impercettibilmente, ci riporta alla situazione iniziale, chiudendo il giro con lo stesso, perfetto, totale dall’alto. Una montagna di immagini e suoni che lasciano il segno. E sarebbe interessante tentare un’analisi dal punto di vista della semiologia. Penso in particolare all’uso insistito del carrello (la sua inesorabilità, la sua sacralità); mentre a livello di griglia tematica c’è un rapporto profondo con il passato, il mito, l’aldilà, i fantasmi, la morte, l’eruzione vulcanica. Comunque un film straordinario, tra i più visti nella storia del rock movie, forse perché quella musica corrisponde ai demoni, ai sogni e agli incubi degli anni settanta, agli stati d’animo dei ragazzi che hanno scelto una marginalità più dolce, psichedelica, viaggiante.
The Wall, syd, la rockstar, il palco Intanto (dopo la metà degli anni settanta) il gruppo ha cominciato a lavorare sul grande progetto di The Wall. Operazione complicata e complessa, costosissima, che fin dall’inizio prevede una serie di grandi eventi incastrati nel tempo: il disco, lo spettacolo live, il film. Un progetto impegnativo, ambizioso, che deve fare i conti con la fama internazionale della band, con il grande mercato discografico, ma an-
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che con i sentimenti e le storie personali, da quella di Roger Waters a quella ancora più dolorosa di syd Barrett, il “diamante pazzo” e geniale che da tempo ha lasciato il gruppo, sempre più distrutto dalle droghe e dalla follia. Ma la sua è una presenza forte, un’immagine inquietante che ritorna spesso a mettere in crisi il successo miliardario e la gloria della band. Una storia pesante e ossessiva, che ancora dura, nonostante siano passati più di dieci anni dal suo allontanamento. «Probabilmente syd è lo stesso degli ultimi anni. – Dice Richard Wright in una intervista del 1978 – Una persona molto strana. Non lo vedo da molto tempo. L’ultima volta è stato quando abbiamo registrato Wish You Were Here. Lui si presentò improvvisamente. Non so cosa gli passi per la testa perché praticamente non parla. È molto triste perché non è in grado di entrare in rapporto con gli altri. Non è un vegetale, comunque. Il suo cervello è saltato, ma funziona su un piano diverso. È letteralmente su un altro pianeta. Non so come sia successo. sì, c’entrano le droghe, ma le droghe non causano cose del genere. sono soltanto un catalizzatore. Le cause devono essere dentro, dentro le persone. Ci sono esempi di persone che, pur facendosi di acido tutti i giorni, ne sono uscite bene. so che syd ne prese un casino, ma sono convinto che se anche non si fosse drogato, si troverebbe nelle stesse condizioni in cui è ora»11.
Proprio il personaggio di syd (la sua figura di rockstar maledetta, il suo culto, il successo e la “pressione” che cerca di arginare con le droghe) ci introducono nel rapporto difficile e contraddittorio tra la rockstar e il suo pubblico. Ci fanno salire su quel meccanismo micidiale che è il palcoscenico, dove questo incontro avviene e si consuma. Perché è da lì che nasce prima di tutto The Wall, come ha raccontato più volte Roger Waters. E come racconta un brano famoso, all’inizio della stessa opera, In the Flesh? È da qui che comincia tutto, da questo brano d’apertura, il cui titolo rimanda direttamente alla tournée dei Floyd del 1977. È dalla gente “orrenda” di quel tour che, dice Waters, è nata l’idea di The Wall. Un’immagine forte, legata da vicino all’iconografia “rocchettara” (l’apertura dei cancelli con i fans che se si precipitano nello stadio per occupare i primi posti), ma che qui sconfina subito in quella della guerra. Per Waters sono infatti due universi vicinissimi: i fans del film e i soldati in guerra. Più naturalmente il pubblico vero che sta nella sala cinematografica. 11
In: Mike Watkinson e Pete anderson, Syd Barrett. Il diamante pazzo dei Pink Floyd, arcana, Roma, 1992.
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«Volevo fare dei paragoni tra i concerti rock e la guerra – dice Waters – Mi pare che gli spettatori di queste enormità amino farsi trattare malissimo… […] Il copione originale prevedeva addirittura un pubblico di concerto rock che viene bombardato…e, mentre vengono fatti a pezzi, applaudono, e si godono ogni minuto. Come idea non era male, ma farlo per davvero sarebbe sembrato gratuito…»12.
Un pubblico alienato, distratto, che pensa solo a bere e a far casino, e non gliene frega niente della musica. Un pubblico che Waters non sa e non può più controllare, che odia, così come odia se stesso perché ha accettato di mettersi in quella situazione, facendo il gioco del grande mercato della musica che alla fine specula sul malessere di tutti. Vittima e carnefice allo stesso tempo, una volta entrata in questo gioco micidiale e mortale, la rockstar è condannata a ripeterlo all’infinito, sacrificando la sua creatività e soprattutto la sua identità. L’unica uscita è la follia o il suicidio. E il muro rappresenta l’uno e l’altra. Rappresenta l’isolamento totale, cioè una forma estrema di autodistruzione. E se Pink decide di costruire un muro proprio sul palcoscenico è perché Waters ha capito che la vera arma del potere che vuole massificare l’umanità è appunto lo spettacolo, la messa in scena, l’esposizione, le luci puntate in faccia.
Pink Floyd dietro il muro e il live di Berlino Prima di affrontare Pink Floyd-The Wall (Id., 1982) il film di Parker del 1982 che segna il momento finale e più alto di tutto il cinema dei Pink Floyd, è utile dare un’occhiata a un paio di film televisivi, che aiutano a capire meglio tutta l’operazione The Wall. Il primo è un documentario per la regia di Bob smeaton, e che si intitola Pink Floyd Behind the Wall (Id., 2000). Un film che ci porta direttamente dietro le quinte dell’intero progetto del muro: il disco, lo show di Earl’s Court, il video, il film di Parker. Un’avventura complessa che dura dal 1979 al 1982, e che viene qui raccontata da un po’ tutti i protagonisti: i quattro Pink Floyd, ma soprattutto Roger Waters, e ancora i responsabili tecnici dello spettacolo (Fisher e Park), il disegnatore e regista di cartoni animati Gérald scarfe, il regista del film alan Parker e il protagonista, Bob Geldof. si comincia dall’inizio, 12
Mick Brown e kurt Loder, Behind the Wall, «Melody Maker», 2 agosto 1980, poi in Nicholas schaffner, Pink Floyd, lo scrigno dei segreti, cit., p. 246.
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dall’idea centrale di quello spettacolo unico nella storia del rock: alzare cioè un muro, vero, tra la band sul palco e il pubblico in sala. Le immagini naturalmente sono quelle famose dello show dal vivo, messo in scena a Londra nel 1980, a Earl’s Court. allora i Pink Floyd erano decisamente i più grandi del giro del rock progressivo e psichedelico. Parte In the Flesh?, mentre Gilmour comincia il viaggio all’indietro, alle radici “mistiche” del suono dei Floyd, cioè alla psichedelia pura. E quindi uno dei loro primi clip, The Scarecrow, spaventapasseri in un campo di grano con i quattro (c’è ancora Barrett) che impazzano con i loro vestiti colorati e sbrindellati. Mason racconta invece la nascita dei Floyd come college band, nel 1965: lui, Waters, Wright e Barrett. Una band molto londinese anni sessanta, con un suono psichedelico, esoterico, una band arrogante, che non vuol fare 45 giri, ma solo lunghi brani improvvisati. «scatenavano le stesse pulsioni che derivavano dall’assunzione di droghe», dice nel documentario di smeaton, Mark Fisher, responsabile della scenografie e delle luci dei loro live show. Eppure nessuno si droga all’inizio, a parte syd Barrett. Barrett, la “testamatta”, già al secondo album “costretto” ad abbandonare il gruppo, distrutto dall’acido lisergico e da una forma gravissima di schizofrenia. al suo posto c’è David Gilmour, e la musica prende altre strade. Ma torniamo al muro. Il muro che diventa teatro, grande segno visivo. «Doveva essere una sorta di architettura in movimento, lo spirito di un’epoca», ricorda (sempre nello stesso documentario) Mark Fischer, responsabile con Jonathan Park della parte tecnica. E così è stato, per ventinove spettacoli. The Happiest Days of Our Lives, con il grande pupazzo che dal palco vola verso la gente, apre invece il capitolo dedicato a Gerald scarfe, che nello spettacolo si occupa delle animazioni proiettate sul muro, ma anche dei personaggi gonfiabili come la Mamma, la Moglie, l’Insegnante. E il muro si trasforma di nuovo in una sorta di spettacolo concettuale, che mescola musica, arte, teatro, architettura spaziale, in una sorta di icona in movimento. Poi, dopo Goodbye Cruel World, di colpo il muro si chiude del tutto, e si accende la luce in platea, con la gente che non capisce bene cosa stia succedendo. Fine della prima parte, e il microfono che torna a Waters e a Wright per raccontare, ognuno dal suo punto di vista, lo scontro che li vede protagonisti proprio nel periodo della preparazione di The Wall. Ma i rapporti tra i membri dei Pink Floyd sono ormai disastrosi. Non è un caso allora che il tema centrale dell’opera sia proprio quello della comunicazione, della difficoltà a dialogare. Ma comunque The Wall funziona, la storia, la musica un po’ più ruffiana, i
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testi, le animazioni e i pupazzi giganti di scarfe, dalla scena dei martelli che marciano a quella dei due fiori che fanno l’amore. soprattutto la sequenza dei martelli ha un effetto incredibile, rende perfettamente l’oppressione del testo, feroce e inesorabile, con i manici che diventano gambe in marcia e alle fine plotoni di nazisti che avanzano. Immagini e canzoni hanno un effetto incredibile sui ragazzi: Another Brick in the Wall (Part 2) diventa un brano di protesta, uno slogan, «hey, teachers, leave the kids alone!». Tutto questo succede nel Natale del 1979, dopo che Margaret Thatcher è appena stata eletta Primo Ministro in Gran Bretagna, e la canzone diventa l’inno di chi non vuole avere nulla a che fare con lei e la sua politica. anche in seguito a questo successo si decide di fare il film. a lavorarci sono soprattutto Waters, il regista alan Parker e scarfe che inizialmente avrebbe dovuto firmare anche la regia. Per la parte del protagonista, Pink, si cerca un attore carismatico, che sia anche in grado di cantare. Poi arriva Bob Geldof. «Quando ho fatto il provino con lui, – racconta Parker a smeaton – la prima cosa che gli ho chiesto era se conoscesse The Wall, e lui mi ha risposto che conosceva solo quello del suo giardino». Già, perché Geldof all’inizio non ne voleva sapere, odiava i Pink Floyd, il disco e tutto; solo alan Parker, alla fine, riuscirà a convincerlo. The Wall-Live In Berlin (Id., 1990) girato da ken O’Neill, racconta invece la più incredibile esecuzione live della rock opera dei Pink Floyd, probabilmente anche più emozionante di quella all’Earl’s Court di Londra nel 1979. Perché a Berlino c’è un muro vero da cantare e da distruggere, e uno spazio enorme come la Potsdamer Platz che non ci sarà mai più. E poi perché c’è un cast incredibile, come non sarà più possibile mettere insieme. Dunque grande evento storico, e non solo della musica, ma della storia vera, quella che cambia il mondo. In questo caso la fine di un muro (avvenuta un anno prima, nel luglio del 1989), che per anni aveva diviso l’Europa in due. E il concerto è la messa in scena di un’opera di grandissima suggestione che racconta pericoli e tragedie dell’animo umano quando diventa vittima della sua stessa sete di potere, oltre che della follia del mondo. Un incubo di quasi due ore, che incrocia una musica potente, cupa, gotica, con una teatralità naif quanto terrificante. C’è naturalmente la sovrapposizione del crollo del muro, quello dei Floyd e quello vero di Berlino, che diventa il centro e l’anima dello spettacolo. Ma per il resto la storia resta la stessa, nel senso che se anche crollano i muri, le difese assurde che circondano gli individui restano in piedi, soprattutto
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quelle costruite sull’angoscia di un’infanzia di guerra e mai accettate, metabolizzate, superate. In più qui c’è una tecnologia stupefacente, coniugata con una creatività al limite del delirio e della follia. Basta pensare allo sconfinato muro di mattoni costruito man mano tra la musica e la gente, e poi fatto a pezzi a fine spettacolo. E ancora l’orchestra e il coro dell’armata Rossa, l’animazione spaventosa, gli stukas in picchiata, il maiale-mongolfiera, le proiezioni sul muro diventato schermo, i nazisti che sfilano, le torce, le croci. E, naturalmente, i grandi momenti musicali: l’apertura fulminante degli scorpions, la doppia esecuzione di Another Brick in the Wall, la seconda affidata al corpo di folletto e alla voce sbarazzina di Cindy Lauper, l’apparizione di Thomas Dolby vestito da clown con pianola a tracolla, The Band (con fisarmonica) e sinead 0’Connor per l’esecuzione straziante di Mother, e quella non meno suggestiva e magistrale di Joni Mitchell per Goodbye Blue Sky. E ancora Brian adams, Marianne Faithfull, Jerry hall e Van Morrison.
Pink Floyd-The Wall di alan Parker II film Pink Floyd-The Wall di alan Parker è stato presentato in anteprima al 35° Festival di Cannes il 22 maggio 1982, a mezzanotte. Dice alan Parker: «Il film ricorda la storia di un uomo che ritrova, nel fondo della memoria, un viaggio nella sua follia. E durante questo viaggio lo incontriamo in diverse età della vita. Un uomo, però, che costruisce come un muro attorno ai suoi sentimenti, un mattone oggi uno domani. E questo muro lo separa sempre di più dal mondo che lo circonda. Un muro immaginario fatto di mattoni immaginari. suo padre è morto nella battaglia di anzio, durante l’ultima guerra; lui quindi non lo ha mai conosciuto: prima pietra. E sua madre ha voluto compensare questa mancanza, questa assenza, con un amore che lo soffoca: seconda pietra; e così via. Roger Waters erano anni che voleva tirare fuori un film dall’album, ma non sapeva come farlo. Un giorno ero alla EMI di Londra, e qualcuno dei responsabili mi disse che erano interessati a fare un film su The Wall, un album al primo posto in Dio sa quanti paesi. Promisi di mettermi in contatto con Waters, e finalmente ci sono riuscito. all’inizio io volevo solo informarlo di questo interesse da parte della EMI, e dirgli chi evitare dell’industria cinematografica. Gli dissi anche che non aveva bisogno di altri sceneggiatori. Doveva essere lui l’unico scrittore. Io mi ero già interessato ad altri progetti di rock movie, e mi ero reso conto
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che le intenzioni originali dei creatori spesso si perdevano attraverso questo processo. Una storia esemplare è stata quella di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Il mio consiglio a Waters fu di non scrivere una sceneggiatura convenzionale, ma di seguire le linee narrative dell’album: così è nato The Wall. Raccontare una storia solo con la musica è stato abbastanza difficile. Una storia molto dolorosa. Ma al dolore di Waters ho aggiunto un po’ della mia rabbia. Quest’opera appartiene a tre persone: a me, a Roger e a Gerald scarfe. Infatti un elemento chiave del film sono i venti minuti di cartoni animati di Gerald scarfe. I cartoni animati hanno, nell’economia del film, il ruolo di metafore che contraddistinguono certi avvenimenti della vita del protagonista in chiave simbolica, surreale»13.
La struttura del film Prima di entrare nell’analisi del film, è utile delineare velocemente quella che è la struttura dell’apparato temporale e testuale. Una struttura articolata in cinque blocchi. Il primo blocco va dall’inizio fino a tutta l’esecuzione di In the Flesh? siamo sul piano della realtà e del presente. Il secondo blocco va da The Thin Ice a Another Brick in the Wall (Part 2). Il piano temporale è quello del flashback (una serie di immagini e brani, più o meno relative all’infanzia e all’adolescenza, che raccontano le cause del deterioramento mentale di Pink (padre, madre, scuola). Il terzo blocco va da Empty Spaces a Goodbye Cruel World. Il flashback riguarda ancora i guasti psico-fisici della rockstar mentre si trova in tour (eccessi sessuali, crisi matrimoniale, paure, follia). Il quarto blocco va da Don’t Leave Me Now a Run Like Hell. si torna al tempo reale, presente: il racconto è quello della crisi terribile della rockstar. Il quinto blocco va Waiting for the Worms a Outside the Wall. Cioè il processo e la liberazione finale.
Il primo blocco Dal nero assolve lentamente il totale di un corridoio d’albergo. Un’immagine potente, strana, quasi da ghost hotel. Con la stessa lentezza innaturale arriva una musichetta anni Cinquanta, The Little Boy That Santa Claus Forgot, cioè il ragazzo dimenticato da santa Claus. È 13
Intervista ad alan Parker a cura di Marcel Martin in: «La revue du cinéma», n° 376, ottobre 1982.
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tenuta a un volume molto basso, come arrivasse chissà da dove o da quale passato. La canzoncina, cantata da Vera Lynn (una cantante di moda negli anni Quaranta e Cinquanta), racconta di un Natale un po’ strano, e di santa Claus che non tratta i bambini allo stesso modo. Un carrello in avvicinamento, e sul fondo la donna delle pulizie. Un aspirapolvere enorme, in primo piano, metafora veloce e appena accennata del “vuoto” che circonderà la vita del protagonista. Nero. E i titoli di testa, rossi. La fiamma di un fiammifero Lions accende una lampada a petrolio. Poi il primo piano di un uomo sulla quarantina. È il padre di Pink che si sta preparando a combattere i nazisti. Parte, profondo e turbante, il canto della prima strofa di When the Tigers Broke Free (Part 1). «È successo poco prima dell’alba di un triste/Mattino dell’anno 1944»14. Una canzone cantata da Roger Waters che parla di guerra e di morte. Le tigri del titolo sono i tanks tedeschi che bombardano anzio, e «quel piccolo centinaio di vite ordinarie» sono soldati inglesi qualsiasi, come il padre di Pink, tutti morti. Dissolvenza sul totale enorme di un campo da rugby in controluce, e un ragazzo che corre verso lo spettatore. all’orizzonte un’unica grande porta a forma di “h”. Intanto la macchina da presa comincia a raccontare un altro uomo chiuso in un’altra stanza, molti anni dopo. È Pink da grande, cioè Bob Geldof, rockstar in crisi, immobile in una stanza d’albergo a Los angeles. Il braccio, la mano, la sigaretta tra le dita ormai incenerita (una cosa tipica di syd Barrett), poi a scoprire la faccia, un televisore acceso. Il primo piano, poi dentro all’occhio (e nella testa, nel cuore, nelle budella) di Pink. Dissolve al nero. Di nuovo la donna delle pulizie bussa alla porta della camera. Nessuna risposta. Pink è fermo al centro della stanza, con lampada e TV. La cameriera spinge la porta. In montaggio entra un’altra porta enorme, di ferro, chiusa da una catena che qualcuno cerca di forzare. La porta cede. Un branco di ragazzi occupa l’inquadratura. E su questa uscita violenta parte anche l’intro potente di In the Flesh? che accompagna la corsa matta dei ragazzi per le strade deserte di una città di notte, subito sovrapposta alla corsa di un gruppo di soldati inglesi sulla sabbia di anzio. Combattimenti, guerra, spari, scontri tra ragazzi e polizia. Poi arresti, esplosioni, sangue. Un soldato che cade sulla sabbia, ferito a morte. E finalmente Pink comincia a cantare la 14 Questa e tutte le altre citazioni dei testi dell’album The Wall sono tratte dal booklet allegato al cofanetto in edizione limitata dei Pink Floyd, Is There Anybody Out There? The Wall Live, EMI, aprile 2000.
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strofa di In the Flesh?. È lo stesso Geldof che canta (invece di Waters), vestito da nazi: «Così/Pensavate/Di poter andare allo show». In the Flesh? definisce lo scenario per tutto il resto della storia. Mostra lo stato attuale di Pink, stabilendo una specie di corto circuito tra il Pink fascista e il Pink bambino. Perché se le parole del testo, cantate da un Geldof nazista, sono decisamente rivolte ai suoi fans esaltati, è anche vero che potrebbero essere rivolte a un bambino che sta per nascere: che sta per recarsi a uno spettacolo, che è, come dice shakespeare, “il simbolo della vita”, perché è il posto dove c’è amore, emozione, calore. Finisce il canto, riprende la parte strumentale, e anche la guerra con lo sbarco ad anzio. È lì infatti che trova la morte il padre di Roger Waters, un fatto che ha condizionato profondamente la sua vita. Il mare, le dune, l’avanzata dei fucilieri nel tentativo di evitare le bombe sganciate dagli aerei tedeschi. La corsa disperata del padre di Pink verso una trincea di fortuna. arriva la bomba e l’uccide. L’ultima immagine è il dettaglio della mano che scivola lungo il telefono, dopo un disperato tentativo di cercare aiuto. Fin qui il primo blocco. Con la messa in evidenza di alcune tracce semiologiche che ritroveremo in tutto il film: l’immagine del muro, l’infanzia infelice, la guerra e il concerto rock, l’alienazione nazista, il presente e il passato, il telefono e la TV come spie di solitudine.
Il secondo blocco stacco su un piccolo giardino di una casa inglese, con la mamma di Pink e la carrozzina. Di nuovo le immagini di anzio: morti, feriti, una jeep che passa a recuperare i cadaveri. Immagini silenziose di grande forza, con dentro citazioni di tante altre guerre inutili quanto feroci. Parker riesce a cogliere l’assoluta brutalità della guerra e insieme l’umanità calpestata delle persone, di ogni persona. Il pianoforte, poi il canto di The Tin Ice. «La mamma ama il suo bambino/E anche il babbo ti vuole bene/E il mare può sembrarti caldo, bimbo». Il primo vero flashback della canzone è in realtà una ninnananna “istruttiva” a due voci: la voce della Mamma/Gilmour e la voce della Vita/Waters. La seconda strofa ci riporta invece all’oggi, dentro la stanza dell’hotel di Pink. La macchina da presa lo cerca invano, esce fuori, lo trova al centro della piscina, le braccia aperte come in croce, in un mare di sangue. Grande pezzo, The Thin Ice, che lavora sulle due anime portanti della band, Waters e Gilmour, cioè attraverso una serie di implosioni ed
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esplosioni (tenerezza poetica e violenza fiammeggiante) che diventano anche la cifra di lettura di questa sequenza così come di tutto l’album e di tutto il film. a stacco una chiesa imbandierata, dove la mamma prega e piange, e Pink bambino gioca con un aeroplanino tra i banchi. Parte Another Brick in the Wall (Part 1). La prima canzone che evoca la metafora del muro, quello che la gente si costruisce intorno per difendersi dal mondo. Più una persona è scoperta più è vulnerabile. Quindi bisogna difendersi dalla vita, proteggersi. Lo si può fare con un muro, ma anche con la TV, l’alcol, la droga, la musica. E questa è la prima parte della trilogia di Another Brick in the Wall, quella in cui il ragazzo Pink si ricorda che suo padre è partito, è «volato attraverso l’oceano» per andare in guerra. E lo cerca, subito dopo, al parco, quando Pink prova a inventarsi il padre che non ha. E alla fine rimane da solo a dondolarsi sull’altalena, sulle note della chitarra di Gilmour. Qualche anno dopo, Pink è già un po’ più grande. si aggira per la casa. Entra nella camera di sua madre. E a questo punto riparte il brano dell’inizio, When the Tigers Broke Free (Part 2), con la cassa battuta a morto e quei suoni cupi allungati, in crescendo. «E il buon vecchio re Giorgio mandò una lettera a mia madre/Quando seppe che Papà era stato ucciso». Pink trova in un cassetto le cose di suo padre: un cappello da militare, due proiettili, la pergamena antica con cui re Giorgio comunicava alla mamma che il papà era morto. Pink con addosso la divisa militare; e poi nello specchio, accanto a suo padre, con la stessa divisa. La canzone finisce: drammatica, perentoria, feroce: «Furono tutti lasciati lì abbandonati/Molti già morti altri in agonia/Ecco come l’alto Commando Militare/Mi ha portato via mio padre». Dunque ancora della morte del padre, che diventa un po’ la fissazione di Waters, l’inizio di ogni suo trauma interiore. E la scena dello specchio una sorta di passaggio di testimone generazionale. si ritorna alla scena del giardino: la mamma, la carrozzina, il gatto. La colomba si alza in volo, e durante il volo parte l’animazione di Gerard scarfe, insieme al nuovo brano musicale, Goodbye Blue Sky, anticipato rispetto al disco. Il tema, cupissimo, è ancora quello del dolore e dei disastri causati dalla guerra. Poi cambia, quando arriva il canto: ci sono impasti vocali più leggeri e morbidi. Parla di paura, di bombe che cadono, di gente in fuga, di angoscia e di morte che ancora durano. «Le fiamme si sono spente da molto tempo/Ma il dolore rimane/addio cielo azzurro». C’è qui tutta la potenza terribile dell’animazione di scarfe. Una sequenza straordinaria, folle, barocca, tra i momenti più alti di tutto il film.
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Finita l’animazione, torniamo a Pink ragazzo e al passaggio del treno nella galleria. Un treno dell’orrore, da incubo: le fiancate dei vagoni sono popolate da mani che cercano aiuto e da facce vuote e urlanti. Fanno pensare ai vagoni piombati dei treni nazisti. Dalla nebbia emerge improvvisa la figura dell’insegnante/aguzzino/nazista che urla con la frusta in mano «stai fermo, stai zitto, non ti muovere...!»; e subito dopo, durante un consiglio di insegnanti, parte la prima strofa di The Happiest Days of Our Lives. Una canzone che ci introduce nel mondo perverso della scuola inglese, altro campo di concentramento, di repressione anche fisica di qualsiasi forma di individualità e di libertà. Dal dettaglio di una frustata sul sedere di Pink parte la famosissima Another Brick in the Wall (Part 2), cantata da Waters e Gilmour con un coro di ragazzi. Probabilmente uno dei più grandi successi rock di ogni tempo, costruita com’è su un solo accordo, ma di una forza impressionante ogni volta che la si ascolta. Un pezzo memorabile, su cui molto si è scritto, e molto anche si è polemizzato quando, al primo posto della classifica, il brano fu duramente attaccato da tutta la stampa di destra. Il tema è ancora il conformismo e l’omologazione nella scuola inglese, e sviluppa in modo più profondo e feroce il discorso iniziato con The Happiest Days of Our Lives. Ma, più che con la scuola, Waters qui se la prende semplicemente con il conformismo e l’omologazione di ogni individuo. Ed ecco di nuovo le immagini potenti di Parker e di scarfe, con i ragazzi che sfilano, marciando uno dietro all’altro, la faccia coperta dalla stessa maschera anonima e uguale. sembrano automi senza individualità, marionette senza cuore e senza sguardo, destinate al tritacarne che li aspetta alla fine del tapis roulant. Ma tutta la sequenza di Another Brick in the Wall (Part 2) è grandiosa, con immagini indimenticabili, che restano al di là della riuscita o meno del film: la marcia ossessiva, i ragazzi che escono dalla macchina ognuno “stampato” nel suo banco, la scena con labirinti e corridoi vista dall’alto, la doppia fila con il “Teacher” che urla al centro, il totale con le aule piene e scoperte, il tritacarne finale. Quindi la rivolta, accompagnata dal lungo assolo della chitarra di Gilmour, che porta alla distruzione e all’incendio della scuola stessa, con il professore che viene portato via a furor di popolo. Ma alla fine è sempre lui che vince, il professore. E la scuola.
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Il terzo blocco Il terzo blocco va da Mother a One of My Turns, passando per Empty Spaces, What Shall We Do Now? e Young Lust. Racconta, sempre in flashback, un altro pezzo disastrato della vita di Pink: i suoi problemi sentimentali da grande e insieme il deterioramento psico-fisico della rockstar mentre si trova in tour (eccessi sessuali, crisi matrimoniale, paure, follia). Mother è la canzone dedicata alla madre e alle donne in generale. Una madre talmente invadente, protettiva e angosciante da condizionare fino all’impotenza ogni futuro rapporto del figlio con le donne. si passa dal complesso di Edipo a un vero e proprio complesso di castrazione. Da qui la difficoltà di leggere, semiologicamente, la lunga sequenza che visualizza la durata di Mother. Dopo la frustrazione della telefonata alla moglie, Pink si stringe al cuscino, in posizione fetale, come da piccolo si stringeva a sua madre. sogna, ricorda, desidera. L’amore sognato e l’amore vero, la voglia e la paura del sesso, la madre che andava a cercare nel letto grande, e che una notte scopre con accanto il cadavere del padre. Tutta la canzone è costruita sull’alternanza continua delle voci di Waters/Pink e Gilmour/ Madre. È una fetta grande della sua vita che la canzone si porta dietro, rivista dalla solitudine e dall’angoscia di una stanza d’albergo. subito il discorso si allarga dalla madre alla donna in generale, dai primi sguardi morbosi dell’infanzia alla scoperta del sesso. Poi, sull’assolo di chitarra, le immagini veloci e buffe del suo matrimonio hippy, e la scena domestica in cui lui sta seduto al piano, la faccia vuota, e lei che cerca invano di attirare la sua attenzione. Primo segnale di una crisi che arriverà ben presto al fallimento. Lei se ne va con un altro. E Pink la cerca invano. alla fine torna a chiedere consiglio alla madre: «Mamma pensi che lei vada abbastanza bene per me?/Mamma pensi che sia pericolosa per me?/Mamma farà soffrire il tuo bambino?/Mamma mi spezzerà il cuore?». La risposta arriva da lontano, da un violino che accenna un valzer leggero in una scuola di ballo anni Cinquanta, e il bambino Pink costretto a ballare con una ragazzona molto più grande di lui. Ed ecco Empty Spaces. Cioè spazi vuoti. spazi che hanno a che fare con il muro, il muro che chiude ogni spazio. «Come posso completare il muro?», si domandava Pink nella vecchia versione dell’album, qui abbondantemente modificata, e legata senza soluzione di continuità alla successiva What Shall We Do Now? Chiuso il muro, Pink è separato dal mondo reale. Da lì comincia la follia vera. Ma prima la
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sequenza animata dei due fiori innamorati: il lungo balletto amoroso, la compenetrazione e la trasformazione in organi sessuali maschile e femminile, l’atto d’amore sempre più parossistico fino a che i due fiori diventano due serpenti furiosi e al posto dell’amore c’è solo odio e voglia di farsi male. Un pezzo senza speranza che porta dritto dentro l’inferno della paura, della solitudine, dell’incomunicabilità. È il volo di un uccello nero che segna i nuovi confini. Pezzi di città nascono dal nulla e diventano muro. Muro che viaggia veloce nello spazio vuoto, che inghiotte città, animali, cose, persone; che sputa fuori la faccia urlante da fantasma maledetto (diventerà l’immagine-copertina del film). segue il cantato di What Shall We Do Now?, altra song scritta appositamente per il film, animata dai disegni di scarfe. Praticamente una lista di cose che hanno a che fare con la decadenza morale e il materialismo eccessivo nella vita di tutti i giorni. Ed ecco Young Lust, che parte a sinc con un tappo di champagne che vola. C’è una festa nel backstage. E ci sono anche cinque groupies che si infilano nella zona dei camerini, pronte a tutto pur di arrivare dove vogliono arrivare. Una di loro finirà nella stanza d’albergo di Pink. si chiama Young Lust questo brano, ed è un bel pezzo di rock tirato e sincopato. Una sorta di contaminazione potente di vari generi musicali. Comunque è un pezzo che arriva come una liberazione, vitale e sensuale, dopo tutte le scene di paranoia claustrofobica che abbiamo appena visto. Un momento insomma di “lussuria giovanile”, quando uno arriva in città e ha voglia di divertirsi, tra una sbronza e un po’ di pornografia a buon mercato. Pink si è portato la ragazza in camera, ma tra i due non succede niente. Lei continua a girargli attorno, ma lui non c’è, la sua testa è dietro al fallimento della sua vita; è davanti alla TV che trasmette un vecchio film sulla seconda guerra mondiale, The Dambusters (I guastatori delle dighe, 1954), girato da Michael anderson. Un film che parla della distruzione di muri (le dighe tedesche della Ruhr), cioè l’opposto di quello che succede nel film di Parker. Ma è il momento di One of My Turns, cioè di uno dei suoi attacchi nervosi. L’incipit è di grande, lenta intensità: «Giorno dopo giorno l’amore diventa grigio/Come la pelle di un uomo che muore». Un momento di dolcezza, semplicità, sensualità. La ragazza gli prende una mano, comincia a succhiargli le dita. Lui prima niente, poi piange. È a questo punto che parte la violenza e la rabbia: Pink si trasforma in una bestia scatenata. Fino a che l’intera stanza non è ridotta a un mucchio di rovine. L’ultima cosa che sfascia è il televisore che fa volare dalla finestra, e poi il suo urlo che accompagna il verso
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finale della canzone, amplificato dalle strade deserte di Los angeles di notte.
Quarto blocco Finita la follia distruttiva (e autodistruttiva), ritroviamo Pink in piscina, mentre partono le note di Don’t Leave Me Now, la canzone più claustrofobica del disco. È una canzone, cantata da Waters, che Pink rivolge alla sua donna, pregandola di non lasciarlo. anche se poi, come vedremo, la sua è soprattutto voglia di vendetta. O di provocazione. O forse è la solita ambiguità tra amore e odio di ogni relazione sentimentale. Una sequenza pesante, con il primo piano di Pink che si sovrappone ai corpi allacciati dei due amanti, nudi, nel letto. Poi tutto torna di nuovo calmo e pulito. sul muro un’ombra che cresce fino a trasformarsi in un fiore mostruoso, carnivoro, la corolla aperta come una vagina pronta a divorarlo. E questo irrompere dell’animazione nella storia filmata è un colpo di cinema, un cambio di immagine forte, spiazzante, quasi un’invasione di campo (cinematografico). Another Brick in the Wall (Part 3) è la terza e ultima parte della trilogia del “mattone nel muro”. Quella più violenta e realistica, meno magica. Perché guarda direttamente alla realtà cruda del presente, alle sue angosce. Un mix infernale tra passato e presente, e poi scontri, angosce, fughe, paure, rabbia. Tutte le emozioni vissute nelle canzoni precedenti, qui riproposte in tutta la loro devastante follia. E quindi il rifiuto perentorio da parte di Pink di tutto quello che lo circonda, adesso che ha visto “il messaggio sul muro”. adesso che il muro è finito, completato, chiuso al mondo. Goodbye Cruel World diventa semplicemente l’addio al mondo, a un mondo troppo crudele. Dopo l’ultimo “Goodbye”, il brano si interrompe di colpo, a sottolineare l’ineluttabilità e la grande paura di quella scelta. Una sequenza breve drammatica, con Pink che cerca disperatamente un’apertura nel muro. Poi la riproposta di un’immagine bellissima vista all’inizio: il totale del grande campo di rugby, e il ragazzo Pinky che corre verso lo spettatore. addio, mondo crudele. Lui è solo dietro a un muro enorme, infinito, grigio, che si perde nella nebbia. Gli va addosso di forza, nudo, sporco, sudato, sanguinante. E quell’unica frase ripetuta più volte, che è anche il titolo del pezzo: Is There Anybody Out There? Cioè: c’è nessuno dall’altra parte del muro?
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Dopo un brevissimo coro, parte una sequenza di arpeggi, stranamente tenera, quasi un esercizio obbligato per chi ha cominciato da poco a suonare la chitarra. C’è una panoramica lenta dall’alto a raccontare una serie di oggetti ordinati. sigarette, dollari, chitarre, televisori, bottoni, pillole, forchette e coltelli, bandiere, dischi, lattine di coca cola e altro. Pink si aggira tra tutto questo, fino a che non trova un rasoio con la lametta e incomincia a radersi, la barba, i peli del petto, le ferite, il rosso del sangue che buca il bianco della schiuma. Ed eccoci, infine, alla grande trasformazione: Pink emerge come da un ventre, rinato e trasformato: rasate anche le sopracciglia, i capelli corti, la divisa nera. Ed è in questa simbolica rinascita che le due anime di Pink appena ricordate (ribelle e uomo d’ordine) trovano una ricomposizione, dando vita a un nuovo mostro, al suo alter-ego più spaventoso: la nascita di Pink dittatore nazista. Con la stessa terribile leggerezza, parte Nobody Home, canzone che Waters riferisce «a ogni genere di persona che ho conosciuto», nel senso che vuole essere un ritratto curioso e surreale della rockstar di tutti i tempi, e quindi c’è dentro syd Barrett, hendrix espressamente citato, lo stesso Waters. splendida ballata per pianoforte e voce, la canzone rappresenta un momento di riflessione molto poetica, un’altra meditazione sul passato e il presente, soprattutto nella seconda parte, quando troviamo Pink rockstar seduto con il suo televisore e la sua lampada addirittura sulle dune di anzio. Qui finisce la canzone, ma non il viaggio all’indietro di Pink tra dolore, guerra, ricordi. Eccolo infatti che entra in un trincea che poi si trasforma in un manicomio pieno di letti in fila, e dove alla fine incontra Pink grande, rannicchiato in un angolo, con la faccia da matto. Una delle sequenze più forti e riuscite del film, tesa, coerente, ricca di invenzioni e di rimandi simbolici, fino alla deriva animata di quello che scarfe chiama un “paesaggio musicale alienato”, fatto di erbe morte e alberi bruciati, vento, deserto, solitudine. Il viaggio al passato continua con Vera Lynn, forse per cercare di capire e rimuovere le origini della follia di oggi. E allora l’incontro con Vera è quasi inevitabile. Lei era stata la cantante più amata negli anni della seconda guerra mondiale. Le sue canzoni parlavano di ottimismo e di speranza, con tutti i ragazzi che tornavano a casa. Nessuno moriva nelle sue canzoni. E in questa ricerca di innocenza impossibile ecco anche il Pink bambino che si aggira tra i binari della Victoria station per assistere al ritorno dei soldati inglesi dal fronte. Baci, abbracci, bandiere, commozione, fanfare. Ma suo padre non c’è: il tenente Eric Fletcher Waters è stato ucciso in Italia, a soli trent’anni. Eppure anche
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lui, come Vera Lynn, aveva promesso al piccolo Roger che sarebbe tornato, che si sarebbero incontrati in un giorno di sole. Ma ecco che arriva la fanfara dell’Esercito della salvezza e tutti si mettono a cantare Bring the Boys Back Home, riportate i ragazzi a casa. Riportateli a casa, tutti, quelli che sono andati in guerra e anche quelli che sono in giro per il mondo, anche i ragazzi del rock che sono in tour a suonare. stacco. Comfortably Numb è una canzone molto amata dai fans dei Pink Floyd, anche se qui mette in scena una delle situazioni più disperate e deliranti del film. C’è un Pink che sta malissimo, catatonico, quasi in agonia. Proprio adesso che è tutto pronto per il grande show. In un attimo manager e medico rimettono in piedi la rockstar a forza di droghe. Poi, dopo un ennesimo flashback di vecchie paure infantili, richieste d’amore e malattie inventate, viene prelevato da due energumeni, caricato su un macchinone e portato fino in teatro. Ed è in quest’ultima parte, a metà tra l’incubo e la trance narcotica, che prende corpo e luce il lungo assolo di chitarra di Gilmour. anche se ormai la scena ha la connotazione di un film dell’orrore con il corpo di Pink che cade a pezzi, svelando la nuova immagine del cantante nazista. Parte la canzone-comizio di In the Flesh (senza punto interrogativo), cantata di nuovo da Bob Geldof. È la band di Pink fascista, perché figlio della follia, della guerra, della repressione, di una madre terribile, della solitudine, della paranoia del mondo. a questo portano i muri. Pink nazi si rivolge ora alle migliaia di fans, in camicia nera e non, che affollano il teatro, ai quali man mano ordina le cose da fare, quali le minoranze da perseguitare e mettere al muro: neri, ebrei, omosessuali, adolescenti brufolosi, deboli di ogni genere e razza. E qui entra in gioco l’altro elemento di mistificazione in senso autoritario, spesso ricordato da Waters: l’ossessione del pubblico per la celebrità, la disponibilità idiota di gran parte dei fans a considerare le rockstar quasi fossero dei semidei (anche i Pink Floyd). E quando si mettono insieme le due cose, un leader carismatico e nazista con un pubblico decerebrato, può succedere veramente la catastrofe. Ieri come oggi. Run Like Hell è la continuazione della canzone e della scena precedenti. Ma se prima i vari gruppi “deboli” erano solo indicati nella massa e isolati, qui invece le varie vittime sono individuate una per una, cercate nei luoghi in cui vivono, e puniti come meritano. allora «È meglio che tu corra come l’inferno/È meglio che tu corra tutto il giorno e corra tutta la notte». Perché quando i martelli si mettono in movimento non risparmiano nessuno.
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Quinto blocco Waiting for the Worms, altro grande pezzo cantato da Waters e Gilmour (più coro), se da una parte rivela un barlume di coscienza del vecchio Pink che cerca di resistere all’onnipotenza di quello nazista, dall’altra porta alle estreme conseguenze il viaggio nell’orrore fascista iniziato dalle due precedenti canzoni. Così, dopo il riferimento alla “notte dei cristalli”, abbiamo qui una serie di versi che portano dritti al discorso dell’Olocausto e della “soluzione finale”, alle camere a gas, ai campi di sterminio e al massacro di sei milioni di ebrei e di altre minoranze “indegne di vivere”: «aspettando la soluzione finale/Per rinforzare la razza/aspettando di seguire i Vermi/aspettando di aprire le docce/E accendere i forni/ aspettando i finocchi e i negri/E i rossi e gli ebrei». Ed eccolo il nostro Pink nazi arringare i suoi fan fascisti col megafono. Ecco i suoi skins che manifestano per le strade di Londra. Ecco i comizi volanti, la gente che si affaccia alle finestre incredula. Il tutto che si trasforma alla fine in una marcia del Fronte Nazionale, da Brixton a hyde Park. Ma ecco anche le prime forme di coscienza; ecco che ritorna la paura, e insieme quel sentimento di oppressione, di isolamento. Ma ormai i martelli sono di nuovo in movimento, e c’è un coro terribile, in crescendo, ossessivo, che diventa un tutt’uno con la famosa sequenza dell’animazione appunto dei martelli che marciano. Fino all’urlo finale che ferma tutto: «stoooooop!». Basta. È ora di farla finita, di tornare a casa, lasciar perdere l’uniforme nera, la maschera da hitler, e questo spettacolo indecente. adesso Pink è solo un povero cristo, distrutto, abbandonato a se stesso, rannicchiato accanto alla tazza di un bagno. La canzone, brevissima, si chiama appunto Stop. E finisce, annunciando, negli ultimi versi, lo strano processo a cui dovrà sottoporsi il protagonista. L’animazione di scarfe, che mette in scena The Trial su una canzoncina vagamente da music hall, è una delle sequenze più belle e complicate. È al tempo stesso una specie di summa delle tematiche e dello stile del film. È un processo, ma prima ancora è un processo interiore, visionario, con un suo modo allucinato di riproporre i personaggi coinvolti. Un processo spettacolare, colorato, scintillante, ambientato in un luogo che è più un’arena (con quella musichetta da circo iniziale) che un’aula di giustizia, e condotto da un giudice truccato come un attore e che quando parla balla attorno al povero imputato (un Pink bambino, irriconoscibile, buttato per terra, la faccia uguale
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e inespressiva). Il giudice chiama in causa il primo testimone, il maestro di scuola, poi l’ex moglie; infine la mamma, enorme e protettiva come sempre, trasformata anche lei in un gigantesco muro circolare che abbraccia il figlio fino a soffocarlo. alla fine il verdetto: il muro deve essere abbattuto e Pink riconsegnato alla realtà e al mondo. L’ultimo verso «Tirate giù il muro» viene ripreso dal coro e ripetuto all’infinito mentre ripassano velocemente le immagini più violente ed emozionanti della sua vita. E intanto arriva in assolvenza il totale del muro di notte. Il coro sparisce e arriva il vento. Infine l’esplosione micidiale, a rallenti. Il crollo amplificato tra effetti e suoni, e la polvere che sparisce lasciando intravedere un paesaggio di rovine, con i bambini che raccolgono i sassi da terra, conservandoli per chissà quale altro muro da costruire.
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THE MEN WHO FELL TO EARTH. asCEsa E CaDUTa DEL CORPO DELLa ROCk sTaR di Corrado Morra
Where I was wheeled to, brothers, was like no sinny I had ever viddied before.1 (Anthony Burgess, a Clockwork Orange, 1962)
Coming down fast2 Benedict Canyon, Los angeles. Il 10050 di Cielo Drive è una ridente villetta piantata nell’opulenta quiete di Beverly hills. hollywood, la mecca del cinema, alle frasche ombrose di quell’anfratto, è solo un’ipotesi lontana, silenziosa. Da pochi mesi, il regista Roman Polanski e sua moglie sharon Tate si sono trasferiti lì. Lui, in quei giorni, è in Inghilterra per il suo ultimo film; lei, a riposo nel loro buen retiro perché all’ottavo mese di gravidanza. È il 9 agosto 1969. E la villa, giusto quella sera, sarà la scena di un massacro. Un vicino della famiglia Polanski e tre ospiti della celebre coppia, tra colpi di arma da fuoco e coltelli, saranno sterminati. Ultima vittima, la stessa Tate che, torturata con un filo di nylon, sarà poi finita con sedici coltellate al petto. Gli assassini sono i membri di una setta satanica, la Family, capeggiata dall’ideatore della strage, tale Charles Manson, uno psicopatico 1 «Il posto dove mi trascinarono, fratelli, era un cinema come non ne avevo mai visti prima». anthony Burgess, A Clockwork Orange, Penguin Books, London, 1972, p. 79. sebbene la sceneggiatura del film di stanley kubrick non lo conservi, ci diverte pensare che il termine “sinny”, che nel Nadsat dei drughi burgessiani sta per “cinema”, riveli, al fondo, una piega di illuminante senso sull’insospettabile qualità della natura ultima della settima arte. Nell’origine stessa, cioè, di quella inedita radice “sin”, “peccato”. Ove non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono a cura dell’autore. 2 «scendendo velocemente», come nell’ultimo verso di Helter Skelter dei Beatles.
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che, sebbene non abbia preso parte fisicamente agli omicidi, ne ha pianificato ogni aspetto, convinto che quell’intervento efferato fosse funzionale a un disegno più alto di distruzione del mondo la cui trama egli avrebbe colto nel significato segreto di un brano del White Album dei Beatles, Helter Skelter, lo scivolo delle giostre che il folle aveva interpretato come la fanfara della fine del mondo. Una volta arrivata sul luogo, la polizia, oltre ai poveri corpi martoriati, trova, su una parete della casa, le parole “death to pigs” e, sullo specchio di uno dei bagni, proprio l’espressione “helter skelter”. Erano segnate con mano fremente in un cupo scarlatto: ma non era vernice, bensì il sangue di sharon Tate. sangue che, possiamo dire, con la follia di Manson, diventa il mezzo, il segno, il logos con cui partecipare all’epico finale che, proprio in quei giorni, il linguaggio rock e le utopie rivoluzionarie della psichedelia stavano vivendo. solo dopo una settimana, dal 15 al 17 agosto, centinaia di migliaia di giovani vivranno a Woodstock un evento collettivo di straordinaria risonanza che, sulle note della musica rock, darà una palpabile consistenza all’utopia di rinascita spirituale e sociale degli hippie. Ma è quattro mesi più tardi che, di nuovo in California, quelle stesse istanze di palingenesi vedranno la fine. È il 6 dicembre. Le quinte sono quelle del Festival di altamont organizzato dai Rolling stones che si trasformò, nel giro di pochi minuti, nel tragico epilogo di un’intera stagione. Gli hells angels, una squadra di squinternati motociclisti a cui fu scriteriatamente assegnato il servizio d’ordine del concerto, accoltellarono a morte, giusto sotto il palco, Meredith hunter, un giovane nero accusato di aver estratto una pistola. Ma era inevitabile che la furia cieca e i colpi inferti all’arma bianca con mano impietosa sul corpo del ragazzo, per l’opinione pubblica d’allora richiamassero il sangue scorso a Cielo Drive. Ed è Mark hamilton Lytle che, prima di ricordarci con lo storico del rock Ed Ward, come, con la morte di hunter, fosse proprio la fede di cambiamento di un’intera generazione – quella di Woodstock – ad aver subito un colpo mortale, si interroga paradossalmente su quello che i conservatori dell’epoca si chiedevano invece sinceramente, ovvero: «quanto distanti fossero, effettivamente, la smargiassa sensualità di Mick Jagger dagli appetiti sessuali predatori di un Manson»3.
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Mark h. Lytle, America’s Uncivil Wars. The Sixties Era from Elvis to the Fall of Richard Nixon, Oxford University Press Us, New York, 2006, p. 336.
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Insomma, questa volta saranno pure le turgide ed affilate ali di angeli degli Inferi stessi a scrivere l’epitaffio all’utopia di un intero mondo, ma l’inchiostro è, ancora un volta, lo stesso impiegato dalla Family di Manson: il copioso liquido ematico dell’Innocente su cui, simbolicamente, sarà una delle icone più significative di quel periodo, la rock star, messianica4 e liberatoria, e, con lui, un’intera generazione, a scivolare in preda alla confusione, come su un inesorabile helter skelter, giù, fino agli abissi della disillusione.
Bea(s)t Generation Questa, allora, è la storia di una caduta. Punto di partenza sarà quel cinema dove la vicenda del protagonista coincide con l’insight della propria coscienza working class (hero), la cui radice sta nel ribelle brandiano di The Wild One (Il selvaggio, 1954), corpo sessuato e destabilizzante che l’anestetico della società dei consumi trasformerà prontamente nell’imbelle cinema di Elvis5. Cinema rock, allora? cinema è rock, piuttosto ché troveremmo vano provare ad identificare i confini semantici di un’espressione ambigua come “Cinema rock”, se non come insieme dei “film rock”6. E qui, una considerazione: ci pare che si continui a sottovalutare quanto, l’universo semantico del rock, oltre che col teatro e con lo star system hollywoodiano, abbia contratto debiti evidenti con il circo. Certo, c’è l’esperimento, solo in parte riuscito, di autocoscienza collettiva di un lavoro come Rock ‘n’ Roll Circus (Id., 1968) con i Rolling stones che ne intravedeva i risvolti, ma è, invece, nella morbosità dello sguardo dello spettatore che lo star system della pop music, secondo noi, avvicina il corpo dell’idolo al fenomeno circense. Meglio: all’attrazione dei side-show, il freak. E forse non è un caso che la parabola del potenziale rivoluzionario del pop conosca il suo climax nel corpo mostruoso e ipertrofico del Freak Out zappiano per schiantarsi sul conformismo della falsa liberazione del corpo del Le Freak degli Chic. 4 sull’essenza carismatica e religiosa del corpo della rock star cfr. Massimo scialò, I segreti del rock, Gremese Editore, Roma, 2002, pp. 22-24. 5 Per un approfondimento di tali questioni, cfr. simone arcagni, “Back in the Usa”, in: simone arcagni e Domenico De Gaetano (a cura di), Cinema e Rock. Cinquant’anni di contaminazioni e immagini, Gs Editrice, santhià, 1999, p. 45 e sgg. 6 Cfr., Ivi, pp. 11-12.
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Ed è proprio in tal senso che ci sembrerà fruttuosa, per svelarne i rapporti osmotici, una comparazione di film di natura anche evidentemente distante, come The Man Who Fell to Earth (L’uomo che cadde sulla terra, 1976) di Nicolas Roeg e The Elephant Man (Id., 1980) di David Lynch, entrambi, però, concentrati su un protagonista i cui patimenti passano per il ludibrio del corpo esposto e spettacolarizzato, fruito e irriso dal pubblico, un corpo-merce che palesa, in questo, i crismi del sacrificio e del martirio. Ed è così che, tra gli anni Cinquanta e sessanta, quando il «prototipo dell’eroe del rock’n’roll viaggia di pari passo col cinema»7, la natura perturbante e rivoluzionaria del corpo ribelle, una volta stigmatizzata, prende altre configurazioni: apertamente emarginata, fino al rifiuto autistico di ogni socialità, nelle derive lisergiche in cui si caccia l’eroe della Beat Generation, ad esempio. anzi, a dirla tutta, la trasformazione che tramuterà la differenza culturale dell’eroe della Beat Generation in aperta devianza, scoprendo in filigrana un’eziologia mostruosa dell’alienazione delle società capitalistiche, è già tutta in un solo film. Del 1966. E si chiama Chappaqua (Id., 1966). Intriso di umori e suggestioni della scena controculturale del tempo, Chappaqua diretto da Conrad Rooks vede la partecipazione, oltre che di allen Ginsberg e di William Burroughs, testimoni della legittima appartenenza di tutta l’operazione al piano poetico della Beat Generation, di uno dei gruppi di culto del rock più politicamente cosciente di quegli anni: gli irriverenti Fugs, e di musicisti straordinari quali Ravi shankar ed Ornette Coleman. La storia, semplicemente, è quella di un giovane drogato, Russel harwick (interpretato dallo stesso Rooks), che dagli stati Uniti va a Parigi nel tentativo di disintossicarsi presso una clinica specializzata. E se è il visionario senso dell’epos di kenneth anger che, già tre anni prima, col fondamentale Scorpio Rising (Id., 1963), saprà mettere insieme il mito del biker e le suggestioni dell’occulto, rivelate, evidentemente, nelle citazioni del Dracula cinematografico, è questa pellicola di Rooks che, ben prima di Easy Ryder (Easy Rider – Libertà e paura, 1969), trasformerà definitivamente il mito del viaggio controculturale nel topos del bad trip dell’allucinazione drogata. Ed è questo, anche e soprattutto, il film dove, per la prima volta, il corpo 7
Gino Castaldo, La terra promessa. Quarant’anni di cultura rock (1954-1994), Feltrinelli, Milano, 1994, p. 52.
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dell’argonauta psichedelico, l’eroe beat che, col ribelle à la Brando, è un altro dei prototipi su cui si forma l’epica del corpo della rock star, si presenta chiaramente come l’erede del senso metaforico del vampiro. Coincidenza ontologica che, come vedremo in seguito, nell’Uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg, trasformerà il vampiro nella figura dell’alieno (con la sostituzione, nel film, della necessità ferina del sangue dei non morti, con quella dell’acqua, in una sorta di icastica parodia della transustanziazione). In una drammatica sequenza di Chappaqua, scopriamo il protagonista letteralmente bloccato a letto dai medici della clinica, imprigionato alla struttura per non permettergli, nel delirio dell’astinenza, di fuggire. In questo modo, il nostro è come se fosse costretto a vedere, e a subire, sospeso tra la veglia e l’onirico, le figure delle sue stesse allucinazioni. E, seppure non sia patente il presupposto pedagogico di quegli orrori, la dinamica drammaturgica ricorda molto da vicino la scena della rieducazione di alex nel romanzo di anthony Burgess del 1962, A Clockwork Orange, in seguito pellicola di culto di stanley kubrick, A Clockwork Orange (arancia meccanica, 1971). Inoltre, in questa scena di Chappaqua, i personaggi, tutt’intorno al talamo, come grotteschi figuri alle prese con una macabra salutatio, sono truccati in maniera scopertamente circense, con il cerone bianco e le righe scure di matita che scendono dalle palpebre fin sulle gote, tetri spettri tra la giocosità dell’augusto e l’indelebile sagoma melanconica del pierrot. Per certi aspetti, sarà proprio questo tipo di maquillage, che racchiude in sé la dicotomia del riso e del pianto, e soprattutto attraverso le performance di alice Cooper (cui il grande Dalì, in una sorta di incoronazione dada o, meglio, in un battesimo profano, come testimonia uno scatto fatto a New York nel 1973 da Bob Gruen, imporrà le mani sul capo, quasi a passargli il crisma del surrealismo...) ad assumere, per sineddoche, il significato della qualità ambigua (spettrale e carnale, ultraterrena e dionisiaca) del musicista rock, che, fino ad un certo punto, reincarnerebbe il mito di Orfeo8. Ma, qui, il viaggio che porta alla definitiva trasformazione della rock star nell’alieno perturbante, passa per una serie impressionante 8 E la cultura pop l’ha intuito con straziante chiarezza, nelle limpide metafore di un Dino Buzzati, ad esempio, prima che nella poetica trasfigurazione della ripresa di Neil Gaiman di Sandman o della drammatica consistenza dei fumetti di James O’Barr profeticamente lugubri in quel ben noto cortocircuito del ferale destino che costò la vita al Brandon Lee del Corvo cinematografico.
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di segnali che, tra raccordi, rapporti, ipotesi ermeneutiche, ascrivono l’eroe di Chappaqua in un universo chiaramente fantastico. Tre su tutti. Intanto, i debiti con Dracula, soprattutto attraverso il Friedrich W. Murnau di Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922), e, più in generale, con il cinema fantastico degli albori rivelato dal gioco testuale (tutto un portfolio d’antan di raccordi, accelerazioni della pellicola da film muto, il bianco e nero della bellissima fotografia di Robert Frank, a tratti di matrice espressionista...). Lo stesso viaggio del protagonista, dagli stati Uniti alla Francia, aggancia il pretesto narrativo di Bram stoker della visita in Transilvania di Jonathan harker. L’arrivo parigino di Russel, inoltre, è evidentemente risolto con un’ipotesi narrativa che àncora ancora una volta il film al più noto racconto di vampiri: ad accompagnare il protagonista dall’aeroporto alla clinica dove dovrebbe curarsi, è uno chauffeur calvo ed emaciato chiuso in una lugubre divisa scura, che non ha la carrozza come nel racconto stokeriano, certo, ma poco ci manca. E, poi, c’è pure Vampyr – Der Traum des Allan Grey (Vampyr – Il vampiro, 1932), film con cui Carl Theodor Dreyer, via Le Fanu, tramuta il sogno di allan Grey in coscienza della crisi e che rivela, attraverso la notissima contre-plongée sull’inquadratura del suo stesso funerale, nel point of view della morte, la coincidenza tra immagine filmica e perturbante freudiano che elegge il vampiro a figura “mediatica” per eccellenza. E allo stesso modo, Chappaqua, più che il tentativo di disintossicazione del protagonista, ci racconta di un ultimo viaggio, viaggio in cui c’è spazio solo per l’alienazione ed il sogno ed al cui fondo, prima della morte, c’è l’immagine disturbante del proprio doppio. È l’ultima inquadratura, infine, a scoprire, quale unica soluzione all’alienazione (e alla coscienza della propria caducità), acquattata e temibile, la bestia informe e spaventosa dell’istinto pre-culturale. E lo fa ricorrendo ad uno dei primi e più potenti prototipi che la settima arte abbia a disposizione, king kong, di cui esplicitamente Chappaqua, nella scena finale col protagonista in fuga aggrappato al campanile, riprende la famosa sequenza della scimmia rifugiatasi sulla cima del grattacielo. L’occhio di bue, su cui la storia e la vicenda terrena di Russel, completamente ottenebrato dalla dipendenza delle sostanze psicotrope, si chiude, lascia visibile solo lo stretto pertugio di un’ipotesi, quella della natura ferale e primordiale della creatura mostruosa e bestiale come unico altrove possibile, edenica, pura sensibilità animale, che reagisca al corpo piegato a Dioniso del drogato, eroe dell’alienazione.
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Eppure non è sempre stato così. Basta fare un altro salto indietro. Nel 1967, l’anno in cui Roman Polanski gira The Fearless Vampire Killers (Per favore non mordermi sul collo, 1967). ancora vampiri, insomma, ma qui, niente paura, è solo un caso. E, di quell’anno, quello che ci interessa è altro. E avviene di domenica, come una messa. 18 giugno. Monterey, California. Decine di migliaia di giovani si ritrovano, ben prima di Woodstock, per il terzo giorno consecutivo al primo festival rock della storia. Ed è quello, a detta di molti, il momento in cui si fa evidente il portato rivoluzionario della pop culture della comunità hippie. sul palco suonano i Jimi hendrix Experience. sono all’ultimo pezzo. Una versione selvaggia di Wild Thing. È un momento breve. Fulmineo. spettacolare. Quando il chitarrista e cantante Jimi hendrix sul palco dà imprevedibilmente fuoco alla sua chitarra che, punto in quell’attimo, si trasforma in una vera e propria ara sacrificale che rivela, nelle spire ascensionali di quel fumo, la natura orfica del corpo della rock star, natura che, come vedremo, tra gli anni sessanta e settanta, si tramuterà, invece, in icaria9, cadente e decadente che troverà prima nel gioco metatestuale del Mick Jagger di Performance (sadismo, 1970), e poi nella melanconia delle maschere bowiane – sospese perennemente tra l’alea sottile della musica e la presenza-assenza della qualità luminosa dell’immagine cinematografica, – il suo nuovo soma che necessita adesso di una sovrastruttura di fingimento in cui la rock star, per essere, paradossalmente, fino in fondo il suo corpo, deve essere attore, deve, cioè, agirlo e renderlo esemplare recitandolo, cioè deleuzianamente vampirizzandosi10, in un sistema di senso – che è quello della società dello spettacolo – che, però, riducendolo a merce nel circuito delle merci, non gli consente altra identità se non quella del paratesto di cui, incestuosamente, si nutre (ovvero la sua imago), definita solo dall’opaca virtualità massmediale. È questa coscienza di non essere se non simulacro che il corpo della rock star, tetra imago di se stessa, inevitabilmente assume un’aura di impotente autocoscienza ed è all’inevitabile caduta a cui sa di esse9 Il passaggio segnerebbe anche lo slittamento dalla centralità dell’oralità del vampiro alla fase oculare e testimoniale dell’alieno (e non è un caso che la missione terrena del Newton di The Man Who Fell to Earth finisca con il feroce esperimento che fissa indelebilmente sui suoi occhi le lentine con le finte iridi umane, rendendolo simbolicamente cieco e definitivamente altro ed “alieno” da sé). 10 Puntuale e illuminante sintesi della questione così impostata è in Fabio Giovannini, Il libro dei vampiri. Dal mito di Dracula alla presenza quotidiana, Edizioni Dedalo, Bari, 1997, pp. 27-30.
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re destinato che il grottesco goyano dei vari scary Monsters e super Creeps solo risponderanno.
Performance Sadismo, con James Fox e, soprattutto, col leader dei Rolling stones, Mick Jagger ed una delle muse inquietanti del periodo, anita Pallenberg, sebbene girato da Donald Cammell e Nicolas Roeg nel 1968, uscì giusto pochi mesi dopo quel fatale 6 dicembre 1969 in cui la furia omicida degli hells angels diede il definitivo rintocco funebre alla generazione dei figli dei fiori. La morte di Jim Morrison – altro corpo-icona del rock di quel periodo, pochi anni più tardi (a Parigi, il 3 luglio 1971), seppure sia anticipato da una serie di suoi cambiamenti somatici simbolicamente molto forti (quasi come se Morrison, ingrassato, nascosto sotto una folta ed anonima barba, volesse riguadagnare, spogliatosi con la muta del cotidie dai panni mitici del Re lucertola, un’identità working class), – ha una dimensione troppo privata per assurgere a turning point generazionale. Cosa che può invece assolvere il sacrificio di Meredith hunter col quale il corpo taumaturgico e messianico della rock star (che è lo stesso corpo che, – fin nelle crepe del derma martoriato, come ben sapevano Iggy Pop e i suoi stooges – nel sistema della ricerca visiva coeva guadagnava la centralità performativa della Body art) si trasforma nella volitiva indifferenza di una potenza nietzschiana. solo la rappresentazione artistica, in un rigurgito di wildiano distacco, è vero, il resto, invece, vano. Così, in uno strano cortocircuito che sovrascrive sul corpo turgido del “selvaggio” la mitopoiesi dell’esile figura della nuova rock star che anticipa l’eroe Glam, efebico ed ambiguo, ci pare pur utile ricordare come, in questo film, la parte del gangster Chas, affidata poi ad un perfetto James Fox, fosse punto stata scritta per Marlon Brando. La storia di Sadismo è quella di Chas, un violento gangster di una banda di malfattori di Londra, con nemmeno poi tanto velate nuance omosessuali. Ma Chas è soprattutto una testa calda, un ribelle indomito al punto che il capo dell’organizzazione criminale per cui lavora, a un certo punto, decide che è il momento di dargli una lezione. Così, raggiunto da due scagnozzi, Chas viene torturato a sangue fino a quando, in una disperata reazione, ne uccide uno. a questo punto, a Chas non resta che tagliare la corda sia dalla polizia sia dalla furia
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vendicativa della gang. Ed è così che l’uomo, braccato, camuffato in un modo raffazzonato, trova rifugio in una stanza in affitto presso tale Turner (Mick Jagger), ex rock star che, persa l’ispirazione, si sarebbe ritirata a vita privata circondato solo da un piccolo, complice harem, dedito soltanto ad estetizzanti esperimenti con le droghe. Di primo acchito, Turner, dall’alto di un Parnaso offuscato, ma non per questo meno elitario, non è molto contento dell’arrivo di Chas, che guarda con aperto sospetto fino a quando, con l’aiuto della sua amante, non decidono di trasformare, attraverso i mondi alterati di un fungo allucinogeno somministratogli a sua insaputa, una sorta di esperimento vivente del potere performativo delle droghe. E l’ultima evoluzione di Chas, ormai completamente perso nei labirinti umbratili dei mondi altri della psichedelia, lo porta, una volta ucciso Turner, addirittura, a trasformarsi in lui, come testimonia definitivamente l’ultima scena del film. allora: un killer in fuga, una rock star che, ritiratasi in un eremo eburneo, seppure refrattaria, gli dà ospitalità. E poi, ninfe suadenti (anche Dracula ha le sue ancelle), il potere misterioso delle sostanze allucinogene, e un colpo di scena finale degno del più cervellotico Lynch con la trasformazione fisica, non solo psicologica, di un personaggio in un altro, dopo la morte. Insomma, ce n’è a sufficienza per vedere, in filigrana, una trama risolvibile solo con una griglia eziologica di tipo psicanalitico. Ma, a ben vedere, nella vicenda di Chas e Turner ci sono anche i prodromi che anticipano e stigmatizzano l’avvenuta trasformazione attraverso cui, apertamente, la figura del ribelle, selvaggio ed iconoclasta, e il corpo della rock star coincidono. Rock star che, per rinascere, deve inevitabilmente prima morire. Ma il film ci dice anche dell’altro. Come, per esempio, nel maldestro camuffamento di Chas che, in fuga dalla vendetta di harry Flowers (toh, “fiori”...), il capo della cricca di delinquenti a cui apparteneva, si colora i capelli con una tintura improvvisata, mescola di brillantina e di una vernice rossa che, intanto, in montaggio alternato, in quella stessa sequenza, sembra proprio lo stesso rosso scarlatto con cui il Turner di Mick Jagger ci viene mostrato mentre ridipinge le pareti della sua casa-rifugio11 (si noti come, in un altro punto del film,
11 E quel gesto non è certo il tentativo di trovare, in quel porpora, un’armonia nei contrasti, come nella famosa Stanza rossa di un Matisse, quanto quello di segnare ancor più cupamente il territorio rivendicandone un dominio egotistico che è il perfetto rovescio delle istanze comunitarie del movimento hippie. È proprio il Turner di Jagger che in Performance
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anche la stanza in cui Chas viene torturato dai due sicari di Flowers sia completamente imbrattata di vernice rossa – la stessa, tra l’altro con cui egli si colorerà i capelli. stanze rosso sangue. Che accentuano, ancora di più, il misterioso richiamo all’orrore ematico della satanica Family di Charles Manson...). Rosso sangue, allora. Ma è prima di tutto uno strano mascheramento quello che ci si para dinnanzi che – ci si permetta il parallelo – anticipa il valore simbolico della maschera-tintura che, abbacinato dal cesello efebico del Tadzio di Björn andrésen sul cui corpo s’addensa una sessualità “oltre il genere”, si scioglie sul viso di Gustav von aschenbach nella scena finale di Morte a Venezia (1971) in cui il maquillage assume il valore metaforico della caducità dell’effimera esistenza. Travestimento come segnale dell’essere oltre il genere, allora, che anche David Bowie, proprio in quegli anni, e prima dell’aperta dichiarazione di bisessualità, professava dal ben noto ritratto di keith Macmillan per la cover dell’edizione inglese di The Man Who Sold the World12, e, giusto l’anno seguente, ancor meglio attraverso l’aliena nuance cremisi del crine di Bowie, quello di Ziggy stardust fino al decadente e pallido Thin White Duke, che introdurrà nel rock l’ipotesi di una ricostruzione identitaria attraverso la maschera. Identità come valore performativo della maschera, addirittura. Perché, adesso, l’essere del simulacro è nel fingimento. Nella performance. Che è l’altra faccia dell’alienazione. «The only performance that makes it, that really makes it, that makes it all the way, is the one that achieves madness»13, sentenzia Turner, sotto le cui spoglie è sin troppo facile scorgere, precisamente, la silhouette del leader dei Rolling stones e, quindi, uno dei corpi prediletti della rock music almeno tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo. Diventa così chiaro che, in Sadismo, Turner, eroe à la Des Esseintes, insieme maschio e femmina, fuori del sistema produttivo delle merci (lui, che ormai campa, nascosto al mondo, affittando camere, e non più “producendo”) è il prototipo del nuovo corpo della rock star ai tempi della fine delle illusioni. E la sua koinè si esprime facendo sembra rivelarcelo quando, rivolto al fuggiasco Chas, gli tuona in faccia: «Non mi piace condividere la mia casa. Questa è casa mia! Vattene!». 12 Cfr. Nicholas Pegg, The Complete Bowie, arcana, Roma, 2005, pp. 290-291. 13 Così, nel doppiaggio italiano: «Ti posso dire una cosa: una manifestazione artistica qualunque, degna di questo nome, che si avvicini alla perfezione, porta inconsciamente alla pazzia».
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coincidere performance artistica e violenza, cosa che Burgess aveva prefigurato quasi un decennio prima in Arancia meccanica, e conosce la via del cinema solo un anno più tardi rispetto all’intuizione di Cammell e Roeg. Ma, in fondo, qual è l’indicazione che si ricava sia dai drughi, sia dai figurini di Sadismo? Che il sadismo è il centro nevralgico dell’umanità, ma, prima che nella ritrovata articolazione di un mefistofelico e stolto ritorno all’amoralità nietzschiana (e ci piaccia notare come, con accenti evidentemente più profondi e definitivi, il ricorso alle configurazioni e alle metafore di De sade restano pure l’atto finale, umano ed artistico, di un gigante come Pasolini), quale vacuo gioco di specchi dell’arte. ancora una volta, la sofferenza come pura espressione artistica, dove la primigenia ferocia figlia della conoscenza dello Übermensch si trasforma, inevitabilmente, nell’imago esangue della rock star, in onanistica vanità.
Fuori campo Nell’Uomo che cadde sulla terra il corpo della rock star è l’altro per eccellenza, l’alieno (è interessante notare come sia lo stesso Bowie nella canzone Loving the Alien, diversi anni più tardi, a suggerirci un parallelo tra l’alieno e la figura cristologica). Tratto dall’omonimo romanzo di Walter Tevis e diretto da Nicolas Roeg, L’uomo che cadde sulla terra narra la storia di un extraterrestre costretto a cercare in altri mondi l’acqua che, nel suo, sconvolto da guerre e cataclismi, è ormai agli sgoccioli. Come un qualsiasi esponente della working class costretto ad emigrare, questi lascia a casa la famiglia nella speranza che il suo viaggio sia la premessa di una vita migliore. “Caduto” sulla terra, l’essere assume l’identità umana di Thomas Jerome Newton e, grazie alle sue conoscenze scientifiche, decisamente più sviluppate rispetto a quelle degli umani, ha gioco facile a costituire, in poco tempo, la World Enterprise, una multinazionale dai profetici connotati post-industriali coi cui straordinari proventi egli spera di poter infine costruire un razzo spaziale capace di riportarlo, con approvvigionamenti di acqua sufficienti ad assicurare ai suoi cari la sopravvivenza, sul suo pianeta d’origine. L’impresa fallisce e Newton, già costretto dall’alienazione e dalla solitudine ad una martoriante dipendenza dall’alcol, scoperto dai servizi investigativi statunitensi, è
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costretto ad un mortificante e mortifero esilio sulla Terra, non prima di essere stato sottoposto ad una dolorosa serie di esperimenti scientifici che, come nel Lynch di The Elephant Man, ci mostrano lo scherno del corpo analizzato e spettacolarizzato, con un chiaro parallelo con la fruizione del pubblico del corpo-merce dello star system. È noto come Roeg avesse scelto David Bowie, allora al suo primo film, dopo aver visto un documentario sul tour di Diamond Dogs in america, Cracked Actor (Id., 1975) diretto per la BBC da alan Yentob nel 1975. Ed è semplicemente innegabile che una parte cospicua della potenza del film si regga sulla consonanza tra Bowie, una delle icone più fulgide del rock decadente della seconda metà degli anni settanta, ed il protagonista, corrispondenza che finisce per diventare, in certi intrecci, punto coincidenza14. Insomma, è vero: il successo dell’operazione si deve, in parte, all’intreccio di paratestualità e pretestualità che gira intorno alla figura stessa di Bowie15 permettendoci, in un certo senso, di scrutare l’oscuro privato di una rock star. Ma il fascino profondo del film, a nostro avviso, risiede nella struggente malinconia del recupero del mito di Icaro e nel valore politico che Roeg gli assegna. Bowie-Newton, è un corpo esiliato e solo e, nell’accezione marxiana, letteralmente “alienato”. Il ricorso all’adesione al sistema della produzione e del circuito delle merci della World Enterprise in tal senso, in fondo, non è altro che il tentativo vano del riscatto del proletariato che, nelle incommensurabili ed indelebili differenze di classe (di mondi), è infine costretto a pagare l’imitazione della logica del Capitale con la capitolazione. E, a dispetto delle fuorvianti fascinazioni destrorse dello stesso Bowie di quel periodo o delle superficiali letture della sua opera dei critici dell’epoca, è nel suo corpus16 e sul suo corpo di rock star che, proprio col film di Roeg, il passaggio dal vampiro, come metafora dello sfruttamento borghese17, all’alieno, come forza lavoro alienata e
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Cfr., hugo Wilcken, Low, No Reply, Milano, 2009, pp. 26-27. Cfr., Umberto Mosca, Cinema e Rock. Pop culture e film d’autore, immaginario giovanile e visioni del mondo, Utet, Torino, 2008, p. 281. 16 «Tony è andato a combattere a Belfast/Rudi è rimasto a casa a morire di fame/Ed io potrei fare tutto quello che vale la pena come una rock & roll star». Bastano i versi iniziali di Star, pezzo tratto da The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del 1972, per capire come per Bowie – in questo profondamente mod e figlio perfetto della classe operaia inglese del secondo Dopoguerra – la via del rock sia un’alternativa salvifica al dolore e agli stenti del castigo della propria classe sociale. 17 Cfr., karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1997. 15
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obnubilata, assume i crismi del fallimento delle istanze rivoluzionarie e contro-culturali che presero definizione a Monterey. Rivoluzione che, a veder bene, non furono i giovani a tradire, intravedendola ed esperendola ancora nelle forme efebiche della sessualità liberata e mitica del glam, che, solo in seguito alla roboante e caotica politica dello stordimento stroboscopico del dance floor, assumerà i fallimentari connotati del disimpegno e del Riflusso18.
Il labirinto Ma le vie dell’alienazione sono infinite e, prima dell’involontaria autoparodia di Labyrinth (Id., 1986) – un fantasy di Jim henson in cui, con ogni evidenza, torna l’ombra di Icaro, non più nello sforzo prometeico con cui il figlio di Dedalo cerca di guadagnare l’alto dei cieli, o nel mortale regresso della caduta, ma nella figura centrale del mito, il labirinto19, che schiaccia orizzontalmente, fino a confonderne il disegno, ogni velleità di progresso – è ancora il corpo di David Bowie a dare carne e sangue ad uno dei recuperi più curiosi e pertinenti della figura «grigia dell’incertezza»20 per eccellenza, giusto il vampiro, su cui si addensa a questo punto il liquido spettro della sincronica postmodernità. Il film è The Hunger (Miriam si sveglia a mezzanotte, 1983) di Tony scott ed il personaggio è John (David Bowie), che va incontro ad un’implacabile fato: un progressivo ed infinito invecchiamento che non conosce però la morte, terribile destino a cui tutti gli amanti dell’immortale vampira Miriam (Catherine Deneuve) sono costretti, che qui si può leggere come la metafora della quotidianità eterna a cui, desolatamente, il Postmoderno ci costringe. È l’inizio del film a rivelarcene il senso già quando, in assolvenza sui titoli di testa, Peter Murphy, cantante e leader dei Bauhaus ese18 E segnerà la vittoria del sistema della Disco Music, che incomincerà a controllare il corpo con la dittatura della velocità delle BMP con cui qualsiasi alterità non avrà più nessun connotato politico e conflittuale, ma solo di superficiale conciliazione. E a proposito di “conciliazione”, ci chiediamo: ma non è curioso che le luci della pista centrale della discoteca dove, in Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977), atterrerà Tony Manero somiglino così tanto alle luci olistiche della navicella spaziale di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977). 19 siamo partiti da stanze inondate da sangue, passando per luoghi ritirati e solitari, per perderci, infine, in un labirinto... Ma non è lo stesso percorso dell’alienato Jack Torrance in Shining di kubrick? 20 Cfr., Gilles Deleuze, L’Immagine-movimento. Cinema. Vol. 1, Ubulibri, Milano, 2006, p. 138.
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gue, attraverso una grata sul palco di un locale notturno, Bela Lugosi’s Dead (primo hit della band e vero e proprio anthem goth che, qui, in un film sui vampiri, è, prontamente, un felice gancio metatestuale). Da questo punto parte un montaggio parallelo che ci racconta di John – crine nero e occhiali tondi scuri – e di Miriam, lenti d’antan, veletta e rossetto acceso da vamp, che, individuati un robusto giovanotto e la sua avvenente compagna nella pista da ballo, presumibilmente, li seducono entrambi, e, una volta condotti a casa, li uccidono, rivelando la loro rapace natura di vampiri. L’intera sequenza, incastonata in una cosciente ed efficace contrazione del cronotopo che la fa collassare durante l’arco di quella sola canzone, scopre lo spiazzante gioco di slittamenti semantici quando ci mostra John-Bowie in campo con, off e poi over, la voce di Murphy che canta, perché quella voce, in quel preciso momento, assume pure il valore di acusma dello spettro extradiegetico della “rock star David Bowie”. Infatti, storicamente e palesemente, di Bowie, Peter Murphy in un certo senso, è un vero e proprio “doppio” (oltre, ad un’evidente somiglianza tra i due e alle patenti e dichiarate citazioni bowiane di Murphy, tra accenti di aristocratico distacco e gote alte, è opportuno ricordare che l’altro indiscutibile successo dei Bauhaus resta la cover di Bowie Ziggy Stardust). Ed allora, queste inquadrature superano la coincidenza identitaria tra simulacro ed essere, palesando l’avvenuto e irreversibile scollamento, tipico della postmodernità, tra immagine ed essere, rivelandoci la natura definitivamente perturbante del cinema. se John-Bowie è, ancora con Deleuze, vampiro di David Bowie, Peter Murphy, che recita se stesso, ovvero una rock star che recita Bowie, è, sempre con Deleuze, mostrazione dell’essere inevitabilmente e imperituramente fuori campo, anzi “fuori del proprio campo”, cioè alieno a se stesso, ma in un’accezione ancora più dolorosa perché ora l’unica possibilità di essere è nel proprio corpo rappresentato “da un altro”21. 21 O pure da se stessi, ma nella definitiva constatazione di essere simulacro! Pura testualità, insomma, che può vivere solo nei rimandi e nei rapporti dell’intertestualità. E non è un caso, allora, che, in Miriam si sveglia a mezzanotte, quando il processo di incanutimento che colpirebbe i vampiri ci si palesa nella sua devastazione attraverso il primissimo piano su un John divenuto velocemente un vecchio decrepito, questi – occhiali inforcati e labbra serrate sotto un borsalino a falda larga calato sugli occhi – richiami così palesemente il più grande personaggio cinematografico di Bowie, quel Newton, punito con l’esilio di un’eterna alienazione, così come, in particolare, l’immortala l’ultima, straordinaria scena dell’Uomo che cadde sulla terra.
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È lo stesso gioco di specchi e di finzioni che investe Nick Cave nei panni di se stesso in Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987) la cui apparizione è anticipata22 dal concerto di uno “pseudo Cave”, sorta di doppio perturbante del rocker australiano, nella sequenza che non a caso viene subito dopo quella del POV dell’angelo Damiel che, sulla polverosa pista del Cirque alekan (che mirabilmente paga il tributo al cinema come ombra)23, in contreplongée posa il suo sguardo pieno di amore muto sulla trapezista Marion. Ma il desiderio di Damien, come si sa, coincide col suo guadagnarsi la morte (perderà, infatti, lo stato eterno di angelo) nello stesso modo in cui lo sguardo dello spettatore sul funambolo circense è sempre desiderio di morte. Ma il corpo in bilico dell’acrobata, che sta tra la vetta della vertigine e lo schianto, è prima di ogni cosa corpo spettacolare, fenomeno, cioè, del desiderio il cui specchio deforme (e nemmeno poi tanto) è giusto il John Merrick dell’ Elephant Man24 di David Lynch poiché entrambi sono corpi esposti su cui si posa lo sguardo amoroso e, insieme, la pulsione di morte dello spettatore. Che è la stessa dinamica che investe il corpo spettacolare della rock star, che, inevitabilmente, “è per la morte”, ma che ambisce alla trasformazione e, soprattutto, ad amare, raccontandoci sempre e prima di ogni cosa della tragica ed irrimediabile divergenza tra desiderio e realizzazione del desiderio25 nel cui iato incolmabile sta la tragedia di noi tutti. Ed è a questo punto che il corpo, una volta exemplum, della rock star diventa invece l’esempio
22 Nello stesso modo in cui l’apparizione di Lou Reed nel film In weiter Ferne, so nah! (Così lontano, così vicino!, 1993) è anticipata dalle locandine che annunciano un suo concerto in città, su cui c’è un ritratto del musicista newyorchese dai cui occhi si irradiano fasci di luce come proiettori cinematografici che scoprono come, in Wenders, la metafora del corpo del rock abiti forse pur’anche simbolicamente il cinema stesso. 23 Quanto per Wenders il circo sia metafora platonica del cinema come gioco privilegiato delle ombre, diventa forse chiaro già ricordando come il nome del circo renda omaggio ad henri alekan, straordinario direttore della fotografia. Cfr. l’intervista ad alekan di Richard Raskin in: http://pov.imv.au.dk/Issue_08/section_1/artc2a.html. accesso: 30/11/2008. 24 sebbene il film di Lynch non sia tratto dall’omonimo lavoro teatrale, è il corpo deforme di John Merrick, che David Bowie interpretò, tra il 1980 e il 1981, nei teatri statunitensi in una breve e fortuna tournée, che ci fornisce un insospettato rapporto tra fenomeno circense ed il corpo della rock star. E, che il soggetto sia una pietosa creatura da spettacolo di Barnum o il volteggiare periglioso di una ginnasta, il circo resta il noumeno umbratile del campo semantico del rock. 25 E, probabilmente, giusto raccontandoci dell’inevitabile e ferocemente dolorosa afasia dei corpi che amano, si svela il senso ultimo di un film come Lost in Traslation (Lost in Translation – L’amore tradotto, 2003), film sulla caduta e sulla perdita, certo, ma, prima di ogni cosa, perdutamente rock.
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perfetto dell’espropriazione capitalista dei corpi che, disperatamente eppure vitalmente, ha un’unica ipotesi di redenzione, coming down fast: la caduta. Di nuovo. Per sempre.
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QUARTA PARTE TEsTIMONIaNZE
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INTERVIsTa a JULIEN TEMPLE a cura di Fabio Maiello
Ai tempi del college a Cambridge, fosti folgorato dal cinema di Jean Vigo. Quanto ha contato nella tua vita artistica il regista de L’atalante, al quale hai anche dedicato un film? a quei tempi, durante l’estate, ci riunivamo sul tetto del college per proiettare i film su di un lenzuolo… Non c’era neppure lo spazio per farlo perché c’erano tanti ragazzi! Una volta eravamo talmente presi da quelle immagini che non avevamo notato che la pellicola era stata montata male sul proiettore… ad un certo punto si sganciò e cadde nel fiume sottostante! Trascorsi una settimana ad asciugare con il phon l’intera pellicola, fotogramma per fotogramma; così ne approfittai per studiarlo. L’Atalante è uno dei film più belli che abbia mai visto, è autentico e indipendente. Uno dei primi in cui la cinepresa rinuncia al treppiede, diventando mobile e partecipe. Com’è nata la passione per la musica e quali sono stati i tuoi primi punti di riferimento musicali? sono stato un ragazzino fortunato, perché nella Londra degli anni sessanta ho avuto modo di ascoltare le radio pirata che trasmettevano musica indipendente e non allineata a ciò che veniva imposto. Ricordo come se fosse ieri le notti trascorse a letto ad ascoltare la mia piccola radio… La canzone che più mi eccitava era You Really Got Me dei kinks, c’era quella fantastica chitarra distorta di Dave Davies. Ti piacevano i film musicali alla Elvis Presley? In realtà non ho visto molti film in quel periodo perché in casa non
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c’era la televisione. ho visto A Hard Day’s Night con i Beatles, ma ho iniziato a vedere regolarmente film quando ero al college. I film di Presley non mi piacevano molto. L’unico che ho apprezzato è stato Stella di Fuoco di Don siegel. Prima di arrivare al punk, hai mai provato interesse per la musica progressive? No, non mi ha mai interessato il progressive che, tra l’altro, è stato un fenomeno considerato soprattutto in Italia. a me piaceva il rock di Jimi hendrix, dei Rolling stones, dei kinks. Mi piacevano anche i Roxy Music, il primo David Bowie e i primi Pink Floyd di syd Barrett. Avevi già conosciuto sia i Sex Pistols che i Clash, ma quando decidesti di realizzare The Great Rock ‘n’ Roll swindle, ci fu una rottura con Joe Strummer… avevo prima iniziato a filmare i sex Pistols, poi iniziai a interessarmi dei Clash. ad un certo punto strummer iniziò ad esigere l’esclusiva, imponendomi di scegliere tra loro e i sex Pistols e così dissi a lui “adios! se la poni in questo modo, continuo con i sex Pistols”. Da quel momento non ho visto più i Clash per venticinque anni. Non è stata una rottura violenta perché io e strummer ci siamo ogni tanto sentiti, ma c’era molta freddezza. Poi ci siamo incontrati nuovamente e siamo diventati molto amici. Il film doveva essere diretto da Russ Meyer… sì e io avrei dovuto essere il suo assistente. sarebbe stato un film totalmente diverso perché ricordo che durante i nostri tour per i punk clubs, Meyer non era mai soddisfatto delle ragazze perché non le trovava abbastanza nude! Poi rinunciò al progetto perché era troppo lontano dal suo genere e dal suo modo di vedere le cose. Il tuo giudizio è molto critico nei confronti del punk e di come questo fenomeno sia stato manipolato dal manager Malcolm McLaren per lucrare sui reali disagi del giovane proletariato di periferia. Quanto resta oggi di quel fenomeno musicale/sociale? Era molto interessante dimostrare che queste star non erano degli dei
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INTERVIsTa a JULIEN TEMPLE
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ma dei falsi miti. Nello stesso momento però il fenomeno era esploso e i ragazzi avevano ormai tappezzato le loro camere da letto con i poster dei sex Pistols. La mia idea era quella di dire ai ragazzi che quelle persone tanto adorate erano soltanto una schifezza e di strappare quei poster dalle pareti. anzi, di distruggere l’intera stanza da letto! Del resto l’idea originale dei sex Pistols era quella di distruggere lo status della rockstar e il fatto che quest’ultima sia più importante del pubblico. Il punk oggi è un po’ come il vecchio hippie. I ragazzini cercano di copiare il punk e non vanno da nessuna parte. alcune idee artistiche del punk sono però ancora valide, soprattutto di questi tempi in cui l’umanità sembra andare verso l’autodistruzione. Ma resta il fatto che quello stile, quella musica, ha segnato un periodo ben preciso e al giorno d’oggi non è ripetibile in alcun caso. Il vero idealista del gruppo penso che sia stato Sid Vicious. Ci credeva talmente al punto di arrivare all’autodistruzione, dopo essere stato abbandonato dallo stesso McLaren… John Lydon era la mente lirica, dal punto di vista strettamente musicale erano più attivi steve Jones e Glen Matlock. sid Vicious era effettivamente l’anima punk. Quando diceva che a ventuno anni sarebbe morto gli ridevano in faccia… Poi è successo veramente. Ha mai pensato di fare un film sulla vita di Vicious? No davvero. Gli feci una fantastica intervista, ma non ho mai pensato di farci un film. Me l’hanno chiesto spesso il perché non l’ho realizzato... Hai mai pensato di girare qualcosa sul punk americano dei Ramones, Patti Smith, Television, Stooges? In cosa si diversifica da quello inglese? ho seguito molto bene il punk americano e credo che abbia prodotto delle cose molto belle. Ma non ho mai pensato ad un film. Non sono d’accordo con gli americani quando asseriscono di aver dato vita al punk. Forse perché dimenticano che negli anni sessanta c’era già stata la cosiddetta British Invasion, che annoverava gruppi dal sound aggressivo come Rolling stones e kinks. Musica che ha poi influenzato
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a sua volta gli americani stooges o MC5. Le influenze musicali sono un continuo dare e avere… Nei primissimi anni Ottanta irrompono sulla scena musicale gruppi come Duran Duran, Spandau Ballet, Wham! il cui enorme successo tra i teenagers si deve al look, alla musica accattivante e ai testi non politicizzati. Sembra quasi che tale ondata sia nata per spazzare lo “sporco” lasciato dal punk… Più o meno come terminò la Rivoluzione Francese! scherzi a parte, non ho molto da dire in merito. si tratta soltanto di pop music che piaceva molto ai ragazzini. Musica che alla fine non ha lasciato nulla, con l’eccezione di qualche buon videoclip. In quel periodo ho realizzato video per alcune di queste popstar, come sade e Culture Club. In merito a Boy George trovavo interessante il suo look e il suo modo di essere. Nel video tratto da Do You Really Want to Hurt Me? ho infatti giocato con questi fattori, mettendo in scena il cantante che viene processato per aver seminato il panico tra i benpensanti con la sua deflagrante diversità. Insieme a godley & Creme, Steve Barron, Russell Mulcahy, sei stato un esponente di punta della videoclip era. Con quali criteri tecnici ed estetici hai affrontato i video? Credo che i miei video si differenziassero da quelli di altri colleghi per due elementi principali. Il primo è che filmavo in pellicola, applicando i principi del cinema puro ed evitando di utilizzare troppi effetti speciali. Il secondo è l’utilizzo del messaggio politico, che cercavo di inserire – per quanto possibile – in ogni mio videoclip. Ero affascinato dalla potenza di un medium che consentiva di elaborare un’idea di notte e di trasmetterla il giorno dopo in tutto il mondo… Dal Brasile all’Italia, dal Giappone agli stati Uniti. Con alcuni video mi sono sentito un po’ a disagio perché li ho girati unicamente per soldi, come per Janet Jackson ad esempio. sono semplici lavori di committenza, piuttosto spersonalizzati, dove non ho potuto inserire alcuna mia idea personale. Invece con i kinks e Rolling stones, per i quali girai Undercover of the Night, ho potuto scatenare la mia fantasia e il mio punto di vista.
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Cosa pensi dei videoclip girati da registi cinematografici? Penso che preferisco questi registi quando fanno i filmakers e non i videomakers? Per i suoi video Michael Jackson puntava sempre al grosso nome, ma non credo che scorsese abbia fatto per Bad un lavoro memorabile. Il video di John Landis per Thriller è fatto benissimo, ma non è un videoclip bensì un film hollywoodiano condensato in un quarto d’ora. Preferisco invece il lavoro di quei giovani che hanno un’attitudine più diretta con la musica e con idee più fresche. Per esempio, Michel Gondry ha realizzato videoclip di ottimo livello creativo e registico, sicuramente più interessanti di quelli firmati scorsese e Landis. absolute Beginners è un film spiazzante perché da un regista che ha spaziato tra punk e rock non ci si aspettava un film ambientato nella Swinging London tra gli anni Cinquanta e Sessanta… sono sempre stato affascinato dai musical hollywoodiani, da quelli di Vincente Minnelli. In fondo i videoclip sono un po’ la versione moderna dei musical americani dei tempi d’oro. Il musical dava una grande libertà di espressione perché consentiva di sperimentare tantissime cose, superando gli stereotipi narrativi e instaurando un rapporto diretto tra artista e pubblico, senza la storia a fare da tramite. sentivo che il movimento punk aveva portato a compimento l’idea che la musica potesse essere un fattore di cambiamento e di sviluppo della cultura teenager. Il giorno in cui ho sentito che questo momento era giunto alla fine, ho deciso di risalire alle origini filmando la scena inglese del 1958. È stato impegnativo ricostruire l’inizio di questa cultura giovanile. Non si trattava di ricostruirne semplicemente gli aspetti musicali, ma anche le emozioni, il razzismo strisciante, l’immigrazione e pure le idee su come costruire il business sui teenager. Perché, dopo The Filth and the Fury, hai sentito l’esigenza di ritornare ancora una volta sui Clash? The Future Is Unwritten, il film su Joe strummer, è nato dal fatto che – dopo la sua morte – i conoscenti fossero tutti rattristati dall’aver perso un amico. Più che un film sulla musica è un tributo ad un amico, ad una persona. Non è un film girato da un fan ma da una persona che lo conosceva bene… D’altronde eravamo vicini di casa.
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Il modo in cui fondi i materiali vari di archivio, convergono mirabilmente su un personaggio che va al di là della musica. Hai perfettamente reso l’idea della statura artistica e culturale del personaggio… a parte che mi piace molto il documentario, ma quello che hai evidenziato con questa domanda è una tecnica che ha preso un po’ dal punk. Ovvero prendere tante cose, come ad esempio le spille, e usare questi differenti materiali per creare qualcosa di nuovo. In The Great Rock ‘n’ Roll Swindle avevamo pochi soldi e riprendevamo dal televisore i vecchi filmati live dei sex Pistols per poi rimontarli. L’idea principale è sempre quella di creare nello spettatore uno stato critico che susciti domande come “è vero?” o “non è vero?”. È una tecnica che ha apprezzato anche Jean-Luc Godard in un articolo da lui scritto a suo tempo. Volevo anche ringraziarlo, ma lui mi liquidò con un “và al diavolo!”… Godard è così. Cosa pensi dei “film concerto” e dell’uso-abuso che si fa del rock nel cinema. Sia nelle colonne sonore, sia come materiale extradiegetico. In genere non mi entusiasmano. Per me l’evento che si crea in un concerto è il pubblico e di questo bisogna tenerne conto perché è importante quanto l’artista. Invece, per esempio, scorsese in Shine a Light si sofferma – con la sua solita perizia tecnica – su Jagger e sui gioielli in bella vista. a me interessa tutto ciò che c’è dietro un concerto… La parte più viva e più vera. In un film di fiction la musica, se usata bene, può dare risultati fantastici. scorsese, per esempio, è insuperabile nell’inserimento delle canzoni nei suoi film. Basti pensare a Goodfellas, Casino e l’ultimo The Departed, che attacca alla grande proprio con Gimme Shelter degli stones. John Lydon disse “abbiamo fatto ciò che dovevamo fare ed è per tale motivo che non siamo sopravvissuti. giusto perché solo gli impostori sopravvivono”. È una dichiarazione forte perché intenderebbe che il rock è tutto un falso. Soltanto business, marketing e nessun ideale… Mi piace molto questa frase e mi ci riconosco pienamente…
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INTERVIsTa a CaRLO VERDONE a cura di Fabio Maiello
Vorrei iniziare da una scena di Borotalco in cui compare un cartello con scritto «La musica avvicina a Dio». Anche a te succede lo stesso? La musica non mi fa avvicinare a Dio… È soltanto la battuta di un film. Invece, dà spesso un senso alla mia giornata. È un godimento interno che mi consente di provare diverse emozioni. È la colonna sonora dei tempi che stiamo vivendo. alcuni decenni fa era importante perché erano tempi pieni di ideali, sogni, ottimismo, creatività, sperimentazioni. I tempi di oggi li vediamo al telegiornale, dalla cronaca nera alla borsa, dalla crisi mondiale al disastro ecologico. sarebbe complicato definire un accompagnamento musicale per un periodo come questo… Qualcosa di buono c’è, ma non parliamo di capolavori, a meno che non si vada su ambiti di nicchia. In questo caso, da intenditore colto, direi che l’album The Drift di scott Walker potrebbe essere il più esaustivo per i tempi che stiamo vivendo. È un disco talmente lugubre… Sempre in Borotalco, il protagonista dice «Le scelte musicali variano con le stagioni». È così anche per Carlo Verdone? Non è proprio così. Le mie passioni musicali vanno a cicli ritornanti. C’è un periodo di energia e positività che mi porta a riascoltare tutta la discografia degli Who, al quale potrebbe seguire un periodo più malinconico che mi induce ad ascoltare David sylvian. C’è un periodo leggero e libero da preoccupazioni che mi stimola ad ascoltare i Beatles. La colonna sonora la scelgo a seconda del temperamento che ho. Non mi sognerei mai di utilizzare la musica per cambiare il mio stato d’animo. In caso di depressione eviterei cose che mi tirino
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su di botto, perché proverei soltanto un senso di fastidio. In questo caso, invece, metterei su qualcosa che accarezzasse la mia depressione accompagnandola dolcemente verso la malinconia. Questo perché, fondamentalmente, non sono un depresso, bensì un malinconico. ho anch’io i miei cicli negativi e durante questi ascolto la musica idonea per supportarli. Visto che ami e suoni la batteria, sapresti stilare una lista dei tuoi “drum heroes”? Il primo che mi ha sconvolto è stato Mitch Mitchell degli Experience di Jimi hendrix. Era la prima volta che in un gruppo si sentiva un batterista con un qualcosa in più. Non aveva un tocco potente ma una raffinatezza che, ad ascoltarla oggi, è ancora notevole. Il genio, secondo me, appartiene a John Bonham dei Led Zeppelin. Lui ha inventato delle costruzioni ritmiche accompagnandosi ad un tocco spaventosamente potente. Le note della batteria erano “scritte” in un modo fantastico, e poi i migliori assoli di sempre li ha fatti lui… Non c’è niente da fare! E poi, voglio parlare di batteristi che all’interno di un gruppo hanno fatto qualcosa di originale. stewart Copeland nei Police ha portato qualcosa di nuovo. Lo vidi dal vivo ed era mostruoso. Era la velocità in punta di bacchetta, con delle costruzioni geometriche complicatissime e fantastiche. Ci terrei a richiamare l’attenzione su Corky Laing dei Mountain, un batterista di cui non si parla mai. Lo vidi fare un assolo e fu una cosa spaventosissima… potentissimo ed esaltante! Bisognerebbe rivalutare keith Moon dei Who, altro grande di cui non si parla mai abbastanza. Era una rullata continua, però fatta in modo intelligente. Un altro grande è Jon hiseman dei Colosseum, un gruppo che ha in qualche modo anticipato il progressive. Un immenso batterista è stato anche Clive Bunker dei Jethro Tull, i suoi assoli lasciavano senza fiato. In tempi recenti trovo molto buono Chris Maitland dei Porcupine Tree. ho visto anche lui dal vivo ed è impressionante. Essendo un gruppo che opera nella totale discrezione non si parla mai di lui… A parte la batteria, ti piace ovviamente anche la chitarra. Escludendo i tuoi miti consolidati come Jimi Hendrix e Jimmy Page, cosa pensi di Jeff Beck, gary Moore o dei super virtuosi come Joe Satriani, Steve Vai, Yngwie Malmsteen, Steve Morse, Paul gilbert…
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stai parlando di musicisti spaventosi. L’ultimo di Gary Moore sembra il disco di un ragazzo che sa suonare in maniera splendida la chitarra da vent’anni; invece ha quasi sessant’anni e suona con un’energia che ammazzerebbe un giovane. Quando feci l’intervista ai Led Zeppelin, Jimmy Page disse di avere una grande adorazione per Moore. Jeff Beck è immenso, ha classe, creatività, raffinatezza. ha raggiunto vette inarrivabili da altri. Citerei volentieri Frank Zappa, anche se talvolta mi annoiava con qualche manierismo di troppo. Era un solista speciale, usciva fuori da qualsiasi schema e le cose che faceva le sapeva fare solo lui. I dischi con la London symphony Orchestra mi hanno rotto le scatole dopo cinque minuti, ma lo Zappa che ti aggredisce ad inizio brano con un assolo di chitarra è inebriante! se volessimo citarne qualcuno nuovo, porrei l’accento su Joe Bonamassa, è semplicemente straordinario. ha gran classe e una tecnica portentosa. Mi riporta ad una tradizione che ho sempre amato, ovvero quella dei chitarristi come Clapton, Page, hendrix e Vaughan. Penso che proprio a quest’ultimo Bonamassa si rifaccia in maniera più cattiva e violenta. satriani è bravissimo, velocissimo, ma parliamo di un Paganini della chitarra. È un virtuoso… invece nella chitarra voglio sentire anche l’anima. Citerei anche Michael hedges che può piacere o no, ma ha una tecnica tutta sua particolare. Non può fare il blues, ma soltanto la musica che piace a lui! Oggi è difficile trovare qualcuno che non sappia suonare la chitarra e che non abbia stile. È più difficile invece trovare quello in cui non ci senti solo l’effetto, ma anche il sentimento. suonano in tanti e sono tutti bravi e preparati tecnicamente; ma sono il calore, la passione, che consentono di capire se chi suona ama quella musica oppure sta facendo soltanto del virtuosismo. Basta vedere su YouTube quanti ragazzi ci sono che suonano benissimo la chitarra… Il limite però è quello. Quali sono gli album che più hai consumato sul giradischi? Tra quelli che ho consumato sicuramente ci sono Revolver e Sgt. Pepper, che reputo i capolavori dei Beatles. Non sono un grande amante dei Rolling stones, però riconosco che Aftermath è un grandissimo disco. ho consumato anche Tommy e Quadrophenia degli Who. Il primo e il terzo album dei Led Zeppelin mi impressionarono enormemente. Naturalmente c’è Jimi hendrix. Are You Experienced? lo ritengo il suo migliore disco, perché – nonostante lui diventi dopo più raffinato – vi
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è contenuta tutta l’esplosione infernale della sua musica. Mi piacevano tantissimo Meddle e Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. sono dischi grandiosi, ma stiamo parlando purtroppo di un’altra epoca… Quali sono invece i dischi che avresti volentieri utilizzato come frisbee? Di brutti long playing ne ho sentiti una grossa quantità e molti di loro sono stati dei veri abbagli critici! Credo che ogni buon cultore rock abbia assistito a molte bufale, soprattutto negli anni Ottanta. Questo perché in quella decade imperava ancora la disco music e uscivano in continuazione gruppi e cantanti di plastica. Totalmente finti. ho odiato molto un gruppo perché l’ho visto suonare dal vivo e faceva davvero schifo. Era il gruppo di sid Vicious… come si chiama… i sex Pistols! Mamma mia, mamma mia… Fu una porcheria di concerto. Veramente assurdo. Era un gruppaccio che ha dato il via a un qualcosa che poi i Police hanno fatto un miliardo di volte meglio. Ma là c’era un grande compositore come sting. so che scatenerò molte critiche per questo, ma un’altra bufala sono indubbiamente i Clash… Pensa che sandinista! è considerato tra i più begli album della storia… Ma vai, ma vai, ma vaiiii… è una cazzata! È un disco come tanti altri, non è niente. se questi tizi sono considerati dei grandi, dove dobbiamo allora mettere gli allman Brothers Band? Basterebbe il brano In Memory of Elizabeth Reed per consegnarli alla storia! E i Jefferson airplane? Joni Mitchell? Crosby, stills & Nash? Per carità… Tornando alle cantonate, citerei senza dubbio i Queen. È agghiacciante come una pseudo cultura musicale porti i giovani inglesi a scavalcare i Beatles per incoronare i Queen tra i più grandi. Il loro è un rock trash, cafone, mieloso. Nulla toglie che Brian May sia un buon chitarrista e nessuno mette in discussione la grande voce di Freddie Mercury… Dopo mezz’ora di ascolto però la loro musica diventa stucchevole. Non è vero che i Queen abbiano fatto – come dicono – tutti grandi dischi. Il novantanove percento dei Beatles – mettendo da parte brani come Ob-La-Di Ob-La-Da – è straordinario. I Queen hanno scritto un sessanta percento di cose modeste e un quaranta
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percento di cose molto orecchiabili e carine. Non è un gruppo rock, bensì un gruppo melodico che piace ai ragazzi, alle signore e ai papà. Piace a tutti. Quando una cosa piace a tutti potrebbe significare che è di effetto, più che di qualità. alla fine anche Mercury era un virtuoso, il leader di una specie di circo… Musica da baraccone. Qualcosa di buono ci sarà pure stato negli anni Ottanta… sicuramente, perché dovevamo pur affezionarci a qualcosa di buono… Credo che ricorderò quel decennio soltanto per una manciata di gruppi: i Police per il genio di sting, i Japan per la loro ricercatezza, i primissimi simple Minds, Ultravox, Echo and the Bunnymen, human League e gli U2, soprattutto per The Unforgettable Fire e The Joshua Tree. sostanzialmente penso che questi abbiano caratterizzato il suono di quel periodo. Intendiamoci, tranne qualche eccezione, non è una sonorità che resta perché è estremamente datata. Ci sono invece brani scritti tra il ‘68 e il ‘75 che ancora oggi risultano moderni. Questo dimostra quanto la musica anni Ottanta fosse più di effetto che di cuore. In quegli anni ci sono state tante campagne benefiche per i paesi poveri… È molto fastidioso vedere personaggi come Bono che salgono sul palco per fare proclami contro questo e per salvare quello. Come prima di lui Bob Geldof… Che con quei capelli va a parlare con Bush. Musicalmente geldof è stato zero… È un artista senza talento. Cosa resta della sua musica? I Boomtown Rats? sarà piuttosto ricordato come un organizzatore di concerti come il Live-aid. Bisogna purtroppo constatare che questo tipo di concerti non sono serviti a un cavolo per alcuna causa. Quelle operazioni benefiche, alla fine, sono state soltanto delle grandi messinscene. Degli eventi promozionali. La situazione di quei paesi non è migliorata e le cose vanno sempre peggio. Si fa tanto revival degli anni Settanta e Ottanta, però si celebra soltanto la canzonetta o la disco music… Il motivo è semplice: non c’è più gente che ama la cultura o che abbia
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voglia di sperimentare. Quando mancano queste cose non c’è niente da fare… La gente ascolta solo ciò che rimane nell’orecchio! È sufficiente sentire Lady Marmalade e ti convinci che sia un grandissimo pezzo. In realtà per certi versi lo è stato pure, ma è un tipo musica che si rivolgeva al pubblico in smoking di un casinò o di una serata per ricchi. È musica da discoteca, musica da cazzoni. Fortunatamente non tutti sono così, ma la maggioranza dell’odierna generazione popolare vive di soap, di reality show, legge pochi giornali e non ha passione. Che ricordi hai della stagione dei grandi concerti? ho assistito a tantissimi concerti. Per me che ero un quattordicenne, quello dei Beatles a Roma è stato un evento che definire esaltante è poco. Vedere quei quattro miti sul palco, davanti a me, a diciotto metri di distanza, è stata una botta terribile! La musica si sentiva poco perché la gente urlava troppo, però è stata un’esperienza incredibile. sciaguratamente uno stronzo salì sul palco per rubare il cappello a John Lennon e così il concerto fu interrotto a trentanove minuti! Loro si misero paura e fuggirono lasciando tutto sul palco, poi intervenne la polizia e ci fu un gran casino. Molto bello fu anche il concerto degli Who. Le loro erano performance favolose che contenevano tutta l’anima degli anni settanta: aggressività, violenza nei suoni e un immenso Pete Townshend. Un altro concerto meraviglioso fu quello dei Jethro Tull, per la prima volta a Roma al Teatro Brancaccio. Mi era piaciuto tantissimo il loro primo album, This Was, ma in quella sede presentarono Aqualung. Fu un concerto veramente splendido, in cui rimanemmo tutti impietriti. I primi Jethro erano davvero fantastici. Uno degli ultimi concerti esaltanti che ho visto è stato quello di addio dei Verve alla Brixton academy, nel lontano 1999. Ci andai come inviato del Corriere Della Sera e devo dire che assistei a un signor concerto, dai toni molto psichedelici. Tu che vivi la musica in maniera così viscerale, ti ha fatto un po’ male vedere come alcuni mostri sacri degli anni ‘60 e ‘70 si sono piegati alle regole commerciali degli anni ‘80? Penso a Santana, Eric Clapton, Jefferson Airplane in Starship, Steve Winwood, genesis, fleetwood Mac… È vero… Tanti grandi della musica si sono piegati a certi meccanismi
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puramente commerciali. Va considerato però che la vita artistica è una parabola e non puoi sempre stare nel punto più alto della curva. Prendiamo il grande hendrix, ha fatto tre album, diciamo quattro se ci vogliamo mettere Band of Gypsys. Quest’ultimo non è assolutamente ai livelli di Axis: Bold As Love e Are You Experienced?; è il disco di un bravo chitarrista che ha perso smalto e pure unghie. È l’opera di uno che è andato a duecentonovanta all’ora per poi bruciare subito il motore. Bisogna rendersi conto che tutta questa innovazione ad un certo punto si esaurisce. Tutti quelli che partono come grandi avanguardisti diventano poi, inevitabilmente, dei conservatori e tradizionalisti. In casa mia ho due quadri di Balla, uno futurista e uno del periodo figurativo rappresentante un ritratto. Il primo Balla, furioso e futurista, è fantastico, l’ultimo Balla è tetro. Nel quadro che possiedo non ha fatto altro che ritrarre una sua amante! Certo è un quadro bello, costato un sacco di soldi, ma non possiede nulla della sperimentazione che ha reso famoso il suo autore. Tornando alla musica, mi hai citato Clapton, di lui ritengo Pilgrim il suo più bel disco perché presenta un musicista nuovo, diverso, tranquillo, sobrio, appagato dalle droghe. È un disco di grandissima classe… La gente come lui è abituata a vivere in un certo modo e deve fare di tutto per mantenere altissimo il tenore di vita. Leggevo che lui ha tre Ferrari, quattro Porsche, sei aston Martin, otto ville, due case a New York, cinque castelli in Inghilterra, una casa alle Bahamas… C’è anche da dire che alcuni mostri sacri in vecchiaia impazziscono totalmente e non sanno più quello che dicono. Il manager di sakamoto e Fennesz è mio amico e mi ha mandato il link di una feroce intervista che ha rilasciato Jack Bruce dei Cream in merito ai Led Zeppelin. Gli si deve essere bruciato il cervello! Consapevole del fatto che in Inghilterra non si può parlare male dei Led Zeppelin e dei Queen, ha detto che sono due gruppi a dir poco penosi! sui Queen può dire quello che gli pare perché sono soltanto melassa, ma vomitare sui Led Zeppelin…! addirittura dire che l’unico elemento valido del gruppo è morto, annullando tutte le sperimentazioni di Page! ha fatto una gran brutta figura. Mi dispiace tanto perché Bruce era il grande bassista e la bella voce di un gruppo storico; però ha fatto una gran brutta figura. Diciamolo, una figura da stronzo!
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David Sylvian è una delle tue grandi passioni musicali… Ormai lo sanno tutti. È un grandissimo autore, di immensa profondità artistica e rappresenta la classe assoluta. ha prodotto dischi meravigliosi come Gone to Earth, Secrets of the Beehive, Dead Bees on the Cake. Il suo problema ultimo, a partire da Blemish, è l’ispirazione. Non riesce più a comporre cose come ai vecchi tempi. sarà anche stata colpa dei problemi matrimoniali che ha avuto… Lo stimo sempre perché ogni suo disco, alla fine, non mi dà mai fregature. L’ultimo suo concerto mi ha annoiato parecchio, però non rinuncerei mai ad andarlo a vedere dal vivo. Altra passione, anche se meno nota, è quella per Scott Walker… È un artista che ignorano in tanti e che bisognerebbe riscoprire assolutamente. È assurdo che nessuno lo conosca perché è un personaggio emblematico. ha iniziato nei Walker Brothers, un gruppo che si proponeva come una sorta di Beatles americani. Fanno dei dischi molto belli e melodici, accompagnati da una potente orchestra d’archi e caratterizzati dalla sua grande voce; poi, improvvisamente, crisi continue, dissapori di gruppo, scioglimenti e reunion. alla fine lui si allontana e si rinchiude addirittura in monasteri. In un’intervista rilasciata all’Observer, intitolata La mia droga è la solitudine, Walker dichiara di avere anche tentato il suicidio alla fine degli anni sessanta. ha scritto tantissimi brani melodici che hanno avuto la loro forza nella sua voce a dir poco straordinaria. Credo che sia la più bella voce del mondo… Nettamente superiore a quella Elvis Presley. soltanto che quest’ultimo è diventato un mito, mentre Walker è impazzito per non diventare famoso. La sua fregatura era quella di non sopportare di essere celebrato come una rockstar; perché non si sentiva tale, non amava i fan, perché aveva tanti problemi psicologici che lo portavano ad essere schivo e appartato. Era una specie di Orfeo. Consiglio a chi leggerà questa intervista di vedere 30 Century Man1, uno dei più bei film dedicati ad una rockstar che abbia mai visto. si resta incantati e incuriositi dalla bipolare, ma anche estrosa, personalità di Walker. È la follia assoluta, una specie di Van Gogh. 1
Scott Walter, 30 Century Man (Id., 2006), è un documentario sulla vita di scott Walker diretto da stephen kijak.
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Se non sbaglio, la voce di Scott Walker ha ispirato Brian ferry e David Sylvian… Non solo! ha ispirato David Bowie e Marc almond. Personalmente credo che abbia ispirato per certi versi anche Dave Gahan, il cantante dei Depeche Mode. È sicuramente il padre di quei cantanti che cantano con la voce molto bassa e densa. Premettendo che Northern sky è la canzone che ha segnato un periodo meraviglioso della mia vita ma, toglimi una curiosità, ti piace Nick Drake? In C’era un cinese in coma, verso la fine, la musica di fabio Liberatori sembra citare chiaramente River Man… Northern Sky è un capolavoro! Drake è un grandissimo artista, ha scritto delle canzoni meravigliose, delicate, poetiche. Erano un po’ lo specchio della sua fragilità psicologica. In merito a River Man, fu una mia indicazione perché volevo quel brano per il film. Lo avrei ottenuto senza problemi, ma l’autorizzazione tardava ad arrivare e non c’erano i tempi per aspettare oltre; così Fabio decise di rendergli un omaggio occulto. Nel momento in cui lo ascoltai, ricordo che dissi a Fabio di stare attento perché la musica mi sembrava uguale al brano di Drake… alla fine decidemmo di rischiare, anche se pregavo che nessuno si accorgesse di nulla. alla fine è andata bene! Inevitabile chiederti di Hendrix e Maledetto il giorno che t’ho incontrato… hendrix è quel mito che mi accompagna da quando ero ragazzino. Lo ascoltai per la prima volta un pomeriggio insieme ad alcuni compagni di classe. Invece di studiare i classici greci mettemmo sul giradischi Are You Experienced? e restammo tutti stupefatti. Mai sentito prima di quel giorno una chitarra simile! Quella Fender riusciva ad emettere suoni di tutti i tipi… Un giorno, un amico del gruppo decise di imitare hendrix provando – senza riuscirci – a spaccare la chitarra. Non contento, diede poi fuoco all’amplificatore provocando un incendio nel garage condominiale! Ricordo come se fosse ieri di come il portiere lo prese a bastonate!
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Poi vidi il concerto del ‘68 al teatro Brancaccio e fu per me una tempesta emozionale di suoni a dir poco indescrivibile… È stata questa venerazione che mi ha spinto ad omaggiare un autentico genio del rock. Una chitarra che ha accompagnato tanti bei giorni della mia esistenza. Come hai fatto ad accaparrarti tanti suoi classici per il film? Soprattutto considerando il fatto che Janie, la sorella del musicista, ti ha poi negato i diritti degli stessi brani per una compilation dedicata ai tuoi film… a quei tempi la sorella non era proprietaria di alcun brano del fratello. ho girato quel film durante l’interregno tra la perdita dei diritti di alan Douglas e Chas Chandler e l’imminente acquisizione da parte della hendrix. In quel momento di vuoto mi sono inserito e ho acquisito quelle canzoni a quattro lire. Foxy Lady la pagai dieci milioni, mentre se l’avessi acquistata dalla hendrix avrei dovuto sborsarne almeno ottanta. Fui veramente fortunato nel trattare direttamente con la casa discografica dalla quale – oltre alle canzoni – ho ottenuto anche il famoso video di Monterey. Oggi sarebbe impossibile fare una cosa del genere. Una volta Janie hendrix venne a Milano per proporre dei brani “nuovi” di Jimi che di nuovo non avevano nulla! Erano in realtà dei brani remixati, tra cui c’era anche la francamente brutta Driving South. Noi, che eravamo gente esperta, sapevamo benissimo che non esistevano assolutamente composizioni nuove! Le feci una lunga intervista per il magazine Sette, durante la quale mi raccontò numerosi fatti. In quella sede le dissi che avevo girato un film dedicato a Jimi hendrix, lei desiderava vederlo e così glielo diedi. Dopo la visione mi rispose in termini entusiastici e mi lasciò dicendo «se in futuro avrai bisogno di una canzone di mio fratello non dovrai fare altro che scrivermi e l’avrai perché capisco quanto lo hai amato…». È successo poi che, in occasione della pubblicazione del famoso cd compilation, necessitavo di qualche brano di hendrix e… Non c’è stato verso di ottenerlo! La sua risposta, rigida e formale, è stata quella che non poteva concedermi brani in via eccezionale, nonostante ci fossimo conosciuti e che fossi un estimatore del fratello… Rinnegò la sua promessa. La richiesta economica fu talmente esagerata che mandai a fare in culo tutti!
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Il film si apre in maniera folgorante con quello che poi sarebbe diventato un personaggio cult, ovvero Richard Benson. Come l’hai conosciuto? Ero attratto da questo personaggio molto buffo e a volte grottesco che conduceva un programma su TVa40, una rete locale. Parlava sempre dei chitarristi virtuosi, metteva un long playing, la telecamera stringeva sulla copertina e tu stavi là, fermo, ad ascoltare un disco in televisione e la cosa faceva già di per sé ridere. Manco un videoclip metteva… Non succedeva niente! alla fine del brano Benson si apriva in spiegazioni tecniche sottolineando i passaggi da do-diesis a re-bemolle… In poche parole parlava sempre di svisate di chitarra! Il suo aspetto e il suo modo di parlare sempre dei chitarristi ipertecnici mi spinsero poi a contattarlo. Segui la musica italiana? Non molto. Degli italiani salvo Buscaglione, Carosone, Mina e il primo Celentano. aggiungerei Battisti perché ha davvero portato delle cose nuove… anche se è stato un po’ sopravvalutato per opere di scarso valore. Esiste un rock italiano? Quello che esiste è soltanto una riproposizione del rock inglese o americano. La musica rock non è nata in Italia. In Italia sono nati Claudio Villa, Gigliola Cinguetti, Nilla Pizzi, Gino Latilla e Ricchi e Poveri. Non voglio sparare su Bobby solo perché, prima di rifarsi a Presley, aveva una sua personalità. Per dirla in breve, non riesco ad appassionarmi alla musica italiana perché ha sempre un occhio e un piede a sanremo… Deve sempre prendere una curva sud e c’è poca sperimentazione. Vasco Rossi ha prodotto cose eccellenti ma Ligabue, ad esempio, mi sembra Guccini con la chitarra elettrica. Ben vengano allora gruppi come i Negramaro che tentano di fare qualcosa di nuovo. Il tuo “film rock” preferito… Un bel film recente che ho visto è Across the Universe. Pensa che si è commosso anche mio padre che non ha mai seguito la musica di
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quegli anni. Quegli attori sono bravissimi e gli interventi di Joe Cocker e Bono sono splendidi. È un film molto raffinato. anche Shine a Light è molto bello. Non potendone più dei Rolling stones sono entrato in sala pieno di dubbi e invece ne sono uscito soddisfatto. Il film ha un suo significato… Ovvero che il rock ‘n’ roll non può impedire l’invecchiamento fisico, ma può farti restare ragazzo nell’anima. Tra i classici citerei sicuramente Woodstock perché è la carta geografica di quegli anni. Ci metterei anche The Last Waltz di scorsese dove, praticamente, canta tutto il meglio del rock di quel periodo. aggiungerei anche la follia di Magical Mystery Tour, un mediometraggio molto curioso, psichedelico, che rappresenta un momento dei Beatles fantastico. Tommy e Quadrophenia sono stupendi. a proposito, Pete Townshend lo scorso Natale mi ha inviato una bellissima lettera e il suo disco Scoop, con tanto di dedica. È stato carinissimo.
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INTERVIsTa a GaETaNO CURRERI (sTaDIO) a cura di Fabio Maiello
Com’è avvenuto l’incontro tra gli Stadio e Carlo Verdone? Ci siamo incontrati la prima volta durante un concerto a Castel sant’angelo con Lucio Dalla. Era l’anno in cui avevamo scritto le prime canzoni. Il nostro primo album non era ancora uscito, ma erano già pronte Chi te l’ha detto? e Grande figlio di puttana. Carlo stava preparando Borotalco, film in cui – come un convitato di pietra – aleggiava la presenza di Lucio Dalla. Durante la nostra esibizione suonammo anche quelle due canzoni che a Carlo piacquero molto… al punto da volerle inserire nel film. Poco tempo dopo, durante il viaggio di ritorno da Roma a Bologna, io e gli altri stadio ci fermammo in un cinema per vedere Bianco rosso e Verdone. Il film ci divertì ancora di più perché avevamo da poco conosciuto e apprezzato dal vivo il simpatico e divertente autore! È stata concordata insieme la scelta di brani come Un fiore per Hal e Chi te l’ha detto? Carlo cominciò la sua collaborazione con il nostro tastierista Fabio Liberatori, il quale avrebbe in seguito scritto le musiche di quasi tutti i suoi film. Fabio gli fece semplicemente ascoltare le canzoni contenute nel nostro disco. Tra l’altro la musica di Un fiore per Hal l’aveva scritta proprio lui. In questa fase iniziale, tra noi è Carlo c’è stata una sorta di mediazione di Lucio Dalla; invece da Acqua e sapone è nato un sodalizio artistico in tutti i sensi in quanto composi il brano principale del film dopo aver letto la sceneggiatura. Carlo rimase subito entusiasta della musica, a partire dall’intro di tastiera in stile new romantic inglese. siccome mancava ancora il testo, proposi di coinvolgere Vasco Rossi, il cui fenomeno era da poco esploso. Vasco
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colse benissimo il senso del film, esprimendolo in quella parte di testo che dice «Di notte poi si trucca lo sai e tutta la città impazzisce». ancora oggi resta un film bellissimo, molto riflessivo nonostante i toni da commedia e avanti nei tempi perché il mondo delle baby modelle e di tutto quello che sta intorno è sempre sulla ribalta. Cosa pensi del Carlo Verdone appassionato di musica? La forza di Carlo sta nell’essere un grande uomo di cinema e, nel contempo, un eccezionale conoscitore di musica. Per me i musicisti sono anche quelli che non suonano uno strumento alla perfezione. Carlo suona bene la batteria, ma è un “musicista” anche per l’incredibile capacità di scegliere le canzoni, per il suo fiutare e interpretare i nuovi movimenti. Doti che gli consentono di cavalcare spesso l’onda. anzi, è sempre più avanti delle mode perché la sua cultura musicale gli consente di anticiparle. I suoi film esprimono sempre una precisa e continua ricerca sulle molteplici possibilità sonore. Carlo è contagioso e cerca sempre di trasmettere agli amici le sue scoperte musicali; tanto tempo fa mi telefonava appositamente per consigliarmi i dischi da comprare… dischi di artisti che non avevo neppure sentito nominare e che all’ascolto si rivelavano molto belli e interessanti. anch’io seguo attentamente la musica e amo ascoltare tanti generi. In fondo la musica che mi piace è anche quella che vorrei fare! attualmente mi piacciono i Verve e reputo strepitosi i Coldplay perché riescono a fondere un po’ della mia cultura del passato, dai Beatles ai Pink Floyd. Per quanto riguarda il passato, nutro un grande amore per gli steely Dan e anche per i dischi solisti di Donald Fagen. Un gruppo che adoro e al quale mi sono anche ispirato sono i Doobie Brothers. Per esempio, Chi te l’ha detto? contiene dei passaggi che ricordano lo stile di Michael McDonald. Quella dei Doobie è un po’ l’emblema della musica che desidero fare: un po’ ritmica e un po’ melodica con venature rock. stasera a casa di alice è stata la tua prima collaborazione… La mia prima collaborazione senza gli stadio, in quanto le musiche originali le ho scritte insieme a Vasco Rossi. ho pensato anche agli arrangiamenti perché tutte le idee che ne uscivano fuori le sviluppavo con le tastiere e con la chitarra di andrea Fornili. Il fatto che nei titoli di testa compaia “Musiche di Vasco Rossi, arrangiate da Gaetano Curreri” è una pura questione di scelta commerciale dei produttori.
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INTERVIsTa a GaETaNO CURRERI
È un po’ come ai tempi di Borotalco, quando sui titoli scrissero in grande “Musiche di Lucio Dalla” e in piccolo “Canzoni eseguite dagli stadio”. Per me non cambia nulla perché io e Vasco siamo come fratelli e l’importante è che le cose si facciano insieme! In questo film c’è un brano strumentale, La fontana di Alice, al quale sono particolarmente affezionato. Carlo, in fase di post-produzione, aveva intuito che quella musica poteva funzionare in modo particolare su una sequenza e così decise di farla risaltare sacrificando addirittura un dialogo della Muti! solo un regista sensibile potrebbe scavalcare gli attori pur di esaltare certi aspetti musicali. L’idea mi entusiasmò a tal punto che – successivamente – chiesi a Vasco di scriverci sopra un testo. Così quel breve tessuto sonoro è poi diventato una bellissima canzone degli stadio intitolata Al tuo fianco. Questo episodio è la prova che anche dei brani strumentali scritti per una colonna sonora possono poi diventare delle belle canzoni. Verdone è mai venuto ai vostri concerti? se non erro è venuto una volta sola e suonavamo anche con Dalla! Mi piacerebbe molto che Carlo assistesse ad un nostro concerto. anche perché ci capita spesso di inserire un momento verdoniano in cui suoniamo Grande figlio di puttana, C’è e Acqua e sapone oppure un bis in cui contrapponiamo i brani arrivati ultimi al festival di sanremo a quelli con i quali abbiamo vinto addirittura il Nastro D’argento. Quegli anni sono stati importanti perché provavamo un po’ di delusione per quegli ultimi posti a sanremo che ti fanno sentire sempre “non capito”. Nello stesso momento eravamo però fortificati dal legame cinematografico con Carlo. La sua stima nei nostri confronti ci faceva pensare che scrivevamo della buona musica e che se vincevamo qualche premio un motivo doveva esserci! Perché Verdone non ha mai affidato agli Stadio una partitura completa? Forse per una scelta dovuta alla necessità di un rapporto stretto e diretto. Fabio Liberatori è il musicista di fiducia e gli stadio il gruppo dove lui prima suonava. Come gruppo abbiamo scritto semplicemente delle canzoni che sono state poi amalgamate con le musiche scritte da Fabio. Va detto però che in Borotalco e Acqua e sapone spiccavano molto le canzoni. soprattutto quest’ultimo credo che sia caratterizzato fortemente dal brano omonimo. ancora adesso, quando attacca la
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tastiera, la gente pensa alla scena finale in cui – mentre l’aereo della ragazzina parte – uno degli amici esclama «senti che forza ‘sto pezzo!» e inizia a ballare. Quando ci sono pezzi così precisi e caratterizzanti è inevitabile che finiscano per segnare un film. Per quanto la gente memorizzi benissimo brani come – per esempio – Un senso, Dimmi che non vuoi morire, Ti prendo e ti porto via, è difficile che riesca invece a ricordarne anche il compositore. simile discorso vale per il commento di un film, anche se bello… la gente farà fatica a fischiettare una musica studiata per una sequenza e che trova un suo senso solo su quest’ultima. Pur essendo bellissima anche senza le immagini risulterà comunque difficilmente memorizzabile dalla gente comune! se non fosse così saremmo tutti dei Morricone! Quanto ha influito nella vostra carriera l’esperienza con Verdone? Talvolta ci pensate ad una nuova collaborazione con lui? Carlo è stato il nostro pigmalione. sono fermamente convinto che senza di lui gli stadio non esisterebbero o avrebbero avuto una vita più breve. Involontariamente o – al contrario – per uno strano gioco delle parti, non siamo riusciti a costruire con lui un’autentica familiarità. Forse perché i suoi film sono un po’ come le nostre canzoni e le nostre canzoni sono un po’ come i suoi film! Due anni fa, in occasione del Nastro d’argento vinto per Un senso, incontrai Carlo e chiacchierammo un po’. Ci dicemmo cose del tipo «ti devo far sentire… poi ci vediamo…», ma dopo niente. Chissà, non si può mai dire. Da parte mia e degli stadio la porta è sempre aperta… anzi, spalancata! Da parte sua mi auguro lo sia altrettanto. amo la curiosità di Carlo, il suo continuo scoprire nuove possibilità di linguaggio senza mai fermarsi. Talvolta ha fatto dei recuperi, ma giusto per accontentare quel pubblico legato a certi suoi personaggi. anche in quei casi lo ha fatto sempre con eleganza. Molte delle sue commedie hanno un qualcosa di più delle connotazioni “nazionali”. sceneggiature come Compagni di scuola e Maledetto il giorno che t’ho incontrato sono di livello internazionale. Carlo è un artista completo, è un bravo attore, un bravo regista ed è bravissimo a dirigere gli attori! Probabilmente non ha fatto ancora tutto quello che può fare… secondo me è pronto per fare qualcosa di strabiliante. Magari con gli stadio!
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INTERVIsTa a FaBIO LIBERaTORI a cura di Fabio Maiello
Com’è nato il sodalizio artistico con Carlo Verdone? Nacque ai tempi di Borotalco, nel momento in cui Carlo inserì la figura di Lucio Dalla nella sceneggiatura… in quel periodo sia io che gli stadio lavoravamo con il cantante. Quando Carlo propose allo stesso Dalla di scrivere la colonna sonora, quest’ultimo pensò che fossi la persona più adatta a questo incarico, grazie anche ai miei studi al Conservatorio... e così delegò me alle musiche. alla fin fine Dalla non si occupò praticamente di nulla. Incominciai a lavorare sul materiale pre-esistente di Dalla e degli stadio – che potevano andare bene per una certa parte – e poi su quello originale. Carlo mi indicava le sue esigenze e io proponevo ciò che poteva essere adatto. Gli piacevano le cose che scrivevo perché eravamo in sintonia anche con i gusti musicali. alla fine della lavorazione, soddisfatto, mi disse «Da tempo cercavo una persona con cui lavorare e credo proprio che questa persona sia tu!». Detto sinceramente, non diedi molto peso a queste parole perché nel nostro ambiente se ne dicono tante… Poi, con mia grossa sorpresa, mi richiamò per il film successivo, Acqua e sapone. Da quel momento la nostra è diventata un’autentica amicizia che ha attraversato quasi tutti i suoi film. A proposito di Borotalco, perché tra le canzoni è stata inserita Un fiore per Hal, uno dei brani più belli e ambiziosi degli Stadio? È stata una mia scelta… ne avevo scritto la musica e mi piaceva che ci fosse – seppur brevemente – un accenno ad una canzone che potesse evidenziare una cifra stilistica; che potesse legittimare il fatto che si trattasse di un brano bello scelto da un bravo cantautore. Nel caso specifico Lucio Dalla, che ha cantato nella parte centrale. La prima
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parte – che avrei dovuto cantare io – la interpreta il chitarrista Ricky Portera. È una suite di tre parti, aveva un inizio romantico e nel contempo progressive perché armonicamente più complicato. Il pezzo non ha una grande visibilità nel film, però ci sta benissimo. Invece, in acqua e sapone avete inserito il brano C’è, un classico del repertorio Stadio… Di quella fu presa soltanto una parte musicale. È una canzone romantica, scritta da Luca Carboni, che sottolinea il tipo di stile che avrei desiderato dare agli stadio. Uno stile leggermente più anglofono di quello che il gruppo ha seguito quando sono andato via. se ci pensi bene è una canzone che – cantata in inglese – potrebbe essere un classico di Whitney houston, anita Baker e qualsiasi altro interprete pop internazionale. In Acqua e sapone c’è tanta della mia passione per il vecchio, grande, rock. ho cercato di inserire tutto il possibile. ho dato molto risalto alle canzoni degli stadio perché in quel periodo cercavamo una decisiva affermazione. Anche se sono canzoni, è comunque evidente che dietro c’è un autore di colonne sonore… Perché la parte musicale è molto curata. Non è una semplice parte di accompagnamento di accordi unicamente funzionale al testo. La musica scritta in base al testo è il metodo dei cantautori che – onestamente – non mi ha mai solleticato più di tanto. su questo punto credo di essere stato un outsider sin da ragazzino… ricordo che gli amici proponevano Venditti e De Gregori mentre io preferivo ascoltare i Genesis! Mi esalto invece quando sento Paolo Conte e tutti coloro che confezionano anche musicalmente le loro opere. Non mi interessano i super-testi profondi e riflessivi basati su tre accordi. a quel punto meglio sentirsi Bob Dylan, che è molto meglio… è uno che con tre accordi ha fatto cose ben più emozionanti! Dalle tue musiche si coglie anche una passione per gli impressionisti… Certo… satie, Debussy, Ravel. Un’altra delle cose in comune che abbiamo Carlo ed io è quella di permettere all’ascoltatore di percepire, in parte delle colonne sonore, una lontanissima ispirazione che bisogna poi andare a spulciare. È chiaro che ci sono dei punti in cui l’ispirazione è venuta anche dalla musica impressionistica. si tratta però di atmosfera, l’ambito e il materiale con cui si cerca di comuni-
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INTERVIsTa a FaBIO LIBERaTORI
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care. Ovviamente ci sono le distanze, perché loro sono dei geni ed io un modestissimo compositore di musica ad uso! Come si sviluppa l’iter creativo della composizione? solitamente Carlo decide il tipo di suono che vuole per le sue immagini, mentre io devo cercare in qualche modo di seguire i suoi pensieri. In realtà i film sono talmente tanti e diversi, ma una costante c’è: ovvero l’uso dell’elettronica che piace a entrambi. Magari anche l’inserimento di alcuni strumenti cardine degli anni d’oro del rock come il pianoforte Fender e certi synth di matrice progressive. Queste sonorità fanno parte di un nostro bagaglio di passione comune che tendiamo sempre a mettere in ogni film… Le mie sono musiche molto atipiche… anomale. Personalmente mi sembrano delle brevi, ma profonde, pennellate sonore… Penso a Io e mia sorella e Maledetto il giorno che t’ho incontrato… hai detto bene, sono come dei tratteggi tenui, sfumati… I film che mi hai citato sono ancora oggi quelli che Carlo ama di più musicalmente, e io ne sono felicissimo… Anche il brano di coda de L’amore è eterno finché dura è notevolissimo... Con quelle sue sonorità diafane e spaziali… Quello è un brano nel quale Carlo è intervenuto molto. Lì c’è tutto il nostro gusto per alcuni autori e gruppi che – a dire il vero – sono sempre stranieri. Un elemento comune è che a entrambi non piacciono le marcette dei film italiani. La musica della commedia italiana odierna è scritta in modo poco interessante e talvolta, addirittura, mi irrita. I clarinetti mezzi stonati e le armonie goffe, non fanno parte del mio modo di intendere la musica. Mi è sempre piaciuto scrivere musica che presentasse, oltre alla purezza dello stile, anche un tentativo di avvicinarsi a qualcosa che possa essere considerato un fondamento. Non cado mai nella progressione armonica scontata. se c’è una linea che conduce tutte queste opere così diverse tra loro è proprio questa. appena è possibile cerco sempre di inserire brani di questo tipo, con una struttura e una sonorità che non debbano essere per forza il valzer. C’è tutta una tendenza nel cinema italiano di misinterpretare quello che deve essere l’accompagnamento musicale delle commedie…
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almeno questa è la mia opinione. Naturalmente il mondo mi dà torto perché tutti amano gli autori che fanno quel tipo di cose. Ma devo essere sincero con me stesso perché altrimenti mi sentirei un verme! Quello che mi ha sempre colpito è che la tua musica non è assolutamente da commedia. Le tue partiture sono intimistiche, spesso malinconiche, a tratti ambient… Però il tutto risulta paradossalmente perfetto e funzionale. hai espresso esattamente quello che è la mia musica! È una cosa che mi dà tanta soddisfazione… Secondo te, come si suddivide il merito del successo dei primi Stadio e del primo Verdone? Curreri sostiene che senza Verdone, probabilmente, gli Stadio non avrebbero ricevuto quel successo deflagrante... Come sempre, Gaetano è molto schietto e sincero… a mio avviso, Verdone ci ha aiutato più di quanto abbiamo fatto noi come gruppo. In fondo è sempre bello quando in un dare-avere ci si trova in un rapporto di sessanta/quaranta percento, invece di un dieci/novanta. se un successo si basa soltanto nell’assumere all’interno di un’opera i meriti di un’altra opera che vive di vita propria, alla fine risulta deludente o non conveniente per entrambi i mandatari della collaborazione. Invece è bello quando ci si può chiedere chi ha aiutato di più l’altro… perché vuol dire che c’è stato un equilibrio. anche se poi, naturalmente, sono d’accordo con Gaetano… il sessanta percento del merito ce l’ha sicuramente Verdone. Da parte nostra però, come stadio, la rimanente percentuale l’abbiamo portata con onore! Ancora oggi manca una compilation contenente le tue musiche composte per Verdone… Questo è un punto assai dolente. abbiamo cercato di farne una anni fa ma non ci siamo riusciti. Ogni casa vuole tenere i diritti per sé e contemporaneamente non vuole disporre cose per gli altri. Ogni produttore vuole tenersi i diritti completi di ogni film. È una cosa tremenda… andai a parlare anche con il responsabile delle edizioni musicali della Cecchi Gori, ma fu impossibile ottenere qualcosa. Di quale lavoro ti ritieni più soddisfatto? Come qualità, tecnica e arrangiamenti, Grande grosso e Verdone… credo di essere uno dei pochi al quale è piaciuto tantissimo il secondo
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episodio. adoro il personaggio del professore dai tempi di Viaggi di nozze e – in un certo senso – anche di Bianco rosso e Verdone, che ha più o meno gli stessi caratteri. Per questo film ho fatto tantissimo da solo. Per il finale ho voluto fare una sorpresa a Carlo. Lui cercava un brano di repertorio piuttosto forte, invece io gli ho proposto un bel rock strumentale con chitarra elettrica che gli è piaciuto tantissimo al punto di inserirlo. È stato un caso più unico che raro. Ne fui contentissimo! Dal punto di vista del materiale musicale mi piace il finale di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, un tipo di composizione che si può ritrovare anche in L’amore è eterno finché dura. In Compagni di scuola c’è un pezzo tra i miei preferiti che non ha trovato molto risalto. si intitola Oscillazioni nella costellazione di Orione… era musica per danza poi riarrangiata e inserita nella scena sulla spiaggia all’alba.
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GLI aUTORI
Simone Arcagni Critico e studioso di cinema e nuove tecnologie, è direttore responsabile di Close-up. Storie della visione. Collabora con Nòva – Il Sole 24 Ore (sul cui sito cura anche un blog) e con le riviste Tutto Digitale e Il Mucchio Selvaggio. Consulente editoriale e curatore di collana per le edizioni kaplan. Insegna storia del cinema presso l’Università di Palermo. Alberto Castellano saggista e critico cinematografico, scrive per Il Mattino dal 1989. autore di numerosi saggi e volumi dedicati, tra l’altro, a Franchi e Ingrassia, Eastwood, sirk, Verdone, comicità e doppiaggio. Componente della commissione di selezione della Settimana della Critica della Mostra di Venezia dal 1997 al 2000, ha anche insegnato semiologia del Cinema all’Università di Fisciano-salerno. giandomenico Curi autore televisivo, saggista e regista, si occupa di cinema e musica. ha scritto, tra l’altro, volumi su Waida, Nouvelle Vogue, Dalidà, Gaber, oltre a I frenetici. L’enciclopedia dei film che hanno inventato i giovani (arcana, 2002). ha diretto il film musicale Ciao ma’, la serie Valentina e documentari per Rai Educational. Insegna semiologia del Cinema e degli audiovisivi all’Università di Roma Tre. Diego Del Pozzo Giornalista e critico, si occupa di cinema, televisione e fumetti. E’ autore di Ai confini della realtà – Cinquant’anni di telefilm americani (Lindau, 2002) e dei testi del volume fotografico Scenari – Dieci anni di cinema in Campania (Dante & Descartes, 2006). Collabora col quotidiano Il Mattino. ha pubblicato numerosi saggi in volumi collettivi, enciclopedie, cataloghi di festival, riviste specializzate.
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GLI aUTORI
Bruno Di Marino studioso dell’immagine in movimento, da vent’anni si occupa in particolare di sperimentazione audiovisiva. ha pubblicato diversi libri tra cui: Clip! – 20 anni di musica in video (Castelvecchi, 2001); Studio Azzurro – Tracce, sguardi e altri pensieri (Feltrinelli, 2007), Pose in movimento. Fotografia e cinema (Bollati Boringhieri, 2009). Vincenzo Esposito storico del cinema. ha scritto una monografia sul regista alf sjöberg e un libro sull’età d’oro del cinema svedese, La luce e il silenzio (L’ancora del Mediterraneo, 2001). ha pubblicato numerosi saggi in volumi collettivi e riviste specializzate. Dirige l’Italian Film Festival di stoccolma ed è vicepresidente della F.I.C.C. Insegna storia del Cinema all’Università degli studi di Napoli “Federico II”. giacomo fabbrocino E’ tra i fondatori della scuola di cinema Pigrecoemme. Videoartista, ha esposto alla decima Biennale del Mediterraneo (sarajevo, 2001) e al Vittoriano di Roma. scrive per la rivista on line The Others e ha curato la filmografia sul cinema postmoderno in QM (Quaderni della Mediateca del Comune di Napoli, 2002). Rosario gallone Nato a Napoli il 26 luglio 1970, è uno degli artefici della società Pigrecoemme, tra le più rinomate scuole di cinema e televisione del sud Italia, nella quale insegna regia e analisi e critica. E’ anche regista, sceneggiatore e creatore di format. Michelangelo Iossa Nato a L’aquila nel 1974. E’ co-autore di The Beatles (Editori Riuniti, 2003) e autore di Le canzoni dei Beatles (Editori Riuniti, 2004), Gli ultimi giorni di Lennon (Infinito, 2005), Le canzoni di George Harrison (Editori Riuniti, 2006). ha ricevuto il Premio della Cultura – Anno 2004 dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio. fabio Maiello Giornalista e saggista, è stato critico cinematografico del quotidiano Roma. Da vent’anni è studioso dell’opera di Dario argento, al quale ha dedicato i libri L’occhio che uccide (Esi, 1996) e Confessioni di un
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GLI aUTORI
maestro dell’horror (alacràn, 2007). ha partecipato a numerosi volumi collettivi, tra i quali Fino all’ultimo film (Editori Riuniti, 2001) e L’eccesso della visione (Lindau, 2003). Corrado Morra Giornalista e critico d’arte, ha pubblicato La virtù delle vie possibili (Beatrix VT, 1999), sui rapporti tra Pensiero della differenza e realtà virtuale, e Afterimage. Al di là del cinema, il cinema come Aldilà (Quaderni della Mediateca del Comune di Napoli, 2002). Insegna sceneggiatura alla scuola di cinema Pigrecoemme di Napoli. Antonio Tricomi Nato a Napoli il 7 novembre 1954, è giornalista professionista, redattore del quotidiano La Repubblica. Laureato in Lingua e letteratura inglese con una tesi in storia del cinema, nei suoi anni più verdi ha collaborato con la rivista specializzata Cinemasessanta, col quotidiano Paese Sera e con la cattedra di storia del Cinema dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
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Cinema e storia Collana diretta da Pasquale Iaccio
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P. Iaccio, Cinema e storia, prefazione di Mino argentieri (III ed.) P. Iaccio (a cura di), Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini P. Iaccio (a cura di), Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone P. Cavallo, G. Frezza (a cura di), Le linee d’ombra dell’identità repubblicana. Comunicazione, media e società in Italia nel secondo Novecento M. Melanco, Paesaggi, passaggi e passioni. Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, introduzione di Gian Piero Brunetta C. Montariello, La Napoli milionaria! di Eduardo de Filippo. Dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità G. Fusco, Le mani sullo schermo. Il cinema secondo Achille Lauro G. De santi, B. Valli (a cura di), Carlo Lizzani. Cinema, storia e storia del cinema P. Iaccio (a cura di), Rossellini. Dal neorealismo alla diffusione della conoscenza G. De santi, Maria Mercader. Una catalana a Cinecittà F. Maddaloni, Cinema e recitazione. Dalla chiassosa arte del silenzio all’improvvisazione televisiva R. Bignardi, Carosello napoletano. Il cinema, la danza e il teatro nell’opera di Ettore Giannini D. Del Pozzo, V. Esposito (a cura di), Rock Around the Screen. Storie di cinema e musica pop
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