Storie di cinema 8862980949, 9788862980944

Un viaggio tra i grandi temi del cinema di ieri e di oggi in compagnia di una voce decisamente fuori dal coro. Una racco

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Italian Pages 349 [180] Year 2010

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Storie di cinema
 8862980949, 9788862980944

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      Pino Farinotti     STORIE DI CINEMA             © 2010 Morellini Editore, Gelmini EDITORE  

  Trama     Un viaggio tra i grandi temi del cinema di ieri e di oggi in compagnia di una voce decisamente fuori dal coro. Una raccolta di saggi che uniscono la precisione del critico alla fantasia del romanziere e vincono la sfida di rimanere sempre, programmaticamente,"dalla parte del pubblico". Tutte le storie sono già state inventate così come tutti i codici dominanti, e non è stato il cinema a inventare e raccontare per primo. Il nodo è proprio questo: il pericolo che al cinema vengano attribuite paternità che appartengono ai maestri legislatori di altre epoche, quando il cinema non c'era. Ne "Gli invincibili" Virginia Gray e Gary Cooper sono straeleganti, lei ha un abito da sera degno di Versailles, eppure sono su un fiume della Virginia nel 1765, sulle sponde ci sono foreste e indiani. Lei dice "...se ti guardo negli occhi vedo orizzonti, vedo montagne inesplorate e l'infinito. La tua vita è là, come quella dell'aquila è nel cielo." Non c'è scena più fasulla ma raramente il cinema presenterà un maggiore incanto. Parto dalla mia stucchevole affermazione (e riaffermazione) rispetto al cinema italiano di adesso: la posizione dell'innamorato tradito perché c'era un tempo in cui eravamo i più bravi, mentre adesso...  

  PREFAZIONE     Chi nella propria vita abbia visto più di una decina di film sa che la storia del cinema non si può che declinare al plurale: quella che per comodità di targhette accademiche chiamiamo “Storia” è in realtà un tessuto composito di fili intrecciati, un canovaccio di storie che si incontrano, si scontrano, si intrecciano e si strecciano, si spezzano e si riannodano all’infinito. In questo intreccio si muove il libro di Pino Farinotti, che è una raccolta di articoli e interventi apparsi su web e carta stampata e che programmaticamente si intitola “storie” del cinema. Storie nei due sensi: talvolta vere e proprie piccole ricostruzioni storiche, talvolta affabulazioni e racconti, che entrano nel tessuto vivo della “storia”, seguono fili e intrecci e ci restiuiscono frammenti di una raffigurazione, idee per una ricostruzione, aree su cui tornare a porre l’attenzione. Se si può (o si deve) cercare un’unità tra questi apparenti disiecta membra, la si trova proprio nell’implacabile volontà di Farinotti di far luce, di delineare, di raccontare non solo per giustapposizione, ma individuando temi, interessi, aspirazioni. Ne esce un concentrato di farinotti-pensiero, che è cosa che si ama o si odia, ma di fronte alla quale è difficile rimanere indifierenti, perché Pino Farinotti non rifugge da prese di posizione nette e da parole pesanti: “morale” innazitutto, e poi bellezza, modelli (quelli estetici e morali, non quelli che sfilano in passerella), letteratura, eleganza, eroi. Sono parole di cui avvertiamo la disabitudine, la desuetudine e la scorrettezza rispetto ai modelli culturali che sono imposti e ci imponiamo, ma di cui non possimo fare a meno di provare la nostalgia (altra parola chiave di questo libro). La silloge dei testi che vengono presentati è divisa programmaticamente in grandi capitoli che raccolgono i temi forti che da sempre hanno caratterizzato lo sguardo dei critici, degli storici e dei grandi narratori di cinema. Si incomincia con gli Eroi, le grandi figure di registi e attori senza i quali il cinema come lo conosciamo neppure esisterebbe (e la cui mancanza, al momento della morte, ci rende sgomenti e ci fa pensare che il mondo abbia perso qualcosa di essenziale), per approdare poi a Cinema e politica (relazione fondativa o peccato originale del cinema?), e a Cinema e società (in un gioco di influenze che nel pensiero di Farinotti è reciproco: il cinema ha “fatto” la società almeno tanto quanto la società si è espressa nel cinema). Il capitolo dedicato al Cinema Italiano è quello in cui la parola chiave “nostalgia” si declina più profondamente, nella constatazione di un declino che non è laudatio temporis acti fine a se stessa, ma indicazione di una direzione, anzi di direzioni, per un ritorno, una ripresa. L’ultimo capitolo, Elzeviri, rappresenta un’uscita dal cinema verso gli altri territori della cultura e dell’arte e si chiude con una conversazione tutta da leggere tra Pino Farinotti e Massimiliano Finazzer Flory dedicata alla notte tra El Greco e Buñuel. In un capitolo a parte, posto quasi a epigrafe del volume, si parla, come è giusto, di Avatar. Troppo presto per inserire questo singolo film in una prospettiva storica, ci stiamo tutti chiedendo se siamo di fronte a un nuovo capitolo epocale o soltanto a un fortunato accidente della cronaca. Un ultimo avviso: il farinotti-pensiero si esprime in farinottilingua, che è un italiano diretto, muscolare, che unisce la precisione dello storico alla fantasia del romanziere e si tiene assai lontano dalle fumisterie di molta lingua criticocinematografica. Con un’altra implacabile volontà: quella di capire e di farsi capire, di suscitare accordo o opposizione, e

di stare sempre, come dice un noto tormentone farinottiano, “dalla parte del pubblico”. E.G., editor    

  INTRODUZIONE DI PINO FARINOTTI     Questa è una storia – poconormale - del cinema (anzi, sono “storie di cinema” al plurale, come l’editor ha fatto notare a me e a voi, nell’ottima prefazione). Aggiungo una didascalia che mi riguarda: “dalla parte del pubblico”. Che non significa “chiave volgare”, significa “chiave rispettosa”, perché non esiste, davvero non esiste, in tutto il tempo del cinema, un capolavoro autentico proiettato in una sala semivuota. “Dalla parte del pubblico” non vuol dire dalla parte di Boldi e De Sica, gente che riempie le sale con battute come “sono l’ottavo nano, Segolo” facendo parte, di fatto, non del cinema ma di un prodotto solo per quel mercato e solo per quella funzione. Significa anche l’altra faccia della medaglia: ambienti underground-con-tessera abitati da quattro cinefili delusi e repressida-ideologia disposti nei quattro cantoni o da critici a loro volta “repressi” che non ridono e non si emozionano perché ormai è sufficiente pensare di ridere e di emozionarsi. Dalla parte del pubblico è un avallo di ciò che il pubblico buono ha già capito. Dunque ho indicato Boldi&De Sica come prodotti da sala stracolma, e indico un Tsai Ming-Liang come prodotto da sala vuota. Quest’ultimo è sospinto da una certa “moda critica” e l'indicazione al pubblico che lo evita è “vergognati se non te li fai piacere”. Perché questa è l’indicazione di chi vorrebbe far testo. Prodotti opposti della stessa medaglia, appunto. Cappello a cilindro, Tempi moderni, La grande illusione, Via col vento, Les enfants du paradis, Ossessione, Il porto delle nebbie, Notorious, Ladri di biciclette, Viale del tramonto, Cantando sotto la pioggia, Shane, Il posto delle fragole, Sentieri selvaggi, Lawrence d’Arabia, Amarcord, Qualcuno volò…, Il padrino, Apocalypse now, Toro scatenato, Manhattan, Lisbon Story, Tutto su mia madre, Fratello dove sei?, La stanza del figlio, Il signore degli anelli (il primo)… estratti a caso dalla memoria immediata, senza indugi e mediazioni, non erano proiettati in sale semivuote. Utente Il discorso “critica” è articolato e complesso. L’assunto semplificato è che il comune utente del cinema vede un film, lo gradisce e il giorno dopo la critica lo informa che il film era insignificante. Insomma se quel film gli è piaciuto l’utente è… inadeguato. Oppure il contrario: la critica beatifica un titolo che ha annoiato a morte il comune utente. Nella premessa, proponendo la didascalia di Farinotti e del Farinotti, “dalla parte del pubblico” e citando quei titoli ho già fatto la mediazione. Ho dato un giudizio. Del resto il ruolo della critica è… innaturale. È una tesi semplice e naturalmente va intesa come tendenza prevalente, perché ci sono scrittori di cinema che hanno l’intenzione e la filosofia corretta, informano e rapportano, che non si ritengono profeti titolari di verità esclusive e dispensate dall’alto. Il cinema, come la scrittura, la musica, e le arti figurative, formula la sua proposta. A ciascuno la proposta arriva secondo sentimento e cultura. Si pone nella coscienza e lì fa il suo lavoro. Porta pensiero, indicazioni, magari dolore, magari felicità. Ma il rapporto è in prima persona, non sono ammessi intrusi che si inseriscano col loro duplice ricatto: devi sentire e pensare come loro, altrimenti sei un idiota. Se un’opera ti deve essere spiegata da qualcuno non sei tu che non l’hai capita, è l’opera che non si è fatta capire. È da trascurare. E così torniamo, di nuovo, alla mediazione di prima. Credo che questa sia dunque una chiave importante, e garante. Lo Spero. Lumière La storia non procederà per temporalità e cronologia. Sarebbe davvero inopportuno, perfettamente inutile, proporre una storia che partisse dalle officine Lumière (1895), per passare attraverso il muto italiano, i comici americani (sempre muti) il “faticoso” cinema

russo (sempre muto), salire col “Cantante di jazz” primo “parlato” (1927) e poi il Fronte popolare, e poi il Neorealismo, eccetera. Già troppo fatto. E la lettura non reggerebbe, si passerebbe oltre continuamente. Questa storia andrà per analogie e contrari, e in funzione di ciò che il cinema, nel tempo, ha lasciato, ha fissato, ha reso vivo e presente. Il cinema secondo la prospettiva di questo tempo. E secondo il tempo che passa e che (quasi) tutto screma, sfuoca e appiattisce, ed è un tempo intollerante e impietoso che risparmia solo l’essenziale, risparmia ciò che vale la pena. Guarderemo, naturalmente, a tutto il cinema, ma privilegiando proprio quel “quasi” che ho messo fra parentesi. Una certa parte della nostra educazione sentimentale e (ma sì alla pari) intellettuale viene da quel “quasi”. Il tempo ha fatto giustizia. Oliver&Hardy, ignorati o “criticamente” disprezzati, sono vedibili adesso quasi come allora. Chi l’avrebbe detto allora? È un’estremizzazione, ma vale. Dunque storia del cinema secondo: applicazione e utilità vera, testimonianza viva, segnali, echi ed eredità risolti e consolidati, estetica e modelli sempre comprensibili. Con un assunto, mio, discrezionale, forse poconormale: il cinema, nella sua prima opzione, è evasione. Stan&Oliver Ne Gli allegri scozzesi, siamo nel 1935, Stan e Oliver sono distaccati in India, soldati di Sua Maestà. Indossano il kilt e sono Laurel&Hardy, come li conosciamo, gag e tutto il resto. Hanno l’incarico di raccogliere la spazzatura in un bidone. Sono muniti di un bastone a punta per le cartacce. Cominciano il lavoro. Da qualche parte una banda militare intona una ballata scozzese. I due cominciamo a muoversi al ritmo della musica, girano intorno al bidone, si incrociano, si fanno dei cenni, poi i movimenti diventano ballo. E il ballo li distrae dal compito. Sopraggiunge lo storico antagonista, il baffuto arcigno James Finlayson, qui nelle vesti di un sergente. Hardy lo vede e se la dà a gambe, Stan, ignaro continua a ballare, sempre più compreso, sempre più eccitato. Mostra il sedere al sergente, lo prende per mano, lo guida in un paio di passi, fa una promenade in avanti verso l’obiettivo aprendo e chiudendo le gambette magre. Poi si accorge del “cattivo” e anche lui se la dà a gambe, inseguito dal sergente. Laurel supera di slancio una vasca piena d’acqua, mentre l’inseguitore ci cade dentro, poi raggiunge il compagno che si è già appostato davanti alla prigione, entrano marciando nella cella, chiudono la porta, buttano via la chiave e continuano a ballare al suono della banda. Trattasi di cinema. Del cinema. Alla coppia non serve altro che Laurel&Hardy. Non parlano, muovono quei corpi senza grazia con grazia infinita. Si rapportano con chi li guarda come nessun’ altro. Il poco di cui hanno bisogno non te lo spieghi, è pieno di misteri. È l’incanto non misurabile del cinema. I miei studenti della Scuola Nazionale del Cinema e dell’Accademia di belle arti di Brera, dunque attitudini, culture e destini diversi, hanno guardato questa sequenza con sconcerto e sorpresa, prima di esplodere con un applauso alla fine. Laurel&Hardy, quasi sconosciuti, si accreditavano come una possibilità di incanto mai esplorata. La generazione che crede che il cinema cominci con Pulp Fiction si è scontrata col Cinema Assoluto, non lo ha capito ma lo ha intuito, e lo ha usato. E, per un momento, ne è uscita felice. Laurel&Hardy erano esportati in tutti i continenti, anche in zone lontane e nascoste, quasi estranee al cinema, divertivano tutti ed erano amati da tutti, senza doppiaggio, e anche la gente dei grandi ghiacci e delle grandi sabbie si divertiva quando, incidentalmente, poteva vederli. Un sortilegio che appartiene a loro e a pochi altri, ma soprattutto a loro. Quando mi si chiede una citazione, un ricordo, una classifica, senza rincorsa, senza pensiero, è questa la sequenza che la memoria richiama e che si impone senza esitazione. Questa storia del cinema parte da loro, Stan Laurel e Oliver Hardy.    

 

  AVATAR     AVATAR, IL NUOVO BIG BANG, MA È SOLO UN FILM   Partiamo dall’iperbole degli incassi. Avatar è primatista del mondo per velocità, ha battuto il record assoluto (1 miliardo e 800mila dollari) di Titanic, dello stesso Cameron. Un mio tormentone è quello riferito al rapporto successo di pubblico-qualità artistica: un capolavoro non è mai proiettato in una sala troppo piena. Nel “caso Cameron” tutto concorre all’iperbole: dollari, uffici stampa, storia, marketing spontaneo. Un meccanismo sospetto, favorito dal target prevalente del cinema, i giovani eccetera, perfetto per accogliere il fenomeno Avatar. Un altro sortilegio si chiama “effetti speciali”, un altro “digitale”. Altre parole magiche per il botteghino. Sappiamo. Logica L’iperbole ha una certa logica. Chi mi conosce sa che non sono un innamorato del fantasy ma Avatar è decisamente un film importante, che va visto, che lascerà dei segnali. Nella sua recensione su Mymovies Giancarlo Zappoli scrive: “ci vogliono registi capaci di osare, sapendo che tutte le storie sono già state narrate ma che alcune meritano di essere ribadite con tutta la forza della spettacolarità che è possibile mettere in campo”. È un’affermazione perfetta. Tutte le storie sono già state inventate così come tutti i codici dominanti, e non è stato il cinema a inventare e raccontare per primo. Il nodo è proprio questo: il pericolo che al cinema vengano attribuite paternità che appartengono ai maestri legislatori di altre epoche, quando il cinema non c’era. Avatar contiene metafore infinite, ispirazioni radicali, dolori e sentimenti naturali, antropologici. Il cinema arriva buon ultimo nella scoperta, ma diventa importante nella rappresentazione. Il regista, nello sforzo, nella creatività, nell’estetica, insomma nel “cinema”, si è portato molto avanti, ha davvero evoluto, se non trovato, una frontiera: fantasy, davvero fantasy, nobile fantasy, se non arte nobile. Il tema è antico, espresso dal pianeta Pandora: l’umano civilizzato che si ritrova in un mondo primordiale e naturale e si integra coi “primordiali/naturali”, ritrovando la prima mistica, magari incoraggiato dall’amore. L’enfatizzazione del film, avallata anche dai numeri, ci sta. È un titolo che i libri certo riporteranno. Il nodo è un altro, che esprimo così: sempre di film trattasi. Riprendo il concetto di Zappoli. “Tutto è già stato inventato e raccontato”. Parto da alcuni richiami al cinema che sono espliciti, fra gli altri, Guerre stellari, naturalmente Aliens e Terminator (2), queste ultime autocitazioni di Cameron. E poi Balla coi lupi, col bianco Costner che a contatto col popolo rosso si integra diventandone alleato contro la propria gente. È esattamente lo stesso percorso dell’Avatar. Il film diretto da Costner è di pura derivazione cinematografica, lo sceneggiatore è Michael Blake. Intendo dire che alla base non c’è un romanzo, un testo nobile. Balla coi lupi si è riferito a un tema, a un codice fondamentale, ancestrale, l’Eden. Il pianeta Pandora cos’è se non una proposta di Eden? Il codice, quel primario bisogno umano, sappiamo da dove derivi, dai primi tempi, dalle prime scritture dell’umanità, orientali, mediorientali, cristiane, che siano. Grandi chiavi Maestri-legislatori: non sono molte quelle grandi chiavi. L’eroe, l’avventura e il ritorno (Omero), l’aldilà (Alighieri), il grande amore (Romeo e Giulietta, Shakespeare), passioni estreme (i tragici greci), Cenerentola e il mito dell’emancipazione, Freud, senza il quale gran parte della letteratura e del cinema (Hitchcock per esempio) non esisterebbe. L’Eden è

il primo sentimento, la prima idea e il primo desiderio. È nostro, non si lascia rimuovere. Un’eco importante, letteraria, di minore mitologia certo, sull’uomo che si integra e si ribella alla propria civiltà arriva da 1984 di Orwell il cui protagonista, Winston Smith, è pur sempre alla ricerca del “luogo dove non c’è tenebra”. Un’altra rappresentazione perfetta, che fa testo, arriva da Egdar Rice Burroughs, l’inventore di Tarzan, l’uomo scimmia che preferisce rapportarsi con la foresta e gli animali, piuttosto che con la cosiddetta civiltà. Questi nomi e questi esempi non sono una partenza enfatica, ma un’ispirazione che Avatar raccoglie secondo le regole più avanzate del cinema. Arrivo a dire che in chiave estetica di immagine e di racconto, forse nessuno ha mai rappresentato con tanta “meraviglia” il rapporto fra umano e natura. Mistiche Ci sono due episodi di suggestione altissima. Uno è quello dell’albero della vita, una pianta immensa, bianca, che contiene tutte le mistiche; è detentore dell’energia presente e custode di tutte le anime precedenti. Gli Avatar l’adorano. L’albero della vita non è un precedente. Fa parte dello spirito e della figurazione già conosciute. C’è anche una memoria di cinema, in Pocahontas di Disney, nella figura di Nonna Salice che identifica il senso panico nella vita dei nativi. Credo di poter dire che il Cameron-degli-effetti-speciali avesse ben presente Disney. L’Avatar ha una lunga treccia dietro la nuca, anche gli animali e gli alberi hanno un organo simile e compatibile. L’Avatar deve domare quello che sarà il suo mezzo di trasporto, una sorta di cavallo volante. Le estremità della treccia si inseriscono l’una nell’altra. Il primitivo trasmette la propria genetica all’animale, i due da quel momento sono simbiotici e apparterranno per sempre l’uno all’altro. Il rapporto vale anche con le piante: la natura umana e quella vegetale sono unite da un rapporto di sensualità, quasi di sessualità. Questo artificioincantesimo credo proprio che appartenga alla creatività del regista, che si firma come unico autore della sceneggiatura. Esercizio C’è anche un esercizio previsto, direi fisiologico visto l’abnorme successo: il plagio. Ci sarebbero due fratelli scrittori russi, Arkady e Boris Strugatsky che hanno firmato libri di fantascienza che anticipavano alcuni personaggi di Cameron. C’è anche un film di animazione Delgo e il destino del mondo, di Adler e Maurer, con dei rimandi estetici ad Avatar. Infine, in un romanzo americano del ’57 di Poul Anderson, Call me Joe, che racconta di un umano che raggiunge un pianeta popolato da alieni cercando di integrarsi. Come detto all’inizio tutte le storie sono state raccontate. Gli alieni del cinema possono anche avere dei punti in comune. Non è un “sospetto” del genere che può inficiare l’opera di Cameron. C maiuscola Poi c’è la Cultura (c maiuscola). Avatar è stato analizzato da tutta l’intelligenza. C’è chi ha ricordato le macchie di Rorschach, quelle forme di inchiostro che trasmettono ad ogni singolo individuo un significato personale. David Brooks, firma prestigiosa del New York Times, ha tirato in ballo la storia del buon selvaggio che si rapporta con l’uomo bianco, civilmente superiore. Qualcuno ha anche evocato la vicenda di Hiroshima, che starebbe per diventare un film, dunque l’attitudine del cinema americano di attaccare il proprio paese. Lo scrittore cinese Han Han ha rapportato il film con la situazione dei cinesi sfrattati delle vecchie case che faranno posto a palazzi di lusso. Il filosofo francese Philippe Corcuff, ha dichiarato che “l’ecologia radicale chiama il conflitto contro le forze dominanti.” Il Vaticano proprio non ama Avatar: “la natura non è più la creazione da difendere, ma la divinità da adorare.” Ho detto Cultura. È questo il grande errore. Ribadisco che di film trattasi. Comanda il digitale intorno al quale l’autore ha applicato “le idee già pensate e le storie

già raccontate”. Il cinema non deve essere il nuovo punto fermo culturale. Non ne ha la profondità e la natura. C’è sempre un’intelligenza che è arrivata prima di lui. Sociologi, scrittori, filosofi, Vaticano: troppo onore, la cultura ha il diritto del risentimento. Avatar si pone come una sorta di Nuovo Concilio, non di Trento (quando si dovette gestire il protestantesimo) ma Hollywoodiano. Il film sarebbe il nuovo Big Bang. Intenderebbe essere posizionato al centro del sistema copernicano della dottrina. Esempio Avatar è un magnifico film ma può far danno, diventare un esempio troppo visto, troppo pronunciato, troppo dibattuto, troppo invasivo. Sovradimensionato. Negli stessi giorni sono usciti Invisibile, di Paul Auster, e I ragazzi di Charleston, di Pat Conroy. Intelligenze fra le più fini e avanzate della letteratura americana. In seguito, magari diventeranno film, e i film non riusciranno comunque a rappresentare tutta la profondità di quei contenuti. Intorno ai due titoli non c’è stato un milionesimo del movimento che si è verificato per Avatar. Sono solo libri, come l’Odissea e la Divina Commedia.      

  EROI     PAUL NEWMAN (1925-2008)   Luglio 2008. Le notizie si rincorrono. Paul Newman è malato (tumore ai polmoni), è grave, no, non lo è. È ricoverato per semplici controlli. Quando queste notizie si rincorrono il segnale non è mai bello. Newman interrompe provvisoriamente il suo progetto di regia, una riduzione di Uomini e Topi, dal romanzo di John Steinbeck. In attesa che “riprenda”, non si può non parlare di lui, magari per esorcizzare, se c’è qualcosa da esorcizzare. Il 26 settembre, la notizia temuta e tragica arriva. Chi era ragazzo negli anni Sessanta e Settanta non può non “essere stato” Newman. Era un eroe, uno di noi, ma eroe. Grandi attori ce ne sono stati, dico un De Niro, o un Pacino, ma erano modelli tormentati, di enorme bravura, ti incantavano e ti incantano, ma sono “attori”, appunto. Comunque se Newman giocava a biliardo, tu impugnavi la sua stecca, se evadeva da un penitenziario (rinchiuso solo per ubriachezza, sia chiaro) le sue catene ferivano le tue caviglie. Eroe non significa “senza macchia” o “impraticabile”, significa un uomo che fa le scelte giuste, magari con dolore, e te le indica. Significa “raggiungibile”, magari stendendo il braccio il più possibile. In Harper, con dolore mortale, denuncia il suo migliore amico perché è un assassino, nel ne Il verdetto è un avvocato che rinuncia alla propria ricchezza per difendere una donna in coma che non si risveglierà più. All’inizio della carriera si confrontò con James Dean e Marlon Brando. Dean morì ragazzo, Marlon era una sorta di antropologia da cinema, aveva una dotazione assoluta, maggiore di quella di Paul, ma Newman è stato più intelligente e longevo. “Longevo”. Paul ha corso in macchina che aveva ottant’anni e ancora guidava per noi. Chi ha quell’età era in pista con lui, magari a Indianapolis, non su circuiti da go-kart. Nel privato ha sempre dato indicazioni giuste. Era, ed è, in prima linea per i diritti civili, per le differenze, per l’ecologia. Un grande liberal. Negli anni settanta alcuni esponenti del partito democratico gli offrirono la candidatura per la Presidenza. Newman subì minacce da altri poteri. Rinunciò. Avrebbe vinto a mani basse, si disse. Poi, divenne presidente un attore che non aveva un decimo del suo appeal. Divo non basta, personaggio non basta, esempio non basta, e neppure eroe descrive compiutamente Paul Newman. Occorrono tutte quelle definizioni, insieme. Paul si rivelò verso la metà degli anni cinquanta, un momento favorevole per immettersi e dare indicazioni diverse. Aveva trent’anni, era conscio del proprio appeal sul quale avrebbe lavorato, per cominciare; adesso si trattava di mettere a fuoco le ambizioni, di perfezionare la propria attitudine, di non fare errori. Una decina di anni prima era su una portaerei al largo del Giappone poco prima di Hiroshima. Insomma prese contatto con la guerra e, tornato a casa, entrando nell’Actors Studio a New York, capì che molto era cambiato, era cambiata l’America e dunque il mondo. Soprattutto, e questo lo interessava da vicino, sarebbe cambiato il cinema. I reduci come lui erano stati testimoni, in Paesi lontani e diversi, di realtà devastanti e sconosciute, che adesso si rivelavano. I film dall’immancabile lieto fine sarebbero risultati imbarazzanti. L’eroe assoluto Gary Cooper, marito e padre perfetto, era sorpassato, ce ne voleva uno nuovo. E il novo eroe fu Paul Newman, attento alla realtà, ai diritti e anche al dolore, al sociale e all’evoluzione generale. Ed evoluzione significava “ribellione”. Paul Newman era bellissimo ma cercò sempre di non darlo a vedere. In Lassù qualcuno mi ama ha la faccia devastata del pugile Graziano, ne Lo spaccone (sono i due titoli che ne

fecero un divo) lo picchiano e gli fratturano le mani. Nella Dolce ala della giovinezza gli fracassano il naso con un bastone. Era quasi sempre così. In Nick Mano Fredda, dove fa il detenuto, George Kennedy lo massacra senza pietà, ma lui non cede, si rialza continuamente, maschera di sangue, ma non cede. Ribelle. Contestò tutti, dai genitori al “padrone”, era intollerante alle imposizioni e a tutte le autorità, anche quella trascendente. Sempre in “manofredda” se la prende con quello lassù: “sono qui a invocarti, ma parlo al nulla.” Newman poteva essere arrabbiato, ma non ateo così, alla fine, rivede il concetto: “signore, forse le carte me le hai date, ma le ho giocate male.” La famiglia. Negli anni d’oro, i Sessanta, quelli vitali, per la consacrazione, non è mai stato padre. Se era marito era divorziato con problemi enormi di rapporto con l’ex. In Detective’s Story, a latere della sua indagine, delude più volte la moglie (che ha chiesto il divorzio), sa di essersi giocato l’ultima possibilità con lei, ma va avanti - “devo concludere il mio lavoro”- che significa denunciare il suo migliore amico che ha commesso un delitto. “Quando ci siamo conosciuti – gli dice – eri candidato a governatore della California. È normale per un aspirante governatore assassinare la gente?” Quando l’altro gli punta la pistola per fermarlo, gli dice “puoi spararmi, per come mi sento adesso non sarebbe la cosa peggiore…”. Così alla fine del film Paul, con fatica e dolore, e con rigore, tornava a essere l’eroe nascosto. Ritrovava una morale credibile, non sovrumana. Quasi sempre nei film aveva maltrattato tutti ma finiva per rispettare tutti. Visto che il suo privato (nei film) era disastroso, tanto valeva essere utile agli altri. E dunque valeva l’attenzione ai deboli, agli indifesi e ai diversi e relativa l’applicazione. Era un liberal, nei film e nella vita. Si schierava col candidato democratico, la sua firma era sempre fra le prime nei cartelli dei diritti civili e dei diritti alla pace. Nei decenni seppe adeguare i ruoli all’età. Minore azione, minore rabbia, ma sempre applicazione assoluta e spinta ideale, seppure nascosta. Mentre avanzavano altri personaggi. Nella generazione successiva forse prevale De Niro, talentuoso, ambiguo, febbrile, ma eroe no, e poi sta invecchiando troppo male. Il “contemporaneo” Clooney, è bello e intelligente, impegnato e trasgressivo il giusto, ma anche lui senza eroismo. Oggi i giovani eleggono, quasi all’ unanimità, Johnny Depp, forse più duttile di Newman, collocabile ovunque, anche in abiti femminili che Paul non sarebbe proprio riuscito a indossare. Chi era nell’età vulnerabile, come chi scrive, quando Newman era modello ostico e diffcile ma esempio irresistibile, non può non averlo amato con tutto il cuore. Assumevi la sua energia e il suo incanto, le sue azioni erano le tue. Prendevi i suoi pugni, seducevi le donne con lui, eri al suo fianco quando faceva Harper e guidava la Porsche. Qualcosa di più dell’identificazione: con lui eri in buone mani. Le sue indicazioni erano quelle dell’eroe trasgressivo ma dalle misure giuste, eroe senza spinelli. Adesso che non è più qui non puoi far finta di niente. La sua presenza sullo schermo poteva diventare presenza fisica che stava al tuo fianco. Come un amico.   JOHN WAYNE: EROE CONTINUO   L’home video ripropone ciclicamente, in edicola e in videoteca, una nutrita serie di film di John Wayne. Il segnale è interessante. Prima di tutto un dato: con quasi settanta titoli pubblicati, Wayne è l’attore più presente nei Dvd. Più di qualunque altro divo contemporaneo e a molte lunghezze, con una quarantina di titoli, lo segue Clint Eastwood. Wayne e Eastwood,

due eroi. Seguono divi più giovani, come Costner e Gibson, anche loro eroi, magari con connotazioni più attuali. Ma perché il primatista assoluto dei Dvd è un attore morto 29 anni fa, e il suo ultimo film (Il Pistolero) ne ha ben 32? Prima di tutto perché trattasi di personaggio di enorme identità. E poi: perché gente come Cooper, Grant, Gable e lo stesso Bogart hanno meno fortuna nell’home? Erano tutti icone strepitose, dall’enorme appeal, erano tutti eroi. Ecco, la differenza forse è lì: Wayne è il più eroe di tutti, totale, certamente lontano dalla moda e dalla cultura attuali. Ne I Comanceros, cattura un fuorilegge che cerca di corromperlo. John gli dice: “io ho quella che tu forse consideri una debolezza, sono onesto.” È una gran bella dichiarazione, fuori moda, magari. Wayne era politicamente un falco, sempre al fianco dei candidati, o presidenti, repubblicani. Era ritenuto“orrendamente di destra”. E le sinistre ce la mettevano tutta per odiarlo. Interpretò, e diresse, I Berretti verdi,l’unico film che difendeva il Vietnam. Fece imbestialire i liberal americani e i pacifisti europei. Ma quando morì fu dolore vero, perché ci accorgemmo di quanto gli fossimo affezionati (guai ad ammetterlo, comunque). Ed ecco che adesso, dopo che il tempo ha scremato l’essenziale, Wayne è in testa alla hit parade dei Dvd. Forse, alla fine, il suo ruolo, il suo segnale poco di moda e poco allineato, consumato di nascosto, ci soccorre di questi tempi. La storia e i media ci fanno paura. Il pericolo è fra noi. Vorremmo un amico, rassicurante e forte. Lo scerifio Wayne saprebbe scovare Bin Laden, e lo metterebbe a posto. Wayne si è insediato come cellula guardinga, attenta e reattiva, in una zona sepolta ma vigile della nostra coscienza e della nostra memoria. Si instaura come garante e anche come deterrente. Ribadiamo che dati i tempi, potrebbe essere inteso come una nostra debolezza, una nostalgia sospetta, un simbolo di cui fruire senza farlo sapere. Anche perché ai nostri giorni, essere onesti non fa audience, dunque è poco importante. John è morto nel ’79, non c’era ancora Tarantino, non c’erano ancora I segreti di Brokeback Mountain. Per inciso: sarebbe stato curioso sentire l’opinione di Wayne sui cow-boy gay. Eppure il suo personaggio e il suo segnale erano già generalmente indeboliti, superati. Più tardi, fino ad oggi, e si parla sempre di corrente prevalente, si è cercato di vendere l’omone patriottico, come modello grottesco. Sarà anche superato e grottesco ma è il più comprato. Era abituato, John, ad esser contestato. Una volta, verso la fine, ospite a Oxford, criticato dagli studenti, alcuni lo fischiavano altri lo deridevano, ricordò la guerra d’Indipendenza, quando gli americani scacciarono gli inglesi, disse: “Lo capite vero, guardandovi, perché vi abbiamo rispedito a casa, nel 1776?” Ne L’uomo tranquillo prende a calci nel sedere la riottosa moglie Maureen O’ Hara, cosa orribile, ma ti fa stare dalla sua parte. Nel film Torna il Grinta, Katharine Hepburn, dopo essersi accapigliata per tutto il film con lo scerifio, alla fine lo abbraccia e gli dice: “Voi siete un vero uomo, mi avete fatto sentire sicura, è stato un privilegio viaggiare con voi.” Anche Katharine, la femminista più aggressiva d’America si era arresa al supermacho. Alla fine degli anni Sessanta a Nikita Kruscev, in visita a Hollywood presentarono John Wayne. Il premier russo gli confessò che c’era stata, da parte del KGB, l’ipotesi di un attentato contro di lui, simbolo strepitoso dell’America forte. Disse che si era opposto, non poteva pensare di non vedere altri film con John Wayne. Se ci fossero stati i Dvd, Hepburn e Kruscev, che davvero non la pensavano come Wayne, sarebbero state consumatrici fedeli dei suoi film. Come tutti noi.   CHARLTON HESTON (1924-2008)   Una volta, intervistato dal network N.B.C., verso la fine degli anni settanta, Charlton Heston rispose alla cronista che lo aveva appena definito “un’icona”: “è una definizione che non mi piace, ma è corretta”. In realtà a Heston quella definizione sta persino stretta: lui

appartiene alla categoria ancora più evoluta, e più alta, è un eroe. Quando faceva Mosè e soprattutto Ben Hur, chi andava al cinema con “spirito libero e cuore puro” – allora ancora si poteva – uscendo dalla sala era a sua volta Ben Hur. Per qualche ora, o minuto, il ruolo dell’eroe apparteneva anche a noi, che eroi non siamo. Ed è il destino, magnifico, di certe icone, appunto: con Errol Flynn eravamo Robin Hood, con Robert Taylor eravamo Ivanhoe, con Gary Cooper il sergente York, con John Wayne l’uomo di legge che faceva giustizia e che, in virtù del meccanismo detto sopra, tutelava anche noi, seduti in sala a guardarlo. Tutto questo appartiene a Heston, che non solo fu “un bello”, anzi bellissimo, e come tale penalizzato – si è sempre ritenuto che i belli non potessero essere anche bravi – ma ancora una volta dettò regole sue e vinse l’Oscar come attore protagonista. Con Ben Hur. Nel privato l’uomo Charlton finisce per essere ancora l’attore e, come tale, per definizione, personaggio poliedrico dalle molte facce. Dunque la sua partecipazione alle manifestazioni sui diritti umani nel decennio eroico, cioè gli anni sessanta, quando si schierò, attivamente, “fisicamente” accanto a Martin Luther King, non si accorda con l’adesione alla National Rifie Association, la discussa lobbie delle armi. Una stecca che il furbastro Michael Moore rilevò impietosamente nel suo Bowling a Colombine, dove intervistava l’attore, già ammalato, sfottendolo. Certo, quando lo vedemmo parlare da un pulpito brandendo un vecchio fucile, provammo grande nostalgia per un’immagine diversa, quella di Mosè che brandendo il suo bastone, apre le acque del mar Rosso ne I dieci comandamenti. Fu quella, anzi è una delle grandi espressioni del cinema, e lo trascende, diventando una sorta di grafica d’arte generale, buona per la pubblicità e per l’arte figurativa. Un fotogramma che fa più che mai parte della memoria popolare e leggendaria del cinema. Fu coraggioso quando nel 2002, in una conferenza stampa annunciò di avere l’alzheimer Disse “cercate di essere indulgenti, e se vi racconterò due volte la stessa barzelletta, ridete lo stesso.” Era colto e intelligente. Amò Shakespeare fin da ragazzo. E anche se la carriera lo portò lontano da quei ruoli, tuttavia accettò una piccola parte nell’Amleto di Branagh pur di “toccare” il più grande autore di tutti i tempi. In chiave di qualità, occorre citare Orson Welles col suo L’ infernale Quinlan. Heston doveva interpretare un poliziotto messicano, dunque accettoò di farsi tingere i capelli e di abbruttirsi, anzi, “normalizzarsi”, perché con tutti gli sforzi era impossibile renderlo brutto. Non solo, ma mise anche dei soldi, molti, nel film. Dissero di lui che aveva una testa da antico romano e un corpo da Michelangelo. Così tradusse il concetto in realtà, anzi in cinema, interpretando il già citato Ben Hur e proprio Michelangelo, impegnato sulla volta della Sistina in Il tormento e l’estasi. Adesso non c’è più. Mancherà.   TORNA, ROBIN HOOD NE ABBIAMO DAVVERO BISOGNO   Robin Hood non è solo un personaggio, è un segnale, è un codice, è una memoria della nostra cultura e del nostro sentimento. Qualcosa da non sottovalutare, perché Robin, scegliendo e scremando, nella narrativa, nei film, nelle leggende e negli incanti, rappresenta, anzi è l’avventura. E l’avventura ci è indispensabile. Ci sono altri eroi (alludo a quelli veri, accreditati nel tempo e nella genetica, lascio fuori gli Indiana Jones o i Jack Sparrow) come Zorro e Tarzan. Ma non sono Robin Hood. Ridley Scott sta portando a termine il montaggio del “nuovo Robin”. Come protagonista ha voluto il suo amico gladiatore Massimo, Russell Crowe. E anche Crowe, per appeal,

immagine ed energia, uomo-eroe vero, senza ambiguità, era l’unico, attuale Robin possibile, con buona pace dei Depp e dei Pitt. Robin Hood non è esistito. Ma la sua identità è talmente perfetta e funzionale alle leggende che alla fine è esistito. È l’eroe che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Semplice, irresistibile ed eterno, come un vangelo laico. La genesi è complessa, e misteriosa. La teoria più accreditata, facendo “d’ogni leggenda un fascio”, sarebbe questa: un ispiratore di Robin è probabilmente esistito, e il suo personaggio, storia dopo storia, mito dopo mito, si legherebbe a una divinità celtica dei boschi, Robin Goodfellow. I racconti successivi gli avrebbero dato l’identità che sappiamo: il nobile sassone decaduto Robin di Loxley, arciere attivo nella foresta di Sherwood, protettore dei deboli e fedele a Riccardo Cuor di Leone, in lotta contro Giovanni Senza Terra, usurpatore del trono. Uno dei primi Robin del cinema fu Douglas Fairbanks, nel 1922, c’era ancora il muto. Faribanks era il divo massimo del cinema di allora, si affermò, ma non come Errol Flynn che nel ’38 interpretò l’arciere di Sherwood in uno dei primi titoli a colori, per la regia di Michael Curtiz. A cinquant’anni dalla morte di Flynn si può davvero affermare che “con lui moriva l’avventura”. E se il magnifico Errol era l’avventura, il suo Robin Hood era lo strumento perfetto a rappresentarla. Il film non è invecchiato, Robin-Flynn che scocca frecce dalle mura del castello di Nottingham, che bacia Marian e duella con lo sceriffo, è un’icona perfetta, un’estetica irripetibile del cinema e dell’incanto generale. Ci sono stati altri Robin, persino uno italiano, Giuliano Gemma, e poi il volonteroso Kevin Costner “principe dei ladri”, ma Flynn non è neppure stato scalfito. Sta nelle regole del cinema di evolvere, a volte trasformare le storie e gli eroi. Con Costner si è tentata questa evoluzione. Nel film di Kevin Reynolds, del 1991, il carattere di Robin era più complesso. Inoltre il marketing e il target del cinema misero al fianco dell’eroe tradizionale un compagno nero, musulmano, secondo moda e politica, e un fratello che gli creasse qualche inutile e fastidioso problema esistenziale. La vicenda centrale veniva disturbata. Le novità, superflue, non aggiungevano ma toglievano. Nel ’76 Richard Lester volle Sean Connery come protagonista di Robin e Marian. Lester era un regista cosiddetto dissacratore, raccontava le storie a propria somiglianza. Così vediamo un Robin vecchio e bolso, Riccardo non è il re magnifico ma un cialtrone, e Marian (Audrey Hepburn) è una mezza matta che alla fine addirittura avvelena l’amato. Rappresentazione disastrosa e cinica di quella leggenda. Sembra che Ridley Scott abbia parzialmente percorso la strada della trasformazione e della rilettura. Non voleva un Robin Hood convenzionale. Le immagini che girano mostrano un Crowe con un costume che sembra lontano dalla calzamaglia verde e dal cappello piumato tradizionale dell’eroe, e di Flynn. Lo sceneggiatore Brian Helgeland ha parlato di un personaggio reale, lontano dalla leggenda. Un Robin Hood “reale”, vicino a tutti noi, senza la responsabilità dell’identificazione e del sogno, insomma un Robin Hood che… non lo è. Sarà forse più attuale, ma che peccato.   DA DILLIGER A VALLANZASCA: QUANTI ROBIN HOOD   Il fascino dei “cattivi”. Durante una rapina, una delle prime, in una banca di Pensacola, Florida, John Dillinger si fece consegnare da uno degli impiegati, oltre ai soldi, anche il registro delle ipoteche, che distrusse, diventando l’idolo dei poveretti che erano stati costretti a indebitarsi per far fronte alla grande crisi economica di quegli anni. Il gesto lo rese un eroe della gente, soprattutto delle donne. Che poi rapinasse e ammazzasse non era così importante. Un

segnale esemplare dell’attitudine di Renato Vallanzasca, che non è arbitrario definire il Dillinger milanese, arriva prestissimo, quando il ragazzo ha otto anni e cerca di far scappare dalla gabbia la tigre di un circo che aveva messo il tendone in un prato nella zona di Lambrate, Milano. I Vallanzasca abitavano lì. Il giorno dopo i carabinieri prelevarono Renatino mentre stava giocando a pallone con gli amici, che lo videro salire e portare via sul cellulare. E tutti che applaudivano. Il destino del futuro bel René era segnato. Johnny Depp dà corpo e volto a John Dillinger in Nemico pubblico, di Michael Mann, e Kim Rossi Stuart è Vallanzasca nel film di Michele Placido, Romanzo Criminale. Dillinger&Vallanzasca: banditi eroi. Che il cinema, e non solo, subisca lo charme del cattivo, dell’antagonista, sta nelle regole. È una seduzione accreditata, che viene da lontano. Il cosiddetto “fascino di satana” può esser fatto risalire al romanzo gotico che si ispirerebbe a un trattato del 1757 dello scrittore (e politico) inglese Edmund Burke che rivedeva il concetto classico del sublime, codificato nel terzo secolo dal filosofo greco Longino, di fatto capovolgendolo: detto in sintesi, non è il bello che davvero ci affascina, ma l’orrendo. Con tutte le evoluzioni che potevano derivarne. A cominciare dal concetto dell’eroe, che perde fascino e diventa banale: è molto più interessante l’antagonista, il cattivo, l’antieroe. Due capisaldi decisivi letterari, figli del nuovo sublime sono Frankenstein di Mary Shelley, del 1817, e Dracula di Bram Stoker, del 1897. Tutta “roba da cinema”, sappiamo. Dillinger viene dunque rappresentato nelle due facce, il criminale e l’eroe. Il regista Mann intende rubricare sullo stesso piano il cattivo e il buono, il ca-buono. E qui deve inserirsi, a forza, un altro elemento, l’antagonista. Quello che, aritmeticamente, tradizionalmente dovrebbe essere il buono. Ma l’equazione vale anche in chiave opposta: anche il poliziotto, Melvin Purvis, che per anni diede la caccia a Dillinger, non può essere abbandonato al suo banale, tradizionale ruolo di buono-integro tout court, ma deve essere derubricato a buonocattivo. È un artificio dovuto alla lettura attuale dell’eroe, al relativismo generale che riguarda appunto ciò che è buono e cattivo, bene e male, all’equilibrio che deve essere garante anche della personalità del cattivo riconosciuto. E così è opportuno dare un assist al criminale mettendogli contro un uomo di legge che deve usare armi improprie (criminali) per opporsi effcacemente al nemico. L’uomo di legge procede dunque in delicata reciprocità col fuori-legge. I due dipendono l’uno dall’altro, il loro conflitto sta nelle armi ma soprattutto sta nell’interiore. Vallanzasca fa parte della famiglia. E anche Placido ne fa parte, conosce l’argomento, ha già trattato il modello con Rossi Stuart, “il Freddo” di Romanzo Criminale, crudelissimo e fascinoso. Dunque i codici ci sono tutti, conosciuti, reiterati. Alcuni stralci di Placido sul bandito milanese: “un fiore del male che ha una sua poetica”; “è stato una sorta di Robin Hood”; “questo antieroe può farci riflettere sulla decadenza della società”; “nessun perdono per lui: però il male va raccontato e noi abbiamo il dovere di raccontare il male della società.” Tutta roba risaputa, magari superflua. Edmund Burke dal 1757, col suo sublime, è approdato agli antieroi che nutrono il cinema, ha generato da lontano quel business. Da ultimo ha toccato Michele Placido, per l’ennesimo Robin Hood.   1959-2009: CINQUANT’ANNI FA MORIVA L’AVVENTURA   A 50 anni dalla sua morte, è più che doveroso ricordare Errol Flynn, attore, e personaggio certamente dimenticato, o quasi sconosciuto al grande pubblico che frequenta oggi le sale. Nell’ottobre del ’59 Flynn si recò a Vancouver per vendere il suo yacht, l’amatissimo

Zaca. Non aveva più un soldo ed era malato da anni. Lo trovarono morto per un infarto. George Morris, biografo dell’attore, scriveva: “Flynn ha incarnato l’eroe cinematografico troppo coraggioso, troppo spericolato per fermarsi a considerare le conseguenze delle proprie azioni. Il vigore impudente e la galante cavalleria venata di sfrontatezza che hanno caratterizzato le sue interpretazioni più riuscite sono il suo testamento alle giovani generazioni di spettatori. Come sarebbe squallido il mondo se non ci fosse mai stato Errol Flynn” Bevitore Gran bevitore, pronto a tutti gli eccessi, sempre nei guai con le donne (ebbe persino una causa per stupro), era sempre disposto a colorire il proprio personaggio: si fece credere morto in Spagna nel ‘37, poco dopo si disse di lui che fosse una spia nazista, poco prima di morire era a Cuba per stringere la mano a Castro, da lui definito “l’ultimo Robin Hood”. L’accumulo di eccessi lo portò a invecchiare rapidamente. A poco più di quarant’anni era già compromesso, segnato dal bere, da una forma di malaria e da tutto il resto. Morì a cinquant’anni. Sembrava un vecchio. Errol Flynn che duella sul ponte del galeone, che tende l’arco fra gli alberi della foresta di Sherwood, che cavalca alla testa del 7° cavalleggeri, è uno dei grandi identificatori, portatori di sogni e di incanti, che il cinema ci ha riservato. Si contano sulle dita di una mano quelli come lui. (scusate l’autocitazione da “dizionario”) Eroi Flynn ha dato corpo a eroi ufficiali e indispensabili, Robin Hood, Custer, Guglielmo Tell, don Giovanni, il conte di Essex. Costoro si sono valsi del suo appeal e di quel mistero che appartiene al cinema, che trasforma un modello in un unicum che si insedia nella memoria e ci rimarrà per sempre. Tutti quegli eroi possono solo essere Erroll Flynn. L’affermazione di George Morris sullo squallore del mondo senza di lui è in una biografia del 1983. Sono passate altre generazione di giovani, che (non) vedono Flynn solo nei canali satellitari, nelle ore notturne. L’eroe alla Flynn “troppo coraggioso, troppo spericolato”, non ha più cittadinanza nel cinema, e neppure l’avventura vi ha cittadinanza. Il cinema propone l’avventura come un surrogato, uno scherzo, un eccesso, quasi un cartoon. Penso a Indiana Jones, o a Jack Sparrow. Ma Harrison Ford e Johnny Depp proprio non sono Errol Flynn. Non lo sarebbero neppure se esistesse ancora quell’avventura. Negli anni di Flynn, gli anni d’oro del cinema, non sarebbero neppure stati notati. O sarebbero stati delle comparse. Erroll Flynn rappresenta, impietosamente, gran parte dell’incanto ormai assente nel cinema contemporaneo. I suoi classici sono stati editati in Dvd dalla Warner, di cui io sono testimonial per l’Italia. Conosco i numeri, e posso darne alcuni: a fronte di un titolo di Harry Potter, il rapporto di vendita è di uno a duecento. Naturalmente c’è una precisa e legittima logica, però la forbice è troppo larga. Quei film meriterebbero di più. Voglio fare un riferimento attuale. Il Barbarossa di Renzo Martinelli, troppo vituperato, un tentativo di avventura vecchia maniera seppure con le implicazioni che sappiamo, soffre della mancanza di un eroe vero. Alberto da Giussano “eroe vero”, nel corpo e nel volto (e nella qualità) di Raz Degan davvero non si segnala, finisce quasi per non esistere. Ci voleva Flynn. Nel week-end quel film sarebbe andato diversamente.   CHAPLIN IN DVD   Nell’ottobre del 1997 un giornalista entrò nell’uffi cio di Indro Montanelli a Telemontecarlo a Roma e gli disse che Dario Fo aveva vintoil Premio Nobel. Montanelli sorrise perché pensava a uno scherzo. Quando il giornalista ribadì “guardi che è vero” il “direttore”, dopo aver metabolizzato la notizia domandò: “la motivazione?” L’altro gli lesse il breve stralcio di cui disponeva: “fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati”. Poco

dopo Montanelli disse: “Chaplin si starà rivoltando nella tomba.” Una volta ero al Tempio del video, in centro a Milano. Il “tempio” è una videoteca che tutti i cinefili frequentano, dagli appassionati “puri”, a tutti gli addetti del cinema, critici, giornalisti, registi, attori. A rovistare fra gli scaffali c’era un critico importante e competente, (non è detto che i due aggettivi si sposino sempre) firma di un grande quotidiano. Stava mettendo da parte una piccola pila di Dvd. “Posso vedere?” gli chiedo, “Ma certo”. Sono tutti titoli di Chaplin. Mi dice: “ogni tanto bisogna pure rifarsi la bocca.” Clown “Fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati” è una didascalia perfetta per Charlie Chaplin. In Dvd ci sono sei titoli del “Grande Clown”, che lo rappresentano al meglio, prodotti in un arco di tempo di 31 anni: Il monello (’21), Il circo (’28), Luci della città (’31), Tempi moderni (’36), Il grande dittatore (’40), Luci della ribalta (’52). C’è davvero tutto Chaplin, tutta la sua parte più nobile. Charlot è lì immobile, piccolo e magro, con quella divisa logora, quelle scarpe troppo grandi, gli occhi sgranati che dicono “chissà cosa sta per capitarmi, speriamo che me la cavo [anche lui]”. Perché sopra di lui incombe un poliziotto immenso, tutto nero, con il manganello in mano, minaccioso. Il poliziotto gli farà delle prepotenze, e lui, piccolo e debole, dovrà difendersi coi mezzi che ha: essere furbo, indurre a compassione, aspettando con pazienza il momento che l’altro si distragga e così scappare o fare lo sgambetto. Il poliziotto immenso, il potere prepotente, è in quasi tutti i film di Charlot. In Tempi moderni è costretto, oltre che a una catena di produzione impossibile da rincorrere, a fare da cavia per una macchina che detta i tempi del cibo in automatico. Charlot è immobilizzato a una sedia, apre la bocca e la macchina gli spinge dentro un boccone, persino il tovagliolo lavora in automatico. Il tutto per ottimizzare il tempo, e il denaro. Una sequenza comica più drammatica di tutte le rappresentazioni di sfruttamento degli “umiliati”. E non parlava mai Chaplin, nei suoi film, anche quando il cinema parlava. E quando, nel 1940, decise di cedere, di parlare, lo fece troppo. Nel Grande dittatore è il sosia di Hitler e naturalmente tutti lo prendono per quello vero. Dal palco Chaplin detta un suo accorato, retorico messaggio sulla libertà dell’uomo. C’è sì demagogia e quel discorso è un inserto anomalo nella sua poetica, ma è una piccola scivolata, un’ingenuità veniale. Il suo mestiere non era parlare, ma rappresentare e convincere. Tuttavia quando prese le misure parlò e come. In Luci della ribalta è Calvero, un artista al tramonto che prima salva la vita a una giovane ballerina poi la trasforma in grande artista, prima di morire di infarto sul palcoscenico. E lì, senza grandi temi sulla vita, nella poesia del quotidiano, riesce a essere Chaplin anche parlando. Cifra Il tutto con dei momenti di comicità esplosiva, mai più raggiunta. In Un re a New York è un monarca sfuggito a una rivoluzione, per sopravvivere fa il testimonial di prodotti. Ma è troppo vecchio, occorre qualche ritocco. Accetta, suo malgrado, di farsi correggere il volto con un intervento, ed era la prima volta, di chirurgia estetica. Dal momento in cui si guarda nello specchio, per un dozzina di minuti – il re non può far niente, non può ridere o si sfascerebbe tutto – il pubblico è letteralmente tenuto a terra dal ridere. In quello stesso film, ecco il versante serio: Chaplin viene accusato di comunismo, è il momento del maccartismo, la caccia alle streghe. Il re viene giudicato da una commissione. C’è un momento in cui si trova in mano un idrante che scarica sui giudici. Metafora alla Charlot. Poi il re, sconsolato, dice: “io, un re comunista”. E pagò di persona Chaplin, perché dovette lasciare l’America per tornarci molti anni dopo. Giusto per ricevere un Oscar alla carriera. Il “potere”, alla fine, aveva richiamato il Clown. E Charlot, debole e mite, aveva sgambettato il poliziotto prepotente e nero. Si era fatto capire. Anche a nome degli altri “umiliati”.

Più nessuno, da allora, avrebbe trovato strade tanto leggere ed efficaci, comiche e drammatiche insieme, per rappresentare argomenti tanto seri. Con un’ultima nota: gli argomenti arrivavano. Sei film di Chaplin. Non voglio fare titoli a confronto, titoli di oggi, e non distinguo fra grandezza di schermi, ma dico che dovunque ci si sieda, saremo lontanissimi da quella qualità, e da quella felicità. È tornato Charlot. Rifacciamocela tutti, la bocca.   MICKEY ROURKE, IL WRESTLER, COMPIE GLI ANNI   La sequenza erotica di Mickey Rourke e Kim Basinger davanti al frigorifero in Nove settimane e mezzo, quella rappresentazione di sesso&cibo, giocata con quei modelli belli, corpo, mani e bocche e cibo, conteneva una morbosità divertente e ironica, che non dava fastidio e nessuno. Sono passati più di vent’anni, ma la ricordiamo tutti. È legittimo dire che faccia parte della memoria del cinema recente, come Harrison Ford-Indiana Jones che viene inseguito dal grande masso sferico ne I predatori dell’arca perduta, oppure Jack Nicholson con quel ghigno mefistofelico, con la scure in mano e la porta sfondata in Shining. Un avvallo ufficiale, oggettivo viene dalla pubblicità, attentissima a riprendere azioni annidiate nella memoria e nella coscienza collettiva, che al momento opportuno si trasformeranno in subliminale incentivo all’acquisto del prodotto. Quanti spot abbiamo visto ispirati a quella scena? Così come a un Indiana Jones? Grazie a “9 settimane” Rourke divenne divo di vertice e, immediatamente, sex symbol. Mickey aveva allora trent’anni, l’età di colleghi come Gibson e Costner, due che sul piano della popolarità e dell’appeal c’erano già, al vertice. La strada che lo aveva portato a quel momento era stata interessante, con vicende da maledetto&predestinato, come si confà a un futuro divo. Per cominciare il pugilato. In un caso come questo non è mai facile distinguere la realtà da una tentata leggenda organizzata, nei tempi, da cronisti di testate specialistiche o dagli uffici stampa dellemajor. Nasce da cattolici irlandesi, si racconta della sua vita di strada nella zona di Liberty City, sobborgo cattivo di Miami, dove prevale la maggioranza nera. È pieno di fratelli e fratellastri in virtù dei vari matrimoni della madre. Di certo si sa che passa nella Miami Beach Senior High School, che non è una scuola di cinema ma di pugilato. Combatte più volte sul ring, il tabellino riporterebbe 20 incontri con 17 vittorie e 3 sconfitte. Ce n’è abbastanza per la partenza da predestinato di cui si diceva. Più sicure sono le notizie che lo vedono allievo del Lee Strasberg Institute, dove si insegna il famoso “metodo” e da dove sono usciti attori come De Niro e Pacino. I contatti sono subito quelli giusti, così come le prime piccole parti: Spielberg per Allarme a Hollywood, Coppola per Rusty il selvaggio, Levinson con A cena con gli amici. Piccolo o grande, Mickey lascia sempre un segno. L’ occasione decisiva gliela consegna Cimino con L’anno del dragone, e l’anno dopo ecco la consacrazione con la Basinger e il frigorifero. Da lì la grande promessa non sarà più mantenuta. Scelte sbagliate, guai giudiziari, decadimento fisico, un’attitudine “maledetta”e forse votata al farsi male. Un po’ alla Brando, con tanto di analogie. Marlon morì e risorse più volte, nei decenni, rinacque proprio come l’araba fenice, ma Brando aveva le regole del semidio, dell’uomo che stava al cinema come il cinema sta a se stesso. Il cinema gli obbediva mentre Rourke doveva ubbidirgli. Ed ecco il ruolo perfetto, un regalo del tempo e del cinema: il lottatore di The Wrestler, vecchio e stanco, incapace di evolversi. L’uomo è in disarmo, il volto è tumefatto, il corpo deformato, ma chiede un’ultima possibilità, con “strumenti ormai logori”, per dirla alla Kipling. Una storia sospettosamente e tristemente simile a quella dell’attore. Il film sottintende lo slancio eroico ed estremo. Ma

l’augurio è che a Rourke spetti lo stesso destino di Brando che, di volta in volta, resuscitava: con Paul di Ultimo Tango a Parigi, con Corleone de Il Padrino e con Kurtz di Apocalypse Now, quando non te li aspettavi più. Molte premesse, ci sono. Sentiti auguri.   DE NIRO E PACINO INSIEME: IL CINEMA NON BASTA   De Niro e Pacino di nuovo insieme in Sfida senza regole. La notizia assume i contorni di un evento. La grande coppia. Va detto che il cinema ha spesso proposto grandi coppie, ma “questi due” sembra abbiano regole diverse, che il loro peso specifico sia tale da oltrepassare la linea del cinema. Dicendo “grande coppia” alludo a talenti omologhi, anche nell’anagrafe. Un “vecchio” e un “giovane” insieme funzionano, sono complementari, non creano antagonismo, un esempio per tutti: Redford e Pitt in Spy Game. Nelle varie epoche il cinema ha messo insieme Cooper-March (Partita a quattro); Wayne-Stewart (L’uomo che uccise Liberty Valance); Lancaster-Douglas (Sfida all’O.K.Corral); Brando-Clift (I giovani leoni); Newman-Mc Queen (L’inferno di cristallo) e salendo Cruise-Pitt (Intervista col vampiro). Due numeri uno assoluti attuali, Clooney e Pitt, li vediamo spesso insieme, eppure non si tratta, e non si trattava, di evento, ma semplicemente di combinazione eccezionale, di cast, di cinema, solo di cinema. Leggi nei titoli De Niro e Pacino insieme ed ecco che la coppia diventa adrenalina, diventa mistica, come se il capo della religione anglicana e quello cattolico si unissero per una funzione. Robert e Al: perché? Istantanee I due provengono, più o meno, dalla stessa radice, che è quella del famoso metodo di Lee Strasberg, una recitazione intensa, fisicamente dispendiosa che, correttamente applicata col supporto del talento, diventa irresistibile. Per definire l’identità di un attore naturalmente ci si rifà ai segnali che ha lasciato, agli esempi che ha proposto, alle istantanee che ha radicato nella memoria popolare. Fra i molti ruoli coperti da De Niro, in una selezione di getto, a scremare, emergono: il disturbato protagonista di Taxi Driver allo specchio con le pistole, il musicista col sassofono in New York New York, l’immagine col fucile e lo sfondo dei monti ne Il cacciatore, la faccia devastata e i guantoni in Toro scatenato. Non sono solo momenti di cinema, ma estetiche precise, consolidate nella coscienza generale. Con un particolare: si tratta, due volte su tre, di violenza. Ma non è “proposta violenta”, ma racconto estremo per far arrivare l’indicazione, il male rappresentato a favore del bene, e anche un’espressione eroica mimetizzata e un po’ imbarazzata. Pacino è diverso. Naturalmente la memoria richiama alcune sue istantanee, ma sono, per lo più, performances perfette. Esempio e storia: forse sono minori. Come ne Il Padrino, dove l’attore fissa un modello, un precedente al quale attingeranno film e pubblicità. Anche in Serpico è perfetto, così come in Scent of a Woman (con l’Oscar). In Riccardo III rivela un’attitudine colta, persino accademica, rivisitando l’opera di Shakespeare come regista e come attore. Anche il mister-manager di Ogni maledetta domenica fissa un “carattere” che difficilmente sarà sorpassato o rimosso. Pacino-De Niro, dunque, il lavoro è stato ben fatto, gli spazi occupati al meglio, il futuro prenotato. Controfigura Li abbiamo visti a Roma per la presentazione del loro film Sfida senza regole. Pacino era a proprio agio, De Niro era preoccupato dal dover parlare, spiegare, lui che potendo starebbe zitto. Robert era trasandato, incurante, capelli ormai solo sale, non sta invecchiando bene, sembra decisamente più anziano di Pacino che invece ha tre anni di più: 68 contro 65. Al, capelli tinti, qualche intervento di chirurgia sul viso, invece, ha parlato e spiegato con passione. I due certamente gradivano la presenza dell’altro. Ma non era stato così la prima volta insieme, tredici anni fa, quando sul set di Heat – La Sfida,

avevano costretto il regista Mann ad acrobazie inaudite: quando era presente uno, c’era la controfigura dell’altro. Rivalità. In quel film Pacino era il poliziotto, De Niro il criminale. Il buono e il cattivo. Avrebbero potuto tranquillamente scambiarsi i ruoli. Per la loro attitudine artistica, desunta dal metodo, il ruolo del cattivo era certamente più ambito. Il cattivo dispone di uno spettro di possibilità vastissimo, il male infatti ha più fantasia e imprevedibilità. Il buono è costretto in un contenitore bloccato e statico, le azioni sono limitate. E poi il buono è banale. Il criminale toccò a De Niro. Suppongo che il suo peso fosse superiore a quello del collegarivale. Adesso sono insieme, in pace e tranquilli, il talento è stato riconosciuto, gli anni hanno attutito la rivalità. Però rimane quel “quanto” senza contorni e definizione, quel sortilegio misterioso che fa sì che il loro nome accomunato in ditta sia qualcosa che si stacca, per esempio, dalla “coppia massima” Clooney-Pitt, che pure pesa moltissimo, pesa di più su molti piani a cominciare dalla cassetta. Ma per questi ultimi trattasi semplicemente di cinema, per De Niro-Pacino il cinema non basta.   JAMES BOND, 46 ANNI DA EROE   È nota una battuta scritta da Bertolt Brecht: “beato quel Paese che non ha bisogno di eroi”. L’eroe è colui che fa giustizia, se è attivo significa che là dove agisce giustizia non c’è. Il concetto forse ci era già chiaro, e Brecht lo dice “teatralmente” bene. Ma mi arrogo di sconfessare quell’assunto, e detto una mia formula “fiction-paradossale”: visto che le ingiustizie ci sono e non sono evitabili, meno male che ci siamo inventati l’eroe James Bond. Ian Fleming lo creò nel 1953, col romanzo Casinò Royale. Nove anni dopo l’agente approdò al cinema. Come si dice – e mai formula fu più veritiera – nasceva una leggenda. Io stesso ero un adepto, devoto, di Fleming e di quei film. Il 1962 è l’anno della crisi di Cuba, dell’Algeria indipendente, dell’Italia del boom. Ed è la stagione di Lawrence d’Arabia e del Sorpasso, e di Agente 007 licenza di uccidere, il primo “Bond”, appunto. I romanzi di Fleming avevano all’inizio pochi lettori. I film li rilanciarono in modo esponenziale. Lo scrittore inglese fece in tempo a vederne soltanto tre, morì infatti nel ’64, a 56 anni. Scrivendo Al servizio di Sua Maestà, giocando fra realtà e fiction, citò l’attrice svizzera Ursula Andress, avvistata in un certo ristorante, che era stata protagonista del primo “007”, dove si era fatta conoscere dal mondo, con un bikini neppure troppo succinto, su una spiaggia dei Caraibi. I produttori Saltzman e Broccoli fecero un casting. Si presentò questo Sean Connery, un trentenne più vecchio dei suoi anni. Quando uscì dall’ufficio i due non erano del tutto convinti, si affacciarono alla finestra, lo videro in strada. Broccoli disse “però, cammina proprio come Bond”. Lo presero. Il modello-Connery rimase, e rimane, insuperato. Moro, occhi scuri, capelli (posticci) lisci, alto e atletico naturale, senza palestra. “Mi chiamo Bond, James Bond”. È un suono rituale, un sortilegio. Duro come il diamante se di fronte c’è l’antagonista, soave come il cavaliere di una chanson des gestes se c’è lei. Il Bond dei romanzi era eroe normale, diciamo così; il cinema, che per sua natura deve accentuare, ne fece un supereroe, perenne salvatore dell’umanità. Le storie cartacee erano (quasi) convenzionali spy story, al cinema divennero catastrofi nucleari, ecologiche, economiche con inserti a volte fantasy. Il primo segnale dell’ evoluzione lo troviamo in “Goldfinger”, “il titolo assoluto” fra tutti quelli della serie. Nel romanzo è previsto l’assalto a Fort Knox col bottino di lingotti che sarà trasportato in treno. Nel film l’idea dell’antagonista Goldfinger è di far esplodere un ordigno nucleare nel caveau per rendere l’oro “inutilizzabile” per 98 anni, determinando così una caduta verticale dell’economia. Funziona meglio il cinema, non c’è dubbio. “Goldfinger” presenta must eterni. Come l’Aston Martin dotata di quegli accessori particolari, i cannoncini e il

seggiolino catapulta. Inoltre in quel film Bond fa la conquista più preziosa, una vera medaglia: seduce Honor Blackman, caposquadriglia aerea coriacea, e lesbica. Connery era Bond e lo sarebbe sempre stato. La produzione dovette naturalmente evolversi col tempo. Sean invecchiava e non aveva più voglia. Dopo l’intermezzo insignificante dell’australiano George Lazenby, fu la volta di Roger Moore, biondo e compassato. Un surrogato elegante, da 6 e mezzo, che tenne comunque viva la serie, grazie soprattutto a trucchi ed effetti speciali. Invecchiato anche Moore, i produttori tentarono la carta del ritorno all’antico, alla spy senza fantasy e astronavi, e presero Timothy Dalton, fisionomica molto vicina al Bond letterario, eroe normale. Dalton era bravo e aveva fascino, ma il pubblico aveva ormai negli occhi movimenti troppo veloci e nelle orecchie decibel troppo alti. Il botteghino sconfessò Timothy. E così arrivò Pierce Brosnan. Di nuovo effetti speciali, esplosioni nucleari, rincorse immani per salvare l’umanità. Bond-Brosnan, irlandese, era comunque un agente di solido appeal, conciliava un’eleganza tradizionale britannica con le attitudini del supereroe, solo che su quel versante aveva perso pezzi di esclusiva. C’erano degli omologhi, altri “super”, come Seagal, o Willis, o il Cruise di Mission: Impossible, o Batman addirittura. Alla soglia dei cinquant’anni e registrata una flessione al botteghino, la produzione ha sostituito Pierce con Daniel Craig. Un’evoluzione quasi traumatica, perché il biondo quarantenne doveva aderire alla tendenza della nuova utenza del cinema, i giovani della playstation, gli aspiranti tronisti, gli adepti del wrestling e dei cellulari di ultima generazione. Se amavo Connery, non può piacermi il Craig “palestrato-tamarro”. Certo può indossare lo smoking ma è come se glielo avessero prestato, può sfoggiare umorismo, ma è come se glielo suggerissero. Conosce il Dom Pérignon, ma Connery ti diceva l’annata. Ecco dunque Quantum of Solace, il ventiduesimo “Bond”. Da Licenza di uccidere è passato Kennedy, il Vietnam, il ’68, la striscia di Gaza, la caduta del muro, Wojtyla, il Golfo, le Torri, l’euro, i media devastanti, il primo Presidente americano di colore. Quasi mezzo secolo di storia veloce. E l’agente 007 sempre lì, ad attraversare il mondo.   CLINT EASTWOOD, UN AMERICANO “AMERICANO”   Nel suo film Gran Torino Clint Eastwood si chiama Kowalski. Eastwood è un regista assolutamente rigoroso, quasi pedante, non lascia nulla al caso, dunque la scelta di quel nome ha una ragione e un’ispirazione. Stanley Kowalski, è notorio, è il protagonista di Un tram che si chiama desiderio, il dramma di Tennessee Williams. Stanley venne subito identificato, nella pièce e nel film, con Marlon Brando. Trattasi di uomo rozzo e violento, tutto istinto e niente cultura, sposato con Stella, che ospita a casa sua la cognata Blanche, donna del sud, romantica e sognatrice, a che nasconde traumi e vizi pesanti. Stanley, fra un’ubriacatura e una lite, fra urla e provocazioni (soprattutto sessuali), rimasto solo con Blanche, la violenta. Dunque Kowalski come modello macho, violento, padrone. Walt, il Kowalski di Eastwood, non ha “combattuto” la cognata, ha combattuto i “gialli” in Corea. Sia Stanley che Walt si sono scontrati con dei “diversi”. Per Eastwood in Gran Torino i gialli continuano ad essere diversi e soprattutto nemici. Vive praticamente murato nella sua vecchia casa e non sopporta la famiglia di asiatici che confina con lui. Coinvolto in una vicenda di violenza che riguarda i vicini, conosce il giovane Thao, minacciato da una gang. Il vecchio guerriero prende di nuovo le armi per una causa opposta, che mai avrebbe immaginato. Salva il ragazzo e si conquista la gratitudine e l’amicizia della famiglia. Walt Kowalski, patriota rinchiuso in pregiudizi radicati, quasi ottantenne, è riuscito a rivedere tutto. Era razzista, ottuso – reazionario è poco, repubblicano è poco –, è diventato umano, solidale e persino felice.

Clint Eastwood è così. Nasce praticamente con i film di Sergio Leone, dove fa l’uomo del west che, magari non proprio alla John Wayne, ammazza i cattivi senza tante garanzie o ripensamenti. Poi diventa Callaghan dove fa sempre l’uomo del west ma in città: uccide i cattivi con garanzie e ripensamenti ancora minori. Dunque macho violento mai toccato dal dubbio. Uomo di destra, repubblicano estremo, alla Reagan allora, alla Bush figlio, di recente: i criminali vanno neutralizzati, arrestandoli potendo, altrimenti va bene un proiettile esplosivo di 44 Magnum. Clint-Callaghan non si sarebbe iscritto a “nessuno tocchi Caino”. Successivamente l’attore regista, ha rivisto la sua posizione, o meglio ha rivisto i contenuti. Continua a non amare i criminali, ma sta più attento, diciamo. Soprattutto Eastwood si impone di elaborare i due punti di vista, i due estremi, le due ideologie. Il doppio film Lettere da Iwo Jima è esemplare in quella chiave. Raccontando la famosa battaglia del Pacifico nelle due ottiche, l’ americana e la giapponese, Eastwood quasi sublima equidistanza e imparzialità e comprensione reciproca. I soldati di quei due eserciti sono vincitori e vinti allo stesso modo. Non deve esserci esultanza, non deve esserci trionfo. L’idea di Eastwood “solidale” non è la stessa di un Penn o di un Moore, che sono “sinistra militante”, sono ideologia. La militanza ignora e combatte l’idea diversa comunque. Clint è un vero liberal, guarda e analizza, e se è il caso si muove anche contro il proprio sentimento. L’America offre grandi esempi in questo senso. Una volta c’era John Ford che faceva i western con John Wayne. L’attitudine di Wayne di eroe individuale che fa giustizia, e va bene così, era mediata per i western ma non solo, da John Ford che lo aveva diretto molto spesso. In Un uomo tranquillo John Wayne prende a pedate la moglie Maureen O’Hara, la trascina per i capelli davanti a tutto il paese, siamo in Irlanda. Nonostante la cifra ironica che appartiene a quella sequenza è difficile negarne il carattere “politicamente macho”. Dunque Ford uomo di destra, non liberale, reazionario, violento. Ma in precedenza il regista di origini irlandesi aveva firmato film come Furore e Com’era verde la mia vallata. Il primo è una delle opere più nobili a descrivere la miseria di una famiglia maltrattata dalle istituzioni durante gli anni della depressione, l’altra è una rappresentazione realistica e commovente della vita disperata dei minatori del Galles. Sono strepitosi manifesti “populisti” realizzati dal “reazionario” John Ford, appunto. Un altro autore, Sidney Lumet, col suo primo film La parola ai giurati, aveva dichiarato per la prima volta il principio del ragionevole dubbio. Meglio un forse-assassino libero che un forse-colpevole in prigione. Nel suo ultimo film Onora il padre e la madre, un padre uccide il figlio assassino. Lumet, il primo testimone garantista del cinema, chiudeva ottantatreenne con un padre giustiziere che evoca la nemesi antica, biblica. Nessuna militanza, nessuna ideologia, ma una giurisprudenza che sta nella nostra genetica, è naturale, non occorre cercarla tanto, è lì. Sono l’idea e il sentimento di Clint Eastwood, americano. Che bello, se fosse così dappertutto.   I SESSANT’ANNI DI MERYL STREEP   È una questione di appeal, di qualità dell’appeal. Le dive si sono sempre, per lo più, divise in belle o brave. Poi c’erano, più rare, quelle belle e brave. Le belle le conosciamo, da Greta a salire: Rita, Marylin, Grace, e così via, su fino a Nicole. Certo, Nicole è anche brava, ma prevale per bellezza. Poi ci sono stati i modelli esclusivi che hanno dettato l’esempio, come Audrey. Ci sono stati i grandi caratteri, leader, prevalenti, “maliarde” come si diceva allora, come Joan Crawford, e Bette Davis. Ma la prima era famosa per le gambe, la seconda per il seno. C’è stata Jane Fonda, bella&brava, impegnata in prima linea per i diritti civili. Anche lei grande modello, anche culturale. C’era stata Katharine Hepburn,

spesso assimilata a Meryl, la più brava di tutte (4 Oscar da protagonista, come nessuna). Ma di lei Howard Hughes diceva, non ama mostrarle, ma ha le più belle gambe di Hollywood. Insomma nella bravura, anche alta, anche assoluta, c’era sempre una parte di appeal, una parte di “corpo”. Poi c’è Meryl Streep. Nessuna regola per lei, è davvero un unicum. Pura bravura: è questa la denizione. Le istantanee che la riguardano, da sempre, non la vedono con abiti da sera dalla scollatura profonda, o gonne con spacchi da diva, i servizi sui vari magazine del mondo non l’hanno mai rappresentata se non come donna normale, che indossa abiti normali. Inoltre il suo viso è particolare, tutt’altro che perfetto, con quella deviazione, molto evidente del setto nasale. E allora perché la Streep prevale, perché nella scena toglie lo spazio agli altri? La risposta è semplice, è il cinema, che osserva, scandaglia e studia, e poi estrae l’appeal che gli serve, che magari non è evidente a occhio nudo. Meryl Streep non è applicabile ad alcun modello: non l’amorosa, la dark, non è mamma né moglie né figlia, non è donna in carriera, non è l’avventuriera o la lesbica. Eppure è stata tutto questo. E ogni volta ha creato un precedente al quale si sono rifatte quelle che venivano dopo di lei. Avere ottenuto 41 nomination nei premi più importanti e averne vinti 9, non significa non avere limiti. Meryl non avrebbe mai potuto essere Gilda o Pretty Woman, ma quello che sembrerebbe un limite, l’attrice lo trasforma in un privilegio. La frase potrebbe essere: non posso coprire quei ruoli, tuttavia sono diventata popolare come Rita e Julia. Forse più popolare. Bravura, pura bravura. La qualità è chiara fin dall’inizio quando si fa notare nel primo film importante, Il cacciatore, nella parte della fidanzata di Robert De Niro. È dunque arrivata nel gruppo giusto. È brava, ma ha trent’anni e dunque non ha più tempo da perdere. Da quel momento tutto ciò che fa è perfetto e diverso. E se non è perfetto rispetto alle regole codificate della recitazione e del ruolo, l’anomalia di Meryl diventa regola. Solo il miglior Marlon Brando poté, a suo tempo, permettersi questa licenza. E così eccola in Manhattan dove abbandona il marito Woody Allen per convivere con un’amica. Abbandona anche Dustin Hoffman, da moglie etero stavolta, ma ormai incapace di sopportare il ménage, in Kramer contro Kramer, dove affronta anche il ruolo più sgradevole per una donna: l’abbandono del figlio. Una parte così dolorosa l’aiuta a vincere il primo Oscar da non protagonista. Due anni dopo lo vince da protagonista, nella parte della madre polacca costretta a scegliere chi salvare dei suoi due figli ne La scelta di Sophie. Dunque dolore ancora maggiore, se possibile. Ne La mia Africa è l’avventuriera romantica che lotta per la sopravvivenza di una tribù e che si innamora di Robert Redford, che le lava i capelli sulla sponda del fiume. Erotismo davvero non convenzionale, alla Meryl Streep. In una selezione così ridotta e arbitraria citiamo ancora la cattivissima direttrice di magazine ne Il diavolo veste Prada e, a chiudere il cerchio dei ruoli estremi, partito dal dramma disumano di Sophie, eccola in Mamma mia!, dove cantando e ballando, diventa la più allegra e irresistibile rappresentazione della gioia di vivere. Dunque Meryl è tutto. Tutto. Ultima indicazione: un marito e quattro figli, altra anomalia, altra regola capovolta, alla Meryl.   2008: I SETTANT’ANNI DI GIULIANO GEMMA L’EROE CHE VOLEVA ESSERE   Gregory Peck, Randolph Scott, Robert Mitchum, George Montgomery. Cosa c’entrano con Giuliano Gemma? C’entrano, solo che il rapporto è capovolto. I divi richiamati sopra sono stati gli ispiratori, nei vari decenni, del personaggio Tex Willer, ma solo Gemma gli ha dato corpo e volto al cinema (Tex e il signore degli abissi). Ho voluto cominciare col massimo ed eterno eroe dei fumetti, con qualcosa che fa parte di una mitologia consolidata, per introdurre un attore, un personaggio che ha frequentato,

per lo più, un versante bello, ingenuo, pulito e avventuroso del cinema. Gemma è quasi sempre stato considerato un esemplare estetico da metter lì, un protagonista da favola cinematografica, ma niente di serio. Giovanissimo, ha impostato il suo personaggio su due attitudini che certamente possedeva: l’appeal e la fisicità. Stuntman, ottimo atleta, fisico armonioso, volto magnifico. Ma soprattutto, dopo le prime brevi apparizioni, eravamo alla fine degli anni cinquanta, ha messo a fuoco il modello che più gli apparteneva, e lo seduceva: l’eroe. Sono tali tutti i personaggi dei suoi inizi. Duccio Tessari lo vuole protagonista, per la prima volta, in Arrivano i Titani (1962), un peplum magnificamente anarchico. Tessari sarà per Gemma il primo riferimento, ciò che Fellini è stato per Mastroianni e Monicelli per Gassman. L’eroe è Krios, il più giovane dei Titani, che ha l’incarico di punire Cadmo, il tiranno che si crede divino. Poco dopo Gemma è Erik il vichingo, il navigatore che scoprì l’America mezzo millennio prima di Colombo. Altro che eroe, dunque. Gemma guarda da sempre a un esempio “artistico” strepitoso, Burt Lancaster. Da ragazzino lo ha visto in un film irresistibile, La leggenda dell’arciere di fuoco, dove Lancaster, volteggiando (lui, non lo stuntman) fra alberi e mura di castelli, interpreta Dardo, una sorta di Robin Hood che protegge il popolo lombardo dal tiranno Barbarossa. Nel 1971, Gemma diventerà proprio Robin Hood nell’Arciere di fuoco, imponendo il titolo al regista Ferroni, che non ne era entusiasta. Robin Hood, l’eroe degli eroi, appunto. Ma c’è di più: sul set de Il Gattopardo, Gemma, nei panni di un generale garibaldino (ma guarda, un altro eroe) aveva incontrato proprio Burt Lancaster, l’attore-atleta che sapeva rappresentare alla perfezione anche un principe siciliano dell’epoca dei Mille. Quando Sergio Leone irrompe coi suoi western, ecco che Duccio Tessari si inserisce in quello spazio, con canoni diversi da quelli del maestro, ma di qualità. Il suo testimone non può essere che Giuliano, nel ruolo di Ringo. E Ringo diventa un sortilegio del cinema, un richiamo indispensabile a definire lo spaghetti western. Il ritorno di Ringo, con Gemma che interpreta un reduce della guerra civile, è un grande film anche fuori dal contesto del genere. Ringo, eroe del west. Anche se il richiamo arriva da lontano, dal western vero, da John Wayne che faceva appunto Ringo, in Ombre Rosse di John Ford. Eravamo nel 1939. Dunque un’altra parentela nobile per Gemma: dopo Lancaster, Wayne. Gemma si toglie un’altra soddisfazione delle sue. Quando era tempo ha fatto il militare con un ragazzo, coetaneo, che vagamente gli assomigliava ed era, è innegabile, un atleta migliore di lui. Era Nino Benvenuti, che sarebbe diventato sappiamo. Giuliano riesce a convincere Nino a fare l’attore. Il pugile si presta nel modo giusto: l’ironia, il prendersi in giro. Il direttore è ancora una volta Tessari che ha subito un problema tecnico, di ripresa. Il fatto è che Nino sa come si tirano i pugni sul ring, ma non sul set. Il suo braccio è talmente veloce che la macchina non riesce a riprenderlo. E allora è Giuliano che media. Sì, insegna al campione del mondo a boxare. Insomma ecco un altro capitolo della sua vocazione: come toccare le leggende. Ma qualcosa sta accadendo, purtroppo. Il cinema sta cambiando. Comincia quella lunga stagione in cui un tipo come Gemma non funziona più, tanto meno funzionerà l’eroe. Nel nuovo cinema prevalente, guai se fai vedere qualcosa di bello, di nobile e di epico. Devi mostrare un sociale più triste del dovuto, devi illustrare un paese molto peggiore di quanto non sia nella realtà. Soprattutto, il cinema deve vedersela con la politica e la militanza, che ne prendono possesso e che producono un allontanamento progressivo da parte del grande pubblico. Così negli anni belli della forma fisica che poteva sposarsi alle possibilità espressive, Gemma viene emarginato. Lui come altri, un Franco Nero per esempio, un altro attore pieno di appeal (e di bravura) che ha dovuto diventare il recordman mondiale in lingue, emigrato in una trentina di Paesi per lavorare. Ma certo Gemma non scompare, anzi cerca di adeguarsi, di salvare il salvabile, diciamo così. Deve cambiare attitudine e

pelle. E si impegna per farlo. Gemma non è un virtuoso della recitazione, ma cerca di evolversi. Insomma, ricomincia da capo. Rinuncia al doppiatore, quel Pino Locchi (Curtis, Bronson, Connery fra gli altri) capace di portare agli attori e non solo a Gemma, un’addizione di bravura davvero decisiva, e lavora sulla voce. Ed eccolo in ruoli diversi, complessi. E dimostra di essere migliore di quanto il movimento del cinema lo ritenesse. Monicelli lo impiega in Speriamo che sia femmina nel ruolo di un amministrativo insignificante e gretto ma tutti gli uomini lo sono in quel film. Performance corretta di Gemma, ma da non riconoscerlo. Altre due menzioni: la parte ne Il deserto dei Tartari, dal romanzo di Buzzati, dove interpreta il maggiore Mattis, personaggio complesso e dolente, gli porta un riconoscimento ufficiale e importante, il David di Donatello. E infine ricordiamolo ne Il prefetto di Ferro, nei panni del famoso prefetto Mori che, su ordine di Mussolini, venne inviato in Sicilia a combattere la Mafia. Un ultimo eroe. Il resto sono titoli di coda, come la televisione e i “camei” e come le sue passioni che continua ad alimentare, lo sport e la scultura. L’eroe Gemma non ha avuto vita lunga, l’attore invece continuerà, oltre i suoi settant’anni di vita e cinquanta di cinema.   LUMET: EROE DI GIUSTIZIA   Onora il padre e la madre è, a parer mio, il miglior film del 2007. Non il più “visibile”, non ci sono le implicazioni e le suggestioni che possono appartenere a titoli come Il cacciatore di aquiloni e Juno, tuttavia rappresenta un promemoria molto importante. È un film dove si fa giustizia. Un padre, impersonato da Albert Finney, uccide, soffocandolo con un cuscino in sala rianimazione, il figlio assassino, cui dà corpo e volto Philip Seymour Hoffman. È un richiamo estremo, in un momento in cui la giustizia viene distorta o addirittura nascosta, in nome di nuovi codici e nuove etiche. Si chiama relativismo. Faccio un nome, che non è del cinema - ma il cinema ha fatto di peggio - Cesare Battisti, il terrorista italiano (quattro omicidi) acquisito e coccolato dai francesi (e anche da una forte corrente italiana) diventato scrittore di successo, e solo dopo molti anni, finalmente arrestato. Lumet ci ricorda che la differenza fra giusto e ingiusto, fra bene e male, c’è. Soprattutto ci ricorda che anche l’eroe, magari estremo, se non c’è, va ritrovato. Il padre giustiziere, evoca giustizia antica, biblica. E non era da tutti assumere una responsabilità del genere, forse appartiene al solo Sidney Lumet che, nel tempo, si è legittimato in quel senso. I segnali di predestinazione furono precoci: col suo primo film La parola ai giurati (1957) il trentatreenne regista firmò semplicemente il più grande film processuale della storia del cinema. Il giurato Henry Fonda convince a uno a uno gli altri undici che un ragazzo non è colpevole se non c’è sicurezza totale. Dichiara il principio del ragionevole dubbio, pronunciamento garantista assoluto. Meglio un forseassassino libero che un forsecolpevole in prigione. Lumet è un uomo colto, le sue radici affondano nella cultura newyorkese degli anni cinquanta, uno slancio di idee e di prese di coscienza che avrebbero cambiato il mondo del dopoguerra. Diritti civili e diritti umani: Lumet, rispetto al cinema sarà uno degli eroi in quel senso. Rappresenta le contraddizioni e i compromessi devastanti della politica in A prova di errore (1964); l’odio razziale ne L’uomo del banco dei pegni (1964). Ma il suo grande tema, la sua costante umana e artistica riemerge con Serpico (1973), la storia del poliziotto che rifiuta la corruzione pagando di persona. Dunque, Serpico-Pacino, eroe giusto e onesto. Lo stesso tema riproposto otto anni dopo con Il principe della città. Ne Il verdetto (1982) Paul Newman è un avvocato di Filadelfia che rifiuta una transazione che lo farebbe ricco pur di difendere una madre ridotta in coma vegetale dai baroni di una clinica

protetta dalla chiesa. Nella sua arringa finale l’avvocato fa leva sul senso di giustizia insito ancestralmente in ciascun essere umano, e vince la causa. Chi vede il film esce dalla sala rassicurato e liberato, con un’apertura di fiducia verso gli esseri umani. Accade quasi sempre con le opere di Sidney Lumet. Onora il padre e la madre è un film dinamico del tutto attuale anche nella confezione. L’ottantaquattrenne Lumet si è adeguato a questo tempo. In questa chiave il film si apre con una scena di sesso (volutamente) sgradevole. Davvero non gli sarebbe appartenuta qualche anno fa. L’avrebbe giudicata un compromesso superfluo. Un autore come lui non ne avrebbe avuto bisogno. Probabilmente i produttori gliel’hanno imposta. Ma il film non ne risente, e qualche biglietto in più è certamente stato staccato al botteghino. Dunque da La parola ai giurati a Onora il padre e la madre. Se allora Lumet sentiva di dichiararsi garantista e adesso, dopo oltre mezzo secolo, giustiziere, è bene dargli credito, perché lui certamente se ne intende. Un altro detective C’era una volta un altro detective, Maigret, scritto da Simenon e non da Verasani, interpretato da Gabin e da Cervi, e non da Baraldi. Maigret è scettico e dolente, sa che la cosa che rimane da fare è salvare il salvabile. Ma sta attento a non far male. Non ha figli e la sera, stanco e deluso dalla gente, si rintana in casa con sua moglie, beve birra e pensa a come ha agito. Cerca, appena possibile, di proteggere tutti, un indagato, un presunto criminale e un criminale accertato. Perché lui è tollerante, e garante. Non è un guastatore e non sarà mai sorpassato. Alberto Nel 1961 Alberto Sordi recitò in Una vita difficile, diretto da Risi, scritto da Sonego. È la storia di Silvio Magnozzi, giornalista. È partigiano nella zona del lago di Como, rientra a Roma e milita nel suo piccolo giornale, si batte per mandar via gli americani. Poi vive tutte le vicende e le date decisive del dopoguerra: il referendum del ’46: leggendaria la scena in casa dei principi monarchici, devastati dalla notizia del risultato. Le elezioni del 18 aprile del ’48 lo vedono denunciare i “ricchi” che hanno mandato i soldi in Svizzera temendo la vittoria dei comunisti. E lui, Silvio lo è comunista, vero, onesto. Nel luglio del ’48, dopo l’attentato a Togliatti viene arrestato mentre cerca di occupare una stazione radio. In prigione organizza “culturalmente” i detenuti. Ma uscito, su pressione della moglie, si adatta a lavorare per il commendator Bracci (Claudio Gora), un industriale emergente e prepotente, proprio l’uomo che lui, Magnozzi, aveva sempre combattuto. Subisce ogni tipo di umiliazione, ma durante una festa, dopo aver spostato un cardinale che ingombrava, scaraventa il commendatore in piscina appioppandogli il più liberatorio schiaffo di tutto il cinema. Il palmo di quella mano era quello di tutti noi. E tutti stavamo dalla sua parte, magari pensandola diversamente. Ma quello era Alberto Sordi. Se ci fosse stato lui, sul palco, a Roma, forse la conta poteva essere diversa.   QUELLI DI UN ALTRO MONDO   Non ho mai visto Michael Jackson, ma ho conosciuto un produttore che lo aveva incontrato più volte. Mi disse: “Io ho conosciuto tutti gli artisti del mondo della musica e non solo, ma quando ho dato la mano a Michael Jackson ho avuto la sensazione di toccare un essere di un altro mondo”. Si chiama talento, si chiama grazia. Certo esiste, e alcuni ce l’hanno. Michael, nella voce, nel ballo, nella mimica, nel corpo e nel volto, era un’opera d’arte. Con un valore che non è così automatico, il successo estremo. Un artista può possedere una dotazione assoluta ma poi non è detto che venga assunto dal mondo. Magari è capito da un’ elite, diciamo così. E qui inserisco Pina Bausch, che ci ha lasciato pochi

giorni dopo Jackson. La ballerina e coreografa non ha prodotto video venduti a centinaia di milioni, ma era la regina di un certo teatro, frequentato da appassionati. Anche lei era un angelo dalle superdotazioni. Come Michael. Certo, il famoso Thriller, il video diretto da Landis, è il pezzo di musica più venduto di tutti i tempi. Appartiene a Jackson, e non è un caso. Non è canzone, non è ballo, non è video né film; è un’opera d’arte del ‘900, come l’Urlo di Munch, Guernica di Picasso o il museo di Bilbao firmato Frank Gehry. “Un essere di un altro mondo”. Si tratta di quell’incanto non misurabile che viene percepito d’istinto, come se un richiamo fosse disposto a priori nella genetica di ciascuno. Marilyn faceva impazzire gli uomini di tutta la terra, non c’era estetica o tradizione o cultura o etnia che tenessero. Era incanto generale e naturale, appunto. Anni fa ho visto Nureyev in una delle sue ultime performance, a Milano. Era stanco, era quasi alla fine. Mia moglie aveva portato nostra figlia piccola, quattro anni. Voleva che lo vedesse, perché non ci sarebbe mai più stato un altro come lui. Nell’intervallo Nureyev era rimasto sulla piattaforma, faceva esercizi da solo e ricordo che continuava a spostare una sedia usandola come riferimento. Mia moglie si avvicinò al limite del palcoscenico con la bambina per mano. Nureyev le raggiunse, tirò su Rossella e fece una giravolta con lei in braccio. Anche Rudolf era uno di un altro mondo e Rossella lo percepì e a vent’anni di distanza è conscia di aver fatto parte, per un momento, di un miracolo. Si sente ancora girare la testa e sente ancora l’odore di quel sudore. Una volta ero a una festa privata, gente di cinema. Avevo parlato con un ospite che non conoscevo, casualmente seduto vicino a me, di cinema, di musica, uomo interessante. La padrona di casa disse “adesso il maestro Luis Bacalov ci farà sentire qualcosa al piano”. Bacalov era il mio vicino sconosciuto. Sedette al piano ed eseguì il tema de Il Postino, il film con Troisi. Chi conosce quella musica conosce quell’incanto. Lì presente poi, dal vivo a tre metri. Anche lì ebbi la sensazione di due mani di un altro mondo. Molti, molti anni fa, ero al ristorante La Magolfa coi miei genitori. Alla Magolfa facevano la cosiddetta cucina milanese. Veniva considerato “locale caratteristico e artistico”. Arrivano tre persone, due uomini e una donna, alti, uno altissimo. Mia madre dice “ma quello lì è Gary Cooper”. Mio padre guarda e risponde “ma cosa vuoi che ci faccia Gary Cooper alla Magolfa?” L’uomo aveva un vestito blu, poco stirato, una borsa di pelle rossiccia. E aveva due occhi che sembravano due luci, ma non normali, alogene. E naturalmente aveva dell’altro. Non l’ho mai dimenticato. Avevo sei anni e davvero non sapevo chi fosse Gary Cooper. E quello era proprio lui. Era venuto in Italia per promuovere un suo film e per partecipare al Musichiere. A volte penso al “peso” di tutto ciò che quella gente ci ha trasmesso. Naturalmente ci è indispensabile. E non è solo una questione di incanto, con loro siamo garantiti e rassicurati. Sono amici, non deludono e non tradiscono. Basta attivare il video ed ecco che Michael balla fra gli zombie; Gary, sul ponte di Per chi suona la campana, ferma i cattivi per salvare i buoni; e Marilyn, in Niagara, continua a camminare con quel suo sedere fasciato dal vestito rosso.   QUANDO MADONNA PASSÒ DIETRO LA MACCHINA E NON FU PIÙ MADONNA   La morte e il ricordo di Michael Jackson hanno, di rimbalzo, richiamato all’immagine di Madonna, che si è inserita nell’uragano mediatico proponendosi come omologa femminile dell’artista scomparso. Risolvendo i due personaggi in brevissime didascalie: Michael è un talento sovrumano toccato da una grazia reperibile solo in un altro mondo; Madonna invece è un personaggio enorme, figlia di un marketing che da trent’anni ha sbagliato davvero pochi colpi, ma la sua grazia è terrestre. Mi piace prendere a riferimento il film Sacro e profano, da lei firmato come regista, anche in relazione ai problemi di target che un

critico di cinema si pone costantemente. Come critico conosco bene l’evoluzione del gradimento. L’assunto è semplice, il gusto giovanile ha regole e codici che adesso comandano, dunque prevale, in virtù del fatto che i biglietti vengono comprati in grande maggioranza dalle fasce di età fra i 18 e i 35 anni. Ma regole e codici giovanili, seppure prevalenti, non è detto che siano quelli “giusti” (con questo aggettivo doverosamente virgolettato). È un lungo dibattito. Chi critica un film dovrebbe formulare tre recensioni. Una rispetto al ”politicamente corretto”; una rispetto alla fascia che va al cinema, i giovani appunto; e una terza secondo propria cultura e sentimento, trattandosi di professionisti, secondo storia. Madonna, come donna di spettacolo detta stili e tendenze da trent’anni. Negli anni Ottanta era gli anni Ottanta. Reggiseno di metallo, spallone, sopracciglia eccessive, capello ossigenato e corto da uomo, storie d’amore e sesso con trasgressione, amori&modelli importanti come Penn e Basquiat, storie bisex. Sono suoi anche i Novanta: dark, capelli lunghi, carnagione chiara, video concettuali con corvi neri, zen e yoga. Poi stile rock “pappone”, il video di Music, con pelliccia bianca e gioielli. Ultimo decennio: palestrata. Il fisico di una trentenne che si rimette in gioco con le trentenni, scandaloso il bacio intenso con Britney Spears. Quando la musica è cambiata Madonna non si è arresa, altra ricerca febbrile, altre piattaforme, con qualche revisione e “u turn” spericolati, magari grotteschi, come i libri di favole per bambine. Ma sempre, l’artista è riuscita a governare. A trasformare le regole secondo regole proprie. Come attrice nei film ha pure lasciato un segno (Cercasi Susan disperatamente e Occhi di serpente, soprattutto). Ma quando si è trattato di regia, ebbene il cinema l’ha attesa al varco. Madonna è “inventiva”, disordine, esplorazione frenetica, passaggio in tempo reale dall’idea all’azione anche se l’idea è astrusa. Ma il cinema è infido, anche cattivo. Ti fa lo sgambetto. E poi un film è lungo, non è un video che puoi fare in apnea, sul lungo tratto devi essere resistente, un piccolo cedimento si allarga e sfugge, e non riesci più a recuperarlo. Vale anche per la cultura, sul breve puoi simulare, ma sul lungo vieni smascherato. Tutto questo accade in Sacro e profano. Un ucraino filosofo-spicciolo, aspirante cantante e nel frattempo “prostituto sadomaso” si confronta con una farmacista che ha alte ambizioni di volontariato e una ballerina classica in erba che per sopravvivere fa spogliarello e lapdance. Ogni episodio si apre e si chiude con la frenesia di un video musicale, a ritmi sincopati. Manca il respiro lungo per argomenti compiuti. Insomma, manca il cinema. Madonna fa parte di quella schiera privilegiata di artisti alla quale tutto si perdona. È una franchigia preziosa. Però, per una volta difendiamo il cinema con questo auspicio: che la prima regia sia l’ultima e che Madonna faccia ciò che sa fare, che è già molto.   QUO VADIS UN FILM CHE HA FATTO LA STORIA, NON SOLO DEL CINEMA   Mi sbilancio: Quo Vadis è uno dei titoli più importanti nella storia del cinema. Le ragioni sono molte, riferite a una somma di valori vastissima, completa, che riguardano letteratura, storia con la S maiuscola, vicenda, fede, mercato, location, governi. Inoltre ideologia e politica. E poi il cinema nel suo specifico, rappresentato dalla major prevalente di allora, la più ricca, quella dei colossi, quella che con Quo Vadis avrebbe inventato un precedente straimitato in futuro. Quella major era la Metro-Goldwyn-Mayer. Il film era in progetto da almeno trent’anni. C’era già stato un Quo Vadis del 1912, del nostro Enrico Guazzoni. Budget allora cospicuo, immenso teatro di posa, centinaia di comparse. Il film aveva avuto grande successo in America e aveva sollecitato un’emulazione. L’opera di Guazzoni aveva dato un’indicazione estetica molto importante, decisiva: aveva dimostrato che nel quadro dello schermo ci potevano stare centinaia di

figure, insieme a templi, statue, cavalli, bighe, tribune. Insomma lo schermo si accreditava un precedente, un privilegio, che non poteva appartenere né alla pittura, né al teatro. La storia è nota. Nel '64 dell’era cristiana, Nerone imperatore, il console Marco Vinicio si innamora della cristiana Lycia. Nerone uccide i cristiani nell’arena, incendia Roma, visitata da Pietro e Paolo. Alla fine l’imperatore pazzo viene ucciso e Vinicio, divenuto cristiano, sposa Lycia. Fu il trionfo del magniloquente, la Metro profuse ogni possibile sforzo, investimento record, divi massimi. Ne uscì un film dalla ricchezza e dall’estetica strepitose. Un’“americanata” da record. Ma era solo la punta visibile dell’iceberg. Premio Nobel Per cominciare il testo. Era tratto da un romanzo di Henryk Sienkiewicz, polacco, che era valso al suo autore il premio Nobel nel 1905. La Metro ne aveva acquisito i diritti sin dagli anni trenta. Per il momento storico, per il budget impegnativo, con una guerra di mezzo, il progetto era sempre slittato. La Casa aspettava un’occasione favorevole per l’investimento. L’occasione la diede Andreotti. Proprio così: se non fosse stato per lui, già attivo e potente in quegli anni, non ci sarebbe stato Quo Vadis. Nel 1947 il politico democristiano favorì una legge sullo spettacolo che permetteva, a chi avesse investito in Italia, di non pagare le tasse. La Metro aderì subito e il film divenne un business importante anche per il nostro paese. E tutto fu abnorme. Trentamila comparse, per esempio, significavano trentamila costumi e altrettanti posti letto. Lavoravano tutte le sartorie di Roma, e tutti gli alberghi. Cinecittà, adibita a comando tedesco durante la guerra, poi semidistrutta, venne riorganizzata per ospitare il grande film in costume. Il set: paradossalmente Roma, bombardata in molte zone, con rovine disseminate qua e là, si avvicinava all’estetica della Roma antica. La via Appia, che ospita alcune scene di marcia delle legioni, era praticamente la stessa della Roma del primo secolo. Ma c’era di più, davvero molto di più: le indicazioni. Hollywood, e Washington, ritennero che quel film off risse enormi possibilità di comunicazione e di propaganda, che fosse un’occasione da non perdere. L’America era uscita dalla guerra vincitrice, ma non voleva dare la sensazione della superpotenza che vuole dominare il mondo, magari con le armi: era fresca la memoria di Hiroshima e c’era la guerra in Corea. Intendeva invece porsi come garante e guida. Non come “impero” ma come repubblica. E Roma, impero e repubblica, era un riferimento perfetto, soprattutto se si faceva passare il parallelo tra “pax romana”e “pax americana”. Infatti una delle parole più pronunciate nella sceneggiatura di Quo Vadis è “pace”. Tutore del mondo significava, in quel momento, proteggere l’occidente dal comunismo. L’America di fatto si stava impegnando, attraverso il piano Marshall, in un aiuto di portata mai vista alle nazioni che erano state in guerra, comprese quelle che l’avevano persa, come l’Italia. Il film era un promemoria anche di questa azione. Porsi come garante morale significava in automatico, dare anche un’indicazione religiosa. Quo vadis è un promo della fede. In questa chiave la produzione studiò e attuò una promozione capillare, persino coraggiosa. Il regista Mervyn LeRoy ottenne un’udienza da Pio XII. Si presentò con un regalo prezioso (era la Metro, potevano permetterselo) e con il copione del film. Pacelli sapeva che Hollywood era in prevalenza giurisdizione degli ebrei. Così domandò al regista “lei è cristiano?” “No” rispose LeRoy “sono ebreo”. “Non ha importanza” disse il Papa “siamo connessi”. E benedì il copione. Per dare indicazioni più mirate gli sceneggiatori ritoccarono il testo di Sienkiewicz anche nella sostanza. Verso la fine il console Marco Vinicio parla con un suo centurione che domanda “cosa ci riserverà il futuro?” Vinicio risponde “Babilonia, Egitto, Grecia, Roma, cosa segue? Un mondo più stabile spero, e una fede più stabile.” Il romano-americano alludeva a una stabilità politica ed economica, che unisse l’Europa e l’America, contro fascismo e comunismo. L’intervento in chiave politica sul testo originale è ben poca cosa rispetto all’aggiustamento di alcune battute delle sacre scritture. L’apostolo

Pietro, nelle vesti di Finlay Currie veterano della Metro doppiato dalla voce “biblica” di Aldo Silvani, in una catacomba ripropone il discorso della montagna di Gesù. Gli autori dispensarono qua e là la parola pace, come connessione, comune denominatore. Era ancora un richiamo alla “pax americana”. Fede, morale, pace, stabilità: indicazioni spirituali che non si addicevano a un vettore come un film colossale, così concreto e ipertrofico, anche per decibel di strumentazione e colori. L’atmosfera silenziosa e rarefatta di bianchi e di neri de Il posto delle fragole era perfetta per la spiritualità. Eppure Quo Vadis, riuscì “contro natura” a portare quelle indicazioni. Primo motore Quo Vadis fu la prima grande produzione hollywoodiana sull’antica Roma, un primo motore che diede vita a figli degni, come La tunica, I Gladiatori, Ben Hur, Spartacus e Cleopatra, e a una schiera degenere di b-movies, di produzione soprattutto italiana. L’ultimo discendente di Quo Vadis è Il gladiatore, di Ridley Scott. I due film hanno punti in comune, ma pochi. La ricchezza del “Gladiatore” deriva dal computer, capace di moltiplicare cento comparse per trenta con un trucco elettronico. Ma a Roma, nel ’51, le comparse, come detto, erano davvero trentamila. Per arricchire l’architettura, per aggiungere per esempio due anelli alle tribune dell’arena, a sostituire il computer c’era allora Peter Ellenshaw, un artista che faceva coi colori e i pennelli, sul vetro, il lavoro dell’elettronica. Un precedente artistico che fa storia fu la musica. Miklòs Ròzsa, uno dei massimi autori di colonne sonore; era compositore, direttore e aveva una laurea in musicologia. Letteralmente inventò il sound dell’antica Roma. Non era davvero semplice, non c’erano riferimenti sonori né spartiti, ma solo qualche suonatore di lira o buccina effigiato su un vaso o su un muro. Quando più tardi rifece la musica medievale (in Ivanhoe per esempio) qualche segnale era arrivato, ma Roma era troppo lontana, e muta. Dunque pura fantasia, pura invenzione da parte di Ròzsa, ma il risultato creò un precedente. La musica di Roma è quella. Il protagonista è Robert Taylor, divo assoluto, così come lo era Deborah Kerr. Bellissimi, modelli irraggiungibili dal comune mortale. Taylor era “completamente americano”, nella sicurezza, nella fisicità, ma anche nella capacità di capire e di far proprie idee nuove. Deborah era delicata, spirituale ma anche appassionata ed erotica, e non era semplice. Ma la figura memorabile, non di maniera, che arriva fino a noi fuori dal quadro di quel tempo, è Peter Ustinov che fa Nerone. Matto, indecifrabile, simpatico e dunque pericolosissimo. Suona la lira, canta, fa ridere tutti e poi brucia Roma e uccide la moglie. Non sei mai al sicuro da lui. Spaventò davvero i bambini degli anni cinquanta. E, ancora, ti mette a disagio. Quo Vadis ha un’estetica mai superata. Puoi inserire il Dvd, e trasmettere il film senza audio, e ti rifai gli occhi. Può essere interessante e curioso rivederlo e rileggerlo, con queste informazioni, in prospettiva. A garantire – questa volta solo in chiave cinematografica – c’è la qualità generale. Ma Quo Vadis ha raccontato e fatto la storia, per molti aspetti.   RITROVANDO LASSIE   È notorio che ormai per lo più le buone notizie, se si parla di film, arrivano dall’home video. Alcune major pubblicano, oltre ai titoli attuali, grandi classici delle epoche più felici del cinema. Uno di quei classici è Torna a casa Lassie!. Uscì nel 1943, c’era la guerra e da noi arrivò nel ’48. Qualcuno scrisse che il film sarebbe durato “fino a quando ci saranno un bambino e un cane, e quel legame esclusivo che solo loro riescono a creare”. Quel titolo, quel suono, “torna a casa”, fanno dunque parte del sentimento e della memoria di quel

cinema che possiede una chimica che non si altera, come Biancaneve e i sette nani e Il mago di Oz, rimanendo su titoli di quelle stagioni. Per generazioni Lassie era molto più di un cane, rappresentava cose semplici e buone. Lassie era bella, colorata, nobile, correva nei boschi e lungo i fiumi, cercava di essere utile alla gente, amava la sua famiglia, viveva per Sam, il suo padroncino. Anch’io, quando avevo l’età di Sam, amavo Lassie con tutto il cuore. E anch’io, come quasi tutti, ho avuto almeno un collie. Negli anni Cinquanta e Sessanta i “lassie” abitavano le case e passeggiavano per le strade. Gli allevamenti di quella razza benedicevano quei film, altri dovettero adeguarsi e privilegiare il collie. Quando i “lassie” da sala cinematografica cominciarono a cedere ecco le serie televisive, antiche, che, scandagliando fra i canali privati, minori, ritroviamo ancora nelle fasce protette. Nel ’94 c’era stato un pallido tentativo di riportare il collie nelle sale con Lassie un amico per sempre, ma ormai la stagione era finita. L’uscita home di “Torna a casa” ha comunque creato l’occasione per un recupero, per un piccolo, nostalgico tentativo di ritorno sentimentale. Film per famiglia nei decenni, ed ecco che ci siamo posti, genitori e figlia ventenne, davanti allo schermo dopo aver inserito il Dvd. Siamo nello Yorkshire negli anni dieci. Sono le cinque, Lassie aspetta il padroncino fuori dalla scuola. Sam esce e i due tornano a casa attraversando i campi. È bella quella natura inglese. Bimbo e cane saltellano nei prati ondulati, laggiù le colline dolci, un ruscello attraversa tutto. Non c’è dubbio che ai nostri giorni non ci sia più l’abitudine, parlo di piccolo e grande schermo, a quell’estetica. Mia figlia, in automatico, riflesso condizionato, è inevitabile, tocca il telecomando. Irrompe Jerry Scotti, col suo faccione famigliare, non competitivo, estetica che litiga con quella appena “staccata”. La famiglia di Lassie è poverissima occorre vendere il cane a un anziano duca che possiede allevamenti. Immenso dolore per Sam e naturalmente per Lassie che, messa in una gabbia, scava un buco, ne esce, e torna a casa per la prima volta. Affetto, fedeltà: assoluti. Il duca ha una nipotina, l’undicenne Elizabeth Taylor, occhi viola accesi come lampadine, uno dei visi, già allora, più belli del cinema. Zapping: appare Platinette, quella parrucca, quel belletto, tutto disumano. Contrasto da scatto di coronarie. LizPlatinette, mamma mia. Lassie viene mandata dal duca in Scozia per un concorso. Così lontano non ci saranno pericoli di ritorno. Ma Lassie è Lassie. È invincibile, è amica devota, è angelo custode del piccolo padrone, non ci saranno distanze a tenere. Comincia il suo viaggio. I laghi di Scozia. Zapping (ormai è anche un gioco curioso): dibattito-gay: urlano Sgarbi e Al Bano. Mamma mia. Lassie è davanti a un grande fiume, dall’altra parte c’è l’Inghilterra. Entra in acqua, nuota ma la corrente la porta via. Nuota ancora, arriva sulla sponda. Si accascia. Zapping: uno del Grande fratello, modello scialbo (aggettivo trattenuto) parla di sé, argomenti che non contano niente irradiati alla nazione. Malinconia. Marito e moglie anziani, dolcissimi in una piccola casa, fuori c’è il temporale. Sentono un lamento, è Lassie stremata nel fango. La accolgono, la curano. Il cane ha capito, le hanno salvato la vita, è riconoscente, non vorrebbe lasciare i due vecchi che si sono affezionati, ma alle cinque, dovunque, anche lontana, sa che Sam uscirà da scuola. I vecchi capiscono, dolorosamente le dicono: “Vai pure”. Zapping: spot di Annozero: musica angosciante, tutto angosciante: adulta arrabbiata, giovane urlante, poliziotti in assetto antisommossa, stranieri in tumulto. Italia quarto mondo. Lassie galoppa nelle sue lande, ha un impegno alle cinque. Non vuole arrivare in ritardo. Corre, corre, si sfianca. Telecomando: altro dibattito gay, urla Giletti, urla Parietti. Lassie arriva al borgo. Percorre la strada di sempre, lenta, sporca, zoppicante. La gente la guarda, sa tutto. Il drogherie scuote il capo, due passanti hanno gli occhi lucidi, una donna piange proprio. Lassie, l’eroina compie la sua missione di fedeltà e di affetto, pone il proprio modello, un precedente per tanto tempo. Ma i cani sono così. Sam esce da scuola e il suo cane è là. Si abbracciano come esseri umani, anzi meglio. Il ragazzo credeva di averla persa ma lei è

tornata come un miracolo. Torna a casa Lassie!, che bello. Il televisore viene spento.   NESSUNO TOCCHI SHERLOCK   Londra fine ottocento. Una donna è immobilizzata nelle fogne in mezzo a una figura geometrica, un chiaro simbolo dell’occulto. Chiamato da un amico medico, arriva l’eroe che affronta i membri della setta satanica e, combattendo alla Steven Seagal e Chuck Norris messi insieme, ne fa strage. Nessuno potrebbe pensare che quell’esperto di arti marziali che porta i colpi con una velocità da playstation o da animazione, sia Sherlock Holmes. L’idea per un’evoluzione tanto estrema del personaggio è venuta al regista Guy Ritchie, che si è valso degli sceneggiatori Michael Johnson e Anthony Peckam. Nell’era recente abbiamo assistito a evoluzioni e contaminazioni anche violente su personaggi che parevano intoccabili. Un esempio per tutti: Bond. Il contorno del film di Ritchie vuole essere tradizionale. C’è il dottor Watson (Jude Law) sprovveduto, c’è l’antagonista cattivissimo capace di morire sul patibolo e poi rifarsi vivo. E c’è la casa di Holmes in Baker Street, più triste, sgradevole e buia del dovuto, anche di quella del fumetto. E poi l’interprete, Robert Downey jr., che non ha davvero niente del carattere originale, a cominciare proprio dalla pratica delle varie arti marziali, dal karate al kung fu, al thai boxing. Non c’è dubbio, davvero non c’è, che Doyle si arrabbierebbe molto se potesse vedere il film. Anche se il baronetto Conan Doyle, non era così innamorato della sua creatura Sherlock Homes, ne era tuttavia geloso. Il detective lo aveva fatto diventare popolare e ricco ma lo aveva anche fagocitato. Doyle scrisse romanzi di ottima qualità letteraria, racconti fantasy che facevano testo e romanzi storici che i critici di allora giudicavano secondi solo all’Ivanhoe del gigante Walter Scott. Tuttavia il suo nome era impietosamente legato a quello del compassato detective londinese. Holmes nasceva con un’identità così forte e precisa che pareva davvero impossibile attribuirgli delle evoluzioni o delle licenze. Identità forte e precisa significava anche farlo esistere al di là del racconto. Holmes era uscito dalle pagine, e diventato talmente vivo che finì davvero per abitare la casa al numero 221 B di Baker Street. Quando lo scrittore scelse quell’appartamento in quella via, si preoccupò di indicare un numero che non esisteva – i numeri civici arrivavano fino al 100. In un riordino successivo il 221 B fu introdotto. Divenne sede di una società immobiliare, la Abbey Road Building, che si vide invasa dalla corrispondenza inviata a chi non esisteva. Tuttavia la società la prese bene, all’inglese e cavalcò la vicenda ricavandone una pubblicità gratuita certamente efficace. Così nel 1999 per riconoscenza sponsorizzò la statua di Sherlock Holmes nella stazione della metropolitana di Baker Street. Ma non basta, diciotto numeri più avanti, al 239, esiste il museo Sherlock Holmes che riproduce esattamente la casa del detective così come l’aveva immaginata l’autore. Tutti elementi che dovrebbero determinare la purissima immagine inglese di Holmes mettendolo al riparo da tentazioni revisionistiche. In sostanza avrebbe dovuto avere abbastanza crediti e franchigia per meritare rispetto. a   Invece no. In principio, proprio in principio – si parte dagli anni dieci, col muto – Sherlock cominciò ad essere rappresentato secondo tradizione, cioè secondo i codici ben conosciuti: la pipa, il cappello, il mantello, il violino eccetera. Si tratta di film di diverse lunghezze, tedeschi, americani, danesi, francesi e inglesi, naturalmente. Successivamente sono state decine gli attori che hanno dato corpo e volto al detective. Comanda Basil Rathbone, perfetto. Come se Doyle lo avesse davvero conosciuto e si fosse ispirato a lui. La

Universal applicò a Rathbone le sue brave contaminazioni, ma sono solo licenze quasi dovute. Holmes-Rathbone nasce nel ’39, c’è la guerra, e un modello così forte e popolare non può non esservi applicato. Ma è solo un fatto estetico, relativo a certi episodi: non più carrozze ma automobili, non più case basse ma la Londra moderna. Per il resto Holmes mantiene le sue abitudini i suoi riti e i suoi tic, soprattutto i suoi metodi. E mantiene un altro carattere classico, il suo amico dottor Watson interpretato da Nigel Bruce. I film furono 14, perfetti come il detective e il medico. Dopo il modello Rathbone è accaduto di tutto. Nel quadro del mantenimento della tradizione e in quello opposto dell’evoluzione. Grandi attori sono stati impiegati, da Roger Moore a Christopher Lee, a Peter O’Toole a Charlton Heston, solo ricordandone alcuni. C’è stato il solito tentativo di ribaltamento in Senza indizio, dove l’idiota è Holmes (Michael Caine) e l’intelligente è Watson (Ben Kingsley). Disney si è ispirato a Holmes per Basil l’investigatopo. Anche la fantascienza non ha risparmiato il detective: nella serie Star Trek l’androide Data impersona proprio Sherlock. Povero sir Doyle, se avesse saputo.   UN DEBITO PAGATO A SCOTT FITZGERALD   Il curioso caso di Benjamin Button è tratto da un racconto di Francis Scott Fitzgerald, naturalmente rivisto secondo il cinema. Vi si narra la vicenda di Benjamin, che nasce l’ultimo giorno della prima guerra mondiale, ma nasce al contrario, novantenne con salute relativa, sordità, cecità, ossa doloranti, eccetera. Da quel momento comincia a ringiovanire. Il senso della sua vita è l’amore per una donna più grande di lui che sta invecchiando come tutti. Le due parabole, quella naturale di lei e quella fenomenale di lui, si incontreranno intorno ai cinquant’anni. Quando un film si ispira alla letteratura è sempre una bella notizia. Se l’ispiratore è Fitzgerald allora giocano altre forze, quasi sortilegi. C’è tutta una mitologia che riguarda quest’uomo, che visse una vita esattamente come se fosse lo scrittore di se stesso, capace di guardarsi come un personaggio (alla fine) tragico, e di rappresentarsi nel successo, nell’infelicità e anche nella morte. “Benjamin Button”, film di qualità rimasto a lungo in testa agli incassi, è una magnifica anomalia, un segnale virtuoso in controtendenza. È un piccolo, piccolissimo risarcimento che il cinema deve allo scrittore, perché Fitzgerald, dal cinema, fu ucciso. Il racconto era uscito nel ’22 sul Metropolitan Magazine, l’editore aveva pagato all’autore 3.000 dollari. Tutto funzionava a meraviglia in quel 1922 per Scott, e per la sua bella moglie Zelda. Lo scrittore aveva appena pubblicato il suo secondo romanzo, Belli e dannati mentre il primo Di qua dal paradiso, continuava ad essere in classifica, come si direbbe oggi. A 26 anni Scott non era solo lo scrittore emergente d’America, ma era uno dei personaggi più popolari, il principe (troppo giovane per essere un re) delle copertine. Lui e Zelda, la coppia simbolo di quel momento socialmente e culturalmente sfrenato; i Fitzgerald erano modelli perfetti di una felicità privilegiata e al sicuro, con Cadillac decappottabili e coppe di champagne sempre alzate. Uno dei personaggi di Scott, Elena, in Babilonia rivisitata diceva “dobbiamo vivere una vita di ultimi giorni”. All’uscita di “Benjamin Button” la coppia viveva a Long Island, dopo un periodo noioso a St. Paul. Feste, sprechi, shopping furioso, high society. Si immersero vestiti nella fontana davanti al Ritz. Davano giovanile scandalo. Erano gli idoli di tutti. Poco dopo trasferirono il loro vorticoso menage fra Antibes e Parigi, dove c’era la meglio gioventù, la ricchezza più in vista, l’intelligenza più avanzata del mondo. I soldi uscivano a fiumi. Scott, per far fronte, scriveva come un pazzo, senza preoccuparsi dunque della qualità. Chiedeva anticipi agli editori. Zelda, vicino a un genio vero, ossessionata dall’emulazione tentò di scrivere, di dipingere, di ballare e cominciò a dar segni di instabilità. Poi si ammalò sul serio e venne ricoverata in una clinica, in quella

più costosa naturalmente. E c’era la figlia Scottie, ormai adolescente, che studiava, nei college più costosi, ovviamente. Poi tutto cambiò, minore energia, minori successo e denaro. E poi la salute: Scott ormai aveva sempre il bicchiere in mano. E così il romanziere pensò al cinema. A metà degli anni trenta andò a Hollywood. Fitzgerald non vide mai un film tratto da un suo libro. Il primo, Il grande Gatsby, con Alan Ladd, è del 1949, Scott era morto nove anni prima. Seguirono L’ultima volta che vidi Parigi, dal racconto Babilonia rivisitata (1954), con Liz Taylor; Tenera è la notte (1962) con Jennifer Jones; un altro Il grande Gatsby (1974) con Redford e Gli ultimi fuochi (1976) con De Niro. Biografie televisive, all’infinito: i Fitzgerald erano perfetti per essere raccontati. Nel 1959 Gregory Peck aveva dato corpo e volto allo scrittore nel biopic Adorabile infedele. L’autore credeva che Hollywood lo avrebbe accolto come una star, lui il grande maestro. Ma non fu così. Il sistema del cinema era fondato sul mercato più che sulla qualità. L’eleganza di scrittura, l’armonia del fraseggio, non trovarono accoglienza in California. Scott venne applicato a molte sceneggiature, anche importanti, come I tre camerati, e Via col vento. Scriveva i suoi dialoghi, poi arrivavano un paio di sceneggiatori con un vocabolario di 50 parole, che tiravano delle righe e correggevano. Mortificazioni per un uomo ormai debole e tristissimo. Una volta lesse su Variety della rappresentazione a Pasadena di un suo racconto, Il diamante grosso come l’hotel Ritz. Noleggiò una Rolls Royce e in pompa magna, con Sheila Graham, la sua ultima compagna, andò a Pasadena, per scoprire che si trattava della recita di un gruppo di studenti in uno scantinato. Finché un giorno Irving Thalberg, il gran capo della Metro, lo convocò e gli disse che era costretto, a malincuore, a rinunciare alla sua collaborazione: “ la tua prosa è un godimento, ma non possiamo fotografare gli aggettivi”. Scott cercò un recupero, si disse disponibile ad adattarsi, si umiliò. Ma lo Studio fu irremovibile. Fu il colpo di grazia: salute in caduta verticale, crisi da alcol quasi mortali. Sheila gli tese la mano, si offrì di sostenerlo per la stesura di un nuovo libro. Scott nutriva l’idea per un romanzo proprio su Hollywood, che vedeva come il ricorso di una corte rinascimentale, con monarchi e principi, dignitari, giullari, artisti, puttane e faccendieri. Si sarebbe chiamato The last tycoon, in italiano Gli ultimi fuochi. Si ritirò in una villetta davanti al mare di Malibu. Scrisse sette capitoli e li spedì all’editore Scribner. Un mese dopo ricevette una busta con un assegno di 5.000 dollari d’anticipo. Dopo molti anni era tornato scrittore vero e sperò di poter ricomporre miracolosamente la salute e di arrestare la caduta. Una felicità di pochi giorni. Morì di infarto poco prima del natale del ’40, mangiando una tavoletta di cioccolato. Brad Pitt, facendo Benjamin Button, ha pagato un milionesimo del debito che il cinema aveva contratto con lo scrittore di maggior talento e dolore della letteratura americana.   A QUALCUNO PIACE CALDO, 50 ANNI DOPO   Nel maggio del 1996 ero nella redazione di Sorrisi&Canzoni. Un redattore stava scrivendo un pezzo su una rassegna dedicata a Billy Wilder, che si teneva a Milano. Mesi prima il redattore aveva conosciuto il regista a Los Angeles e aveva ottenuto il suo numero di telefono. “Provo a fare il numero” disse “non si sa mai”. Fece il numero e Wilder rispose. Gli fu proposto di venire a Milano per essere presente il 22 giugno, giorno di inizio della rassegna e del suo novantesimo compleanno. Disse che sarebbe venuto volentieri ma aveva una brutta influenza. Concluse: “Facciamo così, verrò nel 2006, quando compirò cento anni.” Mancò l’appuntamento, ma non di molto, di quattro anni. Morì infatti nel marzo del 2002. La battuta di Wilder poteva benissimo appartenere al personaggio di uno dei suoi film. Quando un gruppo di addetti stila classifiche di titoli assoluti, un paio di film di Wilder ci sono sempre. I più citati sono Viale del tramonto e A qualcuno piace caldo.

L’anomalia sta nel fatto che “A qualcuno” è un film comico, dunque appartiene a un genere sempre considerato, in chiave di qualità, nei contesti, mai in assoluto. Dico che quel film è un trionfo, per molte, per quasi tutte le ragioni. Non ha perso vedibilità, fa sorridere e ridere adesso come allora, con la stessa intensità, nelle stesse sequenze. Seduce tutti, dagli addetti ai lavori a chi si torva distrattamente a vedere un film. E seduce a tutte le età. Un’altra misura esatta, indiscutibile, è l’audience televisiva: fa sempre numeri molto alti, passaggio dopo passaggio. È una garanzia di gradimento, come pochi altri titoli storicizzati, sempreverdi che vengono da lontano. La storia è nota, due musicisti sono costretti a camuffarsi in abiti femminili per salvarsi la pelle. Poi Marilyn si innamora di Curtis e Lemmon fa perdere la testa al miliardario Brown. E così il film rappresenta l’omosessualità e l’alcolismo (di Marilyn) con una leggerezza capace di sorpassare i codici, le etiche e i modelli rigidissimi di quella stagione hollywoodiana. Wilder era nato in una regione dell’Imepro austrio-ungarico che oggi è Polonia, per poi formarsi a Vienna e Berlino. In sostanza un artista di cultura tedesca, quando la cultura tedesca dominava. Era ebreo e dunque nel ’33, con l’avvento di Hitler, se ne andò in America. Come a volte accade, uno “straniero” ha più possibilità di decifrare l’indole di un popolo, specie se è dotato, e Wilder lo era e come. Fu aiutato dal “collega” Lubitsch, un altro (dotatissimo) berlinese emigrato negli Usa, e si inserì nel cinema. Con L’asso nella manica (1951) rappresentò, prima e meglio di tutti, le patologie perverse dei media. Con Viale del tramonto firmò un’opera che si ribella ai generi: non è thriller, né noir, né dramma né commedia eppure è tutti questi generi. E poi “A qualcuno” appunto. Ma quasi tutti i film del regista sono, e di molto, sopra la media. Per molti versi omologhi di Wilder furono i Korda, anche loro nativi di AustriaUngheria, dunque gente che “sapeva di Impero”. Incantarono Londra col fascino prima che con i film, capirono gli inglesi e si fecero più inglesi di loro. Alexander e Zoltan, proprio come Billy. Per analogia, e anche per contrasto, richiamo un nome del cinema contemporaneo che ha percorso quella strada da immigrato accreditato e molto gradito. Trattasi del taiwanese Ang Lee, furbo e talentoso, che ha spiegato molti aspetti del carattere americano con grande efficacia: la borghesia malinconica e stanca (Tempesta di ghiaccio), la cultura ultrapopolare (Hulk), la spinta alla trasgressione (I segreti di Brokeback Mountain). La scommessa è: fra cinquant’anni cosa sarà rimasto di Lee, a che punto sarà la vedibilità postuma dei suoi film? Ecco, in chiave-Wilder, c’è qualcosa di davvero postumo, come un’ultima sequenza spiritosa e grottesca stralciata dal montaggio di “A qualcuno”. In California a Westwood c’è un piccolo cimitero dove ci sono, vicine, le tombe di Wilder, Lemmon e di Marilyn. Fra le lapidi c’è uno spazio vuoto. È davvero probabile che quel pezzo di terra sia stato prepagato da Tony Curtis, il quarto eroe del film più divertente del mondo.   CESARE PAVESE TRA CINEMA E “VIZIO ASSURDO”   Mariarosa Masoero ha curato, per Einaudi, il volume Il serpente e la colomba, in cui vengono raccolti i soggetti cinematografici di Cesare Pavese. All’autore piemontese il cinema portò sfortuna, una sfortuna mortale. Il “vizio assurdo”, che l’amico e scrittore Davide Lajolo attribuiva a Pavese era, appunto, il vizio della morte. Tanto radicato nella sua coscienza che il romanziere lo raccontò e se lo raccontò con una precisione e lucidità allarmanti. A mia volta mi voglio concedere un racconto, qualcosa di personale che mi lega a quell’autore e a quell’ uomo che ho tanto letto e studiato. Ero a Torino per la produzione del film 7 km da Gerusalemme, tratto dal mio romanzo. Ero sceso, ignaro, all’hotel Roma e stavo lavorando sul dialogo della sceneggiatura per il

giorno dopo. Era notte e i rifacimenti erano molti. Finii molto tardi e non riuscii più a dormire. Lo attribuii al lavoro, alle cellule roventi troppo sollecitate. Ci stava. Ma forse c’era qualcosa di più. La mattina facevo colazione e una signora al tavolo vicino aveva voglia di chiacchierare. Mi disse che viveva lì, aveva un vitalizio, lei e il suo cane. Poi mi domandò, per inerzia, “ha dormito bene?” le dissi “veramente non ho dormito affatto.” Dopo altre due o tre battute emerse il numero della mia stanza. La signora disse “lo credo che non ha dormito, è la stanza di Cesare Pavese.” Il primo gennaio del ’50, Pavese scrisse sul suo diario: “Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire”. Gran brutto segnale. E il 27 agosto di quello stesso anno lo scrittore occupò quella camera dell’Hotel Roma di Torino e assunse sedici bustine di sonnifero. Sul comodino lasciò un biglietto con scritto: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” In uno dei soggetti riportati nel libro della Einaudi, Suicidarsi è un vizio, si racconta, con lucidità mortale, di Natalia, trovata in fin di vita in un albergo di quart’ordine. Ha tentato il suicidio, è stata salvata. Forse voleva solo essere salvata. Ma Pavese no, faceva sul serio. Appunto. Lo scrittore avrebbe fatto carte false per vedere i suoi libri diventare film, ma la sua scrittura non possedeva la cifra del cinema, per molte ragioni, a cominciare dalla qualità, era letteratura vera, non solo racconto. Era introspezione più che azione. Ma il cinema fu ancora più spietato con Pavese; letteralmente lo uccise. Accadde che l’attrice Constance Dowling, accompagnasse in Italia la sorella Doris, co-protagonista, con Silvana Mangano, di Riso Amaro. Pavese conobbe Constance sul set e si innamorò di lei. L’attrice rimase in Italia per girare Miss Italia. La vicenda sentimentale non decollò, lo scrittore non fu corrisposto. La sua personalità complessa, introversa, il suo dolore esistenziale già pericoloso, lo portarono a una crisi profonda e insopportabile. Che si concluse in quella camera d’albergo. In modo quasi distratto il cinema toccò Pavese. C’è un solo film “vero”. Nel 1955 Antonioni dirigeva La amiche, con un cast cospicuo, Eleonora Rossi Drago, Valentina Cortese, Yvonne Furneaux e Gabriele Ferzetti. Un gruppo di amiche gravitano intorno a una sartoria di moda. Una si suicida, “alla Pavese”. Non è un film memorabile, comunque trattasi di opera di un grande scrittore nelle mani di un grande regista: qualcosa significa. Il resto (Prima che il gallo canti, Il diavolo sulle colline) è televisione, profilo basso. La letteratura e il cinema: arti a volte complementari, più spesso in contrasto. La combinazione non aveva giovato al grande scrittore piemontese. I titoli diventati film o fiction erano una riparazione inadeguata. Postuma per di più.   MEZZO SECOLO FA: I CINQUANT’ANNI DI VERTIGO   Una corrente di giudizio forte, pone La donna che visse due volte (Vertigo), al vertice delle classifiche dei film di ogni epoca. Quando si dice “classifica”, occorre porre molta attenzione. C’è sempre qualcosa di arbitrario. Nel caso del cinema poi, arbitrio e discrezionalità diventano variabili assolute, decisive. Sono troppi gli elementi del giudizio, anche prescindendo dalla cultura personale di chi viene chiamato a stilare quella graduatoria. Anche immaginando, appunto, un giudizio oggettivo e omogeneo. Se parli di assoluto, come puoi, per esempio, non considerare il genere, come puoi paragonare Via col vento con L’Atalante? I dati per una scheda ideale, le voci per un giudizio sono: la vedibilità postuma, che è decisiva, il sociale, l’estetica, l’evasione, l’etica, il mercato e la moda, il futuro, l’incidenza

del modello, l’esempio. E poi c’è il “momento”, quella cifra che esula da tutti i codici, che non si fa definire e misurare, che non si fa neppure comprendere del tutto all’istante, ma si farà capire più avanti, magari molto avanti. È questo elemento non definibile, questo sortilegio, che alla fine attribuisce l’ultimo decisivo avallo che indica l’eccellenza, anzi, va oltre l’eccellenza. Comunque, al di là delle classifiche, Vertigo è molto, molto importante, è una costola o una vertebra, senza le quali il cinema non sarebbe il cinema. Marketing E venne il momento di Bergman. Non (del tutto) valorizzato nella sua stagione eroica, quella del Il settimo sigillo e de Il Posto delle fragole, il regista svedese si vide porre al vertice ai primi anni ottanta con Fanny e Alexander, titolo certamente d’arte squisita, ma con qualche riflesso estetico e spettacolare tale da toccare un certo, seppure non vasto, pubblico. Va detto, a questo punto, che l’attitudine alle gerarchie e ai voti è squisitamente americana. E quando anche il cinema dovette arrendersi all’evoluzione successiva, alla lunga “onda media” e al marketing che valorizzava la grande utenza e dunque film comprensibili da quell’utenza, ecco che i “giudici” si accorsero che il serbatoio più capace e più adatto era il grande cinema americano popolare. I titoli erano Casablanca (Curtiz 1942) e La vita è meravigliosa (Capra 1946). Questo estremo popolare venne rivisto e ritoccato più tardi quando il vertice toccò a La donna che visse due volte, appunto. In tutto questo c’è una certa logica. E all’interno di questa logica si possono leggere le motivazioni. Per cominciare la genesi del film. Trattasi di romanzo mediocre, firmato dai francesi Boileau e Narcejac, che devono il loro destino, e la loro stessa esistenza artistica, a Hitchcock. Un cattivo romanzo è una base perfetta per un grande film: il regista non è vincolato dalle regole intoccabili di una storia che non può essere che quella. Che fai quando ti trovi di fronte un Gattopardo o un Furore? Ti attieni a quella vicenda, a quei caratteri e a quelle cadenze, anche se sei Visconti o Ford. Dunque un Hitchcock del tutto libero. Il plot è strano, da romanzo d’appendice, straripante di mélo, nessuna nobiltà o letteratura. Un uomo si innamora due volte di una donna che crede diversa ma è la stessa. La donna è ossessionata da un’antenata, morta di pazzia e di dolore. Anche lei morirà due volte. Subito sospetti tutto quanto, il mistero, i fantasmi e i demoni, finisci per sospettare anche Hitchcock. Il preludio di Bernard Herrmann aggredisce e avvolge i titoli iniziali. Un volto di donna in primo piano, le labbra e poi l’occhio nel quale entra, circolare come una punta a spirale, il fraseggio principale della colonna, aggressivo e inquietante, un vero precedente, non riproducibile, perfetto come una sfera. Il preludio, dal titolo “Scena d’amore”, è stato usato per lo spot dei gioielli Damiani, nel 2008, mezzo secolo dopo, dunque, e non si sarebbe potuto trovare di meglio. Acrofobia Il protagonista, James Stewart, è devastato da una forma di acrofobia che gli impedisce di fare le scale. Un’invenzione comoda, quasi grottesca, per essere funzionale al racconto, ma proposta da Hitchcock, dunque giusta. Stewart, amatissimo dal regista, era soprattutto un modello western, comunque eroe candido e dinoccolato e di scarso erotismo (non era un Gable o un Cooper). Il regista te lo vende come amoroso struggente e tragico. E tu lo compri. E Kim Novak è un’altra che non esisterebbe, astratta e distratta, monoespressiva, un disegno biondo sospeso fra le ossessioni del passato e del presente. E tutto, tutto, viene avocato e ridotto alle esigenze di Hitchcock. Il Golden gate, il ponte d’oro di San Francisco sembra un elemento del set, smontato la sera, ripristinato la mattina. Come sarebbe successo l’anno dopo con le icone dei Presidenti del monte Rushmore in Intrigo internazionale. Opere e monumenti che sembrano esistere perché esistono quei film. La cripta

E niente è reale, verosimile, naturale, niente è normalmente umano. È solo puro cinema, costruzione, sono il “momento e la cifra che esulano da tutti i codici”. Stewart pedina, a piedi e in macchina, la Novak. La segue in un museo vuoto. La segue in un cimitero, vuoto. Si nasconde tra i fiori, esplosi, ipercolorati, che sarebbero estranei all’estetica del racconto. I due camminano nelle strade della città, nelle piazze, vuote per ospitare il film. È inutile cercare verosimiglianza, surreale, paradosso. Quel cinema scivola via dalle definizioni, come l’acqua da un cesto. Gli aggettivi, non trovati, stanno nella magnifica capacità illogica che può appartenere al cinema, anche al più rigoroso. Il finale del racconto sembrerebbe improvvisato, banale, ma, ancora una volta Hitchcock lo legittima con la sua autorevolezza. Stewart costringe Kim Novak a tornare sul luogo del mistero, salgono su una torre, lassù tutto sarà spiegato, non ci saranno più spazi, il sipario si squarcerà, la donna dovrà rispondere al passato e al destino. Tutto altissimo mélo. In cima alla torre, nel buio, la donna dovrà precipitare, raggiungere l’“altra”. Ed ecco apparire dal nulla, dal nero, una suora. La donna, terrorizzata precipita, Stewart, che non poteva essere un assassino, assiste dall’alto. È l’ultima scena del film. I codici legittimi venivano sostituiti dai codici anomali, (forse sbagliati), di Hitchcock. Solo che da quel momento quei codici diventavano giusti. Entravano in gioco altre variabili. È il mistero governato dalle regole e dalla patologia artistica del Maestro capace di legare i polsi e il collo dello spettatore a uno scranno, e costringerlo a rimanere, attonito e in pericolo, nella cripta di Tutankamon. Codici o non codici. Tutte queste invenzioni, questi “errori”, hanno portato Vertigo in cima a quella classifica. Inutile analizzarlo, definirlo. Ogni argomento sarebbe buono, così come il suo contrario. È il cinema, soprattutto quello grande, che è così. Le classifiche più recenti privilegiano altri titoli, Il padrino e Toro scatenato. Il primo è del ’72, il secondo dell”80. Non è un bel segnale per il cinema. E ce n’è un altro: nessun titolo italiano entra in quelle classifiche da decenni. Non solo è giusto, è sacrosanto. Forse perché il nostro cinema, da tempo, è tornato ad appartenere alla critica, non al pubblico.   REBECCA REMAKE: UN DELITTO DI LESA MAESTÀ   Rebecca è qualcosa di molto serio. Non è solo il titolo di un film, ma è un lemma assoluto che fa parte del linguaggio popolare da quasi settant’anni. Alfred Hitchcock lo ha fatto diventare Rebecca, la prima moglie. Non andrebbe toccato, soprattutto malamente toccato. È impossibile confrontarsi con un classico. È il destino di tutti i remake. Titoli come Sabrina, Psycho, Via col Vento, I soliti ignoti, Lolita, sono radicati nella memoria e nella coscienza popolare nel più profondo. Hanno creato un precedente che rimarrà tale per sempre. Non lo si può confrontare o scalfire. Tuttavia una storia perfetta come quella scritta dalla Du Maurier può essere rivisitata, è legittimo farlo, così come viene rivisitata una sinfonia di Beethoven da qualcuno che non sia Toscanini o Karajan. Ma se “rivisiti”, devi stare attento. Devi rispettare. Il Rebecca della Rai, per lunghi tratti sembra uno scherzo. Per lunghi tratti, non sempre. Cominciamo dal protagonista Massimo de Winter, al quale dà corpo e volto Alessio Boni. Boni è il miglior attore della sua generazione, per bravura e appeal. Veste bene i panni del nobile vedovo inglese. Va detto che De Winter è uno dei personaggi più antipatici del cinema e della letteratura del mondo. È dolente (e va bene, ne ha tutte le ragioni) è isterico, imprevedibile, viziato, non ha nessuna qualità se non l’eleganza naturale dei nobili inglesi. Le sue reazioni sono quasi femminili. Ci si domanda come se la sarebbe cavata se non fosse stato ricco. Daphne Du Maurier lo voleva certamente così.

L’Olivier voluto da Hitchcock per quel ruolo, attore ambiguo e a sua volta “viziato”, sessualmente curioso, era perfetto. Premesso che il confronto è comunque perduto in partenza, Boni se la cava benissimo. Senza di lui la Rebecca-Rai non solo sarebbe stata imbarazzante, ma da oscurare. Lo stesso discorso vale per Mariangela Melato, che affronta il ruolo della governante Danvers – inquietante, tragica, incombente – talmente estremo e “pericolante”, pronto al grottesco, da quella grande attrice che è. Boni e Melato tengono in piedi, ma solo in piedi, immobile e traballante, il film televisivo. Poi c’è Cristina Capotondi, la seconda moglie. È dolce e carina ma, cosa c’entra? L’attrice fa parte di quelle nuove leve che hanno deciso di non recitare. Perché recitare significa applicazione, prove, anche un pochino di accademia. Dunque è più semplice “parlare”. Sarebbe quella tecnica “minimale”, bisbigliata, “naturalistica” per usare un termine impegnativo. Due forti modelli-referenti si chiamano Stella e Pession. Questa recitazione del contro-metodo (butto lì, e chiedo scusa, Stanislavskij), sa trasformare una chanson des gestes nella lettura dell’elenco telefonico. Alfred e Daphne proprio non avrebbero gradito. Poi c’è Menderley, il castello. Hitchcock non cercò neppure la location, la disegnò personalmente e ne fece fare un modello in cartapesta. Poi naturalmente fu lui a fotografarla, non Riccardo Milani. Il castello-Rai viene sempre ripreso con camera immobile, di fronte. Certo, è imponente e ricco, ma è bianco e “muto”. Occorreva interpretazione, colori inseriti per un’estetica inquietante. A cosa serve, altrimenti, il computer? Così Menderley sembra la sede di un G8. Nella seconda puntata, quando si sono accorti di questa debolezza hanno inserito una nebbiolina passante, simile allo spruzzo dei vaporizzatori da tavolino esterno di un caffè d’estate. La durata naturale di quella storia la dichiara Hitchcock, dunque non può che essere perfetta: novantatré minuti. La Rai ha voluto coprire due serate. Così siamo stati costretti ad assumere un brodo, già senza sapore, diluito due volte e mezzo. Anche con delle invenzioni raccapriccianti, come il suicidio tentato dal vedovo. Massimo e la (seconda) moglie, si abbracciano sugli scogli, lei gli rivela il grande mistero del suicidio di Rebecca, lui le rivela di non aver mai amato la prima moglie. E poi parlano, parlano, stiracchiano e allungano (c’erano minuti da riempire). Chi fosse entrato in quel momento nel film avrebbe pensato di essere precipitato in Stranamore. Poi il film è finito. E allora, triste e dolente (a mia volta, come Max De Winter), ho recuperato il Rebecca vero e me lo sono riguardato. E sono riuscito a ripristinare, anche se non del tutto. Il trauma era profondo. Ci vorrà del tempo.   PER KEIRA KNIGHTLEY UNA SFIDA IMPOSSIBILE: RIFARE AUDREY   Il regista Joe Wright è impegnato con un titolo che davvero non passa inosservato, My Fair Lady, il remake di quell’opera da otto Oscar, che prima di diventare un titolo assoluto del cinema lo era stato del teatro. E prima, della letteratura. Nella parte della protagonista Eliza Doolittle, Wright ha scelto la sua Keira Knightley, che aveva già diretto in Orgoglio e pregiudizio e in Espiazione. Va detto subito che Keira è adatta alla parte, forse la più adatta. Inglese ventiquattrenne, ha già una storia di attrice molto importante e completa in ruoli diversi, spesso in costume. La Knightley, dopo aver assunto alla perfezione i personaggi complessi e dissimili di scrittori come Ian McEwan (Espiazione) e soprattutto Jane Austen (Orgoglio e pregiudizio) è stata la piratessa della trilogia dei “Pirati dei Caraibi” e l’infelice lady Georgiana Spencer in La Duchessa. Dunque carte in regola per Keira. Solo che non sono in regola, perché il personaggio che la giovane emergente dovrà affrontare, Audrey

Hepburn, è inafirontabile. Garanzia L’era recente del cinema ha sposato i remake, per molte ragioni, a cominciare dalla garanzia economica che può dare una storia accreditata. Magari titoli da leggenda. Che poi la riproposta non possa che essere deludente, sta nelle logiche, della cultura, della memoria, del mito, dell’affezione. Gus Van Sant, per il suo Psycho ha rifatto sequenza dopo sequenza lo stesso film di Hitchcock, ha, con intelligenza, evitato il confronto. E Vince Vaughn, nei panni di Norman Bates è stato corretto, ma Anthony Perkins era Norman, era l’inquietante e magnifico psicopatico. Il confronto quasi impossibile. In The Women la competizione fra modelli è meno difficile. Nell’edizione del ’39 la cattiva era Joan Crawford e la buona Norma Shearer, certo grandi star, ma non erano la Hepburn, e dunque le loro omologhe del 2008, Eva Mendes e Meg Ryan, potevano anche affrontarle senza perdite gravi. Più difficile è stato il compito di Gwyneth Paltrow, che in Delitto perfetto, ha dovuto vedersela con Grace Kelly. Mentre Julia Ormond, che ha cercato di rievocare Sabrina, ne è uscita distrutta: davvero sembrava la governante di Audrey. Mistero La Hepburn è un modello particolare, c’è del mistero. Si è accreditata come un unicum perenne, fra le “donne del secolo” è la più presente e trasversale, insieme a Marilyn. Altre, che avevano dettato esempi e identificazione, come Garbo e Dietrich, come Hayworth, appaiono decisamente sorpassate, miti che possiamo riporre tranquillamente nella teca del museo. Non Audrey. E per Audrey ci sono alcuni paradossi che andrebbero letti, premesso che quando si tratta di cinema non tutto può essere letto, interpretato, definito, perché il cinema si concede quella zona franca che non può essere letta, interpretata, de nita, appunto. E allora il primo mistero e quesito è: perché è “esempio-sognomodello del secolo” una donna del tutto priva di erotismo e di sensualità? Per eleganza, per classe, naturalmente. Il rimando immediato è al suo stilista, Givenchy. I due si sono reciprocamente identificati. Si può cercare qualche altro segnale: il sorriso, la figura come un disegno astratto, la bellezza del viso; e poi l’ingenuità, quegli occhi da Alice. Poi naturalmente c’è la chimica cinematografica con quell’incantesimo irraggiungibile e incomprensibile. E c’è un altro aggettivo: regale. Quello che l’ha identificata, poco più che ventenne nella parte della principessa, appunto, in Vacanze romane. Le diede immagine e popolarità, e l’Oscar. Gli uffici dell’anagrafe di quel 1954 dovettero registrare, anche in Italia, migliaia di “Sabrina”. Ma c’è di più, qualcosa che possiamo chiamare fragilità, che innesca un istinto attivo come la protezione. E poche forze possono competere con quel sentimento. E i film con Audrey lo spiegano molto bene. I suoi grandi partner erano per lo più dei “papà”. Gente con una trentina di anni più di lei. E tutti a proteggerla. Come Humphrey Bogart (Sabrina), Gary Cooper (Arianna), Fred Astaire (Cenerentola a Parigi) Cary Grant (Sciarada). Ed è ormai un dato di fatto che tutto questo può compensare, anzi, compensa, la sessualità che manca: Audrey non avrà stuzzicato – come Marilyn o Brigitte – le fantasie dell’intero arco maschile, dall’adolescenza alla senilità, ma era una irresistibile, fragile, principessa. E tanto bastava, tanto basta. Keira Knightley ha molte qualità, alcune anche fra quelle dette sopra. Ma non è Audrey Hepburn. E non lo sarà. Sangue blu Naturalmente questo non significa che il remake di My Fair Lady non sia un’iniziativa meritoria. Anche quel titolo ha sangue blu. La derivazione è una commedia del 1914 di George Bernard Shaw. È la vicenda di un professore di fonetica che scommette di trasformare in una lady una fioraia rozza e ignorante. Successo in tutto il mondo e in tutti i

tempi. Nel 1956 la pièce divenne un musical con parole di Alan Jey Lerner e musica di Frederic Loewe. Il titolo stabilì un vero record del mondo con 2.700 repliche a Broadway e 2.300 a Londra. La protagonista era Julie Andrews, buon appeal e ottima cantante. Per l’inevitabile passo successivo, il film, la Warner affidò la regia a Gorge Cukor, grande garante. Cukor non si fidava di Julie Andrews, voleva, a sua volta essere garantito, e così chiamò la sua amica Audrey Hepburn. La diva non sapeva cantare e così venne doppiata. Nell’edizione italiana venne consumato il crimine grottesco di doppiare anche le canzoni. Fra gli Oscar vinti dal film c’erano i più importanti: al film e alla regia. L’istantanea che rimanda Audrey con quell’abito spumeggiante e il cappello immenso – modelli di Cecil Beaton, Oscar a sua volta – e quella riflessa nella vetrina della grande gioielleria newyorkese in Colazione da Tiffany, fasciata dal suo Givenchy, sono immagini imprescindibili di tutto il cinema. Alla parabola naturale del titolo, pièce-musical-film, non poteva mancare il remake, puntualmente arrivato. Keira non è Audrey e Wright non è Cukor, ma il ritorno di My Fair Lady è il ritorno di un incanto magari minore ma sempre di un incanto. E dunque, perché no?   TARZAN E GLI EROI OLIMPICI   Nei trailer di connessione delle varie rubriche della Rai sull’Olimpiade, fra una sequenza e l’altra sulle medaglie degli italiani, c’è un momento in cui si sente un urlo: è quello, mitologico, di Tarzan. Alain Bernard ha vinto i cento stile libero alle Olimpiadi di Pechino. È stata una delle poche medaglie d’oro sfuggite a Michael Phelps, che non ha partecipato alla gara. Ma perché partiamo da Bernard e non da Phelps? Perché parliamo di Olimpiadi e di cinema. E la connessione parte dal nuotatore francese, e dal suo tempo, 47’20”. Ottantaquattro anni prima, Olimpiadi a Parigi, un altro nuotatore Johnny Weissmuller, vinceva quella stessa medaglia col tempo di 59”. Veniva violato il muro del minuto. Lo sport gridò al miracolo. Alain, oggi, avrebbe staccato Johnny di una ventina di metri, ma quel tempo in quel tempo lontano ha un peso decisamente maggiore. E Johnny continua ad essere molto più avanti, irraggiungibile. Perché non c’è di mezzo solo lo sport coi suoi numeri nudi. Si è frapposta l’epica, alla quale ha dato una mano, e che mano, il cinema, appunto. Quando il ventenne Weissmuller arrivò a Parigi, era già un personaggio. Tre anni prima William Bachrach, allenatore di nuoto ritenuto un vero mago, si trovava a Wimbar, Pennsylvania, ed ebbe modo di notare un ragazzo biondo, di quasi un metro e novanta, che nuotava in una piscina privata. Parlò ai suoi genitori, padre tedesco e madre austriaca e disse che avrebbe fatto di Johnny un campione, se glielo avessero affidato. Glielo affidarono e Bachrach ne fece un campione. La Parigi del 1924 era già il centro culturale del mondo. La giovane generazione americana, ricca e colta, era là, rappresentata da personaggi come Hemingway e Fitzgerald, e poi c’era la Stein, c’erano Joyce, Maugham, e Picasso, solo per citare i nomi più importanti. In quell’anno oltre all’arte e alla cultura, Parigi accolse, con le Olimpiadi, la più forte gioventù del mondo. Weissmuller era solo un atleta, ma era il più bello di tutti, più bello anche degli attori che passavano di lì. Venne adottato dagli americani a Parigi, soprattutto dalle americane. Nonostante le forti distrazioni, comunque costantemente pedinato da Bachrach, Johnny vinse le medaglie d’oro nei 100 e 400 stile libero e nella staffetta 4x200. In patria venne accolto come un eroe. Nel ’28, ad Amsterdam, rivinse l’oro nei 100 e nella staffetta 4x200. Divenne, proprio come succede anche adesso, un uomo copertina. Molti sondaggi,

promossi dai magazine lo elessero l’uomo più bello del mondo. Era inevitabile a quel punto, che il cinema si interessasse a lui. Questa volta il mentore fu Sam Zimbalist, grande produttore della Metro, che lo vide in un documentario sul nuoto e gli fece fare un provino. Anche il caso fu favorevole – sempre nelle leggende – se è vero che la Mgm stava preparando una serie di film su Tarzan. Johnny ebbe la parte. Dal ’32 al ’48 fece Tarzan per 19 volte. Johnny era un eroe, ma era anche un umano, e a 44 anni riusciva ancora a nuotare, ma non come un tempo, naturalmente. E poi si era appesantito. Si ritirò. Weissmuller che urla alla giungla, che volteggia sott’acqua accompagnato dalla sua Jane, la magnifica Maureen O’Sullivan, è una delle più belle e vitali immagini dello spettacolo del ‘900. Un’estetica non riproducibile. Eppure anche lì il cinema ci mise del suo, in un altro suggestivo “richiamo olimpico”. Nei movimenti di nuoto più impegnativi Maureen veniva sostituita da una controfigura, Jane Parmaly, che successivamente avrebbe avuto un figlio, quel Don Shollander dominatore del nuoto all’Olimpiade di Tokyo con ben 4 medaglie d’oro. Ma in quella Parigi del ’24, mentre in piscina si creava il mito di Johnny Weissmuller, sul campo di atletica avveniva qualcosa che non aveva solo una valenza spettacolare e sportiva, ma era umanamente ancora più intenso. Eric Liddel appartenente alla Chiesa cristiana scozzese, accolse la propria straordinaria attitudine alla corsa come un dono divino. E corse in nome di quella missione. Vinse l’oro nei 400 metri. Un supplemento di leggenda gli toccherà vent’anni dopo, quando morirà, missionario, proprio in Cina. Un altro atleta britannico, Harold Abrahams, ebreo, corse per esorcizzare un pregiudizio razziale strisciante che pure l’emancipata Inghilterra non riusciva a nascondere. Vinse i 100. Nel 1981, il regista Hugh Hudson raccontò quelle storie in Momenti di gloria, vincitore, fra gli altri, dell’Oscar come miglior film. Parigi, il cinema, l’epica, l’Olimpiade di Pechino: leggende di una volta e richiami di adesso.   DINO RISI (1916-2008): POVERI, BELLI, DIFFICILI, MOSTRI, TUTTI DA AMARE.   A quest’ora è stato tutto detto e scritto. Io sono sempre stato “pazzo per Risi”, un uomo colto che ha preferito fare il cinema (a tempo pieno) piuttosto che lo scrittore o il chirurgo. E ha preferito raccontare piuttosto che essere artista assoluto alla Fellini, De Sica, Rossellini. E forse nessuno (forse Monicelli) ha saputo raccontare come lui. I suoi personaggi erano duri, sgradevoli, magari cattivi, ma li accettavi, ci sorridevi e ridevi sopra. I quattro aggettivi valgono per i modelli dei film attuali. Il padre pedofilo, la puttana dell’est, il transessuale umano, il commissario che si fa una (sana) canna, non fanno sorridere, sono strumenti costruiti per una dialettica dura e ideologica, per un confronto provocatorio, magari cattivo. Vogliono dividere. Risi, coi suoi personaggi omologhi, univa. In Una vita difficile Sordi è un comunista radicale, ma è amato da tutti, anche dagli “altri”. Gassaman che fa Bruno Cortona ne Il Sorpasso ha creato un precedente imprescindibile, riprodotto, senza complessi, nei decenni, da attori di forte identità e personalità come De Sica e Abatantuono. E raccolto anche fuori dal nostro Paese. Certo, Risi aveva Gassman e Sordi, “questi” hanno Orlando e Amendola. Ma Risi, Gassman e Sordi se li era meritati. Ho rivisto I mostri (1963). Sono “quadri italiani”, il più corto dura un minuto, il più lungo dodici. Non vedevo il film da molto tempo. E che succede? È perfetto. Si dice “nel quadro del suo tempo”, niente affatto, è perfetto nel quadro di tutto il tempo. Nella regia, nei testi, nei tempi, in Gassman e Tognazzi naturalmente. Persino i modelli, a quasi mezzo secolo di distanza sono intatti. E qui occorre una citazione di Age & Scarpelli, sceneggiatori (qui insieme ad altri) più efficaci di quasi tutti gli scrittori di quell’epoca che firmavano romanzi. Da quei quadri emergono esattamente i “mostri”

attuali: il politico corrotto (ma si ride), la tivù devastante, il “grottesco” di certi premi letterari – con Gassman che fa la donna con quella sua schiena di un metro quadrato –, l’ossessione del calcio, il cinismo mortale della stampa, quello del cinema con la vecchietta cardiopatica scaraventata in piscina per l’“undicesima”. E niente è da toccare, tutto è perfetto. Sono venti piccoli film completi, venti “corti”. Nessun film italiano dell’era recente, fatte pochissime eccezioni, (diciamo due o tre) vale uno di quei “corti”. Dino Risi un eroe della cosiddetta Commedia. Correvano (soprattutto) gli anni Sessanta e Settanta. Facevamo testo nel mondo. E giravano i corsi e i ricorsi. Nella guerra, e appena dopo, avevamo inventato la verità nel cinema, e anche lì avevamo fatto testo. Tra il Realismo e la Commedia non ci fu quasi soluzione di continuità. Al “corso” era subito seguito un “ricorso”. È da allora che questa regola, per noi, non vale. È passato davvero troppo tempo. Ma non è successo niente che non ci siamo meritati. Io spero che attraverso questo suo ultimo promemoria, da Dino Risi arrivino un’indicazione e un auspicio. E perché no, un incoraggiamento.   IL GIOVANE HOLDEN   Il pozzo e il pendolo (Poe), Moby Dick (Melville), Huckleberry Finn (Twain), Giro di vite (James), La lunga estate calda (Faulkner), Il grande Gatsby (Fitzgerald), Il grande sonno (Chandler), Addio alle armi (Hemingway), La valle dell’Eden (Steinbeck), Colazione da Tiffany (Capote), Il nudo e il morto (Mailer), Lolita (Nabokov), Il crogiuolo (Miller), Un tram che si chiama desiderio (Williams), Greystoke (Burroughs), Jurassic Park (Crichton), Shining (King). Trattasi di romanzi e drammi teatrali fondamentali, così come le firme. Americani. La selezione è naturalmente parziale e arbitraria. Il concetto è “a campione”. Questi romanzi e questi drammi sono diventati film. La recente scomparsa di Salinger (1919-2010) ci ha ricordato all’improvviso che tutti i grandi romanzi americani sono diventati film, tranne uno. Perché? Il più Una corrente di giudizio, autorevole, ritiene che Il giovane Holden di J.D.Salinger, sia il più grande romanzo americano del ‘900. Anche dire “il più” è arbitrario e pericoloso, nell’arte e in letteratura non ci sono misure esatte naturalmente, tuttavia se un romanzo ha inquadrato un sentimento e poi lo ha scomposto e poi trasformato, quello è certamente Il giovane Holden. È la storia di un adolescente a disagio, che contesta tutto ciò che gli sta intorno. A cominciare dai genitori. La cosiddetta rivoluzione giovanile, attraverso corsi e ricorsi del secolo scorso, non può non riconoscere in quel breve romanzo una sorta di primo motore. La genesi, la scrittura, il destino di quel testo, e poi l’autore, personaggio complesso e misterioso: se il termine “mito” ha un senso, ebbene tutto si è mosso in quella direzione. La storia ci dice che il mito c’era e c’è, ed è sacrosanto. Il Celebrity Group, casa di produzione indipendente con sede a New York, ha chiesto i diritti del libro. Non li otterrà. Per il cinema si erano già mossi, nei decenni, Samuel Goldwyn, Wilder, addirittura Jerry Lewis, e poi Spielberg, Jack Nicholson e Tobey Maguire. Inutilmente. Salinger ha respinto tutti, con perdite gravi (e chissà se gli eredi si comporteranno con la stessa integrità e lungimiranza). Ma perché tanta popolarità e leggenda? Qual è il sortilegio che appartiene a quel libro? Prima di tutto lo stile: niente, proprio niente di letterario. L’incipit vale più di tutte le analisi. “Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei

genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto.” Mirabolanti Holden Caulfield parla come un ragazzo. Salta all’occhio. E poi: qual’è la struttura della storia? Quali sono le avventure mirabolanti che scuotono tanto in profondità la coscienza del lettore fino a insinuarsi nel suo tessuto genetico? Niente di mirabolante. Trattasi di piccole vicende quotidiane: Holden viene espulso dal collegio, litiga con un compagno, fugge durante la notte: una piccola sbornia, il primo approccio (non consumato) con una prostituta, la fuga dai genitori, il guantone da baseball-feticcio ricordo del fratello morto, l’afietto per sua sorella che fa da mediatrice, il vecchio insegnante ritrovato, il progetto di fuga totale, il ripensamento finale grazie alla sorella. Vicende minime, ma decisive e perfette, necessarie&sufficienti. A tutto questo naturalmente si lega l’incanto non definibile che produce il fenomeno. Vale per tutto, la musica, e tutte le arti. Un solo esempio omologo: L’Urlo di Munch. Il ragazzo Holden semplicemente assumeva tutti i sentimenti dei suoi pari: si chiama identificazione. Da allora, fino a oggi, quel modello è vivo e presente, si fa vedere e sentire, non gli sfuggi. Il libro è del ’51. Elvis Un paio d’anni dopo, la musica fa la sua rivoluzione: il rock, Presley e tutti gli altri. Guastatori. Elvis era un ventenne “quasi” un adolescente, ma i termini non mutano. Poco dopo il cinema produce i suoi nuovi eroi giovani, James Dean in testa, portatore di ogni disagio e rivendicazione, ribelle totale. È anche la stagione inglese degli arrabbiati (Angry young men) rappresentati dal teatro di John Osborne: “quelli che odiavano tutte le convenzioni”. I ragazzi che diedero vita ai movimenti americani ed europei degli ultimi anni Sessanta sono certamente amici di Holden. E, discendendo nei decenni, si fa notare River Phoenix, giovane dolente e difficile, anche lui vicino alla famiglia degli Holden e dei Dean. Anche i nostri Muccino (Silvio) e Scamarcio, giovani, possono essere eredi non lontani del ragazzo di New York. Un’ultima citazione: Into the Wild di Sean Penn, vera storia di Christopher, in pieno disagio famigliare, che si immerge nella natura selvaggia. È ancora il tema della fuga, il tema di Holden. Sì, il ragazzo non molla mai. Un eroe e un romanzo “capostipiti”. E un film-capostipite mai fatto: che assurdità. La ragione sta nell’autore. Salinger, classe 1919, non era un carattere semplice. Va detto subito ed è notorio che lo scrittore dal 1965 rinchiuso letteralmente nella sua tenuta di Cornish nel New Hampshire, non ha più avuto rapporti col mondo. “Offeso” dall’essere identificato quasi “soltanto” da quel romanzo. Lui che ha scritto tanto altro. E poi i film: li amava molto. Ma nel ’49 Hollywood devastò un suo racconto, Uncle Wiggily in Connecticut. Ne rimase così deluso da decidere che mai più si sarebbe concesso al cinema. E così è stato. Il giovane Holden manterrà quel distacco esclusivo. Anche questo è mito, e continuerà, sempre, a nutrire il romanzo. La letteratura che difende la propria identità e la propria purezza. Nessuna licenza e contaminazione. “Niente cinema per il romanzo più grande e cinematografico”: alla fine, per una volta, è una magnifica didascalia (almeno finché gli eredi...).   BERGMAN (1918-2007)   Il primo pensiero è: e adesso? Credo di poter estendere a molti, se non a tutti, questo primo sentimento: ci sentiamo meno tutelati. Non c’è dubbio che Bergman sia uno di quegli artisti generali che non fanno parte di una sola disciplina, è un autore assoluto, è un riferimento e un eroe. L’educazione sentimentale, e intellettuale, di molte generazioni,

anche recenti se non recentissime, non ha potuto prescindere da certi film di Bergman. Ho spesso citato una risposta di Cesare Pavese a chi gli domandava quali fossero i suoi narratori preferiti. Diceva De Sica e Thomas Mann. Legittimando e accorpando di fatto la grande letteratura e il grande cinema. Fra i portatori di sogno, di emozione e intelligenza, e anche di mistero e di angoscia utile, fra coloro che davvero hanno migliorato la nostra vita, Bergman ha il diritto di rivendicare un posto d’onore. In Casablanca Dooley Wilson canta As Time Goes By. Una frase della canzone dice: “Ci pensa il tempo a scremare l’essenziale” E l’essenziale è ciò che si insinua nella nostra memoria e coscienza, perché è stato costruito così, misteriosamente perfetto e ancestrale, buono per tutti i tempi e tutte le culture. Cito due soli fotogrammi: la morte col suo mantello nero aperto de Il Settimo sigillo e il vecchio dottor Borg, che per un incantesimo può assistere a immagini del passato, ne Il posto delle fragole. E riporto una sequenza fondamentale, forse la sequenza dell’intera opera dell’autore. Focalizzo, per sintesi ed efficacia, questo unico decisivo aspetto. Ne Il Settimo sigillo il cavaliere Antonius Block, in realtà Ingmar Bergman, si confida, ignaro, con la morte: “Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza, voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli… lo chiamo e lo invoco e se egli non risponde io penso che non esiste… ma allora la vita non è che un vuoto senza fine… nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno, come cadendo nel nulla, senza speranza…” Bergman era dunque terrorizzato dalla morte, dall’aldilà e dall’insicurezza. Non ha mai perdonato a Dio di rimanere nascosto, di non dare certezze. Ma da questa grande paura, da questa immane angoscia irrisolta è nata la sua poetica e sono arrivate le sue indicazioni. Dunque va bene così. Con tutto il cuore, una volta all’ultimo ciak del suo estremo, privato film, gli auguro una lieta sorpresa. E gli auguro che ciò che ha fatto per noi, da questa parte, con impegno, dolore, intelligenza e incanto, gli serva da dote e da franchigia per essere accolto al meglio dall’altra parte. Credo proprio che qualcuno lo accoglierà.   ANTONIONI (1912-2007)   Bergman e Antonioni sono usciti dal mondo quasi in contemporanea. Ricordo una vicenda simile esattamente trent’anni fa. Charlie Chaplin e Howard Hawks se ne andarono così, vicinissimi. E Chaplin purtroppo vampirizzò Hawks. Lo spazio dedicato all’americano era già saturo del ricordo e della commozione del giorno prima, quando tutti ci eravamo accorti che non solo avevamo perso un eroe massimo, ma il Cinema stesso, perché Chaplin era il Cinema e Hawks semplicemente un grande regista. Se si potessero misurare gli spazi dedicati dai media a Bergman e ad Antonioni, prevarrebbe certo lo svedese, che è un autore del mondo, che potrebbe far parte di una ristrettissima selezione di icone se esistesse un monte Rushmore dei registi. Antonioni è un grande maestro, non c’è dubbio. Ha trovato la sua estetica e i suoi contenuti quasi autoctoni, li ha trasmessi e imposti. Negli ultimi (troppi) anni malato, è stato portato in giro come un trofeo tristissimo. Chissà perché. E in quelle stagioni ha firmato film superflui che comunque non hanno compromesso il suo lavoro degli anni belli, i cinquanta e i sessanta. Quando un grande artista ci lascia mi piace ricordarlo rispetto alla vedibilità postuma. Cos’ha lasciato come “eco ascoltabile, segnale visibile, eredità spendibile”. Deve essere un esercizio veloce, di getto, senza mediazioni della memoria e della cultura, possibilmente. Per Bergman ho citato i fotogrammi de Il Settimo sigillo e de Il Posto delle fragole. Per Hitchcok evoco il monte Rushmore, appunto, e Laurence Olivier sulla scogliera che pensa al suicidio in Rebecca. Di Fellini estraggo il Rex di Amarcord e il girotondo finale di 8 e

mezzo. Di Ford scelgo Wayne che si allontana nella luce della porta, nel finale di Sentieri Selvaggi e il fotogramma della disperata famiglia Joad in Furore. Di Visconti riporto Girotti che arriva alla locanda in Ossessione e Lancaster che balla con Cardinale ne Il Gattopardo. Mi fermo qui. Anche per Antonioni l’esercizio è stato veloce e naturale, ed è un ottimo segnale. Le immagini sono: le rocce dell’isola dove scompare Lea Massari ne L’avventura, e Steve Cochran che con la sua giacca sdrucita cammina sulla stradine del Po con la sua bambina che gli trotterella dietro. Cinema grandissimo, certo. Ma c’è un’altra istantanea, un altro “attore” che lego ad Antonioni: il palazzo Pirelli che apre La notte. La sequenza in movimento nobilita l’opera di Giò Ponti che rappresenta benissimo l’essenziale estetico e culturale dell’uomo di Ferrara. Il Palazzo, elegante, pulito, esclusivo, vivo, anni sessanta: la più sicura ed efficace rappresentazione del lavoro di Antonioni, che si configura come autore stimato più che amato, che non ha messo d’accordo tutti i target e le fasce. Ma che, come lo Svedese, ci lascia un po’ più soli e meno tutelati.   2008: I CINQUANT’ANNI DI QUINLAN   Città di confine Messico-Usa. Primo piano di due mani che innescano una bomba. Sullo sfondo un uomo grasso e una donna vistosa camminano ridendo. L’uomo che ha innescato la bomba va a sistemarla nel bagagliaio di una Cadillac scoperta, poco prima che gli altri due vi salgano. La macchina parte, attraversa un vicolo e sbuca nella via principale della città. Viene fermata da un vigile che dà la precedenza al carretto di un ambulante. La macchina si arresta a uno stop per far passare una bella coppia che si tiene per mano: Charlton Heston e Janet Leigh che poco dopo vengono superati dalla Cadillac che risorpassano una decina di metri più avanti perché la macchina è bloccata da un piccolo gregge di pecore. I due camminano sorridendo, sono felici, ecco un altro carretto che attraversa la strada. Vengono di nuovo raggiunti dall’auto scoperta e tutto il gruppetto arriva alla dogana. Un poliziotto scambia amichevolmente qualche parola con la coppia felice e viene a sapere che i due si sono appena sposati. L’uomo grasso alla guida della Cadillac protesta perché non lo hanno ancora lasciato passare. Un altro agente di confine gli domanda se abbia niente da dichiarare. Anche la Cadillac passa la frontiera. I novelli sposi, in America, il paese di lei (lui, Vargas, è un poliziotto messicano), si baciano. Vengono interrotti dall’esplosione della Cadillac. Sono passati 3 minuti e 11 secondi. La cinecamera non ha mai staccato. Il piano sequenza che introduce il film è un culto storicizzato, studiato, interpretato, sviscerato da mezzo secolo nelle scuole di cinema di tutto il mondo. Controvoglia Dopo aver completato le riprese de L’ infernale Quinlan, Welles eseguì il primo montaggio. Controvoglia, ed era un precedente assoluto, aveva accettato le indicazioni della produzione. Ci fu la proiezione nello studio, presenti i produttori, che ritennero che il film potesse essere migliorato. Il punto di vista di Welles non era mai stato quello dei produttori, tuttavia, malvolentieri accolse alcune indicazioni. Accettare qualsiasi sorta di compromesso, nella regia, non era nella sua cultura. Welles amò moltissimo “Quinlan”, anche se si portò sempre dietro il piccolo fastidio di aver costretto se stesso a qualcosa che non gli apparteneva completamente. Alla fine, in una sorta di excusatio, scrisse un appunto di una cinquantina di pagine per spiegare i suoi aggiustamenti. La frase finale: “concludo questo appunto con la preghiera che accettiate questa nuova struttura a cui ho dedicato tante giornate di lavoro. Orson Welles.” Il grande amore per “Quinlan” era probabilmente dovuto al fatto che quel personaggio, certo estremizzato, era semplicemente Welles. Due eroi, ma particolari. Inventarsi eroe

senza macchia o con scarse macchie, eroe comune, non sarebbe mai stato da Welles. Il suo “Quinlan” può essere considerato un predecessore, un legislatore del male senza attenuanti, un criminale ma dalla straordinaria grandezza. Il poliziotto Quinlan ruba, truffa, inventa prove, uccide, ma sempre nella sua personalità irresistibile, nel suo fascino perverso. Il suo omologo più attuale, Hannibal Lecter, viene staccato di molte lunghezze. L’ “infernale” cerca la sgradevolezza con insistenza, con morbosità, come se volesse che l’odore del suo carpaccio grasso scendesse dallo schermo verso la platea. L’ antagonista è Charlton Heston, l’esatto opposto estetico di Quinlan: è bello e sarebbe biondo se il regista non si fosse impuntato con la produzione facendogli tingere i capelli. In effetti l’attore non aveva proprio niente di messicano. Alla fine il “buono” Heston prevale sul “cattivo”, ma lo spettatore ne è deluso, Quinlan lo aveva tirato dalla sua parte. Disagio Welles era tormentato dalla paura di apparire convenzionale, magari simpatico. Voleva infastidire, mettere a disagio, essere odiato se possibile, dare un esempio cattivo, estremo se possibile. Ecco la parola chiave: disagio. Cominciò presto, nel ’38, a 23 anni, quando rappresentò in radio La guerra dei mondi, inventandosi un’invasione dell’America da parte degli extraterrestri. La nazione si spaventò a morte. Anche nel suo Quarto potere, che molti ritengono il film dei film, Welles, nei panni del citizen Kane, è sgradevole e arrogante, votato all’autodistruzione, e si distrugge. Spendeva più di quello che guadagnava, così dovette accettare tutto ciò che gli veniva proposto, pronto a compromettersi, ma solo come attore. Ma era Welles, e anche in una produzione inadeguata, in ruoli grotteschi – lavorò anche nei nostri western e la sua voce compare persino nell’album di una band heavy-metal – riusciva a ritagliarsi una franchigia. Insomma, rimaneva “il genio” anche nei panni di un caratterista senza alcuna nobiltà. Amava l’Italia, amava la nostra storia. Fece in modo di ottenere un ruolo ne Il principe delle volpi, che gli stava molto a cuore. Il ruolo era quello di Cesare Borgia. Ne diede un ritratto perfetto, Cesare era davvero diventato Orson. L’ambizioso corruttore-assassino che sognava, fra il ‘400 e il ‘500, di unire l’Italia a favore di se stesso e non degli italiani, era un cattivo affascinante proprio come Welles. E ci fu chi disse che l’attore non aveva davvero dovuto sforzarsi per interpretare il nobile italo-spagnolo. Quando ebbe un ruolo nel Terzo uomo, girato in gran parte a Vienna, fece impazzire il regista Reed: riscriveva le scene, dava indicazioni agli attori. E anche in quel film fece Welles, cioè il cattivo. Contrabbandava medicinali avariati, era cinico e odioso, era come sempre estremo, ma toglieva quasi tutti gli spazi al protagonista “buono”, Joseph Cotten. Ne La signora di Shangai, un noir apparentemente “semplice”, Welles era un avventuriero di scarsi scrupoli, che si fa coinvolgere in un omicidio. Ci mise il suo tocco riuscendo in un’ impresa che sembrava impossibile, imbruttire Rita Hayworth. Forse c’era qualcosa di personale che il “genio” risolse a suo modo: Rita era sua moglie nella vita, lei lo detestava e lui, in qualche modo, la punì. Sì, Welles non era un tipo facile, e neppure simpatico. Volle dichiararlo, e nel “Quinlan” gli riuscì benissimo. Soprattutto gli riuscì l’iperbole di essere odiato ma amatissimo. Un genio, sempre e comunque. Nel suo Ed Wood (1994), Tim Burton, uno dei tanti innamorati di Orson, si fa portavoce dello storico lamento di Welles per Quinlan. Ed Wood era, ufficialmente, il peggior regista di tutti i tempi e divenne a Hollywood una vera leggenda postuma proprio grazie al film di Burton e all’interpretazione di Johnny Depp. Il regista fa incontrare Wood e Welles per caso in un bar. Welles è triste, mezzo ubriaco. Wood gli domanda perché e il “genio” risponde lamentandosi di come sia stato costretto a snaturare il suo amatissimo “Quinlan”: “mi hanno appioppato un biondo con gli occhi azzurri nel ruolo di un

messicano.” Welles era morto dieci anni prima, a 70 anni.   MENO MALE CHE WOODY C’È   Vicky Cristina Barcelona? Dopo New York, Venezia, Londra, ecco il periodo di Allen a Barcellona. Non è fra gli attori, lui, settantatreenne, si amministra. Peccato. Credo che tutti dobbiamo molto a Woody, modello confortante. “Vicky Cristina” racconta di un pittore famoso che, senza conoscerle, invita due donne a fare sesso con lui, tutte e due insieme. Il resto è film di Woody Allen, dunque ottimo film. Come detto non c’è lui, così non ci sono le sue battute, storia e filosofia personali. Da decenni il newyorkese, stagione dopo stagione, ci accompagna, si e ci confessa, è un amico garante di allegra malinconia, ti porta la consolazione del mal comune con ciò che ne segue. L’uomo più brutto Voglio riferirmi a un titolo fondamentale. In Tutti dicono I Love You sua (ex) moglie è Goldie Hawn, sua (momentanea) compagna è Julia Roberts. Come a dire l’uomo più brutto del cinema ha sedotto la donna più sexy e la più bella del cinema di allora: certo sono passati undici anni. È un’ottima notizia per chi è più vicino a Woody che a George (Clooney), cioè per quasi tutti. Tutti dicono I Love You sta a Woody Allen come Amarcord stava a Federico Fellini. Parto da quel punto fermo. Sono le loro opere più personali, complete, vitali. Si tratta dell’ultima evoluzione, dove indicazioni e sentimenti hanno scremato il meglio e l’essenziale. Nel finale di Amarcord, comico struggente, Fellini ha già nostalgia di se stesso. Le opere successive saranno sempre “di Fellini” ma la vitalità, l’ispirazione naturale, la sincerità, saranno minori, se non perdute. Allen invece affronterà, consapevole, altri ricicli, un po’ come, mi si perdoni, l’attaccante che ha perso l’esplosività per il gol, e “indietreggia” a centrocampo, certo con grande qualità. Dunque ancora commedie, ma anche drammi, e anche thriller, tutti ottimi film, da vedere, perché anche un Allen con forze minori, è sempre un fuoriclasse. E poi, cicli o drammi o thriller che siano, l’ebreo di New York, come detto, lo frequentiamo da più di quarant’anni, ci siamo abituati a lui, ci ispira tenerezza e confronto, e il confronto con lui è quasi sempre a nostro favore, è comodo. Sbalorditiva Nell’ultima sequenza di “Tutti dicono”, Allen si confronta con Goldie, sua ex moglie e insieme tirano le fila della loro vita e quei rimpianti sono davvero vicini a molti, molti di noi. In altra chiave ci presenta un facsimile di magnifico testamento da cinema, cioè fasullo, perché poi la vita sarà ancora lunga e film ce ne saranno ancora molti, ma è bello prenderne atto quando sei vitale e non diventi grottesco se corteggi la bellissima che ha trent’anni di meno. È il Woody migliore e più sincero, insieme a quello di Manhattan. Lui e Goldie sono sulla sponda della Senna, dove “decadi prima” avevano vissuto un momento di strepitoso amore. Lei è sposata con un altro, del quale Woody è grande amico peraltro. Ma vivono quel momento. Lei canta I’m Through With Love “non amerò mai più”. E ballano alla Fred e Ginger. Poi seduti, vicino all’acqua lenta e scintillante delle luci del Natale, ricordano quando erano marito e moglie ed ebbero una magnifica figlia prima che le strade si dividessero. I ricordi non possono che essere tristi. Alle fine lei dice: “Buffa la vita”, ma lui risponde: “È sbalorditiva, sbalorditiva.” È la sua chiave, da prendere a prestito. E così puoi rifarti a lui, durante la giornata. Hai mal di stomaco, potresti scegliere fra due pillole e qualcuno te ne indica una terza. Ti attieni a una dieta che andava bene la settimana scorsa ma hanno scoperto che oggi ti fa male e magari andrà bene giovedì prossimo. Tua figlia ti annuncia che Lapo l’ha invitata. Vedi scendere da una Mercedes una ragazza che ti piace e

ad aprirle la portiera è un trentenne biondo di un metro e novanta, e tu hai trent’anni di più e venti centimetri di meno, e guidi una Panda. La banca ti ha suggerito investimenti e quando vuoi prelevare scopri che devi soldi alla banca. Vai alla Scala e il neomelodramma ti mostra un Don Giovanni con siringa. Un amore ti abbandona, e poi un altro ti abbandona, e poi un’altro e così via. Accendi il televisore e incappi nel lodo Alfano, l’Isola dei famosi e Marco Travaglio. E poi il passato lascia sempre meno spazio al futuro, e il momento arriverà, non c’è alcun dubbio che arriverà. Ma c’è Woody Ma sai che c’è Woody, e ti troverà sempre uno spazio in cui sorridere e ridere. Risate anche estreme, come quando fa scendere dalla bara il suocero morto e lo fa ballare con altre anime. Persino lì si può scherzare, esorcizzare. E così Woody non sta meglio di te. Attraversa un ponte sulla Senna tenendo sotto braccio la baguette che spunta dalla carta. E oltre quel ponte c’è un possibile nuovo amore e l’incontro avverrà, anche se non sei più giovane e se ti toccano un paio di pillole nelle ventiquattrore. Lui ti dice di non rannicchiarti e non arrenderti, che non sono tragedie ma è vita, e la vita comunque è sbalorditiva. Appunto.   VAN JOHNSON (1916-2008)   Van Johnson era nato nel ’16. Fa parte della seconda generazione dell’età dell’oro hollywoodiana, la prima è quella dei Gable, Bogart, Cooper, Astaire, tutti nati intorno al 1900. Coetanei (più o meno) di Johnson erano Peck, Lancaster, Power, Ladd, Granger. Adesso l’ultimo eroe superstite di quel gruppo è Kirk Douglas, del ’16 anche lui. Johnson era quello che si dice il bravo ragazzo. Non bellissimo, rosso con le lentiggini, ma capace di trasmettere grande umanità, di rassicurare. Come suggerisce la liturgia dello spettacolo, a un certo punto arriva qualcuno che ti nota e ti propone a uno Studio. Successe anche a lui. Faceva parte di un gruppo di sette ragazzi che si esibivano in un night di Broadway. Cantavano e ballavano. Van era il più dotato. Un talent scout lo vide e lo portò a Hollywood. Erano i primi anni Quaranta. In carriera mostrò di saper coprire tutti i ruoli: la commedia, il musical, il dramma, il giallo e anche il western. La sua casa fu per molto tempo la Metro, che ospitava “più stelle che in cielo” e lui, Van, era una di quelle stelle. Per molte stagioni fu uno dei “top ten money making stars”, una misura esatta e impietosa per misurare il successo. Nel ’49 a fianco di Judy Garland fece In the Good Old Summertime (Nella buona vecchia estate): in una sequenza teneva in braccio la figlia di Judy, Liza Minnelli, che allora aveva due anni. Johnson ha interpretato almeno un classico nei vari generi. In Brigadoon, di Minnelli, balla il tip tap insieme a Gene Kelly, e riesce, lui così corpulento, a non sfigurare. Un grande classico della guerra, Bastogne, lo vede soldato consapevole e dolente durante la campagna delle Ardenne. Un’altra grande prova di attore la compie ne L’Ammutinamento del Caine di Dmytryk, del ’54, nel ruolo dell’uffciale antagonista di Humphrey Bogart. Due anni dopo dà corpo e volto a un reduce in Incontro sotto la pioggia. Il film faceva parte, un po’ tardivamente, della propaganda del dopoguerra. L’America aveva mandato tanti suoi figli sui due fronti, Europa e Pacifico. Molti non erano tornati. Assumendo l’input governativo, Hollywood produsse film che dessero notizie e speranza ai famigliari a casa. Titoli come La Signora Miniver e I migliori anni della nostra vita, letteralmente coperti di Oscar, fotografavano la guerra di chi la faceva e di chi era a casa in ansia. I tre reduci dei “Migliori anni” trovano situazioni difficili a casa, ma si integreranno. Uno di loro, Harold Russell, un vero mutilato che fa praticamente se stesso, ottiene delle protesi

che gli permetteranno di (soprav)vivere, e 200 dollari al mese “vita natural durante”. Poi c’era chi non tornava, appunto. E Hollywood cercò di risolvere, a modo suo, anche il nonritorno, anche la morte. E in Incontro sotto la pioggia Johnson lascia l’innamorata Jane Wyman per andare in guerra, dove muore. Ma lei se lo vede ritornare come spirito. E le basterà. Per un ruolo tanto difficile, in equilibrio fra grottesco e assurdo, chiamarono Van che riuscì ad essere, a suo modo, quasi credibile. E tutti piansero. Qualche anno fa Paolo Limiti chiamò Johnson nella sua trasmissione della nostalgia. L’attore ottantacinquenne, si mostrò spiritoso e ancora vitale, raccontò vicende del suo lavoro. Molti giovani, ospiti, lo guardavano attenti, poi incuriositi, poi incantati. Voglio ricordarlo anche in un thriller di gran classe, 23 passi dal delitto, dove interpreta un cieco che risolve un caso attraverso l’udito e gli odori. Ma se devo isolare un unico personaggio nella storia di questo grande attore estraggo il protagonista Charlie di L’ultima volta che vidi Parigi, di Richard Brooks, con Elizabeth Taylor, tratto da un racconto di Fitzgerald Babilonia rivisitata. Il film sposta l’azione dalla prima alla seconda guerra mondiale. Charlie rimane a Parigi alla fine della guerra, si innamora di Helen, hanno una bambina. Helen muore di polmonite, Charlie si lascia andare all’alcol proprio come Fitzgerald. Gli portano via la bambina. Dopo un paio di anni Johnson torna a Parigi da Milwaukee, per riprendersi la figlia. È cambiato, non beve più ed è diventato uno scrittore. Ma occorre convincere la cognata, che ha in custodia la piccola, e che ha del rancore per un’antica gelosia. Nella scena finale abbraccia la figlia e con lo sguardo ringrazia la cognata, che ha capito. E ancora una volta, fra sentimento e commozione, le misure trasmesse sono quelle giuste. L’umanità di Van prevaleva e rassicurava. Come fanno gli amici.   EDMUND PURDOM (1924-2009)   Londinese, dopo inizi teatrali di grande respiro in Gran Bretagna (Il malato immaginario di Molière, fra le tante rappresentazioni), sbarcò a New York dove interpretò Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Cesare e Cleopatra di Shaw, nel quadro di un largo repertorio classico. L’immancabile liturgia dello spettacolo vuole che il solito talent scout di una major notasse il giovane attore dai lineamenti classici, tipo antico romano, su di un palcoscenico di Broadway e lo segnalasse ai suoi capi. Le major americane provavano, tradizionalmente, una sorta di doveroso rispetto verso la “madre Inghilterra”, e un’attrazione irresistibile per gli artisti britannici. Fra le stelle di Hollywood brillavano personaggi come Greer Gerson, Liz Taylor, Cary Grant, Deborah Kerr, Stewart Granger, Charlie Chaplin e molti altri, britannici, appunto. La fortuna di Purdom fu, ancora una volta secondo un codice classico hollywoodiano, casuale. Successe che Marlon Brando, originale e imprevedibile, rifiutasse una parte molto importante, quella di Sinuhe l’egiziano. La Fox aveva acquisito i diritti del romanzo di Mika Waltari e organizzato una produzione da colossal, incaricando un grande regista come Michael Curtiz (quello di Casablanca), e affidando il ruolo di protagonista proprio a Brando. Ma Marlon era reduce da una parte in costume, quella di Antonio nel Giulio Cesare di Mankiewicz – dove peraltro era presente anche Purdom in una piccola parte – e non voleva farsi connotare in quel senso. Così aveva optato per Fronte del porto, con ottimo intuito visto che quel ruolo gli fece vincere l’Oscar. E va senz’altro detto che Purdom non era Brando. In Sinuhe l’egiziano esegue correttamente il compito ma si produce in una recitazione sotto misura, sembra proprio un attore di teatro prestato al cinema. Tuttavia la qualità generale e popolare del film e il grande successo al botteghino, supplirono al profilo non alto dell’attore. Purdom era comunque una star, era una garanzia. L’anno dopo la Metro tentò di emanciparlo da quella sorta di austerità classica, dandogli il ruolo di

protagonista in Athena e le sette sorelle, un figlio degenere di Sette spose per sette fratelli, che è un capolavoro, mentre “Athena” si rivelava un surrogato dimenticabile. Ma il volanoSinuhe era potente e trascinò l’attore per molti film ancora. Purdon si accreditò come un ottimo professionista che non avrà avuto i picchi di un Brando, ma riusciva a dare prove più che corrette. Un’altra tessera che fa parte del percorso tradizionale di molti attori è l’Italia. Di solito approdavano da noi divi al tramonto, sulla cinquantina, quando Hollywood li aveva sostituiti con nuove leve. Purdon arrivò in Italia ancora giovane. Registi nostrani come Fernando Cerchio, Sergio Corbucci, Di Leo e Parenti, lo impiegarono in parti diverse, dall’immancabile peplum all’horror comico, al poliziesco. Grande popolarità, oggi diremmo gossip, fu la sua storia d’amore con Linda Christian, moglie di Tyrone Power divenuta poi moglie di Edmund Purdom. La coppia ebbe due figli. Un passaggio recente dell’attore, degno di menzione, è il ruolo di Ugo di Clarendon ne I cavalieri che fecero l’impresa di Pupi Avati. Era il 2001. Nel 2009 a 85 anni, Edmund se n’è andato. È stato un personaggio, comunque un protagonista. Merita il ricordo.   2009: 50 ANNI SENZA CECIL B. DE MILLE   Nel gennaio del 1959 moriva Cecil B. De Mille. È uno degli inventori del cinema, un maestro assoluto assolutamente disprezzato dalla critica. E aggiungerei: è corretto che sia così, visto che De Mille faceva film bellissimi, che riempivano le sale. Se cerchi il suo “lemma” sui dizionari recenti trovi lo stesso numero di righe spese per un Kitano e un quarto di quelle dedicate a Tarantino. In realtà De Mille era un gigante. E non c’è alcun dubbio che fosse un predestinato. Apparteneva a una delle più antiche famiglie americane, di discendenza olandese. Un antenato era emigrato dall’Olanda verso la metà del seicento e, giusto per inserirsi, aveva acquistato un quarto dell’isola di Manhattan. Seguirono personaggi di alto profilo, fino ad arrivare ai genitori di Cecil, che erano insegnanti. Il padre, Henry Churchill era scrittore di commedie di buon successo. E qui scatta la liturgia che riguarda la gente di spettacolo, liturgia spettacolare, e per lo più autentica. C’è inizialmente una scuola militare, con tentativo, fallito, di partecipare, a 17 anni, alla guerra ispano-americana del 1898; e poi l’Accademia d’arte drammatica di New York. E non può naturalmente mancare un esordio come attore, e successivamente come commediografo. E poi il cinema, quasi nascente. Nel 1913 De Mille fonda, con altri, la Jesse L. Lasky Feature Play Company e comincia a produrre. Ben presto emerge la sua attitudine al grande spettacolo e al versante sentimentale ed epico: la predilezione per il western e per il colosso, un genere, quest’ultimo del quale De Mille è certamente l’inventore. Estetica Fa e rifarà titoli ai quali si affeziona: per esempio I dieci comandamenti, con la versione muta del ’23, e l’altra del ’56. La chiave artistica di De Mille è di enorme identificazione: un suo fotogramma lo riconosci all’istante, si pone con un’estetica tanto ricca da essere violenta. La formula è semplice: tutto è eccesso, tutto è finto. Insomma tutto è cinema, (quasi) niente è realtà. Se c’è da rappresentare una valle, ebbene i prati saranno di un verde più che naturale, le spume dei torrenti non saranno bianche, ma dovranno abbagliare, il trucco sarà trovato. Le giubbe della polizia del Canada saranno di un rosso altrettanto abbagliante e saranno sempre linde e stirate anche durante la lotta nel fango con un indiano e l’indiano sarà palestrato, la pelle (rossa naturalmente) del viso sarà ‘ottimizzata’ con cerone pesante, i capelli saranno stirati, più corvini del corvo stesso, la divisa sarà multicolore con frange frangette, bottoni e bottoncini. E lo schermo sarà

completamente riempito, poco cielo ma tante cose. Ogni spazio dello schermo dovrà vivere e mostrarsi, col colore e col movimento. Ne Gli invincibili c’è una sequenza dove Gary Cooper è su una barca insieme alla bellissima Virginia Grey, si ritrovano e dovrebbero sposarsi. Sono straeleganti, lei ha un abito da sera degno di Versailles, eppure sono su un fiume della Virginia nel 1765, sulle sponde ci sono foreste e indiani. Conducono la barca alcuni schivi neri che cantano una nenia. L’acqua è finta, la corrente prodotta con la macchina, le sponde sono del solito verde eccessivo, in cielo le stelle sembrano luci di Broadway. Tutto studio, tutto interni. Tutto finto. Lei gli dice “sposerò tuo fratello”. Altra scarsa verosimiglianza: ma come sarà questo fratello che porta via la fidanzata a Gary Cooper? Poi lo guarda intensamente: “Se ti guardo negli occhi non vedo mai la mia immagine, vedo orizzonti, vedo montagne inesplorate e l’infinito. La tua vita è là, come quella dell’aquila è nel cielo.” Gary ordina a uno schiavo di accostare. Prima che scenda, la donna, affranta, sussurra: “Mi dimenticherai”, lui l’afferra per la vita e la bacia alla Gary Cooper: “Ma tu non dimenticherai questo”. Scende dalla barca e si inoltra nella notte, verso nuove avventure. Quella sequenza è l’essenza del regista. Non c’è scena più fasulla ma raramente il cinema presenterà un maggiore incanto. Colosso De Mille inventò il colosso biblico con Sansone e Dalila, altro manifesto ipercolorato con relativa misteriosa magia. Era il 1949. Quel titolo era un legislatore, ispiratore dei grandi “peplum romani” degli anni cinquanta, da Quo Vadis a La Tunica, I Gladiatori, e poi Cleopatra e Spartacus del decennio successivo. De Mille era innamorato delle grandi manifestazioni e dell’epica. Naturalmente il cinema prevaleva su tutto. Se c’erano licenze da applicare, si applicavano, se occorreva aggiustare qualcosa, la storia, l’epica appunto, De Mille aggiustava. La fiction, lo spettacolo erano sempre la prima indiscussa opzione, comandavano. Così ne La conquista del west (1936), riesce a far convivere e intrecciare, storie nelle storie, Lincoln, Custer, Buffalo Bill, Bill Hickok e Calamity Jane, tutti insieme. Anche qui dunque valeva il finto&fasullo. Ma alla De Mille, in un certo senso veniva ricostruita una storia parallela credibile quasi come quella vera. Anzi il pubblico credeva più al film che alla storia. De Mille era uomo di fede e, a suo modo, la divulgò. Aveva studiato i testi sacri e ne aveva rappresentato certi episodi salienti. Pronto naturalmente a rifarsi le regole per adattare la fede allo spettacolo. Stesso concetto dell’epica. Antropologia Magari Mosè avrà ricevuto le tavole sul Sinai con una procedura diversa da quella immaginata dal regista, ma non c’è dubbio che se tutti noi dovessimo configurare Mosè, è a Charlton Heston che ci riferiremmo. Heston-Mosè, canuto, col suo bastone, sul promontorio battuto dal vento che squassa i costumi, ordina alle acque di aprirsi, e le acque si aprono. Trattasi di sequenza che fa testo nella memoria e nell’antropologia degli utenti del cinema, soprattutto di quelli che lo videro nelle sale nel 1956. Ma la scena ha una tale energia, propone tali codici affermati e non più reperiti, che è valsa come spunto per molti spot, anche molto recenti. E questo è un segnale che chiude ogni discussione sull’estetica “oggettiva”, buona e viva nel tempo, di quell’autore. Il regista chiese un’udienza a Pio XII. E la ottenne. Il Vaticano organizzò una proiezione privata de I Dieci comandamenti. Papa Pacelli disse che il grande cineasta americano aveva divulgato coi suoi strumenti, con efficacia, le sacre scritture, ed era un grande benemerito. John Ford altro eroe, forse il massimo eroe del cinema americano, confessava di invidiare De Mille. Diceva: “Nessuno come lui sa arrivare al grande pubblico. Quando faccio un film mi domando se prima di tutto piacerà a Cecil.” De Mille ha anche un’immagine popolare, in alcuni film ha fatto se stesso, in Parata di Stelle, accanto a tutti i divi della Paramount, della quale era il monarca assoluto, ma

soprattutto in Viale del tramonto, dove Billy Wilder lo presentò con pantaloni da cavallerizzo e frustino sul set di Sansone e Dalila. Il “capo” comandava, come aveva sempre fatto, reminescenza dei giorni lontani della scuola militare.   DAVID E LA STIRPE DEI CARRADINE TALENTI PIÙ CHE DIVI   I Carradine erano una stirpe dello spettacolo. Capostipite John, e poi figli e figliastri, nipoti. Non sono stati una famiglia di divi, alla Barrymore per esempio, ma artisti capaci di tutto. Una cifra che certamente li qualifica era il talento, distribuito in varie forme. Un esempio: il primo, John era stato assunto alla Paramount come scenografo, poi De Mille si accorse che aveva una faccia e gli fece fare l’attore. Ma a valorizzarlo come carattere indispensabile fu John Ford, che non ne fece mai un protagonista ma un modello dolente, ambiguo, cinico, anche cattivo, ma talmente forte da diventare di fatto “protagonista”. E siccome era un Carradine, dunque tutto aperto e tutto possibile, ecco che il vecchio John non morì durante una ripresa in location eroica o in un letto di villa di Bewerly Hills, ma al Fatebenefratelli di Milano dov’era stato invitato per una rassegna. Morì lontano, com’è morto lontano suo figlio David. Anche David non è mai stato un divo. Non aveva quel tipo di appeal che tutto sorpassa, che ti fa andare al cinema perché c’è lui. Non apparteneva alla schiera dei suoi coetaneidivi, come Redford, Nicholson, Hoffman, Beatty che prima dell’identità del personaggio imponevano la propria. David ha sempre dovuto essere bravo e diverso. Ha lavorato con impegno, quasi con dolore, esplorando molto. Certo è stato anche protagonista, ma non divo-protagonista, doveva il successo soprattutto all’applicazione. Niente arrivava facilmente. È stato più fortunato di lui Keith, attore forse mano bravo ma di maggior fascino, che ha lasciato almeno un grande segnale, quello dell’uffciale antagonista di Harvey Keitel ne I duellanti di Ridley Scott. Quella di David si può chiamarla duttilità, che piacque ad almeno due fra i massimi maestri, Ashby e Bergman. Il regista americano lo volle in Questa terra è la mia terra, nel ruolo di Woody Guthrie, il cantante ispiratore dei grandi movimenti libertari degli anni sessanta, e modello di Bob Dylan, fra gli altri. Lo svedese lo impiegò ne L’uovo di serpente, una storia disperata che preannunciava lo spettro del nazismo nella Germania degli anni venti. Anche il piccolo schermo deve un tributo all’attore, capace di dare corpo e volto alla serie Shane, eroe assoluto del western che era stato portato sul grande schermo da Alan Ladd, al quale in qualche modo la produzione lo fece assomigliare. E capace di rappresentare Kwai Chang Caine, l’eroe silenzioso e mistico di Kung Fu. Una parte che si sarebbe rivelata decisiva negli anni e nei ruoli a venire. Nell’era recentissima un altro importante autore, Quentin Tarantino, ha ritenuto che David avesse la personalità giusta per il ruolo, davvero di protagonista, di Bill in Kill Bill. Sì, protagonista a quasi settant’anni. Un’anomalia alla Carradine. Ma la citazione finale è per I cavalieri dalle lunghe ombre, di Walter Hill, dove David e i fratelli Keith e Robert davano corpo e volto agli Younger, i tre fratelli amici di Jessie e Frank James. Tre fratelli a fare tre fratelli. Un’altra bella anomalia alla Carradine.   FARRAH TRA FICTION E REALTA’   Non c’è dubbio che su di lei verrà fatto un film. Farrah è stata perfetta per la fiction, la sua vicenda correva parallela sulla strada della professione e su quella del privato e non avresti saputo dire dov’era la finzione e dov’era il privato. Uno scrittore abituato al cinema, distribuendo episodi, sentimenti, delusioni e successi, ambizioni e promesse, non avrebbe

potuto scrivere storia più intensa e cinematografica della vita reale di Farrah Fawcett. Così come, dovendo scegliere un compagno che le aderisse perfettamente, tra fiction e realtà, lo scrittore non avrebbe potuto che attribuirle Ryan O’Neal come amore della vita. E comunque, quello sceneggiatore, nella fase ultima della vita della Fawcett, avrebbe davvero dovuto cavare il meglio da sé. Farrah che accetta, ormai morente, di sposare l’amato dopo quasi trent’anni, lui che corre ma non arriva in tempo: neppure i più strepitosi e tenaci mélo degli anni cinquanta, neppure le serie più addolcite e improbabili del nostro tempo, girate fra Capri e Beverly Hills, avrebbero potuto concedersi tanto. Ma a questo punto, raccontando in prima persona, devo cambiare linguaggio per rispetto, perché Farrah era bellissima, l’abbiamo conosciuta, adesso non c’è più e certo mancherà. Mi concedo la prima persona perché l’ho vista e conosciuta, dal vivo. Dopo l’estate del ’79, ero responsabile della programmazione di Antenna Nord, che sarebbe diventata Italia Uno qualche anno dopo. Era l’inizio delle strisce, dei serial reiterati durante la settimana. La neonata emittenza privata italiana era assediata da agenti della major americane che cercavano di piazzare i loro prodotti. Passavo le giornate a visionare telefilm. Finché irruppero le Charlie’s Angels. Farrah Fawcett emergeva all’istante. Tutto ciò che le stava intorno, le due compagne comprese, sbiadiva, sfuocava. “A fuoco” rimaneva solo lei. “È la dote delle stelle”, dissi ripetendo pari pari una battuta di Kirk Douglas ne La bella e la bestia di Minnelli. Non dovetti prodigarmi troppo per convincere l’emittente a investire su quella serie. L’anno dopo l’ho conosciuta, Farrah, invitata a un congresso al tennis club di Porto Cervo. Bionda, texana e abbronzata, e bella naturalmente. Ma dal vivo era più minuta, non occupava lo stesso spazio dell’“Angel”. Dico che certo, un po’, sullo schermo ci guadagnava. Charlie’s Angels, è notorio, è stato uno dei programmi di maggior successo della storia della televisione. Le compagne che affiancavano la Fawcett, Kate Jackson e Jaclyn Smith erano carine e simpatiche, ma Farrah “bucava”, era la leader, era la “stella”. Con quei suoi occhi azzurri fiuorescenti e quel sorriso che non aveva confini. Divenne forse la donna più popolare di tutto il panorama del piccolo schermo. Aveva superato la trentina, e non aveva più tempo da perdere. Dunque cercò di correre e cercò il naturale salto di qualità che è quello dal piccolo al grande schermo. E lì non è stata altrettanto fortunata. O forse non era modello da grande schermo, dove l’appeal ha regole diverse, e la diversità è impalpabile, ma alla fine emerge. In cinema è stata molto brava in Oltre ogni limite, dove si vendica dell’uomo che l’ha spietatamente sottomessa e maltrattata. È stata all’altezza anche accanto a Richard Gere ne Il dottor T. e le donne, nella parte della ricca depressa che si immerge nuda nelle fontane. Nell’82 ha conosciuto Ryan; grande e contastato amore. Lui si è ammalato ed è guarito, lei si è ammalata e non è riuscita a guarire. La conoscevamo tutti. Va ricordata.   KARL MALDEN: QUANDO SI DICE “FINISCE UN’EPOCA”   Con Karl Malden davvero finisce un’epoca, precisa, storicizzata: quella dell’Actors Studio. L’attore faceva parte proprio del primo gruppo, quello dei Clift, Brando, Newman, Dean, Steiger, Franciosa. Furono quelli che cambiarono il cinema. Non più happy end istituzionale, a volte innaturale, ma temi reali drammatici e dolorosi, insomma non più il sogno ma la vita. E c’è un paradosso singolare: era il più anziano di tutti, di una decina di anni e più. James Dean, il più piccolo aveva 19 anni di meno, avrebbe potuto essere suo figlio. I coetanei di Malden si chiamavano Power, Taylor, Lancaster, Ladd, Kelly. Gente della generazione precedente, che non c’è più da tanto tempo. Davvero un cinema e un mondo lontano. Malden è stato un attore “totale”, significa buono per tutti i ruoli,

semplicemente perché non era un divo, non ne aveva il corpo e il volto, non ne aveva l’appeal. Era soltanto bravo. La sua fortuna la fece Elia Kazan, fondatore dell’Actors. Lo mise accanto a Marlon Brando e si accorse che i due si integravano alla perfezione. Brando, bello&sensuale&semidio possedeva l’altra chimica, quella del divo che alla fine fa sempre se stesso. In Un tram che si chiama desiderio Karl è la persona perbene che corteggia educatamente Vivien Leigh la quale però “si fa” violentare da Brando. Sul fronte opposto, Karl è bravo come Marlon, tanto che riceve l’Oscar come non protagonista mentre il divo deve accontentarsi della nomination. Altro trionfo in coppia, sempre per mano di Kazan, è Fronte del porto, dove Malden è l’eroe buono, un prete, e Marlon (questa volta “Oscar protagonista”) è il “maledetto” che si redime. Brando volle l’amico con sé quando diresse il suo unico film I due volti della vendetta, un western col mare, uno dei pochi. Karl abbandona l’amico dopo una rapina, diventa scerifio ma Brando lo ritrova e si vendica. Ne L’albero degli impiccati il caratterista Malden è accanto a Gary Cooper e dà corpo e volto a un ubriacone violento che cerca di abusare di Maria Schell. Cooper lo uccide senza pietà e con un calcio spinge il corpo in un burrone. Scena cattiva ma liberatoria: Karl era stato magnifico nel farsi odiare, da Cooper e dal pubblico. Due maestri massimi, Hitchcock e Ford lo vollero rispettivamente in Io confesso e ne Il lungo sentiero, ruoli diversissimi, naturalmente. Una parte di antagonista, ancora una volta perfetta per lui, gliela attribuì Shaffner in Patton generale d’acciaio. Malden è il generale Bradley, capo di stato maggiore, superiore di Patton (George C. Scott, un altro Actors) che era un comandante aggressivo e incredibilmente carismatico. Mentre Malden-Bradley era prudente, diplomatico e sottotono. Ancora una volta personalità opposte contro, come ai tempi di Brando. La grande popolarità “domestica”, che arriva a tutti, l’attore la dovette alla televisione, quando gli venne affidato il ruolo del poliziotto Stone nella serie Le strade di San Francisco. Accanto a lui la produzione pose il giovane Michael Douglas. La serie durò cinque anni, dal ‘72 al ’77. Come spesso accadeva ad attori di ottima (ma non assoluta) popolarità, Malden ebbe a che fare anche col nostro cinema. Dario Argento gli affidò la parte del cieco enigmista che risolve il caso in Il gatto a 9 code. Dunque non una, ma tante epoche sono finite con lui.   PARIGI RICORDA LA LEGGENDA DI BRIGITTE BARDOT   La nostalgia è davvero di moda e Parigi detta la moda della nostalgia con una mostra su Brigitte Bardot. Brigitte davvero significa nostalgia, profonda, quasi struggente. La mostra si chiama Les années d’insouciance (Gli anni di spensieratezza). Per molti anni, a partire da quei magnifici Cinquanta, Brigitte ha rappresentato molto, moltissimo, dovunque, trasversalmente, nel pubblico e nel privato. È stata semplicemente la Francia. In questo senso porto subito un segnale concreto e ufficiale: la Marianne, la donna che incarna la repubblica francese nei suoi valori, liberté, égalité, fraternité. L’icona è identificata col celebre dipinto di Delacroix, un volto anonimo con cappello frigio, anzi, era identificata, perché dal 1969, alla Marianne, ha dato corpo e volto Brigitte Bardot. Brigitte: la Francia appunto. Leggenda Il termine leggenda dunque, riferito alla Bardot non è improprio, è appropriato e più che legittimo. Cominciò tutto nel 1956 quando Roger Vadim, regista e marito, la diresse in Et Dieu... créa la femme, criminalmente tradotto da noi in Piace a troppi. L’attrice aveva alle spalle una serie di performance poco importanti, fu quel film a farla cominciare. Del resto è naturale che Vadim sapesse come “usarla” e conoscesse le corde da toccare. E le toccò. E così Brigitte Bardot divenne B. B., simbolo sessuale di Francia e d’Europa.

Marilyn In un altro Cinema, a Hollywood, c’era un’altra bionda importante: Marilyn. L’americana era più grande della francese di otto anni ed era più avanti nel suo percorso, nella stagione migliore. Del ’56 è Fermata d’autobus, il titolo perfetto per la Monroe, che la rappresenta anche in alcune delle sue vicende personali. Marilyn è simbolo sessuale a sua volta, e come se lo è, ma è diversa. È una fantasia, un disegno quasi estremo, ideale di “sesso americano”, senza ambiguità, con qual grande sedere e quelle grandi tette. Naturalmente anche a Brigitte non manca niente, è a sua volta un magnifico disegno di femmina, ma ci applica quella cifra francese di dolce morbosità, persino di imbarazzo di chi deve, anche dallo schermo, rapportarsi a lei. Abito rosso Un magnifico denominatore comune, chissà se voluto da Vadim, è l’abito rosso. Marilyn lo indossa in Niagara nobilitandolo mentre cammina verso il centro del ballo, conscia che in quei fotogrammi il suo strepitoso attributo sta per far parte della storia del cinema e di quella dell’erotismo. Invece in Piace a troppi Brigitte indossa il rosso, ballando, senza enfasi, con naturalezza e ingenuità, entrambe finte naturalmente, ma perfette per definire quell’ ambiguità da lei inventata in quel momento. Con quelle labbra poi, da adolescente imbronciata, altro precedente tutto suo, che farà testo e diventerà ispirazione nei decenni a venire di molte dive e divette, soccorse dalla chirurgia estetica. Anche noi abbiamo qualcuno che sa indossare praticamente lo stesso vestito. È Sophia. Ne La riffa, uno degli episodi di Boccaccio ’70, diretto da De Sica, la Loren è la titolare di un tirassegno, e sarà il premio di una lotteria segreta. È perfetta per quell’abito, italiana eccessiva e di provincia, sensuale senza ambiguità. Certo, anche a Sophia (esattamente coetanea di Brigitte) non mancava nulla. Le tre star rappresentavano dunque un modello sessuale diverso. Anche se l’italiana, pure acquisita dalla Paramount, non riuscì ed essere un simbolo universale, venne “adattata” a Hollywood, la sua identità sarebbe sempre rimasta quella “etnica” attribuitale da De Sica, la pizzaiola de L’oro di Napoli, o la “Ciociara” oppure la madre di famiglia trasgressiva di Una giornata particolare di Scola. Fedele Negli anni sessanta anche B.B. venne adottata dagli americani. Hollywood le dedicò un film, Dear Brigitte (Erasmo il lentigginoso l’inverosimile titolo italiano). Brigitte fa se stessa. Si innamora di lei, vedendola su un giornale, un bambino di dieci anni e suo padre, James Stewart, decide di aderire al sogno del figlio portandolo a Parigi a conoscere la Bardot. Brigitte andò ben oltre il simbolo sessuale e l’estetica. E tutto partì proprio dal film diretto da Vadim. Era la storia di una ragazza che aveva un marito e qualche amante e nessuno aveva niente da ridire. Pensare a B.B. borghesemente risolta come sposa felice ed eternamente fedele era un assurdo sessuale evidente persino agli adolescenti che si curavano i foruncoli pensando a lei. La missione di B.B. sarebbe stata dispensare felicità, soprattutto sessuale, a quanti più possibile. Giusto, sacrosanto e accreditato. Qualsiasi risentimento morale sarebbe stato inopportuno. E così le donne belle che tradivano i mariti si sentirono incolpevoli, legittimate dalla loro amica Brigitte. Nel privato è stata fedele a se stessa: un lunga schiera di mariti e di amanti, una vita “naturale”, trasversale, diversa, mai allineata e mai “corretta”, soprattutto mai politicamente corretta. È stata più importante come personaggio che come attrice. Si è impegnata, e si impegna a favore degli animali. “Politicamente non corretta” significa, ancora una volta non allinearsi alla cultura dominante, soprattutto quella francese. B.B. si è esposta alla sua maniera, contro i gay e gli stranieri. Venendo da una personalità come la sua il pronunciamento è stato rilevato e attaccato, con denunce da parte di vari gruppi gay e islamici. Ancora una volta, a modo suo, la Bardot non si era allineata e non aveva voluto

mediare. Scollata Qualche anno fa ero in una commissione al festival di Venezia. In una cena ufficiale mi incrociai con Sophia Loren, c’era anche Stanley Donen, il maestro-genio (Cantando sotto la pioggia, 7 spose per 7 fratelli) che l’aveva diretta in Arabesque, quarant’anni prima. Donen le disse: “Sophia, sei esattamente come allora, e guarda me, sono un vecchietto.” In effetti per Sophia, sempre profondamente scollata, senza una ruga, il tempo non passa. Ospite di una famiglia di amici veneziani, estranea al Festival, c’era Brigitte Bardot. Naturale, rilassata, rugosa e devastata. Una settantenne, come Sophia appunto, ma vera. Una volta ancora non ha voluto allinearsi.   FERNANDA PIVANO (1917-2009)   Qualche anno fa Fernanda Pivano mi fu presentata dal comune amico Andrea Pinketts. C’era un grande amore fra loro. Lei frequentava il Trottoir, il locale che “apparteneva” a Pinketts. Lì, in corso Garibaldi, il giovedì sera, Andrea ricreava, se c’era Fernanda, una sorta di circolo che poteva senz’altro ricordare le riunioni di New York, o di Parigi negli anni venti. Certo, non c’erano Hemingway e Fitzgerald, neppure Corso e Ferlinghetti, ma c’era la Pivano, e tutto veniva legittimato in alto in quelle serate. Come molti della mia generazione, e di altre, io devo moltissimo alla Pivano. La mia educazione sentimentale e intellettuale (come quella di molti, lo dico di nuovo) deriva anche da un filone, chiamiamolo così, di letteratura editoriale, non di generi. Alludo agli Oscar Mondadori. Fra le prime uscite ricordo Addio alle armi (proprio la prima) e poi La luna e i falò di Pavese, e poi gli altri “Hemingway”, e poi il cofanetto coi tre titoli fondamentali di Fitzgerald, Di qua dal paradiso, Il grande Gatsby, Tenera è la notte. Dico, per ciò che può valere, che La luna e i falò e Il grande Gatsby sono i miei titoli-culto, la mia storia di romanziere, stile compreso naturalmente, se ha una derivazione, è quella. Me ne accorgo ancora adesso, e di tanto in tanto, qualcun altro se ne accorge. Tutti quei titoli appartenevano ai rispettivi autori, ma anche a Fernanda Pivano. Chi ha maneggiato quei libri non può non ricordare le lunghe prefazioni firmate da lei. Una soprattutto ha fatto, e fa ancora, testo: La generazione perduta. Che era quella degli scrittori citati sopra, e di altri personaggi, americani e del mondo (Picasso, Joyce, Stein, Porter, Vidor fra gli altri) che frequentavano Parigi e la Costa Azzurra in quegli anni dorati. Quegli scrittori scrissero libri che cambiarono intelligenza e sentimenti (appunto) di chi li leggeva. Da quei libri furono tratti film che portarono i contenuti a un’utenza ancora più vasta, praticamente a tutta l’utenza. Ed erano contenuti completi, non certo rassicuranti, sulle vicende personali, d’amore, di ricerca, di dolore, e sui grandi fatti dell’epoca, come la guerra di Spagna. Se li hai letti quei libri non possono che far parte della tua dotazione perenne, e non è una cattiva dotazione. E la Pivano, che li aveva assunti prima di te, che ne aveva fatto parte attiva, che ne aveva favorito l’abbrivio, te li spiegava e te li “connaturava”. Davvero le dobbiamo molto. Un paio di volte venne a casa mia. Non poteva non amare il cinema. Non mi ci volle molto perché si fidasse di me. Le citavo a memoria certi suoi stralci, soprattutto mi accreditai come “americanista” e “hollywoodista”. E una sera tutti insieme ci guardammo Per chi suona la campana, libro&film prediletti. Hemingway era sempre il suo “centro”. Non poteva mancare, anche quella sera, la solita memoria di Hemingway a Cortina, quando Fernanda lo aveva incontrato nel ’48 per definire i dettagli della traduzione di Addio alle armi. E qualcuno, quella sera, come sempre accadeva, le domandò del suo rapporto con lo scrittore di Chicago. Pinketts le disse: “Dai, qui siamo tutti amici, niente giornalisti o microfoni, puoi dirci come andò. Insomma… è successo?” “Cazzo no!” Rispose lei: “Che occasione ho

perso…”. Era un’entusiasta, toni alti, sempre interessata, sempre intensa. Se la conoscevi era subito una tua amica, indispensabile.   MIKE BONGIORNO (1924-2009)   Parlare di Mike Bongiorno è talmente semplice da essere quasi impossibile. È una sindrome, si chiama agorafobia. Hai davanti a te uno spazio troppo vasto, dunque il modo migliore è quello di isolare qualche particolare, e sempre si tratterà di un particolare rilevante, esclusivo. Quest’ultimo aggettivo è davvero appropriato. In chiave di medium televisivo Bongiorno non faceva parte di una categoria, o di una fascia. C’era lui, l’unicum, e poi dietro tutti gli altri, proprio tutti, dai suoi omologhi quasi coetanei, un Corrado, un Tortora o un Baudo, ai conduttori di adesso. Tutti dietro di lui e a grande distanza. Conosco la televisione e la sua storia. So del professor Cutolo, il malcapitato che precedeva Lascia o raddoppia, con tutto il popolo italiano a gruppi nelle case o nei bar, a guardare l’orologio in attesa e a fremere che si togliesse di mezzo per dare spazio a Mike. Le sale di prima visione alle 21 interrompevano la programmazione e trasmettevano sul grande schermo Lascia o raddoppia. I grandi quotidiani nazionali riportavano integralmente il programma. Bolognani, Degoli, Marriannini, Longari, erano personaggi dei quiz sulla bocca del Paese. Si era partiti dal 1955. Nei decenni Mike è sempre stato lui, uguale a se stesso, ma capace di invenzioni ed evoluzioni decisive, storiche, e non soltanto in chiave di audience, ma di mercato. Chi non ricorda l’Oreal? Che deve a Bongiorno il fatto stesso di esistere, e altri prodotti, a decine. Mike era il prodotto, ma non un testimone monocorde e stucchevole, non era un uomo sandwich, continuava ad essere Mike&prodotto. Compravi il profumo e ti portavi a casa anche Mike. Inconsciamente il suo gesto, il suo linguaggio, la sua voce erano perfetti per la gente, erano la gente: tutto scontato, già visto e sentito, e tutto semplice e facile, e comprensibile, insomma irresistibile. E così tutti guardavano il programma di Mike e compravano il prodotto che ti indicava. Ed è stato così per decenni. È stato così fino ad ora: anche in questi giorni Mike ci sta vendendo Infostrada. C’è la famosa leggenda di Mike ignorante. E non è una leggenda. Se fosse stato colto sarebbe stato un altro, e certamente di minor successo. Persino Umberto Eco si dedicò a lui scrivendo addirittura un saggio, Fenomenologia di Mike Bongiorno. L’accademico faceva una tac impietosa dell’ignoranza del presentatore. Quando glielo dissero Mike domandò “Eco? E chi è?” Non conoscendo Eco ecco che non esisteva l’autore del saggio, non esisteva il saggio e neppure l’ignoranza di Mike. C’era semplicemente lui, che era così, conosciuto e amato più di Eco, amato da tutti. Anche la gestione dell’ignoranza è stata virtuosa, Mike ne ha fatto un’arma ma di rimessa, a difesa, a divertire, non a offendere, prerogativa invece di un altro grande incolto, tuttavia ignaro del proprio limite, Celentano. Bongiorno non ha mai preteso di insegnarci il paradiso, o l’illuminismo, o la politica. Nel ’56, nel momento eroico della sua popolarità Luigi Zampa lo volle per un film, Ragazze d’oggi. Mike è il fidanzato di Marisa Allasio, fa l’interprete all’aeroporto, è di idee moderne, aperte, dibatte col futuro suocero Paolo Stoppa, padre vedovo di tre figlie. I due fidanzati prendono una decisione importante, coraggiosa allora, vanno in un motel. Ma al dunque rinunciano, aspetteranno di essere sposati. L’Italia era questa e Mike era l’Italia. E chissà quante mamme, visto quel film, avranno detto alle figlie: “Ecco, impara da Mike Bongiorno. Quando nei primi anni ottanta Berlusconi fondò Canale 5, delegò a Mike Bongiorno gran parte del progetto, e Mike portò, oltre all’audience anche gli sponsor. Fu un’operazione vincente. Mike, già allora, non era più giovane, eppure il suo appeal, il suo essere-la-tivù, sorpassarono certi codici legati al gusto e all’età dell’utenza. Era trasversale rispetto alla famiglia. Lo vedevano le due

generazioni più grandi e, di riflesso, magari senza entusiasmo ma con curiosità, la terza generazione, i nipoti. È stata questa la sua magnifica anomalia, l’essere il Bongiorno di tutti per tutto quel tempo. Poi i programmi dei quiz hanno assunto altri format, altra aggressività. A condurre c’erano gli Scotti e i Conti. Ma il quiz era sempre Mike, quello sopra le categorie, l’unicum del piccolo schermo e della nazione, indispensabile e non rintracciabile, tanto che la grande telefonia, per andare sul sicuro, vicino a un testimonial superaccreditato della fascia giusta, Fiorello, ha dovuto porre l’eroe che aveva coperto tutto il tempo della televisione.   LUCIANO EMMER: QUANDO ERAVAMO BRAVI   Parto dalla mia stucchevole affermazione (e riaffermazione) rispetto al cinema italiano di adesso: la posizione dell’innamorato tradito perché “c’era un tempo in cui eravamo i più bravi, mentre adesso”. Luciano Emmer, classe 1918, apparteneva a quel cinema. Mi è capitato di rivedere in TV Le ragazze di piazza di Spagna, proprio nei giorni di Venezia: dopo decine di film di oggi, Emmer mi è sembrato una boccata d’aria fresca. Credo che “Le ragazze” possa benissimo rappresentare (in parte, perché il regista ha fatto davvero tante cose) la sua attitudine. Voleva bene alla gente.

È la vicenda di tre ragazze, la famiglia, i fidanzati, ricchezza e povertà. Lucia Bosè, bellissima, viene tentata dall’alta moda e da quell’ambiente, ma rimane con l’operaio Salvatori. Un’altra, delusa da un bellimbusto, incontra il tassista Mastroianni (doppiato da Manfredi) e sarà felice. La terza, corteggiata dal bassetto, vorrebbe solo dei giganti, ma l’amore sta nel bassetto. La madre della seconda prova un sentimento per Eduardo, sono educati e generosi. Si uniranno solo dopo che la figlia si è sistemata. Roba sorpassata, magari risibile, tutto che si compone, il lieto fine. Però, rivedendolo... Emmer non aveva la popolarità metafisica di un Mike Bongiorno, non ci saranno funerali di stato, eppure fa parte della cultura, della memoria, e dell’educazione italiana. Il dato è decisivo, sarebbe metafisico: Emmer ha inventato Carosello. Il siparietto, la musichetta, si devono a lui. Cultura in questo senso. Nel ’95, in occasione di un programma per i cento anni del cinema, su Retequattro, proposi Domenica d’agosto, di Emmer. Gli telefonai. Lo blandii, gli raccontai la sua storia, capì che ero sincero. Ma declinò. E mi disse la ragione: “Mi scusi Farinotti, ma io sono un po’ imbarazzante”. Gli domandai perché. “Perché porto una benda su un occhio.” Gli dissi che anche Ford, Walsh e Ray ce l’avevano. Rispose: “Appunto, non li ho mai visti in televisione.” Considero Domenica d’agosto un film all’altezza dei grandi titoli storicizzati del cinema realista. È una storia di spiaggia. Il lungomare di Ostia, rigorosamente diviso in settori per ricchi e per poveri, ospita gente diversa. C’è sempre Mastroianni, questa volta doppiato da Sordi, e poi Interlenghi che si finge ricco ed è povero, soprattutto c’è Cigoli, il grande doppiatore (Cooper, Wayne, Bogart, Gable, Peck fra gli altri), il vedovo che privilegia la sua bambina rispetto a una fidanzata “inadatta”. Fu il primo film del genere “spiaggia”, ripreso nei decenni successivi, fin troppo, con titoli di comicità di basso profilo, che non contenevano la qualità del realismo del primo modello. Dopo trent’anni senza cinema, nel 2003 Emmer firmò L’acqua… il fuoco, con Sabrina Ferilli. Non aveva dimenticato come si fa il cinema Le sue storie apparentemente ingenue sottendevano comunque responsabilità e dolore, e anche cultura vera, portate da uno che, come ho detto, amava la gente. Cultura significa anche esprimersi attraverso molte centinaia di spot pubblicitari e attraverso documentari di pro - lo molto alto su artisti come Goya, Leonardo e Picasso. Luciano Emmer appartiene all’epoca di “quando eravamo i più bravi”.   KIM BASINGER: L’EVOLUZIONE DI UN SEX SYMBOL   The Informers, con Kim Basinger, è uscito nel 2009. Quando una diva che è stata bella, bellissima, simbolo sessuale, continua ad accreditarsi con uno di quegli aggettivi, “bellissima”, e si impone anche come grande attrice, è una notizia che fa bene al cinema, fa bene a tutti. Una volta Ingrid Bergman dichiarò: “a un certo punto, intorno ai 39 anni, arriva un produttore sorridente che ti dà un copione dicendoti ‘tutti si accorgeranno che non sei solo una bellissima donna, ma anche una grande attrice’. È un brutto segnale, significa che il meglio è passato. Certo ho fatto personaggi magnifici anche dopo i 39 anni, ma non ho più potuto fare una Maria di Per chi suona la campana.” Sappiamo che la Bergman ha gestito al meglio le fasi mature della sua carriera, ma un’attrice è smarrita di fronte all’inevitabile cambiamento di status, e una sex symbol è molto più che smarrita, si trova ai confini di un trauma che può diventare pericoloso. Intelligenza Kim Basinger ha superato questi stadi grazie alla sua intelligenza, semplicemente. Ci sono dive che stanno scivolando verso fasi diverse con discrezione, magari non voluta, magari imposta. Stiamo vedendo una Meryl Streep prendere di petto le fasi della carriera,

magnificamente, ma non è mai stata una bellissima, il tempo è certo un suo nemico, ma non implacabile. Non c’è dubbio che Demi Moore sia penalizzata dall’immagine di sex symbol quasi puro che le apparteneva. Sharon Stone, altra grande “erotica”, quasi omologa di Kim, forse non è altrettanto brava. Michelle Pfeiffer è a metà strada, è sempre stata brava&bella, deve solo adeguarsi a privilegiare il primo versante, sì, con un certo dolore. Fra poco il problema si porrà a Julia Roberts, e fra non molto a Nicole Kidman. Anche perché le giovani premono spietate. È sempre la vicenda di Eva contro Eva. Eroico Kim ha 57 anni, dal suo momento eroico, 9 settimane e mezzo, ne sono passati più di 20. È molto tempo, per la personalità e per il corpo. Negli anni della grande avvenenza la cifra di Kim era l’erotismo, non in prevalenza ma in assoluto. Molti sondaggi, di ogni genere, la indicarono come la donna più sexy del suo tempo, se non di tutto il tempo del cinema. “Più di Marilyn” dissero molti. Pareva che possedesse una sola velocità, e un solo regime di giri, altissimi. Che il suo destino fosse la caduta libera. Dal massimo dei giri allo zero. Invece l’attrice, sorprendendo tutti, ha saputo evolversi nel migliore dei modi. Il confine dei 39 anni naturalmente non è più quello dei tempi della Bergman. Le cure, l’alimentazione, la palestra e la chirurgia lo hanno protratto, anche di molto. Comunque i quarant’anni non sono i trenta, e così via. Kim ha saputo essere una magnifica quarantenne, poi cinquantenne e adesso quasi sessantenne. Il passaggio da modello erotico a modello interessante per una diva, quasi sempre, significa tramonto, ma Kim Basinger è riuscita a opporsi ad aggirare quella regola, si è assestata nell’ordine delle “brave” continuando ad essere sexy. Non è poco. Una didascalia può essere “lo deve alla letteratura”. Letteratura The informers è diretto da Gregor Jordan e tratto da un racconto di Bret Easton Ellis. Siamo a Los Angeles negli anni Ottanta. Kim è Laura, che ha avuto una vita complicata, col marito, coi figli, con tutto. È stata tradita e ha tradito. Cerca di rimettere insieme tutto quanto, ma ambiente, passato e attitudini ormai radicate, non glielo permettono. Fa parte di quella cultura americana, soprattutto dell’ovest, secondo la quale puoi avere molto, magari tutto, ma non è mai abbastanza. Bret Easton Ellis, è decisivo. È autore vero, è un culto delle nuove generazioni. Da suoi libri sono stati tratti Al di là di tutti i limiti e soprattutto American Psycho, che i giovani ben conoscono. Ellis è letteratura, non solo racconto, significa che non fa parte di coloro che scrivono un romanzo già pensando al film: alla King o Clancy o Grisham. Un altro scrittore vero, James Ellroy, nel 1997 ha permesso alla Basinger di vincere l’Oscar in L.A. Confidential. Kim dava corpo e volto a una squillo che si ispirava a Veronica Lake, la diva degli anni Quaranta dalla lucente e liscia chioma platinata. Si può dire che la nuova parabola dell’attrice è cominciata proprio lì. Era ancora “sex” ma era già brava. Il grande Ellroy (Black Dahlia fra gli altri) era il suo garante. Un altro garante sarebbe stato John Irving, autore del romanzo Vedova per un anno diventato poi il film The door in the floor, dove Kim è Marion, una madre cinquantenne che ha una relazione con un ragazzino. È spesso nuda e davvero non sfigura. Irving è considerato uno dei massimi scrittori americani contemporanei. Una misura della sua qualità sta nel fatto, tutt’altro che paradossale, che i suoi libri sono ostici al cinema. Il suo capolavoro Il mondo secondo Garp ha avuto una trasposizione banale, lontanissima dalla qualità del libro. Dunque Kim Basinger, guardando alla letteratura vera si è presa anche i suoi rischi, ma ha prevalso. Non resta che aspettarla con altri scrittori, in altri decenni.   GLI EROI NON SI REMAKANO

  Due puntate televisive per rifare Sissi, la trilogia che a metà degli anni Cinquanta incantò tutti. I tre film con Romy Schneider e con Karlheinz Böhm nel ruolo dell’imperatore Francesco Giuseppe, davvero possedevano tutte le qualità per accreditarsi come leggenda dello spettacolo. Un modello perfetto, un unicum. Amore, drammi, eccesso ma tollerabile di mélo, sangue blu, castelli e cottage alpini, ricchezza e povertà. Divenne un sempreverde, faceva testo. Nei passaggi televisivi, stagione dopo stagione, non perdeva un telespettatore, anzi ne seduceva altri, generazione dopo generazione. La Rai è sicura del grande successo. L’audience sarà da record. Non c’è alcun dubbio. Il remake televisivo è la via più semplice, una sorta di scarico di responsabilità. Non accetti la Sfida col campione e col “campione”. L’esempio che fa testo in questo senso è Via col vento. Non se la sentirono di affrontare quel gigante, il film dei film, e allora ne fecero un sequel televisivo senza alcuna nobiltà, con due attori, Timothy Dalton e Joanne Whalley Kilmer, lontanissimi dall’appeal dei protagonisti originali. C’è poi il remake-tv fisiologico: un titolo superclassico da rivedere in ogni epoca. Vale I promessi sposi. Nelle varie edizioni gli autori ritengono di arrogarsi una rilettura rispetto al momento, al sociale, alla moda. Nel 2004 Francesca Archibugi firmò un’edizione dei Promessi Sposi, titolo Renzo e Lucia, in cui è Lucia a sedurre Don Rodrigo. Era parsa una buona idea usare quel “carattere” evolvendolo rispetto ai tempi, insomma una Lucia tutt’altro che dimessa, ma aggressiva. Una donna del 2000, non più del 1600. E poco importava Alessandro Manzoni. Ci sono poi i remake fisiologici ma da sala. Superclassici Titoli come Amleto, o Romeo e Giulietta, o I tre moschettieri, o Anna Karenina. Superclassici rivisitati e comunque sempre prevalenti. Con evoluzioni anche ardite, magari bizzarre, come il Romeo+Giulietta di Luhrmann dove Romeo-Di Caprio recita il testo di Shakespeare, ma nella Los Angeles del 1996. E comunque in questi casi non è il cinema a comandare, ma sono Shekespeare, Dumas e Tolstoj. Insomma, il remake, e il cinema corrono pochi rischi. Poi ci sono i grandi classici rifatti. E lì il terreno è avventuroso, a dir poco. Sono circa 200 i remake. Nell’era recente alcuni possono far testo. C’è la piccola saga di Colpo Grosso da Ocean’s 11 a Ocean’s 13. Rispetto all’originale del 1960, i remake sono patinati e scoppiettanti di effetti speciali. Tuttavia la sensazione è che gli eroi supersexy e superefficienti Clooney, Pitt e Damon non reggano il confronto con Sinatra, Martin e Lawford, che saranno stati meno organizzati e tecnologici ma erano degli amici. Hitchcock infine due giganti, un titolo e un autore. Psycho di Hitchcock. C’è chi ha tentato il confronto: armi convenzionali contro il nucleare. Per il suo Psycho, Gus Van Sant, ha ripercorso sequenza dopo sequenza, esattamente la strada di Hitchcock. Non ha voluto correre rischi. L’unica licenza se la prende Vince Vaughn nella parte di Norman Bates. Contrariamente a Anthony Perkins, che osserva dal buco nel muro l’ospite nuda rimanendo immobile, Vaughn si masturba, meglio lo fa intuire, perché l’inquadratura rimane in primissimo piano. Dando corpo e volto al principe degli psicopatici del cinema, Perkins aveva creato un altro precedente che faceva e fa testo. Inavvicinabile. Da Hitchcock non si può prescindere. Recentemente abbiamo assistito a una miniserie televisiva della Rai, Rebecca, che ha imbarazzato un po’ tutti. Con un segnale che un pochino inquieta, la seconda moglie era proprio la Capotondi che per charme e nonrecitazione non rimbalzò, ma si sciolse al cospetto di Joan Fontaine. Il regista Andrew Davis, e gli attori Michael Douglas e Gwyneth Paltrow si sono confrontati rispettivamente

con Hitchcock, Ray Milland e Grace Kelly nel remake di Delitto perfetto. Interpreti certamente adeguati, i “giovani”. Ma l’aggettivo non è sufficiente a contrastare quella gente e quel precedente, certamente statico ma titolare di quel mistero non misurabile che sa trasmettere Hitchcock. La maggiore violenza e la dinamicità delle location, e la mano di Davis, le misuri e come. Ma rimangono lontane dal primo modello. Fantascienza Un genere che sembrerebbe davvero privilegiato dal progresso è i fantasy. L’evoluzione degli effetti speciali è stata esponenziale, è la cifra che identifica il cinema contemporaneo in assoluto. Certi trucchi della vecchia fantascienza, ingenui, maldestri, scoperti, ci fanno davvero sorridere. Nel 2005 Spielberg ha rifatto La guerra dei mondi, dal libro di Wells che aveva ispirato l’edizione di Haskin del ’53. Sappiamo che Spielberg dispone di superpoteri e di supermarchio, ma il suo film risulta un compito bene eseguito, un po’ confuso, elefantiaco, e soprattutto senza mito. Un altro ‘Wells’, La macchina del tempo, ha avuto una versione (legittimo definirla) classica dal titolo L’uomo che visse nel futuro. È ingenua e pulita. La famosa macchina sembra un giocattolo déco, il mondo futuro presenta esseri antropomorfiridicoli, ma il remake del 2002 è complicato, si avvita su se stesso, “la macchina” è un aggeggio ultrasofisticato, ma ti manca quell’estetica sorpassata, e non vedi l’ora che il film finisca. Western Il western è sacro. Il genere è fatto di codici semplici e ripetitivi, di ingenuità (ancora) e di richiami etici sfuocati, e lì la tradizione pesa più che da altre parti. Autori che hanno cercato di rifare il genere sono stati, quasi sempre, respinti. C’è un remake suggestivo, Quel treno per Yuma. L’impianto del nuovo è simile all’impianto della matrice degli anni cinquanta. Il cattivo deve essere portato dal buono in un’altra città e alla fine diventa un po’ meno cattivo. Il linguaggio e il mercato hanno portato a un’evoluzione che si rileva soprattutto nella violenza. Il cattivo Crowe uccide un paio dei suoi carcerieri con una spietatezza incompatibile con chi, comunque, un pochino si redime. E poi nel remake ci sono troppe chiacchiere, tutto è spiegato, filosofie ed astrazioni che il western delle stagioni dell’oro davvero non contemplava. Gli eroi tacevano, oppure dicevano una frase per volta. Interessante è la contaminazione in Le quattro piume, un altro titolo che presentò a suo tempo declinazioni perfette. I fratelli Korda ne avevano prodotto due versioni identiche (’39 e ’55), cambiavano solo gli interpreti. Il film racconta della spedizione inglese nel Sudan per punire l’uccisione del generale Gordon, e per riprendersi il Sudan. Era un fatto squisitamente britannico, per cultura, anche per cultura colonialista. Il regista Kapur, nel remake del 2002, inserisce un personaggio che non è dei film precedenti e non è del romanzo di Mason: un nero che parla come mediatore fra le due civiltà. Un’evoluzione “politicamente corretta”. Forse perché Kapur è indiano e in qualche modo una memoria colonialista se la portava ancora dentro. Lesa maestà Concludo col peggior delitto di lesa maestà. Altra coppia di giganti: Wilder e Sabrina. Audrey Hepburn, non solo creava un precedente a sua volta inavvicinabile, ma costringeva la protagonista del remake di Pollack, Julia Ormond a sembrare la governante della principessa. Van Sant, ottimo regista e Pollack, grande regista, di fronte ai giganti rimbalzavano. Il convenzionale contro il nucleare. Dura, la vita del remake. Ma forse non è un fatto di nomi o di titoli. O di opere perfette che non possono essere toccate. Sempre di cinema trattasi, non dell’Odissea o di Amleto. Forse vale il tempo e il sentimento. È impossibile ritoccare quel passato, è come intervenire sui ricordi, o farli rivivere. La memoria si difende, e non solo quella dei cinefili, che sarebbe il meno, ma quella di tutti. Toccare l’ingenuità di quel vecchio cinema: forse il peccato è proprio questo,

non veniale.   BEATA LA TERRA CHE NON HA BISOGNO DI ANTIEROI   A Venezia, col suo Antichrist, Lars von Trier si è messo a nudo, completamente, e il “corpo” si è mostrato sgradevole, devastato. E “completamente” aggiungo “crudelmente”, per sé e per noi. Lars nudo non è stato un bello spettacolo. E dico: nessuno obbliga nessuno ad andare al cinema. A vedere Antichrist va poca gente, e questa è la buona notizia. Ma ce n’è una migliore, Lars è stato sconfessato persino dai suoi amici, dai critici. Da anni dico che Trier è il grande sopravvalutato, possiede una parte di talento, ma parziale. Nella prima sequenza del film marito e moglie fanno l’amore anzi, fanno sesso, con trasporto estremo: con tanto di breve stralcio hard: un passaggio veloce di membro in azione, può essere utile. Così il loro bambino, distratto da qualcosa che ha visto fuori dalla finestra, si arrampica e riesce ad aprirla. Dolcemente, fra i fiocchi di neve, nelle note e nelle parole di Handel “Lascia ch’io pianga/ mia cruda sorte/ e che sospiri la libertà…” il bimbo precipita e si sfracella al suolo. Il senso di colpa assale la coppia. Lei quasi ne muore, lui, più forte e cinico, terapeuta di professione, si prende la responsabilità della cura della moglie. Da quel momento i due si dilaniano. Il regista non ha nessuna pietà o attenzione o mediazione, non fa prigionieri. Pesca nel proprio profondo, e fa emergere il vero se stesso. Sadomaso Dunque terapia sadomaso, streghe e demoni, animali simbolici-disenso-di-colpa che parlano, la casa horror nel bosco, come farsi male (in coppia) il più possibile, macina da mulino sigillata-non-estirpabile-a-coscia, e taglio di clitoride con forbice da parte di moglie, e masturbazione con schizzo di sangue. Con metafora finale dell’inferno, o del castigo. A Trier sta a cuore che gli esseri umani debbano soffrire fino alla fine, possibilmente morire. Sta a cuore che agli esseri umani (meglio se donne) non venga concessa speranza. Nel suo Dancer in the Dark, la giovane Selma, operaia cecoslovacca emigrata in America, malata di cecità progressiva, risparmia i soldi per curare il suo bambino che ha la stessa malattia ma è operabile. Un poliziotto le ruba i soldi, lei lo uccide. Potrebbe salvarsi dall’impiccagione ma preferisce usare il denaro per la cura del figlio. La impiccano e Trier ti fa sentire anche il rumore del collo che si spezza. Nelle sue storie Trier parte dalla speranza e dalla dolcezza per poi finire così. Ci mette talento, passione e compiacimento. Diritto L’assunto è che un artista ha diritto a tutto, a tutti gli estremi, a rappresentare tutte le proprie patologie, dalla morbosità all’arco completo dei vizi reconditi. Un assunto magnifico al quale corrisponde un diritto: quello dello spettatore di non andare a vedere i film di quell’artista. Ma questa volta c’è di più e non riguarda il pubblico, ma i fedelissimi di Trier, che sono i critici. A Venezia, durante la proiezione riservata proprio alla critica, la platea assisteva silenziosa, c’era disagio tattile, fino a quando la volpe portatrice di complesso di colpa dice al terapeuta: “Il caos regna”, e lì si è levata la prima risata, ed è stato l’inizio, il credito dell’autore non ha più tenuto, ha cominciato a sgretolarsi, e fra fischi di decibel sempre maggiori, il muro di Trier è crollato. Deluso, arrabbiato, offeso, Lars ha detto che quel riscontro non gli interessava, che lui aveva sempre fatto i film solo per se stesso. L’artista era nudo, anche il quel senso. Questo film, “cattivo” a oltranza, è anche una dichiarazione estrema di onestà. Tutto il film è occupato dall’attitudine, dalle patologie, dal privato, dalla vita senza ideologie. Non c’è spazio per altro, neppure per il sociale, che pure è sempre stata un’opzione prevalente per il regista. Del resto tutto questo viene preventivamente dichiarato in prima persona nel

pressbook: “Vorrei invitarvi a un piccolo sguardo dietro il sipario, uno sguardo nel buio mondo della mia immaginazione, nella natura delle mie paure.” Non amore È trasparente il non amore del regista verso gli esseri umani, privilegiando, le donne. Non conosco Lars e non ho gli elementi per dire che odi se stesso. Ma applicando i termini dell’equazione dei suoi film si può azzardare: odia se stesso e molto, ama far del male (al pubblico) per farsi fare del male. Ci si domanda cosa può fare ancora. Antichrist dichiara tutte le logiche per essere l’opera ultima, il testamento finale. Quali evoluzioni sono ancora possibili nella “poetica” dell’artista? Altri autori, alla fine, avevano detto tutto ed erano stanchi. Come Fellini, che era rimasto senza energia così come i suoi scrittori, o Bergman che si ripeteva senza l’ispirazione dei tempi migliori. L’ultimo Wenders si rifugia nelle piccole passioni private, come la musica: ha concesso moltissimo, adesso concede solo a se stesso, ma senza odiare o farsi odiare. L’inverosimile de Oliveira (102 anni) prosegue imperterrito, uguale a se stesso, nella sua stucchevole noia di qualità. Anche Woody Allen concede sempre di più al proprio recondito, ma è leggero e fa ridere, e non è poco. Anche Pasolini alla fine si era concesso troppo del proprio recondito. Lo ha trasmesso arbitrariamente, senza discrezione, con quei suoi ultimi film senza limiti e salvaguardia. E per lui non era un fatto di senilità, valeva la frase di Trier “faccio i film solo per me stesso” con in più quella cifra pericolosa che poi è emersa con la sua fine. Peccato, ha compromesso la sua opera prima della tracimazione. Errore Trier non ha neppure cinquant’anni, dunque non è senilità, ma ha commesso un errore di valutazione, grave per un artista: la presunzione di essere accreditato, di possedere l’attestato di maestro, di essere esempio ed eroe, e dunque di aver diritto alla franchigia e magari all’immunità. Quei maestri, quei “legislatori” ci sono, soprattutto ci sono stati, nel tempo, anche lontano, e hanno lasciato un segnale al quale noi utenti ci ispiriamo, al quale ricorriamo nei momenti utili. Questi sì, si sono guadagnati franchigia e immunità. Tier non è fra costoro. Crede di esserlo. “Faccio i film solo per me stesso”. E allora semplicemente, ingenuamente si potrebbe rispondergli: “E allora guardateli tu, da solo”. La mia speranza, e l’augurio (e anche coerentemente il suo) è che nelle sale dove proiettano i suoi film, ci vada poca gente, poi pochissima, poi nessuno. A così Lars avrà realizzato, ancora una volta “in estremo” la propria filosofia e missione: una sua opera proiettata in una sala vuota. E voglio, a mia volta, andare oltre, come estremo. Nella sala non entra neppure lui. E avanzo ancora: sala vuota, macchina senza operatore che proietta in automatico, e la macchina che si autoguasta. La sala, il buio, la pellicola interrotta. Il niente. Così come l’artista ha diritto a tutto, lasciamo a chi scrive il diritto alle proprie fantasie e speranze. Quando un autore si prende la responsabilità della tracimazione, la riconosce e la riconferma, allora sono fatti suoi ed è cinema suo. Il pubblico non c’entra più. Che Antichrist sia l’ultimo.  

  CINEMA E POLITICA     QUESTO MIO GESU’ SOCIALISTA   I due Gesù che danno corpo allo spot del Partito Socialista nella campagna elettorale 2008 sono Ted Neeley e Alessandro Etrusco. Il primo, protagonista di Jesus Christ Superstar, il secondo di 7 km da Gerusalemme. Lo spot dichiara: “È lui il primo socialista della storia, il simbolo della speranza fra gli uomini. Chiudi il cerchio ora, vota socialista.” Sul piano della trovata, dell’efficacia, dello scoop, nulla da obiettare, il richiamo è potente. Si potrà dire che è (malamente) strumentale, furbastro, blasfemo, magari grottesco, ma non c’è dubbio che svolga il suo compito con puntualità. Si fa notare. Infatti è diventato attenzione, poi curiosità, poi curiosità-forte, poi titolo, poi fatto del giorno, poi scandalo. Il percorso, perfetto, che porta alla vendita. Chi ha pensato questa campagna è furbo e bravo. La mistica, la morale, il buon gusto, quando si tratta di vendere, si sa, vengono tenuti da parte. Voglio rilevare un precedente, magari più elegante, un richiamo estetico e ancestrale: quando chi inventò la Democrazia Cristiana pose al centro del simbolo una grande croce. Poi c’è l’altro aspetto, il rovescio della medaglia: la reazione, la protesta, la protestaforte, il disgusto, la ribellione; il contro-percorso normale, automatico, previsto. La prima obiezione è naturalmente questa: Gesù non è patrimonio solo dei socialisti. Soprattutto non sarebbe patrimonio di Boselli che qui flirta con lui dopo aver lanciato il proclama dello stato laico a oltranza (come ultima speranza) e dopo aver combattuto a favore dell’aborto e delle coppie omosessuali. Tuttavia il concetto, in una certa chiave, può essere ritenuto corretto. E vado oltre, voglio estremizzare: il Gesù che annuncia “è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare in paradiso”, non ha solo accenti socialisti, ma comunisti, di quelli gagliardi anche (lo dico sempre in astrazione: nulla a che vedere con il “comunista” Stalin, giusto per citare un nome). C’è un forte desiderio di tutela verso i poveri e gli afflitti: voi non possedete nulla, ma vi difendo io. E alla fine, questa è una delle sue grandi indicazioni. Dunque, il Gesù che si rapporta in astratto con “qualcosa di socialista” ci può stare. Poi ci sono i socialisti, gli uomini, i nomi, i capi, parlo degli ultimi e dei penultimi: Craxi senior, De Michelis, Craxi junior, Boselli. Credo che dovunque si trovi – e io sono uno che crede che da qualche parte si trovi – in Gesù alberghi qualche perplessità, magari qualche fastidio. Se fosse ancora “in essere” il Dio dell’antica alleanza, quello vendicativo, che non scherzava, quello che richiudeva le acque del mar Rosso sopra i nemici del suo popolo, qualche prurito i signori del Partito Socialista dovrebbero sentirlo. Al creativo che ha inventato, lo ribadisco, va riconosciuta, se non l’immunità, una franchigia forte, ha fatto il suo lavoro. In attesa di vedere una sua pubblicità con protagonista Buddha, o il diavolo. Sono legittimato a dire la mia. Alessandro Etrusco, il Gesù scelto dal regista Claudio Malaponti, è la rappresentazione esatta di come lo avevo creato nel romanzo. È l’icona perfetta tramandataci dalla storia, dall’estetica e dalla scrittura. Tanto che quando incontra il pubblicitario Alessandro dalle parti di Emmaus si sente dire: “Sei come dovresti essere, sei ridicolo, sembri scappato da un quadro”. E il Gesù risponde: “sono come mi immaginate, dovresti capirlo, sei un pubblicitario.” Ma l’aspetto è l’unico codice convenzionale. Gesù cita alcuni personaggi coi quali l’umano si è rapportato, come esempi condivisi e graditi. Fra questi ci sono un

ingegnere ateo e una lesbica madre per inseminazione artificiale. Di fronte alle perplessità di Alessandro il Gesù risponde: “Ma sono le persone più generose del mondo, non potevo ignorarlo.” Riferendosi alla Chiesa aggiunge: “Il sistema scricchiola, sono tornato anche per questo.” È un Dio critico, che si assume responsabilità nuove. Alessandro lo guarda: “Stai dicendo cose enormi” e lui risponde “se permetti, le ho sempre dette”. Alessandro: “Vuoi dirmi che sei diventato progressista?” “Sono stato il primo”, conclude Gesù. “Socialista”, dunque, sembra davvero un concetto annacquato. Naturalmente rimane la perplessità sull’uso parziale e strumentale. Sul dolo. Rimane il fastidio doloroso di vedere Gesù “a servizio” di qualcosa che certo non è sociale, ma politico, o peggio elettorale. Come ho detto sopra, sono affezionato a quel personaggio, reagisco se lo vedo maltrattato. E penso che quell’eccesso di furbizia spesso si rivela un boomerang per chi ha speculato. E qui l’ultima considerazione non è sulla morale, il buon gusto eccetera. È sul marketing. Perché la mia speranza non riguarda il Partito Socialista. Va oltre. 7 km di critica Un settimanale di settore che si occupa di cinema e tivù ha attribuito al film 7 km da Gerusalemme un giudizio negativo (firmato M.G.), un pollice verso. Naturalmente ci sta, perché niente, davvero niente, è più discrezionale del cinema. Viene detto che “le trappole erano già nel testo di partenza (un romanzo di Pino Farinotti), con simbologie che appaiono troppo spiegate e i significati che diventano didascalici. Anche questo ci sta: è discrezionale. Ma viene anche detto che la “parabola è quanto di più vicino a una pagina di catechismo di quanto ci si potesse aspettare”. E questo è sbagliato. E il mio giudizio non è discrezionale, viene da dati oggettivi, che spiego. Ma prima ritengo di dover ricorrere (come si fa nei film) a un flashback utile, che riguarda il romanzo. “7 km” ha, tuttora, centinaia di migliaia di lettori in molte lingue e in tutti i continenti. In Italia è uscito anche in tascabile, il che è, si sa, segnale concreto del best seller. Il libro ha vinto il Premio San Vidal – dialogo fra culture –, e il Premio Maria Cristina, che presentava nella cinquina flnale Bevilacqua, Scaglia e Sgorlon, autentici primatisti di premi e di letteratura. Il contenuto del film, dunque il libro, ha ottenuto anche il premio Unesco, come ponte interculturale. Trattasi di riconoscimenti molto alti, ben più che “discrezionali”, che andrebbero anche a contrastare i due giudizi (troppo spiegato, didascalico) espressi sopra. I lettori nel mondo, le giurie, gli editori, l’Unesco: non possono davvero essere tutti “catechisti” o sprovveduti. Poi c’è il catechismo. Rimanendo davvero all’essenziale, perché tutto, letteralmente tutto il racconto è “anticatechismo”, faccio qualche citazione. Va detto che il protagonista Alessandro, esattamente alla fine di ogni capitolo, mette in dubbio l’esistenza del suo interlocutore. Ogni volta gli chiede: “Chi sei?” Inoltre gli dice: “Sei ridicolo, sei come dovresti essere, sembri scappato da un dipinto del cinquecento.” Il Gesù (sempre che lo sia) gli risponde: “Sei un pubblicitario dovresti capire bene perché ho assunto questa sembianza, a Calcutta avrei avuto un altro aspetto”. Dichiarazione (oggettivamente) pesante. Davvero poco “catechismo”. Il Gesù, parlando del sistema della chiesa dice “non si è evoluto, scricchiola, sono qui anche per questo”. Sono decine i pronunciamenti in questo senso. Ne racconto solo altri due, decisivi. L’umano chiede al Gesù della sacra sindone. Il Gesù risponde ambiguamente. Alla fine confessa che quell’immagine non è la sua, ma del ladrone non pentito. E qui siamo all’opposto del catechismo. Nel libro c’è un episodio non rappresentato nel film. Riguarda Cesara Guidi. È una donna che vive per la gente, aiuta, si sacrifica, si logora in quel senso. Ed è lesbica. Decide per l’inseminazione, a Lovanio. Ha un bambino e sarà un’ottima mamma.

Alessandro dice al Gesù: “Gradisci Cesara, lesbica, madre contro natura” Il (forse) divino risponde: “Ma è la persona più generosa del mondo, non potevo più ignorarlo”. Davvero poco catechismo. Davvero poca ortodossia. Anzi, una parte della chiesa si è molto, molto arrabbiata. Significa che il signor M.G. ha letto il libro distrattamente. Ho molta comprensione per chi fa il recensore. Giuro che non c’è un critico (lo dico da critico) che non vorrebbe essere romanziere, o sceneggiatore, o regista, o magari, aspetto permettendo, attore. Di successo naturalmente. Scrivere libri che vanno nel mondo, che sono riconosciuti, che diventano film e soprattutto fanno bene alla gente, è più bello, importante e utile che scriverne la recensione. È magnifico fare un’opera ed essere criticati da una sigla. Per chi è costretto ad esprimersi in 21 righe su una testata che fa testo, al contrario, può essere davvero liberatorio, e terapeutico, applicare quel pollice verso. Due parole sul film Il film è stato girato in gran parte in Siria, nelle zone di Palmira, Maaloula, Damasco e Aleppo ed è uscito nelle sale italiane a Pasqua 2007. I siriani hanno accolto “7 km” supportandolo produttivamente, ma soprattutto trasformandolo in una sorta di ponte verso l’occidente. La storia di un italiano che incontra (forse) Gesù è stata intesa come occasione spirituale e culturale, e anche politica, per mostrare disponibilità in un momento in cui la Siria viene considerata dagli occidentali un paese “sospetto”. La commissione che ha esaminato la sceneggiatura ha avallato il progetto all’unanimità. Il personaggio chiave è stato Ahmed al Din Hassun, il gran Mufti, massima autorità religiosa della Siria, secondo il quale Gesù, profeta e uomo riconosciuto e onorato assunse e assume in questa rappresentazione, la funzione di unire i popoli. Un altro avallo decisivo lo si deve a Asma, moglie del presidente Bashar al-Assad. La first lady ha rilevato l’occasione di una storia dai contenuti così profondi, come apertura verso altre culture e religioni. Gli italiani hanno potuto girare in zone fino ad allora off-limits, come l’aeroporto. Comparse musulmane hanno indossato abiti israeliani, in un caso, da rabbino. 24 mezzi della produzione hanno girato per la Siria recando una grande locandina col titolo rappresentato anche in caratteri arabi e dove le bandiere italiana e siriana si integrano l’una nell’altra. Il 15 luglio del 2005 si è tenuta a Damasco la conferenza stampa. Il giorno dopo i maggiori quotidiani siriani ne riportavano in prima pagina immagini e contenuti. Due emittenti siriane, una libanese e quella degli emirati arabi ne hanno trasmesso lunghi stralci. Nel quadro dei rapporti che la produzione ha innescato un ruolo molto importante è rappresentato dall’ingegner Nabil Toumeh, personaggio per molti versi straordinario. È il proprietario del gruppo Toumeh International (una delle più importanti società del medio oriente) di cui fa parte la Orient, che ha fatto da service a “7 km”, ha interessi nella televisione, è editore cartaceo al massimo livello: libri, magazine. È laureato in ingegneria e filosofia, ha vissuto e studiato in Germania. È un autentico umanista. Si definisce uomo di pace, così come “gente di pace” afferma “sono i siriani”. Nabil ha assunto quel ruolo con passione. La sua personalità è un efficace scudo, una protezione sicura per un progetto che comunque va considerato “delicato”. Nabil Toumeh si è fatto promotore di un’iniziativa con il Ministro della cultura siriano volta ad organizzare l’anteprima mondiale del film a Damasco con la presenza del Presidente Assad, della flrst lady Asma e delle più alte cariche del governo siriano e tutti gli ambasciatori del mondo e nel maggio del 2006 ha organizzato un incontro a Damasco con il Ministro della cultura siriano che ha ricevuto il regista e i produttori dell’ARTIKA FILM PRODUCTION e alla presenza della televisione di stato della Siria ha dichiarato l’impegno e l’importanza di questa iniziativa. Quella di 7 km da Gerusalemme è davvero una circostanza unica, che dimostra come talvolta i percorsi per giungere alla pace passino anche attraverso strade imprevedibili,

nate solo dalla volontà di chi esprime la propria visione al di fuori dalla politica. È la dimostrazione che il cinema italiano ha potenzialità che esso stesso ignora, lontano dai particolarismi spesso invadenti. Gesù sullo schermo Fra le molte rappresentazioni di Gesù ecco quelle che fanno testo. Jeffrey Hunter (Il re dei re, 1961, di Nicholas Ray) Hunter era allora definito l’uomo più bello del mondo. Lineamenti perfetti e forti, assolutamente americani, occhi azzurri che brillavano come lampadine. La scelta è eloquente: il Gesù doveva essere divino anche come aspetto. È l’opposto della medaglia rispetto a quello che sarà il Gesù di Pasolini. Hollywood sul Giordano. Enrique Irazoqui (Il vangelo secondo Matteo, 1964, di Pier Paolo Pasolini) È il Gesù più etnico. Catalano, potrebbe benissimo esser nato in quei posti. Ed è il Gesù più “politico”. Vicinissimo ai diseredati, contro la religione come strumento politico, appunto. Sua madre, nel film è la madre di Pasolini, dunque ancora più lontana dall’iconografia tradizionale, che vuole la Madonna giovane e bella. Max von Sydow (La più grande storia mai raccontata, 1965, di George Stevens) È il Gesù meno credibile. Von Sidow, uno dei preferiti di Ingmar Bergman, si porta dietro un peccato originale: è troppo nordico, freddo e corpulento. Il regista cercò in tutti i modi di sostenerlo inserendolo in un’estetica ispirata alla pittura rinascimentale. Ma l’attore era troppo popolare, tanto da competere col suo personaggio. Ted Neeley (Jesus Christ Superstar, 1973, di Norman Jewison) Trasgressivo, frenetico, a volte isterico. Neeley era infatti di una rock star e quel “sentimento” doveva trasmettere. Lo sceneggiatore Melvyn Bragg prevedeva che Gesù fosse in declino, messo in dubbio persino dai suoi. Inoltre Neeley doveva affrontare un Giuda non traditore, ma vittima predestinata. Molte ragioni per agitarsi. Robert Powell (Gesù di Nazareth, 1977, di Franco Zeffirelli) Quasi sconosciuto, occhi incredibilmente intensi, trucco appropriato, forza, dolcezza, sofferenza e mistica: tutto proposto al meglio, grazie naturalmente all’attitudine del cattolico Zeffirelli. È il modello più popolare di tutti, è a lui che ci si rifà quando si pensa a Gesù rappresentato dal cinema. Powell riuscì anche a uscire da quel ruolo. Willem Dafoe (L’ultima tentazione di Cristo, 1988, di Martin Scorsese) L’ispirazione sono i Vangeli apocrifiche raccontano vicende molto fantasiose. È il Gesù che sulla croce, delirando, immagina di essere tentato dal diavolo e dunque si prefigura una vita diversa, con moglie (Maddalena) e figli. Ma prima di morire ritorna in sé. Dafoe è perfetto nella parte, lui con quella sua maschera dolorosa. James Caviezel (La passione di Cristo, 2004, di Mel Gibson) Un altro “americano” in Galilea. Bello, intenso e aitante. Quasi tutta la vicenda raccontata nel film è riferita alle torture e alla crocifissione. Dopo un inizio in cui scherza con sua mamma, ed è bello, felice e moderno, Caviezel deve affrontare la trasfigurazione nel dolore un po’ compiaciuto che voleva il “fondamentalista” Gibson. Alessandro Etrusco (7 km da Gerusalemme, 2007, di Claudio Malaponti) È il Gesù più giovane e più bello. Lento e dolce, all’inizio è quasi spaesato. Non gli è facile farsi riconoscere. Etrusco ha trasmesso tutto quanto con serena efficacia. Davvero arrivando al cuore. Ci sono molti riscontri.   CINEMA VS. ELEZIONI   Elezioni 2008: durante l’ultimo comizio di Walter Veltroni a Roma, erano presenti sul palco Virzì, Ferilli, Fassari, Rosi, Ovadia, Isabella Ferrari, Scola, Melato, Morante, Ozpetek,

Buy, Orlando, Guerritore, Archibugi, le sorelle Comencini. Benigni li aveva preceduti. Qualche giorno prima Veltroni si era fatto fotografare con George Clooney. Cercare sostegno nel cinema da parte di un candidato può essere pericoloso. Occorre fare valutazioni complesse e senza punti di riferimento, perché gli elementi dell’equazione sono tutte incognite, sono labili, veloci, appaiono e scompaiono come ombre. Concetti che possono essere tutti estesi all’attore, che è per definizione “ombra, veloce, labile”, e che tale appare allo spettatore, che come tale può anche divertirsi. Ma se lo spettatore diventa elettore, la regola cambia. Nel mondo anglosassone la “regola” è diversa. Diciamo, in termini molto, molto semplificati, che noi siamo un po’ meno ingenui, diffidiamo di tutto o quasi, non “crediamo” mai del tutto. In America i candidati alla Presidenza e non solo, i governatorati eccetera, hanno sempre corteggiato le star del cinema. Una star (non tanto brillante), Reagan, è addirittura diventata Presidente, altre, come Schwarzenegger e Eastwood, governatori. Ma anche laggiù a volte, non tutto andava “secondo logica”. Alle elezioni del 1968 si contesero la presidenza Richard Nixon, repubblicano, e Hubert Humphrey, democratico. Il presidente uscente era Lindon Johnson, che era subentrato a John Kennedy, assassinato nel novembre del 1963 a Dallas. Johnson pur essendo stato un buon presidente, era sempre stato tallonato dall’ombra di Kennedy, assurto alla leggenda. Un’ombra che avrebbe condotto alla volata, proteggendolo da ogni ostacolo, a Bob, fratello di John, ormai predestinato presidente democratico per la legislatura ’69-’73. Nel giugno del ’68 Bob Kennedy venne assassinato a Los Angeles. Gli elettori americani, chiamati a votare in novembre, scioccati dalla mancanza del nuovo magnifico referente, si videro proporre Humphrey, un nome senza nobiltà, marketing e leggenda. Tuttavia i democratici ritenevano che il volano Kennediano del progressismo e dei diritti civili, fosse ancora molto veloce. Humphrey si fece vedere con Katharine Hepburn, la più grande attrice americana, portatrice di quei valori progressisti, liberal, persino femministi. Se fosse stato ancora vivo, il suo grande partner Spencer Tracy l’avrebbe assecondata e accompagnata dovunque nella campagna a favore di Humphrey. L’anno prima la coppia era stata protagonista di Indovina chi viene a cena, un titolo ritenuto, allora, scandalosamente progressista: era la storia di un nero che sposa una bianca, la figlia di Katharine e Spencer, appunto. Il successo del film era stato tale da favorire un incremento esponenziale dei matrimoni misti. Con una partner come la Hepburn, Humphrey si sentiva in una botte di ferro. Ma durante l’ultimo comizio repubblicano Richard Nixon, trionfante, annunciò l’avvento del più grande e affidabile amico del popolo americano. Si spalancò la porta e irruppe John Wayne, a cavallo. Wayne rappresentava il patriota coriaceo, portatore, magari enfatico, dei valori tradizionali americani, l’eroe che ti faceva sentire al sicuro. Vinse Nixon. I valori di Katharine erano magnifici, ma quelli di John erano forti. Il conservatore Wayne, attore, aveva dunque dato una mano al candidato, decisiva, forse Alle penultime elezioni presidenziali americane, quelle che cinque anni fa diedero il secondo mandato a Bush, l’avversario del candidato repubblicano era John Kerry. Kerry non era un antagonista di particolare carisma, altrimenti, favorito della devastante amministrazione dell’uscente Bush, probabilmente ce l’avrebbe fatta. Partito favorito, Kerry si vide affiancato da Michael Moore, cineasta in grande evidenza, che aveva ridicolizzato Bush col suo Fahrenheit 9/11, superpremiato in tutto il mondo, Cannes compresa. Nel film Moore attaccava il Presidente con argomenti precisi e documentati, ma con un eccesso di faziosità che gli tornò addosso (soprattutto tornò al candidato) come un boomerang. Per di più Moore, fisiologicamente poco simpatico, si propose e ripropose con invadenza. Insomma non diede nessuno scampo al povero Kerry. Certo, Bush non vinse solo per Moore, c’erano di mezzo le varie lobbies, che all’ultimo momento ribaltarono il

risultato, ma il regista ci mise davvero del suo. In Italia nella campagna del 2001, Rutelli versus Berlusconi, tutti ricordiamo l’intervento della coppia Biagi-Benigni, schierati davvero con applicazione a favore di Rutelli. Non gli portarono fortuna. Prima, a difesa di Berlusconi si era battuta Iva Zanicchi, e il cavaliere vinse. Certo, pensare che il target da “programma&pensiero piccolo” vicino alla cantante-animatrice, abbia portato voti decisivi, è davvero molto triste. Benigni si è dunque riproposto, con le riconosciute intelligenza e irruenza, a favore di Veltroni. Sappiamo com’è andata. Un cittadino è felice di delegare il proprio divertimento a Roberto Benigni, ma davvero delega a quel tipo di genialità incontenibile, paradossale e anarchica, il proprio pensiero politico? L’immagine Clooney-Veltroni non è stata capita. Emergeva con troppo contrasto, nella differenza di quei due volti, la diversità fra sogno e realtà, fra cinema e politica. Ma cosa c’entrava il “bell’americano”? La gente si è smarrita. I nomi fatti all’inizio, quelli della passerella al comizio romano sono, in prevalenza, i corpi e le facce dell’ultimo cinema italiano, depresso e nichilista, che non sorride e si fustiga, incomprensibile e lontano dal paese vero. Un cinema scollato dalla gente, poco amato, proposta per pochi eletti. Fra i quali “eletti”, Veltroni non c’è stato.   ANGELINA JOLIE CAMBIA SCHIERAMENTO? QUANDO GLI ARTISTI FANNO POLITICA   Il peso sociale e politico di Angelina Jolie è rilevante. Da anni si batte in prima linea per i diritti civili, a favore degli immigrati, in difesa dei bambini e dei poveri del Terzo mondo. E non lo fa staticamente, da casa, da Los Angeles, ma va in loco: Africa, Asia, Centro America. Si impegna, con fatica e dolore. Un’azione, anzi una serie di azioni, diciamo un’“anima”, che la collocano nell’ambito della cultura progressista, liberal, dunque nel quadro del Partito Democratico, facendo così sembrare del tutto scontato il suo voto a Obama. Poco prima delle elezioni presidenziali del 2008, però, la Jolie ha rilasciato alcune dichiarazioni molto, molto rumorose, di portata vasta e ambigua. Fra le altre cose ha dichiarato che, in caso di necessità – per difendere la famiglia, per esempio – sarebbe disposta a usare le armi. Un concetto davvero poco “liberal”. Ancora meno “liberal” è la simpatia manifestata a Clint Eastwood, che l’ha diretta nel film Changeling. Eastwood, è notorio, è un repubblicano coriaceo e senza dubbi. “Ci siamo trovati benissimo” ha detto Angelina “mai uno screzio.” Ma c’è stata una successiva evoluzione, che ha tradotto considerazioni e provocazioni in affermazione esplicita: “A novembre potrei anche dare il mio voto a Mc Cain”. Newman e Brando Trattasi di novità importante, un vero precedente. Da sempre gli artisti (dunque anche la gente di cinema) si sono schierati. I candidati alla presidenza, fin dai tempi della prima elezione (di quattro) di Roosevelt, democratico, del 1932, hanno corteggiato i divi del cinema. Salendo nel tempo, i democratici potevano contare, e stiamo ai nomi massimi, su Bogart, Newman e Brando, Poitier, e possono contare su Jane Fonda, De Niro, Redford, Penn. Per i repubblicani si spendevano, e si spendono Cooper, Wayne, Heston, Schwarzenegger, Eastwood, Gibson. Erano testimonial schierati e omogenei, e mai “dubbiosi”. I candidati sapevano di poter contare su di loro. Il nuovo corso potrebbe essere questo: i gruppi non sono più omogenei. L’azione dei divi si fa trasversale, vale l’indipendenza, valgono gli argomenti e le passioni, non solo il pregiudizio di appartenenza. L’America ha tanti guai, ci sono l’Iran, l’Iraq, Bin Laden sempre latitante, la crisi dei mutui, l’ozono, le armi, Guantanamo. È da queste opzioni individuali di

sentimento che può essere nata quella dichiarazione positiva su McCain della Jolie, anche se oggi possiamo verificare che non ha spostato di molto le intenzioni di voto degli americani. Audience Io ho sempre pensato, e spesso scritto, che gli elettori sono abbastanza attenti e competenti da non farsi abbagliare dallo schermo (piccolo o grande) e da non delegare il proprio voto a un “artista” solo perché fa audience. Audience non significa autorevolezza o competenza, anzi, quasi sempre il rapporto è inversamente proporzionale: basti pensare alle intelligenze e ai talenti del Grande fratello. Angelina, come detto sopra, si muove, sollecita la tua coscienza, ti ispira partecipazione, e con quali argomenti. Non è l’imbarazzante Celentano che, all’oscuro della propria (in)cultura e delle proprie possibilità, fra un’indicazione lenta e una rock, ti spiega il suo illuminismo e il suo paradiso; o un Benigni, anarchico-paradossal-geniale che, in automatico, si fa delegittimare, come suggeritore politico, proprio dall’anarchia e dal paradosso. E non è neppure l’indicazione di un regista stanco e Offeso come Squitieri. Ma nell’affaire Jolie, alla fine, l’emulazione non è scattata. E anche se lei non è la solita chiacchierona che dice la sua ripetendo l’indicazione che un autore gli ha dato cinque minuti prima o una velleitaria ignara della propria ignoranza, i risultati elettorali invitano a non sopravvalutare il suo presunto potere. Millenni Gli artisti che fanno politica non sono una storia dei nostri tempi, sono antichi come lo è la politica e come lo sono gli artisti. E le regole, anche a millenni di distanza, non sono molto diverse. Se la storia può soccorrere con dei precedenti, se, come si dice, può essere maestra, ebbene esiste un precedente di enorme portata, roba da storia con la esse maiuscola. Trattasi dell’imperatore Augusto, uno che, in linea di massima, sapeva giudicare e comportarsi. Ottaviano Augusto è riconosciuto come uno degli uomini più illuminati di tutta l’umanità. Come imperatore – fra il 27 a. C. e il 14 d. C. dunque venti secoli fa – aveva tutte le attitudini: era un soldato, un amministratore, un politico. E adorava gli artisti. Nei 41 anni del suo impero ne passò gran parte lontano dalla comoda Roma. Era uno che voleva verificare dal vivo, anche lui “in loco”. Il suo grande amico Mecenate era l’anima di un circolo che davvero contava. Non ne facevano parte i Celentano o gli Squitieri, ma, fra gli altri, Ovidio, Orazio e Virgilio. Succedeva, anche allora, che gli artisti avessero ambizioni politiche. Mecenate si faceva portavoce, presso l’imperatore, delle petizioni di questi poeti. “È gente illuminata”, diceva al suo amico Augusto, “ascoltali”. “Ma certo che li ascolto, mi incantano i loro poemi, la loro visione del mondo, ma è la visione di un artista portata in politica produrrebbe guai irreparabili.” E aggiungeva Augusto, scherzandoci sopra: “Concedo un consolato, supponiamo, al tuo amico Orazio e lui si trova lassù, ai confini dell’impero e una tribù di britanni si ribella. Orazio magari è nel bel mezzo di una lirica. Come fa a sedare la rivolta?” Per affetto l’imperatore si fece convincere a distribuire qualche carica, ma roba leggera, non pericolosa. Ovidio ebbe due nomine: triunvir capitalis e decenvir iudicandis. Non era nelle condizioni di combinare danni gravi, tuttavia li combinò (insieme ad altri di carattere più… privato) e l’imperatore lo relegò a Tomi, sul mar Nero, vicino all’odierna Costanza. Una lettera ci metteva un anno per essere recapitata. Il povero Ovidio morì laggiù. Concludendo: il grande Augusto non si fidava degli artisti, neppure di quelli bravi. Certo, non si può tacere su un dettaglio, non piccolo: gli artisti non avrebbero spostato voti. Perché allora non c’erano elezioni. L’imperatore le riteneva superflue.   GUERRA IN IRAQ: HOLLYWOOD CONTRO USA

  L’Iraq, il Golfo, sono elementi, strumenti, che coinvolgono tutto, opinione comune, politica e cultura. Con grande intensità. E coinvolgono il cinema. Per i film quella guerra è un’occasione imperdibile, un’ idea su cui lavorare, uno spunto per delle indicazioni, e per un contrasto. Il contrasto, è notorio, con la Presidenza. Non c’è voluto il tempo di una generazione per avere una prospettiva storica per un giudizio sull’Iraq. Che fosse una guerra sbagliata lo avevano capito quasi tutti. Non lo aveva capito l’uomo che poteva non dichiararla. La guerra è la guerra, tragica e paradossalmente cinematografica. Per il cinema è bastato guardare con attenzione, cercare e trovare senza tanta fatica. Stop-loss Brandon King è un sergente dell’esercito americano. Inviato in Iraq all’inizio della guerra, è tornato a casa dopo otto mesi. Richiamato secondo lo stop-loss, una norma che impone agli “specialisti” il ritorno in zona di guerra, è tornato in Iraq. Di nuovo congedato è stato di nuovo richiamato. Ma questa volta Brandon non ha risposto, ha deciso di disertare. Reduce due volte, devastato nel corpo, devastato dovunque, ha preferito fuggire e nascondersi. Stop-loss si traduce “stop alla perdita”ed è una strategia mirata a salvaguardare il capitale investito in un’attività finanziaria. Dunque sul militare-specialista era stato fatto un investimento, che “economicamente”, andava ammortizzato. La storia di King è ora un film (Stop-loss, appunto), diretto da Kimberly Peirce. Il sergente è diventato un simbolo, un eroe di pacifismo e di resistenza. La cultura americana, che sa (sapeva) essere “patriottica”, sa anche essere indipendente. Non si fa scrupoli a censurare, a stroncare e a opporsi, anche con violenza, anche con ferocia, a certe scelte della sua classe dirigente. Non ha problemi a proclamare “dirigi male”. I film su quella guerra sono tutti film “contro” quella guerra. E questo è un dato interessante, è l’ultima fase dell’evoluzione del “sentimento guerra” rispetto al tempo e alla storia. I film sul Vietnam, altro conflitto controverso, forse a sua volta “superfluo”, erano quasi tutti “contro”. I film sulla seconda guerra mondiale invece difendevano tutti, accoratamente, l’intervento dell’America e i sacrifici dei suoi figli. mafiallora la connotazione Usa era di “liberatori”, oggi è (per lo più) di “imperialisti”. Tornando all’oggi. Stop-Loss non è l’unico film sull’argomento. Un altro titolo importante è Grace is gone, con John Cusack, per la regia di James C. Strouse. Il film ha avuto un imprimatur rilevante, un premio al Sundance di Robert Redford. Si narra la storia di un uomo che ha visto morire sua moglie in Iraq. Ma basta citare alcuni titoli a campione per suffragare la tendenza critica-con-violenza verso quella guerra. In Jarhead i soldati americani vengono rappresentati come un’accozzaglia di psicopatici isterici. In Three Kings, i militari si rendono conto della condizione disperata in cui una guerra, a difesa degli interessi Usa, ha ridotto il popolo iracheno. In Redacted, De Palma racconta un episodio accaduto: quando un gruppo di soldati americani violentarono una ragazza irachena, la uccisero e sterminarono la sua famiglia. Il regista è inesorabile nell’analisi dei sentimenti in gioco, quelli dei militari, dei media e della popolazione irachena. Feroce, spietata, autocritica. Usa. Il Vietnam Gli anni del Vietnam erano quelli del cambiamento. Le scuole, gli artisti, la musica, il cinema, avevano girato pagina. La presa di coscienza dei diritti civili era, in automatico, l’assunzione del pacifismo. Film intensi e di qualità, alcuni sul Vietnam. Platoon, di Stone, è soprattutto un action, racconta la guerra in quel contesto dalle mille trappole. Gli altri sono, quasi sempre, storie di reduci. Il Cacciatore di Cimino mostra il trapasso dalla pace alla guerra, da una festa di nozze alla giungla. E mostra i reduci attoniti, sfatti dai traumi, mutilati e irrecuperabili. In Tornando a casa di Ashby, Jon Voight ha perso le gambe dal

bacino. Cerca tuttavia di ritrovare una ragione di vita. Tremendo è il disagio di Tom Cruise, anche lui ridotto su una sedia a rotelle in Nato il 4 luglio. Solo una voce si levava a favore dell’intervento Usa in Estremo Oriente ed era quella patriottica di John Wayne. Nel suo Berretti verdi Wayne, un colonnello, raccoglie sulla spiaggia un piccolo orfano vietnamita. Lo prende in braccio e gli dice: “Adesso a te ci penserò io”. Era l’ingenuità di un uomo che attribuiva al suo paese (e a se stesso, eroe in tanti film) il ruolo di garante del mondo. Perdonabile. Con Full Metal Jacket, Kubrick detta la sua sintesi autorevole, mostrando l’inutilità tragica di tutto, la dialettica grottesca dei partecipanti. Col Vietnam l’America veniva messa in croce, ma chi piantava i chiodi lo faceva con dolore. Poi, con l’Iraq, l’evoluzione della spirale sentimentale avrebbe trasformato il dolore in rivendicazione, magari in odio. Il cinema americano, dunque, da decenni si pone come forum attento, attivo e critico rispetto all’azione del governo. Chissà se verrà un tempo in cui la classe dirigente detta sopra, ne prenderà atto. Il cinema non ha la struttura e l’autorevolezza, per dettare una soluzione. Non può fermare le guerre, però se dà un’indicazione, è bene che vi si ponga attenzione. Garante Ma ci fu un tempo, e ci fu una guerra, dove le cose andarono diversamente. Primo assunto: quel conflitto era sacrosanto. Seppure con qualche ombra, chiamiamola così. Nel 1940, l’Inghilterra e la Francia e gli altri paesi alleati, guardavano all’America. Era incomprensibile la posizione passiva del paese più libero e garante del mondo verso il nazismo. L’amministrazione di Roosevelt era combattuta fra interventisti e non. Prevalevano nettamente i primi, col favore, tacito, del Presidente. La gente era distratta, intendeva per lo più stare tranquilla. Fu allora che Hollywood diede a Washington il più grande assist mediatico di tutti i tempi. Un’indicazione e uno spot. Una vendita. Qualcosa di portata abnorme, esclusiva, e mai esplorata prima. Il cinema vendette agli americani la guerra mondiale. Nel ’40, dalla Casa Bianca per Hollywood, partì l’input per fare un film che sapesse accendere il tipo di passione che serviva nella circostanza: la passione per la guerra, appunto. Da trasmettere al popolo. La Warner mise a fuoco i punti fermi dello storyboard. Sarebbe stata la vicenda di Alvin York, sergente della prima guerra mondiale, massimo eroe americano. A interpretarlo sarebbe stato Gary Cooper, massimo eroe del cinema, quindi ancora più grande dell’altro. Il sergente York racconta la vicenda di questo contadino del Kentucky, mite, timido, ma gran cacciatore e tiratore, obiettore a suo modo che, soldato, prende invece coscienza, e dopo averci un po’ pensato, seduto su una roccia sotto le stelle, accarezzando il suo cane, decide che combattere è necessario per abbreviare e vincere una guerra e salvare così delle vite. Al fronte compie azioni umanamente impossibili, uccide quaranta nemici col fucile e fa prigioniere due intere compagnie con l’aiuto di pochi subalterni. Le metafore c’erano tutte, il dolore della decisione, la conversione, l’azione eroica sovrumana che faceva balenare la grazia con tanto di ammiccamento a un intervento superiore. Gary Cooper, il papà magnifico, il marito perfetto, l’amico affidabile, avrebbe portato per mano l’America in guerra. Convinta. Non ci sarebbe mai stata nei decenni a venire, un’agenzia capace di concepire e produrre uno spot più efficace e sofisticato, perfetto. Poi, nel dicembre del ’41, arrivò un altro assist a togliere le ultime castagne dal fuoco, l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Non c’era bisogno d’altro. Naturalmente molte migliaia di figli americani che avevano visto Il sergente York, mandati in Europa e nel Pacifico, non tornarono. Il cinema era importante. Marines Quella guerra, come detto, si rivelò giusta. L’America affrontò e sconfisse tre regimi in

una volta sola, il fascismo, il nazismo e l’imperialismo. Successivamente il cinema si mosse in grande stile e naturalmente ci mise del suo dispensando mito e spettacolo, e l’enfasi della predestinazione. Le centinaia di film coi Marines giusti e invincibili, Iwo Jima, Pearl Harbor e le Filippine, Dunkerque, le portaerei e i caccia, Londra e la Normandia: il cinema riscrisse storia e memoria. Davvero in pochi conoscerebbero Pearl Harbor senza i film. Sappiamo. Ma ci furono anche capolavori, vicende dolorose di reduci, film che raccontavano la verità. I migliori anni della nostra vita (7 Oscar) è la storia di tre reduci. Uno dei protagonisti, Harold Russell, era un vero mutilato di guerra, aveva perso entrambe le braccia. Gli applicarono due protesi. Nel film, mentre sta ritirando duecento dollari in banca, incontra un altro reduce. Dice: “Lo zio Sam me li darà tutti i mesi vita natural durante” ed è sereno e riconoscente. Russell morì nel 2002, a 88 anni. I reduci dal Vietnam e dal Golfo non sarebbero stati altrettanto riconoscenti. Hollywood volle dire la sua anche su Hiroshima. Anche se con prudenza. Per decenni il pensiero era “non si poteva fare altrimenti”. Poi il “pensiero” è stato ridiscusso. Certo, c’era di mezzo il tradimento dei giapponesi a Pearl Harbor. Gli americani se lo erano legato al dito. Tuttavia l’indicazione contemporanea è diversa. Oltre 200.000 morti civili e incolpevoli dicono che forse si poteva fare altrimenti. Il comandante del B 29 che sganciò quella bomba era Paul Tibbets. È morto nel 2007 a 92 anni. Già da tempo aveva detto a un suo amico, Gerry Newhouse, di non volere né un funerale vistoso né una lapide sulla sua tomba. Temeva che si trasformasse in luogo per manifestazioni di protesta. Fino agli anni settanta, sì fino al Vietnam, se ci fosse stata quella tomba, nessuno avrebbe manifestato. Anzi, forse sarebbe stata meta di pellegrinaggi. Così, anche il comandante Tibbets, il “direttissimo” interessato, aveva capito.   FEDERICO E ALBERTO: PIU’ LEGGENDA CHE STORIA; IN MARGINE AL BARBAROSSA DI MARTINELLI   La storia Federico I Hohenstaufen, detto Barbarossa, fu imperatore (1152- 1190) del Sacro Romano Impero. Ebbe una concezione ideale, religiosa e totale del ruolo dell’imperatore, il cui destino era assegnato da Dio. Federico non ebbe mai alcun dubbio su questa sua predestinazione. Si riteneva, a tutti gli effetti, con tutti gli avalli e legittimazioni, il padrone del mondo. Tutte le sue azioni erano concepite in quel senso. E quando l’azione – la guerra o la pace, la battaglia o gli editti – non riusciva, Federico la leggeva comunque come una prova felice, un segnale divino. Dunque, in ogni modo, si considerava vincitore. Rifondò l’Impero dando vasto potere ai signori locali, vasto ma non totale. Si faceva comunque custode dall’alto. Sempre sicuro di aver Dio dalla sua parte. Tanto sicuro che si mise in contrasto col Papa, anche lui convinto, anzi, più che convinto, di avere Dio dalla propria parte. Fra i vari paesi dell’Impero, per Federico, uno dei più complicati era l’Italia, dove comandavano i Comuni. Significa che ogni città aveva una sua amministrazione e un suo esercito. E che ogni signorotto aveva consolidato il proprio potere. Non solo, ma gli stessi signorotti, di fronte a un pericolo comune, avrebbero potuto unirsi per fronteggiarlo. Linea dura Con l’Italia l’Imperatore decise la linea più dura. Impose tasse molto alte, soprattutto insediò in ogni città un podestà di sua fiducia. La sua strategia contemplava un riconoscimento istituzionale, anzi, regale, così si mosse in modo da ottenere la corona d’Italia. Ci riuscì: venne nominato re nel 1158. Ma ancora non gli bastava. Lusingò papa Adriano IV, cercò di farselo amico almeno per il tempo necessario. Necessario ad essere

incoronato Imperatore. Cosa che avvenne in Roma, in quello stesso. L’anno dopo il Papa morì e salì al soglio pontificio Alessandro III, sgradito all’imperatore che, sempre in virtù della presunta predilezione da parte del trascendente, nominò un suo Papa privato, Vittore IV. La mossa non fu felice, perché determinò a favore del Papa ufficiale un’alleanza vasta, che comprendeva i bizantini, Venezia e la Sicilia. Barbarossa si arrabbiò molto. E cominciò a intendere l’Italia come una complicazione fastidiosa, e poi come un nemico da punire. Così organizzò alcune spedizioni punitive, appunto. La prima toccò a Crema, nel 1160. Quello stesso anno il Barbarossa si vide offrire un pretesto irresistibile: l’arcivescovo di Milano Oberto da Pirovano lo scomunicò. Federico scese in Italia due anni dopo e rase al suolo la città. Fu lo spunto per la costituzione, nel 1167, della Lega Lombarda. La famosa alleanza, nata dal giuramento di Pontida, riconosceva Federico imperatore, ma non accettava la sudditanza assoluta dei comuni. Ne facevano parte: Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova, Ferrara, Treviso, Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Como e Pavia. La Lega sconfisse l’imperatore a Legnano il 29 maggio del 1176 e lo costrinse alla pace di Costanza, con la quale venivano ripristinate le identità dei comuni. Per l’imperatore fu una sconfitta ma non un disastro. Si ripromise di rimettere tutto a posto. Ma aveva altre priorità in Europa e non ne ebbe il tempo: morì nel 1190. Esistito? L’eroe della battaglia di Legnano fu Alberto da Giussano. Un personaggio discusso. C’è chi dice che non sia neppure esistito. Come Robin Hood: l’epoca è quasi la stessa. La Treccani, una fonte che dovrebbe far testo, scrive di lui: “Si è tentato di identificare questo personaggio, con uno dei due Alberti, A. da Carate e A. Longo, che figurano fra i firmatari, per il comune di Milano,del patto istitutivo della Lega Lombarda (Cremona, marzo 1167), o con un omonimo personaggio, ricordato in un documento del 1196 relativo all’ospedale milanese di S. Simpliciano. Ma è molto probabile che le notizie si fondino esclusivamente su qualche leggenda sorta e diffusasi nel secolo XIII.” In questo contesto storico Martinelli ha ricercato e composto una storia, certamente romanzata, con tutte le legittime licenze che fanno parte del racconto cinematografico. Ii film Boschi a nord di Milano. Un cavaliere dal costume e dal seguito decisamente importanti, è impegnato in una battuta di caccia al cinghiale. Uno splendido e pericoloso animale maschio viene trafitto da una lancia lunga. Il cavaliere si avvicina ma il cinghiale non è morto, ha un sussulto e spaventa il cavallo che disarciona l’uomo che, a terra, quasi tramortito, sarebbe trafitto dalle zanne dell’animale ferito a morte, che però viene finito dalla freccia di una balestra. A scoccare è stato un giovane, tale Alberto, nativo di Giussano. Il cavaliere, ripresosi, lo ringrazia per avergli salvato la vita e gli regala un pugnale in una custodia. Dopo che l’uomo si è allontanato con la sua scorta, Alberto prende il pugnale e legge l’incisione: Federicus Imperator. Sì, ha salvato la vita al Barbarossa. Il film racconta dunque due storie parallele. L’ambizione e l’attitudine dell’Imperatore saranno al centro di parte del racconto. In questo caso Martinelli attribuisce al Barbarossa una sorta di dilemma metafisico, un confronto mistico con Dio che in realtà, secondo le fonti storiche, era già risolto: l’Imperatore si considerava un prescelto, era certo che il suo destino fosse determinato da Dio. E si riteneva, legittimamente, il padrone del mondo. In chiave di fiction naturalmente occorrono margini a tali sicurezze, margini nei quali si possano muovere il devoto consigliere Rainaldo di Dassel, e la veggente Ildegard von Bingen, che predice a Federico uno sviluppo inquietante: dovrà guardarsi dall’acqua e dalla falce. Alberto vive la sua vita semplice, naturalmente possiede qualità particolari, legge l’incontro occasionale con l’imperatore come un richiamo del destino. Si interessa delle

vicende politiche, prende coscienza della condizione difficile della sua città, Milano, verso la quale il Barbarossa non nutre alcuna simpatia. Mentre Alberto si innamora di Eleonora, Federico sposa Beatrice di Borgogna che è poco più che una bambina. Dopo essersi consultato, con un esercito di veterani che hanno combattuto decine di battaglie, l’imperatore attacca Milano, che cade nel marzo del 1162. Federico e Alberto si incrociano di nuovo. È proprio col pugnale “imperiale” che gli era stato regalato che il milanese cerca di uccidere il Barbarossa. Arrestato, Alberto viene graziato dall’Imperatore, che così pareggia il conto. Da quel momento Alberto vivrà per una sola ragione, “sparigliare” il conto. Partecipa al leggendario giuramento di Pontida, dove nasce la Lega Lombarda. Diventa leader della Compagnia della morte che nella battaglia decisiva avrà un ruolo determinante. Ed è ancora lui, che visitando tutti i signori dei singoli comuni lombardi, con energia e con fede, li convince a unirsi contro l’imperatore. Alla fine, quando due eserciti si fronteggiano sulla pianura di Legnano, si confronta l’eterna lotta fra il potere assoluto avallato da Dio, e l’esigenza di libertà degli oppressi e, individualmente, il gigante contro l’eroe. Federico e Alberto si pongono fisicamente in testa agli schieramenti. La possente cavalleria imperiale si muove contro uno schieramento di carri che appaiono esposti, quasi innocui, ma al momento dello scontro ecco apparire centinaia di falci, micidiali e decisive. La profezia di Ildegard si è compiuta. Non può che esserci curiosità, e attenzione verso questo film. Martinelli non è un regista perfetto (ma chi lo è?) però è uno dei pochissimi italiani (o forse è l’unico) che tralascia i soliti esausti, minimi, modelli e codici che il cinema italiano ha assunto ormai da troppo tempo. Col suo Barbarossa ci propone storia, avventura, e persino un po’ di epica. Una parola, quest’ultima, tanto lontana dal nostro cinema, che a fatica la riconosceremo. Il cast Sul set, un cast internazionale: Rutger Hauer (l’Imperatore Federico Barbarossa), Raz Degan (Alberto da Giussano), Kasia Smutniak (Eleonora), Hristo Shopov (Rainaldo di Dassel), Cécile Cassel (Beatrice), Antonio Cupo (il Console dell’Orto), con Angela Molina (Hildegard von Bingen) e F. Murray Abraham (il Siniscalco Barozzi). Perché Barbarossa Perché un film su Barbarossa? Ecco le risposte di Martinelli: «Per due motivi: il primo è che io, milanese, ho sinora prodotto e diretto film di ambientazione friulana; Porzus, Vajont, Carnera, tutti riguardano fatti accaduti in Friuli. Lo stesso September Eleven, uno dei progetti in cantiere, racconta la storia di un grande friulano: Marco da Aviano e il ruolo che questo umile sacerdote ha avuto nella battaglia di Vienna dell’11 settembre 1683. Questa filmografia mi ha spesso attirato le critiche di concittadini milanesi: Ma come, tu, milanese, ti occupi solo di argomenti legati al Friuli e trascuri la Lombardia, terra nella quale sei nato? Ora, gli episodi più adatti ad essere trasposti in un film e che vedono la mia città come protagonista sono essenzialmente due: le 5 Giornate di Milano e la Battaglia di Legnano. Tra i due, l’episodio più complesso produttivamente e più ricco di suggestioni è il secondo. In un’epoca di successioni dinastiche quale il 12° secolo, c’è in Europa una città che elegge i propri rappresentanti scegliendoli tra il popolo. E questa città è Milano. In un’epoca in cui i comuni del nord lottano tra loro, Milano forma una Lega Lombarda che riesce nell’impresa impossibile di sconfiggere l’Imperatore. Il secondo motivo è che mi piacciono le sfide. L’idea di produrre e dirigere un film da 30 milioni di dollari, con battaglie, catapulte che lanciano massi infuocati, migliaia di cavalli, la distruzione di Milano, tutto questo rappresenta una Sfida produttiva e registica che è parte integrante del mio modo di fare

cinema. Ecco perché ho pensato a un film su Barbarossa e la battaglia di Legnano: per restituire ai lombardi un film che raccontasse un po’ della loro storia. Un film epico, storico, un colossal per il grande schermo. Ho ripercorso la storia delle fatiche fatte dal popolo lombardo per ottenere la propria libertà. Perché, come scriveva T. E. Lawrence, “La libertà non si dona. La si prende”». Cinema vs. politica Alla rappresentazione di Barbarossa erano presenti due Leghe. Sullo schermo, quella Lombarda costituitasi a Pontida nel 1167 e che il 29 maggio del 1176 sconfisse a Legnano Federico I Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero. Nella platea del magnifico cortile dello Sforzesco c’era la Lega di Bossi: il leader e poi senatori e ministri. E c’erano il presidente del consiglio e il sindaco di Milano. Il regista Martinelli, ha fatto agire Alberto sul territorio proponendo il film in cinquanta città del nord. L’eroe milanese è diventato di fatto un membro del movimento, efficace e romantico, disponibile e attivo, proprio come un iscritto, anzi come titolare della tessera numero uno. Il film sul territorio è, appunto, la Lega sul territorio: l’intuizione di Umberto Bossi che fin dai primi anni ottanta cominciò a spendersi in prima persona, parlando, dibattendo o attaccando manifesti, nelle vie, nei bar, sui cavalcavia, nelle piazze dei comuni pedemontani della Lombardia. Era l’idea del rapporto diretto, semplice e antico, senza i media di mezzo, del politico con la gente. E certo sappiamo che l’idea ha funzionato. Il film di Martinelli rappresenta un bel vettore di epica e di avventura dimenticati dal cinema italiano, e rappresenta un modello buono dimenticato dalla politica: l’abnegazione, l’eroismo. Tuttavia non voglio scrivere di politica, ma di cinema. Sacrosanto Che il cinema si interessi all’eroe di Legnano è legittimo e sacrosanto. Così com’è stato legittimo, durante le epoche, riferirsi a un personaggio perché serviva in quel momento. Il “simbolo Alberto” fu rispolverato, enfatizzato, durante il Risorgimento come vessillo di libertà anche grazie a uno strepitoso sponsor mediatico, Carducci, che gli dedicò la Canzone di Legnano. Successivamente in quella chiave venne adottato Ettore Fieramosca del quale, almeno, è certa l’esistenza, così come il suo ruolo nella disfida di Barletta (1503) dove gli italiani umiliarono i francesi che avevano occupato il regno di Napoli. In questo quadro non si può non citare Scipione l’Africano, e l’omonimo film, come richiamo di propaganda imperiale che serviva al fascismo per la celebrazione della conquista dell’Etiopia. Sì, ad ogni propaganda il suo eroe, bastava rovistare nella storia e aggiustare qua e là. E non è certamente arbitrario spendere un altro nome, quello di Robin Hood, un altro eroe che si opponeva all’autorità crudele&usurpatrice e che, a sua volta, non è neppure esistito. Robin e Alberto sono vicini anche nelle epoche, se è vero che il nobile decaduto Locksley agiva al tempo della terza Crociata, regnando Giovanni Senza Terra, intorno al 1190. Cinema Il cinema: una relazione suggestiva e piena di legittime licenze, fra Robin Hood e la Lombardia del Barbarossa, viene immaginata da un singolare e gradevole film del 1950 con Burt Lancaster, La leggenda dell’arciere di fuoco. Si racconta di un uomo delle montagne, Dardo, che si prende carico delle sofferenze dei lombardi e si ribella all’imperatore. Un fantasioso trait d’union romantico fra Robin e Alberto, che può starci, di film trattandosi. Un altro modello per propaganda, che invece è esistito eccome, è Alvin York, il sergente che nella prima guerra mondiale compì imprese sovrumane e venne adottato come simbolo interventista nel 1940 quando Washington diede a Hollywood un input in quel senso. Gary Cooper divenne York nel film Il sergente York.

Eccessi Naturalmente perché il film funzioni, in tutti i suoi compiti, occorre che il film stesso sia importante, “arrivi”. E dunque occorrono segnali forti, occorrono eccessi. E certo il cinema non si fa spaventare dagli eccessi. Il Barbarossa di Martinelli trasmette certo energia. Per cominciare non sembra un film italiano e questo credo sia un principio di giudizio più che lusinghiero. L’intenzione dell’epica è subito dichiarata dal linguaggio ricco e dinamico che si esprime al meglio nelle scene di battaglia, davvero importanti: ricostruzione molto attenta, quasi “filologica” delle macchine da guerra di quell’epoca. Inoltre il film trasmette spettacolo e anche questo non è poco. Lo stile di Martinelli, e lo stile dell’epica, portano inevitabilmente a un racconto di scene madri non facili da gestire e Martinelli è uomo di immagine più che di scrittura. Dunque il Barbarossa è portatore di epica, di avventura e di segnali eroici, tutte cose buone e necessarie e anche se il botteghino, prima di tutto al nord, non è stato molto generoso, già l’inversione di tendenza rispetto all’ultimo cinema italiano, refrattario a epica e immaginazione, è importante.   STUDENTI. PIAZZE, CINEMA   Quarant’anni fa i giovani, e non solo, andavano nelle piazze. Riprendendo il segnale che arrivava dalla Sorbona, l’Università Statale di Milano organizzò una “ribellione” che sarebbe diventata una della voci decisive della contestazione. Il movimento studentesco, il Sessantotto. Il cinema si sarebbe occupato di loro. Anzi, se ne stava già occupando. Chi era in quelle aule allora, come chi scrive, ricorda, magari compresso nel profondo, quell’entusiasmo e quell’incanto, che non è trattabile e rimarrà. Nulla a che vedere con la croce che avresti posto su questo o quel simbolo nella cabina elettorale una volta adulto. Eri stato ragazzo protagonista. Con la percezione di aver contribuito a qualcosa. Il pensiero che segue potrà sembrare enfatico, ma è effcace: come i ragazzi – suppongo ci fossero – del luglio dell’Ottantanove e dell’ottobre del Diciassette. Certo, la spinta goliardica ed eroica del ’68 poi si confuse e si esaurì, le evoluzioni e le applicazioni, come quasi sempre accade, produssero risultati più cattivi che buoni. Comunque tutto molto diverso da adesso, tutto molto più vasto. Non solo un fatto di programma scolastico. Il movimento studentesco veniva da un traguardo acquisito dall’Occidente, un certo benessere che sembrava ormai garante del futuro per sempre. E dunque si poteva pensare di cambiare ciò che andava cambiato e inventare ciò che non c’era: il lavoro, la coppia e il sesso, la solidarietà estrema, le differenze, qualche privilegio volgare in meno, l’evasione e il tempo libero per tutti. E c’è dell’altro, che non è un dettaglio, il movimento studentesco si sposava a un altro, altrettanto importante, quello operaio. E dunque in gioco c’era molto di più. Ribellione La ribellione giovanile ha radici infinite e diramate. Una sintesi fulminante, per arrivare ai film della contestazione: l’eroe eponimo il primo profeta è (“il giovane”) Holden Caulfield e poi nei decenni, gli scrittori e poeti beat, i ribelli dell’Actors Studio, “quelli-che-il-rock e Dylan e i Beatles e tutti gli altri”, i teatranti inglesi arrabbiati, e poi le università, Woodstock, il Vietnam e le altre guerre, Parigi e Milano, i tedeschi arrabbiati e violenti; e via via salendo con movimenti polverizzati e giornalieri. La piazza fino al decreto Gelmini. Dopo una premessa così seria scendiamo al cinema, che non porta le masse in piazza ma dice la sua a tanta gente. Gli studenti hanno preso contatto col festival di Roma 2009 portando i loro striscioni, ma quarant’anni fa il cinema era ben più importante. Era uno strumento e un compagno e veniva da una lunga rincorsa. E furono autori grandi e grandissimi a dire la loro. Il cinema raccontò movimenti, principi, questioni,

rivendicazioni. La Contestazione. Gli americani avevano modelli irresistibili sullo schermo e un gruppo di autori che, dopo la guerra, cambiarono il cinema. I diritti civili, l’integrazione, la pace e, i giovani. Con un cartello onnicomprensivo, la ribellione. Dai molti estraggo (letteralmente) Kubrick, Penn, Wise, Lumet, Aldrich, Nichols e i più “evoluti” Hopper, Cassavetes; prima che irrompessero gli autori della “generazione Vietnam”. Costoro predisposero la piattaforma dalla quale decollò quel cinema specifico della rivendicazione studentesca. Una piattaforma che in Francia si chiamava Nouvelle Vague (Godard, Truffaut, Chabrol e altri) in Inghilterra Free Cinema (Anderson, Richardson, Reisz e altri) e che in Germania preparava il terreno al magnifico gruppo che stava per irrompere, dei Wenders, Fassbinder, Herzog. Fra i nomi italiani legati a quel movimento e a quei contenuti vanno citati Bellocchio, Samperi, e Bertolucci. Nel panorama immenso dei film “ribelli” che sfiorarono o toccarono o invasero la contestazione, mi rendo responsabile di selezione certo arbitraria e estraggo quattro manifesti, titoli che fotografarono, davvero nello specifico, il movimento studentesco. I titoli Fragole e sangue (1970) di Stuart Hagmann. Storia di Simon ragazzo distratto dallo sport, che frequenta casualmente qualche assemblea studentesca, da esterno con dubbi. Poi conosce Linda, attivista ed entusiasta e così è sempre più coinvolto e meno dubbioso. Cresce lo scontento e la protesta. I giovani si raccolgono all’interno della facoltà. La Guardia nazionale, siamo a San Francisco, attacca furiosamente. I ragazzi seduti in cerchio nella grande palestra, resistenti passivi, cominciano a cantare Give Peace a Chance di John Lennon. Si faranno trascinar via di peso, affrontando calci e manganelli. La Cinese di Jean-Luc Godard. A Parigi alcuni studenti decifrano la Rivoluzione attraverso gli scritti di Mao. Hanno anche un progetto attivo: uccidere un ministro sovietico, rimasto ideologicamente indietro. Utopia, frasi scritte sui muri, simboli. Il problema sono gli altri, i molti, e la disciplina è astratta e difficile. Dovrà passare molto tempo Godard ha dunque dettato la sua interpretazione del movimento studentesco. Naturalmente è conscio della natura “liquida” del cinema, e delle sue possibilità: il surreale, l’ironia e il grottesco. E applica tutto. Con qualcosa che va rilevato e che è decisivo, il film è del ’67, cioè di un anno “prima”. E Godard si rivela ancora una volta, maestro vero, intelligenza che anticipa. Capisce il buono, il cattivo, la teoria e l’applicabile. Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. Uno studente universitario ruba un piccolo aereo. Intende “liberarsi”. Incontra una ragazza che “fugge” in altro modo, percorrendo strade vuote e desertiche. Fanno l’amore nella Valle della Morte, sì evadono. Ma poi lui viene ucciso dalla polizia e lei immagina la fine del capitalismo sognando l’esplosione di libri vecchi come la cultura corrente. Il film non piacque agli americani che descrissero Antonioni come un “provinciale che vuol raccontare cose che non conosce”. Ma il film è “rimasto”. E quell’esplosione finale, considerata demagogia e pensiero debole da alcuni, è un segnale che l’estetica del cinema continua a riproporre. Se… (1968) di Lindsay Anderson. In una scuola inglese di ricchi rampolli, tre studenti cominciano a contestare quelle regole arcaiche, inutili, stupide, a volte crudeli. Insomma contestano la tradizione e da quelle parti trattasi di peccato davvero mortale. Sullo spunto squisitamente studentesco, il regista inserisce una dialettica più vasta che riguarda le differenze, la violenza e il sesso. E la violenza sta per irrompere. I ragazzi si appostano sui tetti, armi in pugno, e cominciano a sparare su compagni e docenti. Allegoria, mediazione fra azione reale e simbolo. Un film adottato, allora, con passione. E così, il cerchio ha percorso quattro decenni, e si chiude idealmente adesso coi giovani che hanno contestato il festival di Roma. E si chiude il confronto: certo, studenti e cinema molto diversi.

  COM’È DIFFICILE RACCONTARE IL ‘68   Raccontare il Sessantotto è molto difficile, è una piattaforma troppo grande e complessa. Si tratta di inquadrare il movimento allora, solo allora, oppure in prospettiva, ci sono troppi segmenti: la lotta, la politica pura, le idee, il sentimento, lo studio, il cambiamento, la rivoluzione nelle sue forme. Il grande sogno di Placido racconta l’esserci in mezzo, allora. E qui inserisco un inciso che, in questa chiave ha una certa rilevanza: anch’io c’ero in mezzo allora, non a Roma, a Milano alla Statale, l’ateneo che avrebbe identificato quel movimento. Il film non va bene per un peccato originale paradossale: perché è un film e dovendo rispondere a certe regole vive di momenti, di spunti che si accendono e si spengono rapidamente, è un fatto di tempo, di struttura, solitamente al cineasta appartiene quella cultura. Deve risolvere in chiave di spettacolo e di sintesi, deve essere veloce e quel meccanismo ti fa camminare sul fllo del pericolo banale, della maniera e del cliché. Un pericolo che gli autori davvero bravi sanno evitare. Bellocchio li evitava, e anche Risi e Monicelli, e anche Loach. La scrittura, quella vera, alta, la letteratura, aiuterebbe, ma è qualità rarissima, quasi assente negli autori di cinema. E certo è assente in Placido, che è anche cosceneggiatore. E così il suo film è una proposta certo appassionata, ma già vista, di maniera e di cliché, di dentro o fuori, di buoni e cattivi, di intelligenti e stupidi, di bianco e di rosso. Senza contorni. Simboli I simboli borghesi, o istituzionali vengono così tradotti: i docenti sono idioti, come quello che continua a recitare dei versi mentre la classe è in tumulto, o cattivi e in malafede, come quello che minaccia la studentessa perché va fuori tema (va in tema… politico). La famiglia borghese vive in uno stato di tensione e di infelicità tangibili come pietre, rappresentata dalla cena della famiglia dove il padre terrorizza tutti e dice alla figlia, che ha idee diverse: “Vattene in camera tua”. Poi c’è il capitano della polizia, che sgrida il subalterno (che poi è Placido) che legge Brecht, declamando: “S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”, sì, un altro idiota. C’è anche il poliziotto che non è solo idiota, ma proprio cattivo e senza onore: prima promette che il ragazzo potrà far visita al padre morente, poi lo fa arrestare in casa. Poi c’è un prete che durante un battesimo, quando pronuncia la parola “satana”, viene contestato da un ragazzo e gli dice: “Stai commettendo peccato mortale”. Un altro idiota. E poi l’esercito, con gli squadroni, che camminano quasi col passo dell’oca, in un rumore assordante. E poi naturalmente la violenza generale, con istantanee che rimandano più al Cile di Pinochet che al nostro paese. Il passo successivo alla militanza, cioè la faziosità, è legittima, è un’energia che si aggiunge allo strumento di chi è in trincea. Ma se la faziosità non concede nulla all’idea altrui, opposta, anzi la stravolge e la distorce, allora la proposta, la denuncia, l’indicazione, non servono, si annullano e ottengono l’effetto opposto. Sinistra Come per Le ombre rosse di Maselli anche vedendo il film di Placido se hai voglia di sinistra, ti passa. È proprio nella mediazione della faziosità che gioca l’intelligenza, una mediazione che gli autori veri, che hanno cultura, sentimenti e onestà appropriati, sanno fare. I cliché in positivo sono perdonabili, sono giovanili. E dunque le citazioni storiche, belle e accorate, romantiche e certo corrette e vitali sono accolte con piacere, anche se, come si dice, annunciate: Guevara, Luther King, Mao, Bob Kennedy, il napalm e il Vietnam, tanto Vietnam. Tutti i buoni-anzi-buonissimi da una parte, tutti i cattivi-anzicattivissimi dall’altra. Nelle fasi individuali del film Placido è bravo. I disagi della famiglia, i momenti

d’amore, anche le rivendicazioni private accorate, funzionano. Davvero intensa la sequenza dell’infarto del triste padre che non capisce più niente di ciò che succede nella sua famiglia. Il Sessantotto di Placido è goliardico e schematico, dichiara solo una superficie. Il ragazzo Placido non lo capì allora e l’artista Placido non lo capisce adesso. Testimone Perfeziono il segnale, l’inciso che ho posto all’inizio: quel che so del ’68, dunque la mia testimonianza, anche come autore, ma soprattutto l’avallo di un altro testimone molto, molto importante. Come ho detto studiavo allora alla Statale ed ero in ciò che accadeva. Fra gli studenti c’era Mario Capanna. È notorio. Si distingueva, anche questo è notorio. E molti si sono incrociati con lui, me compreso. In quegli anni passavo parte dell’estate in un paese dell’alto piacentino, da dove nasce il Nure e la sua valle. C’erano solo poche case, il fiume, i monti intorno. Per ragioni di rapporto fra famiglie e costi di ripetitori, non c’era neppure la televisione. I giornali li compravi a Ferriere, a 7 km. Lassù nessuno leggeva, nessuno era informato. Tranne uno, Giacomo Bisi, ragazzo, mio coetaneo. Giacomo aveva eletto Mario Capanna a suo eroe. Mi disse: “Abiti a Milano, hai studiato con lui, se lo incontri dagli la mano da parte mia”. Gli risposi: “Se lo incontrerò, lo farò.” Giacomo prese un diploma di marconista e fu assunto su un cargo che andò in avaria davanti a un porto francese e si spaccò in due. Per una questione di mafia portuale non si attivarono i soccorsi, alcuni volonterosi adattarono una gru che, uno per volta, portò tutti in salvo, meno Giacomo che morì annegato. L’Università era finita e non avevo più visto Capanna. Ma nel 1995, in occasione dei 100 anni del cinema, avevo una rubrica in televisione. Rintracciai Capanna e lo invitai. Venne volentieri e parlò del ’68. Gli altri ospiti erano Maurizio Porro, Marta Marzotto, Andrea Pinketts e Pietruccio dei Dik Dik. Culture e personalità diverse, che proposero tanti ricordi e argomenti. A bocce ferme, a ossa monde, a conti fatti, Capanna ricordava secondo la sua attitudine di uomo intelligente, umano e onesto. Raccontò vicende sconosciute, individuali, importanti e divertenti. Insistette sul fatto che più gli premeva: “Attenzione, davvero attenzione a non confondere quel movimento con qualcosa che innescasse, o fosse legato al terrorismo.” E a un certo punto, alla fine io raccontai la vicenda di Giacomo Bisi, concludendo: “E così, a venticinque anni di distanza, mantengo la promessa fatta e stringo la mano a Mario Capanna.” Lui si alzò, mi strinse la mano, risedette e cominciò a piangere, tenuto certamente. Poco dopo, recuperata la voce disse: “Ecco, il sessantotto era soprattutto questo.” Cambiare il mondo Cambiare il mondo apparteneva a tutti noi. Stare col debole, la cultura solidale e contro il privilegio, la rabbia e l’azione: tutto questo c’era, e c’eravamo dentro. E pure nelle evoluzioni successive, nei destini e nei compromessi, “tutto questo” non ce lo avrebbe mai tolto nessuno. Dopo tanti anni, ritengo che le eredità, i segnali, il risultato del ’68, siano più cattivi che buoni. E non è un concetto che si presta ad essere, per molti versi, sospetto, non è un giudizio politico. È invece molto semplice: una volta adulti, quasi tutti, siamo peggiorati. Ma ciò che rimane, consolidato e univoco, sopra tutto, è quello che ha detto Capanna. E senza nemmeno il bisogno di alzare il pugno.   MASELLI E LE SUE OMBRE ROSSE SE HAI VOGLIA DI SINISTRA, TI PASSA.   Ho visto Le ombre rosse di Citto Maselli. In sala c’eravamo io e un altro. I giovani di un centro sociale che si chiama “Cambiare il mondo” incontrano il professor Siniscalchi vecchio, storicizzato intellettuale comunista. Potrebbe nascerne un progetto di enorme

impatto, persino di sostanza, ma poi tutto si arena in una palude di chiacchiere, dei giovani e dei vecchi compagni del professore. Il film è evocativo, a cominciare dall’estetica quasi violenta. Le prime immagini del centro sociale richiamano un girone dell’inferno. Il grande spazio che accoglie i senza tetto, materassi e lenzuola bianche disposti ad anfiteatro, sembra davvero un’incisione del Doré. Una premessa: Maselli sa fare cinema, poi, il cinema che fa è affar suo e purtroppo per lui per pochi, pochissimi altri. È artista di grande onestà, ha una sua genetica e a quella è rimasto fedele, senza evoluzioni, mentre tutto, intorno si è evoluto. Ho scritto “evocativo”. Quella didascalia, “cambiare il mondo” naturalmente dovrebbe appartenere ai giovani, a tutti. Per chi, alla fine degli anni sessanta, primi settanta, studiava all’università Statale di Milano, come me. “Cambiare il mondo” era un’appartenenza. Stare col debole, la cultura solidale e contro il privilegio, la rabbia e l’azione: tutto questo c’era, e c’eravamo dentro. E pure nelle evoluzioni successive, nei destini e nei compromessi, “tutto questo” non ce lo avrebbe mai tolto nessuno. E tutto questo è emerso, “evocato” in quelle prime immagini e parole. Solo suggestione da prime parole purtroppo, poi il sentimento, mio e del film, è cambiato. Idee Il centro sociale avrebbe grandi idee: il cinema, la letteratura, e poi il teatro: i giovani intendono rifare addirittura il teatro elisabettiano. Poi c’è una coppia, un’ebrea e un musulmano che cantano una canzone di integrazione, e un rockettaro che fa Avanti o popolo, in chiave Rock, appunto. E i ragazzi vivono in quell’ambiente, diroccato, sporco, degradato, dormono in mutande in cellette con pareti di cartone, aperte a tutti. Non mancano droga e alcol. E tutti parlano, parlano, parlano. E c’è il momento di confronto coi “vecchi”, intellettuali, architetti, sindacalisti, gente inserita nel sistema: governa il centrosinistra. E i vecchi parlano più dei giovani. E ci sono anche scene di sesso, disperate quelle dei giovani, grottesche quelle dei vecchi. Alla fine, a forza di parole, il progetto si disperde insieme al centro sociale, tutto rientra, niente succede. Insomma che tu sia vecchio o giovane, se ti viene un minimo di voglia di militanza ti passa. Maselli assume se stesso come modello di contestazione verso questa Sinistra che si autodevasta. Cose che sappiamo, che ci vengono dette “instant” ad ogni ora del giorno. È interessante, almeno quanto il film, un’intervista di qualche giorno fa. Maselli, tessera P.C.I., cita Gramsci, Togliatti, si definisce “ingraoiano”, parla di militanza, di partito, di sedi di partito, di vecchi iscritti. Evoca quell’ apparato, estinto, sorpassato e dimenticato persino laggiù dov’era stato inventato in quel certo ottobre, che doveva, appunto, cambiare il mondo, che durò settant’anni e poi ci si accorse che occorreva ricambiare. Maselli è ancora in quell’ottobre. E si rivolge ai suoi, e bacchetta chi non gli è simpatico, ne fa una caricatura, come quella dell’architetto Vargas che ricorda sospettosamente Massimiliano Fuksas. Nel film è momento di elezioni, i “vecchi” sentono fuori i clacson scatenati. Qualcuno dice: “Ma i clacson non sono un segnale di sinistra” infatti ha vinto la Destra. Maselli si è accorto della grande debolezza, della mancanza di idee, di forze e di tutto, ma forse non si è accorto di aver confezionato uno spot irresistibile a favore della Destra. Diritto Ogni autore, e anche l’ accreditato Maselli, ha il diritto di raccontare tutte le storie e tutte le idee. Nell’intervista ha parlato del titolo, attribuendo la scelta al produttore Cattleya. Lui avrebbe voluto Anni luce. Ha aggiunto: il film di John Ford non c’entra. Però l’astuzia c’entra e dico che non mi è piaciuta e che Citto non doveva. Ombre rosse è un suono da leggenda, apre tutto, è ottimo marketing, è davvero spendibile. E qui apro un inciso: Maselli è recidivo, nel ’75 fece Il sospetto, qualcuno gli suggerì di precisare e così il titolo divenne Il sospetto di Francesco Maselli, per non confonderlo con Hitchcock. L’auspicio è che prima o poi non salti fuori “il quarto potere”. Ed è vero che Ford non

c’entra, soprattutto non c’entra con Maselli. Quel film è un western per caso, è un micromondo di vicende e caratteri raccontati alla perfezione. Con una lacuna: gli indiani sono i cattivi. I diversi cattivi, le minoranze peggiori delle maggioranze, era davvero qualcosa di imperdonabile rispetto a ciò che già allora veniva considerato da alcuni politicamente corretto, e Maselli, già allora, era capace di intendere e di volere il cinema. Dunque Ford “reazionario” si faceva perdonare solo in virtù del grande talento. Ma Ford non era reazionario, era solo un autore privo di tessere, capace di scegliere e di raccontare senza filtri. Tant’è che l’anno dopo girò Furore, forse il film più di sinistra della storia del cinema. E alla fine del suo percorso fece Il lungo sentiero, storia di una tribù Cheyenne che attraversa l’America per tornare nelle sue terre, inseguita dalla cavalleria. Il film era un manifesto di libertà, un’accusa alla presidenza, ai ministeri, alla stampa e all’opinione comune. Gli indiani lì erano davvero buoni e i bianchi davvero cattivi. Ed era sempre Ford, una grande, libera intelligenza, non il militante di un’unica idea. Dunque Ombre rosse: meglio lasciarlo stare. Cinema Il cinema è perfetto per certe suggestioni, si sa. Lo capirono prima di tutti proprio gli “amici di ottobre” di Maselli. Ma occorrono le misure giuste. Non basta un mare di dialettica astratta. Loach, con le sue storie sul dolore, sul lavoro, sugli oppressi, ha creato disagi grandi al governo Thatcher. Molti, anche non militanti, hanno visto quel film e stavano con Loach. In Charlot, minacciato col manganello dal poliziotto alto un metro più di lui, mentre tiene per mano il monello; in Alberto Sordi che mangia la pastasciutta dopo che i nobili hanno lasciato la tavola affranti per la vittoria della Repubblica in quel 2 giugno; nel piccolo Stajola in trattoria, che guarda il bambino ricco che può mangiare ciò che vuole; nell’istantanea della famiglia Joad, di Furore appunto, che cerca disperatamente lavoro in California, ingannata dal governo, maltrattata dalle autorità, schierata davanti al povero furgone sgangherato: in tutte immagini senza chiacchiere, sta il vero cinema di sinistra, che ti faceva venir voglia di esserlo anche tu. Mentre Citto, continua ad essere l’onesto, coerente, distante eroe della guardia a niente.   LA PRIMA LINEA E LA QUESTIONE MORALE   Il 20 novembre 2009 è uscito nella sale La prima linea, il film di Renato De Maria tratto dal libro di Sergio Segio La miccia corta. Il film racconta la vicenda di Segio, terrorista, assassino, che nel 1982 attaccò il carcere di Rovigo per liberare alcune detenute “politiche” fra le quali Susanna Ronconi, la sua compagna. Segio, col nome “comandante Sirio” era stato uno dei fondatori di Prima linea, il movimento armato che uccideva la gente in nome di una cosiddetta (da Segio e compagnia) giustizia proletaria. Condannato all’ergastolo, il terrorista ha scontato 22 anni ed è stato rimesso in libertà nel 2004. Il film è prodotto da Andrea Occhipinti, che dopo aver chiesto il finanziamento ministeriale, vi ha, davvero opportunamente, rinunciato. A Segio e Ronconi danno corpo e volto Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno. Simboli Sergio e Susanna hanno ucciso di tutto. Dai simboli “ufficiali” di quel potere che andava tolto di mezzo – politici, giudici, giornalisti, capi di aziende – a poveretti che non c’entravano niente: un ragazzino che chiacchierava troppo, un vecchio che passava di lì col suo cane. La questione morale si pone. La prima domanda è: “Ma era proprio opportuno fare un film su questa gente?” Certo molti diranno che non era opportuno, ma non significa nulla. C’è il cinema col suo cinismo. Cinismo vuol dire mercato e visibilità. Poi può voler dire, naturalmente, memoria,

denuncia e politica. Per cominciare c’è un dato: la storia è assolutamente cinematografia. Amore e guerra, violenza, pensiero seppure distorto, aspetti umani (i parenti delle vittime) e polemica che non guasta mai. Inoltre ci sono Scamarcio e Mezzogiorno, modelli di grande appeal. E poi, da ultimo c’è il malumore del leader assoluto e reale, Sergio Segio, che non è, e non è stato “fiction”. E qui deve inserirsi un altro lemma, molto importante: censura. Ho già avuto modo di scrivere che la censura è peggio dei film peggiori. Ho citato spesso le opere di Ciprì e Maresco come paradigma del concetto, adesso lo aggiorno con due titoli recenti, Albakiara e Un gioco da ragazze. Rappresentano l’adolescenza col pretesto di mostrare il lato oscuro (droga, omicidi per divertirsi, prostituzione; c’è una gara di sesso orale, dove una ragazza cerca di battere il record di 20 performance in un’ora), in realtà c’è solo l’intento di scovare il peggio del peggio del cinema e dello spettatore, e venderlo a buon prezzo. Per fortuna quel prezzo il pubblico non lo ha pagato, non si è fatto imbrogliare. Nessuna stella La prima linea non è film da nessuna stella, come gli esempi detti sopra. Ci sono in campo ottime firme, dai protagonisti al regista, allo sceneggiatore Sandro Petraglia, scrittore di cultura di sinistra (La meglio gioventù, La scuola, Vesna va veloce). Da Petraglia va detto che è arrivato un buon segnale: conoscendo alcuni parenti delle vittime si è sentito imbarazzato, lui, autore capace di gestire anche le storie più spinose e di cili. Il film non sarebbe apologetico di terrorismo o di ideologie deviate, semplicemente racconta, e racconta con efficacia. Il cinema ha quella possibilità: l’esempio orrendo mostrato diventa indicazione strisciante. Il cinema ti fa stare comunque, in automatico, dalla parte dei protagonisti, buoni o cattivi che siano. E così Segio e Ronconi attraverso gli alter ego Scamarcio e Mezzogiorno hanno grande visibilità, diventano eroi della visibilità, che ai giorni nostri significa eroi tout court. Insomma trionfano, e le loro vittime, e le vittime di altri come loro, devono assistere. La figlia di uno degli uccisi ha detto che non andrà a vedere il film, ma sa che molti ci andranno e vedranno le sequenze su suo padre. Bellezza Un altro aspetto è la bellezza dei modelli. È davvero un falso problema. Fra le molte franchigie che appartengono al cinema c’è anche quella dell’“eccesso del bello” dell’irreale, dell’eroe estetico. Vai al cinema più felice se sullo schermo ci sono Brad Pitt e Angelina Jolie piuttosto che Silvio Orlando e Luciana Littizzetto. Un titolo esemplare in questo senso, Il filo del rasoio, dal romanzo di Somerset Maugham. Nella prima edizione il protagonista Larry Darrell (cerca se stesso dolorosamente, finisce in India, aprendo quella via alla cultura della seconda parte del ‘900) era Tyrone Power. Successo enorme. Poi ci fu un’edizione con Bill Murray, un bravo attore, ma lontanissimo dall’appeal di Power. Il film fu un fiasco. Certo, il vero Larry Darrell non poteva essere bello come Power, nessuno lo era, ma al cinema si addice il divo, si addice a colui che possiede ciò che noi non possediamo. Dunque Scamarcio e Mezzogiorno ci stanno, sono le scelte corrette e legittime. E va anche detto che non devono essere considerati “correi”, sono semplicemente attori. Il concetto è spiegato benissimo da Jean-Luc Godard nel suo La chinoise (La cinese). Durante una manifestazione studentesca un poliziotto ferma un giovane col volto fasciato da una benda sporca di sangue. Il gendarme intima: “Fammi vedere la ferita”, il ragazzo si toglie la benda e non c’è nessuna ferita. “Ma sono un attore – dice – è come fossi ferito davvero.” Diritto Ma il punto è un altro. Il cinema ha dunque il diritto di raccontare tutte le storie, anche quella dei terroristi de La prima linea. Un diritto che si estende ai protagonisti Scamarciofinto-Segio e Mezzogiorno finta-Ronconi. Che il leader terrorista vero sia in libertà può

persino essere dolorosamente accettabile, com’è accettabile una giustizia clemente. Ma noi abbiamo il dovere di non dimenticare il vero Sergio e la vera Susanna, che abbiamo visto tante volte ripresi, affiatati e sorridenti, dentro la loro gabbia in tribunale mentre si dibatteva delle persone da loro uccise. Pubblico Alla fine il pubblico ha decretato l’insuccesso del film. Scamarcio e Mezzogiorno sono i due attori italiani di maggior gradimento. De Maria non è Stone, non è Moretti e nemmeno Sorrentino, ma sa raccontare correttamente, eppure... Problema Ma il problema non è il film, è l’argomento. Alla fine il pubblico non è stato al gioco. Il pubblico non ha più voglia. Non ha più voglia di vecchie storie; di cronaca sorpassata che comunque altri media propongono e ripropongono; di lemmi come “pubblico ministero” e “procure”; di violenza, di concetti e di chiacchiere sulla violenza; di un pericolo mortale che sempre incomberebbe dall’alto; di insicurezze perché ti trovi dove un proiettile magari passerà di gente che già ti angosciò a suo tempo e che ti viene imposta, gente come Segio; di un sistema di autori che ti spiega le tue idee cercando di correggertele perché tutto è politica (degli autori). Il pubblico non ha più voglia. Rilevo un fenomeno, un fenomeno interessante, un precedente che mi sembra davvero significativo, la promozione. Il gruppo del film, attori, regista, produttore, ha compiuto l’intero tour promozionale nelle emittenti. Speciali nei Tg, ospitate nei talk, in tutte le reti in tutte le fasce d’orario. Sono stati dunque toccati tutti i target: giovane, adulto, colto, incolto. Operazione chirurgica senza dubbio. Ed ecco il fenomeno: ad ogni partecipazione, invece di aggiungersi, cadeva un pezzo di pubblico. L’argomento veniva spiegato: gli anni di piombo, lo scontento giovanile e generale, l’idea rivoluzionaria di cambiare il mondo con tutti i mezzi; lo squarcio sociale, il “sistema contro” e “contro il sistema.” La passione di sparare alla gente era semplicemente un dettaglio marginale. Cinema Poi Scamarcio e Mezzogiorno, insomma il cinema, hanno fatto ciò che dovevano. L’ho detto sopra, hanno rappresentato correttamente. Tuttavia i due modelli (e il cinema stesso) non sono stati sufficientemente garanti. Il pubblico non ha seguito le loro indicazioni. I sentimenti in gioco erano molti, compreso quello dei parenti delle vittime. Le polemiche non sono mancate. E il terrorista emendato non ha gradito la rappresentazione. A parer suo non emergeva il vero spirito rivoluzionario di quel gruppo, appariva ambigua l’idea di cambiare il mondo, idea tutto sommato nobile. Del resto La prima linea è un perfetto film italiano del correntone prevalente, fa parte del solito cinema drammatico e deprimente dal quale non arriva mai una buona notizia. E ormai l’utenza ha capito che il trucco dell’esempio orribile a fln di bene non incanta più. È questa la buona notizia. Un segnale di inversione di tendenza. “Io, pubblico, mi fido della mia memoria e del mio sentimento. Non lo delego più a nessuno. Non mi faccio più incantare. Sono stufo di queste riproposte lontane, morte e sepolte. E sono stufo della politica nei film.” Compito Ribadisco che il cinema è fedele al proprio compito di rappresentare tutto, senza limiti, e ribadisco che non ho simpatia per Segio e vorrei che non gli venisse offerto nessun pulpito. E sono certo di interpretare il sentimento comune. Mi rifaccio, certo arbitrariamente, a una didascalia conosciuta e benemerita “per non dimenticare”. E la capovolgo: “per dimenticare”. Dimenticare quelle storie e quella gente. Il pubblico ha dato un bel segnale. Spero si estenda ad altri “esempi orribili”, reality, talk dei week-end

eccetera. Quando programmi come Il grande fratello e Uomini e donne cominceranno a perdere audience, vorrà dire che l’indicazione virtuosa del week-end sarà arrivata. E sarà un’altra buona notizia. Chiudo con una citazione un po’ enfatica, ma di moda in questi giorni. Mi piace omologare le piattaforme media a Il ritratto di Dorian Gray. Il racconto è conosciuto, il volto dei media è quello della fase finale del ritratto. Una parte di pubblico se n’è accorta da tempo. Adesso tocca agli altri.   BUSH SECONDO STONE: L’ABBIAMO SCAMPATA BELLA   Ho visto W., il film di Oliver Stone sul presidente George W. Bush. Una premessa. Non c’è dubbio che Bush jr non sia stato uno dei migliori presidenti degli Stati Uniti. Una certa corrente lo accredita persino come il peggiore in assoluto. Gli americani usano quattro aggettivi fondamentali, essenziali, impietosi a definire i loro presidenti: attivo, passivo, positivo, negativo. Non è facile che un presidente possa attribuirsi entrambi gli aggettivi felici: attivo&positivo. Forse, nell’era recente, solo Reagan e soprattutto Clinton se li sono guadagnati, forse. La prospettiva, seppure corta, sembra davvero indicare in Bush un capo che ha fatto molti errori e qualche disastro. Certamente tutti noi abbiamo misurato spesso, dal vivo, la sua inadeguatezza, abbiamo rilevato gli imbarazzi dei suoi interventi in diretta, dove non aveva tempo per consultarsi, certo sfavorito anche dalla sua fisiognomica. C’erano senza dubbio, nella sua postura, nella comunicazione, accenti grotteschi: non aveva la faccia presidenziale, così come non ne aveva il passo, o il cappello. Tutto questo è ormai accreditato. Ma Oliver Stone fa di Bush jr un imbecille pericoloso. Se davvero George W. è stato quello di Stone, il mondo, tutti noi, l’abbiamo proprio scampata bella. Dobbiamo compiacerci di essere ancora vivi. L’attore Josh Brolin dà corpo e volto al presidente, il regista lo fa assomigliare all’originale in maniera impressionante. Ebbene il modello che ne segue è un mix fra Jerry Lewis, Forrest Gump e Jim Carrey quando fa l’idiota. Gli anni giovanili di George sono devastanti. Sempre una bottiglia in mano, quasi sempre un hamburger pieno di farcitura, ragazze incinte con relativo intervento riparatore (del padre). Non si riesce a capire da dove gli arrivi il minimo, indispensabile background di cultura politica: viene solo citato un passaggio a Yale. In società è ridicolo e maldestro, ride, scatta, sputacchia continuamente. Conosce la futura moglie Laura ed è incredibile come riesca a conquistarla. Lei è una democratica, non condivide nulla del fidanzato. Sono fermi in macchina, discutono, lui si arrabbia schiaccia l’acceleratore e va deliberatamente contro un muro. Reazioni, nervi da futuro leader del mondo? Il padre gli si rivolge come al figlio scemo. I Bush sono un’influente famiglia americana, George senior è già vicepresidente, è stato eroe di guerra, vorrebbe che il figlio fosse all’altezza. Ma junior intende diventare allenatore di una squadra di baseball e se proprio è lecito sognare, un giorno potrà essere il presidente della lega di quello sport. Poi George si rifugia in una comunità per alcolisti e il capo gli parla come a un portatore di handicap, la mano sulla spalla, sillabando e ripetendo lentamente i concetti. Poi gli prende le mani, gliele giunge e lo fa pregare come si fa col bimbo alla prima comunione. E poi, naturalmente, il rapporto col padre, interpretato da James Cromwell, attore dinoccolato, altissimo, grande classe. Il padre è sempre incombente, il figlio sempre a guardare dal basso, impacciato, complessato. Giocano persino a fare a pugni, e junior non può che soccombere. Quando il primo Bush perde il secondo mandato, sconfitto da Clinton, junior decide che vendicherà il padre e un giorno sarà presidente. La motivazione

regina gli viene direttamente da Dio. Come accadeva ai “leader” del Sacro Romano Impero. Riesce nell’intento, per due amministrazioni. Ma davvero l’America, il popolo, il senato, i media, l’intelligentia, non sono riusciti a porre un filtro, un cordone sanitario garante, una protezione da un simile personaggio? Ebbene no, non ci riescono. Bush presidente è “guidato” da consiglieri pazienti. In una scena uno di loro, il “genio”, gli insegna tutte le risposte, Bush ripete come uno scolaretto delle elementari. In riunione col vicepresidente Dick Cheney, (l’ottimo Richard Dreyfuss) a sua volta paziente e didattico, Bush davanti a un tovagliolo apparecchiato sul tavolo presidenziale, si fa il solito hamburger, aggiusta con le mani la farcitura, si succhia le dita e discute del destino del mondo. Anche nel privato, con la moglie, discute, va in bagno, si siede, srotola la carta igienica, si pulisce, si rialza e riprende gli argomenti. Stone proprio non ama il suo ex-presidente. I grandi nodi vengono toccati: l’11 settembre, Saddam, la decisione dell’intervento in Iraq, basato sulle presunte armi chimiche e nucleari che il dittatore nasconderebbe. Quando si scopre che le armi non esistono il gruppetto – i soliti Rice, Powell, Cheney – ci restano proprio male. Il regista ripercorre una parte di strada dell’altro grande nemico cineasta di Bush, Michael Moore. Ma Moore aveva usato documenti, immagini reali, cogliendo Bush in contesti ridicoli e grotteschi, portandoli, con faziosità troppo palese, verso la propria tesi del presidente-idiota. Stone, rifacendolo con un attore, ne ha reso una caricatura estrema, un cartone animato. Tanto che l’originale, già compromesso e grottesco di suo, nel confronto, almeno in quello estetico, finisce per guadagnarci. È il limite del recente Stone, che dopo stagioni di opere ottime, anche straordinarie, si è ritenuto un referente-eroe, maestro massimo, titolare infallibile della verità storica americana. Ha perso le misure. Come se si consultasse quotidianamente con Michele Santoro. Un’altra mezz’ora di film e sarebbe riuscito nell’impresa di rendere Bush junior persino simpatico.   OBAMA, L’ATTORE   Chi va al cinema certamente conosce il monte Rushmore, l’enorme monumento scultoreo del massiccio delle Black Hills, che domina Rapid City. Il Rushmore è protagonista di Intrigo internazionale di Hitchcock, esattamente come lo sono Cary Grant e James Mason. È un “attore”. Con quel film del ’59 le visite al monumento aumentarono in modo esponenziale. Ed è legittimo domandarsi quanti lo conoscerebbero se non ci fosse stato Hitchcock. Dunque quella montagna bianca che sovrasta la città del Sud Dakota appartiene certamente alla nazione e alla storia, ma anche al cinema. Ed è anche legittimo pensare che Obama, attento a leggende e mitologie, la conosca molto bene, in tutti i suoi significati. Il complesso nacque nel 1927, fu completato nel ’41 e intendeva rappresentare le facce dominanti dei primi 150 anni di storia degli Stati Uniti: i Presidenti Washington, Jefferson, Theodore Roosevelt e Lincoln. Personaggi immensi e diversi. I loro volti sono severi, inespressivi, quasi arcigni. Se mercoledì 5 novembre 2008, idealmente, su quei volti di granito avesse preso forma un’espressione, sarebbe appartenuta al soggetto sulla destra, ad Abraham Lincoln. E sarebbe stata di soddisfazione. Per un’ottima ragione, una ragione che riguarda molto da vicino Barack Obama. La prima scultura, a sinistra, rappresenta Washington, primo presidente. L’uomo che aveva sconfitto gli inglesi, era nativo della Virginia, così come lo furono, rigorosamente, tutti i primi presidenti, compreso Jefferson (secondo soggetto da sinistra e 3° presidente), che si ritaglia quel posto d’onore anche come autore della “Dichiarazione d’indipendenza” (4 luglio 1776, festa nazionale) uno dei documenti fondamentali dell’umanità. Schiavitù

Virginia significava Stato nobile, grandi proprietari terrieri – Washington possedeva una tenuta grande come la Corsica, con tanti schiavi –; soprattutto significava culla del Sud, e dunque “culla” della schiavitù, appunto. Theodore Roosevelt (terza figura) rappresenta l’America “fisica” che si sarebbe fatta rispettare dal mondo. Comandò personalmente la carica decisiva di San Juan nella guerra contro la Spagna (inizio ‘900) che gli fu utile nella campagna elettorale. Abraham Lincoln (figura a destra) con la guerra civile, “sradicò” il Sud: economia, esercito e cultura. Soprattutto, elaborando il tredicesimo emendamento alla Costituzione, bandì la schiavitù. Era il 31 gennaio del 1865. Da quella data partiva il lungo cammino di applicazione, dolore e fede che ha portato all’elezione di Obama e che aprirà un’epoca e molte epoche. Questa striscia di 143 anni viene segnata da tanti personaggi che hanno rappresentato evoluzioni e conquiste, patrimonio di tutti. Seleziono fra i molti, alcuni nomi nella grande memoria popolare: Hattie McDaniel, la mamy di Via col Vento, primo premio Oscar ad attore di colore, Rosa Parks simbolo dei diritti civili, che nel 1955 si rifiutò di cedere il posto dell’autobus a un bianco, Mohammed Alì-Cassius Clay, il più grande pugile di tutti i tempi a sua volta “lottatore civile”, Louis Armstrong, talento e incanto esclusivi, Toni Morrison, scrittrice Premio Nobel, e naturalmente i leader dei movimenti come Malcom X e Martin Luther King. Bella e bianca Le parole e le idee appassionate, ispirate di Obama, passeranno, negli anni, al vaglio della fattibilità e della realtà, nel frattempo l’uomo ha vinto perché ha saputo proporsi con efficacia. Nella sua dotazione c’è anche parte di quella degli uomini e delle donne appena citati. E, tornando a riferirci al cinema, certamente il candidato ha osservato, con attenzione, il gesto e imparato i toni, favorito dall’età e dall’aspetto. Una sorta di Sidney Poitier, il medico di colore che sposa la giovane, ricca, bella e bianca in Indovina chi viene a cena: un primo tabù violato, importante, anche se non era una presidenza. Prima di Obama Come a volte accade, il cinema arriva prima della realtà. Certo, fa meno fatica, basta la fantasia, basta il set. E dunque nei film alcuni presidenti di colore sono già stati eletti. Spesso si trattava di parodie o di giochi comici, una sorta di satira politica. Ma almeno due “presidenti” intendono porsi molto seriamente. Uno è televisivo, l’aitante Dennis Haysbert – una sorta di Denzel Washington giovane – che fa il capo della Casa Bianca protetto dall’instancabile e superdotato Kiefer Sutherland nel serial 24. Un altro è Morgan Freeman che fa un presidente credibile in Deep Impact, del 1998. Freeman è un attore molto amato da tutti, di ogni colore. Ma il salto dalla fiction alla realtà dieci anni fa sembrava davvero pura fiction. Movimento Una voce che invece non era “fiction” ed è stata decisiva a favore di Obama, si è levata dal movimento del cinema. È notorio che lo spettacolo e la cultura, in prevalenza, siano tradizionalmente dalla parte dei democratici. Obama si è trovato al fianco, e non solo idealmente, icone garanti di immagine e portatrici di voti: da Brad Pitt a Robert De Niro, Robert Redford, George Clooney, Charlize Theron, Gwyneth Paltrow, Nicole Kidman, Halle Berry, Jennifer Lopez, fra gli altri. Sono gli stessi nomi che alle penultime presidenziali sostennero Kerry, l’antagonista democratico di Bush. Solo che Kerry era Kerry, la sua personalità inadeguata quasi strideva a confronto con modelli così ingombranti. Mentre Barack in mezzo a tanti nomi, sul palco, nei comizi, ci stava benissimo, sembrava uno di loro, divo fra divi. I divi che hanno dato corpo e volto a un presidente nei film sono molti, il serbatoio cui attingere per le citazioni è grande. Henry Fonda ha fatto il presidente più volte, a

cominciare da George Washington giovane. In A prova di errore si trova ad affrontare una situazione tragica, catastrofica, davvero a metà strada fra fantasy e quella che potrebbe (o forse avrebbe potuto) essere una realtà. Il sistema di sicurezza americano va in tilt e i bombardieri B 52 dirigono su Mosca per sganciare le atomiche. Il presidente cerca in tutti i modi di fermarli, ma non ci riesce. Come prova di buona fede, e per salvare il mondo, darà ordine di distruggere New York. Un altro presidente che lascia un segno è Fredric March in Sette giorni a maggio (1964). È un democratico di idee ultraliberali che firma un trattato di pace con la Russia, che prevede lo smantellamento degli arsenali nucleari. I repubblicani e i militari lo attaccano, lo accusano di debolezza e di tradimento. Ma March resiste e fino in fondo rimane fedele ai suoi principi pacifisti. Fra i tanti interpreti la memoria richiama due presidenti eroi, anzi “supereroi”: Bill Pullman in Independence Day, che salva il mondo, e Harrison Ford in Air Force One che salva la Casa Bianca, non avendo nulla da invidiare al Tom Cruise di Mission Impossible. Personale Uno dei film “personali” più visitati da Obama è Il candidato, con un giovane Redford, candidato al Senato, che gira il paese parlando di principi e di uguaglianza e di cambiamento. Ma c’è un film che è un vero serbatoio di ispirazione e di contenuti perfettamente alla Obama, è Il presidente. Michael Douglas è un presidente democratico, vedovo, che vive una storia d’amore con Annette Bening ed è impegnato su due progetti fondamentali e progressisti. In un discorso alla nazione dice: “Sì, sono un membro tesserato dell’unione per le libertà civili, un’organizzazione il cui unico scopo è difendere i diritti dei cittadini […] L’America non è facile, vi farà combattere, vi dirà vuoi la libertà di parola? Vuoi sostenere che questa è la terra dei liberi? Allora il simbolo del tuo paese non può essere solamente una bandiera, il simbolo deve anche essere uno dei suoi cittadini che esercita il suo diritto di protestare su quella bandiera. Perciò esalta questo nelle tue scuole, allora potrai alzarti in piedi e cantare della terra dei liberi […] E parlando del suo antagonista repubblicano: “Raduni un gruppo di elettori medi, per età, reddito, ceto, che ricordano con nostalgia i bei tempi andati e gli parli di famiglia, valori americani e carattere, poi agiti una vecchia foto.” Dopo una parentesi personale, con sapiente cambiamento di tono, inserendo un elemento di commozione sulla moglie morta di cancro, Douglas arriva al gran finale. “Attiverò la risoluzione che riguarda l’energia e la riduzione del 10% dello scarico di combustibile nell’arco di dieci anni. è di gran lunga il passo più deciso mai fatto nella lotta per invertire gli effetti del riscaldamento del globo.” Infine tocca un altro tabù: le armi. “Non puoi iniziare a parlare di prevenzione se non ti sei sbarazzato della armi d’assalto e delle pistole. Le considero una minaccia alla sicurezza nazionale, io andrò di porta in porta se sarà necessario ma voglio convincere gli americani che ho ragione e me le farò consegnare.” Non sembra Obama?   OBAMA: CHE FILM!   Tra fiction, Striscia, PlayStation Ho scritto molti romanzi e sceneggiature. Conosco i meccanismi della fiction della carta e dello schermo, anche della ‘fantafiction’. Nel 1990 nel romanzo La grande ambizione,

vincitore di un premio Bancarella, immaginavo che un grande imprenditore ed editore italiano - il modello, lontano, era Citizen Kane di Welles - diventasse Presidente del consiglio e fosse poi abbattuto da varie lobbies e alleanze: nel ’90, dunque quattro anni prima del Berlusconi politico. Nel 2005 ho scritto 7 km da Gerusalemme, un bestseller tradotto nel mondo che continua ad esaurire un’edizione dopo l’altra, così come accade al dvd del film. È la storia di un pubblicitario (quasi) agnostico che incontra un tale che dice di essere Gesù. Nel 2008 ho pubblicato L’eroe - molte traduzioni e altro futuro film - dove un sociologo milanese, a contatto con l’Islam, messo di fronte alla debolezza occidentale rispetto all’energia, alla fede, all’applicazione e al coraggio dell’altra cultura, decide di indossare una cintura esplosiva e di attivarla in una moschea. Non posso non rivelare che alla fine non lo farà. L’indicazione viene capovolta e il romanzo diventa così un segnale di solidarietà, di rispetto delle differenze e di cammino comune fra le due civiltà. Trattasi certamente di storie particolari, forse inquietanti, con una forte cifra di fantasy, se così vogliamo chiamarla. Anche i riconoscimenti che arrivarono da Ratzinger (già Papa) e del Gran Muftì di Damasco, dunque “opposti”, entrano perfettamente in quel genere. Esistere Questa premessa personale, per dire che la fiction Obama, intendo leggerla in quella chiave, riesce a incantare persino me, professionista di fiction. L’assunto sarebbe dunque che Obama, politico, istituzione, carne e ossa, estetica, è troppo perfetto per essere vero, non può esistere: è il disegno di una striscia o un eroe da playstation, ma soprattutto una fiction, un film. Il più grande dei film. Se a determinare personaggio e destino di quell’uomo ci si fosse messo uno staff di creativi, meglio, di autori veri, ispirati come poeti ispirati, ebbene non avrebbe potuto inventare e prevedere una vicenda più esatta e perfetta: la leggenda del messia firmato, firmata dal pool di nuovi evangelisti laici. Dunque lo staff si è riunito nel 1961, in qualche parte della terra o del cielo e ha predisposto una scheda. Obama avrà colore scuro naturalmente, ma non troppo scuro, si chiamerà (anche) Hussein, sarà un segnale, un’insinuazione all’Islam. Ma quel nome potrebbe non essere gradito in America; ma no, sarà un altro segnale creativo di discontinuità, piacerà ai progressisti e servirà per battere Hillary, che è sì una democratica, ma convenzionale, conservatrice. L’uomo assomiglierà, anche fisicamente, a Sidney Poitier quando fa Indovina chi viene a cena. Poitier, bello e aitante, primo divo e primo premio Oscar (protagonista) di colore e grande simbolo del sentimento antirazzista negli anni Sessanta, quelli di Luther King. Il futuro Presidente avrà una famiglia etnica, non una ma due generazioni prima. Ci vuole una nonna etnica, sarà collocata alle Hawaii, con Barack bambino eccetera, ed è opportuno che muoia in un momento utile, proprio sotto l’election day e sarà il nipote triste a darne notizia: approvato. La moglie deve essere omologa di Barack, alta quasi come il marito, facciamo 7 cm. di meno, in modo che la testa dell’uomo sopravanzi quella della moglie ma non di molto. Michelle sarà moderatamente aggressiva, al fianco del marito, non dietro. Le bambine saranno, naturalmente, molto belle, educate, figlie perfette di genitori perfetti. Occorre ricordarsi di mostrare un piccolo dettaglio intimo, un educato promemoria sessuale, il torso nudo magari. Una piccola azione domestica? Una passata di colore a una parete? Non è un gran che ma può servire per un certo target. Gli abbiamo dato Hussein, diamogli anche la bibbia, che sia enfatizzata nel giuramento, che sia quella di Lincoln e che ricordi, Barack, di pronunciare la parola “dio” almeno due volte. I discorsi naturalmente saranno curati, saranno perfetti, un assoluto. Ideale, attitudine pragmatica e romantica, affabulazione: Kennedy, Roosevelt, Lincoln e Washington riuniti. E quando verrà il grande momento, la prima azione quale sarà se non

quella attesa da tutto il mondo progressista e intelligente, se non Guantanamo cancellata? E la seconda e la terza non potranno che essere, sempre in virtù dei progressisti intelligenti, i fondi per gli aborti e l’autorizzazione alle staminali. Conosciamo questa parte del progetto, fin qui il film ha funzionato. La premessa è finita. Adesso c’è il mondo, sappiamo. Adesso subentra il reale. Ci sono le guerre, le differenze, le economie dell’est, i criminali, i poveri, i trust, gli avversari, i nemici. Il pubblico rimarrà nella sala ad assistere al secondo tempo oppure uscirà e il biglietto verrà rimborsato? Utopie Chi fa il mio mestiere non può non essere innamorato delle grandi manifestazioni, del sogno e delle utopie. Faccio parte del consenso intorno a quest’uomo particolare. Ho detto sopra “troppo perfetto per esistere”, tuttavia spero con tutto il cuore che esista. Mito su mito, favola su favola, coro che sale al cielo, corteo compatto che lega i continenti. Anche il consenso generale è un altro assoluto che rimanda alla fiction. Abbiamo assistito: tutta la gente, tutti i media, tutti i politici di tutte le civiltà, con la mano sul cuore di fronte al neopresidente. Non una voce, non una sola voce, fuori dal coro gioioso. Collaboro e ho collaborato con le maggiori testate, quotidiani, magazine, network, conosco tanta gente. E ho sentito giornalisti e politici. Gran parte di loro non sono così euforici, sono in attesa. In pubblico e in privato: parole diverse. Se devo sintetizzare in una frase, in una didascalia generale, eccola: “mah, non saprei, tutto troppo bello, esagerato, staremo a vedere, speriamo” E io domandavo: “Ma perché non lo hai detto nei servizi, o in pubblico?” Altra sintesi di risposte: “Andare contro questa corrente travolgente? Non sono mica matto. Sarei reazionario e razzista. Se fosse un bianco, magari” Da quando King faceva il suo discorso storico in quella stessa location dell’incoronazione di Obama, sono passati 40 anni. Sembrerebbero pochi per la realizzazione del grande auspicio, forse neppure Luther sperava che molti suoi coetanei sarebbero stati in vita al compimento dell’auspicio. Ma gli americani in queste cose sono bravi, sanno sorprendere e accelerare. Non dimentichiamo che hanno fatto la rivoluzione, quella grande, adulta, tredici anni prima dell’Ottantanove francese, e hanno fatto il Sessantotto nel ’67. Questi sono dati di fatto, è storia, non si tratta di film. E allora Obama, uscito dal suo contenitore fragoroso, costoso e abbagliante, uscito dalle sue dieci feste, non sarà magari l’uomo del film e dell’assoluto, ma forse saprà rileggere le azioni dei suoi predecessori nei 233 anni di storia americana, e saprà leggere le vicende di adesso da uomo nuovo, perché su questo davvero non ci sono dubbi: nuovo, lo è. Grande Orecchio Sappiamo, dai film, e non solo, che nulla sfugge al Grande Orecchio. Ognuno e ogni cosa sono controllati. Web, giornali, tutti i media, noi. Ci sono parole chiave che vengono immediatamente segnalate e monitorate. Una è naturalmente Obama, a maggior ragione Hussein. Ma c’è di più: queste tesi prima di apparire in un libro, sono state scritte per Mymovies, un sito importante, con migliaia di contatti. La tesi del film-Obama non è sfuggita all’entourage del diretto interessato. Lo staff che controlla i media, una sorta di immane eco della stampa, ha segnalato il pezzo in cover sul sito. Per farla breve, di telefonata in telefonata, di contatto in contatto, dopo prudenti e generici approcci, ultimo anello della catena, un funzionario di una stazione di pubblica sicurezza zona centro è arrivato a me. Aveva l’incarico di iniziare un percorso che mi avrebbe portato alla Casa Bianca. Subito dopo il mio legittimo spavento preventivo – Fbi, Cia eccetera evocate, qualche film l’ho visto - mi aveva informato che oltreoceano c’era qualcuno, molto molto importante, che si era divertito leggendo il mio pezzo su Mymovies e che intendeva incontrarmi. “Ma certo” ho detto “il Presidente, dove siamo, su scherzi a parte?” Serio, il funzionario mi ha detto che no, non eravamo su scherzi a parte e che era proprio il

Presidente. Alla fine, tutto considerato, anche la fase della filiera di approcci che non ho raccontato – amici e amici di amici attendibili – ho pensato che se Obama poteva stare in un film con Boldi e la Ventura, poteva certamente stare anche in una vicenda come questa. Due assistenti, uomo e donna, veloci e protettivi; volo Malpensa - Washington, burocrazia rapida, macchina nera, (forse) blindata, tragitto, Casa Bianca. Pass, ingressi, corridoi, stanze, ultimi controlli, sala ovale. Presidente. Stretta di mano. Barack Hussein Obama: jeans, camicia bianca e maglione rosso, seduto dietro la scrivania. «Amo molto l’Italia. Paese bellissimo.» «Bene.» «Mi dicono che lei è il più grande critico del mondo.» «Lo scrive qualche frustrato sui blog, per sfottermi.» «Mi ha allarmato il suo articolo, mr. Farinotti.» «Davvero?» «Mi fa passare come personaggio grottesco, un po’ ridicolo. Del resto se lei ha avuto questa sensazione poteva appartenere anche ad altri, magari a molti, abbiamo pensato che non andava sottovalutata.» «Presidente, le dico prima di tutto che sono uno dei molti, moltissimi che sta dalla sua parte. Semplicemente, il programma, la sceneggiatura era troppo perfetta, un assoluto. Neppure una sbavatura simpatica. Mi viene in mente il gran flnale del giorno dell’incoronazione, perfettissimo, esattissimo, che neppure Spielberg quando lei, il suo vice Biden e le vostre consorti salutavate, nel vento dei rotori, l’elicottero che portava via Bush, come Peter Pan verso l’isola che non c’è.» «Pensi che lo avevo detto ai miei. State attenti alla beatificazione» Obama mi indica l’uomo in piedi in un angolo della stanza “mr. Madison legge e scrive”. L’uomo sorride, appena, sembra quasi in castigo, deve essere uno dei “suoi” dei beatificatori. «Mi hanno fatto fare l’imbianchino su quella ridicola parete, era la prima volta in vita mia.» «Ecco, presidente, sarebbe stato bello che il rullo le cadesse sulla camicia.» «Capisco,» sorride Obama «capisco cosa intende dire. Ci voleva qualche imperfezione.» «Sì, qualche segnale maldestro, da essere umano.» «Lei è un creativo Farinotti, mi dica.» «Così, sui due piedi? Non è semplice.» «Ci provi.» «… non so, una piccola distorsione scendendo dall’Air Force One, o magari, e qui parlo dal versante italiano» indico la pila di quotidiani disposti su un tavolino alla mia destra «in mezzo a queste testate, Times, New York Times, Figaro, Whashington Post, ecco faccia spuntare, che si veda bene, la testata di Libero.» Obama fa un segnale a mr. Madison che prende l’appunto. «Lei mi sembra un italiano attento. Al di là della mia immagine troppo patinata, come mi vede il suo paese?» «La sua fortuna è stato Bush: gli errori, le guerre, lo scarso appeal eccetera, l’antipatia generale, non solo italiana, da parte della fascia che si pronuncia, quella progressistaintelligente. E poi da decenni, dal Vietnam, gli Usa sono visti come gli imperialisti odiabili, con lei si può intravedere il rinnovo di un certo progetto, un ricorso antico. Lei ha parlato del suo paese come ritrovato leader morale e civile, garante disarmato del mondo. Aiutato, mi scusi, dal suo colore. Per ora mi sembra solo un auspicio, ma è vero che adesso l’America non è più vista come il diavolo. E mi riferisco sempre alla fascia progressista, quella che si pronuncia. »

«Sì…» «Ma attenzione Presidente, lei si è davvero esposto, ha firmato un impegno molto, molto alto. Una cambiale salata che dovrà pagare, non sarà semplice. Il pericolo adesso è quello opposto, e mi sembra che lei stia prendendo quella strada.» «Sarebbe?» «Adesso che è insediato sta dando solo brutte notizie: “dovremo fare enormi sacrifici; la crisi è devastante; nessun pacchetto per quanto vasto può risolverla; la ripresa richiederà non mesi ma anni.” Chi l’ha eletto potrebbe pensare: prima ci ha dato lo zuccherino, adesso che lo abbiamo eletto ci dà la medicina.» Obama fa segno al collaboratore, altro appunto. «Vede» sorride «come presidente la cosa peggiore che potrei fare è mentire. L’America non è mai stata facile, adesso è più difficile che mai. Che dio mi aiuti.» Mi sembra che la frase sia detta come suggello finale, frase troppo solenne. Non mi sembra il modo migliore di chiudere questa mia incredibile avventura. Cerco un alleggerimento. «Presidente.» «Sì?» «Mi viene in mente qualcos’ altro, una simpatica sbavatura, ma forse non è abbastanza veniale, magari invece di aiutare si ritorce.» «Dica.» «Organizzi un giro in bicicletta con Romano Prodi.» Sorride Barack: «Vedremo. Se mi permette mr. Farinotti vorrei che lei se ne andasse con un piccolo ricordo.» E mi porge un pacchetto. Per un momento non so che fare, scartandolo mi sembrerebbe di portar via tempo alle nazioni. «Lo aprirò in aereo.» In aereo apro il pacchetto. Contiene un libro, un’edizione del 1925 de Il grande Gatsby, con dedica di Francis Scott Fitzgerald. Il mio romanzo preferito. Penso: “Però che stile”. Poi mi domando: “Ma come avrà fatto a saperlo?” La risposta è davvero semplice, il Grande Orecchio. Sotto, passa la Groenlandia.   IL PREMIO NOBEL A OBAMA: IL FILM CONTINUA   Se nel capitoletto precedente ho giocato un po’ di fantasia, nel novembre 2009 mi sono visto di nuovo costretto a riconfermare l’imbattibilità della realtà: il Nobel, figuriamoci. Diciamo dunque che se fosse esistito quell’illuminato “Obama Studio” con quei “creativi, meglio di autori veri, ispirati come poeti ispirati”, uno di loro, il creativo A, a un certo punto ha proposto: “E se gli facessimo vincere il Nobel?” Non poteva non seguire un dibattito intenso, con un ipotetico membro B. Ce n’erano tutti gli argomenti. Per cominciare la categoria. Il Premio per la pace è sempre stato dibattuto, è controverso per fisiologia, per il suo significato politico. Dunque tanto valeva dare per scontate le controversie. Il primo punto era: ma lo merita? A: La domanda più appropriata sarebbe: “Lo meriterà?”. E la risposta non può che essere: “Sì”. B: Ma comunque sarà un premio preventivo, sulla fiducia. A: E perché no. Barack è uno che merita fiducia. Ci sono stati altri presidenti premiati, magari meno meritevoli. B: Vediamo. Il primo, nel 1906 è stato Theodore Roosevelt. A: Un ottimo presidente, ma la parola “pace” non è che gli si addicesse molto. Era

aggressivo, come la sua politica. Gli Usa a prevalere su tutti, campagne militari in America latina. È stato capo della polizia di New York. Nel 1898, durante la guerra ispano americana ha addirittura comandato una carica decisiva dalle parti dell’Avana. B: Non trascurando di farsi fotografare e di scrivere servizi per giornali firmati con uno pseudonimo, in cui raccontava se stesso come eroe dalle imprese impossibili. Anche questa sembra fiction, anzi, la supera. A: Già, fu il primo uomo politico a sfruttare i media, astutamente, ma non è grave. E comunque qualcosa di importante, anzi decisivo, parlo di pace, la fece nel 1905, quando divenne il mediatore nella guerra fra russi e giapponesi e li mise d’accordo. Era un conflitto etnico fra i più radicati e cruenti della storia. Insomma, fece un’impresa. Poteva valere il Nobel, anche se è vero che la prima definizione di Theodore non era “uomo di pace”. Mentre per Obama la definizione ci sta. B: Nel ’19 fu la volta di Woodrow Wilson a vincere il premio. A: E a Wilson il premio si addice. Se non altro per il suo tentativo di creare quella Lega delle nazioni. L’idea di tutti i popoli del mondo liberi rispetto alla loro etnia. E poi Wilson mi fa pensare, hanno fatto un film su di lui. Scritto da Lamar Trotti, che vinse l’Oscar. B: Già, e così Wilson ha vinto il Nobel e, seppure indirettamente, l’ Oscar. I massimi riconoscimenti. E Obama? Mi fa pensare. B: Certo, a un film su di lui. Adesso è un po’ presto, ma ci metteremo la testa. E non c’è dubbio che qualche Oscar dovrà essere vinto, dal film, dall’attore vedremo. Il terzo Presidente è stato Jimmy Carter, nel 2002, anche se non era più presidente. A: Sì, per il suo Carter center, per l’impegno a promuovere la pace e i diritti umani nel mondo. B: Il punto è che quei presidenti avevano già agito, avevano un pregresso, mentre Barack si vede assegnare un premio sulla fiducia, come abbiamo detto. Non dimentichiamo che, anche se le ha ereditate, sta combattendo due guerre. Occorre cautela. A: Potrebbe far finta di rifiutare il premio. B: No, è troppo, basterà che dica che non se lo merita ma lo accetta come stimolo. E poi si porrà un altro problema, quello della cerimonia. A: Già, Obama fagociterebbe tutto. Gli altri premiati diventerebbero delle comparse. Dobbiamo studiare qualcosa, nella scenografia, nella scaletta, nel suo discorso, che sia breve, sottotono possibilmente. The end. Parlamento Esco dalla fiction per una considerazione finale. Il Nobel alla pace viene assegnato da un comitato nominato dal Parlamento norvegese. Suppongo che nella commissione ci sia un dominus, qualcuno che prevale, colui che ha indicato il presidente Obama. Se c’è questo leader ebbene occorrerebbe fare una copia del Premio e attribuirglielo. Lo si deve a lui se Obama si sentirà (ancora più) impegnato per la pace e magari produrrà qualcosa di utile e buono, per noi. Un’attribuzione e uno stimolo, così importanti, i più importanti, non potranno non funzionare come magnifico ricatto. E come responsabilità di fronte ai premiati dal 1901, semplicemente le più belle, nobili, eroiche intelligenze dell’era moderna, che ci hanno garantito e che aspetteranno Barack H. Obama al varco.   STONE: IL CINEMA CHE VUOLE RISCRIVERE LA STORIA   Settembre 2009. Il trionfo veneziano di Chávez è il punto d’arrivo di un assunto nato praticamente all’inizio del cinema: il cinema fa politica, a modo suo. C’è la realtà e poi ci sono film. Il punto è che i film, la fiction, spingono per diventare realtà. Il cinema è pieno

di personaggi di fiction, spesso eroi, ispirati da modelli reali, trattasi di cinema di fiction, appunto. La cifra dell’invenzione, della creatività, che appartiene all’autore, può lavorare, estremizzare, inventare, la licenza diventa franchigia e la franchigia può diventare immunità, il cinema può permetterselo, i margini sono larghi, praticamente infiniti. Ma qui c’è un autore, Stone, che ormai intende accreditarsi come “storico americano e del mondo”. Ha assunto grande rilevanza, se l’è meritata a forza di opere sempre di alto livello, ritiene di far testo. Ritiene che la sua verità trascenda la verità. Nel suo documentario South of the Border, l’autore perfeziona un soggetto cinematografico che media fra docu e fiction. Crea un precedente più importante del sonoro e del cinemascope: la finzione rubricata a documento. Non usa un attore che fa Chávez, ma usa Chávez che fa l’attore di se stesso e Stone gli attribuisce ciò che l’attore-presidente venezuelano sogna di farsi attribuire: tutto il bene possibile. Chávez non è il dittatore che chiude le testate che gli fanno opposizione, che incoraggia le sue squadracce contro chi non la pensa come lui, che espropria anche i piccoli privati, che penalizza l’economia e l’industria, che usa il petrolio come ricatto, che (forse, lo dicono gli Usa) favorisce il narcotrafico e il terrorismo. Chávez è quello legittimato dal cinestorico Stone, è l’eroe sociale del mondo, il rivoluzionario nobile e nuovo, l’antagonista irriducibile del capitalismo; adesso la parola è quella, non è più democrazia. La verità, la storia e la morale? Che c’entra? Stone e il cinema sono molto più importanti. E se lui racconta ciò che non è vero, ebbene diventa vero. Proni A Venezia tutto l’apparato, l’intelligenza e il mercato e la politica, addirittura l’esercito, ma soprattutto l’intelligenza, si sono posti proni davanti a Chávez. Per certi versi era doveroso: arriva un capo di stato riconosciuto e devi trattarlo come tale. Poi c’è il cinema. E allora devi trattarlo come un protagonista in quel senso. Non solo applausi, ma ovazioni. E lui, il presidente-attore a sorridere e a salutare proprio come un divo, doppio, e vicino a lui Stone, il sorridente antagonista implacabile del proprio Paese. Un Paese che la gente della mostra, insieme alla cultura di tutti i festival ama indicare come il nemico del mondo, col suo capitalismo anomalo ed eccessivo che, appunto, mette in difficoltà il mondo. E poi naturalmente, ci sono gli antichi misfatti Usa verso i paesi come il Venezuela. E dunque se Stone ti fa da garante di un sentimento trionfale per Chávez, in quell’occasione lo puoi sempre accettare. È divertente voglia di trasgressione, di irrazionale, di urlo, di gioco, di appartenenza al tappeto rosso (e se non sfili sei squalificato, non sei nel correntone prevalente della cultura, peggio, non sei oppositore delle maggioranze). E se ti dicono “ma guarda che Chávez è un dittatore vero”, allora puoi sempre ribattere che alla fine sempre di film trattasi. Sentimento momentaneo, che poi evapora. E altro paradosso, grottesco, divertente e scherzoso, è che non è il popolo a guardare, credere, esaltarsi nella propria incompetenza, chiamiamola così, ma l’élite. Tesi Per rendere la tesi, e l’opera, complete, Stone ha messo nel cast altri sei presidenti dell’America latina: Lula (Brasile), Morales (Bolivia), la Kirchner (Argentina), Raul Castro (Cuba), Lugo (Paraguay), Correa (Equador). Diventati, da soggetti politici e sociali, attori di docu-fiction. Ricorro a un riferimento che ho già usato: Augusto fu una delle maggiori intelligenze dell’ umanità, illuminato nell’amministrazione, nella guerra, nella politica e grande innamorato della cultura e dell’arte. Fu lui a favorire Mecenate e il suo circolo. Ospitava gente come Ovidio, Orazio e Virgilio. Da loro assumeva il meglio, assumeva la poesia. Stone sarebbe certamente stato fra i suoi prediletti. Ma di lui, come degli altri avrebbe detto “ Oliver è intelligente, mi diverte molto, ma attenzione a prenderlo troppo sul serio. È un artista.”  

IL WESTERN E LE VIRTÙ DI UNA NAZIONE   “La vera forza della nostra nazione scaturisce dal richiamo intramontabile dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e una speranza indomita.” È un passo del discorso di insediamento di Barack Obama. Il neopresidente richiama una serie di concetti che si rifanno al tradizionale sentimento americano. Possiamo chiamarla “nuova frontiera”, l’ennesima della storia americana. Così come la chiamò John Kennedy, impostando il suo programma sociale, e ideale, che valorizzava le minoranze (i neri, le donne e le generazioni più giovani, fra le altre). Kennedy aveva davanti a sé quasi tutto il percorso, adesso il percorso si è compiuto, ancora una volta all’americana, in chiave di ideale e di sogno. Si è compiuto con un presidente nero. La nuovissima frontiera è arrivata in fondo, certo come intenzione e concetto, poi ci sarà da agire, perfezionare, lottare, soffrire. Risolta l’idea ci sarà la politica. “Opportunità e speranza indomita”. Sono parole perfette, da “vecchia frontiera”. Sono parole da west. Sono proprio di questi giorni le uscite di alcuni fra i più grandi classici di quel genere. Non credo che il marketing delle Case che hanno distribuito questi grandi titoli abbiano previsto l’avvento di Obama e dei suoi principi e abbiano organizzato le proposte di conseguenza. Ma se è così, davvero complimenti a quei responsabili. La conquista Gli appassionati attendevano la pubblicazione de La conquista del west del 1962, uscito allora in Cinerama, ridotto adesso in cinemascope dalla Warner con un procedimento molto complesso. Basterebbe quel titolo. Per cominciare gli attori: John Wayne, James Stewart, Henry Fonda, Gregory Peck, Richard Widmark, fra gli altri. E i registi che firmano l’opera: John Ford, George Marshall, Henry Hathaway. Ci sono davvero i massimi del western. Ad accompagnare i tre episodi che compongono il film c’è la voce di Spencer Tracy che narra la vicenda di una famiglia che parte dall’Est verso l’Ovest: sì pionieri. Siamo nel 1830, e attraverso tre generazioni si racconta la storia americana, si racconta la frontiera. Il patriarca è James Stewart, cacciatore, che la “voce” definisce, con una bella didascalia di integrazione (appunto), “più indiano degli indiani stessi”. Poi c’è la febbre dell’oro, la guerra civile, il progresso rappresentato dalle due grandi ferrovie che tagliarono in senso opposto gli Stati, la legge portata a fronteggiare l’anarchia e il banditismo in quelle lande immense e lontane. Tracy conclude dicendo “la frontiera lasciava l’eredità grande e completa di un popolo libero di sognare, di agire, di plasmare il proprio destino.” Sono parole “obamiane”. Ruolo-guida Giubbe Rosse è un gran classico di De Mille con Gary Cooper. Un ranger del Texas attraversa il confine del Canada per catturare un assassino. Si rapporta con le Giubbe Rosse locali. Altra integrazione e altra indicazione squisitamente americana: veniamo nel vostro paese a darvi una mano, fidatevi. Un segnale di ruolo-guida degli Usa che arrivava dall’altro presidente di frontiera, Kennedy appunto. Un altro maestro di western è John Sturges (I magnifici 7, Sfida all’O.K. Corral) che nel ’53 firmava L’assedio delle 7 frecce, con William Holden. Un gruppo di confederati è prigioniero dei nordisti. Ma quando gli indiani attaccano, il comandante nordista distribuisce la armi anche agli (ex) nemici, e tutti fanno fronte comune davanti al pericolo mortale. Lo sconfitto si alleava col vincitore. Tutto ciò non si lega alla dichiarazione di collaborazione, quasi un atto di fede, dello sconfitto John McCain verso il vincitore Obama?

Douglas Sirk, regista simbolo del mélo firma un western col suo preferito Rock Hudson, Il figlio di Kociss. Hudson è Taza, che si oppone al violento Geronimo cercando una convivenza coi bianchi. Dolorosamente arriva, per dare un segnale, a indossare la divisa della cavalleria. “Integrazione&frontiera”, vanno bene anche qui. Altro titolo della filiera virtuosa è La notte dell’agguato, di Robert Mulligan. Gregory Peck è una guida, gli viene affidata una donna, bianca, a suo tempo rapita dagli indiani, che ha avuto un figlio con un capo apache. Dopo averla protetta da violenze e pregiudizi alla fine la sposa, naturalmente adottando il piccolo apache. Altra integrazione, altra “frontiera”. Il western è davvero portatore di tutta la più bella americanità. È quasi naturale che non abbia più trovato spazio nell’era recente del cinema, più impegnato a rappresentare altri contenuti, di contrasto, di fantasy articolata, di violenza fine a stessa, di rivendicazioni e di orrore (inteso non solo come genere). Non era più tempo di western, chissà che tra una frontiera e l’altra torni anche, come “speranza indomita”, quel genere, felice, di cinema.   CINEMA E TIVU’, TUTTO DIVENTA POLITICA   Il 26 settembre del 1960 i candidati John Kennedy, democratico, e Richard Nixon repubblicano, si affrontarono in un duello televisivo negli studi della Cbs di Chicago. Prevalse Kennedy, che si propose al popolo americano come l’uomo nuovo, con programmi e ideali ecumenici e diversi. Nixon invece apparve come un normale politico che voleva prevalere sul “novellino”, elegante e privilegiato antagonista. Ma valse anche l’immagine, e Kennedy lo capì e la curò e si pose non solo come giovane, prestante e affascinante ma con la barba appena fatta. Quel duello avrebbe cambiato la comunicazione, e la politica. Soprattutto avrebbe eletto una nuova padrona della comunicazione e della politica, la televisione, appunto. Prima c’era stato il cinema, la cui efficacia era stata colta dai politici fin dall’inizio. Soprattutto i dittatori, Hitler, Mussolini, Stalin, intesero quel mezzo come propaganda irresistibile. E accadde il paradosso di titoli come “il Potemkin” e Olympia, apologetici di abbagli devastanti come il nazismo e il comunismo, tuttavia capolavori assoluti. E anche nella democraticissima America del 1915, dell’illuminato presidente Woodrow Wilson, il grande maestro Grifith diresse un’altra opera dominante, La nascita di una nazione, che esaltava il Ku Klux Klan. Come a dire che il cinema intende vivere di pura autonomia e non vuole essere applicato a nulla salvo che a se stesso. E, soprattutto, quando si tratta di temi tanto seri, non va preso troppo sul serio. Politica-cinema-televisione. È di questi giorni una esemplare rappresentazione di questo circolo frastornante e di questa globalizzazione triste. Una giostra su cui sono saliti Ventura e Santoro, Luxuria, il polittico eroe dell’Isola dei famosi Belen-Rossano-IvanaBorriello e sulla quale hanno fatto salire persino Obama. Succede che nel film La fidanzata di papà nasca un bimbo nero a una ragazza bianca. Si scopre che una generazione prima Simona Ventura aveva avuto una storia con un nero diventato poi infinitamente importante, Obama. Si instaura un gioco alla La ronde di Ophüls, dove i personaggi si rapportano l’un l’altro in un circolo che si conclude dov’è cominciato. Dunque dalla Ventura a Obama, da Simona all’Isola dei famosi, a Luxuria, già deputato/a e vincitore/trice dell’Isola dei famosi, delatore/trice di bacio galeotto fra bel Rossano, marito di miliardaria vecchia mafiattratto da modella giovane Belen fidanzata di calciatore anche lui bello Borriello. La tradita vecchia Ivana rompe matrimonio e tradito giovane e bello Borriello non segna più. E Luxuria trionfa e si pone portatrice/ tore di novità e di cultura in Isola dei famosi, programma notoriamente di pensiero debole. Succede che Luxuria, neosimulacro della sinistra diversa e vincente (in tivù) venga ospitata/to da Santoro

titolare di programma di pensiero intelligente, approdando nel paese (televisivo) della qualità, il paese che ospita i Floris, le Dandini i Fazio, le Gruber, i Lerner e che ti legittima in alto. Sarebbe un paese dal clima opposto a quello dell’Isola, ma Luxuria, da bravo modello ibrido, ha omologato culture e utenze. La Ventura, che volle Vladimir nel mare dell’ Honduras, a sua volta in automatico legittimata in alto, si dichiara onorata da Luxuria e da Santoro: “Neppure nei sogni avrei pensato di interessare Santoro.” Così fra Boldi, Obama e l’Isola, la Ventura diventa “politica”, accolta come, momentaneo, modello di sinistra. E l’ex deputata/to di Rifondazione si pone come eroe/ina generale di cultura e comunicazione, un riciclo meno nobile del precedente status, ma potente e divertente. E, forte dei due status, Luxuria si è ritagliato/ta una sorta di franchigia-quasi-immunità. Non è criticabile, è solo “approvabile”. Se non sei con lei/lui non sei progressista, sei leghista, moralista, cattomoralista, non accetti i diversi, non accetti che il diverso sia migliore di te. Insomma sei sorpassato. Sei ignorante. E qui vorrei estendere alla televisione il concetto espresso sopra riferito al cinema: non va presa troppo sul serio. Del resto gli utenti hanno mostrato, per lo più, di aderirvi: il piccolo e il grande schermo sono una cosa, la politica e la cabina elettorale, un’altra. Ancora cinema e ancora politica nella decisione della Rai di tagliare le sequenze “spinte” di Brokeback Mountain, il film pluripremiato (Leone d’oro, Oscar importanti e Golden Globe) di Ang Lee. È la storia, conosciuta, di due cow boys omosessuali. La copia è stata trasmessa senza una scena di sesso e una di bacio appassionato. Si sono indignate le associazioni gay ed è montato il caso mediatico e politico. Un film come strumento politico è naturale. Ma è innaturale la censura. La censura è peggiore del film peggiore. Mentre “Brokeback” possiede qualità, al di là del contenuto che può non piacere. Quando uscì, nel 2005, ebbe da parte mia sul “Farinotti” un giudizio alto, 3 stelle. Una vasta corrente lo santificò. Qualcuno scrisse che si trattava della più bella storia d’amore in assoluto, non solo gay. Non è vero. La storia più bella è quella narrata ne L’amore è una cosa meravigliosa, con William Holden e Jennifer Jones, un uomo e una donna.   OBAMA, CLOONEY, BRUNI: DIVI A L’AQUILA   La premessa è ormai un assunto, riconosciuto: la politica la fanno i politici ma anche le star. Quando è in atto una grande piattaforma ecco che gli uni si affiancano agli altri. A dire il vero i politici (di mestiere) preferirebbero non essere tallonati da quelle ombre ingombranti, ma tant’è, occorre stare al gioco. George Clooney è calato a l’Aquila e ha ottenuto il suo cospicuo palcoscenico, una piattaforma tutta sua, ma se la merita, trattasi infatti di attore e uomo completo, impegnato e informato, schierato sul versante progressista e inoltre, grande sponsor di Obama. È stato accompagnato da Veltroni, solo che in questo caso il peso, anche politico, dell’attore schiacciava quello dell’ex leader, sconfitto, dell’opposizione. Era il politico a mettersi all’ombra della star. Clooney si è mosso bene, accompagnato delle autorità locali. Si è mostrato sinceramente toccato dal dolore e, secondo la sua attitudine pragmatica, ha detto che farà un film laggiù, sperando di essere utile, anche economicamente. Poi c’è stata Carla Bruni, (ex) top model. Anche lei ha cercato la sua piattaforma, anzi il suo G8 personale. Solita, conosciuta strategia: arrivi dopo e diventi il centro di tutto. La passerella sarà libera e sfilerai da sola. Solo che quando lei ha sfilato, intorno alla passerella erano rimasti in pochi. Tuttavia Carlà è stata a sua volta positiva e pragmatica, staccando un suo assegno personale di 50.000 euro. Ed è ciò che più conta. Star prevalente Ma in tutte le chiavi, la star prevalente è stato Obama. Ho già fatto notare un episodio,

un pezzo di cinema davvero strepitoso, che neppure Spielberg: il gran finale del giorno dell’incoronazione, quando Obama, il suo vice Biden e le rispettive consorti salutavano, nel vento dei rotori, l’elicottero che portava via Bush, come Peter Pan verso l’isola che non c’è. Con gran sollievo di tutti. Un the end che innescava un incipit dalle prospettive eroiche, da “nuova frontiera” americana. Non voglio entrare nel merito politico anche se Obama sembra davvero capace, nel concreto, da presidente e non da candidato-che-tuttopromette-e-poi-chissà-se-manterrà, di mantenere. Ma in termini di cinema e di spettacolo la grande star dell’Aquila è stato lui: per carisma, per umanità, per estetica. Altro che Actors Studio. E rispetto all’ultimo saluto all’elicottero, Barack ci concesse momenti di cinema ancora più alti. Spanna La delegazione dei grandi si muoveva negli spazi all’unisono. Barack è alto uno e novanta, sovrasta tutti di una spanna e Berlusconi di quattro o cinque. Si muove da nero nobile, con quelle gambe lunghe, da pantera ondeggiante sicura nel proprio habitat. Altro che un Denzel corpulento, o un Will, certo elegante, ma non presidenziale. Ha caldo e si toglie la camicia. Sconcerto di quelli del protocollo, ma Barack non bada a quegli sconcerti. Alla grande cena ufficiale si siede vicino (a due posti) a Gheddafi che lo aveva attaccato poco prima, questo è spettacolo&politica e convenzione (politica) capovolta. In mezzo alla gente e al dolore, Barack ha stazionato sotto quel frontone “Sede del governo”, spaccato in tre dal terremoto e quello non era il set di un film catastrofico. E niente Actors in quel momento, occhi lucidi veri. Come in un film ricorro a un flashback: la sequenza recente del Presidente che durante un’intervista viene disturbato da una mosca. Barack per un po’ sopporta, piccole mosse della testa per allontanarla, poi visto che quella insiste, si concentra, studia il tempo e lo spazio, aspetta che la mosca si posi sulla sua mano sinistra, e con la destra la schiaccia. La mosca è a terra, abbattuta. Colt&Magnum Poteva il presidente essere da meno di Clint Eastwood che non mancava il bersaglio, sia con la Colt nel West che con la Magnum nel Bronx? Solo che Clint è un eroe di fiction, le armi sono caricate a salve. E Barack l’eroe (vero, non da fiction) ha centrato il bersaglio. Se lo avesse mancato certo avrebbe rimediato con un sorriso o una battuta, ma intanto lo avrebbe mancato. E, lo sappiamo tutti, non è facile colpire una mosca, ti riesce una volta su molti tentativi, sempre che ti riesca. Durante un comizio a Teheran, Ahmadinejad è stato infastidito da un insetto. Ha cercato di liberarsene, ma non è riuscito ad abbatterlo. Ma Ahmadinejad, – mi si perdoni mafianche qui non parlo di “politica”, parlo di immagine e di eroe spettacolare – davvero non è Obama. Niente frontiera, niente Actors, niente gambe da pantera. Il leader iraniano può anche mancare l’insetto, quasi ce lo aspettiamo. A l’Aquila la politica ha concentrato tutto questo, è stata fortunata. I grandi del G8, gli africani, dunque i ricchi e i poveri, Obama, la città distrutta, la commozione, Clooney e la (ex) top model. Mai visto un set così. Per la regia del presidente del consiglio.   CINEMA ROMANO, CINEMA DEL NORD, FALSO PROBLEMA   Alle Manifatture Tabacchi di Milano si è inaugurata nel 2009 (oltre al resto) la nuova sede della Scuola Nazionale del cinema – Centro Sperimentale di Cinematografia, dipartimento di Milano. Umberto Bossi ha criticato l’attitudine consolidata del “cinema romanesco” auspicando una controtendenza che privilegi, naturalmente, il nord. Le testate più importanti hanno ripreso l’argomento indirizzandolo verso una garbata polemica. È

emerso il lungo contrasto fra Roma e Milano. Contrasto impari a dire il vero, perché Roma, se mai c’è stato gioco, ha davvero giocato come il gatto col topo. Cinema italiano Conosco il Centro Sperimentale, faccio parte del comitato scientifico della Scuola generale e insegno Letteratura, Estetica e Modelli del cinema nel Dipartimento milanese. Il Centro, nato nel 1935, è la più antica Scuola del mondo e certo una delle più importanti. “Centro” significa davvero Cinema Italiano. A partire dall’inizio, quando il movimento veniva gestito dal regime, dal Duce stesso attraverso suo figlio Vittorio e i premi andavano a titoli di regime. Il Centro si integrò e rappresentò quel magnifico momento del dopoguerra che fu il realismo, e poi la Commedia, poi i generi da noi reinventati, il western e il poliziesco. Ospitò i grandi maestri, artisti generali come Visconti, De Sica, Rossellini, Antonioni e Fellini. Certo, da molte stagioni il Centro, rispetto al nostro cinema è diventato un’eco, sempre più lontana. Non è colpa del Centro, ma del cinema italiano che non riesce più a farsi sentire. E proprio in questi giorni, sto sviluppando, in questa sede, la tesi del “quando eravamo i più bravi del mondo”. E non è davvero casuale che la Scuola sia ubicata praticamente di fronte a Cinecittà. Destini paralleli e segnali paralleli, appunto. Se entri in Cinecittà, un po’ defilata, puoi ancora vedere la carcassa del Rex di Amarcord. Altro tempo e altro cinema. E premi, a cominciare dagli Oscar, che piovevano. Dialetti Bossi e la Lega naturalmente hanno evocato i dialetti. E la critica ha risposto. Ci sono state tutte le dovute citazioni, da Totò e Peppino in piazza del Duomo, al vigile Sordi in Piazza della Scala ( “cosa fa chi a Milàn con ‘stu cald?”), ancora il romano Sordi con la milanesissima Franca Valeri ne Il vedovo, e poi Moretti, e lo “spurio terrunciello” Abatantuono, De Sica Vittorio autista milanese ne Gli uomini che mascalzoni, e ancora De Sica Christian dall’accento pesantemente (fin troppo) milanese in Sapore di mare. E ancora Aldo, Giovanni e Giacomo.   IPERBOLE BOSSI   Sulle esternazioni “bossiane” valgono alcune considerazioni. Il leader della Lega si muove su due percorsi di comunicazione. Il primo è quello dell’iperbole, dello choc, persino della violenza, in sostanza della propaganda. In questo quadro si inseriscono le grandi provocazioni conosciute: le pallottole, la rivoluzione, il “celodurismo”, Roma ladrona. Sono “strilli” per catalizzare il primo strato di attenzione, vanno a toccare la “pancia” di quella parte di utenza (di elettori), che bada soprattutto alla “pancia”. Poi c’è il percorso sottile, ci sono le strategie sotterranee, insomma c’è la politica e c’è il concreto. E lì Bossi ha dimostrato intelligenza ed efficacia. Bastano i numeri. Il proclama sul nuovo cinema del nord è uno strillo. Bossi sa benissimo che ci sono situazioni radicate che la nuova sede delle Manifatture Tabacchi non basterà a rimuovere. Sa bene che i dialetti ci sono e ci saranno e che il romanesco continuerà a prevalere. E forse è giusto che sia così. Perché i dialetti, nei film, fanno il proprio dovere. Non intendo, in questa sede, scrivere un saggio, neppure brevissimo. Cito il napoletano coi nomi detti sopra, il toscano dei Benigni e Pieraccioni e il milanese di Pozzetto che fece prevalere quella cultura comica per decenni. Nella gestione dei dialetti il cinema se l’è cavata bene. Franchigia Il dialetto, si sa, possiede una franchigia importante, quella di moltiplicare l’intensità di una battuta comica. Una battuta da 5 in italiano, diventa da 9 in napoletano. Il cinema si è inoltre inventato creatività anomale, ma funzionali. Due citazioni esemplari: nella

riedizione recente del capolavoro dei Marx, La guerra lampo dei fratelli Marx, la distribuzione fece parlare Harpo in sardo. Nel 1957 arrivò da noi il western della Metro Many Rivers to Cross, titolo che c’entrava davvero poco con la traduzione italiana: Un napoletano nel Far West. Era la storia di una famiglia irlandese trasferita nell’Ovest. La distribuzione italiana non solo cambiò titolo, ma giocando sul magnifico talento dei doppiatori della CDC (cooperativa dei doppiatori cinematografici) cambiò la storia. Gli irlandesi divennero napoletani e il loro villaggio si chiamò San Gennaro city. E così sentivi un indiano minacciare Robert Taylor: “Statte accuorte.”. Pure accettando tutti i trucchi possibili, è vero che il dialetto si addice con naturalezza al cinema. Il problema sta nella qualità dei film, non nella differenza fra Roma e Milano. Contaminazione In chiave-dialetto è molto peggiore la contaminazione televisiva, con inserti “romani”, questi sì, forzati e innaturali. Che qualcuno ritiene invece naturali e dovuti. Anche in questo senso, citazione esemplare: il programma Forum, condotto da Rita dalla Chiesa. Uno dei personaggi cosiddetti fissi è il rosso Fabrizio Bracconeri, dal romanesco davvero estremo, ultraperiferico per di più, senza alcuna eleganza. Eroi Nel cartello dei titoli ricorsi nella (garbata) polemica dei dialetti, del nord, del centro e del sud, è stato trascurato quello più importante e felice. Ne La grande guerra Sordi è romano e Gassman milanese. Si rinfacciano tanti luoghi comuni, in grande stile: “milanese in fanteria, romano in fureria” dice Gassman all’altro. Quando si tratta di offrirsi volontari per un’azione pericolosa Sordi dice al commilitone: “Vacci tu, che sei milanese”. Per tutto il film i due si rimbalzano romanità (autentica, quella di Alberto) e milanesità (mutuata, quella del ligure Vittorio). E alla fine Gassman, prigioniero con Sordi, quando il comandante austriaco dice a un subordinato che l’unico fegato conosciuto dagli italiani è quello alla veneziana, guarda in faccia l’ufficiale e dice: “Visto che parli così mi a tì te disi propi un bel nient, hai capito? Faccia de merda.” Non sarà il milanese del purista Mazzarella, ma per il cinema va benissimo. E c’è anche la bella metafora finale che lega le due città: il milanese Gassman e il romano Sordi, fucilati, a terra l’uno vicino all’altro, eroi compagni e cialtroni, dunque ancora più veri, comprensibili a tutti.   GRILLO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO?   Che gli artisti, e in particolare attori e registi, sostengano un politico è prassi normale negli Usa e anche da noi. Ma un artista che intende fare politica vera, da noi è un precedente. Nanni Moretti ha fatto precisi discorsi politici, nei film e nelle piazze, ma non risulta, almeno per ora, che intenda candidarsi da qualche parte. Artista Ed ecco Grillo. Volendo parlare di lui è corretto estendere il concetto “attore” al concetto “artista”, anche se al lemma Grillo, su alcuni dizionari, corrisponde la definizione “attore italiano”. Il “genovese” infatti ha interpretato dei film, diretto anche da gente interessante, numeri uno, come Comencini (Cercasi Gesù) e Dino Risi (Scemo di guerra). Certo, sono passati più di vent’anni. Da anni, partendo da lontano, in modo periferico, direi concentrico – con cerchi sempre più stretti – Grillo attacca la politica. Ci si allontana mentre ci si avvicina sempre più. L’uomo è ambizioso e certamente ritiene di possedere l’intelligenza e la capacità per fare il grande salto, che è davvero triplo: passare dalle parole all’azione, dalla dialettica al potere, dal potere al potere assoluto. Insomma ritiene di poter governare il popolo. Certo, non è semplice.

Alla grande Tuttavia qualcuno, attore, c’è riuscito. “Alla grande” diremmo, perché è diventato l’uomo più potente del mondo. Alludo naturalmente a Ronald Reagan. Ce ne sono stati altri, attori in politica, come Eastwood e Schwarzenegger, ma starò su un solo efficace esempio, Reagan. Se cercavi il lemma Reagan sui dizionari fino al 1964 la definizione era “attore americano”. Il giudizio successivo, quando ormai era un politico, era “attore mediocre”. Non è vero, non fu mediocre, certo non fu una star. Ma aveva un discreto appeal, soprattutto all’inizio, negli anni della Warner, quando, poco più che ventenne, in qualche film fu il partner di Errol Flynn che star lo era davvero e come tale, presenza ingombrante che tutto divorava: Reagan compreso. Successivamente Ronald divenne un modello del west, non peggiore di molti altri. Divenne Presidente, repubblicano, degli Stati Uniti dal’81 all”89, per due legislature dunque. In precedenza, politicamente aveva fatto ottimo esercizio come governatore della California, mostrando, lui uomo di destra, oltre alla “naturale” attitudine liberal-economica, anche una buona attenzione ai ceti deboli. Insomma fu un buon presidente, ottimo, per qualcuno. Ma aveva un vantaggio rispetto a Grillo: non era un comico. Non aveva quella visione del mondo. Estremi Beppe Grillo vive di estremi, di iperboli, di paradossi e di grottesco. In dialettica è imbattibile e nessun politico lo affronterebbe mai. Ne sarebbe travolto, perché non riuscirebbe, il politico, a portare l’attore sul proprio terreno. E l’attore avrebbe gioco facile, per attitudine ed esercizio, a ficcarsi nei punti deboli dell’altro. Certo, questa non è politica, dove il linguaggio è diverso e quasi tutto ciò che è sostanza è ambiguo e sotterraneo. La dichiarazione di “discesa in campo” del presunto candidato è stata questa: “Dalla morte di Enrico Berlinguer nella sinistra c’è il Vuoto. Un Vuoto di idee, di proposte, di coraggio, di uomini. Una sinistra senza programmi, inciucista, radicata solo nello sfruttamento delle amministrazioni locali.” Certo Grillo non si è reso simpatico ai suoi (auspicati) futuri competitor alle primarie del Pd. Costoro provengono tutti da un lungo esercizio di “funzionariato”; non conosceranno l’applicazione al lavoro, non avranno la percezione, se non per sentito dire, dell’animo e del cuore dell’elettore. Ma sono monumenti dalle radici profondissime, non intendono farsi rimuovere. E poi, da bravi funzionari di lunghissimo corso, conoscono bene la burocrazia e sanno come attivarla per frenare e bloccare. E Grillo è stato bloccato. Un funzionario ha fatto notare che Grillo faceva parte di un movimento che ha presentato liste contrapposte a quelle del partito. Un altro ha trovato modo di annullare la sua iscrizione di Paternopoli. Ma volendo avrebbero trovata tutta la burocrazia che serviva, all’infinito. Non basta la simpatia popolare verso Grillo o la Sfida di certi personaggi interni al partito che si augurano (o fingono di augurarsi) un’inversione traumatica di rotta. Capo Ma supponiamo che per una serie di favorevolissime, quasi miracolose traiettorie, Grillo possa essere eletto capo del partito e che per altre ancora più miracolose casualità possa diventare Presidente del Consiglio. Che farebbe Grillo di fronte a una crisi internazionale, economica, o bellica? Come affronterebbe una “finanziaria”? Col paradosso, con lo “strillo”? Insultando qua e là nei banchi del Parlamento? Eppure lo stile dovrebbe essere quello, così come il look, perché per essere credibile il nuovo Presidente non dovrebbe tradire se stesso, dunque dovrebbe vestirsi con quei maglioni, correre e muoversi in frenesia, urlare dosando i tempi che richiamano l’applauso. Il Presidente del consiglio Grillo dovrebbe essere fedele a se stesso fino in fondo. Non potrebbe omologarsi a quelli che ha sconfitto, essere simile a loro. Camminando vicino a un Presidente straniero davanti a un picchetto d’onore ci si potrebbe aspettare che sistemi il fucile o l’elmo dell’alta

uniforme o la schiena troppo diritta del militare, per ridurre la gestualità a mosse meno rigide e ufficiali. Oppure, in virtù della grande sensibilità verso lo spreco, durante una cena ufficiale potrebbe rilevare il prezzo eccessivo di un certo vino e farlo riportare indietro. Che politica sarebbe questa, e quali sarebbero i risultati? Dunque l’assunto finale sarebbe che la politica non si addice agli attori. Tuttavia, per provocazione, per affinità e vicinanza (parlo di artista, non di idee o di politica, non è questa la sede), starei certo più dalla parte dell’attore che del politico. E, ribadisco, visto che in questa sede di cinema e spettacolo trattasi, e non di politica, dico: Beppe Grillo Presidente del Consiglio? Ma perché non provare.   MA PERCHÉ INSULTARE IL PAPA?   Non conosco papa Ratzinger, ma è come se un po’ lo conoscessi. Nel marzo del 2005, quando uscì il mio romanzo 7 km da Gerusalemme, l’editore, la San Paolo, contattò il cardinale Joseph Ratzinger per la presentazione. C’era una ragione professionale e di familiarità. Ratzinger ha scritto 16 libri per la San Paolo. E c’erano anche un paio di curiose coincidenze condivise, da lui e da me: il nome, Giuseppe, e il giorno e il mese di nascita, 16 aprile. “Accetto volentieri – disse il cardinale – a meno che non sopravvenga qualche imprevisto”. L’imprevisto sopravvenne un mese dopo. Ratzinger privilegiò il conclave e la sua elezione a Papa rispetto alla presentazione del romanzo. Nel 2006 si concluse la laboriosa produzione del film “7 km” e la San Paolo organizzò una proiezione privata per Benedetto XVI. Il 16 marzo del 2006 ricevetti una lettera dal Vaticano. Era del Pontefice. Dunque avevamo un rapporto. E questa è una ragione in più di dolore e (ma sì) di rabbia quando lo vedo insultare. C’è stato un comico, Crozza, che giocava col Papa, lo sfotteva in nome della libertà della satira. C’è stato un artista – non ne ricordo il nome e non intendo sforzarmi di ricordarlo – che rappresentava Ratzinger in mutande. Poi c’è stato molto altro. È davvero troppo facile far ridere col Papa, è un esercizio di stupida gratuità. Basta mostrarlo, basta farlo esistere fuori dalla sua liturgia gestuale e ufficiale, che è rigorosa e ingessata. Il Papa che si allaccia una stringa: fa ridere; che si sistema il colletto: fa ridere; farebbe ridere persino quando mangia o si soffia il naso. Farebbe ridere sempre, al di fuori, della sua rigida gabbia estetica. Il grottesco è automatico, la risata strappata davvero a buon mercato. E poi c’è il personaggio. Una delle parole più pronunciate, in politica, dell’era recente è “laico”. Un concetto che precede e subordina tutti gli altri: buono, onesto, libero, effcace, solidale, risolutore, giusto. No, prima deve esserci “laico”. In Piazza Navona gli “artisti” hanno insultato Ratzinger. “Perché fa politica” hanno detto. Nessuno – salvo pochi come loro – li ha presi sul serio. Si sono dati retta da soli. Sono guastatori arroccati su una posizione ideologica che si va ormai dissolvendo: sono ateo e devi esserlo anche tu. La penso così e “così” devi pensarla anche tu. Così ti insulto, visto che non posso annientarti. È, appunto, la posizione del guastatore. Una nostalgia grottesca, una guardia al niente. Sono stufo di costoro. Tutti lo siamo. Ma non voglio apparire “sospetto” e dunque devo accreditarmi. Io non sono un mistico in ginocchio. Sono un credente normale. La mia posizione è quella raccontata nell’incipit di “7 km”: “Lo dichiaro senz’altro: non leggo gli oroscopi, le madonne non piangono, non mi evolverò in una farfalla o in un santo. Tuttavia sono disposto a credere, se qualcuno mi porta delle prove. Almeno indiziarie.” Sono semplicemente un credente con dubbi, come molti, come moltissimi. Però sono affezionato al mio Gesù e a chi lo rappresenta da questa parte. E, lo “dico senz’altro”, sono laico. Sto dalla parte del papà di Eluana che ha lasciato morire in pace sua figlia già morta. Sto dalla parte di quella sentenza. Certo, Ratzinger non

condivide, ma non può fare altrimenti. E, “facendo altrimenti” non fa politica, fa semplicemente il suo mestiere. Forse sto per essere blasfemo, ma mi piacerebbe, a tu per tu con lui, domandargli, sussurragli in privato se davvero, “in privato”, non stia dalla parte di quel padre. Nel film L’ora di religione l’agnostico Marco Bellocchio racconta di un padre che fa di tutto perché suo figlio eviti, con la sua classe, la visita al Papa. Ma perché? Puoi essere ateo, ma come puoi non essere interessato a un “uomo” tanto eccezionale? Uno che conosce posti che sono più lontani dei nostri, che sa cose che noi non sappiamo. Non sarebbe emozionante, magari semplicemente come rito o come evento, trovarselo di fronte? Sarei felicissimo se i miei figli lo incontrassero. Come sarei felice di incontrare personaggi “un po’ diversi”, come Rowan Douglas Williams, capo della Chiesa anglicana, oppure Alessio II patriarca di Mosca. E tutti gli altri. Anche questa gente è andata dove non va nessuno di noi. Sarei curioso. Dunque questi uomini particolari, il Papa in primis, titolari di cittadinanze diverse e più alte, meritano una franchigia. Andrebbero lasciati in pace. Quando ero a Damasco per gli esterni del film, venni avvicinato da una donna. Mi disse: «Sono qui a nome di Al-Din Hassoun, il gran Muftì.» Non poté non colpirmi l’essere oggetto dell’attenzione del “papa” siriano. Continuò: «Il gran Muftì ha letto e approvato la storia di 7 km da Gerusalemme. Le manda queste parole: “Noi onoriamo e apprezziamo Gesù uomo e profeta, e ci auguriamo che attraverso questa Sua rappresentazione Egli torni, dopo tanto tempo, a portare la pace fra i nostri popoli.”» Tremare i polsi è un modo di dire, mafia me tremarono. Voglio rilevare che un paese musulmano ospitava e approvava una storia che reca nel titolo “Gerusalemme” (non entri in Siria con quel timbro sul passaporto) e il cui protagonista è il Dio cristiano. Avevo due avalli, due testimonianze abnormi, e opposte se vogliamo: del Papa e del gran Muftì, un altro che conosce molto. Hassoun e Ratzinger, culture opposte, differenza estrema di pensiero e di mistica. Eppure da laggiù, da Damasco, arrivava un’indicazione di tolleranza che non è arrivata da piazza Navona.   I ROSENBERG E I SEGRETI ATOMICI PASSATI AI RUSSI: DOPO 55 ANNI EMERGE CHE ETHEL ERA INNOCENTE.   Nel film Indiziato di reato Robert De Niro è un regista che si trova nell’ingranaggio della caccia alle streghe. Accusato di simpatie comuniste vede la propria vita distrutta nel lavoro, nella famiglia, in tutto. Nei primi anni cinquanta, è notorio, Hollywood, che dava grande visibilità, venne presa di mira da una commissione del senato che in nome di una crociata anticomunista lanciò accuse infondate, spesso false, in ogni direzione, creando un autentico stato di terrore nel paese: il maccartismo. Hollywood si vide al centro di vere prescrizioni, le famose liste nere. La vicenda di Julius ed Ethel Rosenberg, ebrei, vive in quel quadro. Vennero accusati di essere spie sovietiche e di aver passato documenti decisivi alla Russia per la costruzione della bomba atomica. Maccartismo e guerra fredda: i coniugi non ebbero scampo, morirono sulla sedia elettrica il 19 giugno del 1953. Per salvarli, all’epoca, ci furono petizioni e pronunciamenti. Il presidente Eisenhower non concesse la grazia. Nel 2008, 55 anni dopo, testimonianze riportate dal New York Times affermano che Ethel fu sì al corrente dell’attività del marito, ma non vi partecipò. Quella stagione, così ardente, dolorosa, di potente seduzione cinematografica, produsse film di grande qualità. Il potere, l’abuso e l’ingiustizia erano concetti perfetti da rappresentare. I Rosenberg potevano essere un modello decisivo. I processi deformati: un elemento di racconto irresistibile. Nel film sopra citato c’è il figlio di De Niro, dieci anni, che assiste a un servizio televisivo che mostra i due bambini dei Rosenberg che dovranno rimanere senza genitori.

Lo speaker dice “la tragedia di questi due bambini è ben poca cosa di fronte al delitto commesso dai genitori”. Il bimbo si spaventa, teme che suo padre possa subire la stessa sorte. De Niro, progressista, certo non comunista, lotterà inutilmente contro la commissione ottusa e dolosa. In Come eravamo, il regista Pollack, grande liberale, racconta dei “10 di Hollywood”, un gruppo di artisti del cinema che resistettero alla commissione rifiutandosi di denunciare i loro amici. Nel film Barbra Streisand, attivista ebrea, si batte per i dieci, si scontra col marito Robert Redford, il suo impegno le costerà la famiglia. Il Maratoneta è un altro film di impegno e qualità che tocca quell’argomento. Dustin Hoffman è uno studente ebreo che sta preparando una tesi sul maccartismo. Scoprirà che la sua famiglia ha avuto legami dolorosi e ambigui con la commissione e con coloro che la subivano. Un titolo fondamentale sull’argomento è Il prestanome, di Martin Ritt. Ritt fu uno dei personaggi che all’epoca ebbe il suo nome nella famigerata lista nera. Fu coraggioso a mantenere le sue posizioni. Il film narra di un bookmaker, Howard Prince (Woody Allen), che diventa prestanome di un suo amico, scrittore televisivo, simpatizzante comunista, che non può lavorare perché sospettato dalla commissione. Il montaggio iniziale del film mostra alcune delle vicende e dei personaggi rappresentativi di quegli anni Cinquanta: si comincia proprio dal senatore McCarthy, colui che aveva dato il nome alla caccia alle streghe, seguono il presidente Truman, Marilyn Monroe e suo marito Di Maggio, il generale Mac Arthur i reduci della Corea, il campione del mondo dei massimi Rocky Marciano, Eisenhower a un pranzo ufficiale, e loro, i Rosenberg. I due bambini visti nel servizio televisivo non facevano parte del film, ma esistevano. Ed esistono. In loro nome nel 1990 è stato fondato il Rosenberg Fund for Children, che si impegna nell’assistenza dei figli dei perseguitati politici. Il caso dei Rosenberg attirò l’attenzioni di intellettuali e di artisti di tutto il mondo. Renato Guttuso sull’emozione dell’esecuzione dedicò loro un’opera. Bob Dylan scrisse, giovanissimo, un’accorata canzone che ricordava Julius ed Ethel. I Rosenberg avevano tradito il loro paese. Ma la pena di morte tradisce tutti noi.      

  CINEMA E SOCIETÀ     LA PIU’ ANTICA E IMPORTANTE SCUOLA DI CINEMA DEL MONDO SI ESPANDE   Il CSC, Centro Sperimentale di Cinematografia, è la scuola più antica e importante del mondo. La settimana scorsa il ministro dei Beni culturali Bondi ha confermato Francesco Alberoni alla sua presidenza. La sede storica, fondata nel 1935, è a Roma, dove si sono formati i migliori professionisti del cinema italiano. Lo statuto recita: “Fra le sue finalità vi è lo sviluppo dell’arte e della tecnica cinematografica e audiovisiva a livello di eccellenza. Il “Centro” costituisce un luogo di ricerca e di sperimentazione avanzato e un incubatore culturale dove confluiscono tutte le professioni del settore cinematografico”. Luigi Chiarini, storico e critico di cinema, fu uno dei fondatori, e primo direttore, del CSC. Da allora il Centro è stato “toccato” da tutti, proprio tutti, i grandi, grandissimi, leggendari, personaggi del cinema, e non solo del cinema. Le immagini ci rimandano un Luigi Pirandello sul set di Ma non è una cosa seria, il film con Vittorio De Sica, tratto dalla sua commedia, e un García Márquez che riceve il diploma della Scuola. Pirandello e Márquez, premi Nobel. Nel 1968 tenne un corso al CSC Pier Paolo Pasolini. Il corso del ’50’52 vide fra i suoi iscritti Domenico Modugno. Un relatore recente è stato Camilleri. Nei decenni, nella didattica della Scuola, come docenti o relatori sono passati, fra gli altri, De Sica, Chaplin, John Ford, Fellini, Rossellini, Antonioni, Rambaldi, Storaro, Ferretti, Morricone. La bacheca del Centro trabocca, idealmente, di Oscar, Leoni e Palme d’oro. La didattica di Alberoni è rigorosa, con una solida base culturale e storica che si evolve diventando esercizio, poi mestiere. Gli allievi “studiano facendo”. La Scuola ha un’intensa attività produttiva, realizzata attraverso la propria società di produzione. Rinnovato e potenziato, il CSC si è recentemente articolato su base regionale, costituendo, in aggiunta alla Sede Centrale di Roma, le Sedi Regionali della Lombardia e del Piemonte dove, accanto alla formazione cinematografica generale, si programmano corsi che valorizzano le specificità locali e costituiscono un polo di eccellenza capace di affermarsi anche a livello internazionale. In Piemonte si insegna animazione, bi e tridimensionale; in Lombardia la Fiction seriale, la Cinematografia d’Impresa e la Pubblicità. Nel maggio 2009 è stata sottoscritta a Palermo la convenzione fra la Regione Sicilia, il Comune di Palermo e il CSC, per l’apertura a Palermo della Sede distaccata della Sicilia del Centro Sperimentale di Cinematografia, con la specifica vocazione di istituire una Scuola di cinematografia di eccellenza con particolar riguardo al documentario storico artistico e alla docufiction. Si tratta di un settore in forte espansione, con un’enorme domanda internazionale e che non presenta ancora nessuna scuola di eccellenza. La sede siciliana appare la più adatta per stabilire una rete formativa, produttiva e distributiva con tutti i paesi del mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Oriente. In tutti i continenti ci sono, infatti, opere d’arte da valorizzare e un patrimonio storico da illustrare e far conoscere al mondo intero. È stata così allargata, esponenzialmente, la possibilità di lavoro dei diplomati. Gli spazi nel cinema sono quasi tutti occupati. Mentre la pubblicità e il documentario aprono orizzonti vastissimi, dalla multinazionale al mobilificio nella piazza del paese. Il livello di professionalità dei diplomati è altissimo. A suffragare la qualità raggiunta c’è un riconoscimento molto ambito: quest’anno il Centro Sperimentale di Cinematografia ha ricevuto in consegna il David di Donatello assegnato al Cinema Italiano. Il Paese pullula di “scuole” di cinema, si contano a centinaia. Pochissime sono davvero utili. Quando un

allievo finisce i corsi, difficilmente viene inserito nel mondo del lavoro. Una didascalia riferita al Centro dice che chi si diploma lì, poi trova lavoro. Tutti i diplomati dei corsi precedenti stanno lavorando. Si applicano su commissioni interne alla Scuola, nella produzione, nella scrittura di fiction. Altri sono assunti presso grandi società. Altri lavorano part time. Come sempre accade, qualcuno, ma sono pochissimi, ha rinunciato. Il CSC è un’istituzione che tutti ci invidiano. “Istituzione” davvero opportuna, in questi tempi, e garante del futuro. I futuri registi, produttori, sceneggiatori, direttori della fotografia, scenografi, stanno affrontando la professione con una base di eccellenza. Chi farà un’inquadratura avrà assunto la tecnica e l’arte dei grandi maestri storici quelli dell’età dell’oro, da Hitchcock a Welles a Kubrick. Chi si appresterà a scrivere non avrà un vocabolario di cento parole, ma avrà metabolizzato gli autori che hanno scritto grandi libri che hanno generato grandi film, da Flaubert a Hemingway a Mann a Tomasi di Lampedusa. E chi reciterà non farfuglierà a bassa voce le battute, senza colore e senza tecnica, solo perché non sa fare di meglio. Porterà una recitazione vera, professionale, che era dei grandi modelli dell’età dell’oro: da quelli dell’ Actors Studio ai nostri della Commedia italiana.   LA CRITICA E IL PUBBLICO: I NEMICI DI SEMPRE   La didascalia (e l’intento) che mi sono attribuito da quando ho iniziato a scrivere di cinema è: “dalla parte del pubblico”. Non significa essere dalla parte del botteghino, ma cercare una mediazione fra il gradimento di chi va al cinema e quello di chi lo critica. Un altro assunto è: un grande film non è mai proiettato in una sala troppo piena o in una troppo vuota, salvo eccezioni naturalmente, perché ci sono titoli da cinque stelle assolute, che mettono d’accordo critica e pubblico. Sono pochi, ma ci sono. Nell’era recente, sul mio dizionario del cinema ho attribuito solo due volte le cinque stelle, a Fratello dove sei? dei Coen e a La passione di Gibson. Il primo perché coniuga benissimo l’estetica e il linguaggio (e la prova d’attori) con vicenda e contenuti che partono da una base solidissima, quasi sacrosanta, addirittura l’Odissea, col supplemento davvero gradevole della musica country. Il secondo, pure nelle sue imperfezioni e inesattezze tangibili, è un intenso promemoria cristiano di storia e di dolore. Le “pluristelle” non hanno mai sfiorato i cosiddetti cinepanettoni o simili, oppure, sull’altro versante, certi film di culture lontane Corea, Taiwan, India, Medio Oriente, che riproducono storie e stili che l’Occidente conosce magari da sessant’anni, e che seducono una fascia di critici che non ricorda. Mediazione Per definire il concetto di mediazione porto un esempio attuale. Assodato, da parte mia naturalmente, che il “cinquestelle” è un ospite pressoché assente nel cinema contemporaneo, se esistesse un “4 stelle e mezzo” lo avrei attribuito a Mamma mia!, un film-prodotto prezioso. Interpreti, storia, location, regia, musica: tutto di altissimo profilo, sappiamo (e lo vedremo in seguito). Si tratta di definire l’identità, cioè la proposta della gioia di vivere, della grande evasione, che è un’opzione primaria del cinema. Un altro titolo che “pesa” 4 stelle e mezzo è La vita degli altri. Un film esattamente “opposto” a Mamma mia!, a cominciare dalla gioia di vivere (inutile spiegare). Eccola la mediazione. Film opposti ma della stessa qualità. Magazine Il più importane magazine di cinema nazionale ha pubblicato la classifica dei cento film che più hanno incassato nella stagione 2009. Cento sono molti, per questa tesi, stralcio i

primi dieci. Il principio è comunque salvo. Ecco i titoli in ordine rispetto agli incassi. Al primo posto Madagascar 2. A seguire Natale a Rio, Angeli e demoni, Kung fu Panda, Il cosmo sul comò, Italians, Hancock, Twilight, Sette anime, Il curioso caso di Benjamin Button. Per un’indicazione utile, per evitare una lunga striscia di numeri, riporto il primo incasso, di Madagascar (oltre 25 milioni) e il decimo di “Benjamin” (oltre 10 milioni). C’è una logica. I codici del gradimento vengono tutti rigorosamente, impietosamente rispettati, salvo piccole eccezioni. La grande animazione non può non prevalere, del resto la qualità di Madagascar e di Kung fu panda è molto alta, per tecnica naturalmente e per contenuti, con storie e parabole pensate per i piccoli, ma intese anche dalle due generazioni precedenti. Insomma tre target che vanno al cinema. La ditta De Sica-De Laurentiis è tradizionalmente da record di incassi. Natale a Rio, come gli altri, non è un film ma un prodotto simpaticamente becero inteso a far ridere in quel modo. Sappiamo (e vedremo). Ma il grande marketing, con relativi passaggi su piattaforme che farebbero tendenza – un Porta a porta per esempio – hanno di nuovo rubricato il titolo da prodotto a film. Dunque nessuno si imbarazza a vederlo e a parlarne. Intelligenti Col loro Cosmo sul comò Aldo, Giovanni e Giacomo si accreditano, ormai tradizionalmente, come modelli “più” intelligenti, un paio di categorie sopra i “panettoni”. Buona mediazione fra botteghino e qualità. Italians è una commedia banale che punta su protagonisti che dovrebbero richiamare due generazioni, Castellitto e Scamarcio. Naturalmente è il giovane a “staccare” più biglietti, molti di più. Angeli e demoni è il naturale blockbuster predestinato. È un titolo che può simulare cultura, per la sua radice “letteraria”, e mai le virgolette hanno avuto una funzione più precisa e legittima. L’utente, magari lo stesso dei “panettoni”, vedendo il film acquisisce anche i contenuti del bestseller e può sempre dire di averlo letto, e può sfoggiare doppia familiarità, con l’autore cartaceo e quello del film, Brown e Howard. Un inciso, Angeli e demoni è un buon film in assoluto; non lo era il suo predecessore Il codice da Vinci, troppo parlato e compresso, costretto alla frenesia per inseguire il romanzo. Twilight è un altro prodotto studiato su molti dei codici che inducono la fascia più robusta e compatta, i giovani, ad andare al cinema. L’amore fra una studentessa e un ragazzo che si rivela un vampiro. Furbissimo. Fenomeno Hancock e Sette anime sfoggiano molte coccarde di successo popolare: il fenomeno Will Smith, storie con implicazioni mistico-fantasy: sentimenti, superpoteri e inoltre l’effetto Muccino, un culto da noi, e una legittimazione altrove grazie al traino irresistibile da parte di Will. Anche qui grandi furbizie a grandi logiche. Illogico è invece Il curioso caso di Benjamin Button, che può senz’altro appartenere alla categoria “film d’autore” o “film di qualità”. Un altro aggettivo pertinente può essere “difficile”. Adattato da un racconto degli anni venti di Scott Fitzgerald – dunque non bestseller ma letteratura vera e nobile – è una storia metafisica, piena di metafore e con infinite chiavi di lettura. A fronte della classifica dei titoli di maggiore incasso dell’ultima stagione, il più importante magazine di cinema nazionale, pone i dieci titoli più amati dai critici del magazine stesso. I titoli premiati dal pubblico sono: al primo posto Madagascar 2. A seguire Natale a Rio, Angeli e demoni, Kung fu Panda, Il cosmo sul comò, Italians, Hancock, Twilight, Sette anime, Il curioso caso di Benjamin Button. I titoli amati dalla critica, in ordine di preferenze, sono: Gran Torino, La classe, Coraline, Wall.E, Il cavaliere oscuro, Frost/Nixon, Si può fare, Valzer con Bashir, Vincere, Pranzo di ferragosto. Legittimo

Dunque non c’è un solo titolo in comune fra le due liste. È legittimo che sia così. “Legittimo” è l’aggettivo che ho usato la settimana scorsa analizzando le ragioni del botteghino rispetto a un compromesso - può essere definito così - di qualità. In sostanza l’unica “incongruenza” di quella classifica poteva essere Il curioso caso di Benjamin Button. Concludevo il pezzo con questa considerazione: “Non c’è dubbio che sarebbe un film da critica. Eppure si è rivelato, pure nei legittimi margini perché niente è assoluto, un film da pubblico. Non c’è logica. Invece la logica c’è, semplice e visibile: il divo Pitt, l’elemento in più, la dotazione che cambia le regole. Anche se il bellissimo Brad per gran parte del film è truccato e quasi irriconoscibile. “Benjamin Button” gradito dal grande pubblico è una bella anomalia e un’ottima notizia. “Voglio ancora ricordare la didascalia che definisce il Farinotti&Mymovies (il cartaceo) “dalla parte del pubblico”, e ancora ribadire che non significa “dalla parte del botteghino”. In questa chiave la prima lista, preso atto della bella sorpresa di “Benjamin”, non rispecchia il codice di giudizio di questa piattaforma. L’ “F&M” è più vicino alla scelta dei critici. Competente I dieci titoli privilegiati rispecchiano certamente il buon cinema, nelle sue funzioni migliori. L’indicazione di eccellenza data dai redattori del magazine, certo gente competente, è positiva e rassicurante. Ti dicono “guarda questi film per queste ragioni”. E le ragioni, lo ribadisco, sono buone. Clint Eastwood (Gran Torino) è un magnifico trasversale, si è accreditato nella zona più alta del cinema grazie a una carriera dalla lunga parabola, tanto lunga da partire in un modo e finire in quello opposto. L’eroe individuale – Clint come attore®ista, ha proceduto di pari passo naturalmente – giustiziere senza dubbi, “autogarantista” (“l’ho ammazzato e lo meritava, fidatevi di me”) si è evoluto rivedendo e poi quasi ribaltando contenuti e valori. In Gran Torino nobilita il percorso sacrificandosi in nome di un principio di solidarietà estrema. Film bello e utile, che fa star bene e non è poco. Selick (Coraline), usa tutti i trucchi possibili per il botteghino. C’è grande tecnica e furbizia (animazione, fase horror, 3D, effetti psichedelici) e dunque una precisa e non celata attenzione solo verso un target, che poi è quello che compra i biglietti. Stanton (Wall. E) con la vicenda dell’ultimo robot rimasto sulla terra percorre una strada simile a quella di Coraline, cercando di applicare anche una metafora seria, un impegno che quasi mai il cinema riesce a risolvere, tanto è più grande dei metri quadri dello schermo. Ron Howard è una sicurezza, è colui che sa coniugare qualità e spettacolo secondo un ottimo compromesso, tanto da essere presente in entrambe le liste (Angeli e demoni per i botteghino). Il suo Frost/Nixon è la Storia, un reportage intelligente, un richiamo con appeal che genera ancora interesse, e girato benissimo. Il fenomeno Il Cavaliere oscuro, di Nolan, si muove di prepotenza. Ci sarebbe l’“incongruenza” del record di incassi nel mondo, certo è un titolo importante che si insinuerebbe (di prepotenza, appunto) in tutte le liste. Contenuti, stile, spettacolo, attualità, effettistica estrema e moda, tutti i codici del cinema di adesso. Con in più un eccesso di metafora. Il film propone dei pronunciamenti sulla morale, sulla vita e sulla morte, tenta una filosofia solenne che diventa velleitaria e si infrange sull’inadeguatezza del cinema detta sopra. Si può fare di Giulio Manfredonia affida allo schermo un tema importante, solidale e doloroso, i malati, con buona volontà. Opera vera Film dunque benemerito, che però non riesce ad alzare il profilo fino a una certa qualità. Inopportuno citare il suo omologo antenato Qualcuno volò sul nido del cuculo. Valzer con Bashir di Folman è un’opera vera. L’animazione certamente offre una franchigia, ma anche un’opportunità d’espressione efficace per un argomento solo

apparentemente autoctono, la guerra in Libano, che fa parte della coscienza contemporanea. Titolo da tante stelle. Nel suo Vincere Bellocchio rilegge la Storia, la vicenda privata di Mussolini, una moglie e un figlio che non dovevano esserci. E non ci “furono”. Il “garante” Bellocchio ci sta sempre. Infine il “minimale” Pranzo di ferragosto. L’adulto che ospita le tre anziane. Vecchia, normale storia senza l’assillo del marketing. Una discreta sorpresa per il nostro cinema, che si interessa a modelli molto diversi. Qualità Pubblico e critica dunque nemici di sempre, le due liste senza neppure un titolo d’incontro ne sono l’avallo aritmetico, oltre le discrezionalità. Detto in termini semplici: il cinema migliore – non in assoluto perché niente è meno assoluto del cinema – è quello indicato dalla critica. Questa volta almeno. Per ciò che può valere, secondo mia discrezionalità, avrei evitato Coraline, ma finisce per essere un dettaglio. Certo non si può non fare una considerazione generale sulla qualità, se si tratti di qualità parziale-relativatemporale oppure assoluta. Premesso che il cinema contemporaneo dà i titoli (e la qualità) che ha.   IL TIMES DISSACRA I GRANDI FILM: FINALI GROTTESCHI   Rilettura, riflusso, magari revisionismo, sono termini e concetti vigenti. Non possono non valere per il cinema. Il quotidiano Times, londinese, testata dall’autorità assoluta, ha decretato che i finali di alcuni dei film che ritenevamo capolavori intoccabili, sono sopravvalutati, deludenti e sorpassati. Ci può stare, naturalmente. Visti fuori dal quadro del loro tempo, quei finali possono certamente apparire superati, addirittura grotteschi. La ragione è semplice: sono cambiati il sociale, il sentimento e la cultura, sono cambiati i modelli. Leggere la lista dei finali “bocciati” comunque è scioccante. Si va da Quarto potere, ritenuto da molti il film dei film, a Psycho, a 2001 Odissea nello spazio, a Grease, a Blade Runner, a Il Signore degli anelli. Per i cinefili duri&puri trattasi di lesa maestà. Ma non solo per loro: anche noi che ci eravamo affidati a quei finali felici e liberatori, ci ritroviamo ad esserci spesi in una catarsi bugiarda e in un sentimento truccato. “Lesa maestà” dunque. Questa volta i finali dei film hanno dovuto vedersela col riflusso, ma il mitologico “The end” da subito è stato bersaglio di ben altre violenze. E il cinema non ha subito ma ha avuto un ruolo attivo non di “lesa”, che sarebbe riduttivo, ma di “devastata maestà”. E la “maestà” è la letteratura. Spesso il finale di un film ha tradito, mortalmente, quello del romanzo. La ragione sta nella differenza delle due “arti”. L’happy end quasi mai si addice alla letteratura, ma è indispensabile al cinema. Dunque, a costo di inversioni di narrativa grottesche (queste sì) la parabola di un racconto drammatico si vedeva applicare, nel film, un finale felice, assurdo e stridente. L’eroe assoluto vittima di questa contaminazione è certamente Hemingway. Quasi tutti i suoi romanzi sono diventati film e anche molti dei racconti. Lo scrittore di Chicago odiava il cinema, non mise mai il piede sul set di un film tratto da un suo libro. Hemingway era perfetto per essere maltrattato dal cinema, le sue storie finivano quasi sempre nel dolore. Il suo romanzo Avere e non avere stabilisce un vero primato di contaminazione. Hollywood ne produsse tre versioni, Acque del sud, Agguato ai Caraibi e Golfo del Messico. Nei primi due assistiamo all’eroe che se ne va con l’innamorata mano nella mano. Solo l’ultima versione rispettò la storia disperata di Harry Morgan che possiede un battello per turisti e che per bisogno finisce per fare il contrabbandiere e per morire. Un altro lieto fine “estorto” è quello di Le nevi del Kilimangiaro, dove lo scrittore Harry Street, muore di infezione dopo aver ricordato i propri fallimenti. Nel film Gregory Peck ricorda tutto quanto e poi, morente, guarisce in cinque minuti, stringendo la mano di Susan Hayward.

La contaminazione non si applicava solo ai finali. Il cinema, invadente e violento, non si è peritato di stravolgere testi che fanno parte del più felice patrimonio dell’umanità. L’Iliade per esempio. Troy detiene una altro record assoluto. Inutile stilare una lista degli errori, non basterebbe un’altra Iliade, però si possono rilevare alcuni falsi sostanziali e “impossibili”, diciamo così. Per esempio la morte di Menelao: viene ucciso da Ettore per difendere il fratello Paride umiliato. Il regista Petersen vanifica così un episodio del sequel Odissea, dove Telemaco, alla ricerca del padre Ulisse, ritrova il re di Sparta a casa, con la moglie Elena al suo fianco, forse eroticamente placata, comunque perdonata. Ma c’è di peggio, nel film anche Agamennone ci lascia le penne, sgozzato da Briseide schiava-amante di Achille. Ed ecco azzerato il ciclo di Agamennone che ha alimentato le successive tragedie di Eschilo, Euripide e Sofocle. Un altro gigante devastato è Shakespeare. Troppo grande è la tentazione. Il massimo autore inglese scriveva per il cinema mezzo millennio fa. Tutto incredibilmente perfetto: il ritmo del racconto, gli artifici, il sangue (soprattutto quello blu) gli amori e le guerre. I film ci hanno proposto Amleto in costumi da corte viennese, Riccardo III fra i nazisti, Romeo e Giulietta a Los Angeles e Titus nel palazzo dell’Eur. Il Times, modello che fa testo nella cultura del mondo, dissacrando quei titoli leggendari, ha voluto ricambiare il cinema con la sua stessa moneta.   I CATTIVI E GLI SPONSOR: ALBAKIARA E PINAPPLE EXPRESS   Che un autore abbia tutti i diritti di esprimersi, è sacrosanto. La censura non deve essere applicata, non deve esistere, sarebbe peggiore dell’autore peggiore. Ma è alla fase successiva che si deve porre attenzione. Nell’ottobre 2008 il Corriere della sera, forse la più importante testata italiana, con milioni di lettori, ha dedicato ai due film, Albakiara e Pineapple express, una pagina ciascuno. Dal servizio su Albakiara non traspaiono giudizi. Ma forse un piccolo segnale di perplessità, un’attenzione dovuta all’utenza, che è quella dei giovani e giovanissimi, sarebbe stata opportuna. Chi legge ha la sensazione della normalità. A comandare è la promozione del film e se il contenuto è quello, pazienza. E valgono, naturalmente i punti di gradimento del pezzo e se presenti l’immagine di due giovani seminudi e nel titolo ci metti “droga e sesso” ecco che la pagina acquista una visibilità irresistibile. Del resto la vendita è la prima opzione di un giornale, perché preoccuparsi della didattica? O della morale, figuriamoci. Il servizio sull’americano Pineapple Express, prodotto da Judd Apatow, va oltre. Va detto subito che il film in America era per minorenni solo se accompagnati “per sequenze di droga e violenza, dileggio delle istituzioni e dialoghi volgari.” Il Corriere riproduce episodi e stralci di dialogo. Si racconta che i due giovani protagonisti, vendendo droga ai ragazzini di una scuola, dispensano “un’esilarante lezione di controcultura sulle qualità dell’erba”. Un argomento di vendita, in verità fantasioso, è questo: “Odorala, senti che profumo, sembra la vagina di Dio.” C’è anche una poliziotta, amante di un gangster, che non esita a uccidere uno spacciatore rivale del compagno. Linguaggio e modelli possono non piacere naturalmente, ma vale il concetto detto sopra sulla sacralità della libertà di espressione. Ma “esilarante” è di fatto un’indicazione positiva, un aggettivo da trailer, e appartiene alla discrezionalità della testata. La quale informa anche della benevolenza verso il film manifestata dal New York Times e dal Los Angeles Times, e cita un’altra opinione positiva di un docente di Yale, nientemeno. Infine ecco un richiamo a Spielberg, autore innamorato delle grandi manifestazioni umane, buone e morali, il quale, deluso dal suo ultimo “annacquato” Indiana Jones, si appresta a produrre Tropic Thunder, un film

estremo, molto più “cattivo” di Pineapple. Dunque, l’uomo di E.T. di Schindler’s list e Amistad, per non rimanere indietro, ha abiurato. Ecco un altro bel suggerimento strisciante: se ha abiurato lui... Il Corriere conclude che nei bad boys si identificano le nuove generazioni. È un’afiermazione che non lascia spazio a dubbi, e ti arriva da fonte di massima autorevolezza, che ha il potere di trasformare l’opinione in modello: se non fai parte di questa corrente di giudizio o di comportamento, non sei trendy. Ti devi identificare in quei bad boys. È vero, una fonte non è detto che debba assumersi un dovere etico. L’annuncio è: tutti i ragazzi si drogano, prendiamone atto. In realtà quella stessa fonte dovrebbe fare un passo ulteriore: adesso cerchiamo di fare qualcosa. Altrimenti l’indicazione può apparire un incoraggiamento. E la fonte diventa complice dei “cattivi”. Ci sono regole acquisite, codificate e sicure che andrebbero tenute d’occhio. Vengono da lontano ed erano ritenute esatte come una formula matematica, accettate in generale. “Erano ritenute”, appunto, chissà se lo sono ancora. Certo avevano dettato dei precedenti che hanno retto per decine di secoli. Erano, speriamo siano ancora, la radice (insieme alla cultura ebraica e a quella cristiana) dell’educazione sentimentale e intellettuale di noi occidentali. Gli autori tragici greci compresero tutto e tutto scrissero. Se si parla di violenza, ambiguità, morbosità, trasgressione, rispetto a quella “scuola tragica” gente come Almodovar, Tarantino, o gli autori dell’orrenda serie Saw, finiscono per essere dei pallidi dilettanti. Ma poi, la rappresentazione dell’“idea” era filtrata dalla paideia, dalla concezione nobile che deve appartenere a chi ha la responsabilità della divulgazione. E sopra, visibili e tangibili, sempre le categorie garanti: il rigore, l’etica e l’estetica, l’ onestà, la dignità, la lealtà, la giustizia, la didattica. E così la poetica e la qualità di quegli autori erano un filtro di garanzia e l’esempio orrendo veniva mostrato, ma come allarme verso il bene, non come vendita. E va detto che il marketing esisteva già allora se il pubblico entrava in un teatro pagando il biglietto. Dunque, dopo aver adempiuto al dovere di informare, ci si può concedere anche un’indicazione etica, anche se non è di moda. Perché è indubbio che se non ti droghi è meglio, specie se sei un bambino.   ALBAKIARA LA PEGGIO GIOVENTU’ NEL “PEGGIO” FILM   Il botteghino asfittico, forse, può tranquillizzarci. Albakiara è stato ignorato in primis dai ragazzini a cui si voleva rivolgere (il dubbio è che i suddetti preferiscano e abbiano tutti i mezzi per fare, piuttososto che guardare). L’utente intelligente capisce subito che trattasi di pistola con tappo rosso, dunque di un giocattolo, non pericoloso. Ma occorre essere intelligenti per capirlo, comunque. Perché il film è una tale iperbole, fotografa questi ragazzi e tutti, proprio tutti gli altri, talmente cattivi, talmente tutto, che alla fine sembrano ospiti di un videoclip straaccelerato. I caratteri sono talmente estremi che compiono il giro completo e si ritrovano a non esistere. Giocattoli, appunto. E videoclip è parola chiave, il regista viene da quella scuola. E lì rimane, il cinema è altra cosa. Mi limiterò a un elenco di vicende. Si comincia con un filmino dove la protagonista Chiara, sorridendo, racconta di essersi “fatta” nel bagno, poi c’era un ragazzo che glielo ha messo qui e poi là eccetera. Il centro della storia è il furto di una partita di cocaina: l’organizza un commissario (Degan) talmente cattivo&corrotto&ecc da essere, anche lui, un giocattolo. Le amiche si “fanno” in discoteca, nei gabinetti, dovunque. Per superare un’interrogazione “basta fare un p… al prof”. Per avere una borsa di D&G si opera allo stesso modo. C’è anche l’eroina di quell’esercizio, 9 in mezz’ora, e siccome i record sono fatti per essere battuti ecco che una dozzina di ragazzi sono lì ad aspettare il loro turno mentre l’aspirante primatista agisce in macchina con tanto di

giudice che cronometra. Nico (il figlio di Vasco) è il protagonista maschile. Organizza un sito porno. Il sesso sarà ripreso e divulgato. Lo inaugura una performance fra due amiche. Il bidello della scuola è lo spacciatore principe. Chiara e altre non pagano in euro, ma col solito metodo. E ogni cinque minuti si spara in testa a qualcuno. C’è una scena di tortura con primissimo piano di unghie strappate con tenaglia. Il regista intende mostrare anche attitudine artistica, ecco dunque inserti di estetica surreale appiccicata, ali che volano in cielo, metafora di chissà? Il marketing: per cominciare il titolo, scaltrissimo, la canzone di Vasco con tutti i richiami relativi, il paginone sul Corriere. Alla fine del film tutti i cattivi sono morti. Dunque ci sarebbe un pronunciamento etico. Ma è solo un trucco strumentale e veloce. Non lo utilizzi. È, ancora una volta, un gioco. E il film non riesce a mascherare la solita pratica scoperta, il tentativo di reperire il limite estremo, il punto oltre il quale non si può andare. Ma per un record come quello non basta un videoclip dilatato e un autore di videoclip. Sul mio dizionario, il Farinotti, i giudizi sono compresi fra una e cinque stelle. Ad alcuni titoli, pochissimi (alla saga di Saw l’enigmista per esempio), ho attribuito “nessuna stella”. Per Albakiara potrei inaugurare “meno una stella”.   ROMANZO CRIMINALE: IL FILM DI MICHELE PLACIDO DIVENTA UNA SERIE   La città di Roma è stata invasa nel settembre 2008, da quattro grandi cartelli che promuovono una serie televisiva. Uno mostra una ragazza in primo piano e sotto la didascalia: “Sono brava a scuola”. Un altro mostra un ragazzo con la didascalia: “Non so cosa sia una canna”. Su un terzo campeggia un adulto, il padre: “Mantengo decorosamente la mia famiglia”. Il quarto rappresenta la madre: “Sono amica dei miei figli”. Questa campagna non esiste, è di fantasia, una mia invenzione. Non può esistere perché non avrebbe alcun appeal. Come non lo avrebbe il serial. La campagna vera, che ha invaso davvero vie, piazze e metropolitane è diversa. Propone quattro facce giovani e le scritte sono: “Io ho spacciato”; “Io ho ucciso”; “Io ho rubato”; “Io mi sono venduta”. È il marketing che sta vendendo la nuova produzione di Sky che riprende il film di Michele Placido, Romanzo criminale, tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo, facendolo diventare un serial di 12 puntate. È la storia della banda della Magliana. Con la supervisione di Placido, la regia è stata affidata a Stefano Collima. I “divi” protagonisti del film da sala, Favino, Rossi Stuart, Scamarcio, Santamaria, sono stati sostituiti dagli “emergenti” Montanari, Roja, Marchioni, Bocci. Sky aveva tentato l’anno prima un’operazione omologa legata al film di Salvatores Quo vadis, baby? Finita male. Fra le molte ragioni dell’insuccesso ce n’è una semplicissima: il film di Salvatores è uno dei peggiori dell’era recente, mentre quello di Placido uno dei migliori ed è dunque possibile che al nuovo serial spetti un miglior destino. Ma non è questo il punto. Intendo parlare di promozione. Oltre all’invasione “territoriale” dei cartelloni, l’agenzia ha concepito uno “spot” creativo e singolare, romano-romanesco con un gusto che richiami l’antico, certo consapevole del grottesco: quattro busti di polistirolo sono stati posti in piazza Virgilio Testa all’Eur, raffgurano i “leggendari” componenti della banda, Dandi, il Freddo, il Libanese, il Nero. Ho virgolettato leggendari, dopo tanto sforzo e tanta inventiva il risultato è stato raggiunto, le virgolette non hanno alcuna ragione. I quattro criminali del nuovo mito a fronte di Cesare, Augusto, Tiberio, Marco Aurelio. Va detto che dopo poche ore il sindaco Alemanno ha ordinato la rimozione dei busti, ritenuti di “cattivo gusto”. Vendere è la prima opzione doverosa della pubblicità, e può essere legittimo dissacrare (vaporella va’ pensiero), gli spot non si devono porre il problema dell’etica. Dunque in

chiave strettamente professionale la campagna viene giudicata “geniale”. I passanti stazionano davanti al cartellone, guardano con attenzione, indicano, qualcuno scuote il capo. Quelli che si allontanano dopo qualche metro si girano e guardano di nuovo. Perché il cartellone è qualcosa che si fa guardare. Disagio, attrazione fastidiosa, ma potente, irresistibile. Si disapprova ma si guarda. Dunque il manifesto ha ottenuto ciò che voleva, si insinua nel settore voluto della memoria e della coscienza, e là rimane, e fa quello che deve fare: al momento opportuno l’utente acquisterà. Ma il marketing non deve essere una sorta di assoluto scontato. C’è dell’altro, c’è, da parte mia per esempio, una lettura diversa, magari in chiave etica ben sapendo che come tocchi “etico” diventi subito bersaglio dei blog. Quella comunicazione va a toccare gli istinti peggiori che poi “peggiori” non sono più, li ha resi normali la pratica instancabile, reiterata dei media dell’ultima epoca, della carta, della televisione. Il marketing, la spinta, il budget, certamente imprimono un forte abbrivio iniziale. Ma poi tocca alla qualità. E chi non la possiede ed è soltanto troppo furbo nel marketing, non riuscirà a raggirare il pubblico.   COCO CHANEL: LA DONNA CHE FECE LE DONNE   Tre concetti: romanzo, predestinazione, realtà. E poi un quarto: leggenda. Uno staff di scrittori, bravi, accreditati, che si fossero riuniti per inventare il carattere “donna-dell’era moderna”, un manifesto che facesse testo, una personalità che si imponesse nel privato e nella professione, trasgressiva e trionfante, avrebbe progettato una fiction che sarebbe rimasta lontanissima dalla realtà. La realtà Coco Chanel era inimmaginabile, non era inventabile. Coco (1883-1971), praticamente dall’inizio del ‘900, quando c’era lei ed era attiva, ha immaginato e costruito la donna del ‘900. Ma non un solo modello, ha percorso tutto l’arco della personalità, dalla madre di famiglia alla femminista, dalla mantenuta al capo d’azienda. Una donna che sapeva essere al fianco del compagno, così come sapeva anche essergli davanti e, se proprio occorreva, sapeva essergli dietro. Insomma sapeva dominare ed essere fragile, trionfare e anche sbagliare, e sapeva ricominciare. Per queste ragioni le donne si identificavano in lei, la adoravano e la adorano. Tutte. Dicevo di realtà che si beve la fiction: i codici ci sono tutti. Nasce povera, famiglia troppo numerosa, madre morta di tisi, orfanotrofio di suore, collegio Notre Dame per signorine senza dote, apprendista ricamatrice. Ma poi Coco impone la svolta. Subentra barone erede di famiglia di industrie tessili, Étienne Balsan amante&protettore. Il gran mondo. E lì tutto comincia. Prima un negozio, poi un salone, poi la ditta, poi la multinazionale. Ha inventato oggetti che hanno fatto e fanno parte della vita delle donne. Capisaldi trasversali di estetica e di costume. Oggetti funzionali, belli, comodi, femminili ma anche unisex. Il vertice più alto, in sintesi estrema, ne contiene almeno 4: il tailleur (abito in due pezzi, elegante), il tubino (in un pezzo, elegante), la borsa matelassé (funzionale&elegante), e un certo profumo: tutti le donne, e non solo, se pensano a un profumo, uno solo, pensano a Chanel n. 5. Un pezzo, due pezzi, sembra semplice adesso, ma occorreva pensarli e realizzarli. Tutta questa eleganza&funzionalità, perennemente al fianco delle donne, integrazione naturale e assidua, ha semplicemente trasferito l’eleganza e la funzionalità al loro comportamento. Al Festival di Cannes 2009 è stato presentato fuori concorso Coco Chanel & Igor Stravinsky, di Jan Kounen, con Anna Mouglalis nei panni di Coco. Il 29 maggio, è arrivato nelle sale Coco Avant Chanel, l’amore prima del mito, di Anne Fontaine, con Audrey Tautou. Coco Chanel ripiomba tra noi. La ragione non è difficile da leggere: i grandi modelli, gli eroi, gli esempi, le leggende sono difficilmente rintracciabili nel nostro tempo.

Ci si deve rifare a qualcuno che non è di questa epoca. Sono state “Chanel” semplicemente tutte le grandi divine del cinema: Garbo, Dietrich, Davis, Crawford e Rita Hayworth: eleganti e intoccabili da parte della donna media, dive con tailleur, pellicce e abiti da sera. Era “Chanel” la regale Grace Kelly. Ed è nota la frase di Marilyn: “Vado a letto vestita solo con due gocce di Chanel n° 5”. Erano “Chanel” le ragazze socialmente impegnate e in carriera degli anni sessanta e settanta, come Jane Fonda e Faye Dunaway. Lo erano le inglesi, di appeal discreto, nascosto ma egemone, come Julie Christie e Susannah York. Lo era Brigitte Bardot. La sola eccezione alla titolarità assoluta del gusto, della moda e dell’estetica di quel tempo, può derivare da una frase di Peter O’Toole in Come rubare un milione di dollari e vivere felici. L’attore fa indossare a Audrey Hepburn che deve camuffarsi, uno straccetto da domestica. Le dice: “ Così Givenchy si prederà una piccola vacanza.” Lo stilista francese non era ecumenico come la connazionale Coco, ma con Audrey l’aveva infastidita. Anche se, di fatto, aveva solo preso a prestito la donna di maggior classe ed eleganza del secolo, che non poteva non essere “Chanel”.   QUANDO IL CINEMA NON SI LIMITA A GUARDARE   A volte il cinema può essere utile, utile davvero. Succede raramente. La sua funzione è quella di raccontare guardando, rappresentare inventando. In questo caso il cinema diventa documento. Diventa indicazione tale da non aver bisogno di nessuna licenza fiction. Perché non c’è fiction che possa aggiungere qualcosa alla vita, al dolore impossibili raccontati nel documentario Ndugu Mdogo – Piccolo fratello. I registi Fabio Ilacqua e Roberto Pelitti sono andati laggiù, in Kenya, non si sono limitati a guardare, hanno messo le mani dentro, e se le sono anche sporcate. Il film racchiude un’iniziativa benemerita, forse eroica, che ha coinvolto personaggi di tutto il mondo, che ci hanno messo del proprio. Estraggo solo qualche nome da una lista molto lunga: Nannini, Vanoni, Paoli, Dalla, Brilli, Pomodoro, Palladino, Mondadori. La “scheda” del film, è firmata da Fabio Ilacqua. Chi meglio di lui?   PICCOLO FRATELLO   Regia di Fabio Ilacqua e Roberto Pelitti. Con Padre Kizito Sesana, Boniface Okada Buluma, i bambini del ‘Ndugu Mdogo Project’. Ricavato da una serie televisiva che ha documentato con cruda lucidità e dato trasparenza all’operato della NGO ‘Koinonia’, in Kenya, Piccolo Fratello è stato interamente girato a Nairobi nello spaventoso slum di Kibera, il più grande di tutta l’Africa sub-sahariana, dove un milione di persone e ottantamila orfani vivono in condizioni di estrema indigenza e degrado in un’area di soli due chilometri quadrati. Padre Kizito è un missionario comboniano che ha dedicato la sua vita al recupero di bambini di strada. Incarica Boniface – un ragazzo che in passato ha aiutato a riscattarsi dalla vita di strada e che è oggi il suo migliore collaboratore – di selezionare un gruppo di bambini senza famiglia da inserire in un nuovo progetto umanitario chiamato ‘Ndugu Mdogo’, Piccolo Fratello in kiswahili.Con costanza quotidiana, Boniface inizia a stabilire una relazione di fiducia coi primi venticinque, sottraendoli dal contesto di degrado in cui vivono accanto a giovani e adulti per i quali la realtà violenta della vita di strada è ormai un paradossale sinonimo di libertà. Ospitati temporaneamente in una casetta sul confine di Kibera, i bambini si affrancano dalla dipendenza della colla e ricostruiscono una propria identità: grazie al lavoro di uno stafi di educatori, il gruppo ha finalmente la possibilità di accedere ad una vita dignitosa: lavarsi,

mangiare con regolarità, dormire al sicuro, studiare e ristabilire corrette relazioni sociali e affettive. Fra di loro, però, Cristopher e Philip fanno fatica ad accettare le regole e l’impegno che questa nuova condizione gli impone e decidono di abbandonare il progetto. Mentre il primo sceglierà di restare de nitivamente in strada il secondo, tornato sulla sua decisione, rinuncerà alla ‘falsa libertà’ della vita randagia per continuare l’esperienza insieme ai compagni ed entrare con loro nella nuova struttura permanente che diventerà la loro casa. Elemento di particolarità nella realizzazione del film è stata la creazione della “Ndugu Mdogo Crew”, una piccola troupe formata dagli autori con l’intento di allargare l’esperienza e condividere il proprio sguardo con otto giovani africani provenienti dalle stesse aree urbane di profondo degrado scelte per il set. Il gruppo ha collaborato alle riprese imparando – come nella tradizione africana – “facendo”, in una sorta di scuola del cinema di strada dove il suo apporto creativo e umano si è potuto esprimere come elemento di autenticità del film. Documentario; col.; 85’; Italia; 2007. Fabio Ilacqua.   SEX AND THE CITY: IL BOOM, PERCHÉ?   Sex and the city è rimasto a lungo in testa agli incassi. Era prevedibile, ma non del tutto. La prima ragione contro è puramente meccanica: non succede quasi mai che una serie diventi film di successo. Sono stili, pubblico, codici, linguaggio, diversi. Un’altra ragione sono i modelli: agli attori televisivi, anche quelli di grande appeal da piccolo schermo, non mantengono in automatico lo stesso appeal sul grande schermo. Sex and the city (serie), col suo grande, quasi anomalo successo, ha creato un precedente esclusivo, ha legittimato i suoi modelli (le sue modelle) oltre il piccolo schermo. Sarah Jessica Parker era un’attrice dal discreto successo nei film, è diventata trionfante nei telefilm, è rientrata rigenerata,”pantografata”, sul grande schermo, a quarant’anni compiuti. Si tratta di vedere se al cinema Carrie il personaggio, non fagociterà Sarah l’attrice. “Sex” è una delle serie più furbe che mai siano state prodotte. Si trattava di trovare la chimica per farlo diventare un film; ebbene, Michael Patrick King regista-sceneggiatore, l’ha trovata. Non era così facile. Ciò che veniva ammannito a segmenti, è stato raccolto, compresso e rivenduto in un totale efficace, quasi geniale in chiave di marketing. Anzi, saliamo di una categoria: un capolavoro di marketing-artistico. Nei titoli viene data qualche indicazione, viene fatta qualche promessa interessante. Samantha (sapremo chi è) dice: “Ho conosciuto un uomo con uno sperma dal sapore fantastico.” È una bella introduzione, una firma chiara su un pagherò di cui il pubblico attenderà l’incasso. Subito sfilano i caratteri. La protagonista è dunque Carrie (Parker). Scrittrice affermata, indossa solo firme, certo, può comprarsele, è dolce, dialettica, innamorata da sempre di Mr. Big (Chris Noth), ricco, dolce e comprensivo (meno dialettico), maturo, portatore di tutte le sicurezze salvo quella del matrimonio: ed è intorno a questo nodo che vive il film. Poi ci sono le amiche intime-storiche di Carrie: Miranda (Cynthia Nixon), avvocatessa, con tendenza seppure non completa alla famiglia, Samantha (Kim Cattrall) la grande gnocca cinquantenne, mangiatrice di uomini, Charlotte (Kristin Davis) posata & sposata, ha adottato una bambina, si scopre incinta quando non ci sperava più, ed è un altro dei nodi della storia. Chi va a vedere il film conosce bene i caratteri e le vicende. Ogni puntata della serie si dedicava a un argomento: es. una delle “ragazze” si innamorava di qualcuno troppo giovane, ed ecco la dialettica che teneva l’intera puntata. Oppure c’era all’orizzonte un principe azzurro portato al sesso anale, ed ecco 55 minuti di discorsi a quattro su quell’argomento. Su questa base di vissuto King ha costruito quel “totale”organico,

irresistibile, con un punto di partenza (e di arrivo) che è il matrimonio fra Mr. Big e Carrie. C’è la preparazione, da lì tutto sarà irresistibile, i cliché saranno tutti dorati, l’estetica tutta patinata. “Lui” le compra un attico a Manhattan: diciamo un tre milioni di dollari almeno. L’armadio è un po’ piccolo, e “lui” glielo rifà grande come un soggiorno. Poi c’è la sfilata per gli abiti da sposa. Un lusso alla Maria Antonietta, naturalmente. C’è una collaboratrice di colore, intelligente e umana che sogna una borsa di Vuitton da 5000 dollari, ebbene Carrie gliela regala. Samantha, per esorcizzare un incidente amoroso, esce e si porta a casa, nel baule della macchina, un paio di metri cubi di pacchi Armani, Prada, Gucci, Dior, e ancora Vuitton. Tutto è scientificamente positivo, persino un excursus extramatrimoniale è positivo per riaccendere una passione sopita, fra Miranda e il marito (l’excursus era suo). Mr. Big e Carrie hanno fissato data e posto per le nozze, tutto in pompa magna, anzi, di più: cerimonia alla Ranieri e Grace: lui non si presenta. La ragione sarebbe: “Siamo felicissimi così, perché rischiare di esserlo di meno?”.Si incrociano sulla loro limousine al centro di Manhattan, lei scende, lo insulta a lo picchia. Le amiche accompagnano la distrutta Carrie in Messico: hotel con vista di paradiso, cocktail con gli ombrellini: lì ci si macera meglio. Alla fine i due si sposeranno, cerimonia privata, in municipio. Lieto fine del lieto fine del lieto fine. Sex and the City rappresenta dunque tutte le fasi del sogno, quello più lontano, intangibile. Donne e ragazze in sala consegnano a quei modelli le loro vite normali. E sono felici per due ore. È il meccanismo conosciuto e duraturo dell’identificazione; quelle donne e ragazze non sono in cattive mani. Non so se vedremo mai la Pession di Capri raccogliere “quei sogni” sul grande schermo. Il tutto sotto la giurisdizione globale, felice e rassicurante dell’amore. “Rassicurante” anche per le spettatrici. Furbissimo, ma gran prodotto.   CYD CHARISSE: LE GAMBE E NON SOLO   Cyd Charisse e Gene Kelly ballano in una sequenza di Cantando sotto la pioggia. Lei indossa un abitino verde minuscolo, le gambe, con calze, sono (legittimamente) esposte. I tacchi sono molto alti. Kelly, più piccolo di lei, dopo averla avviluppata le dà uno slancio e Cyd si libra, sola, a un paio di metri. Muove le gambe in un certo modo, si tocca la bocca con le dita, in mosse che non sono del 1952, ma valgono anche adesso, come varranno in futuro. Molti dissero che quella scena era la più erotica mai vista nel cinema. Cyd era così: non solo “le più belle gambe”, ma una delle donne più belle del cinema. I musical della Metro degli anni Quaranta e Cinquanta le devono moltissimo. Era quel segmento di cinema che rappresentava il sogno più sognato, quello più lontano, e poi la gioia di vivere. Niente, proprio niente a che vedere con la realtà. Il modello Cyd era davvero troppo bello, non era raggiungibile dal braccio, pur teso, delle donne americane e del mondo. Era leader nel balletto leggero ma era perfetta anche nella danza classica. In Spettacolo di varietà, balla con Fred Astaire secondo le regole del Musical ma in una sequenza danza secondo il più rigoroso stile classico, in uno stralcio de Il Lago dei cigni. Come tutte le stelle era dedita al suo lavoro in assoluto. Senza sconti, nella scuola e sul set ora dopo ora, con un rigore estremo. Il suo compagno ideale fu Gene Kelly, forse il più grande uomo di spettacolo del cinema e non solo. Nelle prove gareggiavano per scrupolo. Kelly, che era un uomo molto forte, non aveva nessuna pietà, la “maltrattava”. Cyd rientrava a casa, la sera, piena di lividi. Suo marito si lamentava. Nel sontuoso palazzo del sogno che era Hollywood, nessuno come lei si trovava a proprio agio.  

CULTURA MODERNA   Il nuovo film di Batman, diretto da Christopher Nolan, rappresenta davvero un precedente, anzi, molti precedenti. Per cominciare la critica. Quasi tutti i titolari delle rubriche di cinema dei grandi quotidiani hanno posto il problema morale. Non succede quasi mai. Se le major della stampa che fanno testo decidono di toccare quell’aspetto significa, se non un cambio di rotta, per lo meno un’attenzione alla rotta. Chissà se la “controtendenza” va reperita in qualche emergente corrente di pensiero, nella politica, oppure (ma sì, giochiamo un po’) nel Vaticano, o in qualche segnale della grande utenza. Nelle recensioni, per salvaguardare comunque la produzione, si partiva da tutti i record battuti al botteghino. Come a dire: ci apprestiamo a fare qualche rilievo, ma comunque il film è da vedere. E non c’è dubbio che il film sia da vedere. In America Il Cavaliere oscuro era vietato ai minori, da noi è per tutti. Ma il rilievo sarebbe sterile: i ragazzini al cinema vedono ben altro che la violenza di Batman o la maschera del Joker. E comunque la violenza di Batman è sempre stata indirizzata alla giustizia. Batman è un eroe, combatte il male, e il male è organizzato, violento e spietato e per combatterlo occorrono forza e violenza maggiori. Ma la forza&violenza dell’eroe deve ubbidire a delle regole. Punto morale Ecco, le regole sono il “punto morale”. Nell’ultima parte del film assistiamo a un’accelerazione dialettica anomala. Come se il regista intendesse cambiare misura, dare altre indicazioni che non fossero quelle “semplici” della lotta del buono contro il cattivo. Il Joker parla, parla, parla: è più concentrato a vendere la sua filosofia della vendetta che a rubare una montagna (vera, non metaforica) di banconote. Anzi, le brucia in nome del suo pronunciamento ideale e malvagio. I grandi modelli tradizionali, popolari, sicuri, giusti e forti, acquisiti da Batman: da Zorro a Tarzan da Robin Hood a John Wayne (in privato Batman si chiama, casualmente, Wayne) a Bond, eroi individuali garanti della salvaguardia della comunità, non bastavano più. Occorreva un’evoluzione e una nuova filosofia, e una nuova categoria. Per cominciare era opportuno non porre “Batman” nel titolo. E infatti il titolo è Il cavaliere oscuro. Ed è un film di metafore, di scontri estetici, di astrazioni, di parabole compresse, di episodi intrecciati uno nell’altro, di accelerazioni e di decibel in eccesso, sempre a indicare quella lotta disperata fra il bene e il male che non avrà soluzione. In questa chiave non è mai stato tanto importante il ruolo del Joker, il criminale assoluto, invincibile perché ama il male per il male e il dolore per il dolore, anche su se stesso. Viene catturato, picchiato a sangue, e lui ride. Non è battibile e non è ricattabile. Suscita nei “buoni” l’istinto peggiore, scova la loro dotazione, genetica e in sonno, per la violenza e la vendetta. I due versanti della lotta sono rappresentati dunque dal Joker e da un paio di cattivi aggiunti (mafia) da una parte; e dall’altra da Batman, dal capo della polizia, e da un procuratore, Dent, onestoquasi-idealista. Tutti saranno “corrotti” dal grande criminale. Quando Joker uccide la donna amata dal procuratore, quest’ultimo (un Aaron Eckhart dal magnifico volto) si trasforma da giustiziere in giustiziere-criminale, alla Joker. Un’esplosione lo sfigura nella parte sinistra del volto. Metafora estetica del bene e del male. Tutti e tre i “buoni” devono vedersela col proprio istinto cattivo. Alla fine ha ragione Joker: le regole sono inutili, ostacoli che non servono, debolezze, scorie che rallentano il progetto, o lo impediscono. La nostra prima essenza non è buona. Persino quella di Batman vacilla, fino a (quasi) crollare. Il Cavaliere oscuro si fa carico di tutto questo. Temi immani affidati al cinema. Cultura moderna. Poi, naturalmente, quel trionfo abnorme al botteghino viene dalla solita azione: macchine tecnologiche, violenza,

voli fra vetro e cemento, esplosioni, inseguimenti e crash, e poi lusso, politica e vip. Arma nucleare La domanda può essere: ma non è velleitario affidare a un film d’azione, generato da un fumetto, un’indicazione così complessa e profonda? È uno degli assidui quesiti del nostro tempo: un’arma nucleare in mani inadeguate. Lo misuriamo nel quotidiano col piccolo schermo, dove Mammuccari, Giletti e Parietti, e altri, ci spiegano i temi “essenziali e profondi” dell’umanità, e li risolvono per noi. E qui va rilevata la franchigia-quasiimmunità del cinema, le cui primarie opzioni finiscono comunque con l’essere l’evasione e l’estetica: “sempre di film trattasi”. Titoli come La nascita di una nazione, La corazzata Potemkin e Olympia (apologetici rispettivamente del razzismo, del comunismo e del nazismo) sono considerati capolavori assoluti, nonostante i tre grandi abbagli, proprio per la prevalenza delle opzioni dette sopra. Come a dire: il cinema, non prendiamolo drammaticamente sul serio. Tuttavia le grandi indicazioni umane vorremmo che appartenessero a operatori più accreditati di un Nolan, la cui educazione sentimentale e intellettuale è strettamente legata alla macchina da presa, all’immagine. Ci siamo sentiti più garantiti quando autori come Orwell (La fattoria degli animali), Clarke (2001: Odissea nello spazio) Tolkien (Il signore degli anelli), scrittori veri, intelligenze portanti, massimi traduttori di metafore, sono stati serviti dal cinema. Tuttavia sono proprio tutti quei record di incassi a far pensare. L’impatto è abnorme. Il cattivo Joker si impone a tanti, tantissimi. E quanti, per la maggior parte giovani e molto giovani, sapranno fare la mediazione? Sapranno identificare il “pericolo”? È la mancanza di regole, è l’assunzione della filosofia del cattivo Joker che la critica ha criticato, insieme alla meccanica confusa della proposta. Troppi concetti stipati in un contenitore inadatto. E c’è un altro richiamo, più alto, letterario. Oscar Wilde rappresenta il magnifico e inquietante Dorian Gray, immutabile. Rimane giovane e bello mentre il suo ritratto invecchia, segnale della sua decadenza. Cos’è il bel viso semidistrutto del procuratore Dent, metafora del precipizio morale, se non una reminiscenza del personaggio di Wilde? Chissà se il regista Nolan era consapevole della citazione. Tutto questo intorno a Batman, ex fumetto. Appunto: cultura moderna.   DISABILI   Il cinema, soprattutto quello di qualità ha sempre prestato attenzione alle storie di disabili. La vicenda di un essere umano che parte da uno svantaggio, a volte gravissimo, e riesce comunque a convivere con se stesso e con gli altri, rappresenta, anche in chiave di espressione, un valore, quasi una tentazione alla quale attori di primissima fascia non hanno saputo sottrarsi. Inoltre le menomazioni, è risaputo, valorizzano altre energie e attitudini, acuiscono sensibilità e volontà. Tutto questo, in chiave di rappresentazione e di racconto è un forte valore aggiunto. Poi c’è il tempo, ci sono le stagioni, quelle del cinema naturalmente. Un “eroe disabile” non era davvero proponibile in certi momenti. Nei decenni di “mezzo secolo” quando il cinema era sogno e lieto fine, l’eroe doveva essere tutt’altro che disabile, anzi, doveva possedere doti superiori. Solo un protagonista cieco poteva essere tollerato, soprattutto se menomato da una ferita di guerra. La stagione di irresistibile attrazione per i disabili da parte del cinema comincia verso la fine degli anni ottanta, quando la menomazione poteva anche essere lo strumento per una certa, profonda dialettica sociale. Rispetto alle rappresentazioni della “disabilità” ci siamo limitati a una selezione, alla punta dell’iceberg, seppure punta nobilissima. E i nomi in gioco sono davvero rilevanti, così come i riconoscimenti: infatti si parla di

Oscar, cioè del riconoscimento maggiore. Nel 1986 Marlee Matlin, autentica audiolesa, ottiene l’Oscar nella parte di una sordomuta nel film Figli di un dio minore. William Hurt, insegnante moderno e illuminato, riesce a penetrare nelle sue paure e a liberare l’intelligenza brillantissima della ragazza. Dustin Hoffman è un malato di autismo in Rain Man, del 1988. Nella sua patologia, che gli impedisce quasi totalmente di comunicare con gli altri, a cominciare dal fratello Tom Cruise, Dustin è un genio della matematica che darà lezioni di vita a tutti quanti. Oscar per Hoffman. In Il mio piede sinistro, Daniel Day-Lewis dà corpo e volto a un cerebroleso, inibito per tutte le funzioni che, in un momento della sua vita, riesce a scrivere qualcosa con un gessetto tenuto fra le dita dei piedi. Da quel momento è un continuo, virtuoso progredire. Lewis ebbe l’Oscar. Era il 1989. Anche il mostro sacro Robert De Niro non resiste alla tentazione di trasfigurarsi in Risvegli, del 1990. È la vicenda di un uomo che è rimasto in letargo per trent’anni e quando ne esce deve ricominciare tutto da capo, ridare vita a funzioni assopite e quasi paralizzate. Un altro divo assoluto si presta a per un ruolo di disabile, è Harrison Ford. In A proposito di Henry, l’attore è un avvocato di successo, con pochi scrupoli, che viene colpito da una pallottola alla testa, rimane paralizzato e perde la memoria. Ci sarà un recupero, ma doloroso. Il film è del 1991. Dunque, in quella stagione, con rigorosa cadenza annuale, come forte e positivo promemoria, Hollywood porta il suo contributo, in chiave di spettacolo e di pensiero, all’argomento. Un altro numero uno sedotto dal ruolo è Tom Hanks. È il 1994 e Forrest Gump irrompe sugli schermi del mondo, diventando uno dei titoli storici del cinema. Forrest è un disabile davvero particolare, dalla sua eccessiva, patologica ingenuità rifà la storia americana della seconda parte del secolo scorso. Diventa continuamente eroe suo malgrado. Ottiene, senza volerlo, tutti i successi che la gente insegue disperatamente giocandosi la vita. La menomazione come metafora drammatica e ironica. E altro Oscar per il protagonista. Sean Penn è padre di una bambina in Mi chiamo Sam, del 2001. Vorrebbero togliergliela, perché l’uomo è un disabile, la sua intelligenza è quella di un bambino di sette anni. L’intelligenza sarà ridotta ma l’umanità e la volontà sono eccezionali. Con l’aiuto di un’avvocatessa vincerà la sua battaglia. Niente Oscar per Penn, solo nomination. Nel 2002 Woody Allen dirige se stesso in Hollywood Ending. È nella parte di un regista in difficoltà che sul set viene colpito da una forma di cecità psicosomatica. Non può rinunciare al lavoro e dunque, aiutato da un assistente cinese, dirige il film senza vedere niente, e ne fa anche il montaggio. Per una volta un disabile in chiave-Allen, cioè grottesca. E una considerazione opportuna sul cinema: spesso i registi non sanno quello che “film” fanno. Nel 1950 Marlon Brando, ventiseienne fresco di Actors Studio, interpretò il suo primo film, Uomini. Il protagonista era un reduce della guerra di Corea, reso paraplegico da una pallottola nella spina dorsale. Brando frequentò per mesi un ospedale per potersi muovere sulla sedia a rotelle in modo naturale. Era uno dei comandamenti di quella scuola di recitazione. Marlon fu straordinario, fu il primo nel tempo e nella qualità. Dopo tutti i nomi messi in gioco sopra, era opportuno concludere col più grande di tutti.   MAMMA MIA! UN MUSICAL PREDESTINATO   Il 2008 ha visto l’irrompere nelle sale di un autentico musical-fenomeno. I segnali, i codici, ci sono tutti. Ferma restando la qualità, di cui dirò, ecco un percorso che è quello dei

grandi classici musicali, si può anche toccare un termine impegnativo: predestinazione. Il film deriva da un musical in due atti scritto dall’inglese Catherine Johnson sulla base delle canzoni degli Abba (ben 24): si comincia con I Have a Dream per finire con Thank you for the Music. Il titolo è ripreso dalla famosa canzone del 1975, Mamma mia!, appunto. La pièce debutta a Londra nell’aprile del ’99 al teatro Prince Edward dove viene rappresentata senza interruzioni fino al giugno del 2004, e poi viene trasferita al Prince of Wales Theatre, dove va in scena tutte le sere da allora. A Broadway approda nell’ottobre del 2001, al Winter Garden e ben presto, nei numeri, si attesta fra titoli da leggenda come Shaw Boat, Il re ed io, Tutti insieme appassionatamente. Una piazza che fa testo è Las Vegas, dove Mamma mia! arriva a mille repliche, record di durata e di spettatori per la città dello spettacolo e del gioco. Dal 1999 al 2006, Mamma mia! è stato visto da circa venti milioni di spettatori. Adesso il film. Si racconta di Sophie che sta per sposarsi, ma prima intende conoscere l’identità di suo padre, che la mamma non le ha mai svelato. Un diario rivela alla ragazza che sua madre, all’epoca della sua nascita, frequentava tre uomini. Sophie, senza dirlo alla mamma, li invita al matrimonio. Il plot “alla ricerca del genitore perduto” è efficace, ottimo garante di botteghino, ed è di moda. Rimanda al recente Across the Universe, dove il ragazzo Jude, di Liverpool, se ne va in America per trovare il padre sconosciuto, distaccato in Inghilterra durante la guerra. Soprattutto rimanda a Filumena Marturano di Eduardo e al film relativo Matrimonio all’italiana, con Sophia Loren. Sophia, appunto, come la sposa di Mamma mia! Rivoluzionario Gli Abba erano un gruppo svedese, siamo negli anni Settanta-Ottanta, rivoluzionario perché non volevano fare la rivoluzione. L’eco dei Beatles si andava smorzando, resistevano i Rolling Stones, comandavano Rod Stewart e David Bowie, trasgressivi a oltranza, frenetici e (quasi) estremi. Gli Abba, due coppie marito e moglie&marito e moglie, intuirono che c’era bisogno di tranquillità e di bravi ragazzi, di musica e di testi rassicuranti. Da lì il successo. Questo loro codice, applicato ad artisti come Meryl Streep, Pierce Brosnan, Colin Firth e altri, ha funzionato anche da noi, con un pubblico italiano che non è mai stato molto amico del musical. Tuttavia il cinema musicale, da sempre, ha coperto ruoli importanti, quasi decisivi, certo nel suo paese d’origine, ed è legittimo che sia così, perché quel “genere” è forse l’unica forma d’arte inventata (non importata o sviluppata) dagli americani. E ci tengono molto. Il primo film sonoro, Il cantante di Jazz, del ’27 è semplicemente un musical: è muto salvo nelle canzoni di Al Jolson. Il primo film “tutto suonato e tutto parlato” è un musical della Metro del ’29. Ecco, 1929 è una data decisiva. Negli anni successivi Washington, quando l’America e il resto del mondo soffrivano della famosa crisi economica, accettò di buon grado che Hollywood giocasse il suo ruolo più adeguato, quello di fabbrica dei sogni, di grande-anesteticoper-il-momento. Astaire-Rogers e Walt Disney furono fra i maggiori eroi di quella contingenza. I due ballerini nerobiancovestiti, agili come schizzi, eleganti più dei cigni, sorridenti a oltranza, nell’immancabile happy ending cantavano le canzoni dei massimi compositori, Gershwin, Kern, Porter, Berlin. Che accademia della gioia di vivere! Tutti dispensanti l’innocua felicità necessaria per aspettare tempi migliori. E i 7 Nani si alzavano all’alba, scovavano diamanti grossi come mele, a sacchi, tornavano a casa al tramonto stanchi e felici, cantando, e vivevano come se fossero poveri. Era la trionfale metafora dell’avere ed essere: i diamanti, la ricchezza? Chi se ne frega, valgo io e sto bene in povertà. In attesa del nuovo benessere, che certamente verrà. Tutto questo funzionava. Il musical era importante. Puristi Il filo d’oro musicale di Disney si sarebbe costruito un’identità praticamente eterna, ad

attraversare i decenni fino a noi. Con qualità artistica di eccellenza, da puristi. Come in Fantasia, dove le musiche di Beethoven, Bach, Tchaikovsky, Shubert, Stravinskij, facevano ballare ippopotami, struzzi, coccodrilli, elefanti e Topolino (peccato che struzzi ed elefanti ballino su musiche di Ponchielli e Topolino su musiche di Dukas). Una strepitosa, irriverente, scandalosa contaminazione che però incantò il mondo, e incantò anche i puristi. Fantasia: un musical. I titoli disneyani delle ultime e penultime stagioni sono costruiti intorno alle canzoni, da Il Re leone a La Sirenetta, e poi La bella e la bestia, Aladdin, Tarzan, Mulan. Tutti insomma. E sono film da enormi incassi, dovunque: significa che Disney era riuscito a spaccare il pregiudizio, aveva trovato la formula di vendita del film musicale, anche da noi. In quella prima età dell’oro le canzoni non avevano bisogno di niente, nemmeno della storia, il canovaccio era orrendamente semplice: lui e lei litigavano poi, cantando e ballando si riconciliavano. Negli anni Cinquanta, la Metro produsse una serie di musical che non erano solo canzoni con contorno, ma commedie di qualità con musica di qualità. Magnifica evoluzione. L’eroe era Gene Kelly. Un Americano a Parigi e Cantando sotto al pioggia sono opere d’arte generali. Fecero scuola, che non sarebbe tanto importante, ma dispensarono gioia, che è più importante. E continuano. Gli autori si accorsero che si potevano applicare contenuti importanti, “seri”, anche a un film musicale. È sempre bel tempo è la storia di tre reduci che si separano nel ’45 e decidono di ritrovarsi dieci anni dopo. Chissà se si saranno integrati? Gli eroi di quel cinema dietro la macchina furono Kelly e Donen. Quest’ultimo (Cantando sotto la pioggia, 7 spose per 7 fratelli, lo stesso È sempre bel tempo) era un inventore. A 25 anni teneva a bada caratteri come Kelly, Astaire e Charisse, gente abituata ad aver ragione, a fare di testa propria. Il musical di quella stagione è di livello artistico altissimo, direi insuperato. “Cantando” non è solo un’opera leggera, ma un titolo che ha contribuito al salto di qualità e di definizione del cinema, da evasione ad arte: Donen&Kelly, non solo Renoir&Gabin, Bergman&Von Sydow, Fellini&Mastroianni. Del resto a dire che il talento di Gene Kelly equivale a quello di Nureyev è stato Béjart, uno che se ne intendeva. Il record Un segnale interessante arriva nel 1965 quando un musical compie un’impresa che sembrava impossibile, batte il record di incassi di Via col vento. Si tratta di Tutti insieme appassionatamente, di Robert Wise. Il musical scritto da Rogers & Hammerstein vinse l’Oscar e divenne un fenomeno in quasi tutto il mondo, il “quasi” si riferisce all’Italia che ancora una volta diffidò delle canzoni nei film. Il titolo ebbe da noi solo un buon successo. Oscar richiama qualcosa di significativo. Il massimo riconoscimento di tutto il cinema toccò il musical molte volte. Quel premio dovrebbe conciliare qualità e spettacolo. In nome della paternità dell’unica forma artistica tutta-e-solo-americana (il musical, come ho scritto sopra), Hollywood diede il premio assoluto a Un americano a Parigi (’51), Gigi (’58), West Side Story (’61), My Fair Lady (’64), Tutti insieme appassionatamente (’65), Oliver! (’68). Ed è legittimo che dal 1968, anno della svolta sociale, il musical fosse ritenuto un genere “frivolo”, fuori dal contesto impegnato della cultura dominante. Così bisogna arrivare al 2002 per rivedere un musical insignito dell’Oscar, Chicago, di Rob Marshall. Ma in quel lungo interregno i film musicali assunsero un ruolo comunque importante. Se li presenti con una canzone puoi permetterti argomenti importanti, diventi credibile proprio perché non ti prendi troppo sul serio. La musica ti offre dunque un alibi leggero, oltre a un impatto sentimentale quasi irresistibile. Un po’ come il dialetto, prendiamo il napoletano, che ti fa passare argomenti che in italiano apparirebbero scontati o demagogici. Riprendendo, da lontano, il tema di Romeo e Giulietta, West Side Story poneva il problema dell’integrazione dell’America del 1961, la stagione di Luther King. Musical

“seri&rivoluzionari” si susseguirono in quegli anni, e ciascuno portava la sua indicazione. Nel ’73 Jesus Christ Superstar, diretto da Norman Jewison rivede certi rapporti fra l’umano e il divino davvero fondamentali. L’autore dei testi Tim Rice contesta la figura di Gesù, reso ambizioso e quasi isterico, e reinterpretando certi atti si allontana poeticamente e coraggiosamente dal dogma. Esemplare è la vicenda di Giuda, un attore nero, che si ribella a Gesù che ha segnato il suo destino unilateralmente, senza dargli la possibilità di scelta. Il tema è abnorme, visitato da 2000 anni di teologia. Eppure il cinema (il musical) lo “risolve”, valendosi delle licenze e della spregiudicatezza che lo caratterizzano. Culto-trash Nel ’75 irrompe The Rocky Horror Picture Show. Piccolo spunto casuale, che diventa culto-trash-sessual-liberatorio, aggressivo manifesto unisex post sessantottino. Un’opera diversa e geniale, che fa testo, è del 1978, Grease, che riporta il genere all’attenzione del pubblico largo e giovane, anche se si tratta di una rivisitazione. La vicenda vive in un’atmosfera da anni Cinquanta. John Travolta vi immette gli opportuni movimenti pelvici utili per aggiornare il prodotto e per il marketing. Un’indicazione: nello scorrere dei titoli finali, in caratteri piccoli, veloci, quasi nascosti, si legge Gene Kelly. A tanti anni di distanza dai quei titoli dell’età dell’oro, se volevi far ballare e cantare, era ancora a lui, eroe inventore, che ti dovevi rivolgere. All That Jazz (’79) è un altro titolo rilevante, per evoluzione. Bob Fosse rappresenta qualcosa di diverso nel genere, l’erotismo e il nudo e una coreografia ambigua e “fisica”, con figure sessuali quasi esplicite. Lui che aveva ballato il tip tap nei famosi musical degli anni cinquanta. Fosse è un altro che ha indicato una svolta, un precursore. Saranno famosi (’80) è un altro primo motore. Probabilmente il film che ha generato più produzioni. Trattasi di didattica buona: i giovani che frequentano l’accademia artistica e otterranno in proporzione al talento. Il film di Alan Parker è un prodotto perfetto: modelli, canzoni (la famosa Fame), ballo, giuria, parabole, e ha generato la serie televisiva, con gli stessi personaggi del film, di enorme successo. Molti film di culto giovanile hanno quella derivazione, come Flashdance e Save the last dance. Un’ emanazione latina di Fame è la spagnola Paso adelante, ottimo prodotto distribuito ovunque. E non si può, per analogia, non citare un figlio degenere, il programma Amici di Maria De Filippi. Personale Con Fratello dove sei? (2000) ho qualcosa di personale. Gli ho attribuito 5 stelle 21 anni dopo Apocalypse Now, dunque un film perfetto, anomalo, ma musical, con alcune delle più belle canzoni country americane che accompagnano una storia piena di metafore da uno spunto eroico, l’Odissea, con interpreti impeccabili e la genialità dei Coen quando erano geniali. Film che porta felicità. Moulin Rouge (2001): un clip infinito che rimescola immagini, deliri e musica in un contenitore che gira continuamente su se stesso. Media di durata delle sequenze, tre secondi. Certo, c’è Nicole Kidman. Nel 2002 Rob Marshall dirige Chicago. Storia antica in chiave frenetica, con una colonna sonora quasi memorabile. Con due grandi attrici, Zellweger e Zeta-Jones che sembrano uscite da una vecchia scuola, scuola di “allora”, perché fanno tutto alla perfezione recitazione, canto e ballo. Un benemerito tentativo di recupero della grande qualità lo si deve al postmoderno DeLovely (2004), una biografia di Cole Porter. Il regista Winkler ricrea alla perfezione l’epoca di Porter, gli anni tra i venti e i cinquanta. Ma l’uomo che ha composto alcune delle più belle canzoni del Novecento ha trovato tiepida accoglienza nel cinema di oggi, dove la qualità, e la storia, anche le storie più nobili, non basta come richiamo per le generazioni che vanno al cinema.

E poi The Producers (2005), grande sceneggiatura e musiche adeguate. Deriva da un classico comico Per favore non toccate le vecchiette di Mel Brooks, dunque parte bene. E tanti mix fra vecchio e nuovo, con Uma che fa un po’ Marilyn e un po’ Rita. Io non sono qui, di Tod Haines, del 2007, appartiene alla famiglia allargata degli evocatori di mito. In questo caso Bob Dylan, rappresentato attraverso simboli e facce diverse un film che si prende a cuore la poetica sociale piuttosto che le canzoni, comunque un “episodio” sofisticato e intelligente. Un altro “evocatore” è Across the Universe (2007), al quale, nella formula, Mamma mia! assomiglia sospettosamente: alla ricerca del genitore perduto. Rispetto al film con gli Abba “Across” è portatore di minore felicità, ma portatore, con tutto il rispetto per gli Abba, dei Beatles. Il filo d’oro si srotola ed ecco, alla fine arriva Mamma mia!, eredità degli antenati musicali: bisnonni, nonni e padri, tutta gente felice. E poco è cambiato, il pensiero è lo stesso, adulto e adolescente, il gesto è quello dei cartoni, i sentimenti sono fasulli come i colori del web. Com’è fasullo il cinema più bello. E niente di politicamente corretto. Cinque stelle.   DONNE: NON CAMBIA (QUASI) NIENTE   La prima edizione, quella regina, di The Women è una produzione MGM del ’39, arrivata in Italia nel ’47, a guerra finita. Il film diretto da George Cukor era tratto da una pièce di Clare Boothe Luce. È la storia di Mary, un’americana ricca, per bene, intelligente, elegante, mamma e – ma questa nuova virtù emergerà alla fine – comprensiva. Insomma perfetta, lei e la famiglia. Solo che il marito Steven cade nella rete della maliardissima (siamo negli anni Trenta) Crystal Allen che naturalmente punta ai soldi e allo status. Il fatto diventa di dominio dell’entourage di Mary, le varie amiche che cercano in tutti i modi di intromettersi, combinando guai a non finire. Tanto che Mary divorzia. E Steven sposa la maliarda. Per poi pentirsi: aveva la donna migliore del mondo e ha perso la testa per una che non valeva un’unghia della prima moglie. Naturalmente nella Hollywood degli anni Trenta il marito, alla fine, non poteva che privilegiare la moglie. La famiglia si ricompone. L’happy end degli happy end. Nel ’56 ecco una nuova versione, Sesso debole?, adesso l’ultimo remake. È cambiato pochissimo. Un paio di dettagli: nella prima versione e nell’ultima non si vedono uomini. Solo donne, dovunque, nelle case, nei locali nei negozi e sui marciapiedi. Nel film di mezzo il regista David Miller è meno assolutista, presenta qualche maschio, idiota ma maschio. A cominciare dal marito Steven, quel Leslie Nielsen che avrebbe fatto fortuna da anziano con le varie “pallottole spuntate. Un comune denominatore, robusto, c’è. Ed è il benessere. Si tratta di donne che frequentano saloni di bellezza, si vestono di firme, organizzano beneficenza. Il denaro è scontato. Del resto quei sentimenti e quelle situazioni non si addicevano, e non si addicono, a orari di lavoro stressanti e alla conta dei dollari a fine settimana. I modelli La prima Mary era Norma Shearer, quasi brutta ma gran signora. E poi suo marito era Irving Thalberg, il gran capo della produzione della Metro. Norma era talmente potente da ottenere, un paio di stagioni prima, il ruolo di Giulietta, diventando la Giulietta più vecchia (34) di tutti i tempi. In Donne dispensa classe e dignità. Vive il tradimento del marito in silenzio, proteggendo la figlia, affrontando il pettegolezzo, gestendo la sofferenza. Da signora impeccabile, appunto. Divorzia con la morte nel cuore. E quando il marito si pente, Mary perdona. Il film finisce con la donna in primo piano che tende le braccia a Steven,

comunque invisibile. A Crystal, l’antagonista, dava corpo e volto Joan Crawford, la grande maliarda, modello perfetto. Donna di ferro e di ghiaccio, ambizione sfrenata, brava a simulare amore e dolcezza. Ma, specie in quelle stagioni a Hollywood, i cattivi potevano vincere, ma a termine. Arrivava il momento della resa dei conti, e la virtù prevaleva sul vizio. E alla fine Crystal-Joan veniva battuta. Giustizia era fatta. Vinceva la famiglia. Mamma-moglie L’edizione degli anni Cinquanta, esclusa la presenza maschile, era del tutto simile alla prima. Mary era June Allyson, mamma-moglie perfetta. Quasi omologa del primo modello. Un ruolo quasi automatico per lei, con quel suo appeal di mezzo, mai aggressivo, ma sottotono e rassicurante. Mamma anche del marito oltre che dei figli. A Reno, dov’è andata per divorziare, viene corteggiata da gigolo e da giovani aitanti. Ma non ci pensa neppure. Del resto quel cinema avrebbe tollerato il tradimento di un marito, mai e poi mai di una moglie. La sua antagonista era impegnativa, l’eterna Joan Collins, sex symbol nei decenni. Joan era un carattere più avanti di quel decennio, era già una da Sessanta e Settanta, e infatti resistette a lungo. Un esempio esclusivo di longevità sessuale. Senza contare che una classifica credibile la elesse donna più bella del mondo. Sexy e cattiva. Dunque perfetta per sottrarre mariti ricchi, a questa o a quella. Peccato originale Il The Women (2008), diretto da Diane English, cerca di sradicare una vicenda che comunque nasce col peccato originale degli anni trenta, attraverso azioni e battute aggressive, magari estreme. Meg Ryan, la madre di famiglia, deve prendere le distanze dalla prime due Mary. Quando un’amica insinua che forse il marito cercava altrove qualcosa che gli mancava in casa risponde: “Sono capace di succhiare i chiodi da un muro se mi ci metto”. Norma e June sarebbero morte, dicendo quella battuta. Mary-Meg non divorzia. I tempi favoriscono quella flessibilità, basta essere separati. Gli autori non prevedono un pan per focaccia da parte della moglie. Nell’evoluzione del linguaggio i gigolo sarebbero diventati dei marchettari e gli aitanti dei testosteronici, tuttavia un marito lo puoi gestire col telefono, ma un amante testosteronico lo devi far vedere. Dunque niente. E comunque la moglie-2008 avrebbe anche potuto permettersi una vendetta. Le amiche l’avrebbero capita, e anche il pubblico. E poi, Sex and the City insegna, c’è dialettica fra amiche, continua e capillare. Svisceri tutto e poi nell’infelicità ti aiutano i simboli ricchi di Manhattan e del nostro tempo. Litighi meglio se sei da Sachs, grande magazzino, centro estetico e parrucchiere, se frughi in una borsa di Prada e se calzi Manolo Blahnik. Tutto cinema in più. La terza Crystal è Eva Mendes, una tigre nelle movenze, una mantide nelle intenzioni, iride scura dunque cattiva, affronta la rivale-moglie in intimo Victoria’s Secret, esponendo il corpo come un’arma nucleare, mezzo del suo potere che ha asservito il marito vulnerabile. Ma la resa di una donna del nostro tempo non può essere senza condizioni. Mary-Meg riaccoglierà il marito, ma adesso è un’altra donna, non più dipendente. Ha creato una linea di moda, ha avuto successo, sarà impegnata e autosufficiente. Il marito pentito ritroverà spazio nel nido, ma i confini li deciderà lei. Lui vorrebbe correre subito al seno. Si aspetterebbe un abbraccio alla Norma Shearer 1939. Invece Mary-Meg, al telefono, lo fa attendere, consulta l’agenda e gli dice “sono libera mercoledì”.   QUALITÀ, CULTURA, SPIRITUALITÀ, GRANDE CINEMA   Nel 2009, per diverse settimane, Famiglia Cristiana è uscita in edicola allegando una serie di Dvd dedicati ai grandi interrogativi dello spirito. Si tratta di titoli molto importanti, alcuni certamente decisivi: Il grande silenzio (Gröning), La leggenda del santo bevitore

(Olmi), Centochiodi (Olmi), 7 km da Gerusalemme (Malaponti), Il messia (Rossellini), L’Isola (Lounguine), La conversa di Belfort (Bresson), Andrej Rublëv (Tarkovskij). Alcuni di questi autori fanno parte della storia del cinema e della cultura generale. Non occorre un promemoria. Si tratta di titoli di alto significato umano e spirituale e di magnifica didattica, in un momento in cui di didattica si parla molto. Piccolo schermo Dvd significa comunque piccolo schermo. Mi piace decifrare l’iniziativa anche in quella chiave. Come alternativa a molta televisione corrente, come strumento che ci difenda e garantisca da ciò che viene proposto giorno dopo giorno, ora dopo ora. L’indicazione di una parte prevalente di questi tempi è la catastrofe imminente che toccherà a te, proprio a te. Perché fra poco l’economia fittizia della borsa invaderà quella reale e fra “coloro che non arrivano alla fine del mese” ci sarà la tua famiglia. Perché gli stranieri vengono maltrattati e il malcontento sfocerà in qualcosa di molto grave. Perché comunque il paese è disperatamente insicuro ed è bene che tu ne prenda atto. Poi c’è la cultura del blob e del no. Il blob è sconcertante. C’è il censore tenace che passa tutta la vita a cercare - nei programmi, sui giornali, nei fascicoli delle procure, nei verbali dei processi - il soggetto da incastrare, delegittimare, sfottere, cogliere in fallo. È il compagno di classe, tutti ne abbiamo avuto uno, che va dall’insegnante a dire “guardi che Rossi ha copiato da Bianchi, in questo e quel punto, mi raccomando, li punisca.” Tutte energie spese solo a demolire invece che a proporre. Certo proporre non è facile. Nel film Tempesta su Washington il senato ascolta il discorso di un relatore. Nella zona dell’opposizione un senatore sta dormendo. È il momento dell’alzata di mano. Il vicino sveglia il collega con il gomito, il senatore alza all’istante la mano e dice: “Mi oppongo, assolutamente mi oppongo.” È un’ istantanea interessante del no, che il piccolo schermo dispensa più del dovuto, tenacemente appunto, un richiamo d’angoscia di cui faremmo a meno. Anche perché la Nazione è meglio di com’è, in certi quadri, rappresentata. Il gossip Poi ci sarebbe la parte divertente, dell’evasione e del gossip. Sappiamo. E poi l’estetica che passa dalle facce gonfie di gomma – e tutte sgradevolmente uguali – delle varie soubrette, al trans in costume da bagno. E poi i contenitori del week-end dove tutti ballano, giocano e cantano con gioia sproporzionata e fastidiosa, istantanea ancora peggiore di quella catastrofica. La premessa per inserire gli otto film di Famiglia Cristiana. Davvero un approdo di calma e serenità. “Calma&serenità” è ciò che trasmette Il grande silenzio, ed è un simbolo perfetto contro tutto il “chiasso” che ho raccontato sopra: la vita del monaci nel monastero de La Grande Chartreuse, davvero un film senza parole: magnifico. La leggenda del santo bevitore è la storia di un emarginato dolente, che si trascina per Parigi, e non coglie i segnali del trascendente. Centochiodi è un ragionamento e un sentimento sulla cultura e la fede. In 7 km da Gerusalemme un umano incontra, forse, Gesù, e gli pone le domande che tutti vorremmo porgli. Il Messia è il racconto di quella vicenda da parte di uno dei massimi maestri del cinema del mondo. Ne L’Isola un uomo che ha commesso un delitto, è raccolto nella sua espiazione “isolata” e cercata. La conversa di Belfort è la vicenda di una suora e della sua sofferenza per conciliare i propri sentimenti con la rigidità dell’ordine. Andrej Rublëv è un pittore di icone sacre che crede di poter risolvere la propria vita nella fede e nell’arte, ma non è così. Film che meritano tutti un momento di attenzione, soprattutto a noi stessi. Una zona franca, che rappresenta anche un promemoria di fede non solo attraverso una liturgia domenicale, ma grazie alle vicende e alle parabole nelle quali siamo spettatori e protagonisti.

  IL CINEMA E LA GUERRA ALLEGRA: DAI FRATELLI MARX A BEN STILLER   Tropic Thunder, di e con Ben Stiller, fenomeno di incassi in America, è passato in Italia quasi inosservato. Il botteghino “iperbolico” americano è già comunque connotazione di evento, ma in questo caso si sommano altri valori, a cominciare dal cast a sua volta iperbolico, anche se troppo squisitamente americano, (nomi più amati là che altrove, per esempio). Di originale non è tanto la satira, già percorsa e ripercorsa, ma la sua formula. Una troupe di attori che prima finge una guerra, poi ci si trova in mezzo. La parola è satira, satira sulla guerra. Il genere è consolidato, e arriva da lontano. Il primo titolo, primo motore, è La guerra lampo dei fratelli Marx, del 1933. Quella data non è casuale, come non lo è il fatto che i Marx fossero ebrei. Anche Ben Stiller è ebreo, dunque il filo principale di quel genere che parte 75 anni fa e arriva a noi, ha quella connotazione. Satira come difesa e come attacco e quel popolo, in quel senso, presentava un esercizio immane e millenario. Il bersaglio della guerra&satira è sempre un “persecutore”, spesso Hitler, e comunque un “capo”, certo un capo non amico, vanno bene tutte le definizioni: faraone, imperatore, monarca, zar, dittatore. A fronte di spade, fucili e bombe, gli artisti ebrei combattenti posero intelligenza, creatività e coraggio, e amici influenti, naturalmente. E si trattava di talenti magnifici, di leader, di legislatori di spettacolo, dai Marx, a Chaplin, Lubitsch, Lewis, Allen, Brooks, a Stiller, appunto, che non possiede ancora quei crediti, ma del quale verificheremo, nel tempo, la tenuta. Nasce da tutto questo, radice dolorosa, la straordinaria vena yiddish di spirito e di ironia, che ha attraversato, e continua a farlo, il cinema e lo spettacolo. Il 1933, l’anno della “Guerra lampo” è anche l’anno dell’avvento di Hitler. I Marx non avevano ancora gli strumenti per una satira sul nazismo, ma avevano quelli da applicare al fascismo. Il dittatore – con bafietti – di uno Stato europeo dichiara guerra al vicino. Il film contiene una serie di gag e di modelli ancora credibili, e divertenti. Le allusioni al regime italiano, con tanto di istantanee vicine a gerarchi come Balbo e Grandi, ne impedirono la distribuzione nel nostro Paese. Le origini ebraiche di Charlie Chaplin sono controverse. Nella biografia si parla, confusamente, di battesimo, di appartenenza a una certa chiesa anglicana e di una parente ebrea. Dopo il 1940 Hollywood e il resto del mondo lo considerarono ebreo, e lui non smentì mai, perché in quell’anno Chaplin aveva diretto Il grande dittatore. È la più feroce satira contro Hitler, che viene attaccato e ridicolizzato in tutti i modi. La vicenda parte da un barbiere che ha perso la memoria nelle trincee della prima guerra mondiale. È il sosia del dittatore Hynkel e viene scambiato per lui. Emergono leggi razziali, violenza, pazzia, tutto sempre filtrato dalla vena yiddish. Creduto dunque il dittatore e messo sul grande palco Chaplin-Hynkel-Hitler fa un incredibile discorso finale sulla pace nel mondo. Chaplin aveva audience abnorme, dovunque. Così letteralmente, mediaticamente, distrusse il Fürer. Tre anni dopo, un altro genio del cinema, Ernst Lubitsch prese di nuovo di mira Hitler col suo Vogliamo vivere, che racconta di un gruppo di attori a Varsavia. Scoppia la guerra e si trovano a combattere, a modo loro, con trucchi e intelligenza, contro gli invasori nazisti. Riescono a infilarsi in un aereo in partenza, non sanno che è quello personale di Hitler. Il dittatore non c’è, ma c’è il suo personale. L’aereo decolla, uno degli attori si traveste da Hitler e ordina all’equipaggio di buttarsi dall’aereo in volo. L’equipaggio obbedisce contento. Nel 1970 Jerry Lewis dirige e interpreta Scusi dov’è il fronte? Seconda guerra mondiale: ancora di sosia trattasi, anzi due. Un miliardario riformato organizza un suo esercito

privato, sbarca in Italia, scopre la somiglianza con un generale nazista prende il suo posto, ordina una ritirata decisiva per la vittoria alleata e trova anche il modo di far saltare il bunker di Hitler. Trasferitosi sul fronte del Pacifico ecco un altro generale giapponese pronto ad essere sostituito. Anche Woody Allen non riesce ad affrancarsi dai sosia. In Il dittatore dello Stato libero di Bananas (1971) se la prende con Castro. Allen è Mellish, un poveraccio americano che si trova casualmente nello Stato di san Marcos, che poi è Cuba, e si attira la simpatia del popolo. Quando il dittatore “similcastro” impazzisce emanando leggi inverosimili contro la sua gente, ecco che Mellish viene nominato presidente. In Amore e guerra (1975) Allen è un proprietario terriero vigliacco e debosciato nella Russia zarista. Napoleone arriva a Mosca e Allen, per riabilitarsi, decide di uccidere il dittatore invasore. Solo che Napoleone si è procurato un sosia, giusto per farlo ammazzare al posto suo. Mel Brooks dirige e interpreta La pazza storia del mondo nel 1981. Uno degli episodi racconta la Rivoluzione francese dove Luigi XVI, monarca idiota, infelice e cornuto, lascia il suo popolo nella fame ma ha la prudenza di procurarsi un doppio che puntualmente viene catturato al momento opportuno e portato alla Bastiglia per essere ghigliottinato. Ma il finale tragico non si addice alla satira. C’è sempre un coniglio yiddish pronto nel cilindro. E così la striscia guerra-satirayiddish giunse a Ben Stiller.   I GIOVANI CONOSCONO LUHRMANN, IGNORANO CARNÉ, MA APPLAUDONO LAUREL&HARDY   Nell’ambito del corso che tengo sull’estetica del cinema all’Accademia d’arte di Brera, ho avuto modo di ‘testare’ attitudini, cultura e memoria di una certa fascia giovanile. Si tratta di allievi già in partenza dotati. Spesso si tratta di talenti. Fanno parte di programmi di pittura, scultura, scenografia, videoarte, comunicazione, critica, organizzazione, didattica. Il corso si chiama Da Weimar a Hollywood e rileva l’enorme incidenza che ebbe la cultura tedesca sul cinema americano. A partire dagli anni venti fino al decisivo ’33 (avvento di Hitler), alcuni dei massimi artisti di lingua tedesca, molti viennesi, figli della cultura espressionista che dettava legge in Europa, varcarono l’Oceano e approdarono a Hollywood. I nomi sono strepitosi. Una selezione: von Stroheim, Lubitsch, Wilder, Wyler, Lang, Siodmak, Zinneman, maestri massimi, inventori di cinema. Com’è loro tradizione, gli americani accolsero curiosi, felici e rispettosi tanta cultura. Misero quegli autori a proprio agio e cercarono di imparare da loro. L’essenza, la profondità, la verità, anche il rigore dolente soprattutto in chiave estetica, di quella corrente, furono mediati dalla cultura americana, anzi, hollywoodiana, che portava una cifra più spettacolare e una tangibile attitudine all’evasione. Portava storie col lieto fine. Molti autori americani cercarono di assumere quello stile forte e contrastato, luci e ombre che si stagliavano, facce che sembravano dipinti macabri (il Nosferatu di Murnau), insomma un esercizio di eccesso estremo che andava imbrigliato e guidato, col pericolo di ritrovarsi disperatamente nel grottesco e nell’iperbole. Luci Un gioco di luci drammatico, un’ombra che si proietta sul soffitto e pareti decuplicando la massa della fonte dell’ombra stessa, poteva adattarsi a un’estetica tragica, ma qualche autore di cultura poco salda, sedotto dalla suggestione, applicava quegli eccessi magari a due ragazzi che si dicevano “ti amo” seduti a un fast food. Tuttavia i titoli firmati dai nomi detti sopra, cioè da gente che la mediazione sapeva farla, fanno parte del vertice assoluto del cinema, ne sono una sezione fondamentale della spina dorsale. Titoli, nei decenni, letteralmente sepolti di Oscar, oltre a tutto il resto. Come premessa e come contrasto a un

discorso tanto serio e – me ne sono reso conto subito – sconosciuto, ho realizzato un montaggio di cinema conosciuto. Aderendo alla somma di attitudini dei ragazzi ho accorpato una serie di sequenze di certi autori “estetici” attuali, dediti a vari aspetti del visionario. Non poteva mancare una partenza con due monumenti ormai classici, le saghe di Harry Potter e de Il Signore degli anelli. A seguire: la fantasia anarchica senza briglie (Big Fish di Burton), invenzioni pittoriche come ricavate da un caleidoscopio (Mirrormask di McKean), un delirio imploso di colori che premono lo stomaco (Il labirinto del fauno di Del Toro), la grafica promiscua fra fumetto di classe e magia b/n (Sin City di Rodriguez), la sperimentazione legata alla velocità da spot (L’arte del sogno di Gondry), la grafica epica con richiami nobili figurativi (300 di Snyder), la frenesia che ferisce l’iride, le frustate musicali e i richiami di musica recente e lontana (Io non sono qui di Haynes e Moulin Rouge di Luhrmann). Tutto nella giurisdizione del computer. Dunque cinema congeniale a futuri creativi. E poi, indietro: la Germania e dintorni. Il primo motore non poteva che essere il Nosferatu di Murnau che ha determinato una scia infinita di ispirazioni. Uno degli studenti ne ha colta una, la più paradossale. Non conosceva Nosferatu ma ricordava una sua emanazione, Igor, il Marty Feldman dagli occhi indipendenti, nel Frankenstein Junior. Altre culture Non potevano mancare digressioni in altre culture, ispirate a quel movimento. Il cinema francese del Fronte Popolare rappresentato da Il porto delle nebbie. Contenuto ed estetica fondamentale, uno dei momenti più alti non solo del cinema, ma dell’arte generale del ‘900. Il porto di Brest nell’ombra, la nebbia che sale e scende, una taverna frequentata da avventizi che parlano come poeti. Magia della ditta Carné-Prévert. La Gran Bretagna secondo il genio di Laurence Olivier nell’Amleto: mediazione altissima, fra chiari e scuri estremi, tra cinema e teatro. L’opera delle opere, diretta dal massimo attore shakespeariano di sempre, premiata contemporaneamente, nel ’48, con Oscar e Leone d’oro. E naturalmente Hitchcock: l’autore capace di creare codici perfetti come sfere, che decretano precedenti dai quali non si potrà prescindere. La sequenza è quella di Robert Donat che fugge sulle colline ne I 39 scalini. Il nord col danese Dreyer che con La passione di Giovanna d’Arco riesce a rappresentare un processo, dunque parole, senza le parole – siamo nel ’28, c’è ancora il muto –, semplicemente ricorrendo alla famosa espressione, di scene e di facce. In Russia comanda Eisenstein, e ne ha tutto il diritto. “Il Potemkin”, al di là delle note ironie, è un manifesto perfetto, con energia esclusiva, dei principi iniziali e ideali, poi disattesi, della rivoluzione: anche lì, contenuti ed espressione. Per l’Italia la proposta è Ossessione di Visconti. La sua prima firma il regista la poneva su un capolavoro del cinema non solo italiano. Unisce tre culture, italiana, francese e americana. Visconti veniva dalla collaborazione col grande Jean Renoir e trasponeva un romanzo di James Cain che faceva testo, con un’estetica che a sua volta faceva testo: il road italiano, il Po, le piazze e la gente. New Deal L’indicazione americana è tutta di giganti. Welles, con Quarto potere, che assume la cultura espressionista secondo la sua anarchia, riuscendo a trasformare errori – luci, ombre e inquadrature impossibili – in regole che faranno testo. John Ford, con Ombre rosse attribuisce nobiltà di contenuto e di forma a un genere minore, il western. E poi il cinema del New Deal, la proposta positiva indotta dal presidente Roosevelt nel momento di massima difficoltà, non solo economica, degli Usa negli anni trenta. L’eroe è Frank Capra, il titolo è La vita è meravigliosa, la sequenza è quella di James Stewart che viene salvato dalla gente della sua città che gli porta i propri risparmi. Walt Disney con Biancaneve e i 7 nani porta un esempio indimenticabile: i nani trovano diamanti, (già tagliati) grossi come

mele, in sostanza sono i più ricchi e vivono come i più poveri. La differenza fra avere ed essere, e la speranza che i tempi difficili finiranno, perché l’America, la sua gente e il Presidente, li faranno finire. William Wyler affrontava un altro tema decisivo col suo I migliori anni della nostra vita: i reduci. Alcuni milioni di giovani erano stati lontani quattro anni e tornavano, e reintegrarsi non era facile. La sequenza propone Fredric March che ritrova moglie e figli nel più bel ritorno raccontato dal cinema. De Mille (Gli invincibili) è il trionfo della finzione, tutto fasullo, tutto in studio. Costumi troppo stirati, modelli troppo belli, cielo troppo azzurro e foreste troppo verdi. È comunque grande cinema. Procedendo nella visione e nella spiegazione mi rendevo conto di come tutti questi maestri cadessero nel vuoto. Qualcuno aveva sentito nominare Welles, quasi tutti naturalmente conoscevano Disney, ma quello recente, de La Sirenetta e di Aladdin. Tuttavia quei momenti di cinema, esemplari e decisivi, pochi purtroppo e certamente selezionati con arbitrio, una volta illustrati e messi nei contesti stavano lasciando il segno. Cominciavano a venire intesi come tesori nascosti. E gli allievi prendevano appunti, trascrivevano i titoli. Credo che cercheranno quei film e altri di quella natura, e li vedranno. E certamente ne avranno benefici. L’ultima sequenza era di Laurel&Hardy ne Gli allegri Scozzesi, dove i due, in kilt, al ritmo di una marcetta, raccolgono, ballando, la spazzatura in un cassonetto. Uno con quelle gambone, l’altro con quelle gambette. I ragazzi ridevano alle lacrime. E alla fine è esploso l’applauso. Certo erano incappati in Stanlio e Ollio nel piccolo schermo, cambiando immediatamente canale. Ma non li conoscevano, non sapevano che loro sono il cinema, ne incarnano la prima opzione, che è, appunto, l’evasione. Fatta di nulla, di due corpi ridicoli, di due facce ridicole, ma di una chimica e di una grazia incomprensibili: ti divertono come allora, 1935. Il cinema non comincia con Pulp Fiction. La letteratura non è solo Saviano, Giordano, Foster Wallace o Carver. Hanno scritto anche l’Odissea.   ANGELI E DEMONI: LA CHIESA, CHE SET!   Dunque Mission: impossible fra Rafiaello e San Pietro: praticamente tutto e quasi tutto sbagliato. Si comincia con un ambigramma che forse va definito: è un’espressione grafica formata da lettere o numeri, che può avere almeno due letture a seconda dei movimenti e delle prospettive. Dunque è un congegno che permette praticamente tutto. Perfetto per la filosofia “ambigua”, misteriosa, che fa parte della cultura e della scaltrezza di Dan Brown. Si parte da un ambigramma trovato sul corpo di uno scienziato assassinato. Poi abbiamo: Il thriller La figlia del morto che ha messo a punto, col padre, un’antimateria, un’energia al cui confronto il nucleare è un petardo di carnevale: la miracolosa sostanza viene conservata in un contenitore di laboratorio. L’ antimateria viene trafugata dagli Illuminati, setta religiosa terribile, che si propone di distruggere il cattolicesimo. Robetta. Abbiamo il camerlengo, altra opportuna definizione (secondo Rizzoli Larousse): “incaricato, durante il periodo di ‘sede vacante’, di constatare la morte del pontefice e di apporre i sigilli alle stanze del Papa defunto, di prender possesso dei palazzi apostolici e di convocare il conclave”. Robetta. Il camerlengo naturalmente entra in azione perché il Papa è morto. Occorre ritrovare assolutamente la sostanza, innescata a orologeria, che mette in pericolo non solo i cattolici ma il mondo tutto. Il percorso è “squisitamente Brown”. E qui veniamo a: Intrigo&estetica Il percorso si chiama Cammino dell’illuminazione da decifrare fra monumenti e opere

d’arte di Roma: non mancano, e l’artista prediletto è Bernini, uno che attira l’attenzione, il creatore di incanti dei quali il film fa incetta. Bella forza. Citiamo, fra tante opere, l’evocativo bassorilievo di Ponente in piazza San Pietro. Per pluralismo e per la solita furbizia, Brown ha cavato anche un nome popolarissimo anche in America, Raffaello Sanzio, la cui cappella Chigi, situata nella Basilica di Santa Maria del Popolo, sarebbe una delle location centrali dell’intrigo. Sempre in chiave di popolarità, magari di leggenda italiana nel mondo, ecco spuntare anche Galileo (anche lui, come farselo mancare), che sarebbe autore (dunque non monumento o statue o affresco, ma versi) di un inedito Diagramma della verità, che darebbe indicazioni decisive. Altra location di passaggio è la magnifica Nicchia dei Palli, che si trova presso la tomba di Pietro nelle Sacre Grotte della Basilica. Insomma, una ricerca estetica sontuosa e capillare, e seduttiva in assoluto. Marketing La mistica e il mistero, le mitrie e l’oro, il buio e la penombra, le navate e le volte, l’arte-i colori-la potenza-il magniloquente, il passato, la violenza e il sangue, la paura e il potere, la passione e l’avventura. Tutto sotto la giurisdizione pregressa del superbestseller garante di incassi, evento, moda, errori. Trattasi del contenitore più spettacolare di ogni tempo, con tutti i modelli che Brown ha impietosamente assunto, decifrato (a modo suo naturalmente) e trasformato in marketing strepitoso. A fronte del marketing e dell’impatto popolare, e del successo già in cassaforte, la Chiesa ha deciso di tollerare l’evento e il marketing. Forse è legittimo, è un modo di condividere, di essere meno rigida, di porsi provvisoriamente di fianco al fedele-utente e non sempre sopra e lontano. Degli errori si è già molto scritto: la storia, la liturgia, la prassi, i ruoli, il tempo. Insomma la complessa macchina della Chiesa, coi suoi codici. Ma al racconto, che sia letteratura o pellicola, basta la base di un millesimo di verità per costruire tutto ciò che vuole. E poi tutta questa estetica elargita senza sosta può provocare un eccesso di sindrome di Stendhal da cinema. Solo che tutte queste perle devono essere tenute insieme da un filo, altrimenti si disperdono. L’eccesso, lo spazio e il tempo sono il punto debole di Angeli e demoni, così come lo erano per Il Codice da Vinci. Scrittura e cinema Il problema sta proprio nelle differenza fra scrittura e cinema. Testi vicino alle mille pagine, tutte intense, tutte indispensabili alla comprensione del racconto, non riescono ad essere fisiologicamente compressa nel tempo di un film. Dunque risulta che i concetti vengano espressi in velocità, le sequenze passano frenetiche, le battute dovrebbero essere corrette e comprensibili ma la sintesi è impropria. Così all’ anteprima mondiale, celebrata all’Auditorium di Roma, non lontano dallo scrittore Dan Brown, dal regista Ron Howard, e dal protagonista Tom Hanks, era seduto il direttore de “L’Osservatore romano” Gian Maria Vian, rappresentante cospicuo ma non primario della Chiesa. Trattasi dunque di promiscuità mediatica attuale e ragionevole, di un’evoluzione di ortodossia. Vian era legittimo spettatore, in fondo si parla pur sempre di un film, però di un titolo che tocca la religione e che muove e coinvolge una parte di mondo. Il direttore, che dicono appassionato cinefilo, ha separato il grano dal loglio e anche il vero dal falso, chiacchierando col sorriso, da utente preparato e normale. Ha detto che come spettacolo Angeli e Demoni “regge”. Spettacolo, licenze, marketing, Chiesa. Ma sì, un po’ di fiessibilità. Ne ha rivelata moltissima lo scrittore, ci sta che la Chiesa abbia aderito con curiosità e con licenza, a sua volta.   LA CULTURA DEL PASSATO

  Fox Retro (leggasi alla francese) di Sky è uno di quei canali cui si approda spesso per disperazione. Le sue proposte sono retro, appunto. Saranno programmate serie antiche della prima fase dell’emittenza privata italiana. Quelle che composero i codici della cultura televisiva “reiterata”, chiamiamola così, quando una proposta diventava da settimanale e giornaliera, con tutto ciò che ne deriva in termini di attenzione, coinvolgimento, assuefazione. Soprattutto quelle serie – alludo a titoli come Il mio amico Arnold, Miami Vice, Dallas, Dinasty, Charlie’s Angels, diventati culto – fecero esplodere la concorrenza e di conseguenza l’ofierta divenne esponenziale. Era la stagione eroica della televisione. Erano prodotti di qualità, con modelli di forte identità, che avrebbero creato dei precedenti quasi inalienabili. Gli utenti si affezionarono a caratteri cattivi a oltranza, cattivi fino in fondo, inutile attendersi un qualche ripensamento. Larry Hagman, che dava corpo e volto a J.R. Ewing era odiato con tutto il cuore, oltre il suo personaggio. Lo stesso accadeva a per la terribile Alexis, interpretata da Joan Collins, in Dynasty. Quei personaggi potevano contare su caratteri antagonisti che ne “ottimizzavano” la cattiveria, il buono Bobby (Patrick Duffy) e la buona Krystle (Linda Evans). Tutto questo funzionava a meraviglia. Ma c’era dell’altro, c’era quell’opportuno distacco fra la fiction e la realtà. La fiction televisiva delle stagioni recenti presenta codici che hanno finito per omologarsi in virtù del mercato. Concorrenza Un certo prodotto funziona ed ecco che (quasi) subito la concorrenza lo fa suo e lo ripropone in termini il meno possibile diversi. Una digressione: fa testo per esempio la pletora delle trasmissioni di calcio. Il primo motore, è notorio – anche perché non si manca di farlo notare – è il processo di Biscardi. Le reti private propongono un clone di quel programma più volte al giorno. Si parla di calcio e di “indotto”, chiamiamolo così, del calcio. Poi ci sono i programmi serali tipo “festa in piazza”, musica popolare e vecchi (sì, vecchi) che ballano il liscio. Da un’idea di Telelombardia ecco gli opportuni cloni, dovunque. Linguaggio Tornando alla fiction, naturalmente comandano le serie americane. Anche in quel caso l’omologazione ha prevalso. Le inquadrature sono le stesse: non più il primo piano televisivo ma una mediazione fra piccolo e grande schermo, che non sempre riesce. E poi il linguaggio, il montaggio sincopato, veloce, cerca di essere quello dei film. I polizieschi americani sono tutti sospettosamente simili, effetti (quasi) speciali, e poi sua maestà il computer. Per trovare un poliziotto che cammina, bussa alle porte, fa domande a qualche essere umano di passaggio, devi rivolgerti alla fiction francese. Le nostre serie vivono di due grandi spunti. Il mélo alla Capri o i polizieschi iperrealistici dove quasi sempre si parla romanesco e dove, fra i personaggi ci deve sempre essere quello domestico-maldestro che prepara la pastasciutta e la offre agli altri magari impegnati in un interrogatorio. E poi la tragedia della recitazione, minimale, iporealista, bisbigliata, uguale per tutti. Non ci devono essere eroi, di conseguenza non ci devono essere attori che hanno studiato recitazione, emergerebbero, “se la tirerebbero”. E così, benvenga Fox Retro, con la sua qualità, coi suoi modelli pieni di appeal, com’erano le Charlie’s Angels o Starsky & Hutch. Una televisione che guardi volentieri, dove ti rifai gli occhi, perché poi i “mostri” te li puoi ritrovare dovunque, nella realtà. Guai, la nostalgia! Minacciano molti critici, operatori, gente intelligente, ma la proposta del piccolo schermo, quella attuale, fa di tutto per spingerti verso la nostalgia.   LA VENDITA E I MODELLI  

Sky ha prodotto e mandato in onda un serial sulla vita della regina delle pornodive, Moana Pozzi. L’operazione è destinata ad un grande successo. Moana è la summa, perfetta, non ottimizzabile, dei valori e dei codici che prevalgono nei media, nello spettacolo, nella comunicazione generale, da alcune stagioni. È un grande manifesto, un sintomo del “contemporaneo”. Non è l’unico di questi giorni. Ci sono almeno tre iniziative esemplari distribuite su tre media: la pubblicità, il cinema, la televisione. E riguardano caratteri diversi che però fanno parte della stessa proposta, della stessa vendita. L’assunto è che la vendita, dunque il gradimento, dunque l’audience, tutto giustificano. È risaputo. In nome della vendita si progetta il prodotto appropriato, che arrivi al pubblico più largo. Pubblico largo significa televisione del pomeriggio, della prima serata, del week end, e pubblico di un certo cinema. La tentazione, la seduzione di quel prodotto sta nel sollecitare certe memorie, gusti, istinti dell’utente, un po’ reconditi, un po’ proibiti. Le parole sono guardonismo, pornografia, violenza, varie trasgressioni. Tormentata Tocca a Violante Placido rappresentare la bionda tormentata e “maledetta”, morta a soli 33 anni, forse per un tumore al fegato, forse di AIDS. Nel suo book Moana dava i voti ad alcuni dei suoi (molti, infiniti) partner, il più alto spettava e Roberto Benigni, il più basso a Renzo Arbore. Certo basterebbe questo capitolo per una sequenza irresistibile del serial. Violante si è dichiarata incantata del modo di vivere libero, ribelle, senza condizionamenti e pieno di entusiasmo di Moana. Ha concluso: “È un progetto serio”. Il regista Alfredo Peyretti ha detto: “Il film deve essere sensuale, non pornografico”. Ma Moana non era regina del porno? Era il suo manifesto ed era la sua definizione. E come può non essere porno il film che la riguarda? Sarebbe come raccontare Colombo senza l’America e Napoleone senza le battaglie. Moana è dunque un carattere travolgente destinato a un’immensa audience (ma in che fascia della giornata?). L’“esempio Moana”, certo affascinante, stuzzicante, certo estremo, non avrebbe trovato accoglienza, per esempio, nella Hollywood dell’età dell’oro, quella della morale assoluta, dove se due si baciavano su un letto potevano solo star seduti tenendo un piede a terra, e dove una donna fedifraga alla fine doveva essere punita duramente, salvo clamorosa redenzione. Anche questi erano estremi. A metà strada può emergere un altro modello, una Erin Brockovich (anche questa storia vera) valorizzata dalla migliore Julia Roberts. La storia di una ragazza disinvolta, fidanzati, figli, più o meno trascurati, da padri diversi, che si barcamena in tutti i modi. Finché, collaborando a uno studio legale, si trovò a scoprire le responsabilità di una multinazionale che scaricava in un fiume sostanze cancerogene. Impegnò tutta se stessa per far ottenere alle famiglie decimate dal cancro il giusto risarcimento. In Erin, “maledetta/trasgressiva”, era prevalsa la parte dell’eroina buona, vecchia maniera. Sono passati dieci anni dal film di Soderbergh, un intervallo che ha fatto perdere molti punti di appeal al personaggio, risultato alla fine troppo tradizionale, buono dunque stucchevole. Forse i produttori, adesso, avrebbero gestito la storia in maniera diversa, privilegiando i tratti oscuri o morbosi, se c’erano. Non c’è dubbio, dunque, che Moana oggi, come appeal, batta Erin. Lapo Poi c’è la pubblicità. Campeggia un cartellone che presenta Lapo, inquadrato nel volto e nella parte alta del torace, braccia larghe in una specie di indicazione del crocefisso, che promuove Virgin Radio. Il “rampollo torinese” è da tempo presente nella comunicazione: gli inglesi lo indicavano come il modello-eroe delle giovani generazioni (ricche) italiane; si presta come testimonial di prodotti da lui disegnati, si parla di lui come di possibile presidente della Juventus. La sua opinione è fra le prime sollecitate dalle testate della carta

e della tivù. Si cerca di vendere il prodotto Lapo – ed è interessante, e triste che sia sufficiente dire Lapo, senza cognome, come per i principi e i re – con intenzione, perseveranza. Eppure quel modello non avrebbe i requisiti necessari per dettare vendita, identificazione e comportamento. Meglio, non li avrebbe avuti un tempo. Fino a qualche tempo fa Lapo non sarebbe stato proponibile. Era un fatto di opportunità, di gusto e di eleganza. Mi guardo bene dall’usare il termine “morale”. Sbagliare i congiuntivi, arrivare alla fine della frase con qualche inciampo adesso è, come si dice, trandy, funziona. Qualche piccolo incidente di percorso rende il carattere-Lapo ancora più interessante. Per Lapo, e per Moana, si attiva un meccanismo, molto molto efficace e potente, che esclude la parte diciamo imbarazzante (sempre che qualcuno si imbarazzi) della loro vicenda per stralciare le parti utili al marketing attuale. Il terreno è fertile per quel tipo di proposta. Il seme cade e germoglia. Sadico porco La locandina del film Uomini che odiano le donne dichiara: “Io sono un sadico porco, un verme stupratore”. Una didascalia che lavora sui “sentimenti” visti sopra. Non è facile risolvere tutto con un unico, onnicomprensivo aggettivo, potrebbe essere trash, che è attuale, ma forse debole. Sadico-porco-verme-stupratore: un bel pacchetto per la vendita. E funziona. Nel caso del film diretto da Oplev, tratto dalla trilogia Millennium di Larsson (morto giovane dunque già eroe) quello strillo è strumentale ma è anche distorto, non rappresenta la vicenda, è a togliere e a peggiorare, perché quel film è migliore di quella proposta di acquisto. Oltre al cattivo gusto c’è anche il dolo. Moana è un’eroina del nostro tempo. Come Lapo. Così come “sadico-porco-vermestupratore” è una dida trionfale del nostro tempo. Il marketing punta su quei modelli e su quelle parole. È visibile una faccia della medaglia. Il rovescio è al buio, non si vede. E non esiste.

  CINEMA ITALIANO     MENO MALE CHE C’È BELLOCCHIO   Vincere, di Bellocchio, presentato a Cannes, ha avuto in Italia cattiva accoglienza. Il film narra l’amore fra il giovane Benito Mussolini e Ida Dalser, che diede al politico emergente tutti i suoi beni e anche un figlio, Benito Albino. Ida, sopraffatta dalle vicende immani del futuro duce, finirà per morire in un ospedale psichiatrico, letteralmente sepolta viva dal Regime. Il tema del dolore, del potere, della sopraffazione, del forte e del debole: tutto davvero irresistibile, per il ragazzo settantenne Marco. Amo Marco Bellocchio. Lo considero, insieme a Nanni Moretti, l’unico cineasta “generale” al quale timbrerei il passaporto: non provinciale, non convenzionale, insomma non italiano. Uomo colto e “applicato”, è uno dei pochi autori titolari della doppia identità, immagine e scrittura. Significa la capacità di rappresentare contenuti importanti attraverso un’estetica riconoscibile ed esclusiva. Quando a 26 anni, nel ’65 firmò il suo primo film, I pugni in tasca, Bellocchio aveva già molto compreso e assunto, a cominciare dai disagi e dalle insoddisfazioni compresse e implose che sarebbero tracimate nel sessantotto. Era la storia di un ragazzo, oppresso da una famiglia orrendamente borghese e incapace della minima evoluzione, che si ribella con violenza. Il titolo ebbe un immediato, meritato riconoscimento: l’invito alla mostra di Venezia. Tanto giovane, in un momento tanto ardente, il regista piacentino era già un nome importante del cinema. Da allora Bellocchio ha lavorato con rigore e attenzione alle fasi del Paese, alla politica, al sociale, a ciò che mancava e andava trovato, a ciò per cui valeva lottare anche sapendo che la lotta si sarebbe rivelata semplicemente un principio, un’indicazione senza approdo e senza felicità. Anni ’70, ’80, ’90 e così via. E sempre l’autore a proporsi con intelligenza e cultura. Bellocchio ha sempre coltivato l’impegno, magari intenso, ma non la militanza, magari dolosa. Ha odiato e odia la borghesia e la Chiesa, ma gli argomenti che porta sono di un autore che intende, con dolore, dare indicazioni mai statiche, mai solo ideologiche, mai compromesse da un pregiudizio, di un autore sempre attento alla fase morale e anche capace di un ripensamento. E onesto nella sua confessione. Bellocchio è sempre stato ed è tuttora, un affidabile garante di solidità intellettuale. Fa testo anche se non sei d’accordo con lui. Nel 2002 alla prima de L’ora di religione, presentato a Cannes, ebbi modo di parlargli, quell’unica volta. Il film racconta di un artista agnostico, Castellitto, il cui figlio, per non essere discriminato, frequenta la lezione di religione. Il padre fa di tutto perché il ragazzo non partecipi a una visita collettiva al Papa. Dissi al regista che non ci sarebbe stato niente di male, per un ragazzo, incontrare il Papa, se non altro per storia, sortilegio, ricordo, emozione. Mi rispose che l’altro piatto della bilancia, quello della storia della Chiesa coi fatti e misfatti commessi, pesava di più. È la posizione di Bellocchio. Ce ne sono anche altre, naturalmente. Che la critica italiana abbia maltrattato Vincere è una magnifica medaglia, di metallo nobile, per l’autore. I nostri recensori, abituati all’instant o a mafia&camorra o a modelli ideologicamente comodi (i gay, gli stranieri, la droga), sono a disagio davanti a una storia diversa, ad attori che recitano invece di parlare, a ricostruzioni attente, a una Storia non decifrata, a codici scorretti rispetto al convenzionale autoctono. Molta stampa ha cavalcato il momento mediatico-politico rilevando un’analogia fra l’amore colpevole di Mussolini e quello presunto di Berlusconi con Noemi. Uno squallore che sta nell’ordine di molta scrittura da

cinema di queste stagioni. La critica americana invece parla di un grande film d’autore. Sto dalla parte degli americani. E concludo ribadendo il titolo: meno male che c’è Bellocchio.   GOMORRA: PERCHÉ NO   Gomorra è stato estromesso dalla gara degli Oscar 2008. Come capita anche ai migliori, i miei pronostici sono stati smentiti. In un aticolo su Mymovies avevo ribadito la mia convinzione: “E dico che Gomorra probabilmente vincerà l’Oscar. Trattasi infatti di storia ben attrezzata in quel senso: un’Italia rappresentata secondo codici graditi in California e dovunque, camorra, famiglie, violenza, Napoli, mafia eccetera, si sa. Una sorta di Oscar ‘etnico’ dunque. Ci sarebbe da augurarsi che non arrivasse” Non ho visto tutti i film usciti dalla penultima selezione – sono 9, ne rimarranno 5 – tuttavia ho tutte le informazioni. The Necessities of Life (Canada), storia di dolore, un cacciatore costretto in sanatorio per la tubercolosi; Revance (Austria) amore disperato fra un prostituta che cerca di redimersi e l’autista del suo sfruttatore. La classe di Cantet è uno dei titoli che si distinguono, racconta del senso del dovere e dell’onestà di un insegnante in un contesto difficile. In prima fila anche La banda Baader Meinhof, tedesco, diretto da Ulri Edel, storia conosciuta e ardente. Un altro titolo già popolare, con merito, è Valzer con Bashir, film d’animazione israeliano. Un’opera di quella matrice non può non portare quella storica, infinita tragedia. Departures è un film giapponese di piccoli sentimenti: un musicista fallito diventa amico di un becchino. Tear This Heart out narra del Messico degli anni Trenta, tentativo epico. Del veterano svedese Jan Troell è Everlasting Moments: nella Svezia di inizio ‘900 una ragazza vince una macchina fotografica che le cambia la vita. In Le 3 scimmie, turco, un autista si autoaccusa per proteggere il padrone, uomo importante, viaggia nei dintorni di politica, morale, denaro. Gomorra perché no. La qualità di Gomorra – la radice letteraria, l’estetica, il linguaggio, le istantanee e le indicazioni – è alta. Vale certamente i migliori titoli stranieri selezionati. Si è ormai detto più volte dell’ottimo segnale venuto da Cannes, esteso anche al ‘gemello’ Il divo. C’era un tempo, quando c’erano i giganti, in cui vincevamo gli Oscar senza discussione. Partecipava De Sica (4 Oscar) e vinceva, partecipava Fellini (5 Oscar) e vinceva. Davvero scarsa dialettica in giuria. Quante parole servivano per dare la statuetta a Sciuscià, a Ladri di biciclette, a La strada, a 8 e mezzo? Nell’era recente valevano molte, forse troppe, variabili: il momento, la politica, la cronaca, l’ambiente, l’astuzia, i rapporti, il denaro. Forse l’etnia napoletana è risultata lontana, magari ingombrante e sorpassata. La giuria che decide è molto larga e articolata. Non è squisitamente critica, vale anche l’emozione, non solo il linguaggio, l’indicazione sociale e geografica. Qualcuno avrà certamente pensato “ancora questi italiani, camorra, mafia, uffa, quei bravi ragazzi, don Corleone, sì, li abbiamo visti volentieri, allora?” A conferma dell’assunto c’è stata la sorpresa manifestata, con intensità discreta, dai critici di alcune testate importanti. Critici e pubblico, anzi, critici e addetti, il segnale di differenza è un po’ più sottile, vale la pena di ragionarci. Gomorra è intenso, doloroso, anche ingombrante. Estraggo una definizione attuale e pesante che mi sembra appropriata, “piombo fuso”. E può essere che molti, davvero non ne abbiano più voglia. Il film di Garrone lo vedi una volta, stai attento quando ne parlano (e ne hanno davvero parlato…) ti fai toccare per sentimento e ragione, dici anche la tua perché devi avere un’opinione in merito, ma non so se lo rivedi altre volte. Come capita a titoli come A qualcuno piace caldo, Amarcord, Il grande Lebowski o La vita è bella. Questi sono amici fidati, per tutti, la sera, in famiglia. Gomorra è “doveroso”. Lo hai visto una volta, appunto, può bastare. Certo la partita non è chiusa. Adesso comincia quella importante

almeno quanto gli Oscar. Quella col pubblico. Vedremo, gli americani.   IL CINEMA ITALIANO RISORGE DOPO CANNES: MA È VERO?   Uscendo dalla sala dopo aver visto Gomorra, durante la lenta processione di uscita, una signora diceva a un’amica: “Mamma mia che angoscia era meglio non vederlo”. L’altra ha ribattuto: “Eppure ho letto che è un capolavoro.” Queste due semplici frasi evocano la didascalia, l’intento che è in epigrafe al mio dizionario del cinema: “dalla parte del pubblico”. Una delle voci principali è proprio racchiusa in quel botta e risposta: la critica esalta un film e il pubblico dice: “Era meglio non vederlo”. Il malumore della signora può esser facilmente, semplicemente tradotto: il solito orrendo degrado italiano, ma bisogna proprio farlo vedere? La mia risposta è che comunque bisogna farlo vedere. Meglio se è di qualità. Solo che la qualità non c’era quasi mai. E questa è la buona notizia: adesso la qualità c’è. Ma ancora non basta. Cannes nel 2008 ci ha assegnato due premi importanti, non il più importante. È legittimo. Perché per la Palma mancava qualcosa. Dal Festival si è levata una voce, alta, quasi solenne: il cinema italiano è risorto. Significa che prima era morto. Ma non lo diceva quasi nessuno. Il buono e il cattivo Da molte stagioni il nostro cinema sa soltanto “guastare”, non sa proporre. Mostra il degrado e la depressione, il contrasto sociale, mostra le differenze con odio, mostra cattivi modelli. Il racconto, che sia letteratura o film, vive da sempre su due figure non solo indispensabili ma, usando una definizione matematica, necessarie e sufficienti. Sono l’eroe e l’antagonista, sono il buono e il cattivo. Non si può procedere solo… a cattivi. La storia diventa zoppa, per un po’ può anche avanzare, ma poi si arresta. Nel film La bestia nel cuore di Cristina Comencini uno dei personaggi era Negri, un regista che vorrebbe fare cinema ma è costretto al compromesso mediocre della televisione. Dice una frase importante: “Lo sai cosa mi piacerebbe nel mio film? L’idea di raccontare l’uomo partendo dai suoi detriti, quello che nascondi nei cassonetti dell’immondizia”. Quel personaggio detta il primo comandamento del cinema italiano: il cassonetto. Con questa dichiarazione la Comencini si premunisce con una excusatio, e nei suoi film mostra davvero di saper rovistare nell’immondizia, magari con compiacimento, ma poi si ferma lì. E molti altri registi come lei. Il cassonetto italiano è sigillato, non lascia filtrare neppure un barlume chiaro, almeno uno spettro di speranza. Talento visivo Con Gomorra Matteo Garrone ha costruito un’opera drammaticamente efficace per realismo e verità, con ottimo talento visivo, con un linguaggio perfetto a rappresentare quel girone dell’inferno, un micromondo dalle regole precise e orribili, con gesti, parole, luoghi, mercato, vita tutta, traducibili e comprensibili soltanto dall’interno, come un dialetto della foresta africana. Tutto è normale, anche i morti. Mettere la testa, puntare gli occhi fuori dai muri dell’inferno? Neanche a pensarci. Il futuro e le prospettive sono solo lì. Le regole e la scuola sono solo quelle, come la morale. La morale? Ma quale morale. In sostanza il regista ha montato un documento di alta creatività. Ma aveva la via tracciata dal libro di Roberto Saviano, che risolveva quasi tutti i problemi in partenza, va rilevato. Il carattere, distinguendo naturalmente la qualità – e la quantità – della violenza, è molto vicino a un servizio televisivo, è roba da Ballarò, Anno zero, ma di classe, artisticamente evoluta. La parola sarebbe “docufiction”, qualcosa più del documentario, qualcosa meno del cinema. Comunque, va ribadito, di qualità alta. Regista preferito Il Divo è un ottimo film. Prima di tutto è un film. Non ci sono solo istantanea e

documento, c’è invenzione. Sorrentino ha scovato soluzioni, contenuti e caratteri che si staccano, verso l’alto, dalla massa grigia, omologata, triste e sorpassata, del cinema italiano. Fa star male e fa sorridere, attraverso vicende scritte da lui e questa è la buona novella: Sorrentino sa scrivere. Non succedeva dai tempi di Moretti. Ho spesso sostenuto essere Moretti forse l’unica prova d’esistenza in vita del cinema italiano. Adesso abbiamo anche Sorrentino. Nei test per la selezione dei candidati della Scuola Nazionale del cinema, occorreva indicare un regista preferito. Il nome di gran lunga più citato era Sorrentino. È un segnale che non va trascurato, anche perché i candidati – fra i 22 e i 28 anni – vengono tutti da lauree in comunicazione, spettacolo, spesso con indirizzo cinema, dunque hanno gli strumenti per un giudizio. Nel “Divo”, Andreotti è una figura eccessiva, tragica alla Euripide, ma con tratti grotteschi e a volte comici, persino con scatti da animazione. Eppure “è” Andreotti, con la sua intelligenza esclusiva e allarmante, la sua attitudine non scrutabile e inavvicinabile, coi suoi misteri e tutto il resto. La personalità del politico, toccata e sostenuta dal quel modo creativo, prende un’accelerazione, evade dal documento e diventa cinema vero. C’erano da gestire i confini impalpabili del grottesco e dell’invenzione, il filo pericoloso di un rasoio. È stato bravo Sorrentino a trovare quel registro e quella misura, e questo gli viene anche dallo spessore dello scrittore vero, che ha qualcosa di più dello sceneggiatore puro. Cosa italiana Tutto bello ma manca qualcosa. Manca la solita cosa italiana. Due film non bastano per una resurrezione o per un movimento, o per la storia. Durante tutta la vicenda del cinema ci sono stati i momenti della storia, conosciuti: i russi e i tedeschi, ancora “muti”, i grandi filoni comici “muti”, il triste nord espressionista, i francesi del Fronte popolare, gli italiani del Realismo e della Commedia, gli americani spalmati nei decenni, dal New Deal ai generi di cui sono maestri, il richiamo orientale di Kurosawa, ancora i francesi del “cinema per il cinema” della Nouvelle Vague. Non voglio citare i nostri eroi-artisti generali, i Fellini, Visconti, de Sica eccetera, proprio perché personalità troppo individuali per essere inquadrate in un momento o in un genere. Senza andare tanto indietro, per rimanere al contemporaneo con echi ancora ascoltabili, voglio rifarmi a due movimenti recenti, di diritto nella storia, i tedeschi e i britannici. Farò due citazioni. Ne Il Cielo sopra Berlino (Wenders ’87) il “cassonetto” è quello della città tedesca nell’immediato dopoguerra, figuriamoci. Due angeli guardano la gente, uno di loro rinuncia alla propria natura per diventare essere umano. Eccola l’indicazione, che nasce da un sentimento complesso e doloroso (c’è in giro un dolore come quello?), dove l’autore propone un segnale mistico, un sogno forse provvidenziale. Grande film che merita di fare storia. Ricordo Full Monty (Cattaneo ’97), vicenda di disoccupati che si ingegnano e diventano spogliarellisti mentre in Inghilterra governa la Thatcher. Quel cinema prendeva atto della depressione larga e dura di quel momento storico, ma la affrontava e la esorcizzava con storie utili, benemerite e di qualità. Non stava lì soltanto a rovistare nel cassonetto. Si rimboccava le maniche e indicava una discarica. E la gente frequentava volentieri le sale. Anche noi, nell’era recente, abbiamo prodotto, raramente, casualmente, qualcosa di importante, titoli che proponevano e inventavano con qualità. Mi riferisco a La vita è bella di Benigni e al La Stanza del figlio di Moretti. Guarda caso i due film hanno vinto, rispettivamente, l’Oscar e la Palma d’oro. Ma sono eccezioni, progetti solitari, che non fanno “storia del cinema italiano”. Buone e utili Gomorra ha mostrato energia, intensità, ha trasmesso realismo muovendo la macchina come occhi febbrili. Il divo ha applicato alla vicenda storica, al documento, al dramma pesante, l’invenzione divertente e intelligente, con l’inserto riuscito dell’ottima scrittura.

Sorrentino ha lavorato, e con coraggio, su un tema conosciuto. Dunque, adesso possiamo contare su una base per una partenza, per un’evoluzione, per un ulteriore sforzo creativo verso indicazioni buone e utili. È la funzione del grande cinema, accreditata, fra gli altri, da uno che conosce bene l’argomento. Jean-Luc Godard. Che cosa sono gli angeli di Berlino, lo spogliarello inglese, il bambino che gioca nel lager, se non indicazioni buone e utili forse anche per noi?   SPENCER&HILL   Terence Hill è Trinità. Pigro all’inverosimile si fa portare su una sorta di lettiga attaccata al cavallo, così può dormire viaggiando. È vestito come uno straccione, pantaloni e camicia lerci e pieni di buchi. Entra in un villaggio, la solita strada centrale e intorno due file di catapecchie di legno pronte a disfarsi per un colpo di vento. Un gruppo di cow-boy perdigiorno lo vede passare: hanno voglia di divertirsi, lo provocano: “Ehi tu, elegantone!” Lui si sveglia, fa finta di stare al gioco. I perdigiorno, imprudenti, insistono. Alla compagnia si aggiunge un gigante che si è affacciato a una porta più bassa di lui. È Bud Spencer, è lo sceriffo ed è, incredibilmente, il fratello di Trinità. Sa bene che stanno per cominciare i guai. Gli “imprudenti” si prenderanno un sacco di botte. Bud e Terence, alla fine, faranno finta di non sopportarsi. Invece dovranno farlo. E lo hanno fatto, per decine di film. Lo chiamavano Trinità…: era il 1970. In realtà Bud e Terence si conoscevano già. Da un paio d’anni collaboravano col regista Giuseppe Colizzi che aveva avuto un’intuizione importante, il western comico. Un’evoluzione del genere “spaghetti” che godeva in quegli anni di enorme fortuna. I titoli erano La collina degli stivali, I quattro dell’Ave Maria, Dio perdona… io no! Dopo un esercizio così particolare e intenso, i due erano pronti per l’ultima evoluzione, quella di una nuova ironia stracciata e grottesca, con botte da cartone animato, che avrebbe cambiato quel cinema e, soprattutto, avrebbe riempito le sale in quel decennio. Il nome che va fatto è naturalmente quello del regista, E.B. Clucer, in realtà Enzo Barboni. Sì perché in quel tempo un regista di western non poteva chiamarsi Barboni. Così come il nome di un eroe della frontiera non poteva essere Gemma, ma Woods. Del resto anche Hill e Spencer non erano nomi veri. Si sa. Mario Girotti (Hill), 1939, era stato attor giovine, quasi mai protagonista, in film degli anni cinquanta. Nel ’63, ne Il Gattopardo era un commilitone dell’ufficiale Gemma e aveva corteggiato una delle figlie del principe Lancaster, solo che questa era innamorata del cugino Delon. Insomma il bel Girotti aveva trovato un concorrente difficilissimo. Poi arrivarono i western. A Carlo Pedersoli (Spencer) 1929, apparteneva una storia davvero particolare, con un precedente leggendario, TarzanWeissmuller. Come l’olimpionico americano, Carlo, più modestamente, era stato campione di nuoto italiano. Entrambi erano riusciti a scendere sotto il minuto netto nei cento stile libero, solo che Weissmuller lo aveva fatto per primo nel mondo, Pedersoli una ventina di anni dopo. Fra una gara e l’altra il nuotatore aveva trovato il modo di prendere una laurea in legge. Poi arrivò il western. Il decennio della coppia sono gli anni settanta, e va detto che i due furono una vera benedizione. Perché il loro successo personale fu accompagnato dalla decadenza impietosa del cinema italiano. La riforma, chiamiamola così, culturale e generale di quel periodo, aveva generato situazioni che non risparmiarono il nostro cinema: il trash, la violenza, lo scimmiottamento di generi di altre cinematografie. E poi il declino e la fine dei nostri grandi talenti che avevano dato vita, col realismo e la commedia italiana a movimenti che tutto il mondo aveva cercato di ripetere senza riuscirci. De Sica e Visconti non c’erano più o erano troppo vecchi, Antonioni aveva meno voglia e ispirazione, Fellini era stanco. Almeno c’erano Bud e Terence, con le loro storie e il loro

incanto di eroi con macchia, ma sempre eroi. Mangiavano fagioli e ruttavano, spegnevano col vino i cibi “flambé” per non far prendere fuoco al ristorante. Però se c’era da proteggere una donna e da difendere un poveraccio loro erano lì. Hanno resistito a lungo. Ma poi il cinema e il tempo li hanno sopraffatti, com’era naturale. Abbiamo visto Spencer triste banditore in Cantando dietro i paraventi, film superfluo per il pubblico e soprattutto per l’attore. Terence, più giovane e ancora pieno di appeal – quegli occhi azzurri erano sempre accesi – è stato soccorso dalla televisione. Con don Matteo fa gli stessi grandi numeri che faceva con Trinità. È cambiata solo la grandezza dello schermo.   LA FIDANZATA DI PAPÀ: TV E CINEMA, LA CONTAMINAZIONE   Il film-panettone c’è sempre stato. Un tempo si chiamava trash. Quando programmavo i palinsesti dei network, in casi particolari, contro una grande partita o contro Sanremo, dov’eri perdente in partenza, mettevo un Pierino e limitavo i danni. I “Pierini” erano comunque film, gli attori (virgolettato) erano comunque gente di cinema. Adesso la televisione, la malatelevisione, ha invaso il cinema. La fidanzata di papà è un film fatto dalla televisione. Non si tratta di cameo o di un’ospitata, del personaggio del momento usato in un film: anche questa è storia vecchia, con una sola, significativa citazione. In Ragazze d’oggi, Luigi Zampa assunse Mike Bongiorno, l’uomo più popolare d’Italia, cento volte lo share di una Ventura, c’era un solo canale, e gli diede una parte da quasiprotagonista. E Mike se la cavò benissimo nei panni del fidanzato, emancipato, “all’americana”, di Marisa Allasio. Contaminazione dignitosa. Era il 1955. Battute La prima battuta de “La fidanzata” nasce da uno sci che si stacca da un piede e finisce fra le gambe di Boldi. Da quel simbolo fallico (mamma mia) nasce la battuta (attenzione, siamo a Cortina D’Ampezzo): “Io ce l’ho cortino da un pezzo”. Un’altra appartiene a uno dei Fichi d’India: “Sono l’ottavo nano, Segolo”. Sono due battute cardine, esemplari di tutta l’opera. La Ventura, faccia da Isola dei famosi, non da cinema, fa semplicemente la Ventura: non puoi cambiarle espressione e gesto, non puoi arricchirle il vocabolario. Frassica fa Frassica televisivo, la Canalis è in costume da bagno, parla poco, fa la Canalis, senza evoluzioni e miglioramenti. Tutto piccolo schermo emigrato sul grande. Trash su trash, panettone su panettone. Dovrebbe risultare indigesto allo stomaco di Polifemo, invece l’opera è stata a lungo in testa agli incassi, ha polverizzato i record. Questo è il grande quesito. Conosco bene i meccanismi della scrittura, anche dei film. Premesso che il target sia il botteghino, gli sceneggiatori studino i momenti, gli scippi-darisata secondo certi codici. In questo caso vale anche la storia: i film con Boldi e De Sica si portano dietro una robusta schiera di “appassionati”, uno zoccolo duro che offre una forte franchigia di partenza. Su quella “storia” vengono inseriti i momenti comici, estemporanei, che esulano da una struttura di racconto. Va bene tutto. Poi c’è la base indispensabile, conosciuta, l’opulenza e il sogno: la spiaggia di Miami, gambe lunge e grandi tette, New York, Cortina, lo yacht, la megavilla-e-megapiscina, giurisdizione del patinato, sappiamo. Ma qui c’è un codice nuovo, apparentemente incomprensibile, Boldi nudo (dietro), lungamente. Boldi non è Garko e non è Pitt, si sa, dovrebbe solo far ridere, ma anche in questa chiave il prezzo da pagare (per lo spettatore) è troppo alto. Anzi, lo sarebbe, perché se il film di Oldoini è finito in testa alle classifiche significa che funziona anche il segmento “nudo di Boldi”. Utenza Mi interessa un’analisi dell’utenza Oldoini&C. Da quale cultura arriva l’utente de La Fidanzata di papà? Si direbbe da quella prevalente della nostra epoca, la cattiva televisione,

quelle delle talpe, delle isole, del gossip orribile del festivo pomeridiano, delle liti, del sentimento dolceamaro alla De Filippi. Poi la tivù dovrebbe ritagliarsi una zona franca di qualità, con gli approfondimenti, certi talk, certi salotti eccetera. Ma succede che anche nei certi salotti “la fidanzata” irrompa in forze. Porta a porta ha ospitato quasi l’intero cast del film. Alcune ore a commento di niente. La sera prima magari era sul tappeto la crisi finanziaria del mondo, con tecnici, sociologi, premi nobel, ministri. La natura promiscua di quello spazio è nota: la gamba accavallata del premio Nobel Montalcini accanto a quella della Marini. Argomento: la scienza. Con tanto di intervento della soubrette. Un così nobile parterre, seppure con inserti meno nobili, finisce per accreditare tutto. E tutto viene messo sullo stesso piano, interpretato e legittimato. Il sedere di Boldi non è fastidioso, ma incastro appropriato dello spettacolo. E succede che in generale, nella tivù e nei film e nella comunicazione tutta, finisca per prevalere una regola dell’economia: la moneta cattiva espelle quella buona dal mercato. Ma qui è peggio, perché la moneta cattiva corrompe quella buona e la usa a proprio vantaggio. Se un sociologo che fa (la tua) opinione scova un’interpretazione di “cortino&segolo” eccetera, senza dire apertamente che trattasi di cassonetto bello e buono, ecco che cortino-segolosedere nudo vengono legittimati e creano imbarazzo anche nell’altro utente. Normale L’ altro utente sarebbe quello normale. Un individuo di buoni studi che negli anni decisivi ha letto, fra gli altri, gli americani del primo novecento, i russi e i francesi fondamentali, i britannici che hanno inventato l’avventura e i viaggi, e ci ha messo anche un po’ di saggistica indispensabile (un po’ di Freud va’). Sì, i maestri. E poi ha visto i grandi film fra cui quelli comici, come A qualcuno piace caldo, di Wilder (citazione dolorosa, fra poco emerge). Altri maestri. Insomma l’educazione intellettuale e sentimentale di noi occidentali. La regola sarebbe: chi ride per “Segolo” non ha letto i classici. Invece, questo “altro utente” che assiste al talk alto, incoraggiato da opinionisti intelligenti, alla fine può anche convincersi che sì, con Boldi passerà un paio d’ore rilassanti. Non è davvero difficile rilevare che il tutto accade sotto la giurisdizione del grande denaro. Ci sono di mezzo milioni di investimento sulla produzione e molti di più sull’aspettativa di incassi. Che il denaro sia prevalenza è plausibile, ma che diventi sacralità e faccia scalare alla “fidanzata” tutte le categorie fino a farlo diventare cultura moderna, è triste. La televisione si pone dunque come “tripla omertà”: complice dei suoi guastatori che invadono il cinema, sponsor dei film “guastati”, complice di se stessa quando si protegge nella sua parte peggiore. Inserto virtuoso Ci sarebbe nel film anche qualcosa che vorrebbe accreditarsi come “virtuoso”. Trattasi di due citazioni. Biagio Izzo fa un travestito che sotto quel ruolo forzato prova sentimenti alti e profondi e cita passaggi della Filumena Marturano di Eduardo. Infine, esasperato dalla corte che gli fa Enzo Salvi si rivela come maschio. Il leggendario “nessuno è perfetto” finale di A qualcun o piace caldo, appunto. Questa non è contaminazione divertente, è un trucco troppo facile, e fastidioso per chi ama il cinema. Le migliori Cito una battuta di Luca Ward, che fa il pubblicitario in un film. Ward è maltrattato da Emanuela Rossi, conduttrice dominante televisiva. Lui le dice: “Hai portato nella tua trasmissione quella poetessa, premio Nobel, e non hai neanche letto una sua poesia, le hai chiesto della sua camicia da notte.” Lei, aggressiva: “Prima che venisse da me, quella tizia, quel… premio Nobel, la conoscevano dieci persone. Dopo, dieci milioni.” Ward chiude: “… ma quelle dieci erano le migliori.”   TUTTO MORETTI IN DVD

L’AUTORE CHE RACCONTANDO SE STESSO HA RACCONTATO IL PAESE   Con l’uscita de La messa è finita e de Il caimano Nanni Moretti è rappresentato in Dvd attraverso tutti i suoi titoli fondamentali. Ho più volte detto e scritto che Nanni Moretti è forse l’unica prova dell’esistenza in vita del cinema italiano. Anch’io, come molti, ho rilevato un salto di qualità del nostro cinema coi due recenti titoli, riconosciuti a Cannes, Gomorra e Il divo. Tuttavia niente da beatificare, due bei segnali, ecco tutto. Tornando a Moretti: fa film da 33 anni, da quando era un ragazzino. Finita l’epoca dei giganti, il nostro cinema ha prodotto autori (non farò nomi) che esordivano sempre, titolo dopo titolo, in cerca di un’identità che quasi mai riusciva a comporsi. Di tanto in tanto ecco qualche discreta individualità, qualche titolo capace di affermarsi. Ma anche in quei casi il profilo era discreto, magari buono, mai alto. I giganti continuavano ad essere altri, lontani. Moretti ha trovato subito un’identità che ha naturalmente rivisto rispetto alla maturità, alla cultura e a ciò che accadeva nel paese. La formula è semplice ed appartiene a pochissimi autori del cinema, non solo italiano. Nanni ha sempre detto cose importanti con leggerezza colta: ridi e sorridi per i suoi film, ti racconta e ti spiega e stai dalla sua parte, perché, generalmente, stare dalla sua parte significa non deprimersi e sperare che comunque, le cose miglioreranno, e comunque, in tanto stupido, ingiusto e grottesco che c’è in giro, puoi sempre concentrarti su qualcuno che ti sta intorno, che ti passa una piccola formula quotidiana di sopravvivenza, e ti puoi sempre difendere con l’ironia e, dopotutto, domani sarà un altro giorno. Alcuni stralci dei suoi film sono nella memoria popolare: la ragazza di Ecce Bombo che “fa cose, vede gente”. E Nanni, sempre più spazientito, non riesce proprio a farle dire di cosa viva. Oppure la battuta, citatissima, di Nanni, nel film Aprile, che assistendo al dibattito televisivo fra Berlusconi e D’Alema, stravolto dice: “Di’ qualcosa, D’Alema rispondi. Non ti far mettere in mezzo sulla giustizia proprio da Berlusconi! D’Alema, di’ una cosa di sinistra, di’ una cosa anche non di sinistra, ma di’ qualcosa.” Sinistra Nel tempo il regista-attore ha evoluto poetica e racconto attraverso uno sguardo sociale mai generico o massimalista, ma giocato sulle vicende personali e sempre garantite da una naturale ironia e umanità. Moretti, uomo di sinistra: ma di quella vera e solidale, quella morale, quella che “i privilegi ti fanno star male”. La sinistra dei partiti, delle coalizioni, degli ulivi eccetera, non è la sua, perché è lontana dagli aggettivi scritti sopra. E di tanto in tanto l’artista, motivatissimo, usciva dal cinema per essere più diretto. Due suoi interventi sono ormai storici: quando nel febbraio del 2002 dal palco di piazza Navona attaccò Rutelli e D’Alema, accusandoli di inadeguatezza e incapacità e quando, ancora a Navona, nel luglio del 2008 se la prese con la Guzzanti e Grillo che avevano stravolto lo spirito della manifestazione, ostaggi delle loro battute aggressive e fuori luogo, senza misura, senza stile, solo per strappare una risata a basso costo. Due “navone” dunque contro categorie diverse, i politici e i giullari. Ma un prezzo, Moretti, alla politica lo ha pur dovuto pagare. Nel 2006, i politici citati sopra insistettero perché Moretti facesse un film “elettorale”, imponendogli una militanza che non era la sua. Nanni accettò malvolentieri e diresse Il caimano. Ma in qualche modo prendeva le distanze, dichiarando, in due sequenze: “Vogliono che faccia un film di sinistra, non ne ho voglia”, e ancora: “Non voglio fare un film su Berlusconi, sto preparando una commedia”. Era una excusatio esplicita e plateale che comunque non riuscì a esorcizzare l’iniziativa. Infatti il segmento privato, non politico del film è alla Moretti, ma l’ingerenza politica era troppo pesante, con quel finale di Moretti (che fa Berlusconi) che si allontana in macchina mentre dietro, sullo sfondo, si vedono gli spari e le esplosioni della guerra civile. Metafore e misure davvero troppo

anomale e lontane da quelle solite. Ma il miglior Moretti è forse quello de La stanza del figlio. Dove il regista affronta il tema del dolore – la morte del figlio, appunto – con toni perfetti, gestendo equilibri sentimentali difficili, e facendo leva sul quel dolore anomalo ed estremo per una riflessione sui rapporti e sul destino. E certamente non è casuale l’attribuzione della Palma d’oro a quel titolo. Un film che avvicinava l’autore a quei giganti.   QUANDO NAPOLI ERA DE SICA E TOTÒ   2009: Abel Ferrara, è in fase di postproduzione del film Napoli, Napoli, Napoli. L’idea primaria era quella di un documentario, l’evoluzione è un docu-film che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere nella lista dei titoli in concorso a Venezia 2010. Ferrara si è interessato alla vicenda di Gaetano Di Vaio, giovane già compromesso nella malavita, poi pentito, che ha cercato di trasformare la sua esperienza in qualcosa di utile a contrastare la microcriminalità, letteralmente padrona di certi quartieri napoletani. Di Vaio ha fondato l’associazione Figli del Bronx, stimolando i ragazzi ad applicarsi alle discipline artistiche piuttosto che a rapine, estorsioni o peggio. Sembra che un episodio molto intenso della fase “docu” sia una serie di interviste ad alcune detenute della Casa Circondariale di Pozzuoli. Ferrara ha poi affidato la scrittura di tre sceneggiature a Maria Grazia Capaldo, Peppe Lanzetta, Maurizio Braucci e allo stesso Di Vaio. Il regista ha dichiarato: “Napoli nel mio film assomiglia al Bronx”. La famiglia di Abel è originaria di Salerno e lui è nato nel Bronx. Dunque il cerchio si forma e si chiude nel modo più naturale. Così com’è naturale che Napoli, nei film, sia ormai camorra: le istantanee che emergono, del docu e della fiction, sono quelle recenti della città soffocata dai rifiuti, quelle del film Matteo Garrone e quelle della scrittura di Roberto Saviano. Evoluzione Non si tratta di evoluzione o di moda, la città può benissimo essere quella di Gomorra. Semplicemente perché Napoli può essere tutto. Per analogie e contrari e anche per momenti e storia, per vicende, personaggi e cultura, quando c’è di mezzo Napoli, tutto va bene nei decenni e nei secoli. Sempre di napoletanità sacrosanta trattasi: trasversale, perché Saviano e Garrone valgono adesso come mezzo secolo fa, e Marotta&De Sica valevano allora come adesso, con le dovute evoluzioni di estetica, ma solo di estetica. Ed evoluzioni della moda, appunto. Certo era più “piacevole” la città de L’oro di Napoli o di Napoli milionaria, non c’è dubbio. Ed è in questo senso che mi concedo due promemoria. Elezioni Altre istantanee a contrasto nel tempo, sempre in chiave di docu-fiction, possono riguardare i media e i politici. Una volta Totò, ospite in un programma televisivo, disattese il copione e, a un certo punto, disse “Viva Lauro!” Era il momento delle elezioni del sindaco. E Lauro vinse, ma avrebbe vinto lo stesso. Era il papà della città, un eroe imperfetto ma consolidato. Ed è certo che se lo amava Totò, lo amava Napoli. Una sequenza recente riproduce Antonio Bassolino, su un marciapiede della città, col monte di rifiuti sullo sfondo, che a un telegiornale si difende mostrando le mani in primo piano e dicendo “queste mani sono pulite”. Momenti e personaggi diversi, certamente. Storia Che tutto sia vero-possibile-legittimo-e-senza-tempo, deriva dalla storia della città, che merita un breve racconto. Napoli, fondata dai greci nel IV sec. a.C. si è vista passare etruschi e cartaginesi, sanniti poi i romani, poi ostrogoti e bizantini, normanni, Asburgo spagnoli, poi Asburgo viennesi, fino ai Borboni di Spagna, poi il breve intermezzo

napoleonico (col fratello Giuseppe e con Murat) e poi ancora i Borboni che prevalsero, col Regno delle due Sicilie, fino all’unità d’Italia. E ancora la seconda guerra mondiale, che arrivò e si trattenne, con invadenza. E come dimenticare un altro intermezzo, quello di Masaniello, napoletanissimo, e della sua rivolta nel 1656. Come poteva mancare una rivolta! Nella Storia forse solo la Sicilia ha visto più occupanti. Questa digressione per dire che Napoli è un contenitore completo, può ospitare tutto, possiede tutte le identità, e tutte sono squisitamente e legittimamente autoctone. Un popolo cha ha imparato a difendersi da 2500 anni, aderendo a tutte le culture del mondo e riducendole in qualche modo alla propria, ha assunto una genetica che può tutto. Certo, anche negli eccessi e negli estremi. Figuriamoci il cinema: ci va a nozze. Dico comunque che De Sica&Totò (e magari De Filippo) erano e sono preferibili, non solo da me e vanno privilegiati nel quadro di tutti i tempi. Pernacchio Ne L’oro di Napoli c’era quel De Sica nobile decaduto che gioca a carte col bambino triste perché vede i suoi amici che si divertono in strada. E come dimenticare, sempre in quel film, il pernacchio all’indirizzo del leggendario duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornai. In Paisà il soldato americano ubriaco, derubato degli scarponi dagli scugnizzi, li ritrova il giorno dopo, nella miseria impressionante di quella Napoli del ’45 e lascia il bottino ai ragazzini. In Napoli milionaria Eduardo, fresco sposo, chiede un’informazione a un tale seduto davanti a un portone che lo manda nella direzione sbagliata, Eduardo viene preso dai fascisti e finisce in Germania. Dopo quattro anni torna in quella strada, c’è sempre il tale seduto, gli dice: “Ricordate quando mi avete dato quell’indicazione? ecco, torno adesso” Ci sono anche tante cartoline hollywoodiane di Napoli, di Wilder, della Loren e di Gable. Una, romantica e dolcemente turistica è quella di Joseph Cotten e Joan Fontaine in Accadde in settembre. Si incontrano a Napoli, lui ha famiglia. Perdono l’aereo per New York. L’aereo precipita in mare, ma i loro nomi sono registrati e allora tutti li credono morti. Così i due cercano di rinascere. Innamorati alle falde del Vesuvio, in barca fra i Faraglioni e la villa di Tiberio a Capri, fra gli scavi di Pompei. Istantanee ingenue di quegli scenari strepitosi. Con guide turistiche e mandolinisti fra le portate nei ristorantini sul mare. Non teppisti che ti scippano dalla moto o killer che ti uccidono in nome del clan. Nello scenario delle tonnellate di rifiuti sui marciapiedi.   I VANZINA DI PADRE IN FIGLI   Un’estate ai Carabi, di Carlo Vanzina, fa parte della solita ritualità estiva, dicesi “cinecocomero”, come di altra ritualità ha fatto parte, in stagione fredda, il cinepanettone: l’ultimo è stato La fidanzata di papà, di Oldoini. Comico&commedia, la definizione può essere allargata, i due generi possono intrecciarsi. A volte non è semplice attribuire l’identità precisa. La scelta ha a che fare anche con la qualità. I film di Steno, papà di Carlo e di Enrico Vanzina, erano comici o erano commedia? A quest’ultima definizione non è estranea una certa nobiltà. Basti pensare alla commedia all’italiana, quella de Il Sorpasso e de I soliti ignoti. Nobiltà sacrosanta. Nel “Paese largo” Com&comm. hanno cittadinanza (gente di cinema, attori-registiproduttori) Aldo, Giovanni e Giacomo, Benigni, Boldi, De Laurentiis, De Sica, Oldoini, Pieraccioni, Salemme, Verdone, Veronesi, Virzì e altri. Citati in rigoroso ordine alfabetico. E poi Enrico e Carlo Vanzina. In questi nomi, in questo arco largo, naturalmente ci sta tutto. Ci stanno le qualità e anche le differenze. Se il vertice della piramide può essere Benigni, a scendere, in fondo, forse troviamo i film portatori di battute irripetibili per becerume. Dico subito che in Un’Estate ai Carabi, ferma restando la cifra di quei prodotti,

che conosciamo, non c’è volgarità. E non era scontato. Pensiero debole Certo, è film vacanziero, evento-pensiero debole-consuetudine-incassi, e grande tam tam dovunque. È interessante come i maggiori quotidiani dedichino al film pagine intere e poi risolvano la excusatio dando un voto basso. Ma sappiamo che la regola è questa. Insomma è normale, è accettato. Carlo ed Enrico regista e sceneggiatore. Sono omologhi, sono comunque co-autori. Potrebbero scambiarsi i ruoli e non cambierebbe niente. A Enrico Vanzina mi lega un’esperienza intensa. Eravamo ospiti, dalle sette del mattino del primo gennaio 2009 a Uno Mattina. Lo stesso autista ci aveva portato a Saxa Rubra. Io ero assonnato, Enrico non era neppure andato a letto, ma è legittimo naturalmente: lui, uomo di quell’ambiente, non poteva che essere un nottambulo per definizione. Eravamo invitati per parlare dei film-panettone, nello specifico de La fidanzata di papà, l’annunciato successo festivo prodotto da De Laurentiis. Non conoscevo di persona Enrico, naturalmente lo conoscevo di fama, lui e la sua famiglia. Me ne avevano parlato come di un uomo colto e profondo, aggiungendo “non c’entra niente coi suoi film”. Conosceva alcuni dei miei libri e i film che ne erano stati tratti, e naturalmente conosceva il mio dizionario. Parlare con Enrico Vanzina è un piacere. Colto e profondo, verissimo, e straordinariamente simpatico. E buffo, con quei capelli grigi che gli cadono come una fontana che ha poca pressione. Col sorriso e scegliendo accuratamente il tono gli ho riportato anche la didascalia di sopra: «Ti offendi se ti dico che sei migliore di tuoi film?». «No, non mi offendo» mi ha risposto «sai, io non sono mio padre. Lui era un gigante.» «Però» ho detto «da alcuni tuoi film si vede che saresti stato come tuo padre se ti avessero lasciato fare». «A che film alludi?» «A Sapore di mare, giusto per citarne uno solo. Un film che avrebbe potuto benissimo portare la firma di Steno.» Ha sorriso, certo contento, poi ha aggiunto: «Hai detto bene, se mi avessero lasciato fare ma sai il mercato, ai tempi di papà era importante, ma meno aggressivo, ti lasciava qualche spazio, non ti divorava.» Welles Stefano Vanzina, detto Steno, padre di Enrico e Carlo, fece film nella tradizione della comicità italiana, quella dell’eccellenza, basta citare alcuni nomi: Totò, Fabrizi, Sordi, Manfredi, Tognazzi, Rascel, Vitti, Pozzetto, Bud Spencer. Cito due titoli, molto diversi, il leggendario Un americano a Roma con Sordi, e L’uomo, la bestia, la virtù, tratto da Pirandello, con Orson Welles. I suoi figli hanno sempre dovuto confrontarsi con quel nome, un po’ alla Christian De Sica, pur rilevate le dovute differenze fra Vittorio, autore generale del mondo, e Stefano, ottimo regista-narratore. La tradizione dei comici-sullacrestadell’onda è stata ripresa da Carlo&Enrico, solo che i comici di adesso non sono Totò, Sordi e compagnia. Dovendo “adattarsi” il regista, Carlo si è adattato abbastanza bene. I suoi film riescono a sottrarsi alla pesante etichetta “cocomero”, accreditandosi, seppure con un pizzico di buona volontà, come “commedia italiana”. Casting In Un’Estate ai Carabi il regista interviene sulla formula. Non più episodi, ma storie diverse che si intrecciano fra loro. Ne guadagna il ritmo che non deve salire e scendere ogni volta. Il casting naturalmente è il padrone assoluto. La regola è quella di Steno: i comici e le fanciulle prevalenti del momento. La statuaria, anche nel senso dell’immobilità, Seredova, l’onnipresente Biagio Izzo e relativo profilo di battute, il comico finto-impegnato Brignano, la sopravvalutata, per appeal e recitazione, Martina Stella, e il monumento un po’ ansimante Proietti. Insomma, tutti i trucchi dell’audience e tutti i target toccati. C’è persino il sosia di Berlusconi. Il tutto rigorosamente pesato secondo cadenze ragionali. Certo, si ride e si sorride, secondo target e cultura. E va detto: pensiero (men che) debole certamente, ma niente di becero, appunto. Commedia italiana: ogni epoca ha quella che si

merita. E che i fratelli pensino a un film senza pensare (troppo) al mercato.   VENEZIA 2009: ITALIA ZERO TITULI   L’Italia è in concorso al Festival di Venezia con 4 titoli: Baaria di Tornatore, Lo spazio bianco di Francesca Comencini, Il grande sogno di Michele Placido, La doppia ora di Michele Capotondi. Mi capita sempre più spesso di scrivere di “nostalgia”. Ci sono anche canali tematici di cinema che guardano al passato. Detto in sintesi perentoria, questo accade perché la televisione e il cinema di adesso non lascerebbero altra scelta. “Nostalgia” è ormai un fenomeno, è certamente di moda e c’è un avallo “serio” a legittimare il concetto, quello della saggistica. Nel suo libro L’invenzione della nostalgia Emiliano Morreale analizza questo ritorno al passato da una posizione di sospetto. In sostanza rifarsi a cose lontane e apparentemente migliori non porta a nulla, e occorre comunque prendere le distanze, diffidare del sentimento. La nostalgia è una resa. Non si può certo non condividere questa posizione di prudenza e questo segnale di debolezza. E poi non sarebbe mai corretto, su tutti i piani, estetico, culturale, politico, artisticogenerale, dire “adesso è peggio di allora”. Troppo diversi i tempi, non facilmente decifrabili le evoluzioni. Parametri A meno che non si trovino misure e parametri esatti. Dove “esatti” va inteso a sua volta con una certa prudenza trattandosi di valutazioni che non comportano numeri precisi, non comportano “scienza”. Pur con tutti i distinguo possibili – la politica, la geografia, l’attualità, le convenienze, il peso economico, e altro – ci sono, in cinema, alcuni premi che possono far testo, anche se in modo diverso (qualità artistica, successo al botteghino) e con tutte le contraddizioni possibili. Alludo ai 3 maggiori: Oscar, Cannes, Venezia. Focalizziamo Venezia 2009 e il cinema nostro. Baaria racconta la vicenda di una famiglia italiana lungo tutto il novecento, in ottica politica: le guerre mondiali, le ideologie, i partiti che hanno determinato la Storia. Ne Lo spazio bianco della Comencini, la Buy, quarantenne, partorisce una bambina prematura. Dietro l’oblò dell’incubatrice la donna percorre la propria angoscia, nel quadro di una città, Napoli, che con le angosce ha un rapporto stretto. Col suo Il grande sogno Michele Placido, attraverso l’esperienza di un poliziotto, racconta gli eventi del Sessantotto a Roma, lui che allora era davvero un giovane poliziotto. La doppia ora è un giallo con ingredienti “attuali”. Sonia è una bella straniera che fa la cameriera, Guido un ex poliziotto. Le cose sembrerebbero funzionare, ma lui vene ucciso. Identità Il nostro cinema è ben rappresentato rispetto alle sue identità attuali e conosciute che si possono configurare in questa formula: triste&politico. Il movimento internazionale del cinema, che si esprime con quei 3 grandi premi – ribadisco, il Leone d’oro, la Palma d’oro, e L’Oscar, alludo dunque ai riconoscimenti massimi, ai “vertici”, escludendo tutta la pletora di premi-a-scendere, non presta molta attenzione al cinema italiano. Sono ormai lontani i tempi de La vita è bella e de La stanza del figlio, vincitori assoluti. Nel 2008 Il divo e Gomorra hanno ottenuto premi importanti a Cannes, ma non il più importante, quello assoluto, appunto, che verrà citato e ricordato, e identificherà la manifestazione di quell’anno. Alla selezione degli Oscar Gomorra non ha avuto apprezzamenti. I responsabili hanno ritenuto che quella realtà italiana, seppure ben rappresentata, fosse la solita realtà italiana, un po’ abusata, e non molto interessante nel contesto generale del cinema e del mondo. I

film di Placido, Tornatore e Comencini sono pieni di politica. Sono istantanee che tutti noi raccogliamo, nella sale, ormai da molto tempo. Sociale Un sociale duro e doloroso, movimenti passati ardenti, istantanee di violenza in strada, giovani col passamontagna, polizia coi manganelli, comizi e bandiere con falce e martello, gli stivali pesanti e crudeli dei nazisti, e tutto urlato, tutto rivendicato. Il nostro cinema ripercorre quelle istantanee non come episodi, ma come movimento, sono molti infatti i titoli che arriveranno, al di là di Venezia, in questa chiave. La sensazione è che le altre culture intendano sorpassare, senza ignorarli naturalmente, queste istanze e questo ricordi. Nei film dei registi in concorso, soprattutto in quelli di Tornatore e Placido, c’è qualità, c’è respiro e c’è “cinema”. Ma la sensazione è che a Venezia, e dovunque, quel cinema sia già passato, su un treno che ormai è lontano. Certo, il nostro movimento non se ne accorgerà, da decenni non si accorge di quasi nulla. Leoni 2009 E alla fine i due Leoni, oro e argento, non hanno premiato il cinema italiano. Ne eravamo stati profeti, facili a dire il vero. I riconoscimenti maggiori sono andati al film Lebanon dell’israeliano Samuel Maoz e alla regista iraniana Shirin Neshat per Women without men. Il primo racconta la vicenda dell’equipaggio di un carro armato israeliano durante la guerra col Libano nei 1982. I componenti sono il comandante, l’artigliere, il servente e il pilota. Non hanno la minima esperienza di guerra, ne hanno paura e non la capiscono, e non vogliono combattere un nemico che non conoscono. Pur essendo tutto quanto compresso in due metri cubi di spazio, dunque tutto di parole, il film adempie al suo compito di dare un’indicazione pacifista forte e commovente. È un’istantanea, una vicenda umana e universale, vale dovunque. Nell’opera della Neshat quattro donne iraniane, diverse e vitali, sono condannate all’infelicità o peggio dall’avvento della dittatura dello Scià nel 1953. Per non rischiare la prigione “o peggio”, la regista ha usato quella metafora contraria. Omologando due dittature opposte e nemiche, quella di allora e quella di adesso, che comunque hanno in comune la condizione disperata delle donne. Anche questa è un’indicazione per il mondo. Enfasi Tornatore, il presunto favorito battuto, paga la propria enfasi genetica e anche quella di Morricone, e paga l’eccesso di propaganda fin dall’apertura: la giuria ha (anche) pensato: venderà tanti biglietti, ha già avuto molto, ha avuto abbastanza. Il ’68 di Placido aveva davvero poco appeal per il mondo. La giuria internazionale non è impressionata da vecchie coccarde srotolate con falci e martelli, da pugni alzati e da lingue morte. Cito anche il fratello maggiore (di Placido) Maselli, che non ha affrontato la giuria, ma non avrebbe vinto lo stesso il Leone. Le coccarde e il pugno alzato non raccontano, sono solo il segnale di un piccolo spazio autoctono che ha scarso interesse per il mondo e per le giurie. Sociale I due Leoni sono cinema di metafore, ma esiste un cinema di azioni, che racconta vicende esplicite, un grande cinema sociale, di sinistra nobile. E la didascalia è molto semplice, è generale e onnicomprensiva: i forti contro i deboli. Estraggo di getto The constant gardener, dove i disperati sono cavie delle multinazionali farmaceutiche, Blood diamond, dove i locali africani sono vittime dei grandi cartelli europei dei diamanti, Grazie signora Thatcher, dove minatori licenziati si ingegnano per far sopravvivere la miniera, senza riuscirci. Venezia è ormai più una casa della politica che del cinema. L’altra faccia della manifestazione, il contrappasso – perché un contrappasso fra élite e normale utenza ci

vuole – è rappresentato da “attori” come Daddario, Noemi, Canalis. E il cinema per il cinema, che viva di suo, dobbiamo proprio dimenticarcelo? Giallo La doppia ora, come detto, è un giallo, che comunque tocca la politica, del tutto legittimo naturalmente. Capotondi, noto per lo più per video musicali e spot pubblicitari, mi si perdoni, non si addice al Leone. Ed è qui che torno a fare riferimento alle misure dette sopra e alla nostalgia, che cercherò di misurare. Ed ecco un’altra didascalia che mi appartiene: un tempo eravamo fra i più bravi del mondo ora non più (mi astengo dall’aggettivo comparativo-negativo). Ecco dunque il dato (quasi) oggettivo. Nel decennio della grande nostalgia, fra il ’59 e il ’69 ecco una serie di titoli e di nomi davvero virtuosa. 1959 Leone d’oro a Il generale della rovere, di Rossellini a pari merito a La grande guerra, di Monicelli; 1962 Cronaca familiare, di Zurlini; Le mani sulla città, di Rosi; 1964 Deserto rosso, di Antonioni; 1965 Vaghe stelle dell’orsa, di Visconti; 1966 La battaglia di Algeri, di Pontecorvo. Sette su dieci Sono sette trofei in dieci anni. Era la misura del nostro cinema di allora. Nell’ultimo decennio dal 1999 al 2009, al cinema italiano – lo dico secondo linguaggio corrente – zero tituli. “Zero tituli” è definizione perfetta per il nostro cinema contemporaneo. Definizione non discrezionale, ma che deriva da un dato esatto, appunto. E la nostalgia ci sta, magari come auspicio.   IL TRIONFO DEI BELLI   Nel 1963 la sezione inglese della Mgm stava preparando la produzione, per la regia di Anthony Asquith, di Una Rolls-Royce gialla. È la storia di quella macchina che passa di proprietario in proprietario, un lord, poi un gangster, poi addirittura un capo partigiano jugoslavo. Il gangster, di origini siciliane (e come poteva essere altrimenti) arriva sulla costa amalfitana, siamo negli anni trenta, con la sua amante, Shirley MacLaine. È costretto a tornare precipitosamente in America e la pupa rimane sola. Conosce un giovane fotografo, affascinante, estroverso, irresistibile. Si lascia, inevitabilmente, sedurre. Per questo genere di produzioni la regola era, anche in chiave di mercato, che il personaggio italiano fosse italiano per davvero. La Mgm aveva tutta la buona volontà in questo senso, ma non riuscì proprio a trovare l’attore adatto. E così ripiegò su Alain Delon. Il nostro non era un cinema di belli, certo non avevamo un Delon (non l’aveva nessuno), semplicemente nei nostri film non era previsto quel modello. Se una major dovesse pensare a un remake di quel film, adesso l’attore lo avremmo, Riccardo Scamarcio. Va detto che neppure Scamarcio è Delon, ribadisco che nessuno lo è, tuttavia quel ruolo non gli sarebbe largo. Da qualche anno il nostro cinema ha ritrovato, anzi trovato i belli, sconfessando un cliché duro a morire: i belli non possono essere anche bravi. Tutto il cinema, quello ritenuto “serio”, quello italiano prima di tutti, ha sempre penalizzato i belli, che venivano usati per film di pura evasione. Belle facce Una delle indicazioni, fra le poche, positive del festival di Venezia 2009, è stata la conferma che anche il grande schermo, non solo il piccolo, ha bisogno di belle facce e di belle figure. Al nostro cinema triste, malamente sociale e autoctono, legato a un politicamente corretto che lo ha penalizzato soprattutto oltre confine, non si addiceva la figura del “bello”. Il modello doveva essere normale, meglio se povero. Un bello, un eroe non poteva portare le indicazioni volute. Dobbiamo a Michele Placido una forte sterzata estetica, chiamiamola così. Nel cast di

Romanzo criminale figuravano Kim Rossi Stuart, Riccardo Scamarcio, Claudio Santamaria, belli e bravi, e poi Stefano Accorsi e Pierfranco Favino, abbastanza belli, ma bravi. Fu quello uno dei pochi film di successo al botteghino in quelle stagioni. Il grande sogno, sempre di Placido, sta a sua volta andando bene nella sale. Le indicazioni, rivendicazioni, il senso realistico, storico, quasi “docu” del film, è rappresentato da caratteri efficaci, ma i più efficaci, guarda caso, sono Riccardo Scamarcio e Luca Argentero, non solo bravi, ma soprattutto belli. C’è anche Silvio Orlando, bravissimo ma, per il botteghino, meglio gli altri due. La prova d’attore di Scamarcio e Argentero è di profilo molto alto. Riescono a essere credibili, normali, nonostante quell’handicap. Argentero, nonostante la partenza dal Grande fratello (e peggio non poteva), si è via via evoluto, anche grazie alle forche caudine delle fiction. E deve molto a registi come Ozpetek. Nel Grande sogno è un leder sessantottino appassionato, urlante col pugno alzato, ma anche sentimentale e delicato nel privato. Scamarcio, scontato il sex-appeal nettamente sopra la media, concede, in quel film, un momento eccellente di prova d’attore quando in un’audizione recita in pugliese una scena d’amore. L’attore si sta sottoponendo a un trend intenso, è in quasi tutti i film, rischiando una sovraesposizione persino pericolosa. Scamarcio e Argentero, due attori ormai buoni per quasi tutti i ruoli. Generazione Kim Rossi Stuart e Raoul Bova sono sulla quarantina, hanno più o meno dieci anni più di Scamarcio e Argentero. Una mezza generazione, fra attori. Stuart (41), grande appeal, modello gradito a tutti, il figlio, il fidanzato, il giovane papà che tutti vorrebbero, è ottimo attore. Ha scelto un percorso quasi di basso profilo, come se fosse imbarazzato dal proprio appeal. Ha coperto ruoli dolorosi, difficili e diversi. Giovane fragile da proteggere, poi psicopatico ma rimanendo nei giusti confini, passando per ruoli d’azione, per poi diventare autore. E sempre prestando attenzione alla sovraesposizione. Bova, bello e atletico ha dovuto superare la generale diffidenza e diventare bravo a piccoli passi. Deve molto alla televisione, a ruoli polizieschi. Poi è approdato presso autori veri, come Ozpetek e Tornatore. A 37 anni ha ormai un suo spazio conquistato e riconosciuto. Inquietante Maledetto e inquietante, oltre che straordinariamente bello, Gabriel Garko (36) sta costruendo il suo personaggio con la fiction, dopo ruoli, sul grande schermo, che non hanno fatto storia. Il personaggio di Tonio Fortebracci, il cattivissimo boss di L’onore e il rispetto, è perfetto per l’audience. L’eroe buono, secondo tradizione, non interessa più. La cultura prevalente vuole che a emergere sia l’antieroe, il cattivo. Fa più audience. Con la giusta applicazione Garko è diventato anche un buon attore. Storia di mafia, eroe cattivo e affascinante, amore e violenza e un quanto di morbosità che non guasta: sono gli ingredienti per una fiction irresistibile, vincente. Poi ci sono i programmi di politica, ardenti e attuali, e polemici, con un protagonista a sua volta grande “attore”, come il Presidente del consiglio. Il popolo della televisione è certo diviso per cultura e preferenze. Ma arrivato il prime time, davanti al piccolo scherno, telecomando in mano, quel popolo finirà sempre per privilegiare Garko. Perché l’evasione, su tutti i formati di schermo, soprattutto sul piccolo, prevarrà sempre sulla politica, a parità di qualità. I 3.219.000 spettatori di Porta a Porta sono moltissimi, quasi un’anomalia rispetto ai 5.770.000 de L’onore e il rispetto. È fisiologia televisiva. Garko batterà sempre i politici. Per fortuna. Predecessori Il ritorno dei belli nei film è un evento che merita un approfondimento. I “non belli ma bravi” sono modelli del tutto funzionali al cinema italiano contemporaneo. Attori come Orlando, Lo Cascio, Amendola, Marcoré, lo stesso Castellitto, sono molto bravi, sanno trasferire con efficacia il segnale che gli è stato affidato. Ma nella drammaturgia che

dovrebbe essere quella tradizionale, e nella sua estetica, quegli attori avrebbero l’immagine del caratterista. Nell’espressione tradizionale, certo sorpassata, non sarebbero i protagonisti ma gli antagonisti. È un’evoluzione che ha radici lontane e che non riguarda solo il cinema italiano. Parte dal dopoguerra, quando il cinema ha cominciato a portarsi più vicino alla realtà. Cambiavano le storie e i caratteri. Nei film americani il protagonista Sinatra sconfiggeva l’antagonista Bronson; in quelli francesi Delon se la vedeva con Ventura; nei film italiani Gassman dominava Trintignant. Più tardi gli antagonisti, i caratteristi sarebbero diventati protagonisti. I nomi citati sono esemplari. Il nuovo cinema aveva bisogno di loro: l’estetica e la cultura del reale, piuttosto che quella del bello e del sogno. Non corretto Il cinema italiano recente, politicizzato, andava oltre. Essere belli era un privilegio politicamente non corretto, e allora ecco che un assurdo estetico lo diventava anche di contenuto. Ricordo il film Ferie d’agosto, dove tutte le donne si innamorano del protagonista Silvio Orlando, che è umano e intelligente, diciamo pure carismatico, ma è pur sempre Silvio Orlando. L’amoroso, anche nell’epoca politica del cinema, è meglio se è Riccardo Scamarcio, o Raoul Bova. Nella fantasia femminile sono modelli più naturali. Il cinema italiano non è mai stato cinema di belli. Certo ce ne sono stati, ma faticavano. Amedeo Nazzari aveva grande appeal e, fino agli anni quaranta, quando si arrotondò nel viso e nel corpo, poteva davvero essere definito l’Errol Flynn italiano. Nella nostra stagione eroica, quella del realismo, il protagonista che emerge è Lamberto Maggiorani, un operaio chiamato a fare l’attore, un “carattere” perfetto per quel ruolo. A quel cinema non si addicevano i belli, anche se, come sempre c’è l’eccezione. Nel suo Ossessione, Luchino Visconti volle protagonista Massimo Girotti, appeal altissimo, da divo americano a sua volta, anche se il regista ne privilegiò l’intensità e l’ambiguità, e fece di tutto per sottrargli bellezza, vestendolo con pantaloni sdruciti e con una canottiera della quale sentivi l’odore scendere dallo schermo. Generazione La grande generazione della nostra commedia, propose attori come Sordi, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni e Gassman. Gassman aveva bellezza, istrionismo, tecnica e tutto il resto. È il più grande personaggio italiano dello spettacolo. Ogni aggettivo, stralciato dall’insieme, sarebbe riduttivo, “bello” compreso. Mastroianni era completo, ma era un centrocampista di gran classe, e non era Paul Newman. I primi tre erano i cosiddetti italiani medi. Medi, appunto. A metà degli anni cinquanta Dino Risi diresse Poveri ma belli, titolo eloquente. I “belli” erano Renato Salvatori e Maurizio Arena, soprattutto Arena. Ma era un romano delle borgate, scarso charme, era un belloccio, definito “bullo”. Anche lui non era Delon. Fra la fine dei Sessanta e i primi Settanta il cinema italiano riscoprì i generi. L’ispirazione veniva dal mare magnum del cinema americano. E così i nostri produttori si ricordarono dell’avventura, del poliziesco e del western. Se non fu un momento storico del nostro cinema, fu per lo meno vitale. Ed ecco che occorrevano modelli nuovi, e belli. E i belli vennero fuori. Faccio tre nomi esemplari, Fabio Testi, Giuliano Gemma, Franco Nero. Aitanti, giovani, bravi a cavallo e nell’azione, sapevano persino recitare. Una citazione particolare è per Franco Nero, che incarna un vero, triste paradosso. L’attore è stato capace, nei suoi anni belli, di dare corpo e volto a Lancillotto, a Django, al commissario scritto da Sciascia, al detective alla Bogart, al partigiano Valerio che giustiziò il Duce, a Matteotti ucciso dai fascisti, a Garibaldi. Ogni volta una prova d’attore così diversa e di qualità, con quegli occhi poi, davvero alla Newman e Delon. Eppure Nero, nel

suo momento migliore è stato dimenticato dal cinema italiano, costretto a diventare un esule, autentico primatista del mondo: film girati in trenta paesi. Perché era arrivato il momento del nuovo cinema italiano, quello sociale, “politico”, povero. Nero e i suoi omologhi non servivano più. Non c’era più Zorro, né Bond, né Romeo. Non c’erano più gli eroi. E gli eroi servono, e meglio se sono belli. È risaputo che il cinema americano domina al botteghino. Le ragioni sono molte, ma una, decisiva, sta in George Clooney, Russell Crowe, Jonny Depp, Leonardo Di Caprio, Brad Pitt.   L’ENFASI DI BAARÍA (E DEGLI ALTRI)   Gabriele Muccino e Giuseppe Tornatore sono autori italiani capaci di operare oltre confine, il primo è stato adottato dal cinema americano, e non è un piccolo riconoscimento, il secondo, molti anni fa, ha vinto un Oscar. Sappiamo. Durante il festival di Roma 2009 Muccino, col sorriso, ha detto a Tornatore: “Il tuo Baaría è ottimo, anche se un po’, ridondante.” Non intendo scrivere di Baaría, che è certo un film importante e da vedere, intendo scrivere di “ridondante”. La ridondanza, l’enfasi, sono codici che identificano gran parte del cinema contemporaneo. Lo si deve alla necessità febbrile del consumo, all’ attitudine del target che va al cinema, che è, per lo più, quello giovane. È notorio che la cultura attuale, chiamiamola giovanile, corre veloce, brucia in pochi attimi: c’è la musica, i videoclip, la PlayStation, Wikipedia; non c’è più la parabola naturale della drammaturgia e del racconto che sembrava essere acquisita e consolidata nelle dinamiche e nei tempi. C’era il tempo dell’inizio, poi lentamente saliva l’azione, c’erano i momenti di connessione, le scene madri, e il finale. Thriller Un modello esemplare è il thriller, il giallo. La tradizionale dinamica propone il delitto e poi l’indagine, che parte lenta (il detective porta a porta, strada a strada) poi accelera. E alla fine il nodo viene sciolto e l’assassino smascherato. Adesso il killer è sempre un serial. Il delitto sono sempre delitti. Dunque il film vive di segmenti, otto omicidi e otto storie, con otto parabole di racconto, otto violenze, otto emozioni. Otto velocità che diventano una velocità unica. Nessuna attesa, nessun intermezzo. E il detective non deve andare negli archivi, non deve fare domande, c’è il computer che azzera quella parte così affascinante di indagine. Il computer fa tutto. Le “otto (o dieci o venti) emozioni” sono dunque la regola. Questo quadro di fruizione frenetica omologa ormai gran parte del cinema. Tornando al film di Tornatore ecco la serie di sequenze brevi, ciascuna di pochi minuti, ogni sequenza è un racconto autonomo, veloce e compiuto, seguito da un altro, veloce e compiuto. Il ritmo è molto alto naturalmente, la drammaturgia compressa, con la colonna sonora che non stacca mai, occupa tutto il film, al massimo della enfasi e dei decibel. Una serie di brevi sinfonie sapienti e implacabili, secondo il grande Morricone, maestro massimo dell’incidenza della musica sull’immagine. E per tutto il film, Tornatore a mostrare i muscoli, “tattili” e levigati. Mi piace dare un’indicazione artistica, certo nobile, la metafora di un richiamo antico ma che davvero non risente del tempo. Magnifica enfasi classica. Il discobolo di Mirone, plastico, elegante, compiaciuto, quasi narciso, può essere un’eficace rappresentazione di Baaría. Travolgente Il primo episodio del film è travolgente. Il bambino che corre sulla strada principale del paese, con la cinecamera che lo anticipa, e poi si alza in volo è un magnifico segnale preventivo, un’accelerazione istantanea, un’ottima regola drammaturgica, una gemma. Le

sequenze che seguono: tutte brevi, tutte a chiudersi. Ne finisce una, ne comincia un’altra. Come detto l’intensità non scende mai, Morricone non cala mai, i volti esprimono sempre tensione. I contadini, i clienti dei bar, i passanti, i poveri e il ricco, il podestà, il matto del paese, il politico, l’innamorata e il protagonista: sono sempre tutti febbrili. Una sequenza di connessione, a stemperare, un panorama, una strada coi passanti, un gregge, se c’è non è di connessione, ma ogni scena, quasi ogni fotogramma va “oltre”, c’è qualcosa di sotterraneo, c’è un’implicazione e anche una promessa di violenza trattenuta solo all’ultimo, ma sospetti che la violenza poi ci sarà. Le “gemme” sono diventate gli elementi di una collana che non ha il filo. E poi la cultura. Ma questo è il mio pensiero, non faccio parte del target prevalente, la mia cultura e la mia discrezionalità non fanno testo, fa testo il boxofice: la PlayStation l’ho vista usare dai miei figli, per una ricerca rigorosa vado anche su internet, ma soprattutto sui libri. Ecco, “libro”. Baaría è pieno di cultura cinematografica, ma nei dialoghi, nella vicenda, negli equilibri, qualcosa manca. Manca il romanzo. La letteratura terrebbe a bada l’enfasi. Ma Tornatore è così: vuole scrivere, peraltro senza l’aiuto di nessuno, e non è il suo mestiere. Cultura Va detto che questo linguaggio, questa cultura, sono un regalo del cinema americano, che tuttavia si avvale di un materiale che si sposa all’enfasi: il fantasy per esempio o i colossi che appartengono quasi soltanto a quel cinema e a quei budget. I maestri, gli autori perfetti, americani e non solo, hanno dunque maggiore abitudine alla gestione dell’enfasi. E possiedono un rigore che li costringe ad essere umili. I Coen, Joel ed Ethan hanno scritto il soggetto e la sceneggiatura de Il Grande Lebowski, ma sanno scrivere, in quel film non sentivi la mancanza di un romanzo. Ma per Non è un paese per vecchi, si sono limitati a sceneggiare, perché Cormac McCarthy, l’autore del romanzo, scrive meglio, scrive da romanziere. Certo non sono facili le misure, ma alcuni le hanno trovate, a volte acquisendo romanzi, come Coppola e Kubrik, o possedendo un’arte che fa testo, come Almodovar, che è anche ottimo scrittore peraltro. Ma questi sono artisti generali, autori di cinema perfetti. Enfasi o non enfasi Tuttavia, concludendo con Baaría, ribadisco: di titolo importante trattasi, un “evento” cui non mancare.   RED CARPET, IL NUOVO STATUS DEL SUCCESSO   Riflessioni a margine di una Festa del Cinema di Roma cui non ho partecipato direttamente: avevo altri impegni, e poi ero sicuro che non mi sarei molto divertito. Tuttavia ero quotidianamente informato, dai redattori di Mymovies, dai giornali, dalla letteratura che accompagna i titoli. Che quella manifestazione non sia indispensabile lo si dice da quando è nata e alla fine le sensazioni sono quelle, che vengono riconfermate anno dopo anno: la quasi-continuità rispetto a Venezia, quella grottesca excusatio dell’antagonismo sempre negato, e poi la qualità, sempre in subordine proprio a Venezia, visto che spesso i film presenti sono “scarti” di quella mostra. Così com’erano stati scartati i titoli che hanno ottenuto i premi più importanti a Roma, Broderskab (miglior film), di Nìcolo (accento sulla i) Donato, danese, e L’uomo che verrà (gran premio Marc’Aurelio d’argento) di Giorgio Diritti. Broderskab è la storia d’amore di due neonazisti “con scene reali e crude” dice una didascalia. A Venezia devono aver pensato che dopo il Leone d’oro ai cow-boy gay di Brokeback Mountain (ma guarda che assonanza) quattro anni fa, forse non era opportuno insistere sull’argomento. Anche il film di Diritti è una rinuncia di Venezia, che voleva inserirlo nella sezione B, “Orizzonti”, fuori concorso. Il regista ha preferito cimentarsi in gara e ha vinto. L’uomo che

verrà è stato sponsorizzato da buona parte della critica, a cominciare dal titolare del maggior quotidiano nazionale, un competente, uno che fa testo. Lo stesso titolare aveva indicato anche A Serious Man, dei Cohen, che invece è stato ignorato dalla giuria presieduta da Milos Forman. Tendo a fidarmi del titolare detto sopra più che di quella giuria. Un altro dato di fatto, certo accreditato è la qualità: a Roma non ci sono mai grandi film, anche perché i grandi film, nell’era recente, sono molto rari. Grande Nessun grande film, ma un grande red carpet, questo sì. È stato soprattutto il tappeto rosso a identificare quella manifestazione romana. Questo spazio, largo e lungo, che ospita le personalità che dovrebbero essere quelle intorno al cinema, è diventato un contenitore completo, un giardino e una corte, un’assemblea e un’aula magna, una vetrina esagerata e grottesca. Una testata onnicomprensiva. È legittimo che sia così, perché il red carpet, cioè la premessa della sostanza, vale molto più della sostanza stessa. Il cinema proposto a Roma, come a Venezia, da molte stagioni è per lo più inadeguato. E allora occorreva, per sopravvivere, o per fingere di sopravvivere, elaborare una confezione. Una scatola scintillante e rossa, molto grande, con tutte le più costose coccarde, con dentro una penna che non scrive. Il red carpet è un paradosso triste e imbarazzante che non nobilita e non fa differenze. È omologo di una certa nostra televisione, dove Platinette viene chiamato/a a dibattere di sociologia con Francesco Alberoni. Sul tappeto di Roma è passato tutto. Qualcuno aveva persino a che fare col cinema e con la qualità, come Terry Gilliam, che ha portato il suo Parnassus, con tutti quei divi, Colin Farrell, Johnny Depp, Jude Law, a sostituire il povero Heath Ledger morto di overdose di farmaci durante la lavorazione. Dunque grandi vicende sul tappeto con Gilliam. Un film che avrà un destino. E naturalmente Meryl Streep, una delle più grandi di sempre, artista ed essere umano, una sicura garanzia di tutto, anche di Roma. Modelli E poi tanti altri modelli sul tappeto, come una Asia Argento, ex ragazzina trasgressiva e difficile, che ha sfilato nel deserto sorridendo e salutando nessuno. Asia non interessa più, ma calpestare il carpet può essere un piccolo (auto)promemoria. E poi eroi-modelli opposti. Di Clooney-Canalis si sa tutto, tutto di niente. Ore e ore, giornate e giornate di programmi tivù, con conduttori, direttori, opinionisti, sociologi, scrittori a studiare la coppia. Si amano, fingono, si toccano, non si toccano, troppo perfetti, troppo eleganti, lui sorride, lei non parla, non c’è passione, quel gesto esprime amicizia, quell’altro gesto noia. Lui forse è gay, lei sarebbe donna dello schermo. Nessuna vicenda, la crisi economica del mondo, i morti delle guerre, porta via un quinto dello spazio della coppia. È la solita televisione devastante. Sappiamo. E il “red” è davvero invincibile. Qualche giorno fa le prime pagine dei quotidiani più importanti recavano un’immagine anomala del carpet. Un non senso estetico: suore che sfilavano con un frate. Facevano parte del gruppo chiamato ad assistere alla prima del film Popieluszko di Rafal Wieczynski. Eroe È la storia del cappellano di Solidarnosc, il prete assassinato dai servizi segreti russi quando la Polonia si batteva per la libertà e vinse. Popieluszko è un eroe di quella Polonia. Solidarnosc richiama l’eroe maggiore, Lech Walesa, che fu, è notorio, leader di quel sindacato, poi Presidente della Repubblica (da lui creata) e successivamente premio Nobel per la pace. E Walesa evoca un altro polacco importante, Wojtyla, che fu vicino a Walesa e, si può dire, “lavorò” per lui e con lui. Gente che ha fatto la storia del novecento. Fra gli invitati alla prima c’era anche il cardinale Sodano decano del Collegio Cardinalizio, Segretario di Stato emerito. Altra personalità altissima. Sodano non ha partecipato alla

passeggiata sul carpet, ma Walesa sì. Certo serviva alla promozione del film e della vicenda, serviva alla memoria e alla causa, e Walesa, credo con scarso entusiasmo, ha accettato di ripercorrere le orme di Canalis. Penso a quei due mondi su quel tappeto. La storia e la qualità, la più alta, a fronte del niente. Uniti da un tappeto rosso steso a Roma per il cinema quasi sempre con scarsa qualità. Quando avremo un cinema migliore, che vivrà di se stesso, senza confezioni strabilianti, il red carpet sarà solo il percorso che porta nella sala, da fare in fretta, e non una sfilata del grottesco e del paradosso.   CHECCO ZALONE: NIENTE DI NUOVO, MA NUOVO   Si chiamava Rupert Pupkin lo showman interpretato da Robert De Niro in Re per una notte, a metà strada fra la cieca fiducia e la mitomania. In quel film Pupkin/De Niro riusciva a sfondare dopo aver attirato l’attenzione su di sé con uno scoop, il rapimento di Jerry Lewis. Quel film iniziava con Rupert che dà uno spettacolo a una platea che non c’è, semplicemente una gigantografia con un pubblico acclamante. Checco Zalone, protagonista di Cado dalle nubi, regista Gennaro Nunziante, nel suo borgo pugliese comincia facendo un’intervista a se stesso, ormai diventato cantante di successo. La piccola telecamera lavora in automatico, non c’è un operatore o un’emittente, c’è solo un sogno. In paese Checco è considerato un idiota, la sua ragazza non vede l’ora di liberarsi di lui, i parenti vorrebbero che rinunciasse a quei progetti che non si realizzeranno mai e che facesse il muratore per lo zio. Così Checco parte per Milano, la grande mela che gli permetterà di fare il cantante. Nuovo Davvero niente di nuovo, ma nuovo. E non è simulazione, è leggerezza e intelligenza. Ed è una chiave di una semplicità disarmante, anzi di diverse semplicità. La prima è lui, Checco Zalone, ovvero Luca Medici. È un comico vero, e lo aveva già dimostrato sullo schermo piccolo. Le battute gli stanno addosso, scendono naturali, non cadono dall’alto e non sono annunciate anche se non sono di Woody. La chimica è quella che gli permette di vendere battute a basso costo a un prezzo più alto. È la capacità dei comici veri. Lo era di Totò, per esempio. Non lo è di Boldi, che è sempre sullo stesso piano delle parole che pronuncia: battuta da tre, Boldi da tre. Un’altra semplicità è il “fuori onda”. Checco è politicamente scorretto, ma con tale perentorietà da entrare nel grottesco rimanendone fuori. Anche questo è un trucco dei comici con la chimica giusta. Si trova a dare uno spettacolo in un locale gay. Dice, ballando: “Siete malati, ma noi normali vi sosteniamo, specialmente se ve ne state per i fatti vostri”. Invece di sconcerto o peggio, risata generale. Dare a dei gay dei malati, è notorio, è talmente improprio da essere grottesco, appunto. Ma Checco sorpassa il pericolo, si fa perdonare l’abnorme scivolata. Pipì e pupù Corteggia una ragazza, anzi due, cantando la stessa canzone, orrenda: “faccio la pipì, faccio la pupù e in ogni momento penso a te”. Checco riesce a domare la volgarità, a capovolgerla e a venderla come una cosa buona. Altra semplicità di pochi. Si innamora della figlia di un leghista, guarda la piccola scultura di Alberto da Giussano e domanda: “Ma è un Power Ranger?” A un party gli si avvicina un ragazzo che, ammiccando (cocaina) gli dice: “Dai, va’ in bagno”. Quando un secondo ragazzo gli dice di andare in bagno: “Fatevi i cazzi vostri, me lo dovete dire voi quando devo andarci?” E, finito in bagno, scambia la polvere bianca per del gesso e sistema un rubinetto che perdeva, poi si rivolge al padrone come se si aspettasse un complimento: “Pensa a quanto avresti speso per un idraulico”.

Il destino si compie quando Checco arriva in ritardo a un’audizione, non c’è più nessuno ma lui fa il suo numero al nulla. Però è rimasta in funzione una telecamera che lo riprende. La responsabile della casa discografica dice: “Trovatelo assolutamente, è meravigliosamente mediocre.” E così l’autore legittima il film furbescamente, ma non c’è solo furbizia, appunto. Prevenuto Sono sempre prevenuto verso un comico del piccolo scherno che invade il grande. E lo ero anche per Checco Zalone. Ho più volte scritto che, rispetto alla qualità, quasi sempre deprimente, del cinema italiano, il genere comico riusciva a galleggiare. Parlo di film, non di “prodotti” vacanzier-natalizi. Galleggiare vale per i lombardi Aldo, Giovanni e Giacomo, per il napoletano Salemme, per il toscano Pieraccioni, il romano Verdone e pochi altri. Ma questo pugliese al suo esordio ha battuto tutti i titoli, con un’arma convenzionale ha superato i blockbuster nucleari americani, compreso l’invincibile New Moon. E Cado dalle nubi non è un prodotto, è un film. Il fatto (film e box office) è da tenere in considerazione. L’ultima “semplicità” è quella di saper rappresentare contenuti importanti attraverso parabole piccole e comiche. Se è vero che tutto è politica, niente come la politica del nostro paese merita di essere raccontata con la parabole, col grottesco e con lo sberleffo. Nel film viene pronunciata anche la parola relativismo. Credo proprio che l’avvocato Medici/Zalone ne conosca il significato, e che, naturalmente lo conosca l’autore. Non voglio scomodare i Wilder o i Moretti, ma questo Gennaro Nunziante, sceneggiatore e regista, qui ha cercato e trovato. Potrebbe non essere un caso. Centro Il centro drammaturgico è un cugino che ospita Checco a Milano. Il cugino è gay. La famiglia meridionale non lo accetterebbe mai. È Checco a “convincere” la zia che il figlio va bene così, sarà felice così. Più coriaceo è il padre – da giovane se le faceva tutte – ma alla fine, dolorosamente anche lui sembra piegarsi. Checco, che dunque lo ha quasi convinto, allora lo abbraccia. Passa un ragazzo in motorino che grida “ricchiuni”. È l’ultimo sberleffo, politicamente poco corretto, ma proposto da chi si è conquistato quella franchigia col talento.   MENO MALE CHE MARILYN C’È   Io & Marilyn, il nuovo film di Pieraccioni. Conosco la cifra del toscano, che è buona, a metà strada fra il prodotto (natalizio vacanziero, De Laurentiis/De Sica insomma) e il film. Non voglio recensire il film, intendo recensire Marilyn. Da molti anni Pieraccioni, magari con ispirazione disuguale, è comunque una garanzia, grazie anche allo sceneggiatore Veronesi. La loro formula si mantiene su un equilibrio, ribadisco, che evita il volgare e riesce anche a sottrarsi, spesso, allo “scontato”. Certo i codici e i modelli inevitabili del cinema attuale, comico e non, ci sono tutti, a cominciare dalla coppia gay, a sua volta garanzia di riso e sorriso e anche di partecipazione. Promemoria La novità è Marilyn. Buona idea, opportuna, come indicazione, promemoria, estetica, deterrente. Ciò che ci assedia dagli schermi, quello grande e quello piccolo, lo sappiamo. Per cominciare commemorazioni, magari buone nelle intenzioni ma tristi e abusate nella forma, che spaccano invece che compattare, forse sarebbero opportune nella discrezione, magari nel silenzio, piuttosto che in piazza; memorie di terroristi e micce corte; e poi D’Addario eroina coccolata e poi Corona eroe conteso e coccolato. E poi i tribunali con assassini orrendi, anche loro coccolati. E i talk violenti come le piazze. E poi quei politici deprimenti: tutti.

In tutto questo arriva la figura bianca e bionda di Marilyn Monroe. Un po’ di bella memoria, di sogno, di sentimento senza rabbia, di sortilegio che va comunque a pescare bene nella nostra coscienza, perché Marilyn, così com’era, così com’è, mette d’accordo tutti, di ogni età e di tutti i tempi. Lei ha rispetto di te, sta dalla tua parte, ti guarda e ti fa credere importante anche se sei semplicemente tu, uno dei tanti, uno dei tutti. E poi il sesso: una femmina morbida e arrapante, e univoca, e non è poco. Quel sorriso, quel sedere, quel seno: che bel rifugio. Quando Pieraccioni la invoca e se la trova in casa, agisce per tutti noi. Bianca&bionda come in quella famosa sequenza di Quando la moglie è in vacanza, con la corrente d’aria che le solleva la gonna. Una scena che nel film viene ricostruita: una magnifica piccola cellula degli anni cinquanta trasportata da noi adesso, come se il segnale Marilyn, il suo simbolo vivo e felice, scegliessero di favorirci: “So che avete dei problemi, ma eccomi qua, quel che posso fare lo faccio, sono virtuale ma contate su di me.” Sogno Il meccanismo del sogno, della delega dei problemi e delle angosce aveva già funzionato negli anni Settanta quando Woody Allen scrisse la pièce Provaci ancora Sam, portata sullo scherno dal regista Herbert Ross. Woody, critico cinematografico in crisi col lavoro e abbandonato dalla moglie, cerca conforto nel fantasma di Rick&Bogart, il protagonista di Casablanca, l’uomo-eroe per eccellenza. Si confronta con lui, gli chiede indicazioni, gli svela nevrosi e fallimenti. E Bogart lo affianca, col suo impermeabile, con la sua sicurezza, cerca di guidarlo, ma a Woody le cose semplici che fa Humphrey non riescono. Anche perché se approcci una donna e sei Allen è una cosa, se l’approcci e sei Bogart è un’altra cosa. Nel film Io&Marilyn il protagonista Gualtiero chiede soccorso alla “presenza ” dopo essersi reso conto che è l’unico e percepirla. Anche Gualtiero deve recuperare la moglie, che se n’è andata con un domatore da circo. I consigli di Marilyn sono utili. In un certo senso anche la Monroe deve qualcosa a Pieraccioni, che la rappresenta bella e felice, perfetta, mentre sappiamo che Norma Jean era triste anzi, disperata. E conosciamo (forse) la sua fine. Il suo modello si è impossessato di lei e si è proposto secondo il versante bello&felice, che poi è quello che tutti vogliamo utilizzare. E il modello Marilyn si presta, è già qualcosa. Una boccata d’aria fresca in questa atmosfera inquinata. Filone Chissà se nascerà un filone. Chissà se nelle sale saremo magari soccorsi da un James Dean. Una ragazza lo evoca e se lo trova in casa, si parlano, si rapportano con una certa disinvoltura, perché anche James tanti anni fa era anche lui un giovane complicato e arrabbiato, ma con una cattiveria sotto controllo e senza cocaina. Oppure penso a un Totò. Potremmo chiedere un consiglio su un programma televisivo, o un film da vedere. Assisterebbe ai grandi fratelli, ai programmi che ho citato sopra. E mi sembra di vederli quegli occhi, quella faccia di napoletano bonario e arguto, che stenta a capire. Non gli basterebbe il suo “oppebbacco”. Dovrebbe reperire un altro avverbio, o un’altra frase. Cominciamo col ritrovare Marilyn. PIERACCIONI, DE SICA E ARISTARCO Un quotidiano importante ha analizzato in chiave critica, con analisi dotta, profonda, strutturalista su contenuti, simboli, dialogo e linguaggio, due titoli che nelle feste di natale 2009 si sono contesi il week-end al boxoffice, Io&Marilyn e Natale a Beverly Hills. Un “quasi-panettone” il primo, un panettone stagionato il secondo. Io&Marilyn può far parte della categoria “film”, mentre “Natale” è il solito “prodotto” di Neri Parenti. Insomma, Pieraccioni è meglio di Parenti. Ma è legittimo, in chiave critica, appunto, omologarli. Solo che non vale la chiave critica. È impropria ed è superflua. È come coinvolgere l’F.B.I. in un

divieto di sosta. Arte Una volta, a una mia affermazione che il ruolo del critico è ormai marginale, un docente d’arte, molto importante, mi rispose che il concetto poteva valere per il cinema ma non per l’arte. Nei miei corsi di estetica del cinema all’Accademia di Belle Arti di Brera, a contatto diretto con quella sorella nobile, ho capito cosa intendesse il docente risentito e ho messo a fuoco le differenze. In veloce sintesi: il cinema bada ai grandi numeri, c’è un’industria e c’è un bacino di pubblico molto vasto. Il recensore di film trasmette al pubblico – e qui la sintesi diventa da veloce a estrema – la sua visione e le sue indicazioni. Solo che visione&indicazioni del critico vengono colte solo da una piccola parte dell’utenza, l’altra parte si guarda il film e decide se le piace. Anzi, diffida dell’indicazione del critico, spesso, a ragione. Compagno Il critico d’arte invece è un compagno di viaggio degli autori, si muove prima del prodotto finito, agisce più sulla strategia che sull’opera. Non che questo ruolo sia rassicurante, beninteso, perché nasce da un paradosso davvero anomalo, perché si attribuisce, avoca a sé, responsabilità troppo grandi, innaturali. Dal 1907, quando con Les demoiselles d’Avignon Picasso spezzò la pittura e di conseguenza estese la riforma alla comprensione dell’arte, i critici hanno assunto una posizione di vero dominio. La valenza intellettuale del Cubismo letteralmente si opponeva al momento sentimentale, che era il momento largamente prevalente, della cosiddetta fruizione dell’opera. La sindrome magnifica e profonda, dettata da migliaia di anni di rappresentazioni artistiche non bastava più, non valeva più. Sorpassata dunque la fase sentimentale, naturale e comprensibile dell’opera, il critico diventava il titolare&maestro&custode al quale ti dovevi affidare. Era lui a sentire per te e a capire per te. Ma c’è di più, legiferando su tutto, naturalmente non trascurava il mercato. Dopo aver dunque spiegato a te appassionato, che dovevi affidare a lui il tuo sentimento e la tua cultura, poi spiegava al collezionista che per quella certa opera concettuale – e per il concetto dovevi fidarti di lui – potevi anche spendere qualche centinaio di migliaia di (diciamo per semplificare) euro. La critica d’arte, si pone così come momento indispensabile, però ti lascia al buio. Un’opera dunque non è più sentimento o sindrome personale, ma atto di fede. Naturalmente all’interno del sistema vale anche il concetto che ci siano operatori capaci che sanno decifrare ciò che il normale utente non intuisce, e che sappiano anche intuire la qualità, e che sappiano anche essere affidabili. Bacino, target, categoria, ruolo: diversi. Il critico d’arte è certo più funzionale di quello di cinema, ma, ribadisco, il fatto non è rassicurante. Definizione In un suo intervento sul Corriere Aldo Grasso recensisce il volume di Mariarosa Mancuso Nuovo cinema Mancuso. Un anno in sala con la criticona. Grasso, che non è per definizione critico di cinema, ma, forse proprio per questa ragione ne capisce molto, dopo un (sin troppo) caldo apprezzamento per la “criticona” de “Il Foglio”, ragiona sulla funzione dei critici. Col suo stile guanto di velluto, con educazione e un po’ di accademia (del resto di accademico trattasi) letteralmente tramortisce la filosofia e la funzione dei critici. Partendo da una sintesi dell’idea critica di Aristarco conclude: “Siamo riusciti a creare anche una via italiana della critica militante. Nascono così strane figure di critici, ora produttori ora funzionari Rai, ora biografi ufficiali di Fellini, che conciliano il doppio mestiere senza tanti scrupoli. A contrastare il militante, sempre per via accademica, nascono poi i critici strutturalisti, i critici sociologi, i critici semiologi, i critici narratoroligi,

i critici decostruenti capaci di produrre guasti alla lingua italiana” Magnifico. Digressione È opportuno, a questo punto, una digressione su Guido Aristarco, citato da Grasso con queste parole: “Forse molti lettori non sanno nemmeno chi sia il prof. Aristarco, ma altri ricorderanno come per anni in Italia non si sia potuto parlare di cinema senza fare i conti con l’invadente fantasma del professore.” Io sono uno di quelli che “ricordano”. Guido Aristarco è stato il protagonista “pesante” del cinema detto da Grasso, come critico, storico, intellettuale tout court. Studioso, di cultura marxista, aveva una visione cosiddetta storiografica dell’opera. Significa che le storie narrate dovevano avere sempre una base di vicenda vera nell’ottica dell’idea marxista, cioè del bene e della verità assolute. Il grande modello di Aristarco era il cinema rivoluzionario sovietico. I titoli della sua filosofia erano “Il Potemkin” di Eisenstein, ancora di Eisenstein, ¡Que viva Mexico!, episodi della rivoluzione messicana, L’uomo con la macchina da presa di Vertov, un diligente documento di vita della gente a Mosca, durante l’arco della giornata, L’arsenale di Dovzhenko, storia di uno sciopero dell’arsenale di Kiev, La terra, ancora di Dovzhenko, poema sull’ideale rivoluzionario, Ciapaiev dei Vasilyev, il sacrificio di un eroe della rivoluzione morto combattendo i Bianchi. In questi film c’erano certo momenti di grande qualità, soprattutto in Eisenstein, ma la propaganda era davvero invadente. Per Aristarco non c’era solo Russia, un’altra sua piattaforma fu il nostro realismo, che si prestava alla sua idea storiografica. La vicenda di Anna Magnani in Roma città aperta di Rossellini era quella vera di una popolana romana. Gli episodi di Paisà, ancora di Rossellini, seguivano rigorosamente il percorso della guerra in Italia dalla Sicilia lungo lo stivale fino al Po. Ladri di Biciclette di De Sica è il più efficace documento della vita della nostra gente nel primo dopoguerra. Io dico che esisteva un altro cinema meritevole e figlio di un Dio non minore. Un esempio: Cantando sotto la pioggia possiede la stessa nobiltà del Potemkin con una dotazione in più, non da poco, la felicità, e una in meno, la propaganda. Dunque “Que vive Singin in the Rain”. Con un’ultima nota: non la storiografia ma la Storia (esse maiuscola), sul marxismo ha decretato che di abbagliante abbaglio trattavasi. Discrezionalità Ma a Guido Aristarco si deve qualcosa di molto importante al di là di tutte le discrezionalità. Rapportando il cinema al sociale, alla letteratura e alle arti figurative, lo ha reso di fatto un’arte nobile. E certo non è poco. Un segnale preciso e concreto, e di grande importanza accademica è il concorso vinto dal professore per la prima cattedra di Storia e Critica del cinema, insieme a Luigi Chiarini. Successivamente, altra altissima legittimazione culturale, Aristarco divenne il titolare della disciplina del cinema presso L’Accademia dei Lincei. Comunque, il cinema gli deve molto. In chiave di legittimazione mi piace, ancora una volta citare Cesare Pavese che, alla domanda su chi fossero i suoi narratori preferiti rispose Thomas Mann e Vittorio De Sica. Per attitudine mi sento più vicino alla ratifica di un magnifico inventore di opere che a quella di un colto analista di opere altrui. Sintesi Nei miei interventi, per ragioni di sintesi e di chiarezza, ho sempre risolto i concetti con didascalie secche: “dalla parte del pubblico”; “piace alla critica dunque non piace al pubblico”; “non piace alla critica dunque piace al pubblico”;“un grande film non è mai proiettato in una sala troppo vuota o in una troppo piena.” Il discorso è molto complesso ed è impossibile tracciare una formula. Che esista la critica dei film è naturalmente legittimo. Se il critico è un competente che ti dà delle informazioni utili, allora è benemerito. Ma se vuole modellare l’utente e soprattutto l’elettore a propria immagine e somiglianza allora è ragionevole, anzi doveroso, che l’utente diffidi di lui. Al tentativo della

critica di cinema di accreditarsi come quella dell’arte, cioè come ispiratrice e compagna dell’opera, ha risposto, seccamente, un grandissimo, Dino Risi: “I critici sono coloro che vorrebbero farti fare i film che loro non sono capaci di fare.” Ma ci sono i recensori e i recensori devono scrivere, comunque. That is the question. Per la complessità della “question” una soluzione univoca, come ho detto, non è formulabile. Il fatto è che scarseggia la qualità, il materiale cui dedicarsi, un materiale che ispiri passione e una passione che ispiri scrittura. In attesa di cause migliori cui dedicarsi è auspicabile, qualche volta, rinunciare a scrivere. In Io&Marilyn c’è scarsa qualità, in Natale a Beverly Hills non ce n’è nessuna. La gente ci va con spirito festivo, senza pretese. Che ragione c’è di destrutturarli?      

  A MARGINE (ELZEVIRI)     DOVE SI PARLA DI UN DVD PREZIOSO: E DI UN FILM “GIOVANE” IN CONCORSO AL FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA   In allegato a “Famiglia Cristiana”, nell’ambito di una rassegna dedicata al cinema dello Spirito, è uscito il Dvd de La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi. Quello stesso giorno ho letto sul Corriere un articolo sul film Un gioco da ragazze di Matteo Rovere. Ho ritenuto questa coincidenza una sorta di piccolo richiamo, un “caso non casuale”, alla Thornton Wilder, su cui porre attenzione. Il “bevitore” è tratto da un racconto di Joseph Roth, uno dei massimi scrittori contemporanei, ha vinto il Leone d’oro a Venezia quando quel premio aveva un significato importante e buono, indicava davvero l’eccellenza, valorizzava titoli che avresti ricordato nel tempo. Ora non è più così, si sa. È la storia di Andreas, ex minatore della Slesia, espulso dal suo paese, che vive a Parigi, bevendo e dormendo sotto i ponti. Ecco che un uomo dolce e indecifrabile (ma sarà proprio un uomo?) gli regala 200 franchi, in nome di Santa Teresa di Lisieux. “Sono un uomo d’onore” dice Andreas “glieli restituirò.” “No” ribatte l’altro “li restituisca a Teresa, nella sua chiesa.” Andreas non ci riuscirà. Ci prova ma il caso sempre gli si oppone. Qualcuno ha proposto una grazia, quasi un miracolo, ma Andreas se lo è visto passare vicino. Il tutto nello stile del migliore (misticocolto-onesto) Olmi: la Parigi dei ponti sulla Senna e dell’autunno, gli avventori cattivi e buoni dei bistrot, la pioggia che batte sui vetri, segnale triste come il destino del bevitore, il mistero impotente che vorrebbe soccorrere e non ci riesce. Un film che non si dimentica. Un gioco da ragazze è la storia di tre liceali. Il sottotitolo informa “droga, sesso, modelli sbagliati.” Le interpreti: Desirèe Noferini. Chiara Chiti, Nadir Caselli. Veniamo a sapere che all’anteprima i genitori delle ragazze erano “imbarazzati”. Come sempre accade, ed è legittimo che accada, il film, il racconto, esaspera vicenda e caratteri, deve portare un’indicazione ed è giusto estremizzare. I modelli cui è ricorso il regista sono le adolescenti che hanno riempito le cronache nell’era recente: Erika di Novi ligure, l’assassina di mamma e fratellino, Stefania e Paola Cappa le due gemelle che posarono rossovestite in un fotomontaggio vicino alla cugina Chiara, uccisa. Tutte “attrici” che Fabrizio Corona avrebbe assoldato nella sua agenzia. Altri esempi per le tre sono le irresistibili Kate Moss e Paris Hilton. L’ecstasy viene consumata come lo zucchero, se c’è da ricattare sessualmente si ricatta, se c’è da uccidere per divertirsi, si uccide. Matteo Rovere (il regista) decisamente condanna le bad: “È una generazione fuori controllo vive in uno stato di anestesia la violenza fa parte del loro mondo”. Le condanna ma ne fa un film. La frase di lancio sarà “Non state al loro gioco, potreste farvi male”. E non c’è dubbio che il “gioco” venga mostrato soltanto come esempio da non perseguire, e non come richiamo per vendere biglietti. Ribadisco, è il caso delle due testate e delle due proposte, che mi ha portato al racconto, neppure al confronto. C’è descrizione, ci sono fatti, non discrezionalità, non giudizio. In automatico certo emerge la differenza fra un certo cinema e un altro, fra un tempo e un altro. Dunque, ribadisco, nessun giudizio da parte mia. Ma un pensiero, un auspicio, uno solo voglio riservarmelo. Il regista viene definito “lo sconosciuto 25enne Matteo Rovere”. Spero che rimanga tale. Con tutto il cuore.   L’AVVENTURA, IL FANTASY, L’HORROR, IL COMICO. DALL’ILIADE AI TRAGICI,

AI GIULLARI, A DISNEY, AI FILM “PANETTONE”: NIENTE DI NUOVO.   I titoli di maggiore incasso di una qualsiasi delle ultime annate cinematografiche ci permettono di ripercorrere tutti gli spazi di una definizione di generi più antica di quello che sembra. Prima di tutto Dante. L’Alighieri era politicamente attivo e irrequieto, è noto. Guelfo bianco, si trovò dalla parte sbagliata quando il potente Corso Donati, capo dei neri, sostenuto da Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV, irruppe in Firenze e si affrettò a condannare a morte il poeta. Così Dante cominciò il suo peregrinare fra una corte e l’altra nell’Italia del nord. Era il 1304. L’anno dopo venne accolto in Verona da Alboino della Scala, più con rispetto che con onori e opulenze. Camminando per un “duro calle” (parole sue) della città scaligera, si imbatté nel giullare di corte. Il “comico” era vestito con sfarzo, e pieno di ori, seguito da uno stuolo di ammiratori. Riconobbe Dante, gli si pose davanti, gli disse: “Un grande poeta come te cammina quasi lacero e solo? Guarda me, ignorante buffone, ricco e pieno di amici. Come mai?” Dante gli rispose:”Perché ce ne sono molti di più dei tuoi che dei miei.” Non fa una grinza. Allora e oggi, il buffone “incassava” di più. Lo spettacolo leggero, chiamiamolo così, proviene da molto prima di Dante. Atene del IV secolo (avanti Cristo) pose le basi della cultura fondamentale del mondo occidentale. Ma non c’era solo la filosofia o la tragedia. In (quasi) contemporanea con Platone, Aristotele, Eschilo Euripide e altri, operavano Menandro e Aristofane, che non è blasfemo definire “comici”. Nella Roma di Augusto veniva rappresentato il “leggero” Plauto che certamente portava in teatro più pubblico degli stessi tragici greci o dei sommi Orazio, Ovidio o Virgilio, che leggevano i loro canti. Categorie di evasione diverse, alle quali si aggiungeva quella del buffone, anche allora tenuto in grande considerazione. Tre gradi di rappresentazione dunque: colta, leggera, comica. La triplice regola che è valsa nell’antichità e poi salendo fino a noi, attraverso momenti decisivi come le corti del Rinascimento, di Elisabetta prima, della Versailles del re Sole, e su fino al 1895 quando i Lumière inventarono il cinema che assestandosi assunse in proprio le tre categorie. E le categorie dettarono le loro regole, a volte impietose e tristi. Come quella di un Fellini costretto, per gli ultimi film, a faticare per trovare produttori, anche se alla fine c’era sempre qualcuno che si accollava il rischio, perché anche un fiasco, al botteghino, con Fellini era prestigio, valeva sempre la pena. Il cinema moltiplicò i generi, inventò subito il fantasy (Méliès per esempio) e l’horror (i Frankenstein e Nosferatu) generi oggi vincenti al botteghino. Ma anche lì era stato preceduto, da lontanissimo. L’Edipo re di Sofocle (430 a.C.) presenta elementi esemplari del genere: le fila vengono tirate dall’indovino Tiresia, che scruta il passato e il futuro, Edipo scopre, alla fine, di essere l’assassino, ignaro, di suo padre e si strappa gli occhi per non vedere più il solo testimone del suo atto. Sapevano anche questo, allora. Una manifestazione horror, e che horror, erano certamente le lotte nell’arena, fra gladiatori, o fra umani e bestie feroci. Reality strepitosi. Cinema. Adesso l’utenza è frammentata. Fellini e Visconti non ci sono più. L’opera assoluta non trova cittadinanza. Abbiamo, da noi, alcuni autori discreti e incerti ma che devono essere enfatizzati, non faccio nomi, che non incassano un decimo del costo del film. Abbiamo l’evasione detta sopra certo. La cifra comica di un Verdone, poi la categoria successiva di un Benigni di qualche anno fa e quella accreditata, spesso elevata di un Moretti quando ha voglia di divertire. E poi c’è il fuori categoria dei “panettoni”, dei giullari appesantiti dall’oro e dalla corte, dei miracoli. I cinque titoli che comandano gli incassi a fine 2009 raccolgono la somma

dell’utenza e rappresentano tutti i codici del gradimento. Twilight è in testa. Trattasi di fantasy con trovata (un vampiro che rifiuta il sangue) scritto e diretto da una brava, Catherine Hardwicke. Un genere trasversalmente vincente. Segue Bolt, di Disney, e Disney inventa se stesso e anche una parte di tutti noi, da settant’anni ed è una costante eterna e magnifica fuori dai contesti. Nessuna verità, di Ridley Scott è l’avventura ricca che ha sempre il suo appeal, così come ce l’hanno i protagonisti-divi Di Caprio e Crowe. E l’avventura è proprio l’antropologia della fiction, arriva ancora da più lontano. L’Iliade e l’Odissea hanno 3100 anni. Segue La fidanzata di papà, il panettone con relativi adepti. Quinto è Changeling di Eastwood. Il suo dovrebbe essere un film d’autore puro, ma si avvale della Jolie, non solo diva, ma forse donna più popolare del mondo. Diciamo che il film d’autore purissimo dovrebbe poter fare a meno di lei: un Ladri di biciclette non aveva bisogno della diva. A chiusura una citazione opportuna, una sintesi veloce ed esatta: “Non c’è differenza fra i versi immortali di Shakespeare e il magico ritmo dei piedi di Gene Kelly.” Jack Buchanan a Fred Astaire in Band Wagon (Spettacolo di varietà), un musical del 1953, di Minnelli.   IL RICCIO: UN FILM DAL ROMANZO DI MURIEL BARBERY DIVENUTO UN “CASO” LETTERARIO   Scrivendo tempo fa dei “Buddenbrook”, il film presentato a Natale 2009 in Germania, rilevavo, attraverso la metafora della decadenza di quella famiglia dell’alta borghesia tedesca, l’affermazione delle classi popolari emergenti a fronte di una classe borghese certamente rafinata e sensibile, ma sempre più incapace di far fronte ai cambiamenti, di difendersi. E coglievo l’analogia di quel momento con questo momento. L’ ascesa della nuova classe che sorpassa quella dominante e statica, può valere l’attacco delle nuove economie del mondo che mettono in crisi i giganti statici dell’occidente. Il romanzo di Thomas Mann è uno delle opere fondamentali della letteratura del novecento. È lì, è storicizzato, è un caso letterario perenne, ha cercato e trovato. Ha insegnato. Poco più di un secolo dopo ecco un romanzo francese, L’eleganza del riccio, firmato da Muriel Barbery, diventato di moda. Un bestseller che, come si dice, ha fatto tendenza. Nel 2008 il romanzo è stato anche in testa alle classifiche italiane. Non è un “Buddenbrook” naturalmente, fra un secolo non verrà citato come testo promotore di qualche idea che abbia annunciato trasformazioni o addirittura le abbia prodotte. Tuttavia è stato molto letto, soprattutto dalle donne, ed è diventato, a sua volta, un caso. “Riccio” è pronunciatissimo, fa salotto, ed è diventato un film. E ribadisco ancora una volta: quando un romanzo diventa film è sempre una buona notizia. Rue de Grenelle Protagonista della storia è Renée, portinaia in rue de Grenelle 7, un palazzo abitato da famiglie della buona borghesia: politici, intellettuali, industriali. Nel romanzo la protagonista descrive se stessa: “Mi chiamo Renée. Ho cinquantaquattro anni. Da ventisette sono la portinaia al numero 7 di rue de Grenelle, un bel palazzo privato con cortile e giardino interni, suddiviso in otto appartamenti di gran lusso, tutti abitati, tutti enormi. Sono vedova, bassa, brutta, grassottella, ho i calli ai piedi e, se penso a certe mattine autolesionistiche, l’alito di un mammut. Non ho studiato, sono sempre stata povera, discreta e insignificante”. Ma è una descrizione riduttiva, provocatoria, perché in realtà la donna si è fatta una sua cultura, profonda e complessa, ascolta la musica di Mahler, legge libri di filosofia e di narrativa che guarda all’oriente. Il suo regista preferito è il giapponese Ozu, uno di nicchia, come si dice. Il suo gatto si chiama Lev, come Tolstoj. Tuttavia la donna è una portinaia e dentro quei confini intende restare. Gli inquilini

dovranno vederla in quel ruolo secondo cultura e convenzione. Dunque Renée fa tutto per essere portinaia, lascia acceso il televisore che non guarda, “consuma” cibo e prodotti secondo lo stereotipo che le apparterrebbe e resiste, a fatica, alla tentazione di correggere termini e sintassi degli inquilini. La donna potrebbe dunque rappresentare quel carattere popolare evoluto, seppure con un certo disordine, che richiami la classe emergente della Germania descritta da Thomas Mann. Una classe che si “autoistruisce”, prende coscienza e si confronta. Un altro personaggio che si pone come antagonista, decisivo, è Paloma, dodicenne figlia di un politico stupido, ragazza ipersensibile oppressa da malesseri distruttivi e già stanca di vivere, che decide di togliersi la vita, ma non subito. Nel frattempo reciterà il ruolo di ragazzina “normale”, comunicando, agendo e mostrandosi anche lei, secondo il cliché che il mondo si aspetta. Renée e Paloma, diverse in tutto, ma solo in apparenza, catalizzeranno le storie del condominio. I destini saranno segnati. Femminili I protagonisti del Riccio, che siano personaggi o autori o artisti, sono dunque tutti, rigorosamente, femminili. Muriel Barbery, l’autrice, è nata a Casablanca nel 1969, vive in Normandia ed è docente di filosofia presso l’istituto universitario di formazione degli insegnanti. Si può dire che il successo del suo romanzo l’abbia quasi colta di sorpresa. L’attrice produttrice Josiane Balasko, cinquantenne che corrisponde in modo singolare e anche un po’ inquietante alla descrizione che Renée fa di se stessa, ha acquisto i diritti del libro quando non era ancora un bestseller. La Balasko si è fatta notare, come regista, al festival del cinema di Roma 2009 col suo Il cliente. Ma per il Riccio l’attrice ha affidato la regia a Mona Achache, ventisettenne debuttante. Le due donne hanno lavorato alla sceneggiatura cercando un compromesso fra le differenze naturali delle due comunicazioni, il libro e il film. La voce narrante in prima persona è un artificio che può aiutare, narrandola spiegandola, la fase introspettiva, ma occorrono dei correttivi per i tempi. Due pagine di narrazione spesso devono diventare cinque righe di parlato. Ed ecco il delicato lavoro di adattamento, perché non si può perdere il sapore letterario che è una delle ragioni del successo del romanzo. La Balasko si è ritagliata naturalmente la parte principale affidando quella dell’adolescente Paloma alla tredicenne Garance Le Guillermic. Tutte donne per qualcosa di squisitamente francese.   APPALOOSA: IL WESTERN CI RIPROVA   Col nuovo western Appaloosa è in atto l’ennesimo rilancio del genere. Il film è diretto da Ed Harris e presenta nomi importanti come Viggo Mortensen, Jeremy Irons e Renée Zellweger. È la storia di due uomini di legge che cercano di portare la legalità in una cittadina di minatori dominata dal cattivo. Il tema è squisitamente western e tutti ci si sono messi con impegno, ma riproporre, rigenerare, reinventare, davvero non sarà semplice. Il western, dagli anni Sessanta, cioè dal suo declino, è morto e risorto più volte: va detto che ogni resurrezione era sempre meno vitale. È stato trattato e maltrattato, aggiornato, rivisitato, adattato alle epoche. Il western è qualcosa di molto serio e anche semplice. Si sarebbe volentieri fermato agli anni Cinquanta, quando i codici erano univoci e ingenui, del tutto lontani dalla realtà di quella landa lontana. Il west non è mai stato il western. Quando i due concetti sono venuti a contatto, il genere è stato ferito a morte. Nei film gli eroi erano eroi, le donne belle, l’onore era l’onore, non si sparava alle spalle, il bianco era civile, l’indiano era un selvaggio, i bottoni brillavano sulle divise blu, la colt era cromata, la tesa dello Stetson stirata, la criniera del cavallo lavata con lo shampoo, l’iride sempre azzurra. Tutto questo era un abnorme, magnifico imbroglio.

Gli autori western avevano un alibi di ferro, e se lo giocavano: la Frontiera. Parola magica detta (da Kennedy) e ridetta (da Obama). Frontiera significava civiltà che avanzava da est a ovest e un ostacolo alla civilizzazione erano gli indiani, appunto. E dunque loro impedivano il progresso, loro erano i cattivi. Tutto semplice. Il west era altra cosa. Genti venute da tutti i continenti, cacciata via e fuggita per fame. Classi di scarsa educazione. Avevano lo stesso odore delle mandrie che trasferivano, non duellavano in velocità, se c’era da sparare si sparava, davanti o dietro. Le donne lavoravano la terra e mettevano le trappole. Non assomigliavano a Rhonda Fleming o a Jane Russell. Ci sono delle immagini di Calamity Jane, non era come Doris Day, era un mostro mascolino. Poi arrivò la stagione dei valori capovolti, delle differenze, delle minoranze, delle rivendicazioni, dell’ecologia. Erano i primi anni Settanta, i titoli erano Il piccolo grande uomo, L’ uomo chiamato cavallo, Soldato blu. Con quei film gli indiani divennero i buoni, Custer divenne un assassino di donne e bambini, Gary Cooper una favoletta, John Wayne un fascista, Errol Flynn un cretino, Alan Ladd un buono grottesco. L’amicizia virile diventava omosessualità latente. Cooper e gli altri erano il cinema, il nuovo western voleva essere il west, la verità, la storia. E con la verità e la storia, è una questione di termini, moriva la leggenda. Ne I comanceros il ranger Wayne dice a un ricercato che cerca di corromperlo: “Io ho quella che tu consideri una debolezza, sono onesto”. Ne Gli invincibili un’elegante signora dell’Est dice a Gary Cooper: “Se ti guardo negli occhi non vedo mai la mia immagine vedo orizzonti, vedo montagne inesplorate e l’infinito. La tua vita è là, come quella dell’aquila è nel cielo”. In Shane Alan Ladd dice al bambino “cerca di diventare forte e leale.” Massime, indicazioni, davvero ridicole, oggi. E si capisce come il western, quello vero, non trovi più cittadinanza nel cinema del nostro tempo e nel nostro tempo. Va detto che molti divi, nell’era recente hanno toccato il western. Il genere fa parte dell’antropologia del cinema americano, dunque dell’antropologia dei divi. Kevin Costner ha fatto Balla coi lupi, una grande opera tragica, promemoria della cultura indiana nella sua purezza. Poi ha interpretato Wyatt Earp facendo dello sceriffo eroe una sorta di capo racket che estorce tangenti. Henry Fonda e Burt Lancaster lo avevano rappresentato come eroe tout court, grande simbolo dello spirito americano: un altro segnale di contrasto fra mito e realtà. Brad Pitt è Jesse ne L’assassinio di Jesse James, (2007). Ne fa un cialtrone psicopatico che ammazza senza pietà sparando alla schiena. Non stai dalla sua parte. Nel western dell’età dell’oro, Tyrone Power ne aveva fatto una vittima delle ingiustizie costretto, suo malgrado, a diventare fuorilegge. Stavi dalla sua parte. È molto probabile che avessero ragione i revisionisti. Verità west e leggenda western. Non sono mancati negli ultimi anni, tentativi di ripristino del genere, pure nel contesto detto sopra. L’ottimo Ron Howard nel 2003 ha diretto The missing, con Tommy Lee Jones e Cate Blanchett. E qui l’antropologia gioca davvero, perché Ron era il ragazzo al quale John Wayne dettava il suo testamento morale ne Il pistolero, il suo film d’addio. Era il 1976. Il 2006 è un anno ricco di west. Tre titoli interessanti. Lo specialista Walter Hill ha diretto, Broken Trail, con Robert Duvall. Tre cow-boy conducono una mandria e un gruppo di ragazzine destinate a un bordello in un villaggio di frontiera. Persino le spericolate di moda Penélope Cruz e Salma Hayek si sono affacciate al western con Bandidas, memori delle performance di Brigitte Bardot e Claudia Cardinale ne Le pistolere. I divi Liam Neeson e Pierce Brosnan, caratteri davvero lontani dal western, si sono uniti in Caccia spietata di David Von Ancken. Il tema è quello del fuggitivo, Brosnan, e del cacciatore, Neeson, entrambi reduci, di parti diverse, dalla guerra civile. Grandi temi western dunque. Rivisti. Nel 2007 Russell Crowe si è prestato per un remake suggestivo, Quel treno per Yuma. Il

regista Mangold ha cercato di tenersi il più possibile vicino al sentiero tracciato da Delmer Daves nel 1957 e al protagonista di allora Glenn Ford. Nel quadro dell’evoluzione naturale, maggiore violenza, maggiore verità, ritmi diversi, il compito è stato eseguito correttamente. Ecco, “corretto” è il risultato massimo che può ottenere il remake di un classico. E anche il remake del western. In tutta questa contemporaneità, lo spirito e l’estetica vogliono essere quelli del west, della realtà, della non-leggenda. Il mito non può trovare cittadinanza. Il cinema, l’ambiente tutto, le culture tutte, non si adattano. Il vecchio eroico genere proprio non trova l’ossigeno suficiente alla sopravvivenza. Poi c’è l’utenza. Chi era ragazzo e ha visto quei western nelle sale, e chi li ha visti nelle rassegne o in televisione, e li ha amati, non può condividere lo stesso sentimento per questi western evoluti. Anzi, il sentimento diventa opposto: questi, proprio non riesci ad amarli. E a chi è legato a Brad Pitt attivo a New York o a Las Vegas, importa poco di vederlo in sella nella strada fangosa di un villaggio con baracche di legno a un piano. Il western adesso: non è facile.   TENTATIVO DI EPICA   Con Appaloosa e Australia va rilevato un tentativo di riesumare e reintrodurre l’epica nel cinema. Appaloosa è un western con estetica e contenuti vicini alla realtà del west, sporco e cattivo, piuttosto che al western mitico degli anni ’50. Comunque la prima opzione dell’eroe individuale che affronta l’ingiustizia è stata riproposta. Con una differenza: in quei western l’eroe faceva giustizia, in questi tenta di farla. Dunque l’intenzione è buona, il mito, se non si palesa, cerca almeno di darsi un disegno, di farsi riconoscere. Australia vuole essere saga, sentimento, paesaggio, violenza, storia, dolore e amore. Vuole essere epica. E per tanta impresa il regista Baz Luhrmann non se l’è sentita di inventare tout court; ci sono generi e categorie che nella nostra epoca stentano, figuriamoci l’epica. Il cinema, e non solo, non possiede più la chimica per comporla. E così la produzione UsaAustralia, Luhrmann e gli sceneggiatori Ronald Harwood, Stuart Beattie e Richard Flanagan, hanno deciso di giocare sul sicuro, di ispirarsi ai grandi codici passati senza nasconderlo. Era la migliore soluzione possibile. Hanno selezionato e riprodotto sequenze che fanno parte della più bella dotazione sentimentale trasmessa dai film. Hanno costruito un prodotto (sì, un prodotto) che funziona nell’emozione, nell’estetica e anche nei ricordi. Di nuovo, di attuale, c’è la confezione. C’è lo stile, il linguaggio, la velocità, l’aggressività, l’acrobazia del regista, specialista in musical e in sequenze frenetiche. Codici: La mia africa La prima parte, nel contatto fra la lady londinese e gli autoctoni australiani, bianchi, neri, aborigeni, la storia vive di ironia mistica, con episodi di suggestione violenta, come quando il bambino mulatto, con un sortilegio tutto suo, che gli ha infuso il nonno aborigeno, ferma sull’orlo dello spaventoso precipizio una mandria di bovini, ponendosi davanti a loro, guardandoli negli occhi e cantando. Nicole Kidman si insedia e incontra il suo cow-boy Hugh Jackman. Proprio come Meryl Streep, ne La mia Africa, prendeva possesso della sua tenuta in Kenja, innamorandosi del suo aviatore avventuriero Robert Redford. Le atmosfere descritte dalla Blixen e rappresentate da Pollack sono davvero simili a quelle di Australia. Sempre di colonia inglese trattasi, in epoche non lontane peraltro. Così come Meryl, Nicole si innamora di un paese selvaggio ed estremo. Lo comprende, cerca di farlo suo e di imporre la propria personalità. Rossella e Lawrence E poi Via col Vento. Nicole-Lady Sarah e Vivien-Rossella si richiamano. Compiono azioni coraggiose, nelle loro comunità piene di pregiudizi, si distinguono, anzi fanno scandalo. Luhrmann rifà, letteralmente rifà, alcuni degli episodi salienti del film tratto dal

romanzo di Margaret Mitchell. Uno è il gran ballo organizzato al Circolo esclusivo di Darwyn, che richiama con grande precisione quello del gran bazar di Atlanta, dove GableRhett corteggia Rossella vestita a lutto, dopo aver vinto il ballo con lei all’asta offrendo una cifra altissima. Anche Nicole-Sarah viene “vinta”. Ma le regole del cinema contemporaneo, soprattutto quelle di Luhrmann vogliono che il ballo debba essere sostenuto e integrato con un’azione parallela. E così il tempo della danza viene usato per un discorso importante, decisivo, viene ottimizzato. Azione su azione, somma di intensità. Rhett e Rossella ballavano guardandosi negli occhi o scambiandosi qualche frase banale, il volteggio viveva di luce propria. Ancora, l’evacuazione di Darwyn sotto i bombardamenti dei giapponesi assomiglia molto a quella di Atlanta cannoneggiata dal generale Sherman. Australia va poi a toccare un altro gigante, Lawrence d’Arabia. Molte scene di deserto riproducono quell’estetica che ha creato un precedente e ha fatto storia. Il deserto australiano è diverso, non presenta le dune morbide africane, ma il teleobiettivo di Luhrmann fa tremolare le figure lontane come faceva Lean inquadrando Omar Sharif che avanzava misterioso e minaccioso verso il pozzo là in fondo alla sabbia. Così come O’TooleLawrence, anche Lady Sarah e il suo amante violano un deserto mai violato. E quando Lawrence, col suo giovane amico arabo, entrambi stremati, arriva al circolo ufficiali di Damasco, l’ inglese viola un’altra tradizione inviolabile, costringe il barman a servire un non-inglese. Scandalo. È la stessa azione che compie il cowboy Jackman, costringendo il barista a servire il suo amico aborigeno. Oz E poi Il mago di Oz. Il musical attraversa Australia con la sua canzone portante, Over the rainbow, e con molte sequenze inserite integralmente. Tocchi e ritocchi di sentimento magari facile, ma certo efficace. Nel finale del film tutto si ricompone, chi è perduto è ritrovato, chi è malvagio è punito. Ma c’è un’ultima appendice quasi inattesa, un’indicazione di ritorno alla purezza primitiva, un altro codice implacabile, un altro compagno di viaggio forte e garante, il mito di Tarzan. Richiami e citazioni: tutto questo sarà un trucco, un imbroglio corretto, a molta critica non piacerà, ma la contaminazione fa sì che l’utenza esca dalla sala col cuore pieno. Di questi tempi non è poco.   QUANDO IL LIBRO È ATTORE   Letteratura e cinema, due spunti. Il primo deriva dall’intervento di Salman Rushdie, sul Corriere della sera del 2 Marzo 2009. Lo scrittore indiano usa il film The millionaire vincitore di 8 Oscar, diretto da Danny Boyle, dal romanzo di Vikas Swarup, come un assunto: il film quasi sempre rende un cattivo servizio al libro. Forse non c’era bisogno di Rushdie per questa verità, comunque la sua è un’opinione che si aggiunge e che conta. Conosco ‘strutturalmente’ l’argomento nei vari aspetti. Ho detto e scritto che ci sono alcune eccezioni, per esempio Il gattopardo e L’età dell’innocenza dove Lampedusa e la Wharton sono ben supportati da Visconti e Scorsese tanto da omologare le due opere, anzi quattro, allo stesso livello, altissimo. Ho riscontrato che anche lo scrittore indiano cita, in positivo, quegli stessi titoli. Trattasi dunque di non discrezionalità, ma di codici più o meno generali. Rushdie accusa il regista Boyle di “bollywoodizzare” la storia, di mostrare una realtà autoctona che non è quella del romanzo e tanto meno del paese. Il film avrebbe reso spettacolare la povertà. È un “difetto” (e rilevo due volte il virgolettato) di chimica del cinema, al quale lo spettacolo e il lieto fine stanno come l’ossigeno sta all’acqua. C’è stato di peggio, faccio un esempio: Avere e non avere di Hemingway, con un finale tragico perfetto

per la storia e trasformato da Hollywood in un happy end con lui e lei che se ne vanno felici. Succedeva quasi sempre così. Che la letteratura prevalga sul cinema è assodato, ed è tangibile. E qui mi riferisco al secondo spunto: il film The Reader, di Stephen Daldry, protagonista Kate Winslet premiata con l’Oscar. Anche questo film è tratto da un romanzo definito “semiautobiografico”, ma non è rilevante, anche se lo spunto è la letteratura. “Tangibile” perché in The Reader la letteratura, lo scritto, la parola, agiscono come attori. La Winslet è Hanna, che negli anni Sessanta seduce il 17enne, ma già abbastanza maturo, Michael. Musa, quell’uom… La donna, analfabeta che non lo vuol far sapere, chiede al ragazzo di leggerle dei libri. Si comincia con l’Odissea. “Musa, quell’uom di multiforme ingegno / Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra / Gittate d’Ilïon le sacre Torri; / Che città vide molte e delle genti / L’indol conobbe; che sovr’esso il mare / Molti dentro nel cor sofferse affanni.” Durante la lettura il film si ferma, per rispetto, per sortilegio, per Omero. È in quel momento che le due “forme” si trovano l’una di fronte all’altra. Il confronto è impietoso, i versi annientano il cinema. Va detto che il confronto è proditoriamente impari, infatti è in scena l’ Odissea, l’opera cioè che una prevalente corrente di pensiero considera il vertice della letteratura di ogni tempo. Altro che rispetto. Nel prosieguo della storia scopriamo che Hanna è una ex Kapò. Viene processata, emerge che in un lager, al momento “opportuno”, per fare spazio a diecimila nuove internate, organizzò l’uccisione di diecimila eccedenti. Hanna, precedentemente capo(Kapò)-operaia in una fabbrica, si poneva solo il problema dei numeri e dell’eficienza. Come quando aveva lasciato bruciare vive, serrando le porte, 300 prigioniere ebree in una chiesa bombardata: se si fossero disperse all’esterno sarebbe stato quasi impossibile gestirle. Naturalmente Hanna rappresenta quella parte di Germania cieca e ottusa dedita all’obbedienza assoluta, che si prestò a quella tragedia abnorme. Quando è in prigione il ragazzo diventato uomo le manda i nastri incisi con le letture di altri capolavori: Guerra e Pace di Tolstoj, La donna col cagnolino di Cechov, L’amante di lady Chatterley di D. H. Lawrence fra gli altri. Ma è l’Odissea a tornare e ritornare. E su quei versi Hanna, confrontando l’audio con lo scritto, impara a leggere. E con la lettura e la cultura arriva la consapevolezza e la memoria compone le sue azioni di una volta nella giusta dimensione. E Hanna non può davvero reggere il suo passato. Dunque il versi più alti come estetica, come comprensione, e come primato. Il regista fa leggere tre volte l’incipit di Ulisse, e ogni volta le immagini e i suoni si arrestano attoniti. È la prevalenza del grande libro. Il cinema a volte si è avvalso di inserti di pura scrittura, ha approfittato di quella nobiltà per darsi qualità. E il trucco ha funzionato, e come. Dickens Il libro prediletto da Margaret Mitchell, l’autrice di Via col vento, era David Copperfield, di Dickens. Nel film c’è un episodio in cui Rossella viene aggredita da due neri in un ghetto. Alcuni sudisti, fra cui Ashley e Franco, mariti di Melania e Rossella, organizzano una spedizione punitiva. Se verranno scoperti saranno impiccati. Le donne, in casa, aspettano, la tensione è quasi mortale. Occorre applicarsi in qualcosa. Melania ha in mano il romanzo di Dickens. Comincia a leggere: “La mia nascita. Per cominciare la mia vita dall’inizio devo registrare che sono nato” La lettura viene interrotta dall’irrompere di un capitano nordista con la sua scorta. Domanda degli uomini, Melania racconta una bugia. “Aspetteremo fuori” dice l’uficiale. La donna riprende la lettura: “Capitolo sesto. Il mio compleanno fu memorabile, non mi dilungo su ciò che successe a scuola finché non si giunse al mio compleanno in marzo. Se si eccettua che Stilford era sempre più bello, non ricordo altro.

Doveva lasciarci verso la metà dell’anno, se non prima, ed era più animoso e indipendente di prima secondo me, e perciò più avvincente del solito, ma oltre a questo non rammento niente.” Le parole, in una situazione così sospesa e opprimente diventano fisiche, diventano attori. Grandi attori. Nel film The Man on the Moon Jim Carrey dà corpo e volto a Andy Kaufman, un comico mattoide e geniale. Una delle sue performance consiste nella lettura integrale de Il Grande Gatsby di Fitzgerald. Ci vorranno ore. Nel film il regista Forman stralcia l’incipit e il finale del grande romanzo americano. Carrey-Kaufman legge: “Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. «Quando ti vien voglia di criticare qualcuno» mi disse «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.» E termina: Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia e una bella mattina. Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.” Forman, che è un grande autore ci ha messo il film ma Fitzgerald, che è un autore ancora più grande, ci ha messo il romanzo col suo incanto più alto. 2 volte ermo Ne Il postino Philippe Noiret è il grande Pablo Neruda e Massimo Troisi il postino che gli recapita la posta nella piccola isola (Procida) in cui il Premio Nobel è esiliato. Neruda, che ha simpatia per lui, davanti al mare gli recita alcuni dei suoi versi: “Il pericolo scese dalle cupole/ dilagò da navate di tormenta/ ma nel tuo ermo dorso c’è la vita/ come una vigna sotto il mare, che arde/ inconsumata e fa durare il fuoco/ fino alla primavera della neve.” Altra nobiltà prestata al cinema. Ne Il federale, di Salce, Tognazzi fa il fascistello ottuso, grottesco. Deve trasportare in moto un prigioniero politico, un professore, Bonafé, che si porta sempre in tasca un minuscolo libro coi canti di Leopardi. Tognazzi usa, uno per uno, quei fogli sottili per farsi le sigarette. Ma rimane L’infinito, che Bonafé legge di notte, in un prato, col fuoco acceso. Vorrebbe che l’altro capisse, ma l’altro non capisce. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle / E questa siepe che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.” E tutto si ferma, come con Omero.   UN DVD PREZIOSO: PORTA UN BACIONE A FIRENZE   Partivo una mattina col vapore E una bella bambina lì arrivò Vedendomi la fa scusi signore, Perdoni lei è di Fiore sì lo so Lei torna a casa lieto bello vedo Ed un favore piccolo gli chiedo La porti un bacione a Firenze Che l’è la mia città ma in cuor l’ho sempre qui La porti un bacione a Firenze Io vivo sol per rivederla un dì La nostra cittadina, graziosa e sì carina La c’ha tant’anni eppure non invecchia mai Porti un bacione e Firenze Di tutti i fiorentini che incontrai È una strofa della canzone di Edoardo Spadaro, simbolo della nostalgia fiorentina, che accompagna i titoli di testa.

La prima inquadratura è di New York, dove Simonetta è stata operata agli occhi. Torna a Firenze ospite del conte Giulio (interpretato da Nino Besozzi), che l’ha vista nascere. Il conte non ha un soldo, sopravvive vendendo i mobili di palazzo. Il suo maggiordomo è Sergio Tofano, mostro sacro di cinema e teatro, carattere strepitoso, come Besozzi. Classe, dolcezza, serenità, dei due grandi attori. Sono rassicuranti. La regola di vita del nobile è “bisogna lavorare poco e quel poco lasciarlo fare agli altri, mi spezzo ma non mi impiego”. A Simonetta dà corpo e volto Milly Vitale, grandi occhi azzurri, classe vera, bellissima: era figlia d’arte, padre direttore d’orchestra, madre coreografa, nonna soprano. Gli attori di quelle stagioni erano così. Milly fu una delle pochissime attrici italiane ad essere chiamata a Hollywood. Cary Grant A Firenze Simonetta conosce Alberto, giovane scultore. È amore a prima vista. L’attore è Alberto Farnese, che ebbe allora (siamo nel 1956) discreta fortuna. Un belloccio fatto quasi in laboratorio a immagine di Amedeo Nazzari. I due sono doppiati da Lidia Simoneschi, la voce di Vivian Leigh, e da Gualtiero De Angelis, quella di Cary Grant. E così i giovani amorosi diventano deliziosamente enfatici. Lui la porta a camminare sul Ponte Vecchio, poi a visitare gli Uffizi. Dunque excursus sugli angeli di Simone Martini e sulla Primavera di Botticelli, davanti alla quale le rivela il proprio amore. In carrozzella, col nobile Giulio, visita il resto di Firenze. E mentre passano in piazza Santa Maria Novella e piazza Della Signoria, davanti ai monumenti, arriva la voce di Claudio Villa che canta “Firenze stanotte sei bella in un manto di stelle” e quella di Nilla Pizzi: “È primavera, svegliatevi bambine…” Sotto il sole La città è sempre sotto il sole. La gente gira lenta, seduti ai caffè, i giovani guardano le ragazze, i grandi leggono La nazione. Nessuno è aggressivo, nessuno si fa spinelli. Non c’è rabbia, non c’è frenesia. A sera, prima di Carosello, il telegiornale, uno solo, darà notizie diverse dalle nostre di adesso. Simonetta e Alberto decidono di sposarsi. Si inserisce un’adolescente innamorata (ma non riamata) dell’artista. Complica un po’ le cose. Simonetta ha un incidente in macchina (la stessa Aurelia di Gassman nel Sorpasso) e ha una ricaduta. Torna cieca. Ma sarà operabile e tornerà a vedere, forse. Disperata, e per non mostrarsi in quelle condizioni l’eroina decide di tornare in America. Si imbarca sulla leggendaria Andrea Doria, il gioiello della nostra Marina mercantile, che affonderà l’anno dopo non lontano dalla costa americana. Da un rimorchiatore Alberto salta sulla nave all’ultimo momento. I due si abbracciano. C’è da supporre che tutte le signore in sala piangessero. Stringendo l’amata Alberto le dice: “Vedrai ancora, perché l’amore è più forte di tutto”. Ben Stiller Non esiste film più prevedibile, e banale. Tutto è ingenuo, il mélo è scontato, sai già che tutto finirà bene. Per le ultime generazioni di utenti la Firenze di “Porta un bacione” è un paese incomprensibile, quei modelli sono degli ufo, cos’hanno a che vedere con un Ceccherini, una Littizzetto o una Asia? Meno che nulla. E quelle strade e piazze inerti sotto il sole? E quelle battute certo troppo portate rispetto alla regola della recitazione “naturalistica” che appartiene ormai a tutti i nuovi attori italiani? Il regista è Camillo Mastrocinque, un cosiddetto mestierante che intendeva semplicemente raccontare, e lo sapeva fare: quanti film con Totò, giusto per fare un nome. Certo, Porta un bacione a Firenze avrebbe perfetta cittadinanza nel museo di Ben Stiller. E dico che, come gli ospiti di quel museo, il film si animerebbe. Ne avrebbe il diritto e l’energia. Ho chiesto notizie alla Medusa che lo distribuisce. Ebbene il titolo funziona. È una buona boccata d’aria. Quella Firenze degli anni cinquanta - che è il decennio più bello del cinema - così banale e pulita.

E in questa piattaforma e in questo tempo, l’abbiamo evocata, Firenze.   TOM FORD, UN TEXANO A MILANO   È certo legittimo affermare che Tom Ford sia una delle più importanti firme della moda nel mondo. Texano di Austin, classe 1961, ha cominciato studiando arte e architettura a New York. A suo tempo ha “ricreato” Gucci e Saint Laurent, poi si è messo in proprio. Il suo stile e il suo marchio sono parte integrante dell’estetica dell’era contemporanea. Grande mano di disegnatore, eroe della moda, adesso è approdato al cinema, firmando A single man, tratto dal romanzo di Christopher Isherwood. Tom, che si sente milanese di adozione, ha voluto che il suo film, dopo il passaggio veneziano, partisse proprio da Milano, dal cinema Colosseo. L’iniziativa la si deve a Massimilano Finazzer Flory, assessore alla cultura, che sta facendo della città un centro europeo visibile, privilegiando movimenti dell’arte e della cultura decisivi, storicizzati o contemporanei. Eleganza Quasi cinquantenne Ford non dimostra un giorno più di trent’anni. Superfluo dire della sua eleganza, abito nero e camicia bianca, e della sua cura del dettaglio essenziale. Dice di sentirsi davvero milanese, parla italiano ma aggiunge “sono più intelligente se parlo in inglese.” Parla di sé anticipando gli argomenti. Risolve subito la sua omosessualità dicendo che comunque se si parla di identità, sua o di chiunque, non è l’aspetto etero o omo quello che conta, ma il carattere, la sensibilità, l’onestà, la capacità professionale. Dichiara di avere un compagno, lo stesso, da 23 anni. I suoi amori cinematografici sono i maestri, cita qualche “muto”, poi Antonioni e De Sica, e fa un titolo preciso Umberto D. E poi naturalmente, per il linguaggio e la tensione, Hitchcock. Tom Ford ha assunto una tale importanza, viene da un tale esercizio di design, di moda e di estetica generale che l’approdo al cinema era proprio naturale. Tuttavia ha resistito alla tentazione del solipsismo. Si è affidato alla piattaforma di un libro, cioè alla sicurezza della letteratura, arte nobile, e di una vicenda raccontata da un romanziere, non da uno sceneggiatore puro. Con lo scrittore si è sentito tutelato, anche se non ha rinunciato a metter mano alla stesura della sceneggiatura. Certo ci sta, e Ford è a sua volta una garanzia, lui artista vero con la dotazione di una sensibilità generale che gli permette di intervenire, a posteriori, a supporto, sulla scrittura. Io stesso ho voluto sciogliere quel nodo: la scrittura. Tom Ford si è dunque applicato al disegno, alla moda, poi al cinema e alla scrittura. Gli ho chiesto di farmi una sua classifica di arti in una specie di gerarchia del cuore. Ha detto che per attitudine e professione non può fare differenze. C’è il cuore, ci sono le arti ma non c’è una gerarchia. Forse non poteva dire diversamente, non poteva esporsi, peraltro in un auditorio pieno di artisti di tutte le arti. L’auditorio, appunto, era davvero importante, da Fiorucci e Donatella Versace a Francesco Alberoni, fra tanti altri. Inglese L’autore del romanzo è Christopher Isherwood, inglese, nato nel 1904 e morto nel 1986. Va detto che Isherwood non è mai stato tanto popolare come adesso. Lo deve al cinema naturalmente. Truman Capote scrisse nel ’58 Colazione da Tiffany, divenuto film tre anni dopo. E fu appunto dopo Audrey Hepburn che Capote fece il salto di popolarità e di vendite. Così come Umberto Eco divenne autore del mondo dopo la versione cinematografica (’86) del suo romanzo (’80) Il nome della rosa. Sì, Eco sta a Connery come Capote sta a Hepburn. E come Isherwood sta a Colin Firth, magnifico protagonista di A Single Man. Il romanzo racconta di un anziano docente universitario californiano, che

dopo la perdita del compagno cerca una ragione per sopravvivere. Ford è intervenuto sulla trama. Il professore non è un anziano, ma un cinquantenne inglese. La sua disperazione ha contorni meno generici, appesa com’è all’intenzione di vivere un ultimo giorno, fare per l’ultima volta certe azioni, e poi suicidarsi con una vecchia pistola. Il tutto sotto la cappa di paura della vicenda dei missili di Cuba, nel ’62, quando il mondo sfiorò una guerra che, come si è detto, sarebbe stata l’ultima. Introspezione Ford ha messo mano alla sceneggiatura dopo aver capito che lo stile narrativo cartaceo privilegiava l’introspezione. Doveva trasformare l’introspezione in azione, insomma, il libro in film. La chimica è riuscita parzialmente. Lo spazio sottratto all’introspezione è stato occupato più che dalle azioni, dall’estetica. Se dico “compiacimento” ci sta, anche se lo stile è molto alto e una piccola franchigia, un’altra compensazione alla staticità, la offre Colin Firth, in un esercizio d’attore magnifico: Firth ha già vinto la coppa Volpi a Venezia, ha la nomination per i Golden Globe quella all’Oscar. Rilevo la sequenza quando il protagonista riceve per telefono, da uno sconosciuto, la notizia della morte in un incidente del suo compagno Jim, grande grandissimo amore. Ford incatena il protagonista a un primissimo piano impossibile da sostenere. Ma Colin lo sostiene, appunto. Patinato Anche il “patinato”, e nel film tutto lo è, è perdonabile per la solita franchigia e per la storia di Ford, che è disegno, moda, armonia, estetica, colore, perfezione. Uno stile che rimane comunque nei confini del grande gusto, soprattutto nei corpi nudi, sempre maschili, sempre avvolti dall’estetica. L’inquadratura scivola su cosce, torace, natiche, poi si ferma. Ford ha detto che il film trascende l’omosessualità. In realtà no, non la trascende. A single man è un film omosessuale, volendo esserlo. L’inserto femminile di Julianne Moore serve a rafforzare il concetto. Julianne fa Charley, che ha avuto una (breve) storia con George essendo poi esautorata da Jim. Charley è comprensiva, intelligente, emancipata, ma la ferita e il risentimento, latenti, sono rimasti, ed emergono in un paio di momenti dove il controllo cade: “Se tu non fossi stato un finocchio…”. L’omosessualità veste il film come una tuta aderente. Una chiave che tuttavia non inibisce indicazioni importanti. In quella chiave, di intensità, di ambiguità, di intenzione e di empatia dichiarate all’istante, avvengono gli incontri del professore con due ragazzi, bellissimi. Uno è un suo allievo che si scopre poco interessato alle attenzioni di una compagna, l’altro è uno spagnolo che assomiglia a James Dean e che si offre senza preamboli. Il professore si limita agli sguardi e al dialogo. Ha dignità, sa guardarsi, dice a se stesso: “Patetico”. E poi quella sensibilità “particolare”. La sensazione rimandata dal regista è che una passione di un uomo con quell’attitudine, quella cultura e quella personalità, appartenga a pochi. Appartenga ai diversi. Era lo stesso sentimento che trasmetteva Tom Hanks, malato di AIDS, mentre ascoltava la Callas in Philadelphia. Struggente Ci sono ottimi momenti di cinema, come quando George e Charley ballano Stormy Weather e tutto è struggente perché lui sa, e il pubblico sa, come finirà quella giornata. E poi il momento del primo incontro, in un locale dove si balla, nel dopoguerra, e fra tanta gente e tanta confusione, gli sguardi si incrociano per la prima volta e il destino è segnato per sempre. Mentre l’orchestrina suona Blue Moon. In un momento in cui panettoni ed effetti speciali invadono il cinema, Tom Ford col suo film è naturalmente benvenuto. Un autore complesso e dotato, che riesce a toccare con stile e con dolcezza la solitudine, ad affezionarsi, e affezionarci, al dolore. Quasi una sorpresa, un po’ attonita.  

   

  NOTTE   El Greco (1541-1614) e Luis Buñuel (1900-1983) Dialogo con Pino Farinotti MASSIMILIANO FINAZZER FLORY Affrontiamo, in questo nostro articolato viaggio, il tema della notte. Scrive Giorgio Manganelli, ne La notte, cogliendo alcuni affascinanti e misteriosi risvolti del buio: “Ove venisse accertato, o solo sospettato, che codesta notte penetri fino al centro dell’universo, lama sottile e coerente di tenebre nell’infinita gloria delle sue discontinue luci, l’immagine del mondo in cui crediamo di esistere verrebbe ad essere singolarmente mutata”. Sì, perché potremmo chiederci quante notti vi sono nella notte: quante fuori di noi e dentro di noi, notti fonde e profonde, accidentali, bianche, illuminate. Questa tematica è stata analizzata con approcci pluridisciplinari, dalla psicologia, alla psicoanalisi, dalla filosofia, all’arte, alle neuroscienze, nel tentativo di gettare luce sulle tenebre delle non poche notti che ci attraversano. Nell’intraprendere il nostro percorso interpretativo evoco soltanto un titolo: Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, per citare un esempio della sterminata letteratura in cui prende forma il notturno. Il libro narra di un itinerario che impietosamente rivela il lato oscuro dell’uomo e conduce a un’esplorazione di sé lucida, sarcastica, «scandalosa», ma con una scrittura potente e innovativa che restituisce la forza della parola, agita e violata in medias res. Insieme a Pino Farinotti ripercorreremo il sottile e intrigante rapporto che intercorre fra letteratura e cinema con particolare attenzione alla produzione cinematografica del grande cineasta Luis Buñuel e al motivo della notte, guardando al suo dispiegarsi sia in prospettiva estetica che simbolica. Un rapporto che può essere significativamente arricchito dal contributo della storia dell’arte attraverso le opere di un pittore – El Greco – che ci proiettano nelle atmosfere del Rinascimento spagnolo, intrise di inquietudine e drammaticità. Questa stessa tensione drammatica, che si ritrova ad esempio nell’Adorazione dei Pastori e nel Battesimo di Cristo eseguiti da El Greco per il Colegio de Doña Maria de Aragon a Madrid e di cui sono conservate due copie a Palazzo Barberini (opere di bottega o repliche autografe), mi ricorda alcune parole di Peter Brook in una sua rifiessione sul senso del teatro. Il celebre regista, ne Il punto in movimento, con esplicito riferimento alla scena shakespeariana, ne esprime il significato più autentico ricorrendo a una metafora: il teatro è come un «pezzo di carbone» che inizia e finisce al momento della combustione, ma ci offre la luce e il calore di cui abbiamo bisogno. Una reazione chimica che sprigiona energia e si consuma fra realtà e finzione, attraversando spesso la dimensione onirica, ricca anche di ossessioni, deliri, visioni e allucinazioni. Frequentazioni che sono assai praticate da Buñuel nella sua originale e personale estetica sur-realista. Alla luce di queste premesse, come possiamo inquadrare, allora, il rapporto fra cinema e letteratura? PINO FARINOTTI Il primo assunto è che la letteratura prevale. Questo è un dato di fatto, io ho gli strumenti per poterlo dire, perché la fase teorica mi appartiene come docente di Letteratura e cinema alla Scuola Nazionale del Cinema e come docente di Estetica all’Accademia di Brera. Inoltre due miei romanzi sono diventati film. Io nasco come operatore di cinema – molti di voi conosceranno il Farinotti, il dizionario del cinema – e successivamente la mia attività si è sviluppata prevalentemente sul versante della narrativa.

La scrittura prevale, dicevo. Per fare un esempio attuale, penso al film The Reader, la storia di una kapò analfabeta, che ha commesso delitti orrendi proprio perché è analfabeta, e non solo non sa né leggere né scrivere, ma non sa neppure giudicare. Ha un amante, un ragazzino di diciotto anni, a cui chiede di leggerle qualcosa. E lui le legge, come primo testo, l’Odissea: “Musa, quell’uom di multiforme ingegno / Dimmi che molto errò poi ch’ebbe a terra / Gettate di Iliòn le sacre torri”. Poi legge dei passi dell’Amante di Lady Chatterley, poi un passaggio di una novella di Gogol’, poi uno di Guerra e pace. Nel momento in cui arriva la letteratura, il cinema si ferma attonito. Ma pensiamo anche a questo ulteriore dato di fatto: il cinema non entra nella nostra antropologia; il cinema ci dà delle sensazioni immediate fortissime. Nel 1926, a Parigi, proiettarono il celeberrimo film La corazzata Potemkin. In quell’anno, a Parigi, si trovava il fiore di tutta la cultura del mondo: c’erano Hemingway, Joyce, Fitzgerald. Divennero rivoluzionari, vedendo quel film, tanto la sua carica era accorata, forte, violenta. Basti pensare alle scene in cui i marinai si ribellano perché la carne è avariata e vengono condannati a morte; il plotone di esecuzione punta il fucile e, quando è il momento di sparare, spara per terra: questo è il trionfo, è il cattivo che non ce la fa. Hemingway disse che quando uscì da quella sala era rivoluzionario. La suggestione dettata dal cinema, però, dura un’ora o due, o magari un giorno; le manca l’antropologia che viene dalla letteratura. Se si legge Germinale di Émile Zola, si leggono seicento pagine sulla vita e sui dolori dei minatori. Non bastano dieci film per trasmettere quel sentimento, per quella cultura, quel dolore. È la prevalenza della letteratura rispetto al cinema. MFF Partiamo dalle immagini sconvolgenti del film Un chien andalou di Buñuel, che è manifesto della poetica surrealista. Come non ricordare la celebre sequenza in cui la visione viene “spezzata” con il taglio dell’occhio? Dichiarava Buñuel, a proposito di quest’opera: “Non accettare alcuna idea, alcuna immagine, in grado di condurre a una spiegazione razionale, psicologica o culturale. Aprire le porte dell’irrazionale. Accogliere soltanto le immagini che ci colpivano, senza cercare di capire perché.” Ma che cosa significa davvero tutto ciò? PF Siamo nel 1929 e Buñuel riesce ad avere da sua mamma i soldi per realizzare questo film. Anche lui si trova a Parigi, dove ha conosciuto Salvador Dalí. Si tratta di due artisti che non solo hanno cercato, ma che hanno anche trovato. Fecero dunque questo film insieme, con quell’immagine, famosa, della notte con la luna, la nube che passa e che interrompe la luce, e questo occhio squarciato, che è una metafora fortissima, che vale oggi come allora e significa: attenzione, state per vedere un film che non potete guardare con l’occhio normale, dovete guardarlo con un occhio speciale, particolare. Si tratta di una sequenza che fa veramente parte dell’estetica del nostro secolo, in senso assoluto, come Guernica di Picasso, l’Urlo di Munch, il miglior Andy Warhol, artisti che hanno rappresentato qualcosa con una precisione e una perfezione necessaria e sufficiente che non è più riscontrabile e difficilmente lo sarà ancora. I Surrealisti ufficiali, quando videro questa scena, dissero che Buñuel e Dalí erano degli anarchici, non erano adepti di un manifesto rigoroso, ma due pazzi magari geniali che andavano per la loro strada e riuscivano a farsi accettare. Questa è una sequenza che è bene vedere e memorizzare ed è doveroso farla entrare nella nostra antropologia. MFF Torniamo al confronto fra pittura e cinema: El Greco, nelle sue tele, risente degli influssi dell’ambiente culturale dell’epoca, animato da personaggi del calibro di Cervantes, Lope de Vega e Luis de Góngora. Inoltre, reinterpreta la tradizione lavorando sul rapporto

fra luce e ombra, mutuando anche la lezione di illustri predecessori in materia e offrendoci una chiave d’accesso a ciò che è irrappresentabile, ultramondano. Su di un altro versante, Buñuel, con il film Nazarin (1958), affronta il tema della religiosità in una vicenda violenta ambientata in Messico, fra estrema povertà e desolazione. Anche il film è la trasposizione di un’opera letteraria: dall’omonimo romanzo di Benito Pérez Galdós. Ma qual è la chiave di lettura per accedere a questo universo? PF Il film Nazarin è la storia di un prete buono, che vive di elemosina, e tutto quello che possiede lo dona agli altri. Cammina percorrendo la Spagna, cerca lavoro e lavora gratis, con il vitto come unica retribuzione. Si tratta di un personaggio assolutamente razionale, anche se dotato di una grandissima fede. Le donne lo adorano per la sua bontà. Ma in molti lo maltrattano, addirittura gli usano violenza. Viene accusato di approfittare delle situazioni, delle donne per esempio, viene giudicato e condannato. Le sue regole, i suoi codici, non sono capiti. È l’assunto di Buñuel, secondo cui fare del bene è impossibile, perché la società lo impedisce. A questa estetica, al tema della violenza dei poveri, della gente che non riesce a trovare una mediazione sentimentale, si ispirerà anche Almodovar, aggiungendo però l’elemento della solidarietà. Buñuel non è solidale, è un «crudele», mostra la parte cattiva dell’umanità, sia pur con l’ironia della chiave surreale. Le donne di Almodovar, rappresentate a colori forti, con grandi contrasti e prevalenza del rosso, come nella fase cromatica di El Greco, subito dopo gli scontri si ritrovano abbracciate; le donne di Buñuel si odiano davvero. Ma è interessante vedere come Buñuel abbia tracciato una strada nel cinema spagnolo feconda di possibili sviluppi, di diverse estetiche. MFF Ribadendo l’importanza del «sentire» che definisce l’essenza dell’estetica stessa, approfondiamo un possibile collegamento trasversale fra El Greco e Buñuel: la rappresentazione dell’Ultima Cena così come si è tradotta nelle due diverse sensibilità artistiche. Nell’Ultima Cena, un’opera giovanile, custodita alla Pinacoteca nazionale di Bologna (1568 circa), El Greco costruisce uno spazio prospettico semplice e introduce figure umane che paiono fluttuare. La sua raffigurazione è originale e anticipa elementi stilistici che saranno ripresi nella maturità. Buñuel, nel film Viridiana, del 1961, rivisita l’Ultima Cena con una sua personale chiave di lettura, trasgressiva, dirompente, non priva di una figuratività pittorica di grande impatto visivo. Come possiamo definire questa operazione? PF In quel film, dopo il momento lirico, estetico, seppur ironico, dell’Ultima Cena, arriva l’elemento del grande contrasto, della trasgressione violenta, certo alla Buñuel, dunque blasfema. Viridiana, il personaggio descritto nel film, è una ricca ereditiera, che ospita dei derelitti in casa sua, lasciando loro libertà completa. Ma, siccome nessuno sa affrontare la solidarietà e la bontà, si innesca un gioco di sentimenti estremi e di violenze. È il consueto epilogo di Buñuel, che non credeva nella bontà. Nel 1937, quando Franco andò al potere, Buñuel se ne andò via, lasciò il Paese. Fu richiamato dallo stesso dittatore, quando aveva raggiunto ormai fama internazionale. Franco gli commissionò un film e Buñuel realizzò questo, Viridiana. Da quel momento gli fu impedita qualsiasi altra iniziativa. Riguardare il cinema di Buñuel, in un momento come questo, in cui tutto è così frammentario, così facile, è come rifarsi la bocca; rivedere i suoi film fa bene all’estetica e allo spirito, sempre se si trova la chiave giusta, naturalmente, perché Buñuel è davvero dissacrante. Non è necessario condividere le sue idee: i richiami che ci mandano le sue pellicole, l’eco che tramandano da lontano, sono ancora ascoltabili.

MFF E gli echi arrivano da lontano. Consideriamo le somiglianze con la pittura di Goya, con il suo trattamento della luce, l’esplosione di colori, gli elementi plastici in tele che ci consentono al tempo stesso di essere «all’interno», ma anche «all’esterno» dell’immagine. Con le Fucilazioni del 3 maggio 1808, conservato al Museo del Prado di Madrid, Goya ferma nel 1814 un drammatico momento della storia di Spagna, di cui fu testimone sei anni prima. Il dipinto, di una estrema modernità, raffigura le vittime come individui identificabili, a differenza dei loro esecutori, grazie alla composizione della luce e alla rappresentazione dei gesti. Come non sottolineare le braccia aperte di uno dei prigionieri che ricorda la figura del Cristo sulla croce? Interessante anche il gioco di sguardi che evidenzia come i componenti del plotone d’esecuzione evitino gli sguardi dei condannati. In questa trama, realismo e simbolismo si intrecciano e paiono riportarci, per assonanza o dissonanza, al cinema di Buñuel e di Almodovar. Se prendiamo in esame L’angelo sterminatore, di Buñuel, appaiono evidenti in questo film le caratteristiche che Alberto Moravia sottolineava circa la sua opera: «In arte, è un realista, di un realismo frontale, violento, duro, ingenuo, nella tradizione picaresca; ma è anche un fantastico, un magico, un surrealista visionario alla maniera di Goya e di Dalí». Ma come possiamo leggere e interpretare simbolicamente L’angelo sterminatore e il suo enigmatico finale? PF Questo film rappresenta l’impotenza di uscire da uno status, lo status della borghesia imprigionata in se stessa, borghesia che Buñuel odia quasi come odia la Chiesa. Gli invitati alla cena non riescono più a uscire dalla villa. Immaginate cosa accadrebbe se tutti noi non potessimo più uscire da questo ambiente perché una forza ce lo impedisce, se fossimo costretti a rimanere tutti qui, per settimane, mesi, dormendo per terra; pensate appunto a cosa potrebbe succedere. Alla fine, nel film, la situazione si risolve ricorrendo all’unica persona giovane, perché è pulita, perché non ha scorie dentro di sé, non ha cultura, e, senza condizionamenti e memo- rie, è in grado di dire: «Io esco da qui» ed esce. È davvero un film importante, questo, forse il migliore di Buñuel, una grande metafora. E la celebre scena della mano, elemento ricorrente nel suo cinema, è una delle sue sequenze più dark. L’altra grande soluzione estetica che rappresenta la sua idea della borghesia è quella di una strada infinita e diritta dove tutti camminano e non arrivano mai da nessuna parte. Un esempio: Il fascino discreto della borghesia. MFF Un’altra immagine di grande effetto, che sprofonda l’animo nella notte dell’etica, è contenuta in Cecità, romanzo in cui il premio Nobel José Saramago denuncia, attraverso la misteriosa epidemia che colpisce «una città qualunque, di un paese qualunque», il male dell’indifferenza, la sopraffazione, la logica del dominio. Perché la cecità – scopriremo – è principalmente di natura morale. Un’ulteriore e diversa immagine della notte è quella offertaci nel 1889 da Van Gogh ne La notte stellata, dove la città addormentata sembra assistere a una lotta di forze opposte: da un lato «il tendere la mano verso le stelle» da parte dell’uomo, dall’altro il turbinare delle po- tenze cosmiche. Un’opera che risente dei riflessi della malattia mentale e di una fase di crisi acuta. Van Gogh, poiché avverte la necessità di restare a casa, ricorre all’ausilio di tecniche e stratagemmi per continuare a dipingere, ma non all’aperto dove «prova una sensazione di terribile solitudine». Cambiando prospettiva e focalizzandoci sulla questione della tecnica nel mondo cinematografico, vorrei domandare: quanto contano le nuove tecnologie nelle ricostruzioni storiche e nelle scene di massa?

PF Per citare un esempio, qui a Roma, nel 1951, fu girato un grandissimo film, Quo Vadis?. C’erano trentamila comparse, c’erano quindi più di trentamila persone sul set, altrettante stanze d’albergo prenotate, tantissimi sarti al lavoro. Tutta Roma fu coinvolta nella lavorazione. Nel Gladiatore di Ridley Scott ci sono trentamila comparse tutte virtuali. A me piace vedere quelle di Quo Vadis?, mi piace vedere l’Appia Antica quando arriva la legione, nella scena iniziale, e si alza la polvere. Quando si guarda il Gladiatore, tutto è pulito, tutto è perfetto, troppo perfetto; in Troy tutte le navi che vanno verso Troia sono uguali, ben allineate. La mia generazione non ama questa violenza estetica che dà il computer. Non ho però la presunzione di dire che ho ragione io a essere infastidito dall’effetto del computer. I nostri figli si sono assuefatti a questa estetica, hanno accettato il computer con i suoi risultati, che possono andar bene ed essere funzionali; fa parte del nostro tempo. La questione dell’estetica di oggi in rapporto alla tecnica pone un quesito importante, ma che rimane aperto. Per tornare al cinema di Buñuel e all’impossibilità della bontà, pensavo alla sua pellicola del 1965, Simon del deserto, in cui un monaco del V secolo, che vive in cima a una colonna in meditazione, entra in dialogo con se stesso a tal punto da fare un salto in avanti e finire, con un balzo temporale di secoli, a New York, in un locale, nel ventesimo secolo. In quel film c’è una scena interessante, in cui un contadino, che ha moglie e un bambino, ed è privo delle mani, chiede all’asceta il miracolo di riavere le mani e poter dunque ricominciare a lavorare e sostenere la sua famiglia. Nella scena successiva si vede il contadino che ha di nuovo le mani e come prima azione appioppa un sonoro schiaffo al suo bambino perché lo ha infastidito. MFF Desidero fare un cenno, in conclusione, a un problema di natura estetica per quanto concerne la fruizione dei film sul piccolo schermo. Mentre vediamo un film alla televisione siamo interrotti dalla pubblicità che, inevitabilmente, spezza la continuità della visione. Potremmo allora domandarci: il cinema in televisione è ancora cinema? Quanto può condizionare la pausa pubblicitaria? PF Non si può farne a meno, purtroppo. Scorsese, quando realizza i suoi film, li progetta in modo da lasciare spazio alle quattro interruzioni pubblicitarie. E per fortuna, in televisione, i grandi film passano a ore della tarda notte, in cui la pubblicità è pochissima. MFF In chiusura, vorrei rilevare un tratto che mi pare comune alle due personalità artistiche di El Greco e Buñuel. Entrambi possono essere inscritti in quelle avanguardie intellettuali che definirei con un termine in apparenza contraddittorio «conservatrici», là dove «conservazione» indica la capacità di «conservare» un mistero che giunge fino a noi intatto. Ricordando la provocazione di Buñuel in Dei miei sospiri estremi: «Proposi di bruciare il negativo del film in Place du Tertre a Montmartre. Lo avrei fatto senza la minima esitazione, lo giuro, se avessero accettato. Immagino spesso, nel mio giardinetto, un rogo dove bruciare allegramente tutti i negativi, tutte le copie dei miei film [...]. Ma la proposta fu respinta».