Profili storici XXI secolo. Con percorsi di documenti e di critica storica. Con CLIL History activities per il 5° anno. Per il triennio delle Scuole superiori. Con ebook. Con espansione online. Vol. 3 9788842116028


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Profili storici XXI secolo. Con percorsi di documenti e di critica storica. Con CLIL History activities per il 5° anno. Per il triennio delle Scuole superiori. Con ebook. Con espansione online. Vol. 3
 9788842116028

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Andrea Giardina Giovanni Sabbatucci Vittorio Vidotto

PROFILI STORICI XXI SECOLO CON PERCORSI DI DOCUMENTI E DI CRITICA STORICA Dal 1900 a oggi

con CLIL History Activities per il V anno

Editori Laterza

3

con Compiti di realtà

© 2018, Gius. Laterza & Figli, Bari-Roma Prima edizione 2018

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione.

Metodo di studio, Palestra Invalsi, Sviluppare le competenze, Leggere una fonte iconografica, Piste di lavoro e Compito di Storia: ­Elena Musci. Eventi e Personaggi: Emma Ansovini, Francesco Buscemi, Costanza Calabretta, Alessio Gagliardi, Ilenia Rossini, Monica Turi. Laboratorio di cittadinanza: Francesco Buscemi, Francesco Calzolaio, Ilenia Rossini; Maria Angela Binetti (didattica). Arte e territorio: Francesco Buscemi; Maria Angela Binetti (Piste di lavoro). Fare Storia: Costanza Calabretta (Unità 5 e 6), Ilenia Rossini (Unità 1 e 4), Matteo Stefanori (Unità 2 e 3). Storia e ambiente: Costanza Calabretta, Benedetta Garzarelli, Ilenia Rossini, Matteo Stefanori; Maria Angela Binetti (Laboratorio di educazione ambientale). Iconografia: Linda Fiorentino.

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.clearedi.org.

Copertina e progetto grafico a cura di Silvia Placidi/Grafica Punto Print srl. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste. Finito di stampare nel marzo 2018 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-1602-8 Editori Laterza Piazza Umberto I, 54   70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2008 valutato da Certi W e coperto dal certificato numero IT.12.0160.QMS

INDICE DEL VOLUME

UNITÀ 1 L’ALBA DEL ’900

CHIAVI DI LETTURA

CAP1 LA SOCIETÀ DI MASSA

4

1 «La moltitudine s’è fatta visibile» 2 Sviluppo industriale e organizzazione del lavoro 3 La nazionalizzazione delle masse: scuola, esercito e suffragio universale 4 Partiti di massa, sindacati e riforme sociali 5 Il movimento operaio e la Seconda Internazionale 6 I primi movimenti femministi 7 La Chiesa e la società di massa

4 6 7

30

XTR

O

E

E

A

Storia e Letteratura L’uomo senza qualità di Musil • Focus La diffusione dei quotidiani in Italia • Freud e la scoperta dell’inconscio • La N I N nascita del cinema • Lezioni attive Socialismo, nazionalismo, razziL smo: tensioni sociali in un mondo che cambia • Test interattivi • Audiosintesi

58



60

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

Storia, società, cittadinanza La paura del diverso • Storia e Geografia I Balcani • Storia e Letteratura L’uomo senza qualità N I N di Musil • Focus La crescita demografica in Asia • Mito e declino L dell’Impero asburgico • Atlante Gli imperi coloniali nel 1914 • Audiosintesi

CAP3 L’ITALIA GIOLITTIANA 1 2 3 4

63

La crisi di fine secolo La svolta liberale Decollo dell’industria e questione meridionale Giolitti e le riforme

63 65 66 70

 PERSONAGGI   Giovanni

Giolitti, ovvero l’arte di governare

72

5 Il giolittismo e i suoi critici 6 La guerra di Libia e il tramonto del giolittismo Parole della storia

34 34 35 37

77 79

LABORATORIO DI CITTADINANZA

I conflitti di lavoro negli Stati democratici

81

SINTESI

83



84

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

N

42

75 76

  Massoneria

Il Libro G. Volpe, L’Italia in cammino • B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 • Focus Aziende pubbliche e servizi pubblici • L’emigrazione • Il ballo «Excelsior» • Atlante Società ed economia nell’Italia giolittiana • Audiosintesi A

39 41

73

7 Socialisti e cattolici 8 La crisi del sistema giolittiano

O

5 Gli imperi centrali: Germania e Austria-Ungheria

56

E

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

  Intellettuale

54

SINTESI

25



Parole della storia

52

21

28

1 Le contraddizioni della belle époque 2 Nuove alleanze in Europa e nuovi equilibri mondiali 3 I focolai di crisi 4 Le democrazie occidentali: Francia e Gran Bretagna

50

19

SINTESI

CAP2 L’EUROPA E IL MONDO AGLI INIZI DEL ’900

Fotografare la “natura selvaggia”: i parchi naturali americani

E

Le donne e il diritto di voto

ARTE E TERRITORIO

E

8 Nazionalismo, razzismo e antisemitismo 9 La crisi del positivismo e le nuove scienze

battaglia di Tsushima

7 La Cina dall’Impero alla Repubblica 8 L’imperialismo statunitense 9 L’America Latina e la rivoluzione messicana

O

16 18

46 48

A

Maria Mozzoni e la nascita del femminismo in Italia Parole della storia   Secolarizzazione

LABORATORIO DI CITTADINANZA

EVENTI   La

16

 PERSONAGGI   Anna

2

E

15



6 La Russia: la rivoluzione del 1905 e la guerra col Giappone

10 12

GLI EVENTI

LI N

III

INDICE DEL VOLUME

FARESTORIA

109

87

19 A. Rossi Doria, Le battaglie per il voto alle donne in Italia 20 d Femminismo

87



111

87

La società di massa 1 B. Geremek, Alle origini della società di massa 2 d Frederick Winslow Taylor, L‘organizzazione scientifica del lavoro 3 d Henry Ford, La catena di montaggio  FONTE ICONOGRAFICA  1 Una delle prime catene di montaggio nelle officine Ford, 1914

88 89 90

4 d Gustave Le Bon, La psicologia delle folle 91 5 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse 91 6 V. De Grazia, Società urbana europea e società urbana americana all’inizio del ’900 92

►PISTE DI LAVORO

94

Partiti e ideologie 95 7 d Il programma di Erfurt 95 8 d Eduard Bernstein, Il revisionismo 96 9 d Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione? 97 10 d Georges Sorel, Il mito dello sciopero generale 98 11 d Nikolaj Lenin, Soviet degli operai o partito? 99 12 d Rerum novarum 99 13 P. Scoppola, Il cattolicesimo sociale 100 14 G. Sivini, I movimenti di massa: culture e modelli organizzativi 102

►PISTE DI LAVORO

Il primo femminismo 15 J.W. Scott, Il lavoro delle donne 16 d Anna Maria Mozzoni • Anna Kuliscioff, I limiti al lavoro delle donne: due posizioni a confronto 17 d Sibilla Aleramo, Alla scoperta dell’emancipazione 18 Sh. Rowbotham, Le suffragette John Hassall, La casa di una suffragetta, inizi del ‘900

EVENTI   L’attentato

di Sarajevo

IV

3 1914-15: dalla guerra di logoramento alla guerra di posizione 4 1915: l’intervento dell’Italia 5 I fronti di guerra (1915-16)

INDICE DEL VOLUME



118

112 113 114 116 117

►PISTE DI LAVORO

Nuovi equilibri nel Mediterraneo 26 M. Emiliani, Il primo nazionalismo egiziano 27 G. Del Zanna, I “Giovani turchi”: una generazione emergente 28 d Vittorio Elia, I “Giovani turchi” conquistano il potere 29 N. Labanca, La conquista della Libia: una guerra di transizione 30 d Giovanni Pascoli, La grande proletaria si è mossa

118



124



►PISTE DI LAVORO ►COMPITO DI STORIA

119 120 121 122 123

125

STORIAeAMBIENTE 105 106 107 109

UNITÀ 2 GUERRA E RIVOLUZIONE

1 Venti di guerra 2 Una reazione a catena

112

104

FONTE ICONOGRAFICA 2

CAP4 LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LA RIVOLUZIONE RUSSA

►PISTE DI LAVORO

L’Italia giolittiana 21 E. Gentile, La “dittatura giolittiana” 22 d Mario Missiroli, Vane paure 23 E. Scarpellini, L’Italia operaia 24 F. Barbagallo, Napoli: café-chantant e cinema muto 25 V. Vidotto, Anticlericalismo e riforme nella Roma di Nathan

103 104

110

I parchi nazionali e la difesa dell’ambiente e del paesaggio

La protezione della natura: un’idea recente, 126 Gli Stati Uniti d’America e la nascita dei primi parchi nazionali, 126  L’Europa, la difesa dell’ambiente e la nascita dei parchi nazionali in Italia, 130  Problemi ambientali di ieri e di oggi, 132

CHIAVI DI LETTURA

138 138 139 140 144 146 149

126

GLI EVENTI



6 Guerra di trincea e nuove tecnologie 7 Il “fronte interno”

136

152 154

  Propaganda

156

8 1917: l’anno della svolta

157

Parole della storia

EVENTI   La

disfatta di Caporetto

9 La rivoluzione russa: da febbraio a ottobre PERSONAGGI   Lenin,

uomo simbolo della rivoluzione

0 La rivoluzione russa: dittatura e guerra civile 1 1 1918: la sconfitta degli Imperi centrali 1 2 Vincitori e vinti 1

159 161 162 164 167 169

13 Il mito e la memoria ARTE E TERRITORIO

Il futurismo in guerra

173 175

SINTESI

176



178

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

223

LABORATORIO DI CITTADINANZA

226

Lo Stato e il monopolio della forza

228



SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

229

E

O

N

A

E

E

A

O

XTR

LI N

Il Libro A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo • Laboratorio dello storico Le carte di polizia • Lezioni attive Il fascismo, un movimento che si fa Stato • Test interattivi • Audiosintesi

FARESTORIA CAP5 L’EREDITÀ DELLA GRANDE GUERRA

182

1 Le conseguenze economiche della guerra 2 I mutamenti sociali Parole della storia

182 184 184

  Inflazione

3 Stati nazionali e minoranze 4 Il “biennio rosso”: rivoluzione e controrivoluzione in Europa 5 La Germania di Weimar 6 Il dopoguerra dei vincitori 7 La Russia comunista 8 L’Urss da Lenin a Stalin ARTE E TERRITORIO

Otto Dix e le macerie umane della Grande Guerra

187

191 194 196 199 202



204

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

O

E

A

Storia, società, cittadinanza Il mito della democrazia diretta • Focus Il cinema espressionista tedesco • L’età del jazz • Lezioni attiN I N ve Lenin e Stalin, dalla rivoluzione al potere • Test interattivi • L Audiosintesi

1 Le tensioni del dopoguerra 2 I partiti e le elezioni del 1919 3 Il ritorno di Giolitti e l’occupazione delle fabbriche 4 L’offensiva fascista

234 235 236 238 239

Manifesto britannico di reclutamento, Is your home worth fighting for? (Vale la pena combattere per la tua casa?), 1917



241

PISTE DI LAVORO

241



Una guerra moderna e tecnologica 37 S. Audoin-Rouzeau, La trincea 38 d Emilio Lussu, L’assalto alla trincea nemica 39 S. Robson, Aerei e carri armati 40 P. Masson, La guerra sottomarina

241



248

►PISTE DI LAVORO

La rivoluzione d’ottobre 41 d Lenin, Le Tesi di aprile 42 N. Werth, La presa del potere

242 243 244 246

248 248 250

Georgi Vladimirovich Kibardi, Costruiamo uno stormo di dirigibili in nome di Lenin, 1931

252 252

207

43 M. Flores, La nascita del regime bolscevico 44 d I “21 punti” dell’Internazionale comunista

255

207

La pace e il difficile dopoguerra 45 d I “14 punti” di Wilson 46 d John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace 47 M. Mazower, La questione delle minoranze 48 I. Kershaw, Il ritorno alla vita civile

255



261

209 211

  Squadrismo  PERSONAGGI   Benito Mussolini, il duce del fascismo

5 Mussolini alla conquista del potere EVENTI   La

217 218

6 Verso il regime

221

marcia su Roma

232

FONTE ICONOGRAFICA 4

214 215 216

Parole della storia

232

FONTE ICONOGRAFICA 3

203

CAP6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

232

La grande strage 31 Ch. Clark, Poteva andare altrimenti? 32 E.J. Leed, Le comunità di agosto 33 A. Gibelli, Il mondo alla rovescia: la guerra e le donne 34 G. Lewy, Il massacro degli armeni 35 d Il rifiuto della guerra 36 O. Janz, Censura e propaganda

188

SINTESI

E

224

SINTESI

Eventi L’assalto al Palazzo d’Inverno • Storia, società, cittadinanza Il servizio militare • Il mito della democrazia diretta • Storia e N I N Cinema Orizzonti di gloria di Kubrick • Focus Guerra nei cieli • L L’industria e la guerra • La letteratura della Grande Guerra • La memoria della Grande Guerra: il culto dei caduti • Atlante L’Europa nella Grande Guerra (1914-23) • Lezioni attive La prima guerra mondiale, vicende e caratteristiche • Test interattivi • Audiosintesi

E

7 La dittatura a viso aperto 8 I regimi autoritari negli anni ’20

►PISTE DI LAVORO

►PISTE DI LAVORO

Germania e Italia: democrazia e stato liberale in crisi 49 E.D. Weitz, La repubblica di Weimar

256 257 258 260

261 262

V

INDICE DEL VOLUME

254

50 d Ernst von Salomon, Una nazione divisa 51 G. Sabbatucci, La classe dirigente liberale in Italia 52 d Angelo Tasca, Lo squadrismo fascista

264 266

Squadra fascista, 1922

268



270

UNITÀ 3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

282 283 286

crisi di Wall Street

3 Il dilagare della crisi 4 La crisi in Europa 5 Il New Deal di Roosevelt

287 289 290

Delano Roosevelt:

292

6 Il nuovo ruolo dello Stato 7 Nuovi consumi e comunicazioni di massa Parole della storia

294 295 297

  Ceto medio

L’intervento dello Stato nell’economia

301

SINTESI

303



304

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

4 La costruzione del regime

315 316

5 Politica e ideologia del Terzo Reich 6 L’Urss e l’industrializzazione forzata 7 Lo stalinismo, le grandi purghe, i processi

318

8 Le democrazie e i fronti popolari 9 La guerra civile in Spagna 0 L’Europa verso la guerra 1

328

EVENTI   La

Hitler, il Führer del nazismo

“notte dei lunghi coltelli”

 PERSONAGGI   Stalin,

322 325 326

il burocrate d’acciaio

ARTE E TERRITORIO

Il movimento moderno riprogetta la città

330 334 336

SINTESI

338



340

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

N

Storia, società, cittadinanza I meccanismi del terrore • Focus Sport e nazismo: le Olimpiadi di Berlino del 1936 • Il mondo rurale e il regime staliniano: la “grande fame” del 1932-33 • Intellettuali e antifascisti a difesa della Spagna • Atlante Economia e politica negli anni ’30 • Lezioni attive Dittature e totalitarismi • Lenin e Stalin, dalla rivoluzione al potere • Test interattivi • Audiosintesi

LI N

XTR

Focus L’America del proibizionismo • Una voce nelle case di tutti: la radio • La fabbrica dei sogni: Hollywood • On the road: l’automobile L I N e la rivoluzione del trasporto su gomma • Atlante Economia e politica negli anni ’30 • Audiosintesi

CAP8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE 1 L’eclissi della democrazia Parole della storia

  Totalitarismo

2 Totalitarismo e politiche razziali

VI

CAP9 IL REGIME FASCISTA IN ITALIA

E

O

N

A

E

311 312

O

LABORATORIO DI CITTADINANZA

3 L’ascesa del nazismo

298 299

280

A

8 La scienza e la guerra 9 La cultura della crisi



E

1 Sviluppo e squilibri economici negli anni ’20 2 Gli Stati Uniti: dal boom al crollo di Wall Street

“leone e volpe”

GLI EVENTI

 PERSONAGGI   Adolf

282

272

Una guerra industriale, 272  Gli effetti sull’ambiente, 273  Lo sconfinamento del conflitto: le violenze contro i civili, 276

CHIAVI DI LETTURA

CAP7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETÀ NEGLI ANNI ’30

 PERSONAGGI   Franklin

Grande Guerra e ambiente: gli effetti sul territorio e sui civili

269

►PISTE DI LAVORO

271

STORIAeAMBIENTE

267

53 E. Gentile, La marcia su roma 54 d Le “leggi fascistissime”

EVENTI   Le

►COMPITO DI STORIA



E

 FONTE ICONOGRAFICA  5

263

INDICE DEL VOLUME

1 Lo Stato fascista 2 Un totalitarismo imperfetto Parole della storia

307 307 309 310

3 4 5 6 7

  Consenso

Scuola, cultura, informazione La politica economica e il mondo del lavoro La politica estera e l’Impero La stretta totalitaria e le leggi razziali L’antifascismo italiano

344 344 346 348 350 351 354 356 358

I rapporti tra Stato e Chiesa in Italia

361

SINTESI

364



365

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

SINTESI

422



SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

368

5 6 7 8 9

La guerra civile in Cina L’imperialismo giapponese L’Oriente in guerra L’Africa coloniale L’America Latina fra le due guerre mondiali

376

Parole della storia

  Populismo

380 381

Due 59 60 61

382 382 385

E

A

O

LI N

1 Le origini e lo scoppio della guerra 2 L’attacco alla Polonia 3 La disfatta della Francia e la resistenza della Gran Bretagna  PERSONAGGI   Churchill,

il campione della lotta al nazifascismo



388 388 390

FONTE ICONOGRAFICA 6

Immagini di

448

►PISTE DI LAVORO

L’Italia fascista 66 R. De Felice, Il fenomeno fascista e i ceti medi 67 E. Gentile, Organizzazione e “miti” nel regime fascista 68 d Benito Mussolini, Un discorso dal balcone  FONTE ICONOGRAFICA  7

Immagini di

442 444 446

448 449 451 453 454

408



410

Guerra mondiale, guerra totale 75 J. Bourke, Guerra totale

8 Le battaglie decisive 9 Dallo sbarco in Sicilia allo sbarco in Normandia

438



405 406

  Genocidio

437

440

7 La Shoah

Parole della storia

435

440

396

Harbor

432

62 d Victor Klemperer, Hitler al governo 63 N. Frei, Il potere delle SS 64 N. Werth, Il grande terrore 65 d Aleksandr I. Solz ˇ enitsyn, L’articolo 58

4 L’Italia e la “guerra parallela” 5 1941: l’entrata in guerra di Urss e Stati Uniti 6 Resistenza e collaborazionismo nei paesi occupati EVENTI   Pearl

431

435

propaganda fascista

400 401

430

regimi totalitari: nazismo e stalinismo E. Traverso, Totalitarismi a confronto T. Todorov, Democrazia e totalitarismo P. Fritzsche, La comunità del popolo

69 N. Labanca, La guerra d’Etiopia 70 d La Dichiarazione sulla razza 71 L. Rapone, Antifascismo e dissenso 72 A. Garosci, Il fuoruscitismo 73 d Palmiro Togliatti, Una dittatura “terrorista” e di classe 74 d Carlo Rosselli, «Oggi in Spagna, domani in Italia»

398

428

434

391 394

428

PISTE DI LAVORO

propaganda nazista

Storia, società, cittadinanza Il Commonwealth ieri e oggi • Audiosintesi

CAP11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

428



373 374



N

FARESTORIA

378

371

384

XTR

Storia e Geografia Le terre dello sterminio • Storia e Letteratura Vita e destino di Vasilij S. Grossman • Focus La borsa nera • I carri L I N armati • Il Progetto Manhattan e la bomba atomica • Resistenza e letteratura • La penicillina • Laboratorio dello storico Cinema e storia • Atlante La seconda guerra mondiale • Lezioni attive La seconda guerra mondiale: eventi e caratteristiche • Test interattivi • Audiosintesi

la società americana durante la grande crisi del ’29 55 R. Overy, Il grande crollo 56 P. Brendon, Crisi economica e crisi politica 57 d John Steinbeck, L’itinerario dei popoli nomadi 58 A. Testi, Roosevelt e il New Deal

369

SINTESI

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

424

368

La crisi dell’egemonia europea Rivoluzione e modernizzazione in Turchia Nazionalismo arabo e sionismo La lotta per l’indipendenza in India

il profeta della non violenza

418

XTR

N

1 2 3 4

 PERSONAGGI   Gandhi,

414

A

O

CAP10 IL DECLINO DEGLI IMPERI COLONIALI

E

O

E

A

E

412



Focus Il liceo in Italia dall’Unità alla riforma Gentile • Indottrinare i giovani: i Gruppi universitari fascisti • Il cinema e la propaganda di N I N regime • Atlante Economia e politica negli anni ’30 • Lezioni L attive Il fascismo, un movimento che si fa Stato • Test interattivi • Audio­sintesi

E

10 L’Italia: la caduta del fascismo e l’armistizio 11 Resistenza e guerra civile in Italia 12 La fine della guerra e la bomba atomica

E

LABORATORIO DI CITTADINANZA



PISTE DI LAVORO

455 456 458 459 461 463 464 465 465

VII

INDICE DEL VOLUME

76 d Marc Bloch, La strana disfatta 77 O. Bartov, La violenza sul fronte orientale 78 G. Schreiber, Gli orrori della guerra in Estremo Oriente 79 N. Ferguson, I bombardamenti alleati 80 R. Frank, La corsa al nucleare 81 d Tamiki Hara, Lettera da Hiroshima

466



476

La Shoah: carnefici e vittime 82 H. Mommsen, Come si giunse allo sterminio 83 C. Browning, Uomini comuni 84 d Rudolf Höss, La macchina dello sterminio 85 d Carel Perchodnik, Poliziotto ebreo nel ghetto 86 d Primo Levi, L’arrivo al campo 87 C. Vercelli, Il negazionismo Fotogrammi tratti dal film nazista conosciuto come Il Führer regala una città agli ebrei, regia di Kurt Gerron, 1944

470 471 473 474

478 480 482 483 485

 FONTE ICONOGRAFICA  8



►PISTE DI LAVORO

486 488

1 La nascita dell’Onu 2 I nuovi equilibri mondiali 3 Ricostruzione e riforme

►PISTE DI LAVORO ►COMPITO DI STORIA



Parole della storia

  Nucleare

Zedong, il “Grande timoniere”

6 Il Giappone: da nemico ad alleato 7 Guerra fredda e coesistenza pacifica 8 Le democrazie europee e l’avvio dell’integrazione economica 9 Distensione e confronto: gli anni di Kennedy e Kruscëv EVENTI   La

crisi dei missili

VIII

10 Nuove tensioni nei due blocchi: guerra del Vietnam e crisi cecoslovacca 1 La Cina di Mao Zedong 1

INDICE DEL VOLUME

517 517

GLI EVENTI

497 499 501 502 504

507



508

544

ARTE E TERRITORIO

547

L’arte nell’era atomica

SINTESI



SVILUPPARE LE COMPETENZE



549 551

XTR

N

524

497

506

I crimini contro l’umanità e la giustizia penale internazionale

519 523

495

Storia e Geografia Berlino e il suo Muro • Storia e Cinema Apocalypse Now di Coppola • Focus Guerra fredda e corsa al riarmo: L I N la bomba H • Il rapporto Beveridge • Atlante L’Europa dopo la seconda guerra mondiale: popolazione, risorse, economia • Audiosintesi A

 PERSONAGGI   Mao

513

493

LABORATORIO DI CITTADINANZA 510

O

4 L’Urss e le “democrazie popolari” 5 Rivoluzione in Cina, guerra in Corea

CHIAVI DI LETTURA

510

492

93 d Giacomo Debenedetti, La deportazione degli ebrei romani 94 S. Peli, La nascita del movimento partigiano 95 d Beppe Fenoglio, Un episodio della guerra partigiana 96 C. Pavone, La guerra civile: una definizione controversa 97 R. Pupo • R. Spazzali, La violenza sul confine orientale: le foibe

E

CAP12 L’ETÀ DELLA GUERRA FREDDA

490

Gino Boccasile, Per arruolarsi nella legione SS italiana: onore fedeltà coraggio, 1944



UNITÀ 4 IL MONDO DIVISO

489

FONTE ICONOGRAFICA 9

476 477

488

E

►PISTE DI LAVORO

468

La guerra italiana 88 D. Rodogno, Un “nuovo ordine Mediterraneo” 89 G. Rochat, Occupazione militare e guerriglia nei Balcani 90 d Mario Rigoni Stern, La ritirata di Russia 91 E. Aga Rossi, L’8 settembre 92 L. Ganapini, La Repubblica sociale italiana

527 528 531 535 536 538 541

CAP13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO 1 La crisi degli imperi coloniali 2 L’indipendenza dell’India 3 Le guerre d’Indocina

553 553 556 558

4 Il mondo arabo e la nascita di Israele 5 L’Egitto di Nasser e la crisi di Suez

559 561

 PERSONAGGI   Nasser,

l’uomo simbolo del nazionalismo arabo

562

6 L’indipendenza del Maghreb 7 Le guerre arabo-israeliane 8 Tradizionalismo e modernizzazione in Turchia e Iran 9 L’indipendenza dell’Africa nera Parole della storia

564 565 567 568 570

  Neocolonialismo

3 Nuovi consumi e politiche sociali Parole della storia

615 617

  Consumismo

4 Le nuove frontiere della scienza e della tecnologia 5 Le imprese spaziali 6 Un pianeta più piccolo: trasporti e comunicazioni di massa 7 Critica del consumismo e contestazione giovanile

618 619 621 623

 PERSONAGGI   I

Beatles e la rivoluzione della musica pop 624  PERSONAGGI   Martin Luther King 626 e la lotta per i diritti civili

10 Il Terzo Mondo: non allineamento e sottosviluppo 1 Dittature e populismi in America Latina 1

572

SINTESI

577

8 Il nuovo femminismo 9 Chiesa e società: il Concilio Vaticano II



578

LABORATORIO DI CITTADINANZA

632

ARTE E TERRITORIO

635

573

XTR

Personaggi Golda Meir, una donna alla guida di Israele • Il Libro Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni • Storia, società, L I N cittadinanza Regimi e forme di potere nei paesi ex coloniali • Focus La lotta contro la malaria • La modernizzazione dell’Egitto e la diga di Assuan • Discriminazione e separazione: l’apartheid • Esplosione urbana e sottosviluppo: le bidonvilles • I desaparecidos • Atlante Le tappe della decolonizzazione • Lezioni attive La decolonizzazione: nuove nazioni e nuovi conflitti • Test interattivi • Audiosintesi

Femminismo e diritti delle donne

L’arte nell’età del consumismo alimentare

E

SINTESI



E

1 L’Italia nel 1945

XTR

584

2 La Repubblica e la Costituente 3 La Costituzione e il trattato di pace 4 Il tempo delle scelte

587 588 592

EVENTI   Il

18 aprile 1948: l’elezione del primo Parlamento della Repubblica

594

5 De Gasperi e il centrismo 6 Il “miracolo economico” 7 Il centro-sinistra e le riforme

LABORATORIO DI CITTADINANZA

Il referendum

596 598 602 605

SINTESI



SVILUPPARE LE COMPETENZE



608 609

XTR

O

E

A

Storia e Cinema Il sorpasso di Dino Risi • Focus Le foibe • L’Assemblea costituente • Il divario Nord/Sud e la Cassa per il Mezzogiorno • N I N Il cinema neorealista e la commedia all’italiana • Alfabetizzazione e L cultura di massa: la televisione italiana • La modernizzazione del paese: le autostrade • Atlante La società dei consumi • Audiosintesi

E

Storia e Geografia Le terre del petrolio • Focus Il baby boom • Contraccezione ed emancipazione: la pillola anticoncezionale • La L I N rivoluzione dello spazio domestico: gli elettrodomestici • Arte, industria e cultura di massa: la nascita del design • La musica pop • Le forme della contestazione studentesca • Laboratorio dello storico La storia delle donne • Atlante La società dei consumi • Audiosintesi

582 583

  Mafia  PERSONAGGI   Alcide De Gasperi: un leader per l’Italia del dopoguerra Parole della storia

FARESTORIA

1 La crescita demografica 2 Il boom economico

611 611 613

641

Le politiche della guerra fredda 98 d Winston Churchill, Le zone di influenza in Europa 99 M. Del Pero, Le premesse dello scontro 100 J.L. Harper, Il consolidamento dei blocchi: la primavera del 1947 101 d Il Patto atlantico 102 d Il Patto di Varsavia 103 d Norman Gelb, La notte del Muro di Berlino 104 d John F. Kennedy, La missione degli Stati Uniti



PISTE DI LAVORO

641 641 642 643 644 645 646 647 648

L’Italia repubblicana: partiti di massa e sistema politico 105 S. Colarizi, Il ruolo dei partiti di massa 106 A. Mariuzzo, Il “fascismo” in democrazia: la lotta del Pci alla “Dc totalitaria” 107 A. Ventrone, La campagna elettorale democristiana  FONTE ICONOGRAFICA  10

CAP15 LA CIVILTÀ DEI CONSUMI

638

A

O

582

637

SVILUPPARE LE COMPETENZE



N

CAP14 L’ITALIA REPUBBLICANA

630

E

O

N

A

E

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

629

648 649 650 651

Manifesti elettorali del 1948 652

108 A. Lepre, Dalla guerra civile fredda alla guerra civile minacciata 653 109 G. Galli • G. Sartori, «Bipartitismo imperfetto» o «pluralismo polarizzato»? 655

►PISTE DI LAVORO

656

IX

INDICE DEL VOLUME

La guerra fredda e la corsa per il primato tecnologico 110 E. Di Nolfo, L’equilibrio del terrore 111 M. Zinni, L’America va alla guerra: armi nucleari e propaganda cinematografica 112 A. Mantegazza, La rivalità spaziale: superiorità sovietica e timori occidentali 113 d Il primo uomo nello spazio

656 656 657 659 660

V. Volikov (1927-1989), «Gloria al popolo sovietico, pioniere dello Spazio!». «Lo spazio sarà nostro!», Mosca 1962 661

FONTE ICONOGRAFICA 11

114 J. Ryan, Arpanet: le origini di Internet all’ombra delle armi nucleari



PISTE DI LAVORO

Le città: mete di immigrazione, luoghi di divisione 115 V. Vidotto, Roma: crescita demografica e sviluppo urbano 116 J. Foot, Le coree milanesi 117 E.O. Reischauer, Tokyo: un’urbanizzazione selvaggia 118 P. Bairoch, L’esplosione urbana del Terzo Mondo



PISTE DI LAVORO

661 663 663

126 J.L. Gelvin, La guerra del 1948 127 B. Morris, L’esodo palestinese 128 M. Campanini, La guerra dei sei giorni e le sue conseguenze 129 d Golda Meir, La sorpresa dello Yom Kippur 130 M. Emiliani, La guerra dello Yom Kippur: la fine del mito dell’invincibilità israeliana

666 667 668



675

668 669

672 673 674

675 676

UNITÀ 5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

  Monetarismo

2 I problemi dell’ambiente

X

EVENTI   L’incidente

INDICE DEL VOLUME

ˇernobyl’ nucleare di C



682 682 683 684 685 686 687



PISTE DI LAVORO

La società del benessere e il consumismo 688 136 H. Van der Wee, L’imperativo della domanda 689 137 d Marshall H. McLuhan, Il medium è il messaggio 690 138 d Roland Barthes, Saponificanti e detersivi 691 139 S. Cavazza, Il tempo libero 692 140 G. Crainz, Fra anni ’50 e villaggio globale 693 141 E. Scarpellini, La grande distribuzione e i “supermercati americani” 695



Parole della storia

681

PISTE DI LAVORO

665

670

1 La fine dell’“età dell’oro”: la crisi petrolifera

680

663



CAP16 ANNI DI CAMBIAMENTO

679



670

Il conflitto arabo-israeliano 125 d La Risoluzione dell’Onu sulla Palestina

678

Tra contestazione e rinnovamento: il movimento studentesco e i nuovi orientamenti cattolici 131 M. Kurlansky, 1968: l’epicentro di una svolta 132 d Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione 133 d Dal discorso d’apertura del Concilio Vaticano II 134 D. Menozzi, Chiesa cattolica e secolarizzazione 135 d Leonardo Boff, La teologia della liberazione

Un nuovo soggetto sulla scena politica: le donne e il movimento femminista 119 P. Willson, Il giorno delle italiane 120 R. Pepicelli, Il velo anticoloniale delle algerine 121 S. Bacchiega, Indira Gandhi, specchio di una nazione 122 J. Mitchell, Il femminismo statunitense 123 d Black Panther Party, le compagne del partito e la questione dell’emancipazione femminile 124 A.R. Calabrò • L. Grasso, I movimenti femministi in Italia

►PISTE DI LAVORO

677

 FONTE ICONOGRAFICA  12

710 712 713 714

La società del benessere

► ►COMPITO DI STORIA

696

PISTE DI LAVORO

697 698

STORIAeAMBIENTE

Dalle città alle metropoli: le emergenze ambientali del XX secolo

699

La crescita urbana e demografica nel XX secolo, 699 Le conseguenze ambientali, 700  Città e ambiente nei pae­ si in via di sviluppo, 701  Cambiamenti climatici e inquinamento atmosferico, 702  Il consumo del suolo, 704

CHIAVI DI LETTURA

710

688

GLI EVENTI



3 Crisi delle ideologie e terrorismo 4 Gli Stati Uniti: da Nixon a Reagan 5 L’Unione Sovietica: da Brežnev a Gorbacˇëv 6 Il dialogo Usa-Urss  PERSONAGGI   Reagan

e Gorbacˇëv

708

716 717 719 721 722

725

6 L’allargamento dell’Unione tra progressi e resistenze

727

LABORATORIO DI CITTADINANZA

724

728 730

La cittadinanza europea

770



731



734

O

XTR

A

732

N

771

Atlante Un’Europa a geometria variabile • Audiosintesi

LI N

XTR

N

E

O

Parole della storia Ecologia • Storia, società, cittadinanza Il disarmo • Storia e Geografia Le terre del petrolio • Focus La crisi L I N dello Stato sociale • Il governo dell’economia mondiale • Lezioni attive Neoliberismo, comunismo e mercato • Audiosintesi A

E

767

SVILUPPARE LE COMPETENZE



SINTESI

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

764

SINTESI

E

Mutamenti politici in Europa occidentale Le nuove democrazie nell’Europa meridionale L’America Latina e la fine delle dittature Nuovi conflitti nell’Asia comunista La Cina dopo Mao Il Giappone: successi economici e debolezza politica

E

7 8 9 0 1 1 1 2 1

CAP19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE 1 Un’area contesa Parole della storia

novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino

  Pulizia etnica

748

SINTESI

753



754

►SVILUPPARE LE COMPETENZE E

Parole della storia

  Europeismo

782

Focus Le armi di distruzione di massa • Audiosisntesi

Contestazione e riforme Violenza politica e crisi economica Terrorismo e “solidarietà nazionale” Politica, economia e società negli anni ’80 La crisi del sistema politico Una difficile transizione EVENTI   Tangentopoli

757

Parole della storia

  Proporzionale/Maggioritario

787 787 789 792 795 798 799 800 803 804

758 758

7 La “rivoluzione maggioritaria” 8 Il centro-sinistra e la scelta europea SINTESI

809

760



810

757

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

761

XTR

N

A

762

O

3 La creazione dell’Unione europea 4 L’euro e le politiche di austerità 5 La scena politica europea tra XX e XXI secolo

779

LI N

CAP20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

E

E

A

O

1 Il progetto europeo fra utopia e realismo 2 L’allargamento della Cee

N

1 2 3 4 5 6

Il Libro Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo • Storia, società, cittadinanza Il disarmo • Storia e Geografia N I N Berlino e il suo muro • Focus Il dissenso nei paesi dell’Est • L Audiosintesi

CAP18 L’UNIONE EUROPEA

XTR

751

XTR

777

785

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

745 746

6 La Russia postcomunista 7 Gli Stati Uniti: la difficile gestione di una vittoria

776



741 743

775

784

A

Parole della storia

740

pace fra Egitto e Israele rivoluzione iraniana guerra del Golfo questione palestinese diffusione dell’integralismo islamico

773 774

SINTESI

O

3 La fine delle “democrazie popolari” 4 La dissoluzione dell’Urss 5 Conflitti etnici e guerra in Jugoslavia

738

E

EVENTI   9

737

La La La La La

E

1 Un impero in crisi 2 Il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca

737

2 3 4 5 6

E

CAP17 LA CADUTA DEI COMUNISMI IN EUROPA

  Fondamentalismo

773

LI N

806

Storia, società, cittadinanza L’Italia dei mass media • Focus Una svolta storica: la legge sul divorzio • Il caso Moro • Audiosintesi

XI

INDICE DEL VOLUME

Locandina per la campagna di tesseramento di Legambiente 2016

813

814

836 838

817

Le trasformazioni dell’Italia 162 V. Vidotto, Gli anni della conflittualità 163 D. Della Porta • M. Rossi, I terrorismi 164 A. Giovagnoli, Rapimento e omicidio di Aldo Moro 165 d Appello di Paolo VI alle Brigate rosse 166 d Achille Occhetto, La svolta della Bolognina 167 A. De Bernardi, Dalla Prima alla Seconda Repubblica 168 d Silvio Berlusconi, La “discesa in campo” 169 G. Orsina, Una definizione del “berlusconismo” 170 S. Lupo, La mafia

818

821

L’Unione europea 157 d Il trattato di Roma

820

821 822 822 824 824 826 827 829 830 830

860

CHIAVI DI LETTURA

870

842 842 843 845 845 847

850

GLI EVENTI



  Multiculturalismo

858

874

7 Questioni di genere 8 Le religioni nel mondo contemporaneo

875

9 Medicina e bioetica

880

SINTESI

882



883

PERSONAGGI   Giovanni

Paolo II: il papa polacco

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

N

868

841

La questione ambientale, 850  Il petrolio e i suoi costi ambientali, 850  Una alternativa possibile? L’energia nucleare, 853  Le energie alternative, 856

O

XII

866

838 840

849

Fonti di energia tradizionali e alternative e costi ambientali

A

865

862 862

838

848

STORIAeAMBIENTE

Parole della storia

3 Economia globale e finanza internazionale 4 Il governo dell’economia mondiale e la tutela dell’ambiente 5 Le trasformazioni nel mondo del lavoro e dell’industria 6 Mutamenti demografici e migrazioni

INDICE DEL VOLUME



832

860

innovatori: Bill Gates e Steve Jobs

►PISTE DI LAVORO ►COMPITO DI STORIA



832

1 La rivoluzione informatica 2 La Rete  PERSONAGGI   Gli

►PISTE DI LAVORO

831

UNITÀ 6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI CAP21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

836

161 L. Rapone, L’allargamento dell’Ue



►PISTE DI LAVORO

835

Fritz Behrendt, Vignetta per la «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 9 giugno 1979



819



834

816

146 W. Behringer, I cambiamenti climatici 147 d Vandana Shiva, Il cibo nel terzo millennio

Il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda 148 d Michail Gorbac ˇ ëv, Le riforme in Urss 149 B. Bongiovanni, Le cause del crollo del comunismo 150 d Robert Darnton, La caduta del Muro di Berlino 151 C.S. Maier, La difficile riunificazione tedesca 152 F. Benvenuti, La transizione della Russia 153 M. Mazower, La guerra nell’ex Jugoslavia 154 d Zlata Filipovic´, Diario dalla Sarajevo in guerra 155 F. Fukuyama, Il trionfo della democrazia liberale 156 C.A. Kupchan, L’era americana?

833

 FONTE ICONOGRAFICA  14

813

 FONTE ICONOGRAFICA  13

►PISTE DI LAVORO

158 d Altiero Spinelli, Per l’unione politica europea 159 d Il trattato di Maastricht 160 M. Gilbert, Il significato di Maastricht e le istituzioni europee

E

Sviluppo e ambiente 142 d Donella H. Meadows • Dennis L. Meadows • Jørgen Randers • William W. Behrens, I limiti dello sviluppo 143 B. De Marchi • L. Pellizzoni • D. Ungaro, La cultura ambientalista 144 d Lo sviluppo sostenibile 145 d Lester R. Brown • Christopher Flavin • Sandra Postel, Un pianeta da salvare

813

E

FARESTORIA

LI N

Eventi La “battaglia di Seattle” • Parole della storia Postfordismo • Focus La musica digitale • Alle origini della rivoluzione biologica: il Dna • Atlante L’economia-mondo multipolare • Audiosintesi

876 878

CAP22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

898 903

SINTESI

905



906

O

E

A

E

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

1 2 3 4 5 6 7



E

2 La guerra contro il terrorismo 3 La mancata stabilizzazione 4 Gli sviluppi della questione palestinese

911

SINTESI

919



920

O

E

A

E

913 917

XTR

N

LI N

Storia, società, cittadinanza La libertà di culto • Audiosintesi

CAP24 SCENARI DEL XXI SECOLO 1 2 3 4 5 6 7

Crisi finanziaria, crisi economica Gli Stati Uniti e la presidenza Obama Da Obama a Trump La Russia di Putin L’Europa e la crisi del debito L’avanzata dei populismi Le “primavere arabe” EVENTI   Piazza

Tahrir

8 L’Isis e i conflitti nel mondo islamico

LI N

953 956 957 959 960

965

Focus La personalizzazione della politica • Audiosintesi

909 909 910

►SVILUPPARE LE COMPETENZE

A

O

N

951

964

SVILUPPARE LE COMPETENZE

XTR

949

963

SINTESI

1 L’attacco all’Occidente

settembre, gli Usa sotto attacco

Le trasformazioni sociali La stagione del centro-destra Crisi economica e instabilità politica La supplenza dei tecnici Un nuovo quadro politico Renzi e le riforme Verso nuove elezioni Architetture “sostenibili”. Il Bosco Verticale di Boeri



EVENTI   L’11

949

ARTE E TERRITORIO

Storia e Geografia Il Pacifico • Storia e Cinema The Millionaire di Boyle • Focus Le tigri asiatiche • Atlante L’economia-mondo multipolare • I flussi migratori nel mondo multipolare • Audiosintesi

CAP23 IL MONDO ISLAMICO E LO SCONTRO CON L’OCCIDENTE

E

E

896

7 La geografia della povertà: l’Africa subsahariana

LI N

Atlante I conflitti contemporanei • Audiosintesi

CAP25 L’ITALIA NEL XXI SECOLO

895

Mandela e la lotta contro l’apartheid

N

LI N

892 893

 PERSONAGGI   Nelson

XTR

N

891

6 Il nuovo Sudafrica

Le emergenze umanitarie

887

XTR

946

889

  Debito estero

LABORATORIO DI CITTADINANZA

886

E

Parole della storia



A

Le economie emergenti La Cina potenza mondiale Il Giappone e le “tigri asiatiche” Lo sviluppo dell’India L’America Latina: dalle crisi allo sviluppo

944

SVILUPPARE LE COMPETENZE



O

1 2 3 4 5

SINTESI 886

923 923 925 927 930 931 933 936 938 941

FARESTORIA

967

La globalizzazione e le trasformazioni dell’economia 171 S. Pollard, Una rivoluzione tecnologia 172 U. Beck, Le imprese internazionali 173 d Naomi Klein, Multinazionali e sfruttamento 174 M. Castells, Le sfide della società in rete 175 J. Bhagwati, I vantaggi del commercio internazionale 176 M. Wolf, I vantaggi della finanza globale 177 d Jeremy Brecher • Tim Costello, Contro il capitalismo globale



 FONTE ICONOGRAFICA  15

Una nuova mutazione?

PISTE DI LAVORO

967 967 968 969 970 971 972 973 974 974

Migrazioni e nuovi modelli di società 975 178 Z. Bauman, Le contraddizioni della mobilità 975 179 d Igiaba Scego, La libertà di viaggio non è uguale per tutti 976 180 d Stefano Liberti, Il viaggio dei migranti 977 181 P. Corti • M. Sanfilippo, Le migrazioni verso l’Italia 978 182 M.L. Maniscalco, Modelli di integrazione in Europa 979 183 A. Sen, Multiculturalismo e integrazione 981

XIII

INDICE DEL VOLUME

184 d Zadie Smith, Libertà e bisogno d’appartenenza 982

►PISTE DI LAVORO

983

Economi emergenti e crisi finanziaria 185 J.E. Stiglitz, Crescita economica nell’Asia orientale 186 F. Rampini, L’ascesa della Cina 187 I. Musu, Cina: aree rurali e urbane 188 J. Drèze • A. Sen, Crescita economica e disugualianze sociali in India 189 F. Bonaglia • L. Wegner, La rinascita dell’Africa 190 L. Zanatta, L’America Latina fra crescita e crisi 191 T. Judt, Nuove disuguaglianze in Occidente 192 S. Rossi, La crisi finanziaria 193 d Manuel Castells, Occupy Wall Street 194 V. Castronovo, Crisi greca e austerità 195 L. Gallino, La crisi dello Stato sociale 196 T. Piketty, La distribuzione della ricchezza

983



997

►PISTE DI LAVORO

La sfida del terrorismo e i conflitti interni al mondo islamico 197 d Samuel P. Huntington, Scontro di civiltà 198 d Osama bin Laden, Dichiarazione per la guerra santa 199 G. Kepel, Gli ideologi di Al Qaeda 200 d Oriana Fallaci • Tiziano Terzani, Islam e terrorismo 201 F. Romero, Gli Usa e la “guerra al terrore” 202 M. Trentin, L’ascesa dell’Is in Medio Oriente 203 d Olivier Roy, Una rivolta generazionale e nichilista 204 R. Guolo, Jihadismo e globalizzazione 205 W. Sofsky, Terrorismo e guerra terroristica Copertina dell’edizione del 14 gennaio 2015 del giornale satirico francese «Charlie Hebdo»

982 985 986 987 988 989 991 992 993 994 995 996

XIV

1009



1013

►PISTE DI LAVORO

998 999 1000

1010 1012 1012

L’Italia nel nuovo millennio 210 G. Pasquino, Il clientelismo e le sue conseguenze 211 d Roberto Saviano, Gli affari della camorra 212 P. Corbetta • E. Gualmini, Il Movimento 5 stelle 213 G. Amato • A. Graziosi, Immobilismo e mancate riforme 214 A. Giunta • S. Rossi, Il declino economico

1014



1020



►PISTE DI LAVORO ►COMPITO DI STORIA

STORIAeAMBIENTE 998

Alimentazione e ambiente: gli sviluppi di agricoltura e allevamento

1014 1015 1016 1018 1019

1021 1022

Le trasformazioni dell’agricoltura nel XX secolo. La rivoluzione verde e gli Ogm, 1022  L’industria dell’allevamento, 1026

1002 1003 1004 1005 1006 1008

FONTE ICONOGRAFICA 16

INDICE DEL VOLUME

206 J.L. Gelvin, Nazionalismo e movimenti islamici 207 M. Campanini, Le primavere arabe 208 d Tarek Amara, A cinque anni dalle primavere arabe 209 P. Blanc • J.P. Chagnollaud, La guerra civile in Siria

1009

GLOSSARIO

1029

INDICE DEI NOMI

1030

DAL 1900 A OGGI

o c

San Pietroburgo B a l t i c o

SVEZIA

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A

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DANIMARCA

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NORVEGIA

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GRAN BRETAGNA PAESI BASSI

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LUSSEMBURGO Parigi

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Vienna

O

FRANCIA

IMPERO D’AUSTRIA E UNGHERIA

SVIZZERA

ROMANIA SERBIA

ITALIA

PORTOGALLO

BULGARIA

SPAGNA

Roma

I M P E R O

Democrazia liberale (a suffragio universale maschile o semiuniversale)

O T T O

GRECIA

Regime costituzionale in assenza di democrazia liberale Regime autocratico L’EUROPA ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE Democrazia liberale (a suffragio universale maschile o semiuniversale)

Triplice intesa (Stati aderenti)

Regime costituzionale in assenza di democrazia liberale

Triplice alleanza (Stati aderenti)

Regime autocratico Triplice intesa (Stati aderenti) Triplice alleanza (Stati aderenti)

UNITÀ 1 L’ALBA DEL ’900

MONTENEGRO

M a r

e o M e d i t e r r a n

O

CHIAVI DI LETTURA

Un’epoca contraddittoria

o

“Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 il dominio dell’Europa sul resto del pianeta raggiunse la sua massima espansione territoriale, nel quadro di un progresso tecnologico e di uno sviluppo materiale che a molti sembravano irreversibili. Era la «belle époque», l’“epoca bella”, in realtà non priva di ombre e contraddizioni. Come ha scritto lo storico Eric Hobsbawm, «fu un’èra di profonda crisi d’identità e di trasformazione profonda per una borghesia i cui tradizionali fondamenti morali si sgretolavano sotto il peso stesso della ricchezza e del benessere da

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L’Italia giolittiana

M

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a

essa accumulati». Il liberalismo borghese imboccò la via di un drammatico declino proprio quando raggiunse il suo apogeo. s

p

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O M A N

istituzionali, favorendo i processi di democratizzazione e suscitando al tempo stesso forti reazioni di ripulsa rispetto a quei processi, soprattutto nel mondo della cultura; le crescenti rivalità fra i due contrapposti blocchi di potenze: Germania, Impero austro-ungarico e Italia da una parte; Francia, Russia e Gran Bretagna dall’altra; l’affacciarsi sulla scena mondiale delle due nuove grandi potenze extraeuropee, Stati Uniti e Giappone; il primo profilarsi di aspirazioni nazionali e indipendentiste fra i popoli soggetti alla dominazione dell’Occidente. Come all’interno dei maggiori paesi europei la politica mutava le sue dimensioni, sfuggendo al controllo delle ristrette élite che l’avevano fino ad allora dominata, così la politica internazionale si complicava allargandosi a nuovi protagonisti: diventava insomma, a tutti gli effetti, politica mondiale. Come mondiali sarebbero state le due spaventose guerre che avrebbero segnato la prima metà del XX secolo e che avrebbero sancito il tramonto dell’egemonia europea.

o

Il declino dell’egemonia europea Alla vigilia del primo conflitto mondiale (scoppiato nel 1914) molti elementi di crisi mettevano seriamente a rischio la supremazia dell’Europa: le tensioni interne originate dal progressivo affermarsi della società di massa, che minacciava i vecchi equilibri politici e

Nel primo quindicennio del ’900 protagonista assoluto della scena politica italiana fu Giovanni Giolitti, al governo quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914. La cosiddetta “età giolittiana” coincise per l’Italia con una stagione di forte, seppur squilibrato, sviluppo economico, di evidente, anche se inegualmente distribuito, progresso civile e di complessiva democratizzazione del sistema politico, coronata dall’introduzione del suffragio universale maschile. Fu al tempo di Giolitti, e in parte grazie alla sua politica, che l’Italia sperimentò liberamente le manifestazioni, spesso dure e conflittuali, di una dialettica politica e sociale tipica delle democrazie moderne. Alla vigilia della guerra mondiale l’Italia, la più recente e la più piccola delle potenze del continente, era ormai inserita a pieno titolo nella politica europea.

GLI EVENTI 1897 Nascita del movimento sionista

1891 Enciclica Rerum novarum

1898 Scoppia in Francia il caso Dreyfus

1900 1904-5 Freud pubblica Guerra russo-giapponese L’interpretazione e rivoluzione russa dei sogni 1905 Einstein formula la teoria della relatività

1903-14 “Età giolittiana”

1911 1908 Rivoluzione Rivoluzione dei “Giovani in Cina turchi”

1906 Nasce la Cgl

1911-12 L’Italia conquista la Libia

1912-13 Guerre balcaniche

1912 Suffragio universale maschile in Italia

1913 La Ford sperimenta la catena di montaggio

1914 “Settimana rossa”

E

A

XTR

CAP1 LA SOCIETÀ DI MASSA



1_1 «LA MOLTITUDINE S’È FATTA VISIBILE»

«Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati. Gli spettacoli [...] pieni di spettatori. [...] La moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile [...]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro». Questo passo è tratto dal celebre libro La ribellione delle masse dello spagnolo José Ortega y Gasset, pubblicato nel 1930. Ma il fenomeno che vi è descritto aveva radici molto lontane. Di “massa” o di “masse”, nel senso di moltitudine indifferenziata, di aggregato in cui gli individui tendono a scomparire rispetto al gruppo [►FS, 4d], si cominciò a parlare con toni allarmati fin dai primi anni dell’800, dopo che la Rivoluzione francese aveva visto il “popolo” entrare per la prima volta da protagonista sulla scena politica. I problemi del rapporto fra massa e individuo e i pericoli che l’ascesa delle masse portava all’ordine sociale tradizionale, ma anche a quello liberal-borghese, erano stati al centro della riflessione di molti pensatori ottocenteschi. Ma è solo alla fine dell’800, con la seconda rivoluzione industriale e i connessi fenomeni di urbanizzazione, e solo nei paesi economicamente più avanzati dell’Europa occidentale e del Nord America, che si vennero delineando i contorni di quella che oggi chiamiamo “società di massa” [►FS, 1].

Masse e individui

Nella società di massa la maggioranza dei cittadini vive in grandi e medi agglomerati urbani [►FS, 6]; gli uomini sono quindi a più stretto contatto gli uni con gli altri; entrano in rapporto fra

I nuovi rapporti sociali

4

James Ensor, Autoritratto con maschere 1898 [Menard Art Museum, Komaki, Aichi (Giappone); © James Ensor, by SIAE 2018] Non tutti accolsero con ottimismo i profondi cambiamenti sociali che l’avvento della società di massa comportò. Tra coloro che si dimostrarono critici vi fu il pittore belga James Ensor (1860-1949) che attraverso la sua arte ne denunciò gli aspetti negativi; nel dipinto, infatti, si ritrae al centro di una umanità inquietante, nascosta da maschere strane e talvolta spaventose.

U1 L’ALBA DEL ’900

E

O

N LI N

Storia e Letteratura L’uomo senza qualità di Musil Focus La diffusione dei quotidiani in Italia • Freud e la scoperta dell’inconscio • La nascita del cinema Lezioni attive Socialismo, nazionalismo, razzismo: tensioni sociali in un mondo che cambia Test interattivi Audiosintesi

► Leggi anche: ► Fare Storia La società di massa, p. 87

loro con maggiore frequenza e facilità, grazie anche alla disponibilità di mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione e di svago (negli ultimi anni dell’800 nascono le prime sale cinematografiche). Ma questi rapporti hanno spesso un carattere anonimo e impersonale: il sistema delle relazioni sociali, infatti, non passa più attraverso le comunità tradizionali (locali, religiose, di mestiere), ma fa capo alle grandi istituzioni nazionali, agli apparati statali, all’esercito, ai partiti e in genere alle organizzazioni “di massa”, che esercitano un peso crescente sulle decisioni pubbliche e sulle stesse scelte individuali. Il grosso della popolazione è uscito dalla dimensione dell’autoconsumo e quasi tutti sono entrati, come produttori o come consumatori di beni e di servizi, nel circolo dell’economia di mercato. I comportamenti e le mentalità tendono a uniformarsi secondo nuovi modelli generali: consumi e stili di vita un tempo riservati a un’esigua minoranza si diffondono fra strati sociali sempre più larghi [►FS, 1 e 5].

economia di mercato Organizzazione economica basata sullo scambio di beni e servizi in mercati liberi, caratterizzati dalla libera iniziativa d’impresa e regolati dall’andamento della domanda e dell’offerta. terziario Nel settore terziario sono comprese quelle attività economiche – commercio, servizi e amministrazione – che non appartengono all’agricoltura (settore primario) e all’industria (settore secondario): dagli assicuratori agli agenti di Borsa, agli impiegati del comune, ai negozianti, ecc. Alla fine del ’900 i lavoratori del terziario sono diventati la maggioranza nei paesi industrializzati dell’Occidente.

La società di massa è il risultato dell’intreccio di una serie di processi economici, di trasformazioni politiche, di mutamenti culturali. Una realtà che ha suscitato resistenze e reazioni d’ogni sorta e che è stata dipinta ora con tratti ottimistici – l’ascesa delle masse come frutto della democratizzazione e della diffusione del benessere –, ora con accenti di angosciata preoccupazione – il dominio delle masse come appiattimento generale e come minaccia per le libertà individuali [►FS, 5]. Comunque lo si voglia considerare, l’avvento della società di massa è un fenomeno che ha segnato come forse nessun altro il mondo contemporaneo.

Le due facce della società di massa

Gli esordi della società di massa, se da un lato tendevano a creare uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali, dall’altro rendevano più mobile e più complessa la stratificazione sociale. Nella classe operaia si veniva accentuando la distinzione fra la manodopera generica e i lavoratori qualificati (specializzati in alcune mansioni), fra la “base” del proletariato e le cosiddette “aristocrazie operaie”, che partecipavano in misura maggiore ai vantaggi dello sviluppo industriale. Contemporaneamente, l’espansione del settore terziario e la crescita degli apparati burocratici facevano aumentare la consistenza di un ceto medio urbano che andava sempre più distanziandosi dagli strati superiori della borghesia. A ingrossare le file di questo ceto medio contribuivano sia il settore del lavoro autonomo – liberi professionisti, artigiani, commercianti – sia quello del lavoro dipendente. In quest’ultimo settore la categoria dei dipendenti pubblici si allargava di pari passo con l’aumento dei compiti dello Stato e delle amministrazioni locali in materia di sanità, di istruzione, di trasporti e di altri servizi. Ancora più rapidamente cresceva la massa degli addetti al settore privato – tecnici, impiegati, commessi – che svolgevano mansioni non manuali: quelli che più tardi sarebbero stati chiamati colletti bianchi, per sottolineare il contrasto con i “colletti blu” delle tute degli operai.

L’espansione dei ceti medi

I CARATTERI DELLA SOCIETÀ DI MASSA

Sindacati

Seconda rivoluzione industriale

URBANIZZAZIONE DELLE MASSE

Sviluppo delle istituzioni nazionali

Partiti di massa

Apparati statali Integrazione nell’economia di mercato

Adeguamento dei comportamenti e degli stili di vita a modelli generali

Rapporti anonimi e impersonali

5

C1 LA SOCIETà DI MASSA

Già alla vigilia della prima guerra mondiale, nei paesi più industrializzati e più toccati dai processi di modernizzazione produttiva, colletti bianchi e impiegati statali costituivano una massa abbastanza omogenea e numerosa, anche se non paragonabile per consistenza a quella dei lavoratori manuali. Nella scala dei redditi, i ceti medi impiegatizi occupavano una posizione molto distante da quella dell’alta borghesia e tendenzialmente più vicina a quella degli strati “privilegiati” della classe operaia. Dal punto di vista della cultura, della mentalità, dei comportamenti sociali, la distinzione fra piccola borghesia e proletariato era però molto netta. I ceti medi rifiutavano ogni identificazione con le classi lavoratrici, erano per lo più ostili alle organizzazioni sindacali e puntavano sul merito individuale per progredire nella scala sociale. Agli ideali tipici della tradizione operaia – la solidarietà, lo spirito di classe, l’internazionalismo – contrapponevano i valori storici della borghesia: l’individualismo e la rispettabilità, la proprietà privata e il risparmio, il rispetto delle gerarchie e il patriottismo. Anzi, si atteggiavano a difensori di questi valori in polemica con l’alta borghesia industriale e bancaria, che tendeva a diventare cosmopolita e adottava modelli di comportamento tipici delle classi aristocratiche. La piccola borghesia impiegatizia era destinata, man maMETODO DI STUDIO no che cresceva in consistenza numerica, a svolgere un  a   Descrivi il concetto di massa che si afferma a inizio ’800, e spiega quando e perché è possibile iniziare a parlare di “società di massa”. ruolo di primo piano: sia nel campo economico, in quan b   Individua da cinque a sette parole chiave relative alle caratteristiche della to principale destinataria di una serie di beni di consumo società di massa e di coloro che ne fanno parte e argomenta la tua scelta per prodotti dall’industria, sia in quello politico, come elettoiscritto.  c   Cerchia con colori diversi le classi sociali descritte e sottolinea con lo rato di massa, capace, a seconda delle sue oscillazioni, di stesso colore le informazioni relative a ciascuna di esse (tipologie di mestieri, segni far pendere la bilancia dalla parte delle forze conservatrici distintivi, elementi relativi alla mentalità, ecc.). o di quelle progressiste.

La piccola borghesia impiegatizia



1_2 SVILUPPO INDUSTRIALE E ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Dagli ultimi anni dell’800 allo scoppio della prima guerra mondiale (1914), l’economia dei paesi industrializzati conobbe una fase di espansione intensa e prolungata, interrotta solo da una breve crisi nel 1907-8. Se il periodo 1873-95 era stato caratterizzato soprattutto dalle innovazioni tecnologiche, dalla affermazione di settori “giovani” – acciaio, chimica, elettricità – e dalla crescita di nuove potenze industriali – Germania e Stati Uniti –, gli anni 1896-1913 furono segnati da uno sviluppo generalizzato della produzione che interessò quasi tutti i settori e toccò anche paesi “nuovi arrivati” come la Russia e l’Italia. In questo periodo, l’indice della produzione industriale e quello del commercio mondiale risultarono più o meno raddoppiati. I prezzi, che erano stati sempre calanti a partire dal 1873, crebbero costantemente, anche se lentamente, dopo il 1896. Ma crebbe anche, e in misura più consistente, il livello medio dei salari, e il prodotto pro capite dei paesi industrializzati aumentò nonostante il contemporaneo, cospicuo aumento della popolazione.

La crescita economica

La crescita dei redditi determinò a sua volta l’ampliamento del mercato. Le industrie produttrici di beni di consumo e di servizi si trovarono per la prima volta a dover soddisfare una domanda che sempre più assumeva dimensioni di massa. Beni la cui produzione era stata fino ad allora assicurata solo dal piccolo artigianato o dall’industria domestica – abiti e calzature, utensili e mobili – cominciarono a essere prodotti in serie e venduti attraverso una rete commerciale sempre più estesa e ramificata: nelle città, ma anche nei piccoli centri, si moltiplicarono i negozi; i grandi magazzini crebprodotto pro capite bero in numero e in dimensioni; si aprirono nuovi canali di vendita a domicilio e Il prodotto complessivo di un determinato gruppo (ad per corrispondenza, con forme di pagamento rateale che rendevano gli acquisti esempio, la popolazione di uno Stato o di un territorio) più accessibili ai ceti meno abbienti; i muri dei palazzi e le pagine dei giornali si diviso per il numero delle persone che ne fanno parte. riempirono di annunci e cartelloni pubblicitari.

6

Produzione in serie e nuovi consumi

U1 L’ALBA DEL ’900

Le esigenze della produzione in serie per un mercato di massa spinsero le imprese ad accelerare i processi di meccanizzazione e di razionalizzazione produttiva. Nel 1913, nelle officine automobilistiche Ford di Detroit, fu introdotta la prima catena di montaggio: un’innovazione rivoluzionaria che consentiva di ridurre notevolmente i tempi di lavoro ma, frammentando il processo produttivo in una serie di piccole operazioni affidate ciascuna a un singolo operaio, rendeva il lavoro ripetitivo e spersonalizzato. La catena di montaggio fu, del resto, il culmine di una serie di tentativi volti a migliorare la produttività non solo mediante l’introduzione di nuove macchine, ma anche attraverso un più razionale controllo e sfruttamento del lavoro umano.

La catena di montaggio

Il tentativo più organico e più fortunato in questo senso si do- Le fasi finali della catena di montaggio nella produzione del modello T della Ford a Detroit vette a un ingegnere statuniFondata da Henry Ford nel 1903, l’omonima casa automobilistica di Detroit fu la tense, Frederick W. Taylor, autore nel 1911 di un prima a introdurre nei suoi stabilimenti la catena di montaggio e i sistemi tayloristici, libro intitolato Princìpi di organizzazione scientifi- oltre che ad applicare la nuova filosofia imprenditoriale detta “fordismo”. ca del lavoro [►FS, 2d]. Il metodo di Taylor si basava sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla rilevazione dei tempi standard necessari per compiere le singole operazioni e sulla fissazione, in base ad essi, di regole e ritmi cui gli operai avrebbero dovuto uniformarsi, eliminando le pause ingiustificate e gli sprechi di tempo. Applicate con un certo successo in molte grandi imprese americane e – soprattutto dopo la prima guerra mondiale – anche europee, le tecniche del taylorismo assicurarono notevoli progressi in termini di produttività e permisero alle imprese che le METODO DI STUDIO adottarono di innalzare il livello delle retribuzioni. Tipico fu il caso della Ford,  a   Sottolinea i principali elementi che hanno caratterizzato il periodo dal 1896 al 1913. l’industria di Detroit che fu la prima a produrre automobili in grande serie,  b   Sintetizza le conseguenze della crescita dei legando il suo nome a una nuova filosofia imprenditoriale – il fordismo – baredditi sulla produzione di beni di consumo e di servizi. sata sui consumi di massa, sui prezzi competitivi e sugli alti salari [►FS, 3d]. I  c   Spiega cosa è una catena di montaggio, quali sistemi tayloristici incontrarono però una diffusa ostilità fra i lavoratori che si vantaggi derivano dalla sua applicazione e cosa significò dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro. sentivano spossessati di qualsiasi autonomia, oltre che di qualsiasi orgoglio  d   Cerchia le filosofie imprenditoriali descritte e professionale, e vedevano subordinato il loro lavoro agli automatismi delle sottolineane le caratteristiche principali. macchine.

Taylorismo e fordismo



1_3 LA NAZIONALIZZAZIONE DELLE MASSE:

► Leggi anche:

SCUOLA, ESERCITO E SUFFRAGIO UNIVERSALE

►   Focus La diffusione dei quotidiani in Italia

Nel corso dell’800, e soprattutto nella seconda metà del secolo, prese forma, ad opera dei singoli Stati, quella politica di educazione ai valori nazionali che gli storici avrebbero definito in seguito come “nazionalizzazione delle masse”. L’estraneità di una larga parte delle popolazioni ai princìpi e agli obiettivi politici delle classi dirigenti al potere andava superata grazie al ruolo svolto dalla scuola, dall’esercito e, in seguito, dall’allargamento del suffragio. Costituirono potenti fattori di costruzione di un’identità nazionale la scuola elementare obbligatoria, che attraverso la pratica della lettura e della scrittura promuoveva lo studio delle tradizioni patriottiche, e il servizio militare che, svolto in

Come diffondere i valori nazionali

7

C1 LA SOCIETà DI MASSA

luoghi lontani da quelli di origine, favoriva l’amalgama con soldati di altra provenienza. Ad essi si aggiunse, alla fine del secolo, la diffusione del suffragio universale maschile che consentì a masse sempre più ampie la partecipazione alla vita politica rappresentativa. In questo periodo si cercò ovunque di dare attuazione pratica al principio secondo cui l’istruzione non era un bene riservato ai membri di una élite sociale – destinata per nascita a comandare altri uomini, ad amministrare i culti, a esercitare arti e professioni – ma costituiva un’opportunità da cui nessuno doveva essere escluso, un servizio reso alla collettività. Per assicurare questo servizio non poteva essere sufficiente l’impegno della Chiesa e delle istituzioni filantropiche, ma era necessario l’intervento dello Stato e delle amministrazioni locali. L’idea di una scuola aperta a tutti e controllata dai poteri pubblici, se provocava la resistenza degli ambienti più legati a una visione tradizionale della società (che vedevano nell’istruzione popolare un’arma pericolosa in mano alle classi subalterne), presentava non pochi motivi di interesse per le classi dirigenti: la scolarizzazione diffusa poteva rappresentare, infatti, non solo uno strumento pacifico di promozione sociale, un mezzo per educare il popolo e per ridurre la criminalità, ma anche un canale attraverso cui lo Stato poteva diffondere i suoi valori tra le giovani generazioni.

L’istruzione per tutti

tasso di analfabetismo Indica la percentuale della popolazione, sopra i sei anni di età, incapace di leggere e scrivere. È un dato fondamentale per accertare il grado di sviluppo sociale di un paese. La diffusione dell’istruzione determina un calo del tasso di analfabetismo. In parte diverso è invece il fenomeno dell’analfabetismo “di ritorno”: include chi, dopo aver imparato a leggere e scrivere, perde questa capacità per mancanza di esercizio. tiratura Nel linguaggio giornalistico indica il numero di copie stampate, che generalmente è superiore al numero delle copie vendute. La differenza tra “tiratura” e vendita (ossia le copie invendute) è di solito restituita dagli edicolanti all’editore e viene chiamata “resa”.

A partire dagli anni ’70 dell’800, pertanto, tutti i governi d’Europa si impegnarono per rendere l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita, per sviluppare quella media e superiore e per portare l’insegnamento sotto il controllo pubblico. Il processo di laicizzazione e di statalizzazione del sistema scolastico ebbe tempi, forme e risultati diversi a seconda dei paesi. Fu meno spinto in Gran Bretagna, dove la Chiesa anglicana e le istituzioni private conservarono spazi abbastanza ampi, più radicale in Francia, dove la questione scolastica diede luogo ad aspri conflitti fra Chiesa e Stato. In generale lo sviluppo della scuola statale fu più rapido in quegli Stati, come la Francia e la Germania, in cui esisteva già da tempo un’alfabetizzazione diffusa, più lento nei paesi mediterranei e nell’Europa orientale, dove le condizioni di partenza erano più sfavorevoli dal punto di vista sociale ed economico. L’effetto più immediato di questo sforzo fu un aumento generalizzato della frequenza scolastica: alla vigilia della prima guerra mondiale andare a scuola era diventata la regola per i bambini europei sotto i dieci anni. Lo sviluppo dell’istruzione elementare determinò una rapida diminuzione del tasso di analfabetismo, che già ai primi del ’900 era sceso a percentuali poco più che marginali (intorno al 10%) nelle aree più avanzate e tendeva a calare anche in quelle più arretrate (dove spesso superava ancora il 50%) relativamente alle classi di età più giovani.

La scuola pubblica

Strettamente legato ai progressi dell’alfabetizzazione fu l’incremento nella diffusione della stampa quotidiana e periodica. All’inizio del ’900, infatti, i quotidiani divennero più vivaci: aumentarono le notizie di cronaca cittadina e crebbe l’interesse per gli spettacoli e gli avvenimenti mondani. Nei paesi più industrializzati si moltiplicarono lettori e tirature: in questo periodo, per esempio, il «Daily Mail» in Gran Bretagna e il «Petit Journal» in Francia superarono il milione di copie quotidiane. I giornali più importanti potevano contare su numerosi corrispondenti sparsi nelle altre città del paese e nelle capitali estere da dove inviavano quotidianamente servizi

8

I giornali

U1 L’ALBA DEL ’900

Campagna pubblicitaria per l’abbonamento al «Corriere della Sera» del 1896 Fondato a Milano nel marzo 1876, il «Corriere della Sera» dopo appena vent’anni assunse le dimensioni di una grossa impresa editoriale, con una tiratura di 90 mila copie. Nel 1896, con Luigi Albertini direttore, il giornale si affermò nel panorama editoriale italiano, grazie anche all’adozione della linotype, della rotativa e delle linee telefoniche per la trasmissione delle notizie. Nel 1906 le copie vendute divennero 150 mila e 600 mila durante la prima guerra mondiale.

sulle principali notizie del giorno. Questa straordinaria espansione dei quotidiani all’inizio del ’900 fu favorita anche dai progressi tecnologici: dalla diffusione delle rotative e delle linotype (la macchina per la composizione dei caratteri) all’uso sempre più frequente del telefono, che consentì di aumentare quantità e rapidità nella circolazione delle informazioni. La crescita del numero dei lettori determinò quindi un progressivo allargamento dell’area di coloro che contribuivano a formare l’opinione pubblica: per un numero crescente di cittadini, infatti, diventò più facile accedere alle informazioni di interesse generale, farsi una propria opinione sulle questioni più importanti e far pesare questa opinione nelle scelte politiche. Un contributo notevole allo sviluppo della società di massa venne anche dalle riforme degli ordinamenti militari che furono realizzate in tutta Europa – con l’unica eccezione della Gran Bretagna – a partire dagli anni ’70 dell’800. Il principio su cui si fondavano queste riforme era quello del servizio militare obbligatorio per la popolazione maschile, ossia la trasformazione degli eserciti a lunga ferma, composti in pratica da professionisti, in eserciti a ferma più o meno breve formati da “cittadini in armi”. Nonostante gli ostacoli di natura economica (un esercito di tali dimensioni comportava una spesa considerevole per gli Stati) e politica (addestrare all’uso delle armi masse potenzialmente rivoluzionarie poteva diventare una minaccia all’ordine costituito), due importanti fattori spingevano per la trasformazione degli eserciti. Uno era di carattere politico-militare: la disponibilità di grandi masse consentiva agli Stati di dotarsi di eserciti abbastanza numerosi da poter assolvere quella funzione deterrente che ne faceva uno strumento indispensabile anche in tempo di pace. L’altro era dato dal fatto che la tecnologia e l’industria consentivano la produzione in serie di armi, munizioni ed equipaggiamenti in misura tale da coprire le esigenze di grandi eserciti, mentre lo sviluppo delle ferrovie offriva a questi eserciti la possibilità di spostamenti veloci, riducendo di molto i tempi di mobilitazione, di radunata e di schieramento. A tutto ciò vanno aggiunte le pressioni esercitate sui governi dai gruppi industriali interessati alle forniture militari. Fra il 1870 e il 1914, l’impegno crescente di governi e stati maggiori nell’organizzare la mobilitazione e l’armamento di grandi quantità di coscritti non solo rese possibile la nascita dei moderni eserciti di massa, che sarebbero stati i protagonisti del primo conflitto mondiale, ma servì anche a estendere la capacità di controllo dei poteri statali sulla società civile [►  _1].

Il servizio militare obbligatorio

La coscrizione obbligatoria si legava tuttavia all’inevitabile estensione del suffragio: come si poteva negare infatti il diritto di voto a coloro ai quali lo Stato chiedeva di mettere a repentaglio la propria vita? E in effetti in Europa, tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, il cammino verso la società di massa si accompagnò alla tendenza costante

L’estensione del diritto di voto

1_CONSISTENZA NUMERICA DI ESERCITO E MARINA DELLE PRINCIPALI POTENZE MONDIALI (1880-1914)

Stati

1880

1890

1900

1910

1914

Russia

791.000

677.000

1.162.000

1.285.000

1.352.000

Francia

543.000

542.000

715.000

769.000

910.000

Germania

426.000

504.000

524.000

694.000

891.000

Gran Bretagna

367.000

420.000

624.000

571.000

532.000

Austria

246.000

346.000

385.000

425.000

444.000

Italia

216.000

284.000

255.000

322.000

345.000

Giappone

71.000

84.000

234.000

271.000

306.000

Stati Uniti

34.000

39.000

96.000

127.000

164.000

9

C1 LA SOCIETà DI MASSA

Alfred Bramtot, Un seggio elettorale 1891 [Petit Palais, Parigi] La tela illustra le operazioni di voto in un seggio elettorale francese alla fine del XIX secolo. Gli abiti degli elettori raffigurati rivelano la presenza al seggio di diverse componenti sociali: l’operaio, che sta consegnando la scheda, e gli altri elettori distinti dal diverso abbigliamento. Una intensa luce bianca entra dalla grande finestra per illuminare il cittadino venuto a svolgere il suo dovere elettorale.

verso l’allargamento del diritto di voto. Nel 1890 il suffragio universale maschile era adottato solo in Francia, in Germania e in Svizzera. Nei venticinque anni successivi, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale furono approvate leggi che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la totalità o la stragrande maggioranza dei cittadini maschi maggiorenni, indipendentemente dal censo. Il suffragio universale maschile fu introdotto in Spagna nel 1890, in Belgio nel 1893, in Norvegia nel 1898, in Austria e nel Granducato di Finlandia, allora parte dell’Impero russo, nel 1907 (Norvegia e Finlandia furono i primi paesi a concedere il voto anche alle donne), in Italia – con alcune limitazioni – nel 1912. Gran Bretagna e Olanda furono le ultime ad adeguarsi e lo fecero immediatamente dopo la prima guerra mondiale.



METODO DI STUDIO

 a   Cerchia gli strumenti utilizzati dagli Stati per costruire l’identità nazionale e individua per ognuno di essi da tre a cinque parole chiave che ne esprimano i tratti salienti. Quindi argomenta la tua scelta.  b   Spiega in che modo fu attuata la riforma degli ordinamenti militari, soffermandoti sulle cause di questa scelta e sulle soluzioni adottate. Quindi descrivine le conseguenze sulla questione del suffragio.

1_4 PARTITI DI MASSA, SINDACATI E RIFORME SOCIALI

L’allargamento del diritto di voto alle grandi masse determinò dappertutto mutamenti di rilievo nelle forme organizzative e nei meccanismi della lotta politica. Tutti i gruppi – anche i più conservatori – furono costretti a sperimentare nuove tecniche per conquistare e mantenere il consenso popolare. Si affermò il nuovo modello del partito di massa: quello realizzato per la prima volta dai socialdemocratici tedeschi (poi imitato dai socialisti degli altri paesi e in minor misura dai cattolici), basato sull’inquadramento di larghi strati della popolazione attraverso una struttura permanente, articolata in organizzazioni locali – sezioni, federazioni – e facente capo a un unico centro dirigente. Già alla vigilia della prima guerra mondiale appariva chiaro come in nessun paese dell’Europa occidentale la vita pubblica potesse più essere considerata un terreno riservato a ristretti gruppi di notabili che traevano la loro forza dalla loro posizione sociale; e come nuovi centri di potere si andassero affiancando a quelli tradizionali presenti nei sistemi politici liberali.

I partiti di massa

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La difficile affermazione dei sindacati

U1 L’ALBA DEL ’900

Un altro segno delle nuove dimensioni assunte dalla lotta politica e sociale – e un altro canale efficacissimo di nazionalizzazione delle masse – fu costituito dalla rapida crescita delle organizzazioni sindacali. Sino alla fine dell’800 il sindacalismo operaio

► Leggi anche: ► Fare Storia Partiti e ideologie, p. 95

era una realtà solida e consistente solo in Gran Bretagna, dove le Trade Unions, intorno al 1890, contavano già un milione e mezzo di iscritti. Negli ultimi anni dell’800, grazie all’impulso decisivo del movimento socialista, le organizzazioni dei lavoratori crebbero in numero e in consistenza in tutti i paesi europei, ma anche negli Stati Uniti, in Australia e in America Latina: quasi ovunque riuscirono a far valere il proprio diritto all’esistenza contro l’opposizione degli imprenditori e delle classi dirigenti conservatrici e contro i pregiudizi della dottrina liberista, che vedeva nei sindacati un ostacolo al libero gioco della contrattazione. Nati e sviluppatisi in forme diverse a seconda dei paesi, i sindacati si federarono, sull’esempio delle Trade Unions britanniche, in grandi organismi nazionali. I più importanti furono quelli di ispirazione socialista, come la Commissione centrale dei sindacati liberi tedeschi, fondata nel 1890, la francese Confédération générale du travail (Cgt, Confederazione generale del lavoro), nata nel 1895, o la Confederazione generale del lavoro (Cgl), costituita in Italia nel 1906. Ma un notevole sviluppo ebbero anche le associazioni sindacali cattoliche e, in Germania e in Francia, non mancarono nemmeno le organizzazioni a guida liberale o conservatrice. Alla vigilia della prima guerra mondiale, i lavoratori iscritti ai sindacati erano 4 milioni in Gran Bretagna, quasi 3 milioni in Germania, oltre 2 milioni in Francia, poco più di 500 mila in Italia: si trattava del più vasto fenomeno di associazionismo popolare cui mai si fosse assistito nella storia d’Europa.

Manifesto del sindacato britannico dei lavoratori del gas a favore della giornata lavorativa di 8 ore 1890 [Working Class Movement Library, Salford]

Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, grazie anche alla pressione delle organizzazioni sindacali, furono introdotte nei maggiori Stati europei alcune forme di legislazione sociale: furono istituiti sistemi di assicurazione contro gli infortuni e di previdenza per la vecchiaia e, in alcuni casi, anche sussidi per i disoccupati. Si stabilirono controlli, in realtà poco efficaci, sulla sicurezza e l’igiene nelle fabbriche. Si cercò di impedire il lavoro dei fanciulli in età scolare. Furono introdotte limitazioni agli orari giornalieri degli operai – la media non scese comunque sotto le dieci ore – e fu sancito il diritto al riposo settimanale.

Le riforme sociali

All’azione dei governi si affiancò quella delle amministrazioni locali, soprattutto nei grandi centri urbani. Qui il fatto nuovo fu costituito dalla progressiva estensione dei servizi pubblici – gas, acqua, trasporti – a opera degli stessi comuni, che in molti casi ne assunsero la gestione tramite aziende pubbliche appositamente create. L’iniziativa degli organi di governo locale si concretizzò anche nel campo dell’istruzione (scuole, biblioteche, musei), dell’assistenza (ospedali, ospizi, asili d’infanzia) e dell’edilizia popolare. Per imposte progressive sopperire all’aumento delle spese, governi centrali e amminiSono quelle in cui l’aliquota fiscale non è proporzionale al reddito o al patrimonio, ma strazioni locali ricorsero a nuove forme di imposizione fiscaaumenta con l’aumentare della base imponibile: più alta è la fascia di reddito, più alta sarà la percentuale prelevata dal fisco. le per accrescere le entrate. La tendenza sostenuta dalle forze politiche più avanzate fu quella di aumentare il peso delle imposte dirette (ossia sul reddito o sul patrimonio di persone o METODO DI STUDIO società) a vantaggio di quelle indirette (cioè di quelle che colpi a   Sottolinea le caratteristiche principali dei partiti di massa e della loro scono i consumi e le attività economiche e che gravano sopratorganizzazione e sintetizzale con dei titoletti che scriverai al lato del testo. tutto sui ceti popolari), introducendo anche il principio della  b   Argomenta il titolo del secondo sottoparagrafo supportando il tuo progressività del carico fiscale, in relazione all’aumento del discorso con degli esempi. reddito. Si andava così lentamente affermando l’idea che com c   Sottolinea le frasi che consentono di comprendere in modo efficace il pito dello Stato fosse anche quello di assicurare una più equa rapporto che si viene a creare fra le riforme sociali, i servizi pubblici e il nuovo sistema fiscale. distribuzione della ricchezza all’interno della popolazione.

Servizi pubblici e nuovo sistema fiscale

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C1 LA SOCIETà DI MASSA



1_5 IL MOVIMENTO OPERAIO

E LA SECONDA INTERNAZIONALE

Fino agli anni ’70-80 dell’800, i movimenti socialisti costituivano dappertutto delle piccole minoranze emarginate – e spesso perseguitate – e per lo più puntavano a un radicale sconvolgimento rivoluzionario che colpisse alla radice la società capitalistico-borghese e tutte le sue ingiustizie e permettesse la costruzione di una società nuova e più giusta, fondata sui valori della solidarietà e della uguaglianza. Alla fine dell’800 la situazione era mutata: in tutti i più importanti paesi europei, e anche fuori d’Europa, nacquero partiti socialisti che cercavano di organizzarsi sul piano nazionale, che affiancavano al proselitismo rivoluzionario un’azione legale all’interno delle istituzioni, che partecipavano alle elezioni inviando loro rappresentanti nei Parlamenti, e che, in qualche caso, cominciarono a discutere circa la possibilità di una loro partecipazione a governi “borghesi”. Furono proprio i partiti socialisti a realizzare per primi il modello di quel partito di massa che si sarebbe affermato come la forma di organizzazione politica più diffusa nelle democrazie europee [►FS, 14].

I partiti socialisti

Il primo e il più importante di questi partiti fu quello socialdemocratico tedesco (Spd), nato nel 1875. L’efficienza organizzativa, i successi elettorali, la compattezza ideologica fornita dal marxismo, assunto come dottrina ufficiale, ne fecero un esempio e un modello per gli altri partiti nazionali che nacquero nell’ultimo ventennio del secolo. Più lenta e laboriosa fu la formazione di un partito socialista unitario in Francia, dove la Sfio (Sezione francese dell’Internazionale operaia) si costituì solo nel 1905.

La socialdemocrazia tedesca

Ancora diversa era la situazione in Gran Bretagna, dove i gruppi marxisti non riuscirono a imporre la loro egemonia sul forte movimento sindacale delle Trade Unions. Furono comunque gli stessi dirigenti dei sindacati a creare una formazione politica che aveva l’obiettivo di rappresentare l’intero movimento operaio britannico, al di là delle divisioni dottrinarie. Nacque così, nel 1906, il Partito laburista (Labour Party), che si fondava sull’adesione collettiva delle organizzazioni sindacali ed era privo di una netta caratterizzazione ideologica.

Il laburismo

All’inizio del ’900, al di là delle diversità organizzative e delle divergenze ideologiche, i partiti operai europei, compresi i laburisti, avevano elaborato programmi in larga parte simili: tutti si proponevano il superamento del sistema capitalistico e la gestione sociale dell’economia; tutti si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti; tutti infine facevano capo a un’organizzazione socialista internazionale, erede di quella che si era dissolta nel 1876.

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La Seconda Internazionale

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I tumulti del 4 maggio 1886 a Chicago [da un giornale illustrato locale del 15 maggio 1886; Library of Congress, Washington] Il 4 maggio 1886, nella piazza di Haymarket a Chicago, durante uno sciopero di operai che chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore, scoppiarono violenti tumulti e fu lanciata una bomba su un gruppo di poliziotti. Lo scoppio dell’ordigno e il seguente conflitto a fuoco portarono alla morte di sette agenti e di almeno quattro civili. In seguito furono individuati quali responsabili dell’episodio otto operai anarchici. Di questi, quattro subirono la pena dell’impiccagione; gli altri l’ergastolo. La sommarietà del processo fu aspramente criticata dal mondo dei lavoratori ma la sentenza fu comunque eseguita. Pochi anni più tardi, i condannati, definiti dalla stampa socialista «martiri di Chicago», risultarono innocenti e tre di loro, ancora in vita in prigione, furono rilasciati. Questo episodio concorse a individuare la data del primo maggio quale giornata della festa internazionale dei lavoratori.

La nascita della Seconda Internazionale risaliva al 1889, quando i rappresentanti di numerosi partiti europei, per lo più di ispirazione marxista, si riunirono a Parigi e approvarono alcune importanti deliberazioni, fra cui quella che fissava come obiettivo primario del movimento operaio la giornata lavorativa di otto ore e proclamava a tale scopo una giornata mondiale di lotta per il primo maggio di ogni anno. Nel 1891, inoltre, vennero esclusi dall’organizzazione gli anarchici e quanti rifiutavano pregiudizialmente la partecipazione all’attività politico-parlamentare. Diversamente dalla Prima Internazionale, che aveva cercato di imporsi come una specie di nucleo dirigente della classe lavoratrice di tutto il mondo, la Seconda Internazionale fu più che altro una federazione di partiti nazionali autonomi e sovrani. Essa svolse tuttavia un’importante funzione di coordinamento e i suoi congressi costituirono un fondamentale luogo di incontro e di discussione sui problemi di interesse comune (lo sciopero generale, la lotta contro la guerra, la questione coloniale), la sede naturale dei grandi dibattiti ideologici che animarono il movimento operaio europeo all’inizio del ’900. L’interprete più coerente della prima tendenza fu il tedesco Eduard Bernstein [►FS, 8d]. In alcuni scritti pubblicati nel 1899, Bernstein partiva dalla constatazione di una serie di fatti che andavano in senso contrario alle previsioni di Marx: il proletariato non si impoveriva, ma migliorava lentamente la sua condizione; il capitalismo rivelava una notevole capacità di modificarsi e di superare le crisi; lo Stato borghese diventava sempre più democratico. In questa situazione, i partiti operai dovevano accantonare gli aspetti più radicali dell’ideologia marxista e collaborare con le altre forze progressiste: la società socialista sarebbe nata non da una rottura rivoluzionaria, ma da una trasformazione graduale realizzata grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni operaie e soprattutto del movimento sindacale. Le tesi di Bernstein – che furono definite revisioniste in quanto implicavano una profonda revisione della teoria marxista – suscitarono un acceso dibattito in seno al movimento socialista internazionale, ma furono respinte da tutti i maggiori esponenti del marxismo “ortodosso”.

Il revisionismo

socialdemocrazia Il termine entrò nel linguaggio politico nel 1875, quando fu fondato il Partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Spd). Il nome alludeva alla confluenza tra i seguaci di Marx, che incentravano la loro propaganda sui temi della lotta di classe, e quelli di Ferdinand Lassalle che consideravano obiettivo prioritario il suffragio universale. Successivamente la denominazione fu adottata da altri partiti di ispirazione socialista. Dopo la rivoluzione russa del 1917, servì a indicare quelle componenti del movimento operaio che si opponevano al modello comunista di conquista e gestione del potere.

Il congresso della Seconda Internazionale di Amsterdam 1904 [International Institute of Social History, Amsterdam] Sul fondo della fotografia, in olandese, il celebre motto di Marx, «Proletari di tutto il mondo unitevi», campeggia al di sopra dei delegati al congresso della Seconda Internazionale del 1904 ad Amsterdam.

Negli stessi anni in cui si sviluppava il dibattito sul revisionismo, il movimento operaio vide emergere nuove correnti di estrema sinistra che contestavano la politica “centrista” dei dirigenti socialdemocratici tedeschi ed europei, accusati di mascherare, dietro un’apparente fedeltà agli ideali rivoluzionari, una pratica riformista e legalitaria. In Germania un’agguerrita minoranza di sinistra si creò attorno a Karl Liebknecht e a Rosa Luxemburg [►FS, 9d], una giovane intellettuale di origine polacca, mentre gruppi analoghi si formarono in tutti i più importanti partiti europei, giungendo in qualche caso a minacciare l’egemonia delle correnti centriste.

Le posizioni rivoluzionarie

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

Un’ulteriore dissidenza fu quella che si sviluppò nella socialdemocrazia russa e che ebbe per protagonista l’allora poco più che trentenne Vladimir Il’icˇ Ul’janov, più noto con lo pseudonimo di Nikolaj Lenin (1870-1924). Lenin contestava il modello organizzativo della socialdemocrazia tedesca, e gli contrapponeva il progetto di un partito tutto votato alla lotta, formato da militanti scelti e guidato da “rivoluzionari di professione”, con una direzione fortemente accentrata. Questa concezione contrastava con le tradizioni del movimento operaio occidentale, ma si adattava alla situazione di un partito come quello russo, costretto alla quasi completa clandestinità. In un congresso della socialdemocrazia russa, svoltosi in esilio a Londra nel 1903, le tesi di Lenin ottennero, sia pur di stretta misura, la maggioranza dei consensi. Il partito si spaccò allora in due correnti: quella bolscevica (cioè maggioritaria) guidata da Lenin e quella menscevica (ossia minoritaria); una divisione che sul momento non destò molto interesse, poiché riguardava un partito fra i meno importanti della Seconda Internazionale [►FS, 11d].

Lenin e la socialdemocrazia russa

Un importante dibattito fu invece suscitato da un’altra dissidenza di sinistra, che ebbe origine in Francia e prese il nome di sindacalismo rivoluzionario. Furono i dirigenti sindacali francesi a formulare la teoria secondo cui il momento più importante dell’azione opeMETODO DI STUDIO raia era lo sciopero, visto come una “ginnastica rivoluzionaria” utile a  a   Cerchia il nome del primo partito socialista di rendere i lavoratori consapevoli della loro forza e a prepararli al grande sciomassa europeo e sottolineane le caratteristiche principali. pero generale che avrebbe segnato la fine del sistema borghese. Queste idee  b   Evidenzia il nome di ogni partito descritto, trovarono il loro interprete più autorevole in un intellettuale francese, quindi individua, sottolinea e numera i punti Georges Sorel, che nel volume Considerazioni sulla violenza, del 1908, esaldel relativo programma.  c   Sottolinea con colori diversi le differenze tò la funzione liberatoria della violenza proletaria e insistette sull’imporfra la Prima e la Seconda Internazionale. Quindi tanza dello sciopero generale come mito capace di trascinare gli operai alla descrivi sinteticamente gli esiti della tua analisi e lotta [►FS, 10d]. spiega quale rapporto esiste fra la Seconda Internazionale e il marxismo. Il sindacalismo rivoluzionario non riuscì a trovare consensi nei principali  d   Cerchia i nomi dei pensatori politici presentati partiti socialisti, ma esercitò una forte suggestione su molti intellettuali e nel testo e sottolinea le principali caratteristiche anche su frange consistenti della classe operaia, soprattutto nei paesi latini del loro pensiero. Quindi schematizza sul quaderno l’analisi compiuta mettendo in relazione i (dove si legò alla tradizione anarchica), contribuendo alla radicalizzazione personaggi con le correnti politiche di appartenenza dello scontro sociale che si verificò in Europa negli anni precedenti la prie, se presenti, le date significative. ma guerra mondiale.

Sorel e il sindacalismo rivoluzionario

LE CORRENTI DEL MARXISMO

SOCIALISTI REVISIONISTI

Bernstein

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Trasformazione graduale della società attraverso le riforme

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Azione legalitaria all’interno delle istituzioni parlamentari

RIVOLUZIONARI

Liebknecht e Luxemburg

Lenin

Sorel

Contro il “centrismo”

Lotta guidata da rivoluzionari di professione

Sindacalismo rivoluzionario



1_6 I PRIMI MOVIMENTI FEMMINISTI

► Leggi anche:

Negli anni fra ’800 e ’900 cominciò a emergere – in forme ancora frammentarie – la “questione femminile”. Il problema dell’inferiorità economica, politica e giuridica delle donne, in una parola della subalternità femminile, era rimasto, con poche eccezioni, estraneo agli orizzonti del pensiero liberale e democratico ottocentesco. John Stuart Mill era stato uno dei pochi intellettuali a richiamare l’attenzione sul tema in un libro intitolato La servitù delle donne, pubblicato nel 1869. Del resto, i primi movimenti di emancipazione femminile, nati alla fine del ’700 nella Francia rivoluzionaria, avevano avuto scarsissimo seguito. Così, alla fine dell’800, le donne erano ancora escluse dappertutto dall’elettorato attivo e passivo e, in molti paesi, anche dalla possibilità di accedere agli studi universitari e alle professioni e, se sposate, di disporre liberamente dei loro beni. Quando lavoravano, ricevevano un trattamento economico nettamente inferiore a quello degli uomini [►FS, 17d].

La condizione femminile: tra subalternità e impegno

Per le donne, il lavoro extradomestico non era un’emancipazione, ma piuttosto una dura necessità, quasi una naturale prosecuzione del lavoro svolto da sempre nei campi o entro le pareti domestiche, e non significava nemmeno (allora come oggi) la liberazione dai tradizionali obblighi familiari. Tuttavia i maggiori contatti col mondo esterno, le esperienze collettive, la partecipazione alle agitazioni sociali portarono le donne lavoratrici a una più viva coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni nei confronti dell’intera società. In tutti i paesi industrializzati, infatti, la manodopera femminile fu protagonista di episodi salienti nella lotta sindacale e questa mobilitazione contribuì a consolidare i legami tra le donne, ad accrescere la consapevolezza dell’esistenza di un problema specifico all’interno della questione più generale del miglioramento delle condizioni di lavoro [►FS, 15 e 16d].

Le donne e il lavoro

► Personaggi Anna Maria Mozzoni e la nascita del femminismo in Italia, p. 16 ► Laboratorio di cittadinanza Le donne e il diritto di voto, p. 25 ► Fare Storia Il primo femminismo, p. 104

◄  Riccardo

Salvadori, Cartellone per una manifestazione femminista alla Scala di Milano 1911 [Raccolta Salce, Museo Civico, Treviso] Nei primi decenni del ’900 si fecero sentire anche in Italia gli echi di quel movimento, affermatosi negli ultimi anni dell’800 nei paesi anglosassoni, che lottava per la parità dei diritti civili fra uomini e donne. La locandina, realizzata in occasione della manifestazione femminista a Milano, utilizza un’immagine molto eloquente: anche nell’abbigliamento si manifesta l’emancipazione delle donne.

▼  Uno

stand di suffragette al Salone delle Donne di Londra 1909 [Museum of London, Londra] Nella foto scattata da Christina Broom, considerata la prima fotogiornalista della storia inglese, è ritratto uno stand di suffragette al Salone delle Donne che si tenne a Londra nel 1909 al Prince’s Skating Rink, una pista di pattinaggio su ghiaccio.

Nonostante questo ruolo attivo nel mondo del lavoro, il movimento per l’emancipazione femminile rimase a lungo ristretto a minoranze operaie e intellettuali, a circoli e leghe prive di un seguito consistente. Solo in Gran Bretagna il movimento, sotto la guida di Emmeline Pankhurst – fondatrice nel 1903 della Women’s Social and Political Union –, riuscì a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica, concentrando la sua attività nell’agitazione per il diritto al suffragio (donde il nome di “suffragette” dato alle sue militanti) e ricorrendo non di rado a forme di protesta quanto mai decise: dimostrazioni di piazza, marce sul Parlamento, scioperi della fame e anche attentati a edifici pubblici. La lotta delle suffragette – che nel 1918 avrebbe portato, in Gran Bretagna, alla concessione del voto alle donne – trovò qualche appoggio tra i parlamentari laburisti. Nel complesso, però, il movimento operaio non si mostrò troppo sensibile nei confronti delle rivendicazioni femministe [►FS, 18].

Le suffragette

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

Molti dirigenti socialisti guardavano con sospetto al voto delle donne, perché temevano che ciò avrebbe significato, almeno a breve scadenza, un vantaggio per i partiti di ispirazione cristiana: si riteneva, infatti, che questi riscuotessero maggiori simpatie in un elettorato femminile. Diffusa era poi, fra i socialisti, la tendenza a privilegiare gli aspetti economico-retributivi del problema del lavoro femminile, o a vederne la soluzione nel ritorno delle METODO DI STUDIO donne ai loro compiti “naturali” in seno alla famiglia. Certo è che quasi  a   Spiega per quale motivo John Stuart Mill parlava della condizione femminile in termini di dappertutto i movimenti femminili furono lasciati soli a combattere le loro schiavitù. battaglie, ricevendo tutt’al più qualche generico incoraggiamento [►FS, 19].  b   Individua nel testo la risposta alle seguenti Allo scoppio della prima guerra mondiale, le donne europee avevano visto domande: a. Chi erano le suffragette? b. Quali forme di mobilitazione politica praticarono? cadere alcune delle preclusioni più gravi, relative all’istruzione superiore e  c   Descrivi sinteticamente le rivendicazioni femall’accesso alle professioni, ma restavano ancora escluse dal diritto di voto minili di questo periodo, il modo in cui furono accolte – salvo che in Norvegia e Finlandia – e pesantemente discriminate sui luoghi dai partiti politici organizzati e perché. di lavoro.

L’isolamento dei movimenti femminili



1_7 LA CHIESA E LA SOCIETÀ DI MASSA

► Leggi anche: ► Parole della storia Secolarizzazione, p. 18

Di fronte all’avanzata inarrestabile dell’industrialismo, alla crescita del movimento operaio e alle prime manifestazioni della società di massa, la Chiesa di Roma e il mondo cattolico reagirono in modo complesso e articolato. Accanto al rifiuto tradizionale della società industriale, alla duplice condanna lanciata nei confronti dell’individualismo borghese e delle ideologie socialiste, vi fu anche il tentativo, in parte riuscito, di rilanciare la missione della Chiesa, adeguandone le forme alle mutate condizioni storiche.

I cattolici e l’impegno sociale

PERSONAGGI

Anna Maria Mozzoni e la nascita del femminismo in Italia

A

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nna Maria Mozzoni (1837-1920), capostipite del movimento emancipazionista femminile italiano, nacque in provincia di Milano, da una famiglia di nobili origini, liberale e progressista, antiasburgica. È già il suo primo scritto politico, La donna e i suoi rapporti sociali (1864), a rivelarci le radici illuministe e democratiche del suo pensiero e a tracciare le direttrici della sua attività. Mozzoni si rivolgeva alle “giovani donne”, invitandole a riscattarsi dalla condizione di oppressione, di cui rintracciava le cause nella religione, nel diritto, nella famiglia e nella società. Le leve per scardinare questa secolare situazione erano l’accesso all’istruzione e al lavoro e l’uguaglianza giuridica, sue costanti rivendicazioni. La legislazione del nuovo Stato italiano fu uno dei suoi primi obiettivi polemici, perché assegnava alla donna doveri ma non le dava diritti (le negava l’accesso alle professioni e la rendeva subalterna

U1 L’ALBA DEL ’900

all’uomo nel matrimonio). La denuncia delle discriminazioni che caratterizzavano la situazione giuridica delle donne fu il tema del suo secondo pamphlet, La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile italiano (1865), in cui criticava il nuovo Codice Pisanelli, che segnava un regresso rispetto alla legislazione preunitaria. Il tema dell’istruzione divenne un altro terreno della sua battaglia progressista. In Un passo avanti nella cultura femminile. Tesi e progetto (1866) contestò il sistema scolastico che prevedeva percorsi differenziati per maschi e femmine, ed educava la donna a compiti di utilità domestica. Alla critica unì la capacità di proposta, elaborando un nuovo programma scolastico, che dava spazio alle discipline scientifiche, prima inaccessibili alle donne. Gli anni successivi all’unificazione della penisola, con le speranze di riscatto femminile che il Risorgimento aveva suscitato, furo-

no di grande impegno sulla scena pubblica. Al lavoro di insegnante di filosofia in un liceo femminile, Mozzoni affiancava una fitta attività di conferenziera e pubblicista [►FS, 16d]. Le speranze che la sinistra di Depretis rilanciasse il suffragio femminile la spinsero a redigere una petizione pubblica nel 1877. Con argomentazioni moderne chiese di considerare le donne per quello che erano: cittadine e contribuenti, lasciando da parte le speculazioni sulla natura e sulla missione femminile. La battaglia per il voto alle donne la impegnò a più riprese: nel 1882 rivolse una sdegnata critica a Zanardelli, responsabile della commissione parlamentare che aveva respinto nuovamente la proposta di suffragio femminile. Nel 1906 tornò a scrivere una petizione pubblica rivolta al Parlamento con Maria Montessori, che istituì un metodo pedagogico innovativo adottato nel tempo nelle scuole di molti altri paesi. Tutte le battaglie del movimento emancipazionista la videro protagonista, dalla richiesta di abolizione del divieto di ricerca della paternità (necessaria per dare garanzie alle madri nu-

La Chiesa, infatti, fu l’unica istituzione a poter supplire ai fenomeni di disgregazione sociale e di perdita di identità indotti dall’urbanizzazione con una struttura organizzativa capillare e collaudata: quella delle parrocchie, delle associazioni caritative, dei movimenti di azione cattolica. L’esistenza di queste strutture permise anzi ai cattolici di impegnarsi con un certo successo nell’inquadramento dei lavoratori in organismi di massa, capaci di porsi in concorrenza con quelli di ispirazione socialista e classista. L’impegno dei cattolici su questo terreno si era cominciato a manifestare già durante il pontificato di Pio IX, ma ebbe un impulso decisivo con Leone XIII (1878-1903). Questi, pur senza attenuare l’intransigenza dottrinaria del suo predecessore, si mostrò politico assai più duttile: favorì il riavvicinamento fra i cattolici e le classi dirigenti di quei paesi (come la Germania e la Francia, ma non l’Italia) dove maggiore era la tensione fra Stato e Chiesa; incoraggiò la nascita di nuovi partiti cattolici in Belgio (1884) e in Austria (1887); ma soprattutto cercò di riqualificare il ruolo della Chiesa in materia di questione sociale [►FS, 13]. Il documento più importante e più emblematico di questo sforzo fu l’enciclica Rerum novarum, emanata da Leone XIII nel maggio 1891 ed espressamente dedicata ai problemi della condizione operaia. L’enciclica non conteneva novità rilevanti sul piano dottrinario: ribadiva la condanna del socialismo e riaffermava l’ideale della concordia fra le classi. Ma indicava anche, come condizione di questa concordia, il rispetto dei doveri spettanti alle parti sociali: e, se i doveri degli operai erano la laboriosità, la frugalità e il rispetto delle gerarchie, il dovere degli imprenditori stava nel retribuire i lavoratori con la «giusta mercede», nel rispettarne la dignità umana, nel non considerare la loro fatica come una merce da pagare al minor prezzo possibile [►FS, 12d].

La Rerum novarum di Leone XIII

bili) a quella di introdurre il divorzio. Si impegnò anche contro la regolamentazione statale della prostituzione, stabilita per legge con l’unificazione, che con il sistema delle case chiuse isolava le donne e le sottoponeva al potere discrezionale della polizia. La lotta, non solo italiana, la rese una delle protagoniste del movimento femminista europeo, come dimostra la sua partecipazione, da rappresentante ufficiale per l’Italia, al primo congresso internazionale per i diritti delle donne (Parigi, 1878). Promotrice instancabile di leghe e associazioni, creò nel 1881 la Lega promotrice degli interessi femminili, che segnò la trasformazione del femminismo in un movimento politico organizzato, visibile e attivo. L’attività di mobilitazione e organizzazione di operaie e donne del popolo rese più intensi i suoi contatti con il movimento operaio. Contribuì a preparare il congresso di Genova del 1892, che vide la nascita del Psi (il Partito socialista italiano), anche se si tenne fuori dal partito. Gli ultimi anni, vissuti quasi in povertà, fu-

Achille Beltrame, Leone XIII pronuncia davanti al fonografo le parole della benedizione apostolica [copertina della «Domenica del Corriere», 29 marzo 1903] Vincenzo Gioacchino Pecci fu papa dal 1878 al 1903 con il nome di Leone XIII. Il suo lungo pontificato favorì un’apertura della Chiesa alla cultura moderna, mostrando anche un sincero interesse per i progressi della tecnica. La copertina della «Domenica del Corriere» lo ritrae mentre pronuncia la benedizione apostolica davanti a un fonografo.

rono anni di sconfitte: si approfondì la distanza con le socialiste nel fronte emancipazionista, segnale della fine di una stagione di lotte condivise. Si fece meno sentire la sua presenza nel dibattito pubblico, per riemergere allo scoppio della prima guerra mondiale, quando sostenne il fronte degli interventisti democratici, di stampo mazziniano. Nel 1912, intanto, Giolitti aveva reso universale il suffragio maschile, ma nulla era cambiato rispetto al voto alle donne [►3_4]. A questa battaglia si legò la sua ultima apparizione sulla scena pubblica, nel 1919, durante i dibattiti parlamentari sulla riforma elettorale, che finalmente doveva realizzare il suffragio femminile. Approvata alla Camera dei deputati, la legge non riuscì ad arrivare in Senato prima della fine della legislatura; l’attesa delle donne italiane si concluse solo nel 1945.

Un ritratto fotografico di Anna Maria Mozzoni

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

La parte più innovativa dell’enciclica era quella che riguardava il movimento associativo fra i lavoratori. Veniva apertamente incoraggiata la creazione di società operaie e artigiane ispirate ai princìpi cristiani e tutti i cattolici erano invitati a impegnarsi su questo terreno. Ciò che conferì all’enciclica un’enorme risonanza fu il fatto che l’incoraggiamento venisse dalla più alta autorità della Chiesa e fosse sancito in un documento ufficiale. La Rerum novarum, infatti, si muoveva all’interno di una concezione tradizionalista, venata di nostalgia per la società preindustriale, e vedeva nelle associazioni cattoliche uno strumento di collaborazione fra le classi, qualcosa di simile alle antiche corporazioni di arti e mestieri. Nella pratica, però, questi ideali si rivelarono di difficile attuazione: i sindacati cattolici si svilupparono soprattutto su basi di classe – cioè raccogliendo solo i lavoratori dipendenti – e in seguito avrebbero adottato metodi di lotta non troppo diversi da quelli dei sindacati socialisti [►FS, 13].

L’associazionismo cattolico

Parallelamente, negli ultimi anni dell’800, venne emergendo, in particolare in Francia e in Italia, una nuova tendenza politica che fu definita “democrazia cristiana” e che mirava a conciliare la dottrina cattolica non solo con l’impegno sociale, ma anche con la prassi e gli istituti della democrazia. La nascita dei movimenti democratico-cristiani coincise, e in parte si collegò, col sorgere di una corrente di riforma religiosa che prese il nome di modernismo, in quanto si proponeva di reinterpretare la dottrina cattolica in chiave appunto “moderna”, applicando i metodi della critica storica e filologica allo studio delle Sacre Scritture. Anche il modernismo – che ebbe tra i suoi maggiori teorici il francese Alfred Loisy e l’italiano Ernesto Buonaiuti – aspirava sul piano dottrinario a uno scopo simile a quello perseguito sul piano politico dalla democrazia cristiana: conciliare l’insegnamento della Chiesa col progresso filosofico e scientifico e, più in generale, con la civiltà moderna. Ma la Chiesa era tutt’altro che disponibile ad aprirsi a queste innovazioni, resistendo ostinatamente al processo di secolarizzazione della società (esemplari, a questo proposito, le posizioni dei cattolici intransigenti sul voto alle donne, ►FS, 20d). Dopo una fase di relativa tolleranza, il nuovo pontefice Pio X proibì ai democratiMETODO DI STUDIO ci-cristiani ogni azione politica indipendente dalle gerarchie  a   Spiega in che modo reagì la Chiesa cattolica di fronte alla nascita della ecclesiastiche e, nel 1907, scomunicò i modernisti. Mentre sul società di massa. terreno religioso la condanna pontificia riuscì a bloccare la dif b   Sottolinea, con colori diversi, l’autore della Rerum novarum, la data e il fusione delle voci riformatrici, sul piano politico non si arrestacontenuto dell’enciclica.  c   Rititola l’intero paragrafo inserendo il nome del papa “Leone XIII”. rono gli sviluppi del movimento democratico cristiano, che  d   Evidenzia la definizione di modernismo e sottolinea la descrizione delle aveva ormai una sua base sociale e un suo spazio ben definiti reazioni che suscitò nel mondo della Chiesa. nella vita politica europea [►FS, 14].

Contro la democrazia cristiana e il modernismo

Parole della storia

Secolarizzazione

N

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el linguaggio della Chiesa, “secolarizzazione” (da “secolo”, inteso come “mondanità, vita terrena”) indica il passaggio allo stato laicale di chi ha ricevuto gli ordini religiosi oppure la destinazione all’uso profano di beni già destinati al culto. Nel linguaggio delle scienze sociali contemporanee, per secolarizzazione si intende il processo di emancipazione della società dal condizionamento e dal controllo delle autorità religiose. Una società secolarizzata non è necessariamente una società

U1 L’ALBA DEL ’900

irreligiosa. È piuttosto una società laica, in cui le credenze e le pratiche religiose non si traducono in norme vincolanti per tutti; in cui i comportamenti collettivi – in materia di attività economiche, di istruzione, ma anche di morale familiare e sessuale – tendono ad allontanarsi dagli schemi della tradizione e a orientarsi secondo criteri di pura razionalità. In questo senso la secolarizzazione è componente essenziale della modernizzazione e si accompagna ai processi di sviluppo industriale e di urbanizzazione. Non si deve pensare però alla secolarizzazione come a una tendenza irreversibile, a un portato necessario del progresso scientifico

e dello sviluppo economico. Se nei paesi industrializzati dell’Occidente il processo può considerarsi in larga parte compiuto, nonostante i molti segni di risveglio religioso e nonostante la tenace opposizione delle Chiese (lo testimonia la scarsa osservanza, negli stessi paesi cattolici, delle prescrizioni ecclesiastiche in materia di contraccezione e in genere di morale sessuale), la situazione è molto diversa in altre parti del mondo. In particolare nei paesi islamici, e non solo in quelli più arretrati economicamente, si è assistito negli ultimi decenni a un prepotente ritorno dell’integralismo, ossia del tentativo di sottomettere all’autorità religiosa le scelte dei pubblici poteri e dei privati cittadini.



1_8 NAZIONALISMO, RAZZISMO E ANTISEMITISMO

Fra il 1815 e il 1870 il nazionalismo era stato soprattutto il principio ispiratore di movimenti di liberazione che combattevano contro l’ordine costituito: si era così collegato all’idea di sovranità popolare e si era alleato col liberalismo e con la democrazia. Le cose cambiarono dopo l’unificazione tedesca – realizzata nel 1871 da Bismarck “col ferro e col sangue” – e soprattutto con l’imperialismo coloniale, che legava la grandezza nazionale alle guerre di conquista a danno di altri popoli ritenuti inferiori. Inoltre, la crescita dei movimenti socialisti, che si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti, suscitò per reazione un ritorno di sentimenti patriottici e guerrieri in seno ai ceti conservatori. La battaglia per i valori nazionali o per gli interessi del proprio paese finì spesso col legarsi alla lotta contro il socialismo e alla difesa dell’ordine sociale esistente.

Il nuovo nazionalismo

► Leggi anche: ►   Lezioni attive Socialismo, nazionalismo, razzismo: tensioni sociali in un mondo che cambia

In altri termini, il nazionalismo tendeva a spostarsi a destra, sganciandosi dalle sue matrici illuministiche e democratiche per riscoprire quelle tradizionaliste fondate sui miti della terra e del sangue e per collegarsi in qualche caso alle teorie razziste allora in voga: quelle che pretendevano di stabilire una gerarchia fra “razze superiori” e “razze inferiori” e di affermare su questa base la superiorità di un popolo, o di un gruppo di popoli, su tutti gli altri. Queste teorie, che avevano avuto il loro precursore nel francese Arthur de Gobineau (autore nel 1855 di un Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane), si fondavano su argomentazioni pseudoscientifiche di origine positivistica, ma in realtà non facevano altro che rielaborare antichi pregiudizi (la tradizionale diffidenza per l’estraneo e per il “diverso”) e proprio per questo avevano una forte capacità di suggestione anche fra le classi popolari. Più in generale, il successo del nuovo nazionalismo si può spiegare in buona parte con l’appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva, oltre che col ricorso a strumenti tipici della società di massa (stampa popolare, comizi, manifestazioni di piazza) e a tecniche di lotta tipiche della tradizione sovversiva.

Le teorie razziste

In Francia il nazionalismo coniugava lo spirito di rivincita nei confronti della Germania, innescato dalla sconfitta subita nel 1870, con la polemica contro una classe dirigente repubblicano-morazza derata considerata mediocre e corrotta e quindi incapace di tutelare gli inteIl termine deriva probabilmente dal francese medievale ressi e le tradizioni del paese. Il nazionalismo dei gruppi più oltranzisti (il più haraz, “allevamento di cavalli”. Con il progressivo noto fu quello che si raccolse intorno alla rivista «Action française» fondata nel affermarsi del pensiero scientifico, la “razza” divenne una forma di classificazione adottata nel campo degli studi 1899) era rivolto non tanto contro i “nemici esterni” (i tedeschi), quanto contro i sul genere umano, come in quelli sul mondo animale e supposti “nemici interni”: i protestanti, gli immigrati e soprattutto gli ebrei, vegetale. La specie umana, Homo sapiens, venne distinta considerati come un corpo estraneo alla nazione e identificati con gli ambienti in base a caratteristiche fisiche evidenti, per esempio i capelli, la forma del naso, degli occhi o più generalmente dell’affarismo e della speculazione bancaria.

Il nazionalismo francese

Una forte componente antiebraica, unita a un’impostazione popolareggiante e a una sottile vena anticapitalistica e antiborghese, fu presente anche nei movimenti nazionalisti dei paesi di lingua tedesca, nei quali l’antisemitismo (che in Francia si legava soprattutto a una tradizione cattolico-reazionaria) si appoggiava su presupposti apertamente razzisti. Fu proprio in Germania che le teorie della razza conobbero, già alla fine dell’800, le loro formulazioni più organiche e più popolari: come quella contenuta nel libro I fondamenti del XIX secolo, uscito nel 1899, dello scrittore di origine inglese Houston Stewart Chamberlain. Chamberlain riprendeva da Gobineau il mito di una razza ariana depositaria delle virtù più nobili e ne vedeva l’incarnazione più pura nel popolo tedesco. Anche il nazionalismo tedesco aveva lo sguardo rivolto

Il nazionalismo tedesco

del volto, il colore della pelle. Nel tardo ’700 si fece strada inoltre l’idea che le popolazioni umane non discendessero da un unico progenitore, ma avessero origini diverse e immutabili. Ne derivò una gerarchizzazione delle supposte diverse razze umane. Solo nel ’900 gli scienziati hanno dimostrato che non esistono fattori biologici tali da differenziare gli esseri umani – infatti, abbiamo un unico patrimonio genetico –, e che non ci sono prove per ricondurre a origini diverse le differenti popolazioni umane. ariani o arii Il termine, derivato dal sanscrito (dove significava “signori, nobili”), fu usato già nell’800 per definire le popolazioni di ceppo indoeuropeo. In base a una discutibile teoria che faceva coincidere la matrice linguistica con quella razziale, furono individuati come progenitori dei popoli germanici.

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al passato e cercava le sue basi nel mito del popolo (Volk), concepito come comunità di sangue e come legame quasi mistico con la terra d’origine. Questo mito, che aveva le sue radici nella cultura romantica ed era stato fatto rivivere, nella seconda metà dell’800, dalle opere del grande compositore (e radicale antisemita) Richard Wagner, fornì la base alle ideologie e ai movimenti pangermanisti, che auspicavano cioè il ricongiungimento in un unico Stato di tutte le popolazioni tedesche, comprese quelle che erano rimaste escluse dall’unificazione del 1871.

pogrom Il termine pogrom (in russo “devastazione, saccheggio”) indica le sollevazioni popolari, con massacri e saccheggi, compiute tra il 1880 e il 1917 nell’impero zarista contro gli ebrei, spesso su istigazione delle autorità politiche e religiose; di qui il significato generale di “persecuzione sanguinosa di una minoranza” che la parola ha poi assunto.

Un movimento contrapposto al pangermanismo, ma ad esso affine per molti aspetti, fu il panslavismo, che nacque in Russia alla fine dell’800 e si diffuse nei paesi slavi dell’Europa orientale come strumento della politica imperiale zarista. Il panslavismo si basava su ideologie tradizionaliste e largamente intrise di antisemitismo. Infatti, nell’Europa orientale – dove le comunità ebraiche erano più numerose, ma anche meno integrate nella società e nella cultura dei paesi ospitanti – l’antisemitismo aveva profonde radici popolari. Nell’Impero russo (dove vivevano alla fine dell’800 oltre cinque milioni di ebrei) era addirittura sancito da leggi discriminatorie e ufficialmente tollerato, quando non incoraggiato, dalle autorità, che se ne servivano come di un classico diversivo per lasciar sfogare il malcontento delle classi subalterne. Di qui la barbara pratica del pogrom, ossia di periodiche e impunite violenze contro i beni e le persone degli ebrei. Fu inoltre la polizia segreta zarista a confezionare, all’inizio del ’900, uno dei più clamorosi falsi della storia: i cosiddetti Protocolli dei Savi anziani di Sion, in cui un immaginario consiglio ebraico mondiale avrebbe esposto i suoi progetti di dominio.

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L’antisemitismo in Europa orientale

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Ebrei subiscono violenze durante un pogrom in Russia 1890

Una reazione all’antisemitismo – ma anche una manifestazione fra le più significative di quel fenomeno di risveglio nazionalistico che attraversò tutta l’Europa di fine ’800 – fu la nascita del sionismo: cioè di quel movimento, fondato nel 1897 a Basilea dal giornalista e scrittore ebreo ungherese Theodor Herzl, che si proponeva di restituire un’identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina (il nome “sionismo” viene dalla collina di Sion su cui sorge Gerusalemme). Movimento complesso, ai confini fra il politico, il religioso e il sociale (non senza una componente di stampo colonialistico), il sionismo stentò all’inizio ad affermarsi, anche perché l’alta e media borghesia ebraica era prevalentemente “assimilazionista”, tendeva cioè, pur senza rinnegare le sue origini, a integrarsi, ove possibile, nelle società dei paesi d’appartenenza. All’inizio del ’900, tuttavia, grazie all’attività instancabile dei suoi sostenitori, il movimento riuscì a imporsi all’attenzione delle comunità ebraiche e a trovare qualche autorevole appoggio anche nelle classi dirigenti dell’Europa occidentale.

La nascita del sionismo

METODO DI STUDIO

 a   Individua e numera le tappe che portarono il nazionalismo ad assumere caratteri conservatori e razzisti. Quindi spiega attraverso quali strumenti teorici e pratici avvenne questa fusione.  b   Sottolinea con colori diversi le caratteristiche dei movimenti nazionalistici presenti in Germania e in Francia. Quindi spiega in cosa consisteva il mito del Volk e a quale nazionalismo apparteneva.  c   Scrivi una definizione di pangermanismo e di panslavismo mettendo in rilievo gli elementi comuni e le differenze.  d   Spiega cosa significa “sionismo” e quali sono state le sue origini.



Theodor Herzl 1947 Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, è ritratto in una cartolina celebrativa per i cinquant’anni dal primo congresso sionista che aveva organizzato nel 1897 a Basilea. Alle spalle di Herzl, la prima bandiera del movimento sionista e quella con la stella di Davide blu, adottata dallo Stato di Israele nel 1948.

1_9 LA CRISI DEL POSITIVISMO

► Leggi anche:

E LE NUOVE SCIENZE

►   Focus Freud e la scoperta dell’inconscio

A partire dalla fine dell’800, il modello interpretativo offerto dal positivismo apparve sempre più inadeguato non solo a spiegare i fenomeni politici, economici e sociali, ma anche a tener dietro all’evoluzione delle scienze. Il positivismo restò per molti un metodo di ricerca e di conoscenza della realtà, ma si incrinò la fiducia nella sua capacità di offrire un’organica visione del mondo, legata all’idea di un progresso necessario e costante. Sul piano filosofico si assisté alla nascita di nuove correnti irrazionalistiche e vitalistiche, diverse fra loro ma tutte convergenti nel ricondurre i meccanismi della conoscenza e dell’attività umana a fattori che sfuggivano al controllo razionale, come l’istinto, la volontà o lo “slancio vitale”; l’oggetto principale dell’indagine condotta da queste nuove correnti diventava la realtà psicologica: una realtà anch’essa “oggettiva”, e dunque conoscibile, ma dotata di sue proprie leggi e di un suo tempo – quello della memoria, del vissuto – diverso da quello fisico-quantitativo delle scienze esatte.

La crisi della fiducia nel progresso

Primo e principale interprete della critica al positivismo fu il filosofo e letterato tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). Alla concezione lineare del tempo Nietzsche oppose quella ciclica dell’eterno ritorno mettendo in discussione il concetto di tempo come lo concepiva la civiltà occidentale. All’ottimismo progressivo delle filosofie borghesi – considerato come il risultato ultimo e negativo dell’intera tradizione

Friedrich Nietzsche e la critica alla cultura borghese

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ebraico-cristiana giunta ormai alla sua estrema decadenza – contrappose l’idea dell’uomo nuovo, il superuomo, nato dalle ceneri della vecchia civiltà e capace di esprimere e realizzare la propria individualità al di fuori della morale corrente. Le teorie nietzschiane conobbero una larghissima popolarità alla fine del XIX secolo: ad esse si sarebbero poi richiamati, più o meno arbitrariamente, i movimenti nazionalisti e totalitari.

storicismo È la tendenza a esaminare ogni fenomeno umano nel tempo e nel luogo in cui si manifesta. La parola “storicismo”, già frequente nella prima metà dell’800, cominciò a indicare alla fine del secolo una nuova concezione della storia, in contrasto sia con l’idea romantica sia con quella positivista, che equiparava le scienze umane alle scienze della natura. Obiettivo dello storicismo, infatti, fu dare un fondamento scientifico alla storia, considerata però come una forma di conoscenza interessata a eventi unici e irripetibili, quindi radicalmente diversa dalle scienze naturali.

In Germania, però, la reazione al positivismo si espresse soprattutto in una ripresa della filosofia kantiana e idealistica, in una più approfondita riflessione sui problemi della conoscenza storica, in un ritorno alla distinzione fra “scienze dello spirito” e “scienze della natura”. In questo clima culturale operarono filosofi come Wilhelm Dilthey, considerato il fondatore dello storicismo moderno, storici come Friedrich Meinecke, sociologi come Werner Sombart. Anche in Italia, a partire dall’inizio del ’900, vi fu una rinascita dell’idealismo, che ebbe per protagonisti Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Filosofo, storico e uomo di lettere, protagonista di oltre mezzo secolo di storia della cultura italiana, Croce partì da una critica al materialismo marxista e giunse a elaborare un complesso sistema filosofico che tendeva a risolvere tutta la realtà nella dimensione storica. Gentile portò la filosofia idealistica alle sue estreme conseguenze riducendo tutta la realtà all’“atto” pensante del soggetto (attualismo).

La ripresa dell’idealismo in Germania e Italia

In Francia la reazione al positivismo trovò la sua espressione più organica nella filosofia di Henri Bergson, che concepiva la realtà come creazione continua, mossa da uno “slancio vitale” e conoscibile nella sua pienezza solo attraverso l’intuizione, contrapponendo alla concezione del tempo “spazializzato” – quello dell’orologio o della clessidra – l’idea di un tempo “vissuto” internamente nella coscienza.

Bergson e la scoperta del tempo interiore

Nei paesi anglosassoni, invece, soprattutto negli Stati Uniti, la corrente di pensiero dominante fu quella conosciuta col nome di pragmatismo, che si diffuse largamente anche in Europa nei primi anni del ’900 ed ebbe i suoi rappresentanti più noti in William James e in John Dewey. Il pragmatismo considerava determinante il rapporto di reciproca verifica fra teoria e pratica e fra individuo e natura: rivalutava così, inserendole nel campo filosofico, scienze “pratiche” come la psicologia e la pedagogia.

Il pragmatismo di James e Dewey

Anche gli sviluppi del pensiero scientifico contribuirono a mettere in crisi il quadro di certezze su cui la cultura positivistica si era fondata. Si pensi alla nascita della fisica atomica, dovuta soprattutto alle scoperte degli inglesi Joseph Thomson ed Ernest Rutherford; alla formulazione, nel 1900, della teoria quantistica da parte del tedesco Max Planck; all’enunciazione, nel 1905, della teoria della relatività di Albert Einstein: teoria che non solo metteva in discussione i fondamenti della fisica classica, ma sconvolgeva alcuni pilastri della scienza tradizionale, come la distinzione fra materia ed energia e il carattere “assoluto” dei concetti di spazio e di tempo. L’idea di un tempo “relativo” – i cui parametri di misurazione potessero, cioè, cambiare in funzione di altre variabili come la velocità – rappresentò una sorta di filo comune, attraverso il quale la fisica einsteiniana si legò ad altre fondamentali esperienze intellettuali dell’epoca, nei campi del pensiero filosofico, della psicologia, delle lettere e delle arti.

Gli sviluppi del pensiero scientifico

L’importanza dell’irrazionale trovò un riscontro di eccezionale rilievo nell’opera del medico viennese Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della teoria psicanalitica. Nelle sue opere (in particolare nell’Interpretazione dei sogni del 1900 e nei Tre saggi sulla teoria della sessualità del 1905), Freud poneva alla base dei processi psichici il concetto di una vita “inconscia” (Es), dominata da leggi diverse da quelle della vita cosciente (Io). L’esigenza di “rimuovere” (ossia di reprimere, di allontanare dalla coscienza) gli istinti primari dell’inconscio è, secondo Freud, essenziale per lo sviluppo normale dell’individuo e della stessa civiltà; ma può creare – se gli istinti

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La psicanalisi

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▲  Pablo

Picasso, Les Demoiselles d’Avignon 1907 [Museum of Modern Art, NewYork; © Succession Picasso, by SIAE 2018] Tra ’800 e ’900 la teoria della relatività, la scoperta dell’inconscio e la nascita della psicanalisi insieme alle nuove

scoperte scientifiche minarono la fiducia nella ragione rivalutando quelle istanze irrazionalistiche che il positivismo aveva escluso dal suo orizzonte conoscitivo. Questa “rivoluzione” culturale si tradusse, in campo artistico, in un modo nuovo di rappresentare la realtà, che appariva sempre meno lineare, sondabile e sicura. Nacquero così i germi di quelle correnti

artistiche che nel corso del ’900 saranno chiamate “avanguardie”. Cercando nuovi strumenti e tecniche espressive diverse, i protagonisti delle avanguardie rifiutarono i canoni estetici tradizionali e portarono nell’opera d’arte la realtà nel modo in cui essi la percepivano, attraverso quello che sentivano, i ricordi e i sogni.

▲  Salvador

Dalí, La nascita dei desideri liquidi 1931-32 [Collezione Peggy Guggenheim, Venezia; © Salvador Dalí, Gala-Salvador Dalí Foundation, by SIAE 2018]

non vengono “sublimati” nelle realizzazioni sociali (ossia nella sfera del Super-io) – delle turbe psichiche (nevrosi). Da qui la necessità di una tecnica terapeutica che riporti alla luce i processi inconsci attraverso l’analisi dell’attività onirica. Accolte all’inizio con diffidenza, le teorie freudiane avrebbero non solo rivoluzionato la terapia delle malattie mentali, ma anche influenzato profondamente, soprattutto nella seconda metà del ’900, la cultura e la mentalità delle società occidentali. Un ulteriore tratto distintivo della cultura europea negli anni a cavallo fra i due secoli fu la riflessione sulla relatività e sulla soggettività della conoscenza: più esattamente, il problema dell’influenza delle inclinazioni personali, dei “valori” dell’osservatore sul modo di studiare e di rappresentare il fenomeno osservato. Un problema che interessò i filosofi, ma anche i cultori delle cosiddette “scienze umane” (sociologia, psicologia, scienza politica, antropologia) e che trovò le sue formulazioni più lucide nell’opera del tedesco Max Weber (1864-1920). Sociologo, filosofo e storico, Weber approfondì soprattutto i problemi relativi al metodo delle scienze sociali (o scienze umane): pur muovendo inevitabilmente da un punto di partenza soggettivo (costituito dagli interessi personali e dalla situazione culturale dello studioso), le scienze sociali possono dare risultati scientificamente validi purché adottino procedimenti logici e criteri esplicativi corretti.

Il metodo delle scienze sociali

I nuovi orientamenti della filosofia e delle scienze umane influenzarono profondamente anche il pensiero politico, dove dominante fu la tendenza a penetrare oltre la facciata delle formule ideologiche per ricostruire i meccanismi reali e svelare i moventi autentici dell’agire politico. Si spiega così la notevole fortuna incontrata dalla “teoria della classe politica”, formulata per la prima volta alla fine dell’800 dall’italiano Gaetano Mosca. In contrasto

La scienza politica

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con la dottrina democratica della sovranità popolare, Mosca sosteneva che, in qualsiasi ordinamento, il potere effettivo è destinato a restare comunque nelle mani di una ristretta minoranza di politici di professione, la classe politica, appunto, o classe dirigente. Questa teoria fu ripresa, all’inizio del ’900, dal sociologo Vilfredo Pareto, che vedeva nella politica soprattutto uno scontro di élite (ossia minoranze qualificate, oligarchie), nel quale la borghesia liberale sarebbe stata presto sostituita da nuove élite più giovani e più aggressive. A questo stesso filone di pensiero si collegava il sociologo tedesco Robert Michels che, nella sua opera più nota, la Sociologia del partito politico del 1910, stabiliva un nesso inscindibile fra la tendenza all’organizzazione, tipica dei grandi partiti di massa, e la creazione di oligarchie burocratiche praticamente inamovibiMETODO DI STUDIO li. Anche per Weber la tendenza alla crescita degli apparati burocratici era  a   Evidenzia i nomi degli esponenti più rappreinarrestabile in quanto espressione della fase più evoluta dello sviluppo della sentativi della critica al positivismo e della corrente società, ma conteneva in sé gravi pericoli per il destino delle libertà irrazionalistica.  b   Realizza un grafico a stella: colloca al centro individuali. È facile notare come queste analisi avessero in comune un La critica accentuato pessimismo sulla sorte degli ordinamenti dedella democrazia mocratici. Certo è che, indipendentemente dalle personali convinzioni dei loro autori, esse contribuirono a determinare quel clima di insofferenza e sfiducia verso la democrazia, i suoi faticosi meccanismi e le sue complesse istituzioni, che si diffuse negli ambienti intellettuali europei proprio nel periodo in cui la partecipazione alla vita politica si ampliava incessantemente e si muovevano i primi passi verso la società di massa.

LE NUOVE SCIENZE

Nietzsche: superuomo, contro la morale borghese Correnti irrazionalistiche e realtà psicologica

Bergson: intuizione e tempo interiore Freud: nascita della psicanalisi

CRISI DEL POSITIVISMO

Ripresa dell’idealismo: nuovo interesse per la storia e le scienze dello spirito Pragmatismo e rivalutazione di psicologia e pedagogia (James e Dewey)

Nuovo approccio alla conoscenza

Teoria quantistica e relatività (Planck e Einstein)

Relatività e soggettività della conoscenza (Weber)

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Crisi dell’ottimismo e della fiducia nel progresso

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Teoria della classe politica e critica della democrazia (Mosca e Pareto)

l’espressione «La critica al positivismo» e associa a ciascun raggio le diverse aree geografiche descritte. Indica nell’esatta corrispondenza dei raggi i nomi degli esponenti di spicco e da tre a cinque parole chiave che ne riassumano sinteticamente il pensiero. Quindi realizza una didascalia di massimo 5 righe che commenti il grafico.  c   Rileggi gli ultimi tre sottoparagrafi e, utilizzando alcune delle parole in grassetto, costruisci una frase che sintetizzi le direzioni di sviluppo delle scienze sociali e politiche tra ’800 e ’900.

LABORATORIO DI CITTADINANZA LE DONNE E IL DIRITTO DI VOTO

L’

Illuminismo e la Rivoluzione francese furono all’origine di un vasto movimento per l’emancipazione delle donne che aveva come obiettivo l’uguaglianza e la parità politica, giuridica, sociale e culturale tra i sessi. Queste istanze rimasero tuttavia inascoltate e anche nella Francia rivoluzionaria le richieste di partecipazione politica femminile furono presto soffocate. Il Codice civile napoleonico (1804) accentuò poi la disuguaglianza tra i sessi, subordinando le donne alla potestà del marito. Nel corso dell’800 si sviluppò un movimento femminile che, in Europa e negli Stati Uniti, rivendicava l’uguaglianza tra i sessi, a partire dal diritto di votare e di essere elette (diritti politici attivi e passivi) e da quello di poter compiere operazioni economiche e disporre del proprio patrimonio senza l’autorizzazione del proprio padre, fratello o marito (diritti civili). Negli ultimi decenni dell’800 si parlò, a questo proposito, di “femminismo”. Nello stesso periodo, l’aumento del lavoro delle donne e il loro crescente contributo all’economia familiare e nazionale fecero sembrare ancora più inaccettabile la discriminazione a cui erano sottoposte. Nacquero così, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, i movimenti delle “suffragette”, che chiedevano l’emancipazione e il suffragio. Negli Usa, le prime associazioni femminili nazionali nacquero nel 1837. Nel 1841 lo Stato di New York riconobbe la capacità giuridica alle donne sposate, estesa poi nel 1848 a tutti gli Stati. Nel 1869 il Wyoming riconobbe il suffragio femminile, seguito poi da altri Stati; tuttavia, solo nel 1920 i diritti politici furono estesi a tutte le donne dell’Unione. In Gran Bretagna, nel 1851, la filosofa Harriet Taylor (1807-1858) pubblicò il saggio L’emancipazione delle donne, ma il movimento suffragista iniziò solo negli anni ’70: nel 1869, intanto, era stato autorizzato il suffragio femminile per le elezioni amministrative, mentre nel 1882 fu riconosciuta alle donne sposate la capacità giuridica. Nel 1903 Emmeline Pankhurst (1858-1928) e le figlie Christabel (1880-1958) e Sylvia (1882-1960), decise a utilizzare metodi di lotta radicali, crearono la Women’s Social and Political Union. In Gran Bretagna, il voto femminile fu riconosciuto infine nel 1918, ma fino al 1928 fu limitato alle donne sposate che avevano più di trent’anni.

I diritti politici e quelli civili furono riconosciuti in tempi diversi, con delle accelerazioni dopo le due guerre mondiali. Il primo paese ad accordare alle donne il diritto di voto fu la Nuova Zelanda (1893). Seguirono l’Australia (1895-1902), la Finlandia (1906), la Norvegia (1913), la Danimarca e l’Islanda (1915), il Canada e la Russia rivoluzionaria (1917), la Germania (1918), l’Olanda (1919), la Spagna e il Portogallo (1931), le dittature che si affermarono in questi paesi, tuttavia, lo abolirono. Ancora, il Sudafrica (limitatamente alle donne bianche) e la Turchia (1930), il Brasile (1931), l’India (1935), la Francia (1944), la Jugoslavia e il Giappone (1945), la Cina (1947), la Grecia (1952), la Svizzera (1971). In Italia il riconoscimento dei diritti delle donne è stato tardivo. Il Codice civile del 1865 limitava fortemente la capacità giuridica della donna, sottoponendola alla potestà (patria potestas) del marito. Alle donne italiane, inoltre, erano negati il diritto di voto e l’accesso ai pubblici uffici e solo nel 1874 fu consentito l’accesso all’istruzione superiore. Nel 1919 furono finalmente riconosciuti alle donne i diritti civili (anche se solo nel 1975 fu abolita la patria potestas), ma l’avvento del regime fascista bloccò l’iter parlamentare del disegno di legge per il suffragio femminile approvato alla Camera nel 1919. Il 1° febbraio 1945, anche su impulso di De Gasperi e Togliatti (leader rispettivamente della Democrazia cristiana e del Partito comunista), un decreto del governo Bonomi riconobbe alle donne il diritto di voto attivo e passivo: il 2 giugno 1946 tutte le italiane poterono votare per il referendum istituzionale e l’Assemblea costituente, in cui furono elette 21 deputate. La Costituzione italiana (1948) sancì poi che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso» (art. 3), che «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età» (art. 48) e che «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza» (art. 51). Tuttavia, le donne italiane continuarono a essere discriminate: solo nel 1956 ottennero il diritto di sedere nelle giurie e nel 1960 il libero accesso alle cariche pubbliche; nel 1965 furono ammesse ai concorsi per la magistratura da cui fino a quel momento erano state indebitamente escluse. La prima donna ministro fu Tina

Anselmi, nel 1976, con l’incarico di ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. Molte discriminazioni permanevano, però, nel campo sociale, lavorativo e familiare: esse furono oggetto delle contestazioni del “nuovo femminismo” degli anni ’70. Il suffragio femminile e altri diritti sono garantiti dall’Onu con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (1979). Tuttavia, permangono forti discriminazioni verso le donne in molti paesi, soprattutto di religione musulmana. In Arabia Saudita solo dal 2015 le donne possono votare ed essere elette, mentre in Libano il voto è limitato alle donne con la licenza elementare. L’onorevole Tina Anselmi all’uscita dal Quirinale nel 1981 Tina Anselmi (1927-2016), ex partigiana, è stata la prima donna a ricoprire la carica di ministro della Repubblica italiana, durante il governo Andreotti, quando fu nominata ministro del Lavoro e della Previdenza sociale (luglio 1976). La fotografia la ritrae nell’anno in cui le venne affidato l’incarico di occuparsi dell’importante inchiesta sulla Loggia massonica P2 in qualità di presidente della commissione parlamentare.

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

REALIZZARE UNA BIOGRAFIA 1 Adoperando le informazioni contenute nella scheda e quelle reperite in Rete su un sito affidabile, realizza il profilo

biografico di Emmeline Pankhurst.

Segui la traccia di lavoro che ti forniamo di seguito. Il personaggio

Ruolo nella storia del suo tempo

● Nome ................................................................................ ● Data di nascita e di morte ...................................................... ● Professione ......................................................................... ● Date chiave della sua biografia ...............................................

● Periodo storico in cui è vissuta e ha operato .............................. Idee



.......................................................................................

Eredità

● Chi si rifà alle sue idee? Chi si ispira alle sue azioni? .......................

LA LOTTA DELLE DONNE PER LA CONQUISTA DEI DIRITTI POLITICI E CIVILI 2 Completa la tabella sulla lotta condotta dalle donne, nei secoli, per la conquista dei diritti politici e civili. L’esercizio è

già avviato.

Paese

Data

Protagonista e battaglia condotta

Esito

Gran Bretagna

1792

.............................................................................................. Negativo

Gran Bretagna

................... .............................................................................................. ...............................................................................................

Gran Bretagna

................... .............................................................................................. ...............................................................................................

Italia

................... .............................................................................................. ...............................................................................................

IL DIRITTO DI VOTO DELLE DONNE NEL MONDO

GI

RV E

CANADA SVIZZERA

GERMANIA

SPAGNA

IA AV SL GO JU

FRANCIA PORTOGALLO

RUSSIA

DIA

NO

LAN

FIN

DANIMARCA ISLANDA OLANDA

A

3 Completa la carta inserendo le date in cui le donne hanno acquisito il diritto di voto nei differenti paesi.

ITALIA

GRECIA

TURCHIA CINA

ARABIA SAUDITA

GIAPPONE

INDIA

BRASILE

AUSTRALIA

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SUDAFRICA

U1 L’ALBA DEL ’900

NUOVA ZELANDA

IL CAMMINO DELL’EMANCIPAZIONE FEMMINILE IN ITALIA 4 Il Codice civile del 1865 sanciva la limitazione della capacità giuridica della donna e la sottomissione alla patria

potestas del marito. Da allora sono state condotte molte battaglie che hanno portato alla progressiva emancipazione della donna e all’istituzione, nel 1997, del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Completa la tabella inserendo le informazioni richieste. L’esercizio è già avviato. Data

Protagonisti e/o fonte normativa (ove possibile)

1874

Conquista Accesso all’istruzione superiore

................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ Governo provvisorio

.....................................................................................................................................................

................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... ................ .................................................................................... ..................................................................................................................................................... Rispondi ora alle domande sul Dipartimento per le pari opportunità, consultando il sito istituzionale del dicastero o un altro sito affidabile.

a. Di cosa si occupa il Dipartimento per le pari opportunità? b. Quali sono le sue funzioni? c. Quale testo normativo ha prodotto?

d. A tuo giudizio, le donne italiane godono realmente di pari oppor-

tunità nella quotidianità? Rispondi alla domanda adducendo delle valide e fondate argomentazioni.

LE PARI OPPORTUNITÀ A LIVELLO LOCALE 5 Nella tua Regione e/o nella tua Provincia o Città metropolitana esiste un assessorato e/o un ufficio impegnato nella

promozione di politiche per le pari opportunità delle donne? Solo per fare un esempio, sia nella Regione Puglia, sia nella Città metropolitana di Bari esistono appositi uffici e assessorati preposti a promuovere iniziative e azioni volte ad accrescere l’uguaglianza delle donne che risiedono sul territorio.

Vai sul sito istituzionale della tua Regione e/o della tua Provincia/Città metropolitana e scopri in che modo gli enti locali promuovono nel concreto il principio di parità e di pari opportunità. Realizza poi una brochure informativa indirizzata alla tua comunità scolastica.

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

SINTESI

1_1 «LA MOLTITUDINE S’È FATTA VISIBILE» Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 cominciarono a delinearsi, nell’Europa occidentale e negli Stati uniti, i caratteri della moderna “società di massa”. La maggioranza della popolazione viveva ormai nei centri urbani ed era inserita nel circolo dell’economia di mercato: così i rapporti sociali si fecero più intensi e si basarono non più sulle comunità tradizionali bensì sulle grandi istituzioni nazionali (apparati statali e organizzazioni di massa). Nella classe operaia si accentuò la distinzione fra la manodopera generica e i lavoratori qualificati. Contemporaneamente aumentò la consistenza di un ceto medio urbano che andava sempre più distinguendosi dagli strati superiori della borghesia: si allargò la categoria dei dipendenti pubblici e si moltiplicò la massa degli addetti al settore privato che svolgevano mansioni non manuali, i “colletti bianchi”. Dal punto di vista della cultura, della mentalità, dei comportamenti sociali, la distinzione fra piccola borghesia e proletariato era molto netta.

1_2 SVILUPPO INDUSTRIALE E ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

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Gli anni 1896-1913 furono, per i paesi industrializzati, un periodo di intensa espansione economica, cui

U1 L’ALBA DEL ’900

si accompagnò un aumento del prodotto pro capite. Le dimensioni di massa assunte dalla domanda stimolarono la produzione industriale in serie, nonché la diffusione di processi di meccanizzazione e razionalizzazione produttiva (catena di montaggio, taylorismo), che resero più efficienti i ritmi produttivi, ma incontrarono la diffidenza degli operai, il cui lavoro diveniva sempre più ripetitivo per l’automatismo delle macchine.

1_3 LA NAZIONALIZZAZIONE DELLE MASSE: SCUOLA, ESERCITO E SUFFRAGIO UNIVERSALE Tra il XIX e gli inizi del XX secolo gli Stati avviarono un processo di “nazionalizzazione delle masse”, finalizzato a educare i cittadini ai valori nazionali. A partire dagli anni ’70 dell’800 tutti i governi d’Europa, seppure in tempi diversi, si impegnarono per rendere l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita, per sviluppare quella media e superiore e per portare l’insegnamento sotto il controllo pubblico. L’effetto più immediato di questo sforzo fu comunque un aumento generalizzato della frequenza scolastica. Strettamente legato ai progressi dell’istruzione fu l’incremento dei lettori e delle tirature dei giornali. Un contributo notevole allo sviluppo della società di massa venne anche dalle riforme degli ordinamenti militari, fondate sul principio del servizio militare obbligatorio per la popolazione maschile. Tra il 1890 e il 1915, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale furono approvate

leggi che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la totalità o la stragrande maggioranza dei cittadini maschi maggiorenni.

1_4 PARTITI DI MASSA, SINDACATI E RIFORME SOCIALI Con l’allargamento del diritto di voto si affermarono i partiti di massa e le confederazioni sindacali nazionali, che trasformarono profondamente le forme della lotta politica e sociale. I partiti si diedero una struttura centralizzata, sviluppando però organizzazioni locali cui avevano accesso ampi strati della cittadinanza. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, grazie anche alla pressione delle organizzazioni sindacali, furono introdotte nei maggiori Stati europei forme di legislazione sociale. All’azione dei governi si affiancò quella delle amministrazioni locali, soprattutto nei grandi centri urbani, dove per gestire servizi essenziali sempre più complessi furono create aziende a carattere pubblico. Per sopperire all’aumento delle spese, governi centrali e amministrazioni locali dovettero ricorrere a nuove forme di imposizione fiscale per accrescere le entrate.

1_5 IL MOVIMENTO OPERAIO E LA SECONDA INTERNAZIONALE Alla fine dell’800 sorsero, nei principali paesi

europei, partiti socialisti che si ispiravano per lo più al modello della socialdemocrazia tedesca e facevano capo alla Seconda Internazionale, fondata nel 1889. Negli anni della Seconda Internazionale il marxismo divenne la dottrina ufficiale del movimento operaio. Col passare del tempo, però, presero corpo due diverse tendenze: da un lato la valorizzazione dell’aspetto democraticoriformistico dell’azione socialista (Bernstein), dall’altro il tentativo di recuperare l’originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo (Liebknecht, Luxemburg). Dissidenze del tutto particolari furono quelle che si svilupparono nella socialdemocrazia russa (Lenin) e nel movimento sindacale francese (Sorel).

1_6 I PRIMI MOVIMENTI FEMMINISTI Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 cominciò a emergere una “questione femminile”. I maggiori contatti col mondo esterno, le esperienze collettive, la partecipazione alle agitazioni sociali portarono le donne lavoratrici a una più viva coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni nei confronti della società. Il movimento per l’emancipazione femminile rimase a lungo ristretto a minoranze operaie e intellettuali. Solo in Gran Bretagna riuscì a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica, concentrando la sua attività nell’agitazione per il diritto al suffragio (“suffragette”).

1_7 LA CHIESA E LA SOCIETÀ DI MASSA Leone XIII favorì il riavvicinamento fra i cattolici e le classi dirigenti di quei paesi dove maggiore era la tensione fra Stato e Chiesa, incoraggiò la nascita di nuovi partiti cattolici e cercò soprattutto di riqualificare il ruolo della Chiesa in materia di questione sociale. Il documento più emblematico di questo sforzo fu l’enciclica Rerum novarum (1891). Parallelamente emerse una nuova tendenza politica, definita democrazia cristiana, che mirava a conciliare la dottrina cattolica con la prassi e gli istituti della democrazia. E sorse anche una corrente di riforma religiosa che prese il nome di modernismo, poiché si proponeva di reinterpretare la dottrina cattolica in chiave appunto “moderna”, applicando i metodi della critica storica e filologica allo studio delle Sacre Scritture. Quando però salì al soglio pontificio Pio X, i

democratico-cristiani si videro proibita ogni azione politica indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche, mentre il modernismo fu colpito da scomunica.

1_8 NAZIONALISMO, RAZZISMO E ANTISEMITISMO Alla fine dell’800 il nazionalismo finì spesso col legarsi alla lotta contro il socialismo e alla difesa dell’ordine sociale esistente, collegandosi spesso anche alle teorie razziste allora in voga. In Francia il vessillo del nazionalismo fu innalzato sia dai nostalgici del militarismo bonapartista sia dai gruppi reazionari e antisemiti. Una forte componente antiebraica fu presente anche nei movimenti nazionalisti dei paesi di lingua tedesca, nei quali l’antisemitismo si appoggiava su presupposti razzisti. In Germania si svilupparono i movimenti

pangermanisti, mentre in Russia e nei paesi dell’Europa orientale quelli panslavisti: entrambi si basavano su ideologie tradizionaliste e largamente intrise di razzismo. Una reazione all’antisemitismo fu la nascita del sionismo, che si proponeva di restituire un’identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina.

1_9 LA CRISI DEL POSITIVISMO E LE NUOVE SCIENZE Alla fine dell’800 il positivismo apparve sempre più inadeguato non solo a spiegare i fenomeni politici, economici e sociali, ma anche a tener dietro all’evoluzione delle scienze. Nacquero allora nuove correnti filosofiche irrazionalistiche e vitalistiche, di cui il principale interprete fu Nietzsche. In Germania

la reazione al positivismo si espresse in una ripresa della filosofia kantiana e idealistica e in una più approfondita riflessione sui problemi della conoscenza storica. Anche in Italia, a partire dall’inizio del ’900, vi fu una rinascita idealistica, che ebbe per protagonisti Croce e Gentile. In Francia, intanto, divenne popolare la filosofia di Bergson, mentre nei paesi anglosassoni si affermò il pragmatismo. Anche gli sviluppi del pensiero scientifico misero in crisi il quadro di certezze della cultura positivista: le teorie di Einstein demolirono i fondamenti della fisica classica e le idee di Freud rivoluzionarono la terapia delle malattie nervose. Profonde trasformazioni avvennero anche nelle scienze umane, dalla sociologia alla scienza politica, condizionando la stessa vita politica europea. Gli scienziati politici, in particolare, analizzarono i processi di formazione delle classi dirigenti e la tendenza alla crescita degli apparati burocratici.

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Distingui nell’elenco proposto i valori che si riferiscono alla piccola borghesia e quelli propri, invece, del proletariato.

Piccola borghesia

Proletariato

Solidarietà Individualismo Rispettabilità Spirito di classe Proprietà privata Internazionalismo Risparmio Rispetto gerarchico Patriottismo 2 Illustra come gli Stati europei realizzarono la cosiddetta “nazionalizzazione delle masse”, completando lo schema con

le espressioni proposte; infine verbalizza oralmente la mappa ottenuta.

● ● ●

Diminuisce l’analfabetismo Scuola media e superiore potenziata Viene esteso a tutti i cittadini maschi maggiorenni indipendentemente dal reddito ● Si forma l’opinione pubblica ● Aumenta la diffusione dei giornali

1.

Istruzione

● Obbligatoria e gratuita alle elementari ● Obbligatorio ● Insegnamento laico ● Temporaneo ● Eserciti formati da cittadini

CARATTERISTICHE

● ...................................... ● ...................................... ● ......................................

EFFETTI

● ................................ ● ................................ ● ................................ Nazionalizzazione

30

delle masse

U1 L’ALBA DEL ’900

2.

Servizio militare

● ............................... ● ...............................

3.

Diritto di voto

● ...............................

CONSEGUENZA

● ...............................

3 Seleziona, tra quelle in elenco, le espressioni che si riferiscono alle riforme nella legislazione sociale ottenute grazie

alle pressioni sindacali.

a. Legislazione per i diritti femminili b. Assicurazione contro gli infortuni c. Tredicesima, quattordicesima e quindicesima mensilità d. Pensioni per la vecchiaia e. Abbonamenti teatrali gratuiti

f. Sussidi di disoccupazione g. Vacanze estive organizzate h. Case popolari i. Limite degli orari di lavoro l. Riposo settimanale

4 Completa lo schema sulla Seconda Internazionale seguendo le indicazioni delle 5W + 1H: who, what, where, when, why, how (chi, cosa, dove, quando, perché, come).

SECONDA INTERNAZIONALE

COSA/CHI

Era una ..........................................................................

DOVE

Nacque a ........................................................................

QUANDO

Nel ................................................................................

PERCHÉ

Lo scopo era ...................................................................

COME cambia

......................................................................................

5 Completa la seguente tabella relativa alle organizzazioni socialiste e cattoliche.

Danno origine a…

Si ispirano a…

Le idee sostenute

Organizzazioni di matrice socialista

Sindacati e partiti di massa

................................................................ ................................................................

Organizzazioni di matrice cattolica

................................................................ ................................................................ • Condanna del socialismo e dell’individualismo borghese; • sostegno alla collaborazione e alla solidarietà; • rispetto delle gerarchie per gli operai; • rispetto della giusta retribuzione degli operai e della loro dignità.

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

6 Sintetizza origini e conseguenze del nazionalismo, completando la mappa concettuale con le affermazioni di seguito

fornite.

● ● ●

Razzismo e antisemitismo Movimenti di liberazione delle nazioni Sovranità popolare

...........................................

Nasce dall’idea di

...........................................

NAZIONALISMO

Degenera in

........................................... ...........................................

Aveva ispirato

........................................... ...........................................

COMPETENZE IN AZIONE 7 Completa la tabella inserendo i destinatari dell’intolleranza nazionalista in Francia, in Germania e negli Stati

dell’Europa dell’Est; poi spiega in un testo di massimo 5 righe i motivi che spinsero a riversare l’odio razziale contro gli ebrei. Destinatari dell’intolleranza nazionalista In Francia In Germania Nei paesi dell’Europa orientale

............................................................................................................................................................................................ ............................................................................................................................................................................................ ............................................................................................................................................................................................

............................................................................................................................................................................................................. ............................................................................................................................................................................................................. ............................................................................................................................................................................................................. ............................................................................................................................................................................................................. ............................................................................................................................................................................................................. 8 Sul quaderno di storia scrivi un testo informativo/argomentativo (max 15 righe) dal titolo Il positivismo non fu così

positivo: la nascita delle nuove scienze sociali. A tal fine utilizza la scaletta che ti viene fornita.

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● ● ● ● ●

Crisi del positivismo Le nuove correnti irrazionalistiche Le teorie di Nietzsche e il mito del superuomo Sigmund Freud e l’interpretazione dei sogni Le nuove scienze umane

U1 L’ALBA DEL ’900

COMPITI DI REALTÀ

9 Realizzare un approfondimento storico in forma di poster per un’associazione femminile. Tema storico da affrontare: La condizione della donna nella società di massa e le rivendicazioni femministe.

Contesto di lavoro

Lavori per una società che si occupa di grafica che è stata contattata da una associazione culturale femminile che ha deciso di presentare in occasione di una sua manifestazione nazionale un poster informativo sulla condizione della donna nella società di massa e le prime rivendicazioni femministe. Prioritaria sarà quindi la parte dedicata alle fonti iconografiche e all’impostazione grafica del lavoro che deve essere di tipo divulgativo e di forte impatto.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un poster sulla condizione della donna nella società di massa e le prime rivendicazioni femministe per il diritto di voto. Per realizzare questo compito dovete: ● decidere le dimensioni del poster. ● individuare le fonti iconografiche inerenti al tema affrontato presenti sul manuale (nel capitolo o nei Fare Storia). ● individuare le informazioni necessarie alla realizzazione del poster e dividerle in categorie. Se selezionate testi storiografici o fonti scritte ricordate di indicare sempre la fonte. ● ricercare online un esempio di poster divulgativo che vi convinca e che abbia le seguenti caratteristiche: che esponga un concetto in forma grafica (anche la disposizione delle immagini e del testo è funzionale al messaggio da comunicare), che non sia la trasposizione di una pagina di un libro (non deve prevedere testi scritti fitti e lunghi e con un carattere dalla dimensione troppo piccola), che le immagini non siano solo evocative, ma che contengano parte dei messaggi da trasmettere. ● realizzare per ogni fonte una scheda con le informazioni tecniche principali (autore, anno, luogo di realizzazione) e quelle che è possibile ricavare in relazione al tema in esame. ● realizzare una linea del tempo che contenga gli episodi salienti del periodo storico di cui vi state occupando e che presenti anche riferimenti geografici e culturali degli episodi selezionati. ● realizzare a partire dalla linea del tempo l’impianto grafico in cui sia possibile inserire i seguenti elementi: 1. le fonti selezionate adeguatamente numerate; 2. i contenuti descritti sinteticamente (max 5 righe); 3. il titolo del poster; 4. localizzazione e temporalità degli eventi. ● realizzare concretamente il poster con il programma di grafica a voi più congeniale.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti ai responsabili dell’associazione e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più l’illustrazione del poster. Quest’ultimo potrà essere stampato o visualizzato con la Lim.

Tempo a disposizione

1 ora per individuare sul manuale le fonti e i contenuti da utilizzare; 1 ora per cercare in Rete gli esempi di poster e scegliere quello più congeniale; 2 ore per elaborare i contenuti e le fonti; 3 ore per la realizzazione del poster; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

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C1 LA SOCIETà DI MASSA

E

A

XTR

CAP2 L’EUROPA E IL MONDO AGLI INIZI DEL ’900

E

O

N LI N

Storia, società, cittadinanza La paura del diverso Storia e Geografia I Balcani Storia e Letteratura L’uomo senza qualità di Musil Focus La crescita demografica in Asia • Mito e declino dell’Impero asburgico Atlante Gli imperi coloniali nel 1914 Audiosintesi

2_1 LE CONTRADDIZIONI DELLA BELLE ÉPOQUE

Negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, l’Europa visse una fase di forti contraddizioni. Furono anni di intenso sviluppo economico e di continua crescita del commercio mondiale, ma anche di inasprimento delle tensioni internazionali e della conflittualità sociale all’interno dei singoli Stati; di frenetico riarmo da parte delle grandi potenze e di rinnovate spinte pacifiste; di nazionalismi esasperatamente aggressivi e di utopie internazionaliste e rivoluzionarie; di incessante progresso scientifico e tecnologico e di critica nei confronti del progressismo positivista che aveva improntato di sé la cultura tardo-ottocentesca. Le spinte alla democratizzazione, che in molti paesi portarono all’allargamento del diritto di voto [►1_3], incontrarono dappertutto la resistenza ostinata dei gruppi conservatori e in alcuni casi furono duramente represse, come in Russia, o bloccate entro le vecchie strutture autoritarie, come in Germania e nell’Impero asburgico.

Sviluppo e insicurezza

Béraud, Lo chalet del ciclo al Bois de Boulogne a Parigi 1900 ca. [Musée Carnavalet, Parigi]

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◄  Jean

U1 L’ALBA DEL ’900

▼  Pierre-Auguste

Renoir, Il Moulin de la Galette 1876 [Musée d’Orsay, Parigi] Durante la belle époque il benessere economico arrivò a interessare settori sempre più vasti della media e piccola borghesia. Le capitali europee, prima fra tutte Parigi, si accesero di luci e di mondanità, e l’illusione del benessere impregnò di sé molti aspetti e momenti del vivere quotidiano.

Questa compresenza di spinte diverse e fra loro contraddittorie ha fatto sì che della realtà europea di quest’epoca si costruissero due rappresentazioni contrapposte. Da un lato quella idilliaca e nostalgica di un’età di progresso e di spensieratezza, di pace e di benessere: la belle époque, l’epoca bella, come sarebbe stata definita successivamente in implicito confronto con le tragedie del primo conflitto mondiale e con gli anni agitati del dopoguerra. Dall’altro quella di una stagione dominata dal militarismo, imperialismo dall’imperialismo e dalla più spietata logica di potenza: dunque irreversibilConiato in Francia, in riferimento ai disegni egemonici di mente avviata verso lo scontro fratricida e suicida della Grande Guerra. Napoleone III, il termine “imperialismo” si affermò in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70 per indicare il programma È facile osservare che entrambe le immagini risultano distorte e unilaterali, indi espansione territoriale del governo Disraeli, per entrare fluenzate come sono dalla conoscenza degli eventi successivi. C’erano nell’Eupoi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza ropa del primo ’900 forze che lavoravano, più o meno consapevolmente, per la e di conquista territoriale su scala mondiale. In generale, l’imperialismo rappresentò la tendenza degli Stati europei guerra e altre che vi si opponevano. Lo sviluppo del capitalismo finanziario, ina proiettare più aggressivamente verso l’esterno i propri dicato dai teorici marxisti come sicura premessa di guerra, era considerato da interessi economici, la propria immagine nazionale e la molti una garanzia di pace, visti i legami sempre più stretti che univano il mondo propria cultura. industriale e bancario al di là delle frontiere nazionali. Persino la corsa agli armamenti fu vista di volta in volta come un fattore di scontro e, all’opposto, come METODO DI STUDIO un deterrente che avrebbe sconsigliato l’uso degli strumenti distruttivi prodotti  a   Cerchia le parole chiave che sintetizzano le dalla moderna tecnologia. caratteristiche degli anni che precedettero la prima guerra mondiale. In realtà, la guerra non fu né il portato inevitabile di un’epoca o di un sistema  b   Spiega per iscritto quali sono le rappresentaeconomico né una catastrofe accidentale e imprevedibile: fu piuttosto il prodotto zioni contrapposte del periodo descritto e che giudidella combinazione di eventi casuali e di cause profonde. E queste ultime zio ne danno gli autori del manuale e perché.  c   Sottolinea le cause della prima guerra monvanno ricercate principalmente negli storici contrasti fra le grandi potenze eurodiale e descrivi sinteticamente l’approccio storiopee e nella nuova configurazione del sistema di alleanze, quale si venne delineangrafico che porta a riconoscerle. do a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo.

Le radici della guerra



2_2 NUOVE ALLEANZE IN EUROPA

► Leggi anche:

E NUOVI EQUILIBRI MONDIALI

►    Focus La crescita demografica in Asia

Dopo il 1890, con l’uscita di scena del cancelliere tedesco Bismarck, i rapporti fra le grandi potenze che dominavano la politica europea e mondiale subirono radicali mutamenti. Si ruppero infatti gli equilibri internazionali, che nei vent’anni precedenti erano rimasti inseriti in una rete di alleanze con al centro la Germania bismarckiana, e si formò un nuovo assetto bipolare fondato sulla contrapposizione fra due blocchi di potenze europee: la Germania, l’Impero austro-ungarico con l’Italia da una parte, la Francia, la Russia e la Gran Bretagna dall’altra. A mettere in crisi il vecchio sistema di alleanze furono soprattutto due fattori: la scelta dell’imperatore tedesco Guglielmo II in favore di una politica più dinamica e aggressiva di quella praticata da Bismarck dopo il 1870; e la crescente, obiettiva difficoltà per la Germania di tenere uniti i suoi due maggiori alleati, gli Imperi austro-ungarico e russo, in perenne contrasto nel settore balcanico.

La fine dell’equilibrio bismarckiano

Mentre Bismarck era riuscito in qualche modo a legare a sé entrambe le potenze, i suoi successori decisero di privilegiare l’alleanza con l’Austria e non rinnovarono quella con la Russia, nella convinzione che l’Impero zarista non avrebbe mai stretto alleanza con la Francia repubblicana. Ma queste due potenze, diversissime e distanti sotto tutti i punti di vista, avevano almeno una cosa in comune: la necessità di trovare un alleato. Si giunse così, nell’estate del 1891, a un primo accordo franco-russo, trasformatosi poi, nel 1894, in vera e propria alleanza militare. Contemporaneamente la Francia si impegnò in una serie di ingenti prestiti alla Russia, che stava cercando di avviare un processo di industrializzazione. Con la stipulazione della Duplice franco-russa veniva meno il principale pilastro su cui si era fondato il sistema bismarckiano, l’isolamento della Francia, e la Germania era costretta a premunirsi contro l’eventualità, sempre temuta, di una guerra su due fronti.

L’alleanza franco-russa

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

Pochi anni dopo, la decisione presa dal governo tedesco di dare il via alla costruzione di una potente flotta da guerra capace di contrastare la superiorità britannica nel Mare del Nord provocava un inasprimento dei rapporti – fino ad allora abbastanza cordiali – fra Germania e Gran Bretagna. Nelle intenzioni dei suoi fautori, il riarmo navale doveva servire a incutere rispetto nella maggiore potenza marittima e a renderla più malleabile in vista di un’intesa generale. Ma l’effetto fu quello di indurre i britannici, decisi a mantenere la propria superiorità, a impegnarsi a loro volta in una vera e propria corsa agli armamenti navali, che avrebbe toccato il suo culmine fra il 1907 e il 1914.

La corsa agli armamenti navali

Frattanto aveva inizio fra Gran Bretagna e Francia quel processo di graduale riavvicinamento che portò le due potenze a regolare i rispettivi interessi coloniali in Africa e a stipulare, nel 1904, un accordo che prese il nome di Intesa cordiale. L’Intesa non era una vera e propria alleanza militare, ma costituiva ugualmente una sconfitta diplomatica per la Germania e un notevole successo per la Francia, che diventava il perno di un nuovo sistema di alleanze. Quando, nel 1907, anche Gran Bretagna e Russia regolarono i loro contrasti in Asia con un accordo che limitava le rispettive sfere di influenza, il capovolgimento della situazione antecedente il 1890 poté dirsi completo. Del sistema di alleanze bismarckiano restava in piedi soltanto il blocco fra i due Imperi centrali, con l’appendice dell’Italia (che peraltro tendeva a riservarsi una sempre maggiore autonomia all’interno della Triplice alleanza). A questo blocco se ne contrapponeva un altro, quello che poi fu chiamato Triplice intesa, politicamente meno omogeneo e meno compatto dal punto di vista diplomatico, ma potenzialmente più forte per risorse e per popolazione e unito, se non altro, dalla preoccupazione per la crescente potenza tedesca.

Triplice alleanza e Triplice intesa

In Germania, d’altro canto, questa situazione – che pure era dovuta in massima parte agli errori della classe dirigente tedesca – determinò una sorta di complesso di accerchiamento. E ciò fu causa a sua volta di una maggiore aggressività in politica estera, di una più accentuata spinta al riarmo, di una pericolosa inclinazione – diffusa soprattutto nelle alte sfere militari – verso la guerra “preventiva”. Tendenze aggressive e spinte nazionalistiche si manifestavano, del resto, anche negli altri Stati; e convergevano nel creare un clima di sempre maggiore tensione internazionale.

L’aggressività tedesca

Alle paure di un conflitto generalizzato fra le grandi potenze europee si aggiungevano le ansie suscitate da possibili sfide esterne. Nel primo quindicennio del ’900 si cominciarono ad avvertire i sintomi di un ridimensionamento dell’Europa in rapporto al resto del mondo; e l’idea di una minaccia portata alla supremazia europea dall’emergere di nuovi popoli e nuove nazioni cominciò a farsi strada in alcuni settori dell’opinione pubblica. A suggerire questi timori non era tanto l’ascesa degli Stati Uniti, visti pur sempre come un’appendice dell’Europa, quanto il risveglio dei popoli dell’Estremo Oriente: il Giappone innanzitutto, ormai lanciato in una politica imperialista che lo portò a scontrarsi con la Russia; ma anche la Cina, sempre più insofferente dello stato di subordinazione impostole dalle grandi potenze. Si trattava di paure largamente irrazionali, fondate non solo su fattori di ordine politico-militare, ma anche sulle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione europea continuava a crescere, ma non al punto da ridurre significativamente il divario con i popolosissimi

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Gli inizi del declino europeo

U1 L’ALBA DEL ’900

Allegoria della Triplice intesa inizio XX sec. [© Roger-Viollet/Alinari] «Tedeschi altolà! La vostra egemonia sta finendo, è all’agonia»: così proclamano le tre donne che impersonano rispettivamente la Gran Bretagna, la Francia e la Russia.

IL SISTEMA DELLE ALLEANZE NELL’EUROPA DI FINE ‘800

Il nuovo assetto bipolare dell’Europa di fine ‘800 TRIPLICE INTESA

Russia

Contro l’espansionismo asburgico nei Balcani

Francia

TRIPLICE ALLEANZA

Gran Bretagna

Contro la politica di potenza della Germania

paesi asiatici: la crescita di questi ultimi fu sentita da molti come una minaccia demografica all’egemonia europea e, più in generale, alla supremazia dei popoli «bianchi». Fu allora che in Europa si cominciò a parlare sempre più insistentemente di un «pericolo giallo»: un’espressione coniata dall’imperatore di Germania Guglielmo II e diventata d’attualità soprattutto dopo la guerra russo-giapponese del 1904-5 [►2_6].



Germania

Italia

Austria-Ungheria

Competizione navale con la Gran Bretagna

Contrasti coloniali con la Francia in Africa

Competizione con la Russia nei Balcani

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi i due blocchi di Stati che si crearono tra la fine dell’800 e i primi del ’900. Quindi evidenzia i fattori che ne determinarono la formazione.  b   Sottolinea le cause che portarono alla corsa agli armamenti navali.  c   Evidenzia i nomi delle alleanze descritte, trascrivile sul quaderno e rea­ lizza per ognuna di esse uno schema ad albero che contenga le informazioni principali (Stati coinvolti, anni di riferimento, finalità, reazioni politiche suscitate).  d   Esponi sinteticamente per iscritto il ruolo del Giappone nel contesto geopolitico descritto e la percezione che se ne aveva in Europa.

2_3 I FOCOLAI DI CRISI

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Nel decennio che precedette lo scoppio della prima guerra mondiale, i due blocchi di potenze che si erano venuti a formare nell’Europa di inizio secolo si fronteggiarono in un contesto internazionale sempre più inquieto, dove ai vecchi motivi di contrasto (il revanscismo francese nei confronti della Germania, la rivalità austro-russa nei Balcani) si sommavano le nuove tensioni derivanti dalla politica sempre più aggressiva dell’Impero tedesco e dalla sua competizione con la Gran Bretagna per la superiorità navale. In queste condizioni accadeva di frequente che le tensioni vecchie e nuove si traducessero in crisi acute, ognuna delle quali rischiava di innescare il meccanismo di un conflitto generale.

I contrasti fra le potenze

►     Storia, società, cittadinanza La paura del diverso ►     Storia e Geografia I Balcani

Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il primo e il più importante riguardava l’assetto dei Balcani. Il secondo era costituito dal Marocco, uno degli ultimi Stati africani indipendenti, da secoli governato da revanscismo dinastie islamiche, oggetto delle mire Il termine deriva dal francese revanche (“rivincita”) e indica quel sentimento di rivalsa sui francesi e proprio per questo scelto dalla Germania come tedeschi che i francesi coltivarono dopo la sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870. ultimo possibile terreno di scontro per contrastare lo straPer estensione la parola serve a definire l’atteggiamento bellicoso di quei paesi che vogliono vendicare l’onore nazionale ferito e recuperare territori perduti. potere delle rivali in campo coloniale. Per due volte, nel 1905 e nel 1911, il contrasto franco-tedesco sul Marocco protettorato sembrò portare l’Europa sull’orlo della guerra. Alla fine la Con questo termine si indica la condizione di uno Stato che, pur conservando l’indipendenza, Francia riuscì a spuntarla, grazie alla solidarietà dei suoi è posto sotto la protezione (e quindi il controllo) di uno Stato più forte, sia negli affari alleati, e si vide riconosciuto un formale protettorato sul internazionali sia in quelli interni. territorio conteso.

La contesa tra Francia e Germania per il Marocco

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

I pericoli maggiori per la pace sul continente vennero in questo periodo dalla zona balcanica. A mettere in movimento una situazione già precaria fu, nel 1908, una profonda trasformazione interna all’Impero ottomano: la cosiddetta rivoluzione dei “Giovani turchi” [►FS, 27], un movimento composto in prevalenza da intellettuali e da ufficiali che si proponevano la trasformazione dell’Impero, retto da istituzioni autocratiche e arretrato sul piano economico, in una moderna monarchia costituzionale. Nell’estate del 1908, un gruppo di ufficiali marciò con le proprie truppe sulla capitale, costringendo il sultano Abdul Hamid a concedere una Costituzione [►FS, 28d] e, l’anno successivo, a lasciare il trono al fratello Maometto V. Il nuovo regime tentò di realizzare, con qualche successo, un’opera di modernizzazione dello Stato. Ma non si mostrò in grado di risolvere il problema dei rapporti con i popoli europei ancora soggetti all’Impero, in stato di diffusa rivolta. Al contrario, i “Giovani turchi” cercarono di attuare un ordinamento amministrativo più centralizzato di quello, inefficiente, del vecchio regime; ma ottennero l’effetto di accentuare le spinte indipendentiste e di accelerare la fine della presenza ottomana in Europa.

La rivoluzione in Turchia

Della crisi interna all’Impero ottomano approfittò subito l’Austria-Ungheria per procedere, nell’ottobre 1908, all’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina, che le erano state affidate in amministrazione temporanea al congresso di Berlino del 1878: ciò provocò un immediato inasprimento dei rapporti con la Serbia – che mirava a unificare sotto il suo regno gli slavi del Sud – e con la stessa Russia, che della Serbia era la grande protettrice. Appoggiata dall’alleata Germania, l’Austria riuscì però a far accettare alle altre potenze il fatto compiuto. I due Imperi centrali ottennero così un successo diplomatico; ma lo pagarono con una radicalizzazione del nazionalismo sud-slavo e con un indebolimento della Triplice alleanza: l’Italia, infatti, subì a malincuore l’iniziativa austriaca.

La crisi bosniaca

Pochi anni dopo, nel 1912, l’occupazione italiana della Libia provocò una guerra fra l’Italia e la Turchia, che subì l’ennesima sconfitta [►3_6]. La sconfitta turca favorì a sua volta le mire degli Stati balcanici: i Regni di Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria, coalizzati, attaccarono l’Impero ottomano e lo sconfissero (prima guerra balcanica), strappandogli quanto restava dei suoi territori europei, salvo una piccola zona della Tracia che consentiva il controllo degli stretti. Sulla costa meridionale dell’Adriatico nasceva un nuovo piccolo Stato, il Principato di Albania, voluto dall’Austria e dall’Italia per impedire alla Serbia lo sbocco al mare [► _1]. Ma, al momento della spartizione dei territori conquistati, l’alleanza fra gli Stati balcanici si ruppe. Nel 1913 la Bulgaria, che aveva sostenuto il maggior peso nella guerra contro la Turchia e si riteneva sacrificata nella divisione del bottino, attaccò improvvisamente la Grecia e la Serbia. Contro l’aggressione bulgara si formò una nuova coalizione. Alla Serbia e alla Grecia si unirono la Romania, che non aveva partecipato alla guerra precedente, e la stessa Turchia (seconda guerra balcanica). La Bulgaria, sconfitta, dovette restituire alla Turchia una parte della Tracia e cedere alla Romania una striscia di territorio sul Mar Nero.

Le guerre balcaniche

Si trattò, in entrambi i casi, di guerre sanguinose, che colpirono pesantemente le popolazioni civili, anticipando gli orrori che avrebbero segnato quei territori nel corso del XX secolo. Dal punto di vista degli equilibri internazionali, il bilancio finale delle due guerre balcaniche risultava sfavorevole per gli Imperi centrali. Il loro maggiore alleato, l’Impero turco, era stato praticamente estromesso dall’Europa. La Serbia, vera spina nel fianco della monarchia austro-ungarica, si era considerevolmente rafforzata raddoppiando quasi il suo territorio senza per questo attenuare la sua ostilità verso l’Impero asburgico, che le aveva precluso lo sbocco sull’Adriatico e ostacolava i suoi disegni di unificazione dei popoli slavi. In queste

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Il nodo balcanico e la minaccia della guerra

U1 L’ALBA DEL ’900

Yaroslav Veshin, L’esercito bulgaro conquista una posizione turca nel corso della prima guerra balcanica 1912

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I BALCANI NEL 1913

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1908

Impero ottomano, 1913 cessioni dell’Impero ottomano, 1913 date di annessione dei territori territorio indipendente nel 1913 annessione all’Austria-Ungheria

condizioni si faceva sempre più forte nei circoli dirigenti austriaci, e soprattutto fra i militari, la tentazione di liquidare una volta per tutte i conti con la Serbia. Ma se l’Austria avesse attaccato la Serbia, come avrebbe reagito la Russia? E, in caso di conflitto austro-russo, come si sarebbero comportate la Germania e la Francia, legate da stretti vincoli di alleanza militare rispettivamente all’Impero degli Asburgo e a quello degli zar? Le rivalità fra gli Stati minori del Sud-Est euroIpeo BALCANI NEL 1913 si intrecciavano dunque pericolosamente con il confronto fra i due blocchi Impero ottomano, 1913 contrapposti delle grandi potenze.



19

1913

Salonicco

1913

1908

1913

1913

1885

Atene

cessioni dell’Impero ottomano, 1913 date di annessione dei territori territorio indipendente nel 1913 annessione all’Austria-Ungheria

1885

1913 RUMELIA ORIEN.

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Salonicco

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H E R I A I A - U N G A U S T R

Sofia

1913

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Nel 1913 la presenza ottomana nei Balcani era ridotta ormai alla sola Tracia. Con il prevalere delle singole nazionalità veniva perdendosi il MAR carattere multinazionale IONIO e pluriconfessionale di molte città commerciali dell’Impero. Salonicco, il maggiore centro ebraico del Mediterraneo e culla del movimento dei “Giovani turchi”, diveniva ora una città greca.

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1913

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1_I BALCANI NEL 1913

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METODO DI STUDIO

 a   Completa la frase sottolineando sul testo la parte finale: «Le ambizioni della Francia e della Germania sul Marocco si risolsero...».  b   Evidenzia coloro che facevano parte del movimento dei “Giovani turchi” e sottolinea con colori diversi gli obiettivi che intendevano raggiungere con la rivoluzione e gli esiti di quest’ultima.  c   Spiega per iscritto la politica perseguita dall’Austria-Ungheria nei Balcani, le conseguenze e gli esiti delle guerre balcaniche del 1912-13.

2_4 LE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI: FRANCIA E GRAN BRETAGNA

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Negli anni a cavallo fra ’800 e ’900, le maggiori potenze europee si differenziavano e si contrapponevano anche sul piano degli ordinamenti interni. Mentre in Francia e in Gran Bretagna le istituzioni rappresentative si rafforzavano ed evolvevano, pur tra forti contrasti, verso forme più avanzate di democrazia, nei due imperi del Centro Europa, Germania e Austria-Ungheria, i poteri del Parlamento restavano subordinati a quelli dei sovrani, dei governi e delle gerarchie militari, nonostante la crescita dei nuovi partiti di massa. A Est, l’Impero russo, pur alleato delle democrazie occidentali, restava sostanzialmente legato al vecchio modello autocratico.

► Parole della storia Intellettuale, p. 41

I modelli politici

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

Dopo la sconfitta nella guerra con la Germania e il ritorno alla Repubblica, la Francia aveva compiuto progressi sostanziali sulla strada della democrazia. Eppure le istituzioni repubblicane continuavano a essere oggetto di una insidiosa contestazione, che ora prendeva le forme di un esasperato nazionalismo, ora quelle della reazione clericale, ora quelle di un demagogico antisemitismo. Alla fine dell’800 queste correnti, facendo blocco con una parte delle forze moderate, misero a serio rischio la vita stessa delle istituzioni repubblicane.

La Francia repubblicana

L’offensiva nazionalista partì da un clamoroso caso giudiziario: quello di Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo condannato ai lavori forzati nel 1894 con l’accusa di aver fornito documenti riservati all’ambasciata tedesca. La sentenza, che fornì alla stampa di destra il pretesto per una violenta campagna antisemita, era basata su indizi falsi o inconsistenti. Ma le alte sfere militari si rifiutarono di procedere a una revisione del processo, giungendo al punto di falsificare documenti e di coprire i veri colpevoli. Quando, nel gennaio del 1898, il celebre scrittore Émile Zola pubblicò un esplicito atto d’accusa contro i tentativi messi in atto per nascondere la verità, fu processato e condannato per offese all’esercito. Sul caso, l’opinione pubblica francese si divise in due schieramenti contrapposti. Socialisti, radicali e una parte dei repubblicani moderati, assieme a un nutrito gruppo di intellettuali, si batterono perché venisse riconosciuta l’innocenza dell’ufficiale condannato. Clericali, monarchici, nazionalisti di destra e non pochi moderati insistettero sulla tesi della colpevolezza e sulla difesa a ogni costo del prestigio delle forze armate. Il contrasto travalicò ben presto i confini del caso giudiziario per trasformarsi in uno scontro politico. Dreyfus fu infine graziato dal presidente della Repubblica e ufficialmente riabilitato solo nel 1906.

Il “caso Dreyfus”

I sostenitori di Dreyfus ebbero partita vinta anche sul terreno politico. L’esito delle elezioni del 1899 fu favorevole ai radicali e alle altre forze progressiste e consentì la formazione di un governo di “coalizione repubblicana” appoggiato anche dai socialisti. Alcune associazioni di estrema destra vennero sciolte e i loro capi arrestati. Fu avviata un’epurazione negli alti gradi dell’esercito e, soprattutto, riprese con rinnovato vigore la battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute dal clero cattolico: allo scioglimento di oltre cento congregazioni religiose seguirono, nel 1905, la rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Santa

La vittoria dei progressisti

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Vignetta satirica italiana sul “caso Dreyfus” [Musée Carnavalet, Parigi] L’affaire Dreyfus divampò presto anche fuori dei confini nazionali francesi e, attraverso la stampa, accese il dibattito sul conflitto tra giustizia e ragion di Stato.

U1 L’ALBA DEL ’900

Sede, la denuncia del concordato in vigore dal 1803 e la completa separazione fra Stato e Chiesa. La battaglia anticlericale, condotta non senza eccessi e faziosità, suscitò nel paese nuove profonde divisioni, ma si concluse con un sostanziale successo e con un netto rafforzamento dei gruppi radicali. La Francia del primo ’900, all’avanguardia in materia di democrazia politica e di laicità dello Stato, non lo era affatto sul piano della legislazione sociale né su quello dell’ordinamento fiscale, che era basato in larga parte sulla tassazione indiretta. I governi a direzione radicale che si succedettero fra il 1906 e il 1911, sotto la guida di Georges Clemenceau e dell’ex socialista Aristide Briand, condussero in porto alcune importanti riforme sociali, come la limitazione dell’orario di lavoro, la legge sul riposo settimanale e le pensioni di vecchiaia, ma non riuscirono a far passare un progetto di imposta generale sul reddito; per questo dovettero scontrarsi, anche duramente, con la protesta di una classe lavoratrice che aveva beneficiato solo marginalmente dei progressi economici compiuti dal paese ed era quindi sensibile agli appelli delle correnti rivoluzionarie. Lo spostamento a sinistra del movimento sindacale e della stessa Sfio [►1_5] provocò la rottura dell’alleanza fra socialisti e radicali e, alla lunga, ridiede spazio alle correnti repubblicano-moderate che riuscirono a tornare al potere fra il 1912 e il 1914 con il loro leader più prestigioso, Raymond Poincaré. Il dibattito politico, accantonati i temi delle riforme, si sarebbe concentrato sul problema delle spese militari e del rafforzamento dell’esercito, in vista di quella rivincita sulla Germania a cui larghi strati dell’opinione pubblica francese non avevano mai cessato di pensare.

I governi radicali

Parole della storia

Intellettuale

N

egli anni a cavallo fra ’800 e ’900, si diffuse, prima in Francia, poi in Italia, l’uso del termine “intellettuale” (in francese intellectuel) non solo come aggettivo riferito a qualsiasi aspetto o proprietà della mente umana, ma anche come sostantivo che, declinato al plurale (“gli intellettuali”), serviva a indicare una categoria, o addirittura un ceto sociale: quello formato da coloro che svolgevano funzioni e lavori generalmente associati all’intelletto, dunque gli scrittori, i giornalisti, gli scienziati, i filosofi, gli accademici, gli insegnanti, i giuristi, gli artisti. La diffusione del termine, anche nel dibattito politico, indicava la nuova centralità di questi soggetti, che rivendicavano, e spesso si vedevano riconosciuta, una funzione pubblica, un ruolo di guida etica, di stimolo o di critica. Di intellettuali si cominciò a parlare negli ultimi anni dell’800, in riferimento al “caso Dreyfus”, intorno a cui si sollevò un grande dibattito pubblico. Ad innescarlo fu un celebre articolo pubblicato il 13 gennaio 1898 dal quotidiano parigino «L’Aurore» col significativo titolo J’accuse (“io accuso”). In quell’articolo, scritto in forma di appello al capo dello Stato, lo scrittore Émile Zola non

solo si schierava a sostegno dell’innocenza di Dreyfus, ma denunciava le falsificazioni e gli inganni delle alte gerarchie militari. Il giorno seguente lo stesso giornale pubblicava il Manifesto degli intellettuali, in favore della revisione del processo: lo firmavano, tra gli altri, lo scrittore Marcel Proust, il pittore Claude Monet, il sociologo Émile Durkheim. Era la prima mobilitazione pubblica di un gruppo che rivendicava il ruolo di difensore dei valori universali di civiltà, anche contro i poteri costituiti. L’idea di un ceto intellettuale capace di parlare a nome di tutti ascoltando solo la voce della coscienza entrò in crisi già con la prima guerra mondiale, che vide gli schieramenti in campo contrapporsi in nome di diversi sistemi di valori e di diverse concezioni della cultura. Le fratture si allargarono poi negli anni fra le due guerre mondiali, quando molti fra i maggiori intellettuali europei si schierarono secondo linee di contrapposizione che riflettevano le militanze politico-ideologiche e ad esse sembravano subordinarsi [►7_9]. Un fenomeno deplorato dallo scrittore francese Julien Benda in un libro del 1927 intitolato Il tradimento degli intellettuali (La trahison des clercs), dove i clercs (i chierici) sono i monaci medievali dediti solo ai loro studi e lontani dalle passioni del mondo.

Dopo la seconda guerra mondiale, fu un altro scrittore e filosofo francese, Jean-Paul Sartre, a indicare agli intellettuali la via dell’impegno (engagement). Per “impegno” Sartre intendeva una assunzione individuale di responsabilità da parte dell’uomo di cultura nei confronti del mondo in cui vive che si traduca in attivo interessamento ai problemi sociali e politici del suo tempo e nella denuncia di tutte le oppressioni. Ma negli anni della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi, anche il mondo della cultura si divideva inevitabilmente in fronti opposti, rendendo così poco credibile ogni tentativo degli intellettuali di farsi portavoce di valori universali. A partire dagli anni ’60, la figura dell’intellettuale comincia a perdere la centralità che aveva avuto fin dall’inizio del secolo. Da una parte, infatti, la crescita della partecipazione democratica e del livello culturale medio della popolazione moltiplica progressivamente nella società le funzioni e le competenze del ceto intellettuale, erodendone la dimensione elitaria. Dall’altra, i mezzi di comunicazione di massa tendono a sostituirsi agli intellettuali in un’altra delle loro principali funzioni, l’organizzazione del consenso.

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

Per un ventennio, fra il 1886 e il 1906, la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione fra i conservatori di Robert Salisbury e gli “unionisti” di Joseph Chamberlain, che si erano separati dai liberali perché contrari alla concessione dell’autogoverno all’Irlanda. In questi anni – gli ultimi del lungo regno della regina Vittoria, morta nel 1901 – i governi si impegnarono soprattutto sul fronte delle imprese coloniali, ma cercarono al tempo stesso di contemperare le spinte imperialiste con una certa dose di riformismo sociale. Fra il 1897 e il 1905 furono varate leggi che aumentavano i finanziamenti per le scuole elementari e medie e favorivano il collocamento dei lavoratori disoccupati. A mettere in crisi l’egemonia della coalizione di governo fu il progetto, sostenuto da Chamberlain, sotto la pressione di una parte degli industriali, di introdurre anche nell’Impero britannico il protezionismo doganale, sconvolgendo così una tradizione liberoscambista che durava ormai da più di mezzo secolo.

I governi conservatori in Gran Bretagna

Nelle elezioni del 1906 i liberali conquistarono un’ampia maggioranza, mentre per la prima volta faceva il suo ingresso alla Camera un gruppo di trenta deputati laburisti. I liberali adottarono una linea meno aggressiva in campo coloniale e una più organica politica di riforme sociali. Ma l’aspetto più nuovo e coraggioso della loro azione fu la proposta di introdurre una politica fiscale fortemente progressiva [►1_4], che imponeva cioè una tassazione via via più onerosa in rapporto alle dimensioni della ricchezza e mirava a colpire soprattutto i grandi patrimoni. Il tentativo si scontrò con la reazione della Camera dei Lord, roccaforte dell’aristocrazia, che aveva il diritto di respingere le leggi votate dalla Camera dei Comuni. Il diritto di veto, però, non si applicava per tradizione alle leggi finanziarie, la cui mancata approvazione avrebbe provocato il blocco della macchina statale. Quando, nel 1909, i Lord violarono questa prassi respingendo il bilancio preventivo presentato dal governo ne nacque un conflitto costituzionale che vide contrapposte le due Camere, l’una a legge di bilancio maggioranza liberale, l’altra dominata dai conservatori. I liberali presentarono Legge con la quale il Parlamento approva annualmente il allora un “progetto di legge parlamentare” (Parliamentary Bill), che negava ai bilancio di previsione dello Stato presentato dal governo, ovvero la previsione, per l’anno successivo, delle entrate, Lord il diritto di respingere le leggi di bilancio e lasciava loro, per tutte le altre generate dall’imposizione fiscale, e delle uscite prospettate leggi, solo la facoltà di rinviarle due volte alla Camera dei Comuni (dopodiché dall’amministrazione statale (la spesa pubblica). sarebbero state comunque approvate). Nel 1911, dopo un braccio di ferro durato due anni e dopo due successive eleMETODO DI STUDIO zioni anticipate vinte (sia pure di stretta misura) dai liberali, i Lord, grazie anche  a   Sottolinea con colori diversi chi era Dreyfus, alle pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare una riforma che quale accusa gli venne rivolta e quale contesto storiimpediva loro di respingere le leggi di bilancio. co-culturale ne fu la causa.

I liberali e lo scontro con i Lord

Nello stesso anno, il governo decise di affrontare la questioLa questione ne irlandese e presentò un nuovo progetto di Home Rule irlandese (“autogoverno”), che prevedeva un’Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio parlamento, ma pur sempre legata alla Corona britannica. La soluzione proposta scontentava sia i nazionalisti irlandesi, che miravano alla piena indipendenza, sia i protestanti dell’Ulster (Irlanda del Nord), che organizzarono un movimento clandestino armato per opporsi all’autonomia. Dopo un lungo e tormentato dibattito, il progetto, avversato anche da una parte dei liberali, fu approvato nel maggio 1914, ma la sua applicazione fu subito sospesa a causa dello scoppio della guerra.



2_5 GLI IMPERI CENTRALI: GERMANIA E AUSTRIA-UNGHERIA

La Germania guglielmina e il “nuovo corso”

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 b   Spiega come si concluse il caso Dreyfus e quali conseguenze si ebbero sulla vita politica della Francia.  c   Sottolinea con colori diversi le informazioni principali che riguardano i seguenti temi relativi all’Inghilterra fra la fine dell’800 e i primi anni del ’900: a. i partiti al governo; b. la politica estera; c. la politica sociale; d. la crisi della coalizione di governo.  d   Descrivi i cambiamenti politici che avvennero in Inghilterra dal 1906 e in che modo si giunse al conflitto costituzionale fra le due Camere del 1909.  e   Individua da tre a cinque parole chiave che sintetizzino i temi salienti della questione irlandese e argomenta la tua scelta per iscritto.

U1 L’ALBA DEL ’900

La fine del lunghissimo cancellierato di Otto von Bismarck, nel 1890, parve segnare una svolta nella politica tedesca. Erano stati soprattutto motivi interni – in particolare i successi dei socialdemocratici nelle elezioni del 1890 – a

► Leggi anche: ►     Focus Mito e declino dell’Impero asburgico

determinare la caduta del “cancelliere di ferro”. Lo stesso imperatore Guglielmo II, salito al trono nel 1888, aveva annunciato un “nuovo corso” nella vita del paese e aveva criticato le leggi eccezionali contro i socialisti (che in effetti non furono più rinnovate dopo il 1890). Le speranze in una evoluzione liberale del sistema andarono però deluse. L’imperatore mostrò ben presto una chiara inclinazione alle soluzioni autoritarie e all’esercizio personale del potere. L’unico mutamento di rilievo fu costituito dal fatto che nessuno dei cancellieri succedutisi alla guida del governo ebbe le capacità e la personalità che avevano permesso a Bismarck di imporsi allo stesso potere imperiale: i cancellieri continuarono a governare “al di sopra dei partiti” e a render conto del loro operato all’imperatore e allo stato maggiore, più che al Parlamento. Insomma, il passaggio dall’età bismarckiana all’età “guglielmina” non comportò nessun mutamento sostanziale, se non una maggiore influenza dei vertici militari sulle scelte di governo. A partire dagli ultimi anni dell’800 la Germania imboccò la via della Weltpolitik (“politica mondiale”) e diede il via al riarmo navale che doveva consentirle di reggere il confronto con la Gran Bretagna [►2_2]; la politica del riarmo, inoltre, rappresentò un importante stimolo per l’economia tedesca, e contribuì a rinsaldare l’alleanza fra la casta agraria e militare degli Junker e gli ambienti della grande industria. Un’industria che era sempre più dominata dalle grandi concentrazioni e dalle imprese giganti (come la Krupp nel settore siderurgico e degli armamenti) e che vantava ritmi di sviluppo tecnologico e di crescita produttiva paragonabili solo ai contemporanei progressi dell’industria statunitense. La coscienza di questa superiorità accentuò nella classe dirigente, ma anche nei ceti popolari, le tendenze nazionaliste e imperialiste. Pur essendo un paese ricco di risorse naturali, infatti, la Germania, priva com’era di un grande impero coloniale, non aveva una disponibilità di materie prime paragonabile a quella dell’Impero britannico, degli Stati Uniti o dello stesso Impero russo. Da qui la volontà di modificare a proprio vantaggio la distribuzione mondiale delle risorse e gli equilibri sullo scacchiere planetario: il che, essendo ormai compiuta la spartizione dei continenti extraeuropei, portava fatalmente la Germania ad assumere una posizione antagonistica rispetto alle altre potenze imperialiste, come si è visto nel caso del Marocco [►2_3].

La “politica mondiale”

La spinta nazionalista e aggressiva insita nella politica estera tedesca finì col coinvolgere in varia misura tutte le maggiori forze politiche. L’unica autentica forza di opposizione, la socialdemocrazia, restò per tutta l’età guglielmina in una condizione di

La socialdemocrazia

Un reparto per il montaggio degli affusti dei cannoni nelle acciaierie Krupp 1904 Le acciaierie Krupp ebbero un ruolo determinante nella corsa agli armamenti in Germania. La foto mostra un gruppo di operai intenti a montare gli affusti (i sostegni delle bocche da fuoco) dei cannoni.

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

isolamento che le precludeva qualsiasi influenza sulla condotta degli affari di Stato. L’esclusione dall’area di governo, tuttavia, non le impedì di aumentare continuamente la massa dei propri iscritti (più di un milione nel 1914), incrementando il proprio seguito elettorale (nel 1913 la Spd si affermò addirittura come gruppo di maggioranza relativa col 34% dei voti e 110 seggi al Reichstag) e ampliando il proprio controllo sulle organizzazioni collaterali, come sindacati, cooperative, circoli ricreativi e culturali. A lungo andare però – nonostante la riaffermata fedeltà ai princìpi della dottrina marxista – anche la socialdemocrazia ammorbidì i toni e le forme della sua opposizione e venne tacitamente a patti con le ideologie nazional-imperialistiche cui nemmeno la classe operaia era del tutto insensibile. Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, l’Impero asburgico vide aggravarsi il declino delineatosi a partire dal 1848 e dovuto, oltre che al ritardo nello sviluppo dell’economia, ai sempre più forti contrasti fra le diverse nazionalità. Dal punto di vista economico, l’Impero era ancora complessivamente più povero della Germania e della Francia e poco più ricco dell’Italia, ma con alcune isole altamente urbanizzate e industrializzate: la regione gravitante attorno alla capitale Vienna, la Boemia (in particolare la zona di Praga), il porto di Trieste, nodo commerciale di primaria importanza fra il Centro Europa e il Mediterraneo. Allo sviluppo economico e civile dei grandi centri, alla eccezionale vitalità culturale che si manifestò in questo periodo a Vienna – una delle maggiori capitali europee della musica, delle arti figurative e della letteratura –, alla crescita dei grandi partiti di massa

Sviluppo e arretratezza nell’Impero asburgico

◄  Gustav

Klimt, Il bacio 1908 [Österreichische Galerie, Vienna]

▼  Egon

Schiele, Ritratto di Arnold Schönberg 1917 [Collezione privata]

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Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 Vienna attraversa uno dei periodi più affascinanti della sua storia. La capitale asburgica, quarta città in Europa con due milioni di abitanti, fu il teatro di una fioritura architettonica, artistica e culturale. Questa particolare atmosfera vivace e creativa della città, tra tradizione e modernità, si manifestò nei settori più disparati: dalle architetture di Otto Wagner e Adolf Loos ai dipinti di Gustav Klimt, caratterizzati da uno stile ricercato e prezioso; dalle sperimentazioni musicali di Arnold Schönberg, che abbandonati i rapporti tonali classici diede vita al sistema dodecafonico, al talento introspettivo e anticonvenzionale del pittore Egon Schiele.

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(socialdemocratici e cristiano-sociali) facevano riscontro il sostanziale immobilismo del sistema politico e la persistenza delle strutture sociali tradizionali nelle province contadine, dominate dalla Chiesa e dai grandi proprietari. Ma il principale motivo di crisi era costituito dai conflitti nazionali. Mentre l’ImI conflitti nazionali pero tedesco trovava nella compattezza etnica un potentissimo elemento di coesione, in Austria-Ungheria le tensioni fra i diversi gruppi nazionali costituivano un fattore di logoramento e di disgregazione per una compagine statale che aveva come principali elementi unificanti la Corona, l’esercito e la burocrazia. Con la soluzione “dualistica” che nel 1867 aveva diviso l’Impero in due parti (Austria e Ungheria), la monarchia asburgica aveva scelto la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello ungherese, che aveva conquistato nella parte sud-orientale dell’Impero una posizione privilegiata, simile a quella detenuta dagli austriaci nella parte nord-occidentale [► _2]. Fino alla fine del secolo il potere imperiale riuscì a controllare la situazione appoggiandosi agli elementi conservatori e all’aristocrazia agraria delle varie nazionalità, con qualche concessione alle masse contadine. Ma tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 si assisté a una crescita dei movimenti nazionali: tutti in forte contrasto gli uni con gli altri, ma uniti dall’ostilità al centralismo imperiale e dalla tendenza a radicalizzarsi, passando dal piano delle rivendicazioni autonomisticheTIROLO a quello dell’indipendentismo. I più irrequieti erano naturalmente i popoli slavi, i grandi sacrificati dal compromesso del ’67. Fra i cechi della Boemia e della Moravia – che erano inclusi nella zona di competenza austriaca – si affermò, nell’ultimo decennio dell’800, il movimento dei “Giovani cechi” che si batteva contro la politica di germanizzazione del governo di Vienna. Tendenze nazionaliste ancora più radicali si cominciarono a manifestare nello stesso periodo fra gli “slavi del

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

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2_PRINCIPALI POPOLAZIONI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO

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Sud”, serbi e croati, che erano soggetti al dominio ungherese (più duro di quello austriaco) e subivano l’attrazione del vicino Regno di Serbia. Persino fra gli ungheresi sorse, all’inizio del ’900, un movimento che rivendicava totale autonomia dall’Austria anche in materia di tariffe doganali e di organizzazione dell’esercito. Una parte della classe dirigente e dei circoli di corte si orientò verso l’idea di trasformare la monarchia da “dualistica” in “trialistica”: di staccare cioè gli slavi del Sud dall’Ungheria e di creare così un terzo polo nazionale accanto a quelli tedesco e magiaro. Questo progetto, che aveva il suo sostenitore più autorevole nell’arciduca ereditario Francesco Ferdinando (nipote di Francesco Giuseppe), si scontrava però con l’opposizione degli ungheresi e ancor più con quella dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con tutti i mezzi – compresi quelli terroristici – alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano palesemente appoggiati dalla Serbia (a sua volta protetta dalla Russia). Da questo pericoloso focolaio di tensione sarebbe scoccata nel 1914 la scintilla che portò allo scoppio della prima guerra mondiale e alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico.

Il progetto di un polo slavo



METODO DI STUDIO

 a   Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, descrivi sinteticamente il significato di ogni titolo spiegando il ruolo dei soggetti (singoli e collettivi) e le cause delle politiche intraprese facendo, se possibile, degli esempi.  b   Sottolinea una frase in grado di sintetizzare i tratti salienti del passaggio dalla fase bismarckiana a quella guglielmina.  c   Evidenzia con colori diversi la definizione di monarchia “dualistica” e di soluzione “trialistica” e sottolinea le conseguenze che queste comportavano.

2_6 LA RUSSIA: LA RIVOLUZIONE DEL 1905 E LA GUERRA COL GIAPPONE

Fra le grandi potenze europee la Russia era la sola che, alla fine dell’800, si reggesse ancora su un sistema autocratico, nemmeno mitigato da quelle forme di limitato costituzionalismo che si stavano affermando in Germania e in AustriaUngheria. Ciò non impedì all’Impero zarista di avviare il suo primo tentativo di decollo industriale. Cominciato all’inizio degli anni ’90 sotto lo stimolo delle grandi costruzioni ferroviarie, il processo di industrializzazione ebbe un impulso decisivo dalla politica di Sergej Vitte, ministro delle Finanze dal 1892 al 1903 e successivamente primo ministro. Le politiche economiche messe in atto in questi anni dal governo russo, da una parte, mirarono ad aumentare il sostegno dello Stato alla produzione nazionale, inasprendo il protezionismo e moltiplicando gli investimenti pubblici; dall’altra, incoraggiarono l’afflusso di capitali stranieri (soprattutto francesi), cui la repressione dei conflitti sociali e la conseguente compressione dei salari offrivano la possibilità di elevati profitti. Affidata all’iniziativa dello Stato e del capitale straniero, più che all’autonoma crescita di una borghesia imprenditoriale, l’industrializzazione risultò come calata dall’alto e fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni delle imprese.

Autocrazia e industrializzazione

Pertanto anche la classe operaia russa si concentrò in poche aree – la capitale Pietroburgo, la zona di Mosca, i distretti minerari degli Urali, la regione petrolifera di Baku sul Mar Caspio – e rimase isolata in un contesto sociale ancora dominato dall’agricoltura, che occupava circa il 70% della popolazione attiva e versava ancora in uno stato di estrema arretratezza. Il decollo industriale di fine secolo non cambiò dunque i tratti fondamentali della società russa, né elevò in misura significativa il tenore di vita di una popolazione che cresceva con un ritmo fra i più rapidi del mondo. All’inizio del ’900 la Russia era in testa alle classifiche europee dell’analfabetismo e della mortalità infantile, mentre il suo prodotto pro capite era meno della metà di quello della Francia o della Germania.

Una società arretrata

In queste condizioni era naturale che la tensione politica crescesse e che le manifestazioni di malcontento, anche violente, si moltiplicassero in tutti i settori della società. Del resto, in questi stessi anni si accentuò in modo determinante la penetrazione delle correnti rivoluzionarie fra i ceti popolari. Mentre la classe operaia subiva l’influenza del Partito socialdemocratico, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov

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I gruppi rivoluzionari

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► Leggi anche: ► Eventi La battaglia di Tsushima, p. 48 ► Parole della storia Populismo, p. 382

e aderente alla Seconda Internazionale, fra i contadini riscuoteva qualche successo la propaganda del Partito socialista rivoluzionario, nato nel 1900 dalla confluenza di gruppi anarchici e populisti, dai quali riprendeva il progetto di un socialismo agrario legato alle tradizioni russe. Priva di canali legali attraverso cui esprimersi, la protesta politica e sociale finì col coagularsi, nella Russia zarista, in un moto rivoluzionario: il più ampio e sanguinoso cui l’Europa avesse mai assistito dai tempi della Comune di Parigi del 1871.

soviet Il termine soviet è il corrispettivo russo di “consiglio” e indica quegli organismi rivoluzionari eletti in assemblea plenaria dagli operai, dai contadini o dai soldati di una data fabbrica, di un villaggio o reparto dell’esercito. Sorti nel 1905 a San Pietroburgo, essi inizialmente erano incaricati di rappresentare le esigenze delle realtà di cui erano espressione. Con la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, avrebbero poi dovuto costituire, almeno in teoria, la struttura fondamentale dello Stato (che avrebbe assunto il nome di Unione Sovietica).

A far precipitare gli eventi contribuì, come vedremo fra poco, lo scoppio, nel 1904, della guerra col Giappone, che fece immediatamente salire la tensione sociale nelle città provocando fra l’altro un brusco aumento dei prezzi. In una domenica di gennaio del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150 mila persone si diresse verso il Palazzo d’Inverno, residenza dello zar Nicola II, per presentare al sovrano una petizione in cui si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi per alleviare il disagio delle classi popolari. I manifestanti furono accolti a fucilate dall’esercito: i morti furono più di 100 e oltre 2000 i feriti. La brutale repressione scatenò in tutto il paese un’ondata di agitazioni, di vere e proprie sommosse, di ammutinamenti nelle stesse forze armate.

La “domenica di sangue”

Fra la primavera e l’autunno del 1905, la Russia visse in uno stato di semianarchia. Di fronte alla crisi dei poteri costituiti – incapaci di riportare l’ordine, anche perché il grosso dell’esercito era impegnato in Estremo Oriente – sorsero spontaneamente in molti centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet, rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro e costituite da membri continuamente revocabili, secondo un principio di democrazia diretta ispirato all’esperienza della Comune parigina del 1871. Il più importante di questi soviet, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario. Fra novembre e dicembre però – dopo che era stata conclusa la pace col Giappone e le truppe erano rientrate dal fronte – la Corona e il governo passarono risolutamente alla controffensiva facendo arrestare quasi tutti i membri del soviet di Pietroburgo e schiacciando con durezza le rivolte successivamente scoppiate nella capitale e a Mosca.

La nascita dei soviet

Una volta ristabilito l’ordine, restava, come unico risultato del moto rivoluzionario, l’impegno dello zar di convocare un’assemblea rappresentativa (Duma). Le attese di un’evoluzione parlamentare del regime andarono comunque deluse. Eletta nell’aprile 1906, a suffragio universale ma con un complicato sistema che privilegiava i proprietari terrieri, la prima Duma rappresentò ugualmente un ostacolo sulla via della restaurazione assolutista e fu sciolta dopo poche settimane. Uguale sorte subì una seconda Duma eletta nel febbraio 1907 e rivelatasi ancor meno governabile della prima, in quanto le elezioni avevano rafforzato le ali estreme (destra reazionaria e socialisti rivoluzionari) ai danni del centro rappresentato dai costituzionali-democratici (cadetti). A questo punto (estate 1907) il governo modificò la legge elettorale in senso fortemente classista (il voto di un grande proprietario contava cinquecento volte quello di un operaio) e poté finalmente disporre di un’assemblea più docile, composta in gran parte da aristocratici. Con questo colpo di mano, gli strascichi della rivoluzione del 1905 potevano considerarsi liquidati e la Russia tornava a essere un regime sostanzialmente assolutista.

Il fallimento della Duma e la restaurazione autoritaria

Artefice principale della restaurazione fu il conte Pëtr Stolypin, diventato primo ministro nel 1906. Stolypin legò il suo nome alla spietata repressione di ogni opposizione politica, ma al tempo stesso si pose il problema di riguadagnare al regime una base di consenso: avviò pertanto una riforma agraria, in base alla quale i contadini ebbero la facoltà di divenire proprietari della terra che coltivavano, e di godere di facilitazioni creditizie per l’acquisto di altre terre sottratte al demanio statale o cedute dai latifondisti. Lo scopo

La riforma agraria

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

Una crocerossina giapponese si prende cura di alcuni soldati russi feriti nella battaglia della Baia di Chemulpo 1904 [Library of Congress, Washington] La battaglia della Baia di Chemulpo si svolse il 9 febbraio del 1904 al largo delle coste della Corea. Fu una delle prime battaglie navali della guerra che vide contrapporsi russi e giapponesi e si concluse con la vittoria di questi ultimi. Per evitare che i giapponesi si impossessassero delle loro navi, i russi le affondarono nel porto di Chemulpo, dove si erano rifugiate. Gli equipaggi russi, rimasti così senza imbarcazioni, tornarono in Russia a bordo di navi appartenenti a paesi neutrali, mentre i feriti più gravi venivano curati nell’ospedale della Croce Rossa di Chemulpo.

Kiyochika Kobayashi, Lo zar Nicola II è tormentato da un incubo in cui vede i suoi soldati feriti rientrare dalle battaglie contro i giapponesi 1904-5 [Library of Congress, Washington]

EVENTI

La battaglia di Tsushima

N

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ei giorni 27 e 28 maggio del 1905, nelle acque dello Stretto di Tsushima, al largo della penisola coreana, la flotta russa fu distrutta dalla marina giapponese, comandata dall’ammiraglio Togo, che aveva fatto gli studi militari in Gran Bretagna e sarebbe stato ricordato in seguito come il “Nelson dell’Oriente”. Lo scontro, decisivo per la risoluzione del conflitto russo-giapponese scoppiato l’anno precedente, fu, per molti versi, epico. Le navi russe normalmente presenti nell’Oceano Pacifico erano state infatti bloccate dai giapponesi nel porto di Vladivostok. Allo zar Nicola II non era restato quindi che inviare la flotta russa abitualmente impegnata nel Mar Baltico, composta da una squadra di 42 unità, alcune in verità alquanto antiquate. Prima però di potersi confrontare in battaglia con i nipponici, i russi dovettero affrontare una lunghissima navigazione. Avendo infatti il Giappone stretto alcuni anni prima un’alleanza militare con la Gran Bretagna, le porte del Mediterraneo e del Mar Rosso,

U1 L’ALBA DEL ’900

in mano agli inglesi che controllavano lo Stretto di Gibilterra e il Canale di Suez, non consentirono il passaggio alle navi russe. Queste ultime, sotto il comando dell’ammiraglio Zinovij Petrovic Rožestvenskij, considerato unanimemente il miglior ufficiale a disposizione della flotta imperiale, furono costrette a compiere la circumnavigazione dell’Africa, raggiungendo i luoghi dello scontro soltanto dopo aver attraversato l’Oceano Indiano. I russi, partiti il 14 ottobre del 1904, giunsero nel Pacifico dopo circa 8 mesi di navigazione, costellata per giunta di difficoltà. I marinai dello zar arrivarono dunque alla battaglia dopo un viaggio estenuante e furono inoltre penalizzati dall’inferiorità delle corazze di protezione e dalla minor potenza di fuoco delle loro navi. Ciò nonostante si batterono con onore, ma furono comunque sconfitti, essendo venuta meno, nel corso dello scontro, anche la guida del loro comandante, gravemente ferito dai giapponesi. Per questi ultimi la

battaglia di Tsushima rappresentò un clamoroso successo, destinato, a suo modo, a segnare un’epoca. La vittoria navale giapponese dimostrava inoltre la possibilità, anche per uno Stato non europeo, di modernizzare le proprie strutture economiche e tecnologiche senza perdere le tradizioni più antiche radicate nella società. La vittoria era stata resa possibile infatti dalla presenza in Giappone di una moderna industria siderurgica e navale, che aveva realizzato le corazzate impiegate poi contro i russi. La vittoria di Tsushima, ratificata nello stesso anno dalla pace di Portsmouth, rappresentò un grande trauma per l’intera Europa, perché dimostrava che gli occidentali non erano invincibili e potevano invece essere sconfitti. Al Giappone, che aveva saputo reagire alla fine del suo tradizionale isolamento politico e commerciale imposto dagli Stati Uniti e dalle potenze europee, creando un proprio modello di trasformazione capitalistica e di modernizzazione sociale ed economica, cominciarono a guardare, con vivo interesse, i

era quello di creare un ceto di piccola borghesia rurale che fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità politica, ma il progetto riuscì solo in parte: dei nuovi piccoli proprietari creati dalla riforma (circa sette milioni fra il 1906 e il 1914), una parte andò a ingrossare il numero dei kulaki, i contadini ricchi o relativamente agiati; ma i più non trovarono nei loro piccoli appezzamenti la possibilità di condizioni di vita accettabili.

kulaki È un termine russo che letteralmente significa “pugni” e in senso figurato “incettatori, avari”: così venivano chiamati in Russia i contadini benestanti che avevano alle loro dipendenze altri contadini. Negli anni ’30 la classe dei kulaki fu sterminata durante il processo di collettivizzazione agraria voluto da Stalin.

Come abbiamo visto, nel 1905, mentre era ancora scossa dalla rivoluzione, la Russia aveva subito una severa sconfitta militare ad opera del Giappone che, già alla fine dell’800, si era affacciato prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica in Asia: aveva infatti mosso guerra all’Impero cinese (1894) e lo aveva sconfitto dando una prima prova della sua efficienza bellica. Subito dopo il Giappone entrò in diretta concorrenza con la Russia per il controllo delle regioni del Nord-Est asiatico. Nel 1903, le due potenze non trovarono un accordo sulla spartizione della Manciuria. Nel febbraio del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò quella russa nel Mar Giallo e strinse d’assedio la base di Port Arthur, all’estremità meridionale della Manciuria. L’assedio durò quasi un anno. All’inizio del 1905, caduta Port Arthur, le forze giapponesi penetrarono in Manciuria e, in marzo, sconfissero l’esercito russo nella battaglia di Mukden. Anche la flotta russa, giunta in maggio dal Mar Baltico, fu distrutta in una grande battaglia navale nello Stretto di Tsushima, tra il Giappone e la Corea. Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerta dagli Stati Uniti e firmare, in settembre, il trattato di Portsmouth, in base al quale il Giappone otteneva la Manciuria meridionale e una parte dell’isola di Sakhalin, situata di fronte alle coste della Siberia, e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea (che già deteneva di fatto dal 1895).

La guerra col Giappone

nazionalisti dei paesi asiatici sottoposti ancora al dominio coloniale dell’Occidente. Molti leader politici dei nascenti movimenti di liberazione nazionale si recarono a Tokyo, maturando la convinzione

che l’Impero del Sol Levante potesse guidare il riscatto delle popolazioni dell’Asia contro l’imperialismo coloniale degli occidentali. A questi ultimi non sfuggì la diffusione di tali nuovi fermenti: anche in

Occidente si sviluppò una grande letteratura popolare dedicata al Giappone, favorendo la conoscenza delle abitudini e dei costumi di quel paese, pur senza rinunciare ad una caratterizzazione particolarmente esotica, ricca di approssimazioni e stereotipi, che alimentarono la preoccupazione per il cosiddetto “pericolo giallo”. Paura non del tutto ingiustificata, poiché la vittoria contro la Russia provocò in Giappone un ulteriore radicamento del nazionalismo in ampi strati della popolazione, ravvivando il mito della discendenza divina dell’imperatore e della unicità del popolo giapponese.

La battaglia navale di Tsushima in una stampa giapponese

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

Per l’Impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone significò un ridimensionamento della propria posizione internazionale. Ma per l’Europa intera, la sconfitta della Russia rappresentò un trauma di proporzioni difficilmente immaginabili. Per la prima volta METODO DI STUDIO nell’età moderna un paese asiatico batteva in un’autentica  a   Cerchia le date presenti nel paragrafo ed evidenzia gli eventi corrisponguerra una grande potenza europea, distruggendo in un denti. Realizza quindi una linea del tempo con le date individuate. In corrisponsol colpo il mito della supremazia militare e tecnologica del denza di ogni evento indica i soggetti (singoli e collettivi) coinvolti. Vecchio Continente e quello di una presunta superiorità  b   Realizza e completa un grafico a stella al cui centro ci sia la scritta «La Russia prima della domenica di sangue» e i cui raggi corrispondano ai temi: a. della “razza bianca”. L’Estremo Oriente cessava di essere società; b. economia; c. sistema politico; d. spinte rivoluzionarie. campo d’azione incontrastato per le potenze europee e si  c   Sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze della “domenica di avviava a diventare terreno di competizione fra i due nuovi sangue” ed evidenzia il significato del termine soviet.  d   Evidenzia con colori diversi l’esito della guerra russo-giapponese e gli effetti imperialismi in ascesa: quello giapponese e quello che ne derivarono sull’immagine che gli europei avevano di sé stessi. statunitense.

La fine del mito della superiorità europea



2_7 LA CINA DALL’IMPERO ALLA REPUBBLICA

Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, presero vigore le lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici. Movimenti indipendentisti si svilupparono nell’Indocina francese, nell’Indonesia olandese, nelle Filippine, da poco passate sotto il controllo degli Stati Uniti, e nell’India britannica. Ma fu soprattutto la Cina a subire in maniera determinante l’influsso del vicino Giappone, visto a un tempo come minaccia all’indipendenza nazionale e come modello da imitare sul piano dello sviluppo economico e dell’emancipazione politica. Da decenni ormai l’Impero cinese era oggetto della pressione commerciale e militare delle potenze europee, che miravano a spartirne il territorio in zone di influenza. La sconfitta nella guerra del 1894 col Giappone non fece che accelerare la crisi e provocò, per reazione, la nascita di un movimento conservatore e xenofobo che si proponeva di restaurare integralmente le antiche tradizioni imperiali. Questo movimento trovò il suo braccio armato in una società segreta e paramilitare, i cui aderenti furono chiamati in Occidente boxer, ossia pugili (dal nome di una antica società ginnica denominata “Pugni della giustizia e dell’armonia”). Nel 1900, in seguito a una serie di violenze compiute dai boxer contro i simboli e gli stessi rappresentanti della presenza straniera, le grandi potenze, compresi Stati Uniti e Giappone, si accordarono per un intervento militare congiunto (cui prese parte anche l’Italia). In due settimane la rivolta fu sedata e Pechino venne occupata dalle truppe alleate. Le potenze vincitrici, compresa l’Italia, ottennero concessioni territoriali e autonomie amministrative a Tientsin (oggi Tianjin), la città portuale di Pechino, in quartieri separati riservati agli europei e presidiati da una costante presenza militare.

La rivolta dei boxer

La rivolta però non rimase senza effetto. Da un lato essa mostrò la persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una spartizione politica dell’Impero. Dall’altro, la sconfitta del nazionalismo tradizionalista e il crescente discredito della dinastia Qing Manciù prepararono il terreno allo sviluppo di un movimento democratico e occidentalizzante, che avrebbe cercato di collegare, come era avvenuto in Giappone, la lotta contro gli stranieri a quella per la modernizzazione del paese. Tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo, importanti riforme, come la libertà di espressione e di stampa, oltre a un limitato diritto di voto, furono introdotte dalla imperatrice vedova Cixi (o Tzu-hsi), che governò il paese fino al 1908.

L’avvio delle riforme

In coincidenza con questo rinnovamento politico e civile, nel 1905 nacque il Tung meng hui (lega di alleanza giurata), una organizzazione segreta fondata da un medico di Canton, Sun Yat-sen, che aveva soggiornato a lungo in Europa e in Giappone. Il programma era basato sui tre princìpi del popolo, modellati sulla tradizione democratica occidentale: l’indipendenza nazionale, la democrazia rappresentativa, il benessere del popolo. La

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Sun Yat-sen

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lega di Sun Yat-sen fece proseliti soprattutto fra gli intellettuali, gli ufficiali dell’esercito e i nuclei di proletariato industriale. Al movimento andarono anche le simpatie di una parte della ancora esigua borghesia imprenditoriale, quella meno legata agli interessi commerciali delle potenze straniere. Nell’ottobre del 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria cinese provocò una serie di sommosse nelle province centro-meridionali e l’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito. Nel gennaio del 1912 un’assemblea rivoluzionaria dichiarò decaduta la dinastia Qing ed elesse Sun Yat-sen alla presidenza della Repubblica. In aprile il generale Yuan Shi-kai, inviato dal governo di Pechino a domare la rivolta, si schierò dalla parte dei repubblicani e ottenne in cambio di essere nominato presidente in luogo di Sun Yat-sen. Il più antico impero del mondo – aveva alle spalle

La rivoluzione del 1911 e la fine dell’impero Qing

Cartolina postale che celebra Yuan Shi-kai nelle vesti di neopresidente della Repubblica cinese 1912 Nella bandiera i cinque colori simboleggiano le cinque principali etnie cinesi.

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Goa (port.)

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TURKESTAN Accanto ai possedimenti Teheran definiti Baghdad nettamente TAN – come quelli NIS inglesi in India AFGHA Kabul e Birmania o PERSIA AN ST quelli francesi in CI U Indocina – molto L BE D estese erano le cosiddette “sfere Tokyo di interesse”. Karachi Tali zone erano particolarmente ampie in Bombay Cina, dove si confrontavano le Goa maggiori potenze (port.) europee e il Mahé Giappone. OCEANO

I N D O N E S I A

L’ASIA NEL 1914 possedimenti britannici francesi tedeschi olandesi portoghesi giapponesi statunitensi

L’ASIA NEL 1914 possedimenti britannici francesi tedeschi olandesi portoghesi giapponesi statunitensi

sfere di interesse britanniche francesi tedesche russe giapponesi

L’ASIA NEL 1914 sfere di interesse britanniche francesi tedesche

C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

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possedimenti britannici francesi tedeschi

sfere di interes O britannic francesi tedesche russe giappone

circa 3 mila anni di storia – crollava così ingloriosamente. Ma la nuova Repubblica era destinata a una vita quanto mai travagliata. Il fragile compromesso raggiunto tra le forze democratiche organizzate nel nuovo Partito nazionale – il Kuomintang – e i gruppi conservatori che facevano capo a Yuan Shi-kai, ostili a ogni riforma che minacciasse i tradizionali equilibri sociali nelle campagne, si ruppe nel giro di pochi mesi. Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento appena eletto, mise fuori legge il Kuomintang, costrinse Sun Yat-sen all’esilio e instaurò una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere, i cui privilegi rimasero naturalmente intatti. Cominciava per la Cina una lunga stagione di guerre civili che si sarebbe conclusa solo nel 1949 con la vittoria della rivoluzione comunista.

La dittatura di Yuan Shi-kai

NUOVI EQUILIBRI IN ASIA

GUERRA tra RUSSIA e GIAPPONE (1905)

Vittoria del Giappone

Cade il mito dell’invincibilità europea

Risveglio dei movimenti nazionali in Asia

Rivolta dei boxer in CINA

METODO DI STUDIO

 a   Cerchia le date presenti nel paragrafo ed evidenzia gli eventi corrispondenti. Realizza quindi una linea del tempo con le date individuate. In corrispondenza di ogni evento indica i soggetti (singoli e collettivi) coinvolti.  b   Realizza un glossario delle seguenti voci relative al periodo di passaggio dall’Impero alla Repubblica in Cina che contenga delle definizioni articolate con riferimenti al contesto storico e agli obiettivi dei soggetti singoli e collettivi descritti: a. i boxer; b. Tung meng hui; c. Sun Yat-sen; d. la Repubblica cinese; e. il Kuomintang.



Movimento riformatore di Sun Yat-sen

Rivoluzione del 1911: caduta Impero Qing e proclamazione della Repubblica cinese

2_8 L’IMPERIALISMO STATUNITENSE

Mentre l’Asia orientale assisteva alla crescita inarrestabile della potenza nipponica, favorita anche dal crollo dell’Impero cinese, sull’altra sponda del Pacifico si andava progressivamente rafforzando il ruolo egemonico degli Stati Uniti: un ruolo fondato essenzialmente su uno sviluppo economico che non aveva paragone, per ritmo e intensità, in nessun altro paese del mondo. La crescita più imponente si verificò nell’industria, dove dominavano le grandi concentrazioni industriali e finanziarie (corporations), come il gigantesco trust dell’acciaio, la United Steel Corporation, costituitosi nel 1901. Alla fine del XIX secolo, gli Usa avevano raggiunto il primato mondiale nella produzione industriale, superando Gran Bretagna e Germania. Progressi decisivi furono compiuti anche nel settore dell’agricoltura e in quello dell’allevamento. Soprattutto nelle grandi praterie del Midwest, proseguì quella rivoluzione agricola che sempre più faceva degli Stati Uniti il granaio del mondo.

Lo sviluppo economico

Dopo l’espansione nel Pacifico con la conquista delle Filippine e l’annessione delle Hawaii, fino alla prima guerra mondiale l’imperialismo statunitense si rivolse soprattutto verso l’America centrale. Qui la presenza degli Stati Uniti si fece sentire in forme quanto mai pesanti, soprattutto negli anni della presidenza di Theodore Roosevelt. Esponente dell’ala progressista del Partito repubblicano, salito al potere nel 1901, Roosevelt mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo, alternando con disinvoltura la pressione economica alle minacce di interventi armati, la “diplomazia del dollaro” alla politica del “grosso bastone” (big stick), secondo un’eloquente espressione da lui stesso coniata.

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La presidenza Roosevelt

U1 L’ALBA DEL ’900

► Leggi anche: ► Arte e territorio Fotografare la “natura selvaggia”: i parchi naturali americani, p. 56

Un esempio significativo di questa politica fu la vicenda del Canale di Panama. Nel 1901 gli Stati Uniti avevano ottenuto dal governo della Colombia l’autorizzazione a costruire e a gestire per un periodo di cento anni un canale che tagliasse l’istmo di Panama (allora facente parte della Repubblica colombiana), aprendo un passaggio fra il Pacifico e il Mar dei Caraibi. Quando, nel 1903, il senato colombiano rifiutò di ratificare l’accordo, gli Stati Uniti organizzarono una sommossa a Panama e minacciarono un intervento armato. Panama, come già Cuba, divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana. Il canale fu realizzato nel giro di dieci anni e la sua apertura, nel 1914, consentì di mettere in comunicazione i due settori – l’Oceano Pacifico e i mari del Centro America – su cui si esercitava allora la spinta espansionistica degli Stati Uniti.

Il Canale di Panama

William Allen Rogers, Vignetta satirica sulla politica rooseveltiana del big stick nel Mar dei Caraibi 1904

La nave a vapore S.S. Ancon transita ufficialmente per la prima volta in una sezione del Canale di Panama durante la cerimonia di inaugurazione 15 agosto 1914 [Library of Congress, Washington] Il Canale di Panama, aperto in dieci anni e lungo 81 km e largo in media dai 200 ai 300 metri, mise in comunicazione l’Oceano Pacifico con i mari del Centro America.

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

Imperialista e aggressiva all’estero, la linea di Roosevelt si caratterizzò in politica interna per un’apertura ai problemi sociali sconosciuta alle precedenti amministrazioni, sia repubblicane sia democratiche. Si dovettero a Roosevelt i primi, limitati provvedimenti del governo federale nel campo della legislazione sociale (limitazioni di orario, tutela del lavoro minorile, assicurazioni contro gli infortuni) e le prime energiche affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel mondo dell’economia. Pur senza mai mettere in discussione i princìpi-cardine del capitalismo americano e senza modificare la politica protezionistica ereditata dai suoi predecessori, Roosevelt cercò di limitare il potere dei grandi trust, interpretando così le esigenze della piccola e media borghesia urbana, dei piccoli produttori indipendenti e degli stessi sindacati operai.

Le riforme sociali ed economiche di Roosevelt

Ma, una volta che Roosevelt ebbe lasciato la presidenza, nel 1908, il Partito repubblicano si spaccò in un’ala progressista e una conservatrice. Nelle elezioni del 1912, la divisione tra le file repubblicane favorì il successo del candidato democratico, Woodrow Wilson. Professore di Scienze politiche, molto lontano da Roosevelt per formazione e per temperamento, Wilson ne riprese l’impegno sociale inserendolo però in un quadro ideologico e METODO DI STUDIO politico completamente diverso. Mentre Roosevelt aveva lasciato inalterato il regi a   Sottolinea i settori produttivi alla base dell’eme doganale protezionistico, Wilson impostò la lotta contro i grandi monopoli conomia statunitense ed evidenzia una frase in sull’abbassamento delle tariffe protettive, che furono considerevolmente ridotte grado di sintetizzarne le condizioni generali nel periodo storico trattato. nel 1913. Anche nella politica estera Wilson portò uno stile nuovo, più prudente e  b   Individua alcune parole chiave che riassumarispettoso delle norme della convivenza internazionale, anche se non meno attenno il carattere della politica di Roosevelt in campo to alla tutela degli interessi statunitensi nel mondo. Era infatti convinto che il ruolo estero, sociale ed economico e argomenta la tua scelta per iscritto. degli Stati Uniti dovesse fondarsi, più che sulla forza delle armi, sulla capacità  c   Spiega chi era Wilson e quali erano le caratespansiva dell’economia e sulla fedeltà ai princìpi basilari della tradizione deteristiche della sua azione politica mettendo in mocratica. Paradossalmente fu proprio in base a questi princìpi che, nel 1917, rilievo le differenze e gli elementi di continuità rispetto a Roosevelt. Wilson avrebbe condotto il suo paese a intervenire per la prima volta in un conflitto fra potenze europee: la prima guerra mondiale.

L’elezione di Wilson



2_9 L’AMERICA LATINA

E LA RIVOLUZIONE MESSICANA

Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale, i paesi dell’America Latina conobbero uno sviluppo economico di notevoli proporzioni, basato principalmente sull’esportazione di materie prime e di prodotti agricoli verso l’Europa industrializzata. Questo sviluppo attirò un consistente flusso migratorio dall’Europa e favorì la crescita di grandi centri urbani come Buenos Aires, Rio de Janeiro e Città del Messico. L’aumento delle esportazioni, però, finì con l’accentuare il carattere di subalternità dell’economia latino-americana, sempre più dipendente dagli investimenti e dai mercati esteri. Fu infatti favorita la tendenza delle agricolture dei singoli paesi a concentrarsi sulle monocolture, scelte in base alla richiesta del mercato internazionale: il caffè in Brasile, il grano in Argentina, la canna da zucchero a Cuba. E, dal momento che l’industria manifatturiera era assente quasi ovunque, mentre il settore estrattivo era in gran parte controllato da compagnie straniere, l’oligarchia terriera riuscì a mantenere una posizione dominante nella vita sociale e politica.

La dipendenza economica dall’Occidente

Dal punto di vista istituzionale, gli Stati latino-americani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani ispirati ai modelli del liberalismo ottocentesco: l’ultima monarchia, quella brasiliana, fu rovesciata da un colpo di Stato nel 1889. La facciata istituzionale liberal-parlamentare, però, copriva una realtà di corruzione e di esclusione delle masse dalla vita politica che, in alcuni casi, degenerò in forme più o meno evidenti di dittatura personale.

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I sistemi politici

U1 L’ALBA DEL ’900

monocoltura Sfruttamento del suolo agrario che prevede la coltivazione di un terreno con una sola specie o varietà di piante per più anni. La monocoltura annulla i vantaggi ottenuti con la più diffusa rotazione delle colture ed è, generalmente, tipica di paesi come l’Asia, l’Africa e l’America Latina in cui prevale una situazione di arretratezza economica.

Il comandante della rivolta contadina Pancho Villa Il movimento rivoluzionario messicano ebbe il sostegno di ampi strati della popolazione; gruppi di contadini appoggiarono la lotta contro il governo guidati da Francisco “Pancho” Villa, con la sua temuta Dvisión del Norte (combattenti provenienti dalle regioni del Nord), e da Emiliano Zapata, che combatteva al fianco dei diseredati del Sud. Entrambi entrarono rapidamente nella mitologia del cinema americano: Marlon Brando interpretò Zapata nel film Viva Zapata! (1952) di Elia Kazan, mentre lo stesso Villa ricoprì il ruolo di sé stesso in almeno tre film che raccontano le sue gesta.

Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, importanti rivolgimenti politici ebbero luogo in due fra gli Stati più vasti e popolosi: l’Argentina e il Messico. Nel caso dell’Argentina si trattò di un rivolgimento pacifico, originato dall’introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al potere dell’Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista.

La vittoria dei progressisti in Argentina

In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e sanguinose della storia del ’900. La rivolta scoppiò nel 1910 contro il regime semidittatoriale del presidente Porfirio Díaz, un generale che governava dal 1876 appoggiandosi soprattutto sull’oligarchia terriera. Promotori dell’insurrezione furono i gruppi liberal-progressisti guidati da Francisco Madero, subito affiancati però da un vasto moto contadino, organizzato da improvvisati e popolarissimi capi rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa. Nell’autunno del 1911, Díaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero venne eletto presidente. A questo punto però cominciò a manifestarsi in modo drammatico il contrasto fra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese e moderata, che mirava soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella contadina, che aveva come obiettivo fondamentale una radicale riforma agraria. Un tema fortemente sentito, e altrettanto fortemente temuto, in un paese in cui la proprietà della terra era concentrata nelle mani di un migliaio di latifondisti, mentre circa tre quarti della popolazione erano costituiti da braccianti senza terra (peones), quasi tutti analfabeti e poverissimi. Nel 1913 il presidente Madero fu ucciso durante un colpo di Stato militare che porMETODO DI STUDIO tò al potere il generale Victoriano Huerta e aprì la strada a un regime di spietata  a   Evidenzia i settori su cui si basava l’econoreazione. La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza e si protrasse, mia dell’America Latina e sottolinea i rapporti che in un susseguirsi di rivolte e colpi di Stato, fino all’inizio degli anni ’20, per conla legavano a quella europea.  b   Individua le fasi salienti della rivoluzione cludersi infine con l’assunzione della presidenza da parte del progressista Álvaro messicana e rendile riconoscibili attraverso dei Obregón (1921) e con il varo di una Costituzione democratica e laica aperta alle titoletti che scriverai al lato del testo. istanze di riforma sociale, la cui attuazione si sarebbe però rivelata lenta e difficile.

La rivoluzione messicana

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

ARTE E TERRITORIO FOTOGRAFARE LA “NATURA SELVAGGIA”: I PARCHI NATURALI AMERICANI

T

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ra i miti generati dalla conquista del West negli Stati Uniti c’è anche quello della wilderness, della “natura selvaggia”, ovvero l’idea che l’espansione verso ovest fornisse la possibilità di un nuovo incontro con un ambiente rimasto immutato dai giorni della creazione. Fu così che quando viaggiatori e turisti delle città della costa orientale e occidentale degli Stati Uniti incominciarono a visitare la Yosemite Valley, una splendida vallata della Sierra Nevada, incastonata tra altissime pareti rocciose, con prati verde smeraldo, dove si estendevano gigantesche e antichissime sequoie, molti ebbero la sensazione che quell’angolo di paradiso terrestre finalmente ritrovato andasse salvaguardato dai danni che l’azione trasformatrice dell’uomo e il progresso procuravano all’ambiente. Per questo nel 1864 la Yosemite Valley era diventata il primo parco naturale al mondo. Poco importava che quel paesaggio fosse il frutto dell’intervento dell’uomo, nella fattispecie degli indiani del luogo, i quali, per procurarsi i pascoli di cui abbisognavano, avevano bruciato per secoli le foreste della pianura, favorendo la formazione di quei caratteristici prati color verde smeraldo tanto apprezzati dai visitatori provenienti dalle città. Il mito della Natura incontaminata finì per prevalere, e da quel momento in poi, progressivamente, nel mondo occidentale si diffuse l’idea di salvaguardare per legge tutti gli spazi naturali rilevanti non ancora intaccati dall’azione umana. Questo avrebbe consentito all’uomo urbanizzato e figlio della società industriale di immergersi, rigenerandosi, nell’ambiente naturale [►STORIA E AMBIENTE, p. 126]. Maestosi e selvaggi, i paesaggi dei parchi nazionali segnarono l’immaginazione di alcune delle personalità più influenti dell’America dei secoli scorsi. L’incontro con questa natura così ricca e allo stesso tempo così impervia divenne una tappa pressoché obbligata per la formazione di poeti, scrittori, pittori e artisti in genere. Ispirava il loro processo creativo, li metteva in sintonia con quella generazione di pionieri che aveva cercato e cercava di dominare il paesaggio per metterlo al servizio della collettività, ma soprattutto permetteva loro di collegare

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strettamente il senso di appartenenza alla patria con una vera e propria venerazione per il paesaggio. Fu anche grazie alle loro opere che la natura americana divenne uno degli ingredienti fondamentali dell’immaginario popolare degli Stati Uniti. Le avventure del Far West non erano solo un mito letterario e presto cinematografico: infatti anche nel dibattito politico la nazione americana veniva definita come la comunità in grado di estendere sempre di più la propria frontiera. Non c’è da stupirsi che a venire coinvolta in questo sforzo collettivo per raccontare e vivere la natura fosse anche la nuova generazione di fotografi, nata tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900. Tra questi, uno dei più importanti fu senz’altro Ansel Adams (1902-1984), che scoprì la passione per la fotografia e quella per la natura incontaminata dei grandi parchi nazionali americani nello stesso momento. A quattordici anni, nella primavera del 1916,

per passare il tempo durante un’influenza, si immerse nelle descrizioni della Yosemite Valley contenute in un libro che gli aveva regalato una zia. Ne rimase talmente colpito da costringere tutta la famiglia a intraprendere un lungo viaggio fin lì, per passarci le vacanze estive. Arrivati a destinazione, i suoi genitori gli regalarono una Kodak n° 1 Box Brownie, la prima macchina fotografica di massa, facile da usare e venduta a prezzi relativamente accessibili. Adams passò le settimane successive a esplorare la valle e a impratichirsi con il suo nuovo strumento: quell’incontro precoce con la natura e la fotografia segnò la sua vita e quella dell’arte del XX secolo. Proprio durante quella vacanza, infatti, Adams conobbe la sua futura moglie, Virgina Best, che avrebbe ereditato dal padre proprio uno studio fotografico. Sostenuto dall’attività della moglie e incoraggiato da molti incontri intellettuali, il gioAnsel Adams, Half Dome, Apple Orchard, Yosemite California, aprile 1933 [dalla serie di A. Adams, Photographs of National Parks and Monuments, 1941-42; U.S. National Archives and Records Administration]

Ansel Adams, Rac Lake, Kings River Canyon California, 1936 [dalla serie di A. Adams, Photographs of National Parks and Monuments, 1941-42; U.S. National Archives and Records Administration]

vane Ansel arrivò a pubblicare le sue prime fotografie. Ben presto si fece una fama nel settore, anche per il suo stile piuttosto pulito, senza artifici, opposto a quello più in voga tra i fotografi del tempo, il “pittorialismo”. I seguaci di questa corrente si proponevano di elevare la fotografia allo stesso livello artistico della pittura su tela, utilizzando tecniche complesse come la sovrapposizione di più negativi, oppure componendo l’immagine finale con fotoritocchi o con un collage di altre foto. Tramite questi espedienti, si potevano realizzare effetti molto suggestivi, che strappavano il soggetto alla realtà per rimandare ad atmosfere soffuse e romantiche o addirittura fantastiche e surreali. A differenza dei pittorialisti, Ansel Adams

sviluppò un gusto per una fotografia diretta: immagini molto nitide dovevano rendere lo spettacolo della natura con la stessa chiarezza con cui un esploratore restava impressionato da uno scorcio improvviso. Il paesaggio del Parco Nazionale di Yosemite o di altre zone della California doveva colpire lo sguardo con tutta la sua maestosità, senza finzioni, filtri o manipolazioni artistiche. L’abilità del fotografo stava tutta nella pazienza con cui si aspettavano le luci giuste, nella scelta dell’inquadratura o del punto di osservazione, nell’attenzione con cui si metteva a fuoco l’immagine in modo estremamente preciso. Attorno a questo stile si raccolsero altre personalità del panorama fotografico dell’e-

poca, come Edward Weston o Imogen Cunningham, che fondarono con Adams il Gruppo f/64, chiamato così per il tipo di apertura focale prediletto da questi artisti. Grazie a loro la scuola del realismo naturalista ebbe una forte influenza nella storia della fotografia. PISTE DI LAVORO

a Redigi un profilo biografico del fotografo Ansel Adams, utilizzando le informazioni contenute nel testo e cercando di non superare le 50/60 parole. b Spiega la fascinazione/venerazione degli artisti americani per il paesaggio. c Dopo aver fornito una definizione di “pittorialismo”, spiega perché la fotografia di Adams non è riconducibile a questa corrente.

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

SINTESI

2_1 LE CONTRADDIZIONI DELLA BELLE ÉPOQUE Negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, l’Europa visse una fase di forti contraddizioni: furono anni di sviluppo economico e crescita del commercio mondiale, ma anche di tensioni internazionali e conflittualità sociale. Questa compresenza di aspetti contraddittori è all’origine di due rappresentazioni contrapposte della realtà europea di questi anni: da un lato quella di un’età di progresso e di spensieratezza, di pace e di benessere, la belle époque; dall’altro quella di una stagione dominata dall’imperialismo e dalla più spietata logica di potenza, inevitabili premesse della Grande Guerra.

2_2 NUOVE ALLEANZE IN EUROPA E NUOVI EQUILIBRI MONDIALI

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In seguito alla crisi del sistema bismarckiano le alleanze in Europa cambiarono. Con l’alleanza tra Francia e Russia, l’Intesa cordiale franco-inglese e l’accordo anglo-russo sulle questioni asiatiche, si venne a costituire in Europa uno schieramento – poi detto Triplice intesa – che comprendeva Francia, Russia e Gran Bretagna e si contrapponeva alla Triplice alleanza, che univa invece Germania, Impero austroungarico e Italia. Il primo quindicennio del ’900 vide inoltre manifestarsi i primi

U1 L’ALBA DEL ’900

segni di declino dell’Europa di fronte all’emergere di popoli extraeuropei. Preoccupava in particolare la crescita dei paesi asiatici (Cina e Giappone), che fece parlare di un “pericolo giallo”.

2_3 I FOCOLAI DI CRISI Il decennio precedente la prima guerra mondiale (191418) registrò un’accentuazione dei contrasti internazionali. Dalle due crisi marocchine (1905 e 1911) la Germania uscì sconfitta, mentre la Francia ottenne un protettorato sul Marocco. L’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) da parte dell’Austria, e poi la guerra italo-turca (1911-12) e le due guerre balcaniche (1912-13) segnarono un profondo rivolgimento degli equilibri nell’Europa sud-orientale. L’Impero ottomano – dove nel 1908 era scoppiata la rivoluzione dei “Giovani turchi” – veniva così definitivamente estromesso dall’Europa, mentre si faceva sempre più acuto il contrasto tra Austria e Serbia, quest’ultima protetta dalla Russia che aspirava all’egemonia nei Balcani.

2_4 LE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI: FRANCIA E GRAN BRETAGNA In Francia restavano forti le correnti contrarie alle istituzioni repubblicane. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, queste

correnti si coagularono intorno al caso del capitano Dreyfus – un ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionaggio – che divenne simbolo della spaccatura dell’opinione pubblica. Le forze progressiste, la cui mobilitazione contribuì alla liberazione di Dreyfus, ebbero una vittoria anche sul piano elettorale, che diede inizio a un periodo di governi a direzione radicale. In Gran Bretagna, invece, a cavallo fra i due secoli, la vita politica fu dominata dai conservatori, che cercarono di unire all’espansione imperialistica una politica di riforme sociali. Il successo dei liberali (1906) segnò un mutamento in senso progressista, che trovò il suo momento più importante nella battaglia per una più equa distribuzione del carico fiscale e per la riduzione dei poteri della Camera dei Lord.

2_5 GLI IMPERI CENTRALI: GERMANIA E AUSTRIAUNGHERIA In Germania, dopo l’uscita di Bismarck dalla scena politica, il “nuovo corso” di Guglielmo II non segnò un effettivo mutamento di indirizzi: anzi, la più aggressiva politica estera della Germania guglielmina – perseguita grazie a un accelerato riarmo navale – rafforzava la tradizionale alleanza tra grande industria, aristocrazia terriera e vertici militari, e finiva con l’ottenere l’appoggio di tutte le forze politiche. Da questa forte base di consenso venivano però esclusi i socialdemocratici, che nonostante ciò riuscirono ad allargare il proprio elettorato. Nell’Impero

asburgico, invece, lo sviluppo economico rimaneva limitato ad alcune aree, mentre il sistema politico e la struttura sociale delle campagne erano caratterizzati da un sostanziale immobilismo. Il problema più grave era rappresentato però dalle agitazioni autonomistiche e indipendentiste delle varie nazionalità, anzitutto degli slavi. Queste tensioni interne all’Impero sarebbero state all’origine della prima guerra mondiale.

2_6 LA RUSSIA: LA RIVOLUZIONE DEL 1905 E LA GUERRA COL GIAPPONE Grazie all’intervento diretto dello Stato e all’afflusso di capitali stranieri si ebbe, nella Russia degli anni ’90, un primo decollo industriale. La società russa rimaneva però fortemente arretrata. Queste contraddizioni si rivelarono nella rivoluzione del 1905, che vide nascere nuovi organismi rivoluzionari, i soviet. Ristabilito l’ordine e vanificato l’esperimento parlamentare della Duma, nel 1906 fu varata dal primo ministro Stolypin una riforma agraria che mirava a creare una piccola borghesia rurale, ma non riuscì a risolvere gli enormi problemi delle campagne. Nel 1905, mentre era in corso la rivoluzione, il Giappone aveva attaccato e sconfitto la Russia, provocandone il ridimensionamento nel contesto internazionale. Per la prima volta nell’età moderna un paese asiatico era riuscito a battere in un’autentica guerra una grande potenza europea.

2_7 LA CINA DALL’IMPERO ALLA REPUBBLICA Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, presero vigore le lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici. In Cina nacque un movimento conservatore e xenofobo i cui aderenti furono chiamati in Occidente boxer, ossia pugili. Nel 1900, le grandi potenze, compresi Stati Uniti e Giappone, si accordarono per un intervento militare congiunto che represse ogni tentativo di ribellione. All’inizio del ’900, tuttavia, si diffuse un movimento nazionalista e democratico, guidato da Sun Yat-sen, che mirava all’indipendenza nazionale e alla istituzione nel paese di una democrazia rappresentativa. La decisione di affidare a imprese

straniere il controllo della rete ferroviaria scatenò una rivoluzione che rovesciò la dinastia Qing. La presidenza della neonata Repubblica fu assunta da Sun Yat-sen, ma le forze conservatrici presero presto il sopravvento, inaugurando così una lunga stagione di guerre civili.

piano interno, Roosevelt mostrò particolare sensibilità e apertura verso i problemi sociali. Le divisioni nel Partito repubblicano, però, favorirono nel 1912 l’elezione del democratico Wilson, che riprese l’impegno sociale di Roosevelt, pur inserendolo in un quadro politico e ideologico assai diverso. Fu tuttavia questo presidente, poco propenso a una politica estera fondata sulla forza delle armi, a guidare gli Stati Uniti nel 1917 nella prima guerra mondiale.

2_8 L’IMPERIALISMO STATUNITENSE Durante la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-8), la politica estera americana fu aggressiva e di stampo imperialista. Il risultato più importante fu la realizzazione e il controllo, in Centro America, del Canale di Panama, che collegava l’Atlantico al Pacifico. Sul

i paesi latino-americani registrarono un notevole sviluppo economico. Tuttavia non si attenuò la loro dipendenza dagli Stati industrializzati dell’Occidente, che importavano materie prime ed esportavano prodotti finiti, ostacolando lo sviluppo di un vero e proprio settore industriale. Le campagne erano dominate dal latifondo, mentre una ristretta oligarchia terriera controllava la vita sociale e politica. I maggiori mutamenti sul piano politico furono la vittoria dei radicali in Argentina e la rivoluzione messicana. Quest’ultima, cominciata nel 1910 e condizionata dal conflitto fra le sue varie componenti, si trasformò in una guerra civile che si concluse solo nel 1921 con la vittoria dei democratici.

2_9 L’AMERICA LATINA E LA RIVOLUZIONE MESSICANA Nei trent’anni precedenti la prima guerra mondiale

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Realizza lo schema sulla rivoluzione dei “Giovani turchi” seguendo le indicazioni delle 5W + 1H: who, what, where, when, why, how (chi, cosa, dove, quando, perché, come).

I rivoluzionari erano .............................................................. CHI

...........................................................................................

Era una .................................................................................

COSA

RIVOLUZIONE DEI “GIOVANI TURCHI”

...........................................................................................

............................................................................................

DOVE

...........................................................................................

QUANDO

........................................................................................... ...........................................................................................

Lo scopo era .........................................................................

PERCHÉ

...........................................................................................

COME terminò

............................................................................................ ...........................................................................................

2 Completa la tabella comparativa tra i governi di Francia e Gran Bretagna agli inizi del ’900 mettendo in risalto le

riforme attuate.

Francia

Gran Bretagna

Riforme attuate

Coalizione repubblicana

1. ............................................................ Conservatori 2. Furono rinnovati i vertici dell’esercito 3. ............................................................

1. ............................................................ 2. ............................................................ 3. Protezionismo doganale

Governi radicali

1. ............................................................ Liberali 2. Fu introdotto il riposo settimanale 3. ............................................................

1. ............................................................ 2. Riforme sociali (progressività delle tasse) 3. ............................................................

60

Tipo di governo

U1 L’ALBA DEL ’900

Tipo di governo

Riforme attuate

3 Sottolinea nel testo che segue i tre errori presenti e riscrivi l’elaborato sul quaderno nella versione corretta. Chiarirai

in questo modo lo scenario della Germania guglielmina.

Con l’ascesa al trono imperiale di Guglielmo II si rafforzarono in Germania le speranze di un’evoluzione liberale. La politica estera si fece meno aggressiva e contemporaneamente si procedette ad un riarmo navale volto a raggiungere soprattutto la potenza britannica. Lo sviluppo tecnologico e industriale rimaneva limitato perché la Germania era carente di materie prime. Tutto ciò spinse la Germania ad intraprendere un’espansione coloniale che si scontrava però con la spartizione dei continenti extraeuropei tra le altre potenze imperialiste. 4 Completa la seguente tabella relativa alla politica statunitense dei primi anni del ‘900.

Roosevelt

Wilson

Data di elezione

.................................................................................................. ..................................................................................................

Partito di appartenenza

.................................................................................................. ..................................................................................................

Politica interna

• Provvedimenti di legislazione sociale

Politica estera

• Politica aggressiva • Espansione economica e maggiore rispetto delle norme di convivenza • ................................................................................................ internazionale

• Provvedimenti di legislazione sociale • ................................................................................................ • ................................................................................................

5 Di seguito trovi riassunta per punti la rivoluzione messicana. Completa la sequenza individuando e aggiungendo i

quattro passaggi mancanti. Usala quindi come schema per riassumere oralmente gli eventi.

a. Prima del 1910 in Messico c’era un regime semidittatoriale con a capo Porfirio Díaz b. Nel 1910 ......................................................................................................................................................................................... c. Sempre nello stesso anno Zapata e Villa guidano un moto contadino che si affianca a quello rivoluzionario d. Nel 1911 ......................................................................................................................................................................................... e. Nel 1913 ......................................................................................................................................................................................... f. Fino al 1921 si alternarono numerosi colpi di Stato g. Nel 1921 ......................................................................................................................................................................................... COMPETENZE IN AZIONE 6 Nella tabella seguente trovi fatti, protagonisti e date della storia di Cina, Stati Uniti e Messico a cavallo tra ’800 e

’900. Abbina correttamente gli elementi e poi riorganizzali in tre testi di 10 righe ciascuno, uno per ogni paese: Fatti

Protagonisti

Date

A. Fonda un’organizzazione segreta

1. Theodore Roosevelt

a. gennaio 1912

B. Dichiara decaduta la dinastia Qing ed elegge Sun Yat-sen alla presidenza della Repubblica

2. Yuan Shi-kai

b. 1913

C. Si schiera dalla parte dei repubblicani e viene nominato presidente al posto di Sun Yat-sen

3. Francisco Madero

c. aprile 1912

D. Apre il Canale di Panama dopo averlo fatto realizzare

4. assemblea rivoluzionaria

d. 1911

E. Lotta contro i grandi monopoli per la riduzione delle tariffe protettive

5. Sun Yat-sen

e. 1921

F. Scioglie il Parlamento e instaura una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere

6. Álvaro Obregón

f. 1914

G. Viene eletto presidente quando Díaz è costretto ad abbandonare il paese

7. Woodrow Wilson

g. 1913

H. Viene eletto presidente dopo una lunga e violenta guerra civile e vara una Costituzione democratica e laica

8. Yuan Shi-kai

h. 1905

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C2 L’Europa e il mondo agli inizi del ’900

7 Scrivi un testo comparativo di massimo 30 righe sulle rivoluzioni cinese (1911-13) e messicana (1910-21) facendo

riferimento ai seguenti argomenti:

● Governo a cui si opposero ● Alleanze sociali e politiche ● Ideologie e princìpi di riferimento ● Realtà del fronte rivoluzionario e leader ● Sistema politico instaurato e riforme attuate ● Esiti 8 Scrivi sul quaderno un testo informativo (max 30 righe) dal titolo La rivoluzione russa del 1905 e la nascita dei

“soviet”. Puoi utilizzare la scaletta che ti viene fornita.

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● ● ● ● ● ● ● ●

La situazione istituzionale russa all’inizio del ’900 Lo sviluppo industriale La Russia: un paese costituito prevalentemente da contadini Il Partito socialdemocratico e il Partito socialista rivoluzionario La protesta del 1905 a Pietroburgo La nascita dei soviet Lo zar concede la Duma La riforma di Stolypin

U1 L’ALBA DEL ’900

E

A

XTR

CAP3 L’ITALIA GIOLITTIANA



E

O

N LI N

Il Libro G. Volpe, L’Italia in cammino • B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 Focus Aziende pubbliche e servizi pubblici • L’emigrazione • Il ballo «Excelsior» Atlante Società ed economia nell’Italia giolittiana Audiosintesi

3_1 LA CRISI DI FINE SECOLO

Negli ultimi anni dell’800, l’Italia fu teatro di una crisi politico-istituzionale paragonabile a quella vissuta dalla Francia, più o meno nello stesso periodo, intorno al caso Dreyfus o a quella attraversata dall’Inghilterra una decina di anni dopo con lo scontro fra Lord e Camera dei Comuni [►2_4]. Se diverso era nei vari casi il contesto politico-sociale e diverse furono le modalità del conflitto, uguale nella sostanza era la posta in gioco: l’evoluzione del regime liberale verso forme di più avanzata democrazia. Anche in Italia lo scontro si concluse con un’affermazione delle forze progressiste: un’affermazione non completa né definitiva, ma sufficiente a far evolvere la vita del paese, che conosceva allora una fase di intenso sviluppo industriale, secondo modelli più vicini a quelli delle liberal-democrazie occidentali che non a quelli autoritario-costituzionali degli imperi del Centro Europa.

Liberalismo e democrazia

La caduta di Crispi (marzo 1896), determinata dagli insuccessi coloniali e dall’opposizione convergente dell’estrema sinistra e di una parte della destra, non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario, negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi, si delineò fra le forze conservatrici – già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali – la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le minacce portate all’ordine costituito dai “nemici delle istituzioni”, socialisti, repubblicani o clericali che fossero. Questa tendenza si esprimeva nel tentativo di tornare a una interpretazione restrittiva dello Statuto che, interrompendo la prassi “parlamentare” affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi: era quanto proponeva Sidney Sonnino in un celebre articolo apparso all’inizio del ’97 e intitolato significativamente Torniamo allo Statuto; contemporaneamente si assisteva a una ripresa dei metodi crispini in materia di ordine pubblico, volti a colpire indiscriminatamente ogni forma di protesta sociale.

I conservatori e la proposta di Sonnino

La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane – provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti in seguito alla guerra di Cuba – fece scoppiare in tutto il paese una serie di agitazioni popolari. Si tratstato d’assedio tava di manifestazioni in larga parte spontanee, che richiamavano, nelle motiProvvedimento giuridico di carattere eccezionale deciso vazioni e nella dinamica, forme di protesta tipiche delle società preindustriali. in caso di gravi turbamenti dell’ordine pubblico. Durante lo stato d’assedio si sospendono temporaneamente le La risposta del governo, guidato dal conservatore Antonio di Rudinì, fu cogaranzie costituzionali e si delegano poteri civili all’autorità munque durissima come se si dovesse fronteggiare un complotto rivoluzionamilitare. In Italia lo stato d’assedio non è previsto rio: prima massicci interventi delle forze di polizia, quindi proclamazione deldall’attuale Costituzione repubblicana. lo stato d’assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari,

I moti per il pane

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C3 L’italia giolittiana

Barricate in Corso Garibaldi a Milano [Museo di Milano, Milano]

I tumulti milanesi del 6-9 maggio 1898 passarono alla storia per l’evidente sproporzione fra il carattere della protesta, originata dall’aumento del prezzo del pane, e la brutalità indiscriminata

della repressione. Un mese dopo, il responsabile dell’eccidio, il generale Bava Beccaris, comandante del corpo d’armata di Milano, fu decorato dal re con un’alta onorificenza.

a Milano, a Napoli e nell’intera Toscana. La repressione raggiunse il culmine a Milano nelle giornate fra il 6 e il 9 maggio, quando le truppe del generale Bava Beccaris fecero uso dell’artiglieria contro la folla inerme provocando circa ottanta morti e più di cinquecento feriti. Capi socialisti, radicali e repubblicani e anche esponenti del movimento cattolico intransigente furono arrestati e condannati a pene severissime. Una volta riportato l’ordine, i gruppi moderati e conservatori, che detenevano la maggioranza alla Camera e godevano dell’appoggio del re, cercarono di dare una base legislativa all’azione repressiva dei poteri pubblici. Lo scontro si trasferì così dalle piazze alle aule parlamentari. Dimessosi in giugno Rudinì, il suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux, presentò un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione. I gruppi di sinistra (socialisti, repubblicani, radicali) risposero mettendo in atto la tecnica dell’ostruzionismo, consistente nel prolungare all’infinito le discussioni e paralizzare così l’azione della maggioranza. La maggioranza cercò allora di tagliare i tempi della discussione modificando i regolamenti parlamentari, ma si scontrò ancora con l’ostruzionismo della sinistra. La battaglia si protrasse per quasi un anno con fasi altamente drammatiche: dibattiti accesissimi, interventi-fiume, scontri fisici fra i deputati.

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Progetti autoritari e ostruzionismo

U1 L’ALBA DEL ’900

radicalismo Nel linguaggio politico il termine “radicalismo” indica la tendenza contraria al “moderatismo”: cioè la tendenza favorevole alle innovazioni profonde e decisive, alle misure appunto “radicali”. In senso più stretto, si dicono “radicali” le correnti di sinistra staccatesi dal filone dei movimenti liberali e democratici sulla base di programmi socialmente avanzati e di una netta connotazione anticlericale. Formazioni politiche così denominate nacquero in Francia e in Italia negli anni ’80 dell’800, in opposizione all’evoluzione moderata della sinistra di governo. Col tempo però i partiti radicali vennero attenuando la loro originaria connotazione riformista per assumere il ruolo di forza stabilizzatrice, tendenzialmente “centrista”, con solide radici nella piccola e media borghesia rurale.

Incapace di venire a capo dell’ostruzionismo, e indebolito dalla sempre più aperta opposizione dei gruppi liberali-progressisti che facevano capo a Giuseppe Zanardelli e a Giovanni Giolitti, Pelloux METODO DI STUDIO si dimise dopo il risultato sfavorevole delle elezioni del giu a   Evidenzia per ogni sottoparagrafo una frase che ne spieghi sinteticamente il titolo e che permetta gno 1900, in cui le opposizioni guadagnarono numerosi di comprendere i soggetti e le coordinate storiche seggi. Affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritedegli eventi narrati. nuto al di sopra delle parti, il re Umberto I mostrava di prendere atto del falli b   Spiega per iscritto le cause e le conseguenze dei moti per il pane del 1898. mento di quella politica repressiva che lo aveva visto fra i più attivi sostenitori.  c   Spiega in cosa consiste l’ostruzionismo parUn mese dopo, il 29 luglio 1900, Umberto cadeva vittima di un attentato per malamentare, per quale motivo fu attuato nel contesto no di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per storico descritto e quali ne furono le conseguenze. vendicare le vittime del ’98.

La sconfitta dei conservatori e l’uccisione di Umberto I



3_2 LA SVOLTA LIBERALE

► Leggi anche:

Il governo Saracco rinunciò a ripresentare i provvedimenti repressivi proposti da Il governo Pelloux. Si aprì così una fase di distensione, indubbiamente favorita dal buon Zanardelli-Giolitti andamento dell’economia – e dal conseguente allentamento delle tensioni sociali – e dall’atteggiamento del nuovo re, Vittorio Emanuele III, assai più aperto del padre nei confronti delle forze progressiste. Quando, nel febbraio 1901, il governo Saracco fu costretto a dimettersi per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande sciopero indetto dai lavoratori genovesi, il re chiamò alla guida del governo il leader della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli, che affidò il ministero dell’Interno a Giovanni Giolitti. Proprio Giolitti, nel dibattito parlamentare sullo sciopero di Genova, aveva formulato con molta chiarezza la teoria secondo cui lo Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro attività, ma al contrario aveva tutto l’interesse a consentirne il libero svolgimento, purché non uscissero dai confini della legalità.

►     Focus Aziende pubbliche e servizi pubblici

Nei suoi quasi tre anni di vita, il Ministero Zanardelli-Giolitti condusse in porto alcune importanti riforme. Furono estese le norme che limitavano il lavoro minorile e femminile nell’industria. Venne migliorata la legislazione sulle assicurazioni per la vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro. Fu costituito un Consiglio superiore del lavoro, organo consultivo per la legislazione sociale, cui partecipavano anche esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste. Venne approvata una legge per la municipalizzazione dei servizi pubblici. Ma più importante delle singole riforme fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di lavoro. Tenendo fede al suo programma, Giolitti mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze, purché non degenerassero in manifestazioni violente.

Le riforme di Zanardelli

Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti. Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine, cancellate o ridotte alla clandestinità dalle repressioni del ’98, si svilupparono rapidamente. In quasi tutte le principali città del CentroNord si costituirono, o si ricostituirono, le Camere del lavoro, gli organismi locali di coordinamento e difesa degli interessi dei lavoratori, mentre crescevano anche le organizzazioni nazionali di categoria (le Federazioni di mestiere). Contestualmente cominciarono a organizzarsi anche i lavoratori agricoli. Formate in prevalenza da braccianti – ma anche da mezzadri e piccoli affittuari – e concentrate soprattutto nelle province padane, le “leghe rosse” – dette così per la vicinanza al movimento socialista – si riunirono, nel novembre municipalizzazione 1901, nella Federazione italiana dei lavoratori della terra (Federterra) che La municipalizzazione è il passaggio della gestione dei servizi pubblici da società private ai Comuni. È contava oltre 200 mila iscritti. Obiettivo finale e dichiarato delle leghe era la “soun’operazione sostenuta da chi ritiene l’amministrazione cializzazione della terra”. Obiettivi immediati erano l’aumento dei salari, la ridelle autorità locali più efficace per la tutela dell’interesse duzione degli orari di lavoro, l’istituzione di uffici di collocamento controllati dai pubblico di quella dei privati. lavoratori stessi.

Il movimento sindacale

65

C3 L’italia giolittiana

Schieramento di forza pubblica nei pressi del Foro romano per lo sciopero dei tranvieri 1904 ca.

Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Le astensioni dal lavoro, che METODO DI STUDIO nell’ultimo decennio dell’800 erano state rare e sporadiche,  a   Cerchia i nomi dei sovrani e politici citati e con una media di poche decine all’anno, salirono a 1670 nel 1901 e superarono il schematizza sul quaderno le informazioni princimigliaio anche nel 1902, interessando sia il settore industriale sia quello agricolo. pali che riguardano la loro appartenenza e condotta Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a protrarsi, con poche interrupolitica nel contesto storico descritto.  b   Cerchia i nomi delle organizzazioni sindacazioni, per tutto il primo quindicennio del secolo. Fra il 1900 e il 1915 le retribuli citate, quindi descrivi per iscritto da chi erano zioni reali dei lavoratori dell’industria crebbero del 35% e ancora più consistente, formate, quali erano i loro obiettivi e strumenti di intorno al 50%, fu l’aumento delle paghe giornaliere dei salariati agricoli. Questi rivendicazione politica e quali risultati raggiunsero.  c   Evidenzia nel testo una frase che riassuma progressi non si possono spiegare solo con la nuova politica liberale, ma vanno l’atteggiamento di Giolitti nei confronti delle organizinquadrati nella fase di generale sviluppo economico attraversata dal paese in zazioni sindacali. questo periodo.

Scioperi e aumenti salariali



3_3 DECOLLO DELL’INDUSTRIA

E QUESTIONE MERIDIONALE

A partire dagli ultimi anni dell’800, l’Italia conobbe il suo primo autentico decollo industriale. Se l’economia italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896 [►1_2], ciò fu dovuto anche ai progressi che, pur fra battute d’arresto e contraddizioni, il paese era venuto realizzando, nei primi trenta-quarant’anni di vita unitaria, sul piano delle infrastrutture economiche e delle strutture produttive. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito lo sviluppo del commercio. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molto alti, di una moderna industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca Romana aveva creato una struttura finanziaria abbastanza efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione, avvenuta nel 1894 con l’incoraggiamento dello Stato e con l’apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il

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Le premesse dello sviluppo industriale

U1 L’ALBA DEL ’900

► Leggi anche: ►     Focus L’emigrazione

Credito italiano, che svolsero una funzione decisiva nel facilitare l’afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, soprattutto nei settori più moderni. Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La siderurgia, la più favorita dalle tariffe del 1887, vide la creazione, accanto alle Acciaierie di Terni (fondate, col concorso dello Stato, nel 1884), di numerosi nuovi impianti per la lavorazione del ferro (a Savona, Piombino, Bagnoli). Nel settore tessile, i maggiori progressi si ebbero nell’industria cotoniera, anch’essa altamente meccanizzata e favorita dal protezionismo. Nel settore agroalimentare si assisté alla crescita rapidissima di un’altra industria protetta, quella dello zucchero. Sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come quello chimico (soprattutto nell’industria della gomma, con gli stabilimenti Pirelli di Milano), o addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico. In questo campo la principale novità fu costituita dall’affermazione dell’industria automobilistica dove, nonostante la ristrettezza del mercato interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati), riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune, come la Fiat di Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli, avrebbero poi acquistato una posizione di preminenza nel mondo industriale italiano. Un discorso a parte va fatto, infine, per l’industria elettrica, che in Italia aveva mosso i primi passi già negli anni ’80 dell’800 e che conobbe un autentico boom all’inizio del ’900.

I settori strategici

In termini complessivi, l’economia italiana realizzò notevoli progressi. Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua fu del 6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo. Il prodotto pro capite aumentò di oltre un terzo, mentre era rimasto pressoché invariato nei precedenti quarant’anni. Fra il 1896 e il 1914 il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato, mentre la quota dell’industria nella formazione del prodotto nazionale, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43% dell’agricoltura.

Le cifre della crescita

◄◄  Marcello Dudovich, Manifesto per la Federazione Italiana chimicoindustriale: «Fisso l’idea» 1899-1900 [Raccolta Salce, Museo Civico,Treviso; © Marcello Dudovich, by SIAE 2018] ◄  Adolf

Hohenstein, Manifesto pubblicitario per le forniture elettriche Urtis 1900 ca. [Raccolta Salce, Museo Civico, Treviso]

67

C3 L’italia giolittiana

Il decollo industriale dell’inizio del ’900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita degli italiani. L’aumento generalizzato delle retribuzioni consentì a vasti strati della popolazione di destinare una quota dei bilanci familiari – fino ad allora assorbiti in misura schiacciante dalle spese per l’alimentazione – alla casa, ai trasporti, all’istruzione, alle attività ricreative [►FS, 24] e soprattutto all’acquisto di beni di consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette, macchine per cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora la prima timida comparsa sul mercato nazionale. Era insomma la qualità della vita degli italiani che cominciava a mutare, sia pur lentamente e parzialmente, di pari passo con lo sviluppo economico. I segni di questo mutamento erano visibili soprattutto nelle città, ancora piccole rispetto alle maggiori metropoli europee – Roma, per esempio, contava nel 1906 poco più di 500 mila abitanti contro i quasi 3 milioni di Parigi – ma ad esse più simili che in passato, grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici (illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente) gestiti non di rado dagli stessi comuni tramite apposite aziende municipalizzate.

Consumi e servizi

Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie. Le case operaie erano per lo più malsane e sovraffollate. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un’eccezione nelle grandi città e un’autentica rarità nei centri rurali. Il riscaldamento centralizzato era un lusso. Ma la diffusione dell’acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni gastroenteriche) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la mortalità infantile – indicatore fra i più importanti dell’arretratezza economica e civile – fece registrare un notevole calo [►FS, 23].

Abitazioni e igiene pubblica

Questi progressi tuttavia non furono sufficienti a colmare il divario che ancora separava l’Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. Alla vigilia della prima guerra mondiale il prodotto pro capite era circa la metà di quello tedesco; l’analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si avviava a scomparire in tutta l’Europa del Nord. Il consumo annuo di carne di ogni italiano era di tre volte inferiore a quello di un cittadino britannico. La quota della popolazione attiva impiegata nelle campagne era ancora intorno al 55% (mentre non superava il 40% in Francia, il 35% in Germania e addirittura l’8% in Inghilterra): una quota troppo alta per le capacità produttive dell’agricoltura italiana, com’era dimostrato dall’incremento dell’emigrazione verso l’estero.

I fattori di arretratezza

◄  Raffaello

Gambogi, Gli emigranti 1895 ca. [Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno] Il fenomeno dell’emigrazione all’estero, che segnò in maniera profonda l’economia e la società del paese, fu spesso oggetto dell’arte figurativa e della fotografia italiana della fine del XIX secolo, che ritrassero gli emigranti e alcuni momenti tipici della loro esperienza, come l’attesa della partenza o il viaggio di trasferimento. sbarcati in attesa dei controlli a Ellis Island, New York, in una fotografia dei primi del ’900

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▼  Immigrati

U1 L’ALBA DEL ’900

25 25 2_LA DISTRIBUZIONE DELL’EMIGRAZIONE FRA LE AREE D’ITALIA 20 25

Il grafico relativo alla media degli espatri annui per mille abitanti mostra come, soprattutto nel 15 primo decennio del ’900, la parte meridionale e quella nord-orientale dell’Italia abbiano avuto il maggior numero di emigranti.

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1876-80 Nord-Ovest

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Nord-Est

1876-80 Nord-Ovest

Nord-Est 1911-13

Centro

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1911-13 Centro

Sud

Isole

Isole

1911-13 Centro

Sud

Isole

Fra il 1900 e il 1914 si contarono circa 8 milioni di emigrati rimesse degli emigrati (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente). Nel solo È il denaro inviato dagli emigrati alle loro famiglie e ai 1913 le partenze furono 870 mila. Tutte le regioni italiane parteciparono al fondi di risparmio in madrepatria. In Italia le rimesse degli fenomeno migratorio. Ma il contributo più rilevante, in rapporto alla popolaemigrati hanno contribuito a lungo a sanare il deficit della zione, venne in questo periodo dal Mezzogiorno. Inoltre, mentre l’emigraziobilancia commerciale. Questo flusso, in parte diminuito dopo la prima guerra mondiale e poi ripreso nel secondo ne dalle regioni centro-settentrionali era soprattutto temporanea e diretta dopoguerra, è progressivamente calato a partire dagli anni verso i paesi europei, quella meridionale si indirizzava in prevalenza verso le ’60, in parallelo con l’esaurirsi delle correnti migratorie verso l’estero. Americhe e aveva per lo più carattere permanente. Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando tensioni sociali altrimenti insostenibili, ma anche perché le rimesse degli emigrati alleviarono il disagio delle zone più depresse e risultarono di giovamento all’economia dell’intero paese. D’altra parte, un’emigrazione così massiccia rappresentò un impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la comunità nazionale: soprattutto per il Mezzogiorno, privato di molti fra i suoi elementi più giovani e intraprendenti.

L’emigrazione

Ancora una volta, dunque, gli effetti del progresso economico non si distribuirono uniformemente in tutto il paese, ma si fecero sentire soprattutto nelle regioni già più sviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando, sia pure nel quadro di una crescita generalizzata. Nel 1903, sul totale dei lavoratori dell’industria il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali mentre solo il 25% viveva nel Mezzogiorno (che aveva una popolazione pari al 37% di quella nazionale), dove erano assenti, salvo rare eccezioni, le aziende di grandi dimensioni e a tecnologia avanzata. Anche i discreti progressi che l’agricoltura italiana venne realizzando a partire dagli ultimi anni dell’800 finirono col concentrarsi nel Nord, soprattutto nelle aziende capitalistiche della Valle Padana. Scarsi furono invece i progressi nelle regioni meridionali, sfavorite dalle condizioni climatiche e idrologiche e dalla naturale povertà dei terreni appenninici, ma anche dalla permanenza di rapporti sociali consolidati e di mentalità diffuse che ostacolavano il mutamento economico e sociale.

Il divario tra Nord e Sud

Da questa situazione derivavano in buona parte i mali storici della società meridionale: l’analfabetismo diffuso (nel 1911 il tasso era ancora del 60% nel Mezzogiorno contro il 15% nelle regioni del Nord), la disgregazione sociale, l’assenza di una classe dirigente moderna, la subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e personalistico della lotta

I mali della società meridionale

69

C3 L’italia giolittiana

politica. Tale carattere era accentuato dal fatto che, per molti giovani, la conquista di un impiego pubblico – raggiungibile grazie ai favori del notabile o del deputato locale – costituiva l’unica alternativa alla disoccupazione o all’emigrazione: fu in questo periodo che la pubblica amministrazione italiana, nata piemontese e “nordista”, cominciò a meridionalizzarsi. Dalla denuncia di questi mali antichi, e del conseguente approfondirsi dello squilibrio fra Nord e Sud d’Italia, prese avvio, già nei primi decenni postunitari, un movimento di opinione, e insieme un indirizzo di studi, che poi fu definito col termine “meridionalismo” e che si applicava allo studio dei problemi del Mezzogiorno nel quadro dello Stato italiano. I meridionalisti erano diversi fra loro per orientamento politico: c’erano conservatori come Giustino Fortunato e Sidney Sonnino, socialisti come Gaetano Salvemini, radicali come Francesco Saverio Nitti. Spesso erano divisi sugli strumenti da adottare: Salvemini, ad esempio, considerava prioritaria la fine del protezionismo doganale che favoriva l’industria del Nord, mentre Nitti era favorevole a specifici interventi statali nel Mezzogiorno. Ma tutti individuavano nella questione meridionale il principale ostacolo da superare perché l’Italia potesse procedere sulla via dello sviluppo economico e civile.

I meridionalisti



METODO DI STUDIO

 a   Cerchia i settori di maggiore crescita economica a partire dagli ultimi anni dell’800 e sottolinea le caratteristiche principali che assumono in questa fase di sviluppo.  b   Spiega per iscritto in che modo il decollo industriale cambiò le condizioni di vita degli italiani e quali furono, invece, gli elementi di arretratezza residui. Prima di scrivere sottolinea con colori diversi le informazioni rilevanti che riguardano i due temi.  c   Sottolinea nei paragrafi dedicati alla società meridionale le parole chiave relative alle condizioni di vita, alle cause e alle conseguenze del divario tra Nord e Sud; quindi spiega per iscritto in cosa consiste questo divario facendo esempi concreti.

3_4 GIOLITTI E LE RIFORME

Su una realtà complessa e contraddittoria come quella dell’Italia all’inizio del ’900 si esercitò per oltre un decennio l’opera di governo di Giovanni Giolitti, la più notevole figura di statista mai apparsa in Italia dopo la morte di Cavour. Chiamato alla guida del governo nel novembre 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, Giolitti cercò non soltanto di portare avanti l’esperimento liberal-progressista avviato dal precedente ministero, ma anche di allargarne le basi offrendo un posto nella compagine governativa al socialista Filippo Turati [►3_7]. Ma il leader socialista rifiutò l’offerta, in quanto temeva, non a torto, di non essere seguìto dal suo partito. Giolitti finì col costituire un ministero aperto alla destra. Una mossa che dà la misura dei limiti entro cui si muoveva il riformismo giolittiano, sempre condizionato dal peso delle forze moderate e sempre attento alla conservazione degli equilibri parlamentari, al punto da sacrificare progetti anche importanti quando si rivelassero incompatibili con la solidità della maggioranza: tipico fu il caso della riforma fiscale, che fu lasciata cadere nonostante costituisse uno dei punti qualificanti del programma di Giolitti.

Giolitti alla guida del governo

Furono invece condotte in porto, nel 1904, le prime importanti “leggi speciali” per il Mezzogiorno: quella per la Basilicata e quella per Napoli, volte a incoraggiare la modernizzazione dell’agricoltura e, nel caso di Napoli, lo sviluppo industriale, mediante una serie di stanziamenti statali e di agevolazioni fiscali e creditizie (così fu realizzato il centro siderurgico di Bagnoli). Queste leggi – seguite da altre analoghe per la Calabria e per le isole – costituirono un precedente cui si sarebbe ispirata, anche in tempi più recenti, la pratica degli “interventi speciali” dello Stato nelle aree depresse. Un altro importante progetto elaborato da Giolitti nel 1904-5 fu quello relativo alla statizzazione delle ferrovie, ancora affidate alla gestione di compagnie private. Il progetto incontrò diffuse opposizioni sia a destra sia a sinistra: i socialisti, in particolare, lo avversarono perché prevedeva il divieto di sciopero per i ferrovieri diventati dipendenti pubblici.

Le leggi per il Mezzogiorno e la statizzazione delle ferrovie

70

I governi Fortis e Sonnino

U1 L’ALBA DEL ’900

Di fronte a queste difficoltà, Giolitti si dimise con un pretesto lasciando la guida del governo ad Alessandro Fortis, secondo una tattica che avrebbe messo in atto anche successivamente e che consisteva nell’abbandonare le

► Leggi anche: ►     Atlante Società ed economia nell’Italia giolittiana ► Personaggi Giovanni Giolitti, ovvero l’arte di governare, p. 72 ► Fare Storia L’Italia giolittiana, p. 112

redini del potere nei momenti difficili per poi riprenderle in condizioni più favorevoli, confidando sul controllo della maggioranza parlamentare. Fortis restò al governo meno di un anno: il tempo necessario per condurre in porto la legge sulla statizzazione delle ferrovie. E vita ancora più breve (tre mesi) ebbe il successivo ministero guidato da Sidney Sonnino, che si presentava come il più autorevole antagonista di Giolitti in campo liberale ma non disponeva di un forte seguito in Parlamento. Nel 1906 Giolitti tornò alla guida del governo e vi restò ininterrottamente per tre anni e mezzo. In quello stesso anno fu realizzata la cosiddetta conversione della rendita, ossia la riduzione del tasso di interesse versato dallo Stato ai possessori di titoli del debito pubblico, un provvedimento che serviva a ridurre gli oneri gravanti sul bilancio statale. Il successo dell’operazione si manifestò nel fatto che solo pochi possessori di titoli si valsero della facoltà di esigere l’immediato rimborso delle somme prestate: segno evidente della fiducia dei risparmiatori nella solidità del bilancio pubblico.

La conversione della rendita

Nel dicembre del 1909 Giolitti attuò una nuova “ritirata strategica”, aprendo la strada a un secondo governo Sonnino, destinato anch’esso a vita brevissima, e a un successivo governo Luzzatti, che avviò un’importante riforma scolastica: la legge Daneo-Credaro, che avocava allo Stato, sottraendolo ai comuni, l’onere dell’istruzione elementare. Nel marzo 1911 Giolitti tornò al governo con un programma decisamente orientato a sinistra, il cui punto cardine era la proposta di estendere il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent’anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato servizio militare: si trattava, di fatto, del suffragio universale

Il suffragio universale

Sciopero dei ferrovieri a Torino 1905 [Civico Archivio Fotografico, Milano] Il passaggio alla gestione statale delle ferrovie, previsto dal disegno di legge presentato da Giolitti nel 1905, fu accolto da un generale malcontento dei lavoratori del settore, che scesero subito in sciopero per chiedere miglioramenti economici. Venendo a mancare la solidarietà di altre categorie di lavoratori, i ferrovieri furono alla fine costretti a capitolare.

71

C3 L’italia giolittiana

LA POLITICA DI GIOLITTI

GIOLITTI

Trasformismo

Neutralità nei conflitti sociali

Rafforzamento del fronte moderato

Sviluppo delle organizzazioni sindacali

Emarginazione delle ali estreme

Alleanza con i cattolici

Incremento degli scioperi e aumenti salariali

Riforme

Conversione della rendita

Politica coloniale

Leggi per il Mezzogiorno

Monopolio statale sulle assicurazioni di vecchiaia e infortunio

Situazione internazionale

Nazionalismo

Statizzazione delle ferrovie

Suffragio universale

Guerra di Libia (1912)

PERSONAGGI

Giovanni Giolitti, ovvero l’arte di governare

G

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iovanni Giolitti nacque nel 1842 a Mondovì, vicino a Cuneo, in una famiglia della media borghesia. Rimasto presto orfano di padre, si trasferì con la madre a Torino nella casa dei suoi quattro fratelli, dove trascorse i suoi primi anni di vita in un ambiente familiare austero, alto-borghese e d’ispirazione liberale e patriottica. Laureatosi nel 1861 in Giurisprudenza, entrò subito in magistratura, cominciando una lunga carriera nell’amministrazione statale come funzionario ministeriale, acquisendo un’ottima formazione burocratica. Nel 1869 sposò Rosa Sobrero, dalla quale ebbe sette figli: sobrio e riservato, rimase sempre lontano dai salotti mondani, anche quando si trasferì a Roma. Nel lavoro non fu mai spinto da interessi economici personali, nemmeno quando si lanciò nella carriera politica nel 1882. Fu eletto nel collegio di Cuneo, dove si era presentato con un programma di chiara ispirazione liberale, ma aperto alle nuove istanze sociali. Per dieci anni fece parte della maggioranza che faceva capo a

U1 L’ALBA DEL ’900

Depretis, diventando però ben presto un dissidente, critico nei confronti del trasformismo e soprattutto della politica finanziaria della Sinistra. Ministro del Tesoro nel primo governo Crispi, ruppe con lo statista siciliano, da cui da allora lo divise un’accesa rivalità, che si accentuò quando, nel 1892, Giolitti fu chiamato dal re a formare il suo primo governo. Costretto ad appartarsi dalla vita politica in seguito allo scandalo della Banca Romana, tornò nel 1896 sulla scena, e si rilanciò come critico delle politiche repressive nei confronti delle agitazioni sociali, come difensore delle prerogative del Parlamento e come leader della sinistra progressista. Fu questo il preludio al suo ritorno a cariche di governo, dapprima come ministro dell’Interno con Zanardelli (1901-3), poi come presidente del Consiglio e protagonista indiscusso della politica italiana fino allo scoppio della guerra mondiale. In questo periodo si formò una duplice immagine dello statista piemontese: positiva, da una parte, quale uomo po-

litico esperto, capace di attuare riforme e favorire il processo di modernizzazione dell’Italia; negativa, dall’altra, quale manipolatore della rappresentanza parlamentare, responsabile della degenerazione del sistema politico e della diffusione di pratiche corruttive. Senza dubbio Giolitti seppe condurre la società italiana di inizio ’900 verso uno sviluppo economico e sociale, puntando sui soggetti più moderni, come la borghesia industriale e il movimento operaio, inserendo il paese in una congiuntura internazionale favorevole al decollo industriale e mantenendo sempre una grande attenzione al bilancio e ai conti pubblici. Aprì alle nuove forze sociali e politiche, dialogando con i movimenti di massa, cui riconobbe legittimità politica, e che cercò di assorbire nel suo “sistema” purché non fosse messa in discussione l’egemonia della classe dirigente liberale. Tuttavia, lo statista piemontese basò il suo potere su maggioranze prive di una caratterizzazione politica chiara, ricorrendo al metodo del “trasformismo” (tanto criticato in passato ma in realtà pienamente ripreso). Questo suo modo di agire, concreto e

maschile, che era ormai in vigore in buona parte dei paesi europei e fu introdotto in Italia nel 1912 [►FS, 22d]. Nello stesso anno fu istituito, con la creazione di un nuovo ente pubblico, l’Ina (Istituto nazionale assicurazioni), il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi sarebbero serviti a finanziare il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia dei lavoratori.



METODO DI STUDIO

 a   Su una linea del tempo che includa gli anni dal 1903 al 1912, indica le azioni politiche, sociali ed economiche intraprese da Giolitti e le interruzioni del suo governo.  b   Esponi sinteticamente le informazioni principali relative ai seguenti argomenti: a. le leggi in favore del Mezzogiorno; b. il diritto di voto; c. l’orientamento politico di Giolitti.

3_5 IL GIOLITTISMO E I SUOI CRITICI

Se è consuetudine parlare di “età giolittiana” per indicare il periodo che va dal superamento della crisi di fine secolo alla vigilia della prima guerra mondiale, ciò è dovuto al fatto che in questo periodo lo statista piemontese esercitò sulla vita del paese un’influenza ancora maggiore di quanto non dica la sua pur lunga permanenza alla guida del governo. Quella esercitata da Giolitti fu una “dittatura parlamentare” [►FS, 21] molto simile, per le forme in cui si manifestava, a quella realizzata da Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta, nei contenuti. Tratti caratteristici dell’azione di Giolitti furono infatti: il sostegno costante alle forze più moderne della società italiana (la borghesia industriale e il proletariato organizzato), il tentativo di condurre nell’orbita del sistema liberale gruppi e

La “dittatura” di Giolitti

senza scrupoli, spiega in parte le diffuse antipatie che Giolitti riuscì a suscitare nella maggioranza degli intellettuali, soprattutto i più giovani, e in tutti coloro che sognavano per l’Italia un avvenire di conquiste o rimpiangevano gli ideali smarriti del Risorgimento. Quando, nel 1915, un anno dopo aver lasciato la guida del governo, Giolitti si pronunciò contro l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, questa corrente ostile si materializzò nelle manifestazioni della piazza interventista: Giolitti divenne il simbolo di un’Italia mediocre e meschina, l’ostacolo principale a qualsiasi progetto di rinnovamento del paese. E come tale fu duramente contestato. Una volta deciso l’intervento in guerra, si appartò passando la maggior parte del tempo nella sua casa di campagna a Cavour. Finita la guerra, ormai anziano, fu richiamato alla presidenza del Consiglio nel 1920, nel pieno del cosiddetto “biennio rosso”, un periodo segnato dalle lotte contadine e operaie. Ancora una volta mostrò le sue notevoli capacità, ma sottovalutò colpevolmente la carica eversiva del nascente movimento fascista. Nel

giugno del 1921, dopo il risultato deludente delle elezioni politiche che egli stesso aveva voluto per ricostituire una forte maggioranza liberale, Giolitti si dimise. Seguirono altri gravi errori, peraltro condivisi con il grosso della classe dirigente liberale, che avrebbero spianato la strada al fascismo, col quale Giolitti non volle mai confondersi, mantenendo nei confronti del movimento mussoliniano un atteggiamento di orgoglioso distacco. Solo nell’autunno del 1924, dopo il delitto Matteotti, passò all’opposizione assieme ai pochi liberali rimasti nella Camera. Si recò alla Camera l’ultima volta nel 1928 per esprimere il suo dissenso verso la nuova legge elettorale che, a suo avviso, segnava “il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto». Pochi mesi dopo, morì nella sua casa di Cavour.

Ritratto fotografico di Giovanni Giolitti

73

C3 L’italia giolittiana

movimenti tradizionalmente considerati nemici delle istituzioni, la tendenza ad allargare l’intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali. Il controllo delle Camere – unito a una perfetta conoscenza della burocrazia statale – costituì l’elemento fondamentale del “sistema” di Giolitti. Grazie ad esso lo statista poté governare a lungo senza l’assillo di crisi ricorrenti e addirittura, come si è visto, abbandonare temporaneamente la guida del governo per riprenderla nel momento più opportuno. Questo controllo era però ottenuto a prezzo della perpetuazione dei vecchi sistemi trasformistici e di un intervento costante e spregiudicato del governo nelle lotte elettorali: intervento che si esercitava soprattutto nel Mezzogiorno, dove le ingerenze del potere esecutivo trovavano terreno favorevole in un ambiente dominato dalle lotte fra i notabili e caratterizzato dall’assenza quasi totale di organizzazioni politiche moderne. Tutto ciò finiva inevitabilmente col limitare gli aspetti più nuovi e progressivi dell’esperienza giolittiana e col contraddirne, almeno in parte, le stesse premesse.

Trasformismo e ingerenze elettorali

Giolitti “bifronte” La caricatura, tratta dalla rivista satirica «L’asino», ironizza sulla politica dello statista che cambia abiti e parole a seconda del pubblico cui si rivolge. A un uditorio borghese dice: «Malgrado le mie simpatie per la democrazia io rimarrò sempre un buon conservatore»; mentre con abiti più modesti si rivolge a un gruppo di popolani dichiarando: «Sono un democratico sincero, radicale, repubblicano, socialista, anarchico, malgrado il mio vivo attaccamento per i conservatori».

Su questi aspetti deteriori si appuntarono ben presto le critiche dei numerosi avversari dello statista piemontese. Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all’interno dei rispettivi movimenti, dividendoli e cooptandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere. Per converso, i liberali-conservatori, come Sidney Sonnino o Luigi Albertini (direttore del «Corriere della Sera» di Milano, il più importante quotidiano italiano), accusavano Giolitti di venire a patti con i nemici delle istituzioni, mettendo così in pericolo l’autorità dello Stato. Non meno gravi erano le accuse lanciate a Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini, che lo bollò con l’epiteto ingiurioso di “ministro della mala vita”. Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del Sud si legava alla severa critica della politica economica protezionista attuata dal governo, che aveva favorito l’industria e le “oligarchie operaie” del Nord (ma anche la grande proprietà terriera meridionale, tutelata dal dazio sul grano), ostacolando lo sviluppo delle migliori forze produttive nel Mezzogiorno.

L’opposizione al giolittismo

Nonostante l’ampiezza delle maggioranze parlamentari che continuavano a sostenerlo, Giolitti dovette così fare i conti con una crescente impopolarità, sintomo dell’interna debolezza di tutto il sistema, oltre che del distacco fra classe dirigente e pubblica opinione. Questi sintomi di difficoltà si fecero più evidenti dopo il 1911, in coincidenza con le vicende legate alla guerra di Libia. La decisione di impegnarsi nell’impresa coloniale è stata spesso interpretata in chiave di politica interna, come una concessione fatta ai gruppi conservatori per bilanciare gli effetti del suffragio universale e del monopolio delle assicurazioni. In realtà essa fu soprattutto l’atto finale di un lungo lavoro di preparazione diplomatica cominciato alla fine dell’800.

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Le difficoltà del sistema giolittiano

U1 L’ALBA DEL ’900

METODO DI STUDIO

 a   Spiega per iscritto per quale motivo la politica di Giolitti è stata definita una “dittatura parlamentare” e descrivine anche i tratti caratteristici.  b   Cerchia i nomi e gli orientamenti di coloro che si opponevano al giolittismo e sottolinea le motivazioni del dissenso.  c   Formula quattro domande di cui le seguenti espressioni siano la risposta: a. la borghesia industriale e il proletariato organizzato; b. il sistema trasformistico; c. la corruzione; d. Gaetano Salvemini e i meridionalisti.



3_6 LA GUERRA DI LIBIA

► Leggi anche:

E IL TRAMONTO DEL GIOLITTISMO

► Parole della storia Massoneria, p. 76

A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Pur senza rinnegare il vincolo della Triplice alleanza, fu attenuata la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò, nel 1898, alla firma di un nuovo trattato di commercio che poneva fine alla “guerra doganale” iniziata dieci anni prima, con i provvedimenti protezionistici varati dall’ultimo governo Depretis. Nel 1902 fu stabilito un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: l’Italia otteneva il riconoscimento delle sue aspirazioni sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco. La nuova situazione creava però motivi di contrasto in seno alla Triplice alleanza. L’accordo con la Francia sul Marocco non piacque ai tedeschi. E meno ancora piacque agli italiani il modo in cui l’Austria-Ungheria, con l’appoggio della Germania, procedette unilateralmente all’annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908 [►2_3]. L’episodio, che metteva in evidenza la posizione di partner più debole occupata dall’Italia nella Triplice, lasciò nell’opinione pubblica uno strascico di malumori e risentimenti.

La svolta in politica estera

Intanto, allontanatosi il trauma delle prime e sfortunate imprese africane, molti uomini politici e intellettuali cominciavano a chiedersi perché l’Italia dovesse rassegnarsi a un destino di potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei paesi più ricchi anziché impegnare le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all’interno di un singolo paese, ma quello fra paesi ricchi e paesi poveri, fra “nazioni capitalistiche” e “nazioni proletarie”, ossia dotate di una popolazione in eccedenza rispetto alle risorse economiche, proprio come l’Italia [►FS, 30d]. In questo clima politico e culturale poté nascere e affermarsi un movimento nazionalista che, raccoltosi in un primo tempo attorno a riviste e circoli intellettuali, si diede una struttura organizzativa alla fine del 1910 con la fondazione dell’Associazione nazionalista italiana. Nata dalla confluenza di correnti politicamente eterogenee (democratici e reazionari, fautori delle imprese coloniali e nostalgici dell’irredentismo), l’Associazione vide prevalere al suo interno un gruppo imperialista e conservatore, che subito avviò una martellante campagna in favore della conquista della Libia. In questa campagna i nazionalisti trovarono potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, da anni impegnato in una opera di penetrazione economica in terra libica.

Il movimento nazionalista

Disposizione delle truppe italiane a Tripoli nella guerra italo-turca 1911 L’immagine, pubblicata in supplemento al giornale «Il Tricolore italiano», illustra la disposizione sul terreno delle truppe italiane dopo la conquista di Tripoli del 5 ottobre 1911 e la successiva battaglia contro i turchi del 26 ottobre.

La spinta decisiva venne però dalle vicende della politica internazionale, in particolare dagli sviluppi della seconda “crisi marocchina” dell’estate 1911 [►2_3]. Quando apparve chiaro che la Francia si apprestava a imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli accordi del 1902 e, nel settembre del 1911, inviò sulle coste libiche un contingente di 35 mila uomini, scontrandosi però contro la reazione dell’Impero turco, che esercitava su quei territori una sovranità poco più che nominale. La guerra fu più lunga e difficile

La guerra di Libia

75

C3 L’italia giolittiana

del previsto, anche perché i turchi, anziché accettare uno scontro campale, preferirono fomentare la guerriglia delle popolazioni arabe contro gli occupanti. Per venire a capo della resistenza, l’Italia dovette non solo rinforzare il corpo di spedizione, ma anche estendere il teatro di guerra al Mare Egeo, occupando l’isola di Rodi e l’arcipelago del Dodecaneso. Solo nell’ottobre del 1912 i turchi acconsentirono a firmare la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità politica sulla Libia e riservando al sultano una teorica autorità religiosa sulle popolazioni musulmane. La pace non valse, peraltro, a far cessare la resistenza araba; e da ciò gli italiani trassero pretesto per mantenere l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso [►FS, 29]. Dal punto di vista economico, la conquista della Libia si rivelò un pessimo affare. I costi della guerra furono molto pesanti; le ricchezze naturali favoleggiate dai nazionalisti si scoprirono scarse o inesistenti (nessuno sospettava allora la presenza di petrolio sotto lo “scatolone di sabbia” del deserto libico); la colonizzazione delle zone costiere non bastò ad assorbire quote consistenti di lavoratori. Nonostante ciò, il paese accolse l’impresa con spirito ben diverso da quello con cui aveva seguìto le avventure africane di Crispi. Non mancarono, anche questa volta, gli oppositori decisi: i socialisti, che organizzarono manifestazioni contro la guerra, una parte dei repubblicani e dei radicali, oltre ad alcuni intellettuali indipendenti, come Gaetano Salvemini, che si sforzarono di contrastare le falsificazioni della propaganda colonialista. Ma la maggioranza dell’opinione pubblica borghese si schierò a favore dell’impresa coloniale, la appoggiò con manifestazioni patriottiche, accolse con soddisfazione il fatto che l’Italia fosse riuscita, a sedici anni dal disastro di Adua, a condurre in porto la sua prima campagna militare vittoriosa.

Opposizione e consenso alla guerra

Il successo politico e propagandistico non si risolse però in un durevole consolidamento del governo. Al contrario, la guerra di Libia, introducendo elementi di radicalizzazione nel dibattito politico, scosse pericolosamente gli equilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favorì il rafforzamento delle ali estreme. La destra liberale, i clerico-conservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo slancio dal

La radicalizzazione del confronto politico

Parole della storia

Massoneria

L

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a “massoneria” è un’associazione segreta che trae il suo nome dalle corporazioni medievali dei “liberi muratori” (free masons in inglese, franc-maçons in francese), i cui membri erano tenuti all’aiuto reciproco e alla conservazione dei segreti del mestiere. Nel corso dei secoli, col decadere delle corporazioni artigiane, queste associazioni assunsero un carattere esoterico, allargandosi anche a membri estranei all’arte muratoria e appartenenti agli strati superiori della società (nobili, borghesi, intellettuali). Finché, all’inizio del ’700, l’associazione perse definitivamente il suo carattere di organizzazione di mestiere, pur conservandone il linguaggio, la simbologia e le strutture organizzative (la divisione in “logge” facenti capo a un “gran maestro”). Diffusasi prima in Gran Bretagna e poi in tutta Europa e nel Nord America, la “nuova” massoneria si ispirava a una filosofia “deista” (Dio era chiamato il “Grande architetto” dell’Universo), faceva propri gli

U1 L’ALBA DEL ’900

ideali illuministi, professava la tolleranza religiosa e imponeva ai suoi affiliati la pratica della filantropia e della mutua assistenza. Duramente avversata dalla Chiesa cattolica, la massoneria venne accentuando, durante il XIX secolo, la sua ispirazione anticlericale e assunse una connotazione politica più spiccata. Legate direttamente o indirettamente alla massoneria erano molte delle società segrete (come la carboneria) impegnate nelle agitazioni nazionali e costituzionali dell’età della Restaurazione. Nella seconda metà del secolo, la massoneria divenne in molti paesi (in particolare in quelli in cui più forte era la presenza cattolica) una sorta di accademia del “libero pensiero”, un vero e proprio contraltare della Chiesa di Roma, e insieme un luogo di incontro e di raccordo fra gruppi politici di orientamento democratico e anticlericale. Questa funzione quasi di “superpartito” fu svolta principalmente in Francia e in Italia e soprattutto negli anni a cavallo fra ’800 e ’900. In Francia la massoneria fu in prima fila nelle battaglie sviluppatesi intorno all’affare Dreyfus [►2_4] e fu ispiratrice della politica

anticlericale praticata dai governi di inizio secolo. In Italia svolse un’importante funzione di appoggio alla svolta giolittiana e favorì, a livello delle amministrazioni locali, la formazione di “blocchi popolari” aperti a tutte le forze di sinistra [►FS, 25]. In questo stesso periodo, però, la massoneria fu oggetto di critiche e attacchi sempre più frequenti. Non solo da parte dei tradizionali avversari cattolici, ma anche di uomini politici e intellettuali di diverse tendenze (dall’estrema destra all’estrema sinistra), che vedevano in essa un centro di potere occulto, in cui i riti iniziatici e la fraseologia umanitaria servivano a coprire il perseguimento di obiettivi tutt’altro che idealistici. In effetti, nel corso del ’900, la massoneria finì col perdere buona parte della sua caratterizzazione ideologica e del suo afflato universalistico, per frammentarsi in una serie di gruppi di interesse legati alle specifiche situazioni dei singoli paesi. Significativo a questo proposito è il caso dell’Italia, che ha visto, negli anni ’70 e ’80, alcune frazioni della massoneria coinvolte in oscuri scandali politico-finanziari e in trame a sfondo autoritario [►20_4].

buon esito di un’impresa che avevano fermamente e rumorosamente sostenuto. Sull’opposto versante, quello socialista, l’opposizione alla guerra fece emergere le tendenze intransigenti e indebolì quelle correnti riformiste che avevano costituito fino ad allora un elemento non secondario degli equilibri politici giolittiani. In molte città importanti, compresa Roma, entrarono in crisi i cosiddetti “blocchi popolari”, ossia le amministrazioni di centro-sinistra nate sotto gli auspici della massoneria e basate sull’alleanza in chiave anticlericale fra i liberali progressisti, i socialisti e i radicali. Mentre – lo vedremo fra poco – si facevano più frequenti, a livello locale, le intese “clerico-moderate” fra liberali di destra e cattolici conservatori.



METODO DI STUDIO

 a   Spiega cosa prevedevano gli accordi del 1902 tra Italia e Francia.  b   Sottolinea con colori diversi le radici del nazionalismo italiano nel contesto storico descritto e le caratteristiche che assunse. Evidenzia quindi il nome dell’associazione che da esso prese vita.  c   Cerchia il nome dell’impresa coloniale descritta e sottolinea con colori diversi le principali informazioni relative ai seguenti temi: a. i vantaggi economici che ne scaturirono; b. i sostenitori; c. i detrattori; d. gli influssi sull’equilibrio parlamentare italiano.

3_7 SOCIALISTI E CATTOLICI

La svolta liberale dell’inizio del ’900 aveva avuto nei socialisti dei protagonisti attivi: Filippo Turati e i dirigenti della corrente riformista pensavano che la via della collaborazione con la borghesia progressista fosse per il movimento operaio l’unica capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti. Man mano che si venivano delineando i limiti del liberalismo giolittiano, però, crebbe nel Partito socialista la forza della corrente rivoluzionaria, che sosteneva la necessità di opporre allo Stato monarchico e borghese la linea di una intransigente lotta di classe. Nel congresso di Bologna dell’aprile 1904 le correnti rivoluzionarie conquistarono la guida del partito e, a settembre, in seguito alla morte di alcuni minatori in Sardegna nel corso di una manifestazione, indissero il primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia. Ci furono forti pressioni sul governo perché intervenisse militarmente, ma Giolitti lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi sfruttare le paure dell’opinione pubblica moderata per convocare, a novembre, nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d’arresto.

La corrente rivoluzionaria e lo sciopero generale del 1904

Per il movimento operaio lo sciopero costituì una prova di forza ma rivelò anche gravi limiti organizzativi: si era infatti sentita l’esigenza, soprattutto da parte dei riformisti, di un più stretto coordinamento nazionale. Proprio dalle federazioni di categoria controllate dai riformisti partì l’iniziativa che portò, nel 1906, alla nascita della Confederazione generale del lavoro (Cgl), che raccolse circa 250 mila iscritti. La corrente più estremista, quella che si ispirava al sindacalismo rivoluzionario francese [►1_5], fu progressivamente emarginata dalla Cgl e infine allontanata anche dal Psi. Mentre le lotte sociali si inasprivano, anche gli industriali cominciarono a organizzarsi in associazioni padronali per poi dar vita, nel 1910, alla Confederazione italiana dell’industria (Confindustria): il loro atteggiamento si fece più duro nei confronti della controparte operaia e più diffidente rispetto alle iniziative sociali dei pubblici poteri, contribuendo a frenare l’azione riformatrice del governo.

La nascita della Cgl e della Confindustria

Tessera della Confederazione generale del lavoro 1911 Seduto sul globo terrestre, armato di martello e scalpello, un giovane scolpisce le parole “resistenza, cooperazione, previdenza” per costruire un nuovo mondo.

Intanto, si accentuavano le fratture interne al Psi. Questa volta fu la maggioranza riformista a dividersi, lasciando spazio alle tendenze intransigenti. All’interno del fronte riformista si andava infatti delineando una tendenza revisionista che faceva capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi e che, ispirandosi alle teorie di Bernstein e all’esperienza del laburismo britannico [►1_5], prospettava la trasformazione del Psi in un “partito del lavoro” privo di connotazioni ideologiche troppo nette e disponibile per una collaborazione

La scissione di Reggio Emilia

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C3 L’italia giolittiana

di governo con le forze democratico-liberali. A far precipitare i contrasti fu l’atteggiamento non pregiudizialmente contrario assunto da Bissolati e Bonomi di fronte all’impresa libica. Nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, i rivoluzionari riuscirono a imporre l’espulsione dal Psi dei riformisti di destra, che diedero vita al Partito socialista riformista italiano. I riformisti rimasti nel Psi furono nuovamente ridotti in minoranza e la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti. Fra questi venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo che si era distinto nelle manifestazioni contro la guerra libica ed era stato fra i protagonisti del congresso di Reggio Emilia: Benito Mussolini. Chiamato alla direzione del quotidiano del partito, l’«Avanti!», Mussolini portò nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull’appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario. Uno stile che si inseriva bene nel clima politico creatosi in Italia all’indomani della guerra libica.

Mussolini direttore dell’«Avanti!»

Nel corso dell’età giolittiana, anche il movimento cattolico italiano conobbe sviluppi e trasformazioni di grande importanza che lo portarono a esercitare un peso reale crescente nella vita politica nazionale, a cui pure restava ufficialmente estraneo. Il fatto nuovo che, all’inizio del ’900, portò una ventata di rinnovamento nell’ambiente chiuso e immobilista del cattolicesimo intransigente inquadrato nell’Opera dei congressi, fu l’affermazione del movimento democratico-cristiano [►1_7]. Leader del movimento era un giovane sacerdote marchigiano, Romolo Murri, che, dopo aver militato fra gli intransigenti, era poi approdato a posizioni audacemente riformatrici, in cui la polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti progressisti. Nei primi anni del ’900, i democratici cristiani svolsero un’intensa attività organizzativa, fondarono riviste e circoli politici, diedero vita alle cosiddette “leghe bianche”, le prime unioni sindacali cattoliche basate sull’adesione dei soli lavoratori.

Murri e i democratici cristiani

Tollerata da Leone XIII, l’azione dei democratici cristiani fu invece osteggiata dal nuovo papa Pio X [►1_7]. Questi, nel 1904, temendo che l’Opera dei congressi (l’organizzazione che riuniva le associazioni di orientamento cattolico operanti in Italia) potesse finire sotto il loro controllo, la sciolse, creando al suo posto tre organizzazioni distinte, tutte strettamente dipendenti dalla gerarchia ecclesiastica: l’Unione popolare, l’Unione economico-sociale e l’Unione elettorale, più tardi riunite da un organo di coordinamento che fu detto Direzione generale dell’Azione cattolica italiana. Romolo Murri, che aveva rifiutato di sottostare alle direttive pontificie, fu sconfessato e più tardi sospeso dal sacerdozio (eletto in Parlamento nel 1909, avrebbe militato nel gruppo radicale).

Pio X e lo scioglimento dell’Opera dei congressi

Preoccupati dai progressi delle forze laiche e socialiste, il papa e i vescovi favorirono invece le tendenze clerico-moderate che si andavano manifestando nel movimento cattolico e che miravano a far fronte comune con i “partiti d’ordine” per bloccare l’avanzata delle sinistre. Alleanze di questo genere, già largamente sperimentate nelle elezioni amministrative, furono esplicitamente autorizzate dalle

Le alleanze clerico-moderate

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Copertina di Vita popolare di Edmondo De Amicis Nei primi del ’900 ci fu un vero e proprio boom editoriale promosso dalle organizzazioni socialiste, finalizzato non solo alla lotta e alla propaganda politica ma anche alla diffusione della cultura. Determinante in questo campo fu il lavoro svolto dalla Nerbini di Firenze, per lungo tempo considerata dai socialisti la casa editrice “ufficiosa“ del partito, attiva nella pubblicazione di testi popolari a sfondo sociale. In questo libro di De Amicis (l’autore del celeberrimo Cuore, che aderì al socialismo nel 1891) ritorna in copertina la rappresentazione, cara ai socialisti dell’epoca, del corteo operaio con la bandiera rossa sotto i raggi del sole nascente.

U1 L’ALBA DEL ’900

LE FORZE POLITICHE NELL’ITALIA GIOLITTIANA

I PROTAGONISTI DELLA SCENA POLITICA DI INIZIO ‘900

SOCIALISTI

LIBERALI

CATTOLICI

Conservatori

Moderati

Riformisti

Rivoluzionari

Revisionisti

Clerico-moderati

Democratici cristiani

Più poteri al governo e al re (Sonnino)

Legislazione sociale e neutralità nelle vertenze sindacali (Giolitti)

Collaborazione con i democratici per attuare le riforme (Turati)

Lotta di classe contro lo Stato e le istituzioni (Mussolini)

Modello laburista, senza caratterizzazioni ideologiche (Bonomi e Bissolati)

Alleanza con i conservatori in funzione antisocialista (Gentiloni)

Riformismo progressista e sindacati cattolici di classe (Murri)

autorità ecclesiastiche e furono d’altra parte incoraggiate dallo stesso Giolitti. Questi, pur ispirandosi in materia di rapporti fra Stato e Chiesa a una linea rigorosamente laica (sua è l’immagine delle “due parallele” che non devono mai interferire reciprocamente), vide nel nuovo atteggiamento dei cattolici la possibilità di allargare i suoi spazi di manovra, utilizzando nuove forze a sostegno delle sue maggioranze. Il non expedit (la direttiva papale che proibiva ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana) fu sospeso, in alcuni collegi del Nord, già nelle elezioni del novembre 1904 e, in misura molto più ampia, nelle successive consultazioni del marzo 1909, dove fu autorizzata anche la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche, anche se solo a titolo personale (secondo la formula “cattolici deputati sì, deputati cattolici no”). La linea clerico-moderata ebbe piena consacrazione con le elezioni del novembre 1913 – le prime a suffragio universale maschile – quando il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appogMETODO DI STUDIO giare quei candidati liberali che si impegnassero, una volta eletti, a rispettare un  a   Evidenzia per ogni sottoparagrafo una frase programma comprendente fra l’altro la tutela dell’insegnamento privato, l’oppoche ne spieghi sinteticamente il titolo e che permetta sizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. di comprendere i soggetti e le coordinate storiche Moltissimi candidati liberali, fra cui non pochi noti anticlericali, accettarono sedegli eventi narrati.  b   Evidenzia con colori diversi le parole chiave gretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall’esigenza di assicurarsi i sufrelative ai movimenti socialista e cattolico e al ruofragi di un elettorato di massa. Nella prospettiva dello sviluppo di un movimento lo che assunsero nella politica italiana. Quindi, sul cattolico autonomo, il “patto Gentiloni” rappresentò una netta battuta d’arresto, e quaderno, indica per ognuno di essi le informazioni principali relative al periodo descritto (soggetti polifu per questo criticato dai democratici cristiani. D’altra parte, con le elezioni del tici e sociali attivi; eventi significativi; personaggi di ’13, i cattolici italiani acquistavano una capacità di pressione sulla classe dirigente rilievo; obiettivi; alleanze; ecc.). mai avuta fino ad allora.

Il “patto Gentiloni”



3_8 LA CRISI DEL SISTEMA GIOLITTIANO

L’allargamento del suffragio – che quasi triplicava il corpo elettorale, portandolo da poco più di tre milioni a 8.672.000 unità – non ebbe effetti sconvolgenti sugli equilibri parlamentari. Nonostante i progressi dei socialisti e dei cattolici “dichiarati” e nonostante l’ingresso alla Camera di un piccolo gruppo nazionalista, i liberali delle varie gradazioni, grazie anche al “patto Gentiloni”, conservavano un’ampia maggioranza. Ma si trattava di una maggioranza più eterogenea e divisa che in passato: il che rendeva la mediazione giolittiana sempre più problematica.

Da Giolitti a Salandra

79

C3 L’italia giolittiana

Carabinieri a cavallo presidiano un cascinale in Romagna durante la “settimana rossa” La scritta sul muro inneggia ad Augusto Masetti, un soldato che, nell’ottobre 1911, aveva sparato contro il comandante del reggimento in partenza per la Libia. Da un comizio per la liberazione di Masetti ebbero origine i moti della “settimana rossa”.

Nel maggio 1914, Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo successore Antonio Salandra, uomo di punta della destra liberale. Come aveva già fatto in passato, Giolitti incoraggiò dunque un’esperienza di governo conservatore con la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al potere a capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situazione era molto cambiata rispetto a quattro o cinque anni prima. La guerra di Libia – lo abbiamo visto – aveva fortemente radicalizzato i contrasti politici; e anche la situazione economica, a partire dal 1913, si era nuovamente deteriorata, provocando un inasprimento delle tensioni sociali. Il dibattito tendeva a polarizzarsi nello scontro fra una destra conservatrice, rafforzata dall’apporto di clerico-moderati e nazionalisti, e una sinistra in cui le correnti rivoluzionarie prendevano il sopravvento su quelle riformiste. Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta settimana rossa del giugno 1914. La morte di tre dimostranti in uno scontro con la forza pubblica durante una manifestazione antimilitarista e antimonarchica ad Ancona provocò un’ondata di scioperi e di agitazioni in tutto il paese. Nelle Marche e in Romagna la protesta, guidata dagli anarchici e dai repubblicani – ma appoggiata anche dai socialisti rivoluzionari, in particolare dall’«Avanti!» di Mussolini –, assunse un carattere apertamente insurrezionale: vi furono assalti a edifici pubblici, atti di sabotaggio contro le linee telegrafiche e ferroviarie; alcuni ufficiali dell’esercito furono catturati dai rivoltosi e in molti piccoli centri furono proclamate effimere repubbliche. Priva di qualsiasi sbocco concreto, non appoggiata dalla Cgl e fronteggiata con decisione dal governo, l’agitazione si esaurì in pochi giorni. L’unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici in seno alla classe dirigente, spaventata dal ritorno di fiamma del sovversivismo vecchia maniera, e di accentuare le fratture all’interno del movimento operaio.

La “settimana rossa”

Gli echi della “settimana rossa” non si erano ancora spenti, quando lo scoppio del conflitto mondiale intervenne a distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni e a determinare nuove linee di divisione tra le forze politiche italiane. La Grande Guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una strategia politica che aveva avuto il merito innegabile di favorire la democratizzazione della società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico, ma che, tutta fondata sulla mediazione parlamentare, si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.

80

La crisi del giolittismo

U1 L’ALBA DEL ’900

METODO DI STUDIO

 a   A partire dagli argomenti del paragrafo realizza uno schema in cui indicherai il progetto politico di Giolitti dopo le elezioni del 1913, gli eventi che ne seguirono, le condizioni che li determinarono, e gli esiti.  b   Spiega per iscritto quali furono le cause che portarono alla “settimana rossa” del 1914 e cosa accadde durante e dopo di essa.

LABORATORIO DI CITTADINANZA I CONFLITTI DI LAVORO NEGLI STATI DEMOCRATICI

N

el XIX secolo, con lo sviluppo della società industriale e la nascita del proletariato di fabbrica, in Gran Bretagna e gradualmente in tutta l’Europa e negli Stati Uniti, si diffuse una nuova forma di conflitto sociale: il conflitto di lavoro. Si definiscono in tal modo tutte le contrapposizioni tra gli interessi dei prestatori d’opera (pubblici e privati) e quelli della loro controparte (il datore di lavoro, le organizzazioni di imprenditori, le istituzioni, il governo, ecc.). Tra le cause principali dei conflitti di lavoro si possono indicare le vertenze, cioè le controversie, relative ai salari, agli orari di lavoro e alle ferie, al riconoscimento dell’attività dei sindacati o alla stipula di un contratto collettivo nazionale per tutti i lavoratori. Per porre fine ai conflitti di lavoro – e ai problemi che determinano nell’attività produttiva – le parti possono ricorrere a tentativi di conciliazione e stringere accordi, dando vita al sistema delle relazioni industriali, cioè l’insieme delle norme che regolamentano lo svolgersi dei rapporti tra datori di lavoro e organizzazioni sindacali in un dato paese.

Lo Stato democratico interviene nelle relazioni industriali in due modi: legiferando sulla legalità delle forme di lotta (ad esempio vietando o consentendo gli scioperi), sulle condizioni contrattuali e sui diritti della forza-lavoro; oppure prendendo parte come mediatore alle trattative tra le organizzazioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro per prevenire e risolvere le controversie. In linea generale, nel XX secolo in tutti i paesi democratici si è proceduto ad un progressivo processo di istituzionalizzazione del conflitto di lavoro e di riconoscimento del diritto di sciopero, di cui sono state stabilite e disciplinate le modalità di espressione. Oltre agli scioperi, le altre forme di conflitto sul posto di lavoro (occupazione delle fabbriche, boicottaggio, ecc.), invece, sono state spesso punite dai Codici penali (quando violano la proprietà o la libertà personale) o da quelli civili (quando infrangono le clausole del contratto di lavoro). In Italia, la legittimità dello sciopero (purché attuato senza ricorrere alla minaccia o alla violenza) fu riconosciuta per la prima volta nel 1889 dal Codice Zanardelli, ma la sua pratica continuò ad essere ostacolata dalle forze dell’ordine e da provvedimenti governativi quali l’invio di militari in sostituzione degli scioperanti e la militarizzazione dei lavoratori dei servizi pubblici. Nonostante questa politica autoritaria, i conflitti di lavoro si intensificarono: nel 1901 si registrarono 1670 scioperi, l’anno successivo più di mille. A partire dal 1901, con il nuovo governo Zanardelli – nel quale Giovanni Giolitti era ministro dell’Interno – si inaugurò una politica più tollerante verso le organizzazioni operaie che furono lasciate libere di svilupparsi. Nel 1902 furono costituiti presso il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio due nuovi organismi: l’Ufficio del lavoro, con funzioni principalmente di studio sui problemi industriali, e il Consiglio superiore Manifestazione di solidarietà per gli operai dell’Alfa Romeo di Arese (Milano) e delle aziende automobilistiche in crisi 2002 Uno dei recenti conflitti in materia di lavoro riguarda la diffusione della contrattazione locale anche per categorie di lavoratori alle quali era in precedenza applicata la contrattazione collettiva nazionale, come nel caso di alcuni stabilimenti della Fiat.

del lavoro (in cui erano presenti rappresentanti degli imprenditori, delle organizzazioni operaie e dello Stato) che avrebbe dovuto mediare tra gli interessi delle parti e suggerire gli interventi di legislazione sociale (molto numerosi negli anni successivi) necessari per migliorare le condizioni dei lavoratori. Ciò non impedì che, fra il 16 e il 20 settembre 1904, l’Italia fosse bloccata dal primo grande sciopero generale della sua storia. Una dura stretta repressiva si ebbe durante il regime fascista: la legge n. 563 del 3 aprile 1926 proibì nuovamente lo sciopero. Questa situazione ebbe termine con la caduta del fascismo e il ritorno alla libertà politica e sindacale. La Costituzione repubblicana del 1948 garantì il diritto di sciopero (art. 40), ma nessuna legge ha mai disciplinato l’esercizio di questo diritto. Infatti, tutte le forme di sciopero sono considerate legittime, compresi gli “scioperi a singhiozzo”, che prevedono delle astensioni brevi e ripetute, e gli “scioperi a scacchiera”, in cui i diversi gruppi di lavoratori si astengono a turno. L’unica eccezione è costituita dai lavoratori dei servizi pubblici essenziali che, con la legge n. 146 del 12 giugno 1990, modificata nel 2000, sono tenuti a esperire un tentativo di conciliazione (presso il ministero del Lavoro o la Prefettura) prima di convocare lo sciopero, a dare un preavviso di 10 giorni e a garantire alcune prestazioni minime indispensabili. Il 20 maggio 1970, nel corso del più intenso ciclo di lotte operaie mai verificatosi in Italia (le ore di lavoro perduto furono 73.918 nel 1968, 302.597 – la quantità più alta mai raggiunta – nel 1969 e 146.212 nel 1970), fu approvato lo Statuto dei lavoratori (legge n. 300), che garantiva ai prestatori d’opera, oltre al diritto di sciopero, la libertà di organizzarsi all’interno delle fabbriche e li tutelava dai licenziamenti ingiustificati. Negli anni successivi, il ruolo dello Stato italiano nelle relazioni industriali è mutato: dopo essere stato mediatore nelle controversie, esso ha iniziato a contrattare con i sindacati – attraverso accordi interconfederali – una moderazione delle richieste salariali e dei conflitti in cambio di misure legislative a favore dei lavoratori: è questo il metodo della concertazione. Con l’inizio del nuovo secolo, però, anche questo modello è stato abbandonato: la contrattazione collettiva è stata sostituita sempre più spesso da una serie di intese a livello locale.

81

C3 L’italia giolittiana

COSTRUIAMO IL LESSICO DEL CITTADINO 1 Leggi la scheda e completa sul quaderno le seguenti definizioni:

a. Si definiscono “conflitti di lavoro” tutte le contrapposizioni tra gli interessi ........................................................................................... ........ e gli interessi ........................................................................................................................................................................

b. Si definiscono “vertenze di lavoro” .............................................................................. iniziate dal lavoratore quando il datore di lavoro ...................................................................................................................................................................................................

c. Si definisce “concertazione” il dialogo ................................................... ai fini del raggiungimento di ................................................

LAVORA SUL TESTO 2 Completa la tabella sull’istituzionalizzazione dei conflitti di lavoro in Italia dall’età liberale agli anni ’90 del ’900.

L’esercizio è già avviato.

Data

Fonte (ove specificata)

Oggetto

1889

Codice Zanardelli

Legalizzazione dello sciopero

1902

• ....................................................................................................... • ....................................................................................................... • ....................................................................................................... • .......................................................................................................

1926

.......................................................................................................... ..........................................................................................................

1948

.......................................................................................................... ..........................................................................................................

1970

.......................................................................................................... ..........................................................................................................

1990 e successive modifiche del 2000

.......................................................................................................... ..........................................................................................................

LO STATUTO DEI LAVORATORI 3 La legge 300/1970, meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori, contiene «norme sulla tutela della libertà e

dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento». Dopo la Costituzione italiana, essa è la fonte normativa più importante in materia di lavoro ed è articolata in sei titoli.

Per saperne di più, consulta l’enciclopedia online della Treccani alla voce “Statuto dei lavoratori”. Leggi l’articolo e realizza un PowerPoint (Ppt) informativo in cui sintetizzare i punti essenziali disciplinati da ciascuno dei sei titoli.

LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI 4 Abbiamo imparato che l’esercizio del diritto allo sciopero è regolato dalla legge quando viene esercitato nell’ambito

dei servizi pubblici essenziali. La legge che lo regolamenta è la 146/1990.

Vai su Google, digita nella maschera di ricerca “Legge 146/1990”, leggi il documento e rispondi alle domande:

82

a. Quali sono i settori che coinvolgono i servizi pubblici essenziali? b. A quali obblighi è necessario adempiere per esercitare il diritto di sciopero in questi settori? c. In cosa consiste la precettazione dei lavoratori che operano in questi settori?

U1 L’ALBA DEL ’900

SINTESI la conseguenza di un notevole incremento dei salari operai e agricoli).

3_1 LA CRISI DI FINE SECOLO Negli ultimi anni dell’800, si fece strada tra le forze conservatrici italiane la tentazione di risolvere in senso autoritario le tensioni politiche e sociali. Essa si manifestò con la dura repressione militare dei moti per il pane del ’98, quando a Milano il generale Bava Beccaris fece sparare sulla folla provocando numerosi morti e feriti, e con il tentativo del governo Pelloux di far approvare delle leggi limitative delle libertà. L’opposizione incontrata alla Camera e le elezioni del 1900 portarono a un mutamento di rotta che, dopo l’assassinio di Umberto I, fu confermato dal nuovo re Vittorio Emanuele III.

3_2 LA SVOLTA LIBERALE Il governo Zanardelli-Giolitti (1901-3) si caratterizzò per alcune importanti riforme sociali (limitazione del lavoro minorile e femminile, legislazione sulle assicurazioni di vecchiaia e infortuni, municipalizzazione di alcuni servizi pubblici), ma soprattutto per la neutralità nel campo dei conflitti di lavoro. Questo atteggiamento di apertura favorì lo sviluppo delle organizzazioni sindacali: le Camere del lavoro, le organizzazioni di categoria, le leghe tra i lavoratori agricoli, che dettero vita nel 1901 alla Federazione italiana dei lavoratori della terra. Questo sviluppo dell’attività sindacale fu accompagnato da un brusco aumento degli scioperi (con

3_3 DECOLLO DELL’INDUSTRIA E QUESTIONE MERIDIONALE Negli ultimi anni dell’800 iniziò il decollo industriale italiano, preparato – negli anni precedenti – dalla costruzione di una rete ferroviaria, dalla scelta protezionistica, dal riordinamento del sistema bancario. Lo sviluppo industriale, se non annullò il divario con i paesi più ricchi, provocò un aumento del reddito e un miglioramento del tenore di vita degli italiani. Cresceva, tuttavia, l’emigrazione, conseguenza di una sovrabbondanza della popolazione rispetto alle capacità produttive dell’agricoltura, che soprattutto nel Mezzogiorno restava arretrata. Qui analfabetismo, disgregazione sociale, assenza di una classe dirigente moderna, difesa degli interessi della grande proprietà terriera e una politica clientelare impedirono di colmare il divario con il Nord industrializzato.

modernizzare l’agricoltura e a favorire l’industrializzazione attraverso stanziamenti statali e agevolazioni fiscali), la statizzazione delle ferrovie (ancora in larga parte in mano ai privati), la conversione della rendita (per alleggerire il bilancio statale riducendo i tassi di interesse sui titoli di Stato), l’introduzione del suffragio universale maschile (1912) e il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. Il suo riformismo però fu condizionato dalla costante attenzione agli equilibri parlamentari su cui si reggeva la maggioranza di governo.

3_5 IL GIOLITTISMO E I SUOI CRITICI La “dittatura” di Giolitti – realizzata attraverso lo stretto controllo del Parlamento e l’intervento del governo, soprattutto al Sud, nelle competizioni elettorali – trovò molti critici fra le forze politiche (socialisti rivoluzionari, cattolici democratici, liberaliconservatori, meridionalisti) e soprattutto fra gli intellettuali. Se da un lato, infatti, Giolitti tentò di assorbire nell’attività parlamentare forze tradizionalmente nemiche delle istituzioni, dall’altro dovette ricorrere ai vecchi sistemi trasformistici.

3_4 GIOLITTI E LE RIFORME Giolitti rimase a capo del governo, con alcune interruzioni, dal 1903 al 1914; in questo arco di tempo varò importanti riforme: le leggi speciali per il Mezzogiorno (volte a

alla Francia, pur restando fedele alla Triplice alleanza. Mutò contemporaneamente l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle imprese coloniali, che cominciarono ad essere caldeggiate soprattutto dal nuovo movimento nazionalista. Proprio la campagna di stampa dei nazionalisti fu, con le pressioni degli interessi della finanza cattolica, tra i fattori che spinsero il governo all’intervento militare in Libia (1911). La guerra con la Turchia che ne seguì si concluse con l’imposizione della sovranità italiana sulla Libia.

3_6 LA GUERRA DI LIBIA E IL TRAMONTO DEL GIOLITTISMO Sul piano della politica estera, l’Italia si avvicinò, tra fine ’800 e inizio ’900,

3_7 SOCIALISTI E CATTOLICI Nel Psi la corrente riformista guardò con simpatia alla politica giolittiana. Presto crebbe però entro il partito la forza delle correnti di sinistra, che portarono nel 1904 al primo sciopero generale nazionale in Italia. La fondazione della Cgl (1906) segnò un rafforzamento della presenza riformista; anche gli industriali cominciarono a organizzarsi, fondando nel 1910 la Confindustria. Il conflitto politico-sociale si radicalizzò nel 1912, dopo l’espulsione dal Partito socialista dei riformisti di destra, capeggiati da Bissolati e Bonomi; il controllo del partito passò quindi ai rivoluzionari, di cui uno dei maggiori leader era Mussolini. In campo cattolico si sviluppò il movimento democratico-cristiano, condannato dal nuovo papa Pio X. Ebbero un grande sviluppo, contemporaneamente, le organizzazioni sindacali

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C3 L’italia giolittiana

“bianche”, cioè cattoliche. Sul piano politico le forze clerico-moderate stabilirono alleanze elettorali, in funzione conservatrice, con i liberali: questa linea politica avrebbe avuto piena consacrazione, nelle elezioni del 1913, col “patto Gentiloni”.

3_8 LA CRISI DEL SISTEMA GIOLITTIANO I mutamenti in atto nel sistema

politico italiano alla vigilia della Grande Guerra (sviluppo del nazionalismo, accresciuto peso dei cattolici, prevalenza dei rivoluzionari nel Psi) segnavano la progressiva crisi della politica giolittiana, sempre meno in grado di controllare la radicalizzazione

che si stava verificando (e di cui, nel ’14, la “settimana rossa” fu un rilevante sintomo). In questa situazione la guerra avrebbe significato la fine del giolittismo.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Sulla seguente linea del tempo sono segnati tre momenti del periodo che viene ricordato con il nome di “Italia

liberale”. Scrivi le date mancanti e le caratteristiche che contraddistinsero i tre periodi utilizzando le lettere corrispondenti alle espressioni fornite di seguito.

a. Età giolittiana b. Esperimenti di autoritarismo c. Declino della Destra storica e passaggio ai governi di Sinistra ...........

....................

...........

...........

1887

....................

1914

2 Riordina la sequenza che racconta gli eventi salienti che si verificarono dai moti del 1898 al governo Zanardelli.

a. A Milano, il generale Bava Beccaris ordina di sparare sulla folla provocando un centinaio di morti. b. Nel 1900 il re Umberto I viene assassinato e il governo Saracco inaugura una fase di distensione delle tensioni sociali in Italia. c. Nel 1904 si verifica il primo sciopero nazionale italiano: il re nomina capo del governo il liberale Zanardelli che si mostra permissivo nei confronti delle organizzazioni operaie. d. Luigi Pelloux succede a Rudinì e propone provvedimenti che limitano la libertà di sciopero e di associazione. e. La sinistra risponde con l’ostruzionismo. f. Il governo di Rudinì ordina massicci interventi delle forze di polizia. g. Nel 1898 scoppiano in tutta l’Italia manifestazioni di protesta a causa dell’aumento del prezzo del pane. 3 Negli ultimi anni dell’800 l’Italia conobbe un importante sviluppo economico. Tra quelli inseriti nell’elenco, sottolinea i

settori interessati dalla crescita e riporta alcuni esempi laddove possibile.

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a. Industria dell’acciaio e della ghisa......................................................................................................................................................... b. Industria delle ceramiche..................................................................................................................................................................... c. Industria cotoniera.............................................................................................................................................................................. d. Industria della pasta ........................................................................................................................................................................... e. Industria dello zucchero....................................................................................................................................................................... f. Industria della gomma ........................................................................................................................................................................ g. Industria informatica........................................................................................................................................................................... h. Industria automobilistica ..................................................................................................................................................................... i. Industria elettrica ............................................................................................................................................................................... l. Industria degli idrocarburi.....................................................................................................................................................................

U1 L’ALBA DEL ’900

4 Giolitti fu una figura controversa verso la quale non mancarono attacchi e critiche importanti. Tra quelli proposti,

scegli il finale che completi le frasi correttamente.

1. Socialisti rivoluzionari e cattolici democratici accusarono Giolitti... a. di complottare con massoneria e società segrete internazionali per eliminare ogni forma di dissenso all’interno del Parlamento. b. di corruzione, con lo scopo di dividere le componenti moderate e attirarle nel suo sistema di potere trasformista. c. di essere troppo asservito ai poteri economici dello Stato e alle banche trascurando i problemi sociali di proletari e contadini. 2. Liberali-conservatori come Sonnino e Albertini accusarono Giolitti... a. di voler scendere a patti con i nemici delle istituzioni (ovvero socialisti e cattolici). b. di essere eccessivamente interessato ai problemi delle masse più povere trascurando gli interessi degli industriali. c. di tramare con accanimento al fine di far cadere la monarchia e trasformare l’Italia in uno Stato comunista. 3. Meridionalisti come Gaetano Salvemini lo definirono “ministro della mala vita” e lo accusarono... a. di accrescere il potere dei malviventi e dei briganti allo scopo di mantenere il Sud nell’insicurezza e nella miseria. b. di favorire gli industriali del Nord e i grandi proprietari terrieri del Sud ostacolando così lo sviluppo delle forze produttive del Mezzogiorno. c. di organizzare in segreto un esercito che lo aiutasse a realizzare la separazione del Mezzogiorno dall’Italia unita a fatica da qualche decennio. 5 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate: chiarirai i momenti salienti della guerra di Libia e la fine del

governo Giolitti.

a. Nel 1902 Francia e Italia stipularono un accordo per spartirsi le sfere d’influenza in Africa; le loro rispettive ambizioni si riversavano sulla Libia e sulla Tunisia. ................................................................................................................................................................................. b. In Italia si formò l’Associazione nazionalista italiana che sosteneva l’espansione italiana nel Nord Africa. ................................................................................................................................................................................. c. La conquista della Libia fu sostenuta concretamente dai conservatori vicini alla finanza vaticana e dal Banco di Roma. ................................................................................................................................................................................. d. La sovranità formale della Libia era di pertinenza turca. ................................................................................................................................................................................. e. Per indebolire i turchi l’Italia attaccò l’isola di Creta e le Cicladi. ................................................................................................................................................................................. f. Nel 1912 la pace di Losanna sancì la conquista della Libia da parte dell’Italia. ................................................................................................................................................................................. g. Per accaparrarsi maggiori consensi Giolitti firmò con i socialisti il cosiddetto “patto Gentiloni”. ................................................................................................................................................................................. h. Le elezioni del 1913 non ebbero i risultati che Giolitti sperava e perciò lo statista fu costretto alle dimissioni (1914). ................................................................................................................................................................................. i. Il successore di Giolitti fu Benito Mussolini, leader della destra liberale. .................................................................................................................................................................................

V

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COMPETENZE IN AZIONE 6 Scrivi un testo di massimo 20 righe sul rapporto di Giolitti con i socialisti e con il movimento democratico-cristiano.

Scegli un taglio per il tuo elaborato e fai riferimento alla seguente scaletta:

● ● ● ●

Giolitti e il primo sciopero nazionale I partiti di sinistra alle elezioni del 1904 Nascita della Cgl Bissolati e Bonomi e le forze di governo

● ● ●

I princìpi del movimento democratico cristiano Pio X scioglie l’Opera dei congressi L’alleanza dei gruppi clerico-moderati

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C3 L’italia giolittiana

7 Scrivi un testo di massimo 40 righe sulla funzione sociale e politica del movimento operaio e contadino nella storia

italiana tra il XIX e il XX secolo, utilizzando la seguente scaletta:

a. Le organizzazioni degli operai e dei contadini: partiti, sindacati e movimenti b. Le forme di lotta: manifestazioni di piazza, scioperi, attentati c. I rapporti con il governo e le alleanze politiche d. Gli obiettivi raggiunti e le speranze disattese del movimento 8 Scrivi un testo di 10 righe in cui descriverai le maggiori differenze tra Nord e Sud Italia negli anni a cavallo tra ’800 e

’900.

COMPITI DI REALTÀ

9 Realizzare uno schedario multimediale per gli sceneggiatori di una fiction.

Tema storico da affrontare: L’Italia durante l’età giolittiana.

Contesto di lavoro

Collabori con uno sceneggiatore di fiction a cui è stata chiesta la bozza della trama di un’opera che abbia come contesto storico l’età giolittiana. Il tuo compito è quello di realizzare alcune schede che contengano informazioni storiche e fonti iconografiche utili allo sviluppo di idee narrative e all’elaborazione dei tratti caratteriali e fisici dei personaggi. L’età giolittiana si presta alla costruzione di molteplici trame narrative incentrate su diversi eventi potenzialmente avventurosi come: 1. Le dinamiche politiche del trasformismo; 2. La guerra di Libia; 3. I movimenti sociali e i sindacati; 4. La personalità di Giolitti e l’impronta data alla politica italiana.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare alcune possibili piste narrative e alcune schede sull’età giolittiana e sui suoi protagonisti. Per realizzare questo compito dovete: ● redigere una scheda per ogni tema sopra indicato contenente le vicende e caratteristiche in grado di affascinare e coinvolgere il pubblico e i caratteri di un potenziale personaggio principale (Giolitti stesso? Un suo antagonista? Un sindacalista? ecc.). ● decidere il numero delle schede informative da realizzare (fra 10 e 13). Esse dovranno trattare i seguenti argomenti: personaggi, cronologia ed eventi, collocazione nel contesto politico-sociale dell’epoca. ● individuare le fonti iconografiche presenti sul manuale (nel capitolo o nei Fare Storia) e su Internet che possono suggerire indicazioni visive relative all’abbigliamento, al taglio dei capelli e alle abitudini sociali e politiche dell’epoca (es. in casa, per strada, al parlamento, ecc.). Ricordate di verificare l’attendibilità delle pagine web e delle immagini trovate su Internet, e di indicare sempre il link della pagina da cui avete tratto i materiali. ● cercare sul manuale (nel capitolo o nei Fare Storia) e su Internet informazioni e immagini che consentano di: 1. realizzare una linea del tempo con gli eventi principali dell’età giolittiana; 2. realizzare per ogni evento selezionato sulla linea del tempo una breve scheda informativa e, possibilmente, una o due immagini dell’epoca. Ogni scheda non dovrà superare le dieci righe più lo spazio destinato alle immagini e dovrà essere accessibile cliccando sulla linea del tempo. Indicate una didascalia con il nome dell’autore, il tipo di immagine, e l’anno in cui questa è stata realizzata; 3. realizzare una scheda informativa circa i principali personaggi politici dell’epoca e “personaggi tipo” (es. il sindacalista, l’intellettuale, ecc.). Essa dovrà contenere riferimenti al carattere, alle principali vicende personali e una o due rappresentazioni visive. Ogni scheda non dovrà superare le quindici righe più lo spazio destinato alle immagini. ● realizzare un prodotto multimediale con il software che ritenete più congeniale e che vi consenta di unire coerentemente la linea del tempo e le diverse schede.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti allo sceneggiatore e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più l’illustrazione dello schedario multimediale da visualizzare con la Lim.

Tempo a disposizione

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2 ore per individuare sul manuale e su Internet le fonti iconografiche da utilizzare; 1 ora per cercare i riferimenti cronologici e realizzare la linea del tempo; 4 ore per elaborare le schede; 2 ore per la realizzazione dello schedario multimediale; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

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FARESTORIA LA SOCIETÀ DI MASSA In un breve arco di tempo, a cavallo tra la fine dell’800 e i primi anni del ’900, i processi di industrializzazione e urbanizzazione e l’estensione dei diritti politici travolsero anche le più consolidate gerarchie e norme sociali. Esperienze che fino a poco tempo prima avevano riguardato solo ristrette minoranze divennero accessibili a fasce di popolazione sempre più ampie: dall’alfabetizzazione alla partecipazione politica, dall’accesso a beni di consumo non di prima necessità alla fruizione di prodotti culturali destinati a un pubblico “di massa”. Il brano di Bronisław Geremek qui proposto [►1] analizza soprattutto le premesse economiche e sociali che hanno dato origine alla moderna società di massa. Fra queste, particolare importanza rivestono le innovazioni introdotte nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro. All’inizio del ’900, infatti, l’organizzazione industriale delle grandi fabbriche fu razionalizzata, scomponendo la lavorazione in numerose fasi, ciascuna formata da operazioni semplici e meccaniche, regolate da macchine sempre più sofisticate e automatizzate che resero il lavoro degli operai ripetitivo e alienante. All’inizio del secolo, questo metodo di organizzazione del lavoro si diffuse a partire dalla teorizzazione dell’ingegnere statunitense Frederick Winslow Taylor [►2d]. A rendere ancora più parcellizzato il lavoro degli operai fu l’introduzione della catena di montaggio, ideata dall’industriale statunitense Henry Ford [►3d], per la produzione di automobili in serie. Uno dei primi intellettuali a confrontarsi con il nuovo fenomeno della società di massa fu il francese Gustave Le Bon [►4d] che, nel volume La psicologia delle folle (1895), cercò di spiegare le trasformazioni della vita sociale e politica prodotte dall’avvento delle masse (o, appunto, “folle”, come preferiva chiamarle). Questo libro riscosse un notevole successo e aprì la strada a numerosi studi sulla massa come entità collettiva dominata da istinti irrazionali. Da allora gli studi sulla società di massa hanno analizzato soprattutto i pericoli che essa comporta in termini di cancellazione delle differenze e di omologazione verso il basso. Esempio classico di questo approccio è il libro La ribellione delle masse (1930) del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset [►5]. Una delle principali caratteristiche della società di massa è l’urbanizzazione, cioè lo spostamento di grandi quantità di persone dalle campagne alle città. In questo contesto, la città assunse caratteri nuovi, anche se non ovunque uniformi: la storica statunitense Victoria De Grazia [►6] fornisce qui un quadro delle diverse forme che assunse la società urbana in Europa e negli Stati Uniti.

DI MASSA

1 B. GEREMEK ALLE ORIGINI DELLA SOCIETÀ

B. Geremek, Masse, in Enciclopedia, vol. VIII, Einaudi, Torino 1979, pp. 823-25; 837-38.

Nel brano che segue lo storico polacco Bronisław Geremek (1932-2008) esamina i processi storici alla base della formaÈ noto che la rivoluzione industriale fu accompagnata da una prodigiosa esplosione demografica. Occorre pure comprendere che ciò implicò un mutamento profondo dei rapporti fra uomo e natura, fra uomo e uomo [...]. Il tasso di crescita di circa lo 0,3 per cento annuo tra il 1650 e il 1750 passa allo 0,7 per cento nel periodo 1850-1900, all’1 per cento nel 1900-50 [...]. Questa proliferazione umana collegata

zione della società di massa. Geremek si sofferma, in particolare, sull’espansione demografica, sull’urbanizzazione, sull’ingresso della gran parte della popolazione nei meccanismi del mercato e della produzione industriale e sull’estensione della partecipazione politica.

allo sviluppo industriale della produzione in massa crea pure una pressione costante sulle forme dell’habitat umano. Il mutamento delle proporzioni fra la popolazione attiva in agricoltura e la popolazione attiva nell’industria significa che l’incremento demografico è diretto soprattutto verso le città. E le città nascono da un giorno all’altro o assumono un aspetto spaziale diverso. Intorno ai centri storici

delle città che contano al più dai dieci ai ventimila abitanti nascono quartieri nuovi in grado di accoglierne cinquanta volte di più. L’edilizia si sviluppa verso l’alto e questa tendenza alla salita verticale della città è un aspetto dell’urbanesimo carico di conseguenze sociali. Si verifica così nell’habitat stesso il laceramento del tessuto tradizionale dei vincoli familiari e di vicinato. Malgrado lo sforzo di salvaguar-

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FARESTORIA La società di massa

dare lo stesso tipo di rapporti esistente nel luogo di provenienza dell’immigrato urbano, le nuove condizioni di vita l’abituano all’anonimato immerso nella densità della massa. [...] I critici della società industriale ammettono, al pari dei suoi difensori, che la quantità diventa il fattore primario nella vita economica e nella civiltà globale. Il numero crescente di uomini crea delle necessità e degli stimoli a produrre, la ricerca del profitto a ogni costo fa ulteriormente gonfiare i bisogni umani. [...] Fra le caratteristiche della condizione sociale compare il denaro come fattore primario, che prende il sopravvento sull’origine e il privilegio; così tutto è possibile e niente è sicuro nella distribuzione degli statuti sociali. La grande maggioranza della gente si guadagna da vivere mediante il lavoro salariato, nel quale sembra contare soltanto lo sforzo fisico. [...] Nello stesso tempo le società industriali, in seguito allo sviluppo tecnologico, hanno sempre più bisogno di manodopera qualificata; l’insegnamento e l’istruzione tecnica si vanno generalizzando proprio per soddisfare questa esigenza. Ma questo carattere «nudo» della manodopera umana, dell’uomo al lavoro, sussiste anche perché non soltanto l’operaio, a differenza del contadino, non possiede alcun mezzo di produzione proprio – se si eccettuano le sue braccia – ma è circondato da un immenso apparato tecnico e burocratico col quale gli è impossibile trovare una comune misura. Di fronte a questo apparato di macchine e uomini, in cui la produzione e la vendita dei beni, al pari dell’organizzazione della produzione e dello sfruttamento stesso assumono un carattere sempre più anonimo1, il produttore immediato, il lavoratore, si sente partecipe soltanto in massa e in quanto massa. [...] In che consiste, in realtà, il fenomeno di «massificazione» nei rapporti tra gli uo-

mini nella società contemporanea? Sembra che si possa affermare, nel modo più generale, che è la sottomissione crescente dei rapporti interpersonali al meccanismo del mercato. Sia nell’ambito dell’economia sia nella vita politica e culturale, si osserva il gioco concorrenziale, l’interdipendenza fra la «produzione» e il «consumo» delle idee, delle opinioni, degli atteggiamenti, dei comportamenti, nonché l’attenzione portata ai prodotti e non ai loro creatori. Rimanendo in questo quadro di riferimento si possono ritrovare nel campo politico e culturale le tendenze a dominare la libera concorrenza, a dirigere i giochi, a manovrare le scelte che gli uomini fanno «sul mercato». [...] Uno dei rari difensori delle società di massa, Shils2, ha tentato di mostrare che le società moderne hanno fatto non solo degli immensi progressi materiali, ma hanno elaborato dei rapporti sociali e delle solidarietà che le società antiche non avevano mai conosciuto. Soltanto nelle società moderne è apparsa quella solidarietà orizzontale che permette di parlare di una società comune; lo sviluppo della scolarizzazione e la volgarizzazione3 della cultura distruggono le disparità e costituiscono dei fattori di integrazione sociale. Anche sul piano individuale è la civiltà industriale che fa cadere le barriere dell’affermazione dell’individuo nel campo del pensiero, della sensibilità e della morale. E non c’è dubbio che i processi di «massificazione» significano anzitutto che un numero sempre più imponente di uomini ha accesso alla politica e alla cultura e trova il proprio posto nella società politica e nella vita culturale. La «massificazione della politica» appare sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo. L’allargamento dei diritti politici, in particolare sotto la pressione del movimento operaio, i progressi dell’industrializzazione e dell’ur-

2d FREDERICK WINSLOW TAYLOR L‘ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO

F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Atheneum, Roma 1915, pp. 140-47.

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Nel 1911 l’ingegnere statunitense Frederick Winslow Taylor (1856-1915) pubblicò un testo divenuto celebre, L’organizzazione scientifica del lavoro, in cui espone la sua teoria sulla razionalizzazione del lavoro in fabbrica e la illustra at-

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banesimo, lo sviluppo su grande scala dei mass-media, il servizio militare, le mobilitazioni effettive e ideologiche nei confronti della guerra: tutti questi fenomeni portano all’entrata nell’area dell’homo politicus di grandi masse divenute soggetti dell’azione politica. I sistemi politici dell’epoca moderna si rifanno al consenso delle masse per legittimare – dopo l’esaltazione del carisma come base e condizione naturale del potere – l’ordine sociale esistente e la vita pubblica. Il consolidamento del sistema democratico parlamentare e dei partiti politici ha elaborato dei meccanismi per l’esercizio del potere e il mutamento politico che non obbligano a consultare le masse e a cercarne l’appoggio. Restava sempre il momento della verità – le elezioni –, ma anche lì c’era la possibilità di sfruttare la passività delle masse per limitarne all’estremo il ruolo reale nel suffragio universale. Resta il fatto che le stesse dichiarazioni sul ruolo sovrano delle «masse» o del «popolo» creavano grosse tentazioni, per i gruppi che cercavano di impadronirsi del potere, di rivolgersi alle masse scavalcando i meccanismi della vita politica. 1. ►FS, 2d. 2. Edward Shils, sociologo statunitense (19101995). 3. Divulgazione e accessibilità anche tra le classi sociali inferiori. METODO DI STUDIO

 a   Spiega quali sono le cause e in cosa consiste, secondo Geremek, la pressione costante sulle forme dell’habitat umano.  b   Sintetizza il rapporto esistente tra la società industriale e i bisogni umani.  c   Evidenzia le caratteristiche della condizione sociale dell’uomo.  d   Sottolinea con colori diversi alcune frasi in grado di esplicitare il significato del processo di «massificazione» e quello di massificazione della politica.

traverso la descrizione di alcune esperienze da lui condotte. Il metodo, chiamato taylorismo e basato sulla riduzione del lavoro a operazioni semplici, misurabili e programmabili, si diffuse in tutti i paesi industrializzati. Fra le sue conseguenze vi fu anche la ridefinizione della figura dell’operaio, con il tramonto definitivo dell’operaio di mestiere e la sua sostituzione con il cosiddetto “operaio massa”, non specializzato, che poteva essere facilmente rimpiazzato.

I punti generali da fissare [...] sono i seguenti: Primo: Trovare dieci o quindici uomini differenti, i quali siano specialmente qualificati per quel particolare lavoro, che si deve analizzare e preferibilmente in stabilimenti separati e in differenti località. Secondo: Studiare la serie esatta delle operazioni elementari o movimenti che ognuno di questi uomini fa per compiere il lavoro da analizzare, e gli strumenti che usa. Terzo: Studiare con un cronometro il tempo richiesto per compiere ognuno di questi movimenti elementari, e quindi scegliere il modo più rapido per fare ogni elemento del lavoro. Quarto: Eliminare tutti i movimenti falsi, inutili e pigri. Quinto: Dopo aver eliminato tutti i movimenti non necessari, raccogliere in una serie tanto quelli più rapidi e migliori con i migliori strumenti. Questo unico nuovo metodo, costituito dalla serie di movimenti migliori e più rapidi, è quindi sostituito alle dieci o quindici serie inferiori che erano prima in uso. Questo migliore metodo diventa tipico e rimane tale, ed è quello che sarà insegnato prima agli istruttori o capi-squadra funzionali, da questi a ogni operaio dello stabilimento sino a quando sia a sua volta sorpassato da una serie di movimenti



più celeri e migliori. In questo semplice modo vengono sviluppati gli elementi della scienza gli uni dopo gli altri. [...] C’è un altro genere di ricerca scientifica, alla quale si è accennato parecchie volte in questo libro e cui si deve rivolgere una speciale attenzione, ossia l’accurato studio dei motivi che fanno agire gli uomini. [...] Forse la legge più importante in questioni simili è l’effetto che ha sul rendimento dell’operaio l’idea del compito. Il quale infatti è divenuto un così importante elemento nel meccanismo dell’ordinamento scientifico, che questo è conosciuto da un grande numero di persone come l’ordinamento a compito. Non c’è assolutamente nulla di nuovo nell’idea del compito. Ognuno ricorderà per proprio conto che questa idea era applicata con buoni risultati al tempo nel quale andava a scuola. A nessun buono insegnante verrebbe in mente di dare da imparare ai suoi allievi una lezione indeterminata. Egli invece fissa ogni giorno ai suoi allievi un compito ben distinto, e stabilisce che debbano imparare proprio quel tanto che è fissato, ed è solo con questo mezzo che gli studenti possono sicuramente e sistematicamente progredire. La maggior parte degli allievi andrà assai lentamente se invece di essere loro assegnato un compito viene detto di fare

3d HENRY FORD LA CATENA DI MONTAGGIO

H. Ford, La mia vita e la mia opera, La Salamandra, Milano 1980, pp. 92-94.

Nell’autobiografia La mia vita e la mia opera (scritta in collaborazione con Samuel Crowther), Henry Ford (1863-1947) racconta la sua vita e le tappe della sua carriera e del suo Un’automobile Ford comprende circa cinquecento pezzi, contando i maschi1, le viti e ogni cosa. Alcuni di tali pezzi sono abbastanza grossi; altri non più che particelle di una macchinetta da orologio. Quando noi montammo le nostre prime macchine, la vettura soleva essere messa al suolo in un punto qualsiasi e gli operai vi portavano man mano i pezzi occorrenti, al modo dei manovali quando si costruisce una casa. Allorché incominciammo a fabbricare da noi i singoli pezzi, fu naturale che si creasse per ogni pezzo uno

quanto può. Tutti noi siamo dei grandi fanciulli, ed è certo che la maggior parte degli operai lavorerà con maggior soddisfazione propria e dell’imprenditore, quando sia ad essa assegnato ogni giorno un compito definito da portare a termine in un certo tempo e che costituisca il giusto lavoro quotidiano di un buon operaio. Così si fissa all’operaio una misura esatta, secondo la quale egli può ogni giorno constatare il suo progresso e il raggiungimento del quale gli offre la più grande soddisfazione. [...] È assolutamente necessario, quando agli operai si fissa quotidianamente un compito, il quale richieda da parte loro la più grande intensità, che sia loro assicurata la necessaria massima misura di salario per quanto essi portino a termine con il compito loro fissato. Questo sottintende non solo la necessità di fissare ad ogni uomo il suo compito quotidiano, ma anche di dargli un abbondante premio ogni volta che lo porti a termine in un tempo fissato. METODO DI STUDIO

 a   Individua un nuovo titolo e un sottotitolo che esprimano il punto di vista degli operai.  b   Evidenzia gli effetti e i vantaggi sugli operai che, secondo Taylor, si hanno con l’organizzazione scientifica del lavoro.  c   Spiega per iscritto in che modo è possibile organizzare scientificamente il lavoro degli operai.

successo come imprenditore. Il volume di Ford, pubblicato nel 1922, ebbe un enorme successo negli Stati Uniti e in Europa. La trasformazione dell’automobile da rarità meccanica in un mezzo di trasporto universale viene presentata come il risultato di grandi innovazioni produttive, come l’introduzione della catena di montaggio.

speciale riparto nelle officine; però ogni operaio eseguiva tutte le operazioni necessarie ad un singolo pezzo. Il rapido incalzare della produzione rese indispensabile l’organizzare altrimenti il lavoro, per evitare che gli operai si dessero impaccio l’uno con l’altro. Il lavoratore mal diretto spende più tempo nel muoversi di qua e di là per prendere materiali e strumenti che non ne impieghi per il lavoro effettivo; ed egli infatti è pagato poco [...] Il primo passo innanzi nell’opera di montaggio avvenne quando s’incominciò a

portare il lavoro agli operai e non gli operai al lavoro. Ora in tutta la nostra lavorazione noi ci atteniamo a due massime: che un operaio, se possibile, non abbia mai da fare più di un passo, e che egli non abbia bisogno di distrarsi dal ritmo del suo lavoro col piegarsi a dritta e a sinistra. I principi del montaggio sono questi:

1. Parti sporgenti di metallo che vengono incastrate in incavi di forma uguale per ottenere solide giunture.

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FARESTORIA La società di massa

1. Collocate strumenti ed uomini secondo l’ordine successivo delle operazioni, in modo che ogni parte componente abbia a percorrere il minimo spazio durante il processo di finimento. 2. Usate carrelli su binari, o altre simili forme di trasporto, in modo che quando un operaio ha finito la sua operazione, egli getta il pezzo sempre allo stesso posto, il più che sia possibile a portata della sua mano. Quindi, se si può ottenerlo, è il peso stesso del pezzo quello che deve far scorrere il carrello sul binario e portarlo al prossimo operaio. 3. Regolate il sistema di trasporto meccanico anche nel radunare i pezzi sul luogo di montaggio, in modo che essi giungano e partano col giusto intervallo. Il preciso risultato dell’applicazione di queste massime è la riduzione della necessità di pensiero da parte degli operai e la eliminazione d’ogni loro movimento

superfluo. L’operaio deve far possibilmente una cosa sola con un solo movimento. [...] Il nostro primo esperimento di una ferrovia di montaggio risale circa all’aprile del 1913. La sperimentammo dapprima per montare i magneti. Credo che la nostra fosse la prima linea di montaggio a catena che mai sia stata installata. L’idea ci venne in generale dai carrelli su binari che i macellai di Chicago usano per distribuire le parti dei manzi. Noi avevamo finora messo a posto i magneti col comune sistema. Un operaio che facesse l’intero lavoro sbrigava da trentacinque a quaranta pezzi in una giornata di nove ore, vale a dire adoperava circa venti minuti per pezzo. Ciò che allora egli eseguiva solo, fu poi frazionato in ventinove operazioni diverse, e il tempo necessario al finimento fu ridotto con ciò a 13 minuti e 17 secondi. Nel 1914 noi innalzammo la linea di trasporto di 20 centimetri e ridu-

cemmo il tempo a sette minuti. Ulteriori esperimenti sulla rapidità del lavoro, ci permisero di accelerare questa operazione di montaggio a cinque minuti. Per farla breve, il risultato è questo: col concorso dello studio scientifico, un operaio è oggi in grado di compiere più di quattro volte il lavoro che egli compiva pochi anni addietro. Il montaggio del motore, dapprima affidato a un uomo solo, è ora diviso in ventiquattro operazioni, e gli uomini in esse impiegate fanno un lavoro per il quale ce ne volevano prima tre volte tanti.

METODO DI STUDIO

 a   Individua dei titoli relativi “ai princìpi del montaggio” che ne condensino il significato.  b   Da cosa nacque l’idea della catena di montaggio? Quali furono i vantaggi della sua applicazione? Sottolinea nel testo le risposte a queste domande.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 1 UNA DELLE PRIME CATENE DI MONTAGGIO NELLE OFFICINE FORD, 1914 Il 1° dicembre 1913 nella fabbrica di automobili Highland Park Ford Plant, creata da Henry Ford nelle vicinanze di Detroit nel Michigan, viene inaugurata la prima catena di montaggio mobile della storia. La costruzione del telaio (rappresentata in questa fotografia) è stata la tappa finale della transizione di Ford dall’assemblaggio statico a quello della

GUIDA ALLA LETTURA

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 a   Osserva con attenzione la fotografia e descrivi gli ambienti, i macchinari presenti e le parti delle automobili in lavorazione.  b   Cerchia gli individui fotografati e descrivi, per quanto possibile, il compito che stanno svolgendo mettendo in rilievo i macchinari a disposizione e la posizione nello spazio della fabbrica e rispetto agli altri presenti.

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catena di montaggio, dimezzando il tempo di assemblaggio del modello T, da dodici ore a sei. In seguito furono risparmiate quasi altre quattro ore passando a 93 minuti. Anche il prezzo al pubblico, nel giro di pochi anni, fu dimezzato passando da 700 a 350 dollari.



4d GUSTAVE LE BON LA PSICOLOGIA DELLE FOLLE

G. Le Bon, La psicologia delle folle, Longanesi, Milano 1980, pp. 32-61.

Gustave Le Bon (1842-1931), antropologo e psicologo francese di formazione positivista, nel 1895 pubblicò il volume La psicologia delle folle, che ebbe un enorme successo e L’epoca attuale costituisce uno di quei momenti critici, durante i quali il pensiero umano si trasforma. Due fattori fondamentali stanno alla base di tale trasformazione. Il primo è la fine delle credenze religiose, politiche e sociali [...]. Il secondo è la nascita di condizioni di vita e di pensiero interamente nuove, che risultano prodotte dalle moderne scoperte delle scienze e dell’industria. [...] Su quali idee saranno fondate le società che succederanno alla nostra? Ancora lo ignoriamo, e tuttavia fin d’ora possiamo prevedere che, nella loro organizzazione, queste società dovranno fare i conti con una potenza nuova, la più recente sovrana dell’età moderna: la potenza delle folle. [...] L’età che inizia sarà veramente l’era delle folle. Non più di un secolo fa, la politica tradizionale degli Stati e le rivalità tra i prìncipi costituivano i principali fattori degli avvenimenti. L’opinione delle folle, nella maggioranza dei casi, non contava affatto. Oggi, invece, le tradizioni politiche, le tendenze individuali dei sovrani e le rivalità esistenti tra questi ultimi hanno ben scarso peso. La voce delle folle è divenuta preponderante. Detta ordini ai re. [...] La potenza della folla nacque dapprima col propagarsi di certe idee che si radicavano lentamente negli spiriti, poi grazie al graduale associarsi degli individui che consentì la realizzazione di concetti fino



ad allora teorici. Il fatto di associarsi ha permesso alle folle di farsi un’idea, se non molto giusta, almeno molto precisa dei propri interessi, e di prendere coscienza della propria forza. Le folle formano i sindacati davanti ai quali tutti i poteri capitolano, creano le camere del lavoro che, a dispetto delle leggi economiche, tendono a regolare le condizioni dell’impiego e del salario. Inviano nelle assemblee governative i loro rappresentanti sprovvisti di ogni iniziativa, di ogni indipendenza, e ridotti nella maggioranza dei casi ad essere soltanto i portavoce dei comitati che li hanno eletti. [...] Poco inclini al ragionamento, le folle si dimostrano, al contrario, adattissime all’azione. [...] Ciò che più ci colpisce di una folla psicologica è che gli individui che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita, dalle occupazioni, dal temperamento o dall’intelligenza – acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla. Tale anima li fa sentire, pensare ed agire in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro – isolatamente – sentirebbe, penserebbe ed agirebbe. [...] La folla [...] è guidata quasi esclusivamente dall’inconscio. [...] Le azioni da essa compiute possono essere perfette quanto all’esecuzione, ma dato che non sono dirette dal cervello, dipendono in realtà dai moti casuali dell’eccitazione. La folla, strumento di tutti gli stimoli esteriori, riflette le incessanti variazioni di questi.

5 J. ORTEGA Y GASSET LA RIBELLIONE DELLE MASSE

J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, il Mulino, Bologna 1962, pp. 3-12.

Il volume La ribellione delle masse fu pubblicato dal filosofo e sociologo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1955) nel 1930 ed ebbe un notevole successo. L’autore illustra in queC’è un fatto che, bene o male che sia, è il più importante nella vita pubblica europea dell’ora presente. Questo fatto è l’av-

divenne una specie di manuale per gli agitatori politici del primo ’900. Le Bon, infatti, aveva pienamente compreso non solo la nuova realtà della folla (o della “massa”, ►1_1) e delle sue potenzialità di trasformare la vita sociale e politica, ma anche le motivazioni del suo agire irrazionale. È dunque schiava degli impulsi ricevuti. L’individuo isolato può essere soggetto alle stesse eccitazioni, ma non cede ad esse, poiché la ragione gli indica quali svantaggi deriverebbero dal cedere. Si può fisiologicamente definire tale fenomeno dicendo che l’individuo isolato ha la possibilità di controllare i suoi riflessi, mentre la folla ne è sprovvista. [...] Nelle folle, insomma, non c’è premeditazione. Possono percorrere successivamente la gamma dei più opposti sentimenti sotto l’influsso di momentanee eccitazioni. [...] Questa mutevolezza rende le folle molto difficilmente governabili, specie quando una parte dei poteri pubblici è finita nelle loro mani. Se le necessità della vita quotidiana non costituissero una sorta di regolatore invisibile degli eventi, le democrazie quasi non potrebbero sussistere. Ma le folle, che desiderano certe cose con frenesia, non le desiderano a lungo. Sono incapaci di volontà costante, così come sono incapaci di pensare. METODO DI STUDIO

 a   Individua da quattro a sei parole o espressioni chiave in grado di condensare l’idea che Le Bon ha delle folle e argomenta la tua scelta per iscritto.  b   Spiega chi è l’autore del documento e in quale periodo storico scrive.  c   Immagina di essere un politico vissuto al tempo di Le Bon ed evidenzia le caratteristiche delle folle che potresti utilizzare a tuo favore.

sto libro i pericoli a suo parere insiti nella massificazione dei valori, dei consumi e persino dei gusti, indotta dalla industrializzazione e dalla crescita dei ceti medi. L’uomo-massa che risulta da questo livellamento sociale e culturale è, secondo Ortega y Gasset, partecipe di una «iper democrazia» in cui pretende di imporre i suoi «luoghi comuni da caffè».

vento delle masse al pieno potere sociale. E siccome le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esi-

stenza, e tanto meno governare la società, vuol dire che l’Europa soffre attualmente la più grave crisi che tocchi di sperimen-

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FARESTORIA La società di massa

tare a popoli, nazioni, culture. Questa crisi s’è verificata più d’una volta nella storia. La sua fisionomia e le sue conseguenze sono note. Se ne conosce anche il nome. Si chiama la ribellione delle masse. Per l’intelligenza del formidabile fenomeno conviene che si eviti di dare, fin d’ora, ai termini «ribellione», «massa», «potere sociale», ecc., un significato esclusivamente o principalmente politico. La vita pubblica non è soltanto politica, ma, in pari tempo e in prevalenza, è intellettuale, morale, economica, religiosa; comprende tutti i costumi collettivi, inclusa la maniera di vestire e la maniera di godere. Forse il modo migliore di avvicinarsi a questo fenomeno storico è quello di riferirci a un’esperienza visiva, sottolineando un aspetto della nostra epoca che è visibile con gli occhi della fronte. Semplicissimo ad essere enunciato, per quanto non sia altrettanto semplice ad essere analizzato, lo possiamo denominare il fenomeno dell’agglomerazione, del «pieno». Le città sono piene di gente. Le case, piene d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. I treni, pieni di viaggiatori. I caffè, pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei medici più noti, piene d’ammalati. Gli spettacoli, appena non siano molto estemporanei, pieni di spettatori. Le spiagge, piene di bagnanti. Quello che prima non soleva essere un problema, incomincia ad esserlo quasi a ogni momento: trovar posto. [...] Che cosa è ciò che vediamo, e la cui considerazione ci sorprende tanto? Vediamo la moltitudine, come tale, che s’impossessa dei luoghi e dei mezzi creati dalla civiltà. [...] Il concetto di moltitudine è quantitativo e visivo. Traduciamolo, senza alterarlo, nella terminologia sociologica. Allora troviamo l’idea della massa sociale. [...] Massa è l’uomo medio. In questo modo si conver-

te ciò che era mera quantità – la moltitudine – in una determinazione qualitativa: è la qualità comune, è il campione sociale, è l’uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso un tipo generico. [...] A rigore, la massa può definirsi, come fatto psicologico, senza necessità d’attendere che appaiano gl’individui come agglomerato. Anche per una sola persona possiamo sapere se è massa o no. Massa è tutto ciò che non valuta se stesso – né in bene né in male – mediante ragioni speciali, ma che si sente «come tutto il mondo», e tuttavia non se ne angustia1, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri. [...] Nessuno, io credo, deplorerà che le folle godano oggi in numero e misura maggiori che per il passato, dato che ne hanno il gusto e i mezzi. Il male è che questa decisione presa dalle masse di assumere le attività proprie alle minoranze, non si manifesta, né potrebbe manifestarsi, soltanto nell’ordine dei godimenti, ma essa si rivela come una maniera generale di questo tempo. Così [...] credo che le innovazioni politiche degli anni più recenti non significano altro che l’impero politico delle masse. La vecchia democrazia viveva temperata da un’abbondante dose di liberalismo e d’entusiasmo per la legge. A servire questi princìpi l’individuo si obbligava a sostenere in se stesso una disciplina difficile. Sotto la protezione del principio liberale e della norma giuridica potevano agire e vivere le minoranze. Democrazia e legge, convivenza legale, erano sinonimi. Oggi assistiamo al trionfo d’una iperdemocrazia in cui la massa opera direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti. È falso interpretare le nuove situazioni come se la massa si fosse stancata della politica e ne

6 V. DE GRAZIA SOCIETÀ URBANA EUROPEA E SOCIETÀ URBANA AMERICANA ALL’INIZIO DEL ’900



V. De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2007, pp. 3-7.

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Una delle principali caratteristiche della società di massa fu l’urbanizzazione: le città, costrette ad accogliere un numero

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devolvesse l’esercizio a persone «speciali». Tutto il contrario. Questo era quello che accadeva nel passato, questo era la democrazia liberale. La massa presumeva che, in ultima analisi, con tutti i loro difetti e le loro magagne, le minoranze dei politici s’intendevano degli affari pubblici un po’ più di essa. Adesso, invece, la massa ritiene d’avere il diritto d’imporre e dar vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè. Io dubito che ci siano state altre epoche della storia in cui la moltitudine giungesse a governare così direttamente come nel nostro tempo. Per questo parlo d’iperdemocrazia. [...] Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia d’affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque. La massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come «tutto il mondo», chi non pensi come «tutto il mondo» corre il rischio di essere eliminato. Ed è chiaro che questo «tutto il mondo» non è «tutto il mondo». «Tutto il mondo» era normalmente l’unità complessa di massa e minoranze discrepanti, speciali. Adesso «tutto il mondo» è soltanto la massa. 1. Non ne è dispiaciuto. METODO DI STUDIO

 a   Leggi con attenzione la parte iniziale del brano e individua ed evidenzia il punto di partenza del ragionamento di Ortega y Gasset. Quindi sottolinea la frase usata dal pensatore spagnolo per avvicinarsi al tema che intende affrontare.  b   Spiega per iscritto cosa è la “massa sociale”, cosa vuol dire la frase «Massa è l’uomo medio» e cosa è “l’impero politico delle masse”. Prima di procedere con la scrittura evidenzia delle parole chiave che possano aiutarti a costituire una scaletta per il tuo discorso.  c   Evidenzia delle frasi significative in grado di spiegare il rapporto fra individuo e massa.

crescente di popolazione, cominciarono a cambiare tanto negli spazi quanto nei consumi e nelle abitudini. Questi mutamenti, come illustrato in questo brano dalla storica statunitense di origini italiane Victoria De Grazia (nata nel 1946), assunsero forme profondamente diverse in Europa, dove la tradizione urbana datava secoli addietro, e negli Stati Uniti, dove invece le città sorsero e si svilupparono intorno alle esigenze della nuova società industriale.

Se, agli albori1 del XX secolo, il mondo occidentale fosse stato oggetto di una particolare mappatura tesa a mostrare in che termini le classi benestanti e gli uomini di potere concepissero il contesto fisico in cui erano calati, il corso centrale di una qualsiasi cittadina tedesca e la principale via commerciale di una qualsiasi cittadina americana sarebbero apparsi letteralmente agli antipodi. Per visualizzare la distanza tra questi due estremi, si pensi alla veneranda città storica di Dresda, in Sassonia, come all’estrema frontiera orientale dell’Occidente, e a Duluth, moderna cittadina del Minnesota sul Lago Superiore, come estrema frontiera occidentale. Il corso centrale di Dresda era l’elegantissima Prager Strasse. Quella nobile arteria del centro storico, che da Wiener Platz, in corrispondenza della grandiosa stazione ferroviaria, proseguiva fino al Johannes Ring attraverso un fitto paesaggio di cupole, guglie e pinnacoli, fra palazzi e chiese in stile barocco a perdita d’occhio, offrendo uno spettacolo ininterrotto di facciate riccamente adorne, di edifici dalle proporzioni perfette che ospitavano caffè alla moda, lussuosi atri d’albergo, gallerie d’arte, banche e negozi dal vivace, incessante andirivieni di clienti. A Duluth, invece, la principale via del centro, Superior Street, altro non era che un rettilineo lungo dieci isolati in corrispondenza dell’intersezione tra West Superior ed East Superior Street, alle spalle dello scalo ferroviario che, con il suo disordinato fascio di binari e moli di caricamento, si snodava lungo la sponda del lago. All’ombra dei palazzoni di cemento armato del centro direzionale di Folz Building, quell’impietoso rettifilo era teatro di un vero e proprio guazzabuglio di edifici pubblici e commerciali [...]. Il centro storico di Dresda era la summa di sei secoli di regale mecenatismo2. Sorta come prospero centro posto all’intersezione dei traffici sul fiume Elba e della Via dell’argento che proveniva da est, [...] incarnava l’ideale tedesco di Kultur, una raffinatezza di gusto e di spirito talmente eterea e inattaccabile dalle forze del mercato che soltanto un’élite in possesso di una vera Bildung, intesa come una un incrollabile senso della propria vocazione personale abbinata a una rigorosa formazione culturale, poteva ambire a conquistare la «Firenze

dell’Elba» [...]. A fine Ottocento, con la progressiva industrializzazione non soltanto di Dresda, ma dell’intera Sassonia, che ne fece la regione più urbanizzata di tutta la Germania, nonché quella in cui si registrava la più alta densità di industrie meccaniche e manifatturiere, le famiglie più in vista della città coltivavano come valori tanto la proprietà materiale quanto l’eminenza culturale: Besitz und Bildung3. [...] Stridente il contrasto con Duluth, il cui benessere materiale era il mero frutto di una sessantina d’anni di espansione economica. Dal 1855 in poi, quando il canale di Sault Sainte Marie mise in collegamento i Grandi Laghi con le rotte commerciali che solcavano l’Atlantico e gli speculatori scommisero che quella spelacchiata collinetta in riva al Lago Superiore sarebbe diventata un giorno il principale terminal ferroviario dell’intera regione, quell’insediamento di frontiera [...] fece dimenticare ben presto le proprie poco edificanti origini come centro di traffici tra Francesi e Indiani americani, fra casinò e chiatte attraccate a qualche pontile scalcinato. Promosso a città nel 1876, proprio nell’anno in cui Dresda celebrava il seicentosessantesimo anniversario dalla fondazione, quel villaggio spuntato a casaccio si prestò a diventare un vigoroso porto e centro manifatturiero. [...] Agli occhi dei padri fondatori, Duluth era «la capitale dei mari d’acqua dolce». [...] Anche quando si videro costretti a ripiegare su soprannomi meno velleitari, come «la Pittsburgh dell’Ovest» o la «Chicago dei Grandi Laghi del Nord», i maggiorenti della città continuarono a vedere in Duluth la testimonianza fatta pietra – ma sarebbe più indicato dire «fatta cemento e assi da costruzione» – dell’operosità, dell’ottimismo e dell’amor di patria che, ai loro occhi, avevano fatto degli Stati Uniti la più grande nazione del pianeta. [...] Anche sotto il profilo delle buone maniere e delle abitudini le due città non avrebbero potuto essere più distanti l’una dall’altra. Allo scoccare del mezzogiorno in Prager Strasse, le formalità di una cultura borghese ingentilita da qualche vezzo aristocratico erano ancora palpabili. [...] Dopo cena, il Kaiser Cafè o lo Hülfert al pianterreno dell’albergo Europa-Hof all’angolo con Waisenhausstrasse erano appuntamenti da non mancare. Così come, di pomeriggio, il tè alla Brülsche

Terrasse, dove si poteva restare a conversare piacevolmente fino alle prime ombre della sera, sullo sfondo del traffico fluviale in lontananza [...]. Da un simile scorcio era arduo riuscire a immaginare Dresda come una grande città abitata anche da una classe operaia che viveva tra gli stenti, ammassata in squallidi quartieri in mattoni a vista addossati alle officine meccaniche che facevano la prosperità dell’economia locale. [...] Duluth, invece, era in perenne fermento. A mezzogiorno, East Superior Street era invasa da stuoli di automobili di lusso dalle quali frotte di uomini in completo marrone e grigio scuro si riversavano nel Kitchi Gammi Club, nella locale loggia massonica oppure si dirigevano, di giovedì, al vicino hotel Spalding per il settimanale pranzo rotariano [...]. Gli operai riuniti dinanzi alla Fitger’s Brewery si ritrovavano, una volta entrati, seduti ai tavoli gomito a gomito con le commesse della farmacia Wirth’s, con i quadri del Folz Building e con le segretarie in abiti dai colori sgargianti che approfittavano della pausa per mangiare qualcosa e fare un salto al più vicino emporio. Tutti chiacchieravano, tutti avevano qualcuno da salutare, o a cui stringere la mano, o a cui dare una pacca sulla spalla. E tutti avevano un aspetto talmente florido, curato e ben pasciuto che le differenze di classe erano obiettivamente difficili da scorgere4. [...] Si potrebbe quasi affermare che Dresda, con la sua magnificenza culturale, rappresentasse un unicum irripetibile, mentre Duluth era uguale a mille altre anonime città della provincia statunitense. Dresda aveva un’atmosfera, un che di autentico. Duluth, invece, era intraprendente, ottimista, pecoreccia5, virtualmente indistinguibile da tanti altri centri urbani del paese. Duluth era però fondamentale per dare una definizione della civiltà americana; proprio come la bellezza irripetibile e il fascino decadente di Dresda lo erano per dare una definizione della cultura europea. 1. All’inizio. 2. Tendenza a favorire e a finanziare la cultura e le arti. 3. “Proprietà e istruzione”. Con questa espressione venivano indicati i valori della borghesia in ascesa nel XIX secolo. 4. ►1_1. 5. Rozza, grossolana.

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FARESTORIA La società di massa

PALESTRA INVALSI

1 Indica quali caratteristiche sono proprie della città di Dresda e quali di Duluth.

Caratteristiche

Dresda

Duluth

La principale via del centro è un insieme di edifici pubblici e commerciali Praticare l’eminenza culturale è un obiettivo delle famiglie più in vista Il centro storico è elegante ed esprime gusto e benessere È un centro manifatturiero È in perenne fermento È la personificazione dell’ottimismo, operosità e amor di patria, tipiche della nazione 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? «Dresda, con la sua magnificenza culturale, rappresentava un unicum nello spirito della cultura europea.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Dopo aver analizzato la [►FONTE ICONOGRAFICA 1] e letto i documenti scritti da Taylor [►2d] e da Ford [►3d], descrivi i cambiamenti avvenuti nelle grandi imprese dal punto di vista del lavoro degli operai in un testo di massimo 20 righe. Prima di procedere con la scrittura, seleziona per ogni documento dei concetti o frasi chiave. Utilizza questi ultimi come guida per il tuo lavoro citando la fonte da cui li hai estrapolati e arricchendo la trattazione con esempi diretti. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. 2 Scrivi un testo di massimo 10 righe dal titolo L’individuo e la società di massa facendo riferimento al brano di Ortega y Gasset [►5] e ai documenti presenti nel percorso. Evidenzia i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. LO STORICO RACCONTA 3 Scrivi un testo di circa 30 righe sulle origini storiche e sulle diverse

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articolazioni della società di massa facendo riferimento ai brani di Geremek [►1], Ortega y Gasset [►5], De Grazia [►6] e ai documenti presenti nel percorso.

U1 L’ALBA DEL ’900

Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e non dimenticare di affrontare i seguenti temi: • società di massa e premesse economiche e sociali; • società di massa e organizzazione del lavoro; • la “psicologia” delle masse; • massa e potere; • la città cambia forma. IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 4 Leggi con attenzione le seguenti posizioni relative al concetto di “massa”. Collega i contenuti dei brani del percorso a ognuna di esse e individua quella che ritieni maggiormente condivisibile. Quindi argomenta la tua posizione in un testo di circa 20 righe: a. La massa è un prodotto del sistema di produzione capitalistico basato sullo sfruttamento della popolazione, ridotta a semplice forza-lavoro, a vantaggio di una ristretta élite economica. b. L’avvento delle masse nella società contemporanea è collegabile alla diffusione di teorie politiche che tendono ad annullare le differenze e le singolarità individuali a vantaggio del “senso comune”.

PARTITI E IDEOLOGIE La progressiva affermazione di nuove forme organizzative e di nuove modalità di azione politica tese a coinvolgere le masse popolari era strettamente legata all’emergere di movimenti che non si riconoscevano, o si riconoscevano solo in parte, nei partiti politici ottocenteschi. Protagonisti di questo processo, che conobbe una forte accelerazione tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, furono i movimenti di ispirazione socialista e quelli di matrice cattolico-sociale, diversissimi e reciprocamente ostili, ma convergenti nel tentativo di offrire un’alternativa globale alle istituzioni e ai valori nati dalle cosiddette “rivoluzioni borghesi”. I primi brani di questa sezione ripercorrono la vicenda del movimento operaio, dalla fondazione della Seconda Internazionale dei lavoratori (1889) fino alla vigilia del primo conflitto mondiale. Il programma di Erfurt [►7d] della socialdemocrazia tedesca, redatto nel 1891 da Karl Kautsky, esprime con chiarezza la piattaforma programmatica fatta propria dalla maggioranza del movimento operaio, in equilibrio fra le istanze rivoluzionarie del marxismo e l’azione riformatrice da condurre all’interno delle istituzioni. Pochi anni dopo, però, la corrente riformista del revisionismo, rappresentata da Eduard Bernstein [►8d], venne duramente criticata dalla militante socialista polacca naturalizzata tedesca Rosa Luxemburg [►9d]. La strategia rivoluzionaria fondata sul mito dello sciopero generale è descritta, invece, nel brano – tratto da un celebre scritto del 1908 – di Georges Sorel [►10d], pensatore isolato, ma che influenzò gli intellettuali di diverse sponde politiche. All’estrema sinistra del movimento operaio europeo si collocava invece Vladimir Il’icˇ Ul’janov, più noto col nome di battaglia di Nikolaj Lenin [►11d], capo dell’ala “bolscevica” (maggioritaria) della socialdemocrazia russa. L’estendersi dei processi di secolarizzazione e i nuovi conflitti sociali sollevarono un forte dibattito, oltre che nel mondo socialista, anche all’interno del mondo cattolico, sempre più preoccupato di trovare una risposta alle nuove sfide della modernità. In questo contesto, ebbe un’importanza cruciale l’enciclica Rerum novarum [►12d], che dettò le linee direttive per l’azione dei cattolici in campo sociale. Le sue conseguenze sull’operato del cattolicesimo sociale sono qui descritte dallo storico Pietro Scoppola [►13]. Anche in Italia, le nuove forze politiche e sociali di ispirazione socialista e cattolica assunsero il carattere di movimenti di massa, espressione di culture alternative a quelle su cui si era sino ad allora fondato lo Stato liberale. L’organizzazione, l’azione politica e le culture dei due movimenti sono analizzate dal sociologo Giordano Sivini [►14] nell’ultimo brano della sezione.



7d IL PROGRAMMA DI ERFURT

Antologia del pensiero socialista, vol. II, Marxismo e anarchismo, a c. di A. Salsano, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 392-95.

Il 14 ottobre 1891 il congresso del Partito socialdemocratico tedesco, riunito a Erfurt, approvò un documento programmatico redatto da Karl Kautsky (1854-1938), discepolo di Engels e destinato a diventare da allora il principale teorico del partito. Il programma, oltre ad accettare il marxismo come Lo sviluppo economico della società borghese conduce in modo naturalmente necessario alla dissoluzione della piccola impresa fondata sulla proprietà dei mezzi di produzione da parte del lavoratore. Questo sviluppo separa il lavoratore dai suoi mezzi di produzione e lo trasforma in un proletario nullatenente, mentre i mezzi di produzione divengono monopolio di un numero relativamente ristretto di capitalisti e di grandi proprietari terrieri. [...] Per il proletariato e per gli strati intermedi in decadenza – piccoli borghesi, contadini – essa significa un aumento crescente

dottrina ufficiale, conteneva anche un dettagliato elenco di rivendicazioni concrete, finalizzate al miglioramento della condizione operaia e anche alla democratizzazione della società e delle istituzioni. Questa compresenza di istanze diverse caratterizzò le componenti maggioritarie del socialismo europeo fino al primo conflitto mondiale e oltre.

dell’insicurezza della propria esistenza, della miseria, dell’oppressione, della servitù, dell’umiliazione, dello sfruttamento. [...] Solo la trasformazione della proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione – terre, miniere, materie prime, utensili, macchine, mezzi di trasporto – in proprietà sociale e la trasformazione della produzione di merci in produzione socialista gestita per e dalla società, può far sì che la grande azienda e la capacità produttiva sempre crescente del lavoro sociale diventi per le classi fino ad oggi

sfruttate da fonte di miseria e di oppressione fonte di massimo benessere e di universale, armonico perfezionamento. [...] Ma essa può essere solo opera della classe operaia [...]. La lotta di classe operaia contro lo sfruttamento capitalistico è necessariamente una lotta politica. La classe operaia non può condurre le sue lotte economiche e sviluppare la propria organizzazione economica senza diritti politici. Non può ottenere il passaggio dei mezzi di produzione al possesso della collettività senza essere entrata in possesso del potere politico.

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FARESTORIA Partiti e ideologie

Compito del Partito socialdemocratico è di dare un carattere cosciente e unitario a questa lotta della classe operaia e di indicarle la sua meta necessaria per legge naturale. [...] Partendo da questi princìpi il Partito socialdemocratico tedesco richiede innanzitutto: 1. Suffragio universale ed uguale con votazione segreta per tutti i cittadini dell’Impero superiori ai vent’anni, senza differenza di sesso, per tutte le elezioni e votazioni. Sistema elettivo proporzionale1 [...]. Compenso per i rappresentanti eletti. [...] 4. Abolizione di tutte le leggi che limitano od opprimono la libertà di espressione e il diritto di riunione ed associazione. 5. Abolizione di tutte le leggi che danneggiano la donna nei rapporti di diritti pubblico e privato nei confronti nell’uomo. 6. Dichiarazione della religione come questione privata. [...] 7. Universalità della scuola. Frequenza



obbligatoria delle scuole popolari pubbliche. Gratuità dell’insegnamento, dei mezzi didattici e del vitto nelle scuole popolari pubbliche [...]. 9. Gratuità delle prestazioni mediche inclusa l’assistenza di parto e medicinali. Gratuità dei funerali. 10. Tasse progressive sul reddito e sulla proprietà2 per la copertura di tutte le spese pubbliche fin dove debbano essere coperte dalle tasse. [...] Tassa di successione progressiva secondo le dimensioni dell’eredità e secondo il grado di parentela. [...] Il Partito socialdemocratico tedesco esige inoltre a protezione della classe operaia: 1. Una legislazione di protezione del lavoro efficace sul piano nazionale e internazionale sulle seguenti basi: a) Determinazione di una giornata lavorativa normale al massimo di 8 ore. b) Divieto di attività lavorativa per i bambini sotto i 14 anni. c) Divieto del lavoro notturno eccetto che nei rami industriali che, per il loro carat-

8d EDUARD BERNSTEIN IL REVISIONISMO

E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 3-7.

Negli ultimi anni dell’800, Eduard Bernstein (1850-1932), dirigente del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), suscitò un acceso dibattito nel movimento operaio internazionale, prima con una serie di articoli apparsi nel ’98 sul quotidiano «Die Neue Zeit», poi col volume I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899) [►1_5]. In quegli scritti, Bernstein proponeva una “revisione”

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Io mi sono opposto all’idea che noi siamo alla vigilia di un imminente crollo della società borghese, e che la socialdemocrazia debba definire, e quindi far dipendere la sua tattica dalla prospettiva di una tale imminente catastrofe sociale generale. [...] La prognosi che il Manifesto comunista fa dello sviluppo della società moderna era esatta nella misura in cui delineava le tendenze generali di questo sviluppo. Ma sbagliava a proposito di varie conseguenze particolari, e prima di tutto nella valutazione del tempo che lo sviluppo avrebbe richiesto. [...] Dal punto di vista politico noi vediamo che i privilegi della borghesia capitalistica, in tutti i paesi progrediti, cedono gradualmente il passo a istituzioni democratiche. Sotto l’influenza di queste e sotto la

U1 L’ALBA DEL ’900

tere, richiedano il lavoro notturno per ragioni tecniche oppure per ragioni di sicurezza. d) Una pausa di riposo ininterrotta di almeno 36 ore per ogni settimana per ogni lavoratore. 1. Sistema elettorale che assegna i seggi in base alla reale proporzione dei voti ricevuti da ogni lista. 2. Sistema di tassazione nel quale si tassano in percentuale superiore i redditi e le proprietà più consistenti. METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia le conseguenze dello sviluppo economico della società borghese su proletari e piccoli borghesi e sottolinea la proposta presente nel documento per ovviare a queste conseguenze.  b   Spiega per iscritto perché la lotta di classe è necessariamente politica, qual è il ruolo assunto dal partito socialdemocratico e quali le sue richieste.  c   Spiega che tipo di documento è questo e per quale motivo è stato scritto.

della dottrina marxista, negando che la sola possibilità per la classe operaia di giungere al potere fosse la via rivoluzionaria e sostenendo, invece, una pratica politica più graduale, basata sulle riforme economiche e sulla progressiva democratizzazione dello Stato. Le tesi revisioniste furono però ufficialmente condannate sia dalla Spd, sia dall’Internazionale socialista [►FS, 9d]. È qui riportata parte di una lettera indirizzata, nell’ottobre 1898, al congresso socialdemocratico di Stoccarda, in cui Bernstein sintetizza e difende le sue posizioni.

spinta dell’agitazione sempre più vigorosa del movimento operaio si è prodotta una reazione sociale contro le tendenze sfruttatrici del capitale [...]. La legislazione di fabbrica, la democratizzazione delle amministrazioni comunali e l’estensione delle loro competenze, la liberazione dei sindacati e delle cooperative da tutte le pastoie legali, la consultazione permanente delle organizzazioni operaie da parte delle pubbliche autorità negli appalti dei lavori – tutto ciò caratterizza l’attuale livello dello sviluppo. [...] Ma quanto più le istituzioni politiche delle nazioni moderne vengono democratizzate, tanto più si riducono le necessità e le occasioni di grandi catastrofi politiche. [...] Ma la conquista del potere politico da parte del proletariato significa semplicemente

che la conquista di questo potere passa attraverso una catastrofe politica? [...] A chi risponde affermativamente, vogliamo rammentare [che] [...] nel 1895 Engels1, nella prefazione alle Lotte di classe ha dettagliatamente spiegato che il tempo dei colpi politici a sorpresa, delle «rivoluzioni condotte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti» è oggi passato [...]. E, conseguentemente, egli indica come compito immediato del partito «mantenere ininterrotto il ritmo d’aumento dei suoi voti» – ossia un «lento

1. Friedrich Engels (1820-1895), filosofo ed economista tedesco, fondatore insieme a Karl Marx della dottrina comunista.

lavoro di propaganda e l’attività parlamentare». [...] Se si sottoscrivono le sue argomentazioni, nessuno avrà allora il diritto di scandalizzarsi quando io affermo che per molto tempo ancora il compito della socialdemocrazia [...] è quello di «organizzare politicamente la classe operaia e formarla alla democrazia, e di lottare per tutte quelle riforme politiche che sono adatte ad elevare la classe operaia e a trasformare il sistema politico nel senso della democrazia». [...] A mio giudizio, ai fini di un successo duraturo c’è più garanzia nell’avanzamento costante che non nelle possibilità offerte da una catastrofe.

E poiché sono fermamente convinto che esistono epoche importanti nell’evoluzione dei popoli che non è possibile saltare, io attribuisco il massimo valore ai compiti immediati della socialdemocrazia, cioè alla lotta per i diritti politici dei lavoratori, alla agitazione politica dei lavoratori, nella città e nel comune, per gli interessi della loro classe, all’opera di organizzazione economica dei lavoratori. [...] La conquista del potere politico da parte della classe operaia e l’espropriazione dei capitalisti non sono, in se stesse, obiettivi finali, ma soltanto mezzi per realizzare determinati obiettivi e aspirazioni. [...] Ma per conquistare il potere politico occor-

9d ROSA LUXEMBURG RIFORMA SOCIALE O RIVOLUZIONE?



R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Prospettiva Edizioni, Roma 1996, pp. 13-18; 43-47; 50-51.

Tra i principali oppositori delle teorie revisioniste di Bernstein si schierò Rosa Luxemburg (1871-1919). Nata in Polonia, Il titolo del presente scritto può a tutta prima sorprendere. Riforma sociale o rivoluzione? La socialdemocrazia può dunque essere contro la riforma sociale? O può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale? Sicuramente no. Per la socialdemocrazia, lottare giorno dopo giorno anche all’interno del sistema esistente per delle riforme sociali, per il miglioramento della condizione dei lavoratori, per delle istituzioni democratiche, costituisce la sola maniera per condurre la lotta di classe proletaria e per lavorare verso lo scopo finale, che è la presa del potere politico e l’abolizione del sistema salariale. Fra riforma sociale e rivoluzione la socialdemocrazia vede un nesso indissolubile: la lotta per le riforme è il mezzo e la rivoluzione sociale lo scopo. Questi due aspetti del movimento operaio noi li troviamo contrapposti per la prima volta nelle tesi di E. Bernstein come egli le ha esposte nei suoi articoli «Problemi del socialismo» nella Neue Zeit 1897-98 o ancora nel suo libro intitolato [...] I Presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Tutta questa teoria porta ad una sola conclu-

rono i diritti politici, e perciò l’importante problema di tattica che la socialdemocrazia tedesca deve oggi risolvere mi sembra essere quello del miglior modo di allargare i diritti politici e professionali dei lavoratori tedeschi. Se non si trova una risposta soddisfacente a questo problema, accentuarne altri sarebbe, alla fine, pura declamazione. METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea quelle che secondo Bernstein sono le caratteristiche del coevo livello dello sviluppo.  b   Spiega per iscritto qual è, secondo l’autore, il compito della socialdemocrazia e quali i problemi che questa deve risolvere.

ma attiva soprattutto in Germania, teorica del socialismo rivoluzionario e destinata ad avere un ruolo cruciale nelle vicende politiche tedesche successive alla prima guerra mondiale, Luxemburg evidenzia in questo articolo i punti di contrasto tra la dottrina del Partito socialdemocratico tedesco e le teorie revisioniste espresse da Bernstein [►FS, 8d].

sione: rinunciare alla rivoluzione sociale, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un semplice mezzo della lotta di classe. [...] Queste considerazioni hanno delle conseguenze generali per la lotta pratica della socialdemocrazia; secondo Bernstein, essa non deve aspirare alla conquista del potere politico, ma al miglioramento della situazione della classe operaia e all’instaurazione del socialismo non attraverso una crisi sociale e politica, bensì estendendo progressivamente il controllo sociale ed attuando gradualmente un sistema di cooperative. [...] I fenomeni indicati da Bernstein come mezzi del capitalismo di adattamento – i cartelli, il credito, il perfezionamento dei mezzi di comunicazione, l’elevamento della classe operaia – significano soltanto che essi eliminano o per lo meno attenuano le contraddizioni interne dell’economia capitalistica impedendone lo sviluppo e l’inasprimento. [...] Ora, se i cartelli, il credito, i sindacati, ecc. sopprimono le contraddizioni capitalistiche, e quindi salvano dalla rovina il sistema capitalistico, – e perciò Bernstein li chiama «mezzi di adattamento» – come possono

rappresentare al tempo stesso «premesse e persino prodromi» del socialismo? [...] Ma come appare la teoria tradotta in pratica? [...] Prescindiamo dal miglioramento immediato della situazione degli operai, poiché è obiettivo comune a entrambe le concezioni, quella del Partito e quella del revisionismo, la differenza tra le due può essere riassunta in poche parole: secondo la concezione corrente il significato socialista della lotta sindacale e politica sta nel fatto che essa prepara il proletariato, cioè il fattore soggettivo della trasformazione socialista, a realizzare questa trasformazione. Secondo Bernstein la lotta sindacale e la lotta politica hanno il compito di limitare gradualmente lo sfruttamento capitalista, di togliere sempre più alla società capitalista il suo carattere capitalista a favore di quello socialista: in una parola realizzare obiettivamente la trasformazione socialista della società. [...] La concezione di Bernstein parte dalla premessa dell’impossibilità di conquistare il potere, per richiedere l’instaurazione del socialismo per mezzo solo della lotta sindacale e politica. [....] È chiaro che il revisionismo non difende le posizioni capitaliste e non ne nega,

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FARESTORIA Partiti e ideologie

come fanno gli economisti borghesi, le contraddizioni. [...] La teoria si colloca nel mezzo tra questi due poli estremi. Non vuole portare a completa maturità le contraddizioni capitalistiche e, quand’esse hanno raggiunto il culmine, sopprimerle con un rivolgimento rivo-

luzionario della situazione; le vuole attenuare, smussarle. [...] Si può dunque definire e riassumere la teoria revisionista con queste parole: è una teoria del ristagno del socialismo fondata sulla teoria dell’economia volgare del ristagno del capitalismo.

10d GEORGES SOREL IL MITO DELLO SCIOPERO GENERALE

G. Sorel, Scritti politici, a c. di R. Vivarelli, Utet, Torino 1963, pp. 205-13.

Prima di essere una teoria organica, il sindacalismo rivoluzionario fu un metodo di lotta fondato sulla centralità dello sciopero e sulla svalutazione dell’azione politica, adottato da quei movimenti sindacali, soprattutto della Francia e in genere dei paesi latini, in cui più forte era la componente anarchica e sovversiva. Fu Georges Sorel (1847-1922), un

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Di fronte a questo socialismo rumoroso, ciarliero e mentitore, che è sfruttato dagli ambiziosi di ogni risma, [...] si leva il sindacalismo rivoluzionario che, al contrario, si sforza di non lasciare niente di indeciso [...]. Invece di attenuare le opposizioni bisognerà, per seguire l’orientamento sindacalista, metterle in rilievo [...]. Per produrre in modo certo tali risultati il linguaggio non potrebbe bastare; bisogna fare appello a degli insiemi di immagini capaci di evocare in blocco e per mezzo della sola intuizione, prima di ogni analisi ponderata, la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna. I sindacalisti risolvono tale problema in modo perfetto concentrando tutto il socialismo nel dramma dello sciopero generale; in tal modo non vi è più posto alcuno per la conciliazione degli opposti negli artifici verbali dei sapienti ufficiali [...]. Io dò poca importanza alle obiezioni che vengono rivolte allo sciopero generale basandosi su considerazioni di ordine pratico [...]. Bisogna giudicare i miti come mezzi per agire sul presente; ogni discussione sul modo di applicarli materialmente sul corso della storia è priva di senso. È l’insieme del mito quello solo che conta; le sue parti non offrono interesse che per il rilievo che dànno all’idea che è contenuta nella sua costruzione. Non

U1 L’ALBA DEL ’900

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia la frase che meglio risponde alla domanda del titolo.  b   Leggi con attenzione i contenuti delle teorie di Bernstein e rendili riconoscibili attraverso dei titoletti che scriverai al lato del testo.  c   Sottolinea le posizioni revisioniste riportate e sintetizzale per iscritto.

pensatore francese lontano dall’impegno diretto nel movimento operaio, a porre la prassi sindacalista al centro di un’originale concezione politica e filosofica che si collegava alle più vivaci correnti del pensiero antipositivista del primo ’900 [►1_5 e 1_9]. Nelle pagine che seguono, tratte dalle sue Riflessioni sulla violenza (1908), Sorel attacca il riformismo socialdemocratico ed esalta lo sciopero generale come strumento essenziale della lotta di classe, ma soprattutto come “mito” capace di mobilitare le masse, a prescindere dai suoi esiti concreti.

è quindi di alcuna utilità ragionare sugli incidenti che si possono produrre nel corso della guerra sociale e sui conflitti decisivi che possono dare la vittoria al proletariato; anche se i rivoluzionari si ingannassero, nel modo più completo, immaginandosi un quadro fantastico dello sciopero generale, questo quadro, durante la preparazione rivoluzionaria, potrebbe essere un elemento di forza di prim’ordine, se ha compreso in modo perfetto tutte le aspirazioni del socialismo, e se ha dato all’insieme dei pensieri rivoluzionari una precisione e una rigidità che nessun altro modo di pensare avrebbe potuto dare loro. [...] Dobbiamo interrogare gli uomini che prendono parte del tutto attiva nel movimento veramente rivoluzionario in seno al proletariato, che non aspirano affatto a diventare borghesi e il cui spirito non è dominato da pregiudizi corporativi. Questi uomini possono ingannarsi su di una infinità di questioni politiche, economiche, o di morale; ma la loro testimonianza è decisiva, sovrana e non suscettibile di riforme quando si tratta di sapere quali sono le immagini che agiscono più efficacemente su di loro e sui loro compagni, che possiedono al più alto grado la facoltà di identificarsi con la loro concezione socialista, e in virtù delle quali la ragione, le speranze e la percezione dei fatti particolari sembrano formare una unità indivisibile. Grazie ad essi noi sappiamo che lo scio-

pero generale è proprio ciò che ho detto: il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo, cioè a dire una organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna. Gli scioperi hanno fatto nascere nel proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più stimolanti all’azione che esso possiede; lo sciopero generale li raggruppa tutti in un quadro di insieme e, con il loro raccostamento, dona a ciascuno di essi la sua massima intensità; facendo appello ai ricordi assai scottanti dei conflitti particolari, esso colora di luce intensa tutti i particolari della composizione che si presenta alla coscienza. Otteniamo in tal modo quella intuizione del socialismo che il linguaggio non è in grado di rendere in maniera perfettamente chiara, e otteniamo ciò in un insieme che è percepito all’istante.

METODO DI STUDIO

 a   Cerchia nel testo l’ideologia e prassi politica contro cui polemizza Sorel.  b   Spiega per iscritto in cosa consisteva il «mito» dello sciopero generale, in che modo, secondo l’autore, ne andava valutata l’efficacia e perché, attraverso lo sciopero generale, era possibile ottenere l’istantanea «intuizione del socialismo».

11d NIKOLAJ LENIN SOVIET DEGLI OPERAI O PARTITO?



N. Lenin, I nostri compiti e il soviet, in Id., Opere complete, X, Novembre 1905 - Giugno 1906, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 11-14.

Nel contesto caratterizzato dall’emergere della società di massa, i partiti socialisti dovettero affrontare la necessità di darsi delle nuove forme organizzative. Questa esigenza si 2-4 novembre (15-17) 19051 Compagni, la questione dell’importanza e della funzione del soviet dei deputati operai si pone oggi all’ordine del giorno della socialdemocrazia pietroburghese e di tutto il proletario della capitale. [...] Mi sembra che il compagno Radin abbia torto a domandarsi [...] soviet degli operai o partito? Mi sembra che non sia possibile impostare così il problema, che la soluzione debba assolutamente essere: e il soviet dei deputati operai e il partito. La questione – pur molto importante – consiste soltanto nel distinguere e nel collegare i compiti del soviet e quelli del Partito operaio socialdemocratico di Russia. Io penso che sarebbe sbagliato che il soviet si legasse interamente a un solo partito, quale che sia. [...] Il soviet dei deputati operai è nato da uno sciopero generale, in occasione di uno sciopero e per i suoi obiettivi. Chi ha diretto, chi ha condotto alla vittoria questo sciopero? Tutto il proletariato, nelle cui file vi sono, in minoranza per fortuna, anche operai non socialdemocratici. Quali obiettivi si prefiggeva lo sciopero? Obiettivi economici e politici a un tempo. Quelli economici riguardavano tutto il proletariato, tutti gli operai, in parte persino tutti i lavoratori, e non solo gli operai salariati. Gli obiettivi politici riguardavano tutto il popolo o, meglio, tutti i popoli della Russia. Essi consistevano nell’emancipazione di tutti i popoli della Russia dal giogo dell’autocrazia, dalla servitù feudale, dalla mancanza di diritti, dall’arbitrio poliziesco. Procediamo. Doveva il proletariato continuare la sua lotta economica? Senza dub-



avvertì soprattutto nell’Impero zarista, dove il tentativo rivoluzionario del 1905 [►2_6] aveva visto l’emergere dei soviet, cioè di consigli che riunivano i lavoratori impegnati nella lotta. In questo articolo del novembre 1905, Nikolaj Lenin (1870-1924), leader della corrente rivoluzionaria all’interno del Partito operaio socialdemocratico russo [►1_5], si interroga su quale rapporto stabilire tra il soviet, vero e proprio organismo di massa, e il partito.

bio [...]. Bisognava combattere questa battaglia con i soli socialdemocratici o sotto la sola bandiera socialdemocratica? Non lo credo, e [...] penso cioè che sia sbagliato limitare l’adesione ai sindacati e la partecipazione alla lotta rivendicativa, economica, ai soli iscritti al partito socialdemocratico. Mi sembra che il soviet dei deputati operai, in quanto organizzazione sindacale, debba tendere a includere nelle proprie file i deputati eletti da tutti gli operai, gli impiegati, i domestici, i braccianti, ecc., da tutti coloro che vogliono e possono combattere insieme per migliorare l’esistenza del popolo lavoratore, da tutti coloro che posseggono la più elementare lealtà politica, da tutti tranne che dai centoneri2. Noi socialdemocratici, dal nostro canto, ci sforzeremo anzitutto di far entrare tutti (nei limiti del possibile) i membri di tutte le nostre organizzazioni di partito in tutti i sindacati; e, inoltre, cercheremo di utilizzare la lotta, combattuta in comune con i compagni proletari senza distinzione di opinioni, per diffondere con tenacia e fermezza l’unica concezione del mondo conseguente e realmente proletaria: il marxismo. [...] Ogni progresso della lotta proletaria, fuso inscindibilmente con la nostra azione socialdemocratica, sistematica e organizzata, farà accostare sempre le masse della classe operaia russa alla socialdemocrazia. [...] A costo di sbalordire i lettori, devo tuttavia affermare subito che mi sembra sbagliato pretendere dal soviet dei deputati operai l’accettazione del programma socialdemocratico e l’adesione al Partito operaio socialdemocratico di Russia. Io credo che nella direzione della lotta politica siano

allo stesso titolo assolutamente indispensabili oggi sia il soviet [...] che il partito. Sbaglierò forse, ma credo [...] che sul piano politico il soviet dei deputati operai debba essere considerato come un governo rivoluzionario provvisorio in embrione. Credo che il soviet debba proclamarsi al più presto governo rivoluzionario provvisorio di tutta la Russia o creare (che è lo stesso, anche se in forma diversa) un governo rivoluzionario provvisorio. [...] Abbiamo sempre sostenuto che è necessaria un’alleanza di lotta tra i socialdemocratici e i democratici rivoluzionari borghesi. Noi ne abbiamo parlato, e gli operai l’hanno realizzata. E hanno fatto bene. [...] Il soviet è un’organizzazione di lotta e tale deve essere. Sarebbe assurdo e pazzesco respingere i democratici rivoluzionari devoti e onesti nel momento stesso in cui si realizza la rivoluzione democratica. 1. Il calendario giuliano, allora in vigore in Russia e abolito – in seguito alla rivoluzione bolscevica – nel febbraio 1918, ha un ritardo di tredici giorni su quello gregoriano, in vigore nel mondo occidentale. 2. L’organizzazione Centurie nere era un’organizzazione reazionaria, zarista e tradizionalista ortodossa. METODO DI STUDIO

 a   Individua le domande nel discorso di Lenin ed evidenziale con colori diversi. Quindi sottolinea la relativa risposta e le osservazioni principali fatte dall’autore mantenendo gli stessi colori.  b   Individua da tre a cinque parole chiave per definire l’essenza e il ruolo dei soviet e altre tre-cinque per definire il partito. Quindi argomenta la tua scelta per iscritto.

12d RERUM NOVARUM

Tutte le encicliche dei sommi pontefici, a c. di E. Momigliano e G.M. Casolari, Dall’Oglio, Milano 1979, vol. I, pp. 433-55.

L’enciclica Rerum novarum, emanata dal pontefice Leone XIII nel maggio 1891, costituisce il documento teorico più compiuto della Chiesa di fronte ai problemi posti dall’industrializzazione e dall’acuirsi dello scontro sociale in tutti i maggiori

paesi europei [►1_7]. Con la Rerum novarum la Chiesa ribadiva la condanna tanto dell’individualismo liberale quanto delle dottrine socialiste. Si incoraggiava, anzi, a contrastare l’egemonia delle idee e delle iniziative socialiste attraverso la formazione di un movimento sociale cattolico basato sull’associazionismo.

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FARESTORIA Partiti e ideologie

I portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi in poche mani accumulata la ricchezza, e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima: questo insieme di cose e i peggiorati costumi han fatto scoppiare il conflitto. [...] Comunque sia, egli è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, essere di estrema necessità venir senza indugio con opportuni provvedimenti in aiuto dei proletarî, che per la maggior parte trovansi indegnamente ridotti ad assai misere condizioni. [...] A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimonî un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato. [...] Ma questa via, anziché risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai: ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietarî, altera le competenze e gli officî dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale. [...] Certamente la soluzione di sì arduo problema1 richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche di altri: vogliam dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, ed eziandio2 degli stessi proletarî, che vi sono direttamente interessati: ma senza



esitazione alcuna affermiamo che, ove si prescinda dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi torneranno vani. [...] Tutto l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletarî, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri [...]. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera3, che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento [...]. Dei capitalisti poi e dei padroni sono questi i doveri: non tenere gli operai in luogo di schiavi; rispettare in essi la dignità dell’umana persona, nobilitata dal carattere cristiano. [...] Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede4. [...] Tuttavia debbono i governanti tutelare la società e le sue parti. [...] Laonde se per ammutinamenti o per scioperi degli operai si temano disordini pubblici; se tra i proletarî sieno sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia, se la religione non sia rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; [...] se dai padroni venga oppressa con patti contrari alla personalità e dignità umana la classe lavoratrice; se con lavoro soverchio5 o non conveniente

13 P. SCOPPOLA IL CATTOLICESIMO SOCIALE

P. Scoppola, Chiesa e democrazia in Europa e in Italia, in Storia della Chiesa, vol. XXII, 1, La Chiesa e la società industriale (1878-1922), a c. di E. Guerriero e A. Zambarbieri, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp. 213-19.

In queste pagine, Pietro Scoppola (1926-2007), fra i più autorevoli storici del movimento cattolico italiano, traccia un quadro sintetico dello sviluppo del cattolicesimo sociale

100

Le origini del movimento cattolico sociale sono ben anteriori alla Rerum novarum e al magistero di Leone XIII, ma proprio in forza di tale magistero esso acquista un rilievo nuovo e il carattere, per così dire, di una posizione ufficiale della Chiesa. Il nome stesso «cattolicesimo sociale» si

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al sesso e all’età si rechi nocumento alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. [...] Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare condizione onestamente senza far torto a persona; tuttavia ve ne ha non pochi, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, che cercano ad ogni costo eccitare tumulti e sospingere agli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato, e posto freno ai sommovitori, preservi i buoni operai dal pericolo della sedizione, i legittimi padroni da quello dello spogliamento. 1. Migliorare, cioè, le sorti delle classi lavoratrici. 2. Anche. 3. Il lavoro. 4. Paga. 5. Eccessivo. METODO DI STUDIO

 a   Spiega chi è l’autore, quali obiettivi si prefiggeva e di che tipo di documento si tratta.  b   Indica in che modo l’enciclica papale spiega le origini del conflitto sociale.  c   Sottolinea i giudizi sul socialismo e sul sindacalismo contenuti nel documento.  d   Quali princìpi dovrebbero tenere in equilibrio i rapporti sociali secondo il documento? Quali i compiti delle diverse figure sociali? Prima di rispondere per iscritto individua ed evidenzia nel testo alcune parole chiave che possano farti da guida.

in Europa all’indomani della Rerum novarum [►FS, 12d]. Scoppola sottolinea soprattutto come l’enciclica di Leone XIII, pur non rinnegando gli ideali di ispirazione corporativa prevalenti nel mondo cattolico, fece cadere, o quanto meno indebolì, le resistenze che si opponevano allo sviluppo di vere e proprie associazioni sindacali d’ispirazione cattolica.

diffonde dopo la Rerum novarum per riaffermare la socialità come riflesso esterno del cattolicesimo o [...] come risposta [...] scaturente dall’intima essenza del cattolicesimo ad una realtà nuova quale quella creata dal problema operaio sorto con il processo di industrializzazione.

È giusto tuttavia sottolineare che lo sviluppo delle idee dice ben poco di quello che è stato realmente il cattolicesimo sociale: la forza e l’incidenza storica del movimento sono da ricercarsi nella somma innumerevole di iniziative assunte, che hanno profon-

damente segnato il volto della società del ’900. Di fronte ad un cattolicesimo sociale inteso come espressione necessaria dell’etica cristiana non sarebbero dovuti sorgere dissensi fra i cattolici. Ma i cattolici, sostanzialmente uniti sul motivo dell’importanza etica della questione sociale, si sarebbero di fatto trovati divisi nella scelta dei mezzi per affrontarla. Notevoli resistenze anzitutto suscitò l’idea stessa che la questione sociale avesse un rilievo pubblico e potesse essere oggetto dell’intervento dello Stato: a tale idea si opponevano quanti [...] vedevano ancora come unico correttivo alle condizioni della classe operaia un’azione diretta al rinnovamento morale della società, o temevano che le interferenze dello Stato nel campo dell’economia riconducessero ad una situazione analoga a quella dell’antico regime. [...] Un altro motivo di dibattito, particolarmente significativo, fu offerto dalla scelta fra associazioni miste di datori di lavoro e operai e associazioni semplici di soli operai o di soli datori di lavoro: come si è visto, la Rerum novarum, pur manifestando una preferenza per la prima formula, non aveva escluso la seconda. [...] Dopo l’enciclica, l’orientamento favorevole alle associazioni di soli lavoratori tende gradualmente a prevalere; l’ideale corporativo o è abbandonato o viene concepito progressivamente come una tesi di valore ideale non suscettibile di immediata realizzazione. Quest’ultima posizione fu assunta in Italia da Giuseppe Toniolo, il maggiore rappresentante forse, sul piano del pensiero, del cattolicesimo sociale di ispirazione leoniana. [...] Toniolo fu tra i più convinti e tenaci fautori del rinnovamento sociale auspicato da Leone XIII. Nel 1889 aveva fondato a Padova l’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia, che divenne via via indispensabile complemento della seconda sezione dell’Opera dei congressi1. [...] In un’assemblea tenuta a Milano all’inizio del 1894 essa approvò, su proposta del Toniolo, un Programma dei cattolici di fronte al socialismo (noto come Programma di Milano), destinato a rappresentare la base di molte successive dichiarazioni programmatiche dei cattolici in campo sociale, anche a distanza di decenni. Al Programma di Milano aderì la stessa Opera dei congressi,

nelle cui file peraltro la tendenza corporativa antisindacale rimase assai forte, essendo appoggiata dal presidente stesso dell’Opera Giovan Battista Paganuzzi [...]. Dopo lo scioglimento dell’Opera dei congressi, l’orientamento sindacale può dirsi prevalente in Italia: esso ispira di fatto in larga misura l’azione dell’Unione economico-sociale, sorta nel 1906 in sostituzione della seconda sezione dell’Opera dei congressi [...]; nel 1908 sorgono le prime federazioni nazionali di categoria. [...] In Francia, dopo la Rerum novarum, le migliori energie dei cattolici furono assorbite, come si vedrà, dal movimento della democrazia cristiana: il sindacalismo cattolico, che si era manifestato già prima dell’enciclica, non ebbe grandi sviluppi sino alla prima guerra mondiale anche per la forte concorrenza della Cgt2, per la riluttanza del clero e degli imprenditori cattolici. [...] In Germania, Austria, Olanda e Svizzera lo sviluppo vigoroso del sindacalismo cattolico dopo l’enciclica pose presto a fuoco un altro motivo di contrasto in seno al cattolicesimo sociale: quello della confessionalità o meno del sindacato. L’aconfessionalità del sindacato intaccava la possibilità stessa da parte dell’autorità ecclesiastica di svolgere la sua funzione di guida e di indirizzo. In Francia il sindacato confessionale era criticato da quanti [...] vedevano in esso un elemento di divisione della classe operaia e auspicavano l’unione di tutti i lavoratori, anche cattolici, nella Cgt. Il dibattito si invelenì nel clima della polemica sul modernismo, in quanto gli integristi accusavano i fautori della aconfessionalità di voler attentare alla disciplina ecclesiastica. Il papa stesso, Pio X, intervenne nel dibattito con l’enciclica Singulari quadam del 24 settembre 1912 nella quale prendeva nettamente posizione a favore delle associazioni confessionali, pur consentendo, ove le circostanze lo consigliassero per la più efficace difesa degli interessi operai, la federazione di sindacati cattolici e acattolici in «cartelli» e consentendo altresì che i vescovi «tollerassero» la presenza dei cattolici nei «cosiddetti sindacati cristiani», cioè interconfessionali; in tal caso però l’enciclica prescriveva una serie di precauzioni a difesa della fede dei cattolici e in particolare quella della loro partecipa-

zione ad un’associazione di formazione religiosa. Il problema della confessionalità non si pose neppure nei paesi anglosassoni, dove i cattolici costituivano minoranze troppo esigue e dove il carattere eminentemente professionale delle Trade Unions non faceva sorgere preoccupazioni di tutela della fede religiosa. Contro l’evoluzione in senso sindacale del cattolicesimo sociale l’ultimo segno di resistenza si ebbe all’inizio del 1914 con il tentativo di ottenere da Pio X un’enciclica di condanna del principio stesso del sindacalismo. [...] Lo scoppio della prima guerra mondiale e la morte di Pio X fecero definitivamente tramontare l’idea di un intervento pontificio contro il sindacalismo cattolico, che riprenderà il suo sviluppo senza grosse novità, per quanto concerne le posizioni di pensiero, nel periodo fra le due guerre. 1. Associazione politico-religiosa di ispirazione cattolica, fondata nel 1874 con l’obiettivo di difendere gli interessi sociali e religiosi degli italiani e i diritti della Chiesa [►3_7 e FS, 14]. 2. La Confédération Générale du Travail, sindacato francese di orientamento socialista.

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia la definizione di «cattolicesimo sociale».  b   Individua i temi del dibattito interni al mondo cattolico dopo l’emanazione dell’enciclica Rerum novarum e rendili riconoscibili attraverso dei titoli che scriverai in corrispondenza del testo.  c   Cerchia i paesi europei citati e sottolinea i relativi orientamenti prevalenti.  d   Descrivi il modello di società e di Chiesa ascrivibile al cattolicesimo sociale.

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FARESTORIA Partiti e ideologie

14 G. SIVINI I MOVIMENTI DI MASSA: CULTURE E MODELLI ORGANIZZATIVI



che delle due nuove “subculture” socialista e cattolica: con questo termine si rappresenta l’insieme di modelli e valori comuni a singoli gruppi e diversi dalla cultura dominante. Sebbene all’interno degli stessi movimenti si registrassero diverse G. Sivini, Socialisti e cattolici in Italia dalla società allo Stato, in L’Italia giolittiana: la storia e la critica, a c. di E. Gentile, Laterza, forme di partecipazione politica e impegno sociale, questa Roma-Bari 1977, pp. 155-62. analisi delle strutture organizzative e operative dei socialisti La rapida crescita di socialisti e cattolici trasformò gli equilibri e dei cattolici consente di comprendere meglio i caratteri e politici dell’Italia liberale. In questo brano, il sociologo Gior- le trasformazioni del sistema politico italiano alla vigilia della dano Sivini (nato nel 1936) descrive le principali caratteristi- prima guerra mondiale. La subcultura socialista

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I pilastri della struttura di potere sociale sono le organizzazioni di mestiere, le camere del lavoro, le cooperative di produzione e di consumo, le casse rurali, le amministrazioni locali. Il movimento sindacale è caratterizzato da una profonda frammentazione, nonostante il processo di unificazione in atto nel primo decennio del ’900, che porta alla costituzione di federazioni nazionali di mestiere e poi della Confederazione generale del lavoro. [...] A livello territoriale le camere del lavoro a loro volta hanno gradi diversi di politicizzazione. Alcune mantengono ancora a lungo quel carattere di apoliticità che era loro proprio alle origini, quando le funzioni di difesa degli interessi dei lavoratori si esplicavano fondamentalmente attraverso il collocamento e l’arbitrato nei conflitti tra lavoro e capitale. Altre sono su posizioni di fiancheggiamento del socialismo e [...] presentano piattaforme di lotta sostanzialmente politiche, come politica è la identificazione della maggioranza degli iscritti. Ma l’orientamento è in qualche caso riformista, in qualche altro rivoluzionario. [...] Il controllo del comune permette in genere ai socialisti di disporre di uno strumento efficace per sostenere le organizzazioni operaie e le lotte dei lavoratori, sia appoggiandone le rivendicazioni presso il governo o il padronato, sia con il contributo finanziario agli scioperanti. Attraverso la politica fiscale il comune socialista allenta la pressione tributaria sulle categorie meno abbienti; attraverso la politica assistenziale si assume il compito di sovvenire alle necessità dei disoccupati e dei poveri, di istituire ricoveri, asili, ospedali, farmacie comunali. Dipendendo l’istruzione elementare dai comuni, i socialisti ne fanno uno dei capisaldi della loro politica amministrativa. Alle cooperative i comuni socialisti vanno incontro con aiuti finanziari e con l’assegnazione di appalti

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per opere pubbliche di interesse locale. Alle camere del lavoro, caposaldo delle organizzazioni sindacali, danno aiuti materiali; ad esse, tra l’altro, è riconosciuto il monopolio del collocamento al lavoro e il controllo dell’imponibile di manodopera1, due strumenti che servono in modo decisivo a legare larghe masse popolari all’organizzazione socialista. Non meno importante è, infine, il comune per il personale che può assumere e far assumere nelle aziende municipalizzate che, a seconda delle zone, coprono settori diversi (dalla produzione di energia elettrica alla panificazione) ma soprattutto relativi a servizi essenziali. Il numero delle amministrazioni locali conquistato dai socialisti va aumentando progressivamente nel periodo giolittiano. Nelle elezioni amministrative del 1914 il Psi ottiene il controllo di circa 400 comuni e di 4 amministrazioni provinciali [...]. L’importanza del «socialismo municipale» non sta tanto nelle realizzazioni specifiche, ma nelle capacità di usare il potere pubblico, nell’ambito dell’autonomia dell’ente locale, per estendere e consolidare il potere sociale locale del movimento socialista. [...] In questa prospettiva è indotta perciò ad usare il partito a fini corporativi, e a spingerlo sempre più nell’area dei benefici governativi. Il riformismo del Psi trova, nel periodo giolittiano, nelle subculture municipali emiliane le sue basi sociali più solide. Il sostegno risponde però ad esigenze del tutto particolaristiche, d’altronde in sintonia con le disponibilità giolittiane a soddisfarle, per non affrontare i problemi più generali. Fino al 1913, quando i braccianti agricoli ebbero accesso al suffragio politico, il governo procedette in questo settore solo con interventi specifici, dietro sollecitazione dei socialisti, in favore delle cooperative e delle leghe, e in particolare con una intensa politica di lavori pubblici nelle regioni centrali anziché in quelle più povere. [...]

La formazione del movimento cattolico Negli ambienti intransigenti si sente presto l’esigenza di unificare le iniziative cattoliche, e nel 1874 il laicato militante2 tiene a Venezia il suo I congresso, nomina un comitato nazionale permanente e, l’anno successivo, stabilisce di organizzarsi in comitati parrocchiali sotto la direzione dei parroci, facenti capo a comitati diocesani e poi a comitati regionali. È questa la struttura dell’Opera dei congressi3, che sul piano politico ribadisce l’astensione dei cattolici dalle consultazioni politiche, ma non da quelle amministrative4, e sul piano sociale prospetta l’opportunità di diffondere le società cattoliche di mutuo soccorso come uno tra i rimedi ai malanni sociali del paese. [...] Contro la «rivoluzione» liberale si pretende soprattutto di recuperare il corporativismo cattolico, conciliando gli interessi dei lavoratori e dei padroni. Permanendo questo orientamento il movimento ha un certo sviluppo soltanto presso quelle categorie di quelle zone in cui la crisi sociale prodotta dall’incipiente capitalismo è meno acuta. Una delle strutture associative fondamentali è l’unione professionale, che organizza insieme tutte le categorie agricole, si occupa di collocamento, di contrattazione delle condizioni di lavoro e di arbitrato; manca totalmente il momento rivendicativo. Questa struttura può reggere nelle campagne in cui prevalgono le categorie

1. Obbligo dei datori di lavoro di assumere un numero stabilito di lavoratori per un determinato numero di giornate lavorative in proporzione alle dimensioni dell’impresa. 2. I fedeli non sacerdoti impegnati in politica. 3. ►FS, 13, nota 1. 4. Con le elezioni politiche si designano i deputati per il Parlamento, con quelle amministrative i rappresentanti nelle giunte comunali e provinciali.

intermedie, sia per le relazioni di subordinazione personale dei piccoli proprietari con coloni, affittuari e salariati, sia per la continua presenza e intermediazione del parroco, sia perché accanto ad essa esistono altre strutture che offrono vantaggi specifici a proprietari e a lavoratori. Può reggere anche nelle zone della manifattura tradizionale, frammentata e strettamente collegata con l’agricoltura, con manodopera contadina, femminile e giovanile. Nell’industria non regge più, non solo per le difficoltà oggettive di mettere sullo stesso piano i molti operai e i pochi padroni, ma perché gli stessi lavoratori rifiutano, in una situazione in movimento, di farsi ingabbiare entro una organizzazione che mette al bando la lotta rivendicativa. Appena nel primo decennio del ’900 si va affermando la formula dell’unione semplice, dell’organizzazione sindacale dei soli lavoratori, che permette una più efficace penetrazione nel tessuto sociale subalterno. Tuttavia la distribuzione delle zone d’influenza tra movimento socialista e movimento cattolico è in larga misura già avvenuta. [...] Un’altra importante struttura del movimento cattolico è costituita dalle casse rurali, sorte nell’ultimo decennio dell’800 con lo scopo di organizzare in modo cooperativo il

credito agricolo e di sottrarre i contadini alle pratiche usurarie. I piccoli istituti di credito sono basati sulla mutua solidarietà dei soci, che rispondono ciascuno per la totalità dei debiti della cassa. [...] Da questa esperienza nascono, su un piano più vasto, numerose banche cattoliche, e società cattoliche di assicurazione. Nel complesso, attraverso il movimento cooperativo, la piccola borghesia rurale tende a difendersi dal capitalismo, portandosi a rimorchio le categorie più povere. Quando la cooperazione si salda con l’organizzazione sindacale e con il controllo dell’ente locale, tende anche qui a crearsi un’isola subculturale di tipo territoriale, che accentua l’importanza dei legami di tipo economico. Ma a differenza del caso socialista, il suo ripiegamento su posizioni corporative sembra corrispondere al recupero dei valori sociali tradizionali dei cattolici. [...] La struttura subculturale cattolica è diffusa nel Veneto e in alcune province della Lombardia (soprattutto Bergamo e Brescia). [...] All’inizio del nuovo secolo Bergamo offre il modello della più compiuta struttura subculturale cattolica: un intreccio di società di mutuo soccorso, casse rurali, unioni professionali, cucine economiche, società di mutua assicura-

zione, un istituto di credito, una rete di cooperative di produzione e per gli acquisti collettivi, un segretariato del popolo con compiti di assistenza individuale per pratiche di ogni tipo, il controllo dell’ente locale e di un ufficio municipale del lavoro, creato come specifico controaltare della camera del lavoro, ma con funzioni di rappresentanza corporativa della totalità dei membri di ogni categoria professionale, e diretto, in pari numero, da padroni e lavoratori. Come quello socialista, il movimento cattolico è quasi assente nell’Italia meridionale e nelle isole. METODO DI STUDIO

 a   Leggi il cappello introduttivo e numera i concetti che si riferiscono ai contenuti del brano. Quindi cerca questi ultimi e attribuisci loro lo stesso numero assegnato nel cappello introduttivo.  b   Spiega cosa è il “socialismo municipale” e in cosa consiste la sua importanza.  c   Spiega cosa è l’Opera dei congressi e quale è stato il suo ruolo nella vita politica italiana. Prima di procedere con la scrittura sottolinea le caratteristiche degli elementi da individuare e seleziona da tre a cinque parole chiave che ti possano aiutare nell’argomentazione.  d   Cerchia con colori diversi le aree d’Italia in cui erano diffusi o erano assenti quasi del tutto i movimenti socialista e cattolico.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Facendo riferimento ai brani del percorso scrivi un testo argomentativo di massimo 60 righe dal titolo Socialisti, rivoluzionari e cattolici di fronte alla questione sociale. Prima di procedere con la scrittura, seleziona i brani utili alla tua argomentazione e individua per ognuno di essi delle parole o frasi chiave. Utilizza queste ultime come guida per il tuo lavoro citando il brano da cui le hai estrapolate e arricchendo la trattazione con esempi diretti. 2 Dopo aver letto il documento tratto dall’enciclica Rerum novarum [►12d] e i brani di Scoppola [►13] e di Sivini [►14], rispondi alle seguenti domande citando opportunamente i testi: a. Qual era la finalità dell’enciclica papale? A chi si rivolgeva? b. Quali risposte dava la Chiesa alla disgregazione sociale prodotta dal capitalismo? c. Quale immagine della società proponeva la Chiesa ai credenti? d. In che modo l’ideale corporativo contenuto nel documento papale trovò attuazione? e. Come fu accolto lo sviluppo del sindacalismo cattolico all’interno della Chiesa e nella società civile? 3 Scrivi un testo di circa 25 righe sul movimento socialista

dalla Seconda Internazionale dei lavoratori alla vigilia della prima guerra mondiale facendo riferimento al documento contenente il programma di Erfurt [►7d], e a quelli scritti da Bernstein [►8d], Luxemburg [►9d], Sorel [►10d] e Lenin [►11d]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un titolo e un taglio per il tuo elaborato (puoi seguire un’impostazione cronologica o “per concetti”). IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 4 L’affermazione dei partiti socialisti nella scena politica del primo ’900 significò da una parte il rafforzamento del movimento operaio e delle lotte sociali di cui essi si fecero interpreti, dall’altra il progressivo abbandono dell’impostazione rivoluzionaria del marxismo in favore di un atteggiamento riformistico all’interno delle istituzioni. Sei d’accordo con questa affermazione? Individua nei brani e documenti del percorso dei contenuti che possano avvalorare la tua posizione e a partire da questi, con le opportune citazioni, scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.

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FARESTORIA Partiti e ideologie

IL PRIMO FEMMINISMO Il massiccio ingresso delle donne in molti settori lavorativi fu uno dei più rilevanti effetti della rivoluzione industriale e costituì un tratto caratteristico del mondo occidentale tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900. Nel brano che apre questa sezione, la storica statunitense Joan Wallach Scott [►15] analizza questo fenomeno e confronta i nuovi caratteri del lavoro femminile con quelli tipici dell’età preindustriale. Nella maggior parte dei paesi europei, furono presto emanate leggi tese a limitare lo sfruttamento del lavoro femminile da parte degli imprenditori. Il dibattito tra Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff [►16d] evidenzia però le divergenze di opinione, anche in seno al movimento emancipazionista, sulla linea politica da seguire riguardo alle donne lavoratrici. In questo dibattito ebbe una posizione di primo piano il Partito socialista italiano che, come si evince dal brano della scrittrice Sibilla Aleramo [►17d], fu importantissimo per la diffusione delle tematiche femministe. Il nuovo ruolo che le donne cominciavano a svolgere nel mondo del lavoro fu, a sua volta, all’origine di cambiamenti nelle gerarchie sociali e di una sempre più forte domanda di partecipazione femminile alla politica. Il brano della studiosa inglese Sheila Rowbotham [►18] descrive l’esperienza delle organizzazioni suffragiste inglesi e i loro difficili rapporti con gli esponenti delle forze politiche. Un’altra storica, Anna Rossi Doria [►19], prende invece in esame il caso italiano, analizzando alcune tappe del travagliato cammino che avrebbe condotto alla concessione del voto alle donne. Questo percorso fu a lungo ostacolato dalle forze conservatrici che si opponevano all’ideale di uguaglianza tra i sessi: esempio di queste opposizioni al movimento femminista è l’articolo dell’«Osservatore romano» [►20d] che chiude la sezione.



15 J.W. SCOTT IL LAVORO DELLE DONNE

J.W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, a c. di G. Duby e M. Perrot, Laterza, RomaBari 1991, pp. 355-66.

La storica statunitense Joan Wallach Scott (nata nel 1941) si è occupata a lungo delle condizioni del lavoro femminile in epoca industriale ed è autrice di numerose opere importanti

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La donna lavoratrice ha acquisito uno straordinario rilievo nel corso del XIX secolo. Naturalmente, essa esisteva da molto prima dell’avvento del capitalismo industriale, guadagnandosi da vivere come filatrice, sarta, orefice, birraia, lucidatrice di metallo, fabbricatrice di bottoni, merlettaia, bambinaia, lattaia o domestica, nelle città e nelle campagne dell’Europa e degli Stati Uniti. Ma nel XIX secolo fu osservata, descritta e documentata con un’attenzione senza precedenti, dato che i contemporanei discutevano dell’appropriatezza, della moralità, e addirittura della legalità delle sue attività salariate. La donna lavoratrice fu un prodotto della rivoluzione industriale, non tanto perché la meccanizzazione creò per lei posti di lavoro mentre prima non ne esistevano affatto (benché ciò senz’altro si verificò in alcune zone), quanto a causa del fatto che, durante questo processo, divenne una figura tormentata e ben visibile. La rilevanza della donna lavoratrice derivò dal fatto che era percepita come un

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su questo argomento. Nel seguente brano, tratto dal saggio La donna lavoratrice nel XIX secolo (1991), Scott analizza il diffondersi nel corso del XIX secolo dello stereotipo negativo, o comunque ambiguo sul piano dei valori, della donna che lavorando fuori casa tradisce la propria “femminilità” e i tradizionali doveri domestici e materni.

problema, un problema di recente creazione e che doveva essere urgentemente risolto. Questo problema coinvolgeva il significato stesso della femminilità e la compatibilità fra femminilità e salario; era posto e discusso in termini morali e categorici. [...] Questa versione dei fatti poneva l’origine del problema, rappresentato dalle donne lavoratrici, nel trasferimento della produzione dal nucleo domestico alla fabbrica nel corso dell’industrializzazione. Si riteneva che mentre nel periodo preindustriale le donne avessero combinato con successo l’attività produttiva e la cura dei figli, il lavoro e la vita familiare, il presunto mutamento del luogo di lavoro avesse reso difficile, se non impossibile, questa combinazione. Di conseguenza, si diceva, le donne potevano lavorare solo per brevi periodi della loro vita, ritirandosi dall’impiego salariato dopo essersi sposate o dopo aver avuto un bambino [...]. Benché il modello di lavoro casalingo certamente descriva un aspetto della vita

lavorativa del XVII e XVIII secolo, esso appare troppo semplificato. Nel periodo precedente l’industrializzazione le donne già lavoravano regolarmente fuori casa. Donne sole o sposate vendevano le merci nei mercati, guadagnavano denaro come piccole commercianti e venditrici ambulanti, si offrivano come braccianti occasionali, bambinaie o lavandaie, facevano ceramiche, sete, merletti, vestiti, oggetti di metallo, ferramenta, tessuti, e stampavano le tele di cotone nei laboratori. Se il lavoro era in conflitto con la cura dei bambini, le madri mandavano i neonati dalle balie o da altre persone che se ne occupavano, piuttosto che abbandonare il lavoro. Per guadagnarsi un salario le donne intraprendevano un vasto ventaglio di mestieri e si spostavano anche da un tipo di lavoro ad un altro. [...] Nel periodo preindustriale la maggior parte delle lavoratrici erano giovani e indipendenti e lavoravano generalmente lontano dalla loro casa, quale che fosse il tipo di lavoro intrapreso. Anche le donne

sposate erano membri attivi della forza lavoro; per esse, allo stesso modo, il luogo del lavoro – fattoria, negozio, bottega, strada, o la loro casa – variava e il tempo trascorso nello svolgimento dei compiti domestici dipendeva dalla pressione del lavoro e dalla situazione economica della famiglia. Questa descrizione caratterizza anche il periodo di industrializzazione del XIX secolo. In questo periodo, come nel passato, la forza lavoro femminile era composta, in modo schiacciante, da giovani indipendenti, sia nel campo più «tradizionale» dei servizi domestici, sia nel settore emergente della manifattura tessile. Nella maggior parte dei paesi industrializzati dell’Occidente, il servizio domestico superava il lavoro tessile come impiego femminile. [...] Il fatto che i contemporanei e gli storici abbiano focalizzato l’impatto esercitato dall’industria tessile sul lavoro femminile attirò una enorme attenzione; tuttavia il tessile non fu mai, nel corso del XIX secolo, il settore di occupazione principale delle donne. Invece, molte donne lavoravano nei settori «tradizionali» dell’economia più che nelle fabbriche. [...] Non c’è una forte prova in favore della tesi

che l’industrializzazione abbia causato una separazione fra la famiglia e il lavoro, costringendo le donne a scegliere fra i compiti domestici e il salario. [...] Piuttosto, sembrerebbe che una serie di ipotesi sul valore del lavoro femminile abbia informato le decisioni dei datori di lavoro (sia nel XVIII che nel XIX secolo) abbastanza indipendentemente da considerazioni sul settore di lavoro. Dove lavorassero le donne e che cosa facessero non è il frutto di qualche inesorabile processo industriale, ma, almeno in parte, il risultato di calcoli sul costo del lavoro. Sia nel settore tessile, delle calzature, della sartoria o della stampa, sia associato con la meccanizzazione, la parcellizzazione della produzione, o la razionalizzazione dei processi lavorativi1, l’inserimento delle donne significava che i datori di lavoro avevano deciso di risparmiare sul costo del lavoro. [...] L’identificazione del lavoro femminile con certi tipi di compiti e con il lavoro mal pagato venne formalizzata e istituzionalizzata in modi diversi nel corso del XIX secolo, al punto da divenire assiomatica, un fatto di senso comune. [...] Gli studi di riformatori, medici, legislatori e statistici, naturalizzarono i «fatti» così come la politica di molte associazioni sindacali, che

16d ANNA MARIA MOZZONI • ANNA KULISCIOFF I LIMITI AL LAVORO DELLE DONNE: DUE POSIZIONI A CONFRONTO

consideravano scontato il minor valore, dal punto di vista della produzione, delle lavoratrici. L’approvazione di una legislazione protettiva per le donne, dalle prime leggi sull’industria al movimento internazionale del tardo XIX secolo, presunse (ed in tal modo rese certa) la rappresentazione di tutte le donne come inevitabilmente dipendenti, e in particolare quella delle lavoratrici salariate come un gruppo anomalo e vulnerabile necessariamente limitato a certi tipi di occupazioni. In questo numeroso coro concorde, le voci di dissenso di qualche femminista, leader sindacale e socialista incontrarono le loro difficoltà a farsi sentire. 1. ►FS, 2d. METODO DI STUDIO

 a   Spiega cosa cambia per le donne lavoratrici durante il XIX secolo. Prima di argomentare sottolinea con colori diversi le informazioni relative alla condizione della donna prima e dopo l’industrializzazione.  b   «Dove lavorassero le donne e che cosa facessero è, almeno in parte, il risultato di calcoli sul costo del lavoro». Spiega il significato di questa frase e indica quale meccanismo culturale rese possibile questo risultato.



A.M. Mozzoni, Lettera al Direttore, in «Avanti!», 8 marzo 1898; A. Kuliscioff, In nome della libertà della donna. «Laissez faire, Laissez passer!», in «Avanti!», 19 marzo 1898.

Nei primi mesi del 1898, mentre veniva approvata la prima legge sull’assicurazione per gli infortuni sul lavoro, il dibattito pubblico italiano si articolò anche intorno alle proposte di limitare e regolare il lavoro delle donne e dei bambini [►1_4 e 1_6]. Su questo tema, all’interno del movimento emancipazionista italiano, si scontrarono due diverse posizioni. Da un lato, La legislazione a difesa delle donne lavoratrici On. sig. dell’Avanti, Dagli amici mi guardi Iddio! ... mi uscì dall’anima quando lessi sul suo pregiato giornale che i deputati socialisti si preparavano a rompere una lancia in favore di una legge protettrice del lavoro delle donne. Fra le tante tutele, garanzie, esclusioni, difese e protezioni che infestano la vita

Anna Maria Mozzoni (1837-1920), pioniera del movimento emancipazionista [►PERSONAGGI, p. 16], in una lettera al quotidiano socialista «Avanti!», si espresse contro una legge di tutela per il lavoro delle donne, temendo che essa lo avrebbe limitato al punto di ricondurle alla sfera privata e domestica. Dall’altro lato, Anna Kuliscioff (1857-1925), fondatrice e dirigente del Partito socialista italiano, in una lettera di risposta pubblicata sullo stesso giornale, affermò che tale legge era invece necessaria proprio per limitare quello sfruttamento della forza-lavoro femminile che emarginava le donne nella vita civile.

delle donne, non mancava più che questa che limiti loro anche la libertà del lavoro materiale al quale in misura ancora assai limitata hanno potuto accedere. [...] La legge protettrice mi disfa questa operaia che si offre valorosa ad ogni sorta di lavoro, fiera di bastare a sé e di contribuire alla prosperità del bilancio della famiglia, che nelle associazioni parla, discute, obietta, vuol capire, vuol sapere, che amministra

il bene sociale, che ha temprato lo spirito ad equità nella comunione di eguali, cui competono pari doveri e pari diritti, che resiste negli scioperi, che interessa alla cosa pubblica perché ha capito le ragioni e le affinità delle cose. La vostra legge protettrice me la ricaccia nella casa, come una gallina nel suo pollaio a covare le sue uova nella solitudine e nel silenzio. [...]

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FARESTORIA Il primo femminismo

Gli igienisti1 dicono che è [...] nell’interesse della specie e della salute delle donne che si invoca questa legge e che salus publica suprema lex2. È convenuto da un pezzo che è sempre per l’interesse della specie e della famiglia che si moltiplicano i ceppi3 intorno alle donne. [...] Che cosa, dio santo, è mai l’igiene quando è in questione la fame? [...] Oh igienisti! Se non è una scienza senza viscere4 quella che vi fa astrarre così dalla realtà delle cose [...], invocate il lavoro e la mercede per tutti quelli che ne hanno bisogno. Il lavoro non è piacere, è necessità, e dacché lo Stato non sa procurare ad ogni regnicolo un pezzo di pane almeno ogni 24 ore, sarebbe iniquo togliere a tanti, col lavoro, il mezzo di procurarselo da sé. [...] Lasciate che la donna, che ben sovente ha sulle spalle il peso della famiglia, giudichi ella stessa delle sue opportunità e convenienze. Non troncate le mani alle madri che hanno figli da mantenere in nome di un dottrinarismo che vuol condannarle a morir di fame sane, perché non si ammalino lavorando. In nome della libertà della donna Sono assai grata all’amica Anna Maria Mozzoni del suo intervento in quella che a me pare la più importante tra le questioni che possono, in questo momento, interessare e agitare il partito socialista d’Italia. [...] Con una chiaroveggenza meravigliosa, essa non si è perita di profetizzare che i socialisti, con la loro cavalleresca premura verso la donna lavoratrice, finiranno, in nome di un vieto dottrina-

rismo, per confinarla di nuovo al focolare domestico, lasciandola così, troppo igienicamente, morire di fame. Se il presagio avesse fondamento, certamente i socialisti sarebbero i primi a combattere qualsiasi legge a tutela del lavoro della donna. Chi, infatti, ha più di essi la profonda convinzione, che l’abolizione del lavoro delle donne nelle industrie significherebbe la condanna perpetua della donna alla schiavitù familiare e sociale, alla prostituzione matrimoniale ed extra-matrimoniale? [...] Le conseguenze disastrose, che prevede la signora Mozzoni, sarebbero forse da temersi se le donne dessero alle industrie un contingente trascurabile. Ma dacché lo sviluppo moderno delle industrie e il perfezionamento del macchinario resero possibile e vantaggioso ai capitalisti l’impiego della mano d’opera meno retribuita delle donne, queste in molte industrie superano notevolmente di numero i loro compagni, e in talune hanno interamente soppiantato il lavoro maschile. [...] Dato questo enorme esercito femminile impiegato nelle industrie, è strano davvero il timore che gli industriali possano disfarsene in un giorno. Lo vieta ad essi la legge dell’offerta e della domanda di lavoro; il padrone che va in cerca della mano d’opera sa benissimo che dovrà pagarla il doppio o il triplo del normale; onde egli torna assai più conto5 tenere le donne già addestrate pagandole un po’ di più che non esporsi ad un rischio così grave. [...] E come non si accorge la signora Mozzoni che le sue argomentazioni sono quelle stesse onde si vale la borghesia per difendersi da ogni tentativo di legislazione socia-

17d SIBILLA ALERAMO ALLA SCOPERTA DELL’EMANCIPAZIONE

le? [...] I socialisti invocano l’intervento dello Stato per la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli [...]. Non si tratta soltanto di una questione di pietà o di igiene sociale, ma dell’arma indispensabile al proletariato di ambedue i sessi nella lotta di classe che esso è costretto a sostenere. I salari di fame e gli orari senza limite delle lavoratrici deprimono6 il tasso generale dei salari e allungano la giornata media di tutta intera la classe operaia, esulandola7 completamente dalla vita civile. Finché duri un così spietato sfruttamento della forza-lavoro delle donne e dei fanciulli, il proletariato italiano non potrà mai liberarsi dalla profonda miseria che lo affligge, né cessare di essere un proletariato di cenciosi8. 1. Le teorie igieniste, che si affermarono gradualmente in Europa nel corso del XIX secolo, cercavano le cause delle malattie nell’ambiente in cui vivevano gli individui che ne erano colpiti. 2. “Il benessere dello Stato sia legge suprema”. 3. Catene, costrizioni sociali. 4. Senza sentimenti. 5. Conveniente. 6. Fanno abbassare. 7. Escludendola. 8. Mendicanti.

METODO DI STUDIO

 a   Riassumi le posizioni della Mozzoni e della Kuliscioff e sottolinea con colori diversi le argomentazioni addotte da parte di entrambe, quindi riassumile schematicamente per punti.  b   Spiega chi erano le due autrici, che ruolo ebbero nella vita politica italiana, di quale tipo di documento si tratta e a chi era rivolto.



S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano 2007 (ed. or. 1906), pp. 82-86.

Sibilla Aleramo (1876-1960), scrittrice e poetessa, nel 1906 pubblicò il romanzo Una donna in cui, ripercorrendo le sue vicende personali, narrò la lenta scoperta del suo essere una “donna”, cioè una persona pensante, in grado di lottare per

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Ed ecco che infine penetrava in me il senso di un’esistenza più ampia, il mio problema interiore diveniva meno oscuro, s’illuminava del riflesso di altri problemi più vasti, mentre mi giungeva l’eco dei

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le sue idee. Dopo una triste esperienza matrimoniale (era stata costretta a sposare un uomo che l’aveva stuprata e il fatto di averlo lasciato aveva comportato per lei l’allontanamento forzato dal figlio), Aleramo si era infatti avvicinata al socialismo e al movimento femminista, impegnandosi nell’organizzazione di associazioni femminili che chiedevano il diritto di voto e lottavano contro la prostituzione.

palpiti e delle aspirazioni degli altri uomini. Mercé1 i libri io non ero più sola, ero un essere che intendeva ed assentiva e collaborava ad uno sforzo collettivo. [...] Attorno a me, frattanto, molte cose pren-

devano un significato, attiravano la mia attenzione. Mi accorgevo con lento stu-

1. Grazie a.

pore di non essermi mai prima chiesta se io avessi qualche responsabilità di quanto mi urtava o mi impietosiva nel mondo circostante. Avevo mai considerato seriamente la condizione di quelle centinaia di operai a cui mio padre dava lavoro, di quelle migliaia di pescatori che vivevano ammucchiati a pochi passi da casa mia, di quei singoli rappresentanti della borghesia, del clero, dell’insegnamento, del governo, della nobiltà, che conoscevo da presso? Tutta questa massa umana non aveva mai attratto altro che la mia curiosità superficiale [...]. Il giovane che mia sorella amava s’era in quell’inverno impegnato in una lotta che gli aveva alienato2 del tutto l’animo3 di mio padre: organizzava gli operai della fabbrica, li univa per la resistenza; il socialismo penetrava mercè sua nel paese. [...] Dal giovane fui informata con esattezza del movimento che sollevava le classi lavoratrici in tutto il mondo e le opponeva formidabili di fronte alla classe cui appartenevo. [...] Mia sorella accettava tutto a priori; le idee vivevano, palpitavano nel giovane, ed ella non poteva distinguerle da lui. Io discutevo, m’infervoravo. Lenta nell’espressione, per amor di sincerità e di esattezza, inesperta nella dialettica, mi provavo poi a riprender la mia libertà di spirito a tavolino e scrivevo sul quaderno stesso a cui avevo confidato lo sfogo del mio dolore. [...]



Pensare, pensare! Come avevo potuto tanto a lungo fare senza? Persone e cose, libri e paesaggi, tutto mi suggeriva, ormai, riflessioni interminabili. [...] Cominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminista in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia irresistibile per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione che ricordavo d’aver sentito pronuncia-

18 SH. ROWBOTHAM LE SUFFRAGETTE

Sh. Rowbotham, Esclusa dalla storia, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 128-40.

Sheila Rowbotham (nata nel 1943), studiosa britannica che si è occupata a lungo della storia dell’emancipazione femIl movimento per il voto fu certamente di origine borghese ma ricevette senza dubbio il sostegno delle operaie, nonostante la politica di avvicinamento alle donne altoborghesi degli anni successivi al 1907. [...] Deve essere stato molto difficile per le donne della classe operaia viaggiare insieme alle delegazioni o andare alle assemblee. Le donne borghesi avevano una maggiore mobilità. [...] Quando la campagna si intensificò e le tattiche militanti della Wspu1 portarono a condanne al carcere, deve essere stato ancora più difficile per le operaie esservi

re nell’infanzia, una o due volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con derisione da ogni classe d’uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute, eravamo esemplari. E come un religioso sgomento m’aveva invasa. Io avevo sentito toccare la soglia della mia verità, sentito ch’ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, sterile e tragico affanno... 2. Allontanato. 3. Le simpatie.

METODO DI STUDIO

 a   Segna le parti del testo che puoi intitolare: a. Acquisizione di consapevolezza; b. Conoscenza delle idee socialiste; c. Riflessioni sulla necessità sociale che la donna si sviluppi come persona; d. Emancipazione.  b   Evidenzia per ognuna delle parti del testo che hai individuato nell’esercizio precedente una frase significativa in grado di sintetizzare il pensiero dell’autrice.  c   Perché secondo te l’autrice ritiene che le donne per essere buone madri devono prima essere donne? Quali sono le abitudini sociali che vanno contro questa affermazione? Rispondi per iscritto e aggiungi delle tue riflessioni personali.

minile, illustra in queste pagine, tratte da un libro del 1974, l’evoluzione del movimento per il voto delle donne in Inghilterra nel periodo compreso tra l’inizio del secolo e la prima guerra mondiale [►LABORATORIO DI CITTADINANZA, p. 25].

coinvolte, anche se alcune finirono effettivamente in carcere per «la causa». Una ex suffragetta di Greenwich diceva ad esempio che erano le «signore» a tirare sassi contro i vetri, mentre le proletarie come lei stavano nelle retroguardie. [...] La maggior parte delle suffragette ritenevano che il cambiamento sarebbe scaturito dalle riforme che avrebbero ottenuto in parlamento. Si collocavano ancora nella tradizione dei primi movimenti radicali, sebbene una minoranza socialista rivoluzionaria vedesse il voto semplicemente come una riforma necessaria sulla strada

della proprietà sociale e del controllo dei mezzi di produzione. La gamma delle speranze delle suffragette, tuttavia, era nulla in confronto alla varietà delle ragioni dei loro oppositori. A partire dal 1906 il Labour party2 fu diviso sulla tattica per ottenere il suffragio

1. Women’s Social and Political Union, fondata nel 1903 da un gruppo di donne dell’Indipendent Labour Party, tra cui Emmeline Pankhurst (1858-1928). 2. ►1_5.

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FARESTORIA Il primo femminismo

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femminile. Sebbene in teoria ritenessero giusto il voto alle donne, molti membri del partito non riuscivano a decidere se dovevano sostenere una misura limitata come quella proposta dalla Wspu (concedere il voto alle donne capofamiglia), oppure il suffragio maschile adulto, che avrebbe esteso il diritto di voto agli uomini che ne erano ancora esclusi (soldati, domestici di famiglia e figli di proprietari), oppure battersi per un risanamento complessivo di tutte le anomalie nel sistema di suffragio. Il Labour party sosteneva, contro la Wspu, che concedere il voto alle donne capofamiglia avrebbe rafforzato i conservatori. D’altro canto una misura limitata di suffragio maschile avrebbe avvantaggiato i figli dei proprietari e quindi chiaramente non costituiva un obiettivo di classe. Anche il Liberal party3 era diviso. La maggioranza del partito credeva nel principio del voto alle donne [...]. Tuttavia nel consiglio dei ministri esisteva una corrente, comprendente [...] Lewis Harcourt che si opponeva virulentemente al voto alle donne, in qualsiasi forma. [...] Il problema dei rapporti tra gli uomini e il movimento per il suffragio è evidentemente complesso. Molti uomini [...] le appoggiarono e dimostrarono con loro, e con loro furono arrestati. Ma nella Wspu si insisteva molto sul fatto che le donne dipendevano solo da se stesse, che dovevano imparare a gestire il proprio potere, e si nutriva un forte risentimento nei confronti di quegli uomini che dicevano di essere per il voto, ma non rischiavano niente per ottenerlo. [...] In senso più generale, le donne furono costrette a entrare in conflitto con lo Stato per comprendere la falsità del mito dell’imparzialità della legge. Venivano processate e condannate da uomini. Non partecipavano alla creazione delle leggi. Erano protette soltanto entro i limiti dell’autorità maschile, erano appendici del padre o del marito. Superato quel limite erano completamente aliene da diritti. [...] Quando erano in prigione, alle suffragette non venivano concessi i privilegi dei detenuti politici. Erano i primi membri della borghesia ad andare in galera in gruppo e, con l’eccezione dei socialisti, le prime a scontrarsi violentemente con la polizia. [...] Le donne appartenenti alle classi superiori ricevevano un trattamento preferenziale in prigione [...]. Per evitare questo Lady Constance Lytton si vestì da cucitrice e guidò nel 1910 una manifestazione attraverso le

U1 L’ALBA DEL ’900

strade di Liverpool. Arrestata, iniziò uno sciopero della fame e fu nutrita a forza senza un esame cardiaco. Stette molto male e fu anche picchiata dal medico della prigione. Ne fu lesa in modo permanente e restò paralizzata per il resto della sua vita. Se fosse stata davvero una cucitrice sarebbe passata inosservata, ma quando la sua identità venne scoperta ci fu uno scandalo. Lord Lytton presentò una proposta di legge per il suffragio femminile e la speranza si riaccese. Tuttavia nel novembre 1910 una manifestazione davanti al Parlamento si risolse in uno scontro tra suffragette, polizia e folla circostante. La battaglia continuò per parecchie ore: numerose donne furono ferite e due morirono. [...] Nel novembre 1911 [...] la lotta ricominciò; ma questa volta le donne attaccarono scrupolosamente e sistematicamente la proprietà. Furono spaccate le finestre di tutto il West End, comprese quelle del numero dieci di Downing Street. Le compagnie di assicurazioni cominciarono a preoccuparsi. Il governo replicò con l’accusa di cospirazione, che contemplava pene più severe. L’escalation della lotta, dall’interruzione dei comizi, allo scontro con la polizia, alla distruzione della proprietà, non sembra aver fatto parte di una strategia a lungo termine. [...] Le donne sembravano capaci di sacrifici dimostrativi continuati, e sapevano scegliere i propri bersagli. Ad esempio il 13 giugno 1911 due donne vennero sco-

perte nascoste vicino alla casa dell’odiato Lewis Harcourt, con una latta di benzina, grimaldelli e diamanti tagliavetro. I bersagli non li sceglievano solo per odio personale ma per il loro significato simbolico. [...] Nel 1912, [...] ci fu un cambiamento nella politica della Wspu. Le suffragette si isolarono deliberatamente, tagliando gli ultimi legami con i loro sostenitori nel movimento operaio [...]. Inoltre l’attacco alla proprietà raggiunse una nuova fase quando le suffragette passarono dalle scritte sui muri e dalle finestre rotte agli incendi dolosi. Non sognavano più l’arresto e il martirio, ma cercavano invece di fare quanti più danni potevano, nell’evidente convinzione che le forti pressioni delle società assicuratrici avrebbero spinto il governo a cedere. A partire dal 1912 la Wspu fu in pratica un’organizzazione illegale, con il suo quartier generale a Parigi e le sue attiviste che operavano nella clandestinità. Le tattiche della Wspu avevano così compiuto un ciclo completo: da movimento che intendeva convincere il nuovo Labour party a sostenere il voto alle donne, era divenuta un’organizzazione clandestina che compiva azioni dimostrative [...] mirando unicamente con le sue azioni a dividere la classe maschile dominante. 3. ►2_4.

PALESTRA INVALSI

1 Indica quali caratteristiche sono proprie dei partiti politici e movimenti presenti in tabella.

Caratteristiche

Labour party

Liberal party

Wspu

Era diviso sull’opportunità di dare il voto alle donne Dal 1912 i suoi aderenti operarono provocando danni alle proprietà private per fare pressioni sulla società Era diviso sulla strategia da seguire per avere il suffragio femminile Chiedeva il voto per le donne capofamiglia Sosteneva che dare il volo alle donne capofamiglia avrebbe rafforzato i conservatori 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? «Per scoprire quanto fosse diverso il trattamento destinato dallo Stato alle donne rispetto agli uomini, queste dovettero entrare in conflitto con le istituzioni e sperimentarne il tipo di punizioni ad esse riservate.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 2 JOHN HASSALL LA CASA DI UNA SUFFRAGETTA, INIZI DEL ‘900 Il manifesto è stato realizzato dalla Lega Nazionale per l’Opposizione al Suffragio Femminile, fondata a Londra nel dicembre del 1910, e mostra la casa di una suffragetta al ritorno del marito. Questi, stanco “dopo una dura giornata di lavoro”, trova l’ambiente e le figlie in evidente stato di trascuratezza (la lampada fuma perché l’olio è ormai finito, le figlie sembrano singhiozzare e hanno i calzini bucati e i vestiti rammendati grossolanamente, ecc.). Un biglietto della moglie, attaccato ad un poster per il voto delle donne, avvisa che sarebbe tornata dopo circa un’ora. Il messaggio del manifesto è che le donne impegnate nella battaglia per rivendicare il loro diritto al voto trascuravano non solo i mariti, ma anche la casa e i figli.

GUIDA ALLA LETTURA

 a   Chi sono i personaggi rappresentati? Come definiresti l’ambiente e lo stato delle figlie? Dove si trova la moglie? Rispondi citando i particolari del manifesto.  b   Quale messaggio vogliono trasmettere gli autori del manifesto? A chi si rivolgono? Rispondi alle domande per iscritto.

19 A. ROSSI DORIA LE BATTAGLIE PER IL VOTO ALLE DONNE IN ITALIA



A. Rossi Doria, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze 1996, pp. 80-86.

La storica italiana Anna Rossi Doria (1938-2017) ha ricostruito, in un libro uscito nel 1996, il lungo e contrastato cammino del voto alle donne in Italia [►LABORATORIO DI CITTADINANZA, p. 25]. In questo brano sono ricordati alcuni dei più importanti tra i progetti elaborati a partire dall’Unità per introdur Il movimento suffragista giunge al culmine, sia in Europa che negli Stati Uniti, negli anni che vanno dagli inizi del secolo alla prima guerra mondiale, con una crescita sia dei collegamenti internazionali (nasce nel 1904 la International Woman Suffrage Alliance, cui aderiscono dieci associazioni nazionali, che nel 1914 sono diventate venticinque), sia delle organizzazioni nazionali: in Italia per la prima volta e per

re forme anche parziali di suffragio femminile: progetti che restarono inattuati, a causa del diffuso pregiudizio maschile che negava alle donne la piena capacità giuridica e politica [►FS, 20d]. Le proposte di riforma vertevano in particolare sul voto amministrativo, rispetto al quale erano molto meno forti le resistenze all’inserimento delle donne. Nonostante questo, però, neanche nelle elezioni amministrative le italiane poterono mai esercitare il diritto di voto prima del 1946.

breve tempo si alleano le associazioni femministe di area cattolica, socialista e liberale. Questo sviluppo non si rispecchia nei lavori parlamentari, che continuano a essere contrassegnati dalla tradizionale indifferenza al problema. In favore del progetto di legge del repubblicano Mirabelli sul voto politico alle donne, presentato nel 1904 e discusso dalla Camera nel dicembre 1905, viene presen-

tata dal Comitato nazionale pro-suffragio femminile nel marzo 1906 una nuova petizione al parlamento [...]. L’aveva redatta, ancora una volta, l’anziana Mozzoni1, che

1. Anna Maria Mozzoni (1837-1920). Scrittrice e politica di orientamento socialista, si dedicò soprattutto ai problemi relativi all’emancipazione femminile [►FS, 16d].

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FARESTORIA Il primo femminismo

chiedeva sia il voto politico, sia l’estensione del voto amministrativo ad alcune categorie di donne, in un tentativo realistico di mediazione [...]. Le commissioni elettorali provinciali, al contrario di quelle comunali, accolgono su ricorso le iscrizioni nelle liste elettorali di donne, soprattutto maestre, che avevano seguito le indicazioni dei comitati, ma contro la decisione ricorrono i procuratori: la questione passa così alle Corti d’appello, otto delle quali si pronunciano in senso negativo. Solo quella di Ancona, presieduta da Lodovico Mortara, pur personalmente contrario al voto delle donne, darà parere favorevole in base «a criteri puramente giuridici» in una celebre sentenza, redatta dal grande giurista e poi annullata dalla Corte di cassazione. [...] Le firmatarie della «Petizione delle donne italiane per il voto politico e amministrativo» del 1906, analizzando il contrasto fra la perdita da parte delle donne delle vecchie garanzie di tutela e la loro assenza di diritti nella società liberale, rivendicano il diritto di voto perché «tutto ci ha ormai persuaso che la giustizia [...] non riguarda che gli elettori e non si estenderà fino a noi se non quando e in quanto saremo elettrici [...] perché siamo cittadine, perché paghiamo tasse e imposte, perché siamo produttrici di ricchezza, perché paghiamo l’imposta del sangue nei dolori della maternità, perché infine portiamo il contributo dell’opera e del denaro al funzionamento dello Stato». [...] Il movimento suffragista nel frattempo si intensifica [...]. Tra il 1906 e il 1911, i



numerosi comitati [...], sebbene basati su equilibri interni fragili, vedono la prima forma di collaborazione concreta tra organizzazioni emancipazioniste idealmente molto diverse. [...] L’elemento di maggior debolezza del movimento per il voto alle donne è in questi anni rappresentato dall’incerto e ambiguo atteggiamento nei suoi confronti del Psi, che limita anche l’impegno suffragista di molte sue militanti, polemizzando contro il femminismo borghese che frena la battaglia dei proletari per il suffragio universale, ma in realtà temendo il voto conservatore delle donne. [...] Si tengono intanto i congressi suffragisti di Roma nel 1911 e di Torino nel 1912, fino al primo convegno nazionale pro-suffragio, che si svolge a Roma nel dicembre 1914. Allo scoppio della guerra, [...] il voto alle donne, sebbene il movimento suffragista si sia dopo la guerra di Libia diviso e indebolito, sembra a molte sue militanti imminente. Ad apparente conferma di ciò, nell’immediato dopoguerra la battaglia sembra vinta. [...] È approvato [...] l’ordine del giorno Sichel che impegna il governo ad ammettere le donne al voto politico e amministrativo e infine viene votata a grande maggioranza la proposta di legge Martini e Gasparotto che realizza questo principio [...]. La chiusura anticipata della legislatura impedisce il passaggio della legge Martini-Gasparotto al Senato, ma ancora nel 1920 vengono presentati tre disegni di legge sul voto alle donne [...]. Le conquiste del primo dopoguerra ven-

METODO DI STUDIO

 a   Individua le tappe che hanno caratterizzato il movimento suffragista in Italia e rendile riconoscibili attraverso un titolo che scriverai al lato del testo. Quindi indica per ogni tappa fino a tre parole o espressioni chiave che ne condensino le caratteristiche e utilizzale per descriverne i contenuti.  b   Sottolinea con colori diversi la posizione del Psi sul voto delle donne e le relative motivazioni.  c   Spiega perché la legge del 22 novembre 1925 viene definita una beffa.

20d FEMMINISMO

«L’Osservatore romano», 17 febbraio 1911, da 1911: calendario italiano, a c. di L Benadusi e S. Colarizi, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 123-26.

Il diffondersi dei primi movimenti femministi ed emancipazionisti in Italia suscitò un vivo allarme negli ambienti più conservatori e, soprattutto, in Vaticano. Come si legge nell’articolo Non è delle varie e diverse, complessivamente antiestetiche foggie del vestire femminile che siamo tentati di parlare – noi non apparteniamo alla turba di quei giornali che compulsano a fini piuttosto quattrinai1 i figurini della moda e per apprestare eziandio solletico ai gusti malsani dei lettori –, ma della mentalità preci-

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nero interpretate in periodo fascista come un compenso per l’opera di assistenza svolta durante la guerra dalle associazioni femminili e femministe: un modo per ribadire il ruolo familiare, «organico», della donna, e nasconderne lo sviluppo individuale, molto cresciuto durante la guerra specialmente per l’inserimento di grandi masse femminili nel lavoro produttivo. [...] Agli inizi del fascismo, [...] il voto amministrativo, limitato ad alcune categorie di donne, viene finalmente varato: Mussolini [...] incarica il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Acerbo, della preparazione di un progetto di legge sull’elettorato amministrativo alle donne che abbiano compiuto l’obbligo scolastico, alle madri di caduti in guerra e alle decorate, con l’esclusione delle prostitute. Il progetto Acerbo [...] diventa il 22 novembre 1925 la prima legge italiana sul voto amministrativo alle donne, ma si tratta di una legge beffa, che non sarà mai applicata per l’introduzione, già prevista, del regime podestarile, che eliminava qualsiasi base elettiva dalle amministrazioni comunali.

U1 L’ALBA DEL ’900

dell’«Osservatore romano» qui proposto, pubblicato nel febbraio 1911, il movimento per l’emancipazione delle donne era infatti considerato uno scandalo e una degenerazione che rischiava di rovesciare, con conseguenze molto negative, i tradizionali ruoli di genere.

pua di quella piaga che è il femminismo, il quale si estrinseca oramai sino allo scandalo e alla depravazione. Mezzo esso è seducentemente turpe che si prefigge, oltre al fine immediato di corrompere le anime, l’altro di rivoluzionare l’ordine della distinzione intrinseca spirituale e sociale tra i due sessi, tentando

di far passare per uguale l’uno all’altro, annullando la formola sostanziale biblica dell’aiuto del sesso femmineo al maschile. La precipua questione non è pertanto

1. Per fini di guadagno.

quella della esagerazione delle foggie nelle vesti, le quali inducono al mal rispetto di sé le femmine che le adottano, ma è quella della depravazione dell’ordinamento stabilito nelle relazioni tra i sessi. Non è insomma questione assoluta di mettere, ad esempio, la foggia maschile dove sta al presente la foggia femminile, ma di mettere la donna al posto dell’uomo, magari invertendo l’ordine fino a presumere che l’uomo addivenga di aiuto alla donna, detronizzato dal grado che ebbe sin dalla sua origine. [...] Le cosiddette convenienze sociali abbrutiscono gli animi, e le malsane esigenze della moda accoppiano ibridamente nell’ambiente cittadino e nazionale le une alle altre donne col vincolo pubblico della foggia del vestire indecente, mentreché il vestire da donna seria ed onesta non offrirebbe lo spettacolo di alcuna seduzione pubblica almeno riflessa. Ora chi pensa a queste cose? Non certo la maggioranza dei babbi e delle mamme dell’ora fra le più propizie alle aberrazioni sfacciate della moda. Aberrazioni le quali mirano a fine anche più perverso di quello che ottengono direttamente a danno

del buon costume propriamente detto, fine che, quando fosse ottenuto, consoliderebbe la perversità del primo, rivoluzionando la società domestica e la civile sino alla confusione e al disordine caotici. Certe diffamazioni che le sole creature ragionevoli infliggono a se stesse, per lo più sono fortunatamente capricciose e quindi transitorie; ma quando vi è partito preso di giungere per mezzo di esse a conquistare una condizione che si reputa giusta e necessaria, acuiscono il capriccio e difficilmente esso viene meno. La moda come quella che suggestiona a parificare il vestito donnesco a quello del sesso maschile e che tenta d’imporsi non è se non nell’apparenza un capriccio; è più di un capriccio: contiene una mentalità di traviamento peggiore di quello del senso; cioè, è rivolto a far trionfare il femminismo concettoso dell’eguaglianza se non della superiorità della donna sull’uomo. Contro questo disordine, i pubblicisti cattolici debbono insorgere strenuamente osservando al pericolo in apparenza capriccioso e transitorio. Ma neppure verso questo i giornali cattolici quanti sono e

quanti ambiscono ad essere reputati tali si mostrano severi e rigorosi quanto è necessario per onore delle giovani generazioni e della rispettabilità dell’età matura. Per amore della popolarità si indulge troppo a ciò che si reputa una versatilità del mondo commerciale e del pensiero saltuario dei disegnatori di Case di confezioni in concorrenza fra sé di stranezze; e le cronache del femminismo sono troppo messe in vista e nutrite. Occhi di lince occorre avere e iperdiscrezione per non partecipare al grande peccato sociale della corruzione delle generazioni.

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia le espressioni usate per definire il femminismo e sottolinea le motivazioni addotte.  b   Sottolinea in cosa consiste la questione definita “precipua”.  c   Spiega per iscritto quale comportamento sociale viene ritenuto riprovevole, quali contromisure vengono incoraggiate e che tipo di documento è questo e a chi è rivolto.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di circa 30 righe sui movimenti di rivendicazione dei diritti delle donne facendo riferimento ai brani e alle fonti del percorso. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e non dimenticare di affrontare i seguenti temi: • la realtà lavorativa delle donne nella società e gli spazi di emancipazione; • il contenuto delle rivendicazioni; • le forme di lotta praticate; • i rapporti con le forze politiche. 2 Partendo dal documento scritto da Aleramo [►17d], descrivi il significato dell’emancipazione per le donne che vissero fra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 e fai riferimento in particolare al rapporto col mondo del lavoro, con la politica e con la famiglia.

Prima di scrivere procedi in questo modo: seleziona le frasi del documento che meglio condensano le informazioni utili alla realizzazione del tuo elaborato e riconosci il punto di vista dell’autrice. Quindi cerca negli altri testi del percorso informazioni che possano aiutarti ad arricchire il tuo discorso. Ricorda di citare sempre i brani all’interno del testo. IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 3 Facendo riferimento ai brani di questo percorso, scegli fra le seguenti posizioni, relative alle radici ideologiche del femminismo, quella che ritieni maggiormente condivisibile e argomenta la tua opinione in un testo di circa 20 righe: a. Alle origini del femminismo vi era una concezione organicista dei diritti politici delle donne, politicamente conservatrice e pertanto avversa all’impegno suffragista dei partiti socialisti. b. I movimenti per il diritto di voto alle donne avevano un carattere essenzialmente borghese e mantennero una strategia politica riformatrice e gradualistica, nonostante il radicalismo delle forme di lotta. c. Il luogo di formazione della coscienza dei diritti delle donne fu la fabbrica, in cui si realizzarono le prime esperienze di lavoro e di agitazioni collettive, a fianco dei movimenti degli operai.

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FARESTORIA Il primo femminismo

L’ITALIA GIOLITTIANA I brani contenuti in questa sezione tracciano un quadro dell’età giolittiana nei suoi aspetti politici, culturali e sociali. Nel primo testo, lo storico Emilio Gentile [►21] analizza i principali aspetti della cosiddetta “dittatura giolittiana”, cioè del lungo periodo in cui Giovanni Giolitti fu al governo o influenzò comunque l’esecutivo, e le sue mirate politiche riformiste. Tra le riforme più importanti dell’Italia giolittiana spicca l’approvazione del suffragio universale maschile, che suscitò le vive proteste degli ambienti più conservatori, come illustrato criticamente da un contemporaneo, il giornalista e scrittore Mario Missiroli [►22d]. Luci e ombre dell’Italia giolittiana erano presenti nelle principali città italiane. Se, come messo in evidenza dalla storica Emanuela Scarpellini [►23], da un lato furono questi gli anni in cui prese corpo una “città operaia” caratterizzata da consumi peculiari, dall’altro furono anche gli anni dei café-chantant e della diffusione del cinema muto, diretto tanto alla classe operaia quanto alla borghesia. Come illustrato dallo storico Francesco Barbagallo [►24], la città più rappresentativa di questi aspetti era Napoli. A Roma, invece, furono questi gli anni di una profonda rottura con la tradizione che fino ad allora aveva visto le giunte comunali legate strettamente al Vaticano e alle classi latifondiste: nel 1907, come ricostruito da Vittorio Vidotto [►25], fu infatti eletto l’anticlericale e massone Ernesto Nathan che, in accordo coi governi giolittiani, si lanciò in una politica di riforme sociali, nel tentativo di competere con la Chiesa sul piano assistenziale.



21 E. GENTILE LA “DITTATURA GIOLITTIANA”

E. Gentile, L’origine dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 129-34.

Tornato al governo nel 1906, Giovanni Giolitti dominò la politica parlamentare italiana fino alla vigilia della prima guer-

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Giolitti tornò al governo il 29 maggio 1906. Il suo terzo ministero, il «lungo ministero» come è stato definito, durò fino all’11 dicembre 1909. Ma, a parte i brevi intervalli di un secondo governo Sonnino e di un governo Luzzatti, fino al 1914 Giolitti fu il vero dominatore della vita parlamentare. Vennero alla luce, pienamente, in questo periodo, le qualità politiche dello statista piemontese, che fondava il suo potere su una precisa conoscenza della macchina burocratica e parlamentare, e sull’abilità, frutto di lunga esperienza, nel conquistare le assemblee parlamentari, con un uso spregiudicato e spesso cinico dei mezzi possibili per reclutare e condizionare gli uomini della «sua» maggioranza. Per questo, il governo giolittiano sembrò ai contemporanei simile a una dittatura parlamentare che, mentre sottraeva di fatto alla Camera un reale potere di decisione e di controllo, oltre che di iniziativa legislativa, rendeva quasi impossibile la sostituzione di Giolitti alla direzione della politica italiana. I governi di Sonnino e di Luzzatti, infatti, non compromisero il «corso giolittiano» e non riuscirono a spezzare la solida maggioranza che, a

U1 L’ALBA DEL ’900

ra mondiale: molti suoi detrattori parlarono, non del tutto a sproposito, di “dittatura giolittiana” [►3_5]. In questo brano, lo storico Emilio Gentile (nato nel 1946) illustra con efficacia i caratteri di questo periodo, con particolare attenzione all’oculata politica riformista dell’uomo politico.

partire dalle elezioni del 1904, si era costituita senza alcun organico programma di governo attorno alla figura di Giolitti. La «dittatura» giolittiana suscitò le vivaci proteste dell’opinione pubblica e dei parlamentari che rifiutarono di essere «giolittizzati»: alla stabilità parlamentare del giolittismo corrispondeva, nel paese, una diffusa insofferenza per i suoi metodi di governo, per la prosaicità della sua politica, per l’influenza deleteria che il trasformismo giolittiano sembrava avere sulla vita e sull’azione dei partiti. Molte accuse rivolte a Giolitti erano infondate, e molte erano ispirate da un rigoroso ma sterile moralismo, che denunciava i mali senza essere in grado di proporre rimedi efficienti. Ma ciò non toglie [...] che l’antigiolittismo maturato durante gli anni del «lungo ministero», e divenuto più forte negli anni successivi, fosse anche il frutto di critiche realistiche, le quali individuavano nella stabilizzazione moderata raggiunta dal sistema giolittiano non una garanzia per un ordinato svolgimento della vita politica, in armonia con le esigenze del paese e delle sue molteplici componenti, ma soltanto il successo di una politica personale che coinvolgeva

gran parte della classe dirigente e della classe politica, ma lasciava sostanzialmente estraneo il paese. [...] Giolitti poté continuare nella prassi liberale avviata con la svolta degli inizi del secolo, ma notevolmente moderata rispetto alle sue premesse iniziali. Egli non aveva rinunciato al proposito di usare la maggioranza per promuovere il progresso sociale ed economico delle classi popolari, ma si muoveva sempre più secondo le condizioni del momento, senza precorrere o forzare gli eventi con riforme troppo ardite e troppo impegnative. Un riformismo, dunque, del «caso per caso» e dei piccoli passi, che interveniva soltanto nei punti di minor resistenza, evitando di affrontare questioni di fondo. La prassi giolittiana, inoltre, si esplicò in condizioni favorevoli, non incontrando alcuna seria opposizione capace di dar vita – fra le forze liberali o fra quelle della sinistra – a una valida alternativa, valida non solo nell’indicare i difetti e i limiti del riformismo giolittiano, ma anche e soprattutto nel proporre una diversa politica riformista trovando forze nuove con le quali attuarla. Queste forze, in realtà, non esistevano nel campo liberale. [...] Ma neppure nel campo dell’op-

posizione di sinistra – il discorso per i cattolici è molto diverso [...] – ci fu la volontà di dar vita a uno schieramento capace di contrastare nell’ambito parlamentare il sistema giolittiano. Il fallimento del sindacalismo rivoluzionario e l’inconsistenza politica del massimalismo1 [...] avevano vanificato qualsiasi possibilità in questo senso. La tendenza riformista, che trovò il suo valido appoggio nel gradualismo delle forze sindacali organizzate nella Confederazione Generale del Lavoro, diventò, in un certo modo, un elemento complementare necessario del sistema giolittiano, anche se i socialisti riformisti non accettarono mai di essere coinvolti nel governo. Giolitti riuscì a ottenere l’appoggio dei gruppi dirigenti moderati e riformisti del [...] movimento dei lavoratori con la realizzazione di una legislazione sociale per il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato: protezione del lavoro nelle risaie, tutela del lavoro dei fanciulli e delle donne durante la maternità, introduzione del riposo domenicale obbligatorio, divieto al lavoro notturno delle donne nei panifici. Soprattutto, Giolitti favorì, con provvedimenti particolari, l’attività delle cooperative, dando ad esse una privilegiata protezione nell’assegna-



zione e nell’esecuzione di opere pubbliche. [...] La politica giolittiana sostituiva con interventi parziali e discrezionali – spesso decisi non tanto per reali esigenze quanto per pressioni locali o per interessi di categoria e di politica governativa – la mancata attuazione delle riforme promesse dal Giolitti deputato di opposizione, ma accantonate dal Giolitti presidente del Consiglio. La politica giolittiana cercava di condizionare, per questa via, l’evoluzione del movimento operaio, e soprattutto contadino, verso forme di organizzazione e di azione tipicamente riformiste e con obiettivi economici, ma senza riuscire a conquistare un vero consenso da parte delle masse popolari, che le organizzazioni riformiste rappresentavano in modo regionale e corporativo. Per altro, i limiti di una politica riformista fondata sul compromesso con le organizzazioni economiche erano nelle stesse caratteristiche delle masse lavoratrici: la loro eterogenea composizione sociale e geografica; la divergenza sempre più evidente, con il progressivo sviluppo dell’economia capitalistica, fra operai specializzati e lavoratori generici, che erano ancora la maggioranza; l’eccedenza di manodopera bracciantile nelle

22d MARIO MISSIROLI VANE PAURE

M. Missiroli, Vane paure, «il Resto del Carlino», 20 aprile 1911, in 1911: calendario italiano, a c. di L Benadusi e S. Colarizi, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 67-69.

Nel 1912 fu approvata la riforma elettorale che introdusse, in Italia, il suffragio universale maschile, che diventava così un diritto di tutti gli uomini con più di trent’anni, al di là del Alcuni colleghi nostri, ben noti per la loro dirittura mentale e per la logica vigorosa alla quale sanno affidare sicuramente il loro pensiero, hanno gridato recentemente all’allarme in vista del suffragio universale, al quale una maggioranza di 340 deputati si è dimostrata liberamente favorevole, noncurante di opposizioni accademiche. Quei colleghi nostri ragionano, infatti, in un modo abbastanza curioso, discutendo della grande riforma elettorale, e partono da considerazioni così unilaterali, che fanno davvero torto al loro riconosciuto acume. Dicono, essi, che il suffragio universale colpisce a morte la borghesia, nei

regioni settentrionali – dove funzionava poco la valvola dell’emigrazione – imposta nell’attività produttiva dalla forza delle organizzazioni oltre le effettive esigenze del mercato del lavoro: tutto ciò contribuì a impedire l’integrazione delle masse popolari nello Stato liberale, nonostante il compromesso fra riformismo governativo e riformismo sindacale e cooperativo, favorito dalla mediazione del riformismo socialista, che era tornato alla guida del partito nel 1908. 1. Corrente politica del socialismo ostile al riformismo e più improntata alle pratiche rivoluzionarie.

METODO DI STUDIO

 a   Spiega quale rapporto esisteva, secondo Gentile, fra le qualità politiche di Giolitti e la “dittatura parlamentare” che, secondo i suoi contemporanei, riuscì ad instaurare.  b   Sottolinea con colori diversi le critiche infondate e quelle realistiche che vennero rivolte a Giolitti.  c   Rendi facilmente individuabili, con titoli scritti con colori diversi, gli obiettivi della politica giolittiana e le strategie adottate per raggiungerli.  d   Descrivi per iscritto le azioni, i risultati politici e le debolezze della politica giolittiana.

reddito e della classe di appartenenza [►3_4]. Negli anni precedenti, questa riforma era stata al centro di un acceso dibattito politico. In un articolo sul «Resto del Carlino» dell’aprile 1911, il famoso giornalista Mario Missiroli (1886-1974), che godeva delle simpatie di Giolitti, criticò le posizioni dei conservatori, convinti che l’allargamento del diritto di voto avrebbe potuto determinare la fine del sistema liberale.

suoi interessi e nelle sue idealità, e non esitano ad accusare di incoscienza e di viltà quei conservatori che hanno fatto buon viso all’imminente provvedimento legislativo. In realtà, un simile modo di discutere urta troppo contro il buon senso e quel liberalismo alieno da ogni debolezza demagogica, che è onore e vanto del nostro partito, ed è viziato da un evidente sofisma, in quanto, l’opporsi al suffragio universale per mere considerazioni di classe, significa affermare gratuitamente l’identità o la coincidenza dei propri interessi con quelli della nazione, rinunziando, in caso contrario, alla propria fisonomia di partito po-

litico, per restringere ogni attività nell’ambito limitato della propria classe. Pare, invece, a noi che il suffragio universale non sia più materia di discussioni teoriche, essendo esso già affermato idealmente in ogni governo costituzionale e in tutte le forme di suffragio, anche in quelle più ristrette. Credere, pertanto, che la vagheggiata riforma possa ferire a morte una classe per il sopravvento improvviso di una altra, significa, a nostro avviso, non rendersi conto del valore ideale dello stesso suffragio, e rinnovare una discussione già acquisita da mezzo secolo alla storia! [...] Le classi che fino ad oggi sono state sotto la tutela e la guida delle classi dirigenti

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FARESTORIA L’Italia giolittiana

battono alle porte. Affrettiamoci ad aprirle, se non vogliamo che le sfondino. La coscienza politica è oramai un attributo di ogni cittadino, e il sincero desiderio di partecipare alla vita politica è già una prova di maturità. Lasciate che entrino tutti nell’orbita dello Stato, che tutti vi prendano un posto, che tutti vi trovino una tribuna. Le idee classiche del liberalismo troveranno nuovi assertori1, e la forza delle cose impartirà delle incomparabili lezioni. I socialisti sentiranno la necessità ineluttabile dell’idea nazionale e saliranno al Governo con la coscienza di rappresentare tutte le classi. [...] Dal suo canto



la borghesia, rimorchiata dagli eventi, e perduta quell’influenza su le classi operaie, che riusciva ad esercitare appoggiando o addirittura non differenziandosi dai deputati socialisti, che troveranno altrove, nel nuovo margine elettorale la loro base, sentirà tutta la responsabilità che le incombe l’orgoglio del comando, e la necessità di una riorganizzazione economica e politica. Si addiverrà fatalmente ad una differenziazione dei partiti: ai calcoli ed agli interessi immediati succederanno le idee, nuovi valori si imporranno al nostro giudizio e al nostro esame: si liquideranno tutte le situazioni equivoche e

23 E. SCARPELLINI L’ITALIA OPERAIA

E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 15-23.

Nel primo decennio del XX secolo, la classe operaia italiana, per quanto ancora minoritaria, assunse caratteristiche sempre più definite. Nacquero così i quartieri operai, di cui sono

114

Abbiamo parlato di case operaie. Va subito detto che la casa ha sempre costituito un grave problema per le classi popolari, a causa della scarsità di alloggi disponibili e degli alti prezzi. Se è vero che la popolazione operaia rappresentava una percentuale ridotta rispetto a quella complessiva (si calcola che nel 1901 gli operai attivi fossero circa 3.500.000 [...]) essa si raggruppava densamente in alcuni luoghi: a Milano nel 1901 su 492.000 abitanti ben 280.000 facevano parte della classe operaia. La sistemazione più comune era nei quartieri più poveri, nelle costruzioni a blocco delle periferie popolari, nei centri urbani degradati (magari in soffitta). La famiglia operaia, in genere nucleare, si adattava a spazi angusti e sovraffollati, con in media tre o quattro occupanti per vano. Fra le tipologie urbane più caratteristiche troviamo le «case di ringhiera» del milanese: case d’affitto periferiche a più piani, dotate di lunghi ballatoi continui orientati verso un cortile interno [...]. Dai ballatoi1 si accedeva a numerosi piccoli alloggi di una o due stanze e alla latrina comune; mancavano illuminazione e fognature, e l’acqua corrente era spesso disponibile solo in cortile. [...] Lo stesso processo avviene a Torino, dove a inizio Novecento si formano le «barriere operaie», appena all’esterno della cinta dazia-

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contraddittorie moralmente improrogabili, ciascuno sentirà il dovere di scegliere liberamente un posto e di parlare chiaro. 1. Sostenitori. METODO DI STUDIO

 a   Rendi facilmente individuabili, con titoli scritti con colori diversi, le argomentazioni contrarie e quelle favorevoli al suffragio universale.  b   Evidenzia quelle che, secondo l’autore, sarebbero state le conseguenze del suffragio universale.  c   Spiega che tipo di documento è questo, a chi è rivolto e quali interessi esprime.

esempi le “case di ringhiera” di Milano e le “barriere” di Torino. In generale, come ricostruisce Emanuela Scarpellini, la classe operaia più specializzata si caratterizzò sempre più per i suoi comportamenti nella direzione del “decoro” e di un impiego del tempo libero simile, ma non sovrapponibile, a quello della borghesia.

ria2, che accolgono gli operai che lasciano il centro e i nuovi immigrati. [....] La caratteristica che avrebbe maggiormente connotato la classe operaia [...] è la sociabilità, la tendenza a sviluppare strategie relazionali e solidaristiche. Così, per fare un esempio, le famiglie delle case di ringhiera non vivevano isolate, ma creavano un reticolo di relazioni e amicizie, che funzionava anche come scambio di servizi e supporto in caso di necessità. E se tali reti vedevano le donne come principali protagoniste, gli uomini trovavano spazi alternativi di socializzazione nelle osterie [...]. La sociabilità operaia non va però troppo idealizzata. [...] Una vivace testimonianza della vita quotidiana degli operai milanesi a inizio Novecento ci è fornita dai documenti sui quartieri operai edificati da un’importante istituzione assistenziale come la Società Umanitaria3. Per reagire alla speculazione edilizia questa costruì dal 1906 vari palazzi da affittare a canoni calmierati4. Notiamo subito la scelta di erigere edifici a tre-quattro piani, ben distanziati tra loro, evitando i «casermoni» a blocco e anche la struttura con cortile centrale e i ballatoi comuni, a causa dei problemi igienici e della mancanza di privacy lamentata dagli inquilini. Entrando in uno dei 240 appartamenti, ognuno

con il proprio ingresso indipendente, si accedeva a un unico ambiente di circa venti metri quadrati, polivalente, oppure a due stanze: la prima era la cucina, dove si potevano vedere un tavolo di legno con quattro sedie, una madia5, scaffali e armadio, una stufa/cucina; la seconda era la camera da letto, dove troneggiava un grande letto matrimoniale con imponenti spalliere di legno e comodini, insieme a un armadio, un cassettone, altre due sedie e una «toilette» di ferro e ceramica (cioè una bacinella montata su di un’intelaiatura metallica, provvista di brocca, per lavarsi) [...]; l’illuminazione era assicurata da lampade a gas pensili, fatto non consueto nelle case operaie; ancora meno consueto, vi era uno stanzino adibito a latrina per ogni appartamento. Molti altri servizi erano in comune: bagni e docce,

1. Balcone esterno. 2. Mura che delimitano il perimetro di una città: le merci che entravano al suo interno, anticamente, dovevano pagare delle tasse (dazi). 3. Istituzione dedita alla beneficenza nata a Milano nel 1893. 4. Affitti contenuti entro un limite massimo. 5. Cassa.

cucina e ristorante, lavanderia, locali per l’allattamento dei neonati, stanze per riunioni e letture, spaccio di alimentari (il vino era però rigorosamente proibito). Venivano così «istituzionalizzati» i servizi tradizionalmente scambiati all’interno della comunità. Questa descrizione ci suggerisce un quadro di vita decorosa e di consumi basilari, in parte collettivi, che pure non erano alla portata della maggioranza degli operai. Ma anche qui non mancavano i problemi: gli abitanti del quartiere indirizzano nel 1909 una petizione al Comune perché sistemi le strade adiacenti, quasi impercorribili, costruisca le fognature, metta l’illuminazione pubblica per evitare gravi problemi di sicurezza, provveda a sistemare il corso dell’Olona6 che con la sua acqua stagnante d’estate creava problemi igienici. A ciò si aggiungevano le piccole faccende legate alla convivenza: frequenti schiamazzi (nella lavanderia è appeso un severo monito: «è vietato il cantare, il gridare e il litigare, sotto comminatoria della immediata espulsione»), risse al ristorante, furibondi litigi alle riunioni comuni (a un inquilino fu anche sparato un colpo di moschetto). [...] Le condizioni di vita e i consumi descritti sopra possono attagliarsi a una fascia ben delimitata di lavoratori, ovvero a quella di quanti potevano permettersi di pagare un affitto regolare e disponevano di una certa liquidità, in altre parole l’aristocrazia operaia. Si trattava in genere degli operai specializzati nei settori di punta, come il metalmeccanico e il tipografico, o che svolgevano mansioni professionali ancora legate a saperi artigianali (si stima fossero un terzo o un quarto del totale). Qui i consumi potevano seguire il modello sopra descritto, perseguendo l’ideale di una discreta sistemazione abitativa, sufficienti consumi alimentari e, con il tempo, anche altri tipi di consumo, compresi gli svaghi e i consumi culturali [...]. Quando parliamo di svaghi e consumi culturali per gli operai, il discorso corre subito all’«invenzione» del tempo libero. [...] Questi nuovi consumi operai pongono però un problema: si tratta di una progressiva estensione dei consumi tipici delle alte classi sociali, [...] che si verifica con l’innalzamento del tenore di vita? Oppure per gli operai valgono meccanismi diversi? C’è del vero in entrambe le ipotesi. Non c’è dubbio che la contiguità fisica con le classi borghesi e la parziale

condivisione degli stessi spazi pubblici abbiano favorito la diffusione di comportamenti simili; ma non bisogna dimenticare la spinta delle associazioni popolari e socialiste, favorevoli alla diffusione dell’istruzione e di comportamenti socialmente apprezzati (decoro, cura della famiglia, sobrietà) che potessero migliorare non solo il singolo ma l’intera classe operaia. Inoltre non possiamo dare per scontato che il modo di usufruire e intendere i consumi sia il medesimo. [...] Nel caso italiano, la bicicletta diviene per l’operaio più un mezzo di spostamento che un vezzo sportivo (al contrario del borghese, che invece usa treni, navi e sempre più automobili per spostarsi); e la musica classica,

espressione massima di cultura «alta», può essere compresa e apprezzata da un uditorio operaio in rapporto a immagini consuete dell’orizzonte lavorativo [...]. Abbiamo detto prima che questo tipo di allargamento dei consumi riguarda in realtà solo una fascia relativamente ristretta di lavoratori. Per molti altri tutto ciò era solo un miraggio, la principale preoccupazione essendo ancora la soddisfazione dei bisogni basilari. La disoccupazione era sempre in agguato, e una malattia o un grave problema familiare potevano far precipitare la situazione. 6. Fiume della Lombardia.

PALESTRA INVALSI

1 Per sociabilità nel testo si intende... [ ] a. la capacità di sapersi fare pubblicità per migliorare il proprio status sociale. [ ] b. un’abilità, propria delle donne, relativa alla capacità di gestire la società familiare. [ ] c. la tendenza a sviluppare relazioni di solidarietà fra gli operai. [ ] d. una caratteristica peculiare della classe borghese. 2 Indica quali caratteristiche sono proprie delle “case di ringhiera” e quali delle case milanesi della Società Umanitaria.

Caratteristiche

Case di ringhiera

Case della Società Umanitaria

Gli edifici erano a 3-4 piani e distanti fra di loro Non c’era illuminazione né fogna; l’acqua era spesso disponibile solo in cortile L’illuminazione era assicurata da lampade a gas pensili e vi era una latrina per ogni appartamento Vi erano ambienti in comune come quello per allattare i neonati, la lavanderia, le docce, la cucina e il ristorante Sono case a più piani con lunghi ballatoi che si affacciano su di un cortile Gli appartamenti erano molto piccoli e formati da 1 o 2 stanze e la latrina era in comune 3 Completa il testo che segue tenendo in considerazione quanto detto dall’autrice. In questo periodo alcuni operai iniziano a scoprire l’esperienza del XXXXXX. Si tratta di una fascia ristretta di questa classe sociale le cui abitudini variano rispetto agli altri YYYYYY contiguità fisica con le classi sociali più NNNNNN e nello stesso tempo grazie alle sollecitazioni fornite dalle associazioni popolari e MMMMMM volte a migliorare la qualità della vita individuale e contestualmente l’intera classe operaia. 1. Che parola metteresti al posto di XXXXXX? 2. Che parola metteresti al posto di YYYYYY? [ ] a. socialiste [ ] b. malgrado la [ ] c. grazie alla [ ] d. tempo libero [ ] e. alte

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FARESTORIA L’Italia giolittiana

24 F. BARBAGALLO NAPOLI: CAFÉ-CHANTANT E CINEMA MUTO



F. Barbagallo, Napoli. Belle Époque, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 139-44.

Nel corso del XIX secolo Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie, era a lungo stata una delle città culturalmente più vivaci d’Europa. L’eredità di questo periodo non scomparve con l’unità d’Italia: la città meridionale, anzi, restò all’a-

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Negli anni Novanta Napoli [...] è la capitale italiana della Belle Époque e il Salone Margherita sotto la Galleria Umberto è il più affermato café chantant italiano, in concorrenza spesso vincente con la grande Parigi. A poca distanza sono situati i numerosi teatri: anzitutto il San Carlo e il Mercadante, poi il Nuovo e il Sannazzaro, quindi leggermente più lontani il Bellini e il San Ferdinando. Tutta questa ricchezza di spettacoli non impedì affatto che, sul finire del secolo, il cinema si affermasse a Napoli come in nessun’altra città italiana. Anzi, proprio il Salone Margherita ebbe un ruolo centrale nella diffusione dello spettacolo cinematografico tra le classi superiori della città. È qui infatti che ebbe luogo, il 30 marzo 1896, la prima proiezione di pellicole Lumière. [...] Le immagini in movimento del cinematografo si riallacciano [...] alle vedute della città dipinta dall’alto e alla già sperimentata tradizione della fotografia. Le riproduzioni di tipo documentaristico «dal vero», naturalmente di brevissima durata, sono già molto numerose nel 1896 ad opera dell’impresa Lumière. Una Levée de filets de pêche, di soli 17 metri, riprende un gruppo di pescatori che tira in secco una rete dal mare a via Caracciolo, sembra dalle parti dell’attuale rotonda Diaz. Ancora del ’96 sono le immagini in movimento di Port et Vésuve e di alcune strade: Via Marina, Santa Lucia, Une rue (via Toledo). L’anno dopo ci sarà anche un’immagine in movimento del Salone Margherita. [...] Il cinema sembra eliminare la distanza tra i regnanti e i sudditi. Come scrive il «Corriere di Napoli», in questi primi film-documentari i protagonisti «vengono dal fondo della scena, fino, si può dire, allo spettatore; e sembra quasi di poter parlare con loro». Assente da queste immagini risulta il conflitto sociale. Ci sono gli operai, ma accanto alle macchine, quasi parte di loro, insieme al padrone. Ricompaiono invece da protagonisti i

U1 L’ALBA DEL ’900

vanguardia in materia di consumi culturali. Così, accanto ai numerosi café-chantant (caffè in cui si svolgevano spettacoli di intrattenimento e di varietà), si affermarono anche le sale cinematografiche. Secondo lo storico Francesco Barbagallo (nato nel 1945), questi consumi culturali coinvolsero tutte le classi sociali che, ugualmente attratte dalla forma cinematografica, si andarono però gradualmente interessando a generi diversi.

«mangiatori di maccheroni», che avevano già spopolato nel campo fotografico. Gli stranieri amano il «pittoresco» di Napoli, sono grandi consumatori degli «stereotipi» accumulati nei secoli sui napoletani. L’intreccio di esotico e pittoresco proietta un’immagine primitiva di un agglomerato che si vuole estraneo alla modernità delle potenze europee impegnate a diffondere civiltà in Africa e in Asia [...]. Nel 1903 l’americana Edison Manifacturing produrrà il documentario Eating Macaroni in the Street of Naples. I popolani che sollevavano i maccheroni con le mani erano più divertenti di quanti usavano, da secoli, le forchette. A Napoli però, in contrasto con i vieti stereotipi, erano diffuse anche le buone maniere e la modernità capitalistica. Infatti già nel 1898, primi in Italia, i Grandi Magazzini Italiani dei fratelli Mele avevano adottato il cinematografo per modernissimi scopi pubblicitari. Una serie di programmi Lumière, già presentati al Salone Margherita, veniva proiettata su uno schermo posto sull’edificio antistante, sempre dei Magazzini Mele. Tra i programmi sarà molto apprezzata l’edizione integrale dei tredici quadri della Passione di Cristo. Il successo popolare di queste gratuite proiezioni all’aperto era enorme, come confermava la questura, preoccupata dell’addensamento di «migliaia di persone appartenenti nella maggior parte alle classi povere, che altrimenti quello spettacolo non possono procurarsi [...] I marciapiedi sono ingombri di monelli e di intere famiglie e il transito è difficile anche ai pedoni. Una relativa oscurità vi domina, che può favorire reati contro le proprietà e le persone». Nel 1905 i fratelli Mele aprirono una sala cinematografica nella Galleria, che proiettava film i giovedì e i sabato dalle 16 alle 20.30, riservati ai clienti che effettuavano acquisti. Nello stesso anno ci sarà solo una seconda iniziativa del genere in Italia, ad opera dei Magazzini Bondi di Roma, e saranno poi i concorrenti napoletani di

Mele a scendere in campo. La ditta Miccio promosse nel settembre 1906 parecchie proiezioni, tra cui una specie di spot pubblicitario ante litteram: Vado a comprare da Miccio. A ottobre anche i Magazzini Nazionali dei fratelli Spinelli aprirono al loro interno un «Salone dei divertimenti», con un cinematografo che funzionava ogni giorno dalle 11 alle 17.30. Ma una sala esclusivamente dedicata al cinematografo era stata aperta intorno al 1897, sempre nella Galleria, dall’imprenditore Mario Recanati, padovano che aveva fatto esperienza negli Stati Uniti. La Sala Recanati sarà la prima «stabile» in Italia. Nei negozi attigui l’imprenditore vendeva grammofoni, fonografi, dischi. A fine secolo giunse a Napoli da Taranto un «ambulante di spettacolo», Menotti Cattaneo, che prima aprì un baraccone a Foria e poi, nel 1901, la Sala Iride tra Porta Capuana e la stazione. Questo baraccone di legno, trasformato in cinema in muratura nel 1906, ha svolto il compito importante di diffondere il cinema tra le classi popolari della città, specie nella forma molto apprezzata della «sceneggiata». Dalla metà del primo decennio del Novecento il cinema affianca il teatro e il caffè-concerto nei gusti culturali dei napoletani. Nel 1906 lo sviluppo del cinema è impressionante: a Napoli sono attive 27 sale cinematografiche. I giornali parlano di «morbo», di «epidemia», di «cinematografite acuta» che ha invaso la città. [...] Nel 1905 aprì a piazza Municipio il Salon Parisien, arredato in uno sfarzoso stile liberty. Ogni giovedì pomeriggio si organizzavano iniziative benefiche; il giorno dopo era la volta dei «venerdì eleganti». Divenne subito il locale preferito dall’aristocrazia [...]. Nel 1910 comincia ad affermarsi il lungometraggio, un notevole cambiamento che produce un consistente aumento dei costi di gestione dei cinematografi e un conseguente aumento dei prezzi, che separa sempre più le sale eleganti da quelle popolari, che spesso sono costrette a chiudere.

In genere venivano proiettati un dramma, una pellicola «dal vero» e una comica. Le sale di prima visione erano sempre più eleganti. [...] Il cinema, come la canzone napoletana, è un aspetto della realtà produttiva di Napoli, ancora viva e diversificata prima della guerra mondiale. Purtroppo tutti i film di questa esaltante stagione sono andati perduti, a partire da quello tratto nel 1914 dal dramma di Roberto Bracco1 Sperduti nel buio.

Le nuove tecnologie e l’avvento del sonoro posero fine a questa fase storica in cui il cinema si faceva a Napoli. Già durante la guerra chiusero molti stabilimenti cinematografici. Gli anni Venti segnarono il definitivo tramonto del cinema muto e della produzione napoletana.

25 V. VIDOTTO ANTICLERICALISMO E RIFORME NELLA ROMA DI NATHAN

V. Vidotto, Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2006 (I ed. 2001), pp. 119-25.

Nel 1907 divenne sindaco di Roma Ernesto Nathan (18451921): si trattava del primo sindaco della città non appartenente alla classe dei proprietari terrieri, molto spesso legati a doppio filo con il Vaticano. Nathan, inglese di nascita ed

L’espressione sintetica e brutalmente oltraggiosa per essa, del programma bloccardo1, che si riassume nella lotta non solamente politica, ma religiosa, nella guerra aperta e dichiarata alla fede, alle sue tradizioni, al sentimento prevalente dei suoi veri figli.

[...] Come mai questa nuova coalizione era riuscita a scalzare un equilibrato sistema di potere che, salvo qualche interruzione, aveva controllato il Campidoglio per oltre un ventennio? E perché era stato scelto come sindaco Nathan, una figura così fortemente simbolica di un’altra Roma [...]? Le maggioranze succedutesi al Comune si erano rette su un compromesso che metteva a tacere le contrapposizioni di principio, subendo senza frapporre troppi ostacoli l’egemonia di fatto del potere centrale.

 a   Cerchia i luoghi di consumo culturale offerti da Napoli e indica al lato del testo a chi erano rivolti e a quale svago erano dedicati.  b   Descrivi per iscritto il ruolo degli stereotipi e delle immagini di pacificazione sociale nella rappresentazione culturale ed economica di Napoli e spiega perché ebbero fortuna. Secondo te, quali effetti ha prodotto questo meccanismo sull’immaginario collettivo nazionale e straniero?

1. Roberto Bracco (1861-1943), giornalista e drammaturgo italiano.



Il 25 novembre 1907 il Consiglio comunale eleggeva sindaco Ernesto Nathan, ebreo, figlio di un agente di cambio londinese, inglese di nascita di modi e di accento, mazziniano benché non più repubblicano, massone [...]. Rispetto alla sequela di principi romani che lo avevano preceduto si trattava di una vera e propria rivoluzione. Secondo «L’Osservatore romano» l’elezione di Nathan alla guida di una giunta espressione del nuovo blocco laico e popolare costituiva per Roma

METODO DI STUDIO

ebreo di religione, aveva posizioni politiche affini a quelle dei mazziniani ed era un illustre rappresentante della massoneria [►PAROLE DELLA STORIA, p. 76], un’associazione allora caratterizzata da un approccio politico laico, anticlericale e patriottico. In questo brano, lo storico Vittorio Vidotto (nato nel 1941) illustra il processo che aveva condotto all’elezione di Nathan e le politiche laiche e riformiste adottate dalla Giunta comunale da lui guidata.

Ma la componente politica cattolica che faceva capo all’Unione romana2 era divenuta ormai sinonimo di affarismo, mentre il movimento cattolico dimostrava una capacità di iniziativa in molti settori, soprattutto in quello sociale, e un dinamismo tali da suscitare diffuse apprensioni. [...] C’era inoltre, e su scala non solo italiana, la ripresa di tensione con la Chiesa (impegnata in quegli stessi anni nella lotta contro le istanze riformatrici del movimento modernista3): un confronto politico-ideologico che aveva in Francia [...] il suo modello. A questi fattori di potenziale mutamento si aggiungeva il disegno politico giolittiano di un incontro delle forze liberal-democratiche con quelle dei partiti popolari e del socialismo riformista per realizzare un progetto di buona amministrazione volto ad attenuare le tensioni che si erano venute accentuando a Roma [...]. Nella capitale era consolidato un tessuto sociale formato da impiegati e burocrati statali [...] consapevoli della necessità di rivendicare un proprio specifico ruolo e disponibili a riconoscersi in nuovi progetti politici amministrativi. La cultura nazionale laica e massonica aveva una forte presa e un largo seguito presso questi ceti. Nei primi anni del secolo, si erano moltiplicate le iniziative a sfondo sociale e umanitario: questo «andare verso il po-

polo» era in sintonia con l’adesione al vocabolario socialista e contribuiva ad alimentare nuove forme di coinvolgimento e partecipazione. [...] Questa articolata mobilitazione della società civile non attendeva che essere convogliata verso precisi obiettivi politici. Fu proprio il presidente dell’Istituto romano per le case popolari, il valdese4 Giovanni Antonio Vanni, [...] a farsi promotore del Blocco popolare [...], che comprendeva [...] repubblicani, radicali, socialisti. [...] Alle elezioni generali del 10 novembre [1907, NdR] i cattolici dell’Unione romana e altri gruppi non si presentarono e «L’Osservatore romano» invitò perentoriamente all’astensionismo. Il Blocco vinse senza difficoltà, ma l’affluenza alle urne fu, come ovvio, sensibilmente inferiore [...]. I 64 seggi della maggioranza furono divisi tra 32 liberali costituzionali, 12 repubblicani, 11 socialisti e 9 radicali. [...]

1. Lo schieramento che sosteneva Nathan si chiamava Blocco popolare. 2. Lista che univa cattolici e laici. 3. ►1_7. 4. Il movimento valdese è un movimento religioso cristiano nato nel XII secolo con il tentativo di seguire letteralmente il messaggio evangelico: scomunicato e perseguitato dalla Chiesa di Roma, nel 1532 aderì alla Riforma protestante.

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FARESTORIA L’Italia giolittiana

Nathan, accanto ad una notorietà ed autorevolezza ormai consolidate – aveva sessantadue anni – era da tempo in buoni rapporti con Giolitti e il re. [...] Il principio ispiratore del Blocco e il suo comune denominatore era l’anticlericalismo, di cui Nathan era interprete rigoroso e consapevolmente aggressivo. Ne fanno fede i suoi discorsi in occasione delle celebrazioni del 20 settembre5. Grande scandalo e le vibrate proteste del pontefice suscitò quello del 1910, quarantesimo anniversario della presa di Roma. Parlando di fronte alla breccia di Porta Pia, da dove la Roma della Terza Italia aveva ripreso «il cammino del destino assegnatole», Nathan sottolineò la diversità di un’altra Roma [quella del Papa, NdR] «prototipo del passato [...]. Come nella materia cosmica in dissoluzione, quella città, alle falde del Gianicolo, è il frammento di un sole spento, lanciato nell’orbita del mondo contemporaneo». [...] A questa esplicita invasione di campo, papa Pio X replicò con un rescritto6 al cardinale vicario, reso pubblico dalla stampa, in cui lamentava che il sindaco di Roma

Non pago di ricordare solennemente la ricorrenza anniversaria del giorno in cui furono calpestati i sacri diritti della Sovranità Pontificia, ha alzato la voce per lanciare contro la dottrina della Fede Cattolica, contro il Vicario di Cristo in terra e contro la Chiesa stessa lo scherno e l’oltraggio [...].

Ma Nathan non arretrò, e ai giornali chiarì il senso della sua missione.

dal 1910 furono istituiti a Palestrina e nei Castelli campi estivi dove 180 ragazzi fra i più bisognosi delle classi finali trascorrevano all’aria aperta un mese e mezzo con la garanzia di un’alimentazione sana e controllata. Un così rilevante impegno si poneva anche come risposta alla riorganizzazione territoriale della Chiesa, con nuove parrocchie e istituti religiosi.

Come il Sommo Pontefice dall’alto della sua cattedra7 di S. Pietro ha il dovere di dire la verità quale a lui appare ai credenti, così il minuscolo Sindaco di Roma dinnanzi alla Breccia di Porta Pia, per lui iniziatrice di una nuova auspicata era politica e civile, ha uguale dovere innanzi alla cittadinanza.

5. L’anniversario della Breccia di Porta Pia, cioè dell’annessione di Roma al Regno d’Italia. 6. Risposta scritta. 7. Sedile, qui utilizzato in senso esteso come simbolo dell’autorità del pontefice sui fedeli.

Se l’anticlericalismo era il collante del Blocco popolare, lo sviluppo dell’istruzione elementare pubblica ne era il naturale corollario. [...] Negli anni dell’amministrazione popolare si raggiunsero dieci nuovi edifici scolastici [...]. Gli alunni passarono, tra il 1907 e il 1912, da 35.963 a 42.925 [...]. Aumentò la spesa pubblica per la refezione scolastica e in alcuni asili si protrasse l’orario fino alle sette di sera. A partire

 a   Individua non meno di cinque parole chiave in grado di definire le caratteristiche di Nathan come uomo e come politico e che afferiscano al valore della sua elezione. Quindi argomenta la tua scelta.  b   Evidenzia le domande su cui è costruita l’argomentazione del testo e rispondi sinteticamente per iscritto.  c   Spiega il significato e i rimandi storici intrinseci del discorso di Nathan riportato nel brano.  d   Cerchia gli obiettivi politici e sociali del Blocco popolare.

METODO DI STUDIO

PISTE DI LAVORO

LO STORICO RACCONTA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti mettendo in rilievo l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo descrittivo di circa 30 righe sull’Italia durante l’attività di governo di Giolitti mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di citare opportunamente i brani.

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 A partire dal brano di Gentile [►21] schematizza il dibattito sulle caratteristiche dell’esercizio del potere e del governo da parte di Giolitti. Sulla base di quanto hai studiato fino a questo momento, indica quella che ritieni maggiormente condivisibile. Argomenta il tuo punto di vista in un testo di non più di 15 righe.

NUOVI EQUILIBRI NEL MEDITERRANEO

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L’avvento delle masse sullo scenario politico ebbe conseguenze durature non solo nel mondo occidentale, ma anche in Medio Oriente e in tutti i paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Ovunque, infatti, nacquero e presero piede movimenti che facevano del nazionalismo – seppur declinato in termini diversi – il faro che illuminava la loro azione politica. Secondo la storica del Medio Oriente Marcella Emiliani [►26], uno dei movimenti nazionalisti più importanti – anche per l’influenza che ebbe nei decenni successivi – fu quello egiziano, che si contrappo-

U1 L’ALBA DEL ’900

neva tanto all’ingerenza britannica quanto a quella ottomana. Ugualmente importante fu, in ambiente turco, l’affermazione sullo scenario politico dei cosiddetti “Giovani turchi”, qui ricostruita dallo storico Giorgio Del Zanna [►27]: essi, infatti, veicolarono in ambiente ottomano teorie politiche occidentali (il liberalismo democratico) e forme di organizzazione politica che ben si adattavano alla nascente società di massa. Il successo a cui erano destinate le politiche dei “Giovani turchi” divenne evidente nel 1908, quando attuarono un colpo di Stato di matrice costituzionale, che voleva far tornare in funzione la Costituzione del 1876 sospesa nel 1878. In questa sezione, il corso degli eventi del 1908 è ricostruito attraverso le parole di un ufficiale italiano, Vittorio Elia [►28d], addetto militare a Istanbul. La rivoluzione del 1908 fu foriera di conseguenze per l’Impero ottomano, la cui crisi si faceva sempre più palpabile. Ne approfittò l’Italia che, dopo una guerra contro gli ottomani, riuscì a conquistare la Libia: come ricostruito dallo storico Nicola Labanca [►29], si trattò di una “guerra di transizione”, simbolicamente a cavallo tra l’Italia liberale di fine ’800 e la successiva Italia fascista. L’impresa coloniale fu sostenuta da un grande schieramento di forze: tra le voci più illustri a sostegno della conquista, si registrò quella del poeta Giovanni Pascoli [►30d].

EGIZIANO

26 M. EMILIANI IL PRIMO NAZIONALISMO

M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 82-86.

Nel corso dell’800, l’Egitto aveva assunto una posizione peculiare – e, in un certo senso, autonoma – all’interno dell’Impero ottomano: il suo governatore, nel 1867, era infatti riuscito a ottenere dagli ottomani il titolo di khedive, cioè di “viceré” del sultano. L’apertura del Canale di Suez nel 1869 aveva accresciuto, per contro, l’interesse europeo nei confronti dell’Egitto: la proprietà del Canale, che consentiva di raggiungere l’Asia senza circumnavigare l’Africa, era infatti nelle mani di una compagnia anglo-francese. Fin dal 1883 il console generale inglese in Egitto Evelyn Baring – meglio noto come Lord Cromer – impose al khedive di creare assemblee rappresentative a tutti i livelli e di concedere il suffragio universale a tutti i maschi al di sopra dei 20 anni. Le assemblee non avevano in realtà alcun potere legislativo, ma questa mossa consentiva alla Gran Bretagna di cooptare al governo1 un’élite moderna che, però, non doveva crescere politicamente al punto da minacciare il monopolio inglese sul paese, e al tempo stesso doveva fungere da contraltare alla corte per indebolire sempre più non solo il khedive ma l’intera classe dei latifondisti di origine turco-circassa2 che rappresentava la stampella portante del suo potere. Baring inoltre non si faceva scrupoli di applicare a sua discrezione la cosiddetta dottrina Granville, in base alla quale gli inglesi potevano destituire i ministri e i funzionari egiziani che non fossero disposti ad applicare le direttive di Londra. Salito al trono nel 1892, il khedive Abbas Hilmi II decise di contrastare lo

Nel 1882, intimorita da alcune recenti rivolte nazionaliste contro l’élite ottomana, la Gran Bretagna era intervenuta militarmente nel paese, installando un console generale che governasse l’Egitto secondo gli interessi britannici. Ancora formalmente parte dell’Impero ottomano, il paese si trovava così nella complicata situazione di essere retto da un khedive autonomo da Istanbul e di fatto sottoposto al controllo politico e militare del console britannico. In questo contesto, a rimanere esclusi erano proprio gli egiziani, tra i quali prese corpo, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, il primo embrione di movimento nazionalista: i suoi sviluppi sono ricostruiti in questo brano dalla storica del Medio Oriente Marcella Emiliani.

strapotere inglese e, nel tentativo di crearsi un proprio spazio di manovra, non ostacolò la creazione di una serie di movimenti e circoli nazionalisti di impronta chiaramente anti-britannica e finanziò addirittura la libera stampa in chiave sempre anti-coloniale. Proprio attraverso i giornali si diffusero le idee di colui che viene ritenuto il padre del nazionalismo egiziano, Mustapha Kamil Pasha [...]. Il nazionalismo di Mustapha Kamil Pasha è senz’altro un nazionalismo vibratamente egiziano e anti-britannico ma non è un nazionalismo arabo, non si fonda cioè sul carattere primario dell’arabità e non mira a creare una grande nazione araba al di là dei confini egiziani. [...] Quello che ci interessa sottolineare è il tentativo di Kamil di forgiare un’identità nazionale egiziana andando oltre il mosaico etnico-confessionale del paese. [...] Nel 1907 Mustapha Kamil Pasha fondò il primo Partito nazionale egiziano (Al-Hizb al-Watani) e in questa sua decisione ebbero un peso im-

portante due avvenimenti del 1906: l’incidente di Denshawai e l’arrivo del nuovo console generale inglese Eldon Gorst. L’incidente di Denshawai, un piccolo villaggio dell’entroterra di Alessandria, si verificò il 13 giugno quando un drappello di militari inglesi cominciò a sparare sui piccioni, più per gioco che per altro, scatenando le proteste degli abitanti locali. I piccioni rappresentavano, infatti, una delle poche fonti di proteine a buon mercato per i contadini che interpretarono la

1. Far entrare nel governo attraverso il meccanismo della cooptazione, cioè attraverso la scelta di coloro che ne fanno già parte. 2. La Circassia è una regione storica del Caucaso, allora compresa nell’Impero ottomano. Di nazionalità turco-circassa era la nuova classe dirigente che, raccolta intorno al khedive, si era affermata in Egitto nel corso del XIX secolo. La popolazione egiziana autoctona, quindi, si sentiva emarginata ed esclusa dai posti di potere e di responsabilità.

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FARESTORIA Nuovi equilibri nel Mediterraneo

sparatoria degli inglesi come una provocazione e un intollerabile atto di arroganza. Per di più nei tafferugli che seguirono rimase ferita la moglie dell’imam3 locale. La reazione di Lord Cromer a questo incidente in sé abbastanza insignificante fu durissima. Inviò, infatti, l’esercito a reprimere quella che nella sua ottica era una vera e propria rivolta popolare, facendo arrestare decine di persone e giustiziare quattro contadini. Un’ondata di sdegno si diffuse in tutto il Delta4 e Lord Cromer venne richiamato a Londra per essere sostituito da Eldon Gorst che fece di tutto per ingraziarsi la popolazione egiziana e smorzare l’ostilità verso la Gran Bretagna: ridusse il numero di consiglieri inglesi e il potere degli alti burocrati britannici nelle province, affiancandoli o sostituendoli con funzionari egiziani; tese la mano agli stessi nazionalisti, in parte per staccarli dal khedive, in parte per farne degli «alleati naturali» [...] degli inglesi, ma invano. Micro-rivolte contro la potenza occu-

pante si moltiplicavano nelle principali città e si intensificarono dopo che Gorst protrasse per altri quarant’anni la concessione inglese sul Canale di Suez. Il Canale divenne allora il simbolo stesso della lotta anti-coloniale e una delle poche icone del nazionalismo egiziano ad unire comunità confessionali e classi diverse. Morto Gorst nel 1911, Londra inviò quale governatore in Egitto un militare di rango5 come il generale Horatio Herbert Kitchener [...]. Nell’immediato il buon Horatio Herbert fece marcia indietro rispetto alle politiche di apertura del suo predecessore, mettendo un freno alla egizianizzazione (indigenizzazione) della burocrazia e restaurando la legge e l’ordine. Nel tentativo poi di limitare i già ridotti poteri del khedive, nel 1913 creò una nuova Assemblea nazionale elettiva, anch’essa dai poteri limitati, che riuscì comunque a diventare il centro dell’opposizione al governo (dunque anche alla corte) ma soprattutto a Kitchener e alla Gran Bretagna.

27 G. DEL ZANNA I “GIOVANI TURCHI”: UNA GENERAZIONE EMERGENTE



G. Del Zanna, La fine dell’impero ottomano, il Mulino, Bologna 2012, pp. 100-6.

A cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, i fermenti di riforma e rinnovamento presenti nell’Impero ottomano si coagularono intorno le posizioni dei cosiddetti “Giovani

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Agli inizi del XX secolo, la situazione interna all’Impero ottomano restava piuttosto precaria [...]. In questo clima, nel 1906 venne fondata a Salonicco l’Osmanlı Hürriyet Cemiyeti (Associazione della Libertà Ottomana), un’organizzazione segreta che mirava a ripristinare l’assetto dell’Impero sospeso nel 18781. [...] Soprattutto tra gli studenti delle moderne scuole superiori era cresciuta la disaffezione verso il regime hamidiano2. Nel 1889 un gruppo di studenti dell’Accademia medica militare di Istanbul fondarono l’İttihadı Osmanî Cemiyeti (Associazione per l’Unità Ottomana) con l’intento di restaurare il regime parlamentare, mentre più o meno nello stesso periodo, un ingegnere di Bursa3, Ahmet Rıza, giunto a Parigi nel 1889 per il centenario della Rivoluzione [francese, NdR], trovò ispirazione in quella esperienza per

U1 L’ALBA DEL ’900

Il primo vice-presidente del nuovo parlamento fu Saad Zaglul, avvocato e convinto nazionalista egiziano. Mustapha Kamil Pasha era morto solo due mesi dopo la creazione del Partito nazionale. 3. Tra i musulmani, colui che dirige la preghiera collettiva. 4. La zona della foce del Nilo. 5. Di alto livello. METODO DI STUDIO

 a   Cerchia i nomi dei personaggi storici citati e sottolinea le azioni e intenzioni politiche più significative. Quindi trascrivi sul quaderno i loro nomi, e indica sinteticamente a quale nazione appartengono, di quali interessi sono portavoce, quali i loro obiettivi politici e in che modo cercano di ottenerli o di metterli in pratica.  b   Evidenzia i luoghi citati nel testo e sintetizza per ognuno di essi gli eventi significativi che vi sono accaduti e il loro valore nel processo storico descritto.  c   Descrivi il rapporto politico esistente fra la Gran Bretagna e l’Egitto e spiega se e in che modo si esprimono le spinte nazionalistiche egiziane.

turchi”, organizzati nel Comitato Unione e Progresso (Cup). Come ricostruito nel seguente brano dallo storico Giorgio Del Zanna (nato nel 1971), il Comitato era costituito da giovani militanti influenzati dalla cultura politica europea, che veicolarono in ambiente ottomano l’ideale politico del liberalismo costituzionale e le nuove forme organizzative della nascente politica di massa.

promuovere un movimento politico liberal-costituzionale nell’Impero ottomano. Negli anni seguenti tali fermenti misero radici in diverse città ottomane, da Edirne a Salonicco4, finché si decise di organizzare meglio la rete del movimento con la creazione, nel 1896 del İttihat ve Terakki Cemiyeti (Comitato Unione e Progresso, d’ora in poi CUP). Accusati di cospirazione, molti membri furono mandati in esilio in Libia, mentre alcuni si rifugiarono in Europa. A Parigi, il gruppo acquistò crescente autorevolezza, proseguendo la sua attività attraverso le pagine del giornale «La Jeune Turquie» (da cui l’appellativo di «Giovani Turchi»), sebbene il foglio non riuscisse ad avere grande diffusione in Oriente. [...] I «fondatori» del CUP esprimevano una nuova generazione (l’età media era 27 anni) con un’elevata istruzione e una comune fede

musulmana, ma, paradossalmente, appartenevano in gran parte a gruppi non turchi (albanesi, curdi, circassi5) e non avevano legami con gli apparati statali ottomani. Ciò li differenziava molto dalla cellula tessalonicese6 che ebbe un

1. Nel 1876 era stata approvata una nuova carta costituzionale nell’Impero ottomano, che riprendeva i termini della carta fondamentale del regno del Belgio. Essa, però, fu sospesa dal sultano Abdul Hamid II già nel 1878. 2. Del sultano Abdul Hamid II, che restò in carica dal 1876 al 1909. 3. Città della Turchia, sul Mar di Marmara. 4. Edirne è una città turca vicina al confine con Grecia e Bulgaria. Salonicco è una città della regione greca della Macedonia. 5. La Circassia è una regione storica del Caucaso. 6. Di Salonicco.

ruolo decisivo nelle vicende del 19087. Questa era, infatti, formata sia da un gruppo di civili, [...] sia da un nucleo di giovani ufficiali dell’esercito [...]. Di estrazione borghese, ben istruiti, i membri di Salonicco – civili e militari – erano tutti musulmani turchi, originari per lo più dei Balcani ed erano accomunati dal servizio allo Stato. L’adesione degli ufficiali crebbe rapidamente, tra il 1906 e il 1908, giungendo a costruire due terzi dei circa duemila membri dell’organizzazione. [...] Nel settembre 1907, la cellula dell’Osmanlı Hürriyet Cemiyeti decise di confluire nel CUP, preparandosi alla campagna che avrebbe portato, l’anno seguente, alla reintroduzione della Costituzione ottomana. I Giovani Turchi [...] rappresentavano una generazione profondamente diversa dalle precedenti, sia per la formazione ricevuta sia per il contesto storico del tutto particolare in cui si trovavano ad agire. [...] Essi appartenevano tutti alla generazione cresciuta dopo il 1878, nel clima caratterizzato, da una parte, dalla crescente insicurezza che gravava soprattutto sulle province balcaniche ottomane, e dall’altra, dall’islamismo modernizzante ma autoritario del regime hamidiano. [...] Un altro aspetto rilevante riguarda l’istruzione: proprio il sistema educativo, oltre all’esercito, rappresentò un potente ca-

nale di politicizzazione dei ceti medi musulmani, in una fase in cui l’Impero ottomano stava entrando [...] nell’epoca della politica come fenomeno di massa. I Giovani Turchi rappresentarono, in questo senso, l’ingresso nello scenario imperiale del primo movimento politico organizzato che tentò di interpretare le aspirazioni di quei settori della società ottomana più sensibili e aperti alla modernità occidentale. Gran parte dei Giovani Turchi frequentarono scuole di tipo occidentale, giungendo ai più alti livelli della formazione. Tale esperienza contribuì ad orientarli verso un approccio razionale e scientista della realtà, secondo una visione positivista che doveva sostituire le tendenze presenti nella tradizione ottomana. [...] Lo studio ed il confronto con la cultura europea rese familiari molte idee, a cominciare dal costituzionalismo di stampo liberale di cui si ricominciò a parlare nei circoli ottomani [...]. La visione politica giovane-turca fu influenzata, inoltre, da due aspetti che caratterizzarono i percorsi biografici di gran parte dei membri del CUP. Il primo fattore era il loro inquadramento all’interno degli apparati statali. Ciò comportò un’attenzione prevalente del movimento al problema dello Stato, nonché una continua ricerca delle vie e degli strumenti più

28d VITTORIO ELIA I “GIOVANI TURCHI” CONQUISTANO IL POTERE

A.F.M. Biagini, La rivoluzione dei Giovani Turchi nei carteggi degli addetti militari italiani, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1974, pp. 582-84.

Nel luglio del 1908, in seguito a un colpo di Stato militare, i “Giovani turchi” si affermarono alla guida del governo ottoCostantinopoli1 29 luglio 1908 Chi avesse, tre settimane fa, profetizzato quello che vediamo oggi svolgersi davanti ai nostri occhi in Turchia, sarebbe stato trattato da visionario. Erano noti a tutti il malcontento dell’esercito, l’esaurimento della popolazione, la generale stanchezza per i metodi di governo che da tanti anni depauperavano il paese all’interno, rendendolo incapace di qualsiasi virile manifestazione all’esterno: si sapeva quanto esacrata2 fosse la camarilla di palazzo3 e quanto detestato il sistema di spionaggio

adatti a impedire una sua possibile dissoluzione. Essi erano convinti che lo Stato rappresentasse il principale strumento di cambiamento della società. In tale visione statocentrica era centrale l’idea dello Stato come valore che trascendeva ogni altro, secondo una concezione che, con forte continuità, ha poi segnato la Turchia repubblicana, permeando le epoche successive, [...] fino ai giorni nostri. L’altro fattore era costituito dalla mentalità militare con cui i Giovani Turchi tendevano ad affrontare i problemi. Influenzati dalla cultura prussiana [...] e dalla vittoria giapponese sui russi nel 1905, i Giovani Turchi coltivarono l’idea che uno Stato si poteva dire moderno solo se concepito come «nazione in armi», la cui forza risiedeva in un popolo di cittadini-soldati. 7. ►2_3 e FS, 28d. METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia i nomi delle associazioni, comitati o giornali descritti e sintetizzane le caratteristiche principali al lato del testo. Quindi trascrivili sul quaderno indicandone la natura e gli obiettivi.  b   Realizza e completa un grafico a stella con al centro la scritta «I Giovani turchi» e i cui raggi siano: a. appartenenza generazionale; b. tipo e grado di istruzione; c. visione dello Stato; d. rapporto con la cultura europea.

mano [►2_3] e costrinsero il sultano Abdul Hamid II, sul trono dal 1876, a ripristinare la Costituzione del 1876 sospesa da trent’anni e, l’anno successivo, ad abdicare. I convulsi avvenimenti di quei giorni sono ricostruiti, in questo brano, da un rapporto del tenente colonnello Vittorio Elia (1859-1944), addetto militare italiano a Istanbul tra il 1904 e il 1910.

sparso per tutto l’impero; con tutto ciò la rapidità con la quale la rivoluzione militare si propagò e guadagnò terreno, le accoglienze entusiastiche che le nuove idee trovarono nella massa della popolazione, l’unanimità di consenso di tutte le classi e confessioni, riuscirono completamente inattese anche a coloro che hanno passato qui tutta la loro vita e che fanno professione di meglio conoscere il paese. Da fonte riservata e assolutamente sicura ho avuto particolari interessanti circa quanto si svolse a palazzo la notte tra il 23 e il 24

corr., nella seduta del Consiglio dei Ministri, in seguito alla quale fu proclamata la costituzione. Il sultano compariva di tanto in tanto nella sala, poi si ritirava. Al Consiglio, presieduto dal Gran Vizir4, affluivano 1. Costantinopoli era l’antico nome cristiano di Istanbul, non più in vigore dal 1453. 2. Odiata. 3. I favoriti del sultano, che ne influenzavano le decisioni politiche. 4. Nell’impero ottomano il Gran Vizir presiedeva il consiglio imperiale.

121

FARESTORIA Nuovi equilibri nel Mediterraneo

telegrammi dalla Rumelia5 dove ogni presidio, ogni grosso centro, pareva guadagnato alle idee nuove. Il ritorno alla carta costituzionale del 1876 pareva imporsi; quando un telegramma da Adrianopoli annunciava che tutta la guarnigione aveva proclamato l’adesione alle richieste dei compagni del III ordù6 e che, se le riforme liberali non fossero state immediatamente elargite, le truppe avevano intenzione di marciare su Costantinopoli. Fu questa la notizia determinante. [...] Il Sultano, preso da emozione, ebbe un momento di smarrimento: poi si riebbe, interrogò ancora tutti i presenti, indi diede l’ordine che l’iradé7 portante la reintegrazione della costituzione del 1876 fosse immediatamente telegrafato per tutto l’impero. [...] Bruscamente, da uno stato di opprimente silenzio e di prevalente sospetto, l’impero è passato ad uno stato di libertà, sancita da uno «statuto», nelle linee generali simile al nostro. Nulla può essere la preparazione di molta parte del popolo per fruire nella sua pienezza di questa libertà,

ci vorrà quindi del tempo perché la concezione dei diritti e dei doveri di ognuno possa penetrare nella mentalità così speciale dei turchi. È superfluo aggiungere quanto le differenze di interessi, di confessioni, di tradizioni renderanno arduo il regolare funzionamento del nuovo ordine di cose. [...] Devesi constatare che la massa del popolo, in Costantinopoli, ha dato prova di moderazione e di urbanità. È praticamente cessata l’azione del governo, la polizia virtualmente non esiste più, le truppe sono esse che hanno preso l’iniziativa e non obbedirebbero più ai capi che ordinassero di marciare contro il popolo; eppure di nessun eccesso si ha notizia in questa capitale di un milione e mezzo di abitanti. [...] Ho assistito a parecchie delle manifestazioni di cui parlo e credo di dover segnalare, con l’assenza di ogni sentimento di xenofobia, le dimostrazioni di entusiastica simpatia verso la Gran Bretagna. [...] Debbo, in pari tempo, segnalare l’animosità che da parte del popolo si mostra verso la Germania. [...] Il

29 N. LABANCA LA CONQUISTA DELLA LIBIA: UNA GUERRA DI TRANSIZIONE

N. Labanca, La guerra italiana per la Libia, 1911-1931, Einaudi, Torino 2012, pp. 117-20.

La pace di Losanna, firmata il 18 ottobre 1912, mise formalmente fine alla guerra italo-turca [►3_6], concedendo all’Italia l’amministrazione militare e civile delle regioni libiche della Tripolitania e della Cirenaica. In questo brano, lo storico

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Alla fine dell’estate del 1913 la guerra italo-turca poteva dirsi conclusa. Il costo finanziario della guerra era stato eccezionale: se la campagna d’Eritrea del 1895-1896 aveva pesato per il 2% della spesa statale complessiva (e già questo era sembrato troppo a molti contemporanei), il costo della campagna di Libia, sebbene difficile da quantificare a causa degli artifizi contabili decisi dal governo, avrebbe rappresentato a seconda delle stime da più del doppio a forse quattro volte quella percentuale, peraltro di una spesa statale che nel frattempo era cresciuta. Era un costo notevolissimo, inconsueto per una spedizione coloniale. Gli artifizi contabili per nasconderlo non erano casuali: avendo prospettato una spedizione facile e rapida, ma che invece si sarebbe protratta

U1 L’ALBA DEL ’900

nuovo ordine di cose porterà certamente un mutamento notevole nelle influenze dominanti in questo paese. 5. La Rumelia ottomana includeva la Macedonia, Salonicco e parte della Tracia. 6. “Armata”. Il III ordù, che presidiava le regioni occidentali dell’Impero (la cosiddetta “Turchia europea”), era stato il focolaio della rivolta dei “Giovani turchi”. 7. Decreto imperiale.

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea le caratteristiche attribuite alla Turchia prima del colpo di Stato del 1908.  b   Sintetizza gli eventi accaduti nella notte fra il 23 e il 24 luglio del 1908 e spiega chi sono i soggetti storici che parteciparono agli eventi e quali i loro interessi e obiettivi politici. Quindi descrivi le conseguenze sulla Turchia. Prima di procedere con la scrittura evidenzia alcune parole chiave per ogni punto indicato e utilizzale come guida per il tuo elaborato.  c   Cerchia con colori diversi i paesi europei citati e sottolinea i sentimenti collettivi descritti nei loro confronti utilizzando gli stessi colori.

Nicola Labanca (nato nel 1957) fornisce un’interpretazione della guerra di Libia come di una “guerra di transizione” nella storia militare italiana: da un lato, in quanto a disorganizzazione militare essa si situa in una posizione di continuità rispetto ai conflitti precedenti; dall’altro, durante il suo svolgimento furono utilizzati tattiche e mezzi del tutto nuovi, che costituirono un’anticipazione delle politiche coloniali fasciste degli anni ’20 e ’30.

– formalmente fino alla pace di Losanna – per oltre un anno, il governo non poteva ammettere di fronte al parlamento e all’opinione pubblica spese così alte. Letteralmente pagandola a caro prezzo, gli italiani avevano vinto la partita: non sul terreno bensì per abbandono da parte dell’avversario, anzi di una parte soltanto di esso. L’intervento militare di terra e le operazioni navali, compresa l’occupazione delle isole dell’Egeo, avevano certamente logorato l’Impero ottomano ma senza le guerre balcaniche1 è difficile dire se questo si sarebbe davvero piegato. In ogni caso, il nemico dapprima sottovalutato – la resistenza libica – rimaneva ancora in campo e vi sarebbe rimasto, in forme e spazi diversi, ancora per quasi un ventennio.

L’Italia liberale celebrò il 18 ottobre 1912 alla stregua della vittoria di una grande guerra nazionale: aveva al tempo stesso torto e ragione. Da un lato, infatti, più che il proprio successo su uno degli imperi più estesi d’Europa (e ormai quasi del Vicino Oriente), l’Italia celebrava il non fallimento, la non-Adua2 tanto temuta. Alla vigilia del conflitto tutto ciò era auspicato, ma non poteva essere dato per scontato.

1. ►2_3. 2. Nel 1896, le truppe italiane erano state rovinosamente sconfitte ad Adua, nel tentativo di conquistare l’Etiopia. La portata della disfatta impressionò molto l’opinione pubblica e mise provvisoriamente la parola fine all’espansione coloniale italiana.

Dall’altro avevano sostanzialmente torto quanti sostenevano che era stata una nuova Italia, un’Italia nazionalista se non addirittura futurista a vincere la guerra. [...] L’Italia liberale e giolittiana del 19111913 aveva certamente compiuto alcune scelte diverse rispetto al passato: si era impegnata in un conflitto coloniale con truppe e spese così elevate da trasformarlo quasi in una guerra nazionale; era stata pronta a inimicarsi tanto la Triplice [Alleanza, NdR] quanto il Regno Unito per raggiungere un risultato il cui valore era da molti messo in dubbio; si era macchiata in teatro di azioni assai pesanti (bombardamenti navali ripetuti, esecuzioni sommarie, consistenti deportazioni amministrative di popolazione civile ecc.). In questo senso, poteva effettivamente dirsi «nuova» [...], anche se incerta la convenienza nel gloriarsene. In molti aspetti, però, l’Italia del 1911-1913 continuava ad assomigliare, sul terreno della guerra, a quella del 1896, del 1885 se non addirittura a quella del 1866. In Libia, cioè, si erano riproposti le divisioni fra i capi, le linee di comando ingarbugliate, il mancato coordinamento fra i massimi responsabili civili e militari, le destituzioni degli alti comandanti a operazione in corso, le impreparazioni tecniche, gli errori, le sopravvalutazioni della propria forza e le sottovalutazioni di quella dell’avversario, gli stereotipi e i pregiudizi sul nemico coloniale che già avevano macchiato le precedenti imprese coloniali e risorgimentali. [...] Per tanti aspetti si era trattato [...] di una guerra di transizione. Abbiamo già visto come quella del 1911-1913 non era stata una guerra coloniale (formalmente fu combattuta fra due Stati sovrani, Italia e Impero ottomano, e, da parte italiana con un corpo di spedizione di dimensioni inusitate per un’operazione coloniale), ma non era nemmeno una guerra europea (fu combattuta in Africa, contro la resistenza libica). Il nemico ottomano-libico non era assimilabile ai tradizionali

avversari delle campagne coloniali europee dello scramble for Africa3, con le loro forme «primitive» di resistenza primaria, ma non era nemmeno ancora l’avversario nazionalista modernamente organizzato degli scontri del periodo fra le due guerre mondiali o tantomeno delle guerre di decolonizzazione. Quella libica compartecipava anzi delle due forme di resistenza, primaria e moderno-nazionalistica: era certamente un avversario «locale» ma, attraverso la solidarietà panislamica e panaraba che sollevò, ebbe anche alcuni tratti «globali». Anche sul fronte interno e italiano, la guerra italo-turca ebbe aspetti di transizione. Fu una guerra non priva di sostegno in Italia4 [...], ma neanche è legittimo dire che si fosse delineato un consenso unanime (importanti e qualificate furono le critiche dei liberisti, dei democratici, della maggior parte dei socialisti) [...]. Anche in termini di condotte di guerra il conflitto ebbe caratteri intermedi e di transizione: alcune prassi non avrebbero potuto essere accettate da una classe dirigente sinceramente liberale (la deportazione, le fucilazioni, la «politica della forca»5, e anche il blocco marittimo), ma certo non si era ancora di fronte alla violenza estrema del fascismo. [...]

Insomma, la guerra di Libia, o meglio la fase italo-turca della più lunga guerra italiana per la Libia, ebbe una storia davvero complessa. In un certo senso, avevano avuto ragione Caneva e Briccola6: la loro non era stata né una guerra coloniale né una guerra nazionale. Per questo era difficile, di fatto impossibile, vincerla sul campo. Scioglierne i nodi lasciati aggrovigliati fu passato in eredità all’ultima fase dello Stato liberale, che pure non ne fu capace, e quindi al fascismo, il quale – sia pur non senza difficoltà – alla fine li avrebbe tagliati a suo modo, cioè ricorrendo alla violenza estrema.

3. Espressione con cui si indica la competizione delle potenze europee per la conquista dell’Africa, alla fine del XIX secolo. 4. ►FS, 30d. 5. Politica basata sulle esecuzioni sommarie di quanti si opponevano, tra gli autoctoni, alla conquista italiana. 6. Carlo Caneva (1845-1922) e Ottavio Briccola (1853-1924) furono due generali, comandanti dei corpi d’armata italiana che operarono in Libia. Tra l’ottobre 1911 e il 1912 Caneva fu governatore della regione libica della Tripolitania, mentre Briccola fu governatore della Cirenaica tra l’ottobre 1912 e l’ottobre 1913.

PALESTRA INVALSI

1 Quando nel testo si parla di caratteri di transizione della guerra di Libia, a cosa si vuole alludere? [ ] a. Al fatto che non era stata né una guerra nazionale né una guerra coloniale e anche che alcuni comportamenti (violenti) non erano propriamente ascrivibili ad un governo liberale. [ ] b. Alle caratteristiche dell’esercito italiano poiché esso non era ancora pronto ad affrontare una guerra simile. [ ] c. Alla condizione politica italiana che con questa guerra era ormai diretta verso il fascismo e le sue pratiche. [ ] d. Al fatto che, pur trattandosi di una guerra coloniale in piena regola, ci fossero comportamenti inappropriati da parte delle truppe. 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? «L’Italia liberale celebrò, totalmente a ragione secondo Labanca, il 18 ottobre 1912 la vittoria della guerra in Libia in quanto grande guerra nazionale.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

30d GIOVANNI PASCOLI LA GRANDE PROLETARIA SI È MOSSA



G. Pascoli, Prose, I, Pensieri di varia umanità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1946, pp. 557-67.

Il 26 novembre 1911, il poeta Giovanni Pascoli (18551912) prese la parola al teatro di Barga, in provincia di Luc-

ca, per commemorare i soldati italiani deceduti o feriti nella guerra in Libia, iniziata due mesi prima. Acceso sostenitore dell’impresa coloniale, Pascoli rappresentò l’Italia come la “grande proletaria”, cioè come una nazione in cui le risorse non erano sufficienti a mantenere tutta la popolazione, che, per questo, era costretta all’emigrazione. Secondo il poeta,

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FARESTORIA Nuovi equilibri nel Mediterraneo

l’unica soluzione per arginare il fenomeno emigratorio era la conquista di colonie e territori d’oltremare, che avrebbero La grande proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi1, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve2, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora [...]. Il mondo li aveva presi a opra3, i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava4. [...] Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, si linciavano5. [...]. Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi6 delle altre nazionalità. Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre7; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande8; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto. Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non dovranno, il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno vie,

potuto dar lavoro agli italiani che non ne trovavano nella madrepatria.

coltiveranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall’immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore. [...] Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento9 e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro [...]. Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo lavoro, i lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra. Eccoli con la vanga in mano, eccoli a picchiar col piccone e con la scure, i terrazzieri e braccianti per tutto cercati e per tutto spregiati. Con la vanga scavano fosse e alzano terrapieni, al solito. Coi picconi, al solito, demoliscono vecchie muraglie, e con le scuri10 abbattono, al solito, grandi selve. Ma non sono le solite strade, che fanno per altrui: essi aprono la via alla marcia trionfale e redentrice d’Italia. Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie. Stanno li sotto i rovesci d’acqua, sotto le piogge di fuoco; e cantano. La gaia canzone d’amore e ventura è spesso l’inno funebre che cantano a se stessi, gli eroi ventenni. Che dico eroi? Proletari, lavoratori, contadini. [...] La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sé e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti,

case, all’intera collettività che ne abbisogna. [...] Può (perdonate la bestemmia; ché in verità ella non può!) essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare l’impresa, essere invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora: ella è e resterà, non può morir più una nazione in cui le madri raccomandano ai figli che partono per la guerra, di farsi onore, in cui tutti i bambini delle scuole rompono per i feriti il loro salvadanaio, in cui (udite: è cosa accaduta in un borghetto qui presso: ai Conti) il più povero mezzaiuolo11 dei dintorni, che ha un figlio nelle trincee di Tripoli, dà ai cercatori della Patria i suoi unici due soldi: l’obolo che la Patria ha riposto nel suo seno, vicino al suo gran cuore, come inestimabile tesoro. 1. Lingue di terra bagnate su due lati dal mare. 2. Disboscare. 3. Assunti a giornata. 4. Insultava. 5. Venivano uccisi dalla folla, senza processo. 6. Vortici. 7. Linosa, Pantelleria, Lampedusa. 8. La Sicilia. 9. Rendere più “civili” e, dunque, più “umani”. 10. Asce. 11. Contadino, mezzadro.

METODO DI STUDIO

 a   Spiega per iscritto chi è la grande proletaria, e quali motivi l’hanno spinta, secondo Pascoli, verso l’impresa coloniale.  b   Evidenzia le motivazioni alla colonizzazione fornite dall’autore che potremmo definire “nobili” e “morali”.

PISTE DI LAVORO

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LO STORICO RACCONTA 1 Dopo aver letto i brani di Del Zanna [►27] e di Elia [►28d], scrivi un testo di circa 25 righe sul colpo di Stato dei “Giovani turchi” citando opportunamente i due storici. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di toccare i seguenti punti nell’ordine che preferisci: • contesto storico e situazione politica nazionale e internazionale; • appartenenza culturale e generazionale dei “Giovani turchi”; • eventi; • conseguenze politiche.

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IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Dopo aver letto i brani di Labanca [►29] e di Pascoli [►30d] sintetizza la loro posizione sulla conquista della Libia mettendo in rilievo i comportamenti “nobili” e quelli tipici di una guerra di conquista messi in campo dagli italiani. Basandoti sui testi e su quello che hai studiato fino a questo momento, confronta le due posizioni e indica quella che ritieni maggiormente condivisibile. Argomenta il tuo punto di vista in un testo di non più di 15 righe.

COMPITO DI STORIA Scrivi un saggio breve sull’argomento indicato di seguito, facendo riferimento ai brani di Geremek [►1], Ortega y Gasset [►5], Victoria De Grazia [►6], Pietro Scoppola [►13], Rowbotham [►18], Rossi Doria [►19], e ai documenti di Gustave Le Bon [►4d], Aleramo [►17d], e al programma di Erfurt [►7d]. Puoi far riferimento a tutti i testi indicati o solo ad alcuni. In base all’argomento indicato di seguito scegli un taglio per il tuo elaborato e seleziona i brani e le fonti più utili al tuo ragionamento. Indica un titolo e, se lo ritieni opportuno, suddividi il tuo elaborato in paragrafi.

Argomento La società di massa e l’affacciarsi sulla scena politica e sociale di nuovi soggetti portatori di diritti Organizza il tuo elaborato prendendo spunto dalle operazioni proposte dalla seguente scaletta: a. Lettura e comprensione • Focalizza il taglio che vuoi dare al tuo elaborato e in base a questo seleziona i brani più utili alla tua argomentazione. • Individua nei brani scelti i soggetti sociali ed economici che reclamano il riconoscimento dei propri diritti e spiega di quali diritti si tratta. b. Individuazione e analisi dei passaggi significativi in relazione alle questioni chiave affrontate nell’elaborato • Trascrivi schematicamente i diritti reclamati, i soggetti che li richiedono e le strategie adoperate per ottenerli. • Indica per ogni informazione che hai selezionato e trascritto il brano di riferimento. c. Contestualizzazione storica • Indica quali sono, secondo gli storici presentati, le dinamiche che portano i soggetti prima esclusi dal contesto politico e da una qualità della vita ritenuta dignitosa a riconoscersi portatori di diritti politici e sociali. d. Interpretazione • L’affacciarsi delle masse sulla scena politica porta con sé elementi di rottura violenta o avviene in modo pacifico? Ci sono dei “lati oscuri” del processo che stai analizzando? Perché? • Quale rapporto esiste fra l’individuo e la massa? La massa è in grado di esprimere i bisogni dei singoli e della collettività? È facilmente influenzable e manipolabile? Per includere gli stimoli sorti da queste domande nel tuo elaborato fai riferimento alle diverse posizioni desumibili dai brani selezionati.

Suffragette manifestano a Greenwich Village (New York) 1912

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STORIAeAMBIENTE I PARCHI NAZIONALI E LA DIFESA DELL’AMBIENTE E DEL PAESAGGIO

LA PROTEZIONE DELLA NATURA: UN’IDEA RECENTE Nel corso dell’800, in vaste zone dell’Europa e degli Stati Uniti, divennero sempre più evidenti gli effetti sull’ambiente naturale provocati dalla rivoluzione industriale. Il paesaggio stava cambiando velocemente: quasi ovunque era ormai visibile la presenza dell’uomo, non solo nelle città ma anche nelle campagne, coltivate intensamente grazie allo sviluppo delle tecniche agricole. Furono gli intellettuali e gli scienziati, per primi, a denunciare la scomparsa di spazi naturali selvaggi e incontaminati e a prendere coscienza che la natura e le sue risorse – i mari e i fiumi, il suolo, le piante e gli animali – avessero un ruolo fondamentale nella vita della Terra e di conseguenza andassero protette. Nel 1866 lo scienziato tedesco Ernst Haeckel (18341919) introdusse una nuova parola destinata ad avere grande successo: “ecologia”, composta dai termini di origine greca oikos, “casa” o “ambiente”, e logos, “studio”, ovvero lo studio delle relazioni tra gli organismi che esistono in natura. Ma fu solo nel ’900 che i governi europei rivolsero l’attenzione al problema dell’ambiente, anticipati, sin dagli ultimi decenni dell’800, dagli Stati Uniti, che per primi compresero che le “bellezze naturali” di un paese andavano protette e valorizzate, anche come risorsa economica. Progressivamente si affermò inoltre l’idea che le risorse naturali di un paese costituissero per esso un motivo di vanto e di orgoglio e un elemento fondante della stessa identità nazionale.

GLI STATI UNITI D’AMERICA E LA NASCITA DEI PRIMI PARCHI NAZIONALI

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Dopo aver raggiunto l’indipendenza alla fine del ’700, per tutto il secolo successivo gli Stati Uniti procedettero alla

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conquista dei territori dell’Ovest: in pochi decenni furono capaci di espandersi su una superficie grande quanto l’Europa, dalle coste dell’Oceano Atlantico a quelle del Pacifico. Da subito, sia i protagonisti di tale espansione, ovvero i pionieri in cerca di oro e ricchezze, sia il nuovo Stato federale, avevano messo in atto uno sfruttamento intensivo delle nuove terre conquistate, in nome del processo di civilizzazione e sviluppo: dagli ampi boschi veniva preso legname per costruire case e infrastrutture; si abbattevano vaste parti di foreste per lasciare spazio a coltivazioni e pascoli che fornissero cibo a una popolazione in continua crescita. Ben presto, gli effetti di questa attività furono oggetto delle riflessioni di alcuni intellettuali e politici. A proposito dell’impatto che la conquista del West dell’uomo “bianco” aveva avuto sulla natura, il naturalista di origine scozzese John Muir (1838-1914), in una pagina del diario scritto nel 1869, durante il suo primo viaggio sui monti della California, osservava: Come sono diversi quasi tutti i segni dell’uomo bianco, soprattutto nella zona aurifera: strade aperte a furia di mine nella viva roccia, torrenti selvaggi interrotti da dighe, imbrigliati, deviati dal loro corso, forzati lungo i versanti di forre e valli per lavorare come schiavi nelle miniere [...] Questi sono i segni che l’uomo bianco ha tracciato in pochi anni febbrili, per non parlare degli stabilimenti, dei campi, dei villaggi sparsi per centinaia di miglia sul fianco della Catena. Molto tempo dovrà passare prima che questi segni vengano cancellati, anche se la Natura è già all’opera e rimbosca, ripianta, trascina via dighe e canali, spiana i mucchi di sabbia e di sassi, con pazienza cercando di rimarginare ogni ferita crudele [...] Fortunatamente per la Sierra, le rocce aurifere sono limitate alle zone pedemontane. La regione attorno al nostro campo è ancora perfettamente selvaggia e più su è la neve, intatta come il cielo. [J. Muir, La mia prima estate sulla Sierra, Vivalda Editori, Torino 2002, pp. 55-56]

Come Muir, anche altri denunciarono le derive dell’attività umana. George Perkins Marsh (1801-1882), personalità politica e membro del Congresso, nel libro L’uomo e la natura (1865) analizzava il ruolo dell’umanità nelle trasformazioni del paesaggio e sosteneva che spettasse proprio all’uomo rimediare ai danni: L’uomo è in ogni luogo un agente perturbatore. Ovunque egli posi il piede, le armonie della natura si cangiano in discordia... e la sua azione distruttrice divien sempre più potente e spietata quanto più egli procede nella civiltà, finché l’impoverimento che tien dietro a questo esaurimento del terreno, alla fine lo avverte della necessità di conservare ciò che è rimasto, se non di restaurare ciò che è stato devastato per noncuranza. [Politiche e culture del paesaggio. Esperienze internazionali a confronto, a c. di L. Scazzosi, Gangemi, Roma 1999, p. 157]

Col passare degli anni, si svilupparono due differenti correnti di pensiero: la prima, definita “conservazionista”, spingeva per una protezione radicale della natura dalla mano dell’uomo; la seconda, detta “preservazionista”, sosteneva

la necessità di regolare e programmare la gestione delle risorse naturali per fini economici, sociali e culturali, così da non provocare il degrado dell’ambiente e del paesaggio. Proprio da questo secondo approccio si fece strada l’idea di creare delle aree naturali protette, controllate dalle istituzioni politiche. Pioniere di questa iniziativa fu l’architetto Frederick Law Olmsted (1822-1903), il quale da una parte si impegnò nella realizzazione di giardini all’interno delle grandi città statunitensi (come sovrintendente di New York promosse il progetto del Central Park, nel cuore di Manhattan), dall’altra propose di istituire dei parchi naturali amministrati direttamente dallo Stato. Secondo Olmsted, le aree più belle e importanti da un punto di vista naturalistico dovevano passare dalla proprietà di singoli individui, che le gestivano per propri interessi, nelle mani delle istituzioni pubbliche, che invece le avrebbero protette e messe a disposizione della collettività: Una veduta aerea di Central Park, nel cuore di Manhattan, New York

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STORIA E AMBIENTE I parchi nazionali e la difesa dell’ambiente e del paesaggio

Non è sufficiente sottrarre alcuni scenari naturali al monopolio dei singoli... ma è necessario che siano aperti all’uso di massa. La creazione da parte dei governi di grandi parchi pubblici dove tutti, pur nel rispetto di alcune regole, possano liberamente ricrearsi, è dunque un dovere politico non solo opportuno ma anche necessario. [G. Pettena, Olmsted. L’origine del parco urbano e del parco naturale contemporaneo, Edifimi, Firenze 1996, p. 155]

Nel 1864 fu approvata una legge, firmata dal presidente Abramo Lincoln, che rese la Yosemite Valley e la vicina foresta di sequoie proprietà dello Stato della California,

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Yellowstone National Park Il Parco Nazionale di Yellowstone si estende per quasi 9 mila chilometri quadrati nella zona delle Montagne Rocciose, al confine tra Wyoming, Montana e Idaho.

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a condizione che queste diventassero luoghi pubblici e ricreativi per l’individuo. Così affermava Olmsted, che aveva collaborato alla stesura della legge: Yosemite deve essere salvaguardato, custodito e amministrato in modo che tutti, sempre, ne possano usufruire liberamente, e... la sua cura, e l’ospitalità offerta agli stranieri che vengono da ogni parte del mondo per visitarlo e goderne in tutta libertà, è un dovere che attiene alla dignità di uno stato sovrano. [G. Pettena, Olmsted. L’origine del parco urbano, cit., p. 152]

Di lì a poco, nel 1872, venne istituito lo Yellowstone National Park, tra gli Stati del Wyoming e del Montana: per la prima volta, un’area naturale veniva controllata e protetta interamente dalle istituzioni federali del governo statunitense e non da un singolo Stato, come nel caso di

Crater Lake, lago vulcanico nel cuore dell’omonimo Parco Nazionale in Oregon

Yosemite. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, molte altre aree furono trasformate in parchi nazionali: nel 1890 nacque in California il Sequoia National Park; nel 1899 il Mount Rainier National Park nello Stato di Washington; nel 1902, in Oregon, il Crater Lake National Park e otto anni dopo, nel Montana, il Glacier National Park. In alcuni casi, la nascita di questi luoghi venne fortemente sostenuta da importanti personalità politiche, come il presidente Theodore Roosevelt (in carica dal 1901 al 1908), noto per la sua grande passione per la natura. Ai motivi di ordine “ecologico” si affiancavano in realtà scopi politici ed economici. Dopo le divisioni e le lacerazioni della guerra civile, il cittadino americano doveva riconoscersi nell’unicità delle bellezze naturali custodite dalla nazione, nella “natura selvaggia” americana – la wilderness –, che rendeva gli Stati Uniti diversi e speciali rispetto al resto del mondo. La volontà del governo era anche quella di promuovere economicamente i territori,

richiamando turisti da ogni parte del mondo. Proprio per questo, all’interno dei parchi nazionali cominciarono ad essere costruiti ferrovie e strade, strutture ricettive e alberghi. Nel 1916 esistevano ben 14 parchi nazionali sul territorio statunitense: il presidente Woodrow Wilson decise allora di istituire un unico organismo federale responsabile della loro gestione, il National Park Service. Col passare degli anni, molti parchi vennero fondati anche nella parte orientale del paese, e non soltanto nel più selvaggio West. Come affermò Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti dal 1933 al 1945: «Non c’è niente di così americano quanto i nostri parchi nazionali!», a testimonianza di quanto questi luoghi fossero ormai entrati a far parte della coscienza nazionale del popolo americano. Ancora oggi, il National Park Service e gli organi federali sono responsabili della tutela e della manutenzione dei grandi parchi nazionali statunitensi. Osserva lo storico Piero Bevilacqua: 129

STORIA E AMBIENTE I parchi nazionali e la difesa dell’ambiente e del paesaggio

In questo grande paese venne dunque messa a punto una architettura istituzionale e legislativa di grande novità e importanza, destinata a influenzare la politica di protezione della natura, sia pure per aree delimitate, in tutte le regioni del mondo. Per uno straordinario paradosso [...] il paese che oggi consuma in proporzione ai suoi abitanti la maggior quantità di risorse dell’intero pianeta, e al tempo stesso è il maggiore responsabile dell’inquinamento globale, è stato anche il primo a inaugurare una severa politica di protezione degli ultimi paradisi selvaggi presenti nel suo territorio. [P. Bevilacqua, La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 139]

L’EUROPA, LA DIFESA DELL’AMBIENTE E LA NASCITA DEI PARCHI NAZIONALI IN ITALIA

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In Europa, una vera e propria politica diretta alla protezione della natura si realizzò soltanto all’inizio del ’900. Rispetto al Nord America, il territorio europeo, ad esclusione di alcune zone della Scandinavia, non possedeva ampie aree selvagge e incontaminate, ma era fortemente “antropizzato”,

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cioè caratterizzato dalla presenza dell’uomo, fin dall’Antichità. Le politiche di tutela e protezione dell’ambiente naturale, al contrario di ciò che avvenne negli Usa, si inserirono quindi all’interno di un dibattito iniziato da qualche anno riguardante la difesa del patrimonio artistico e culturale posseduto da ogni nazione, del quale la natura cominciò pian piano a far parte. In alcuni paesi, uno spirito ambientalista era già maturato tra circoli di intellettuali e artisti. In Francia, ad esempio, l’associazione Ligue pour la conservation des sites pittoresques (Lega per la conservazione dei luoghi pittoreschi) fu fondata nel 1865 da alcuni pittori e artisti per denunciare i danni provocati dall’attività dell’uomo nella foresta di Fontainebleau, poco lontana da Parigi. I primi parchi nazionali europei nacquero, sulla scia di quanto era avvenuto negli Stati Uniti, prima dello scoppio della Grande Guerra, in Svezia, in Germania e in Svizzera.

Il Parco Nazionale Sarek, istituito nel 1909, nella Lapponia svedese Con i suoi immensi ghiacciai e le profonde valli e gli impervi torrenti, il parco artico di Sarek è un esempio di natura incontaminata, difficilmente accessibile all’uomo.

Orso marsicano, Parco Nazionale d’Abruzzo L’orso bruno marsicano, simbolo del Parco Nazionale d’Abruzzo, è una sottospecie caratteristica dell’Italia centrale, in particolare dell’area del Parco Nazionale d’Abruzzo dove, dalle stime, sembra siano presenti una cinquantina di esemplari.

In Italia, invece, il dibattito politico sulla protezione delle aree naturali si sviluppò più lentamente. Nel 1905 venne approvata una legge speciale che rese “inalienabile” (non vendibile o cedibile), ovvero pose nelle mani dello Stato, ai fini di un rimboschimento, la pineta di Ravenna, importante area verde nota anche per il suo valore storico-artistico nazionale: era stata celebrata da Dante nella Divina Commedia e da Boccaccio in una delle sue novelle del Decamerone; nell’estate del 1849 era stata attraversata da Giuseppe Garibaldi e dalla moglie Anita, in fuga da Roma. Pochi anni dopo, nel 1909, la legge sulla difesa del patrimonio “culturale” dell’Italia, detta legge Rava-Rosadi dal nome dei due uomini politici liberali che la presentarono, proponeva per la prima volta un legame tra le bellezze artistiche e monumentali del paese e quelle naturali e paesaggistiche, da inserire anch’esse in una politica di tutela governativa. Conclusa la Grande Guerra, il discorso fu ripreso dal filosofo e uomo politico Benedetto Croce (1866-1952). Protezione della natura, del patrimonio artistico, storico e culturale italiano, attenzione al paesaggio e patriottismo convergono nella sua proposta di legge presentata in Parlamento nel 1920:

[il paesaggio] altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari [...], con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli. [...] E se dalla civiltà moderna si sentì il bisogno di difendere, per il bene di tutti, il quadro, la musica, il libro, non si comprende, perché siasi tardato tanto a impedire che siano distrutte o, manomesse le bellezze della natura, che danno all’uomo entusiasmi spirituali così puri e sono in realtà ispiratrici di opere eccelse. [Benedetto Croce, relazione introduttiva Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, seduta del Senato del 25 settembre 1920]

Fu durante il fascismo, però, che vennero istituiti i primi parchi nazionali italiani. Nel dicembre del 1922 nacquero ufficialmente il Parco Nazionale del Gran Paradiso (tra Valle d’Aosta e Piemonte) e, un mese dopo, nel gennaio 1923, il Parco Nazionale d’Abruzzo. All’inizio degli anni ’30, agli obiettivi di ordine naturalistico si affiancarono motivi propagandistici ed economici, legati al rilancio del turismo. Tra il 1934 e il 1935 furono creati il Parco dello Stelvio, tra i monti della Lombardia, del Trentino e dell’Alto Adige, a suggello della conquista italiana durante la prima guerra mondiale delle terre al confine settentrionale con l’Austria; il Parco 131

STORIA E AMBIENTE I parchi nazionali e la difesa dell’ambiente e del paesaggio

del Circeo, sulla costa meridionale del Lazio, per celebrare la politica fascista di bonifica delle paludi pontine e la nascita di nuove città come Littoria (l’attuale Latina) e Sabaudia. Quest’ultimo parco, inoltre, rappresentava un vicino luogo di villeggiatura e di svago per gli abitanti di Roma e con le stesse intenzioni si propose di trasformare in area protetta anche il Terminillo (una montagna nel Lazio, vicino alla città di Rieti) e il Gran Sasso (in Abruzzo), dove la borghesia della capitale si sarebbe potuta facilmente recare a sciare d’inverno o a trascorrere i mesi estivi. Nel 1939, sempre un ministro del governo fascista, Giuseppe Bottai, fu l’artefice della prima vera e propria legge sulla tutela dell’ambiente e del paesaggio: ad essere difese e protette non erano solo le “bellezze naturali” ritenute tali da un punto di vista estetico, ma anche i luoghi riconosciuti per la loro importanza scientifica, biologica e geologica. Al termine della seconda guerra mondiale, infine, l’attenzione all’ambiente trovò spazio nella Costituzione della nuova Repubblica italiana. All’articolo 9, tra i princìpi fondamentali, si afferma: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

PROBLEMI AMBIENTALI DI IERI E DI OGGI

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Durante il XX secolo, la tendenza a istituire parchi nazionali si è diffusa in tutto il mondo. In America Latina, l’Argentina, il Brasile e il Perù hanno posto sotto la tutela governativa importanti complessi montuosi, ghiacciai, corsi d’acqua e vaste porzioni di foresta incontaminata. L’Australia si è impegnata nella salvaguardia della Grande Barriera Corallina; anche in Africa sono nati col tempo numerosi parchi per difendere una natura unica al mondo. Di fronte ai sempre più evidenti danni provocati dall’attività dell’uomo, a partire dagli anni ’60 e ’70 ha preso forza un movimento ambientalista che chiede agli Stati e ai loro governi di attuare politiche per la conservazione delle aree naturali ancora esistenti, necessarie alla sopravvivenza del pianeta. Nel 1961 viene fondato a Zurigo il World Wildlife Fund (Wwf ), un’associazione internazionale che si pone ancora oggi l’obiettivo di arrestare il continuo degrado dell’ambiente naturale nel mondo, di salvare le specie animali in pericolo di estinzione (non a caso il suo simbolo è il panda) e di far vivere in futuro l’uomo in armonia con la natura. Dieci anni dopo, in Canada, nasce Greenpeace, associazione ambientalista e pacifista

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Le gole del Raganello nel Parco Nazionale del Pollino Il Parco Nazionale del Pollino, istituito nel 1988, è il più grande parco naturale d’Italia, situato a cavallo tra Basilicata e Calabria.

che si propone di lottare, in maniera non violenta, in difesa della natura e contro alcune pratiche umane pericolose e inquinanti (come i test nucleari) o dannose per la flora e la fauna del pianeta (in particolare nella pesca e nello sfruttamento dei mari). Sempre negli stessi anni sorgono inoltre i primi partiti politici ecologisti, che si definiscono “verdi” e pongono al centro della loro battaglia la salvaguardia dell’ambiente. Anche in Italia, con l’obiettivo di proteggere e soprattutto valorizzare il patrimonio artistico e naturale del paese, nasce a metà degli anni ’70 il Fondo Ambiente Italiano (Fai) e, nel 1980, dall’esperienza dei movimenti ecologisti internazionali e contrari al nucleare viene creata l’associazione Legambiente. Grazie a questa rinnovata e continua attenzione ai temi ambientali, nel 1991 si è giunti all’approvazione di una legge che ha istituito sul territorio italiano, a fianco dei parchi, le cosiddette “aree protette” e le “riserve marine”: luoghi cioè dove sono vietate la pesca o la caccia, la raccolta delle piante, la costruzione di case e di strade. A livello internazionale, pur restando molto forti gli interessi economici, un importante passo in avanti è avvenuto il 16 novembre 1972, quando l’Onu e la sua agenzia dedicata all’educazione, la scienza e la cultura, l’Unesco, hanno adottato la Convenzione sul Patrimonio dell’Umanità, con lo scopo di proteggere quelle parti del mondo consi-

Le Dolomiti Un insieme di gruppi montuosi delle Alpi Orientali

compresi nelle province di Belluno, Bolzano, Pordenone, Trento e Udine, le Dolomiti sono

derate di straordinaria importanza per motivi culturali o naturalistici: ad oggi sono stati individuati oltre 1000 siti, presenti in più di 160 nazioni, tra i quali numerosi parchi nazionali. Si sta facendo sempre più strada, poi, l’idea di uno sviluppo economico definito “sostenibile”, che non preveda cioè uno sfruttamento intensivo delle risorse naturali ma un loro uso consapevole ed equilibrato, compatibile con il rispetto dell’ambiente: il problema, infatti, non è soltanto quello di capire come poter conservare ciò che ancora non è stato distrutto, ma occorre ragionare su un nuovo rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’attività umana e l’ambiente in cui abita. Come osserva lo scienziato e botanico italiano Valerio Giacomini:

state inserite come bene naturale nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2009.

Si sente dir spesso che è necessario lasciare alle future generazioni dei patrimoni di natura incontaminata affinché possano ancora goderne. Non crediamo che questo sia il senso del problema. Ciò che dobbiamo lasciare è un insegnamento alla corretta convivenza, all’uso consapevole, alla sapienza di una ecologia giunta nel profondo e lì trasformata in morale collettiva. Dovremo lasciare alla nostra progenie una civiltà, non solo un capitale. Allora il discorso abbandonerà i territori, le leggi, le pianificazioni, la fauna e la flora. E tornerà ad essere un dialogo degli uomini sugli uomini, un discorso fra uomini e parchi. [V. Giacomini, V. Romani, Uomini e parchi. La straordinaria attualità di un libro che ha aperto una nuova stagione nella cultura delle aree protette e nella politica del territorio, Franco Angeli, Milano 2002, p. 194]

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STORIA E AMBIENTE I parchi nazionali e la difesa dell’ambiente e del paesaggio

LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE LABORATORIO DI SCRITTURA STORICA  1  Redigi sul quaderno un breve excursus storico (max 20 righe di documento Word) sulla nascita e diffusione di una coscienza ecologica, adoperando la scaletta che ti proponiamo. Correda il testo di un titolo e di immagini, selezionandole dal tuo manuale o lanciando una ricerca in Rete.

● Nascita del concetto di ecologia ● Quei pionieri degli Usa: la protezione della natura come affare di Stato ● La wilderness e l’identità americana ● L’Europa, il continente dove la protezione dell’ambiente fa il paio con la tutela del patrimonio artistico e culturale ● Gli anni ’60-70 del ’900: nascita dei movimenti ambientalisti ● La difesa della natura si politicizza: nascita dei partiti ecologisti ● Giorni nostri: è possibile uno sviluppo economico sostenibile?

LAVORA SUL TESTO  2  Completa la tabella relativa alla legislazione sulla tutela del paesaggio in Italia dal 1905 al 1948. L’esercizio è già avviato.

Data

Fonte (ove specificata)

1905

Oggetto Legge speciale a favore del rimboschimento della pineta di Ravenna

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LA TUTELA DEL PAESAGGIO NELLA NOSTRA COSTITUZIONE  3  L’articolo 9 della Costituzione italiana recita: «La Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Questa azione di tutela si è però concretizzata solo molti decenni dopo la sua enunciazione, con l’istituzione di due ministeri: il ministero dei Beni culturali, nel 1974, e il ministero dell’Ambiente, nel 1986. Oggi i due dicasteri hanno cambiato nome, rispettivamente, in ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact), il primo; ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare (Mattm), il secondo.

Vai sul sito istituzionale del Mattm; nel menu “Argomenti”, clicca su “Educazione Ambientale”, leggi il testo e rispondi alle domande:

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● ● ●

Qual è l’obiettivo principale dell’Educazione ambientale (Ea)? In cosa consiste l’Educazione allo sviluppo sostenibile (Ess)? Quali sono gli ambiti di azione dell’Ess?

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LE NUOVE LINEE GUIDA PER L’EDUCAZIONE AMBIENTALE  4  In occasione dell’anno scolastico 2015, il Mattm ha lanciato, in collaborazione con il Miur, la pubblicazione delle Nuove linee guida per l’educazione ambientale.

Lancia una ricerca su Internet digitando nella maschera di ricerca di Google “Linee guida educazione ambientale 2015” e scarica, dal sito del Mattm, il file pdf, che contiene tantissime schede progettate per le scolaresche, utili per saperne di più sulle problematiche ambientali. In particolare, ti segnaliamo, nella Parte Terza, le “Schede tecniche di approfondimento” (pp. 135-87), organizzate in Nozioni/ Problematiche e fattori di pressione/Soluzioni. Ti invitiamo a leggerne qualcuna, magari quella che ti incuriosisce maggiormente, che è all’attenzione dei concittadini nel tuo comune di residenza. Discutine poi in classe con i tuoi compagni e con l’insegnante.

● Conoscere e tutelare la biodiversità dalle specie agli ecosistemi ● Servizi ecosistemici e uso sostenibile della biodiversità ● Suolo ● Gestione e tutela delle acque ● Tutela del mare ● Cambiamenti climatici ● Energia ● Gestione del ciclo dei rifiuti ● Sviluppo urbano e inquinamento: la città sostenibile ● Lotta alle ecomafie ● Lo spreco alimentare

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STORIA E AMBIENTE I parchi nazionali e la difesa dell’ambiente e del paesaggio

NORVEGIA Stoccolma e del Nord

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IMPERO D’AUSTRIA E UNGHERIA

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ALBANIA IMPERO OTTOMANO GRECIA

MAROCCO (protettorato francese)

ALGERIA (possedimento francese)

Cipro

Malta TUNISIA (possedimento francese)

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M e d i t e r r a n e o Alessandria

L’EUROPA NEL 1914

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UNITÀ 2 GUERRA E RIVOLUZIONE

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1917: rivoluzione bolscevica

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Triplice intesa

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Stati alleati Triplice alleanza

EGITTO M

Triplice alleanza

LIBIA (possedimento italiano)

CHIAVI DI LETTURA

Il laboratorio della contemporaneità

Guerra e rivoluzione russa

Scoppiata nel 1914, al termine di una lunga fase di sviluppo e di progresso, nata dalle vecchie e nuove rivalità fra le grandi potenze europee, la “Grande Guerra”, come subito fu definita, si trasformò presto in un conflitto mondiale e in una guerra totale. Se agì, infatti, in profondità sul vissuto di coloro che la combattevano al fronte, la guerra ebbe effetti importanti e duraturi anche sulla gran massa di coloro che non indossarono l’uniforme. L’intera società civile fu coinvolta nello sforzo bellico, e in qualche misura militarizzata, per far fronte alle esigenze produttive:

Strettamente intrecciate con quelle del primo conflitto mondiale sono le vicende delle due rivoluzioni scoppiate in Russia nel 1917: fu la guerra, o meglio il rifiuto della guerra, a favorire la trasformazione di quella che si era in un primo tempo presentata come l’ultima delle rivoluzioni ottocentesche nel più radicale e sanguinoso esperimento di trasformazione economica e sociale mai tentato in un grande paese europeo. Come vedremo, un’esperienza politica che si era annunciata portatrice di un messaggio di libertà, oltre che di eguaglianza sociale, si trasformò presto in un regime spietatamente autoritario e oppressivo.

Il fenomeno fascista M ar

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non solo le strutture economiche, non solo le modalità della politica, ma anche i comportamenti privati, le mentalità, le strutture familiari furono profondamente condizionati da questa esperienza. La guerra funzionò, insomma, come un laboratorio e un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla nascente società di massa. Non stupisce dunque che sia considerata l’evento fondante del ’900 e della stessa età contemporanea.

Fu un paese vincitore della Grande Guerra, l’Italia, a inventare e a sperimentare per primo un nuovo regime politico, il fascismo, radicalmente alternativo alla democrazia liberale e al tempo stesso violentemente ostile al socialismo e al comunismo. Il movimento guidato da Benito Mussolini riuscì nel 1922 a conquistare il governo alternando la violenza alla manovra politica; e, una volta salito al potere, agì all’interno delle istituzioni liberali per trasformarle gradualmente in un regime autoritario. La vittoria del fascismo maturò nel quadro di una profonda crisi del sistema liberale italiano, e dipese in larga parte dagli errori dei suoi avversari e dei suoi competitori, che faticarono a capirne i metodi e la natura e ne sottovalutarono la novità.

GLI EVENTI 1914 Attentato di Sarajevo: scoppia la prima guerra mondiale

1915 L’Italia entra in guerra a fianco dell’Intesa

1917 Rivoluzione in Russia. Gli Usa entrano in guerra

1917 Sconfitta italiana di Caporetto

1918 La guerra si conclude con la vittoria dell’Intesa

1918 Battaglie del Piave e di Vittorio Veneto: l’Italia esce vincitrice dalla guerra

1919 Si apre a Versailles la conferenza di pace. Nasce la Repubblica di Weimar

1923 Crisi della Ruhr

1919-20 “Biennio rosso”

1919 Mussolini fonda i Fasci di combattimento

1922 Marcia su Roma

1924-28 Piano Dawes e stabilizzazione in Germania. Si afferma in Urss il potere di Stalin

1924 Delitto Matteotti

1926 Le leggi “fascistissime”

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CAP4 LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LA RIVOLUZIONE RUSSA

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Eventi L’assalto al Palazzo d’Inverno Storia, società, cittadinanza Il servizio militare • Il mito della democrazia diretta Storia e Cinema Orizzonti di gloria di Kubrick Focus Guerra nei cieli • L’industria e la guerra • La letteratura della Grande Guerra • La memoria della Grande Guerra: il culto dei caduti Atlante L’Europa nella Grande Guerra (1914-23) Lezioni attive La prima guerra mondiale, vicende e caratteristiche Test interattivi Audiosintesi

4_1 VENTI DI GUERRA

Agli inizi del 1914 il predominio dell’Europa su gran parte del mondo era ancora indiscusso, nonostante l’emergere a Oriente e Occidente di nuove potenze, come il Giappone e gli Stati Uniti. Lo straordinario sviluppo nella produzione industriale, nel campo tecnologico e negli scambi commerciali aveva diffuso l’idea di un progresso inarrestabile, che avrebbe portato benessere a tutti. L’integrazione tra le economie più sviluppate e il consolidamento delle istituzioni rappresentative (con l’estensione del diritto di voto) sembravano poter poi realizzare un processo di democratizzazione e scongiurare il pericolo di scossoni rivoluzionari o guerre.

L’Europa del 1914

Tuttavia, l’evoluzione politica e i progressi economici e materiali non bastavano a spegnere i conflitti sociali interni ai singoli paesi né a far scomparire le tensioni politiche internazionali. Tra le potenze europee, che pure non si combattevano da quasi mezzo secolo, erano ancora vive vecchie e nuove rivalità: tra l’Austria-Ungheria e la Russia per il controllo dei Balcani; tra la Francia e la Germania per l’Alsazia e la Lorena; tra la Gran Bretagna e la Germania per la corsa agli armamenti navali. L’equilibrio continentale si basava, come abbiamo visto [►2_2], sulla contrapposizione di due blocchi di alleanze: Austria e Germania contro Francia, Russia e Gran Bretagna. In questo quadro, la corsa agli armamenti intrapresa dalle maggiori potenze e la forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici rendevano sempre più inquietante l’ipotesi di un conflitto.

Conflitti latenti

La guerra era dunque nell’aria. Ma non tutti la temevano come il peggiore dei mali. Se le minoranze pacifiste si mobilitavano per impedirne lo scoppio, se i socialisti di tutti i paesi la condannavano in nome degli ideali internazionalisti (ma la vedevano anche come l’esito fatale delle contraddizioni del capitalismo), settori non trascurabili delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali la valutavano come un’opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, o la concepivano come un dovere patriottico, o addirittura la invocavano come un evento liberatorio. Per molti giovani, che condividevano con i più autorevoli intellettuali dell’epoca l’insofferenza nei confronti dell’ottimismo positivista e progressista, o che erano semplicemente alla ricerca di nuove esperienze e di nuove emozioni, la guerra si presentava come la grande occasione per uscire dagli orizzonti internazionalismo angusti di una mediocre realtà quotidiana. Solo la guerra – si pensava – avrebbe L’internazionalismo – cui si ispirarono le associazioni potuto risvegliare una società intorpidita da troppi anni di pace e di ricerca del internazionali dei lavoratori – si fonda sul principio cardine benessere materiale, restituire alla vita una dimensione eroica, rilanciare l’ideale della solidarietà tra i membri del proletariato e sulla organizzazione internazionale del movimento operaio. Da patriottico e l’etica del sacrificio. questo discende anche il ripudio delle guerre tra le nazioni, Ma le motivazioni di chi auspicava il conflitto potevano essere anche meno che porterebbero i proletari in lotta tra loro invece che disinteressate: c’erano, infatti, militari, uomini politici, industriali e finanziecontro il comune nemico, la borghesia capitalistica. ri pronti a sfruttare le opportunità di carriera, di successo e di guadagno 138

La guerra come occasione

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Volontari in attesa di arruolarsi fanno la fila davanti a un ufficio di reclutamento a Londra estate 1914 Fra le potenze impegnate nella Grande Guerra, la Gran Bretagna era l’unica a non disporre di un esercito di leva. Ma, ancor prima di introdurre (nel 1916) la coscrizione obbligatoria, riuscì a mobilitare oltre 2 milioni di volontari.

offerte da una guerra che i più immaginavano breve, sul modello dei conflitti ottocenteschi, e naturalmente vittoriosa per il proprio paese. Questa somma di aspirazioni ideali e di calcoli sbagliati non basta certo a spiegare lo scoppio della Grande Guerra. Ci aiuta però a capire il clima fra il rassegnato e l’esaltato in cui l’Europa affrontò un evento che le sarebbe costato milioni di morti e avrebbe segnato il declino irreversibile della sua egemonia.



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea per ogni sottoparagrafo la frase che, a tuo avviso, ne spiega meglio il titolo e argomenta oralmente la tua scelta.  b   Evidenzia con colori differenti le alleanze che componevano l’equilibrio continentale nel 1914.  c   Spiega per iscritto quali situazioni esistenti a inizio ’900 avrebbero potuto portare alla guerra.

4_2 UNA REAZIONE A CATENA

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Nell’Europa del 1914 esistevano dunque tutte le premesse che rendevano possibile, anzi probabile, una guerra. Imprevedibile, e per molti aspetti casuale, fu però la dinamica degli eventi da cui scaturì il casus belli, ovvero l’occasione, o il pretesto, per lo scatenamento del conflitto. Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, mentre attraversavano in auto scoperta le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia. L’attentatore faceva parte di un’organizzazione ultranazionalista che si batteva affinché la Bosnia, annessa all’Austria-Ungheria nel 1908 ma abitata in maggioranza da popolazioni slave, entrasse a far parte di una “grande Serbia” indipendente dall’Impero asburgico. L’organizzazione, detta “Mano nera”, aveva la sua base operativa proprio in Serbia e godeva di larghe complicità nella classe politica e nei vertici militari di quel paese. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci, da tempo convinti della necessità di impartire una lezione alla Serbia e alle sue ambizioni espansionistiche che minacciavano l’integrità dell’Impero [►2_3]. Un attentato terroristico, molto simile a quelli di matrice anarchica che avevano già mietuto numerose vittime fra governanti e sovrani, si trasformò così in un caso internazionale e mise in moto una catena di reazioni e controreazioni che precipitarono l’Europa in un conflitto di proporzioni mai viste. Un conflitto che avrebbe segnato una svolta decisiva nella storia dell’Europa e del mondo, ridisegnando i confini e mutando i rapporti di forza fra gli Stati, trasformando la stessa società, aprendo infine una fase di guerre e rivolgimenti interni durata più di trent’anni e conclusasi col definitivo tramonto della centralità europea.

►  Eventi L’attentato di Sarajevo, p. 140

L’attentato di Sarajevo

L’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia 1914

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

La vicenda dell’attentato di Sarajevo è dunque un tipico esempio di come il corso della “grande storia” possa essere influenzato da eventi singoli, da decisioni individuali, da circostanze del tutto accidentali: nessuno può dire che cosa sarebbe accaduto se a Sarajevo i servizi di sicurezza imperiali fossero stati più efficienti o se l’attentatore avesse mancato il suo bersaglio. Ma Princip non sbagliò la mira. E l’attentato di Sarajevo fece esplodere tensioni che altrimenti avrebbero potuto restare latenti. Furono le decisioni prese da governanti e capi militari a trasformare una crisi locale in un conflitto generale, il primo combattuto sul Vecchio Continente dopo la fine delle guerre napoleoniche [►FS, 31].

Il caso e la storia

ultimatum Nel diritto internazionale si chiama “ultimatum” la richiesta di uno Stato a un altro Stato di fornire una precisa risposta su una particolare questione entro un tempo stabilito. Nel caso dell’ultimatum inviato dall’AustriaUngheria alla Serbia, venivano tra l’altro richiesti: la cessazione di qualsiasi propaganda antiaustriaca, l’arresto di alcune persone e la partecipazione di rappresentanti austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato (quest’ultima clausola fu rifiutata dalla Serbia, in quanto lesiva della sovranità nazionale).

L’Austria compì la prima mossa inviando, il 23 luglio, un durissimo ultimatum alla Serbia. Il secondo passo lo fece la Russia promettendo sostegno alla Serbia, sua principale alleata nei Balcani. Forte dell’appoggio russo, il governo serbo accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato.

Ultimatum e dichiarazioni di guerra

EVENTI

L’attentato di Sarajevo

I

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primi colpi di artiglieria della Grande Guerra furono sparati sul fronte belga il 5 agosto 1914. Ma a mettere in moto il meccanismo degli ultimatum e delle mobilitazioni che avrebbero portato le grandi potenze europee a scontrarsi dopo un lungo periodo di pace furono due colpi di pistola: quelli che a Sarajevo, il 28 giugno, avevano ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono degli Asburgo, e sua moglie, Sofia Chotek. Nei libri di storia l’attentato è indicato comunemente come la “scintilla” che fece scoppiare l’incendio europeo. Sarajevo era la capitale dell’ex provincia ottomana della Bosnia, annessa nel 1908 all’Impero. Francesco Ferdinando era lì in visita ufficiale ma, a causa di una serie di rivalità tra le autorità militari della provincia e quelle civili, le misure di sicurezza approntate per l’occasione erano molto superficiali. Visto l’insistere di voci sul pericolo di attentati, fu suggerito all’arciduca di cancellare la visita ufficiale a Sarajevo prevista per il 28: ricorreva in quel giorno l’anniversario della sconfitta serba contro gli Ottomani nel 1389, una data particolarmente sentita per i nazionalisti serbi. La visita ufficiale dell’erede al trono d’Austria a Sarajevo in quella data rischiava di essere vista come una provocazione per quanti auspicavano la ricongiunzione della Bosnia con la Serbia. L’arciduca, tuttavia, non volle annullare la visita, anche perché, in quegli anni, le minacce rivolte a re, presidenti e leader politici erano molto frequenti. Effettivamente, però, i cospiratori del gruppo segreto ultranazionali-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

sta serbo “Mano nera” (Crna ruka) – in realtà manovrato dai servizi segreti serbi – avevano armato alcuni giovani aderenti all’organizzazione con granate e pistole e li avevano inviati a Sarajevo, per attentare alla vita dell’arciduca. Essi consideravano come un pericolo i progetti di Francesco Ferdinando di un più forte riconoscimento della componente slava dell’Impero: progetti che, se attuati, avrebbero reso meno attraente l’ipotesi di unione di tutti i serbi in un unico regno. Fra i tre attentatori, c’era uno studente bosniaco di nazionalità serba, Gavrilo Princip, che aveva solo 19 anni. Tutti e tre ammalati di tubercolosi – e, quindi, destinati a una vita brevissima –, si sarebbero dovuti suicidare dopo l’attentato. La mattina del 28 giugno, Francesco Ferdinando e Sofia presero a Ilidze (la località termale dove soggiornavano, situata a una decina di chilometri da Sarajevo) un treno diretto nella capitale, dove arrivarono alle 9.45: meno di due ore dopo un medico legale avrebbe certificato la loro morte. La coppia salì su un’automobile. Il tempo era splendido e un gran numero di persone si era assiepato lungo le strade per assistere al passaggio del corteo: tra questi i giovani attentatori aderenti alla Mano nera. Il primo di essi si trovò troppo lontano per poter lanciare la granata che aveva con sé, mentre il secondo, il serbo Nedeljko Čabrinović, riuscì a lanciarne una contro l’automobile dell’arciduca. La bomba, però, rimbalzò sulla capote abbassata dell’autovettura ed esplose su quella che la seguiva:

la sua deflagrazione ferì due ufficiali di scorta, una ventina di spettatori e, lievemente, la moglie dell’arciduca. Francesco Ferdinando volle continuare la sua visita. Appena giunto all’incontro col sindaco di Sarajevo, protestò animatamente per l’inadeguatezza delle misure di sicurezza, affermando che era stato accolto in un modo oltraggioso. Poi, insistette per essere condotto in ospedale a visitare i due ufficiali feriti. L’autista, costretto a proseguire per un percorso improvvisato sul momento, sbagliò strada e fu costretto a rallentare per fare marcia indietro, all’altezza del Ponte Latino. Erano le 11 del mattino. Fatalità volle che Gavrilo Princip, deluso per il fallimento dei precedenti tentativi, si trovasse proprio lì: egli si avvicinò all’auto imperiale e sparò due volte da distanza ravvicinata. Sofia, colpita all’addome, cadde riversa sul marito, che la implorò di non morire, e spirò pochi istanti dopo. Il proiettile, perforato lo sportello e deformatosi nell’urto, aveva infatti procurato una devastante emorragia interna. Francesco Ferdinando assicurò più volte i suoi vicini che non si era fatto nulla, ma poco dopo iniziò a perdere sangue dalla bocca e ad ansimare: la pallottola lo aveva colpito al collo, dove non era protetto dal giubbotto antiproiettile, e gli aveva attraversato la giugulare e la trachea. Quando il medico lo soccorse, era ormai troppo tardi: sotto la giacca, fu trovato un lago di sangue. Alle 11.30 un medico legale certificò la morte della coppia reale. Subito, l’esercito austriaco penetrò nei quartieri serbi, arrestando centinaia di serbo-bosniaci di religione ortodossa che, contemporaneamente, furono anche vittime di atti

L’Austria giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia. Immediata fu la reazione del governo russo che, il giorno successivo, ordinò la mobilitazione delle forze armate. Dichiarare la mobilitazione significava dare il via a tutta quella serie di operazioni che costituivano la necessaria premessa di una guerra: operazioni particolarmente lunghe e complesse in un paese delle dimensioni dell’Impero zarista. Ma la mobilitazione – che i generali russi vollero estesa all’intero confine occidentale (e non solo alle frontiere con l’Austria-Ungheria) per prevenire un eventuale attacco da parte della Germania – fu interpretata dal governo tedesco come un atto di ostilità. Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. L’ultimatum non ottenne risposta e fu seguito, a ventiquattro ore di distanza, dalla dichiarazione di guerra. Il giorno stesso (1° agosto) la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum e con la successiva dichiarazione di guerra alla Francia (3 agosto).

Le responsabilità della Germania

Fu dunque l’iniziativa del governo tedesco, che già nella prima fase della crisi aveva assicurato il proprio appoggio incondizionato all’Austria, a far precipitare

di giustizia sommaria da parte dei cattolici e dei musulmani. A Vienna, appena giunta la notizia dell’attentato, scoppiarono violente manifestazioni antiserbe. L’Europa aveva cominciato a scivolare verso la catastrofe. I funerali della coppia reale furono sobri e riservati, alla sola presenza dell’imperatore Francesco Giuseppe e della corte. Nell’ottobre 1914 furono processati a Sarajevo venticinque terroristi, tra cui una donna: undici di loro non superavano i venti anni. Cinque – di cui uno solo appartenente al gruppo degli attentatori – furono condannati a morte, uno all’ergastolo e gli altri a lunghissime pene detentive. Gavrilo Princip, dopo aver sparato, aveva provato a suicidarsi, ma il suo tentativo era fallito ed era stato arrestato, come altri cinque dei sette attentatori presenti a Sarajevo. Condannato a 20 anni di prigione – la legislazione austriaca, infatti, prevedeva questa come massima pena per i minori di 20 anni –, morì poi nel 1918 in carcere, in parte per le violenze di cui fu fatto oggetto durante la detenzione, in parte per l’aggravarsi della tubercolosi. I governi che si sono avvicendati al potere nei territori dell’ex Jugoslavia da allora hanno considerato, a turno, Princip e i suoi compagni come eroi o vili terroristi: intorno alle loro figure si sono sviluppati giudizi e memorie contrastanti. Subito dopo l’assassinio, fu progettato un monumento che raffigurava le due vittime, poi smontato nel 1917. Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (poi Jugoslavia), creato dopo la guerra, considerò gli attentatori eroi nazionali e dedicò loro un monumento commemorativo. Durante la secon-

da guerra mondiale, Princip fu celebrato, tra i serbi, tanto dai partigiani comunisti quanto dai monarchici. Con l’affermazione, dopo il conflitto, del regime comunista nella Jugoslavia unita, Gavrilo Princip fu onorato come un rivoluzionario in lotta per la libertà contro una “tirannia secolare”: gli fu dedicato un museo, il Ponte Latino prese il suo nome e nel

luogo dell’attentato fu posta una lastra di cemento con impresse le impronte dei suoi piedi. Questo monumento fu asportato negli anni ’90 del ’900, durante il conflitto tra i serbi e i bosniaci di etnia non serba. A conflitto finito, il governo bosniaco, considerando Princip un terrorista, cambiò nome al ponte e intitolò il museo a Francesco Ferdinando.

Achille Beltrame, L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie [illustrazione per «La Domenica del Corriere» del 5 luglio 1914] Pubblicata a partire dal gennaio del 1899, «La Domenica del Corriere» offriva 12 pagine di informazione, anticipate da una copertina illustrata a colori, a cura del disegnatore Achille Beltrame, una firma cui i lettori si affezionarono presto e che fece la fortuna del settimanale. Dai primi anni del ’900 e fino al 1914 la copertina della «Domenica del Corriere» assolse alla funzione di narrare figurativamente i fatti di cronaca. A partire proprio dall’episodio dell’assassinio di Francesco Ferdinando, qui rappresentato, Achille Beltrame raccontò con i suoi disegni la guerra agli italiani: fanti lanciati all’assalto delle trincee, alpini che presidiano le montagne, bersaglieri a passo di corsa, edulcorando le scene più cruente e demonizzando sempre il nemico austriaco.

141

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

definitivamente la situazione. Ma come spiegare un impegno così deciso della Germania in una crisi che in fondo non toccava direttamente nessuno dei suoi interessi vitali? Bisogna ricordare innanzitutto che la Germania soffriva da tempo di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali. C’erano poi le motivazioni di ordine militare. La strategia dei generali tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa, non ammetteva la possibilità di lasciare l’iniziativa in mano agli avversari e costituiva dunque di per sé un fattore di accelerazione della crisi e un ostacolo al negoziato. Il piano di guerra elaborato ai primi del ’900 dall’allora capo di Stato maggiore Alfred von Schlieffen, dando per scontata l’eventualità di una guerra su due fronti (l’alleanza franco-russa era operante dal 1894), prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia, che doveva esser messa fuori combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia, la cui macchina militare era potenzialmente fortissima, ma lenta a mettersi in azione. Presupposto essenziale per la riuscita del “piano Schlieffen” era la rapidità dell’attacco alla Francia. A questo scopo era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso il Belgio, nonostante la sua posizione di neutralità, garantita da un trattato internazionale sottoscritto anche dalla Germania. Ciò avrebbe permesso di investire lo schieramento nemico nel suo punto più debole e di puntare direttamente su Parigi. Il 4 agosto, i primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia da nord-est. La violazione della neutralità belga non solo scosse profondamente l’opinione pubblica europea, ma ebbe anche un peso decisivo nel determinare l’allargamento del conflitto. La Gran Bretagna non poteva tollerare l’aggressione a un paese neutrale che si affacciava sulle coste della Manica. Così, il 4 agosto, dichiarò guerra alla Germania. Fu questo il primo grave scacco per i governanti tedeschi, che avevano subordinato alle esigenze militari qualsiasi considerazione di opportunità politica.

L’invasione del Belgio e l’intervento britannico

LE CAUSE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

PRIMA GUERRA MONDIALE Fattori scatenanti

Cause profonde

Tensioni interne agli Stati

Conflitti sociali

Nazionalismo

Attentato di Sarajevo

Tensioni internazionali

Corsa agli armamenti

Imperialismo/ espansionismo

Blocchi di alleanze contrapposte

L’Austria dichiara guerra alla Serbia

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Entra in gioco il sistema delle alleanze

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

André Léveillé, Volontari sfilano sui boulevards 1914 [Musée de la Guerre, Parigi] A Parigi, i volontari che sfilano lungo i boulevards pronti a partire per la guerra vengono salutati festosamente dalla folla cittadina. L’entusiasmo per l’evento è ben espresso in questa tela dai colori brillanti e accesi, che nemmeno l’ombra proiettata dai palazzi riesce a smorzare.

Fra i politici, del resto, era diffusa la convinzione che una guerra, da ognuno immaginata breve e vittoriosa per la propria parte, avrebbe contribuito a soffocare i contrasti sociali e a rafforzare la posizione di governi e classi dirigenti. In un primo tempo, i fatti parvero dar loro ragione. Nei primi giorni di agosto, le piazze delle grandi capitali europee si riempirono di manifestazioni in favore della guerra [►FS, 32]. Intellettuali di prestigio e maestri di scuola si impegnarono per spiegarne al popolo le buone ragioni. METODO DI STUDIO Nemmeno i partiti socialisti, che avevano fatto del pacifismo e dell’internaziona a   Realizza un glossario relativo alla prima guerra lismo la loro bandiera, seppero o vollero sottrarsi al clima generale di “unione mondiale procedendo in questo modo: individua i nomi di istituzioni, soggetti storici, luoghi legati a sacra”. I capi della socialdemocrazia tedesca votarono in Parlamento a favore eventi significativi descritti nel testo e trascrivili sul dei crediti di guerra (ossia degli stanziamenti necessari a sostenere lo sforzo belquaderno assieme alla relativa definizione. Avrai in lico), motivando la loro scelta col pericolo di una vittoria dell’assolutismo zariquesto modo un glossario che completerai con le informazioni acquisite nei paragrafi successivi. sta. Analogo atteggiamento fu assunto dai socialdemocratici austriaci. I socialisti  b   Individua e numera gli eventi principali del francesi, dopo l’assassinio del loro leader Jean Jaurès da parte di un fanatico naconflitto. Quindi trascrivili sul quaderno sotto forma zionalista alla fine di luglio, rinunciarono a ogni manifestazione di protesta e, di titoletti. Avrai in questo modo un elenco schematico che completerai con le informazioni acquisite nei poco dopo, entrarono a far parte del governo. La stessa cosa fecero i laburisti paragrafi successivi. britannici. La Seconda Internazionale – nata come espressione della solidarietà  c   Sottolinea quali conseguenze comportò la fra i lavoratori di tutti i paesi e impegnata da sempre nella difesa della pace – cesconvinzione che la guerra sarebbe durata solo pochi mesi. sò praticamente di esistere: fu, in fondo, la prima vittima della Grande Guerra.

L’entusiasmo patriottico

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa



4_3 1914-15: DALLA GUERRA DI LOGORAMENTO ALLA GUERRA DI POSIZIONE

Guerra di posizione, guerra di logoramento, guerra di usura, guerra di trincea: queste alcune definizioni usate per descrivere le caratteristiche di un conflitto che non aveva precedenti nelle guerre del passato, sia per le dimensioni delle forze in campo sia per le potenzialità distruttive degli strumenti bellici. La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute possibilità dei mezzi di trasporto consentirono ai belligeranti di schierare rapidamente milioni di uomini in uniforme e di dotarli di armi moderne: tutti gli eserciti disponevano di fucili a ripetizione e di cannoni potentissimi, ma la novità più importante era costituita dalle mitragliatrici automatiche, armi micidiali capaci di sparare centinaia di colpi al minuto. Nonostante ciò, nessuna fra le potenze in guerra aveva elaborato strategie diverse da quelle della tradizionale guerra di movimento, che si fondava sullo spostamento di ingenti masse di uomini in vista di pochi e risolutivi scontri campali. Tutti i piani di guerra erano basati sulla previsione di un conflitto di pochi mesi o addirittura di poche settimane.

Nuovi eserciti e vecchie strategie

Furono soprattutto i tedeschi a puntare su una strategia ofIl fallimento fensiva, già sperimentata con successo nella campagna del del piano tedesco 1870 contro la Francia. Anche questa volta, ottennero una serie di importanti successi attestandosi, ai primi di settembre, lungo il corso della Marna, a poche decine di chilometri da Parigi. Nel frattempo, sul fronte orientale, i russi, che cercavano di penetrare nella Prussia orientale, erano sconfitti nelle grandi battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri. La minaccia russa si rivelò tuttavia più seria del previsto e indusse i comandi tedeschi a distogliere una parte delle loro forze dal fronte occidentale. Il 6 settembre, i francesi riuscirono a lanciare un improvviso contrattacco e, dopo una settimana di furiosi combattimenti, i tedeschi furono costretti a ripiegare su una linea più arretrata, in corrispondenza dei fiumi Aisne e Somme. Con l’arresto dell’offensiva sulla Marna, il piano tedesco poteva dirsi sostanzialmente fallito. Alla fine di novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee improvvisate su un fronte lungo 750 chilometri, che andava dal Mare del Nord al confine svizzero [►FS, 37]. Cominciava così, sul fronte occidentale, una guerra di tipo nuovo, che vedeva due schieramenti praticamente immobili affrontarsi in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati da lunghi periodi di stasi. In una guerra di questo genere, l’iniziale superiorità militare degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) passava in secondo piano. Diventava invece essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva contare sulle risorse del suo impero coloniale e sulla sua superiorità navale. Altrettanto importante si dimostrava l’apporto della Russia col suo enorme potenziale umano.

La guerra di logoramento

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Un conflitto mondiale

Un problema vitale per entrambi gli schieramenti era poi l’atteggiamento dei paesi

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

trincea Le trincee erano stretti fossati scavati profondamente nel terreno. Nella parte posteriore e più profonda dello scavo veniva costruito il camminamento, che consentiva di muoversi da una trincea all’altra senza esporsi al fuoco nemico. Per entrare al loro interno ci si serviva di una scala a pioli posta verticalmente nell’apertura e che sbucava al livello del terreno. Sulla testa gravava un tetto fatto di sottili travicelli, che sostenevano uno strato di terra. Insomma la trincea era una tana, che poteva trasformarsi in una tomba.

Mitragliatrici britanniche in trincea sul fronte occidentale Protagoniste della guerra di logoramento, le mitragliatrici, con la loro impressionante potenza di fuoco, resero spesso inutili gli assalti della fanteria.

A Tunisi

TU N

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ALGERIA

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5.1915

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4_I PAESI IN GUERRA (1914-17)

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Cristiania MARE

blocco degli Imperi centrali blocco dell’Intesa Stati neutrali data di adesione all’alleanza

San Pietroburgo

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11.1914

6.1917 GRECIA

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Tunisi

BULGARIA 10.1915 Sofia

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ITALIA 5.1915 Roma

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Sarajevo

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8.1916 ROMANIA Bucarest Danubio

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RT

Belgrado SE

Lisbona

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Budapest AUSTR IA -U N G H E R IA

Milano

3.1916

Vienna

blocco degli Imperi centrali blocco dell’Intesa che in un primo momento erano rimasti estranei Stati neutrali di adesioneminori all’alleanzatemevano 5.1915 data loro ambizioni. Molte potenze

al conflitto e che temevano di veder sacrificate le di restare sacrificate da una nuova sistemazione dell’assetto internazionale decisa sopra le loro teste, altre cercarono di profittare della guerra per soddisfare le loro ambizioni territoriali. Da qui la tendenza del conflitto ad ampliarsi, fino ad assumere dimensioni planetarie. Nell’agosto 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania per impadronirsi dei possedimenti tedeschi nel Pacifico. Nel novembre dello stesso anno la Turchia interveniva a favore degli Imperi centrali. Nel maggio 1915 l’Italia entrava in guerra contro l’Austria-Ungheria [►4_4]. METODO DI STUDIO A fianco della Germania e dell’Austria sarebbe poi intervenuta la Bulgaria, men a   Spiega per iscritto il significato di guerra “di movitre nel campo opposto si sarebbero schierati il Portogallo, la Romania e la Grecia. mento”, “di posizione” e “di logoramento”. Decisivo sarebbe risultato, infine, l’intervento degli Stati Uniti (aprile 1917), che si  b   Cerchia con colori differenti gli schieramenti che si fronteggiarono durante la guerra e sottoschierarono con l’Intesa; gli Usa si trascinarono dietro numerosi paesi extra-eulinea i paesi che vi facevano parte e le relative ropei (Cina, Brasile e altre repubbliche latino-americane), il cui contributo alla caratteristiche belliche. guerra fu però poco rilevante. Se a tutto questo si aggiunge l’estensione del con c   Completa il glossario già iniziato trascrivendo sul quaderno assieme alla relativa definizioflitto agli imperi coloniali, si capirà come la guerra, pur avendo sempre in Europa ne i nomi di istituzioni, soggetti storici e luoghi legati il suo teatro principale, assumesse sempre più un carattere mondiale, coinvola eventi significativi descritti nel testo. gendo per la prima volta tutti e cinque i continenti. 145

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

R



4_4 1915: L’INTERVENTO DELL’ITALIA

L’Italia entrò nel primo conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell’Intesa contro l’Impero austro-ungarico fino ad allora suo alleato. Fu una scelta sofferta e contrastata, sulla quale classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti, solo in parte coincidenti con gli schieramenti tradizionali.

irredentismo Movimento politico e di opinione, nato negli ambienti della sinistra repubblicana e radicale nella seconda metà dell’800, che chiedeva la conquista delle terre irredente (“non redente”), ovvero non liberate dal dominio austriaco, cioè il Trentino, la Venezia Giulia e l’Istria. Il movimento si allargò all’indomani della firma da parte dell’Italia della Triplice alleanza con Germania e Austria (1882) – che comportava la rinuncia implicita alla rivendicazione delle terre irredente – e ancor più dopo la condanna a morte, nello stesso anno, del triestino Guglielmo Oberdan, che aveva progettato di attentare alla vita dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe.

Nell’agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo presieduto da Antonio Salandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia. Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice alleanza (l’Austria non era stata attaccata, né aveva consultato l’Italia prima di intraprendere l’azione contro la Serbia), aveva trovato concordi in un primo tempo tutte le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l’ipotesi di un intervento a fianco degli Imperi centrali – ipotesi che cozzava fra l’altro contro i sentimenti antiaustriaci di buona parte dell’opinione pubblica –, cominciò a essere affacciata da alcuni settori politici l’eventualità opposta: quella di una guerra contro l’Austria, che avrebbe consentito all’Italia di portare a compimento il processo risorgimentale, riunendo alla patria le terre irredente del Trentino e della Venezia Giulia, abitate da popolazioni italiane, ma ancora soggette all’Impero austro-ungarico.

L’iniziale neutralità

Sostenitori di questa linea interventista furono innanzitutto gruppi e partiti della sinistra democratica – i repubblicani, i radicali, i socialriformisti di Leonida Bissolati [►3_7] – convinti che una partecipazione italiana alla guerra contro gli Imperi centrali avrebbe aiutato la causa di una nuova Europa fondata sulla democrazia e sul principio di nazionalità. Erano naturalmente a favore della guerra anche le associazioni irredentiste, che avevano tra le loro file numerosi fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico, tra cui Cesare Battisti, già leader dei socialisti trentini. A essi si aggiunsero esponenti delle frange estremiste del movimento operaio convertitisi alla causa della “guerra rivoluzionaria”: una guerra destinata, nelle loro speranze, a rovesciare gli equilibri sociali all’interno dei paesi coinvolti. Sull’opposto versante dello schieramento politico, fautori attivi dell’intervento furono i nazionalisti, che si erano schierati in un primo tempo per gli Imperi centrali ed erano comunque decisi a far sì che l’Italia potesse affermare la sua vocazione di grande potenza imperialista. Più prudente e graduale, invece, fu l’adesione alla causa dell’intervento da parte di quei gruppi liberal-conservatori che avevano la loro espressione più autorevole nel «Corriere della Sera» di Albertini [►3_5] e i loro punti di riferimento politici nel presidente del Consiglio Antonio Salandra e nel ministro degli Esteri (dall’ottobre 1914) Sidney Sonnino. Questi ultimi temevano soprattutto che una mancata partecipazione al conflitto avrebbe gravemente compromesso la posizione internazionale dell’Italia e il prestigio della monarchia.

Gli interventisti

Schierata su una linea “neutralista” era invece l’ala più consistente dei liberali, che faceva capo a Giovanni Giolitti, protagonista assoluto della vita politica italiana nel primo quindicennio del ’900. Giolitti, infatti, non riteneva il paese preparato alla guerra ed era inoltre convinto che l’Italia avrebbe potuto ottenere dagli Imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati. In maggioranza ostile all’intervento era anche il mondo cattolico, a cominciare dal nuovo papa Benedetto XV (eletto nel 1914), mentre il Partito socialista (Psi) e la Confederazione generale del lavoro (Cgl), in contrasto con la scelta patriottica dei maggiori partiti operai europei, mantennero una posizione di netta condanna della guerra, in nome degli ideali internazionalisti. Tra i leader socialisti,

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I neutralisti

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Carlo Carrà, Manifestazione interventista 1914 [Collezione Mattioli, Milano; © Carlo Carrà, by SIAE 2018] Tra i protagonisti della propaganda per l’intervento dell’Italia in guerra vi furono gli artisti legati al movimento futurista, una delle più importanti correnti di avanguardia artistica e letteraria dell’inizio del ’900. Sostenitori di una concezione dell’arte e della vita tutta basata sull’esaltazione della modernità, del movimento, delle macchine, i futuristi si impegnarono anche in politica, schierandosi col fronte interventista.

Un comizio interventista sui gradini del Duomo di Milano 1915 Le manifestazioni di piazza a favore dell’intervento in guerra sono un fenomeno comune in tutti i paesi europei. Nell’entusiasmo per la guerra e nell’esasperazione del sentimento patriottico di una parte della popolazione, in modo particolare dei giovani di classe media, è possibile ravvisare non solo spirito di avventura, adesione a ideali di virilità, ricerca di uno scopo per cui vivere e combattere, ma soprattutto una fuga dai modelli di vita imposti dalla moderna società industriale.

solo Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito «Avanti!», si schierò, con un’improvvisa e clamorosa conversione, a favore dell’intervento. Espulso dal Psi, Mussolini fondò, nel novembre 1914, un nuovo quotidiano, «Il Popolo d’Italia», che divenne la voce principale dell’interventismo di sinistra. In termini di forza parlamentare e di peso nella società, i neutralisti erano in netta prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di trasformarsi in alleanza politica. Il fronte interventista era altrettanto composito. Era però unito da un obiettivo preciso, la guerra contro l’Austria, oltre che dalla comune avversione per la “dittatura” giolittiana: per molti intellettuali e politici, infatti, la guerra doveva significare la fine del giolittismo e l’avvio di un radicale rinnovamento della politica italiana. Favorite dall’atteggiamento tutt’altro che imparziale delle autorità, le minoranze interventiste seppero impadronirsi, nei momenti decisivi, del dominio delle piazze. Inoltre, il partito della guerra poteva contare sui settori più giovani e dinamici della società. Erano in maggioranza interventisti gli studenti, gli insegnanti, gli impiegati, i professionisti, ovvero la piccola e media borghesia colta, più sensibile ai valori patriottici. Erano interventisti, con poche eccezioni fra cui quella illustre di Benedetto Croce, gli intellettuali di maggior prestigio: da Giovanni Gentile a Giuseppe Prezzolini, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini. Il caso più tipico fu quello di Gabriele D’Annunzio che, noto fino ad allora come scrittore raffinato e come personaggio eccentrico, si improvvisò per l’occasione capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni di piazza a favore dell’intervento.

I rapporti di forza

A decidere l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti furono le scelte del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re: cioè degli uomini cui spettava, a norma dello Statuto, il potere di decidere i destini del paese in materia di alleanze internazionali. Fin dall’autunno ’14 Salandra e Sonnino, mentre trattavano con gli Imperi centrali per strappare qualche compenso territoriale in cambio della neutralità, avevano stretto contatti segretissimi con l’Intesa. Infine decisero, col solo avallo del re, di accettare le proposte di Francia, Gran Bretagna e Russia firmando, il 26 aprile 1915, il patto di Londra. Le clausole principali prevedevano che l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine “naturale” del Brennero, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana e parte della Dalmazia e delle sue isole adriatiche.

Il patto di Londra

Le “radiose giornate”

Restava da superare, a questo punto, la prevedibile opposizione della maggioranza della Camera. Quando, ai primi di maggio, Giolitti, non ancora al corrente del patto di Londra, si pronunciò per la continuazione delle trattative con 147

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

l’Austria, ben trecento deputati gli manifestarono solidarietà, inducendo Salandra a rassegnare le dimissioni. Ma la volontà neutralista del Parlamento fu di fatto scavalcata: da un lato dalla decisione del re, che respinse le dimissioni di Salandra, mostrando così di approvarne l’operato; dall’altro dalle manifestazioni di piazza che in quei decisivi giorni di maggio – le “radiose giornate” celebrate dalla retorica interventista – si fecero sempre più imponenti e più minacciose. Il 20 maggio 1915, costretta a scegliere fra l’adesione alla guerra e un voto contrario che sconfessasse il governo e lo stesso sovrano, aprendo così una crisi istituzionale, la Camera approvò, col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo. L’Italia dichiarò guerra all’Austria e il 24 maggio 1915 cominciarono le operazioni militari. Disorientati e isolati, i socialisti non riuscirono a organizzare un’opposizione efficace: la stessa formula “né aderire né sabotare”, coniata per definire l’atteggiamento del partito a intervento ormai deciso, era poco più di una dichiarazione di principio e un’implicita confessione di impotenza. Lo scontro sull’intervento lasciò un segno profondo nella vita politica italiana, evidenziando l’estraneità di larghe masse popolari ai valori patriottici, l’indebolimento della mediazione parlamentare, rifiutata da consistenti settori dell’opinione pubblica, e l’emergere di nuovi metodi di lotta politica estranei alle tradizioni dello Stato liberale.

La dichiarazione di guerra

METODO DI STUDIO

 a   Trascrivi sul quaderno le frasi e le parole chiave evidenziate in grassetto nel paragrafo. Quindi, spiega il loro significato nel contesto italiano degli anni che precedettero la partecipazione alla prima guerra mondiale.  b   Completa il glossario già iniziato trascrivendo sul quaderno assieme alla relativa definizione i nomi di istituzioni, soggetti storici e luoghi legati a eventi significativi descritti nel testo.

INTERVENTISTI E NEUTRALISTI

NEUTRALISTI

L’ITALIA allo scoppio della guerra

148

INTERVENTISTI

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Manifestazione patriottica a Roma alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia [da «La Domenica del Corriere», n. 22, maggiogiugno 1915] Il re Vittorio Emanuele III, dal balcone del Quirinale, sventola il tricolore davanti a una grande folla convenuta nella piazza.

Liberali di Giolitti

Impreparazione dell’Italia alla guerra

Cattolici

Ideali pacifisti

Socialisti

Internazionalismo

Liberali conservatori

Prestigio internazionale

Sinistra democratica

Europa fondata sulla democrazia e sul principio di nazionalità

Nazionalisti

Politica imperialista di potenza

Irredentisti

Compimento del processo risorgimentale

Interventisti rivoluzionari

Guerra rivoluzionaria

4_5 I FRONTI DI GUERRA (1915-16)



► Leggi anche:

L’intervento italiano non servì, come molti avevano sperato, a decidere le sorti del conflitto. Le forze austro-ungariche si schierarono sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell’Isonzo e sulle alture del Carso [►FS, 38d]. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive (le prime quattro “battaglie dell’Isonzo”) senza cogliere alcun successo. Nel giugno 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso attacco (che fu chiamato significativamente Strafexpedition, ossia “spedizione punitiva” contro l’antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo schieramento italiano. L’offensiva fu faticosamente arrestata. Ma il governo Salandra, per il contraccolpo psicologico suscitato nel paese, fu costretto alle dimissioni e sostituito da un governo di coalizione nazionale – comprendente cioè tutte le forze politiche, esclusi, in questo caso, i socialisti – presieduto da un anziano politico di orientamento conservatore, Paolo Boselli. Ne faceva parte, per la prima volta,

Il fronte italiano e la Strafexpedition

L’impiccagione di Cesare Battisti [illustrazione per «La Domenica del Corriere» del 30 luglio 1916] Cesare Battisti era un giornalista e dirigente socialista nato a Trento, città all’epoca sotto il dominio austriaco. Deputato al Parlamento di Vienna, si era battuto per l’autonomia della sua regione. Allo scoppio della guerra nel 1914, Battisti abbandonò Trento per riparare in Italia dove partecipò attivamente alla campagna interventista. Entrata in guerra anche l’Italia, si arruolò negli alpini ma fu fatto prigioniero dagli austriaci il 10 luglio 1916, durante la Strafexpedition. Caduto in mano ai nemici, Cesare Battisti dovette affrontare un sommario processo per alto tradimento (in quanto cittadino austriaco), cui fece seguito, due giorni dopo la cattura, la condanna a morte per impiccagione. L’irredentista fu descritto dagli austro-ungarici come un disertore e traditore, mentre da parte italiana è ancora oggi considerato un eroe nazionale.

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Bolzano 5_IL FRONTE ITALIANO 1915-18

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

149

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►     Storia e Cinema Orizzonti di gloria di Kubrick

un esponente dell’area cattolico-moderata, Filippo Meda. Il cambio di ministero, però, non comportò alcun mutamento nella conduzione militare della guerra. Nel corso dell’anno furono combattute altre battaglie sull’Isonzo, senza che fossero ottenuti risultati importanti, salvo quello, soprattutto simbolico, della presa di Gorizia in agosto. Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese. Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915. All’inizio del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco in forze contro la piazzaforte francese di Verdun con lo scopo principale di logorare le forze nemiche. La battaglia, durata quattro mesi, risultò troppo costosa anche per gli attaccanti: complessivamente i due schieramenti registrarono oltre 600 mila perdite fra morti, feriti e prigionieri. E la carneficina, forse la più tremenda cui l’umanità avesse mai assistito in uno spazio geografico così limitato, proseguì nell’estate 1916, quando gli anglo-francesi lanciarono una controffensiva sul fiume Somme: qui, in sei mesi, il numero delle perdite arrivò a quasi un milione.

Il fronte francese

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Giunte quasi alle porte di Parigi N alla fine di agosto, le truppe N tedesche furono costrette a E Saint-Quentin ripiegare più a nord nel settembre D del 1914. Da allora finoRal 1918 la linea del fronte si A mantenne sostanzialmente stabile. Fra la Sedan ne primavera e l’estate Ais del 1918 i tedeschi effettuarono un’ulteriore avanzata verso Parigi, ma a partire da luglio ilReims contrattacco delle forze dell’Intesa portò alla Verdun sconfitta della Germania.Châlons

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7_IL FRONTE ORIENTALE 1914-17

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Diversamente da quanto Tannenberg 1 accadde sul fronte occidentale, la guerra sul fronte orientale fu combattuta Berlino su una linea molto estesa A (dal Baltico al Mar Nero) I V con variazioni di profondità N talora superiori A ai 500 km. Le M truppe tedesche, comandate R dal generale Hindenburg, E G fermarono i russi che tentavano di penetrare in Prussia orientale, sconfiggendoli, fra agosto e settembre del 1914, nelle grandi Pragabattaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri.

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avanzata russa, 1914 linea del fronte nel settembre 1915 linea del fronte nel settembre 1916 dopo la seconda avanzata russa linea del fronte all’armistizio, 5 dicembre 1917 L. Masuri 1914 battaglie

avanzata russa, 1914 linea del fronte nel settembre In1915 realtà, fra il 1915 e il 1916, i soli successi militari di qualche importanza furono Il fronte orientale linea del fronte conseguiti dagli Imperi centrali e i pochi spostamenti rilevanti del fronte si verinel settembre 1916 ficarono in Europa orientale. Nell’estate del ’15 una grande offensiva tedesca costrinse i russi ad abdopo la seconda avanzata russa bandonare buona parte della Polonia. In autunno gli austriaci attaccarono la Serbia, che fu invasa e di linea del fronte fatto eliminata dal conflitto. Falliva intanto il tentativo degli anglo-francesi di alleggerire la pressione all’armistizio, 5 dicembre 1917 portando la guerra sul territorio della Turchia, il più potente alleato degli nemica sull’alleato russo L. Masuri 1914 battaglie

Imperi centrali. Fra la primavera e l’estate del ’15 una spedizione navale britannica attaccò lo Stretto dei Dardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente nella penisola di Gallipoli, sulle coste turche. Ma l’impresa, contrastata con efficacia, si risolse in un sanguinoso fallimento. Nel giugno del 1916, furono i russi a lanciare l’offfensiva contro gli austriaci allora impegnati sul fronte italiano. I loro iniziali successi convinsero la Romania a intervenire a fianco dell’Intesa. Ma in ottobre gli austro-tedeschi contrattaccarono e la Romania subì la stessa sorte della Serbia, lasciando nelle mani dei nemici le sue risorse agricole e minerarie (grano e petrolio).

Il blocco navale

Questi risultati non bastarono a riequilibrare la situazione a favore degli Imperi centrali, che subivano le conseguenze del blocco navale attuato dai britannici

151

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

nel Mare del Nord. Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca aveva tentato un attacco in prossimità della penisola dello Jutland. Le perdite subìte nella battaglia, per quanto inferiori a quelle degli avversari, furono tali da indurre i comandi tedeschi a ritirare le navi nei porti, rinunciando definitivamente allo scontro in campo aperto. A questo si ridusse il contributo della flotta tedesca del Mare del Nord, che aveva rappresentato nell’anteguerra uno dei più gravi fattori di tensione fra Germania e Gran Bretagna.



METODO DI STUDIO

 a   Individua e numera gli eventi principali della prima guerra mondiale. Quindi trascrivili sul quaderno sotto forma di titoletti completando l’elenco iniziato nei paragrafi precedenti.  b   Completa il glossario già iniziato nei paragrafi precedenti.

4_6 GUERRA DI TRINCEA E NUOVE TECNOLOGIE

Due anni di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell’estate del ’14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un’usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale tra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione), e le nuove armi automatiche, le mitragliatrici in primo luogo, capaci di trasformare ogni assalto in una carneficina. Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive [►FS, 37]. Scavate all’inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea. Col passare del tempo, vennero allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da “nidi” di mitragliatrici. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai periodici bombardamenti dell’artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di sabotaggio nelle linee nemiche o per lanciarsi all’attacco, quando scattava un’offensiva.

La vita al fronte

L’assalto

► Leggi anche: ►     Storia, società, cittadinanza Il servizio militare ►     Focus Guerra nei cieli ► Fare Storia Una guerra moderna e tecnologica, p. 241 ► Storia e ambiente Grande Guerra e ambiente: gli effetti sul territorio e sui civili, p. 272

Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria (“fuoco di preparazione”) che in teoria avrebbe

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Paul Nash, The Menin Road 1919 [Imperial War Museum, Londra] Il pittore inglese Paul Nash (18891946), che era stato reclutato dall’Ufficio di propaganda di guerra del governo britannico per realizzare dipinti che immortalassero l’eroismo inglese al fronte, scelse di raffigurare uno degli avvenimenti più cruenti del conflitto mondiale: la battaglia delle Fiandre, combattuta dai britannici contro i tedeschi nell’ultima fase del conflitto. La zona di guerra è raffigurata nel dipinto come una scena apocalittica, il paesaggio naturale è devastato dai combattimenti e solo poche e sparute figure umane di soldati in fuga si intravedono tra le macerie e il fumo.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato principale quello di eliminare ogni effetto-sorpresa [►FS, 38d]. I soldati che scattavano simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento delle mitragliatrici finivano con l’accalcarsi nei pochi varchi aperti dall’artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori nemici. Se, nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza. Bastarono i primi mesi di guerra nelle trincee a far svanire l’entusiasmo patriottico con cui molti combattenti – soprattutto i giovani di estrazione borghese – avevano affrontato il conflitto [►FS, 35d]. Gran parte dei soldati semplici – soprattutto quelli di origine contadina – non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva e considerava la guerra come una specie di flagello naturale. La visione eroica e avventurosa dell’esperienza bellica restò prerogativa di esigue minoranze di combattenti: in particolare quelli inquadrati nelle truppe speciali – come le Sturmtruppen (“truppe di assalto”) tedesche o gli Arditi italiani – impiegati in azioni particolarmente rischiose e per questo esentati dai turni di trincea. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti, ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione.

Entusiasmo e rassegnazione

Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire, tuttavia, che la paura o l’avversione alla guerra si traducessero talora in forme di rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione o alla pratica dell’autolesionismo, consistente nell’infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva – “scioperi militari” o veri e propri ammutinamenti – che crebbero in numero e intensità col prolungarsi del conflitto. E fecero crescere in parallelo, nei governi e nei comandi militari, i timori di un cedimento delle truppe.

Le forme del rifiuto

Nella ricerca spasmodica di un risultato decisivo sul campo, gli eserciti belligeranti fecero ricorso senza risparmio a tutte le risorse messe a disposizione dai progressi della scienza e della tecnologia. Il primo conflitto mondiale fu dunque segnato dall’uso su larghissima scala di strumenti bellici già sperimentati in precedenza (a cominciare dalle mitragliatrici), ma anche dall’invenzione di nuovi mezzi d’offesa. Del tutto nuova e sconvolgente fu l’apparizione delle armi chimiche: proiettili esplosivi che, lanciati sulle trincee nemiche, sprigionavano gas tossici letali. Furono i tedeschi, nella primavera del 1915, a sperimentare per la prima volta queste armi, che in seguito vennero adottate anche dagli altri eserciti, fino a quando l’uso generalizzato delle maschere antigas rese gli aggressivi chimici troppo costosi in rapporto alle perdite inflitte al nemico.

Le nuove armi

Oltre a stimolare la produzione in grande serie di armi vecchie e nuove, la guerra accelerò la crescita di settori relativamente giovani, come quello automobilistico, o che stavano muovendo i primi passi, come la radiofonia. Il perfezionamento delle telecomunicazioni, via radio o via filo, permise di coordinare meglio i movimenti delle truppe. L’impiego sempre più massiccio dei mezzi motorizzati consentì di far affluire rapidamente enormi masse di soldati dalle retrovie al fronte. Più lento, quanto agli impieghi bellici, fu lo sviluppo dell’aviazione [►FS, 39]. Dal 1903, quando due ingegneri americani, i fratelli Orville e Wilbur Wright, erano riusciti per la prima volta a far sollevare dal suolo un apparecchio a motore più pesante dell’aria, la tecnica del volo aveva fatto limitati progressi. E gli aerei, costruiti in gran numero nel corso della guerra, furono usati soprattutto per la ricognizione e per qualche azione di bombardamento, senza svolgere un ruolo decisivo nelle principali battaglie.

Telecomunicazioni, mezzi motorizzati, aviazione

Altrettanto stentati furono gli esordi di un altro futuro protagonista delle guerre del ’900: il carro armato [►FS, 39]. I primi mezzi corazzati, le autoblindo (ossia autocarri ricoperti da piastre d’acciaio e muniti di mitragliatrici), erano limitati nel loro impiego dal

I mezzi corazzati

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

Il transatlantico RMS Lusitania viene colpito al largo di Kinsale Head in Irlanda Il 7 maggio 1915 il transatlantico inglese Lusitania, che trasportava passeggeri civili, ma anche armi per l’esercito inglese, affondò al largo della costa irlandese per opera di un sottomarino tedesco U20. Tra le persone a bordo e che perirono tragicamente, 140 erano nordamericani: l’episodio suscitò lo sdegno dell’opinione pubblica statunitense, contribuendo a orientarla in senso decisamente antitedesco.

fatto di potersi muovere solo su strada. Il passo successivo consistette nel sostituire le ruote con i cingoli, che già venivano impiegati sulle macchine agricole e che permettevano ai veicoli di attraversare qualsiasi terreno e di essere usati per attaccare e scavalcare le trincee nemiche. Sperimentati per la prima volta nel 1916 dai britannici, i carri armati erano però molto lenti; e furono impiegati in modo massiccio solo nell’ultima fase della guerra. Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino [►FS, 40]. Furono soprattutto i tedeschi a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondaMETODO DI STUDIO re senza preavviso i mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti  a   Sottolinea, con colori diversi, gli elementi verso i porti dell’Intesa. La guerra sottomarina si rivelò subito un’arma molto effifondamentali che definiscono i seguenti aspetti della cace. Essa però sollevava gravi problemi politici e morali e urtava in particolare gli vita in guerra: a. la vita in trincea; b. il rifiuto per la guerra da parte dei soldati; c. le tipologie di armi interessi commerciali degli Stati Uniti. Infatti, quando nel maggio 1915 un sottoadoperate e i rispettivi effetti. Quindi sintetizza marino tedesco affondò il transatlantico britannico Lusitania, che trasportava più per iscritto le informazioni raccolte. di mille passeggeri fra cui 140 cittadini americani (ma aveva a bordo anche armi  b   Cerchia con colori diversi almeno cinque parole chiave che fanno riferimento alla vita dei soldati e destinate alla Gran Bretagna), le proteste degli Stati Uniti furono così energiche da argomenta le tue scelte per iscritto. convincere i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata.

Il sommergibile



4_7 IL “FRONTE INTERNO”

Per tutti i paesi che vi parteciparono, e in particolare per quelli che la combatterono sul proprio territorio, la Grande Guerra costituì un laboratorio, un campo di sperimentazione e anche un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla società di massa. Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro occupazioni abituali, alle famiglie e ai mondi chiusi in cui la maggior parte di loro viveva, per essere coinvolti in una gigantesca esperienza collettiva. Indossavano le stesse uniformi, combattevano negli stessi luoghi, mangiavano lo stesso rancio. Si abituavano forzatamente alla vita in comune e alla disciplina, ma anche alla violenza e alla quotidiana familiarità con la morte. 154

Guerra e mobilitazione sociale

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

► Leggi anche: ►     Focus L’industria e la guerra ► Parole della storia Propaganda, p. 156

Anche i civili furono chiamati a dare il loro contributo nel cosiddetto “fronte interno”: le donne, per esempio, si trovarono spesso a svolgere le funzioni di capofamiglia [►5_2]. Molte di loro sostituirono nei lavori dei campi, negli uffici e anche nelle fabbriche gli uomini arruolati nell’esercito. L’intera società dei paesi belligeranti fu dunque mobilitata in funzione della guerra e ne risentì in varia misura le conseguenze [►FS, 33]: quella combattuta sui fronti europei fu una guerra totale, perché coinvolse tutti gli ambiti della vita dei paesi belligeranti. I più colpiti furono naturalmente gli abitanti delle zone in cui si combatteva, costretti a lasciare le loro case e le loro terre. Ma anche coloro che vivevano lontano dal fronte dovettero affrontare situazioni nuove e mutamenti anche traumatici. C’era poi il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria d’origine e poteva trovarsi improvvisamente nella condizione di nemico: soggetto quindi alla confisca dei beni e a una serie di restrizioni personali che potevano arrivare all’internamento. Infine, le minoranze etniche che avevano nel passato recente manifestato aspirazioni indipendentiste erano ovunque tenute sotto controllo perché sospettate di scarsa lealtà nei confronti della nazione in guerra.

Il coinvolgimento dei civili

Un caso limite, a questo proposito, fu quello degli armeni. Questa antica popolazione di religione cristiana abitava prevalentemente in una regione del Caucaso divisa fra l’Impero ottomano e quello russo. Già alla fine dell’800, e ancor più dopo la rivoluzione dei “Giovani turchi” del 1908 [►2_3], gli armeni di Turchia avevano pagato con persecuzioni e massacri i loro tentativi di ribellione. Nella primavera-estate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano nel Caucaso (e gli anglo-francesi cercavano di sbarcare sulle coste dei Dardanelli), gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione, sospettati di intesa col nemico russo, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell’Anatolia che, per la maggior parte di loro (oltre un milione), si trasformò in sterminio [►FS, 34]: una sorta di sinistro preludio ad altri stermini di massa che avrebbero costellato il ’900.

Lo sterminio degli armeni

Al di là dei lutti e delle sofferenze legate, direttamente o indirettamente, alle operazioni militari, la guerra produsse una serie di profonde e durature trasformazioni in tutti i paesi che vi furono coinvolti. I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo dell’economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti al fronte. Le industrie interessate alle forniture belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche in primo luogo) conobbero uno sviluppo imponente, al di fuori di qualsiasi legge di mercato. Tutto ciò impose una riorganizzazione dell’apparato produttivo e una continua dilatazione dell’intervento statale, che assunse dimensioni incompatibili col modello liberale ottocentesco. Interi settori dell’industria furono posti sotto il controllo dei militari. Anche la produzione agricola fu assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi controllati. In alcuni casi si giunse al razionamento dei beni di consumo di prima necessità. In Germania – il paese in cui la pianificazione economica raggiunse le forme più spinte – si giunse addirittura a parlare di “socialismo di guerra”. Ma il sistema era in realtà gestito da organismi composti da militari e da industriali, i quali trassero dall’economia bellica notevoli vantaggi in termini di profitto e di potere.

Le trasformazioni nell’economia

Strettamente legate ai mutamenti nell’economia furono le trasformazioni degli apparati statali. Ovunque i governi furono investiti di nuove attribuzioni e dovettero farvi fronte con l’aumento della burocrazia. Ovunque il potere esecutivo si rafforzò a spese degli organismi rappresentativi, poco adatti per loro stessa pianificazione economica natura alle esigenze di rapidità e segretezza nelle decisioni imposte dallo stato di Elaborazione di piani complessivi per i diversi settori guerra. I poteri dei governi erano a loro volta insidiati dall’invadenza dei comaneconomici decisa a livello centrale dalle autorità di militari, che avevano poteri pressoché assoluti per tutto ciò che riguardava la governative. Benché tale sistema venga adottato in maniera sistematica nella Russia sovietica [►8_6], esso conduzione della guerra e potevano quindi influenzare pesantemente le scelte ha origine nei paesi occidentali durante la prima guerra dei politici. In questo senso non vi erano differenze sostanziali fra la dittatura mondiale, quale strumento per far fronte all’impegno militare di fatto esercitata dal 1916 in Germania dal capo di Stato maggiore Paul bellico. von Hindenburg e dal suo più stretto collaboratore, il generale Erich Ludendorff,

Politici e militari

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

e la gestione autoritaria del potere praticata in Francia nell’ultimo anno di guerra dal governo di unione nazionale di Georges Clemenceau o in Gran Bretagna dal “gabinetto di guerra” di David Lloyd George. Tutti i mezzi – compresa la censura e la sorveglianza sui cittadini sospetti di “disfattismo” – furono usati per combattere i “nemici interni” e per mobilitare la popolazione verso l’obiettivo della vittoria. Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda: una propaganda che non si rivolgeva soltanto alle truppe, ma cercava anche di raggiungere in tutti i modi possibili la popolazione civile [►FS, 36]. I governi di tutti i paesi profusero un

La propaganda

◄ Manifesto inglese di propaganda: «Don’t waste bread!» (“Non sprecare pane!”) 1917 [Imperial War Museum, Londra] ►Manifesto

inglese di propaganda: «Knights of the air» (“Cavalieri dell’aria”) [Robert Hunt Library]

Il manifesto a sinistra è rivolto ai civili rimasti a casa che vengono invitati al risparmio sul fronte dell’economia domestica («Metti da parte due fette al giorno per combattere gli “U” Boat», i famosi sommergibili tedeschi). Il manifesto a destra invece fa del sarcasmo sui nemici. L’imperatore Guglielmo II mostra con orgoglio al comandante supremo del suo esercito l’aviazione che ha appena bombardato una postazione della Croce Rossa: «Guarda Hindenburg! I miei eroi tedeschi!».

Parole della storia

Propaganda

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l termine “propaganda” deriva dalla locuzione latina de propaganda fide (“sulla fede da diffondere”) con la quale la Chiesa designa la Congregazione che si occupa delle attività di proselitismo e di diffusione dei princìpi cattolici in tutto il mondo. Nel linguaggio contemporaneo per “propaganda” si intende la diffusione deliberata e sistematica di informazioni e messaggi volti a fornire un’immagine, positiva o negativa, di determinati fenomeni – o avvenimenti o istituzioni o persone –, ma anche a far apprezzare un prodotto

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

commerciale (in questo caso “propaganda” è sinonimo di “pubblicità”). Praticata per la prima volta su vasta scala dai partiti socialisti, la propaganda politica è presto divenuta una componente essenziale della società di massa, soprattutto a partire dal primo conflitto mondiale, quando furono le autorità statali a impadronirsi dei metodi e delle tecniche propagandistiche per rendere popolare presso l’opinione pubblica la causa della guerra. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (la radio e il cinema, poi la televisione, infine i social networks) ha dato alle attività di propaganda nuove dimensioni e nuova capacità di penetrazione. Di queste possibilità si sono

avvalsi largamente i regimi totalitari – fascismo, nazismo e comunismo sovietico – che, controllando direttamente i canali di informazione, hanno potuto realizzare forme di persuasione e di indottrinamento molto più efficaci e sofisticate di quelle attuate in passato (quando la propaganda era affidata essenzialmente alla stampa o, tutt’al più, ai manifesti e ai volantini). Anche in seguito a queste esperienze, il termine “propaganda” ha finito con l’assumere una connotazione negativa, legata all’idea di manipolazione, o quanto meno di informazione unilaterale e distorta.

impegno senza precedenti per stampare manifesti murali, organizzare manifestazioni di solidarietà ai combattenti, incoraggiare la nascita di comitati e associazioni “per la resistenza interna”. Si trattava di mezzi ancora rudimentali, che rivelavano tuttavia la preoccupazione dei governi nel “curare” l’opinione pubblica e nel cercarne l’appoggio: preoccupazione che diventava tanto più forte quanto più crescevano i segni di stanchezza fra i combattenti e la popolazione civile e quanto più si rafforzavano le correnti di opposizione alla guerra. La scelta patriottica operata dai maggiori partiti socialisti nell’estate del ’14 non fece tacere del tutto le voci di opposizione nel movimento operaio europeo. A Zimmerwald e a Kienthal, in Svizzera, nel settembre 1915 e nell’aprile 1916, si tennero due conferenze socialiste internazionali che si conclusero con l’approvazione di documenti in cui si chiedeva una pace “senza annessioni e senza indennità”. Col protrarsi del conflitto i gruppi contrari alla guerra si rafforzarono. Fra di essi, i bolscevichi russi, guidati da Lenin [►1_5], che si erano staccati definitivamente dalla socialdemocrazia e costituiti fin dal 1912 in partito autonomo.

I socialisti contro la guerra



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea, con colori diversi, gli elementi fondamentali che definiscono i seguenti aspetti della vita in guerra: a. le sorti delle minoranze etniche; b. i cambiamenti nell’economia dello Stato e nella sua amministrazione; c. il ruolo delle donne nella società; d. il ruolo della propaganda. Quindi sintetizza per iscritto le informazioni raccolte.  b   Cerchia con colori diversi almeno cinque parole chiave che fanno riferimento alla vita dei civili e argomenta le tue scelte per iscritto.

4_8 1917: L’ANNO DELLA SVOLTA

► Leggi anche:

Nei primi mesi del 1917 due novità intervennero a mutare il corso della guerra e dell’intera storia europea e mondiale. All’inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario russo) uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado (questo il nuovo nome assunto dalla capitale russa dopo l’estate del ’14) si trasformò in un’imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati chiamati a ristabilire l’ordine rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono coi dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo venne arrestato con l’intera famiglia reale. Si metteva in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare della Russia e alla firma dell’armistizio. Il 6 aprile dello stesso anno gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata, in precedenza sospesa proprio per le proteste americane. L’intervento degli Usa, pur facendo sentire il suo peso solo dopo parecchi mesi, sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su quello economico, tanto da compensare il gravissimo colpo subìto dall’Intesa con l’uscita di scena della Russia.

► Eventi La disfatta di Caporetto, p. 159

La rivoluzione in Russia e l’intervento americano

Nell’immediato, infatti, gli avvenimenti russi incisero negativamente sul morale delle truppe [►FS, 35d]. In Francia come in Italia si fecero più frequenti gli episodi di insubordinazione dei reparti combattenti e le proteste popolari contro la guerra. Il caso più grave si verificò sul fronte francese dove, all’inizio di maggio, a conclusione di un’ennesima, inutile offensiva, alcuni reparti di fanteria si rifiutarono di tornare a combattere. L’ammutinamento, che coinvolse più di 40 mila uomini, fu domato con una durissima repressione, ma anche con l’adozione di misure volte a migliorare la condizione dei soldati. Anche negli Imperi centrali si andavano frattanto moltiplicando i segni di stanchezza. Particolarmente delicata era, all’inizio del ’17, la posizione dell’Impero austro-ungarico, dove prendevano forza le aspirazioni indipendentiste delle “nazionalità oppresse”: polacchi, cechi, slavi del Sud. Alla costituzione di un governo cecoslovacco in esilio seguì, nell’estate del ’17, un accordo fra serbi, croati e sloveni per la costituzione, a guerra finita, di uno Stato unitario degli slavi del Sud (la futura Jugoslavia). Consapevole del pericolo di disgregazione cui era esposto l’Impero, il nuovo imperatore Carlo I (Francesco Giuseppe era morto nel novembre del ’16 dopo quasi settant’anni di regno) avviò tra il febbraio e l’aprile del ’17 negoziati segreti in vista di una pace separata. Ma le sue proposte furono respinte dall’Intesa. Non ebbe miglior fortuna una iniziativa promossa in agosto da papa Benedetto XV che invitò i governi a porre fine all’“inutile strage” e a prendere in considerazione l’ipotesi di una pace senza.

La stanchezza degli eserciti e le iniziative di pace

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annessioni. Tanto più cresceva il carico di sofferenze imposto dalla guerra, tanto meno i responsabili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che tutto era stato “inutile” e ad accantonare le loro speranze di vittoria. Anche per l’Italia il 1917 fu l’anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull’Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato. Tra i soldati le manifestazioni di protesta e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti, anche se non giunsero mai a organizzarsi in un movimento di ampie proporzioni. Intanto fra la popolazione civile si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati dall’aumento dei prezzi e dalla carenza di generi alimentari. Si trattava per lo più di manifestazioni spontanee che vedevano in prima fila le donne e si esaurivano nel giro di poche ore. L’unico vero episodio insurrezionale si verificò a Torino fra il 22 e il 26 agosto, quando una protesta originata dalla mancanza di pane si trasformò in una autentica sommossa, con forte partecipazione operaia.

Le difficoltà dell’Italia

Fu in questa situazione che i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo, ormai di fatto chiuso, per infliggere un colpo decisivo all’Italia. Il 24 ottobre 1917, un’armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull’alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto. Gli attaccanti avanzarono in profondità nel Friuli, mettendo in atto la nuova tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare il più rapidamente possibile in territorio nemico senza preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando invece la sorpresa per mettere in crisi lo schieramento avversario. La manovra fu così efficace che buona parte delle truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall’inizio della guerra [► _5]. Alcuni reparti riuscirono a ripiegare ordinatamente, altri si disgregarono: circa 400 mila sbandati rifluirono verso il Veneto mescolandosi alle colonne di profughi civili e dando alla ritirata l’aspetto di un’autentica rotta. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave, lasciando in mano al nemico circa 10 mila km2 di territorio italiano, oltre a 300 mila prigionieri e a una quantità impressionante di armi, munizioni e vettovaglie.

Caporetto

Prima di essere rimosso dal comando supremo, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, accusandoli di essersi arresi senza combattere. In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall’attacco sull’alto Isonzo. Certo le conseguenze della sconfitta furono ingigantite dallo stato di stanchezza e di demoralizzazione delle truppe: ma una simile condizione era in larga parte comune a tutti gli eserciti, a cominciare da quello austriaco. Del resto i soldati italiani dimostrarono di saper combattere valorosamente resistendo, sul Piave e sul Monte Grappa, all’avanzata degli austro-tedeschi che minacciavano di dilagare nella Pianura padana ed evitando così che la sconfitta si trasformasse in una definitiva catastrofe.

Le responsabilità della sconfitta

Paradossalmente questa disfatta ebbe ripercussioni positive sul corso della guerra italiana. La ritirata sul Piave aveva consentito un notevole accorciamento del fronte e quindi un minor logorio dei reparti combattenti. I soldati si trovarono inoltre a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò contribuì a 158

Una guerra difensiva

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Ugo Finozzi, Manifesto per il prestito di guerra: Cacciali via! 1917 [Museo Civico del Risorgimento, Bologna] Questo manifesto, in cui l’immagine di una madre che spinge con determinazione un fante italiano a cacciare via il nemico è associata all’invito a sottoscrivere il prestito per le spese di guerra, è rappresentativo del clima di mobilitazione patriottica che si cercò di suscitare in Italia nel corso dell’ultimo anno di guerra.

EVENTI

La disfatta di Caporetto

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ell’autunno del 1917, l’area attorno a Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia) fu teatro della dodicesima battaglia dell’Isonzo, che si concluse con una delle più gravi sconfitte militari della storia italiana. Dopo la disfatta, iniziò una nuova fase della guerra, che avrebbe condotto alla vittoria: secondo alcuni storici, si trattò quindi di una “tragedia necessaria”. La disfatta di Caporetto rappresentò comunque per l’Italia un passaggio cruciale dal punto di vista militare, politico e simbolico: lo stesso termine “Caporetto” è passato a indicare la sconfitta per antonomasia, un disastro improvviso e irreparabile. Nel corso del 1917, fino ad ottobre, l’esercito italiano aveva condotto tre grandi offensive contro l’esercito austriaco, che però non avevano mutato gli equilibri strategici: la riva destra dell’Isonzo continuava a essere occupata dalle truppe italiane, eccetto la zona delle sorgenti e l’ansa davanti alla cittadina di Tolmino, che costituiva una testa di ponte austriaca. In autunno, i comandi austro-ungarici ottennero dagli alleati tedeschi uomini e armi per un’offensiva che facesse arretrare gli italiani al di là dell’Isonzo. Le truppe tedesche portarono sul fronte italiano un nuovo modello tattico per la battaglia offensiva: esso si fondava sulla ricerca accurata dell’effetto-sorpresa e sulla infiltrazione in profondità, ottenuta grazie all’attacco di agili colonne di fanteria armate di mitragliatrici, che concentravano i loro sforzi iniziali su tratti brevi di fronte. L’esercito italiano era invece impreparato a condurre una guerra difensiva e non aveva approntato alcun piano di ritirata: il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’Esercito, e tutto il comando italiano, infatti, ritenevano poco probabile una grande offensiva austriaca prima della primavera del 1918. L’offensiva della XIV armata austro-ungarica, comandata dal generale tedesco Otto von Below, iniziò alle due di notte del 24 ottobre, con un bombardamento di artiglieria e lancio di gas: l’attacco si sviluppò nella conca di Plezzo (nell’alta valle dell’Isonzo), dove le esalazioni gassose ristagnarono per ore uccidendo centinaia di soldati, e nella zona davanti a Tolmino, dove le truppe italiane erano poco numerose. Approfittando del successo dei bombardamenti, all’alba, la fanteria austro-te-

desca – avvicinatasi al fronte marciando di notte per garantirsi un effetto-sorpresa – cominciò a penetrare velocemente e a piccoli plotoni attraverso le linee italiane. Lo sfondamento decisivo del fronte avvenne presso Tolmino, dove le truppe del generale Badoglio furono travolte in pochissime ore: a capo di un distaccamento della 26ª divisione di fanteria tedesca vi era il tenente Erwin Rommel, che

in seguito, al comando delle truppe tedesche in Africa durante la seconda guerra mondiale, divenne famoso col soprannome di “Volpe del deserto”. L’inaspettata capacità di penetrazione austro-tedesca fece saltare la catena di comando italiana. Nel giro di poche ore, molti reparti furono accerchiati: alcuni comandi intermedi, colti impreparati e privi di ordini dall’alto, persero il controllo e lasciarono le loro truppe senza guida, determinando una situazione di c­ aos e di disfacimento dell’esercito. In soli

▲ La ritirata delle truppe italiane dopo la disfatta di Caporetto 1917 ◄ Novembre 1917: materiali abbandonati ai margini di una strada dall’esercito italiano in ritirata verso il Piave dopo la sconfitta di Caporetto L’esito della battaglia combattuta sull’Isonzo, presso il villaggio sloveno di Kobarid (Caporetto), è simbolicamente rappresentato da queste fotografie: le truppe italiane, incalzate da quelle austro-tedesche, ripiegarono in fuga disordinata verso ovest, attestandosi infine sul fiume Piave, dove nel frattempo era stata allestita una linea provvisoria di difesa.

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Caporetto due giorni, gli austro-tedeschi, in seguito 8_L’AVANZATA AUSTRO-TEDESCA DAL 24 AL 26 OTTOBRE 1917 Tolmino Vittorio Veneto al crollo del fronte italiano e alla succesSan Daniele Pordenone Feltre Belluno siva ritirata, occuparono una zona molto Fella Codroipo più vasta di quella che avevano previsto: Tolmezzo Cividale PlezzoUdine per intero le province di Udine e Belluno, Vittorio Veneto Pia parzialmente quelle di Venezia e Treviso. ve Feltre Gorizia Pordenone Monte Maggiore Il successo dell’offensiva austro-tedesca Codroipo Caporetto Palmanova si trasformò in una disfatta per l’eserciTolmino to italiano. Cadorna emanò però l’ordiSan Daniele Belluno Pia Treviso ve ne di ritirata generale solo nella notte Monfalcone tra il 26 e il 27 ottobre. I soldati sbandaUdine Cividale ti furono centinaia di migliaia: desideVittorio Veneto Feltre rosi solo di tornare a casa, si ritirarono Gorizia Pordenone Treviso Codroipo E per lo più senza commettere atti di vioST Triest Palmanova RIE T lenza, né contro gli ufficiali, né contro la DI O F GOL Pia popolazione civile. Le cifre approssimave tive della “disfatta di Caporetto” parlano Monfalcone di quasi 300 mila militari prigionieri, di circa 400 mila sbandati, di 11 mila morti, Treviso di 29 mila feriti. Il 9 novembre il nuovo E linea del fronte prima dell’offensiva ST Trieste fronte si attestò sul fiume Piave [► RIE T direzioni di attacco DI O _9] , a circa 130-150 chilometri da quello F O L24 territorio occupato alle G ore precedente sull’Isonzo: nei momenti più del 24 ottobre drammatici della ritirata, però, si era telinea del fronte prima dell’offensiva territorio occupato alle ore 24 del 25 ottobre muto che neanche questa linea avrebbe direzioni di attacco territorio occupato alle ore 24 resistito all’avanzata austriaca e che saterritorio occupato alle ore 24 del 26 ottobre del 24 ottobre rebbe stato meglio retrocedere fino all’Aterritorio occupato alle ore 24 dige o alla linea Mincio-Po, sacrificando del 25 ottobre Venezia. territorio occupato alle ore 24 Nella marcia verso il Piave, ai soldati in Trento del 26 ottobre linea del fronte prima dell’offensiva ritirata si aggiunsero più di 400 mila abiBelluno direzioni di attacco Feltre Trento tanti del Friuli e del Veneto: spaventati territorio occupato alle ore 24 dall’avanzata delle truppe austro-ungaAsiago Rovereto del 24 ottobre9_LA LINEA DEL PIAVE Feltre Monte riche, uomini, donne, bambini abbanGrappa territorio occupato alle ore 24 Asiago Rovereto donarono in fretta le loro case, caricanBelluno del 25 ottobre MonteLessini Thiene Bassano Trento Pia Grappa onti do sui carri e sui muli abiti, masserizie e occupato alle ore 24 M ve territorio 26 ottobre animali. Si crearono file e ingorghi del sulini Thiene Bassano Feltre i Less Mont le strade e, soprattutto, in prossimità dei Asiago Treviso Rovereto ponti sul Tagliamento, fatti saltare tra il Brescia Monte Pia Vicenza Grappa ve 30 ottobre e il 1° novembre per rendere Ba Brescia Padova cch più difficile l’avanzata nemica. La lotta essini Thiene PeschieraBassano L i Vicenza t n Verona igli Mo one per salire sui ponti fu accesissima: quanVenezia Ba Peschiera Treviso Padova cch ti non vi riuscirono furono costretti a torVerona igli one .F nare indietro, in terre ormai nelle mani ra s s ine Brescia Este degli austriaci. Le autorità italiane cerVicenza .F Adige ra s s Mantova Venezia carono di decentrare il flusso dei rifugiaB in Ogali Peschiera Este Chioggia Padovae coch Verona igli ti civili, sia per motivi di ordine pubblico Rovigo AdPioge one Mantova Ogli sia per ragioni di disponibilità alimenP O L E S I N E o Rovigo Po L tari: solo i profughi più agiati raggiunO .F G ra s s P O L E S I N E ine sero i maggiori centri urbani (Milano, Este Chioggia Bologna, Firenze, Roma), mentre gli alAdige Mantova Ogli tri furono convogliati in località piccole o Rovigo Po L e inospitali dell’Italia centro-meridionaO G P O L E S I N E le. Guardati con astio e diffidenza, accusati dell’aggravamento della penuria alimentare, i profughi rimasero emarginati linea italiana al termine nelle comunità locali: si trattò di una vedella ritirata ra e propria tragedia collettiva, rimoslinea italiana al termine eventuale schieramento della ritirata Mincio-Adige sa per decenni dalla memoria nazionale eventuale schieramento della Grande Guerra.

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linea italiana al termine della ritirata eventuale schieramento Mincio-Adige

rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica, al fronte come nel paese. Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia: gli stessi leader dell’ala riformista del Partito socialista assicurarono la loro solidarietà allo sforzo di resistenza del paese. Anche il cambio della guardia alla testa dell’esercito ebbe effetti positivi sul morale delle truppe. Armando Diaz, il nuovo capo di Stato maggiore, si mostrò meno incline di Cadorna all’uso indiscriminato dei mezzi repressivi e più attento alle esigenze dei soldati, cui furono garantiti vitto più abbondante e licenze più frequenti. Inoltre, dall’inizio del 1918, fu svolta un’opera sistematica di propaganda fra le truppe attraverso la diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un Servizio P (cioè propaganda) che si affidava soprattutto all’opera degli ufficiali inferiori e si avvaleva anche della collaborazione di numerosi intellettuali di prestigio [►FS, 36]. Si prospettò ai soldati la possibilità di vantaggi materiali di cui il paese e i singoli cittadini avrebbero potuto godere in caso di vittoria (cominciò, fra l’altro, a circolare la parola d’ordine della “terra ai contadini”). Si cercò soprattutto di presentare la guerra come una lotta per un più giusto ordine interno e internazionale. Prese così vigore l’idea della guerra democratica, già agitata dagli interventisti di sinistra e rilanciata con ben altra autorità dal presidente statunitense Wilson.

Il ruolo della propaganda



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea le informazioni principali relative agli eventi del 1917 e cerchia i nomi dei paesi in cui tali eventi si verificarono.  b   Completa il glossario e l’elenco degli eventi relativi al conflitto seguendo le indicazioni date nei precedenti paragrafi.  c   Evidenzia la risposta alle seguenti domande: a. Quale peso ebbe la sconfitta di Caporetto nell’andamento della guerra? b. Quali furono le reazioni italiane a questo evento?  d   Spiega per iscritto cosa era il “Servizio P”, quando e per quali fini entrò in funzione.

4_9 LA RIVOLUZIONE RUSSA:

► Leggi anche:

DA FEBBRAIO A OTTOBRE

Fra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra mondiale, la rivoluzione russa fu non soltanto il più violento e traumatico, ma anche il più imprevisto, almeno nei suoi sviluppi. Quando, all’inizio del ’17, il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado, pochi immaginavano che ne sarebbe seguito il più grande evento rivoluzionario mai verificatosi nel mondo dopo la Rivoluzione francese.

►   Eventi L’assalto al Palazzo d’Inverno ► Personaggi Lenin, uomo simbolo della rivoluzione, p. 162 ► Fare Storia La rivoluzione d’ottobre, p. 248

Dopo l’abdicazione dello zar, il 17 marzo, si formò nella capitale un governo provvisorio che aveva l’obiettivo dichiarato di continuare la guerra a fianco dell’Intesa e di promuovere nel contempo la modernizzazione, politica ed economica, del paese. Condividevano questa prospettiva non solo i gruppi liberal-moderati che facevano capo al partito dei cadetti (ossia costituzionali-democratici), ma anche i socialisti menscevichi (ossia “minoritari”) che si ispiravano ai modelli della socialdemocrazia europea, e i social-rivoluzionari, che avevano solide radici nella società rurale russa e interpretavano le aspirazioni delle masse contadine a una radicale riforma agraria [►2_6]. Rappresentanti di tutti e tre i partiti entrarono nel governo provvisorio. Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi [►1_5].

Il governo provvisorio e i partiti

Come già era accaduto nella rivoluzione del 1905, al potere “legale” del governo si affiancò subito il potere di fatto dei consigli (soviet, in russo) degli operai e dei soldati [►2_6]. Il più importante di questi soviet, quello della capitale Pietrogrado, agiva come una specie di parlamento proletario, spesso in contrasto con le disposizioni del governo. Quello che la rivoluzione aveva ormai messo in moto era un movimento di massa che respingeva l’idea di un’autorità centrale, era favorevole a un diffuso potere dal basso e, soprattutto, voleva porre fine alla guerra.

I soviet

Questa era la situazione nell’aprile del ’17, quando Lenin [►1_5], leader dei bolscevichi, rientrò in Russia dalla Svizzera dopo un avventuroso viaggio attraverso l’Europa in guerra. Il viaggio era stato reso possibile dalla copertura delle autorità tedesche che, conoscendo le idee di Lenin sulla guerra, speravano di accelerare l’uscita della Russia

Lenin e le Tesi di aprile

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

Scontri a Pietrogrado durante una manifestazione 1917 Nel 1914, allo scoppio della guerra con la Germania, la capitale dell’Impero russo, San Pietroburgo, cambiò il suo nome in quello di Pietrogrado, sostituendo il suffisso tedesco Burg (“borgo, castello”) col russo grad (“città”). Ribattezzata Leningrado dal 1924, la città riprese il suo antico nome nel 1991. Ma già nel 1918 aveva perso il ruolo di capitale a vantaggio di Mosca, perché considerata troppo esposta, per la sua posizione geografica, alle invasioni straniere. Pietrogrado fu comunque il centro principale delle due rivoluzioni – quella democratica e quella comunista – che sconvolsero la Russia nel 1917 e si conclusero con la presa del potere da parte dei bolscevichi. In questa foto una manifestazione degenerata in scontro in cui i civili fuggono incalzati dal fuoco delle truppe governative all’incrocio fra la Prospettiva Nevskij e la via Sadovaya, due delle principali arterie della città.

PERSONAGGI

Lenin, uomo simbolo della rivoluzione

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enza Lenin, la rivoluzione d’ottobre, l’evento che stravolse la storia del XX secolo, non avrebbe probabilmente avuto luogo. Le sue idee influenzarono uomini politici e intellettuali di tutto il mondo e ispirarono i movimenti rivoluzionari nei decenni successivi. La dottrina comunista portò il suo nome dagli anni ’20 in poi: marxismo-leninismo. Ambizioso, amante ossessivo dell’ordine, di carattere duro, inflessibile e, soprattutto, combattivo (leggendari nel partito erano i suoi accessi di collera), Lenin dedicò interamente la vita alla politica. Nato a Simbirsk (1870), città del medio Volga lontana dalle capitali imperiali di Mosca e San Pietroburgo, Vladimir Il’ič Ul’janov (lo pseudonimo Lenin nacque solo più tardi, nel 1902, con la pubblicazione del suo opuscolo politico Che fare?) visse l’infanzia in un ambiente tutt’altro che rivoluzionario. I genitori erano sudditi fedeli dello zar Alessandro II, credevano fortemente nella strada delle riforme da lui intrapresa da metà ’800 e nel processo di modernizzazione del loro paese. In particolare il padre Il’ja, direttore scolastico della provincia, gli trasmise la passione per lo studio: a scuola

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

il giovane Vladimir otteneva ottimi risultati in latino e greco e divenne avido lettore dei classici russi. La passione per la politica entrò invece più tardi nella sua vita e in maniera dirompente, quando Lenin si avvicinò ai gruppi rivoluzionari contrari al riformismo che si opponevano, con metodi terroristici, alla politica repressiva dello zar Alessandro III. Il fratello maggiore Aleksandr, coinvolto in un progetto di attentato allo zar, fu impiccato dalle autorità dopo aver rifiutato la grazia (1887). Vladimir maturò nei confronti della dinastia dei Romanov un odio che non lo avrebbe abbandonato mai. Le idee per le quali era morto il fratello ne forgiarono lo spirito rivoluzionario; i libri ereditati da Aleksandr influenzarono la sua formazione giovanile: tra questi il romanzo Che fare? di Černyševskij, autore russo nemico irriducibile dei Romanov, spedito in un campo di lavoro in Siberia, la cui lettura, come lui stesso ammise, gli aveva «preparato il terreno della mente». Iscrittosi all’Università di Kazan’, venne espulso quasi subito per la sua attività politica. Libero dagli obblighi universitari, Lenin si dedicò interamente allo studio di Marx ed Engels, sen-

za però tralasciare letture classiche come i testi politici di Machiavelli, quelli di economisti come Ricardo, opere di vari autori contemporanei quali Darwin e Zola. Il giovane Lenin maturò dunque la sua visione rivoluzionaria non sulla base del contatto diretto con contadini e operai, ma attraverso un percorso intellettuale fatto di letture di testi marxisti e di economia, di rapporti con gruppi di intellettuali rivoluzionari, frequentando per lo più biblioteche, caffè e librerie, e non fabbriche e campagne. Fu a San Pietroburgo, dove aveva potuto riprendere l’università (1890), che entrò in contatto con i gruppi degli intellettuali marxisti della città: qui partecipò al movimento di agitazione operaia, a causa del quale fu arrestato e confinato in Siberia (1895-1900); cominciò a scrivere articoli; scoprì l’importanza di viaggiare in Europa (Francia, Germania, Svizzera) e di confrontarsi con altri intellettuali marxisti. A San Pietroburgo conobbe la futura moglie Nadežda Krupskaja. All’estero, a inizio ’900, costruì il suo ruolo all’interno del Partito socialdemocratico operaio russo come leader della frazione bolscevica e fautore di un apparato centrale forte alla guida del movimento rivoluzionario [►1_5]. Sempre all’estero lo colsero gli eventi determinanti per la sto-

Non appena giunto a Pietrogrado, Lenin diffuse un documento in dieci punti – le cosiddette Tesi di aprile [►FS, 41d] – in cui poneva il problema della presa del potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati. Il primo obiettivo era quello di conquistare la maggioranza nei soviet – riconosciuti come unica legittima fonte del potere – e di lanciare le parole d’ordine della pace, della terra ai contadini poveri, del controllo della produzione da parte dei consigli operai. Il primo scontro fra i bolscevichi e il governo provvisorio si ebbe a Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. Ma l’insurrezione fallì. A settembre un tentativo di colpo di Stato promosso dal capo dell’esercito, il generale Kornilov, fu sventato dal governo, allora guidato dal social-rivoluzionario Aleksandr Kerenskij, grazie all’aiuto di tutte le forze socialiste. A uscire rafforzati da questa vicenda furono però soprattutto i bolscevichi, principali protagonisti della mobilitazione popolare contro il colpo di Stato, che conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca.

I bolscevichi contro il governo

La decisione di rovesciare il governo fu presa dai bolscevichi in ottobre [►FS, 42]. Organizzatore dell’insurrezione fu Lev Davidovič Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij, eletto presidente del soviet di Pietrogrado. La mattina del 7 novembre (25 ottobre per il calendario russo) soldati rivoluzionari e guardie rosse (ossia milizie operaie) circondarono il Palazzo d’Inverno, già residenza dello zar e ora sede del governo provvisorio, e se ne impadronirono la sera stessa. L’assalto al Palazzo d’Inverno

La rivoluzione d’ottobre

Vladimir Il’icˇ Ul’janov detto Lenin 1919

ria russa: la rivoluzione del 1905 prima, lo scoppio della prima guerra mondiale poi, quando la sua intensa attività contro la guerra “imperialista” era interrotta da lunghi periodi di riposo sulle Alpi, necessari per rimettersi da una condizione fisica precaria. In Svizzera gli giunse la notizia del rovesciamento dello zar Nicola II: grazie al benestare delle autorità tedesche, che vedevano di buon occhio il rientro dei bolscevichi in patria quale elemento destabilizzante, Lenin raggiunse all’alba del 4 aprile 1917 la stazione Finlandia di Pietrogrado con in tasca le sue celebri Tesi di aprile [►FS, 41d], abbozzate durante un rocambolesco viaggio in treno attraverso la Germania e la Scandinavia. Sebbene in pochi conoscessero il suo volto, diventò presto leader indiscusso della rivoluzione, imprimendo la sterzata rivoluzionaria di ottobre. A capo del governo rivoluzionario e del Comitato centrale del partito, prese decisioni difficili, come la firma del trattato di Brest-Litovsk e la continuazione della guerra civile per dare solidità alla rivoluzione; successivamente estromise con durezza dal partito le fazioni avversarie e spinse per la creazione di un’Internazionale comunista. Dopo aver guidato il paese nella stagione della

guerra civile, del “comunismo di guerra” e della carestia, si fece promotore di una nuova politica economica (Nep, ►5_7) che, in contraddizione con quanto fatto fino a quel momento, apriva limitati spazi all’economia di mercato, rendendo legale il piccolo commercio e consentendo ai contadini di vendere una quota dei prodotti della terra. Allo stesso tempo, ordinò di reprimere con la forza ogni manifestazione di dissenso. Intanto però le sue condizioni di salute andavano peggiorando. Il 25 maggio 1922, quando aveva ancora 52 anni, fu colpito da un ictus che comportò una parziale paralisi del lato destro del corpo. Nel dicembre del 1922, poco prima di subire un nuovo attacco che ne limitò ulteriormente le capacità fisiche, dettò un testamento politico in cui muoveva serie critiche ai suoi possibili successori alla testa del partito, Stalin e Trotzkij. Dall’inizio di marzo del 1923 non fu più in grado di parlare né di muoversi. Morì il 21 gennaio 1924. I funerali, curati personalmente da Stalin, segnarono la nascita di un mito unificante per lo Stato sovietico. Il suo corpo, esposto in un mausoleo nella Piazza Rossa, fu oggetto di venerazione popolare per tutto il ’900.

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

L’assalto al Palazzo d’Inverno Di tutte le immagini della rivoluzione d’ottobre, questa fotografia è senza dubbio la più nota. Ma la scena riprodotta si svolse tre anni dopo, nel 1920, in pieno giorno, durante una manifestazione di piazza organizzata, per commemorare le giornate dell’ottobre, dal distretto militare di Pietrogrado e con la collaborazione del teatro della “Libera Commedia”. Lo scenografo fu Jurij Annenkov e il “regista comandante” Nikolaj Evreinov. In seguito entrambi lasciarono l’Unione Sovietica e in esilio poterono raccontare la verità su quelle scene, anche se le immagini che avevano inventato sono rimaste nei libri di storia come le immagini stesse della rivoluzione.

– destinato ad assurgere a episodio simbolo della rivoluzione, come era stata la presa della Bastiglia nel 1789 – fu praticamente incruento: pochissime furono le vittime nei confusi scontri che ebbero luogo nei corridoi e nei saloni dell’antica reggia. In quegli stessi giorni, si riuniva a Pietrogrado il Congresso panrusso dei soviet, cioè l’assemblea dei deMETODO DI STUDIO legati dei soviet di tutte le province dell’ex Impero russo.  a   Sottolinea, con colori diversi, gli elementi fondamentali che definiscono: Come suo primo atto il Congresso varò due decreti, proa. il governo provvisorio; b. i soviet; c. il Congresso panrusso dei soviet; d. le Tesi di aprile. posti personalmente da Lenin: il primo faceva appello a  b   Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, descrivi sintetutti i popoli dei paesi belligeranti «per una pace giusta ticamente il significato di ogni titolo spiegando il ruolo dei soggetti (singoli e e democratica [...] senza annessioni e senza indennità»; collettivi) e degli eventi indicati, facendo riferimento al contesto della rivoluzione d’ottobre. il secondo stabiliva l’abolizione della grande proprietà  c   Realizza un glossario relativo alla rivoluzione russa procedendo in terriera «immediatamente e senza alcun indennizzo». questo modo: individua i nomi di istituzioni, soggetti storici, luoghi ed eventi Veniva frattanto costituito un nuovo governo rivoluziosignificativi descritti nel testo, trascrivili sul quaderno assieme alla relativa definizione. Avrai in questo modo un glossario che completerai con le informazioni nario presieduto da Lenin, che fu chiamato Consiglio acquisite nel paragrafo successivo. dei commissari del popolo.



4_10 LA RIVOLUZIONE RUSSA:

DITTATURA E GUERRA CIVILE

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Lo scioglimento dell’Assemblea costituente

La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa tutte le altre forze politiche. Menscevichi, cadetti e social-rivoluzionari non organizzarono una reazione efficace e preferirono puntare le loro carte sulle elezioni dell’Assemblea costituente, fissate per la fine di novembre. I risultati

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

► Leggi anche: ►     Storia, società, cittadinanza Il mito della democrazia diretta ► Personaggi Lenin, uomo simbolo della rivoluzione, p. 162

delle urne costituirono una delusione per i bolscevichi, che ottennero meno di un quarto dei seggi. Quasi scomparsi dalla scena i menscevichi e i cadetti, i veri trionfatori delle elezioni furono i social-rivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza assoluta, grazie al massiccio sostegno dell’elettorato rurale. Ma i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere appena conquistato. Riunitasi la prima volta all’inizio di gennaio, l’Assemblea costituente fu immediatamente sciolta dall’intervento dei militari bolscevichi, che obbedivano a un ordine del Congresso dei soviet. Questo nuovo atto di forza, coerente con le idee espresse più volte da Lenin che non credeva alle regole della “democrazia borghese”, segnava una rottura irreversibile con le altre componenti del movimento socialista e con tutta la tradizione democratica occidentale [►FS, 43]. Convinti di poter conquistare in tempi brevi l’appoggio compatto delle masse popolari, i leader bolscevichi speravano di poter procedere rapidamente alla costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato all’esperienza della Comune di Parigi, secondo un modello di autogoverno delineato da Lenin in una delle sue opere più famose, Stato e rivoluzione. In quel saggio, scritto alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, Lenin riprendeva la definizione di Marx sullo Stato come strumento del dominio di una classe sulle altre e prevedeva che, una volta scomparso questo dominio, lo Stato stesso si sarebbe avviato verso una rapida estinzione. Nella società socialista non vi sarebbe stato bisogno di Parlamenti e di magistratura, di eserciti e di burocrazia, ma le masse stesse si sarebbero autogovernate secondo i princìpi di democrazia diretta sperimentati nei soviet.

Stato e rivoluzione

Tuttavia, se era stato relativamente facile per i bolscevichi impadronirsi del potere centrale, molto più difficile – per un partito che contava nel novembre ’17 circa 70 mila iscritti su una popolazione di oltre 150 milioni di abitanti – si presentava il compito di gestire questo potere, di amministrare un paese immenso, di governare una società tanto complessa quanto arretrata, di affrontare i tremendi problemi ereditati dal vecchio regime, primo fra tutti quello della guerra. L’ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di una sollevazione generale dei popoli europei, da cui sarebbe scaturita una pace equa, “senza annessioni e senza indennità”. Ma questa ipotesi non si realizzò. E i capi rivoluzionari, che non potevano deludere le attese di pace da loro stessi incoraggiate, si trovarono a trattare in condizioni di grave inferiorità con un nemico che già occupava vaste zone dell’ex Impero russo. Già il 5 dicembre il nuovo governo firmò l’armistizio che poneva fine alle ostilità. Seguì una lunga e drammatica trattativa con gli Imperi centrali, che si concluse tre mesi dopo, il 3 marzo 1918, con la firma della pace di Brest-Litovsk. La Russia rivoluzionaria dovette accettare tutte le durissime condizioni imposte da Germania e Austria-Ungheria, che comportavano la perdita di tutti i territori non russi dell’ex Impero (circa un quarto della sua parte europea), dove stavano nascendo nuovi Stati indipendenti. Per imporre questa decisione, Lenin dovette tuttavia superare le perplessità di alcuni fra i suoi stessi compagni di partito e la violenta opposizione dei social-rivoluzionari, compresa la minoranza di sinistra che in un primo tempo aveva appoggiato il governo rivoluzionario. I bolscevichi rimanevano così completamente isolati.

Il trattato di Brest-Litovsk

Gravissime furono poi le conseguenze del trattato a livello dei rapporti internazionali. Le potenze dell’Intesa, ancora impegnate contro gli Imperi centrali e preoccupate di un possibile contagio rivoluzionario, considerarono la pace un tradimento e cominciarono ad appoggiare le forze antibolsceviche che, già dalla fine del ’17, si erano andate organizzando in varie zone del paese, per lo più sotto la guida di ex ufficiali zaristi. Fra la primavera e l’estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel Nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale. L’arrivo dei contingenti stranieri servì a rafforzare l’opposizione al governo bolscevico – soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i cosiddetti bianchi – e ad alimentare la guerra civile in diverse zone del paese. La prima minaccia venne dall’Est, dove i bianchi assunsero il controllo di vasti territori della Siberia penetrando, nell’estate del ’18, nella

La guerra civile

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

zona fra gli Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la sua famiglia, prigionieri nella città di Ekaterinburg, furono giustiziati per ordine del soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari. Le forze controrivoluzionarie erano però divise e mal coordinate, per motivi sia di rivalità politica sia di distanza geografica, e non riuscirono a guadagnarsi l’appoggio dei contadini, che spesso diffidavano dei bolscevichi ma temevano ancor più il ritorno dei vecchi proprietari. Solo nell’estate del ’19, però, le potenze straniere avrebbero cominciato a ritirare le loro truppe, per le proteste che l’intervento suscitava nei loro paesi e per il pericolo di un “contagio rivoluzionario” fra i soldati. Nella primavera del ’20 la fase più acuta della guerra civile si sarebbe chiusa, dopo oltre due anni di combattimenti che avevano provocato perdite gravissime da ambo le parti e sofferenze inaudite per l’intera popolazione. Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari. Si era co- Lo zar Nicola II Romanov e la sua famiglia minciato, già nel dicembre ’17, con la creazione di 1914 ca. foto mostra i membri della famiglia imperiale russa: al centro, seduti, lo zar Nicola II e la una polizia politica, la Čeka. Nello stesso periodo La zarina Alessandra Feodorovna, sua consorte; intorno a loro, in senso orario, Alessio, unico era stato istituito un Tribunale rivoluzionario figlio maschio, Maria, Olga, Tatiana e Anastasia. I componenti della famiglia, insieme a quattro loro servitori, furono giustiziati dai bolscevichi il 16 luglio 1918 e i loro corpi fatti a pezzi, centrale, col compito di processare chiunque di- dei bruciati e sepolti in una cava. sobbedisse al “governo operaio e con­tadino”. Nel giugno ’18 vennero messi fuori legge i partiti d’opposizione e fu reintrodotta la pena di morte che era stata abolita subito dopo la rivoluzione d’ottobre. Arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di “nemici di classe” entrarono sin da allora nella realtà quotidiana del nuovo regime. Si procedeva nel contempo alla riorganizzazione dell’esercito, ricostituito ufficialmente nel febbraio ’18 col nuovo nome di Armata rossa degli operai e dei contadini. Artefice principale dell’operazione fu Trotzkij che, servendosi anche di ufficiali del vecchio esercito zarista, costruì una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina. Ad assicurare la lealtà al governo rivoluzionario provvedevano figure di nuova istituzione, i commissari politici, distaccati dal partito presso le unità combattenti.

La stretta autoritaria

LA RIVOLUZIONE RUSSA

Febbraio ‘17

166

Caduta del regime zarista

Marzo ‘17

Insediamento del governo provvisorio (con esclusione dei bolscevichi)

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Aprile ‘17

Costituzione di Rientro di Lenin soviet (consigli di dall’esilio: Tesi operai e soldati) di aprile

Ottobre ‘17

Novembre ‘17

Gennaio ‘18

Marzo ‘18

Estate ‘18estate ‘19

I bolscevichi prendono il Palazzo d’Inverno

Alle elezioni ottengono la maggioranza i social-rivoluzionari

I bolscevichi sciolgono l’Assemblea costituente

Pace di BrestLitovsk: la Russia esce dalla guerra

Guerra civile: vittoria dell’Armata rossa

10_LA RUSSIA DAL 1918 AL 1920 Murmansk

perdite territoriali dopo il trattato di Brest-Litovsk, 1918 territori controllati dai bolscevichi, 1919 territori occupati dai franco-inglesi, 1919

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Odessa Crimea Sebastopoli ERO MAR N

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BULGARIA

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Istanbul TURCHIA

GRECIA

La creazione di un esercito efficiente, decisiva per la vittoria nella guerra civile, avrebbe consentito anche in seguito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi nemici, interni ed esterni. Nasceva così un nuovo modello di Stato a partito unico dai tratti METODO DI STUDIO spietatamente autoritari, prototipo, come vedremo, di  a   Sottolinea, colori molti regimi antidemocratici che si sarebbero affermati perdite territoriali dopo ilcon trattato di diversi, le informazioni principali relative ai seguenti perdite territoriali temi: a. il 1918 trattato di Brest-Litovsk; b. la guerra civile; c. le conseguenze della dopo il trattato Brest-Litovsk, negli anni successivi, eppure capace di proporsi, col suo di Brest-Litovsk, 1918 guerracontrollati civile. dai bolscevichi, 1919 territori radicale messaggio dicontrollati eguaglianza sociale, come agente territori territori il glossario 1919 relativo alla rivoluzione russa già iniziato per il para b   Completa occupati dai franco-inglesi, dai ibolscevichi, grafo precedente. di liberazione per popoli 1919 di tutto il mondo e come per- attacchi delle «armate bianche» territori occupati  c   Spiega iscritto in non cosa consistono la “stretta autoritaria” e la “sfida manente minaccia per l’ordine attacchi delle forzeper antibolsceviche dai franco-inglesi, 1919economico e per gli equirivoluzionaria” descritte nel paragrafo. russe libri internazionali dell’intero Occidente.

La sfida rivoluzionaria



4_11 1918: LA SCONFITTA DEGLI IMPERI CENTRALI

Nella fase finale della guerra, per scongiurare la minaccia di una diffusione del modello rivoluzionario bolscevico, gli Stati dell’Intesa accentuarono il carattere ideologico dello scontro, presentandolo sempre più come una crociata della democrazia contro l’autoritarismo. Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente

I “14 punti” di Wilson

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

americano Woodrow Wilson. Nel gennaio 1918 Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace in 14 punti [►FS, 45d]. Oltre a formulare una serie di proposte concrete circa il nuovo assetto europeo da costruire nel rispetto del principio di nazionalità, il presidente americano proponeva l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, la soppressione delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti. Nell’ultimo punto si prospettava infine l’istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle Nazioni, per assicurare il rispetto delle norme di convivenza fra i popoli.

principio di nazionalità Il principio di nazionalità riconosce il diritto di una nazione, cioè di una comunità omogenea per lingua, cultura, storia, tradizioni, a organizzarsi in uno Stato sovrano. Su questo principio, affermatosi a partire dal secolo XIX, si fondano molti degli Stati oggi esistenti, almeno in Europa. La sua applicazione, però, pone una serie di problemi ancora aperti: come definire la comunità da cui la nazione ha origine; e come evitare la proliferazione infinita di Stati e staterelli in conflitto fra loro. Oggi nei paesi democratici si tende a una interpretazione estensiva del principio di nazionalità, inteso come diritto a coltivare le proprie culture e le proprie tradizioni, più che come aspirazione a uno Stato indipendente.

La pace tuttavia appariva ancora lontana. Sul fronte bellico l’inizio del 1918 vedeva ancora i due schieramenti in una situazione di sostanziale equilibrio. La partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che la Germania tentò la sua ultima e disperata scommessa impegnando tutte le forze rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. In giugno l’esercito tedesco era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni a lunga gittata. Sempre in giugno gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano attaccando in forze sul Piave e nella zona del Monte Grappa, ma furono respinti dopo una settimana di furiosi combattimenti. Alla fine di luglio le forze dell’Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi grazie al massiccio apporto degli Stati Uniti, passarono al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente.

Le ultime offensive degli Imperi centrali

I generali tedeschi capirono allora di aver perso la guerra: la loro principale preoccupazione divenne quella di sbarazzarsi del potere che avevano così largamente esercitato e di lasciare ai politici la responsabilità di un armistizio che si annunciava durissimo. Il compito ingrato di aprire le trattative toccò a un nuovo governo di coalizione democratica formatosi ai primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici e dei cattolici del Centro. Si sperava che un governo realmente rappresentativo potesse costituire un interlocutore più credibile per l’Intesa. Ma era ormai troppo tardi. Mentre la Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente o si disgregavano dall’interno.

Una democratizzazione tardiva

La prima a cedere, alla fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l’Impero turco a chiedere l’armistizio. Contemporaneamente, si consumava la crisi finale dell’Austria-Ungheria. Cecoslovacchi e slavi del Sud proclamarono l’indipendenza, mentre i soldati abbandonavano il fronte in numero sempre maggiore. Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un’offensiva sul Piave, l’Impero era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l’armistizio con l’Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, il 4 novembre 1918.

La fine dell’AustriaUngheria

Intanto la situazione precipitava anche in Germania. Ai primi di novembre i marinai di Kiel, dov’era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono i socialdemocratici, presenti anche nel governo “legale” del Reich. Il 9 novembre a Berlino un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato capo del governo, mentre Guglielmo II fuggiva in Olanda e veniva proclamata la Repubblica. L’11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l’armistizio nel villaggio francese di Rethondes.

La resa della Germania

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Il bilancio della guerra

La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare. La perdeva per fame e per stanchezza, ma senza essere stata schiacciata sul piano militare e senza che il suo territorio fosse stato invaso

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Il “reparto influenzati” nell’ospedale Walter Reed a Washington 1918-19 [foto di Harris & Ewing; Library of Congress, Washington] Durante l’ultimo anno di guerra, alle vittime del conflitto si aggiunsero quelle di una delle peggiori pandemie che il mondo abbia mai conosciuto: la cosiddetta “influenza spagnola”, che infettò 500 milioni di persone in ogni angolo del globo e ne uccise oltre 20 milioni: il paese più colpito fu l’India, con 12 milioni e mezzo; oltre mezzo milione di persone negli Stati Uniti, 450 mila in Russia, 375 mila in Italia, 230 mila in Germania e altrettante in Inghilterra. Nonostante il nome, l’origine del virus è rimasta ignota, ma è accertato che proprio i grandi “movimenti” di soldati durante le fasi finali della guerra portarono alla sua rapida e capillare diffusione.

da eserciti stranieri. Gli Stati dell’Intesa, vincitori grazie all’apporto, tardivo ma decisivo, di una potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e provati per l’immane sforzo sostenuto. La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche con un drastico ridimensionamento del peso politico dell’Europa sulla scena internazionale.



METODO DI STUDIO

 a   Completa il glossario e l’elenco degli eventi relativi alla Grande Guerra seguendo le indicazioni date nei precedenti paragrafi.  b   Quali furono gli esiti complessivi del conflitto da un punto di vista umano e geopolitico? Evidenzia nel testo la risposta.

4_12 VINCITORI E VINTI

Il 18 gennaio 1919, nella Reggia di Versailles, presso Parigi, si aprirono i lavori della conferenza di pace. Vi parteciparono i rappresentanti di trentadue paesi dei cinque continenti (compresi alcuni Stati appena costituiti), molti dei quali avevano svolto nella guerra un ruolo marginale. Rimasero invece esclusi i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li riguardavano. Tutte le materie più importanti vennero in realtà riservate ai cosiddetti “quattro grandi”, ossia ai capi di governo delle principali potenze vincitrici: l’americano Wilson, il francese Clemenceau, il britannico Lloyd George e l’italiano Orlando, quest’ultimo però relegato a un ruolo secondario anche a causa dei contrasti con gli alleati sul nuovo confine orientale dell’Italia [►6_1]. I leader delle potenze vincitrici avevano il compito di ridisegnare la carta politica del Vecchio Continente, sconvolta dal crollo contemporaneo di quattro imperi (russo, austro-ungarico, tedesco e turco).

La conferenza di pace

Il nuovo equilibrio doveva tener conto dei princìpi di democrazia e di giustizia internazionale enunciati nei “14 punti” di Wilson, rappresentante della potenza uscita dalla guerra in una evidente posizione di forza economica e politica. In pratica, però, la realizzazione di quel programma si rivelò assai problematica: i princìpi wilsoniani

Pace democratica e pace punitiva

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C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

non sempre erano compatibili con l’esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti – considerati i soli responsabili della guerra – e di premiare i vincitori, o quanto meno di garantirli, anche sul piano territoriale, contro la possibilità di rivincite da parte degli ex nemici. La contraddizione risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi non si accontentavano della restituzione dell’Alsazia-Lorena, ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che avrebbe significato l’annessione di territori fra i più ricchi e popolosi della Germania. Ma questi progetti incontravano l’opposizione decisa di Wilson. La Francia dovette dunque rinunciare al confine sul Reno, in cambio della promessa (che non sarebbe stata mantenuta) di una garanzia anglo-americana sulle nuove frontiere franco-tedesche. La Germania poté così limitare le amputazioni territoriali, ma subì, senza nemmeno poterle discutere, una serie di clausole che, se eseguite integralmente, sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze. Il trattato, che venne firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu in realtà un’imposizione – un Diktat, ovvero un “dettato”, come allora fu definito – subìta dalla Germania sotto la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale era prevista, oltre alla scontata restituzione alla Francia del­ l’Alsazia-Lorena, annessa nel 1871, la cessione alla Polonia (ricostituita sulle ceneri degli Imperi centrali e dell’Impero russo, che se l’erano spartita alla fine del ’700) di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l’Alta Slesia, la Posnania, più una striscia della Pomerania – il cosiddetto “corridoio polacco” – che interrompeva la continuità territoriale fra Prussia occidentale e Prussia orientale, per consentire alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch’essa tolta alla Germania e trasformata in “città libera”. La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giap­pone. Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e

Il trattato di Versailles

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William Orpen, La conferenza di pace a Versailles 1919 [Imperial War Museum, Londra] Il dipinto del pittore irlandese William Orpen (18781931) raffigura una fase cruciale dei lavori della conferenza di pace, la storica seduta di Versailles in cui vennero sottoposte ai plenipotenziari tedeschi le condizioni di pace degli alleati. Sono riconoscibili, al centro da sinistra verso destra, Woodrow Wilson, Georges Clemenceau e David Lloyd George.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

militari. Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i danni subìti in conseguenza del conflitto. Fu inoltre costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100 mila uomini e a lasciare “smilitarizzata” (priva cioè di reparti armati e di fortificazioni) l’intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe britanniche, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente l’orgoglio nazionale tedesco. Ma erano anche, agli occhi dei francesi, l’unico mezzo per impedire alla Germania di riprendere la sua posizione di grande potenza. Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell’Impero asburgico. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85 mila km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei milioni e mezzo di cittadini di lingua tedesca: più di un quarto risiedevano a Vienna, una capitale ormai sproporzionata alle dimensioni e alle risorse del piccolo Stato. Un trattamento severo toccò anche all’Ungheria: costituitasi in repubblica nel novembre ’18, perse non solo quelle regioni slave (Slovacchia, Croazia) che nel duplice impero dipendevano da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare.

La dissoluzione dell’Impero asburgico

A trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico, oltre all’Italia [►6_1], furono soprattutto i popoli slavi. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già appartenenti agli Imperi russo e tedesco. I cechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di tedeschi (i sudeti). Gli slavi del Sud – cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina – si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (dal ’29 Regno di Jugoslavia).

Le nuove nazioni

Il nuovo assetto balcanico era completato dall’ingrandimento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa estromissione dall’Europa dell’Impero ottomano che, privato contemporaneamente di tutti i suoi territori arabi, si trasformava di fatto in uno Stato nazionale turco, conservando la sola penisola dell’Anatolia, tranne la regione di Smirne assegnata alla Grecia. Dell’antico mpero restava ormai solo un involucro formale,

Il nuovo assetto nei Balcani e il problema della Russia

LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA SULLA GERMANIA

UNA PACE “PUNITIVA” Sanzioni economiche e militari

Perdite territoriali

Alsazia e Lorena

Colonie

Alta Slesia, Posnania e Pomerania

Francia

Francia, Gran Bretagna e Giappone

Polonia

Pagamento dei danni di guerra

Abolizione della leva

Smilitarizzazione del Reno

171

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

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192 1

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PO RTO GA

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CCH FRANCIA Monaco IA che mascherava il tentativo delle potenze vincitrici di spartire il paese in zone di influenza a loro Vienna Odessa Budapest riservate. SVIZZERA AUSTRIA UNGHERIA Bordeaux Lione Restava aperto il problema dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. ROMANIA Gli Stati vincitori non riFiume Milano Belgrado It.1924riconosciute Bucarest conobbero la Repubblica dei soviet, mentre furono e protette, proprio in funzione JUGOSLAVIA antisovietica, le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate nei territori baltici persi Madrid Lisbona Sarajevo BULGARIA ITALIA dalla Russia con il trattato di Brest-Litovsk: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Sofia Barcellona

Roma

Istanbul

19

23

L’Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi TURCHIA Stati. A essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d’Irlanda, cui la GRECIA Gran Bretagna si risolse a concedere l’indipendenza, anche se nell’ambito Atene del Commonwealth e Algeri con l’esclusione Tunisi del Nord protestante (Ulster).

L’indipendenza dell’Irlanda

ALGERIA

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11_LA NUOVA CARTA D’EUROPA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE

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territori occupati dalla Grecia dal 1919 al 1922 anno di definizione dei confini

1921

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I trattati di pace mutarono radicalmente la carta d’Europa, che nel 1920 era profondamente diversa da quella del 1914. La Germania territoriaoccupati Grecia sconfitta perdeva ampie regioni, est e a dalla ovest; si ricostituiva la Polonia 1919 al 1922 e nascevano gli Stati balticidal (Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania). Dalla

172

1921

anno di definizione dei confini

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

O ES N CA lia) DE (Ita

DO

Algeri

MAR MEDITERRANEO

dissoluzione dell’Impero austro-ungarico avevano origine la Jugoslavia, l’Ungheria, l’Austria e la Cecoslovacchia. L’Italia, infine, otteneva il Trentino e l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria.

Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle Nazioni. Il nuovo organismo prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l’adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, tra cui particolarmente grave era l’esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia. Il colpo più duro alla Società delle Nazioni, però, arrivò proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che più di ogni altro ne aveva voluto la nascita: nel marzo 1920, infatti, il Senato statunitense rifiutò di ratificare i trattati di Versailles, che includevano l’adesione al nuovo organismo. Mentre per gli Stati Uniti cominciava una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentali, la Società delle Nazioni finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire i conflitti che costellarono gli anni fra le due guerre mondiali.

Il fallimento della Società delle Nazioni



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi i seguenti elementi: a. data e luogo della conferenza che si svolse al termine della prima guerra mondiale; b. nomi delle potenze vincitrici e dei relativi rappresentanti; c. scopi ideali della conferenza; d. obiettivi che furono realmente perseguiti durante i lavori.  b   Trascrivi sul quaderno le parole chiave del sottoparagrafo Il trattato di Versailles evidenziate in grassetto. Quindi, spiega il loro significato nel contesto descritto.  c   Rispondi alle seguenti domande: Quali furono i cambiamenti imposti alla Germania? Quali le motivazioni addotte dalle potenze vincitrici?  d   Cerchia con colori differenti gli imperi che scomparvero con il trattato di Versailles e sottolinea i cambiamenti che ne seguirono mantenendo i colori scelti.  e   Rispondi alle seguenti domande: a. Cosa era la Società delle Nazioni, quando venne istituita e per quale scopo? b. Quali limiti la caratterizzarono?

4_13 IL MITO E LA MEMORIA

► Leggi anche:

La prima guerra mondiale fu, come pochi altri eventi della storia contemporanea, una grande produttrice di miti. Lo fu innanzitutto per coloro che la combattevano. La condizione di disagio psicologico oltre che materiale, di sradicamento e spaesamento vissuta dalla maggior parte dei soldati portò molti di loro a sviluppare forme diverse di fuga dalla realtà: dunque a coltivare credenze irrazionali, ad accettare come vere notizie fantastiche, a immaginare apparizioni miracolose o eventi sovrannaturali. Anche la tendenza a sentirsi parte di una comunità omogenea e compatta – quella delle trincee – contrapposta a una società egoista e ingrata, insensibile ai sacrifici di chi stava al fronte, si trasformò un po’ in tutti i paesi in una visione distorta e semplificata della realtà, in cui alla frattura fisica che opponeva il proprio fronte a quello nemico si sommava la frattura morale tra veri combattenti e cosidetti “imboscati”: coloro che, per diversi motivi, riuscivano a evitare il servizio in prima linea.

La comunità dei combattenti

►     Focus La letteratura della Grande Guerra • La memoria della Grande Guerra: il culto dei caduti

Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la guerra continuò a lungo a essere oggetto di rappresentazione e di trasfigurazione mitica. L’entità senza precedenti delle perdite umane, che ovviamente avevano colpito soprattutto le generazioni più giovani, lasciò una traccia profonda e aprì una ferita non rimarginabile nella memoria privata delle famiglie e degli stessi commilitoni, ma anche nella memoria pubblica dei paesi coinvolti nel conflitto. Comune alla dimensione privata e a quella pubblica era il tentativo di elaborare, per quanto possibile, il lutto, di trovare a posteriori giustificazioni ideali a tanta sofferenza, in nome del patriottismo e della difesa della nazione. Ne risultò spesso una visione idealizzata della guerra, che nel ricordo veniva depurata dei suoi orrori e delle sue crudeltà e rivissuta nella chiave dell’eroismo, del volontario martirio: una sorta di santificazione laica di coloro che erano caduti nell’adempimento del dovere.

Il culto dei caduti

Non si trattava certo di una novità: la celebrazione dei morti in guerra, ben presente fin dall’Antichità classica e alimentata da una cospicua tradizione letteraria, era stata rinverdita dalla cultura romantica che vedeva negli eserciti basati sulla leva in massa l’espressione della nazione in armi. Nuove erano però le dimensioni del fenomeno, proporzionate alla vastità del conflitto e al numero delle vittime. Nuova la partecipazione emotiva di massa e più esteso l’impegno delle autorità pubbliche nelle iniziative in ricordo dei caduti. Non

Luoghi della memoria

173

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

solo furono eretti grandi mausolei nei luoghi dei combattimenti più sanguinosi (Tannenberg in Prussia orientale, Verdun in Francia, Redipuglia in Italia), ma in moltissimi centri, compresi i piccoli comuni, sorsero monumenti ai caduti che celebravano il sacrificio dei soldati originari del luogo, i cui nomi erano elencati nel monumento stesso o in apposite targhe. Ai monumenti si aggiunsero parchi e viali “della rimembranza” (questo il nome che assunsero in Italia), luoghi di raccoglimento che dovevano ricordare i caduti e al tempo stesso suggerire l’idea di una continuità della vita, simboleggiata dagli alberi piantati nell’occasione.

Corteo funebre per i caduti della prima guerra mondiale alla stazione centrale di Bari 1920

Una forma nuova di celebrazione collettiva, anch’essa commisurata alla vastità del lutto, fu quella del “milite ignoto”: la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di tutti i combattenti morti e in particolare dei tanti di cui non era stato possibile nemmeno il riconoscimento. In tutti i paesi che la adottarono (cominciarono la Francia e la Gran Bretagna nel 1920, seguite un anno dopo anche dall’Italia, che scelse per la sepoltura l’Altare della patria, sul grande monumento a Vittorio Emanuele II), la celebrazione del milite ignoto fu seguita con grande emozione e partecipazione popolare. Ma rappresentò anche il tentativo delle classi dirigenti di riunificare e pacificare una memoria che restava comunque divisa, di riavvicinare l’immagine ufficiale ed eroica del conflitto al METODO DI STUDIO sentimento diffuso in larghi strati della popolazione (anche dei paesi vincitori),  a   Sottolinea per ogni sottoparagrafo la frase che nella guerra vedevano soprattutto una spaventosa sciagura, o addirittura un che, a tuo avviso, ne spiega meglio il titolo. grande misfatto collettivo di cui i responsabili avrebbero prima o poi dovuto ri b   Rispondi per iscritto alle seguenti domande: spondere. La contrapposizione mai del tutto sanata fra le diverse memorie costia. Per quali motivi e in che modo la guerra venne idealizzata? b. In cosa consisteva la celebrazione tuì un fattore non secondario della radicalizzazione politica e sociale che avrebdel milite ignoto e che significato aveva? be segnato gli anni agitati del dopoguerra europeo. 174

Il milite ignoto

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

ARTE E TERRITORIO IL FUTURISMO IN GUERRA

N

el primo decennio del ’900, era nato in Italia un movimento artistico che sposava integralmente la causa della modernità: il futurismo. Fondato dall’intellettuale Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), questo gruppo di artisti e letterati fece dell’elogio della macchina industriale, dei suoi rumori e delle sue potenzialità la propria bandiera. La civiltà meccanica era descritta come un’onda in cui immergersi con entusiasmo per rinascere a nuova vita: non bastava descrivere i successi della tecnica, bisognava crederci così tanto da desiderare di spazzare via tutto il passato. Il futuro non sarebbe stato costruito sui traguardi raggiunti dalle civiltà precedenti, ma sulla velocità dei contemporanei, sulle loro macchine, sul progresso industriale e sul ribaltamento dei valori tradizionali della società contadina. Partendo da queste premesse, non dovrebbe stupire che gran parte degli artisti legati al futurismo aderì con entusiasmo allo sforzo bellico della Grande Guerra. Il conflitto, anzi, venne presentato come un’occasione unica per spazzare via tutte le incrostazioni del vecchio mondo. Il loro entusiasmo per la potenza delle macchine industriali resse alla prova delle devastazioni causate dalle nuove armi. Ne sono una dimostrazione soprattutto

le rappresentazioni che molti di loro diedero di cannoni e di mezzi corazzati impiegati nei campi di battaglia di mezza Europa. Il pittore Gino Severini (1883-1966), attivo sia in Francia sia in Italia, dipinse un treno blindato con dei colori piuttosto vivaci: un cannone sovrasta i soldati, che impugnano fucili e sembrano quasi fusi nella geometria dei suoi ingranaggi, mentre gli effetti degli spari vengono trasfigurati in esplosioni di colore. È una rappresentazione ben lontana dalla realtà desolante delle trincee e dei campi di battaglia martoriati dalle continue salve dei cannoni. I futuristi nutrivano per le nuove armi la stessa fascinazione che provavano per i motori a scoppio o altre meraviglie della società industriale. Non erano interessati a dare un racconto degli effetti di tali macchine sul paesaggio e sui corpi dei soldati. Nelle loro opere del periodo bellico, però, gli uomini non scomparivano del tutto. A volte, anzi, le loro azioni di guerra potevano essere prese ad esempio per celebrare la velocità, la virtù più importante che gli appartenenti a questa corrente riconoscevano alla modernità. «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità» – aveva scritto Marinetti già nel 1909. ◄  Gino

Severini, Treno blindato in azione 1915 [Museum of Modern Art, New York; © Gino Severini, by SIAE 2018]

▼  Umberto

Boccioni, Carica di lancieri 1915 [Galleria d’Arte Moderna, Collezione Riccardo Jucker, Milano]

Anche se la guerra di trincea prevedeva lunghe ed estenuanti attese, seguite da attacchi spesso tanto infruttuosi quanto mortali, il pittore Umberto Boccioni (1882-1916) trovò il modo per riconoscere anche ai soldati al fronte lo scatto che i futuristi riconoscevano all’uomo nuovo del ’900. Nella Carica di lancieri lo scontro tra i due eserciti viene colto proprio nell’attimo dell’impatto mortale tra le lame delle loro lance contrapposte. Non c’è alcuna pietà per la morte che seguirà di lì a poco, nessuna condanna dell’inutilità di quel gesto. Le linee delle lance e dei fucili servivano solo a dare un’immagine dell’incredibile velocità di movimento dei soldati. Le rappresentazioni entusiaste della guerra non bastarono però a salvare i futuristi dalla dura realtà del conflitto. Molti di loro, arruolatisi con entusiasmo già a partire dal 1915, morirono al fronte, alcuni falciati proprio dalle granate sparate da quei cannoni di cui avevano esaltato la potenza. PISTE DI LAVORO

a Redigi sul quaderno due piccoli profili biografici dei pittori Gino Severini e Umberto Boccioni. Vai su Google, digita i nomi degli artisti nella maschera di ricerca, leggi la biografia e redigi il testo, cercando di non superare le 50/60 parole. Ricordati di consultare un sito affidabile. b Quali motivazioni ideologiche ed estetiche spingono i futuristi ad aderire alla guerra? c In che modo i futuristi traducono in pittura la fascinazione per le nuove armi? Giustifica la tua risposta a partire dal dipinto Treno blindato in azione di Severini. d In che modo i futuristi traducono in pittura l’idea di velocità? Giustifica la tua risposta a partire dal dipinto Carica di lancieri di Boccioni.

175

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

SINTESI

4_1 VENTI DI GUERRA L’Europa del 1914 mostrava aspetti contraddittori: la supremazia politica, economica e culturale del continente, lo sviluppo tecnologico, il benessere relativamente diffuso e il consolidarsi delle istituzioni democratiche e rappresentative si affiancavano all’acutizzarsi dei conflitti sociali e delle tensioni tra le potenze. Settori non trascurabili delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali valutavano la guerra come un’opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, o come un dovere patriottico, o un evento liberatorio, o più concretamente come una opportunità di carriera, di successo e di guadagno. I più la immaginavano breve, sul modello dei conflitti ottocenteschi, e naturalmente vittoriosa per il proprio paese.

di tensioni preesistenti, ma anche dalle decisioni prese dai capi politici e militari dei paesi interessati. Le scelte dei governanti furono del resto appoggiate da una forte mobilitazione dell’opinione pubblica. Gli stessi partiti socialisti si schierarono, nella maggior parte dei casi, su posizioni patriottiche.

4_3 1914-15: DALLA GUERRA DI LOGORAMENTO ALLA GUERRA DI POSIZIONE Gli eserciti scesi in campo nell’estate del ’14 non avevano precedenti per dimensioni e per novità di armamenti. Ma le concezioni strategiche restavano legate alle esperienze ottocentesche. I tedeschi, in particolare, puntavano sull’ipotesi di una rapida guerra di movimento. Ma, dopo essere penetrati in territorio francese, furono bloccati sulla Marna. Il conflitto assunse presto i caratteri di guerra di posizione.

4_2 UNA REAZIONE A CATENA

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L’evento scatenante della prima guerra mondiale fu l’uccisione a Sarajevo, il 28 giugno 1914, dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono degli Asburgo. Un mese dopo l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, ritenuta corresponsabile dell’attentato. Il conflitto che ne scaturì vide contrapposti gli Imperi centrali (Germania e AustriaUngheria) alle potenze dell’Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna). Lo scoppio del conflitto e la sua successiva estensione su scala mondiale furono causati da una serie

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

che faceva capo a Giolitti, il mondo cattolico, i socialisti. Ciò che determinò l’entrata in guerra al fianco dell’Intesa (maggio 1915) fu la convergenza tra la pressione della piazza e la volontà del sovrano, del capo del governo Antonio Salandra e del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, che col patto di Londra avevano concordato importanti acquisizioni territoriali per l’Italia in caso di vittoria.

4_7 IL “FRONTE INTERNO” 4_5 I FRONTI DI GUERRA (1915-16) Nel 1915-16 la guerra sui fronti francese e italiano si risolse in una immane carneficina, senza che nessuno dei due schieramenti riuscisse a conseguire risultati significativi. In particolare le battaglie di Verdun e della Somme, due dei più spaventosi massacri della storia militare, provocarono oltre un milione e mezzo di perdite, fra morti, feriti e prigionieri, per entrambi gli schieramenti. Alterne furono le vicende sul fronte orientale, dove gli Imperi centrali ottennero alcuni importanti successi.

La guerra coinvolse direttamente anche i civili e trasformò profondamente la stessa vita delle popolazioni dei paesi in conflitto. In campo economico si dilatò enormemente l’intervento statale, teso a garantire le risorse necessarie allo sforzo bellico. Il potere dei governi fu largamente condizionato da quello dei militari e, in genere, tutta la società fu soggetta a un processo di “militarizzazione”.

4_8 1917: L’ANNO DELLA SVOLTA

4_4 1915: L’INTERVENTO DELL’ITALIA Allo scoppio del conflitto, l’Italia si dichiarò neutrale. Successivamente, però, le forze politiche e l’opinione pubblica si divisero sul problema dell’intervento in guerra contro gli Imperi centrali. Erano interventisti: i gruppi della sinistra democratica, i nazionalisti, alcuni ambienti liberal-conservatori. Erano neutralisti: la maggioranza dello schieramento liberale,

stato d’animo di rassegnazione e apatia che a volte sfociava in forme di insubordinazione. Il primo conflitto mondiale si caratterizzò anche per l’utilizzo di nuove armi: gas, aerei, carri armati, sottomarini. Alcune di esse – come gli aerei e i carri armati –, tuttavia, avrebbero trovato una applicazione sistematica e intensiva solo nel corso del secondo conflitto mondiale.

4_6 GUERRA DI TRINCEA E NUOVE TECNOLOGIE Sul piano tecnico la trincea fu la vera protagonista del conflitto: la vita monotona che vi si svolgeva era interrotta solo da grandi e sanguinose offensive, prive di risultati decisivi. Da ciò, soprattutto nei soldati semplici, scaturì uno

Nel 1917 si verificarono due avvenimenti di decisiva importanza. In Russia, dopo la caduta dello zar, in marzo, iniziò un processo di dissoluzione dell’esercito che avrebbe portato il paese al ritiro dal conflitto. In aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco dell’Intesa dando al loro intervento, per volontà del presidente Wilson, una nuova connotazione ideologica “democratica”. Il 1917 fu l’anno più difficile

della guerra, soprattutto per l’Intesa: molti furono i casi di manifestazioni popolari contro il conflitto e gli episodi di ribellione fra le stesse truppe. Questo clima di stanchezza – espresso anche dall’appello alla pace lanciato senza successo da papa Benedetto XV – si riscontrava anche in Italia: la demoralizzazione e la stanchezza delle truppe contribuirono, nell’ottobre ’17, alla disastrosa sconfitta italiana di Caporetto, causata però soprattutto dagli errori dei comandi.

della terra e il passaggio di tutti i poteri ai soviet. La mattina del 7 novembre (25 ottobre per il calendario russo) soldati rivoluzionari e guardie rosse circondarono il Palazzo d’Inverno, già residenza dello zar e ora sede del governo provvisorio, e se ne impadronirono la sera stessa.

4_11 1918: LA SCONFITTA DEGLI IMPERI CENTRALI 4_10 LA RIVOLUZIONE RUSSA: DITTATURA E GUERRA CIVILE

4_9 LA RIVOLUZIONE RUSSA: DA FEBBRAIO A OTTOBRE Nel marzo 1917 la rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado provocò la caduta dello zar e la formazione di un governo provvisorio di orientamento liberale. Entrarono successivamente a far parte di questo governo tutti i partiti, a eccezione dei bolscevichi. Frattanto, accanto al potere “legale” del governo, veniva crescendo il potere parallelo dei soviet, i consigli eletti direttamente dagli operai e dai soldati. Col ritorno di Lenin in Russia, i bolscevichi accentuarono la loro opposizione al governo provvisorio, chiedendo la pace immediata, la redistribuzione

regime comunista. Grazie alla riorganizzazione dell’esercito – l’Armata rossa –, il governo rivoluzionario riuscì a prevalere.

La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa la maggioranza delle forze politiche. Nelle elezioni per l’Assemblea costituente, che si tennero tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, il Partito socialista rivoluzionario, che raccoglieva consensi soprattutto fra i contadini, riportò un grande successo, mentre i bolscevichi ebbero un risultato deludente. L’Assemblea, però, fu subito sciolta dai bolscevichi, che in tal modo ruppero definitivamente con la tradizione democratica occidentale. L’uscita della Russia dalla guerra – trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918 – provocò l’intervento militare dell’Intesa in appoggio alle armate “bianche” costituite dalle forze ribelli al governo. La guerra civile che ne seguì spinse i bolscevichi ad accentuare i caratteri dittatoriali del

Anche grazie alla superiorità militare conseguita con l’intervento americano, nel novembre 1918 la guerra terminava con la vittoria dell’Intesa: un esito che fu accelerato dalla dissoluzione interna dell’Austria-Ungheria, causata dalle iniziative indipendentiste delle varie nazionalità, e dalla rivoluzione scoppiata in Germania, che portò alla caduta della monarchia e alla fuga dell’imperatore Guglielmo II.

4_12 VINCITORI E VINTI Alla conferenza di pace, che si tenne a Versailles, il compito dei vincitori si rivelò difficilissimo. Nelle dure condizioni imposte alla Germania risultò evidente il contrasto fra l’ideale di una pace democratica e

l’obiettivo francese di una pace punitiva. La carta dell’Europa fu profondamente mutata, soprattutto in conseguenza del crollo dell’Impero zarista e della dissoluzione dell’Impero asburgico, che permisero la nascita di nuovi Stati. Il progetto wilsoniano di un organismo internazionale che potesse evitare guerre future, però, non si realizzò compiutamente: la Società delle Nazioni nacque minata da profonde contraddizioni, prima fra tutte la mancata adesione degli Stati Uniti.

4_13 IL MITO E LA MEMORIA La prima guerra mondiale fu una grande produttrice di miti, sia per i combattenti al fronte – dove, in condizioni estreme di disagio e spaesamento, si svilupparono credenze irrazionali e leggende – sia negli anni successivi alla fine del conflitto, quando si sviluppò una visione idealizzata della guerra: ne nacque il culto dei caduti, privato e familiare, ma anche pubblico. Si diffusero in tutti i paesi i monumenti ai caduti per onorare il sacrificio dei soldati del luogo, e le celebrazioni del milite ignoto, la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo.

177

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa il seguente schema, relativo ai rapporti fra le potenze europee agli inizi del 1914, inserendo i nomi degli

Stati di seguito indicati. Gran Bretagna ● Francia ● Germania ● Russia ● Austria

Blocchi che definivano l’equilibrio continentale: ......................................... e ......................................... contro ........................................., ......................................... e ..................... ..................... Tensioni politiche internazionali tra le potenze europee: tra ......................................... e ......................................... per il controllo dei Balcani; tra ......................................... e ......................................... per le regioni di confine dell’Alsazia e della Lorena; tra ......................................... e ......................................... per la corsa agli armamenti navali. 2 Abbina i nomi degli Stati che parteciparono all’avvio della prima guerra mondiale alle relative azioni belliche.

a. Austria-Ungheria b. Russia c. Germania d. Gran Bretagna

1. Sostiene la Serbia in chiave antiaustriaca e mobilita le proprie forze armate. 2. Scende in campo dichiarando guerra alla Germania. 3. Invia un ultimatum alla Serbia e, successivamente, le dichiara guerra. 4. Dichiara guerra alla Russia, alla Francia e invade il Belgio, neutrale.

3 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate. Focalizzerai in questo modo la tua attenzione su alcuni aspetti

della prima guerra mondiale.

178

a. Al principio della guerra, la Russia offrì il proprio sostegno militare alla Serbia. ................................................................................................................................................................................. b. Le trincee si svilupparono su un fronte che andava dal Mare del Nord al confine svizzero. ................................................................................................................................................................................. c. Il Giappone entrò in guerra per impadronirsi dei possedimenti francesi nel Pacifico. ................................................................................................................................................................................. d. L’Italia entrò in guerra nel 1914 in nome della Triplice alleanza firmata nel 1882. ................................................................................................................................................................................. e. L’intervento dell’Italia risultò decisivo per le sorti della guerra. ................................................................................................................................................................................. f. La controffensiva inglese alla città di Verdun durò sei mesi e il numero delle perdite, fra morti, feriti gravi e prigionieri, sfiorò il milione. ................................................................................................................................................................................. g. Durante il 1917 ci furono diverse manifestazioni popolari contro il conflitto ed episodi di ribellione fra le stesse truppe. ................................................................................................................................................................................. h. In Russia, lo sciopero generale degli operai di Pietrogrado si trasformò in un’imponente manifestazione contro la guerra e il regime zarista e portò all’abdicazione dello zar. .................................................................................................................................................................................

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

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4 Inserisci nei due insiemi le seguenti espressioni distinguendo quelle che si riferiscono ai sostenitori della scelta

interventista e quelle che afferiscono ai sostenitori della linea neutralista in Italia. a. gran parte dei liberali fra cui Giovanni Giolitti; b. gruppi e partiti della sinistra democratica; c. nazionalisti; d. il Partito socialista; e. liberalconservatori come il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino; f. il direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini; g. gran parte del mondo cattolico e papa Benedetto XV; h. la Confederazione generale del lavoro (Cgl); i. frange estremiste del movimento operaio. INTERVENTISTI

NEUTRALISTI

5 Argomenta sul quaderno le relazioni esistenti fra i seguenti elementi e la prima guerra mondiale.

a. la trincea; b. l’autolesionismo; c. il sottomarino; d. gli armeni; e. la popolazione civile; f. le donne; g. lo Stato; h. la propaganda. 6 Completa il seguente testo inserendo le espressioni corrette presenti nell’elenco sottostante.

Stati Uniti ● 1919 ● paesi sconfitti ● 1918 ● Parigi ● Repubblica ● spinte indipendentiste ● pace democratica ● Versailles ● trentadue ● Italia ● Diktat ● rivoluzione ● pace punitiva ● Impero zarista ● Vittorio Veneto ● Impero asburgico All’inizio del ...................................... gli schieramenti risultavano in sostanziale equilibrio, ma le cose cambiarono in estate: per quel che riguarda la Germania, l’esercito tedesco, che era arrivato a ......................................, fu costretto ad arretrare e in novembre una ...................................... portò alla proclamazione della ...................................... e alla firma dell’armistizio. L’Impero austro-ungarico, invece, era attraversato da ............... ....................... e dopo la sconfitta nella battaglia di ...................................... firmò l’armistizio con l’Italia. Alla conferenza di pace, che si tenne a ...................................... nel ......................................, parteciparono i rappresentanti di .................... .................. paesi dei cinque continenti. I ...................................... furono chiamati solo a ratificare le decisioni prese essenzialmente dai capi di governo delle quattro grandi potenze vincitrici: gli ..........................., la Francia, la Gran Bretagna e l’......................................, spesso esclusa nei momenti decisivi. Alla Germania furono imposte, attraverso la firma del ......................................, dure condizioni, a riprova del contrasto fra l’ideale di una ...................................... e l’obiettivo francese di una ....................................... La carta dell’Europa cambiò radicalmente, soprattutto per la nascita di nuovi Stati causata dal crollo dell’...................................... e dalla dissoluzione e smembramento dell’.......................................

COMPETENZE IN AZIONE 7 Scrivi sul quaderno un articolo di giornale di massimo 15 righe sui momenti cruciali della rivoluzione russa utilizzando,

a corredo del testo, le immagini presenti nel capitolo e facendo esplicito riferimento al loro contenuto. Prima di iniziare, scegli il titolo da dare al tuo elaborato.

179

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

8 Completa la seguente carta geostorica collocando gli eventi principali della prima guerra mondiale in corrispondenza

dei luoghi. Quindi, realizza sul quaderno un testo a commento di massimo 15 righe in cui prenderai in esame quelli che a tuo avviso sono i più rilevanti fra gli eventi considerati.

Helsinki

SV

Cristiania

EZ

IA

NO RV

EG

IA

a. Assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando. b. Battaglia lungo un fiume in cui i francesi fermarono l’offensiva tedesca e partirono al contrattacco. c. Disfatta italiana ad opera di un’armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche. d. Vi si firmò un patto che impose all’Italia di entrare in guerra contro gli Imperi centrali. e. Cruente battaglie sul fronte francese che causarono circa un milione e cinquecentomila perdite. f. Importante battaglia navale fra tedeschi e britannici. g. Battaglia lungo un fiume in cui l’esercito italiano, dopo una disastrosa ritirata, riuscì a fermare l’avanzata austriaca. h. Luogo in cui la Russia firmò la pace separata con la Germania. i. Battaglia vittoriosa dell’Italia a seguito della quale Austria e Italia firmarono l’armistizio. l. Città in cui, dopo la fuga dell’imperatore Guglielmo II, venne proclamata la Repubblica. m. Vi si aprì la conferenza di pace.

MARE DEL NORD

P E R

Amburgo

Varsavia

S S

I

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Brest-Litovsk 3.3.1918

O

Berlino 9.11.1918 M LG arn IO A I a Parigi A N Praga RM 1914 Versailles GE 18.1.1919 Verdun Monaco Vienna Loira 1916

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4.1915

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OCEANO ATLANTICO

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BRETAGNA

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DANIMARCA Copenaghen 1916

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Londra

San Pietroburgo Stoccolma

Kiev

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Odessa SVIZZERA Piave A U S T R IA -U Budapest N G H E R IA 1918 Bordeaux Lione Caporetto Belgrado Milano Vittorio Veneto ROMANIA Bucarest 24.10.1918 Sarajevo Danubio 1914 ITALIA BULGARIA Barcellona MONTENEGRO Sofia Istanbul Roma

Madrid

RTO G PO

A

Tunisi

TU NI

180

5.1915

blocco degli Imperi centrali blocco dell’Intesa Stati neutrali data di adesione all’alleanza

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

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Atene

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ALBANIA

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FRANCIA

COMPITI DI REALTÀ 9 Realizzare un percorso turistico-didattico per un’agenzia viaggi online.

Tema storico da affrontare: I luoghi simbolo della prima guerra mondiale.

Contesto di lavoro

Lavori per un’agenzia viaggi online che ha al suo interno un settore per gli appassionati di storia. I tuoi superiori hanno ricevuto diverse richieste da molte scuole per un percorso relativo ai luoghi significativi della prima guerra mondiale e hanno deciso di proporre un nuovo itinerario su questo tema.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un percorso turistico che permetta agli studenti di visitare alcuni fra i luoghi significativi della prima guerra mondiale attraverso proposte didattiche mirate. Per realizzare questo compito dovete: ● scegliere la durata approssimativa del viaggio e tarare i contenuti proposti in base al numero di giorni scelti. ● individuare sul manuale (nel capitolo e nei Fare Storia) una prima rosa di temi che vorreste affrontare. ● selezionare i luoghi più adatti in relazione al tema affrontato; quindi cercate su Internet musei (multimediali o tradizionali) e percorsi didattici (es. sui fronti di guerra, con escursioni in montagna e sugli altipiani alla scoperta di forti, percorsi trincerati, ecc.) in grado di appassionare gli studenti e di trasmettere i contenuti o le emozioni legate ai temi che avete selezionato. ● individuare il mezzo di trasporto più idoneo per i vari spostamenti e verificare il tempo necessario per coprire le distanze fra i luoghi che avete scelto. ● realizzare per ogni luogo una scheda con le informazioni principali in grado di attrarre le scolaresche. La scheda (circa 5 righe) si aprirà con una finestra pop up e sarà dotata di almeno una immagine significativa con relativa didascalia. ● selezionare sul manuale una carta geostorica su cui poter indicare i luoghi che faranno parte del percorso. ● scrivere un breve testo storico (max 20 righe) che riassuma in modo accattivante il contesto storico, l’importanza dei luoghi che avete scelto e le vicende belliche a essi collegate. ● scrivere un testo introduttivo che descriva il pacchetto di viaggio rivolgendosi ai potenziali clienti e arricchirlo di immagini significative (possono essere immagini selezionate precedentemente) e di una carta geostorica che mostri l’itinerario. ● realizzare un banner pubblicitario con immagini e testo da inserire in siti di viaggi “amici”.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato ai responsabili del settore storico dell’agenzia viaggi e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più la descrizione del percorso attraverso slide.

Tempo a disposizione

1 ora per individuare sul manuale e su Internet i luoghi dell’itinerario; mezz’ora per cercare sul manuale e in Rete le immagini e le relative informazioni e verificare i risultati ottenuti; 1 ora per individuare i musei e i beni storici da poter visitare; 4 ore per la realizzazione del prodotto multimediale; 1 ora per impostare e provare la relazione. P.S. Il percorso potrà essere realizzato anche in una lingua straniera, coinvolgendo i docenti di lingue straniere.

181

C4 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

E

A

XTR

CAP5 L’EREDITÀ DELLA GRANDE GUERRA

5_1 LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA GUERRA

E

O

N LI N

Storia, società, cittadinanza Il mito della democrazia diretta Focus Il cinema espressionista tedesco • L’età del jazz Lezioni attive Lenin e Stalin, dalla rivoluzione al potere Test interattivi Audiosintesi

► Leggi anche: ► Parole della storia Inflazione, p. 184

Quella che usciva dalla traumatica esperienza della Grande Guerra era un’Europa sconvolta e trasformata nel profondo, e non solo per la tremenda distruzione di vite umane e per il drastico mutamento dei confini fra gli Stati. Macroscopiche, e per molti aspetti dirompenti, furono le conseguenze sul piano economico. Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono dalla prima guerra mondiale in condizioni di gravissimo dissesto [►FS, 46d]. La guerra aveva inghiottito una quantità incredibile di risorse: in Italia, in Francia e in Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale lordo dell’ultimo anno di pace, in Gran Bretagna addirittura al triplo. Per far fronte a queste

Le difficoltà finanziarie

182

Otto Dix, Invalidi di guerra 1920 [Galerie Nierendorf, Berlino; © Otto Dix, by SIAE 2018] Otto Dix (1891-1969), un artista tedesco che aveva combattuto durante la prima guerra mondiale e che era tornato sconvolto dalla traumatica esperienza, rappresenta con cruda violenza uno dei problemi sociali più drammatici, eredità del primo conflitto mondiale, quello dei mutilati e invalidi.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

enormi spese, i governi erano ricorsi dapprima all’aumento delle tasse. Quindi avevano fatto appello al patriottismo dei risparmiatori lanciando sottoscrizioni e prestiti nazionali e allargando a dismisura il debito pubblico. Infine avevano contratto massicci debiti con i paesi amici, in primo luogo con gli Stati Uniti.

debito pubblico È l’insieme dei debiti contratti dallo Stato nei confronti di privati o istituzioni per coprire il proprio fabbisogno finanziario. In cambio della somma data in prestito e vincolata per un certo periodo (qualche mese o anche anni), il prestatore riceve un documento cartaceo – detto “titolo di Stato” – attestante l’avvenuto versamento e l’impegno dello Stato a restituire la somma alla scadenza prevista, compresi gli interessi.

Né le tasse né i prestiti erano stati comunque sufficienti a coprire le spese di guerra. Così i governi avevano stampato carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un rapido processo inflazionistico. Fra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di tre volte e mezzo in Francia, di due volte e mezzo in Italia, di due volte in Gran Bretagna e in Germania. E nei primi due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata, determinando uno sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse gerarchie sociali: se la guerra aveva creato fortune improvvise soprattutto fra gli industriali e gli speculatori (i cosiddetti “pescecani” o profittatori di guerra), l’inflazione distruggeva posizioni economiche consolidate – ad esempio quelle dei proprietari di terre o di case, che riscuotevano affitti svalutati – ed erodeva i risparmi dei ceti medi, in particolare di coloro che avevano investito in titoli del debito pubblico [►  _3].

L’inflazione

Per non aggravare le tensioni, i governi dovettero mantenere per tempi più o meno lunghi il blocco sui prezzi dei generi di prima necessità e sui canoni d’affitto. D’altro canto il sostegno dei poteri pubblici era richiesto dagli industriali che dovevano affrontare la difficile riconversione alle attività di pace. Rimasero quindi in vita molti apparati burocratici (ministeri, sottosegretariati, commissariati) destinati ai compiti più diversi: dal controllo dei prezzi agli approvvigionamenti alimentari, dalle pensioni di guerra alla composizione delle vertenze di lavoro. Non si interruppe, anzi si rafforzò, la tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla libera iniziativa delle parti sociali. Grazie al sostegno dello Stato, accordato sotto forma di dazi protettivi, di facilitazioni creditizie, di nuove commesse per la ricostruzione civile e per

L’intervento statale

Costo della vita in Europa dal 1913 al 1938 3_COSTO DELLA VITA IN EUROPA DAL 1913 AL 1938 indice 1913=100 700 –

indice tendente all’infinito

FRANCIA

600 –

500 – ITALIA

La guerra portò a un aumento generale dei prezzi, e quindi del costo della vita, in tutti i paesi europei. L’inflazione crebbe ulteriormente nel 1919-20. In Germania, fra il 1919 e il 1923, il fenomeno ebbe dimensioni tali da rendere quasi impossibile confrontare graficamente la situazione tedesca con quella degli altri Stati europei, come mostra il grafico, nel quale alla Germania è attribuito un indice tendente all’infinito.

400 –

300 –

200 –

GRAN BRETAGNA GERMANIA

100 –

1937

1935

1933

1931

1929

1927

1925

1923

1921

1919

1917

1915

1913

0–

183

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

le forze armate, l’industria europea riuscì in un primo tempo a mantenere i livelli produttivi degli anni di guerra. Ma questa espansione artificiale, che si accompagnò a una stagione di intense lotte sociali, durò meno di due anni e fu seguita, nel 1920-21, da una fase depressiva. Una pronta ripresa delle economie europee era peraltro frenata dal calo degli scambi internazionali. Quattro anni di interruzione delle usuali correnti di traffico avevano inferto un colpo durissimo alla tradizionale supremazia commerciale dell’Europa. Gli Stati Uniti e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni, sostituendosi agli europei sui mercati dell’Asia e del Sud America. Altri paesi, come l’Argentina e il Brasile, il Canada, il Sudafrica e l’Australia, avevano sviluppato una propria produzione industriale allentando la dipendenza dall’Europa. Ancora più grave, nell’immediato, era per Gran Bretagna e Francia la perdita di molti partner commerciali europei, economicamente stremati come la Germania, isolati come METODO DI STUDIO la Russia, o smembrati, come l’Impero austro-ungarico, in tanti nuovi Stati, cia a   Sottolinea in ogni sottoparagrafo la frase scuno con la sua moneta, il suo sistema di comunicazioni, i suoi dazi doganali. che ne spiega meglio il titolo e argomenta oralmente la tua scelta. Invece della piena libertà degli scambi auspicata nel programma di Wilson  b   Spiega in che modo l’industria europea con► [ 4_11], si ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di tinuò a mantenere i livelli produttivi degli anni di protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviguerra. luppare una propria industria.

Il calo degli scambi

5_2 I MUTAMENTI SOCIALI



► Leggi anche:

I mutamenti economici del dopoguerra europeo si accompagnarono e si intrecciarono, com’era naturale, con un più ampio processo di trasformazione della società [►4_7]. L’espansione dell’industria bellica aveva spostato dalle campagne alle città nuovi strati di lavoratori non qualificati, per lo più donne e ragazzi non ancora in età di

L’evoluzione dei costumi

►   Focus L’età del jazz ► Laboratorio di cittadinanza Le donne e il diritto di voto, p. 25 ► Arte e territorio Otto Dix e le macerie umane della Grande Guerra, p. 202

Parole della storia

Inflazione

C

184

ol termine “inflazione” (dal latino inflatio, ossia “gonfiamento”) si intende la perdita di potere d’acquisto della moneta che si verifica quando la moneta stessa circola in quantità, e con velocità, superiore a quella richiesta dai bisogni del mercato. Il tasso di inflazione, per lo più calcolato su base annua, indica l’entità di questa perdita di valore: si parla dunque di inflazione al 5, al 10 o al 50 per cento se in un anno diminuisce di quella percentuale la quantità di beni che si possono acquistare con una determinata quantità di danaro. Mentre un’inflazione minima è considerata fisiologica, anzi segno di buona salute dell’economia, un’inflazione elevata produce danni economici e sociali rilevanti e mina la credibilità finanziaria del paese che la subisce. Il fenomeno dell’inflazione è antico quanto la moneta. Quest’ultima, infatti, è anch’essa

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

una merce e dunque è soggetta alla legge della domanda e dell’offerta: se ne circola troppa, il suo valore scende fino ad annullarsi. L’innesco di un processo inflazionistico è ovviamente diventato più facile da quando la moneta cartacea ha sostituito quella metallica (che ha comunque un suo valore intrinseco ed è più difficile da riprodurre). Le autorità statali, per soddisfare esigenze improvvise (è il caso delle guerre) o semplicemente per guadagnare consenso, possono infatti essere indotte a stampare banconote senza rispettare alcun limite, danneggiando tutti i cittadini che hanno prestato soldi allo Stato con l’acquisto di titoli del debito pubblico. Un’altra conseguenza dell’inflazione è la rapida, e spesso traumatica, redistribuzione di redditi e patrimoni fra diverse categorie di cittadini, che penalizza i creditori rispetto ai debitori, i percettori di redditi fissi – più lenti ad adeguarsi all’aumento del costo della vita che il processo inflattivo determina –

rispetto ai commercianti e ai possessori di beni reali. Anche per evitare le turbolenze sociali e politiche che in genere accompagnano questi processi, i governi dei paesi industrializzati, dopo le disastrose esperienze dei due conflitti mondiali, hanno cercato con alterna fortuna di controllare e limitare i processi inflazionistici, peraltro ancora diffusi nel mondo. Una ulteriore azione di vigilanza è quella esercitata dalle autorità sovranazionali; il controllo dell’inflazione può essere condizione per ottenere prestiti o sussidi o anche per far parte di una determinata comunità, come accaduto nel caso dell’area dell’euro all’interno dell’Unione europea: come condizione per l’adesione all’Unione monetaria (1999), si richiedeva ai paesi di rispettare una serie di parametri comuni (detti “criteri di convergenza”) che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità finanziaria dell’Unione, tra i quali appunto un basso tasso di inflazione.

leva. Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani e l’assenza prolungata dei capifamiglia chiamati al fronte avevano messo in crisi le strutture tradizionali della famiglia e provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini delle generazioni più giovani. C’era minor rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate. I giovani cercavano nuove occasioni di divertimento e le trovavano nel cinema o nella musica esportata in Europa dai soldati statunitensi. I lavoratori chiedevano maggior disponibilità di tempo libero. Tutti cercavano compensi per le sofferenze subìte o per gli anni perduti a causa della guerra. A risentire di questi mutamenti furono anche coloro che alla guerra non avevano direttamente partecipato: in primo luogo le donne [►FS, 33]. Le ripercussioni più evidenti si ebbero nel mondo del lavoro: nei campi, nelle fabbriche, negli uffici le donne presero spesso il posto degli uomini al fronte, assumendo responsabilità e compiti fino ad allora sostanzialmente preclusi. Divennero operaie nelle fabbriche di armi, guidatrici di tram, impiegate di banca. Anche tra le mura domestiche il loro ruolo cambiò radicalmente: da esecutrici delle mansioni domestiche a capifamiglia di fatto, in assenza del coniuge. La maggiore disponibilità economica e la crescente consapevolezza delle proprie capacità trasformarono l’immagine stessa della donna; le giovani, soprattutto, tendevano a passare più tempo fuori casa e ad assumere comportamenti più liberi, anche nella vita quotidiana e nell’abbigliamento: furono abbandonati corpetti e gonne lunghe fino ai piedi in favore di abiti più corti e leggeri. Il processo di emancipazione ebbe nel dopoguerra anche un parziale riconoscimento sul piano del diritto di voto alle donne: dopo la Gran Bretagna, che lo riconobbe nel 1918, furono la Germania (1919) e gli Stati Uniti (1920) i principali paesi occidentali a codificarlo nel primo dopoguerra.

Le donne

◄  Operaia

in un manifesto russo per il prestito di guerra 1916 ▼  Donne al lavoro nel reparto saldature elettriche dei cantieri navali di Hog Island (Usa) 1918 [foto di Paul Thompson; National Archives and Records Administration, College Park, Washington] Già durante la Grande Guerra iniziarono a essere comuni immagini di operaie impiegate nell’industria in mansioni prima considerate di esclusiva pertinenza maschile: molte donne lavorarono infatti nelle fabbriche di armi e munizioni, sostituendo gli uomini inviati al fronte e raggiungendo alti livelli di produttività. Dopo il conflitto, il numero di donne impiegate anche in altri settori dell’industria prima considerati troppo difficili per loro andò progressivamente aumentando. Le donne nella foto sono fra le primissime lavoratrici impiegate attivamente nel reparto costruzioni delle navi nei cantieri americani di Hog Island (New York). Se per molte il lavoro nell’industria pesante si risolse in una breve parentesi, per altre significò l’inizio di una nuova esperienza che offrì loro la possibilità di conseguire un’autonomia economica e di uscire dal chiuso delle pareti domestiche.

185

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

La trasformazione del ruolo della donna suscitò però anche forti resistenze in ampi settori dell’opinione pubblica. A manifestare preoccupazione furono soprattutto i reduci di guerra, che temevano di veder occupati quei posti di lavoro cui credevano di aver diritto. Il problema del trattamento degli ex combattenti e del loro reinserimento nel mondo del lavoro fu tra i più urgenti per le classi dirigenti di tutti i paesi [►FS, 48]. Chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. Quelli che al fronte avevano avuto ruoli di comando mal si rassegnavano al ritorno a un lavoro subordinato. Sorsero dappertutto associazioni di ex combattenti che si mobilitavano in difesa dei propri valori e dei propri interessi. Nei confronti dei reduci i governanti di tutti i paesi furono larghi di promesse; ma in realtà, a causa dei gravissimi problemi finanziari che assillavano gli Stati europei, le provvidenze in favore dei combattenti – polizze di assicurazione, premi di smobilitazione, pensioni per gli invalidi, gli orfani e le vedove – furono limitate, suscitando un diffuso senso di risentimento.

Gli ex combattenti

Le inquietudini dei reduci erano però solo un segno di un più vasto fenomeno di mobilitazione sociale. La guerra aveva dimostrato l’importanza del principio di organizzazione applicato alle masse. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi. Risultò così accentuata la tendenza, già comizio in atto, alla “massificazione”: partiti e sindacati videro aumentare ovunque il Nell’antica Roma il comizio – dal latino cum ire, “andare numero dei loro iscritti, i loro apparati organizzativi divennero più complessi e insieme” – era il luogo in cui si svolgevano le pubbliche centralizzati. Persero importanza le forme tradizionali dell’attività politica nei assemblee dei cittadini. Oggi per comizio si intende una manifestazione pubblica per lo più all’aperto, in cui uno regimi liberali: quelle che si svolgevano nei circoli ristretti dei notabili e che culo più oratori espongono il loro punto di vista. Prima dello minavano nell’azione parlamentare. Acquistavano invece maggior peso e magsviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, il comizio giore frequenza le manifestazioni pubbliche – comizi, dimostrazioni, adunate, era il principale strumento usato da partiti e sindacati per far conoscere le loro idee e i loro programmi. cortei – basate sulla partecipazione diretta dei cittadini.

La “massificazione” della politica

LE CONSEGUENZE ECONOMICHE E SOCIALI DELLA GUERRA

PRIMA GUERRA MONDIALE CONSEGUENZE ECONOMICHE

Aumento del debito pubblico

Calo degli scambi

Rivendicazioni degli ex combattenti

Crisi dei valori tradizionali della famiglia

I governi stampano più carta moneta

Protezionismo e nazionalismo economico

Lotta per un “nuovo ordine”

Emancipazione della donna

Crescono partiti e sindacati

Diritto di voto

Inflazione

Ridistribuzione della ricchezza

186

CONSEGUENZE SOCIALI

Intervento dello Stato per contenere i prezzi e favorire la riconversione

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Massificazione della politica

La consapevolezza del sacrificio subìto dai popoli giustificava di per sé l’attesa di soluzioni nuove. Del resto era stata la stessa propaganda ufficiale a incoraggiare le aspettative di una società più giusta e di un ordine politico e sociale METODO DI STUDIO diverso da quello che aveva portato l’Europa alla guerra. Per un buon numero di lavo a   Indica a quali soggetti sociali fanno riferiratori e di intellettuali l’“ordine nuovo” era quello che si stava cominciando ad attuare mento le seguenti espressioni nel contesto storico in Russia dopo la rivoluzione d’ottobre [►4_9 e 5_7]. Ma questa prospettiva radicale del primo dopoguerra e argomenta la tua scelta per iscritto: a. emancipazione; b. ricerca di tempo era fatta propria solo da minoranze, per quanto consistenti e attive. Più numerosi eraper divertirsi; c. risentimento e timore per i cambiano coloro che cercavano di inserire le loro richieste concrete – salari più alti, case a menti sociali; d. manifestazioni pubbliche; e. “ordine buon mercato, terre da coltivare – nel quadro ideale di una società più equa e più nuovo”.  b   Spiega in che modo la Grande Guerra modifidemocratica, in cui le rivendicazioni patriottiche si conciliassero col progetto di un cò le strutture sociali tradizionali. nuovo ordine internazionale fondato sui pacifici rapporti fra le nazioni.

La ricerca di un “ordine nuovo”



5_3 STATI NAZIONALI E MINORANZE

La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significarono per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per l’indipendenza e parvero dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati dai protagonisti delle rivoluzioni ottocentesche e rilanciati, nell’ultima fase della guerra, dai “14 punti” di Wilson. Come abbiamo visto, però, già nel corso della conferenza di pace l’applicazione dei princìpi wilsoniani si rivelò a dir poco problematica [►4_12]. Una difficoltà che, se in parte poteva essere ricondotta ai calcoli e agli egoismi delle potenze vincitrici, in realtà nasceva soprattutto dall’oggettiva impossibilità di tradurre in atto l’utopia di una pacifica convivenza fra i diversi popoli, ciascuno sovrano nel suo proprio territorio.

I nuovi Stati indipendenti

Questa utopia si basava infatti sul presupposto di una coincidenza pressoché perfetta fra poche nazioni etnicamente omogenee e i territori da esse occupati. Una condizione che poteva realizzarsi, con larga approssimazione, nei principali Stati dell’Europa occidentale (Francia, Spagna, la stessa Italia), ma era molto lontana dalla realtà etnico-linguistica della parte orientale del continente, dove popoli diversi erano abituati a convivere sullo stesso territorio e dove l’appartenenza a un gruppo nazionale non costituiva l’unico né sempre il principale riferimento politico. Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso con i confini di classe più che con quelli geografici: in ampie zone della Polonia, ad esempio, i signori erano per lo più polacchi o tedeschi, i contadini erano ucraini e polacchi, mentre gli ebrei, concentrati in insediamenti separati (shtetl), si dedicavano prevalentemente al commercio o alle professioni. Nell’Impero ottomano situazioni del genere erano la regola più che l’eccezione e i diversi gruppi etnico-religiosi potevano essere sottoposti a giurisdizioni diverse pur vivendo sulla stessa terra.

Etnie e territori

Uno shtetl in Polonia durante l’occupazione tedesca 1915-16 Nell’Europa orientale, sotto il dominio dei grandi Imperi centrali (austro-ungarico e russo), le diverse comunità ebraiche si raccoglievano in gran parte negli shtetl (poveri villaggi rurali), dove forti erano il senso della comunità e l’identità culturale. Il rispetto delle norme della Torah (il Pentateuco dell’Antico Testamento) faceva da guida nella vita quotidiana, lo yiddish (un misto di antico ebraico, tedesco e lingue slave) era la lingua franca adoperata da tutti, di generazione in generazione si tramandavano i principali usi e costumi (dall’abbigliamento ai festeggiamenti dei matrimoni, dalla musica ai tipici mercati). Con lo sterminio nazista si ebbe la completa cancellazione di questo mondo.

187

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

Date queste premesse, l’applicazione del principio di nazionalità non poteva che risultare imperfetta, oltre che difficile: si è calcolato che le decisioni di Versailles diedero una patria indipendente a circa sessanta milioni di persone, ma ne trasformarono altri venticinque milioni in minoranze. Una volta elevato il principio nazionale a base di legittimazione degli Stati, quella che era una condizione generalmente accettata nei contesti multietnici (dove pure non mancavano i conflitti e le sopraffazioni), divenne un problema da risolvere, se non addirittura un’anomalia da estirpare [►FS, 47]. La presenza di gruppi che parlavano lingue diverse, seguivano proprie tradizioni o professavano altre religioni rispetto alla maggioranza fu sentita come una minaccia dai membri di comunità nazionali che si volevano omogenee e coese. Paradossalmente, la liberazione dei popoli dalle dominazioni straniere poteva così dar luogo a nuove oppressioni o persecuzioni e scatenare nuovi conflitti a sfondo nazionale.

Il problema delle minoranze

Già durante la conferenza di Versailles e poi nella neonata Società delle Nazioni, gli statisti europei si sforzarono di trovare soluzioni pacifiche a un problema che tutti avevano sottovalutato. In alcuni casi controversi (come quello dell’Alta Slesia, contesa fra Germania e Polonia), furono indetti plebisciti per decidere l’assegnazione di un territorio. Più spesso si cercò di vincolare gli Stati al rispetto dei diritti delle minoranze, primo fra tutti quello di studiare e di comunicare nella propria lingua. Ma queste norme furono per lo più ignorate, anche per l’incapacità della Società delle Nazioni di imporre sanzioni efficaci. Si aprì dunque la strada alle soluzioni più drastiche. In alcuni casi – come quelli di alcuni territori contesi fra Germania e Polonia – si organizzarono scambi di popolazioni. Altre volte questi scambi si verificarono in forma cruenta come risultato di un conflitto: per esempio, la METODO DI STUDIO  a   Spiega per iscritto cosa è “il principio di naguerra fra Grecia e Turchia del 1922-23 portò al trasferimento forzato, in direziozionalità”, in quale contesto storico-politico si era ni opposte, di circa due milioni di persone in base all’appartenenza etnica e reliaffermato e perché risultò difficilmente applicabile giosa. Procedendo su questa strada, si sarebbe giunti a quelle che oggi chiamianell’Europa del dopoguerra.  b   Evidenzia nel testo i motivi per cui molti mo “pulizie etniche”, ovvero alle espulsioni in massa non mitigate da alcun gruppi etnici divennero delle minoranze. accordo fra le parti, e infine al caso estremo, già annunciato dal massacro degli  c   Sottolinea il destino riservato alle minoranze armeni durante la Grande Guerra [►4_7], dello sterminio pianificato di un intero presenti nei nuovi Stati europei. popolo.

Contese e scontri etnici



5_4 IL “BIENNIO ROSSO”: RIVOLUZIONE

E CONTRORIVOLUZIONE IN EUROPA

Tra la fine del 1918 e l’estate del 1920 (il cosiddetto “biennio rosso”) il movimento operaio europeo fu protagonista di un’impetuosa avanzata politica che assunse in alcuni casi connotati rivoluzionari. I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita a un’ondata di agitazioni che consentì agli operai dell’industria di difendere o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l’altro la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un obiettivo che da trent’anni figurava al primo posto nei programmi del movimento socialista e che fu raggiunto quasi simultaneamente, subito dopo la fine della guerra, in tutti i principali Stati europei. L’ondata di lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali. Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull’esempio dei soviet russi, si proponevano come organi di governo della futura società socialista.

Le lotte operaie

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Il fallimento dei tentativi rivoluzionari

L’ondata rossa del ’19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità diverse. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu il caso dell’Italia: ►6_1-3), conservatori e moderati mantennero il controllo dei rispettivi Parlamenti e la pressione del movimento operaio fu contenuta

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

senza eccessive difficoltà. Germania, Austria e Ungheria, dove le tensioni sociali si sommavano ai traumi della sconfitta e del cambiamento di regime, furono invece teatro di tentativi rivoluzionari, che furono però rapidamente stroncati. Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque possibile negli altri paesi europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati ma piuttosto trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una ormai lunga esperienza di azione pacifica all’interno delle istituzioni. La rivoluzione d’ottobre aveva accentuato, all’interno del movimento operaio, la frattura, già manifestatasi durante la guerra, fra le avanguardie rivoluzionarie e il resto del movimento legato ai partiti socialdemocratici e alle grandi centrali sindacali. Già nel 1918, i bolscevichi avevano abbandonato l’antica denominazione di Partito socialdemocratico, a lungo contesa con i menscevichi, per quella di Partito comunista (bolscevico) di Russia. La scissione fu sancita ufficialmente, nel marzo 1919, con la costituzione a Mosca di una Internazionale comunista (Comintern, con dizione abbreviata), o Terza Internazionale.

La divisione del movimento operaio

La struttura e i compiti del Comintern furono fissati nel II congresso, che si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920. Fu lo stesso Lenin a fissare in un documento in 21 punti le condizioni da rispettare per poter essere ammessi al nuovo organismo [►FS, 44d]: i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti. Condizioni così pesanti e ultimative suscitarono in seno al movimento operaio europeo accesi dibattiti e gravi lacerazioni con conseguenti scissioni. Fra la fine del ’20 e l’inizio del ’21 fu comunque raggiunto l’obiettivo di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del partito-guida. Nessuna di queste formazioni riuscì però a conquistare il consenso maggioritario delle classi lavoratrici dei paesi più sviluppati. La scissione del movimento operaio, preparata e consumata nella prospettiva di un’imminente rivoluzione europea, avrebbe invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice.

I partiti comunisti

Prima di essere sancita dalle scissioni, la rottura fra socialdemocrazia e comunismo era stata segnata dalle vicende drammatiche che in Germania avevano seguito la proclamazione della Repubblica [►4_11]. Già al momento della firma dell’armistizio lo Stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria. Il governo legale, presieduto da Friedrich Ebert e con sede a Berlino, era formato da esponenti socialdemocratici, compresi gli “indipendenti” dell’Uspd, la frazione di sinistra staccatasi dalla Spd nel ’17. Ma in molte città i padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei soldati. La situazione poteva sembrare simile a quella della Russia del ’17. Ma le differenze erano notevoli. I socialdemocratici

Rivoluzione in Germania

IL “BIENNIO ROSSO” IN EUROPA

“BIENNIO ROSSO”

Lotte operaie

Nascita del Comintern

Tentativi rivoluzionari

Aumenti salariali e giornata di 8 ore

Si forma una rete di partiti sul modello bolscevico

Repressione da parte delle forze moderate

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C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

tedeschi, l’unica grande forza organizzata presente in quel momento nel paese, erano decisamente contrari a una rivoluzione di tipo sovietico e favorevoli a una democratizzazione del sistema politico entro il quadro delle istituzioni parlamentari. Non intendevano quindi smantellare le strutture militari e civili del vecchio Stato fino alla convocazione di un’Assemblea costituente. Si creò così un’obiettiva convergenza fra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia classe dirigente, che vedevano nella forza della socialdemocrazia e nel suo ascendente sulle masse l’unico argine efficace contro la rivoluzione. I capi dell’esercito, in particolare, stabilirono con i leader socialdemocratici una specie di patto non scritto, impegnandosi a servire lealmente le istituzioni repubblicane in cambio di garanzie circa la tutela dell’ordine pubblico e il mantenimento della tradizionale struttura gerarchica delle forze armate. La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio, soprattutto con i rivoluzionari della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito comunista tedesco), che si opponevano alla convocazione della Costituente e puntavano tutto sui consigli, visti come cellule costitutive di una nuova “democrazia socialista”. Il 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia della capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni leader dell’Uspd decisero allora di approfittare di questa mobilitazione di massa e diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. Ma la risposta del proletariato berlinese fu inferiore alle aspettative. Durissima fu invece la reazione delle autorità che, non potendo contare su un esercito efficiente, si servirono per la repressione di squadre volontarie – i cosiddetti Freikorps, ossia “corpi franchi” – formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista e conservatore [►FS, 50d]. Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue l’insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi.

L’insurrezione spartachista

Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente. La convergenza fra socialisti, cattolici e democratici (gli spartachisti, per protesta, avevano boicottato le elezioni) rese possibile la formazione di un governo di coalizione a guida socialdemocratica e, soprattutto, l’approvazione, nell’agosto 1919, di un nuovo testo costituzionale. La Costituzione di Weimar – chiamata così dal nome della città in cui si svolsero i lavori dell’Assemblea – aveva un’ispirazione fortemente democratica: prevedeva larghe autonomie regionali, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo.

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La Costituzione di Weimar

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▲  Manifesto

del movimento spartachista 1919 Sotto la scritta «Was will Spartakus?» («Cosa vuole Spartakus?»), un uomo armato di spada fronteggia da solo il mostro con numerose teste, che rappresentano (dall’alto verso il basso): il nuovo militarismo, il capitalismo, il ceto dei proprietari terrieri (gli Junker), la borghesia, l’Impero e la Chiesa. Il programma del movimento è infatti quello di attuare, sull’esempio di quella russa, una rivoluzione socialista in Germania.

▼  Heinrich

Ehmsen, Fucilazione di rivoluzionari spartachisti per le strade di Berlino 1919 [Halle, Lipsia]

Né la convocazione della Costituente né il varo della Costituzione valsero però a riportare la tranquillità nel paese. In aprile l’epicentro del moto rivoluzionario si era spostato in Baviera, dove era stata proclamata una Repubblica dei consigli, stroncata dall’intervento dell’esercito e dei corpi franchi. Non meno grave era la minaccia che veniva da destra: dai corpi franchi e dagli stessi capi dell’esercito, questi ultimi pronti a dimenticare, man mano che si allontanava il pericolo rivoluzionario, i loro impegni di lealtà alle istituzioni repubblicane [►FS, 50d]. Furono proprio quei generali che portavano la maggiore responsabilità politica della sconfitta, e che avevano sollecitato, nell’autunno del ’18, una rapida conclusione dell’armistizio, a diffondere la leggenda della “pugnalata alla schiena”, secondo cui l’esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese. Una leggenda priva di fondamento, utile però a gettare discredito sulla Repubblica e sulla classe dirigente che si era assunta l’ingrato compito di firmare la pace.

Un inizio difficile

Anche nella nuova Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare il paese nella difficile fase del trapasso di regime, mentre i comunisti tentarono ripetutamente, senza fortuna, la carta dell’insurrezione. Nel 1920, però, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore. Breve e drammatica fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria, dove i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare, nel marzo del 1919, una Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti della borghesia e METODO DI STUDIO dell’aristocrazia agraria. L’esperimento durò pochi mesi. Ai  a   Evidenzia le risposte alle seguenti domande: a. Quali furono le conseguenprimi di agosto, il regime guidato dal comunista Béla Kun ze delle lotte operaie portate avanti fra il 1918 e il 1920? b. Come e quando nacque il Partito comunista (bolscevico) di Russia? c. Cosa era e che scopo aveva cadde sotto l’urto convergente delle forze conservatrici guiil Comintern? date dall’ammiraglio Miklós Horthy e delle truppe rumene,  b   Sottolinea, con colori diversi, le informazioni relative ai seguenti aspetti che avevano invaso il paese con l’appoggio di Gran Bretagna che riguardano la rivoluzione in Germania: a. gli autori e il loro rapporto con i socialdemocratici tedeschi; b. gli eventi rivoluzionari; c. le conseguenze della rie Francia. Horthy si insediò al potere scatenando un’ondata voluzione. di “terrore bianco”. L’Ungheria cadeva così sotto un regi c   Individua le tappe che contraddistinsero il periodo postbellico in Germania me autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietae scegli per ognuna di esse da tre a cinque parole chiave che ne definiscano le caratteristiche salienti. Quindi argomenta la tua scelta per iscritto. ri terrieri: prima applicazione di un modello destinato a in d   Cerchia i nomi degli Stati dell’ultimo sottoparagrafo e sottolinea la frase contrare notevole fortuna nei paesi dell’Europa orientale che meglio definisce l’esito degli eventi postbellici per ognuno di essi. negli anni fra le due guerre mondiali.

Rivoluzione e reazione in Austria e in Ungheria



5_5 LA GERMANIA DI WEIMAR

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Nonostante i travagliati esordi, la Repubblica nata dalla Costituente di Weimar La sfiducia rappresentò nell’Europa degli anni ’20 un modello di democrazia parlamentare nella democrazia aperta e avanzata. Lo stesso rigoglio di attività intellettuali, che fece della Germania weimariana il centro più vivace della cultura europea del tempo, era strettamente collegato al clima di grande libertà che allora si respirava. Molti erano tuttavia i fattori che contribuivano a indebolire il sistema repubblicano [►FS, 49]. Un evidente motivo di debolezza stava nella accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi. Per un decennio la Spd rimase il partito più forte, ma dovette misurarsi con le formazioni del centro (cattolici e liberali) e della destra conservatrice. Queste ultime non nascondevano la loro diffidenza nei confronti delle istituzioni repubblicane, indissolubilmente associate alla sconfitta, all’umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia nazionale che fu costituita dal problema delle “riparazioni”, i risarcimenti che il paese sconfitto era tenuto a pagare ai vincitori [►4_12].

► Parole della storia Inflazione, p. 184

Nella primavera del 1921 le potenze alleate stabilirono l’ammontare dei risarcimenti dovuti dalla Germania nella cifra, spaventosa per quei tempi, di 132 miliardi di marchi, ancorata al valore dell’oro, da pagare in 42 rate annuali. L’annuncio dell’entità delle riparazioni suscitò in tutto il paese un’ondata di proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalista

Le riparazioni

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C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

– fra i quali si stava mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler – scatenarono un’offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori. Fra il ’21 e il ’22 caddero vittime di attentati il ministro delle Finanze Matthias Erzberger, leader del Centro cattolico, colpevole di aver firmato nel novembre ’18 l’armistizio in rappresentanza del governo provvisorio, e il ministro degli Esteri, il democratico Walther Rathenau, ebreo, grande imprenditore, già alla guida della mobilitazione industriale durante la guerra, che si stava adoperando per raggiungere un accordo con le potenze vincitrici. I governi di coalizione che si succedettero fra il ’21 e il ’23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni ma, per non rendersi ulteriormente impopolari, evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: furono quindi costretti ad aumentare la stampa di carta moneta. Il risultato fu che il valore del marco precipitò, accelerando il processo inflazionistico già in atto. Nel gennaio 1923 la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata consegna di alcuni materiali da parte del governo di Berlino, inviarono truppe nel bacino della Ruhr, centro della produzione carbonifera e dell’industria siderurgica tedesca. Impossibilitato a reagire militarmente, il governo incoraggiò la resistenza passiva della popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le fabbriche, rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. Per le già dissestate finanze tedesche l’occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo, poiché privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e costringeva il governo a ingenti spese per finanziare la resistenza passiva. Il marco, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli

La crisi della Ruhr e la grande inflazione

◄  George

Grosz, Le colonne della società 1926 [Nationalgalerie, Berlino; © George Grosz, by SIAE 2018] Durante la Repubblica di Weimar, a dispetto delle difficoltà politiche ed economiche, la vita artistica e culturale tedesca fu particolarmente ricca e vivace. Per molti intellettuali l’attività artistica e letteraria si affiancava all’impegno politico e sociale. Pittori come Otto Dix e George Grosz denunciarono la disastrosa eredità economica e sociale lasciata dalla guerra, ritraendo con incisività i vizi delle classi dominanti. Un’iniziativa importante nella Germania di quegli anni fu quella dell’architetto Walter Gropius che fondò, nel 1919, la Staatliches Bauhaus, una scuola di arte e architettura il cui scopo primario era quello di superare il distacco tra arte e artigianato mirando alla fusione delle intuizioni creative dell’artista con le esigenze della produzione industriale e con quelle pratiche ed estetiche dell’uomo comune. Interessandosi di tutti i campi artistici, dall’architettura al design, dal cinema al teatro, gli insegnamenti del Bauhaus hanno lasciato un segno profondo che perdura nella cultura e nel gusto contemporanei.

Schlemmer, Costumi per il Balletto triadico

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▲  Oskar

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►  Karl

J. Jucker e Wilhelm Wagenfeld, Lampada da tavolo 1923-24 [Bauhaus Archiv, Berlino]

impensabili e il suo potere d’acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000. Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto: un milione, un miliardo, cento miliardi e così via. Ma chi riceveva in pagamento denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio di qualsiasi cosa, aumentando così la velocità di circolazione della moneta e alimentando ulteriormente l’inflazione [►5_1]. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di Stato perse tutto. Chi viveva del proprio stipendio dovette affrontare grossi sacrifici: le retribuzioni venivano infatti continuamente adeguate – si giunse a pagarle giornalmente – ma mai abbastanza da poter tener dietro al ritmo dell’inflazione. Furono invece avvantaggiati i possessori di beni reali (agricoltori, industriali, commercianti) e tutti coloro che avevano contratto debiti. Nel momento più drammatico della crisi la classe dirigente trovò però la forza di reagire. Nell’agosto 1923 si formò un governo di “grande coalizione” presieduto da Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare (considerato il portavoce della grande industria). In settembre, fra le proteste dell’estrema destra, il governo ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Subito dopo decretò lo stato di emergenza e se ne servì per reprimere i focolai insurrezionali diffusi nel paese e per fronteggiare la ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in Baviera. A Monaco, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti al Partito nazionalsocialista guidati da Adolf Hitler cercarono di organizzare un’insurrezione contro il governo centrale. Ma il complotto fallì e fu rapidamente represso. Hitler fu condannato a cinque anni di carcere (poi in buona parte condonati) e la sua carriera politica parve precocemente conclusa.

La “grande coalizione” e il complotto di Monaco

Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico. Nell’ottobre ’23 era stata emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark (“marco di rendita”), il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania: lo Stato tedesco si comportava cioè come un privato che impegni tutti i suoi averi per garantirsi un credito. Nel contempo veniva avviata una politica rigorosamente deflazionistica (basata cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull’aumento delle imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graduale ritorno alla normalità monetaria.

Il ritorno alla normalità

Una vera stabilizzazione sarebbe stata tuttavia impossibile senza un accordo con i vincitori sulle riparazioni. L’accordo fu trovato, all’inizio del 1924, sulla base di un piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G. Dawes. Il piano Dawes si basava sull’idea che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di rilanciare la sua economia: prevedeva quindi che l’entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza. La Germania rientrava così in possesso della Ruhr, vedeva temporaneamente alleviato l’onere dei suoi debiti e soprattutto otteneva un massiccio aiuto per la sua ripresa economica, che fu in effetti pronta e consistente: in poco tempo l’industria tedesca tornò ai primi posti nel mondo per volume di produzione.

Il piano Dawes

Più lenta e difficile fu la stabilizzazione politica. La grande coalizione guidata da Stresemann si ruppe già alla fine del ’23. Nelle elezioni preMETODO DI STUDIO sidenziali del marzo 1925, il cattolico Wilhelm Marx, soste a   Cerchia e poi trascrivi sul quaderno i fattori nuto da tutti i partiti democratici ma non dai comunisti, fu battuto di stretta miche indebolivano il sistema della Repubblica di Weimar. Quindi, indica da due a cinque parole chiave sura dal vecchio maresciallo Hindenburg, già capo dell’esercito e simbolo che ne descrivano le caratteristiche principali e arvivente del passato imperiale. Negli anni successivi, tuttavia, grazie anche alla gomenta oralmente la tua scelta. ripresa produttiva, la situazione politica si andò normalizzando. I partiti di cen b   Sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze della forte inflazione del 1923. tro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928, quando i socialdemocra c   Rispondi sinteticamente alle seguenti dotici riassunsero la guida del governo. Stresemann conservò ininterrottamente mande: a. In cosa consiste il complotto di Monaco e fino alla sua morte, nel 1929, la carica di ministro degli Esteri, assicurando così la chi ne furono gli artefici? b. Quali furono le cause e quali le conseguenze? c. Quali effetti ebbe il piano continuità di quella linea di collaborazione con le potenze vincitrici che costituì Dawes sulla politica tedesca? il cardine principale dell’equilibrio europeo nella seconda metà degli anni ’20.

La stabilizzazione politica

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C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA



5_6 IL DOPOGUERRA DEI VINCITORI

La fine del “biennio rosso” e la recessione economica seguita alla fase espansiva dell’immediato dopoguerra segnarono in tutta Europa un brusco riflusso delle agitazioni operaie, una riscossa delle forze moderate e un ritorno alle soluzioni conservatrici in campo politico ed economico. Allontanatosi il pericolo rivoluzionario, le classi dirigenti si preoccuparono soprattutto di ricostruire, nei limiti del possibile, i tradizionali equilibri politici e sociali, di frenare i fenomeni inflazionistici (mediante restrizioni del credito e tagli nella spesa pubblica), di assicurare stabilità all’assetto internazionale uscito dalla conferenza di pace. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, l’obiettivo della stabilizzazione fu sostanzialmente raggiunto, almeno sul piano della politica interna. Ma non mancarono i conflitti e le tensioni sociali. La ripresa economica fu lenta; e problematico si rivelò il recupero di quel ruolo egemonico su cui, in teoria, si sarebbero dovuti fondare gli equilibri internazionali del dopo-Versailles.

La prevalenza dei moderati

In Francia la maggioranza di centro-destra che controllò il governo dal ’19 in poi attuò una politica fortemente conservatrice, che faceva ricadere sulle classi popolari il peso di una difficile ricostruzione. Solo nella primavera del ’24 i radicali di sinistra e i socialisti, uniti in una coalizione elettorale detta il cartello delle sinistre, riuscirono a strappare la maggioranza ai moderati. Ma l’esperimento ebbe breve durata, anche perché il governo non seppe affrontare una gravissima crisi finanziaria, accentuata dalla fuga di capitali verso l’estero. Nel luglio del ’26 la guida del governo fu assunta dal leader storico dei moderati, l’ex presidente della Repubblica Raymond Poincaré. Rimasto in carica per tre anni, Poincaré riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale aumentando ulteriormente la pressione fiscale.

Moderati e radicali in Francia

Le difficoltà della Gran Bretagna

Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese negli anni critici del dopoguerra. Fra il 1918 e il 1929 i conservatori furono quasi sempre al potere (prima coi liberali, poi da soli). La grande novità di questi

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Lo sciopero generale in Inghilterra 1926 Nel 1926, 3 milioni di lavoratori inglesi scioperarono dal 4 al 12 maggio; una serie di trattative tra i dirigenti sindacali e le forze del governo non riuscirono a far terminare la protesta dei minatori, che proseguì fino a ottobre.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

anni fu il ridimensionamento dei liberali, che consentì al Partito laburista (Labour Party) di assumere il ruolo di principale antagonista dei conservatori e fece sì che il sistema politico britannico riassumesse la tradizionale forma bipolare. I governi conservatori portarono avanti una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li fece scontrare con i sindacati. L’episodio più drammatico si verificò nel 1926 con un imponente sciopero dei minatori, che chiedevano aumenti salariali e proponevano la nazionalizzazione del settore minerario. Padronato e governo non cedettero e i lavoratori dovettero sospendere l’agitazione, durata ben sette mesi, senza aver ottenuto nulla. Il governo cercò di profittare di questo successo: furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions venivano iscritti “d’ufficio” al Labour Party. I laburisti riuscirono però a risalire la corrente e ad affermarsi nelle elezioni del 1929. Si formò così un ministero di coalizione liberal-laburista, destinato a vita breve per il sopraggiungere della grande crisi economica mondiale del 1929-30. Sul terreno dell’equilibrio europeo, Gran Bretagna e Francia seguirono linee spesso divergenti. Mentre la Gran Bretagna evitò di assumere impegni vincolanti sul continente, la Francia, profondamente segnata dalle esperienze della guerra franco-prussiana del 1870 e dell’attacco del 1914, cercò di costruire in funzione antitedesca una rete di alleanze con tutti i paesi dell’Europa centro-orientale che erano stati avvantaggiati dai trattati di Versailles – o dovevano ad essi la loro stessa esistenza – ed erano quindi contrari a ogni ipotesi di revisione del nuovo assetto europeo: in primo luogo la Polonia; poi la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania che, nel 1921, si erano unite in un’alleanza detta Piccola Intesa. L’accordo con gli Stati dell’Est Europa non sembrava tuttavia sufficiente ad allontanare lo spettro di una rivincita tedesca. Da qui l’impegno quasi fanatico dei governanti francesi nel pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles e nell’esigere il pagamento delle riparazioni.

La Francia e le alleanze

Questa linea di politica estera, culminata nell’occupazione della Ruhr, subì un deciso mutamento nel 1924 con l’accettazione del piano Dawes [►5_5] da parte della Francia. Si inaugurò allora una fase di distensione e di collaborazione fra le due potenze ex nemiche, che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Gustav Stresemann e nel ministro degli Esteri francese Aristide Briand. I due statisti perseguivano obiettivi diversi, se non opposti: Briand voleva fondare su basi più stabili l’equilibrio di Versailles, mentre Stresemann cercava di superare quell’equilibrio per riportare prima o poi la Germania a una condizione di grande potenza. Alla base dell’intesa c’era però la volontà comune di normalizzare i rapporti fra vincitori e vinti, nel quadro di un più vasto progetto di sicurezza collettiva.

La ricerca della distensione

Il risultato più importante dell’intesa franco-tedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell’ottobre 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell’impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. La Francia otteneva così una garanzia internazionale ai suoi confini. Un anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni. Nel giugno 1929 fu varato il piano Young che ridusse e graduò ulteriormente le riparazioni tedesche dilazionandole in sessant’anni. Nel giugno 1930 gli ultimi reparti francesi si ritirarono dalla Renania, mentre il governo tedesco rinnovava l’impegno a mantenere la regione smilitarizzata. Il clima di distensione internazionale aveva trovato una conferma eloquente – anche se di valore soprattutto simbolico – nell’estate del 1928, quando i rappresentanti di quindici Stati, fra cui Germania e Unione Sovietica, riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato americano Frank Kellogg, avevano firmato un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie.

Gli accordi di Locarno e il piano Young

La crisi della “sicurezza collettiva”

Questa stagione di distensione internazionale, tuttavia, si interruppe bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con l’inizio della grande crisi economica mondiale [►CAP7]. Già nel settembre 1930 la Francia decise di 195

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

La fortificazione di Immerhof lungo la linea Maginot [Mosella, Francia] Nel corso degli anni ’30, il governo francese fece costruire lungo i suoi confini occidentali (dal Mare del Nord alle Alpi italiane comprese) un complesso sistema difensivo integrato, che comprendeva diverse opere: a fortificazioni armate di artiglierie di piccolo calibro si alternavano ostacoli anticarro, fortificazioni minori, torrette a scomparsa (cui un complesso sistema permetteva di uscire sopra il livello di calpestio o stare sottoterra secondo necessità), torrette corazzate, caserme bunker e depositi di munizioni; il tutto collegato sottoterra da un’imponente rete di cunicoli. Il sistema è oggi noto come linea Maginot (dal nome del ministro della Guerra che la propose nel 1929), anche se con questo nome si intende a volte designare solo il tratto al confine con la Germania. Dimostratasi inefficace durante la seconda guerra mondiale, la “linea” è stata lentamente abbandonata dalle forze armate francesi. Oggi alcune fortificazioni sono state tramutate in musei, ma molte sono utilizzate per scopi diversi (dalla coltivazione dei funghi alla conservazione delle botti di vino).

dare il via alla costruzione di un imponente complesso di fortificazioni difensive (la cosiddetta linea Maginot) lungo il confine con la Germania. Era il segno più evidente dell’esaurirsi dello “spirito di Locarno” e della caduta delle speranze in una “sicurezza collettiva” assicurata dalla Società delle Nazioni e dagli accordi fra le potenze.



METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia le condizioni e gli orientamenti politici ed economici che si affermarono in tutta Europa dopo la fine del “biennio rosso”.  b   Sottolinea, con colori differenti e di gradazioni diverse, gli elementi fondamentali che definiscono i seguenti aspetti del dopoguerra di Francia (gradazione più chiara) e Gran Bretagna (gradazione più scura): a. politica interna; b. economia; c. politica estera. Sintetizza quindi per iscritto i risultati della tua analisi.  c   Cerchia i nomi degli Stati aderenti al patto di Locarno e sottolinea nel testo i contenuti degli accordi raggiunti e i loro effetti sul clima politico internazionale.

5_7 LA RUSSIA COMUNISTA

Negli anni dell’immediato dopoguerra, la Russia comunista rappresentò un mito positivo, oltre che un punto di riferimento, per i rivoluzionari di tutta Europa, così come la Francia lo era stata alla fine del ’700. La capacità espansiva dell’esperienza bolscevica non fu però altrettanto grande; e ancor meno lo era la forza militare del paese in cui quell’esperienza si incarnava. La stessa sopravvivenza del regime comunista rimase a lungo in forse. Appena conclusa, nella primavera del ’20, la guerra civile [►4_10], i bolscevichi dovettero affrontare l’attacco improvviso da parte della Polonia, che cercava di profittare delle difficoltà del vicino per ritagliarsi confini più vantaggiosi. Dopo fasi alterne (l’Armata rossa contrattaccò efficacemente e nell’agosto 1920 giunse alle porte di Varsavia per essere poi ricacciata entro i confini russi) si giunse a un trattato di pace che accontentava in parte le aspirazioni polacche e segnava soprattutto la fine della speranza di esportare la rivoluzione grazie ai successi militari.

La guerra con la Polonia

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Il collasso economico

Una minaccia non meno grave alla sopravvivenza dell’esperimento comunista veniva dal rischio di un collasso economico. Quando i bolscevichi presero il potere, l’economia russa si trovava già in uno stato di dissesto, che la rivoluzione e

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

le devastazioni della guerra civile finirono con l’aggravare ulteriormente. L’abolizione della proprietà terriera e la redistribuzione delle terre ai contadini poveri si risolsero nella creazione di una miriade di piccole aziende che producevano soprattutto per l’autoconsumo e non contribuivano all’approvvigionamento delle città. Molte industrie furono lasciate in mano ai vecchi imprenditori, ma sotto la sorveglianza dei consigli operai, altre furono gestite direttamente dai lavoratori, altre infine furono poste sotto il controllo statale. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati. Ma tutto questo servì a poco, visto lo stato di caos in cui versava il paese sconvolto dalla guerra civile, e il governo fu costretto, per le esigenze più urgenti, a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore. Si finì così col tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in natura. A partire dall’estate del ’18, il governo bolscevico cercò di attuare una politica più energica e autoritaria, che fu poi definita “comunismo di guerra”. Per risolvere il problema degli approvvigionamenti alle città, furono istituiti in tutti i centri rurali comitati col compito di provvedere all’ammasso e distribuzione delle derrate. Venne incoraggiata, senza molto successo, la formazione di comuni agricole volontarie, le cosiddette “fattorie collettive” (kolchozy), e furono anche istituite delle “fattorie sovietiche” (sov­chozy) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali. In campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti: una misura che aveva lo scopo di normalizzare la produzione e di centralizzare le decisioni, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi della rivoluzione.

Il “comunismo di guerra”

autoconsumo Viene così definita la produzione destinata esclusivamente a soddisfare le esigenze di sopravvivenza proprie e familiari. Nelle economie precapitaliste l’autoconsumo rappresentò la realtà più diffusa nella vita economica del mondo rurale. nazionalizzazione Passaggio di imprese private sotto la proprietà e il controllo dello Stato. Il fenomeno inverso è definito “privatizzazione”. kolchoz, sovchoz Il kolchoz (al plurale kolchozy) era una cooperativa di produzione agricola che riceveva dallo Stato la terra in uso perpetuo. Anche gli strumenti agricoli erano di proprietà comune. Ogni famiglia del kolchoz aveva un appezzamento di terreno non superiore a un ettaro e i contadini riscuotevano un salario. Sebbene fossero costretti a rispettare le indicazioni produttive delle autorità centrali o locali, i kolchozy godevano di una limitata autonomia. I sovchozy, invece, erano le aziende agricole statali istituite per servire da modello e stimolo alla collettivizzazione dell’agricoltura. Terra e mezzi di produzione appartenevano allo Stato, che nominava i dirigenti e si riservava l’acquisto di tutta la produzione, mentre i contadini erano dipendenti pubblici.

Grazie al “comunismo di guerra” il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune funzioni essenziali e soprattutto ad armare e nutrire il suo esercito. Ma sul piano economico l’esperienza si risolse in un totale fallimento. Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben sette volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano spopolate per la disoccupazione e per la fame. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell’illegalità. La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del ’21 quando, per l’effetto congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell’Ucraina, provocando la morte di almeno 3 milioni di persone. Imbarazzante per il potere comunista era poi il dissenso che cominciava a serpeggiare fra gli operai, stanchi delle privazioni materiali, ma anche delusi dalla gestione autoritaria dell’economia. Il punto di maggior tensione fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a ribellarsi al governo furono i marinai della base di Kronštadt, presso Pietrogrado, che era stata una roccaforte dei bolscevichi. Alle richieste dei ribelli, che invocavano maggiori libertà politiche e sindacali, il governo rispose con una feroce repressione militare, con centinaia di fucilazioni immediate e poi migliaia di condanne a morte, al carcere o ai lavori forzati.

Carestia e rivolta

Un contadino russo alle prese con la “lampadina Il’ic ˇ” 1925 Uno dei primi effetti della Nep fu l’estensione della rete elettrica alle campagne. Le lampadine che si diffusero di conseguenza furono chiamate “Il’icˇ”, patronimico di Lenin.

Nello stesso 1921, mentre si chiudeva ogni spazio di discussione all’interno del partito, prendeva avvio una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi. La nuova politica economica (Nep) aveva l’obiettivo principale di stimolare la produzione agricola e di favorire l’afflusso dei generi alimentari verso le città. Ai contadini si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, una volta che avessero consegnato agli organi statali una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si

La Nep

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C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

Ivan Vladimirov, La requisizione della farina 1922 [Museo Nazionale della Rivoluzione, Mosca] L’acquerello illustra il prelievo forzoso di sacchi di farina da parte dei soldati dell’Armata rossa dal magazzino di una famiglia contadina in un villaggio della Russia nord-occidentale.

estese anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne comunque il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali. La Nep ebbe conseguenze indubbiamente benefiche su un’economia stremata, ma produsse effetti sociali non previsti né desiderati dai suoi promotori. Nelle campagne i nuovi spazi concessi all’iniziativa privata favorirono il riemergere del ceto dei contadini benestanti, i kulaki. La liberalizzazione del commercio accrebbe la disponibilità di beni di consumo, ma provocò la comparsa di una nuova classe di affaristi, la cui ricchezza contrastava col basso tenore di vita della maggioranza della popolazione urbana.

METODO DI STUDIO

 a   Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, indica i soggetti (singoli e collettivi) descritti, i loro obiettivi e gli eventi che li videro coinvolti, facendo riferimento al contesto della Russia comunista.  b   Indica almeno cinque parole o espressioni chiave relative agli eventi e alla politica nella Russia comunista e argomenta per iscritto la tua scelta.  c   Evidenzia tutte le informazioni relative ai kulaki.

LA NUOVA POLITICA ECONOMICA

NEP

I contadini possono vendere le eccedenze della produzione

Parziale liberalizzazione della produzione e degli scambi

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Riemergono i ceti medi

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Vengono liberalizzati il commercio e la piccola industria



5_8 L’URSS DA LENIN A STALIN

► Leggi anche:

La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio del ’18, in piena guerra civile, e si apriva con una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato – quasi una replica alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo delle rivoluzioni “borghesi” – dove si proclamava che il potere doveva «appartenere unicamente e interamente alle masse lavoratrici e ai loro autentici organismi rappresentativi: i soviet». La Costituzione si ispirava dunque all’idea consiliare e collocava al vertice del potere il Congresso dei soviet. Inoltre prevedeva che il nuovo Stato avesse carattere federale, rispettasse l’autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all’unione con altre future repubbliche “sovietiche”, nella prospettiva di un’unica repubblica socialista mondiale.

Le Costituzioni del 1918 e del 1924

In realtà, quella che si attuò fra il ’20 e il ’22 fu semplicemente l’unione alla Repubblica russa – che comprendeva anche l’intera Siberia – delle altre province dell’ex Impero zarista (l’Ucraina, la Bielorussia, l’Azerbaigian, l’Armenia e la Georgia), nelle quali i comunisti erano riusciti a prendere il potere dopo aver eliminato le altre forze politiche col decisivo aiuto dell’Armata rossa. Quella che dal 1922 prese il nome di Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss) era una compagine priva di reali meccanismi federativi, e in cui i russi erano la nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell’Urss, approvata nel 1924, prevedeva una complessa struttura istituzionale, al cui vertice stava ancora il Congresso dei soviet dell’Unione. Ma il potere reale era nelle mani del Partito comunista (che dal 1925 assume il nome di Partito comunista dell’Unione Sovietica, Pcus), l’unico la cui esistenza fosse prevista dalla Costituzione.

►     Storia, società, cittadinanza Il mito della democrazia diretta ►     Lezioni attive Lenin e Stalin, dalla rivoluzione al potere ► Personaggi Lenin, uomo simbolo della rivoluzione, p. 162

L’Unione Sovietica

Il partito, in mano a un ristretto gruppo dirigente, era guidato da un segretario generale e aveva come organo fondamentale l’Ufficio politico (Politburo) del Comitato centrale. Il partito era responsabile delle direttive ideologiche e politiche che ispiravano l’azione del governo; controllava la polizia politica (la Čeka, poi denominata Gpu), che colpiva gli oppositori, i cosiddetti “nemici del popolo”, con arresti arbitrari, cui seguivano processi, fucilazioni, deportazioni in campi di lavoro. Proponeva infine i candidati alle elezioni dei soviet che avvenivano su lista unica e con voto palese. Di fatto deteneva tutto il potere e il suo apparato centrale e periferico si sovrapponeva a quello dello Stato.

▲  Aula

1938

in una scuola rurale russa

Il partito-Stato

▼  Aleksandr

M. Rodcˇenko, Manifesto per la propaganda del libro 1924 [© Aleksandr M. Rodcˇenko, by SIAE 2018] Constatata l’elevatissima percentuale di analfabeti dell’era prerivoluzionaria, sin dai primi anni ’20 il regime sovietico si impegnò in campagne per promuovere l’alfabetizzazione, ma alla fine del decennio gli analfabeti erano ancora il 38%. Si decise così nel 1930 che chi avesse frequentato per almeno sette anni la scuola poteva diventare maestro.

Lo sforzo di trasformazione intrapreso dai bolscevichi dopo la conquista del potere non riguardò soltanto le strutture economiche e gli ordinamenti politici. Come tutti i rivoluzionari dei tempi moderni, anche i comunisti russi mirarono a cambiare la società nel profondo, a cancellare valori e comportamenti tradizionali, a creare una nuova cultura adatta alla realtà che si voleva costruire. Lo sforzo si indirizzò soprattutto in due direzioni: l’alfabetizzazione di massa e la lotta contro la Chiesa ortodossa. Premessa indispensabile per lo sviluppo economico, la lotta contro l’analfabetismo rappresentò una priorità per il nuovo regime. L’elevazione dell’obbligo scolastico fino all’età di quindici anni si accompagnò a sostanziali innovazioni nei contenuti e nei metodi dell’insegnamento. Si

Modernizzazione e istruzione

199

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

cercò di collegare la scuola al mondo della produzione, privilegiando l’istruzione tecnica su quella umanistica. E ci si preoccupò, nel contempo, di formare ideologicamente le nuove generazioni incoraggiando l’iscrizione in massa all’organizzazione giovanile del partito – il Komsomol, ossia Unione comunista della gioventù – e facendo largo spazio in tutti i livelli di istruzione all’insegnamento della dottrina marxista. Anche la lotta contro la Chiesa ortodossa assumeva una chiara valenza ideologica, in quanto volta a combattere una visione del mondo incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina marxista, e quindi da estirpare. La scristianizzazione fu portata avanti con molta durezza – confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi – e, nel complesso, poté dirsi riuscita nei suoi obiettivi. L’influenza della Chiesa non fu del tutto eliminata (culti e credenze continuarono a sopravvivere, soprattutto nelle campagne), ma certo fu drasticamente ridimensionata. La battaglia contro la religione e la morale tradizionale si estese anche ai problemi della famiglia e dei rapporti fra i sessi. Il governo rivoluzionario stabilì fra i suoi primi atti il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al massimo le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Venne proclamata l’assoluta parità fra i sessi e la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quella dei legittimi. In generale il regime comunista favorì una notevole liberalizzazione dei costumi, anche se furono ben presto emarginate le posizioni estreme di chi riteneva che la rivoluzione dovesse portare all’assoluta libertà sessuale e alla scomparsa della famiglia.

Scristianizzazione e liberalizzazione dei costumi

Gli effetti della rivoluzione si fecero sentire anche nel mondo dell’alta cultura. Parecchi intellettuali di prestigio – come il musicista Igor Stravinskij, il pittore Marc Chagall, il linguista Roman Jakobson – andarono a ingrossare le file dell’emigrazione politica. Ma i più, soprattutto fra i giovani, si gettarono con entusiasmo nell’esperienza rivoluzionaria tentando di trasferirne contenuti e valori nei propri settori di attività. Se per alcuni intellettuali comunisti la nuova arte “proletaria” doveva porsi al diretto servizio della politica di classe e andare incontro ai bisogni culturali delle masse, per molti altri – quelli già impegnati nei movimenti d’avanguardia artistica e letteraria – la rivoluzione nelle arti doveva essere parallela a quella politica (non dipendente da essa) e doveva consistere prima di tutto nella rottura dei

Rivoluzione e cultura

200

Eliezer Lisickij, Colpite i bianchi con il cuneo rosso! 1919 [Museo Centrale, Mosca] Lisickij è stato uno tra gli artisti più rappresentativi del Costruttivismo, termine con cui vengono indicate alcune tendenze artistiche d’avanguardia della Russia rivoluzionaria, accomunate dal rifiuto dell’estetica borghese e dall’idea di un’arte funzionale all’azione rivoluzionaria. Lisickij, architetto, pittore e grafico, volle esprimere attraverso l’uso delle forme geometriche e del disegno, come nel suo manifesto del 1919, lo spirito rivoluzionario e la modernità che esso comportava.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

canoni tradizionali e nella ricerca di nuove forme espressive. In una prima fase queste tendenze d’avanguardia furono guardate con simpatia o apertamente incoraggiate dalle autorità preposte alla cultura. Anche per questo gli anni del dopo-rivoluzione rappresentarono una stagione di intensa sperimentazione, di accesi dibattiti fra le varie correnti e soprattutto di straordinaria fioritura creativa. Furono gli anni della poesia futurista di Vladimir Majakovskij e Viktor Chlebnikov, del teatro rivoluzionario di Vsevolod Emil’evič Mejerchol’d, della pittura astrattista di Kazimir Malevič ed Eliezer Lisickij, dei primi grandi film di Sergej Ejzenštejn e di Vsevolod Pudovkin. La stagione d’oro delle avanguardie ebbe però breve durata. A partire dalla metà degli anni ’20 la libertà di espressione artistica fu sempre più condizionata dalle preoccupazioni di ordine propagandistico e dalla crescente invadenza di un potere politico che diventava di giorno in giorno più autoritario. Le tendenze autoritarie si andarono consolidando con l’ascesa al vertice del Pcus del georgiano Iosif Džugašvili, detto Stalin: ex commissario alle Nazionalità, fu nominato segretario generale del partito nell’aprile del 1922. Poche settimane dopo, Lenin fu colpito dal primo attacco di quella malattia che lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924. Da allora si aprì una sempre più scoperta lotta per la successione. Il primo grave scontro all’interno del gruppo dirigente ebbe per oggetto proprio il problema della centralizzazione e della eccessiva burocratizzazione del partito. A sostenere la necessità di limitare le prerogative dell’apparato fu Trotzkij, il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi, ma anche il più isolato rispetto agli altri leader – Grigorij Zinov’ev, Lev Kamenev, Nikolaj Bucharin – che respinsero le sue critiche alla gestione del partito appoggiando la linea di Stalin.

Lo scontro tra Stalin e Trotzkij

Lo scontro non riguardava solo il problema della “burocratizzazione”. Trotzkij attribuiva l’involuzione autoritaria del partito all’isolamento internazionale dello Stato sovietico e riteneva che, per invertire questa tendenza, la Repubblica dei soviet dovesse estendere il processo rivoluzionario all’intero Occidente capitalistico. Contro questa tesi, per cui fu coniata l’espressione “rivoluzione permanente”, scese in campo lo stesso Stalin. Stalin sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del socialismo era “possibile e probabile” anche in un solo paese e che l’Unione Sovietica aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. La teoria del “socialismo in un solo paese” rappresentava una rottura con quanto era sempre stato affermato dai bolscevichi, ma si adattava alla situazione reale, che da tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione mondiale, e offriva inoltre al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico. Anche l’atteggiamento delle potenze europee, che fra il ’24 e il ’25 si decisero a instaurare rapporti diplomatici con lo Stato sovietico, finì col rafforzare implicitamente le tesi di Stalin.

Il socialismo in un solo paese

Una volta sconfitto Trotzkij, venne meno però il principale legame che teneva uniti i suoi avversari politici. A partire dall’autunno del ’25, Zinov’ev e Kamenev, riprendendo idee già sostenute da Trotzkij, si pronunciarono per un’interruzione dell’esperimento della Nep, che a loro avviso stava facendo rinascere il capiMETODO DI STUDIO talismo nelle campagne, e per un rilancio dell’industrializzazione a spese, se  a   Cerchia i nomi dei paesi che facevano parte necessario, degli strati contadini privilegiati. La tesi opposta, favorevole alla prodell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche.  b   Sottolinea, con colori diversi, le informazioni secuzione della Nep, fu sostenuta da Bucharin, che ebbe l’appoggio di Stalin. principali relative ai seguenti aspetti del Partito coZinov’ev e Kamenev, messi in minoranza nel partito, si riaccostarono a Trotzkij e munista dell’Unione Sovietica: a. le sue origini; b. il cercarono di organizzare un fronte unico degli avversari del segretario. Ma i leasuo ruolo nell’Urss; c. i suoi obiettivi.  c   Evidenzia gli obiettivi che i comunisti si preder dell’opposizione furono dapprima allontanati dagli organi dirigenti e poi, nel figgevano nella vita quotidiana delle persone e cer’27, espulsi dal partito. I loro seguaci furono perseguitati e incarcerati. Trotzkij chia le corrispondenti parole chiave. fu deportato in una località dell’Asia centrale e successivamente espulso  d   Realizza una tabella sul tuo quaderno i cui dall’Urss. Con la sconfitta dell’opposizione di sinistra si chiudeva definitivaindicatori siano “Stalin” e “Trotzkij” e inserisci nelle relative colonne le informazioni che li riguardano mente la prima fase della rivoluzione comunista, la fase della costruzione del puntando l’attenzione sulle loro azioni o idee. nuovo Stato. Se ne apriva una nuova, caratterizzata dalla continua crescita del  e   Spiega per iscritto in cosa consiste la teoria potere personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l’Unione Sovietica alla del “socialismo in un solo paese” e che ruolo ebbe nel contesto descritto. condizione di grande potenza industriale e militare.

L’eliminazione degli oppositori

201

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

ARTE E TERRITORIO OTTO DIX E LE MACERIE UMANE DELLA GRANDE GUERRA

L

a società civile europea non conobbe la devastazione del conflitto mondiale solo per le sue conseguenze economiche o per i bombardamenti che colpirono molte città. Anche quei territori non coinvolti direttamente nelle azioni di guerra ebbero modo di osservare gli effetti più devastanti delle armi di distruzione impiegate dagli eserciti contrapposti dal 1914 al 1918: nei volti dei reduci dal fronte e nelle loro mutilazioni la popolazione civile trovò tutto il dramma della vita di trincea. Già durante la guerra, le istituzioni statali si erano dovute porre il problema dell’assistenza ai feriti, decisamente diversi dalle vittime dei conflitti precedenti: le nuove armi causavano deturpazioni mai viste prima, imponevano amputazioni invalidanti, anche per le condizioni in cui si trovarono ad operare i medici impegnati al fronte. Alla fine della guerra, passeggiando per le

vie di una qualsiasi città d’Europa e non solo, non doveva essere così difficile imbattersi in un reduce e riconoscerlo dalle ferite ancora visibili sul suo volto o dall’assenza di uno o più arti. Mentre organizzazioni umanitarie e uffici governativi provavano a mettere in piedi forme pionieristiche di assistenza medica di massa, gli artisti del tempo si dedicarono a rappresentare questa nuova generazione di eroi di guerra. Tra costoro, un posto particolare nell’arte occidentale si deve a Otto Dix (18911969). Questo pittore particolarmente influente nella scena artistica tedesca ed europea, infatti, ebbe un percorso piuttosto significativo. Dapprima, aderì con entusiasmo allo sforzo bellico della Germania arruolandosi volontario sin dai primi mesi di guerra. Lo scontro con la realtà della vita di trincea e con la morte in serie provocata dagli assalti per conquistare piccoli Otto Dix, Invalidi di guerra che giocano a carte 1920 [Staatliche Museen, Berlino; © Otto Dix, by SIAE 2018]

lembi di terra fu traumatico: per molti anni fu perseguitato dagli incubi che le scene di guerra gli provocarono e maturò sentimenti fortemente pacifisti. Anche per questo motivo, dedicò gran parte della sua attività artistica a ragionare sugli effetti della violenza bellica. Le opere per cui è più conosciuto sono senz’altro le rappresentazioni degli invalidi di guerra. Dix tornò su questi soggetti molto spesso, segno dell’interesse che tali opere potevano suscitare nella Germania del tempo, ma anche della sua ossessione per le conseguenze della guerra. Lo sguardo del pittore era tanto più impietoso quanto più forte voleva essere la sua accusa nei confronti delle società che avevano permesso di mandare al macello un’intera generazione. Le medaglie appuntate al petto dei reduci invalidi sembrano quasi un’ulteriore beffa di fronte alle deturpazioni di cui erano stati oggetto. Proprio per questi toni dissacranti nei confronti della retorica nazionalista con cui veniva raccontato lo sforzo bellico dagli Stati usciti dalla guerra, Otto Dix ebbe notevoli problemi con le autorità ufficiali, anche prima dell’avvento al potere di Adolf Hitler e del nazismo, nel 1933. Alcuni dei suoi dipinti furono giudicati troppo crudi, privi di patriottismo, addirittura irrispettosi nei riguardi delle vittime del conflitto e delle loro famiglie. Nonostante queste accuse, però, i quadri di Dix rimasero nella memoria collettiva come una delle più potenti denunce dell’inutilità delle guerre.

PISTE DI LAVORO

202

a Redigi sul quaderno un piccolo profilo biografico di Otto Dix a partire dalle notizie contenute nella scheda e integrandole, eventualmente, con informazioni reperite in Rete. Ricordati di non superare le 50/60 parole e di consultare un sito affidabile. b Chi sono gli eroi di guerra di cui si parla nella scheda? c In che modo la pittura di Dix celebra questi eroi? d Perché lo sguardo di Dix su questi eroi è grottesco? e Perché l’arte di Dix fu particolarmente invisa alle autorità politiche tedesche?

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

SINTESI

5_1 LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA GUERRA Tutti i paesi belligeranti, esclusi gli Stati Uniti, uscirono dal conflitto in condizioni di grave dissesto economico. Per affrontare le spese di guerra tutti gli Stati avevano contratto ingenti debiti, in primo luogo con gli Stati Uniti, ma questa misura non era stata sufficiente a coprire tali spese. Così i governi avevano stampato carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un processo inflazionistico, che portò, nel dopoguerra, a un notevole aumento dei prezzi. Tuttavia, grazie anche al sostegno dello Stato all’economia, l’industria europea attraversò, nell’immediato dopoguerra, un periodo di crescita, cui seguì, nel 1920-21, una fase di depressione economica. Per quanto riguarda gli scambi internazionali, la guerra ridusse drasticamente la tradizionale supremazia commerciale europea. Ne conseguì un ritorno, nel dopoguerra, al nazionalismo economico e al protezionismo doganale.

anche nella trasformazione del ruolo delle donne: nelle famiglie, ma anche nei campi, nelle fabbriche, negli uffici le donne presero spesso il posto degli uomini arruolati nell’esercito, assumendo responsabilità e compiti inediti. La disponibilità economica e la consapevolezza delle proprie capacità trasformarono l’immagine stessa della donna e i suoi comportamenti, che divennero più liberi, sin dall’abbigliamento. Questo processo di emancipazione ebbe nel dopoguerra anche un parziale riconoscimento sul piano del diritto di voto, riconosciuto nel 1918 in Gran Bretagna, nel 1919 in Germania, nel 1920 negli Stati Uniti. L’altra questione sociale che i governi dovettero affrontare nel dopoguerra fu quella del reinserimento dei reduci, che rivendicavano compensi per le privazioni subìte. Le scarse misure adottate dagli Stati, nonostante le promesse, generarono tra gli ex combattenti (riuniti spesso in associazioni) un forte risentimento. Tutto ciò contribuì ad accelerare la tendenza già in atto alla “massificazione” della politica: partiti e sindacati videro aumentare il numero dei loro iscritti, come aumentò notevolmente la partecipazione dei cittadini alle manifestazioni pubbliche.

5_2 I MUTAMENTI SOCIALI La guerra determinò enormi cambiamenti sociali. L’espansione dell’industria bellica aveva determinato uno spostamento massiccio dalle campagne alle città, soprattutto di giovani. Il distacco dal nucleo familiare e l’assenza dei capifamiglia avevano provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini delle giovani generazioni. La guerra segnò una tappa importante

5_3 STATI NAZIONALI E MINORANZE La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significarono per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per l’indipendenza e parvero dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati da Wilson. Ma in ragione della

complessità etnico-linguistica di alcune zone d’Europa, in particolare l’area orientale, l’applicazione del principio di nazionalità risultò difficile: le decisioni di Versailles diedero una patria indipendente a circa 60 milioni di persone, ma ne trasformarono altri 25 milioni in minoranze. La presenza sullo stesso territorio di gruppi che parlavano lingue diverse, con tradizioni e credi diversi, fu talvolta sentita come una minaccia dai membri di comunità nazionali che si volevano omogenee e coese: ciò fu causa di nuovi conflitti.

5_4 IL “BIENNIO ROSSO”: RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE IN EUROPA Tra la fine del ’18 e l’estate del ’20 – il “biennio rosso” – il movimento operaio europeo fu protagonista di una grande avanzata politica che assunse anche tratti di agitazione rivoluzionaria; ovunque in Europa aumentarono gli iscritti ai partiti socialisti e i lavoratori ottennero miglioramenti salariali. Ma i tentativi rivoluzionari fallirono. La rivoluzione d’ottobre accentuò all’interno del movimento operaio la scissione fra avanguardie rivoluzionarie e il resto del movimento legato ai partiti socialdemocratici e ai sindacati. Tale scissione fu sancita ufficialmente, nel marzo 1919, con la costituzione a Mosca della Terza Internazionale (Comintern) e la nascita dei partiti comunisti. Dopo l’armistizio, la Germania, nelle cui città si erano creati consigli degli operai e dei soldati, si trovava in una situazione simile a quella della Russia nel ’17. Ma i socialdemocratici erano contrari a rivoluzioni di tipo

sovietico e scelsero una linea moderata, in convergenza con la vecchia classe dirigente e i militari. L’insurrezione tentata nel gennaio ’19 dai comunisti “spartachisti” fu repressa nel sangue. Le elezioni per l’Assemblea costituente che si tennero poco dopo videro l’affermazione della socialdemocrazia e del centro cattolico. L’Assemblea, riunita a Weimar, elaborò una Costituzione democratica fra le più avanzate dell’epoca. Ma i socialdemocratici subirono nel 1920 una sconfitta elettorale e dovettero lasciare la guida del governo.

5_5 LA GERMANIA DI WEIMAR La situazione politica della Repubblica di Weimar era caratterizzata da una forte instabilità. L’entità delle riparazioni di guerra stabilite dagli alleati determinò una ondata di proteste sociali e l’aggravarsi del processo inflazionistico già in atto. All’inizio del ’23 l’occupazione da parte di Francia e Belgio della Ruhr, regione vitale per l’economia tedesca, fece precipitare la crisi economica, polverizzando il valore del marco. A partire dall’estate, il governo di coalizione presieduto da Stresemann avviò una politica di stabilizzazione monetaria e di riconciliazione con la Francia e represse, nel novembre dello stesso anno, un tentativo di colpo di Stato organizzato a Monaco dal Partito nazionalsocialista, guidato da Adolf Hitler. Grazie al piano Dawes, inoltre, a partire dal 1924 la Germania poté fruire di prestiti internazionali – soprattutto statunitensi –, che le avrebbero consentito una rapida ripresa economica.

203

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

5_6 IL DOPOGUERRA DEI VINCITORI Anche nei paesi più sviluppati dell’Europa occidentale, il “biennio rosso” si concluse con un riflusso delle agitazioni operaie e una ripresa delle forze conservatrici. La Francia degli anni ’20 registrò sul piano politico un’egemonia dei moderati, che – nella seconda metà del decennio – adottarono una politica di stabilizzazione della moneta e di risanamento del bilancio. Più difficile fu la situazione dell’economia britannica, caratterizzata da una fase di ristagno per tutti gli anni ’20. In questo periodo il Partito laburista si affermò come secondo partito del paese – nonostante la sconfitta subìta dal movimento sindacale nel ’26, in occasione del grande sciopero dei minatori. Dal punto di vista degli equilibri internazionali, iniziava una fase di distensione tra Francia e Germania, confermata dagli accordi di Locarno del 1925, che stabilizzavano i confini definiti a Versailles. A coronare

questa fase di distensione, nel 1926 la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni. Nel 1929 il piano Young ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni tedesche e ne graduò il pagamento in sessant’anni. Questa fase di distensione, tuttavia, si interruppe bruscamente all’inizio degli anni ’30 in coincidenza con la crisi economica mondiale.

collettive” (kolchozy) e le “fattorie sovietiche” (sovchozy) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet e in campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti. L’esperienza si risolse però in un fallimento: una terribile carestia colpì il paese nel ’21. Nel marzo 1921 ci fu un mutamento di rotta con la Nep (nuova politica economica). Basata su una parziale liberalizzazione delle attività economiche, la Nep stimolò la ripresa produttiva, mentre, dal punto di vista sociale, determinò la crescita del ceto dei contadini ricchi (kulaki) e dei piccoli commercianti.

5_7 LA RUSSIA COMUNISTA Fallite, dopo la guerra con la Polonia, le speranze di esportare la rivoluzione fuori dalla Russia, i bolscevichi dovettero affrontare la gravissima situazione economica in cui versava il paese. Nel 1918 fu varato il cosiddetto “comunismo di guerra”, una politica economica basata sulla centralizzazione delle decisioni e sulla statalizzazione di gran parte delle attività produttive: furono create le “fattorie

5_8 L’URSS DA LENIN A STALIN La compagine statale che nel 1922 prese la denominazione di Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (Urss) fu il frutto dell’unione della Russia – compresa la Siberia – con le altre province dell’ex Impero zarista, nelle quali

i comunisti erano riusciti a prendere il potere: si trattava in realtà di una compagine priva di reali meccanismi federativi in cui i russi erano la nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell’Urss (1924) prevedeva un meccanismo consiliare, con al vertice il Congresso dei soviet dell’Unione, ma nella realtà il potere era nelle mani del Partito comunista, il quale, oltre a guidare l’azione di governo, controllava la polizia politica. Dal punto di vista sociale i bolscevichi intrapresero una battaglia contro la morale tradizionale e contro la Chiesa ortodossa. In campo culturale, i primi anni ’20 furono una stagione di fioritura delle avanguardie artistiche. Con l’ascesa di Stalin alla segreteria del partito (aprile ’22) e la malattia di Lenin (morto nel gennaio ’24), si scatenò una dura lotta all’interno del gruppo dirigente bolscevico. Stalin riuscì dapprima a emarginare Trotzkij, il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi. Quindi si sbarazzò dell’“opposizione di sinistra” – Zinov’ev, Kamenev – che chiedeva la fine della Nep e l’accelerazione dello sviluppo industriale. Si affermava, così, il suo potere personale.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Inserisci negli insiemi alla pagina seguente gli eventi elencati di seguito indicando quelli che si riferiscono al “biennio

rosso” in Germania, in Russia, in Austria e in Ungheria.

204

a. Dopo i fallimenti delle insurrezioni comuniste, si impongono i clericali e i conservatori. b. Nel 1918 i bolscevichi non si chiamano più socialdemocratici ma comunisti. c. Dopo il fallimento della rivoluzione della frangia radicale del movimento operaio, viene fondata una Repubblica di ispirazione democratica. d. Gli spartachisti si oppongono alla linea moderata della Spd. e. Nel 1919 nasce il Comintern o Terza Internazionale. f. Viene fondata una Repubblica dei soviet grazie all’unione di socialisti e comunisti.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

g. In un documento Lenin afferma che per far parte del Comintern è necessario seguire il modello bolscevico. h. Viene instaurato un regime autoritario sostenuto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri grazie al “terrore bianco”. i. I corpi franchi, di orientamento nazionalista e conservatore, reprimono la rivolta spartachista. l. Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, leader della frangia radicale del movimento operaio, vengono arrestati e uccisi. GERMANIA

AUSTRIA

RUSSIA

UNGHERIA

2 Indica l’ordine cronologico dei seguenti eventi. Quindi completa lo schema individuando le cause, gli eventi e le

conseguenze che caratterizzarono la resistenza dei tedeschi nella Ruhr, selezionando le voci corrette dall’elenco di seguito.

a. Imprenditori e operai abbandonano le fabbriche e rifiutano qualsiasi collaborazione con gli occupanti. b. Viene varato il piano Dawes. c. Il governo di grande coalizione pone fine alla resistenza e riallaccia i contatti con la Francia. d. Il governo incoraggia la popolazione alla resistenza passiva. e. Viene portata avanti una politica deflazionistica. f. A Monaco alcuni aderenti al Partito nazionalsocialista tentano un colpo di Stato. g. La Germania perde parte delle sue risorse produttive e sostiene alte spese. h. La Francia e il Belgio invadono il bacino carbonifero della Ruhr. Cause: .......................................

Eventi: .......................................

..................................................

..................................................

..................................................

..................................................

Conseguenze: ............................... ................................................... ................................................... 3 Confronta la situazione politica delle principali democrazie europee nel primo dopoguerra completando la tabella.

Francia

Inghilterra

Germania (Repubblica di Weimar)

Partiti politici al potere Gestione del conflitto sociale e politico Politica economica Politica estera

205

C5 L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA

4 Abbina le definizioni ai termini relativi al contesto storico che va dalla rivoluzione russa all’affermazione di Stalin.

a. Urss b. Pcus c. Cˇeka d. Politburo e. Nep f. Kulaki g. Comunismo di guerra h. Socialismo in un solo paese i. Kolchozy l. Sovchozy

1. Politica varata nel 1921 con l’obiettivo di liberalizzare parzialmente l’economia. 2. Fattorie collettive. 3. Politica autoritaria messa in atto dal governo bolscevico dall’estate del ’18, per affrontare l’impegno nella guerra civile. 4. Polizia politica, chiamata successivamente Gpu. 5. Formazione statale nata nel 1922 grazie all’unione della Repubblica russa con le province dell’ex Impero zarista in cui i comunisti erano riusciti a prendere il potere. 6. Fattorie sovietiche gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali. 7. Organo fondamentale del partito (Ufficio politico del Comitato centrale). 8. Contadini benestanti che si erano arricchiti grazie alla Nep. 9. Teoria sostenuta da Stalin che prevedeva, nei tempi brevi, la possibilità di vittoria del socialismo unicamente nell’Urss. 10. Organo che deteneva di fatto tutto il potere e il cui apparato centrale e periferico si sovrapponeva a quello dello Stato.

COMPETENZE IN AZIONE 5 Abbina a due a due per opposizione i seguenti concetti e poi commenta sul quaderno i binomi formati in brevi testi di

6 righe ciascuno.

a. Molteplici realtà etnico-linguistiche b. Diritti delle minoranze c. Avanguardie rivoluzionarie d. Nazioni etnicamente omogenee e. Oppressione delle minoranze f. Partiti socialdemocratici 6 Seguendo i suggerimenti dati, componi sul quaderno un testo di 20 righe che abbia come tema il confronto tra i

primi anni della Repubblica di Weimar e la Russia comunista nell’immediato dopoguerra. Dovrai organizzare il testo nei seguenti paragrafi: Emergenze postbelliche; Situazione economica; Conflittualità sociale. Prima, però, dovrai dividere gli argomenti che seguono in due gruppi distinti, uno per la Germania e uno per la Russia.

a. Riparazioni di guerra b. Nep c. Grande inflazione d. Guerra contro la Polonia e. Complotto di Monaco f. Comunismo di guerra g. Politica deflazionistica h. Piano Dawes i. “Fattorie sovietiche” l. Ribellione dei marinai di Kronštadt 7 Scrivi sul quaderno un testo di massimo 15 righe in cui affronti i cambiamenti del dopoguerra. A tal fine seleziona

206

le immagini che ritieni più idonee fra quelle presenti nel capitolo e utilizzale come scaletta, assieme al grafico relativo all’andamento del costo della vita in Europa dal 1913 al 1938 [► _3]. Scegli, inoltre, il taglio e il titolo da dare al tuo elaborato.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

E

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XTR

CAP6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

E

O

N LI N

Il Libro A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo Laboratorio dello storico Le carte di polizia Lezioni attive Il fascismo, un movimento che si fa Stato Test interattivi Audiosintesi

6_1 LE TENSIONI DEL DOPOGUERRA

Uscita vincitrice dalla prova più impegnativa della sua storia unitaria, l’Italia si trovò a condividere i problemi politici e le tensioni sociali che la Grande Guerra aveva suscitato in tutta Europa [►5_4]. L’economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali, con conseguenti problemi di riconversione, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Rispetto agli altri paesi vincitori, problemi e tensioni si presentavano però in forma più acuta: sia perché le strutture economiche erano meno avanzate e più ampie le sacche di arretratezza, sia perché le istituzioni politiche erano meno radicate nella società. L’esperienza del primo conflitto mondiale aveva fortemente accelerato il processo di avvicinamento delle masse allo Stato, ma lo aveva fatto in modo traumatico, provocando nuove divisioni. Aveva alimentato il rifiuto della guerra; ma aveva anche generato, come negli altri paesi, una diffusa assuefazione alla violenza e accentuato la tendenza a risolvere le questioni controverse con atti di forza. Una tendenza che, in Italia, si inseriva in un contesto storico da sempre segnato dalla radicalità dello scontro politico e sociale. Quella che usciva della guerra era dunque una società inquieta e attraversata da profonde fratture, unita però da una generale ansia di rinnovamento, da una sorta di febbre rivendicativa che tendeva a saltare le mediazioni politiche e a spostare il centro delle lotte dal Parlamento alle piazze.

Un paese inquieto

Le tensioni sociali erano legate in primo luogo al continuo aumento dei prezzi al consumo. Fra il giugno e il luglio del 1919 le principali città italiane divennero teatro di violenti tumulti contro il caro-viveri, mentre le industrie erano investite da una ondata di scioperi volti a ottenere aumenti salariali. Anche il settore dei servizi pubblici, in genere meno sindacalizzato, fu sconvolto da una lunga serie di astensioni dal lavoro. Non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. In Val Padana, dove più forte era la

Scioperi e lotte agrarie

Saccheggio di un negozio durante i moti contro il caro-vita a Milano giugno 1919 [Archivio Giancarlo Costa, Milano] In Italia, tra il 1913 e il 1919, i prezzi al dettaglio crebbero di circa tre volte. L’inflazione provocò il malcontento della popolazione che in alcuni casi, come a Milano, diede vita a violente proteste.

207

C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

presenza dei braccianti – i lavoratori generici pagati a giornata –, gli scioperi erano organizzati dalle “leghe rosse” controllate dai socialisti, che avevano, a livello locale, il monopolio della rappresentanza sindacale. Nelle regioni centrali, in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà contadina, erano attive soprattutto le “leghe bianche” cattoliche. L’aspirazione alla proprietà della terra fu poi all’origine di un altro movimento che si sviluppò in forma spontanea nelle campagne del Centro-Sud: l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex combattenti.

mezzadria È un tipo di contratto agricolo stipulato tra un proprietario terriero e un colono: quest’ultimo si impegna a coltivare il fondo in cambio di una quota dei prodotti, tendenzialmente la metà. In genere, anche le spese sono divise in parti eguali tra i due. Questa forma di conduzione garantisce generalmente un lavoro assiduo e diligente nel podere (l’atteggiamento del mezzadro, infatti, assomiglia a quello del piccolo proprietario coltivatore), ma può costituire un ostacolo agli investimenti e all’innovazione tecnica.

Ad agitare la scena italiana dell’immediato dopoguerra contribuì anche una cattiva gestione della pace, che rese il clima più simile a quello di un paese sconfitto che a quello di una potenza vincitrice. L’Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata: aveva ottenuto – secondo gli accordi firmati a Londra nel 1915 [►4_4] – Trento, Trieste e le altre “terre irredente”; aveva raggiunto i “confini naturali” segnati dalle Alpi, includendo nel suo territorio anche zone non italianeAUSTRIA come il Sud Tirolo (ribattezzato Alto Adige) o solo parzialmente italiane come l’Istria; aveva infine visto scomUNGHERIA SVIZZERA parire dalle sue frontiere il nemico tradizioTRENTINO nale, l’Impero asburgico. Trento Ma la dissoluzione dell’Austria-Ungheria 12_L’ITALIA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE Trieste e la nascita del nuovo Stato jugoslavo poMilano AUSTRIA nevano una serie di problemi non previVenezia ISTRIA Fiume (1924)UNGHERIA Torino SVIZZERA sti nel momento in cui era stato stipulato il TRENTINO patto di Londra: in base a quel patto, infatJUGOSLAVIA Trento Genova ti, l’Italia avrebbe dovuto annettere anche Trieste Milano la Dalmazia, una striscia costiera ritenuta Fiume (1924) Zara (1920) Firenze Venezia ISTRIA Torino importante per il controllo dell’Adriatico, A D ma abitata in prevalenza da slavi. Non era RI JUGOSLAVIA Genova AT prevista invece l’annessione della città di IC O Fiume, a maggioranza italiana, che doveva Zara (1920) Firenze LAGOSTA restare all’Impero asburgico. Tuttavia, alA D R la conferenza di Versailles, il presidente del IA CORSICA TI CO Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Roma Sonnino chiesero l’annessione di Fiume LAGOSTA sulla base del principio di nazionalità, in agCORSICA giunta ai territori promessi nel 1915. Napoli FRANCIA

L’Italia alla conferenza di pace

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Tali richieste incontrarono l’opposizione degli alleati, in particolare del presidente degli Stati Uniti, che si sentiva slegato dagli impegni delle potenze europee ed estraneo alle logiche che li ispiravano. Nell’aprile del ’19, per protestare contro l’atteggiamento di Wilson – che aveva cercato di scavalcarli indirizzando un messaggio al popolo italiano –, Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove furono accolti da imponenti manifestazioni patriottiche. Ma un mese dopo dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato. Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando. Il nuovo ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti si 208

La “vittoria mutilata”

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

MAR TIRRENO Cagliari

Napoli

MAR TIRRENO

Cagliari Palermo Palermo

MAR IONIO MAR IONIO

acquisizioni dell’Italia in seguito alla guerra

acquisizioni dell’Italia in seguito alla guerra

IL “BIENNIO ROSSO” IN ITALIA

“BIENNIO ROSSO” (1919-20) Al Centro-Nord

Al Sud

Leghe rosse e bianche

Movimento operaio

Sindacati (Fiom)

Lotte agrarie

Scioperi

Occupazione delle fabbriche

Occupazione di terre incolte e latifondi

trovò ad affrontare una situazione già gravemente deteriorata. Gli avvenimenti della primavera 1919 avevano infatti suscitato in larghi strati dell’opinione pubblica un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l’Italia dei frutti della vittoria. Si parlò allora di “vittoria mutilata”: un’espressione coniata da Gabriele D’Annunzio, ormai assurto al ruolo di protagonista politico, anche in virtù di alcune audaci imprese compiute durante la guerra. La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando di D’Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l’annessione all’Italia. Concepita all’inizio come un mezzo di pressione sul governo, l’avventura fiumana si prolungò per quindici mesi e si trasformò in un’inedita esperienza politica. A Fiume, dove D’Annunzio istituì una provvisoria “reggenza”, furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi – adunate coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla – che sarebbero stati ripresi e applicati su ben più larga scala dai movimenti autoritari degli anni ’20 e ’30.

D’Annunzio a Fiume



METODO DI STUDIO

 a   Cerchia con colori differenti i settori in cui si verificarono tensioni nell’Italia del dopoguerra e sottolinea gli aspetti e gli eventi che li caratterizzarono mantenendo i colori scelti.  b   Rispondi sul tuo quaderno alle seguenti domande: a. Quali territori rivendicava l’Italia alla conferenza di Versailles? b. Quali risultati ottenne? c. In cosa consiste quella che fu chiamata la “vittoria mutilata” e chi coniò questa espressione? d. Perché D’Annunzio e alcuni volontari occuparono Fiume? Prima di procedere con la scrittura indica con la lettera corrispondente le porzioni di testo contenenti le risposte.

6_2 I PARTITI E LE ELEZIONI DEL 1919

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In questa fase di crisi e di profonde trasformazioni, la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata, non si mostrò in grado di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì così col perdere l’egemonia indiscussa di cui aveva goduto fino ad allora. Risultarono invece favorite quelle forze, socialiste e cattoliche, che si consideravano estranee alla tradizione dello Stato liberale, che non erano compromesse con le responsabilità della guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano meglio interpretare le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica [►FS, 51].

La crisi della classe dirigente

Il Partito popolare

Gabriele D’Annunzio su una cartolina spedita da Fiume 1921 L’impresa fiumana portò grande popolarità a D’Annunzio, già celebratissimo per diverse sue azioni svolte durante la guerra. Fra queste, quella più clamorosa fu certamente il volo su Vienna: nell’agosto del 1918, undici velivoli militari italiani, comandati dal poeta, avevano viaggiato per sette ore e percorso 1000 km per sorvolare la capitale austriaca e lanciare 400 mila copie di due diversi manifesti. I testi, uno scritto da D’Annunzio stesso, l’altro dallo scrittore Ugo Ojetti, inneggiavano alla grandezza dell’Italia e alla libertà ed esortavano i viennesi a rivoltarsi contro il loro governo che non accettava ancora la pace. L’episodio, militarmente irrilevante, aveva avuto un grande valore propagandistico.

►   Il Libro A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo

Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, abbandonando la tradizionale linea astensionistica e dando vita, nel gennaio 1919, a una 209

C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

nuova formazione politica che prese il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo padre riconosciuto e il suo primo segretario in un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e, pur ispirandosi apertamente alla dottrina sociale cattolica, si dichiarava non confessionale. In realtà, il Ppi era strettamente legato alla Chiesa e alle sue strutture organizzative. La sua stessa nascita era stata resa possibile dal nuovo atteggiamento assunto dopo la guerra dal papa e dalle gerarchie ecclesiastiche, preoccupati di opporre un argine alla minaccia socialista. Nelle file del partito erano inoltre confluiti, accanto agli eredi della democrazia cristiana [►3_7] e ai capi delle leghe bianche (spesso schierati su posizioni socialmente molto avanzate), anche gli esponenti delle correnti clerico-moderate che avevano guidato il movimento cattolico nell’anteguerra. Nonostante questi elementi contraddittori, la nascita del partito rappresentò una svolta in positivo per la democrazia italiana, la fine di un’anomalia che aveva accompagnato lo Stato unitario fin dalla nascita.

massimalismo Il termine “massimalismo” fu usato nel dibattito interno al socialismo italiano dopo la prima guerra mondiale per indicare l’atteggiamento dei rivoluzionari intransigenti, che rifiutavano ogni compromesso con la borghesia e puntavano all’attuazione immediata del “programma massimo”, ossia all’instaurazione immediata della società socialista. Per questo i massimalisti si contrapponevano ai riformisti, favorevoli alle riforme graduali e alle alleanze con altre forze democratiche. Nell’ottobre 1922 i riformisti ruppero con la maggioranza massimalista del Psi e fondarono il Partito socialista unitario. Fasci di combattimento Il termine “fasci” si riferiva all’emblema del movimento, l’antico fascio dei littori, che nella Roma antica accompagnavano i magistrati portando fasci di verghe legate. Sotto questo aspetto, quindi, i fasci sono un simbolo di autorità, ma anche di stretta unione di intenti. Il nome, tuttavia, conservava nel 1919 un significato rivoluzionario poiché alla fine dell’800 era stato usato da movimenti di sinistra, fra cui i Fasci dei lavoratori in Sicilia. Il termine “combattimento”, invece, si riferiva non solo alle battaglie politiche future, ma anche alla guerra vera e propria, la prima guerra mondiale appena conclusa. Il movimento di Mussolini, infatti, si proponeva la difesa degli interessi degli ex combattenti.

L’altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito socialista, dove si registrava la schiacciante prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, su quella riformista, che conservava però una posizione di forza nel gruppo parlamentare e nelle organizzazioni economiche. I massimalisti, che avevano il loro leader di maggior spicco nel direttore dell’«Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione russa, ma avevano poco in comune con i bolscevichi. Più che preparare la rivoluzione, la aspettavano, ritenendola comunque inevitabile.

Il Psi e il massimalismo

In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani, che si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all’esempio dei bolscevichi russi. Fra questi gruppi emergevano quello napoletano che faceva capo ad Amadeo Bordiga e quello che operava a Torino attorno ad Antonio Gramsci e alla rivista «L’Ordine Nuovo». Mentre Bordiga puntava soprattutto sulla creazione di un nuovo partito rivoluzionario ricalcato sul modello bolscevico, Gramsci e gli altri “ordinovisti” (Togliatti, Terracini, Tasca), che agivano a contatto coi nuclei operai più avanzati e combattivi d’Italia, erano affascinati dall’esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta contro l’ordine borghese e al tempo stesso come embrioni della società socialista.

Bordiga e Gramsci

All’indomani della guerra, il grosso del Partito socialista era dunque schierato su posizioni apertamente rivoluzionarie. Ma questa radicalizzazione finì con l’isolare il movimento operaio e col ridurne i margini di azione politica. Prospettando una soluzione “alla russa”, i socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico-borghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria. Insistendo nella condanna indiscriminata di tutto ciò che avesse a che fare col passato conflitto, e rifiutando in generale ogni logica nazionale, ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono argomenti all’oltranzismo nazionalista dei numerosi gruppi che si formarono nell’immediato dopoguerra con lo scopo di difendere i “valori della vittoria”.

Le illusioni rivoluzionarie

Fra questi movimenti, per lo più destinati a vita breve, faceva spicco quello fondato a Milano, il 23 marzo 1919, da Benito Mussolini [►3_7 e 4_4]: i Fasci di combattimento. Po­ liticamente, il nuovo movimento si schierava a sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica; ma nel contempo ostentava un 210

Mussolini e i Fasci di combattimento

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Tato (Guglielmo Sansoni), I fasci di combattimento 1925 [Collezione privata, Milano]

I PARTITI DI MASSA NEL DOPOGUERRA

CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE LIBERALE Nascono nuove forze

Aumentano consensi SOCIALISTI

POPOLARI (Sturzo, 1919)

Programma democratico alternativo al socialismo

FASCI DI COMBATTIMENTO (Mussolini, 1919)

Nazionalismo

Antisocialismo

Riformisti

Alleanza con la borghesia progressista

Massimalisti

Comunisti

Lotta rivoluzionaria contro l’ordine borghese

Modello bolscevico

acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi, il fascismo raccolse solo scarse ed eterogenee adesioni (ex repubblicani, ex sindacalisti rivoluzionari, ex Arditi di guerra), ma si fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento. I fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia postbellica [►FS, 52d]: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile ’19 e conclusosi con l’incendio della sede dell’«Avanti!». Era il segno di un clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col passare dei mesi. Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che si tennero nel novembre 1919, mostrarono la gravità delle fratture che attraversavano la società e il sistema politico. Furono queste le prime elezioni tenute col nuovo metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito, anziché fra singoli candidati, e che, contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale, assicurava alle forze politiche un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti, favorendo i gruppi organizzati su base nazionale. L’esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente. I gruppi liberal-democratici, che si eraMETODO DI STUDIO no presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta. I socialisti, che  a   Trascrivi sul quaderno i nomi dei partiti politipure avevano adottato un programma rivoluzionario, ottennero un successo claci descritti e realizza per ognuno di essi una carta moroso con 156 seggi (tre volte più che nel 1913). Il Partito popolare italiano (Ppi), di identità contenente, quando possibile, le seguenti con 100 deputati, si affermava come la principale novità politica del dopoguerra. informazioni: a. il nome del fondatore; b. gli obiettivi politici. c. gli interessi di cui si facevano portatori; d. I due vincitori delle elezioni non potevano però coalizzarsi fra loro, dal momenle alleanze; e. le caratteristiche degli aderenti. to che il Psi massimalista rifiutava ogni collaborazione con i gruppi “borghesi”.  b   Trascrivi sul quaderno i risultati delle prime L’unica maggioranza possibile era quella basata sull’accordo fra popolari e lielezioni politiche del dopoguerra indicando i protagonisti e commentali descrivendone il signiberal-democratici. Su questa precaria alleanza si fondarono gli ultimi governi ficato politico. dell’era liberale.

Le elezioni del 1919



6_3 IL RITORNO DI GIOLITTI E L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE

Indebolito dall’esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse fino al giugno 1920, quando a costituire il nuovo governo fu richiamato l’ormai quasi ottantenne Giovanni Giolitti. Rimasto ai margini della vita politica negli anni della guerra, Giolitti era rientrato in scena alla vigilia delle elezioni con un programma molto avanzato, in cui si proponeva fra l’altro la nominatività dei titoli azionari (cioè l’obbligo di intestare le azioni al nome

Il programma di Giolitti

211

C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

del possessore, permettendone così la tassazione) e un’imposta straordinaria sui profitti realizzati dall’industria bellica. Le preoccupazioni che questo programma suscitava negli ambienti conservatori passarono in secondo piano rispetto alla speranza che il vecchio statista riuscisse a domare l’opposizione socialista con le arti del compromesso parlamentare. In effetti, nei dodici mesi in cui tenne la guida dell’esecutivo, Giolitti diede prova ancora una volta di abilità e di energia. I risultati più importanti li ottenne in politica estera, imboccando l’unica strada praticabile per la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato diretto con la Jugoslavia. Il negoziato si concluse, il 12 novembre 1920, con la firma del trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all’Italia. Fiume fu dichiarata città libera (sarebbe diventata italiana, grazie a un successivo accordo con la Jugoslavia, nel 1924). Il trattato fu accolto con generale favore dall’opinione pubblica e dalle forze politiche. A Fiume, intanto, D’Annunzio annunciava una resistenza a oltranza; ma, quando, il giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la città dalla terra e dal mare, preferì abbandonare la partita.

Il trattato di Rapallo

Più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna, in un periodo (il “biennio rosso” 1919-20) segnato in tutta Europa da lotte operaie e agitazioni sindacali. Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo del pane (tenuto artificialmente basso, a spese dell’erario, fin dagli anni della guerra) e avviò così il risanamento del bilancio statale. Non riuscì invece a rendere operanti i progetti fiscali, che sarebbero poi stati affossati dai successivi governi. Ma a fallire fu soprattutto il disegno politico complessivo dello statista piemontese: disegno che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforma, nel ripetere insomma l’esperimento già tentato con qualche successo ai primi del secolo. In realtà, quell’esperienza non era ripetibile: i liberali non avevano più la solida maggioranza dell’anteguerra; i socialisti erano su posizioni molto diverse da quelle di vent’anni prima; i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo subalterno cui Giolitti avrebbe voluto costringerli; il centro della politica si era ormai spostato dal Parlamento ai partiti.

I limiti del disegno giolittiano

I conflitti sociali del “biennio rosso” italiano conobbero il loro episodio più drammatico nell’estate-autunno del ’20 con l’agitazione degli operai metalmeccanici culminata nell’occupazione delle fabbriche. La vertenza v­ edeva contrapporsi gli industriali del settore, nucleo di punta del mondo imprenditoriale, e i metalmeccanici, una categoria operaia compatta e combattiva, guidata dal più forte fra i sindacati aderenti alla Confederazione generale del lavoro (Cgl): la Federazione italiana operai metallurgici (Fiom). A Torino e in altri centri industriali del Nord si era poi sviluppata, fuori dal sindacato, l’esperienza dei consigli di fabbrica, ispirata al modello dei soviet e animata dal gruppo di giovani intellettuali che si riunivano attorno alla rivista «L’Ordine Nuovo» [►6_2]. Fu la Fiom a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di agosto, in risposta alla chiusura degli stabilimenti attuata da un’industria milanese, la Fiom ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche. Nei primi giorni di settembre, 400 mila operai occuparono gli stabilimenti metallurgici e meccanici del Nord, issarono le bandiere rosse sui tetti delle officine e organizzarono servizi armati di vigilanza (le “Guardie rosse”).

212

L’occupazione delle fabbriche

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

Operai durante l’occupazione delle fabbriche nel “biennio rosso” [20 settembre 1920] Nel 1919-20 la mobilitazione sociale e politica in Italia coinvolse ampi strati popolari, contadini e operai. Le aspettative rivoluzionarie raggiunsero il culmine nel settembre del 1920 con l’occupazione delle fabbriche. Nella foto, operai in armi durante l’occupazione delle fabbriche.

Raduno in occasione del XVII congresso nazionale socialista di Livorno gennaio 1921 Nel gennaio 1921, al congresso socialista tenutosi a Livorno, la minoranza di sinistra guidata da Amadeo Bordiga abbandonò il Psi, il cui massimalismo riteneva solamente verbale e non sostenuto da una coerente politica rivoluzionaria, e costituì il Partito comunista d’Italia.

Molti lavoratori in lotta vissero questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario destinato a estendersi a tutto il paese. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche e di porsi in modo concreto il problema del potere. Prevalse invece la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano riportare la vertenza nei binari di una lotta sindacale. Tale esito fu favorito dall’iniziativa mediatrice di Giolitti, che si attenne a una linea di rigorosa neutralità fra sindacato e industriali, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica contro le fabbriche occupate. Si giunse così a un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom e affidava a una commissione paritetica l’incarico di elaborare un progetto (che peraltro non avrebbe mai trovato attuazione pratica) per la partecipazione dei sindacati al controllo delle aziende. Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma diffuso era anche il senso di delusione rispetto alle attese maturate nei giorni dell’occupazione. D’altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la “grande paura” della rivoluzione, si apprestava a sfruttare ogni occasione di rivincita.

Le attese rivoluzionarie e il compromesso sindacale

Le polemiche interne al movimento operaio si intrecciarono con le fratture provocate dal II congresso del Comintern, dove erano state fissate le condizioni per l’ammissione all’Internazionale comunista [►5_4]. Serrati e i massimalisti rifiutarono queste condizioni. Così al congresso del Psi, che si tenne a Livorno nel gennaio 1921, i riformisti non vennero espulsi e fu invece la minoranza di sinistra guidata METODO DI STUDIO da Bordiga ad abbandonare il Psi per formare il Partito comunista d’Italia. Il nuo a   Trascrivi sul quaderno le informazioni principali che riguardano i seguenti aspetti relativi al vo partito nasceva con una base piuttosto ristretta e con un programma rigorosagoverno Giolitti: a. il programma e le azioni politiche mente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria andava del governo Giolitti; b. il trattato di Rapallo e le sue svanendo in tutta Europa [►5_6]. L’occupazione delle fabbriche e la scissione di conseguenze; c. la controversia fra gli industriali e gli operai metalmeccanici e i suoi sviluppi. Prima di Livorno segnarono la fine del “biennio rosso” in Italia. Provato da due anni di procedere indica, con la lettera corrispondente, le lotte e indebolito dalle divisioni interne, il movimento operaio cominciò ad accuporzioni di testo contenenti le risposte. sare i colpi della crisi che stava investendo l’economia italiana. In questo quadro,  b   Spiega per iscritto il significato dell’espressione “biennio rosso” e riassumi sinteticamente gli in larga parte comune a tutta l’Europa, si inserì un fenomeno che invece non aveva eventi che ne determinarono la fine. riscontro in nessun altro paese: lo sviluppo improvviso del movimento fascista.

La nascita del Partito comunista

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA



6_4 L’OFFENSIVA FASCISTA

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Fino all’autunno del ’20, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella politica italiana: nelle elezioni del 1919 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di voti e nessun deputato. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il movimento subì però un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l’originario programma radical-democratico, a organizzare formazioni paramilitari – le squadre d’azione – e a condurre una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Val Padana. Questa trasformazione da piccolo movimento di ceti medi urbani a partito armato radicato nelle campagne (per questo si parlò di “fascismo agrario”) si spiega in parte con la scelta di Mussolini di assecondare l’ondata antisocialista seguita al “biennio rosso”; in parte con la particolare situazione delle campagne padane, dove lo squadrismo fascista si sviluppò e dove più forte era la presenza delle leghe rosse.

Il fascismo agrario

► Personaggi Benito Mussolini, il duce del fascismo, p. 216 ► Parole della storia Squadrismo, p. 215 ► Laboratorio di cittadinanza Lo Stato e il monopolio della forza, p. 226

In due anni di lotte aspre e quasi sempre vittoriose, le leghe di molte province padane non solo avevano ottenuto notevoli miglioramenti salariali, ma avevano creato un “sistema” apparentemente inattaccabile: attraverso i loro uffici di collocamento, controllavano il mercato del lavoro, contrattando con i proprietari il numero di giornate lavorative necessarie alla coltivazione di un fondo e distribuendone il carico fra i propri associati. I socialisti disponevano inoltre di una fitta rete di cooperative e avevano in mano buona parte delle amministrazioni comunali. Il sistema non era privo di aspetti autoritari (chi si sottraeva alla disciplina della lega veniva boicottato, in pratica bandito dalla comunità) e celava al suo interno non poche contraddizioni: prima fra tutte il contrasto fra la strategia delle organizzazioni socialiste – che privilegiavano il ruolo dei braccianti senza terra e indicavano come obiettivo finale la socializzazione – e gli interessi delle categorie intermedie, ossia dei mezzadri, dei piccoli affittuari, dei salariati fissi stabilmente impiegati nell’azienda agraria, che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei lavoratori giornalieri e a trasformarsi in proprietari.

Il sistema delle leghe

Fu l’offensiva fascista ad aprire le prime brecce nell’edificio delle organizzazioni rosse. Il 21 novembre 1920 a Bologna gli squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie dentro e fuori il municipio. Per un tragico errore i socialisti incaricati di difendere il Palazzo d’Accursio, sede del comune, gettarono bombe a mano sulla folla, composta in gran parte dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Episodi analoghi si verificarono un mese dopo a Ferrara, dopo l’uccisione di tre fascisti. In entrambi i casi i socialisti furono colti di sorpresa e non riuscirono a organizzare reazioni adeguate. La loro incertezza e la loro vulnerabilità accrebbero l’audacia degli avversari.

I fatti di Palazzo d’Accursio

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I proprietari terrieri scoprirono allora nei Lo squadrismo Fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove reclute: ex ufficiali e soldati reduci della Grande Guerra (tra

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Camion di fascisti di Alessandria di ritorno da una “azione” 1920 Le cosiddette “azioni” delle squadre fasciste, vere e proprie spedizioni punitive, potevano coinvolgere pochi squadristi come anche gruppi consistenti di diverse centinaia di uomini. Preso di mira un obiettivo, un luogo o una o più persone, si organizzava la missione: incendi, devastazioni, percosse, sevizie, fino all’eliminazione fisica degli avversari, dovevano servire da esempio per chi ancora sperava di contrastare il crescente potere del fascismo.

cui numerosi ex Arditi, ►4_6), che faticavano a reinserirsi nella vita civile; ma anche figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano l’occasione per combattere una loro battaglia contro quelli che consideravano nemici della patria. Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche ad altre zone del Centro-Nord, mentre pressoché immune dal contagio fascista rimaneva il Mezzogiorno, con l’eccezione della Puglia dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste. L’offensiva ebbe ovunque le stesse caratteristiche. Le squadre d’azione, inquadrate militarmente, partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le campagne, verso i centri rurali [►FS, 52d]. Obiettivo delle spedizioni erano non solo le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste – i municipi, le Camere del lavoro, le leghe, le Case del popolo –, che vennero sistematicamente devastate e incendiate, ma le persone stesse, dirigenti e militanti socialisti, sottoposti a ripetute violenze, in qualche caso uccisi e spesso costretti a lasciare il loro paese. Le amministrazioni locali “rosse” della Val Padana furono in buona parte costrette a dimettersi. Centinaia di leghe furono sciolte e molti dei loro aderenti passarono, per scelta o per costrizione, alle nuove organizzazioni costituite dagli stessi fascisti, che promettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà.

Le tecniche squadriste

Milano, agosto 1922. I fascisti presidiano la sede del giornale socialista «Avanti!» appena devastata

Il successo dell’offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine “militare”; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che pure furono molti e di non poco conto: primo fra tutti quello di ferire i sentimenti patriottici dei ceti medi e di spaventarli con la promessa di una prossima e cruenta resa dei conti rivoluzionaria. In realtà il movimento operaio, nel 1921-22, si trovò a combattere una lotta impari contro un nemico che poteva giovarsi della benevola neutralità, o addirittura dell’aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli apparati statali. Raramente la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i “rossi”, si oppose con efficacia alle azioni squadristiche. La stessa

I fattori del successo

Parole della storia

Squadrismo

I

l termine “squadrismo” entrò nel linguaggio politico italiano nel primo dopoguerra in riferimento alle azioni di violenza organizzata e pianificata condotte dalle formazioni paramilitari fasciste (le squadre d’azione) contro le sedi e le persone fisiche dei loro avversari politici. Le origini e gli sviluppi dello squadrismo italiano, come di fenomeni analoghi manifestatisi in altri paesi europei (si pensi soprattutto alla Germania dei corpi franchi [►5_4] e delle Sa naziste [►8_3 e 8_4]), si collegano strettamente all’esperienza della Grande Guerra, sia per le modalità organizzative delle squadre (per lo più comandate da ex

ufficiali), sia per i rituali e i simboli adottati. E certamente all’esperienza bellica vanno fatti risalire la violenza spesso efferata e il diffuso disprezzo per la vita umana che furono orgogliosamente esibiti come tratti caratterizzanti dell’attività squadristica. Negli anni del suo massimo sviluppo, tra la fine del 1920 e l’estate del 1922, il fascismo squadrista, quello che aveva le sue roccheforti nelle province padane, fu considerato da molti cosa diversa dal fascismo politico, a base essenzialmente urbana e impersonato soprattutto da Mussolini, e per una breve fase gli si contrappose esplicitamente. In realtà i “due fascismi” erano le facce di una stessa medaglia, nessuna delle quali avrebbe potuto prescindere dall’altra. Sarebbe

comunque riduttivo vedere nello squadrismo un semplice braccio armato del fascismo o della reazione padronale. Le squadre furono invece non solo il nucleo costitutivo dell’intero movimento, ma anche le depositarie dei suoi rituali (le bandiere, le sfilate, i canti, le parole d’ordine, il culto dei caduti), le custodi della sua anima “rivoluzionaria” e della sua vocazione totalitaria. In quanto fenomeno politico rilevante, invece, lo squadrismo si esaurì con la trasformazione del fascismo in regime. Da allora si parla genericamente di squadrismo per definire, e stigmatizzare, azioni di violenza compiute in gruppo, e per motivi politici, contro persone e cose riconducibili a uno schieramento avverso [►FS, 52d].

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magistratura adottò nei loro confronti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi di sinistra. Ma pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, pensò di servirsi del movimento fascista per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e di poterlo in seguito assorbire nella maggioranza liberale.



METODO DI STUDIO

 a   Cerchia con colori differenti le parole chiave che fanno riferimento alle squadre d’azione e alle leghe rosse. Quindi, argomenta la tua scelta.  b   Descrivi per iscritto il ruolo dei proprietari terrieri, delle squadre d’azione e delle leghe rosse nel contesto storico. Quindi, spiega la relazione esistente fra di essi.  c   Sottolinea con colori diversi le informazioni principali relative ai seguenti temi: a. in cosa consistevano le tecniche squadriste; b. a chi erano rivolte; c. cosa ne decretò il successo.

6_5 MUSSOLINI ALLA CONQUISTA DEL POTERE

Nelle elezioni del maggio 1921 il disegno di Giolitti si concretizzò con l’ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi “costituzionali” (conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali tipici dello squadrismo. Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze contro gli avversari. Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una limitata flessione. I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento. In definitiva, la maggior novità fu costituita dall’ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale.

► Leggi anche: ► Eventi La marcia su Roma, p. 218

Le elezioni del 1921

PERSONAGGI

Benito Mussolini, il duce del fascismo

È

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stato il padre del fascismo e per venti anni il padrone incontrastato dell’Italia. Nato a Dovia di Predappio, un paesino della provincia romagnola, Benito Mussolini (1883-1945) proveniva da una famiglia piccolo-borghese formatasi durante le lotte risorgimentali e le agitazioni sociali della seconda metà dell’800: in casa si parlava l’italiano, non il dialetto, e l’immagine di Garibaldi era appesa accanto a quella della Madonna. La madre Rosa era una maestra, il padre Alessandro, fabbro e poi gestore di una locanda, da militante socialista trasmise al figlio le sue idee politiche repubblicane e anticlericali. Bambino turbolento, il piccolo Benito (che doveva il suo nome a Benito Juárez, eroe dell’indipendenza messicana) fu espulso dal collegio salesiano dove era stato mandato a imparare la disciplina: a scuola però, tra una rissa e l’altra, ottenne sempre ottimi risultati. La propensione alle bevute, alle risse e alle relazioni con donne sposate non facilitò la sua carriera di maestro, intrapresa dopo gli studi. Disoccupato e depresso, nel 1902 emigrò in Svizzera: vi restò due anni, nel corso dei quali cominciò a fare politica come giornalista e agitatore sindacale tra i manovali e i mura-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

tori italiani. Strinse amicizia con alcuni leader del socialismo italiano all’estero, che lo avvicinarono allo studio del marxismo. Avido lettore dei filosofi tedeschi Nietzsche e Schopenhauer, si appassionò in questo periodo alle idee del rivoluzionario francese Auguste Blanqui, teorico dell’insurrezione come unico mezzo per instaurare il socialismo. Rientrato in Italia per adempiere agli obblighi militari e per stare vicino alla madre Rosa (che morì nel 1905), Mussolini cominciò a ritagliarsi la fama di socialista intransigente, avverso al riformismo di Turati e Bissolati e al parlamentarismo borghese di Giolitti. Nel 1909 divenne segretario della Camera del lavoro di Trento. Espulso dall’Impero asburgico per il suo estremismo, rientrò in Italia e nel 1910, a 27 anni, divenne segretario della federazione socialista della Romagna, attraendo molti nuovi iscritti. La sua notorietà si consolidò con la partecipazione alle proteste di piazza contro la guerra di Libia del 1911, a fianco di attivisti come Pietro Nenni, con il quale strinse amicizia nei pochi mesi passati in carcere. Forte del prestigio acquisito, divenne in breve tempo un punto di riferimento per l’ala intransigente che si sarebbe affermata nel congres-

Benito Mussolini, presidente del Consiglio

so del Partito socialista di Reggio Emilia (luglio 1912), grazie anche alla sua capacità oratoria dal palco. Nominato direttore dell’«Avanti!», impresse una svolta rivoluzionaria al giornale, aumentandone di migliaia di copie la diffusione e confermando così le sue grandi doti giornalistiche.

L’esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all’ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all’inizio di luglio. Il suo successore, l’ex socialista Ivanoe Bonomi [►3_7], tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d’armi fra le due parti in lotta. Nell’agosto 1921, fu in effetti firmato un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti con cui le due parti si impegnavano a rinunciare alla violenza e a sciogliere le loro formazioni armate: i socialisti, in particolare, accettavano di sconfessare le formazioni degli “Arditi del popolo”, ossia quei gruppi di militanti che si erano formati spontaneamente in alcune città per contrastare lo squadrismo fascista. Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico “ufficiale” e temeva il diffondersi di una reazione popolare contro lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti ras. I ras (Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i più noti) sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione l’autorità di Mussolini.

Il patto di pacificazione

La ricomposizione si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre. Mussolini si rese conto di non poter fare a meno della massa d’urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione ras (che del resto non aveva mai funzionato sul serio). I ras riconobbero la guida In Etiopia il ras era un signore feudale, poi il termine fu politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in usato per indicare le più alte cariche dello Stato dopo il negus (re). Questo termine fu ripreso in senso spregiativo un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d’adagli avversari di Mussolini per indicare i capi locali del zione. Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf), che poteva contare su fascismo, accusati di esercitare il loro potere in forme una base di oltre 200 mila iscritti, in gran parte nelle regioni del Centro-Nord. dispotiche e arbitrarie.

La nascita del Pnf

Fu lo scoppio della guerra mondiale a determinare una frattura insanabile con l’ambiente politico che lo aveva visto crescere. Dopo aver sposato la linea del rifiuto della guerra, nell’ottobre 1914 Mussolini divenne sostenitore di un intervento italiano. Sconfessato dal partito, si dimise da direttore dell’«Avanti!», fondò un suo quotidiano, «Il Popolo d’Italia», e fu per questo espulso dal Psi. Eppure, la sua fu una guerra combattuta non da eroe: era stato richiamato come caporale tra i bersaglieri e fu congedato per le ferite riportate durante un’esercitazione. Tornato alla vita civile, si trovò isolato e attaccato da sinistra: la sconfitta di Caporetto fu per lui uno shock che lo convinse a intensificare dalle pagine del suo giornale la campagna contro il disfattismo dei suoi ex compagni. Una battaglia che sarebbe proseguita nel dopoguerra e avrebbe visto Mussolini dar vita a un nuovo movimento politico votato alla violenza, i Fasci di combattimento (marzo 1919). Dalla fondazione dei Fasci in poi, la vita di Mussolini fu strettamente legata alle vicende del movimento di cui fu “duce” (“capo, condottiero”, dal latino dux) e mente politica. Quando nel 1921 entrò in Parlamento, l’ex squattrinato giornalista aveva cominciato a frequentare, con sempre minor disagio, i salotti della borghesia e dell’alta società, dove cer-

cava il consenso tra moderati e imprenditori che vedevano in lui e nelle squadre fasciste un argine alla minaccia socialista. A introdurlo ulteriormente in questi ambienti fu la scrittrice Margherita Sarfatti, figlia di una ricca famiglia ebraica veneziana e conosciuta già nel 1912. Per molti anni fu non solo l’amante di Mussolini ma anche una sua saggia consigliera: i suoi scritti celebrativi contribuirono ad alimentare il mito popolare del duce. A 39 anni, Mussolini divenne il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia. Convinto delle sue qualità di capo carismatico, fu sempre impegnato a dare di sé un’immagine di uomo dalle doti eccezionali, studiando nei dettagli quelli che all’inizio erano stati gesti e atteggiamenti frutto di improvvisazione (come il modo di parlare in pubblico). La sua vita pubblica coincise spesso con quella privata, anche per motivi di opportunismo politico: dopo la firma del Concordato con la Chiesa cattolica (1929), sposò anche in chiesa Rachele Guidi (la madre dei suoi cinque figli, con cui conviveva dal 1910 ed era sposato con rito civile dal 1915), come lui anticlericale convinta; allo stesso tempo, però, non rinunciava alle sue relazioni extraconiugali, note a tutti e apprezzate come segno di virilità. L’immagine dell’uomo pubblico forte e deciso, tuttavia, contrastava con quella più inti-

ma: era spesso depresso, e lo stress gli provocava fortissime ulcere. Maniaco dell’ordine, cercava sempre di avere il controllo su tutto: non riponeva la minima fiducia in chi gli stava intorno, anche tra i più vicini e fedeli compagni, una tendenza che si acuì col tempo portandolo a un sempre maggiore isolamento personale e politico. A metà degli anni ’30 interruppe la relazione con la Sarfatti e perse il fratello Arnaldo, le uniche due persone di cui si fidava veramente. Fu un vuoto riempito solo in parte dalla nuova amante Claretta Petacci, giovane donna della borghesia romana, che rappresentò per l’invecchiato duce un elemento di freschezza e un conforto negli ultimi, drammatici anni di vita. Fu forse la consapevolezza di non essere riuscito a trasformare la società italiana a spingerlo verso scelte sempre più radicali e a un’alleanza politica e militare con Adolf Hitler che egli aveva sempre considerato un “pericoloso psicopatico”. Stanco e deluso dal tradimento dei suoi gerarchi del 25 luglio 1943, visse i mesi della Repubblica di Salò tra momenti di ottimismo per il futuro, voglia di riscatto e lunghi periodi di depressione e sfiducia. Alla fine scontò con la vita la scelta di aver gettato il paese in una guerra disastrosa e di aver legato le sue sorti a quelle della Germania hitleriana.

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

Il ministero Bonomi cadde nel febbraio del 1922. Alla guida del governo fu allora chiamato Luigi Facta, un giolittiano di scarsa autorevolezza. Il governo non mise alcun freno alla violenza fascista che si rese protagonista di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie che coinvolgevano intere province, occupazione in armi di grandi centri, come Ferrara, Bologna e Cremona. All’inizio di agosto, in risposta alla decisione dei dirigenti sindacali di proclamare uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà costituzionali, i fascisti lanciarono una nuova e più violenta offensiva. Il movimento operaio non seppe opporre all’attacco squadrista né una mobilitazione di massa né un’iniziativa politica volta ad appoggiare, come chiedevano i riformisti, un governo capace di far rispettare la legge. L’unica conseguenza dei dissensi all’interno del partito fu una nuova e ormai inutile scissione. Ai primi di ottobre del 1922 – poche settimane prima che il fascismo andasse al potere –, in un congresso tenuto a Roma, i riformisti guidati da Turati abbandonarono il Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario (Psu).

L’agonia dello Stato liberale

Il doppio gioco di Mussolini

Sconfitto il movimento operaio, il fascismo doveva porsi il problema della conquista dello Stato. Solo insediandosi al potere il partito avrebbe potuto andare incontro alle aspettative delle masse ormai ingenti che si raccoglievano nelle

EVENTI

La marcia su Roma

C

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apita spesso che le date indicate come fondative di un’epoca non corrispondano, o corrispondano solo approssimativamente, alla vicenda di cui sono il simbolo. In realtà, il 28 ottobre 1922 – data ufficiale della marcia su Roma e inizio del nuovo calendario dell’“era fascista” – non accadde nulla di particolarmente memorabile: non l’entrata delle milizie fasciste nella capitale e, conseguentemente, nemmeno quella di Mussolini alla loro testa. Questa data, tuttavia, segnò la fine delle istituzioni liberali e l’inizio della dittatura fascista in Italia. Dopo due anni di attacchi sempre più frequenti contro sedi socialiste, Camere del lavoro, quartieri tradizionalmente operai, palazzi municipali amministrati da giunte rosse (ma anche popolari o repubblicane), nell’autunno del 1922 Benito Mussolini cominciò a temere che le fortune del fascismo potessero declinare, in mancanza di un esito politico che lo portasse a occupare i vertici dello Stato. Per questo, pur continuando a trattare con i maggiori esponenti della classe dirigente liberale un ingresso legale nel governo, intensificò i preparativi per una “marcia su Roma” presentata come un atto di forza diretto alla presa violenta del potere. Il 16 ottobre 1922, riunì quindi a Milano i capi della Milizia fascista, che si era appena data un’organizzazione nazionale, per definire le linee di un’azione militare, affidando la gestione dell’operazione a un quadrumvirato compo-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

sto dal segretario del Partito nazionale fascista (Pnf) Michele Bianchi, e dai comandanti della Milizia: Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi e il generale Emilio De Bono. Come sede del comando insurrezionale fu scelto l’Hotel Brufani a Perugia. Per il 24-26 ottobre, intanto, era già stato organizzato il congresso del Pnf a Napoli, che fu raggiunta da 30-40 mila camicie nere: adunate e sfilate, accompagnate da azioni violente, si svolsero nella città partenopea. Mentre si diffondevano le voci sull’imminente colpo di Stato fascista, a Napoli fu elaborato definitivamente il piano per la conquista di Roma. Nel diario di Balbo di quei giorni si legge che fu deciso per «il 28, scatto sugli obiettivi parziali, che sono prefetture e questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi, stazioni radio, giornali e circoli antifascisti, Camere del lavoro. Una volta conquistate le città, nella stessa giornata, si proceda al concentramento delle squadre sulle colonne designate per la marcia su Roma [...]. La mattina del 28 scatto sincrono delle tre colonne sulla Capitale». Gli squadristi avrebbero dovuto concentrarsi a Santa Marinella, Tivoli e Monterotondo, per poi raggiungere Roma e prendere militarmente possesso dei ministeri. Mussolini sarebbe invece rimasto a Milano, in parte per poter fuggire in Svizzera in caso di insuccesso, in parte per potersi accreditare davanti al re Vittorio Emanuele III e alle istituzioni come l’unico in grado di impedire la marcia. Il duce, del resto, non voleva

lo scontro diretto con le istituzioni, ma cercava l’accordo con esse, nella consapevolezza di rappresentare tanto il problema quanto la sua soluzione. Le operazioni militari iniziarono la sera del 27, con l’occupazione di Pisa e di Cremona, per poi proseguire il giorno successivo: prefetture, caserme, tipografie, stazioni, uffici pubblici, postali, telefonici e telegrafici, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, furono occupati dai fascisti, nella sostanziale passività delle autorità pubbliche. I prefetti, in molti casi, cedettero pacificamente i loro poteri agli squadristi. Ma la conquista di Roma era, evidentemente, cosa diversa e più complicata. Le autorità non avrebbero potuto assistere senza reagire all’occupazione della capitale, sede della monarchia, del governo e del Parlamento. La sera del 27, il re si disse pronto a impedire l’ingresso a Roma delle squadre fasciste. Intorno alla mezzanotte, mentre il governo Facta preparava in gran fretta il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio, la città passò sotto il controllo del generale Emanuele Pugliese, comandante di una divisione di fanteria di stanza nella capitale. Nella mattinata del 28, però, Vittorio Emanuele III decise di non firmare il decreto di stato d’assedio proposto dal governo: il sovrano dimostrò così di non voler liquidare il movimento fascista, pensando probabilmente di poter risolvere la crisi con la concessione di qualche ministero. Alle ore 11, quindi, il governo presentò ufficialmente le sue dimissioni e il re cominciò le consultazioni

sue file ed evitare il pericolo di una reazione di rigetto da parte di quelle forze moderate che, avendo appoggiato lo squadrismo in funzione antisocialista, avrebbero potuto ritenerne ormai esaurito il ruolo. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all’iniziativa privata. Dall’altro lasciò che l’apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di Stato. Prese così corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto agguerrite, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l’esercito regolare. Ne era consapevole lo stesso Mussolini, che contava soprattutto sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della monarchia. In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali, decisivo fu l’atteggiamento del re. Spaventato dalla prospettiva di una guerra

La marcia su Roma

per formare un nuovo esecutivo: ma a questo punto Mussolini, comprendendo di avere vinto, non si accontentò della partecipazione a un governo liberale e chiese di essere chiamato lui stesso alla presidenza del Consiglio. Sotto una pioggia incessante, intanto, le camicie nere avevano cominciato a radunarsi nelle località stabilite. Le cifre sugli squadristi pronti a marciare su Roma, che si concentrarono con notevoli difficoltà e ritardi, dovuti anche ai blocchi ferroviari decisi dal governo, sono incerte: probabilmente erano circa 15 mila il 28 ottobre e raggiunsero i 25.400 due giorni dopo. La capitale era, invece, difesa da 28 mila militari, che certamente avrebbero avuto la meglio sulle squadre fasciste, male armate e disorganizzate. Vista l’incertezza politica, i quadrumviri fermarono gli squadristi sulla strada per Roma, in attesa che la situazione politica fosse

meglio definita: chiamate a un’azione eroica, le camicie nere furono costrette ad un’attesa lunga e snervante. La pioggia, intanto, continuava a cadere incessantemente e i fascisti avevano enormi difficoltà a procurarsi viveri, tende e acqua potabile. Il pomeriggio del 29, Vittorio Emanuele III decise di assegnare a Mussolini l’incarico di costituire un nuovo governo. Informato di ciò, Mussolini prese, da Milano, un treno notturno diretto nella capitale; e, stanchi e fradici, la notte tra il 29 e il 30 cominciarono a partire per Roma anche gli squadristi. Mussolini arrivò nella capitale alle 10.50 del 30 ottobre. Alle 11.15 si recò al Quirinale per parlare con il re – a cui, disse, portava «l’Italia di Vittorio Veneto» – per l’assegnazione dell’incarico di governo. Durante il colloquio fu deciso anche di far sfilare le squadre fasciste, pronte a “marciare” sulla capitale, davanti al Milite

Arrivo a Roma di alcune squadre d’azione fasciste ottobre 1922 [Istituto Luce, Roma] Una colonna di fascisti armati di bastoni, con elmetti e camicia nera, sfila ordinatamente in Largo Chigi a Roma.

Ignoto, di farle giungere al Quirinale per salutare il sovrano e di farle quindi rientrare nelle loro sedi. Alle 13.30 del 30 ottobre cessarono i blocchi stradali e gli squadristi poterono entrare a Roma, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dei massimi vertici dello Stato. La mattina del 31, sfilò a Roma il corteo fascista, a cui parteciparono circa 50 mila persone: l’unica “marcia su Roma” avvenne quindi con tre giorni di ritardo e dopo l’approvazione delle autorità. A Roma, però, l’opposizione antifascista non era stata ancora ridotta al silenzio e alcuni incidenti si verificarono tra i fascisti e gli abitanti dei quartieri operai e popolari, ad esempio a San Lorenzo, in via Tiburtina, a Borgo Pio, a Porta Pia e al quartiere Trionfale: i morti superarono la decina. Le abitazioni di diversi politici antifascisti furono invase e saccheggiate. Fin da subito il fascismo provò ad accreditare la marcia su Roma come una rivoluzione. Gli storici non hanno però ancora raggiunto una posizione definitiva: se per alcuni, infatti, non fu una rivoluzione (perché parte dell’apparato statale appoggiò la mobilitazione), né un colpo di Stato (perché la lettera dello Statuto albertino non fu tradita), per altri la mobilitazione dell’ottobre 1922 rientra nel modello europeo della “rivoluzione conservatrice”. Certamente, comunque, la mobilitazione fascista dell’ottobre 1922 fu una pressione decisa e violenta sulle istituzioni e sul ceto politico che condusse all’atto eversivo di maggiore portata mai compiuto nella storia dell’Italia unitaria.

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

▲  Squadra

fascista di Bari in partenza per la marcia su Roma ottobre 1922 [per gentile concessione dell’Archivio Ficarelli, Bari]

►  Marcello

Dudovich, Cartolina con uno squadrista dopo l’“azione” 1924 [Fototeca storica nazionale, Roma; © Marcello Dudovich, by SIAE 2018]

civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre 1922, il giorno fissato per la marcia fascista sulla capitale, di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal governo Facta, già dimissionario [►FS, 53]. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere (così venivano chiamati gli squadristi per via della loro divisa) la strada per la capitale e al loro capo la via del potere: forte della resa ottenuta, Mussolini non si accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre 1922, mentre gli squadristi entravano nella capitale senza incontrare alcuna resistenza da parte della forza pubblica, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo ministero era già pronto. Ne facevano parte, oltre ai fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari.

Il governo Mussolini

La crisi si era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo. I fascisti gridarono al trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in realtà era stata soltanto simulata. I moderati si rallegrarono perché la legalità costituzionale, violata nei fatti, era stata rispettata almeno nelle forme. I rivoluzionari (socialisti massimalisti e comunisti) si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza, dal momento che ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe. Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione. Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime. 220

Cambio di governo o nuovo regime?

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea i passaggi che portarono alla nascita del Partito nazionale fascista. Quindi, scrivi per ognuno di essi un titoletto a margine del paragrafo.  b   Cerchia i nomi dei capi di governo presenti nel testo, trascrivili sul tuo quaderno e indica per ognuno di essi quali reazioni ebbero verso le azioni fasciste.  c   Costruisci sul quaderno una scaletta che sintetizzi la strategia portata avanti da Mussolini per raggiungere il potere e spiega il ruolo della “marcia su Roma” all’interno di questa strategia.



6_6 VERSO IL REGIME

Salito al potere con una finta rivoluzione, Mussolini, con 35 deputati (meno del 7% dei seggi), non disponeva di una sua maggioranza alla Camera. Riuscì ugualmente a consolidare il suo potere grazie anche al sostegno delle forze moderate, liberali e cattoliche (i cosiddetti “fiancheggiatori”), che facevano parte della maggioranza di governo e che continuarono a garantire il loro appoggio in Parlamento anche quando fu chiaro che il Partito fascista intendeva assumere un ruolo incompatibile con i princìpi basilari dello Stato liberale. Nel dicembre 1922 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio 1923 le squadre fasciste vennero inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo dichiarato quello di «proteggere gli inesorabili sviluppi della rivoluzione», ma che, nelle intenzioni di Mussolini, doveva anche disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei ras. L’istituzionalizzazione della Milizia non servì peraltro a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la repressione “legale” condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia mediante sequestri di giornali, scioglimenti di amministrazioni locali, arresti preventivi di militanti. Le vittime principali furono i comunisti, costretti già dal 1923 a una sorta di semiclandestinità. Le conseguenze di questa azione combinata su quel che restava delle organizzazioni del movimento operaio furono disastrose. Il numero degli scioperi, già in rapido calo a partire dal ’21, scese nel ’23 a livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione, riavvicinandosi ai livelli dell’anteguerra.

Il Gran consiglio e la Milizia

La compressione dei salari era del resto una componente importante della politica economica del governo che, fedele alle promesse della vigilia, mirò soprattutto a restituire libertà d’azione e margini di profitto all’iniziativa privata. Fu alleggerito il carico fiscale sulle imprese, privatizzato il servizio telefonico e contenuta la spesa statale con un energico sfoltimento dei dipendenti pubblici (vennero colpiti soprattutto i ferrovieri, una delle categorie più sindacalizzate). Sul piano economico e finanziario, la politica liberista ottenne discreti successi: fra il ’22 e il ’25 vi fu un notevole aumento della produzione e il bilancio dello Stato tornò in pareggio. Il risultato era in buona parte dovuto all’opera degli ultimi ministeri liberali, ma valse ugualmente a rafforzare il governo e a rinsaldare i legami fra potere economico e fascismo.

La ripresa economica

Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui, dopo l’elezione del nuovo papa Pio XI nel febbraio 1922, stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Per molti cattolici il fascismo, al di là dei suoi orientamenti ideologici, aveva il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista. Dal canto suo Mussolini, abbandonati i toni anticlericali del primo fascismo, si mostrò disposto a importanti concessioni. La riforma scolastica varata nella primavera del 1923 dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile, prevedeva l’insegnamento della religione nelle scuole elementari e l’introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi: una misura da tempo richiesta dai cattolici, in quanto metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e private. La prima vittima dell’avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato ormai dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via del miglioramento dei rapporti

Chiesa e istruzione

Mussolini pronuncia un discorso alla Casa del soldato di Milano 1923

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

con lo Stato. Nell’aprile 1923 Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari dal suo governo. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la segreteria del Ppi. Liberatosi del più scomodo fra i suoi alleati, Mussolini aveva il problema di crearsi una sua maggioranza parlamentare, affermando al tempo stesso la posizione di preminenza del fascismo. Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nell’estate del 1923 col voto favorevole di buona parte dei liberali e dei cattolici di destra. La legge Acerbo (così chiamata dal nome dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio) avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa (con almeno il 25% dei voti), assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando, all’inizio del 1924, la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali (compresi Orlando e Salandra) e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate in tutti i collegi col simbolo del fascio. Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. I socialisti, i comunisti, i popolari, i liberali di opposizione guidati da Giovanni Amendola e gli altri partiti minori si presentarono ciascuno con proprie liste: il che significava condannarsi a sicura sconfitta.

La nuova legge elettorale

Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia nel corso delle votazioni, che ebbero luogo il 6 aprile 1924. La scontata vittoria fascista assunse così proporzioni clamorose, tanto da rendere inutile il meccanismo della legge maggioritaria: le “liste nazionali”, infatti, ottennero il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. Il successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle regioni in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era rapidamente imposto grazie all’adesione dei notabili moderati e delle loro clientele.

Le elezioni del ’24

▲ Achille

Luciano Mauzan, Manifesto elettorale per la Lista nazionale 1924 [Civica Raccolta delle Stampe A. Bertarelli, Milano; © Lucien A. Mauzan, by SIAE 2018]

Poco più di due mesi dopo le elezioni, un evento tragico e inatteso intervenne a mutare bruscamente lo scenario. Il 10 giugno 1924, il deputato socialista Giacomo Matteotti fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi, caricato a forza su un’auto e ucciso

Il delitto Matteotti

notizia del ritrovamento del cadavere di Matteotti sulla prima pagina del «Mondo» 17 agosto 1924 Il delitto Matteotti suscitò grande sconcerto e indignazione nell’opinione pubblica. Il corpo fu ritrovato, crivellato di pugnalate, due mesi dopo in un bosco vicino a Roma. Il quotidiano politico indipendente «il Mondo» riportò la notizia in prima pagina accusando duramente Mussolini e il Partito fascista. Il giornale fu soppresso nell’ottobre del 1926.

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◄ La

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

a pugnalate. Il suo cadavere, abbandonato in una macchia boscosa a pochi chilometri dalla capitale, sarebbe stato trovato solo due mesi dopo. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera una durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e contestando la validità dei risultati elettorali. Era dunque naturale che la sua scomparsa suscitasse nell’opinione pubblica, pur assuefatta alla violenza politica, un’ondata di indignazione contro il fascismo e il suo capo. Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati subito individuati e arrestati, né allora né in seguito si poterono individuare con certezza i mandanti diretti. Il paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai consolidata di violenze e di impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci portavano intera la responsabilità. Il fascismo, che fino a pochi giorni prima era parso inattaccabile, si trovò improvvisamente isolato. Ma l’opposizione, drasticamente ridimensionata dalle elezioni, non aveva la possibilità di mettere in minoranza il governo, né d’altra parte era in grado di affrontare una prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza. L’unica iniziativa concreta presa dai gruppi antifascisti fu quella di astenersi dai dibattiti nelle aule parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica. La secessione dell’Aventino, come fu definita in riferimento a un episodio della storia romana (la plebe che si ritira sul colle Aventino per protestare contro i patrizi), aveva un indubbio significato ideale, ma era di per sé priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti “aventiniani” si limitarono infatti ad agitare di fronte all’opinione pubblica una “questione morale”, sperando in un intervento della Corona o in uno sfaldamento della maggioranza fascista. Ma il re non intervenne. E i fiancheggiatori non tolsero l’appoggio al governo.

L’Aventino

Nel giro di pochi mesi l’ondata antifascista rifluì. E Mussolini, premuto dall’ala intransigente del fascismo, decise di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, il capo del governo ruppe ogni cautela legalitaria, assumendosi la «responsabilità politica, morale e storica» di tutto quanto era avvenuto e minacciando apertamente di usare la forza contro le opposizioni. Nei giorni successivi, una raffica di arresti, perquisizioni e sequestri si abbatté sui partiti d’opposizione e sui loro organi di stampa. Anziché provocare la fine dell’avventura fascista, la crisi Matteotti aveva determinato la disfatta dei partiti democratici e accelerato il passaggio a una vera e propria dittatura. A questo punto non restava spazio METODO DI STUDIO per equivoci e compromessi. La scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dit a   Sottolinea per ogni sottoparagrafo le frasi tatura e libertà. Molti politici e uomini di cultura che avevano fino ad allora che spiegano meglio il titolo e argomenta per iscritto la tua scelta. mantenuto nei confronti del fascismo un atteggiamento di benevola neutralità  b   Evidenzia le parole chiave che definiscono sentirono la necessità di prendere posizione. A un Manifesto degli intellettuali meglio la politica di Mussolini nei primi anni ’20 del fascisti diffuso nell’aprile ’25 per iniziativa di Giovanni Gentile, gli antifascisti ’900 e argomenta oralmente la tua scelta.  c   Spiega cosa sono le liste nazionali e in che risposero con un “contromanifesto” redatto da Benedetto Croce, che rivendicamodo influirono sui risultati elettorali del 1924. va i diritti di libertà ereditati dalla tradizione risorgimentale.

Il discorso del 3 gennaio



6_7 LA DITTATURA A VISO APERTO

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Fra il 1925 e il 1926, con la chiusura di ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale, giunse a compimento il processo di fascistizzazione dello Stato. Molti esponenti antifascisti furono costretti a prendere la via dell’esilio. Giovanni Amendola morì in Francia nell’estate del ’26 dopo aver subìto un’aggressione squadrista. Sempre in Francia era morto pochi mesi prima il giovane liberale di sinistra Piero Gobetti che era stato, con la sua rivista «La Rivoluzione liberale», uno degli animatori del dibattito politico fra il ’22 e il ’24. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono messi nell’impossibilità di funzionare. I grandi quotidiani di informazione, che avevano assunto una linea critica verso il governo dopo il delitto Matteotti, furono “fascistizzati” mediante pressioni sui proprietari che licenziarono i direttori antifascisti. Nell’ottobre ’25, il sindacalismo libero venne neutralizzato dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati fascisti.

Repressione e fascistizzazione

►   Lezione attive Il fascismo, un movimento che si fa Stato

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

LA FASCISTIZZAZIONE DELLO STATO

LA DITTATURA FASCISTA

Repressione del dissenso

Sistematica persecuzione degli oppositori

Stampa “fascista”

Fine dello Stato liberale

Divieto di sciopero

Sindacati “fascisti”

Più poteri al capo del governo

Abolizione dell’elettività dei sindaci

Leggi fascistissime

Tribunale speciale

Legge elettorale a lista unica

Partito unico

Eliminate o ridotte al silenzio le voci d’opposizione, il fascismo non si accontentò più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale. La nuova legislazione ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia, il giurista Alfredo Rocco, proveniente dalle file del movimento nazionalista [►3_6] che si era fuso col fascismo nel 1923. La prima importante legge costituzionale del regime fu quella del dicembre 1925 che rafforzava i poteri del capo del governo sia rispetto agli altri ministri sia rispetto al Parlamento. Seguì, nel febbraio ’26, una riforma delle amministrazioni locali che aboliva l’elettività dei sindaci e dei consigli comunali. Nell’aprile ’26, una legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati “legalmente riconosciuti” (cioè quelli fascisti) avevano il diritto di stipulare contratti collettivi.

La fine dello Stato liberale

Nel novembre ’26, all’indomani di un fallito attentato alla vita di Mussolini, i «provvedimenti per la difesa dello Stato» – in realtà una raffica di misure repressive – cancellarono le ultime tracce di vita democratica: furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime; furono dichiarati decaduti dal mandato i deputati aventiniani; fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di reati “contro la sicurezza dello Stato”; fu istituito, per giudicare questi reati, un Tribunale speciale composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia [►FS, 54d]. La costruzione del regime sarebbe stata completata nel 1928 con due provvedimenti: la nuova legge elettorale che introduceva il sistema della lista unica (con tanti candidati quanti erano i seggi da occupare) e lasciava agli elettori solo la scelta se approvarla o respingerla in blocco; e la “costituzionalizzazione” del Gran consiglio che diventò un organo dello Stato, dotato di prerogative molto importanti, fra cui quella di preparare le liste elettorali. Ma già METODO DI STUDIO le leggi “fascistissime” del novembre ’26 avevano messo fine allo Stato liberale  a   Spiega per iscritto che cosa si intende per “fascistizzazione”. nato con l’Unità d’Italia e avevano dato vita a un nuovo regime: un regime a par b   Trascrivi sul quaderno, sintetizzandoli, tito unico, in cui era stata abolita la separazione dei poteri e tutte le decisioni gli eventi che causarono la fine dello Stato liberale. importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo.

Le leggi fascistissime



6_8 I REGIMI AUTORITARI NEGLI ANNI ’20

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Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Già nel corso degli anni ’20, il regime mussoliniano rappresentò per molti paesi un possibile modello, alternativo a quello democratico-liberale. Nelle stesse democrazie occidentali non pochi guardarono a quel modello come a una soluzione

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

praticabile in quei paesi in cui le istituzioni rappresentative non poggiavano su una solida base di cultura e di tradizione liberale, scontando invece il peso preponderante dei militari, dell’aristocrazia terriera e delle Chiese. Il primo paese a sperimentare, prima ancora dell’avvento del fascismo, un autoritarismo di questo tipo fu l’Ungheria dell’ammiraglio Miklós Horthy [►5_4], ex comandante della marina asburgica divenuto nel 1920 “reggente” in attesa di una futura (e mai attuata) restaurazione monarchica: il regime rappresentativo sopravvisse solo formalmente e le libertà politiche e sindacali furono fortemente limitate. Un altro regime semidittatoriale si affermò in Polonia nel 1926, quando l’ex socialista Józef Piłsudski guidò una “marcia su Varsavia” e modificò la Costituzione in senso autoritario. Anche in Austria le tensioni fra il Partito cristiano-sociale al potere e l’opposizione socialdemocratica portarono, nella seconda metà degli anni ’20, a una netta involuzione autoritaria. Nel 1934, il cancelliere Engelbert Dollfuss, dopo aver represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata nella capitale (la Comune di Vienna), avrebbe messo fuori legge il Partito socialdemocratico e varato una nuova Costituzione di ispirazione clericale e corporativa.

L’Europa centro-orientale

Non meno agitate furono negli anni ’20 le vicende degli Stati balcanici. In Grecia il regime repubblicano nato nel ’24 non riuscì a funzionare regolarmente per i continui interventi dei militari e per la ricorrente minaccia dei gruppi monarchici che, nel ’35, avrebbero riportato sul trono la dinastia regnante. In Bulgaria l’esperimento democratico attuato dal primo ministro Stambolijski, leader del Partito dei contadini e promotore di un’ampia riforma agraria, fu interrotto nel ’23 da un colpo di Stato militare. Un caso a parte era rappresentato dalla Jugoslavia, dove la scena politica era dominata dal contrasto fra i diversi gruppi etnici. Per domare la protesta dei croati, che si sentivano oppressi dal centralismo serbo, il re Alessandro I attuò nel 1929 un colpo di Stato, col risultato di aggravare le tensioni e di spingere il movimento separatista croato (gli ustascia) sulla via del terrorismo.

Gli Stati balcanici

Nel complesso si trattava di regimi autoritari di tipo tradizionale, sostenuti dall’esercito e dai gruppi conservatori, e privi di una base di massa, molto simili a quelli che nello stesso periodo si affermarono in un’altra area geografica, anch’essa afflitta da grave arretratezza economica e da profonde disuguaglianze sociali: la penisola iberica. In Spagna, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l’appoggio del sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di governo semidittatoriale, Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a una massiccia ondata di proteste popolari. Nelle elezioni amministrative del 1931 i partiti democratici e repubblicani ottennero un larghissimo successo, che indusse il re a lasciare il paese. Si formò così una Repubblica, destinata anch’essa – come si vedrà in seguito – a vita breve e travagliata. Anche in Portogallo furono i militari a interrompere, nel 1926, l’esperienza di una fragile democrazia parlamentare. Ma fu un economista cattolico, António de Oliveira Salazar (ministro delle Finanze dal ’28, presidente del Consiglio dal ’32), ad assumere il ruolo di ispiratore e guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che sarebbe rimasto in vita per quasi mezzo secolo.

Spagna e Portogallo

Proclamazione della Repubblica spagnola a Madrid 14 aprile 1931 I cittadini spagnoli festeggiano nelle strade di Madrid la formazione della nuova Repubblica, proclamata dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera e l’esilio del re Alfonso XIII.

METODO DI STUDIO

 a   Realizza sul quaderno un grafico a stella al cui centro ci sia il titolo del paragrafo e i cui raggi siano i titoli dei sottoparagrafi. Quindi compilalo indicando da tre a cinque parole chiave per ogni raggio e realizza una didascalia a commento che ne dia una visione d’insieme.

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

LABORATORIO DI CITTADINANZA LO STATO E IL MONOPOLIO DELLA FORZA

I

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l sociologo tedesco Max Weber (18641920) nella conferenza dal titolo La politica come professione del 1919 descrisse lo Stato come «quella comunità umana che all’interno di un determinato territorio [...] rivendica per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica». Sulla base di questa storica definizione si può quindi affermare che il concetto di “monopolio della violenza” presuppone necessariamente alcuni elementi: innanzitutto l’esistenza di uno Stato che emani le leggi e poi la presenza di una amministrazione (cioè degli organi e degli uffici facenti capo allo Stato) che, nell’ambito delle leggi, sia legittimata all’uso della forza. Ciò significa che nelle società moderne l’uso legittimo della violenza compete esclusivamente allo Stato e che la violenza individuale (di un cittadino contro un altro cittadino) è, per definizione, illegittima. Riprendendo ancora le parole di Weber: «è specifico del tempo presente il fatto che a tutte le altre associazioni o singole persone si attribuisca il diritto alla forza fisica solo nella misura in cui lo conceda, da parte sua, lo Stato; esso viene ritenuto l’unica fonte del “diritto” alla forza». Una definizione, questa, che prescinde da ogni valutazione di merito sull’uso – giusto o ingiusto, equilibrato o eccessivo – che lo Stato fa di questa sua prerogativa. Caratteristico delle società contemporanee, il monopolio statale della violenza cominciò a manifestarsi concretamente tra il XVII e il XVIII secolo, con il costituirsi degli Stati assoluti fortemente accentrati; si rafforzò poi nell’esperienza degli Stati liberali, per arrivare, nel XX secolo, ai totalitarismi – fascismo, nazismo e comunismo sovietico [►CAP8] –, che diedero massimo spazio all’uso della forza come strumento di governo. In Italia, per esempio, il fascismo, nella fase precedente alla conquista del potere, minò innanzitutto l’autorità dello Stato liberale negandogli di fatto il monopolio della violenza. Si arrogò poi il diritto di esercitarla in proprio, attraverso l’azione squadristica, contro coloro che arbitrariamente identificava con i nemici della nazione. Il dilagare della violenza, la formazione di gruppi paramilitari e lo spostamento del terreno principale della lotta politica dalle sedi istituzionali alla piazza furono, del resto, tratti

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

caratteristici di quella crisi della democrazia rappresentativa che, negli anni fra le due guerre mondiali, avrebbe aperto la strada all’affermazione di regimi autoritari in buona parte d’Europa. Una volta giunti al potere, il fascismo italiano e gli altri movimenti autoritari si servirono del monopolio della forza con un’ampiezza fino ad allora sconosciuta, e usarono a questo scopo gli strumenti dello Stato senza peraltro mai rinunciare del tutto alla violenza extralegale e non istituzionalizzata. In questo modo riuscirono a garantirsi non solo la passiva obbedienza dei cittadini, ma anche il consenso di vaste aree della società: quel consenso che, per citare ancora Max Weber, serve a qualsiasi Stato per legittimare il proprio monopolio della violenza agli occhi della popolazione. Con la fine della guerra, nel 1945, lo Stato italiano tornò a essere uno Stato di diritto – cioè uno Stato che sottomette la sua stessa autorità alla legge – basato su una propria Costituzione (1948) e su un ordinamento democratico. In questa realtà, il monopolio della forza è appannaggio esclusivo dello Stato e dei suoi apparati (polizia ed esercito), ma trova legittimazione sia nella carta fondamentale (la Costituzione) sia nelle leggi particolari che ne definiscono le caratteristiche e soprattutto i limiti: in tutti gli ordinamenti democratici contemporanei, infatti, ogni individuo è libero da costrizioni, a condizione che il suo comportamento non leda l’integrità fisica e morale degli altri. L’articolo 13 della Costituzione italiana sancisce così l’inviolabilità della libertà personale e la libertà dalle costrizioni fisiche: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Questo significa che l’autorità di polizia non può arrestare, perquisire o ispezionare una persona senza essere preventivamente autorizzata dalla magistratura. L’articolo definisce, inoltre, importanti princìpi a difesa della dignità umana dei detenuti, quali il divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione della libertà; l’articolo 27 sancisce il divieto di pene contrarie al senso

di umanità (c. 3), in quanto la detenzione deve mirare alla rieducazione del condannato. In relazione a questo assunto, l’ultima disposizione dell’articolo 27 vieta in Italia la pena di morte. Le garanzie fissate dalla Costituzione non hanno però impedito che, nel corso della storia repubblicana, lo Stato italiano abbia subìto serie minacce da parte di gruppi che intendevano contestargli, in aree geografiche e in momenti determinati, proprio il monopolio della forza e con esso il controllo del territorio. È accaduto con l’esplodere del terrorismo negli anni ’70 e, in forme più tenaci e pervasive, con il dilagare della criminalità organizzata prima in Sicilia, poi in altre regioni del Mezzogiorno. Alla prima sfida lo Stato ha reagito con efficacia in tempi relativamente rapidi. Più difficile, e in diverse situazioni frenata da remore e complicità, è stata la risposta alla seconda. Nell’uno e nell’altro caso, comunque, lo Stato repubblicano ha saputo mantenere gli interventi repressivi entro i confini delle garanzie democratiche. La strage di Capaci, Palermo 23 maggio 1992 [foto di Pizzoli] Nell’attentato di Capaci, sull’autostrada fra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, persero la vita, per mano della mafia, il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

LABORATORIO DI SCRITTURA DI CITTADINANZA 1 Dopo aver fornito una definizione di “monopolio della violenza legittima” esercitato dallo Stato, spiega in un testo

sul quaderno (max 10 righe) in che modo esso è stato usurpato dai regimi totalitari del XX secolo e come, di contro, esso è garantito in uno Stato di diritto.

LA COSTITUZIONE TUTELA LA LIBERTÀ PERSONALE 2 All’articolo 13 della Costituzione si legge:

«La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comu-

nicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.»

L’articolo 13 della Costituzione, dunque, sottolinea il diritto del cittadino di non subire atti arbitrari di «detenzione, di ispezione o perquisizione personale». Lancia una ricerca su Internet e spiega in cosa consistono la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale. Lo Stato, tuttavia, può intervenire con misure restrittive della libertà personale del cittadino qualora il suo esercizio arrechi danno agli interessi altrui. Anche in questo caso, la limitazione della libertà deve avvenire all’interno di regole molto precise, ovvero con «riserva di legge» e con «riserva di giurisdizione», e deve essere disposta mediante un atto motivato denominato “mandato”. Lancia una ricerca su Internet e spiega in cosa consistono la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Detenzione: ...................................................................................................................................................................................... Ispezione: ........................................................................................................................................................................................ Perquisizione personale: ....................................................................................................................................................................... Riserva di legge: ................................................................................................................................................................................ Riserva di giurisdizione: ......................................................................................................................................................................

VERITÀ SUL G8 3 Hai mai sentito parlare dei fatti del G8 di Genova del luglio 2001? Sei a conoscenza di quanto compiuto dalle forze

dell’ordine italiane nel corso dell’irruzione alla scuola elementare Diaz la notte del 21 luglio? Quattrocento agenti di polizia entrarono nella scuola compiendo atti di pestaggio e procedendo ad arresti illegali di un centinaio di manifestanti no global, inermi, rifugiatisi lì per la notte. A detta di molti, quella notte la democrazia italiana avrebbe subìto una sospensione. Nell’aprile 2015 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo si è pronunciata, condannando l’Italia sia per gli atti di pestaggio, sia perché il nostro paese non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura: un vuoto legislativo che ha consentito ai responsabili del pestaggio di restare impuniti. Secondo la Corte di Strasburgo, lo Stato italiano ha violato l’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

Lancia una ricerca su Internet, raccogli informazioni sui fatti del G8 di Genova del 2001 e discuti in classe con i compagni e l’insegnante se quanto compiuto dalle nostre forze dell’ordine è qualificabile come tortura e se gli accadimenti di quella notte hanno rappresentato una violazione della democrazia. Redigi poi un articolo destinato al giornale scolastico intitolato Verità sul G8.

227

C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

SINTESI

6_1 LE TENSIONI DEL DOPOGUERRA L’Italia del dopoguerra era un paese inquieto attraversato da problemi politici e tensioni sociali. Le tensioni sociali erano alimentate prima di tutto dal caroviveri, che fu all’origine di una serie di tumulti di piazza, mentre le industrie erano investite da una ondata di scioperi volti ad ottenere aumenti salariali. A questo si aggiunse la questione della cosiddetta “vittoria mutilata”, ovvero l’insoddisfazione di una parte dell’opinione pubblica per il trattamento riservato all’Italia nella conferenza di pace. Clamorosa fu la protesta attuata da D’Annunzio con l’occupazione della città di Fiume (settembre 1919), a maggioranza italiana, la cui assegnazione non era però prevista dal patto di Londra.

6_2 I PARTITI E LE ELEZIONI DEL 1919

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In Italia i problemi del dopoguerra furono aggravati dalla crisi della classe dirigente liberale. I cattolici abbandonarono la linea astensionistica e diedero vita a una nuova formazione politica, il Partito popolare (1919), guidata da Luigi Sturzo e ispirata a un programma democratico. I socialisti, invece, conquistarono moltissimi nuovi consensi ma non riuscirono a superare le divisioni interne al partito, dove continuavano a essere prevalenti le correnti rivoluzionarie. Questa connotazione contribuì ad alimentare le paure dei ceti medi e creò un terreno favorevole alla nascita di movimenti di ispirazione nazionalista, come

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

i Fasci di combattimento, fondati da Benito Mussolini nel 1919, con un programma che coniugava un audace riformismo con un nazionalismo aggressivo. Le elezioni del novembre 1919, tenute col sistema proporzionale, segnarono la sconfitta delle forze liberali di governo e il successo clamoroso del Partito socialista e del Partito popolare.

6_3 IL RITORNO DI GIOLITTI E L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE Nel giugno 1920 Giolitti tornò al potere, con un governo di coalizione formato da popolari e liberal-democratici. Risolta la questione fiumana con il trattato di Rapallo (che assegnava l’Istria all’Italia, la Dalmazia, eccetto Zara, alla Jugoslavia e proclamava Fiume città libera), Giolitti dovette affrontare gravi problemi di politica interna, come l’agitazione dei metalmeccanici, che rappresentò il momento più critico del “biennio rosso” italiano. Nell’estate-autunno del ’20 la vertenza culminò nella occupazione delle fabbriche che coinvolse 400 mila operai, prefigurando l’inizio di un moto rivoluzionario destinato a estendersi a tutto il paese. In realtà prevalse la linea dei sindacati, che videro accontentate le loro richieste economiche. Questa conclusione – fortemente voluta da Giolitti – risultò deludente per chi aveva sperato nella rivoluzione e accentuò le divisioni nel movimento socialista che avrebbero portato, nel congresso di Livorno del gennaio 1921, alla scissione dell’ala più vicina alla Terza Internazionale e alla nascita del Partito comunista.

classe politica, capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale.

6_4 L’OFFENSIVA FASCISTA Dalla fine del ’20, le squadre d’azione fasciste attaccarono il movimento socialista, con azioni violente in particolare contro le leghe rosse della Val Padana. Conquistato l’appoggio dei proprietari terrieri, l’offensiva squadrista dilagò anche in altre zone del Centro-Nord, colpendo le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste che venivano sistematicamente devastate e incendiate, ma anche le persone dei dirigenti e militanti. L’offensiva fascista godette anche della neutralità degli apparati statali: le forze di polizia solo di rado si opposero alle violenze, mentre lo stesso Giolitti pensò di servirsene per ridimensionare il peso politico di socialisti e popolari.

6_5 MUSSOLINI ALLA CONQUISTA DEL POTERE Nelle elezioni del 1921, i fascisti, inseriti nei “blocchi nazionali”, entrarono alla Camera con 35 deputati, ma continuarono a rendersi protagonisti di azioni squadristiche, profittando della debolezza dei governi. Nell’estate-autunno del 1922 Mussolini avviò trattative con i leader liberali in vista di una partecipazione al governo, ma intanto lasciava che le milizie fasciste preparassero una presa violenta del potere. Il 28 ottobre, giorno fissato per la “marcia su Roma”, il rifiuto del re di firmare il decreto di stato d’assedio aprì ai fascisti la strada della capitale. Il 30 ottobre Mussolini ricevette dal sovrano l’incarico di formare un nuovo governo. Pochi, nella

6_6 VERSO IL REGIME Diventato presidente del Consiglio senza disporre di una maggioranza alla Camera, Mussolini riuscì a consolidare il suo potere per la miopia degli alleati di governo che continuarono ad appoggiarlo anche di fronte a misure incompatibili con i fondamenti dello Stato liberale. Alla fine del 1922 furono creati due nuovi organismi: il Gran consiglio del fascismo, che doveva fungere da raccordo fra il Partito fascista e il governo; e la Milizia volontaria, un corpo armato di partito cui erano attribuite funzioni pubbliche. Il “duce” cercò inoltre l’appoggio della Chiesa (anche attraverso la riforma Gentile della pubblica istruzione) e del potere economico, grazie a una politica di stampo liberista. Nell’estate del 1923, dopo aver costretto alle dimissioni dal governo i ministri del Partito popolare, Mussolini riuscì a far approvare dal Parlamento una legge elettorale maggioritaria che di fatto consegnava la maggioranza alla “Lista nazionale”, risultata vincitrice con largo margine nelle elezioni dell’aprile ’24. Nel giugno 1924, il deputato socialista Matteotti fu assassinato da una squadra fascista. L’ondata di sdegno che ne seguì fece vacillare il potere di Mussolini. Ma la reazione dei partiti di opposizione – che sollevarono una questione morale e si astennero dai dibattiti in Parlamento (“Aventino”) – fu debole e l’ondata antifascista si esaurì, lasciando a Mussolini la possibilità di contrattaccare, col discorso del 3 gennaio 1925, e di sfidare le opposizioni prospettando l’uso della forza.

6_7 LA DITTATURA A VISO APERTO Tra il ’25 e il ’26 furono presi numerosi provvedimenti che rafforzavano i poteri del governo e riducevano gli spazi per la libertà di stampa e di associazione e per la contrattazione sindacale. Provvedimenti culminati, nell’autunno del ’26, nella «legge per la difesa dello Stato», che fra l’altro decretava lo scioglimento dei partiti antifascisti e istituiva un

Tribunale speciale per i reati «contro la sicurezza dello Stato».

6_8 I REGIMI AUTORITARI NEGLI ANNI ’20 Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Regimi autoritari di

tipo tradizionale, sostenuti dall’esercito e dai gruppi conservatori, e privi di una base di massa, si affermarono in Ungheria nel 1920 e in Polonia nel 1926. Anche in Austria le tensioni fra il Partito cristiano-sociale al potere e l’opposizione socialdemocratica portarono a una netta involuzione autoritaria. In Spagna, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l’appoggio del sovrano, mentre in Portogallo un economista cattolico,

António de Oliveira Salazar, assunse nel 1926 la guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che sarebbe rimasto in vita per quasi mezzo secolo.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Seleziona, fra quelle proposte di seguito, le azioni compiute dai fascisti e motiva la tua scelta per iscritto.

a. Nelle elezioni del 1919, ottennero poche migliaia di voti e nessun deputato in Parlamento. b. Organizzarono le proteste dei braccianti della Val Padana che miravano alla socializzazione della terra nel primo dopoguerra. c. Il 21 novembre 1920, a Bologna, si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale con lanci di bombe. d. Nelle elezioni del 1919, ottennero 100 deputati e si affermarono come la principale novità politica del dopoguerra. e. Occuparono Fiume e proclamarono la sua annessione all’Italia. f. Occuparono nel 1920 gli stabilimenti metallurgici e meccanici. 2 Seleziona la frase opportuna per completare correttamente i testi sull’affermazione del fascismo in Italia.

1. I Fasci di combattimento... a. furono fondati da Mussolini a Milano nel 1919. b. furono fondati dopo la frattura del Partito socialista a Livorno nel 1921. c. ottennero un numero tale di preferenze durante le elezioni del 1919 da raggiungere i 20 deputati in Parlamento. 2. Quando le squadre d’azione divennero più incisive... a. il governo intervenne per bloccarle con una raffica di arresti. b. i proprietari terrieri intervennero a favore delle leghe rosse. c. i proprietari terrieri iniziarono a finanziarle contro le leghe rosse. 3. I blocchi nazionali... a. erano liste di coalizione dei gruppi “costituzionali” che si batterono contro i candidati fascisti. b. erano liste di coalizione dei gruppi “costituzionali” che si presentarono alle elezioni del 1919. c. erano liste di coalizione dei gruppi “costituzionali” che accolsero candidati fascisti. 4. Le elezioni del 1921... a. segnarono la nomina di 35 deputati fascisti capeggiati da Mussolini. b. segnarono il successo della strategia politica di Giolitti. c. videro l’affermazione dei liberal-democratici che ottennero il completo controllo del Parlamento.

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

5. Il patto di pacificazione tra socialisti e fascisti... a. fu firmato sotto la spinta del capo del governo Giolitti. b. fu approvato a largo consenso dalla base dei fascisti, in particolare dai ras. c. comportava la rinuncia alla violenza e l’impegno a sciogliere le loro formazioni armate. 6. La marcia su Roma... a. fu una mobilitazione generale delle forze fasciste contro i socialisti presenti a Roma. b. spinse il re ad affidare a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. c. indusse Vittorio Emanuele III a firmare la dichiarazione dello stato d’assedio. 3 Completa il seguente testo inserendo le voci corrette dell’elenco sottostante.

1919 ● antisocialista ● socialisti ● Partito popolare ● proprietari terrieri ● neutralità ● 1921 ● capo del governo ● antifascista ● Giolitti ● governo ● 1922 ● Fasci di combattimento ● le leghe rosse contadine ● re I ............................., fondati da Mussolini nel ............................., si qualificarono ben presto in senso ............................. e si fecero notare per lo stile politico aggressivo e violento. Le squadre d’azione conquistarono l’appoggio dei ............................. e godettero della ............................. degli apparati statali. Gli squadristi colpivano i dirigenti, i militanti ............................. e le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste, incendiandole. Dopo le elezioni del ............................., quando i fascisti conquistarono 35 seggi alla Camera, le violenze divennero sempre più clamorose, mentre Mussolini cercava una partecipazione al ............................. Il 30 ottobre ............................. le milizie fasciste marciarono su Roma e Mussolini venne formalmente ricevuto dal ............................. per formare il nuovo governo. 4 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

a. Salito al potere, Mussolini inaugurò una politica economica statalista che comportò un aumento della spesa statale. ................................................................................................................................................................................. b. Una volta al governo, Mussolini rafforzò i toni anticlericali. ................................................................................................................................................................................. c. La riforma scolastica voluta da Giovanni Gentile introdusse un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi. ................................................................................................................................................................................. d. Alle elezioni del 1924 i fascisti si candidarono nelle liste nazionali, assieme ad esponenti liberali e a cattolici conservatori. ................................................................................................................................................................................. e. La secessione dell’Aventino ebbe una forte ricaduta politica. ................................................................................................................................................................................. f. Giacomo Matteotti era un esponente del Partito popolare che aveva contestato i risultati delle elezioni del 1924. ................................................................................................................................................................................. g. Tra il 1925 e il 1926 furono emanate leggi che decretarono il passaggio alla dittatura. ................................................................................................................................................................................. h. La legge elettorale del 1928 introdusse il sistema della lista unica. .................................................................................................................................................................................

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COMPETENZE IN AZIONE 5 Abbina i seguenti soggetti agli eventi corrispondenti e argomenta sinteticamente la tua scelta.

a. Giovanni Gentile b. La monarchia c. I partiti antifascisti d. Giacomo Matteotti

1. La secessione dell’Aventino 2. La riforma della scuola 3. I provvedimenti per la difesa dello Stato 4. La marcia su Roma

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a. .................................................................................................................................................................................................. b. ..................................................................................................................................................................................................

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

c. ................................................................................................................................................................................................... d. ................................................................................................................................................................................................... 6 Scrivi sul quaderno un testo di massimo 40 righe dal titolo Dalla Grande Guerra alla “fascistizzazione” dell’Italia,

utilizzando la seguente scaletta cronologica:

a. La crisi postbellica e il “biennio rosso” b. Le squadre d’azione

c. La marcia su Roma e il governo Mussolini d. La fine dello Stato liberale

7 Rispondi sul quaderno ai seguenti quesiti impiegando il numero di righe indicato tra parentesi.

a. Quali furono le conseguenze dirette e indirette dell’assassinio di Giacomo Matteotti? (15 righe) b. Per quali motivi molti paesi scivolarono, nel primo dopoguerra, verso forme di governo non democratiche? Fornisci almeno due esempi. (10 righe)

COMPITI DI REALTÀ 8 Realizzare uno schedario multimediale per gli sceneggiatori di una fiction.

Tema storico da affrontare: La fine dello Stato liberale e l’inizio della dittatura fascista.

Contesto di lavoro

Collabori con uno sceneggiatore di fiction a cui è stata chiesta la bozza della trama di un’opera che abbia come contesto storico il primo dopoguerra in Italia. Il tuo compito è quello di realizzare alcune schede che contengano informazioni storiche e fonti iconografiche utili allo sviluppo di idee narrative e all’elaborazione dei tratti caratteriali e fisici dei personaggi.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare alcune schede sul primo dopoguerra in Italia e sui suoi protagonisti mettendo in rilievo i conflitti politici e sociali dell’epoca. Per realizzare questo compito dovete: ● decidere il numero delle schede da realizzare (fra 10 e 13). Esse dovranno trattare i seguenti argomenti: personaggi, cronologia ed eventi, partiti e movimenti politici e sociali, sfondo delle vicende politiche nazionali e internazionali. ● individuare le fonti iconografiche presenti sul manuale (nel capitolo o nei Fare Storia) e su Internet che possono suggerire indicazioni visive relative all’abbigliamento, al taglio dei capelli e alla tecnologia utilizzata nei diversi campi (es. in casa, per strada, in Parlamento, al lavoro, ecc.). Ricordate di verificare l’attendibilità delle pagine web e delle immagini trovate su Internet, e di indicare sempre il link della pagina da cui avete tratto i materiali. ● cercare sul manuale (nel capitolo o nei Fare Storia) e su Internet informazioni e immagini che consentano di: 1. realizzare una linea del tempo con gli eventi principali dell’epoca; 2. realizzare per ogni evento selezionato sulla linea del tempo una breve scheda informativa con i riferimenti geopolitici e, possibilmente, una o due immagini dell’epoca che si riferiscano agli scontri sociali. Ogni scheda non dovrà superare le dieci righe più lo spazio destinato alle immagini e dovrà essere accessibile cliccando sulla linea del tempo. Indicate una didascalia con il nome dell’autore, il tipo di immagine, e l’anno in cui questa è stata realizzata; 3. realizzare una scheda informativa circa i principali personaggi politici dell’epoca. Essa dovrà contenere riferimenti al carattere, alle principali vicende personali e una o due rappresentazioni visive. Ogni scheda non dovrà superare le quindici righe più lo spazio destinato alle immagini. ● realizzare un prodotto multimediale con il software che ritenete più congeniale e che vi consenta di unire coerentemente la linea del tempo e le diverse schede.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti allo sceneggiatore e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più l’illustrazione dello schedario multimediale da visualizzare con la Lim.

Tempo a disposizione

2 ore per individuare sul manuale e su Internet le fonti iconografiche da utilizzare; 1 ora per cercare i riferimenti cronologici e geopolitici e realizzare la linea del tempo; 3 ore per elaborare le schede; 1 ora e mezza per la realizzazione dello schedario multimediale; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

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C6 DOPOGUERRA E FASCISMO IN ITALIA

FARESTORIA LA GRANDE STRAGE La prima guerra mondiale rappresenta un passaggio fondamentale nella storia del XX secolo: milioni di uomini vi combatterono e vi trovarono la morte; la politica, la società, l’economia e la cultura dell’epoca ne uscirono sconvolte. Proprio per la complessità dell’evento, molti storici si sono chiesti, e continuano a chiedersi, quali ne siano state le cause: fra questi Christopher Clark [►31], che nel primo brano si interroga sulle origini della guerra e si domanda se poteva essere evitata. Primo esempio di conflitto industriale su scala mondiale, la Grande Guerra fu anche una guerra “totale”: coinvolse sia gli uomini chiamati al fronte sia le popolazioni civili di tutti i paesi belligeranti (il cosiddetto “fronte interno”) mobilitate dagli Stati nazionali per sostenere la patria nello sforzo bellico. Eric J. Leed [►32] si sofferma sull’entusiasmo che lo scoppio della guerra suscitò nell’agosto del 1914 in ogni nazione, mentre il brano di Antonio Gibelli [►33] analizza il nuovo ruolo delle donne, in un paese come l’Italia, sostituendo gli uomini chiamati al fronte in occupazioni mai ricoperte prima di allora. I civili divennero in alcuni casi anche vittime, al pari dei soldati, delle violenze e dei massacri di massa: fra gli episodi più tragici vi fu la deportazione della minoranza armena ad opera delle autorità turche, di cui parla il brano di Guenter Lewy [►34]. Di fronte all’estrema violenza della guerra e alla sua inaspettata lunghezza, gli entusiasmi patriottici delle prime settimane lasciarono presto il posto a sentimenti di stanchezza e rifiuto per il conflitto, come mostrano le lettere dal fronte di due soldati italiani [►35d]. Per tenere alto il morale delle truppe e non perdere il consenso dell’opinione pubblica, ogni Stato si affidò allora a nuovi strumenti e tecniche di comunicazione e propaganda, come mostra l’ultimo brano di Oliver Janz [►36].

31 CH. CLARK POTEVA ANDARE ALTRIMENTI?



Ch. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 396-98; 602; 604-6.

Lo storico australiano Christopher Clark (nato nel 1960) si è recentemente confrontato, nel suo libro I sonnambuli, con uno dei temi più dibattuti dalla storiografia: le origini della prima guerra mondiale. Clark rifiuta l’interpretazione che, a posteriori, ha considerato la Grande Guerra come il risul-

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Un aspetto sorprendente della dinamica dei rapporti fra gli esecutivi europei è la persistente incertezza, in ogni ambiente, riguardo alle intenzioni sia degli amici sia dei potenziali nemici. Il fluire del potere tra le diverse fazioni e i vari responsabili istituzionali rimase un problema, e così le preoccupazioni riguardo al possibile impatto dell’opinione popolare. [...] Queste incertezze indotte dalle dinamiche in patria erano aggravate dalla difficoltà di leggere i rapporti di potere interni ai governi stranieri. [...] Alla base delle inquietudini e degli atteggiamenti aggressivi c’era una fondamentale incertezza su come leggere

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

tato inevitabile delle tensioni nei Balcani, insistendo invece sulla complessità dell’evento. L’autore presta una particolare attenzione alle scelte fatte dagli uomini politici di allora, definendoli appunto dei “sonnambuli”, in quanto all’apparenza “svegli” e consapevoli ma in realtà non pienamente consci delle conseguenze e dei rischi delle loro decisioni. Nel brano seguente vengono ricostruiti il clima politico e il contesto diplomatico incerto in cui presero forma le iniziative che portarono al conflitto.

l’umore e le intenzioni delle altre cancellerie, per non dire su come prevedere le loro reazioni ad eventualità che ancora non si erano concretizzate. Il futuro era davvero ancora aperto. Nonostante l’irrigidimento dei fronti in entrambi i campi armati dell’Europa, alcuni segni lasciavano pensare che il momento per uno scontro di vasta portata potesse essere superato. L’alleanza anglo-russa era soggetta a forti tensioni – sembrava impossibile che sopravvivesse alla data prevista per il suo rinnovo, il 1915. E c’erano segni di un cambiamento di atteggiamento perfino nei politici britannici, che di recente

avevano potuto gustare i frutti della distensione con la Germania nei Balcani. È tutt’altro che ovvio o certo che Poincaré1 avrebbe sostenuto la propria politica di sicurezza sul lungo termine. C’erano perfino timidi accenni di miglioramento nei rapporti tra Vienna e Belgrado, in quanto vennero ricercati e conclusi accordi per lo scambio di prigionieri politici e per la definizione della questione della ferrovia 1. Raymond Poincaré (1860-1934), uomo politico francese, ricoprì numerosi incarichi governativi e fu presidente della Repubblica dal 1913 al 1920.

orientale2. E soprattutto, nessuna delle grandi potenze europee stava a quel punto valutando la possibilità di scatenare una guerra di aggressione contro i suoi vicini. Ognuno temeva che una simile iniziativa potesse scaturire dall’altra parte, e poiché la preparazione militare dell’Intesa si intensificava rapidamente, negli ambienti militari di Vienna e Berlino si parlò di un attacco preventivo per rompere l’impasse, ma la guerra preventiva non era diventata una realtà politica. Né Vienna si era risolta a invadere la Serbia a freddo – atto questo che sarebbe equivalso a un suicidio geopolitico. Il sistema aveva ancora bisogno di essere innescato da fuori [...]. Se il governo serbo di Pašić3 avesse attuato una politica finalizzata al rafforzamento interno e stroncato sul nascere il movimento irredentista che minacciava la sua autorità quanto la pace europea, forse i giovani attentatori non avrebbero mai attraversato la Drina4, sarebbe stato possibile rivolgere un avvertimento più chiaro e in tempo utile a Vienna, e i colpi omicidi avrebbero potuto non essere mai sparati. Gli obblighi concatenati che nel 1914 produssero un evento catastrofico non erano un elemento strutturale del sistema europeo, bensì la conseguenza di numerosi aggiustamenti a breve termine, dimostrazione essi stessi della rapidità con cui i rapporti tra le potenze si stavano evolvendo. E se l’innesco non fosse stato azionato, il futuro che nel 1914 diventò storia avrebbe lasciato il posto ad un futuro diverso, nel quale si può pensare che la Triplice Intesa avrebbe potuto non sopravvivere alla risoluzione della crisi dei Balcani e la distensione anglo-tedesca si sarebbe potuta evolvere in qualcosa di più solido. Paradossalmente, la plausibilità del secondo futuro contribuì ad aumentare la probabilità del primo: fu proprio per evitare di essere abbandonata dalla Russia e per assicurarsi il maggior grado possibile di sostegno che la Francia intensificò le pressioni su San Pietroburgo. Se il tessuto delle alleanze fosse apparso più affidabile e duraturo, i maggiori responsabili delle scelte a livello internazionale avrebbero potuto sentirsi meno condizionati ad agire come fecero. Invece i momenti di distensione che furono così caratteristici degli anni precedenti alla guerra ebbero un impatto paradossale: facendo sì che una guerra continentale sembrasse svanire nell’orizzonte delle probabilità, indussero i governanti a sottovalutare i rischi connessi ai loro interventi.

Questa è una delle ragioni per cui il pericolo di un conflitto fra i grandi blocchi di alleanze sembrò attenuarsi, proprio nel momento in cui si aprì la catena di eventi che alla fine avrebbe trascinato l’Europa nella guerra. [...] Lo scenario balcanico – che di fatto era uno scenario serbo – non spinse l’Europa verso la guerra che poi sarebbe effettivamente scoppiata nel 1914: esso piuttosto fornì il quadro concettuale all’interno del quale la crisi venne interpretata una volta che si aprì. La Russia e la Francia legarono quindi la sorte di due fra le maggiori potenze mondiali [...] al destino di uno Stato turbolento e a tratti violento. Per l’Austria-Ungheria, i cui accordi regionali per la sicurezza furono travolti dalle guerre balcaniche, gli omicidi di Sarajevo non furono un pretesto per attuare una preesistente politica di invasione e di attacco militare. Furono un evento in grado di trasformare le condizioni esistenti, carico di minacce reali e simboliche. [...] Lo scoppio della guerra del 1914 non è un episodio di un dramma di Agatha Christie5, alla fine del quale si scopre il colpevole con la pistola ancora fumante accanto a un cadavere. In questa storia non ci sono pistole fumanti, o piuttosto, ognuno dei personaggi principali ne ha in mano una. [...] Lo scoppio della guerra fu una tragedia, non un delitto con un colpevole. Riconoscere ciò non significa minimizzare quelle ossessioni di stampo bellicoso e imperialistico dei politici austriaci e tedeschi [...]. I tedeschi non erano i soli imperialisti, e non erano gli unici ad essere in preda a ossessioni paranoiche. La crisi che portò alla guerra nel 1914 fu il frutto di una cultura politica condivisa, ma fu anche multipo-

lare e con elementi realmente interattivi: è questo che ne fa l’evento più complesso dell’epoca contemporanea [...]. Una cosa è comunque chiara: nessuno degli obiettivi per cui i politici del 1914 si scontrarono poteva giustificare il cataclisma che ne seguì. Non si può fare a meno di chiedersi se i protagonisti compresero quanto fosse alta la posta in gioco. Si è sempre pensato che gli europei sottoscrivessero l’illusoria convinzione che la prossima guerra continentale sarebbe stata un conflitto fra governi, breve e intenso come quelli settecenteschi; gli uomini sarebbero stati «a casa prima di Natale», si diceva. [...] Sembra che nella mente di molti statisti la speranza di una guerra breve e la paura di un conflitto che si prolungasse per anni si annullassero a vicenda, impedendo una più profonda valutazione dei rischi. [...] In questo senso, i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo.

2. L’impero austro-ungarico deteneva la maggioranza delle azioni della Compagnia delle ferrovie orientali, un’impresa internazionale che, alla vigilia della guerra, aveva però visto passare sotto il controllo serbo molte tratte che un tempo gestiva. 3. Nikola Pašić (1845-1926), primo ministro della Serbia. 4. Fiume della penisola balcanica che segna il confine tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina. Il riferimento va al fatto che i giovani attentatori alla vita di Francesco Ferdinando fossero stati armati dalla Serbia. 5. Agatha Christie (1891-1976), celebre scrittrice britannica di romanzi “gialli”.

PALESTRA INVALSI

1 Nelle prime righe del brano si parla di “alcune incertezze”. A cosa si fa riferimento esattamente? [ ] a. Alla mancanza di certezze legate alle dinamiche della politica interna ed estera. [ ] b. All’incertezza del domani generata dal timore di una guerra. [ ] c. Alle conseguenze dell’incapacità di conoscere attraverso le spie le mosse future degli Stati nemici. [ ] d. Alla mancanza di certezze causata dal comportamento poco corretto delle fazioni politiche. 2 Il messaggio principale del testo è che... [ ] a. l’alleanza anglo-russa viveva forti tensioni. [ ] b. le grandi potenze europee temevano di essere attaccate dalle potenze vicine. [ ] c. la prima guerra mondiale non fu causata da eventi necessari, ma da «numerosi aggiustamenti a breve termine». [ ] d. I governanti delle grandi potenze europee sottovalutarono i rischi legati ai propri interventi in politica estera. 3 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? «Lo scenario balcanico fu effettivamente il fattore scatenante che spinse l’Europa verso la guerra.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

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FARESTORIA La grande strage



32 E.J. LEED LE COMUNITÀ DI AGOSTO

E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale (1979), il Mulino, Bologna 2004, pp. 59-64; 69-71.

Con il volume No Man’s Land (Terra di nessuno), uscito nel 1979, lo storico statunitense Eric J. Leed (nato nel 1942) ha contribuito a inaugurare un nuovo modo di studiare la Grande Guerra, soffermandosi in particolare sull’immaginario,

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Per tantissimi, l’agosto del 1914 rappresentò l’ultima grande incarnazione del «popolo» come entità morale unitaria. I giorni d’agosto sarebbero stati universalmente ricordati come quelli «vissuti più profondamente» nelle vite individuali dei partecipanti alla guerra, e comunque della generazione di guerra: giorni che non sarebbero mai stati dimenticati, né che si sarebbero più ripetuti. Il senso comunitario che spinse le folle nelle strade delle città d’Europa e legò gente fino allora completamente estranea con una sorta di magica coesione, ben di rado aveva un movente intellettuale. [...] Era difficile per i contemporanei scorgere la logica, i presupposti, e il sostrato culturale che stavano dietro a quell’entusiasmo per la guerra: l’estrema intensità e l’universalità del sentimento parevano dissolvere qualsiasi possibilità di comprensione. Agosto fu una celebrazione della comunità, una festa, e non qualcosa da comprendersi razionalmente. E di fatto molti insistettero che agosto 1914 fosse essenzialmente un’esplosione di irrazionalità, una follia, o una illusione di massa. [...] La guerra fu vista in opposizione assoluta alla vita sociale e come antipodo1 alla normale esistenza nella moderna società industriale. L’assunzione di questa polarità fra guerra e pace permise ai contemporanei di sentire la dichiarazione di guerra come il momento di passaggio da una vita normale, familiare, ad un’esistenza alternativa, differente in modo essenziale dalla società borghese. In generale si percepiva che, con la dichiarazione di guerra, i popoli delle nazioni europee avrebbero lasciato alle spalle la civiltà industriale con i suoi problemi e conflitti per entrare in un universo d’azione dominato dall’autorità, dalla disciplina, dal cameratismo, e da fini comuni. Questa polarità fra guerra e vita sociale strutturò l’esperienza d’agosto, dando al passaggio fra pace e guerra il suo caratteristico significato: fu una polarità destinata ad influire nel modo più intenso sul sentimento di esperienza comunitaria, e attraverso la quale si formò

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

sulla memoria e sulla soggettività dei soldati. In questo brano, Leed ricostruisce il clima di entusiasmo che accompagnò l’entrata in guerra dei principali paesi europei nell’agosto del 1914 e analizza la straordinaria esperienza comunitaria creatasi in quella occasione tra i membri delle differenti classi sociali dei paesi belligeranti, tutti uniti, senza distinzioni di status, in un impegno comune.

l’immagine di ciò che la guerra dovette essere e significare per i partecipanti. [...] L’esperienza comunitaria fu dominata dalla sensazione che la guerra alterasse le relazioni fra uomini e classi sociali; e, logicamente, nell’accantonare il mondo sociale strutturato in base alla ricchezza, allo status, alla professione, all’età, al sesso, si diede per scontato che anche i singoli individui fossero mutati. [...] La folla che Stefan Zweig2 osservava nelle strade di Vienna non era più una minacciosa «plebaglia» antisemita, né una non meglio identificata «massa» pronta a scaricare i propri irrazionali e violenti impulsi contro i «diversi», o gli «stranieri». Con la guerra la moltitudine era diventata una presenza morale, l’incarnazione della solidarietà nazionale. La spesso citata descrizione di Zweig delle folle mobilitate dalla guerra riunisce molti particolari del senso comunitario dell’agosto 1914. Centinaia di migliaia di persone sentivano allora come non mai quel che esse avrebbero dovuto sentire in pace, di appartenere cioè ad una grande unità. Una città di due milioni di abitanti, un paese di quasi cinquanta milioni, capirono in quell’ora di partecipare alla storia del mondo, di vivere un istante unico, nel quale ciascun individuo era chiamato a gettare nella grande massa ardente il suo io piccolo e meschino per purificarsi da ogni egoismo. Tutte le differenze di classe, di lingua, di religione erano in quel momento grandioso sommerse dalla grande corrente della fraternità. Estranei si rivolgevano amichevolmente la parola per strada, gente che si era evitata per anni si porgeva la mano, dovunque non si vedevano che volti fervidamente animati. Ciascun individuo assisteva ad un ampliamento del proprio io, non era cioè più una persona isolata, ma si sapeva inserito in una massa, faceva parte del popolo, e la sua persona trascurabile aveva acquisito una ragion d’essere.

Due particolari della descrizione di Zweig meritano di essere sottolineati. Primo, tutte le «differenze di classe, di lingua, di religione», non furono né superate né abolite ma semplicemente messe a lato, poste momentaneamente in sottordine dal di-

rompente sentimento di fratellanza e dal dilagante nazionalismo. Nessuno, e tanto meno Stefan Zweig, credeva che la struttura di classe fosse in qualsiasi modo ridefinita grazie alla esplosione di sentimento che colpì gli abitanti di Vienna, permettendo loro di dimenticare i reciproci difetti e colpe e di stringersi la mano dopo anni di silenzio e indifferenza. Il povero non diventava più ricco, né il ricco più povero, grazie alla dichiarazione di guerra, anche se il sentimento comunitario fu nondimeno reale: quella struttura di differenti posizioni di classe che normalmente avrebbe indotto qualsiasi osservatore ad interpretare il dilagare delle folle come una minaccia all’ordine costituito, o ad una determinata minoranza, ora era semplicemente messa da parte. Secondo, il momentaneo accantonamento delle differenze di classe permette a Zweig di abbandonare le proprie difese, il proprio ego, e il senso di isolamento sociale [...]. La rigidità dello status e della collocazione sociale di ognuno, anche se non lo status in sé, parve sostituita da rapporti completamente diversi. Sarebbe erroneo sostenere che sostanzialmente la cosiddetta eguaglianza sociale dell’agosto 1914 fosse un’«impostura» e che nulla mutò realmente: la dichiarazione di guerra mutò l’angolo prospettico dal quale gli individui erano soliti guardarsi, e ciò produsse sentimenti d’eguaglianza che è impossibile disconoscere. [...] La sensazione di vivere un processo, di vivere un interregnum3 senza una precisa struttura, anziché in un luogo definito, fu una costante dell’esperienza di agosto. Proprio il carattere amorfo4 di questo momento intensificò aspettative e curiosità,

1. Rovescio, opposto. 2. Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco nato a Vienna e di origini ebraiche. La citazione successiva è tratta da Il mondo di ieri, libro autobiografico uscito nell’anno della morte dell’autore. 3. Interregno, periodo di passaggio. 4. Non ben definito.

così come permise contatti senza precedenti fra diversi livelli sociali e classi distinte. [...] Con l’apertura delle ostilità parve come se le strutture della vita sociale si dissolvessero, si fluidificassero: e questo permise la mescolanza di ruoli, carriere, esistenze distinte, una confusione che, prima della guerra, sarebbe stata considerata un’intollerabile promiscuità. [...] Treni e stazioni ferroviarie furono luogo di moltissime conversioni all’entusiasmo di ago-

sto, conversioni invariabilmente definite come una «resa» al flusso di sentimento quasi palpabile. Questo luogo, al pari delle strade, simboleggiava per definizione la separazione dei viaggiatori, tutti presi della fretta delle loro ben diverse destinazioni; ma ora proprio i treni, le stazioni, le strade rappresentavano i canali del movimento di tante esistenze individuali separate verso un’unica, unificata direzione, verso la guerra.

33 A. GIBELLI IL MONDO ALLA ROVESCIA: LA GUERRA E LE DONNE



A. Gibelli, La Grande guerra degli italiani. 1915-1918 (1998), Bur Rizzoli, Milano 2014, pp. 174-75; 191-97.

In questo brano, tratto da un libro dedicato all’Italia nella Grande Guerra e pubblicato per la prima volta nel 1998, lo storico Antonio Gibelli (nato nel 1942) analizza il coinvolgimento delle donne nel cosiddetto «fronte interno». Le donne L’espressione e il concetto di «fronte interno» furono un’invenzione della prima guerra mondiale tanto in Italia quanto negli altri paesi belligeranti: in Inghilterra si diceva ad esempio Homefront in parallelo a Battle‑ front. L’idea nasceva dal carattere stesso della guerra: prima guerra moderna di lunga durata, le cui sorti erano affidate alla capacità di mobilitare tutta la popolazione e l’insieme delle energie pratiche e morali dei singoli paesi. La metafora suggeriva la trasposizione dello spirito delle trincee all’intero territorio fisico – e in certo senso a quello mentale – di ogni nazione. Anche rimanendo lontano dai luoghi dei combattimenti, nessuno poteva considerarsi estraneo allo sforzo comune. Tutti – a qualsiasi categoria sociale e condizione professionale appartenessero – dovevano sentirsi impegnati senza riserve. Gli atteggiamenti scettici e refrattari, come le voci apertamente dissenzienti, furono dovunque guardati con sospetto. In Italia, dove l’entrata in guerra era stata imposta da una minoranza e dove le forze ostili alla guerra continuavano ad avere un peso notevole, il concetto di fronte interno si caricò di valenze particolari. [...]. A parere dei nazionalisti [...] la prova in corso non ammetteva defezioni né tentennamenti e la battaglia sul fronte interno andava combattuta con la stessa aggressività di quella nelle trincee. Il coinvolgimento economico e organizzativo della popolazione fu dovunque imponente. Considerata l’enorme impor-

METODO DI STUDIO

 a   Individua almeno cinque parole chiave in grado di condensare il modo in cui fu percepita e accolta la guerra prima del suo inizio e le aspettative che essa destava. Quindi argomenta la tua scelta.  b   Descrivi sinteticamente i contenuti del brano di Stefan Zweig citato dall’autore e spiega perché e con quali obiettivi viene inserito nel testo.  c   Evidenzia il ruolo assunto dalle ferrovie nell’esistenza collettiva con lo scoppio della guerra.

furono chiamate a sostituire gli uomini in molte occupazioni dalle quali erano state fino ad allora escluse: nelle fabbriche, nelle campagne e negli uffici. Furono inoltre investite di nuove responsabilità nella società, sui luoghi di lavoro e in famiglia. Come osserva Gibelli, ciò determinò una rottura nel modo di pensare dell’epoca e un rovesciamento delle tradizionali gerarchie sociali che poggiavano sull’autorità maschile.

tanza della produzione industriale per l’impegno bellico di tutti i paesi, il fronte interno fu soprattutto fronte industriale e operaio: assicurare la crescita della produttività e della produzione, garantire con ogni mezzo la disciplina e possibilmente la cooperazione degli operai divenne un problema di vitale importanza. D’altra parte in Italia (ma la proporzione non è molto diversa altrove) poco meno della metà della popolazione era costituita da donne: anzi, tenuto conto dell’arruolamento di oltre cinque milioni di uomini, esse erano la netta maggioranza dei civili. Il fronte interno fu dunque, per certi versi, fronte femminile [...]. Mentre la guerra era in corso le donne furono chiamate a affiancare e più di rado a sostituire gli uomini in moltissimi settori dell’attività economica, alcuni dei quali non avevano mai visto prima una presenza femminile. Dal confronto tra i dati censuari del 1911 e del 1921 risulta che, tranne nell’industria, in tutti gli altri settori (trasporti e comunicazioni, commercio, banche e assicurazioni, amministrazione pubblica e privata, professioni e arti liberali) la presenza di manodopera femminile aumentò in cifre assolute [...]. La manodopera femminile (come quella minorile) non era stata estranea al lavoro di fabbrica fin dalla fase di decollo del capitalismo industriale, in Italia come all’estero; ma il settore più interessato a questo fenomeno era quello tessile, molto meno quello metallurgico e meccanico e in

particolare la produzione in serie di proiettili, che ne furono viceversa investiti durante il conflitto. [...] A colpire maggiormente la fantasia, suggerendo pezzi di colore sui giornali e la pubblicazione di fotografie, fu soprattutto la comparsa delle donne in occupazioni davvero inconsuete, ricoprendo le quali – anche per via delle divise – esse sembravano mascolinizzarsi, modificare le regole della società civile, mostrare una specie di mondo alla rovescia. «Donne al posto degli uomini» era la sintetica didascalia usata dal «Corriere della Sera» per commentare le fotografie di donne italiane o straniere in mansioni come le spazzine, le tranviere, le barbiere, le direttrici d’orchestra, le boscaiole. E «La lettura»1 parlava in quello stesso senso di una «Penelope moderna», non più impegnata a fare e disfare la sua tela in attesa dell’uomo, ma a sostituirlo attivamente nei compiti lasciati sguarniti2. Il massiccio ingresso delle 1. Rivista mensile del «Corriere della Sera». 2. Secondo la mitologia greca Penelope era la fedele moglie di Ulisse, rimasta a casa nell’isola di Itaca ad attendere il ritorno del marito: per evitare le proposte di matrimonio provenienti dai Proci (principi locali che avevano approfittato dell’assenza del marito per occupare la sua abitazione) promise che si sarebbe sposata soltanto una volta finito di tessere il vestito funebre di Laerte, il padre di Ulisse, ma ogni notte disfaceva il lavoro eseguito durante il giorno.

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FARESTORIA La grande strage

donne nei lavori e negli ambienti maschili provocò diffidenze e atteggiamenti di rigetto che non di rado attingevano ai più triti stereotipi e a pregiudizi moralistici. Nelle fabbriche metalmeccaniche la presenza femminile era talvolta avvertita, specialmente dai vecchi operai, come un sovvertimento dell’ordine naturale e un attentato alla moralità. Le nuove assunte, specie nel settore impiegatizio, venivano facilmente assimilate agli «imboscati» e considerate oggetto di favoritismi interessati da parte dei dirigenti maschi. [...] Molto più scontato fu l’impiego delle donne negli speciali laboratori e nella lavorazione a domicilio per la produzione di indumenti militari, che registrò uno straordinario incremento. Meno visibile, perché generalmente circoscritta all’azienda agricola domestica, ma non meno importante, fu la dilatazione dei compiti e dei ruoli delle donne nelle campagne: secondo calcoli attendibili, su una popolazione di 4,8 milioni di uomini che lavoravano in agricoltura, 2,6 furono richiamati alle armi, sicché rimasero attivi nei campi (a parte le scarse licenze) solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni, più altri 1,2 milioni tra i 10 e i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne superiori ai 10 anni. Inevitabile fu l’occupazione femminile di spazi già riservati agli uomini, e contemporaneamente lo straordinario aggravio di



fatica e di responsabilità. Le donne videro ancora dilatarsi i tempi e i cicli abituali del lavoro (col coinvolgimento delle più piccole e delle più vecchie), e dovettero coprire mansioni dalle quali erano state tradizionalmente esentate. A cadere era soprattutto la divisione del lavoro che voleva affidati agli uomini i compiti più pesanti e impegnativi, compresa la manovra delle macchine agricole. «Tutti i lavori che dovevano fare gli uomini li facevo anch’io – racconta una donna –. Andavo persino a sporgere i covoni, a scaricare il grano, ad aiutare a trebbiare quando veniva la macchina». [...] In assenza degli uomini, le donne dovettero inoltre occuparsi di faccende come le pratiche burocratiche e i rapporti con gli uffici pubblici, gli acquisti e le vendite di prodotti e di bestiame, le controversie legali. Malgrado questo, tutto lascia pensare che i rapporti di potere all’interno delle famiglie non si modificassero sostanzialmente. Perdurava il primato maschile, e comunque il primato dei vecchi. La donna giovane doveva rimanere sottomessa, e poiché la fonte dell’autorità – ossia il marito – era lontana, essa passava spesso ai suoceri. [...] A cambiare, nel senso di una maggiore libertà e varietà, erano però in qualche caso i rapporti tra spazio domestico e mondo esterno. Le occasioni di contatto con l’ambiente esterno alla famiglia e alla comunità si fecero più frequenti, non

34 G. LEWY IL MASSACRO DEGLI ARMENI

G. Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, Torino 2008, pp. 198-204; 312-14.

Durante il primo conflitto mondiale, la popolazione armena fu vittima di quello che per molti studiosi è il primo esempio di sterminio pianificato moderno. Il difficile rapporto tra la comunità armena e quella turca era cominciato già negli ultimi decenni dell’800, quando si diffusero nell’Impero ottomano le idee nazionaliste e scoppiarono rivolte indipendentiste armene. Nel 1915 il governo turco, con il consenso degli alleati tedeschi, approfittò della guerra per risolvere

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Nella notte del 24 aprile 1915 (11 aprile secondo il calendario ottomano), mentre gli Alleati stavano sbarcando a Gallipoli, alcune centinaia di notabili della comunità armena – parlamentari, esponenti politici, religiosi, giornalisti, medici ecc. – furono imprigionati a Istanbul. Uno storico turco ha parlato di 2.345 arresti. Il destino riservato a questi detenuti non è chiaro. A

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

più solo legate alle visite ai parenti, alla partecipazione alle feste paesane e alle fiere. Anche l’attenzione a quanto poteva accadere lontano da casa, per esempio sui fronti di guerra, divenne per forza di cose maggiore, e cominciarono a prendere campo abitudini nuove come la consultazione dei giornali. A dispetto della maggiore severità delle leggi e del tentativo di imporre abitudini austere conformi alla gravità del momento, il complesso di fenomeni che abbiamo illustrato portò con sé – specialmente nell’area urbana e suburbana – un sensibile rimescolamento della vita sociale e l’affermazione di nuovi costumi. [...] La guerra cominciava a incrinare modelli di comportamento, relazioni tra generi e classi di età, nonché tra classi sociali, mettendo in discussione gerarchie, distinzioni e autorità ritenute immutabili. METODO DI STUDIO

 a   Spiega per iscritto il concetto di fronte interno soffermandoti sulle peculiarità che questo assume in Italia.  b   Evidenzia i settori che furono interessati dal fronte femminile e sottolineane le caratteristiche principali.  c   Spiega se, come e perché le nuove mansioni che le donne si trovarono a ricoprire riuscirono ad annullare gli stereotipi e i pregiudizi che esistevano nei confronti della donna e della gerarchia dell’organizzazione familiare.

la questione. Furono così ordinate la deportazione e l’evacuazione forzata di tutti gli armeni, compresi donne e bambini, verso le regioni interne dell’Anatolia. In questo brano, lo storico statunitense, di origini tedesche, Guenter Lewy (nato nel 1923) analizza il momento in cui iniziò la deportazione – giustificata, stando ai documenti ufficiali, dallo stato di guerra – e spiega perché ben presto si trasformò in un massacro di civili. Su questa vicenda è ancora aperto un duro scontro tra le comunità armene, che la considerano un “genocidio”, e i turchi, che invece rifiutano questa definizione.

quanto sembra, molti furono uccisi o deportati; insomma, non fecero mai più ritorno a casa. Gli armeni ritengono che questa sia la data d’inizio del piano di genocidio. I turchi parlano di arresti di rivoluzionari e di misure di sicurezza rese necessarie dalla rivolta armena. [...] Sempre il 24 aprile, Tal’at1 inviò telegrammi ai governatori di province e distretti, agitati dalle iniziative

ribellistiche degli armeni, ordinando la chiusura di tutte le organizzazioni rivolu-

1. Mehmed Tal’at (1874-1921), leader dei “Giovani turchi”, fu uno dei tre pascià che componevano il triumvirato alla guida dell’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale.

zionarie armene e l’arresto dei loro capi [...]. Gli arrestati dovevano comparire davanti a un tribunale militare. L’ordine non doveva essere eseguito «in maniera tale da causare reciproche uccisioni da parte di elementi della popolazione musulmana e armena». L’ordine del 24 aprile autorizzava il trasferimento di elementi pericolosi. A proporre un più ampio programma di deportazioni sarebbe stato Enver pascià, comandante in capo a interim dell’esercito2. Il 2 maggio egli propose infatti al ministro degli Interni che, vista la continuazione delle attività rivoluzionarie nella zona del lago di Vian3, «questa popolazione [fosse] rimossa da detta zona, e questo focolaio di ribellione [fosse] spazzato via». Enver propose di «espellere gli armeni in questione in Russia, o di ricollocarli, assieme alle loro famiglie, in altre parti dell’Anatolia». La decisione ufficiale di estendere la deportazione a una più ampia parte della comunità armena sarebbe stata presa, sembra, il 26 maggio [...]. Sempre il 26 maggio, l’alto comando turco inviò una comunicazione al ministero degli Interni nella quale si poneva l’accento su alcuni punti relativi «all’insediamento degli armeni onde garantire che le sacche di ribellione non si riorganizzino: a) la popolazione armena non deve superare il 10 per cento della popolazione tribale e musulmana nelle zone in cui gli armeni saranno insediati; b) i villaggi che gli armeni fonderanno non dovranno avere più di 50 case; c) le famiglie armene migranti non dovranno essere autorizzate a cambiare residenza neppure per motivi di viaggio o di trasporto». Il giorno seguente, 27 maggio, il gabinetto turco adottò la «Legge provvisoria riguardante le misure da adottare da parte delle autorità militari nei confronti di coloro che intralciano le operazioni dello Stato in epoca bellica». La legge fu definita «provvisoria» perché varata in un momento di chiusura del parlamento, secondo una procedura consentita dalla legge che decretava lo stato di guerra. [...]. Il 30 maggio, il gabinetto approvò quindici norme concernenti le modalità attuative della legge sulla deportazione. Le autorità locali erano responsabili dell’organizzazione del trasporto dei deportati [...] Altre trentaquattro norme emanate il 10 giugno riguardavano la terra e le altre proprietà immobiliari degli armeni «inviati in altri luoghi a causa dello stato di guerra e della

congiuntura politica straordinaria». [...] Storici turchi e occidentali favorevoli ai turchi, come per esempio Stanford ed Ezel Kural Shaw4, hanno citato queste norme a riprova delle buone intenzioni del governo ottomano. Né nel decreto del 30 maggio, né in altri ordini del genere, scrive Salahi Sonyel5 «si fa alcun riferimento a un “massacro” o a un “genocidio”, al contrario ciascuna norma contiene istruzioni molto precise affinché gli armeni siano accompagnati a destinazione e sia loro concesso costruirvi nuove dimore». I documenti «presentano norme molto minuziose ed esplicite relative alla protezione della vita e delle proprietà degli armeni trasferiti». [...] Per dirla con le parole dell’Istituto turco per la politica estera, «fu dedicata molta attenzione a garantire che, durante la deportazione, gli armeni fossero trattati con cura e sollecitudine». Sfortunatamente, i decreti non si applicano da soli. Le norme attuative del 30 maggio e del 10 giugno cercavano di conferire un minimo di umanità alla legge sulla deportazione, ma è lecito dubitare che queste norme siano mai state applicate, visto che, nei fatti, deportazioni e insediamenti avvennero in modo piuttosto diverso dalle indicazioni in proposito contenute nella legge. [...] La ferrovia che, a detta di Öke6, avrebbe dovuto trasportare malati, donne e bambini dal confine con la Russia nelle zone interne del paese, semplicemente non esisteva. Al momento in cui i convogli raggiunsero la ferrovia di Baghdad, nei pressi della costa mediterranea, numerosi deportati erano ormai morti di fame o di malattia; quando non erano stati uccisi. Il Ministero della Guerra, al pari del Dipartimento per l’insediamento di tribù e immigrati e del Dipartimento di Pubblica sicurezza, entrambi dipendenti dal Ministero degli Interni, furono incaricati di controllare le deportazioni; in realtà questi istituti non furono mai in grado, o non si curarono, di applicare le norme emesse dai due ministeri. In base a quanto sappiamo del funzionamento della burocrazia ottomana, possiamo tranquillamente affermare che il compito, non certo da poco, di ricollocare alcune centinaia di migliaia di persone in breve tempo, disponendo, inoltre, di un sistema di trasporti del tutto inadeguato, trascendeva di gran lunga le capacità di qualsiasi istituzione statale turca. Per quanto riguarda gli aspetti tecnico-pratici, com’è stato opportunamente osservato in uno studio recente, «non c’era alcun organo direttivo centrale preposto alla deportazione... Nella documentazione

non c’è indizio che i militari, il ministero degli Interni e i funzionari locali abbiano coordinato i rispettivi interventi per alleviare le condizioni davvero terribili in cui versavano numerosi deportati». Una «struttura di comando fortemente deficitaria sul piano organizzativo» non riuscì a fare di meglio che allestire e avviare «un meccanismo che causò la morte di numerosi deportati [sia] strada facendo», sia in alcuni luoghi destinati al loro insediamento. [...] Sottraendo dal numero dei sopravvissuti quello della popolazione armena prebellica possiamo farci un’idea della dimensione quantitativa delle perdite subite dalla comunità armena durante la prima guerra mondiale. Stando ai dati da me accettati (1.750.000 popolazione prebellica e 1.108.000 sopravvissuti), il numero dei morti si aggira intorno ai 642.000, ossia il 37 per cento della popolazione prebellica. [...] La questione se il dato di 642.000 da me accolto, per indicare il numero dei decessi degli armeni, sia più o meno attendibile perde importanza davanti all’incredibile tragedia umana che sta dietro le statistiche, indipendentemente dalla cifre avanzate per quantificarla. 2. Enver Pascià (1881-1922), tra i leader della rivoluzione dei “Giovani turchi” nel 1908 e membro del triumvirato alla guida dell’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale. 3. Lago che sorge nella regione della città di Vian, nella parte orientale dell’Anatolia, dove era scoppiata una rivolta armena nell’aprile del 1915. 4. Stanford Jay Shaw (1930-2006), storico statunitense co-autore, insieme alla moglie Ezel Kural Shaw, di due volumi sulla storia dell’Impero ottomano e della Turchia moderna (pubblicati nel 1976-77). 5. Salahi Sonyel (1932-2016), storico turco. 6. Mim Kemal Öke (1955), storico e scienziato politico turco. METODO DI STUDIO

 a   Cerchia le date presenti nel testo e sottolinea gli eventi corrispondenti. Quindi trascrivi sul quaderno date ed eventi che ritieni essere più rilevanti per rendere l’idea di ciò che accadde.  b   Spiega quale incoerenza esiste, secondo Lewy, fra quanto espresso nei decreti che riguardarono la deportazione degli armeni e la loro applicazione e quali furono le conseguenze.  c   Indica per iscritto chi sono i soggetti storici protagonisti degli eventi descritti e sintetizza quanto accaduto facendo riferimento alle cause e alle conseguenze. Spiega, inoltre, se esiste un punto di vista diverso su questi eventi e perché.

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FARESTORIA La grande strage



35d IL RIFIUTO DELLA GUERRA

Q. Antonelli, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Donzelli, Roma 2014, pp. 15657; La grande guerra. Operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale, a c. di S. Fontana e M. Pieretti, Silvana Editoriale, Milano 1980, pp. 72-73.

I brani che seguono sono tratti da due lettere scritte da soldati al fronte: testimoniano come gli entusiasmi patriottici delle prime settimane di guerra lasciarono presto spazio allo sconforto e alla disperazione di milioni di uomini chiamati a combattere. Il primo testo (I) è una parte della lettera che Emilio Fuscari, nato a Trento e quindi richiamato nell’esercito austroungarico subito dopo lo scoppio della guerra, scrisse nel maggio 1915, quando si trovava sul fronte russo: da queste poche righe, che raccontano i momenti successivi a

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I Stavo oservando il numero dei prigionieri che saltava di tutt’onda quei fili di fero per salvarsi la vita. Quando vidi un’oficiale Austriaco poco lontano da me, col rivolver apuntato1 su loro e far fuoco sui miseri che inplorava pietà che vidi io ne [h]a aterato2 più di 8. Che li pasav[an]o a lui vicini fino che fu visto da un suo superiore e che li fece fermare quel fuoco, crudele e barbaro sulle vitime pentite. C’inoltramo avanti e faciamo Austriaca quella lungha trincea russa. Ci fermiamo li un poco oservai molti infelici spezzati per mezo3, chi via le gambe altri la testa altri con le budele ai piedi tutti fragascati4 dalle granate. Questi era russi. Rimasi un pò [addolorato] vedendo una tal carneficina. Ma poi rifletendo [h]o detto! almeno questi [h]an terminato il martirio e quasi invidiai quella sorte. [...] Era verso le 5 del mattino quando ci siamo alzati da quella caverna per prendere di nuovo viagio nella retirata russa! Vi lascio immaginare, dopo 3 giorni e 3 notti di si dura pena, sempre colla morte in bocca, e dormire nel’aqua, e senza meno lombra di mangiare e pensando, di aver lasciati cari amici soterati li in quella orida terra, trufata5 di un sangue giovane, innocente, et ora ing[h]iotiti per più tornar alla luce. Pensai un pò allora, alle parole dei preti di cui voleva incoragiarsi, col dirci che e un dovere della patria che dobiamo adempir di vero amore, e che Dio non vi bandonerà mai, e di inluminarlo specialmente, quando siete sul campo di batalia, e che solo lui sapra sligerirvi6 dal martirio e dai pericoli. Ma volgendo il pensiero ai 3 giorni pasati di cui vidi più e più infelici, pregando aiuto nell’ultimo suo momento di vita e dovendo spegnersi nelleterna vita, senza alcun conforto senza un dovere religioso.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

un assalto vincente portato a una trincea nemica, emergono tutte le perplessità riguardo la guerra che sta combattendo e la sfiducia verso chi aveva inviato tante persone come lui a morire in battaglia. Il secondo brano (II) è invece la lettera dalle retrovie di Isidoro Arici, un fante contadino bresciano, scritta dal fronte italo-austriaco nel maggio 1917, dopo due anni di guerra. Anche in queste righe sono espressi chiaramente il rifiuto della guerra e la sua insensatezza, ma l’autore presta una particolare attenzione soprattutto alla realtà che gli è più familiare: la campagna con la fioritura primaverile, che porta alla sua mente le preoccupazioni per il raccolto e il lavoro agricolo che non può fare, essendo lontano da casa.

Da li io incominciai a perder fiducia nei preti, in Dio e in tuto quello che mi fu sta detto ancor da bambino. E perche e un dovere della patria, e una volontà di Dio, non viene i suoi ministri at asi[n]cer[ar]si, e a fare il suo dovere da catolici anche in mezzo a simili pericoli? ma solo colla parola ci [h]an compagnati in mezo a quei disagi, che solo luomo di sua forza naturale può sopportarli; e se un Dio esistesse, non lo crederei si duro da lasciar corere simili infamie tali maltratamenti senza un freno di luce... II Galeriano, 7 maggio 1917. Cari genitori, Giacché trovo un’ora di tempo voglio farvi sapere mie notizie, la mia salute al presente è ottima come spero di voi tutti in famiglia. Come vi replico ancora che io mi ritrovo in questo paese che si chiama Galeriano7 qui mi fanno fare listruzione8 tutto il giorno altro che si sta male col rangio che tutti i soldati si lamentano, però a me farebbe poco9 che non mi darebbe il rangio che mi partiene ne il tabacco pure che mi lasciano qui in Italia10 e non mandarmi in trincea adesso cari genitori posso ringraziare il Signore che io mi ritrovo qui in Italia che mentre i miei compagni Boris e Palazzi e Gatti lori sono in trincea e ci tocca di fare il turno di 21 giorni e se ci va male li fanno stare anche per quarta11 giorni, adesso mi ritrovo contento a pensare che siamo così indietro di più di cento chilometri e pure adesso è due o tre giorni che hanno cominciato a fare degli attacchi sentiamo il canone come fossero d’essere la in trincea, questo mese di maggio è un mese molto brutto per i soldati che si trova nelle trincee perché arivano sempre delli ordini di fare delle avansate e fare le avansate è molto

brutto. Voglio farvi sapere il Signor Curato che mi ha scritto una lettera e mi ha detto di non pensar male che in questo fronte nella zona di Gorizia il nemico non può più avanzarsi, invece è tutto allincontrario questo fronte nella zona di Gorizia è il fronte più brutto che ci sia perché è quello più vicino a trieste e il nemico quntinua12 sempre a fare fuoco, e poi sento i Signori uficiali lo dicono anche lori che questo è il fronte più brutto, io ho provato sei giorni e ho già visto quello che vuol dire la guerra e questo regimento del 7° fanteria è sempre stato qui in questo fronte nella zona di Gorizia e fanno a posta per castigarli perché son tutti soldati della bassa Italia13 e sono quasi tutti volontari che lori la sua vita la mettono per il niente14. Caro Padre fatemi sapere come va nella campagna se hanno fiorito bene, e se potete accorgervi se vedete dell’uva e dei frutti; anche qui nelle colline Austriace che [h]anno quistato15 i nostri Italiani siamo attendati16 due giorni prima di venire in Italia mi pareva di essere nel

1. Revolver puntato. 2. Ucciso. 3. A metà. 4. Fracassati. 5. Impregnata. 6. Alleggerirli. 7. Galleriano, paesino nei pressi di Udine. 8. Addestramento, esercitazioni. 9. A me importerebbe poco. 10. Nelle retrovie. 11. Quaranta. 12. Continua. 13. Italia meridionale. 14. Non temono di morire e sono disposti a perdere la vita in guerra. 15. Conquistato. 16. Accampati.

nostro ronco17 si vedevano le belle piante di frutta ben fiorite e poi anche le viti e anche la bella erba, fatemi sapere quanti ne tenete di bachi18, io credo che ne tenete molti pochi perché nella campagna del lavoro ne avete anche tropo e che bestie che avete in stalla. Aspeto vostra risposta. Vi faccio sapere che i soldi ne meno il pacco non leo19 ancora da ricevere e adesso qui mi daranno forse



10 cent. al giorno non posso saperlo perché non mi a ancora da dare la... [illeggibile]. Intanto vi saluto tutti uniti in famiglia e sono vostro figlio e vi ricorda sempre Isidoro.

17. Podere. 18. Bachi da seta. 19. Li ho.

36 O. JANZ CENSURA E PROPAGANDA

O. Janz, 1914-1918. La grande guerra, Einaudi, Torino 2014, pp. 226-30.

In questo brano lo storico tedesco Oliver Janz (nato nel 1960) si sofferma sull’importante ruolo che ebbero la censura e la propaganda durante la guerra: analizza in che modo e con quale scopo gli Stati belligeranti controllarono la stampa e Con lo scoppio della guerra iniziò subito in tutti i paesi coinvolti anche una battaglia attorno all’opinione pubblica. La si combatté da un lato per convincere il mondo, e in particolare i paesi neutrali, di come il proprio modo di rappresentare sé e il nemico fosse corretto. Dall’altro la lotta si rivolse verso l’interno: si doveva coinvolgere mentalmente l’intera società nella guerra in un modo sconosciuto fino ad allora ed orientarla in senso statale. La totalizzazione della guerra si rifletté non da ultimo nel poderoso ingranaggio della propaganda che alla fine divenne ovunque strumento irrinunciabile della guerra «interna». In Germania con la dichiarazione dello stato di guerra si cancellò la libertà di stampa e i comandanti dell’esercito responsabili di quell’ambito, in tutto 57, furono incaricati di esercitare la censura. La questione delle responsabilità e delle competenze ritornava però di continuo. I conflitti tra cancelleria del Reich, ministeri ed esercito, già esistenti prima della guerra, trovarono in essa la loro naturale prosecuzione e divennero sintomatici del sistema tedesco di spartizione del potere. Soprattutto la sezione informazioni della direzione suprema dell’esercito (Oberste Heeresleitung, Ohl), guidata dal tenente colonnello Nicolai e incaricata all’inizio solo di spionaggio, ebbe un ruolo significativo nella propaganda. A essa sottostava il neo-fondato ufficio per la stampa di guerra con la sezione di censura superio-

METODO DI STUDIO

 a   Individua e scrivi un titolo che sintetizzi la situazione descritta per ognuno dei due documenti.  b   Evidenzia nei due brani le espressioni in grado di trasmettere le emozioni provate dai due soldati ed esprimile con parole tue sul quaderno. Quindi indica per ognuna di esse la causa.  c   Leggi con attenzione il cappello introduttivo e individua e numera le parti che si riferiscono ai contenuti dei due documenti. Quindi trascrivi i numeri corrispondenti nelle lettere.

provarono a influenzare l’opinione pubblica all’interno e all’esterno dei loro paesi. Come mostra Janz, la Germania adottò inizialmente scelte diverse rispetto alla Francia, alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, ma poi introdusse, proprio imitando i suoi avversari, nuovi metodi e strumenti più efficaci che puntavano maggiormente sull’impatto visivo del messaggio: manifesti, cartoline e, soprattutto, il cinema.

re. Esistevano sezioni analoghe nell’ufficio della marina imperiale, nel ministero della Guerra e nel settore degli Esteri. Nascevano lì le severe linee di censura che però poi trovavano applicazioni variabili a causa della perdurante indipendenza dei comandanti dell’esercito. [...] Rispetto alla posizione decentralizzata di cui la stampa godeva in Germania, la Francia possedeva un servizio di informazione centralizzato già all’inizio della guerra: la Maison de la presse1, dipendente dal ministero degli Esteri e rivolta soprattutto alla propaganda estera. La sorveglianza degli organi di stampa rientrava tra i compiti dei prefetti nei départements2. La censura francese fu molto rigida e risultò tra le più severe della guerra, eppure il popolo accettò senza proteste la repressione di qualsiasi manifestazione di scontento. [...] Lo Stato lasciò alla stampa stessa il compito di influenzare l’opinione pubblica, anche se il ministero della Guerra forniva bollettini ai giornali. In breve tempo esagerazioni estreme delle prestazioni dell’esercito e invettive particolarmente grezze contro i nemici caratterizzarono gli articoli di molti giornali francesi, il che fu ben presto designato dai soldati con il concetto dispregiativo di «bourrage de crâne» (intasamento del cervello). La censura tedesca cercò invece di impedire simili eccessi per conservare la propria credibilità. In Gran Bretagna, come in Germania,

all’inizio non vi fu alcun organo centrale. L’organizzazione della propaganda si legò al War Propaganda Bureau, noto anche come Wellington House3, che cercava di guadagnare il favore dell’opinione pubblica nei paesi neutrali e allo stesso tempo di mobilitare gli intellettuali britannici per la propaganda in patria. Al centro del tentativo statale, per altro all’inizio piuttosto titubante, di orientare l’opinione pubblica vi fu fino all’introduzione della leva obbligatoria la mobilitazione dei volontari. Il paese fu quindi ricoperto da un fiume di 5,7 milioni di manifesti pubblicitari. Gli inglesi comunque erano abituati a simili sistemi, che conoscevano già dalle campagne elettorali in tempo di pace. Negli Usa il presidente Wilson creò dopo l’ingresso in guerra il Commitee on Public Information (Cpi), la cui direzione fu affidata al giornalista George Creel4. Si può considerare questa istituzione come il punto di partenza della successiva industria americana delle relazioni con il pubblico. Tempestando i giornali

1. In italiano, la “casa della stampa”. 2. Circoscrizioni amministrative in cui è suddiviso il territorio francese. 3. L’edificio dove aveva sede a Londra questo ufficio di propaganda di guerra. 4. George Edward Creel (1876-1953), giornalista e scrittore statunitense.

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FARESTORIA La grande strage

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con tonnellate di materiale informativo il Cpi riuscì a convincere i più ad accettare acriticamente le sue posizioni e le conseguenze che ne derivavano. Anche il numero dei volantini e dei manifesti impiegati nelle campagne di propaganda fu straordinario. Inoltre il Cpi ogni settimana occupava 20.000 colonne sui vari giornali per evocare l’unità degli americani, la bassezza del nemico e la necessità di una «crociata». Oltra alle sue campagne di informazione lo Stato cercò anche di mobilitare ampi strati della popolazione per il lavoro di propaganda e potenziarne gli effetti. Creel inventò il cosiddetto «Four Minute Man», un’istituzione attraverso la quale americani venivano ingaggiati anche nei paesi più piccoli come oratori non retribuiti per tenere un discorso di quattro minuti attenendosi a indicazioni fisse. Secondo le stime 400 milioni di persone dovrebbero aver ascoltato uno di questi discorsi tra il 1917 e il 1918. Se si osserva l’organizzazione della propaganda, si constata che nelle potenze occidentali lo Stato si rivolgeva per lo più all’auto-mobilitazione della società. Censura e pilotaggio degli organi di stampa c’erano anche lì, come nel Reich tedesco, ma gli sforzi per influire attivamente sull’opinione pubblica si indirizzavano più a un sistema di collaborazione volontaria che a un diretto pilotaggio dall’alto. Comunque anche la propaganda tedesca e le pubbliche relazioni mostrarono nel corso della guerra buona capacità di migliorarsi e svilupparsi: nei primi due anni di guerra dominarono ancora metodi tradizionali, derivanti da una prospettiva marcatamente burocratica e militarista. [...] Dall’estate del 1916 con l’ingresso della terza direzione suprema dell’esercito sotto Hindenburg e Ludendorff5 si mise in moto una profonda «modernizzazione» della politica comunicativa tedesca. Il tema propaganda non solo guadagnò notevolmente di significato, ma visse anche un mutamento di stile e di contenuto, lontano da forme di pensiero conservatrici e più vicino a quelle radical nazionaliste. [...] Durante la guerra a trasformarsi non furono però solo i contenuti, ma anche i metodi e i mezzi di comunicazione. Forme moderne di relazione con il pubblico, come si usavano nelle pubblicità e già da prima e con maggior forza nella propaganda alleata, si diffusero adesso

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

anche in Germania. L’elemento visivo cominciò a giocare un ruolo sempre più decisivo. Vennero stampate innumerevoli cartoline con motivi di guerra seri o caricaturali. Anche i manifesti ebbero grande importanza in tutti i paesi coinvolti. Particolarmente conosciuti ancora oggi sono i poster britannici e americani usati per reclutare i soldati e i manifesti con immagini che dal 1917 vennero diffusi in Germania per esortare la popolazione a sottoscrivere prestiti di guerra. Per la sua vicinanza alla pubblicità l’uso del manifesto era stato a lungo criticato in Germania, ma nella seconda metà del conflitto per lo stesso motivo divenne il mezzo privilegiato di diffusione di messaggi politici. Ancor più innovativo dei manifesti fu l’impiego di un nuovo medium6, il cinema. Immagini e film svolsero una funzione importante soprattutto per la propaganda nei paesi neutrali, ma furono anche un modo per influenzare la popolazione interna. A tal fine vennero girati numerosi film e documentari. Uno dei più famosi e di maggior successo fu il britannico The Battle of the Somme del 19167. In Germania i film trovarono nei primi anni di guerra scarso impiego, ma dal 1917 l’ufficio per l’immagine e il cinema (Bild und Filmant), un’istituzione dell’Ohl, prese a coordinare a livello centralizzato la produzione e distribuzione della propaganda cinematografica. Lo stesso anno su iniziativa di Ludendorff nacque la Universum Film AG, una grande casa cinematografica a controllo statale che esiste ancora oggi. I film prodotti erano pensati soprattutto per il gruppo più numeroso in patria, gli operai, e miravano ad allontanare dalle fatiche della vita quotidiana, ma allo stesso tempo mobilitare ulteriori interventi a sostegno della guerra. Lo Stato compì molti sforzi anche per influenzare i soldati, il cui morale era non meno importante di quello dei civili in patria. Così vennero realizzati cinema da campo al fronte e dietro il fronte. Un altro strumento d’influenza, capace di fondare l’identità soldatesca, furono i giornali di campo, diffusi in tutti gli eserciti e su tutti i fronti. Anche la direzione suprema dell’esercito infine ne riconobbe l’importanza e cercò, fondando l’ufficio della stampa di campo, d’influenzare i giornali per i soldati in modo mirato e di utilizzarli per diffondere le interpretazioni desiderate. [...]

Entrambi gli schieramenti cercarono non solo di ottenere la supremazia nell’opinione pubblica, ma anche di rinsaldare la tenuta delle rispettive società e trasmettere loro la fiducia nella vittoria. Quando nel corso della guerra vennero meno i successi e la popolazione cominciò a pagare con un numero di vittime sempre più numeroso, gli opinionisti spinsero sempre di più sulla propaganda della resistenza. Non si può valutare complessivamente quali effetti sortirono, tuttavia in mancanza di successi il risultato ottenuto fu l’esatto contrario di quello sperato. Ma alla lunga le immagini e i concetti plasmati dalla propaganda durante la guerra, siano essi la visione di una comunità del popolo o la promessa di democrazia universale, si sono impressi nella mente delle persone. 5. Paul Ludwig von Hindenburg (1847-1934), comandante supremo delle forze armate tedesche, fu poi presidente della Repubblica di Weimar; Erich Ludendorff (1865-1937), generale tedesco, principale collaboratore di Hindenburg. 6. Mezzo di comunicazione. 7. Sulla preparazione della controffensiva francese e britannica sul fiume Somme iniziata nell’estate del 1916.

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia il ruolo e il fine della propaganda nel contesto storico descritto.  b   Cerchia i nomi dei paesi citati e sintetizza sul quaderno gli obiettivi e il modo in cui, in ognuno di essi, si sviluppò la propaganda bellica.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 3 MANIFESTO BRITANNICO DI RECLUTAMENTO IS YOUR HOME WORTH FIGHTING FOR? (VALE LA PENA COMBATTERE PER LA TUA CASA?), 1917

La prima guerra mondiale fu caratterizzata dall’uso massiccio della propaganda, condotta per lo più tramite spettacoli, conferenze, opuscoli e manifesti come questi, volti a rafforzare il sostegno popolare in ogni sua forma, diretta o indiretta. Questo manifesto invita gli uomini ad arruolarsi mostrando l’interno di una casa con una famiglia che si appresta a consumare il pasto serale quando due soldati tedeschi entrano armati di baionette: «Vale la pena combattere per la tua casa? Quando il nemico arriverà alla tua porta sarà troppo tardi. Arruolati adesso». 

GUIDA ALLA LETTURA

 a   Cerchia i personaggi presenti nel manifesto e indica il loro ruolo. Quindi osserva con attenzione le espressioni del volto e prova a descrivere i sentimenti rappresentati.  b   Spiega adesso quale situazione è stata rappresentata e perché facendo riferimento anche al testo scritto.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di massimo 10 righe sulla propaganda ufficiale e l’organizzazione del consenso facendo riferimento al cappello introduttivo del percorso e del brano di Janz [►36], a quest’ultimo e alla [►FONTE ICONOGRAFICA 3]. Schematizza i contenuti utili al tuo ragionamento, sintetizzali sul quaderno e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti a cui fai riferimento citando opportunamente le fonti.

2 Facendo riferimento ai brani storiografici e alle fonti presenti

nel percorso, scrivi un testo di circa 25 righe che metta a confronto le aspettative che precedettero il conflitto e che accolsero il suo scoppio con la realtà della guerra e con le contromisure comunicative che furono intraprese per ovviare, almeno in parte, ad essa. Prima di procedere con la scrittura, realizza una tabella basata sulle informazioni contenute nei testi i cui indicatori siano le situazioni descritte nella consegna e utilizza le informazioni raccolte per costruire una mappa concettuale che ti guidi nell’elaborazione del testo.

UNA GUERRA MODERNA E TECNOLOGICA Durante la prima guerra mondiale furono sperimentate nuove tecnologie belliche e nuovi armamenti: ogni esercito, infatti, sostenuto dai moderni apparati industriali, tentò di introdurre mezzi sempre più innovativi ed efficaci, così da sbloccare la situazione di stallo creatasi già dopo poche settimane di combattimento. La cosiddetta “guerra di posizione” ebbe il suo simbolo nella trincea, descritta nel primo brano da Stéphane Audoin-Rouzeau [►37], al quale fa seguito la testimonianza di Emilio Lussu [►38d] su un assalto a una postazione nemica. Come mostra il brano di Stuart Robson [►39] l’utilizzo tattico di nuovi e più sofisticati mezzi quali l’aereo e il carro armato fu solo in parte risolutivo. Maggiore importanza ebbe invece il sommergibile: la guerra sottomarina, attuata dai tedeschi, cui è dedicato il brano di Philippe Masson [►40], riuscì a mettere in difficoltà, colpendo i rifornimenti commerciali, le potenze belligeranti e, soprattutto, fu determinante nel convincere gli Stati Uniti ad intervenire nel conflitto.

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FARESTORIA Una guerra moderna e tecnologica



37 S. AUDOIN-ROUZEAU LA TRINCEA

S. Audoin-Rouzeau, Le trincee, in La prima guerra mondiale, a c. di S. Audoin-Rouzeau e J.J. Becker, ed. italiana a c. di A. Gibelli, vol. I, Einaudi, Torino 2007, pp. 231-36.

Prima del 1914, gli stati maggiori degli eserciti europei avevano previsto uno scontro destinato a concludersi nel giro di pochi mesi. Milioni di soldati, dopo le iniziali fasi di guerra e le prime avanzate, si trovarono invece impegnati in una logorante

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Le origini della trincea vanno ricercate nell’inattesa strategia di difesa messa in atto dalle fanterie all’indomani della battaglia sulla Marna nel settembre 1914. Spossati dalle immense fatiche delle settimane precedenti, i soldati iniziarono a scavare di loro spontanea volontà delle buche, dette «tane di volpe», per proteggersi dai proiettili. Una volta collegate tra loro queste buche formarono le prime linee di trincea. Pare siano stati i fanti tedeschi, meglio addestrati alle fortificazioni di campagna, a dare l’esempio di questo interramento sistematico [...]. Il sistema delle trincee riflette la superiorità della difesa sull’attacco, la quale costituì una delle caratteristiche principali della Grande Guerra e fu all’origine dell’estensione delle trincee alla quasi totalità dei fronti. Sul fronte orientale, tuttavia, non si affermarono che nel dicembre 1914 e furono costruite in modo più approssimativo: le posizioni, meno profonde e meno organizzate, potevano essere più agevolmente abbandonate in funzione del movimento delle armate. Sul fronte occidentale, molto meno fluido, la guerra di posizione raggiunse in compenso un elevato grado di sofisticazione, e le sue tecniche furono prese ad esempio nei teatri di guerra secondari, come i fronti austro-italiano e balcanico (in cui le condizioni di vita e di combattimento erano rese ancora più difficili dai rilievi montuosi), così come sui Dardanelli (dove la postazione a strapiombo dei turchi rendeva particolarmente disagevole la vita nelle trincee anglosassoni situate più in basso). Nella guerra di trincea, i belligeranti erano separati da una zona di estremo pericolo: la no man’s land. Sul fronte occidentale la sua ampiezza poteva variare da qualche centinaio di metri nella zona piana, a qualche dozzina nella foresta o in montagna. La vista su questo spazio era impedita dagli estesi reticolati sistemati dai soldati durante le corvée notturne. Da entrambe le parti della no man’s land le trincee si presentavano come una se-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

guerra di posizione. La trincea, cioè il fossato con rialzo scavato dai militari per proteggersi dagli attacchi della fanteria e della artiglieria nemica, divenne presto l’emblema della prima guerra mondiale e di un nuovo modo di combattere. Nel brano seguente, lo storico Stéphane Audoin-Rouzeau (nato nel 1955), tra i più accreditati studiosi francesi del primo conflitto mondiale, analizza le origini di questo sistema difensivo e descrive le sue principali caratteristiche.

rie di linee di difesa in successione, più o meno parallele, mai rettilinee per evitare i tiri d’infilata del nemico. La prima linea, utilizzata per il combattimento, era solitamente protetta da un parapetto di sacchi di terra che funzionava da riparo e da banco da tiro. Questa zona era preceduta da postazioni ancora più avanzate: piccoli luoghi di osservazione destinati alle sentinelle, scavate segretamente nella no man’s land prima degli attacchi, da dove si organizzavano le truppe di assalto. Le prime linee erano collegate alle retrovie, dette trincee di rinforzo, attraverso cunicoli e gallerie perpendicolari alle prime postazioni (le seconde linee erano protette da altri reticolati e generalmente erano costruite in contropendenza per evitare che venissero avvistate e raggiunte dal tiro nemico). La seconda linea era collegata a sua volta a una trincea di riserva, dalla quale partivano altri camminamenti che permettevano di instradare i soldati verso gli accampamenti. [...] I tedeschi furono i primi a utilizzare il calcestruzzo e a scavare rifugi sotterranei profondi e sicuri, a volte collegati a rete, spesso persino riscaldati e illuminati dall’elettricità. È vero peraltro che l’idea che si aveva delle trincee era diversa a seconda dei belligeranti: ai tedeschi che occupavano il Belgio, vasti spazi del Nord e dell’Est della Francia, oltre a territori ancora più vasti in Russia, la guerra di trincea poteva apparire un ripiego accettabile in attesa che il logoramento del nemico aprisse la strada al successo definitivo. Per i loro avversari, invece, la prospettiva di un interramento prolungato costituiva una rinuncia alla riconquista del territorio; da qui il carattere sommario delle installazioni, per un tipo di guerra che si considerava assolutamente provvisoria; di qui il gran numero di assalti inutili – e di morti – contro le prime postazioni nemiche [...]. Una delle principali debolezze del sistema delle trincee stava naturalmente nell’assenza di mobilità delle truppe, nelle difficoltà di spostamento dei mezzi e nei problemi

di approvvigionamento. Infatti le ferrovie a scartamento ridotto, il cui uso si fece peraltro sempre più generalizzato, non erano sufficienti a risparmiare alle fanterie pesanti servizi di trasporto verso le prime linee. Anche i rifornimenti di cibo spesso raggiungevano gli uomini degli avamposti soltanto a prezzo di stressanti corvée1. Quanto al telefono da campo, garantiva la trasmissione essenziale, ma i suoi fili risultavano fragili e dovevano essere costantemente riparati in periodi sia di offensiva sia di bombardamento: razzi e agenti di collegamento dovevano allora supplire al blocco delle comunicazioni. Era soprattutto lo spostamento degli uomini che costituiva una tortura, perché la complessità dei camminamenti triplicava, in rapporto alle distanze calcolate in linea retta, il numero di chilometri da percorrere. [...] Quanto ai feriti, rannicchiati sotto un telo tirato ai quattro angoli, distesi su brande difficili da trasportare nei cunicoli, o costretti a guadagnare con i propri mezzi le postazioni di soccorso, il loro calvario fu indicibile. D’altra parte, il sistema delle trincee era sommario solo all’apparenza. Lo sviluppo delle tecniche di osservazione (sia dal suolo con i periscopi sia per mezzo delle mongolfiere e degli aerei con le fotografie dall’alto) ma anche il miglioramento delle pratiche mimetiche dimostravano, al contrario, il suo crescente grado di sofisticazione. [...] La sopravvivenza nelle trincee richiedeva dunque un «sapere bellico» specifico e questo spiega le difficoltà del passaggio a una guerra offensiva da parte dei francesi e dei britannici a partire dall’estate del 1918: addestrati alla guerra di posizione della quale conoscevano tutte le pieghe, essi, contrariamente agli americani, fecero grande fatica a ricominciare con il movimento in

1. Servizi e compiti molto faticosi affidati ai soldati.

campo aperto. In fondo, l’uso sistematico delle trincee fece della Grande Guerra un lungo e immenso conflitto di assedio all’interno del quale si ritrovavano le tecniche del passato, come lo sviluppo di un’artiglieria capace di tiri ricurvi per raggiungere le postazioni nemiche, o l’interramento delle mine destinate a far saltare le postazioni avversarie. Di fronte alla terribile efficacia di tale dispositivo, le tecniche d’assalto subirono un’evoluzione. Agli iniziali tentativi di sfondamento senza previo bombardamento, nel corso dei quali le fanterie finivano contro i reticolati che avevano resistito all’artiglieria ed erano dunque insormontabili, seguirono le lunghe preparazioni dell’artiglieria destinata a schiacciare le difese avversarie e ad aprire la strada alla fanteria. Ma esse avevano l’inconveniente di avvertire l’avversario dell’imminente attacco. Un

NEMICA

affinamento di questa tattica di bombardamento preliminare fu dunque lo sbarramento mobile escogitato a partire dal 1916, in virtù del quale, grazie a una pianificazione precisa, la fanteria attaccava dietro uno sbarramento di artiglieria che si spostava progressivamente in avanti. Tuttavia, pur limitando le perdite, quest’innovazione non consentì più di aprire varchi definitivi. [...] Nella guerra di trincea, in effetti, ogni offensiva finiva per perdere forza a mano a mano che penetrava in seno al dispositivo nemico. L’indebolimento delle ondate d’assalto, l’impossibilità di spostare l’artiglieria in avanti su un terreno disastrato, nonché la capacità dell’avversario di inviare rinforzi per mezzo di camion e di treni portarono allo scacco di tutti i grandi tentativi di aprire un varco nei sistemi difensivi, perlomeno sul fronte occidentale. Questi

38d EMILIO LUSSU L’ASSALTO ALLA TRINCEA

E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Einaudi, Torino 2000, pp. 104-10.

Emilio Lussu (1890-1975), uomo politico e scrittore, combatté nella prima guerra mondiale, dopo essersi arruolato volontario, come ufficiale della Brigata Sassari. Dopo la guerra fu tra i fondatori del Partito sardo d’azione. Antifascista, da deputato partecipò alla “secessione dell’Aventino”: arrestato dal regime, nel 1929 fuggì dal confino Il battaglione era pronto, le baionette innestate. La 9ª compagnia era tutta ammassata attorno alla breccia dei guastatori. La 10ª veniva subito dopo. Le altre compagnie erano serrate, nella trincea e nei camminamenti e dietro i roccioni che avevamo alle spalle. Non si sentiva un bisbiglio. Si vedevano muoversi le borracce di cognac. Dalla cintura alla bocca, dalla bocca alla cintura, dalla cintura alla bocca. Senza arresto, come le spolette d’un grande telaio, messo in movimento. Il capitano Bravini aveva l’orologio in mano, e seguiva, fissamente, il corso inesorabile dei minuti. Senza levare gli occhi dall’orologio gridò: «Pronti per l’assalto!». Poi riprese ancora: «Pronti per l’assalto! Signori ufficiali, in testa ai reparti!».[...] Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre

tentativi degeneravano in interminabili e sanguinosi scontri che duravano a volte per mesi e furono necessari l’accoppiata carro-aereo e l’apporto delle truppe americane perché gli alleati, nel corso della seconda metà del 1918, riuscissero infine a uscire dall’impasse strategica.

METODO DI STUDIO

 a   Spiega come nasce e cosa simboleggia il sistema delle trincee.  b   Sottolinea le informazioni principali relative alla “no man’s land”.  c   Spiega per iscritto come erano costruite le trincee, cosa ne attestava il grado di sofisticazione e le caratteristiche che erano proprie del tipo di guerra ad esse legato. Prima di procedere con la scrittura evidenzia nel brano le parole chiave per ogni argomento da trattare e utilizzale come guida per il tuo elaborato.

di Lipari e a Parigi diede vita, assieme a Carlo Rosselli, al movimento Giustizia e Libertà. Partecipò alla Resistenza e, nel secondo dopoguerra, fu deputato per il Partito d’azione, per poi aderire al Partito socialista. Scritto tra il 1936 e i 1937 e apparso per la prima volta a Parigi nel 1938, Un anno sull’Altipiano descrive la dura esperienza di guerra di ufficiali e soldati. Nel brano seguente, Lussu racconta un attacco di soldati italiani a una trincea nemica, descrivendo le modalità di un assalto e i suoi altissimi costi umani.

chino sull’orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quelli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono. Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile. «Pronti per l’assalto!» ripeté ancora il capitano. L’assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra. Le parole del capitano caddero come un colpo di scure. La 9ª era in piedi, ma io non la vedevo tutta, talmente era addossata ai parapetti della trincea. La 10ª stava di fronte, lungo la trincea, e ne distinguevo tutti i soldati. Due soldati si mossero ed io li vidi, uno a fianco dell’altro, aggiustarsi il fucile sotto

il mento. Uno si curvò, fece partire il colpo e s’accovacciò su se stesso. L’altro l’imitò e stramazzò accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia? Il primo era un veterano del Carso1. [...] Quando la testa della 10ª fu alla breccia2, noi ci buttammo innanzi. La 10ª, la 11ª e la 12ª seguirono di corsa. In pochi secondi tutto il battaglione era di fronte alle trincee nemiche. Che noi avessimo gridato o no, le mitragliatrici nemiche ci attendevano. Appena oltrepassammo una striscia di terreno roccioso ed incominciammo la discesa

1. L’altopiano roccioso del Carso, che si trova al confine tra l’Italia e la Slovenia, fu uno dei principali fronti di guerra tra l’esercito austriaco e italiano e teatro di sanguinosi combattimenti. 2. Apertura, varco.

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FARESTORIA Una guerra moderna e tecnologica

verso la vallata, scoperti, esse aprirono il fuoco. Le nostre grida furono coperte dalle loro raffiche. A me sembrò che contro di noi tirassero dieci mitragliatrici, talmente il terreno fu attraversato da scoppi e da sibili. I soldati colpiti cadevano pesantemente come se fossero stati precipitati dagli alberi. Per un momento, io fui avvolto da un torpore mentale e tutto il corpo divenne lento e pesante. Forse sono ferito, pensavo. Eppure sentivo di non essere ferito. I colpi vicini delle mitragliatrici e l’incalzare dei reparti che avanzavano alle spalle mi risvegliarono. Ripresi subito coscienza del mio stato. Non rabbia, non odio, come in una rissa, ma una calma completa, assoluta, una forma di stanchezza infinita attorno al pensiero lucido. Poi anche quella stanchezza scomparve e ripresi la corsa, veloce. Ora, mi sembrava di essere ridivenuto calmo, e vedevo tutto attorno a me. Ufficiali e soldati cadevano con le braccia tese e, nella caduta, i fucili venivano proiettati innanzi, lontano. Sembrava che avanzasse un battaglione di morti. [...] Se noi ci fossimo trovati su un terreno piano, nessuno di noi sarebbe arrivato ai reticolati nemici. Le mitragliatrici ci avrebbero falciati tutti. Ma il terreno era leggermente in discesa e coperto di cespugli e di sassi. Le mitragliatrici erano obbligate continuamente a spostare l’elevazione e il puntamento, e il tiro perdeva della sua efficacia. Non pertanto, le ondate d’assalto diradavano e su mille uomini del battaglione, pochi restavano in piedi ed avanzavano. Io guardai verso le trincee nemiche. I difensori non erano nascosti, dietro le feritoie. Erano tutti in piedi e sporgevano oltre la trincea. Essi si sentivano sicuri. Parecchi erano addirittura dritti sui parapetti. Tutti sparavano su di noi, pun-



tando calmi, come in piazza d’armi. [...] Il battaglione doveva attaccare su un fronte di 250-300 metri. Ma l’avvallamento del terreno ci aveva involontariamente sospinti, man mano che avanzavamo, verso la stessa striscia di terreno antistante alle trincee nemiche, larga appena una cinquantina di metri. Le mitragliatrici non potevano più colpirci, ma noi offrivamo, ai tiratori in piedi, un bersaglio compatto. I resti del battaglione erano tutti ammassati in quel punto. Contro di noi si sparava a bruciapelo. D’un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: «Basta! Basta!». «Basta!» ripeterono gli altri, dai parapetti. Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano. «Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare così.» Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano. Quegli che sembrava un cappellano, si curvava talmente verso di noi, che, se io avessi teso il braccio, sarei riuscito a toccarlo. Egli aveva gli occhi fissi su di noi. Anch’io lo guardai. Dalla nostra trincea, una voce aspra si levò: “Avanti! soldati della mia gloriosa divisione. Avanti! Avanti, contro il nemico!”. [...] Ero arrivato a una difesa di reticolati in cui mi sembrò si potesse passare. Attraverso i fili, infatti, v’era un passaggio stretto. Io l’infilai. Ma, fatto qualche passo, trovai lo sbarramento d’un cavallo di frisia3. Era impossibile continuare. Mi voltai e vidi soldati della 10ª che mi segui-

39 S. ROBSON AEREI E CARRI ARMATI

S. Robson, La prima guerra mondiale (1998), il Mulino, Bologna 2002, pp. 107-13.

Lo storico Stuart Robson, autore di numerosi studi sulla prima guerra mondiale, analizza nelle seguenti pagine le prime prove di alcune nuove armi, utilizzate per sbloccare la situazione di

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La formula «guerra totale» non richiama semplicemente i sacrifici illimitati che le varie nazioni andavano compiendo nel 1917, ma anche il modo in cui la perce-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

vano. Rimasi lì, inchiodato. Dalle trincee, nessuno sparava. In una ampia feritoia, di fronte, scorsi la testa d’un soldato. Egli mi guardava. Io non ne vidi che gli occhi. Vidi solo gli occhi. E mi sembrò ch’egli non avesse che occhi, talmente mi parvero grandi. Lentamente, io feci dei passi indietro, senza voltarmi, sempre sotto lo guardo di quei grandi occhi. Allora io pensai: gli occhi di un bue. Mi svincolai dai reticolati e mi diressi contro Avellini4. Sul tronco v’era già un gruppo di soldati in piedi, aggrappati fra di loro. Mentre io mi avvicinavo al tronco, dalla trincea nemica, una voce di comando gridò alta, in tedesco: «Fuoco!». Dalla trincea, partirono dei colpi. Il tronco si rovesciò e gli uomini caddero indietro. Avellini non era ferito e rispose con dei colpi di pistola. Tutti ci buttammo a terra, fra i cespugli, e ci riparammo dietro gli abeti. L’assalto era finito. Io ho impiegato molto tempo a descriverlo, ma esso doveva essersi svolto in meno d’un minuto. 3. Cavalletto di legno avvolto da filo spinato, usato come ostacolo e per chiudere i varchi tra i reticolati. 4. Tenente della 9° Compagnia.

METODO DI STUDIO

 a   Ripercorri le emozioni del protagonista indicando per iscritto come cambiano in relazione agli eventi descritti. Prima di procedere con la scrittura evidenzia le emozioni quando citate o indicale quando è possibile desumerle dalla narrazione e sottolinea gli episodi che le sollecitano.  b   Descrivi ciò che provano i soldati durante l’assalto, quale situazione “particolare” si crea, e come reagisce il generale.

stallo determinatasi nei primi mesi di conflitto e per rafforzare gli apparati difensivi di ogni schieramento. L’autore si sofferma in particolare sul miglioramento tecnologico e sulle innovazioni che investirono progressivamente due precisi ambiti: la guerra aerea, con la nascita dei moderni “caccia”, e quella terrestre, con la comparsa dei primi modelli di carro armato.

zione di un’impellente necessità scatenava innovazioni tecnologiche di ogni sorta. Due di queste nuove tecnologie che la guerra sollecitò, l’aviazione e i car-

ri armati, meritano speciale menzione. [...] Il fascino popolare dei piloti da caccia e degli scontri aerei ravvicinati fa ancora

dimenticare l’opera ben più prosaica ma importante degli aviatori, che era quella di fungere da occhio nel cielo per le forze di terra svolgendo il lavoro di ricognizione e di individuazione dell’artiglieria nemica: lo sviluppo dei caccia si ebbe proprio come strumento per impedire al nemico questo tipo di avvistamento dall’alto. All’inizio i piloti disponevano di armi da fianco, come le pistole, per far fuoco sul nemico. Le mitragliatrici sarebbero indubbiamente state l’ideale, ma a parte il problema di reperirne una abbastanza leggera per aerei dalla capacità di trasporto ridotta, era il velivolo stesso a porre un problema: non c’era posto per montare una mitragliatrice che avesse una buona visuale di tiro. Furono gli stessi aviatori in guerra ad affrontare il problema dell’armamento aereo escogitando alcune soluzioni. Il 1° aprile del 1915, Roland Garros1, un pilota francese, utilizzò una mitragliatrice di prua per abbattere un ricognitore tedesco. L’arma era sincronizzata alla bell’e meglio con l’elica, e per deviare i proiettili fuori sincronia Garros adattò alle pale delle fasce metalliche; con essa divenne padrone dell’aria per due settimane, fino a quando la logica della guerra industriale ebbe il sopravvento. Poiché le due parti si equivalevano dal punto di vista tecnologico, quel che l’una riusciva a fare poteva farlo anche l’altra: quando Garros andò a schiantarsi dietro le linee tedesche, Anthony Fokker scoprì la chiave del suo successo. Fokker era un olandese i cui progetti aeronautici avevano destato l’interesse delle autorità tedesche prima della guerra2; a questo punto gli fu consegnato l’aereo di Garros con la richiesta di far meglio. Le placche che Garros aveva improvvisato non risultavano ai suoi occhi soddisfacenti: i proiettili potevano ammaccare l’elica o essere respinti all’indietro verso il motore o il pilota stesso. Da un po’ di tempo pensava a una sorta di timer capace di garantire che i proiettili passassero attraverso il raggio d’azione dell’elica soltanto nell’intervallo tra una pala e l’altra. Installò il marchingegno sul suo monoplano, l’Eindecker, veloce come qualunque mezzo aereo degli Alleati, ma ora dotato dell’arma migliore montata su un aereo, adattata in modo da fare del velivolo, in pratica, una bocca da fuoco volante. Il migliore pilota dell’aviazione tedesca nel 1915, Oswald Boelcke, fu il primo aviatore ad abbattere un velivolo nemico con questa nuova

arma. Max Immelmann volò sul secondo Eindecker: fu il primo vero pilota da caccia, avendo escogitato tattiche in grado di sfruttare la nuova tecnologia3. Nel 1916 gli Alleati avevano copiato la tecnologia del timer, messo in funzione dei caccia in piena regola [...] e messo fine al flagello dei Fokker. I tedeschi ebbero la supremazia sui cieli di Verdun, gli inglesi sui cieli della Somme. [...] La gran parte dei combattimenti aerei erano scontri impari tra veterani e pivelli, o tra agili caccia e lenti biposto usati per le ricognizioni; i caccia poi attaccavano anche i palloni frenati usati come spie4. Erano ovviamente gli stessi piloti a riconoscere i colleghi più capaci e vincenti, tra i quali annoveravano anche alcuni avversari. Il concetto di «asso» cominciò proprio come forma di riconoscimento all’interno del gruppo, per passare poi alla pubblicistica francese e poi a quella britannica e tedesca. Alla fine del 1917 i primi assi – Boelcke, Immelmann, l’inglese Albert Ball (44 missioni vincenti) e il francese Georges Guynemer – erano tutti morti. Subentrò quindi il tedesco Manfred von Richthofen, il «Barone rosso» per via del colore del suo triplano Fokker, con 80 successi, e dalla parte del RFC5 Edward «Mick» Mannock, con 73 scontri vittoriosi, e il canadese Billy Bishop con 72. Di questi, alla fine della guerra, sopravvisse il solo Bishop6. Passare da una tecnologia a un’altra imparando per tentativi non era cosa facile quando l’esito di un tentativo sbagliato era la morte. Furono i piloti, comunque, ad elaborare le nuove tattiche del combattimento aereo. Al contrario della vulgata degli scontri ravvicinati, la chiave del successo non stava nel compiere virate strette e poi eclissarsi, ma nella velocità. La tecnica migliore era quella di piombare giù dall’alto, abbattere l’avversario investendolo con una sventagliata e poi scomparire dalla scena. I francesi furono i primi ad abbandonare il sistema del volo libero e ad organizzare i caccia in formazioni tattiche di sei velivoli, le Cicognes. I tedeschi replicarono con le Jagstaffeln o Jastas, gli inglesi con formazioni definite «stormi», che erano a loro volta coordinati in più ampie squadriglie. Nel 1918 ognuna delle due parti belligeranti poteva utilizzare formazioni di più di cento velivoli, raggruppati secondo il tipo e la funzione. [...] Per quanto la potenza aerea strategica restasse solo un’idea priva di riscontri

concreti fino alla successiva guerra mondiale, la forza tattica, cioè l’uso dei mezzi aerei direttamente sul campo di battaglia, fu una realtà già nel 1918; i tedeschi arrivarono persino a concepire un caccia corazzato per gli attacchi al suolo. I ricognitori a vista inviati dagli Alleati durante l’offensiva tedesca della primavera 1918 contribuirono a far perdere gradualmente lo slancio ai tedeschi. Paradossalmente, la forza aerea strategica catturò l’interesse di inglesi e americani alla fine della guerra, nonostante i risultati modesti conseguiti. La forza tattica, sebbene avesse portato vantaggi agli inglesi, era stata invece concepita e sviluppata dai tedeschi. Lo stesso si può dire dei carri armati. [...] Dal momento che i tedeschi scelsero di concentrare le loro insufficienti risorse su altre forme di armamento, in particolare le bombe a gas, per via della netta superiorità dell’industria chimica tedesca su quella degli Alleati, i carri restarono un’esclusiva di questi ultimi. L’idea del carro armato, vale a dire di un veicolo corazzato in grado di superare le trincee e di vanificare il fuoco delle mitragliatrici, venne in mente a parecchi nel momento in cui il conflitto si irrigidì in guerra di posizione nel 1915. [...] Nel febbraio 1915 Churchill si dimostrò interessato al punto di istituire un comitato per le landships7 presso il ministero della Marina: tale comitato trovò che i mezzi cingolati erano supe-

1. Roland Garros (1888-1918), asso dell’aviazione francese, morì in combattimento aereo. 2. Anthony Fokker (1890-1939), dopo la guerra si trasferì prima in Olanda, dove creò una sua compagnia aerea, e poi negli Stati Uniti. 3. Oswald Boelcke (1891-1916) guidò la flotta aerea tedesca nel corso dell’offensiva su Verdun nel marzo 1916, della quale faceva parte anche Max Immelmann (1890-1916), diventato famoso per una manovra tattica che prende ancora oggi il suo nome: morirono entrambi in combattimento. 4. Palloni aerostatici usati per osservare i movimenti del nemico. 5. Royal Flying Corps, l’aviazione britannica. 6. William “Billy” Bishop (1894-1956), durante la seconda guerra mondiale fu maresciallo dell’aria delle forze aeronautiche canadesi. 7. Letteralmente, “navi di terra”.

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FARESTORIA Una guerra moderna e tecnologica

riori a quelli a ruote, e presto produsse il «Little Willie», uno scatolone rettangolare con cingoli sui due lati. Per abbassarne la sagoma, gli fu data una forma romboidale, con cingoli che gli giravano intorno. Dal prototipo «madre» derivò il primo modello operativo, il Mark I, che ebbe versioni «maschili», con cannoni da sei libbre montati su piattaforme sporgenti, e «femminili», con mitragliatrici. [...] Il primo attacco coordinato di carri armati si ebbe a Cambrai8 il 20 novembre del 1917. Sotto un gran fuoco di sbarramento a sorpresa e una copertura di 300 caccia gli inglesi fecero avanzare 378 carri armati insieme con 8 divisioni di fanteria. [...] Il risultato fu un avanzamento di più di otto chilometri su un fronte di undici, con solo 1.500 perdite. Tuttavia metà dei carri caddero sotto il fuoco tedesco, furono distrut-



ti o restarono bloccati, sicché l’attacco si arenò permettendo ai tedeschi di sferrare il contrattacco; usando truppe d’assalto e formazioni aeree tattiche, i tedeschi recuperarono il terreno perduto. Nonostante l’avvio poco promettente i carri ebbero un ruolo decisivo negli attacchi degli Alleati e degli americani che misero fine alla guerra. Furono in particolare gli australiani a praticare e perfezionare il coordinamento di fanteria e mezzi corazzati; gli americani usarono carri francesi e inglesi, adattandosi a essi d’istinto. Ad ogni modo i carri della prima della prima guerra mondiale risultarono troppo lenti, fragili e inclini a rompersi per rappresentare qualcosa di più di un appoggio per la fanteria. Alla conclusione delle ostilità erano ancor quel che erano stati all’inizio: una bella idea ancora tutta da elaborare. Non fu-

40 P. MASSON LA GUERRA SOTTOMARINA

P. Masson, La guerra sottomarina, in La prima guerra mondiale, a c. di S. Audoin-Rouzeau e J.J. Becker, ed. italiana a c. di A. Gibelli, vol. I, Einaudi, Torino 2007, pp. 469-78.

Nel brano seguente, lo storico francese Philippe Masson (1928-2005) ripercorre le fasi decisive della guerra sottomarina, analizzando i motivi che la scatenarono e soffermandosi sulla sua importanza strategica: colpiva infatti, conside-

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A due riprese, nel 1915 e nel 1917, l’attenzione dei grandi belligeranti fu monopolizzata dalla guerra sottomarina. Quella lotta a oltranza contro la navigazione commerciale, scatenatasi per iniziativa tedesca, appariva come una replica al blocco attivato dagli alleati fin dall’inizio della guerra. Un blocco che riguardava non soltanto il materiale bellico, armi ed esplosivi, ma anche le materie prime e i prodotti alimentari. Un blocco che prendeva di mira non solo i combattenti e gli industriali produttori di armamenti, ma anche civili, donne e bambini. [...] La guerra sottomarina costituì un’enorme sorpresa per gli alleati. Curiosamente, quell’ipotesi era stata scartata per semplici ragioni morali. [...] In Germania, alla vigilia della guerra, la situazione era praticamente identica. Non si prospettava l’idea di una guerra al commercio. Nell’ottobre 1914, tuttavia, si produsse un cambiamento quando il comandante in capo della flotta d’alto mare finì per sposare in questi termini l’idea di una

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

rono insomma la soluzione alla fase di stallo. 8. Città del Nord-Est della Francia, nei pressi della quale si svolse un’importante offensiva britannica tra novembre e dicembre 1917. METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia le armi descritte e per ognuna di esse indica, sul quaderno, le caratteristiche principali relative al periodo della Grande Guerra.  b   Spiega per iscritto: a. cosa è e come nasce il concetto di “asso”; b. chi elaborò le nuove tattiche del combattimento aereo e in cosa consistettero; c. chi elaborò e quali erano le nuove tattiche del combattimento aereo; d. cosa determinò la supremazia nelle battaglie aeree di Verdun e della Somme.  c   Individua da cinque a sette parole chiave che esprimano le caratteristiche più significative dei carri armati della prima guerra mondiale e argomenta la tua scelta.

randole obiettivi militari, le navi mercantili che portavano i rifornimenti e le imbarcazioni utilizzate dai civili, accusate di trasportare armi e munizioni. Come mostra l’autore, questa strategia “brutale”, che provocò numerose vittime tra i civili, e fu adottata principalmente dai tedeschi in reazione al blocco navale britannico, suscitò la reazione sdegnata dell’opinione pubblica mondiale e fu tra i motivi che, nel 1917, convinsero gli Stati Uniti all’intervento in guerra.

guerra a oltranza: «L’attacco al commercio inglese, sulla costa britannica, per mezzo di sottomarini, colpirebbe indubbiamente il nemico nel suo punto più sensibile dimostrandogli che oggi la sua potenza marittima non è più sufficiente per proteggere il proprio traffico». Non è secondario constatare che la lotta a oltranza poteva essere presentata come una misura di rappresaglia non contro un blocco – che era ancora di là da venire – bensì contro un’infrazione commessa dagli inglesi ai danni delle leggi internazionali, con la posa di mine subacquee all’ingresso della Manica, ossia in mare aperto, con l’intento di neutralizzare una delle principali direttrici del commercio internazionale. All’inizio esitante, il capo di Stato maggiore generale, l’ammiraglio von Pohl1, finì per ammettere una forma di guerra che aveva tutte le carte in regola per privare l’Inghilterra dell’appoggio delle marine commerciali neutrali, di cui non poteva fare a meno. «Il sottomarino è il

mezzo più potente di cui disponiamo – scrisse – Più energica sarà la guerra, prima finirà, con un minor sacrificio di risorse e vite umane». [...] Quanto a Guglielmo II, von Pohl gli strappò letteralmente il consenso di sorpresa, il 4 febbraio, nella rada di Wilhelmshaven2. Quello stesso giorno, il «Moniteur de l’Empire»3 pubblicò una dichiarazione che precisava che le acque intorno alla Gran Bretagna e all’Irlanda erano dichiarate zone di guerra. A partire dal 18 febbraio tutto il naviglio commerciale nemico trovato in quelle acque sarebbe stato distrutto, anche mettendo a repentaglio equipaggi e

1. Hugo Von Pohl (1855-1916), ammiraglio e comandante della marina militare tedesca. 2. Importante porto militare e commerciale tedesco, situato sulla costa nord-occidentale della Germania, sul Mare del Nord. 3. Giornale militare francese.

passeggeri. Quanto alle navi neutrali, si sarebbero avventurate in quella zona a loro rischio e pericolo. La dichiarazione suscitò violente proteste nella maggior parte dei Paesi neutrali, Paesi Bassi, Italia, Spagna e soprattutto Stati Uniti. [...] Sul piano strettamente militare, la dichiarazione del Reich sorprese le marine alleate in uno stato di totale impreparazione. Il cacciatorpediniere costituiva all’epoca l’unico mezzo navale relativamente efficace per la lotta antisommergibilistica. Perciò fu necessario requisire con urgenza pescherecci e perfino yacht. Le marine erano anche seriamente carenti di sistemi di armamento, di strumentazione d’ascolto, nonché di procedure d’attacco, dato che il metodo più efficace di attaccare un sottomarino restava l’abbordaggio4 e il cannone. Inglesi e francesi dovettero improvvisare centri aeronautici. Inoltre si rivolsero moniti al naviglio commerciale, invitato a issare bandiere neutrali e a segnalare la propria posizione nel momento di un attacco. Le direttive erano chiare: costringere i sottomarini a silurare alla cieca, con tutti i rischi internazionali che ciò provocava. I britannici usarono perfino navi trappola, cargo o barche a vela dotate di un armamento camuffato e battenti bandiera neutrale. Infine si cominciò a sbarrare per mezzo di campi minati e drifters (dragamine)5 il canale d’Otranto e il passo di Calais6. A dispetto di un’indiscutibile effetto-sorpresa iniziale, i risultati ottenuti dai tedeschi nel corso di quella prima campagna rimasero mediocri, non foss’altro che per lo scarso numero di U-Boote7 disponibili (una quindicina al massimo). [...] In due mesi e mezzo, i sottomarini riuscirono ad affondare solo una cinquantina di navi alleate cui, è vero, bisogna aggiungere una quarantina di neutrali. Appena 200.000 tonnellate in tutto. I risultati non furono sufficienti a giocare l’auspicato ruolo dissuasivo. I neutrali continuarono a navigare. E l’economia britannica non fu danneggiata. Un ulteriore elemento contribuì a diminuire l’efficacia della guerra sottomarina: gli incidenti che si moltiplicarono senza sosta. Dopo i casi relativamente minori del Falaba e del Gulflight, il 7 maggio 1915, al largo della costa meridionale dell’Irlanda, avvenne il siluramento del transatlantico Lusita‑ nia, della Cunard8 da parte dell’U-20 del Kapitänleutenant Walter Schwieger. Si

contarono 1198 dispersi fra cui 129 americani. [...] La vicenda conteneva ambiguità che due commissioni d’inchiesta, in piena guerra, non riuscirono a dissipare. Il Lu‑ sitania non era una nave come le altre. Costruito grazie a un ingente contributo pubblico, in tempo di guerra fu messo a disposizione dell’Ammiragliato che poteva usarlo per il trasporto di truppe, come incrociatore ausiliario, oppure riconsegnarlo alla Cunard per una rotta da tempo di pace fra New York e Liverpool. Come la sua nave gemella, il Mau‑ retania, compariva sulla Navy List. Non c’è dubbio che, il 7 maggio, il Lusitania trasportasse cinquemila casse di munizioni. [...] Al di là di queste ombre, un’enorme ondata di indignazione dilagò in Inghilterra, in Francia, nei Paesi neutrali, negli Stati Uniti. [...] Dopo l’affondamento del Lusitania, la guerra sottomarina languì. Il siluramento di navi passeggeri, come quello dell’Arabic, il 19 agosto, o dell’Hesperian, il 4 settembre, indussero Guglielmo II a vincolare ancora di più, con nuove direttive, l’azione dei comandanti di sommergibili. [...]. Fu necessario attendere il febbraio del 1917 per assistere a un rilancio della guerra senza restrizioni, portato avanti con accanimento fino all’armistizio. Contrariamente a quanto era avvenuto nel 1915, questa volta all’origine di una decisione fondamentale fu l’esercito, in stretto accordo con la marina. Hindenburg e Ludendorff che avevano sostituito Falkenhayn9 alla testa dello Stato Maggiore generale non credevano più a una soluzione campale del conflitto. L’offensiva Brusilov10 aveva appena provato che la Russia possedeva di nuovo una capacità offensiva. Verdun non aveva affatto «dissanguato» l’esercito francese. Al contrario, la tremenda battaglia, unita a quella della Somme, aveva esaurito le riserve e «marchiato a fondo l’anima del soldato tedesco». Inoltre gli alleati avevano da poco respinto una proposta di pace da parte delle Potenze centrali e Berlino non credeva nell’efficacia di una mediazione americana. Secondo Hindenburg, «una pronta ed energica azione sul mare costituisce l’unico mezzo di condurre la guerra a una rapida fine». [...] La nuova guerra sottomarina, perciò, fu inaugurata il 1° febbraio 1917 come un vero fulmine a ciel sereno, senza alcun possibile punto in comune con

quanto era accaduto due anni prima. I sottomarini operativi erano dieci volte di più e i risultati spettacolari. [...] Dopo sei mesi di reiterati successi, la vittoria non era un fatto compito, l’Inghilterra non cedeva. [...] La guerra sottomarina andò oltre tutto di pari passo con un disastro strategico di prima grandezza: l’intervento americano dell’aprile 1917. [...] L’intervento determinò anche la partecipazione della marina da guerra americana alla lotta antisommergibilistica, e la possibilità per gli alleati di contare su una flotta mercantile tutt’altro che trascurabile e sulle 500.000 tonnellate di naviglio commerciale tedesco bloccate nei porti statunitensi fin dal 1914. Si aggiunga inoltre un gigantesco sforzo per la costruzione di nuove unità, intorno ai 9 milioni di tonnellate (naviglio mercantile e da guerra, e 300 cacciatorpediniere da scorta). Senza quel fondamentale aiuto ci si può domandare se gli alleati sarebbero riusciti a soffocare la minaccia sottomarina. 4. Manovra che prevede l’accostamento a un’imbarcazione avversaria con l’obiettivo di assaltarla. 5. Strumenti che servivano a “dragare”, ovvero individuare e distruggere le mine presenti nei fondali marini. 6. Il braccio di mare che separa la Gran Bretagna dalla Francia, punto più stretto del canale della Manica e di passaggio verso il Mare del Nord. 7. Sottomarino. 8. Una delle più importanti compagnie britanniche di navigazione civile sull’Oceano Atlantico, fondata nella prima metà dell’800 dall’armatore Samuel Cunard. 9. Erich von Falkenhayn (1861-1922), capo di Stato maggiore dell’esercito tedesco dal 1914 al 1916. 10. Offensiva dell’esercito russo contro l’Austria del giugno 1916: prende il nome dal generale che la diresse, Aleksej Brusilov (1853-1926).

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le cause che diedero l’avvio e gli effetti che produsse la guerra sottomarina e cerchia i nomi dei paesi che l’adottarono.  b   Individua le tappe che è possibile individuare nella guerra sottomarina e rendile riconoscibili con dei titoli che scriverai in corrispondenza del testo.

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FARESTORIA Una guerra moderna e tecnologica

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Dopo aver letto tutti i documenti e i brani degli storici, scrivi un testo di massimo 25 righe sulle caratteristiche della guerra di posizione, citando opportunamente autori e testi utili al tuo ragionamento e utilizzando la seguente scaletta di argomenti: • gli aspetti tecnici delle trincee; • gli assalti e i combattimenti; • lo sviluppo di nuove armi.

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Cerca su Internet la sequenza del film Uomini contro di Francesco Rosi del 1970 in cui è rappresentata la scena descritta nel brano di Lussu [►38d]. Puoi inserire nel motore di ricerca la frase chiave “il nemico è alle spalle”. Scrivi un testo comparativo di massimo 30 righe che metta a confronto i due mezzi di comunicazione esaminati (cinema e carta stampata) in relazione ai seguenti argomenti: a. la comunicazione delle emozioni; b. la resa delle caratteristiche della guerra di trincea; c. il rapporto fra i generali e le truppe dell’esercito italiano. Se vuoi approfondire quest’ultimo aspetto, cerca informazioni sul regista e sul suo orientamento politico.

LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE Scoppiata nel corso della prima guerra mondiale, la rivoluzione d’ottobre fu un evento di radicale rottura nella storia del ’900: oltre ad influenzare l’esito del conflitto, lanciò una sfida al resto dell’Europa e del mondo, mettendo in discussione le gerarchie sociali tradizionali, sconvolgendo gli ordinamenti politici e promettendo di realizzare in tempi rapidi, e con qualsiasi mezzo, una società senza classi. Un momento fondamentale verso il successo della rivoluzione bolscevica fu il rientro in Russia, nell’aprile del ’17, di Lenin, che in quell’occasione espose in un suo celebre scritto, le Tesi di aprile [►41d], i princìpi che avrebbero dovuto guidarla. Alla ricostruzione delle concitate fasi della presa del potere dei bolscevichi è dedicato il brano di Nicolas Werth [►42], mentre Marcello Flores [►43] ripercorre i passaggi che portarono, in pochi mesi, all’instaurazione di un regime dittatoriale governato da un unico partito. La proiezione internazionale del comunismo sovietico è infine rappresentata nell’ultimo testo di questa sezione, un documento prodotto nel corso del congresso dell’Internazionale comunista che si tenne a Mosca nel 1920: in “21 punti” [►44d] sono dettate le condizioni alle quali ogni partito socialista o comunista avrebbe dovuto attenersi se voleva far parte di questo nuovo movimento mondiale.



41d LENIN LE TESI DI APRILE

Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 713-16.

Nel momento in cui rientrò in Russia dalla Svizzera, nell’aprile del 1917, Lenin scrisse l’articolo Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale, pubblicato sulle pagine del quotidiano russo «Pravda» e riprodotto poi da molti giornali bolscevichi. In questo scritto sono contenute le famose Tesi di aprile, che rappresentano un documento chiave nella storia del comunismo sovietico e della rivoluzione russa: segnano

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1. Nel nostro atteggiamento verso la guerra, la quale – sotto il nuovo governo L’vov1 e consorti, e grazie al carattere capitalistico di questo governo – rimane incondizionatamente, da parte della Russia, una guerra imperialistica di bri-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

infatti la definitiva rottura della fazione bolscevica con le forze politiche che facevano parte del governo provvisorio e con la strategia (e l’ideologia) delle socialdemocrazie europee. Articolato in dieci punti compare chiaramente il programma rivoluzionario di Lenin, sintetizzato nella celebre formula: «la pace ai popoli, il potere ai soviet e la terra ai contadini». Le Tesi contengono le premesse della presa del potere da parte dei bolscevichi e lasciano intravedere i successivi sviluppi che prenderà la rivoluzione comunista.

gantaggio, non è ammissibile nessuna benché minima concessione al «difensismo» rivoluzionario2. A una guerra rivoluzionaria che realmente giustifichi il difensismo rivoluzionario, il proletariato cosciente può dare

1. Georgij L’vov (1861-1925), principe russo a capo del governo provvisorio di coalizione nato dopo la rivoluzione di febbraio del 1917. 2. Cioè la posizione di chi sosteneva la continuazione della guerra per la difesa della rivoluzione.

il suo consenso soltanto alle seguenti condizioni: a) passaggio del potere nelle mani del proletariato e degli strati più poveri della popolazione contadina che si mettono dalla sua parte; b) rinuncia effettiva, e non a parole, a qualsiasi annessione; c) rottura completa, effettiva, con tutti gli interessi del capitale. Data l’innegabile buona fede di vasti strati delle masse, che sono per il difensismo rivoluzionario e accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, dato che essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna innanzi tutto mettere in luce i loro errori minutamente, ostinatamente, pazientemente, mostrando il legame indissolubile fra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che non è possibile metter fine alla guerra con una pace puramente democratica, e non imposta colla forza, senza abbattere il capitale. [...] 2. La peculiarità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima tappa della rivoluzione – che, a causa dell’insufficiente coscienza ed organizzazione del proletariato, ha dato il potere alla borghesia – alla seconda tap‑ pa, che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini. Da una parte, questo passaggio è caratterizzato dal massimo di legalità (fra tutti i paesi belligeranti, la Russia è, oggi, il paese più libero del mondo) e, d’altra parte, dall’assenza di violenza contro le masse e, infine, dall’atteggiamento inconsapevolmente fiducioso delle masse verso il governo dei capitalisti, dei peggiori nemici della pace e del socialismo. Questa peculiarità c’impone di saperci adattare alle condizioni particolari del lavoro del partito fra le immense masse proletarie appena destate alla vita politica. 3. Non appoggiare in alcun modo il governo provvisorio; dimostrare la completa falsità di tutte le sue promesse, soprattutto di quelle concernenti la rinuncia alle annessioni. Smascherare questo governo invece di «esigere» (ciò che è inammissibile e semina illusioni) che esso, governo di capitalisti, cessi di essere imperialista. 4. Riconoscimento del fatto che il nostro partito è una minoranza e, finora, una piccola minoranza, nella maggior parte dei soviet dei deputati operai, di fronte al blocco di tutti gli elementi opportunisti piccolo-borghesi, sottomessi

all’influenza della borghesia e veicoli dell’influenza borghese sul proletariato: dai socialisti populisti e dai socialisti-rivoluzionari al Comitato d’organizzazione (Ckheidze, Tsereteli, ecc.) a Steklov, ecc.3. Spiegare alle masse che i soviet dei deputati operai sono la sola forma possi‑ bile di governo rivoluzionario e che, per conseguenza, il nostro compito, finché questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, può consistere soltanto nella spiegazione paziente, sistematica, perseverante – particolarmente adattata ai bisogni pratici delle masse – degli errori della loro tattica. Finché saremo in minoranza, faremo un lavoro di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet dei deputati operai, affinché le masse, sulla base dell’esperienza, possano liberarsi dei loro errori. 5. Niente repubblica parlamentare – ritornare ad essa dopo i Soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro – ma repubblica dei soviet dei deputati operai, dei braccianti e dei contadini, in tutto il paese, dal basso in alto. Soppressione della polizia, dell’esercito e del corpo dei funzionari4. Salario ai funzionari – tutti eleggibili e revocabili in qualunque momento – non superiore al salario medio d’un buon operaio. 6. Nel programma agrario trasferire il centro di gravità nel soviet dei deputati dei salariati agricoli. Confiscare tutte le terre dei grandi proprietari fondiari. Nazionalizzare tutte le terre del paese e metterle a disposizione dei soviet locali dei deputati dei salariati agricoli e dei contadini poveri. Fare di ogni grande tenuta [...] una azienda modello coltivata per conto della comunità e sottoposta al controllo dei soviet dei deputati dei salariati agricoli. 7. Fusione immediata di tutte le banche del paese in una unica banca nazionale, posta sotto il controllo dei soviet dei deputati operai. 8. Come nostro compito immediato, non l’«instaurazione» del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei soviet dei deputati operai. [...]

10. Rinascita dell’Internazionale. Prendere l’iniziativa della creazione di un’Internazionale rivoluzionaria contro i socialsciovinisti5 e contro il «centro»6. 3. Nicolas Ckheidze (1864-1926) e Irakli Tsereteli (1881-1959) erano dirigenti menscevichi di origine georgiane, Yuri Steklov (1873-1941) era un menscevico di sinistra, che poi sarebbe passato dalla parte dei bolscevichi. 4. «Cioè, sostituire l’armamento generale del popolo all’esercito permanente» [nota di Lenin]. 5. Sciovinista è chi sostiene in maniera radicale solo gli interessi della propria nazione. 6. «Il “centro” nella socialdemocrazia internazionale è la corrente che oscilla fra gli sciovinisti difensisti e gli internazionalisti: appartengono al “centro” Kautsky e consorti in Germania, Longuet e consorti in Francia, Ckheidze e consorti in Russia, Turati e consorti in Italia, Mac Donald e consorti in Inghilterra, ecc.» [nota di Lenin]. Karl Kautsky (1854-1938), ideologo della socialdemocrazia tedesca; Jean Longuet (1876-1938), tra i principali esponenti del partito socialista francese; Filippo Turati (1857-1932), tra i fondatori del partito socialista italiano; James Ramsay MacDonald (1866-1937), tra i fondatori del Partito laburista inglese.

METODO DI STUDIO

 a   Individua per ogni tesi un titolo esplicativo, trascrivilo sul quaderno e argomenta la tua scelta.  b   Leggi con attenzione il cappello introduttivo e sottolinea la parte che si riferisce al contenuto del documento. Quindi motiva per iscritto quanto sostenuto in esso citando le parti del documento che ti sembrano più appropriate.

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FARESTORIA LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE



42 N. WERTH LA PRESA DEL POTERE

N. Werth, Storia della Russia del Novecento, il Mulino, Bologna 2000, pp. 139-45.

Lo storico francese Nicolas Werth (nato nel 1950), fra i maggiori studiosi contemporanei di storia sovietica, ricostruisce nel brano seguente i passaggi più importanti che portarono i bolscevichi alla conquista del potere. Dalla ricostruzione emerge la capacità di Lenin di sfruttare a proprio vantaggio le differenti mobilitazioni che si veri-

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Il 15 settembre, il Comitato centrale del Partito bolscevico intavolò la discussione su due lettere (I bolscevichi devono prendere il potere, e Il marxi‑ smo e l’insurrezione) che Lenin aveva appena inviato dal suo rifugio in Finlandia. Lenin esigeva che il Partito lanciasse un appello all’insurrezione immediata. [...] Al Comitato centrale nessuno approvò Lenin. Il ricordo delle «Giornate di luglio»1 restava vivo. Venne espressa anche l’opinione che bisognasse distruggere ogni traccia scritta della proposta di Lenin. Il Comitato centrale decise di prendere misure d’urgenza per prevenire ogni manifestazione e di partecipare ai lavori della «Convenzione democratica». Due settimane dopo, Lenin tornava alla carica, in un articolo pubblicato questa volta su un giornale del Partito, «Rabočij Put’», intitolato La crisi è matura. «Lasciar passare l’occasione attuale, scriveva, e attendere il Congresso dei Soviet sarebbe un’idiozia e un tradimento». A poco a poco, l’insistenza di Lenin venne a capo del «Legalismo rivoluzionario» dei dirigenti bolscevichi. Su iniziativa di Trockij, i deputati bolscevichi lasciavano, il 7 ottobre, la sala del Consiglio della Repubblica. Quello stesso giorno, Lenin rientrava clandestinamente a Pietrogrado. Il 10, grazie all’appoggio di Sverdlov2 che parlò di un complotto militare fomentato a Minsk, Lenin rovesciò le posizioni del Comitato centrale (almeno dei 12 presenti sui 21 titolari) e fece votare il principio di un’insurrezione armata con 10 voti contro 2 [...]. La decisione di riconoscere l’insurrezione «all’ordine del giorno», presa il 10 ottobre, non mancava di ambiguità. Per Lenin, l’insurrezione doveva aver luogo addirittura prima dell’apertura del Congresso dei Soviet, fissata per il 20 ottobre.

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

ficarono in Russia nel 1917: quella dei contadini, decisi a impadronirsi delle terre, quella dei soldati, stanchi di combattere una guerra non sentita, e quella degli operai, desiderosi di instaurare nelle fabbriche forme di autogoverno consiliare. Werth si sofferma anche sulle difficoltà incontrate inizialmente da Lenin nell’imporre la sua linea all’interno del suo stesso partito e soprattutto sugli errori del governo provvisorio, che resero possibile la presa del potere della fazione bolscevica.

Bisognava stabilirne la data con urgenza e prepararvisi minuziosamente secondo le regole dell’arte insurrezionale. Per Trockij, al contrario, il primo obiettivo rimaneva la presa del potere da parte dei soviet. L’insurrezione doveva aver luogo solo se il Congresso era minacciato. Trockij non progettava di prendere l’iniziativa di un attacco contro il governo, ma attendeva che fosse questo a prendere l’iniziativa. Si abbozzava così una terza via, che non faceva che rendere più evidenti le divergenze tattiche e teoriche dei bolscevichi alla vigilia della presa del potere. La maggioranza aveva aderito al punto di vista di Lenin perché era persuasa, prestando fede a voci, che il governo fosse pronto ad abbandonare Pietrogrado ai tedeschi e a trasferire la capitale a Mosca. Rovesciando i ruoli e facendo i patrioti, i bolscevichi dichiararono che volevano garantire la difesa della città. A questo scopo, costituirono un «Centro militare rivoluzionario» di cinque membri [...], che doveva mobilitare le energie alla base [...]. Da parte sua Trockij, quale presidente del Soviet di Pietrogrado, aveva suscitato, il 9 ottobre, la creazione di un’organizzazione militare autonoma, derivata dal Soviet, il Comitato militare rivoluzionario di Pietrogrado (Pvrk) [...]. Il Pvrk entrò in contatto con una quarantina di unità militari della capitale (che ne contava allora quasi 180), con le Guardie rosse di circa 200 fabbriche, con una quindicina di comitati di quartiere, che rappresentavano in totale una forza di circa 20-30.000 uomini (in realtà, al momento della sollevazione, appena 6.000 uomini intervennero dalla parte degli insorti). [...] Al Comitato esecutivo dei Soviet, Trockij fu attaccato dai menscevichi e gli fu intimato di dire se i bolscevichi preparavano un’insurrezione. Trockij

affermò che i bolscevichi non avevano previsto un’insurrezione, ma che erano decisi a difendere il prossimo Congresso dei Soviet contro ogni tentativo controrivoluzionario. Presentati in questo modo, i preparativi dei bolscevichi diventavano legittimi. Da parte sua, Kerenskij3 ostentava la più grande fiducia, persuaso di essere sostenuto dai menscevichi e dai socialrivoluzionari, e rassicurato dal colonnello Polkovnikov, comandante della guarnigione, il quale affermava che le truppe erano «perfettamente leali» nei confronti del governo. Il 21 ottobre, tuttavia, la guarnigione aderì al Pvrk. Questo lanciò subito un appello alla popolazione: ogni direttiva della guarnigione non sottoscritta dal Pvrk non era da ritenersi valida. Kerenskij decise di lanciare un ultimatum al Comitato militare: doveva ritirare il suo appello. Cominciava la prova di forza. La mattina del 24, Kerenskij ordinava la chiusura della tipografia dei bolscevichi. Questi la rioccuparono subito. Allo Smolnyj4, il Comitato centrale del Partito bolscevico si era riunito per stabilire un piano d’azione. La sollevazione sarebbe stata originata dall’interferenza di due movimenti distinti, ma ben coordinati: un colpo

1. Si riferisce al tentativo insurrezionale promosso dai bolscevichi e non riuscito, in seguito al quale Lenin era dovuto fuggire in Finlandia. 2. Yakov M. Sverdlov (1885-1919) fu presidente del Comitato esecutivo centrale del Congresso dei soviet e segretario del comitato centrale del Pcus. 3. Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (18811970), uomo politico e avvocato, esponente moderato dei socialisti rivoluzionari e alla guida del governo provvisorio formatosi dopo la rivoluzione di febbraio. 4. Antico monastero della capitale russa.

di stato, organizzato a nome del Soviet di Pietrogrado dal Pvrk per difendere la rivoluzione, e un’insurrezione proletaria, guidata dal Centro militare rivoluzionario. [...] Il 24 sera, agendo a nome del Soviet, le Guardie rosse e alcune unità militari si assicurarono senza resistenza il controllo dei ponti della Neva e dei centri strategici (poste, telegrafo, stazioni). In poche ore, tutta la città era in mano agli insorti. Soltanto il Palazzo d’inverno, sede del governo, resisteva ancora. [...] Il 25 mattina, Kerenskij andò alla ricerca di rinforzi. Prima ancora che il governo lanciasse un ultimatum, Lenin fece pubblicare, alle dieci del mattino, un appello del Pvrk che dichiarava che il governo era destituito e che il potere passava nelle mani del Comitato militare. Questo proclama del Pvrk prima della presa del potere da parte del Congresso dei Soviet costituiva un vero e proprio colpo di stato. [...] Il pomeriggio del 25, alla sessione del Soviet di Pietrogrado, Lenin, che appariva per la prima volta in pubblico dopo il mese di giugno, dichiarò: “La rivoluzione degli operai e dei contadini, di cui i bolscevichi non hanno mai cessato di mostrare la necessità, è realizzata... Le masse oppresse creeranno esse stesse il potere. Il vecchio apparato dello stato sarà radicalmente distrutto e verrà creato un nuovo apparato direttivo nella persona delle organizzazioni dei Soviet. Si apre una nuova tappa nella storia della Russia, e questa terza rivoluzione russa deve infine portare alla vittoria del socialismo”. [...] La vittoria dei bolscevichi non era però ancora completa, perché il Palazzo d’inverno continuava a resistere. Alle 18,30, il governo che vi si era rifugiato ricevette l’ultimatum del Pvrk che gli concedeva venti minuti per arrendersi. L’assalto venne in realtà sferrato soltanto tardi nella notte, dopo che l’incrociatore Aurora5 ebbe sparato, a vuoto, alcune salve verso il palazzo. Alle due del mattino, Antonov-Ovseenko6, a nome del Pvrk, faceva arrestare i membri del governo. I combattimenti, che avevano posto di fronte soltanto alcune centinaia di uomini dalle due parti, non avevano causato che perdite umane insignificanti (sei morti dalla parte dei difensori, nessuno dalla par-

te degli assalitori). Alcune ore prima della caduta del Palazzo d’inverno, alle 22,40 si era aperto il II Congresso panrusso dei Soviet. Dopo aver condannato «la cospirazione militare organizzata dietro le spalle dei Soviet», i menscevichi lasciarono il Congresso, seguiti dai socialrivoluzionari e dal Bund7 [...] Poco dopo, il Congresso votò un testo redatto da Lenin, che attribuiva «tutto il potere ai Soviet». Questa risoluzione era puramente formale, perché il potere era di fatto nelle mani del Partito bolscevico, ma essa legittimava i risultati dell’insurrezione e permetteva ai bolscevichi di governare a nome del popolo, poiché i partiti, ad eccezione dei socialrivoluzionari di sinistra, avevano la-

sciato il Congresso. Successivamente furono letti e approvati i decreti sulla pace e sulla terra, primi atti del nuovo regime.

5. Incrociatore della marina russa passato nelle mani di militari favorevoli ai bolscevichi. 6. Vladimir A. Antonov-Ovseenko (18831938), dopo aver militato nei menscevichi, si schierò con i bolscevichi durante la rivoluzione. Ricoprì numerosi incarichi ma fu fatto giustiziare da Stalin per le sue antiche simpatie per l’opposizione di sinistra. 7. Forma abbreviata della Federazione generale dei lavoratori ebrei in Lituania, Polonia e Russia, sindacato operaio nato nel 1897.

PALESTRA INVALSI

1 Indica quali sono gli eventi corrispondenti alle date indicate:

Eventi

15 settembre 10 ottobre

24 ottobre

Lenin fece riconoscere l’insurrezione all’ordine del giorno del Comitato centrale con 10 voti contro 2 I bolscevichi rioccuparono la tipografia fatta chiudere da Kerenskij Il Comitato centrale del Partito bolscevico rigettò la proposta scritta da Lenin dalla Finlandia per l’insurrezione armata Sverdlov parlò al Comitato centrale del Partito bolscevico di un complotto militare a Minsk Le Guardie rosse e alcuni militari presero il comando dei centri strategici di Pietrogrado a nome del soviet 2 Indica chi e in quale occasione ha pronunciato la seguente frase: «La rivoluzione degli operai e dei contadini [...] è realizzata... Le masse oppresse creeranno esse stesse il potere». [ ] a. Lenin durante la sua prima comparsa in pubblico dopo l’esilio. [ ] b. Lenin in una delle due lettere scritte dal suo rifugio in Finlandia. [ ] c. Trockij il 9 ottobre in occasione della creazione di un’organizzazione militare autonoma.

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FARESTORIA La Rivoluzione d’Ottobre

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 4 GEORGI VLADIMIROVICH KIBARDIN COSTRUIAMO UNO STORMO DI DIRIGIBILI IN NOME DI LENIN, 1931

In Urss, in occasione del cinquantesimo compleanno di Lenin, fu realizzato un concorso sulla raffigurazione della sua immagine. Furono definiti così quegli attributi che caratterizzeranno nel tempo le sue rappresentazioni: l’umiltà e la semplicità, il potere e l’incarnazione dello spirito popolare, le capacità quasi sovrumane. In questa occasione si fece ricorso al fotomontaggio per rappresentarlo e renderlo nello stesso tempo un uomo semplice, ma che esprimeva grande forza di volontà e che era proiettato verso il futuro. Furono utilizzati motivi grafici che furono ripresi anche in seguito: Lenin spesso veniva raffigurato con un braccio levato, come se stesse impartendo una benedizione o stesse indicando la strada per il futuro, le sue proporzioni erano gigantesche rispetto all’ambiente e alle altre persone che lo circondavano, a sottolineare il ruolo di guida e la superiorità. In questo tipo di manifesti, spesso l’asse verticale della composizione viene distorta per sollecitare nello spettatore una sensa­ zione vorticosa, talvolta interrotta dall’imma­gine frontale della folla. Nel manifesto qui riprodotto di Georgi Vladimirovich Kibardin (1903-1963) le per­sone ritratte hanno atteggiamenti diversi: alcune salutano e sorridono, altre guardano i dirigibili, mentre la maggior parte guarda avanti, come a voler coinvolgere colui che osserva l’opera. GUIDA ALLA LETTURA

 a   Chi è il protagonista del manifesto? Da cosa si riconosce? Chi sono gli altri e cosa stanno facendo? Rispondi alle domande facendo riferimento a quanto puoi osservare.  b   Spiega quale impressione provoca, secondo te, la dimensione del protagonista rispetto alla folla e per quale motivo l’artista ha realizzato questo squilibrio.

43 M. FLORES LA NASCITA DEL REGIME BOLSCEVICO



M. Flores, 1917. La Rivoluzione, Einaudi, Torino 2007, pp. 98-104.

Nel brano seguente, lo storico Marcello Flores (nato nel 1945) ripercorre le fasi che portarono in poche settimane, subito dopo la presa del potere dei bolscevichi, all’instaurazione di un regime autoritario guidato da un unico partito: le prime tappe

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Erano in pochi, in realtà, sia tra gli avversari sia tra gli stessi bolscevichi a pensare che il governo uscito dall’Ottobre sarebbe stato in grado di sopravvivere più della Comune di Parigi1, al cui esempio Lenin si era più volte rifatto quando aveva scritto Stato e rivoluzione2. I bolscevichi, infatti, festeggiano con grande soddisfazione i due mesi di sopravvivenza al governo, durante i quali creano le condizioni per rafforzare il potere e indebolire ed emar-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

fondamentali furono l’abolizione della libertà di stampa e di opinione e la repressione di ogni opposizione politica, con la ˇeka, deputato a colpire creazione di un organo poliziesco, la C chi veniva accusato di essere un “nemico del popolo”. A sancire definitivamente il passaggio del potere nelle mani di un solo partito fu, nel gennaio 1918, la soppressione dell’Assemblea costituente, appena eletta e convocata, nella quale i bolscevichi si erano ritrovati in minoranza.

ginare gli avversari reali e i potenziali nemici. Le tappe fondamentali con cui il regime a partito unico dei bolscevichi si afferma nei tre mesi successivi all’Ottobre come forza capace di reggere l’impatto della guerra civile, sono poche ma decisive. La prima è la proibizione della stampa ritenuta d’opposizione: di fatto, tutti i giornali non bolscevichi. Alcuni di essi, dopo un periodo di chiusura o clandestinità, verranno pubblicati con

testate parzialmente diverse, combattendo quotidianamente con la censura ma consentendo, ancora per qualche tempo, l’esistenza di voci contrarie al governo.

1. L’esperienza di governo rivoluzionario, ispirato a princìpi socialisti, nato a seguito dell’insurrezione popolare parigina del 1871. 2. Scritto nell’estate del 1917 [►4_10].

Fra queste la più eloquente e importante continua ad essere quella di Gor’kij3, che il 7 novembre scrive: Lenin e Trockij non credono affatto nella libertà e nei diritti dell’uomo. Sono avvelenati disgustosamente dal potere, come si può arguire dalle decisioni ignobili contro la libertà di parola, quella personale e tutte le libertà civili proprie della democrazia.

L’esautoramento del Comitato esecutivo del Soviet – l’equivalente del Parlamento – ha luogo fin dal 4 novembre, quando il Sovnarkom (il Consiglio dei commissari del Popolo, il governo) si arroga per motivi di urgenza la delibera di atti legislativi: in questa occasione Kamenev4 si dimette da presidente del Soviet per difendere la sovranità, insieme alle opposizioni (i socialisti-rivoluzionari di sinistra, i menscevichi internazionalisti, gli anarchici) e ai bolscevichi moderati, e viene sconfitto per soli due voti. Il suo successore, Sverdlov, dirada la convocazione del Comitato esecutivo e rinvia sine die5 il regolamento che avrebbe dovuto sostanziare la preminenza legislativa del Soviet sul governo. Alla fine di novembre viene resa ufficiale la nozione e definizione di «nemico del popolo», che comprende i borghesi, i ricchi, gli sfruttatori, i sabotatori, gli speculatori, i controrivoluzionari: termini che molto arbitrariamente possono essere applicati a chiunque. Il destino, per chi rientra in questa categoria, potrà variare dalla soluzione più estreme – l’uccisione o la prigione e presto i campi di lavoro – a quelle di carattere «educativo», che in qualche caso erano state anticipate ancor prima del colpo di mano d’Ottobre: come la decisione del Soviet di Vyborg6 di costringere chiunque affittasse più di quattro camere a pulire gratuitamente le strade e le latrine pubbliche. Strettamente legata alla formalizzazione della categoria «nemici del popolo» è la costituzione, il 7 dicembre 1917, della Čeka, la nuova polizia politica il cui nome completo risponde a Commissione straordinaria panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio. Erede del Comitato militare rivoluzionario, sciolto due giorni prima, questa nuova agenzia politico-repressiva viene dotata di potere straordinari. È un organo destinato a svolgere, insieme, funzioni politiche e di polizia, economiche e giudiziarie. I suoi membri possono raccogliere prove, comminare pene ed eseguirle senza passare

per le consuete procedure giudiziarie. Benché la pena di morte venga reintrodotta solamente nel giugno7, nel corso del 1918 saranno oltre seimila le persone uccise da agenti della Čeka. Un numero che, nei due anni successivi, raggiungerà una cifra almeno dieci volte maggiore. L’instaurazione del Terrore, ufficializzata il 5 settembre 1918, riassume il crescente ricorso alla violenza di un regime che vede rivoltarsi contro di sé tutte le forze che avevano partecipato alla rivoluzione, e anche quelle che avevano parteggiato per l’Ottobre appoggiando e avallando la scelta monocratica dei bolscevichi: è proprio a seguito degli attentati terroristici cui si lasciano andare esponenti dei socialisti-rivoluzionari di sinistra – e in cui perderanno la vita l’ambasciatore tedesco, il capo della Čeka di Pietrogrado e il suo predecessore, e in cui lo stesso Lenin rimarrà leggermente ferito – che la violenza di stato diventa sempre più la norma contro chiunque osi criticare o protestare contro il regime del Partito bolscevico. [...] Il momento decisivo per legittimare il proprio potere monocratico era coinciso per i bolscevichi con le elezioni e poi la soppressione dell’Assemblea costituente. Il voto a Pietrogrado si era protratto dal 12 al 15 novembre, a Mosca dal 19 al 21, e nel resto del paese agli ultimi giorni del mese. Gli elettori erano stati oltre quaranta milioni, il 70 per cento degli aventi diritto nelle grandi città, nelle campagne e nei villaggi a volte il 100 per cento. A vincere, con il 40 per cento dei suffragi, sono i socialisti-rivoluzionari, come del resto era prevedibile considerato il loro radicamento nella campagne; i bolscevichi ottengono 10 milioni di voti, otto in meno, e circa un quarto dei suffragi. Agli altri partiti vanno pochi consensi [...]. A Pietrogrado e Mosca i bolscevichi ottengono la maggioranza, con punte di oltre il 70 per cento nei seggi delle guarnigioni militari e in alcuni distretti operai. Il governo, nel suo insieme, può contare sul 30 per cento degli elettori. Il 5 gennaio 1918, giorno di apertura dell’Assemblea costituente, una manifestazione composta prevalentemente di studenti, impiegati, professionisti, con pochi operai e soldati in appoggio, sfida la legge marziale imposta dal governo chiedendo «Tutto il potere all’Assemblea costituente». Il corteo viene bloccato con la forza, i morti sono una decina e molti di più i feriti. Dal Febbraio nessuna dimostrazione era stata più fatta

oggetto della repressione governativa. [...] Repressa la manifestazione in suo favore, i lavori dell’Assemblea hanno inizio di fronte a 463 dei 715 deputati eletti. I bolscevichi propongono che essa riconosca l’autorità dei soviet, ma la maggioranza rifiuta di esautorare se stessa. Giudicando l’Assemblea dominata da «controrivoluzionari», i bolscevichi la abbandonarono verso le ventidue, seguiti alla due di notte dai socialisti-rivoluzionari di sinistra. Alle quattro del mattino il comandante militare del Palazzo di Tauride8, il marinaio Železnjakov, interrompe il presidente dell’Assemblea Viktor Černov9, che sta proclamando l’abolizione della proprietà della terra, e chiede di sgomberare l’aula perché «la guardia è stanca». Due giorni dopo, il III Congresso dei soviet ratificherà lo scioglimento dell’Assemblea costituente. 3. Maksim Gor’kij (1868-1936), romanziere e autore teatrale russo. 4. Lev Kamenev (1883-1936) fu presidente del Comitato centrale esecutivo dei soviet a Mosca e poi presidente del soviet di quella città. Dopo la scomparsa di Lenin entrò in conflitto con Stalin, fu arrestato e condannato a morte. 5. A data indefinita. 6. Città della Russia vicino a San Pietroburgo. 7. La pena di morte era stata abolita dal governo rivoluzionario nel marzo 1917. 8. Storico edificio costruito alla fine del ’700: prima della rivoluzione di febbraio vi aveva sede la Duma, l’assemblea rappresentativa istituita dopo la rivoluzione del 1905; vi si installarono poi il governo provvisorio e il soviet di quella città. 9. Viktor Černov (1873-1952), fondatore del partito social-rivoluzionario russo, dopo la rivoluzione di febbraio fu ministro nel governo provvisorio.

METODO DI STUDIO

 a   Individua e rendi riconoscibili con una scritta ai lati del testo le tappe fondamentali che segnarono il consolidamento del regime a partito unico dei bolscevichi.  b   Sottolinea le informazioni principali relative ai seguenti aspetti del processo di nascita del Partito bolscevico e trascrivile sinteticamente sul quaderno: a. il concetto di nemico del popolo; b. la Cˇeka, la sua struttura e le sue funzioni; c. l’instaurazione del Terrore; d. la soppressione dell’Assemblea costituente.  c   Evidenzia i risultati delle elezioni di novembre e sottolinea la frase che permette di comprenderne le relative cause.

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FARESTORIA La Rivoluzione d’Ottobre

44d I “21 PUNTI” DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma 1974, vol. I.I, pp. 286-91.

Il II congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca fra il luglio e l’agosto del 1920, fu il primo veramente rappresentativo, dopo quello del 1919, del movimento comunista mondiale: vi parteciparono 169 delegati in rappresentanza di 64 partiti provenienti da 50 diversi paesi. Fra questi, la maggioranza era costituita da partiti socialisti – come il Psi italiano, la Sfio francese, l’Uspd tedesca – che, pur avendo solidarizzato con la Russia sovietica, erano divisi al loro interno riguardo i rapporti da tenere con la nuova Internazionale e con il Partito comunista sovietico (che, di fatto, la guidava). Le condizioni

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Il II Congresso dell’Internazionale comunista stabilisce le seguenti condizioni per l’appartenenza all’Internazionale comunista: 1. Tutta la propaganda e l’agitazione debbono avere un’impronta effettivamente comunista e corrispondere al programma e alle risoluzioni dell’Internazionale comunista. Tutti gli organi di stampa del partito debbono essere diretti da comunisti di provata fede, che abbiano dimostrato la loro dedizione alla causa del proletariato. [...] La stampa periodica e non periodica e tutte le pubblicazioni di partito debbono essere completamente subordinate alla direzione del partito [...]. Nelle colonne della stampa, nelle assemblee popolari, nei sindacati [...], dovunque gli aderenti alla Terza Internazionale ottengano accesso, è necessario bollare a fuoco, in modo sistematico e implacabile, non soltanto la borghesia ma anche i suoi complici, i riformisti di qualunque sfumatura. 2. Ogni organizzazione che voglia aderire alla Internazionale comunista deve estromettere, in modo metodico e pianificato, da tutti i posti di maggiore o minore responsabilità del movimento operaio (organizzazioni di partito, redazione di giornali, sindacati, gruppi parlamentari, cooperative, amministrazioni comunali) gli elementi riformisti e centristi, sostituendoli con comunisti fidati senza preoccuparsi del fatto che, soprattutto agli inizi, al posto di opportunisti «esperti» subentrino semplici lavoratori di massa. 3. In quasi tutti i paesi d’Europa e d’America la lotta di classe sta entrando nella fase della guerra civile. In tali condizioni i comunisti non debbono fidarsi in alcun modo della legalità borghese. Essi sono tenuti a creare dovunque un apparato organizzativo clandestino parallelo, che

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per l’adesione alla nuova organizzazione mondiale del proletariato, la Terza Internazionale, rappresentarono quindi uno dei nodi centrali del congresso. Gli obblighi furono fissati da Lenin in forma estremamente perentoria, con un documento articolato in “21 punti”, in buona parte riportati in questo brano. L’esperienza sovietica era considerata il punto di riferimento irrinunciabile e si imponeva l’adozione di una rigida centralizzazione a tutti i partiti socialisti aderenti, richiamati, oltre che a mutare nome, anche a espellere tutti gli esponenti considerati riformisti, compresi i leader storici. Queste decisioni di Mosca introdussero nel movimento operaio internazionale, inevitabilmente, una frattura destinata a ripercuotersi in tutti i paesi.

al momento decisivo aiuterà il partito a compiere il suo dovere verso la rivoluzione. [...] 4. Il dovere di diffondere le idee comuniste implica un impegno particolare per una propaganda condotta in modo martellante e sistematico nell’esercito. [...] 5. È necessaria un’agitazione sistematica e pianificata nelle campagne. [...] 6. Ogni partito che desideri appartenere alla Terza Internazionale è tenuto a smascherare non soltanto il socialpatriottismo aperto ma anche la disonestà e l’ipocrisia del socialpacifismo1: a dimostrare sistematicamente agli operai che senza l’abbattimento rivoluzionario del capitalismo nessun tribunale arbitrale internazionale, nessun accordo sulla limitazione degli armamenti, nessun rinnovamento «democratico» della Società delle nazioni saranno in grado di prevenire nuove guerre imperialistiche. 7. I partiti che desiderano appartenere all’Internazionale comunista sono tenuti ad approvare la rottura totale con il riformismo e la politica del «centro» ed a propagandare questa rottura tra i più vasti strati dei loro membri. Senza di questo, è impossibile una coerente politica comunista. [...] 8. Sul problema delle colonie e delle nazioni oppresse, è necessaria una posizione particolarmente marcata e chiara dei partiti di quei paesi la cui borghesia è in possesso di colonie ed opprime altre nazioni. Qualsiasi partito che desideri appartenere alla Terza Internazionale è tenuto a smascherare gli intrighi dei «suoi» imperialisti, ad appoggiare non soltanto a parole ma nei fatti ogni movimento di liberazione nelle colonie, a esigere la cacciata dalle colonie dei propri imperialisti, a inculcare negli animi degli operai del proprio paese un sentimento davvero

fraterno verso le popolazioni lavoratrici delle colonie e verso le nazioni oppresse ed a condurre in seno alle truppe del proprio paese un’agitazione sistematica contro qualsiasi oppressione dei popoli coloniali. 9. Ogni partito che desideri appartenere all’Internazionale comunista deve svolgere in modo sistematico e tenace un’attività comunista in seno ai sindacati, ai consigli operai e di fabbrica, alle cooperative di consumo e ad altre organizzazioni di massa degli operai. [...] 11. I partiti che vogliono appartenere alla Terza Internazionale sono tenuti a sottoporre a revisione i membri dei gruppi parlamentari, ad estromettere da questi gruppi tutti gli elementi non fidati, a subordinare i gruppi non soltanto a parole ma nei fatti alle direzioni dei partiti, esigendo che ciascun parlamentare subordini tutta la sua attività agli interessi di una propaganda e di una agitazione realmente rivoluzionarie. 12. I partiti appartenenti all’Internazionale comunista debbono essere strutturati in base al principio del centralismo democratico. Nella fase attuale di guerra civile acutizzata, il partito comunista sarà in grado di compiere il proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile centralisticamente, se in caso dominerà una disciplina ferrea e se la direzione del partito, sostenuta dalla fiducia di tutti i membri, godrà di tutto il potere, di tutta l’autorità e delle più ampie facoltà. 13. I partiti comunisti dei paesi nei quali i

1. Sia i socialisti che si erano schierati a fianco della borghesia del proprio paese durante la guerra, sia quelli che avevano adottato un atteggiamento pacifista.

comunisti debbono operare clandestinamente debbono intraprendere di quando in quando epurazioni (nuove registrazioni) dei membri della loro organizzazione, per epurare il partito sistematicamente dagli elementi piccolo borghesi che vi si sono insinuati. 14. Ogni partito che desideri appartenere all’Internazionale comunista è tenuto a sostenere senza riserve ogni repubblica sovietica nella lotta contro le forze controrivoluzionarie. [...] 15. I partiti che fino ad oggi hanno ancora conservato i loro vecchi programmi socialdemocratici sono tenuti a modificare nel più breve tempo possibile tali programmi e, conformemente alla situazione particolare del proprio paese, ad elaborare un nuovo programma comunista

coerente con le risoluzioni dell’Internazionale comunista. [...] 17. [...] Tutti i partiti che vogliono appartenere all’Internazionale comunista debbono modificare la propria denominazione. Ogni partito che voglia appartenere all’Internazionale comunista deve avere il nome di Partito comunista di questo o quel paese (sezione della Terza Internazionale comunista). [...] 20. I partiti che intendono entrare ora nella Terza Internazionale ma che non hanno mutato radicalmente la propria tattica debbono provvedere, prima del loro ingresso nell’Internazionale comunista, affinché non meno di due terzi dei membri del loro Comitato centrale e di tutte le più importanti istituzioni centrali siano composti di compagni che, prima anco-

ra del II Congresso dell’Internazionale comunista, si sono inequivocabilmente e pubblicamente pronunziati in favore dell’ingresso del partito nell’Internazionale comunista. [...] 21. Tutti i membri del partito che respingono fondamentalmente le condizioni e le norme poste dall’Internazionale comunista debbono essere espulsi dal partito stesso.

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia le frasi che meglio esprimono i contenuti dei punti descritti.  b   Individua un titolo per ogni punto in grado di sintetizzarne i contenuti e indica per ognuno da due a cinque parole chiave e argomenta la tua scelta per iscritto.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Con riferimento ai brani e documenti del percorso, scrivi un testo descrittivo di massimo 60 righe sulla rivoluzione bolscevica approfondendo gli argomenti indicati di seguito: • le Tesi di aprile; • le fasi della rivoluzione; • il regime dittatoriale del partito unico;

• il secondo Congresso dell’Internazionale comunista e il modello del partito sovietico. 2 Scrivi un testo breve di circa 20 righe sulla figura di Lenin all’interno del processo rivoluzionario e della storia politica dell’Unione Sovietica facendo riferimento anche al ruolo della propaganda artistica. Seleziona i brani e i documenti utili al tuo scopo fra quelli del percorso e ricordati di citarli opportunamente.

LA PACE E IL DIFFICILE DOPOGUERRA L’Europa uscì distrutta dalla guerra: alle potenze riunite alla conferenza di pace spettava il difficile compito di ricomporre gli equilibri politici e di creare le basi per una ricostruzione economica e sociale dell’intero continente. In questo senso, un documento di fondamentale importanza fu il programma in 14 punti [►45d] del presidente statunitense Wilson, enunciato nel gennaio 1918, che intendeva indicare agli alleati e agli avversari la linea sulla quale impostare la futura pace mondiale. Questi princìpi, in realtà, furono seguiti solo in parte dalle potenze vincitrici; al contrario, le loro decisioni lasciarono aperte alcune questioni che influenzarono negativamente gli anni del dopoguerra: innanzitutto per quanto riguarda l’economia, come mostra il polemico intervento di John Maynard Keynes [►46d], scritto nel 1920, nel quale viene formulata un’analisi pessimistica della situazione economica dell’Europa all’indomani della guerra. Tra i principali problemi non risolti a Versailles vi fu anche la questione delle minoranze etniche: il brano di Mark Mazower [►47] illustra bene quanto queste rappresentassero un fattore destabilizzante nella nuova sistemazione seguita alla scomparsa dei grandi imperi multinazionali (russo, ottomano, tedesco e austro-ungarico). Nell’ultimo brano, Ian Kershaw [►48] ricostruisce invece il contesto sociale, culturale e mentale che gli Stati nazionali si trovarono a gestire, caratterizzato dalla presenza di milioni di uomini e donne sconvolti da anni di conflitto.

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FARESTORIA La pace e il difficile dopoguerra



45d I “14 PUNTI” DI WILSON

E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, Ispi, Milano 1941, pp. 362-65.

Il programma di pace presentato l’8 gennaio 1918 dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson (1856-1924) enunciava in 14 punti le condizioni ritenute indispensabili per la creazione di una pace durevole, che avrebbe dovuto fondarsi non sulla precaria politica dell’equilibrio di forze, ma sul rispetto dei diritti dei popoli e sulla cooperazione tra tutte le nazioni. Il programma, che qui si riporta integralmente, suscitò vasti consensi nell’opinione pubblica democratica eu-

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Noi siamo entrati in questa guerra a causa delle violazioni al diritto che ci riguardano direttamente e rendono impossibile la vita del nostro popolo a meno che non siano riparate e il mondo sia assicurato per sempre che non si ripeteranno. Perciò in questa guerra, non domandiamo nulla per noi, ma il mondo deve esser reso adatto a viverci; e in particolare deve esser reso sicuro per ogni nazione pacifica che, come la nostra, desidera vivere la propria vita, stabilire liberamente le sue istituzioni, essere assicurata della giustizia e della correttezza da parte degli altri popoli del mondo come pure essere assicurata contro la forza e le aggressioni egoistiche. Tutti i popoli del mondo in realtà hanno lo stesso nostro interesse, e per conto nostro vediamo molto chiaramente che, a meno che non sia fatta giustizia agli altri, non sarà fatta a noi. Perciò il programma della pace del mondo è il nostro stesso programma; e questo programma, il solo possibile, secondo noi, è il seguente: 1. Pubblici trattati di pace, conchiusi apertamente, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali privati di qualsivoglia natura; ma la diplomazia procederà sempre francamente e pubblicamente. 2. Libertà assoluta di navigazione sui mari, al di fuori delle acque territoriali, sia in tempo di pace che in tempo di guerra, salvo il caso che i mari siano chiusi totalmente o parzialmente con un’azione internazionale in vista dell’esecuzione di accordi internazionali. 3. Soppressione, nei limiti del possibile, di tutte le barriere economiche e stabilimento di condizioni commerciali uguali per tutte le nazioni che consentono alla pace e si associano per mantenerla. 4. Garanzie sufficienti date e prese che gli armamenti nazionali saranno ridotti all’estremo limite compatibile con la sicurezza interna del paese. 5. Composizione libera, in uno spirito lar-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

ropea: affermava fondamentali princìpi quali il rispetto delle nazionalità e del diritto dei popoli all’autogoverno, nonché l’esigenza di una completa libertà di commercio e di scambio – andando incontro anche agli interessi economici della nascente potenza industriale americana. Si trattava di un documento rivoluzionario, che rompeva con i canoni della diplomazia segreta tipica dell’Europa delle grandi potenze e inaugurava una nuova era nella storia delle relazioni internazionali, anche se quelle proposte trovarono solo una parziale applicazione nei trattati di pace e nel dopoguerra.

go ed assolutamente imparziale, di tutte le rivendicazioni coloniali, fondata sul rigoroso rispetto del principio che, nel regolare tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle popolazioni interessate dovranno avere ugual peso delle domande eque del Governo il cui titolo si dovrà definire. 6. Evacuazione di tutti i territori russi e regolamento di tutte le questioni concernenti la Russia, in guisa1 da assicurare la migliore e la più larga cooperazione delle altre nazioni del mondo per fornire alla Russia l’occasione opportuna di fissare, senza ostacoli né imbarazzi, in piena indipendenza, il suo sviluppo politico e nazionale; per assicurarle una sincera accoglienza nella Società delle nazioni libere sotto un governo che essa stessa avrà scelto; per assicurarle infine il massimo aiuto, qualunque possa essere o quale essa potrebbe desiderare. Il trattamento accordato alla Russia dalle nazioni sue sorelle durante i mesi prossimi sarà la pietra di paragone che rivelerà la buona volontà e la comprensione di queste nazioni per i bisogni della Russia, a prescindere dai loro proprî interessi e dalla loro intelligente simpatia. 7. Il mondo intero sarà d’accordo che il Belgio debba essere evacuato e restaurato, senza alcun tentativo di limitare la sovranità di cui fruisce alla stregua delle altre nazioni libere. Nessun atto meglio di questo servirà a ristabilire la fiducia delle nazioni nelle leggi stabilite e fissate per reggere le loro reciproche relazioni. Senza questo atto di riparazione, la struttura e la validità di tutte le leggi internazionali sarebbero per sempre infirmate. 8. Tutto il territorio francese dovrà esser liberato, e le parti invase dovranno essere interamente ricostruite. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871, per quanto concerne l’Alsazia-Lorena, che ha turbato la pace del mondo per quasi cinquant’an-

ni, dovrà esser riparato, affinché la pace possa essere ancora una volta assicurata nell’interesse di tutti. 9. Una rettifica delle frontiere italiane dovrà esser effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. 10. Ai popoli dell’Austria-Ungheria, di cui desideriamo salvaguardare il posto fra le nazioni, dovrà esser data al più presto la possibilità di uno sviluppo autonomo. 11. La Romania, la Serbia, il Montenegro dovranno essere evacuati; saranno ad essi restituiti quei loro territori che sono stati occupati. Alla Serbia sarà accordato un libero accesso al mare, e le relazioni fra i diversi Stati balcanici dovranno esser fissate radicalmente sulle ispirazioni delle Potenze, secondo linee stabilite storicamente. Garanzie internazionali di indipendenza politica, economica, e d’integrità territoriale saranno fornite a questi Stati. 12. Alle parti turche del presente Impero ottomano saranno assicurate pienamente la sovranità e la sicurezza, ma le altre nazionalità che vivono attualmente sotto il regime di questo Impero devono, d’altra parte, godere una sicurezza certa di esistenza e potersi sviluppare senza ostacoli; l’autonomia dev’esser loro data. I Dardanelli saranno aperti in permanenza e costituiranno un passaggio libero per le navi e per il commercio di tutte le nazioni sotto garanzie internazionali. 13. Uno Stato polacco indipendente dovrà esser costituito, comprendente i territori abitati da nazioni incontestabilmente polacche, alle quali si dovrebbe assicurare un libero accesso al mare; l’indipendenza politica, economica e l’integrità territoriale di queste popolazioni saranno

1. In modo.

garantite da una Convenzione internazionale. 14. Una Società generale delle nazioni dovrebbe esser formata in virtù di convenzioni formali aventi per oggetto di fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi Stati.

METODO DI STUDIO

 a   Leggi con attenzione il cappello introduttivo e sottolinea e numera i riferimenti diretti al documento presentato. Quindi indica nella fonte i riferimenti contenuti nel cappello introduttivo inserendo i numeri da te attribuiti.  b   Individua e scrivi alcune parole chiave che si riferiscono agli ambiti di intervento descritti e argomenta la tua scelta facendo riferimento al testo.  c   Che tipo di documento è questo? Da chi è stato realizzato, in quale occasione e perché? Rispondi aiutandoti con le informazioni contenute nel cappello introduttivo.

46d JOHN MAYNARD KEYNES LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PACE



J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Treves, Milano 1920, pp. 207-9; 212-15; 228-29.

Il grande economista John Maynard Keynes (1883-1946) prese parte alle riunioni della conferenza per la pace tenutesi a Parigi nel 1919 come membro della delegazione della Gran Bretagna (in quanto rappresentante ufficiale della Tesoreria britannica). Keynes rappresenta una delle voci più critiche rispetto alle decisioni prese nel trattato di pace, in particolare Questo capitolo1 non può essere improntato che a un senso di pessimismo. Il Trattato non comprende alcuna clausola che miri alla rinascita economica dell’Europa, nulla che possa trasformare in buoni vicini gli Imperi Centrali disfatti, nulla che valga a consolidare i nuovi Stati dell’Europa, nulla che chiami a novella vita la Russia; esso non promuove neppure, in alcuna guisa, una stretta solidarietà economica fra gli stessi Alleati. A Parigi non si riuscì a concretare alcun programma per la restaurazione delle finanze disordinate della Francia e dell’Italia o per dare un riassetto ai sistemi del Vecchio e del Nuovo Mondo. Il Consiglio dei Quattro2 non prestò alcuna attenzione a questi problemi, preoccupato com’era da altre questioni [...]. Il problema fondamentale di una Europa affamata e disintegrantesi davanti ai loro stessi occhi fu la sola questione alla quale non fu possibile interessare i Quattro. Le Riparazioni furono la loro principale escursione nel campo dei problemi economici, ed essi le definirono come un problema di teologia, di politica, di controversia elettorale, da ogni punto di vista, insomma, eccetto che da quello della vita economica futura degli Stati ai cui destini essi erano stati chiamati a provvedere. [...] Il pericolo a cui ci troviamo di fronte è quello di una rapida depressione del tenore di vita della popolazione europea fino ad un punto tale che significhi

per ciò che riguardava le dure riparazioni di guerra imposte alla Germania e le loro ripercussioni sull’insieme dell’economia europea: il suo dissenso fu tale che si dimise dalla delegazione. Il brano seguente è tratto da un’opera del 1920, Le conseguenze economiche della pace, in cui l’autore offre un panorama drammatico della situazione economica dell’Europa all’indomani del conflitto, denunciando la scarsa attenzione riservata, proprio nei colloqui di pace, ai problemi della ripresa economica e preannunciando le difficoltà che sarebbero emerse negli anni successivi.

l’inedia3 assoluta per alcuni (punto già raggiunto dalla Russia ed in via di essere raggiunto dall’Austria). Gli uomini non saranno sempre disposti a morire tranquillamente, poiché la fame, che spinge taluni all’apatia e alla prostrazione, trascina altri temperamenti ad una instabilità isterica e ad una folle disperazione. E questi, nella loro disperazione, possono sconvolgere quanto resta ancora in vita della vecchia organizzazione e sommergere la civiltà stessa nel loro sforzo di soddisfare con qualunque mezzo il prepotente bisogno individuale. Questo è il pericolo contro il quale tutte le nostre risorse, il nostro coraggio, il nostro idealismo debbono ora cooperare. [...] Gli aspetti più significativi della situazione immediata possono essere raggruppati sotto tre capi: 1. L’assoluta riduzione, nei prossimi anni, della produttività interna dell’Europa; 2. La disorganizzazione dei trasporti e dei mezzi di scambio attraverso i quali i suoi prodotti potevano essere avviati dove maggiore era il bisogno; 3. L’incapacità per l’Europa di acquistare i suoi rifornimenti abituali oltre oceano. La diminuzione della produttività non può essere facilmente calcolata e può essere oggetto di esagerazione, ma essa appare enorme [...]. Quei pochi dati precisi che noi possediamo non aggiungono forse molto al quadro di decadimento generale. Ma io

desidero ricordarne al lettore uno o due: si calcola che la produzione complessiva del carbone in Europa sia diminuita del 30 per cento; ed è proprio dal carbone che la più grande parte delle industrie e dei trasporti europei dipende. Mentre la Germania, prima della guerra, produceva l’85 per cento dei viveri consumati dalla sua popolazione, la produttività del suolo è ora diminuita del 40 per cento e la qualità effettiva del bestiame è peggiorata del 55 per cento. Fra i paesi d’Europa che prima avevano una grande eccedenza di derrate esportabili, la Russia, sia per la deficienza dei trasporti, come per la diminuzione della produzione, soffre essa stessa la carestia; l’Ungheria, a prescindere da ogni altra angustia, è stata depredata dai rumeni subito dopo il raccolto; l’Austria avrà consumato tutto il raccolto del 1919 prima della fine dell’anno solare. Le cifre sono forse troppo impressionanti per poterci convincere. Se esse non fossero così cattive, potremmo forse credervi di più. Ma anche quando il carbone possa essere

1. Si tratta del capitolo VI, intitolato L’Europa dopo il Trattato. 2. I quattro rappresentanti delle principali potenze vincitrici: l’americano Wilson, il francese Clemenceau, l’inglese Lloyd George e l’italiano Orlando. 3. Progressivo deperimento, causato dalla mancanza di cibo.

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FARESTORIA La pace e il difficile dopoguerra

estratto ed il grano mietuto, la disorganizzazione delle ferrovie ne impedisce il trasporto, ed anche quando si riesca a rimettere in moto le industrie, il fallimento della valuta dell’Europa impedisce la vendita dei prodotti. [...] Quale è dunque il quadro che l’Europa ci presenta? Una popolazione campagnuola capace di alimentarsi dei frutti della sua stessa produzione agricola, ma non in grado di disporre dell’usuale eccedenza per i bisogni delle città ed inoltre (come conseguenza della deficienza di merci importate ed anche della diminuita quantità e varietà dei manufatti disponibili nelle città) restia a cedere le derrate in cambio di altre merci; una popolazione industriale incapace di mantenere vive le proprie forze per mancanza di nutrizione, inetta a guadagnarsi la vita per mancanza di materie prime e quindi incapace di compensare con importazioni dall’estero la ridotta produttività all’interno. [...] Noi ci troviamo di fronte ad un’Europa inetta, disoccupata, disorganizzata, dilaniata da lotte interne e da odii internazionali, agitata, affamata, devastatrice ed oziosa. Quali promesse ci sono di un quadro a tinte meno fosche? [...] L’acuirsi delle privazioni procede per gradi, e fino a quando gli uomini soffrono tali privazioni in pace, il mondo esterno se ne preoccupa ben poco. L’efficienza fisica e la resistenza

ai morbi decresce lentamente, ma la vita continua in qualche modo a svolgersi fino a che il limite di tolleranza umana viene alla fine raggiunto e la disperazione e la follia svegliano i sofferenti dal letargo che precede la crisi; l’uomo si scuote e i vincoli della consuetudine si indeboliscono. La forza delle idee è sovrana ed egli presta l’orecchio a qualsiasi voce di speranza, a qualsiasi illusione o a qualsiasi grido di vendetta che gli viene attraverso l’aria. Nel momento in cui scrivo, la fiammata del bolscevismo russo sembra, almeno per il

PALESTRA INVALSI

1 Completa il testo che segue tenendo in considerazione quanto detto dall’autore. L’autore sostiene che il trattato di pace stipulato a Parigi nel 1919 non ponga le basi per la ripresa dell’Europa e che, invece, possa portare ad un forte XXXXXX economico e produttivo. Altre conseguenze potrebbero essere, secondo Keynes, la MMMMMM dei trasporti commerciali e l’incapacità di rifornirsi oltreoceano. All’indomani del primo conflitto mondiale, inoltre, la popolazione europea vive, secondo l’analisi riportata, nell’YYYYYY in città e nell’NNNNNN in campagna. Che parola metteresti al posto di XXXXXX? E di YYYYYY e di MMMMMM? [ ] a. disorganizzazione [ ] b. indigenza [ ] c. sviluppo [ ] d. regresso [ ] e. autosufficienza 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? «Keynes esprime posizioni che mostrano il suo disaccordo con i contenuti del trattato di pace.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

47 M. MAZOWER LA QUESTIONE DELLE MINORANZE



M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2000, pp. 62-66; 69.

In questo brano, tratto da un volume dedicato alle vicissitudini della democrazia nel ’900, lo storico britannico Mark Mazower (nato nel 1958) affronta una delle questioni lasciate irrisolte dai trattati di pace: quella delle minoranze etniche all’interno dei nuovi Stati nazionali. Benché infatti, secondo quanto proponeva Wilson nei suoi 14 punti, le potenze vincitrici appoggiassero il principio di nazionalità, la sua ap-

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I vincitori di Versailles dovettero elaborare una politica in grado di coniugare le loro promesse di autodeterminazione nazionale e la necessità di stabilità in Europa. Nei primi mesi del 1918, molti dirigenti di Washington e Londra continuarono a credere che la soluzione migliore per l’Europa orientale fosse quella della confederazione: eventuali Stati nazionali sarebbero

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

momento, estinta, e i popoli dell’Europa centrale ed orientale si trovano in uno stato di pauroso torpore. L’ultimo raccolto allontana le privazioni più acute, e la Pace è stata proclamata a Parigi. Ma l’inverno si avvicina, gli uomini si troveranno privi di speranza, vi sarà ben poco combustibile per attenuare il rigore della stagione e per confortare i corpi affamati degli abitanti delle città. Ma chi può dire fino a quando un tale stato di cose può durare o quale via gli uomini sceglieranno alla fine per sfuggire alle loro sfortune?

plicazione nel concreto era ben più complessa. Nei vecchi imperi transnazionali scomparsi dopo la guerra esistevano importanti e forti gruppi etnici oltre a quelli maggioritari: riconosciute dalla Società delle Nazioni, queste minoranze vennero tutelate con appositi trattati, che si scontrarono però con la volontà di rafforzamento degli Stati nazionali di recente formazione. Le classi dirigenti appartenenti ai gruppi etnici dominanti finirono allora con il discriminare, considerandoli potenziali nemici, i cittadini appartenenti alle minoranze, lasciando emergere nuovi risentimenti e tensioni che ebbero poi, in molti casi, un esito tragico.

stati troppo piccoli per dare affidamento e troppo instabili per garantire la pace. I pianificatori americani del futuro dell’Europa esitavano tra il raccomandare l’indipendenza per la Polonia e il trasformarla in uno Stato federale all’interno di una nuova democrazia russa; il Ministero degli Esteri britannico abbandonò solo con riluttanza l’idea di ricostituire l’Impero asburgico.

Ma il repentino crollo dei vecchi imperi rese obsoleti tali programmi e portò per la prima volta a galla la questione delle minoranze, inizialmente soprattutto in rapporto alla Polonia. [....] Il paese non esisteva come Stato indipendente da oltre un secolo e ospitava vaste comunità di tedeschi, lituani, russi bianchi, ucraini ed ebrei, oltre ai polacchi. Gli stessi na-

zionalisti polacchi erano divisi tra due visioni di passato splendore: uno Stato nazionale esclusivamente polacco fondato sulla purezza etnica, o una sorta di Commonwealth multietnico sotto la leadership polacca. [...] Ai partecipanti alla Conferenza di Parigi era già chiaro che la questione delle minoranze non fosse risolvibile semplicemente ridisegnando le cartine geografiche: la distribuzione etnografica della popolazione in Europa orientale era talmente complicata da sconfiggere anche la più sagace opera di ridefinizione dei confini. Al Foreign Office britannico1, E.H. Carr2 suggerì di offrire alle minoranze degli incentivi a emigrare nei rispettivi Stati nazionali. Ma cosa fare di quelli che preferivano restare? E di quelli, come gli ebrei o gli zingari, che non avevano una patria nazionale? [...] Stimolata dalle preoccupazioni del presidente Wilson, la neonata Commissione per i nuovi Stati con sede a Parigi decise di affrontare la questione. [...] Il risultato (nonostante le vibranti proteste) fu che in cambio del proprio riconoscimento il governo polacco firmò un trattato che garantiva determinati diritti alle minoranze. Questi comprendevano il diritto di cittadinanza, di uguaglianza dinanzi alla legge e di libertà religiosa, nonché quello alla salvaguardia vera e propria delle minoranze, vale a dire il diritto a certe forme di organizzazione collettiva quale l’istruzione scolastica. La Società delle Nazioni si fece garante del trattato, il che significa che era possibile portare le rimostranze alla sua diretta attenzione (sebbene non direttamente dalla minoranza interessata). In determinate circostanze, il Consiglio della Società avrebbe potuto intervenire contro il governo polacco. Nel corso del secolo precedente, le Grandi Potenze avevano spesso subordinato il riconoscimento dei nuovi Stati alla loro adesione ai princìpi di libertà e tolleranza religiosa. Così era stato, ad esempio, per il Belgio nel 1830 e la Romania nel 1878. Ma il Trattato sui diritti delle minoranze polacche portò il diritto internazionale in acque inesplorate. L’elemento nuovo nel 1919 era l’attenzione prestata ai diritti «nazionali» oltre a quelli esclusivamente religiosi, e ai diritti collettivi piuttosto che alle libertà individuali, nonché la disposizione che le decisioni a livello internazionale fossero prese da un organo sovranazionale anziché da un conclave delle Grandi Potenze.

Obblighi simili vennero imposti agli altri Stati neonati nonché agli ex paesi belligeranti quali l’Ungheria e a vecchi Stati come Romania e Grecia cui la guerra aveva portato in dote nuovi territori. E così la Sdn3 si fece garante di un sistema che da un lato accettava lo Stato nazionale come la norma nei rapporti internazionali e dall’altro si sforzava di risolvere i problemi delle minoranze generati dal nuovo ordine. Riconobbe (forse incoraggiandone in tal modo la creazione) le minoranze come entità collettive. Ma il ruolo della stessa Sdn nell’ambito di tale sistema fu ambiguo. Portare casi specifici alla sua attenzione era molto difficile, e ancor più arduo riuscire a superare la trafila burocratica di Ginevra4 e farli esaminare dal Consiglio. [...] La Sdn disponeva anche di scarsi strumenti punitivi contro i trasgressori [...] Molti gruppi minoritari e i rispettivi tutori spinsero per un maggiore attivismo. Sotto la diplomazia di Gustav Stresemann5, la Germania di Weimar entrò a far parte della Sdn e iniziò ad assumere il ruolo di «protettrice delle minoranze», con un occhio ai milioni di tedeschi disseminati in tutta l’Europa orientale. I gruppi tedeschi ed ebraici si fecero portavoce delle forti pressioni esercitate dal Congresso europeo delle nazionalità, mentre Stresemann si adoperò a riformare la macchina burocratica di Ginevra creando una commissione permanente sui diritti delle minoranze. I suoi sforzi ottennero tuttavia scarsi risultati, in parte perché sospettati di far parte di un più generale tentativo di modificare l’ordine di Versailles. I nazionalisti tedeschi in patria si convinsero che la Sdn non avrebbe mai protetto adeguatamente i diritti dei tedeschi residenti all’estero. Così come avevano impedito ai tedeschi residenti in Austria di esercitare il loro diritto all’autodeterminazione e realizzare l’Anschluss6 con la Germania nel 1918, negli anni ’20 i vincitori di Versailles dettero l’impressione di essere sordi alle rimostranze dei tedeschi residenti in altre aree. Decine di migliaia di tedeschi emigrarono di fatto in Germania, mentre i milioni che restarono vennero sostenuti da organizzazioni quali ad esempio l’Associazione delle comunità tedesche residenti all’estero, forte di due milioni di iscritti, e da movimenti politici come il Partito nazista. Al contempo, i trattati sulle minoranze scatenarono violente proteste perché

considerati un’umiliazione dai paesi ai quali erano stati imposti. Questi ultimi erano particolarmente irritati dal fatto che non esistesse alcun regime universale in materia di diritti delle minoranze e chiesero perché fossero stati additati proprio loro quando nessun obbligo di tale tipo era stato invece imposto alla Germania e quando l’Italia fascista perseguitava impunemente la minoranza di lingua tedesca in Sud Tirolo. [...] Tra le due guerre, le minoranze furono spesso viste come la quinta colonna delle ambizioni irredentiste degli Stati confinanti, oppure del bolscevismo, e considerate un rischio per la sicurezza anziché parte integrante dei rispettivi Stati. La gran parte delle promesse contenute nei trattati sulle minoranze rimasero tali. Le scuole in lingua delle minoranze vennero chiuse, mentre ambiziosi programmi di insediamento tentarono (quasi sempre senza successo) di alterare l’equilibrio demografico in aree di confine particolarmente delicate [...]. I vecchi imperi avevano gestito le cose con maggiore tolleranza. Prima del 1914 a Vienna c’erano parecchi funzionari pubblici cechi; dopo il 1918, tuttavia, il nuovo Stato cecoslovacco – sebbene indubbiamente il più liberale dell’Europa centrale – cooptò pochissimi pubblici funzionari di etnia tedesca, nonostante che i tedeschi costituissero un quinto della popolazione. 1. Ministero degli Esteri. 2. Edward Hallet Carr (1892-1982) prestò servizio nel corpo diplomatico britannico dal 1916 al 1936; fu autore nel secondo dopoguerra di una monumentale Storia dell’Unione Sovietica. 3. Società delle Nazioni. 4. Dove aveva sede la Società delle Nazioni. 5. Gustav Stresemann (1878-1929), dal 1923 fino alla morte, fu ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar [►5_5]. 6. “Annessione”, “unione”, in tedesco.

METODO DI STUDIO

 a   Realizza e compila un grafico a stella al cui centro ci sia la scritta «Il problema delle minoranze» e i cui raggi corrispondano alle voci: a. cause; b. Stati interessati; c. chi se ne occupò; d. come si risolse.  b   Spiega per iscritto perché il problema delle minoranze non era risolvibile tracciando nuovi confini.  c   Evidenzia i cambiamenti avvenuti nel 1919.

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48 I. KERSHAW IL RITORNO ALLA VITA CIVILE

I. Kershaw, All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 114-18.

In un recente volume, lo storico britannico Ian Kershaw (nato nel 1943) ripercorre le vicende dell’Europa dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra, individuando proprio nella Grande Guerra il momento fondamentale che ha sconvolto l’intero continente sotto il profilo politico, sociale ed economico, nonché culturale e mentale. In questo

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In nessun posto dell’Europa postbellica ci fu una terra «adatta agli eroi». Nelle città e nei villaggi dell’intero continente vedove afflitte, bambini orfani e soldati azzoppati si mescolavano agli affamati, ai disoccupati e ai miserabili. La guerra aveva lasciato circa otto milioni di invalidi bisognosi dell’aiuto dello Stato. Nella sola Germania c’erano oltre mezzo milione di vedove di guerra e più di un milione di orfani. Tra i 650.000 che avevano subito ferite gravi c’erano 2400 ciechi; 65.000 avevano perduto un braccio o una gamba; e più di 1300 avevano subito l’amputazione di entrambe le gambe o entrambe le braccia. La medicina aveva fatto progressi durante la guerra. Ma la chirurgia non poteva guarire completamente queste terribili ferite. E oltre ai corpi mutilati c’erano i malanni mentali, gli uomini traumatizzati dalle esperienze fatte in guerra; si stima che questi malati ammontassero a 313.000 in Germania e 400.000 in Gran Bretagna. Molti non guarirono mai, soffrendo per i trattamenti psichiatrici inadeguati e per la scarsa comprensione dei loro problemi da parte dell’opinione pubblica. Gli invalidi di guerra si trovavano ad affrontare il disagio economico e la discriminazione sociale. I datori di lavoro non erano disposti ad assumere persone fisicamente handicappate; e gli ex soldati sofferenti di malanni psichiatrici dalla guerra erano spesso visti come degli «isterici», o li si sospettava di fingersi malati per ottenere una pensione. [...] Nell’Europa orientale la situazione era ancora più spaventosa. Ovunque li portasse la fuga dalla guerra civile russa, centinaia di migliaia di profughi trovavano di solito una fredda accoglienza da parte di gente che pativa essa stessa gravi disagi; e ovunque le prospettive di una sistemazione erano decisamente fosche. Gran parte del territorio polacco era stata devastata per anni dai combattimenti, e il paese era in una condizione terribile. Subito dopo la guerra una metà della popolazione di

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brano, l’autore si sofferma sul complesso ritorno alla normalità di milioni di uomini e donne coinvolti nell’esperienza bellica e in particolare dei militari che avevano combattuto al fronte, e che ora chiedevano un riconoscimento ufficiale per il sacrificio compiuto per la patria e condizioni di vita dignitose (un lavoro, una casa, una pensione di guerra). Proprio l’incapacità dei governi nel garantire tali esigenze sarà uno dei motivi di instabilità politica e sociale del dopoguerra.

Varsavia riceveva un aiuto (minimo) sotto forma di sussidio di disoccupazione; le malattie dilagavano; e la Polonia orientale era ridotta quasi alla fame. [...] Quasi ovunque le popolazioni dovettero far fronte non soltanto a gravi disagi materiali, ma anche a lutti personali. In una guerra di popoli, con perdite così gigantesche, s’imponeva una qualche forma di riconoscimento nazionale dell’enormità delle sofferenze. Le famiglie francesi volevano che i loro morti venissero sepolti nei camposanti dei loro villaggi natali. Il governo finì col cedere alla pressione pubblica, e lo Stato finanziò l’esumazione e la nuova sepoltura di 300.000 caduti che si era riusciti a identificare. Prescindendo dalle formidabili difficoltà logistiche e procedurali, la cosa fu possibile perché i morti francesi erano caduti perlopiù nel loro paese. Per altre nazioni, niente di simile era fattibile. I morti dovevano essere commemorati dove erano stati uccisi, pur mantenendo i vincitori separati dai vinti. Specialmente i francesi non potevano sopportare l’idea che i loro cari giacessero fianco a fianco con i tedeschi. Così laddove i tedeschi erano stati sepolti accanto a francesi e britannici bisognò esumarli e riseppellirli in cimiteri separati. Il risultato fu la creazione di cimiteri di guerra sui vecchi campi di battaglia, o nelle loro vicinanze, ciascuno con le sue peculiarità nazionali. I cimiteri simboleggiavano l’immortalità dell’eroismo e del sacrificio per la patria. Essi toccavano inoltre il sentimento popolare, evocando il senso che il sacrificio non era stato invano, e che in presenza di Dio i caduti sarebbero risorti. [...] Riportare in patria un soldato ignoto e seppellirlo in un tempio nazionale diventò presto il punto focale del lutto collettivo della nazione. Nel 1920, tra splendori cerimoniali e rituali, i francesi seppellirono sotto l’Arc de Triomphe1 a Parigi un «soldato ignoto», e i britannici fecero lo stesso nell’Abbazia di Westminster2 a Londra. Italia, Belgio e Portogallo seguirono a ruota questi esempi.

I caduti sul fronte occidentale poterono essere commemorati in una cerimonia nazionale comune. Non così in Oriente. Nessun monumento fu eretto in Russia. Qui la guerra sfociò senza soluzione di continuità nelle lotte rivoluzionarie e nelle ancor più grandi perdite della spaventosa guerra civile. Con il trionfo del bolscevismo la prima guerra mondiale – vista come un semplice conflitto di rapaci potenze imperialistiche – cedette il proscenio3 al mito eroico della guerra civile. Le necessità dell’ideologia rendevano impossibile una qualsivoglia presenza della prima guerra mondiale nella memoria collettiva. Né ci si poteva aspettare un senso dell’unità della nazione nel ricordare i caduti simile a quello delle potenze occidentali nei paesi sconfitti, in cui la guerra era stata fattore di divisione e aveva prodotto non soltanto la catastrofe militare e un’immensa perdita di vite umane, ma anche un gigantesco sommovimento politico e uno scontro ideologico. La Germania inaugurò a Berlino un monumento nazionale ai caduti soltanto nel 1931 (ma un gran numero di monumenti locali lo avevano preceduto). Il significato del conflitto e la sconfitta della Germania erano l’oggetto di una contesa troppo aspra perché potesse formarsi un’unità in qualsivoglia specie di commemorazione della guerra. A un estremo dello spettro del sentimento pubblico stavano il dolore, l’orrore per il costo umano della guerra e il pacifismo [...]. All’estremo opposto dello spettro c’era il senso dell’umiliazione nazionale e la rabbia per la sconfitta e la rivoluzione che l’aveva accompagnata, che intrecciavano insieme l’eroismo guerriero e la speranza nella

1. Arco di trionfo. 2. L’antica abbazia che sorge nel cuore di Londra, accanto alla sede del Parlamento e del governo e alla residenza reale. 3. Scena, palcoscenico.

risurrezione e rinascita della nazione. [...] In Germania il mito dei caduti rimase un centro focale della lotta ideologica che negli anni Trenta avrebbe trovato il suo catastrofico scioglimento. L’orrore della guerra fece di molte persone dei pacifisti. [...] L’ideale pacifista e quello che chiedeva di porre fine alle diseguaglianze sociali connaturate alla concorrenza capitalistica trovarono orecchie favorevoli. Il pacifismo idealistico rimase tuttavia confinato a una minoranza. I più dei soldati che tornarono a casa non erano pacifisti. Avevano combattuto, e se il dovere patriottico e la necessità l’avessero richiesto l’avrebbero fatto di nuovo, seppur a malincuore. Ma sopra ogni altra cosa volevano pace, sicurezza, un ritorno alla normalità e un futuro migliore, senza

guerra. La stragrande maggioranza voleva tornare alle proprie fattorie, ai propri luoghi di lavoro, ai propri villaggi e città, e soprattutto alle proprie famiglie. Era questa la reazione più comune – almeno nell’Europa occidentale – mentre ci si sforzava in maniere diverse di riscostruire vite che erano state così spesso stravolte dall’esperienza del terribile conflitto. L’orrore di ciò che era avvenuto produsse la schiacciante convinzione che non doveva mai più esserci una guerra. [...] Ma non tutti la pensavano così. C’era un altro lascito della grande conflagrazione europea, completamente diverso e contrapposto al primo: un lascito che glorificava la guerra e dava il benvenuto alla violenza e all’odio. Per molti, la semplice verità era che la guerra non era finita nel novembre 1918.

Lo choc culturale della sconfitta, della rivoluzione e del trionfo del socialismo, e le paranoiche paure del «Terrore Rosso» che figurava nelle storie di orrori raccontate dai profughi in fuga dalla guerra civile russa, alimentarono una mentalità brutale in cui uccidere e mutilare coloro che erano ritenuti responsabili del disastro diventava un dovere, una necessità e un piacere – una normale maniera di vivere. METODO DI STUDIO

 a   Cerchia i nomi degli Stati citati, trascrivili sul quaderno e sintetizza gli eventi descritti per ognuno di essi.  b   Spiega per iscritto dove, come e perché nasce il rituale della commemorazione del milite ignoto.  c   Sottolinea con colori diversi le reazioni alla guerra descritte nel testo.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Basandoti sui brani contenuti nel percorso, scrivi un testo di circa 40 righe sull’Europa all’indomani della guerra. Ricordati di citare opportunamente i brani a cui fai riferimento nella tua argomentazione e di toccare i seguenti temi: • i 14 punti di Wilson; • la situazione economica; • le condizioni delle minoranze; • i traumi prodotti sulla popolazione civile.

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Dopo aver letto il brano di Mazower [►47], scegli fra le seguenti affermazioni, relative al modo in cui la conferenza di Parigi affrontò la questione delle minoranze, quella che ritieni maggiormente condivisibile e argomenta la tua posizione in un testo di circa 20 righe: a. Nel ridisegnare la carta dell’Europa, dopo la guerra, prevalse il principio della stabilità politica rispetto a quello dell’autodeterminazione dei popoli: in questo modo le garanzie fissate dalla Società delle Nazioni a difesa delle minoranze etniche rimasero quasi sempre disattese. b. Il problema delle “minoranze insoddisfatte”, dopo il 1919, non fu il prodotto di una scelta politica dei partecipanti alla conferenza di pace, ma il frutto di una condizione oggettiva, legata all’intricata distribuzione geografica delle minoranze nell’Europa orientale.

GERMANIA E ITALIA: DEMOCRAZIA E STATO LIBERALE IN CRISI Gli sconvolgimenti provocati dalla Grande Guerra e le decisioni prese alla conferenza di pace misero quasi subito in crisi i sistemi politici liberal-democratici affermatisi in alcuni paesi. Una insanabile instabilità colpì soprattutto la Germania e l’Italia. Nel primo brano, Eric D. Weitz [►49] si sofferma sugli anni della Repubblica di Weimar: l’esempio più avanzato di democrazia nell’Europa del dopoguerra fu attraversato da molti problemi e contraddizioni interne, che portarono a un esito tragico, la salita al potere del nazismo. A rendere difficile la vita della Repubblica vi era anche la presenza di forze nazionaliste e paramilitari, descritte in un libro autobiografico di Ernst von Salomon [►50d], che tentarono di continuo di destabilizzare la società e l’ordine democratico. All’Italia appena uscita dalla guerra e alle caratteristiche della sua vita politica è invece dedicato il brano di Giovanni Sabbatucci [►51], che pone l’attenzione sulla debolezza della classe dirigente liberale, fino ad allora al governo del paese. Una debolezza che, unita ai problemi economici e sociali del dopoguerra, favorì l’emergere delle posizioni politiche più radicali, come il fascismo di Benito Mussolini. La testimonianza di Angelo Tasca [►52d]

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FARESTORIA Germania e Italia: democrazia e stato liberale in crisi

descrive bene le fasi in cui, attraverso l’azione violenta dello squadrismo, questo movimento conquistò potere a livello locale e visibilità a livello nazionale. In seguito, approfittando anche degli errori commessi dalle forze politiche italiane, Mussolini riuscì ad arrivare al governo del paese nell’ottobre del 1922 con la “marcia su Roma”, evento al quale è dedicato il brano di Emilio Gentile [►53]. Nel giro di pochi anni, con l’approvazione di una serie di leggi autoritarie e repressive di ogni libertà, dette “leggi fascistissime” [►54d], Mussolini trasformò l’Italia in un regime dittatoriale.



49 E.D. WEITZ LA REPUBBLICA DI WEIMAR

E.D. Weitz, La Germania di Weimar. Utopia e tragedia, Einaudi, Torino 2008, pp. 4-5; 43-46.

In questo brano, lo storico statunitense Eric D. Weitz (nato nel 1953) delinea un profilo della Repubblica di Weimar. L’autore mostra come questa esperienza politica abbia assicurato per più di un decennio ai tedeschi, usciti distrutti dalla guerra, un periodo di pace, democrazia, conquiste sociali e vivacità culturale e artistica. Tuttavia, fin dall’inizio della sua

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La Repubblica di Weimar evoca i timori sia delle possibili conseguenze del mancato consenso sociale sulla direzione da prendere, sia della trasformazione di differenze magari limitate in battaglie politiche vitali; con la conseguente diffusione dell’assassinio e della battaglia di strada, e le minoranze che diventano comodi capri espiatori delle forze antidemocratiche. Un segno ammonitore [...], perché tutti sappiamo come andò a finire, con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo il 30 gennaio 19331. Nonostante tali conflitti e disastri, Weimar fu un periodo di grande fioritura politica e culturale. La fine del vecchio ordinamento imperiale travolto da guerra e rivoluzione liberò il campo all’immaginazione sociale e politica. Per quasi un quindicennio, i tedeschi crearono e mantennero in vita un ordinamento politico ampiamente liberale con consistenti programmi di welfare. La vita di molti cittadini migliorò, con la riduzione, tra l’altro, dell’orario di lavoro a otto ore quotidiane, almeno nei primi anni della repubblica; mentre il sussidio di disoccupazione sembrò annunciare una nuova era nella quale i lavoratori sarebbero stati protetti dalle oscillazioni del ciclo economico. Nuovi complessi residenziali costruiti nell’ambito di programmi di edilizia pubblica offrirono agli operai più qualificati e ai colletti bianchi la possibilità di traslocare dai vecchi alloggi in appartamenti moderni dotati di servizi igienici interni, di acqua corrente, gas, elettricità. Le donne ottennero il diritto di voto; sorse, finalmente una stampa vivace e libera. [...] Cinema e mondo dello spettacolo diffusero il sogno di una vita più agiata grazie

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esistenza (un «inizio burrascoso», come lo definisce Weitz), la Repubblica fu attraversata da conflittualità e contraddizioni interne, figlie della guerra persa e del complesso contesto internazionale dell’epoca: ciò condurrà negli anni ‘30 alla caduta della Repubblica e all’affermazione del nazismo di Adolf Hitler. Insomma, la storia di Weimar costituisce un esempio da tenere presente ancora oggi: un «segno ammonitore», riprendendo le parole dell’autore, di possibili sviluppi imprevedibili e tragici.

alla moltiplicazione dei beni di consumo, sebbene il mattino dopo bisognasse pur sempre essere al lavoro alle sette in punto, in fabbrica, in ufficio, in negozio. Gli ideali utopistici sorsero sulla scorta della guerra e della rivoluzione. C’era la certezza di poter cambiare radicalmente il mondo: secondo alcuni con l’architettura, l’abitazione in comune, la fotografia; secondo altri con le manifestazioni di massa. Certezze e convinzioni che stimolarono la produzione artistica e ispirarono ampie riflessioni filosofiche. [...] Nell’estate del 1919, la Germania aveva un governo eletto democraticamente, una nuova costituzione e un trattato di pace grazie al quale si era chiuso il capitolo prima guerra mondiale. Nonostante le perdite territoriali, il paese conservava la sua unità: esito non facilmente prevedibile nell’autunno-inverno 1918-19. Riconsiderando gli ultimi dieci mesi si poteva provare una certa soddisfazione e, persino, un po’ d’orgoglio. Sintomi preoccupanti restavano, tuttavia, ben presenti. Soltanto dopo la firma del Trattato di Versailles i britannici posero fine al blocco del Mare del Nord, consentendo le importazioni necessarie alla produzione e al soddisfacimento delle esigenze immediate della popolazione. In molte città, infatti, continuava il razionamento dei beni alimentari. L’economia industriale aveva preso l’abbrivio2, ma le difficoltà permanevano, e l’inflazione falciava il potere d’acquisto dei redditi da lavoro dipendente. Truppe tedesche erano ancora schierate in zone remote quali Anatolia e Caucaso. In molte regioni del paese vigeva la legge marziale. I gruppi paramilitari

tedeschi non si limitavano alla repressione violenta di scioperi e dimostrazioni; operavano anche nell’Europa orientale, combattendo i comunisti e organizzando pogrom3. La destra adottò un nuovo stile politico emerso tra le generazioni reduci dal fronte. Uno stile fatto di esaltazione della guerra e delle trincee, che cercava di ricreare in continuazione un sentimento di solidarietà tra maschi combattenti, cui si accompagnava un mitico timore/odio della donna. La destra non era, però, l’unica propugnatrice della cultura della violenza. Molti sostenitori della sinistra estrema erano a loro volta ex combattenti e si ispiravano all’esempio eroico della Rivoluzione bolscevica. Anche tra costoro si idealizzava lo scontro rude, maschio. Versailles, inoltre, si lasciò alle spalle un gran numero di problemi che avrebbero tristemente pesato sulla politica interna ed estera degli anni Venti e dei primi anni Trenta. L’ammontare delle riparazioni dovute alla Germania non era stato precisato. Numerose decisioni riguardanti il territorio furono contestate. Nonostante le clausole volte a proteggere le minoranze, pressoché dappertutto, nell’Europa centrale e orientale, le condizioni di costoro diventarono più precarie nel periodo tra le due

1. Ovvero la salita al potere di Adolf Hitler e del Partito nazista. 2. Si era rimessa in moto. 3. Parola russa che indica una sollevazione popolare e violenta contro una minoranza etnica o religiosa (ad esempio contro gli ebrei).

guerre mondiali. I tedeschi, poi, non erano affatto disposti ad accollarsi la responsabilità esclusiva della guerra loro attribuita dall’articolo 2314. Nei quattordici anni della Repubblica di Weimar, i tedeschi si sarebbero scontrati e avrebbero discusso su ciascun punto. Su una sola cosa avrebbero convenuto, unanimemente, dai nazionalsocialisti ai comunisti: la profonda ingiustizia di Versailles, ritenuta una pace dei vincitori che schiacciava la Germania con enormi fardelli a tutto vantaggio delle nazioni straniere. In proposito si soleva parlare di «Diktat di Versailles». [...] Weimar fu sempre tenuta sotto tiro dai suoi oppositori e non godette mai della piena legittimazione né dei cittadini, né delle istituzioni della società tedesca. Fu costantemente il luogo della radicale contestazione, riguardo a qualsiasi argomento o questione di una certa importanza, e a qualsiasi collocazione nella realtà internazionale. Timore, disprezzo e insoddisfazione ispirarono le attività delle bande paramilitari della destra che praticarono l’assassinio degli avversari politici e repressero violentemente gli scioperanti; le infinite discussioni e i complotti degli ufficiali dell’esercito sempre pronti al colpo di stato militare; le prese di posizione del mondo industriale e finanziario alla costante ricerca di un pretesto o di un’opportunità per privare i lavoratori di qualsiasi potere in fabbrica e i sindacati di qualsiasi forza in sede di contrattazione.



Ispirarono, inoltre, le continue punzecchiature e gli infiniti anatemi lanciati contro la repubblica e i suoi sostenitori: «repubblica ebraica», repubblica dei «traditori della nazione», degli «sciacalli della Borsa valori», dei generali prussiani col monocolo5 e dei preti in abito talare6. I bolscevichi potevano uccidere i loro oppositori o esiliarli; i rivoluzionari tedeschi erano più umani. Ne derivarono un mandato contestato, una cultura politica e una società civile profondamente divise. Il successo della repubblica dipendeva dalla capacità di gestire la difficile situazione in cui si trovava la Germania in campo diplomatico e di rilanciare l’economia. In entrambi i campi i successi furono intermittenti. La situazione sia interna sia internazionale, in cui la repubblica fu fondata, non era favorevole al consolidamento di una democrazia all’indomani di una guerra persa e disastrosa. Fu, tuttavia, la rivoluzione che permise ai tedeschi di vivere, dal 1918 al 1933, in un sistema politico più democratico che in passato, e sicuramente più liberale di quello creato dai timidi cambiamenti operati dall’ultimo governo imperiale del principe Maximilian di Baden7 nell’autunno del 1918. Nonostante gli inizi burrascosi e la tormentata sopravvivenza, la semplice creazione di un nuovo sistema politico costrinse il Kaiser ad abdicare e consentì notevoli miglioramenti sul piano sociale, conferendo a Weimar uno spirito particolare,

50d ERNST VON SALOMON UNA NAZIONE DIVISA

E. von Salomon, I Proscritti. Un romanzo, a c. di M. Revelli, Baldini e Castoldi, Milano 1994, pp. 136-39.

Ernst von Salomon (1902-1972), dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale, militò nei Freikorps, con i quali partecipò alla repressione dei moti operai di Berlino nel 1919-20, culminata nell’arresto e nell’uccisione dei leader spartachisti Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg [►5_4]. Nel 1922 prese parte all’attentato, organizzato dai nazionalisti, che uccise il ministro degli Esteri tedesco Walther Rathenau (di origini ebraiche) e fu condannato a cinque anni di carcere. I Freikorps furono sciolti durante la Repubblica di Weimar, ma molti dei loro esponenti appoggiarono in seguito l’ascesa di Hitler al potere. Qualche cosa andava oscuramente maturando nel Reich. C’era da una parte un esercito di cui un articolo del trattato di pace imponeva lo scioglimento; dall’altra un secondo esercito segreto cominciava a formarsi. Il paese era pieno di commissioni che andavano in giro grufolando, di

vibrante e appassionato. Rivoluzione e creazione della repubblica inaugurarono uno dei periodi di maggior creatività artistica e culturale del XX secolo. «Rinnovamento morale», «trasformazione interiore», «rinascita», espressioni ricorrenti in bocca ai sostenitori della rivoluzione, trovarono modo di realizzarsi nei dipinti, nelle fotografie, negli edifici e nella riflessione filosofica che avrebbero contrassegnato la cultura di Weimar. 4. L’articolo del trattato di Versailles nel quale la Germania veniva riconosciuta responsabile della guerra. 5. Occhiale con una sola lente. 6. Veste ampia e lunga indossata dai religiosi. 7. Maximilian di Baden (1867-1929), aristocratico tedesco di simpatie liberali, divenuto per breve tempo, tra ottobre e novembre 1918, cancelliere dell’Impero. METODO DI STUDIO

 a   Spiega perché l’autore definisce la Repubblica di Weimar un «segno ammonitore».  b   Evidenzia con colori diversi le condizioni che davano la certezza di poter cambiare radicalmente il mondo durante questo periodo e i settori in cui avvennero i cambiamenti.  c   Sottolinea la frase in grado di esprimere il seguito che ebbe tra la popolazione la Repubblica di Weimar.  d   Individua da sei a otto parole chiave in grado di esprimere i punti di forza e quelli di debolezza di Weimar e argomenta la tua scelta per iscritto.

Tra le opere di von Salomon, tutte di ispirazione autobiografica, il romanzo I Proscritti, pubblicato nel 1930 (da cui è tratto questo brano), narra in modo crudo e preciso l’esperienza dei Freikorps nel primo dopoguerra: la guerra, la sfiducia nel sistema democratico e parlamentare, la mancanza di valori positivi con cui identificarsi portarono molti giovani a idealizzare l’illegalità e la violenza. Nel brano seguente, ambientato nei primi mesi del 1920, l’autore descrive la frattura esistente fra “quelli di Berlino” – i governanti impegnati nelle trattative di pace e nella riduzione degli effettivi dell’esercito imposta dai vincitori – e i reduci come von Salomon, che non vogliono deporre le armi ma si identificano nella “vera Germania”, una nazione pronta a combattere.

personaggi servili in stiffelius1. Per le strade piene di fame, di scioperi e di malcontento, passavano in automobili lucide profittatori con la pappagorgia spiovente, con borse gonfie di carte, profughi da tutti i territori rubati in cerca di un asilo precario, stranieri che compravano interi quartieri di città.

Sotto la sottilissima superficie, costruita con accanimento e paura, con un’attività faticosa e commerciale, da borghesi zelanti di ogni formato, si agitava una diabolica 1. Abito maschile di fine ’800.

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FARESTORIA Germania e Italia: democrazia e stato liberale in crisi

ridda di disoccupazione e di speculazioni in borsa, di feste da ballo e di sommosse, di affamati, di dimostrazioni di massa e di conferenze di governanti: niente poteva sottrarsi a quel turbine e molti vi furono distrutti. Un fruscio enorme di carte copriva il paese: appelli e ultimatum, ordinamenti e divieti, proclami e proteste cadevano sulla nazione come fiocchi di neve, simulando energie dove più non ne esistevano, destando speranze subito seguite dalla disperazione. Il lardo americano ci consolava dei treni di carbone da consegnare; le fotografie oscene, delle tessere del pane. Si parlava molto di ricostruzione, ma il materiale era di scarto, il terreno cedeva. Molti parlavano di demolizione, ma l’armatura, anche sgretolandosi, reggeva. Le frontiere, tuttavia, erano in uno stato fluido. Eserciti, cannoni e fucili formavano le frontiere, ma qui cedevano, lì avanzavano e strisce di territorio si agitavano, diventavano zone pericolose dove ogni pietra che cadeva poteva provocare catastrofi, e tutto dipendeva da chi buttava la pietra. I confini erano ancora fluidi, ma dove si cominciava a difenderli la terra si metteva a urlare e le nuove frontiere erano come coltellate che tracciavano solchi sanguinosi, e province intere cadevano come membra amputate da un ubriaco. Piccoli plotoni isolati combattevano sui confini, sotto le bandiere affumicate dal bacino carbonifero2; si perdevano nelle paludi, nelle lande e nei boschi di pianure quasi dimenticate, e alle loro spalle si stendeva un paese disperato, smarrito, pronto ad arrendersi, che aveva avanti a sé solo prepotenza avida, dentro di sé la sola volontà insensata di resistere. Ma quando queste truppe si accorsero di non avere un hinterland3, né un nucleo di forza, si volsero verso Berlino. La brigata Ehrhardt venne dall’Alta Slesia4 [...]. L’Intesa si ostinò nella sua finzione. I gabinetti alleati inviarono ultimatum e minacciarono d’intervenire. I resti dell’esercito tedesco dovevano essere distrutti. E il

governo del Reich cedé, forse perché, cosciente di una responsabilità certo troppo grande, non vedeva e non poteva vedere altra via all’infuori della sottomissione, oppure perché ebbe il presentimento di un pericolo, impersonato da quelle truppe irritate? O forse volle sottomettersi, per difendere le conquiste della rivoluzione mal vista all’inizio contro velleità monarchiche oscuramente intuite nell’ombra? Nessuno può dirlo. In realtà il governo poteva sospettare nell’avanzata delle truppe minacciose una congiura di partito, un complotto della reazione; ma i soldati non marciavano per nessuno di questi motivi e tanto meno si trattava di un partito politico organizzato, di una forza, no: in fondo era solo disperazione, che cercava, anche inarticolata, di sfogarsi. Ma gli uomini che allora disperavano erano stati abituati a buttarsi in ogni pericolo, a vedere nell’offensiva la miglior difesa. E poiché la forza sfuggiva loro vollero impossessarsene. Fummo improvvisamente penetrati da una forza elastica, attiva, scattante. L’idea del potere si formò dentro di noi con un senso di leggerezza, di serenità, di dolce responsabilità. Ci sentivamo a tal punto decisi, che la cosa ci appariva addirittura semplice. Non avevamo imparato a trastullarci con i problemi; pensammo dunque che bisognava agir subito, giacché in quel momento eravamo più forti delle cose, e perciò le cose ci sopraffecero. La decisione si manifestò in ottomila uomini. Non erano di più, ma potevano bastare: erano infatti gli unici pronti a perseguire una decisione fino alle sue ultime conseguenze. Avevamo in mente una sola cosa: che bisognava combattere, e che sarebbe stato un combattimento duro. E poiché sapevamo che il combattimento sarebbe stato duro, puntammo tutto sul combattimento, non sulla decisione che l’avrebbe seguito, non su ciò che quella decisione avrebbe finalmente reso valido e prezioso. Eravamo convinti che noi, soltanto noi, dovessimo avere il potere, per volontà della Germania. Ci

51 G. SABBATUCCI LA CLASSE DIRIGENTE LIBERALE IN ITALIA



G. Sabbatucci, La crisi dello stato liberale, in Storia d’Italia. Guerre e fascismo 1914-1943, a c. di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 103-6; 108-10.

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In queste pagine, lo storico Giovanni Sabbatucci (nato nel 1944) ricostruisce le premesse della crisi dello Stato liberale

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sentivamo noi stessi la Germania. Ci sentivamo talmente la Germania, che dicendo idea intendevamo Germania; dicendo posta, vita, sacrificio, dovere, volevamo sempre dir Germania. Credevamo di avere il diritto di agire così. Quelli di Berlino, così credevamo, non ne avevano il diritto. Quelli di Berlino non sentivano la necessità imprescindibile di ciò che facevano: per essi la Germania non era il valore centrale, come per noi, che dicevamo, siamo la Germania. C’erano, sì, una costituzione e un trattato con l’Occidente, e proprio questo aveva allontanato coloro contro i quali eravamo decisi a marciare, dai valori essenziali. Quando quelli dicevano Germania, intendevano, per noi, costituzione; quando dicevano intesa intendevano trattato di pace. L’assoluto, questo ci mancava a Berlino; perciò il potere ci sembrava così facile e benigno. Udivano, loro, il nostro brontolio minaccioso? L’udivano leggendo e scrivendo i loro vuoti programmi e proclami e discorsi, le loro note e i loro articoli di giornali? No, secondo noi, non l’udivano. Se ne sarebbero accorti, altrimenti. 2. Ci si riferisce alle aree carbonifere tedesche, al centro di controversie internazionali nel dopoguerra. 3. Retroterra. 4. La Brigata Ehrhardt, composta da 6 mila uomini, era uno dei “corpi franchi” più attivi. Il 13 marzo marciò su Berlino per opporsi al suo scioglimento, decretato dal governo.

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi gli elementi contraddittori che formavano la società e la realtà tedesca postbellica.  b   Numera le parti del testo che puoi chiamare: a. la realtà delle frontiere; b. i punti e movimenti oscuri della società tedesca; c. la necessità e il diritto all’azione. Quindi riassumi sinteticamente i contenuti delle parti individuate.  c   Spiega che tipo di documento è questo, chi è l’autore e in che contesto e per quale motivo è stato realizzato.

nell’Italia del primo dopoguerra. Pur essendo uscita vincitrice dalla prova più impegnativa della sua storia unitaria, l’Italia visse le delusioni e i traumi sociali tipici di una nazione sconfitta. La classe dirigente liberal-democratica che aveva sino ad allora guidato il paese ne fu indebolita e delegittimata, mentre emergeva il ruolo dei grandi partiti di massa che si sarebbero affermati nelle elezioni del 1919. Tra questi il Psi si presen-

tava chiaramente come una forza rivoluzionaria, contraria a qualsiasi tipo di collaborazione con la “borghesia”. Il Partito popolare, pur partecipando a deboli governi di coalizione con i raggruppamenti liberali, aveva in realtà riferimenti e valori Nei due mesi che seguirono la fine del conflitto mondiale, la maggioranza degli italiani visse una breve stagione di grandi attese e di grandi speranze. A legittimare questo diffuso stato d’animo – che rispondeva non tanto a una previsione razionale, quanto al bisogno di dare un senso o una qualche giustificazione a posteriori ai sacrifici sopportati durante la guerra – erano del resto gli stessi esponenti della classe dirigente liberale e i grandi organi di stampa, che non esitavano a paragonare la Grande Guerra alle grandi rivoluzioni della storia e ad annunciare un’era di audaci riforme politiche e sociali. La stessa approvazione, in dicembre, di una legge che estendeva il diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni e ai minorenni che avevano prestato servizio al fronte parve non solo un atto dovuto, ma anche la premessa di una stagione politica dai caratteri inequivocabilmente democratici. Naturalmente, per chi si riconosceva in quella «grande maggioranza» liberale che ancora costituiva, al di là delle divisioni fra interventisti e neutralisti, la base di ogni possibile governo, le trasformazioni dovevano attuarsi in termini compatibili col quadro istituzionale vigente. Di tutt’altro avviso su questo punto erano quei gruppi della sinistra interventista – repubblicani, socialriformisti, componenti eretiche del movimento operaio – che affidavano le loro chance di sopravvivenza proprio alla prospettiva di un radicale rimescolamento delle carte. Per questi gruppi il mutamento avrebbe dovuto investire anche l’assetto istituzionale uscito dal Risorgimento e segnatamente l’istituto monarchico. Tornava così in auge la formula della Costituente, già idea-forza della sinistra risorgimentale sconfitta dagli esiti del processo unitario. Si trattava in realtà di una prospettiva illusoria: non solo perché non teneva conto della presenza di un apparato istituzionale e militare ancora funzionante; ma soprattutto perché postulava una ricomposizione della sinistra, interventista e socialista, al di là delle fratture create dalla guerra. Accadde invece il contrario: in entrambi i campi, quello del movimento operaio e quello dell’interventismo organizzato, prevalsero le spinte alla radicalizzazione;

assai diversi e non sempre conciliabili con quelli dello Stato liberale. In questo quadro di difficile governabilità sta, secondo l’autore, la ragione principale della crisi, che avrebbe visto il vecchio personale politico lasciare campo libero al fascismo.

e le due mobilitazioni, quella socialista-rivoluzionaria e quella radical-nazionale, si svilupparono alimentandosi reciprocamente e contrapponendosi tra loro in forme sempre più esasperate. Per quanto riguarda il movimento operaio, era stata soprattutto la rivoluzione russa ad avviare il processo di radicalizzazione e a far nascere, dal seno del vecchio intransigentismo, quel fenomeno politico tutto nutrito di attesa dell’evento rivoluzionario che va sotto il nome di «massimalismo». Ma la svolta più netta si ebbe con la riunione della direzione del Psi che si tenne a Roma fra il 7 e l’11 dicembre 1918. Il documento finale lasciava cadere qualsiasi indicazione di obiettivi intermedi (compresa la Costituente) e puntava direttamente alla «istituzione della Repubblica socialista e della dittatura del proletariato» e alla «socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio». Scegliendo con tanta decisione una via rivoluzionaria al potere tutta ricalcata sul modello dell’Ottobre russo, senza peraltro indicarne i tempi e le modalità operative, e rinunciando in partenza a ogni strategia alternativa, il Partito socialista si negava qualsiasi possibilità di alleanza e qualsiasi spazio di manovra politica, auto-escludendosi in pratica da quel processo di rinnovamento democratico che tutti (o quasi tutti) ritenevano allora inevitabile [...] Il prematuro fallimento del tentativo di egemonizzare il movimento dei reduci (la cui maggiore organizzazione, l’Associazione nazionale combattenti, si schierò su posizioni di moderato riformismo), l’insuccesso di iniziative come la «Costituente dell’interventismo», lanciata da Mussolini a metà novembre sulle colonne del «Popolo d’Italia», e più in generale l’assenza di segnali che indicassero l’inizio di un radicale rinnovamento della classe dirigente diedero ai protagonisti della mobilitazione interventista la sensazione, più che giustificata, di un sostanziale isolamento; e spinsero le componenti più radicali a cercare il loro spazio sul terreno dell’estremismo patriottico e delle «rivendicazioni nazionali». Le loro posizioni si andavano così a incontrare fatalmente con l’imperialismo oltranzista della destra nazionalista. [...]

La sensazione, tanto diffusa quanto ingiustificata, che l’Italia rischiasse di essere defraudata dei legittimi frutti della sua vittoria (superficialmente identificati con alcune acquisizioni territoriali) contribuì a diffondere un clima di vittimismo e di frustrazione, tipico di un paese sconfitto più che di uno Stato vincitore. Non solo: la sindrome da «vittoria mutilata» rafforzò da un lato il patriottismo aggressivo e sempre più esasperato dell’ala militante dell’ex interventismo, dall’altro la polemica retrospettiva dell’ex neutralismo rivoluzionario circa l’inutilità della guerra appena combattuta: polemica che sempre più si accompagnava alla violenta ostilità contro istituzioni, persone, simboli che alla guerra potessero essere associati e alla ribadita ripulsa di qualsiasi valore nazionale. Col risultato di approfondire ulteriormente la frattura fra i due mondi, le due culture, le due mobilitazioni contrapposte. Proprio nella primavera del ’19 si colloca il tentativo di Mussolini di dare compattezza organizzativa alle frange più radicali dell’ex interventismo di sinistra, fondando, il 23 marzo a Milano, i Fasci di combattimento. E non è forse un caso se il primo grave episodio di guerra civile del dopoguerra – lo scontro a Milano fra un corteo socialista e una dimostrazione di nazionalisti e fascisti, conclusosi con l’incendio della sede dell’«Avanti!» – si verificò proprio il 15 aprile, nel momento cioè in cui il confronto fra l’Italia e i suoi alleati alla conferenza della pace entrava nella sua fase di massima tensione. Il quadro delle novità emerse nella politica italiana all’indomani della Grande Guerra non si esauriva comunque nello scontro fra le due opposte mobilitazioni, quella socialista rivoluzionaria e quella radical-nazionale. Un’altra mobilitazione, meno rumorosa ma certamente più profonda e destinata a pesare sui tempi lunghi, fu quella che coinvolse il mondo cattolico e che portò prima, nel settembre ’18, alla riunione di tutte le organizzazioni sindacali bianche in un’unica confederazione nazionale (la Cil, Confederazione italiana dei lavoratori) e quindi, a conflitto appena concluso, alla creazione del Partito popolare italiano. La partecipazione dei cattolici alla vita politica nazionale non

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FARESTORIA Germania e Italia: democrazia e stato liberale in crisi

era di per sé una novità. Ma nuovo era lo strumento scelto: il moderno partito di massa, dichiaratamente aconfessionale anche se fondato su una base dottrinaria ispirata ai valori cattolici, dotato di un suo programma e di una sua dirigenza formalmente autonoma dalla gerarchia ecclesiastica. Uno strumento dunque omogeneo a quel sistema politico democratico nei cui confronti la Chiesa continuava a nutrire una buona dose di diffidenza. Le ragioni per cui i vertici vaticani si risolsero ad avallare e a sostenere il progetto che Luigi Sturzo aveva formulato fin dal 1905 sono abbastanza trasparenti e ci aiu-



tano anche a spiegare il carattere limitato e temporaneo di quel sostegno. Nella decisione di Benedetto XV e del segretario di Stato Gasparri1 (dal quale Sturzo ricevette un esplicito incoraggiamento) influirono innanzitutto le preoccupazioni suscitate dalla minaccia rivoluzionaria e l’esigenza di contrapporvi un solido baluardo moderato, capace fra l’altro di evitare alla Chiesa un’esposizione diretta; ma giocò anche, con tutta probabilità, la consapevolezza di dover pagare un tributo a quegli ideali democratici che l’ultimo anno di guerra e la vittoria dell’Intesa avevano rilanciato in termini apparentemente irreversibili.

52d ANGELO TASCA LO SQUADRISMO FASCISTA

A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922, vol. I, Laterza, Bari 1965, pp. 187-93.

Angelo Tasca (1892-1960) fu con Antonio Gramsci uno degli animatori della rivista torinese «L’Ordine Nuovo» e tra i fondatori del Pci. Espulso dal Partito comunista nel 1929 per le sue divergenze con la linea della Terza Internazionale, militò in seguito nelle file del Partito socialista italiano e di quello francese.

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È tempo di chiedersi: cosa fa il governo, lo stato, di fronte a questa situazione?1 I funzionari locali simpatizzano spesso con i Fasci o con i loro potenti protettori. E a Roma Giolitti non intende impegnarsi in alcuna azione seria, poiché si propone di sciogliere il Parlamento e di includere i fascisti nel blocco nazionale. I socialisti alla Camera cominciano a presentare degli ordini del giorno per domandare al governo di fare rispettare la legge. Il 31 gennaio 1921, Matteotti svolge una mozione in questo senso, la prima di una serie che continuerà fino alla marcia su Roma. Giolitti giudica tutto sul piano del negoziato, del compromesso [...]. Quale contropartita possono offrirgli i socialisti? La partecipazione al governo, la sola che conterebbe per lui, quella che sollecita da lungo tempo, è più che mai impossibile. I socialisti riformisti sono rimasti in minoranza in seno al Partito socialista, anche dopo il distacco dei comunisti. I massimalisti continuano a dominarvi, e sono sovrattutto preoccupati di coprirsi sulla sinistra contro gli attacchi dei comunisti, che li incalzano con una polemica astiosa, con una concorrenza demagogica: la sorte del popolo italiano non pesa gran

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

1. Pietro Gasparri (1852-1934), arcivescovo, fu segretario di Stato dal 1914 al 1930. METODO DI STUDIO

 a   Descrivi le principali informazioni che riguardano i seguenti temi: a. lo stato d’animo dominante nella società italiana all’indomani del primo conflitto mondiale; b. le trasformazioni politiche auspicate dalla sinistra interventista; c. la richiesta avanzata a Parigi dalla delegazione italiana e i suoi esiti. Prima di procedere con la scrittura sottolinea delle parole chiave per ogni tema che possano fungere da promemoria per l’articolazione del tuo lavoro.  b   Spiega chi strumentalizzò la sindrome della “vittoria mutilata”.  c   Cerchia i nomi dei partiti e movimenti politici citati e sottolineane le caratteristiche principali.

Pubblicò a Parigi nel 1938 Nascita e avvento del fascismo, considerata ancora oggi una delle più significative ricostruzioni delle origini del fascismo. In queste pagine Tasca offre un’analisi, allo stesso tempo lucida e appassionata, della situazione politica italiana dei mesi precedenti alla presa del potere di Mussolini e dei fattori di ordine “militare” e psicologico, nonché sociale e politico, che consentirono allo squadrismo fascista di avere la meglio sulle organizzazioni socialiste.

che sulle loro bilance. I rapporti di forza divengono fatalmente sfavorevoli al movimento operaio e socialista, il quale, paralizzato dalla sua crisi interna, che la scissione di Livorno ha aggravato2, deve lottare nello stesso tempo contro l’esercito fascista, contro una borghesia industriale e specie agraria decisa a prendere la sua rivincita, e contro lo stato, i cui organi periferici concorrono, o con la loro passività davanti ai crimini o, più speso, con un aiuto attivo, al successo dell’azione fascista. [...] L’offensiva fascista prende subito e con un crescendo impressionante il carattere di una guerra di movimento. All’inizio, la spedizione contro una località non è quasi mai fatta dai fascisti della stessa località, piccola minoranza isolata ed esposta alle rappresaglie. È dal centro più vicino che i camion arrivano, carichi di persone assolutamente sconosciute nel paese. [...] Si distruggono i locali delle organizzazioni, si liquidano le amministrazioni comunali, si uccidono o si esiliano i dirigenti: dopo di che il Fascio locale, fino ad allora quasi inesistente, s’ingrossa con l’adesione dei reazionari d’ogni risma, e di coloro che prima avevano paura dei socialisti,

e che hanno ora paura dei fascisti. Per la conquista dei grandi centri si mobilitano le forze della provincia, si fa appello, se è necessario, a quelle delle province vicine. Più tardi l’offensiva si sviluppa in azioni di grande ampiezza: le spedizioni divengono interprovinciali e interregionali, e l’armata fascista, di cui ogni «occupazione» estende il reclutamento, si concentra, si sposta, e, estremamente mobile, conquista l’una dopo l’altra le fortezze nemiche. [...] Invece non vi sono quasi esempi di attacchi socialisti contro le sedi dei Fasci, o di antifascisti che siano andati da una località ad un’altra minacciata dagli squadristi. L’azione socialista d’anteguerra e il successo socialista del dopoguerra avevano creato in Italia – all’epoca del telefono e della ferrovia – diverse centinaia di piccole «repubbliche», di «oasi» socialiste, senza comunicazioni tra loro

1. Ovvero di fronte all’attività illegale e violenta dello squadrismo fascista. 2. Nel gennaio 1921, durante il 17° congresso del Partito socialista che si tenne a Livorno, fu fondato il Partito comunista italiano.

[...]. Il socialismo risultava dalla somma di qualche migliaio di “socialismi” locali. La mancanza di una coscienza nazionale compiuta, il campanilismo municipale3 hanno costituito un gravissimo handicap per il socialismo italiano. [...] I lavoratori sono legati alla loro terra, ove hanno, nel corso di lunghe lotte, realizzato conquiste ammirevoli. Questa situazione lascia al nemico tutte le superiorità: quella della offensiva sulla difensiva, quella della guerra di movimento sulla guerra di posizione. Nella lotta tra il camion e la Casa del popolo, è il primo che deve vincere e vincerà. Vi sono ancora, da parte dei lavoratori, altre inferiorità psicologiche, che impediscono loro di organizzarsi anche per la difensiva, anche per la “guerra di posizione”. Il popolo italiano non ha né tradizioni rivoluzionarie, né passione per le armi. Il militante operaio, per il solo fatto di tirar fuori la rivoltella dalla sua tasca, si pone e si sente fuori della legge. [...] Il fascista invece si sente protetto, è sicuro dell’impunità, anche quando uccide e incendia. Inoltre per il lavoratore, la Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro “capitale”,

la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi si sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra. [...] Per i fascisti, la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. [...] Se la resistenza operaia fosse stata organizzata, avrebbe potuto ostacolare la marcia del fascismo? Senza alcun dubbio, questa resistenza avrebbe potuto mettere il fascismo a dura prova [...]. Ma il fattore militare del successo fascista è diventato decisivo nella misura in cui la classe operaia, il movimento socialista hanno perduto la partita sul terreno politico. Gli avvenimenti che vanno dalla seconda metà del 1921 all’ottobre 1922 dimostrano ancor più chiaramente che l’inferiorità militare della classe operaia italiana è stata la conseguenza di una inferiorità politica, dovuta all’atmosfera “massimalista” nella quale essa era immersa. [...] L’impotenza a tradursi sul

piano politico condannava fin dall’inizio l’azione armata della classe operaia, anche se essa avesse potuto organizzarsi, e se tale impotenza, a sua volta, non le avesse impedito di organizzarsi. Animato e trascinato dalla facilità relativa del suo compito, potendo far giuocare la molla della legalità e quella dell’illegalità, che i socialisti gli abbandonano entrambe, il movimento fascista prende, durante il primo trimestre del 1921, uno sviluppo prodigioso, che non si arresterà più. 3. Attaccamento alla propria città e alle sue tradizioni.

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le informazioni principali relative al contesto storico in cui si affermò lo squadrismo fascista e le strategie adottate per la conquista dei paesi e dei grandi centri.  b   Spiega cosa rappresentano per i lavoratori e per i fascisti la Casa del popolo e la Camera del lavoro.  c   Evidenzia la domanda presente nella parte finale del testo e rispondi sinteticamente per iscritto.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 5 SQUADRA FASCISTA, 1922

Gli squadristi indossavano divise (pantaloni militari e camicie nere) ispirate a quelle degli Arditi di guerra e dei legio-

nari di D’Annunzio a Fiume, dai quali riprendevano anche i lugubri vessilli col teschio, i motti improntati allo sprezzo

del pericolo («me ne frego della morte...»), la simbologia impregnata di ricordi dell’antica Roma. Erano guidati per lo più da ex ufficiali ed erano muniti di manganelli, di pugnali e anche di armi da fuoco.

GUIDA ALLA LETTURA

 a   Quali sono i simboli che i soggetti fotografati indossano e mettono in risalto? A quali valori rimandano? Rispondi facendo riferimento al cappello introduttivo e a quanto puoi osservare.  b   Individua degli aggettivi per descrivere questa squadra fascista. Prova a comparare le sensazioni che ti suscita questa immagine con il sentimento che volevano esprimere i soggetti rappresentati. Aiutati a individuare quest’ultimo punto rispondendo alla domanda: Per quale motivo, secondo te, è stata scattata questa fotografia?

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FARESTORIA Germania e Italia: democrazia e stato liberale in crisi



53 E. GENTILE LA MARCIA SU ROMA

E. Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 209; 211-12; 214-18.

Lo storico Emilio Gentile (nato nel 1946) è uno dei più autorevoli studiosi del fascismo e dell’ideologia fascista. In un suo recente volume ha ricostruito le fasi che condussero al successo della “marcia su Roma” e alla conseguente presa del potere da parte di Benito Mussolini. Nel brano

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Una volta iniziata, l’insurrezione proseguì ovunque, nonostante i draconiani provvedimenti presi dal governo, ancor prima della proclamazione dello stato d’assedio, come l’arresto dei capi e dei promotori e l’uso delle armi contro i sediziosi. Le azioni insurrezionali fasciste avvennero mentre erano in vigore gli ordini che prevedevano, al primo movimento sedizioso, il passaggio dei poteri dall’autorità politica all’autorità militare: ma furono pochi i casi in cui ciò valse a prevenire o impedire il moto insurrezionale. Nessun dirigente fascista fu arrestato. [...] I provvedimenti decisi dal governo prima di deliberare lo stato d’assedio, se rigorosamente applicati, sarebbero stati sufficienti a stroncare sul nascere i moti insurrezionali. Nelle poche città dove le autorità politiche e militari furono risolute nel contrastare l’insurrezione, esse impedirono agli squadristi di occupare prefetture, uffici pubblici, stazioni ferroviarie e di dare l’assalto alle caserme, senza per questo provocare una guerra civile né spargimento di sangue, se non in qualche caso, come a Cremona e a San Ruffillo, vicino Bologna, dove il 29 ottobre due squadristi furono uccisi dai carabinieri mentre assaltavano la caserma. Nei giorni della «marcia su Roma», ci furono complessivamente 30 morti di parte fascista, dei quali 10 a Cremona, 8 a Bologna e in provincia, e 3 a Roma. [...] In gran parte delle città coinvolte nel moto insurrezionale, gli squadristi riuscirono a occupare prefetture, questure, uffici postali e telegrafici, stazioni ferroviarie, senza incontrare una forte resistenza, anche perché in molti casi la forza pubblica disponibile era esigua a fronte degli insorti e costretta a cedere. Ci furono anche numerosi assalti alle caserme della fanteria e dei carabinieri per prelevare le armi, e assalti alle prigioni per liberare i fascisti arrestati. In quasi tutte le città dove avvenne l’insurrezione, i dirigenti fascisti locali si recarono a parlamentare con il prefetto o con il comandante militare per trattare le condizioni per un’occupazione pacifi-

U2 GUERRA E RIVOLUZIONE

proposto Gentile riflette sul significato di questo evento: la vittoria del duce fu possibile non tanto per la forza degli squadristi ai suoi ordini, quanto per la debolezza e l’impotenza dello Stato liberale, che aveva a disposizione gli strumenti per reprimere militarmente il tentativo illegale portato avanti dai fascisti ma non li utilizzò. Il successo dell’impresa spianò la strada del potere a Mussolini e al suo partito.

ca, anche soltanto simbolica, degli edifici governativi e degli altri uffici pubblici. E quasi sempre l’accordo fu raggiunto. Il movimento insurrezionale ebbe una rapida accelerazione quando si diffuse la notizia che lo stato d’assedio era stato revocato, e soprattutto quando, fra la sera del 28 e la mattina del 29 ottobre, cominciò a diffondersi la voce di un possibile incarico a Mussolini. Alle 22,30 del 28 ottobre, il ministero della Guerra comunicava ai comandanti dei corpi d’armata che dato «l’attuale orientamento verso un probabile Gabinetto Mussolini, le direttive date ai vari Corpi d’Armata da questo Ministero (Gabinetto) sono di evitare possibilmente spargimento di sangue, usando mezzi pacifici e persuasivi». La repentina revoca di tutti i provvedimenti contro gli insorti, il rapido susseguirsi di ordini e contro ordini nel giro di poche ore, disorientò le autorità militari, mentre incoraggiò i fascisti, resi spavaldi dall’impunità, a proseguire l’azione senza più incontrare resistenza, ma trattando con le autorità politiche e militari per procedere a occupazioni pacifiche e simboliche, come l’esposizione del gagliardetto fascista dal palazzo della prefettura, ma senza rinunciare ad azioni violente o persecutorie, come la messa al bando o il sequestro di qualche prefetto o questore, devastazioni di sedi delle organizzazioni dei partiti avversari, imposizione delle dimissioni alle amministrazioni comunali. [...] Nei tre giorni di insurrezione i fascisti erano riusciti a imporre il loro controllo in alcune città del Piemonte, in molte città della Valle Padana e in varie città del Veneto, nella Venezia Giulia, in Liguria, in Toscana, nelle Marche, mentre nelle regioni meridionali, a parte la Puglia e la Campania, non ci furono significative azioni squadriste. Non ci furono tentativi di occupazione né a Torino né a Milano. [...]. A Roma, dopo la revoca dello stato d’assedio, ci fu un repentino capovolgimento della situazione per quanto riguardava la difesa della capitale dai fascisti.

Alle 22,30 del 28 ottobre, il comando del corpo d’armata trasmise la seguente comunicazione del ministro della Guerra: «Dato l’attuale orientamento verso un probabile Gabinetto Mussolini, le direttive date ai vari Corpi d’Armata da questo ministero (Gabinetto) sono di evitare possibilmente spargimento di sangue, utilizzando mezzi pacifici e persuasivi»; alle 14,30 del 29, il ministro dell’Interno ordinava telefonicamente al generale Pugliese1, il quale ne riferiva al comandante di corpo d’armata mezz’ora dopo, che «data la nuova situazione, deve assoluta‑ mente evitarsi spargimenti di sangue». [...] In questo modo, un’insurrezione che pareva destinata a fallire, sia per gravi difetti di concezione e di attuazione da parte dei suoi promotori, sia per la scarsa possibilità di resistere di fronte a una reazione armata della forza legale dello Stato, si avviò al completo successo, con la conquista del potere. Il rifiuto di firmare il decreto dello stato d’assedio, mentre l’insurrezione era in marcia, consentì al partito fascista di afferrare l’attimo fuggente per conquistare il potere centrale, senza dovere nulla cedere del potere locale già conquistato e senza dover neppur recedere dalle sue pretese e dalle sue ambizioni di Stato in potenza che sfidava e ricattava uno Stato impotente, che aveva rinunciato a usare la forza legale per reprimere la forza illegale di un esercito di partito, lasciando al duce del partito armato la prerogativa di dettare le condizioni per la sua ascesa al potere. [...] Contro uno Stato impotente, con la «marcia su Roma» aveva vinto lo Stato in potenza di un partito armato. Il comportamento dei fascisti nei giorni dell’insurrezione mostrava chiaramente che essi si consideravano i detentori di un

1. Emanuele Pugliese (1874-1967), generale dell’esercito italiano, all’epoca comandante della 16ª divisione militare territoriale della capitale.

potere irrevocabile al di sopra della legge, e come tali avevano trattato alla pari con le autorità politiche e militari, ottenendo così una sorta di legittimazione alla loro pretesa di essere milizia della nazione, che poteva impunemente usare la propria forza illegale contro il legittimo governo parlamentare per imporre l’ascesa al potere del loro duce e il riconoscimento del predominio privilegiato del partito fascista nello Stato italiano. Il presidente incaricato partì da Milano alle 20,30 e giunse a Roma il 30 ottobre alle 10,50, con oltre un’ora di ritardo dovuta alle soste che Mussolini fece lungo il percorso per rispondere alle manifestazioni che gli squadristi tributarono al loro duce. [...] Il colloquio col re durò meno di un’ora. La sera, alle 19,20, il nuovo presidente del consiglio tornò dal re con la lista dei ministri del suo governo: ne facevano parte tre ministri fascisti, due popolari, due democratici, un nazionalista, un demosociale, un liberale, un indipendente e due militari; su diciotto sottosegretari, nove erano fascisti, quattro popolari, due



nazionalisti, due demosociali e un liberale. Mussolini tenne per sé il ministero degli Esteri e il ministero degli Interni. [...] Intanto, le colonne degli squadristi accampati nei dintorni di Roma ebbero finalmente da Mussolini l’autorizzazione a entrare nella capitale. Il 31 ottobre, con una spettacolare sfilata durata cinque ore da piazza del Popolo al Quirinale e poi all’Altare della Patria, i fascisti celebrarono trionfalmente l’avvento del loro duce al governo. [...] La «marcia su Roma» non era avvenuta come il piano insurrezionale fascista aveva previsto e immaginato, ma l’insurrezione, denominata con quella mitica formula, aveva avuto successo e si era conclusa con una vittoria completa. E la vittoria della «marcia su Roma» non consisteva soltanto nell’incarico conferito a Mussolini, ma fu soprattutto il consolidamento e l’estensione del dominio del partito fascista, detentore della forza illegale che aveva consentito al suo duce di pretendere e ottenere dal re quel che nessuno, fino alla mattina del 29 ottobre,

aveva immaginato né pensato di concedergli: l’ascesa del fascismo al potere non fu il risultato di un compromesso, ma di una resa dello Stato liberale al ricatto insurrezionale di un partito armato, che in cambio non concesse altro che generiche e ambigue promesse di restaurare la legalità costituzionale. Di fatto, la vittoria della «marcia su Roma» esaltò nei fascisti la convinzione di essere l’unico partito che impersonava la volontà della nazione col diritto di governare il paese, al di fuori e al di sopra della legge, dello Stato costituzionale e del regime parlamentare.

METODO DI STUDIO

 a   Riassumi la strategia fascista per ottenere il potere e individua e trascrivi le tappe in cui è possibile scomporla.  b   Spiega in che modo reagiscono i prefetti e lo Stato centrale all’insurrezione fascista e come questo determinò le sorti dell’Italia postbellica.  c   Evidenzia una frase in grado di condensare il punto di vista dell’autore sulle cause del successo della marcia su Roma.

54d LE “LEGGI FASCISTISSIME”

A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario (1965), Einaudi, Torino 1995, pp. 427-29.

A partire dal gennaio 1925 il carattere autoritario del regime fascista si fece sempre più evidente. Mentre si irrigidiva la repressione contro gli oppositori politici, fu varata una nuova legislazione eccezionale, agevolata dal clima creato da una serie di attentati falliti alla vita di Mussolini (quattro in un solo anno): queste nuove leggi, emanate tra il dicembre 1925 e il novembre 1926, furono soprannoLegge 25 novembre 1926, n. 2008 Art. 1 Chiunque commette un fatto diretto contro la vita, l’integrità o la libertà personale del Re o del Reggente è punito con la morte. La stessa pena si applica, se il fatto sia diretto contro la vita, l’integrità o la libertà personale della Regina, del Principe ereditario o del Capo del Governo. [...] Art. 3 Quando due o più persone concertano di commettere alcuno dei delitti preveduti nei precedenti articoli, sono punite, pel solo fatto del concerto, con la reclusione da cinque a quindici anni. I capi, promotori ed organizzatori sono puniti con la

minate “leggi fascistissime”. L’ultimo attentato (Bologna, 31 ottobre 1926) fornì il pretesto per emanare, poche settimane dopo, i Provvedimenti per la difesa dello Stato, di cui si riportano gli articoli più significativi: veniva reintrodotta la pena di morte per i reati politici e istituito un tribunale speciale per giudicarli, composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia.

reclusione da quindici a trenta anni. Chiunque, pubblicamente o a mezzo della stampa, istiga a commettere alcuno dei delitti preveduti nei precedenti articoli o ne fa l’apologia, è punito pel solo fatto della istigazione o della apologia, con la reclusione da cinque a quindici anni. Art. 4 Chiunque ricostituisce, anche sotto forma o nome diverso associazioni, organizzazioni o partiti disciolti per ordine della pubblica autorità, è punito con la reclusione da tre a dieci anni, oltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Chi fa parte di tali associazioni, organizzazioni o partiti è punito, pel solo fatto

della partecipazione, con la reclusione da due a cinque anni, e con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Alla stessa pena soggiace chi fa, in qualsiasi modo, propaganda della dottrina, dei programmi e dei metodi d’azione di tali associazioni, organizzazioni o partiti. Art. 5 Il cittadino che, fuori del territorio dello Stato, diffonde o comunica, sotto qualsiasi forma, voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato, per modo da menomare il credito1 o il prestigio dello Stato

1. Screditare, mettere in cattiva luce.

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FARESTORIA Germania e Italia: democrazia e stato liberale in crisi

all’estero, o svolge comunque una attività tale da recar nocumento2 agli interessi nazionali, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni, e con l’interdizione perpetua3 dai pubblici uffici. Nella ipotesi preveduta dal presente articolo, la condanna pronunciata in contumacia importa, di diritto, la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni. La perdita della cittadinanza non influisce sullo stato di cittadinanza del coniuge e dei figli del condannato. [...] Art. 6 Per i delitti preveduti nella presente legge, quando il fatto sia di lieve entità, ovvero concorrano circostanze che, a termini del Codice penale, importino una diminuzione di pena, il giudice ha facoltà di sostituire alla pena di morte la reclusione da quindici a trenta anni, alla interdizione perpetua dai pubblici uffici la interdizione temporanea, e di diminuire le altre pene fino alla metà. Per gli stessi delitti, tutti coloro che, in qualsiasi modo, siano concorsi a commetterli, sono puniti con le pene stabilite dalla presente legge.

Art. 7 La competenza per i delitti preveduti dalla presente legge è devoluta a un tribunale speciale costituito da un presidente scelto tra gli ufficiali generali del Regio esercito, della Regia marina, della Regia aeronautica e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, di cinque giudici scelti tra gli ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, aventi grado di console, l’uno e gli altri, tanto in servizio attivo permanente, che in congedo o fuori quadro, e di un relatore senza voto scelto tra il personale della giustizia militare. Il Tribunale può funzionare, quando il bisogno lo richieda, con più sezioni, e i dibattimenti possono celebrarsi, tanto nel luogo ove ha sede il Tribunale quanto in qualunque altro comune del Regno. La costituzione di tale Tribunale è ordinata dal Ministro per la guerra, che ne determina la composizione, la sede e il comando presso cui è stabilito. [...] Nei procedimenti pei delitti preveduti dalla presente legge si applicano le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Tutte le

facoltà spettanti, ai termini del detto Codice, al comandante in capo, sono conferite al Ministro per la Guerra. Le sentenze del Tribunale speciale non sono suscettibili di ricorso, né di alcun mezzo di impugnativa4, salva la revisione. I procedimenti pei delitti preveduti dalla presente legge, in corso al giorno della sua attuazione, sono devoluti, nello stato in cui si trovano, alla cognizione del Tribunale speciale, di cui alla prima parte del presente articolo. 2. Danno. 3. Esclusione per sempre. 4. Modifica dopo contestazione o opposizione.

METODO DI STUDIO

 a   Schematizza per punti le azioni che venivano sanzionate con le “leggi fascistissime” e indica la pena prevista.  b   Spiega per iscritto cosa era, che compiti e quali prerogative aveva il Tribunale speciale.

PISTE DI LAVORO

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DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti mettendo in rilievo l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo descrittivo di circa 60 righe sulla crisi delle istituzioni liberali in Germania e in Italia mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di citare opportunamente i brani.

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IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Facendo riferimento ai brani di Sabatucci [►51], Tasca [►52d] e Gentile [►53], scrivi un testo che analizzi la relazione fra l’emergere e l’affermarsi del fascismo e la reazione delle forze liberali. Evidenzia nei testi presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.

COMPITO DI STORIA Scrivi un articolo di giornale sull’argomento indicato di seguito, facendo riferimento a tutti o ad alcuni fra i brani di Gibelli [►33], Kershaw [►48], Weitz [►49], Sabbatucci [►51], Tasca [►52d] e Gentile [►53], e fra i documenti scritti da soldati al fronte [►35d], da Lussu [►38d], Keynes [►46d] e von Salomon [►50d]. Puoi anche utilizzare le FONTI ICONOGRAFICHE 4 e 5 inserendole nel tuo articolo. Individua un titolo che renda esplicito il tema e il taglio che hai scelto per il tuo articolo e un catenaccio (testo in rilievo di una o due righe con la funzione di mettere in evidenza un elemento particolare del testo. Si tratta quasi di un secondo titolo).

Argomento L’esperienza della guerra fra i civili e i soldati e le reazioni che seguirono nella società e nella politica, in Germania e in Italia Organizza il tuo elaborato prendendo spunto dalle operazioni proposte dalla seguente scaletta: a. Lettura e comprensione • Individua nei brani e nei documenti indicati i passaggi più significativi che permettono di comprendere quello che la guerra ha rappresentato nel vissuto collettivo. Individua alcune parole chiave, trascrivile sul quaderno e argomenta la tua scelta sinteticamente. • Focalizza la tua attenzione sulla situazione di Germania e Italia dopo il conflitto e sui processi di trasformazione politica e sociale che si avviarono in questo periodo. b. Individuazione e analisi dei passaggi significativi in relazione alle questioni chiave affrontate nell’elaborato Evidenzia nei brani: • l’eventuale esistenza di un rapporto causale fra gli eventi bellici e i processi del dopoguerra che hai individuato al punto precedente; • se le reazioni a quanto era accaduto durante il conflitto e alle condizioni successive ad esso si sono sviluppate similmente nei paesi citati nei brani o se vi sono stati sviluppi differenti. c. Contestualizzazione storica • Quali fattori storici contingenti resero possibili le “reazioni” che hai individuato? • Quali le similitudini e quali le differenze? Che cosa le rese possibili? d. Interpretazione e problematizzazione • I gruppi al potere poterono affermarsi unicamente grazie al proprio bagaglio politico o furono coadiuvati dalle scelte degli altri gruppi antagonisti e/o dai sentimenti collettivi che predominavano in questo periodo? • I processi che portarono in Italia e in Germania all’affermazione di esperienze così diverse presentavano punti di criticità simili? Perché?

Bambini giocano “alle costruzioni” usando come mattoncini fasci di banconote di marchi tedeschi 1924 L’immagine ci dà la misura della svalutazione del marco che aveva colpito la Germania nel 1923.

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STORIAeAMBIENTE GRANDE GUERRA E AMBIENTE: GLI EFFETTI SUL TERRITORIO E SUI CIVILI

UNA GUERRA INDUSTRIALE La prima guerra mondiale dimostrò presto di essere un conflitto nuovo e imprevedibile negli sviluppi, nella durata e nell’estensione. “Grande”, “totale”, “mondiale” furono gli aggettivi che gli osservatori dell’epoca associarono al conflitto che coinvolgeva quasi tutti i principali Stati e con essi non si alludeva solo all’estensione geografica dello scontro. Quella che si era accesa era una guerra di nuovo tipo, una guerra moderna e industriale che non assomigliava ai

conflitti dei secoli passati, ma presentava invece per la prima volta alcune caratteristiche che si sarebbero pienamente sviluppate nelle successive guerre del ’900. I paesi che si contrapponevano, infatti, avevano conosciuto nei decenni precedenti un intenso processo di industrializzazione. La moderna tecnologia militare, associando le nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico alla crescita delle capacità produttive delle industrie, aveva permesso l’enorme aumento di potenza e di efficacia delle armi. Le nuove potenzialità distruttive degli strumenti di guerra

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Reparto dello stabilimento artiglierie Ansaldo, GenovaCornigliano Ligure 1917 [Fondazione Ansaldo-Gruppo Finmeccanica, Fondo Fototeca, Raccolta Perrone] L’Ansaldo fu uno dei gruppi industriali italiani mobilitati dallo Stato per la produzione bellica. Nei suoi stabilimenti si producevano oltre a proiettili e armi (nella immagine, in primo piano il cannone 381/50 mm), mezzi corazzati, navi, aeroplani. Grazie alle commesse statali il gruppo crebbe enormemente durante il primo conflitto mondiale.

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determinarono una svolta epocale nella storia dei conflitti tra gli Stati. I moderni fucili in dotazione agli eserciti della prima guerra mondiale possedevano una gittata di oltre 1000 metri e potevano far fuoco dieci volte in un minuto. Le pallottole erano più veloci e avevano maggiore forza di penetrazione. Per la prima volta fu utilizzata con sistematicità e su larga scala la mitragliatrice, che poteva sparare dai 400 ai 600 colpi al minuto. I nuovi cannoni avevano migliorato la loro efficacia grazie a innovazioni come il caricatore in acciaio, munizioni che non producevano fumo e meccanismi idraulici che, evitando il rimbalzo durante lo sparo, garantivano una maggiore precisione dei colpi. Inoltre non era necessario ripulirli, caricarli e otturarli, perciò potevano sparare fino a 30 granate in un minuto. La realtà della nuova guerra, per l’enorme potenza di fuoco a disposizione degli eserciti, spingeva alla difesa e alla copertura. Dopo i primi mesi del conflitto, perciò, i fronti si stabilizzarono con la costruzione di linee difensive attrezzate, le trincee, e dalla guerra di movimento si passò alla guerra di posizione, dove non si poteva più mirare allo sfondamento decisivo delle postazioni nemiche, ma si puntava al logoramento delle forze degli avversari. In queste mutate condizioni, la battaglia stessa cambiava radicalmente. Le grandi battaglie di logoramento della prima guerra mondiale, come ha scritto lo storico Antonio Gibelli, erano simili al lavoro produttivo di immensi cantieri per alimentare una macchina della distruzione:

GLI EFFETTI SULL’AMBIENTE La nuova guerra industriale ebbe sull’ambiente un impatto notevole e da diversi punti di vista. In primo luogo le trincee modificarono profondamente il paesaggio naturale trasformandolo in un nuovo e diverso ambiente di guerra. Il sistema delle trincee diventò sempre più complesso, crescendo in estensione e in profondità. Nelle trincee più evolute, di fronte alla prima linea erano disposte le protezioni di filo spinato, che da configurazioni più semplici – fili agganciati a pali infilati nel terreno – si svilupparono in forme più avanzate, come grandi rotoli di filo avvolti a spirale o cavalli di Frisia (cavalletti in legno intorno ai quali è avvolto il filo spinato). In alcuni casi le barriere di filo spinato erano attraversate da elettricità oppure erano dotate di un allarme sonoro per prevenire gli attacchi notturni a sorpresa. Dietro la prima linea sorgeva una seconda linea di trincea, a due o tre chilometri di distanza, dove stazionavano le riserve pronte per dare il cambio, e a volte anche una terza, arretrata di altri due chilometri, per ulteriori truppe di rinforzo. Alla distanza di circa 800 metri dalla prima linea erano posizionate le mitragliatrici, in bunker di cemento ogni 600 metri. Le trincee si sviluppavano molto in profondità nel terreno, fino anche a 9 metri, ed erano coperte con legna, terra

Le caratteristiche della Grande Guerra modificarono il significato stesso che il termine “battaglia” aveva nella tradizione occidentale a partire dall’epoca classica, cioè quello di scontro anche estremamente violento, ma circoscritto nello spazio, nel tempo e negli attori. Nei casi della Somme e di Verdun – ma qualcosa di molto simile potremmo dire degli scontri sul fronte italiano, particolarmente sull’altopiano carsico – non c’è più niente di questo. Siamo di fronte non solo a scontri di inaudita violenza e di scala distruttiva senza precedenti, ma a prove protratte nel tempo e sostenute da apparati tecnologici e logistici i quali, per alimentare la macchina della distruzione, devono appoggiarsi al lavorio incessante di centinaia di migliaia di uomini: esse sono, quindi, più simili al lavoro produttivo di immensi cantieri che non a vere e proprie battaglie. [A. Gibelli, Nefaste meraviglie. Grande Guerra e apoteosi della modernità, in Storia d’Italia, Annali, 18, Guerra e pace, a c. di W. Barberis, Einaudi, Torino 2002, p. 550] Soldati italiani in una trincea di montagna 1915-18 In Italia, nell’altopiano carsico e sulle Dolomiti, dove si fronteggiarono durante la Grande Guerra italiani e austriaci, sono ancora oggi visibili trincee, gallerie e “vie ferrate” (percorsi attrezzati e protetti che i soldati realizzarono su versanti e creste per poter attraversare le montagne durante le manovre belliche).

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STORIA E AMBIENTE Grande Guerra e ambiente: gli effetti sul territorio e sui civili

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e pietre. Le parti inferiori erano rinforzate con coperture di cemento e furono provviste di porte, per proteggere i soldati dall’onda d’urto delle granate. Tra le linee principali si diramavano inoltre innumerevoli trincee di collegamento, per il cambio delle truppe, l’approvvigionamento e il trasporto dei feriti. Alla costruzione di un sistema difensivo così articolato si aggiungevano i lavori di trasformazione del territorio circostante messi in atto per rispondere alle necessità logistiche, di trasporto di armi e soldati e di comunicazione. La mobilitazione di armate sulle Alpi, ad esempio, determinò in quei luoghi una vasta espansione di strade, ferrovie e sentieri. Si costruì come mai in precedenza: le pareti di roccia furono perforate e scavate per allestire basi militari, creare stazioni elettriche e stabilire posti di osservazione ad alta quota. Il secondo effetto della nuova guerra sull’ambiente fu quello che più impressionò i testimoni dell’epoca: la devastazione apportata dalla potenza distruttiva delle nuove armi, una devastazione che insieme ai combattenti investiva tutto l’ambiente circostante. L’artiglieria pesante diventò fondamentale nel momento in cui i fronti si stabilizzarono e si attrezzarono al massimo alla difesa. Per raggiungere i rifugi

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Sentinella italiana sul Piave 1918 [Musei provinciali, Gorizia] Il fiume Piave diventò una sorta di grande trincea naturale, sulla quale l’esercito italiano poté resistere all’offensiva scatenata dall’esercito austro-ungarico. In questa immagine, in un paesaggio solitario, una sentinella italiana scruta l’orizzonte.

scavati in profondità, distruggere le trincee e colpire le postazioni di retroguardia del nemico erano necessari massicci bombardamenti. Basti pensare che durante le offensive alleate del 1918 l’esercito francese da solo consumò tra il 10 e il 20 marzo oltre 2 milioni di granate. Dal 1916, le grandi battaglie dominate dall’artiglieria pesante trasformarono i campi di battaglia in paesaggi lunari. Un’infinità di crateri disseminati sul terreno, alberi abbattuti, frammenti carbonizzati dei loro tronchi e rami sparpagliati dappertutto, la terra e le pietre annerite come lava vulcanica: era questo lo scenario che si presentava dopo un bombardamento. La distruzione era pervasiva e non risparmiava nulla – uomini, animali, piante, oggetti militari e civili –, come risulta dalla descrizione di un villaggio dell’Artois abbandonato dopo essere stato attraversato dal fronte, tratta dal libro di memorie sulla guerra dello scrittore tedesco Ernst Jünger, che parteci-

pò al conflitto come sottotenente dell’esercito tedesco, prendendo parte ai combattimenti in Francia e nelle Fiandre: L’aspetto di questo paesaggio era buio e fantastico: la guerra ne aveva distrutto la grazia, imprimendogli la sua ferrea fisionomia. [...] Zaini lacerati, fucili spezzati, brandelli di stoffa e in mezzo, contrasto orrendo, un giocattolo, spolette di granata, profondi imbuti di proiettili esplosi, bottiglie, attrezzi per la mietitura, libri strappati, suppellettile domestica, pertugi il cui buio misterioso rivelava una cantina dove forse i cadaveri degli infelici abitanti erano rosi da bande di ratti frenetici, un piccolo pesco che, privato del muro di sostegno, tendeva supplice le braccia, nelle stalle carcasse di animali ancora attaccati alla catena, tombe nel giardino inselvatichito e in mezzo, appena ravvisabile tra le erbacce, il verde di cipolle, assenzio, rabarbaro, narcisi, sui campi finitimi barche di grano con chicchi in germoglio sulla spiga. E tutto attraversato da una trincea semicrollata, avvolto dal lezzo della decomposizione. [E. Jünger, Nelle tempeste d’acciaio, Guanda, Parma 1995, pp. 45-46]

L’uso di gas tossici aggiunse un ulteriore sconvolgimento dell’ambiente. Cloro, fosgene e iprite avvelenavano gli animali e le piante quanto gli uomini. Terra bruciata, cadaveri in decomposizione, fosse riempite di un orrido miscuglio di fango e sangue e le nebbie verdi-gialle dei gas concorre-

vano a disegnare un paesaggio completamente deformato. Sempre Jünger riporta nelle sue memorie la descrizione degli effetti di un attacco con il cloro sul villaggio di Monchy, nei pressi di Amiens, soffermandosi proprio sulla morte di vegetali e animali: L’indomani mattina potemmo osservare con raccapriccio, nel villaggio, gli effetti terribili del gas. Gran parte delle piante era appassita; corpi di lumache e talpe coprivano il suolo; i cavalli dei reparti di collegamento, di stanza a Monchy, lacrimavano copiosamente e perdevano bava. [E. Jünger, Nelle tempeste d’acciaio, cit., p. 92]

I danni ambientali più duraturi provocati dai combattimenti sulla linea del fronte furono quelli che interessarono le foreste e la composizione del suolo. Le foreste sul fronte occidentale subirono tali distruzioni da richiedere un programma di riforestazione nel dopoguerra. La necessità di introdurre conifere a crescita rapida e capaci di sopravvivere su un terreno impoverito, però, portò a un’alterazione dell’ecosistema forestale, con la perdita della biodiversità che lo caratterizzava. Anche il suolo subì profonde trasformazioni, a causa degli innumerevoli crateri provocati dall’artiglieria. Le granate usate nella prima guerra mondiale, infatti, erano particolarmente ◄ Soldati

tedeschi e cani, in trincea, con la maschera antigas

▼ Soldati

inglesi colpiti dai gas sul fronte occidentale 10 aprile 1918

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STORIA E AMBIENTE Grande Guerra e ambiente: gli effetti sul territorio e sui civili

Foto aerea del villaggio di Fleury-devant-Douaumont e del bosco di Vaux-Chapitre (nei pressi di Verdun) totalmente distrutti 16 maggio 1916 [foto di Charles-Jean Hallo, Musée de l’Armée, Parigi; © Paris - Musée de l’Armée, Dist. RMN]

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dannose per il terreno, poiché esplodevano dopo l’impatto e quindi l’onda d’urto penetrava a fondo provocando il mescolamento e lo sconvolgimento della composizione del suolo. Più in generale, le conseguenze di più lunga durata e di più vasta scala della guerra industriale sull’ambiente furono determinate dall’intensificazione del processo industriale richiesto per sostenere lo sforzo bellico. Per mantenere gli eserciti in azione gli Stati requisirono le risorse naturali in ogni parte del mondo. I governi, attraverso speciali agenzie, assunsero il controllo della fornitura, del prezzo e della distribuzione di prodotti di interesse militare come il legname, i minerali metallici, i combustibili fossili e il cibo. Gli eserciti dipendevano dal legno in molti modi. Le travi in legno impedivano alle trincee di crollare, le tavole salvavano i soldati dal fango. Gli alberi fornivano il materiale da costruzione di base per magazzini per le munizioni, caserme, traversine ferroviarie, pali del telefono e parti importanti degli aeroplani. La necessità di legname intaccò le riserve di legno in tutto il mondo e la deforestazione crebbe dappertutto. I programmi di riforestazione avviati nel dopoguerra ridussero la biodiversità in modo significativo. Anche lo stagno era una materia prima fondamentale per gli usi militari, poiché per le sue caratteristiche di metallo antifrizione veniva utilizzato nella costruzione di parti interne di macchinari. Ma principalmente lo stagno serviva per produrre la latta, materiale con cui si fabbricavano le scatolette per conservare il cibo deperibile per i pasti dei soldati. L’aumentato bisogno di questo minerale accelerò l’industrializzazione nei processi di estrazione nei principali paesi produttori, come la penisola malese e le Indie orientali olandesi, provocando severe ripercussioni sugli

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ecosistemi locali. Anche l’estrazione di combustibili fossili causò danni ambientali i cui effetti durarono per decenni, soprattutto sulle coste del Golfo del Messico, dove all’epoca si trovavano i giacimenti di petrolio più importanti. E infine l’ampliamento delle superfici coltivate per sostenere le accresciute necessità alimentari dei paesi in guerra ebbe rilevanti conseguenze sull’ambiente in vaste aree del Canada e degli Stati Uniti. La guerra industriale, perciò, portò la sua distruzione anche molto lontano dalle zone di combattimento, sconvolgendo equilibri ecologici e accrescendo lo sfruttamento umano delle risorse naturali in ogni parte del pianeta.

LO SCONFINAMENTO DEL CONFLITTO: LE VIOLENZE CONTRO I CIVILI Con la moderna guerra industriale le innovazioni scientifiche e tecnologiche dei decenni precedenti furono riorientate a scopi bellici dando vita a nuovi micidiali strumenti di distruzione. L’innalzamento del livello di violenza condusse a nuove forme di totalizzazione e disumanizzazione della guerra. La distinzione tra combattenti e non combattenti, che aveva ispirato le strategie di guerra tradizionali, iniziò a sfumare, portando in diversi casi a un allargamento delle violenze sulla popolazione civile. Si trattò delle prime significative manifestazioni di un processo di sconfinamento del conflitto che sarebbe arrivato a dimensioni estreme nella seconda guerra mondiale. Non solo i gas tossici – usati da tutti gli eserciti – inaugurarono un nuovo tipo di guerra, in cui l’ambiente stesso poteva diventare un’arma letale che non si focalizzava più solo sull’uccisione di soldati, ma mirava all’annientamento to-

tale e indiscriminato. Durante la prima guerra mondiale si verificarono anche numerosi episodi di violenze contro persone senza difesa, non combattenti o combattenti disarmati, in violazione del diritto internazionale e delle consuetudini di guerra. Un evento unico nella Grande Guerra, per le modalità e l’ampiezza con cui fu commesso, fu lo sterminio degli armeni residenti nell’Impero ottomano, giustificato dal governo in nome delle necessità di guerra e di sicurezza dello Stato. Diffusi attacchi contro la popolazione civile furono compiuti durante l’avanzata tedesca in Belgio e nella Francia settentrionale. L’aumento della gittata dei fucili rendeva spesso non identificabile l’assalitore; questo fatto alimentò nelle truppe tedesche l’idea che ci fossero volontari civili armati e che fosse lecito colpire la popolazione civile per rappresaglia. Si ebbero esecuzioni capitali e massacri: tra l’agosto e l’ottobre del 1914 furono giustiziati 5521 civili in Belgio e 906 in Francia. Un caso particolarmente drammatico fu il massacro di Dinant, dove il 23 agosto furono uccisi 674 civili, un quinto della popolazione cittadina; tra le vittime c’erano donne e bambini e anche 7 neonati. Non furono risparmiati neppure i monumenti del patrimonio culturale, come nel caso dei bombardamenti contro la cattedrale di Reims, che venne in gran parte distrutta, o la devastazione della città universitaria di Lovanio e l’incendio della sua biblioteca.

Anche le armate russe e quelle austro-ungariche trattarono i non combattenti sospetti in modo spietato. I soldati russi devastarono città e villaggi e uccisero 1500 civili durante l’invasione della Prussia orientale, nell’agosto-settembre 1914, e si resero colpevoli di violenze contro i civili nei territori dell’Impero austro-ungarico, Galizia e Bucovina. L’esercito austro-ungarico cominciò a compiere massacri ai danni della popolazione civile serba già nell’agosto del 1914, causando 4 mila vittime. Anche la politica ufficiale di occupazione dell’Austria-Ungheria contemplò un atteggiamento estremamente duro nei confronti dei civili serbi, sulla base di una loro vera o presunta attività militare. Nelle zone di occupazione tedesca, nell’Europa occidentale e orientale, si verificarono deportazioni di civili, in molti casi costretti al lavoro forzato. Nel 1916 quasi 60 mila belgi furono deportati per rispondere alle necessità dell’economia di guerra tedesca, e altri 60 mila furono obbligati a lavorare nelle retrovie del fronte, nello scavo di trincee e nella costruzione di infrastrutture. Molti civili tedeschi furono invece deportati nella Russia meridionale o in Siberia dall’esercito russo durante l’invasione della Prussia orientale e costretti al lavoro forzato. Solo una parte di essi riuscì a far ritorno a casa. Al lavoro forzato furono spesso obbligati anche i prigionieri, che in generale furono oggetto di maltrattamenti, misure di repressione e deportazioni. Un terribile trattamento fu ri-

I bombardamenti di Reims e le macerie della cattedrale, da un giornale d’epoca settembre e novembre 1914 Reims fu bombardata dai tedeschi ripetutamente a partire dall’inizio di settembre 1914 e per tutto l’autunno. L’antica cattedrale gotica, luogo-simbolo per i francesi (qui, a partire dal X secolo, venivano consacrati i re di Francia), fu duramente colpita, suscitando l’indignazione della opinione pubblica internazionale.

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STORIA E AMBIENTE Grande Guerra e ambiente: gli effetti sul territorio e sui civili

Schieramento di biplani monoposto da caccia inglesi SE5a

servato ai 460 mila prigionieri italiani catturati dagli austriaci dopo Caporetto, alla fine di ottobre del 1917: ne morirono infatti 92 mila, quasi il 20 per cento. Un’altra forma di violenza contro i civili fu causata dalla guerra sui mari. Il blocco dei commerci marittimi messo in atto dai britannici contro gli Imperi centrali, secondo stime successive alla fine del conflitto, causò la morte di circa 700 mila civili. Anche la reazione tedesca al blocco, la guerra sottomarina contro le navi che viaggiavano nelle acque intorno alle Isole britanniche, provocò la morte di civili: l’attacco di un sottomarino non permetteva infatti di dare il preavviso necessario a mettere in salvo l’equipaggio, così come previsto dalle convenzioni internazionali. Uno dei casi più eclatanti di questa condotta di guerra fu l’affondamento della nave passeggeri britannica Lusitania, il 7 maggio 1915, che costò la vita a 1200 persone, tra cui anche 140 americani, suscitando l’indignazione di paesi alleati e neutrali. Durante la prima guerra mondiale, infine, vi furono i primi casi di bombardamenti aerei contro obiettivi civili. A causa di problemi tecnici non ancora risolti dalla tecnologia dell’epoca, nel primo conflitto mondiale gli aeroplani furono utilizzati sui fronti di guerra soprattutto per scopi tattici, come la ricognizione. Tuttavia già dal 1915 sia i tedeschi che gli inglesi e i francesi misero in atto i primi esempi di bom-

bardamento strategico, vale a dire un tipo di bombardamento aereo che mirava a obiettivi nel territorio del nemico molto lontani dalla linea del fronte, allo scopo di minarne il morale, il sistema produttivo o le infrastrutture. L’Intesa utilizzò gli aeroplani per attaccare alcune città industriali tedesche sul Reno, mentre da parte tedesca sin dal gennaio del 1915 furono inviati dirigibili per bombardare le città costiere britanniche. A questi primi attacchi ne seguirono numerosi altri, che puntarono anche alla capitale Londra, colpita in otto occasioni tra il 1915 e il 1916. Anche se non era prevista in modo esplicito la possibilità di bombardare obiettivi puramente civili, il fatto stesso di iniziare a considerare bersagli legittimi le strutture militari, le industrie belliche e anche le stazioni, le linee ferroviarie e i porti ebbe importanti conseguenze. In occasione del bombardamento della stazione di Karlsruhe da parte dei francesi nel giugno 1916, ad esempio, ci si basò su piantine non aggiornate della città e così fu colpito per sbaglio il tendone di un circo, causando la morte di molti bambini. Pur se privi di effetti militari significativi, anche questi primi episodi di guerra aerea segnarono un punto di svolta importante verso l’allargamento della guerra alla popolazione civile, i cui effetti più distruttivi e violenti si sarebbero conosciuti nella seconda guerra mondiale.

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Sommergibili tedeschi nel Mediterraneo 1917

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LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE LABORATORIO DI SCRITTURA STORICA  1  Utilizzando le informazioni contenute in questo dossier, redigi un testo (max 20 righe di documento Word) intitolato Paesaggi di guerra in cui descrivi le ripercussioni della Grande Guerra sul paesaggio naturale e antropizzato. Sviluppa l’argomento a partire dalla scaletta che ti forniamo e correda il testo di immagini tratte dal dossier o recuperate in Rete.

● ● ● ●

L’impatto della costruzione del sistema di trincee sul territorio L’impatto delle armi tecnologicamente sofisticate sull’ambiente Le conseguenze di lunga durata della guerra tecnologica sull’ambiente L’impatto della guerra sul paesaggio antropizzato e sulla popolazione civile

PAESAGGI DELLA MEMORIA  2  All’indomani della Grande Guerra, i governi dei paesi belligeranti elaborarono forme di commemorazione dei milioni di soldati morti in battaglia attraverso cerimonie pubbliche, discorsi politici e, soprattutto, la realizzazione di cimiteri militari e l’erezione di monumenti ai caduti. Se l’obiettivo immediato dei governi era la celebrazione del coraggio, del valore e del sacrificio dei soldati morti per la difesa della patria, l’obiettivo a lungo termine era l’ispirazione nelle generazioni future di un sentimento di orrore per la guerra. Trasformati in paesaggi della memoria, questi luoghi di lutto e di dolore divennero assai presto mete di turismo di guerra (e lo sono tuttora). Se abiti in una località ove sono presenti tracce della memoria della Grande Guerra (cimiteri militari, ossari, lapidi, monumenti ai caduti), recati in loco, scatta delle foto ai luoghi e/o agli edifici e raccogli informazioni su di essi. Realizza infine un PowerPoint contenente una brevissima storia del tuo “paesaggio della memoria” con le foto corredate di commento.

PERCORSI DI GUERRA  3  Il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto (Tn) organizza, tra le altre attività didattiche, escursioni sul territorio della Vallagarina, che fu teatro di battaglia della Grande Guerra e che ancora oggi presenta tracce dell’opera di fortificazione realizzata dall’esercito austro-ungarico e da quello italiano. Qui è possibile visitare forti, postazioni di artiglieria, riflettere sulla trasformazione del territorio durante la guerra, sulle modalità di costruzione delle trincee, sull’esperienza dei soldati al fronte attraverso l’analisi di oggetti e documenti. Per saperne di più sui percorsi di guerra offerti dal Museo, digita nella maschera di ricerca di Google “Museo Italiano della Guerra di Rovereto” e scarica il dépliant delle escursioni nelle trincee austro-ungariche e italiane. I percorsi sono differenziati in termini di durata, stagionalità e impegno fisico. Rovereto potrebbe dunque essere meta di un possibile viaggio di istruzione. Tienila in considerazione!

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STORIA E AMBIENTE Grande Guerra e ambiente: gli effetti sul territorio e sui civili

FINLANDIA NORVEGIA

GRAN BRETAGNA

PAESI BASSI BELGIO

FRANCIA

AUSTRIA Dollfuss UNGHERIA Horthy 1934 1920

SVIZZERA

ITALIA

SPAGNA Franco 1936

Mussolini 1922

ALGERIA

Dittature fascista e nazista

M

e d

JUGOSLAVIA Alessandro I 1920

i t e

r r a

n e o

Regimi autoritari Regime comunista LA DIFFUSIONE DEI REGIMI AUTORITARI E TOTALITARI IN EUROPA Dittature fascista e nazista

Regimi democratici

Regimi autoritari

Monarchia

Regime comunista

Mussolini Presa del potere da parte 1922 dei dittatori

Regimi democratici Monarchia Mussolini Presa del potere da parte 1922 dei dittatori

BULGARIA Pr. Boris III 1923

GRECIA

TUNISIA

UNIONE SOVIETICA Rivoluzione d’ottobre 1917

ROMANIA Carol II 1930

ALBANIA M a r

MAROCCO

M

POLONIA GERMANIA Piłsudski Hitler 1926 1933 CECOSLOVACCHIA

Salazar 1928

PORTOGALLO

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DANIMARCA

A t l a O c e a n o

re del Nord

IRLANDA

n

t i c

o

Ma

ESTONIA Päts 1934 LETTONIA Ulmanis 1934 LITUANIA Smetona 1926

Balti o c

SVEZIA

UNITÀ 3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Metaxas 1936

M

ro Ne ar

TURCHIA Mustafà Kemal 1920

CHIAVI DI LETTURA

La grande crisi e l’eclissi della democrazia La crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2008 è stata spesso paragonata alla grande crisi scoppiata nel 1929: entrambe sono partite dagli Stati Uniti (allora come oggi centro principale della finanza mondiale) e hanno colpito duramente anche l’Europa; entrambe hanno avuto origine dall’esplosione di una “bolla speculativa” (un anomalo gonfiamento del valore dei titoli azionari o di altri strumenti finanziari). Ma la crisi degli anni ’30 ebbe effetti più devastanti sul piano sociale e soprattutto politico: infatti un’ondata di sfiducia colpì non solo il sistema dell’economia di mercato,

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e dei totalitarismi, caratterizzata dal culto della forza e dal disprezzo del valore della vita umana. In questo clima maturarono, nell’indifferenza di gran parte delle opinioni pubbliche europee, le discriminazioni razziali, le persecuzioni, fino agli stermini di massa che accompagnarono il secondo conflitto mondiale.

La guerra ideologica: fascismo contro antifascismo Scoppiato nel 1939, il secondo conflitto mondiale acquistò subito una forte caratterizzazione ideologica, che si accentuò quando, nel 1941, si estese su scala planetaria, con l’ingresso dell’Unione Sovietica, degli Stati Uniti e del Giappone. Il conflitto si trasformò allora in una “guerra antifascista”, che vedeva gli Stati democratici alleati con la Russia comunista contro Hitler e i suoi alleati italiani e giapponesi. Uno scontro fra ideologie e visioni del mondo, feroce come una guerra civile, caratterizzato per giunta dalla spaventosa forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici, che annullava ogni distinzione fra militari e civili. Si spiega così il fatto che nel tragico bilancio finale del conflitto (circa 60 milioni di morti) le vittime civili fossero più numerose di quelle in divisa.

Lo sterminio pianificato ma anche le istituzioni rappresentative e la stessa democrazia liberale, accusata di non aver saputo mantenere le sue promesse di giustizia e uguaglianza. Cresceva intanto il fascino dei modelli alternativi: quello comunista, che si affermava in Urss sotto la guida spietata di Stalin; e quello nazionalsocialista – variante radicale del fascismo – della Germania di Hitler. Regimi che pretendevano di dominare l’intera società sotto la guida di un capo, attraverso l’uso combinato di terrore e propaganda. Giungeva così al suo culmine l’epoca delle tirannie

La Shoah (in ebraico “catastrofe”), cioè lo sterminio della popolazione ebraica da parte dei nazisti nel corso della seconda guerra mondiale, è un crimine di massa unico, la cui condanna sarebbe diventata per questo un momento fondativo della coscienza occidentale e della ricostruzione dei rapporti internazionali all’indomani della guerra. Uno sterminio frutto di un piano consapevole consumato nel cuore dell’Europa, in una società da tempo industrializzata: l’unica in cui era possibile applicare allo sterminio le modalità tipiche dell’organizzazione industriale, e coniugare così strettamente il progresso tecnologico con la barbarie più feroce.

GLI EVENTI 1928 In Urss I piano quinquennale 1929 Crollo della Borsa di Wall Street. Inizia la grande crisi

1929 Patti lateranensi tra la Chiesa e lo Stato fascista

1933 Negli Usa Roosevelt inaugura il New Deal. Hitler al potere in Germania

1935 In Germania, leggi di Norimberga contro gli ebrei

1934 In Urss hanno inizio le “grandi purghe”. In Cina comincia la “lunga marcia” dei comunisti

1936 Inizia la guerra civile spagnola

1938 Mussolini vara le leggi razziali contro gli ebrei

1939 Il 1° settembre Hitler invade la Polonia: inizia la seconda guerra mondiale 1939 “Patto d’acciaio” tra Italia e Germania

1941 Attacco giapponese alla flotta americana a Pearl Harbor

1940 L’Italia entra in guerra a fianco della Germania

1942-43 Battaglia di Stalingrado

1944 Sbarco degli alleati in Normandia

1943 A luglio cade il regime di Mussolini. A settembre l’Italia firma l’armistizio con gli alleati

1945 A maggio la Germania firma l’atto di capitolazione. 6-9 agosto: bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Il 2 settembre il Giappone firma l’armistizio 1945 Il 25 aprile il Cln lancia l’insurrezione generale contro i tedeschi in ritirata

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CAP7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETÀ NEGLI ANNI ’30

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Focus L’America del proibizionismo • Una voce nelle case di tutti: la radio • La fabbrica dei sogni: Hollywood • On the road: l’automobile e la rivoluzione del trasporto su gomma Atlante Economia e politica negli anni ’30 Audiosintesi

7_1 SVILUPPO E SQUILIBRI ECONOMICI NEGLI ANNI ’20

Nella seconda metà degli anni ’20, l’Europa e il mondo industrializzato, superati i traumi del primo conflitto mondiale, sembravano avviarsi verso una nuova stagione di prosperità, simile a quella vissuta all’inizio del ’900. I rapporti fra le maggiori potenze attraversavano una fase di distensione, grazie anche al consolidamento della democrazia in Germania. L’economia dell’Occidente capitalistico, trainata dalla spettacolosa espansione produttiva degli Stati Uniti, aveva ripreso a svilupparsi con discreta regolarità dopo le convulsioni dell’immediato dopoguerra.

La ripresa economica

282

Operai durante la pausa-pranzo nel cantiere del Rockefeller Center, New York 29 settembre 1932 Grazie ad alcune politiche federali particolarmente favorevoli all’imprenditoria, per gli Stati Uniti gli anni ’20 furono un’era di grande prosperità. Lo sviluppo economico stimolò l’urbanizzazione, che a sua volta diede impulso all’industria delle costruzioni: nel 1929 negli Usa c’erano quasi 400 grattacieli, in buona parte concentrati a New York.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

L’apparente ritorno alla normalità dell’economia internazionale nascondeva però alcuni squilibri profondi che interessavano in primo luogo il Vecchio Continente. Durante la guerra, gli apparati produttivi dei maggiori Stati europei erano stati piegati alle esigenze dello sforzo bellico; e la domanda mondiale di beni di consumo, oltre che di materie prime, era stata soddisfatta in larga parte da quei paesi extraeuropei che erano rimasti estranei al conflitto o vi avevano preso parte solo marginalmente. A guerra finita, l’economia internazionale si trovò di conseguenza alle prese con una sovrapproduzione cronica.

Le contraddizioni della crescita

Un altro problema fu costituito dalla scelta “isolazionista” degli Stati Uniti [►4_12]: ossia dal loro rifiuto di assumersi non solo il ruolo di protagonista del nuovo ordine internazionale ma anche quello di leader dell’economia mondiale, a cui la loro stessa potenza li chiamava. Gli Stati Uniti attuarono così scelte di politica economica che penalizzavano fortemente le nazioni europee, introducendo nuovi dazi doganali sulle merci importate (praticando cioè una politica protezionistica) e varando provvedimenti che limitavano drasticamente l’immigrazione. In questo modo, impedirono alle merci provenienti dall’estero di trovare sbocco nel ricco mercato nordamericano e negarono a quegli europei che al ritorno dalla guerra non avevano trovato lavoro la possibilità di cercare fortuna oltreoceano, come invece avevano fatto le precedenti generazioni.

Isolazionismo e protezionismo

Gli squilibri e le contraddizioni dell’economia internazionale vennero allo scoperto alla fine del 1929, quando ebbe inizio una crisi economica tanto imprevista quanto catastrofica. Scoppiata negli Stati Uniti nell’autunno del 1929 e prolungatasi per buona parte degli anni ’30, la “grande crisi” – come ancora oggi viene chiamata – fece sentire i suoi effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una netta cesura, che si aggiunse a quella creata dalla Grande Guerra, nello sviluppo delle società occidentali [►FS, 55]. La crisi sconvolse i vecchi assetti e accelerò trasformazioni METODO DI STUDIO già in atto. Diede un’ulteriore, decisiva spinta alla decaden a   Cerchia i problemi che caratterizzarono l’economia internazionale dopo il primo za dell’Europa liberale, creando le premesse per l’affermaconflitto mondiale e individua per ognuno di essi almeno 3 parole chiave in grado di zione di regimi autoritari. Compromise seriamente gli equiesprimerne le cause e le caratteristiche. Quindi, argomenta la tua scelta per iscritto. libri internazionali, mettendo in moto una catena di eventi  b   Completa la frase sottolineando nel testo le parti mancanti: «Nell’au­ tunno del 1929 vi fu un evento traumatico: ... perché ...». che avrebbe portato, nel giro di un decennio, a un nuovo conflitto mondiale.

Una crisi epocale



7_2 GLI STATI UNITI: DAL BOOM

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AL CROLLO DI WALL STREET

Usciti vincitori da una guerra per loro relativamente breve (e combattuta lontano dal proprio territorio), gli Stati Uniti videro definitivamente confermato nel dopoguerra il loro ruolo di grande potenza economica mondiale. Erano il primo paese produttore in tutti i settori più importanti dell’industria e dell’agricoltura. Ma erano anche il primo esportatore di capitali e il primo creditore, in virtù dei prestiti concessi agli alleati nel corso del conflitto. A guerra finita, il dollaro era la nuova moneta forte dell’economia internazionale. E, accanto al mercato finanziario di Londra, cresceva di importanza quello di New York. A partire dal 1921, superata una breve fase di stagnazione, l’economia statunitense cominciò a crescere a ritmi molto rapidi. La diffusione della produzione in serie – grazie all’introduzione della catena di montaggio nelle grandi industrie – e i miglioramenti nell’organizzazione del lavoro in fabbrica – dove sempre più si affermava il modello fordista-taylorista [►1_2] – favorirono un notevole aumento della produttività e dei salari. Contemporaneamente, però, diminuiva il numero degli occupati nell’industria: gli sviluppi della tecnica, infatti, avevano causato una diminuzione della quantità di lavoro necessaria a ottenere un determinato prodotto. Crebbe, invece, per l’espansione delle funzioni organizzative e burocratiche, l’occupazione nel settore terziario, mentre la

Il primato economico degli Usa

► Eventi Le crisi di Wall Street, p. 286 ► Parole della storia Ceto medio, p. 297 ► Fare Storia La società americana durante la grande crisi del ’29, p. 428

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

diffusione fra i ceti medi di beni fino ad allora riservati a pochi (automobili ed elettrodomestici) faceva degli Stati Uniti il laboratorio di nuovi modi di vita e di nuovi modelli di consumo.

azioni Nel linguaggio dell’economia le “azioni” indicano le quote in cui è suddiviso il capitale di un’impresa (società per azioni). Le azioni possono essere comprate e vendute: i “titoli” azionari sono i titoli di credito che rappresentano ciascuna quota; il luogo in cui avviene la compravendita è la Borsa, dove il loro prezzo (quotazione) è definito in base alla domanda e all’offerta.

A questo indiscusso primato non corrispondeva però una adeguata capacità di guida dei processi economici. All’isolazionismo in politica estera fece riscontro una forte egemonia conservatrice. I repubblicani, che rimasero al potere per tutti gli anni ’20, alimentarono le aspettative più ottimistiche sull’immancabile crescita della prosperità americana, senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure continuavano a manifestarsi nel paese. La distribuzione dei redditi, infatti, era fortemente squilibrata e comportava l’emarginazione di consistenti fasce della popolazione. A tutto questo si aggiunse un’ondata di ostilità nei confronti delle minoranze etniche. L’introduzione di leggi limitative dell’immigrazione, oltre a sostenere la politica isolazionista e protezionista intrapresa in quegli anni, aveva anche lo scopo di preservare i caratteri etnici della popolazione bianca e di impedire la diffusione di ideologie sovversive di origine europea. Il punto culminante di questa reazione fu il processo ai due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati ingiustamente di omicidio e mandati a morte nel 1927. Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione nera: la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più isterico, raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni di un’organizzazione di massa. Consistenti settori della popolazione si chiusero in una difesa ottusa e fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante: anche cattolici ed ebrei venivano guardati con diffidenza. Lo stesso proibizionismo – cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande alcoliche, introdotto nel 1920 e rimasto in vigore fino al 1934 – scaturì da questo retroterra culturale, poiché l’ubriachezza era ritenuta un vizio tipico di neri e proletari in genere.

Conservatorismo e razzismo

Nonostante queste tensioni, la borghesia statunitense rimaneva fiduciosa in una continua moltiplicazione della ricchezza. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della Borsa di New York (chiamata Wall Street dal nome della via in cui tuttora ha sede). Incoraggiati dalla prospettiva di facili guadagni, infatti, i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, confidando nella continua ascesa

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La febbre speculativa

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Riunione notturna del Ku Klux Klan con una cerimonia di iniziazione 13 agosto 1923 [Library of Congress, Washington] Il Ku Klux Klan, associazione razzista dei bianchi americani, nasce negli Stati meridionali degli Usa nel 1866, per reazione all’abolizione della schiavitù e alla concessione del diritto di voto ai neri. Il suo nome deriva, forse, dal greco ky`klos (“cerchio”) e dall’inglese clan (nei popoli celtici, un gruppo sociale intermedio tra famiglie e tribù). Sciolto nel 1869, e rifondato nel 1915, il Ku Klux Klan unisce al patriottismo integralista e all’odio per gli afroamericani l’ostilità verso le minoranze degli immigrati europei, dei cinesi e degli ebrei, che sfocia, soprattutto negli anni ’20, in un’ondata di sanguinose violenze. Negli anni ’60, l’associazione torna alla ribalta, negli Stati del Sud, per contrastare il movimento per i diritti civili della popolazione nera. Ancora oggi il Ku Klux Klan trova limitati consensi in alcuni Stati del Sud.

delle quotazioni, sostenuta dalla crescente domanda di titoli. Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su fondamenta assai fragili. La domanda sostenuta di beni di consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate sia dalla particolare natura di quei beni (che, non avendo bisogno di essere continuamente sostituiti, tendevano a “saturare” il mercato), sia dalla crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali, limitandone il potere di acquisto. L’industria statunitense aveva ovviato a questa difficoltà con l’aumento delle esportazioni nel resto del mondo, in particolare nel Vecchio Continente. Così si era venuto a creare uno stretto rapporto di interdipendenza fra economia americana ed economia europea: l’espansione americana finanziava con un cospicuo afflusso di prestiti la ripresa europea e quest’ultima, a sua volta, alimentava con le sue importazioni lo sviluppo degli Stati Uniti. Questo meccanismo, però, poteva incepparsi da un momento all’altro, anche perché i crediti statunitensi all’estero erano generalmente erogati da banche private e dunque legati a puri calcoli di profitto. Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull’economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale degli Stati Uniti, il cui indice cominciò a scendere già nell’estate del 1929.

Il legame con l’Europa

In una situazione già carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti catastrofici del crollo della Borsa di New York: un evento che fu a un tempo la spia del malessere dell’economia mondiale e l’elemento propulsore che portò d’un tratto in superficie tutti gli squilibri accumulatisi nel precedente periodo di espansione [►FS, 55]. Il valore dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all’inizio di settembre del 1929. Seguirono alcune settimane di incertezza, durante le quali cominciò a emergere la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fino ad allora ottenuti. La corsa alle vendite determinò naturalmente – secondo la legge della domanda e dell’offerta – una precipitosa caduta del valore dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori [► _4]. A

La caduta della Borsa

La folla si accalca all’esterno della Borsa di New York 24 ottobre 1929 [Library of Congress, Washington]

4_L’ANDAMENTO DELLE QUOTAZIONI NELLA BORSA DI WALL STREET (1926-38) 210

indice 1926 = 100

190 170 150 130 110 90 70 50 30 1926

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Il grafico mette in evidenza il crollo dei prezzi dei titoli azionari nel 1929, seguito dalla continua diminuzione del valore delle azioni, che raggiunge il suo punto più basso nel 1932, e quindi la faticosa ripresa, non priva di battute d’arresto, che ha luogo dal 1933 al 1938.

285

C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

LE CAUSE DELLA CRISI DEL ‘29

Aumento della produttività Crisi di sovrapproduzione e chiusura delle fabbriche Minore richiesta di beni di consumo durevoli

Speculazione finanziaria

Paura degli investitori di perdere i loro capitali

Boom del mercato azionario

Corsa alla vendita delle azioni

Crollo del valore dei titoli

EVENTI

Le crisi di Wall Street

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286

all Street (letteralmente, “strada del muro”) è una strada di New York, lunga circa un chilometro, situata nella parte meridionale del principale quartiere della città, Manhattan, in cui sorgono le principali istituzioni finanziarie degli Stati Uniti, tra cui la Borsa di New York (la New York Stock Exchange), la più importante del mondo. Wall Street costituisce il cuore della finanza statunitense e globale e il suo nome è diventato a tutti gli effetti sinonimo di scambi monetari, titoli azionari, grandi banche ed enormi ricchezze. La storia di Wall Street, quale importante centro finanziario, ha inizio nel 1792, quando un gruppo di mercanti e agenti di cambio (incaricati della compravendita di titoli finanziari per conto di clienti) siglò un accordo con cui stabilì alcune regole per l’acquisto e la cessione dei titoli: il Butterwood Agreement (“l’accordo del platano”), chiamato così perché gli agenti si incontrarono inizialmente sotto un albero, un platano, che si trovava proprio in Wall Street. Sulla strada si affacciava anche il locale utilizzato per le compravendite di titoli. Alcuni anni dopo, nel 1817, per meglio gestire l’aumento degli scambi e delle contrattazioni, i firma-

tari dell’accordo costituirono un’istituzione legalmente riconosciuta e autorizzata a organizzare gli acquisti e le vendite di azioni. Venne così ufficializzata la nascita della Borsa di New York. Si trattava della prima Borsa valori costituita negli Stati Uniti: ispirata ai mercati borsistici attivi in Europa già nel XVI secolo, in essa si potevano scambiare valori come le azioni e le obbligazioni (titoli di debito che attribuiscono al possessore il diritto al rimborso del capitale prestato e al guadagno di un interesse) ma non le merci. Come tutte le borse valori, anche Wall ­Street visse una fase di grande espansione dopo i primi decenni dell’800. La sua attività fu di fondamentale importanza nel supportare lo sviluppo dell’industria statunitense. Essa infatti consentì di mobilitare i capitali necessari all’industrializzazione, raccogliendo il denaro dei risparmiatori e destinandolo al finanziamento delle imprese. Parallelamente, l’acquisto in Borsa di azioni divenne una delle forme più importanti d’impiego del risparmio. Era questo il risultato del crescente benessere della borghesia urbana, ma anche delle leggi per il controllo del mercato finanziario e contro la speculazione, che crearono un clima di maggiore fiducia.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

L’andamento della Borsa divenne un termometro essenziale dello stato di salute dell’economia, tanto che le principali crisi economiche manifestarono i loro sintomi proprio al suo interno: fu così per il “venerdì nero” del 1869 (provocato da alcune speculazioni sul prezzo dell’oro) o per l’ondata di panico del 1873, quando, a causa della depressione internazionale, le contrattazioni furono sospese per dieci giorni. Dopo la fine della prima guerra mondiale Wall Street divenne il primo mercato finanziario del mondo, sottraendo il primato alla Borsa di Londra (un primato che tuttora detiene). Intorno alla metà degli anni ’20, la crescita si fece ancora più accelerata. La febbre speculativa di quegli anni fu probabilmente il periodo più frenetico mai vissuto dalla Borsa di New York. L’aumento delle quotazioni fu tale che il prezzo delle azioni crebbe senza più alcuna relazione con i valori reali delle imprese, producendo quella che, nel gergo degli analisti finanziari, viene chiamata “bolla” speculativa. L’euforia degli anni ’20 fu traumaticamente interrotta dal grande crollo del 1929. In autunno, di fronte a insistenti segnali di rallentamento dell’economia, gli speculatori iniziarono a vendere le azioni, per paura che perdessero di valore, generando un’ulteriore caduta. Il 24 ottobre (il “giovedì nero”) furono scambia-

metà novembre le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Ma intanto molte fortune si erano volatilizzate. Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente la loro capacità di acquisto e di investimento, ebbe conseguenze disastrose sull’intera economia nazionale, colpendo tutti gli strati della popolazione: un’industria chiudeva i battenti perché priva di ordini, licenziando i suoi dipendenti; i lavoratori diMETODO DI STUDIO soccupati erano costretti a ridurre i loro consumi; il mercato  a  Compila una tabella a doppia entrata il cui titolo sia Economia, politica e diventava così sempre più asfittico, provocando il crollo di società in America nel primo dopoguerra e i cui indicatori siano: ”Elementi di forza” altre imprese, portando alla rovina gli esercizi commerciaed “Elementi contraddittori”. li, aggravando la crisi dell’agricoltura che non trovava più  b  Rinomina il penultimo sottoparagrafo inserendo il termine “esportazioni”.  c   Evidenzia le cause che portarono al crollo della Borsa di Wall Street e sbocchi per i suoi prodotti e costringendo masse di contadispiega in cosa consistette e cosa comportò. ni a emigrare in cerca di fortuna [►FS, 57d].



7_3 IL DILAGARE DELLA CRISI

La crisi innescata dal crollo del 1929 raggiunse in poco tempo un’estensione mai vista in precedenza. La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo – con l’eccezione dell’Unione Sovietica – come una spaventosa epidemia, presentandosi ovunque con i medesimi sintomi e con la stessa dinamica. Fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del 26%. I prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale sia, soprattutto, in

ti 13 milioni di titoli; il 29 (il “martedì nero”) addirittura 16 milioni. La corsa alle vendite determinò un crollo del valore dei titoli. Si trattava, dal punto di vista strettamente finanziario, di un aggiustamento della situazione: la brusca caduta del valore dei titoli azionari ristabiliva un rapporto più corretto tra le quotazioni di Borsa e i valori reali. Il prezzo però fu altissimo. Piccole e grandi fortune svanirono e miriadi di risparmiatori e numerosi agenti di Borsa si ritrovarono letteralmente sul lastrico. Solo nel giovedì nero si contarono a New York undici suicidi di persone coinvolte nel crollo azionario, che costituì un autentico trauma per operatori finanziari e investitori. A lungo la Borsa mantenne un livello di attività notevolmente inferiore a quello precedente la crisi, perdendo la posizione preminente nel sistema economico statunitense. ­ treet Fu solo negli anni ’80 del ’900 che Wall S tornò a vivere un momento di euforia e di frenetica attività comparabile con quello degli anni ’20. Fu il presidente eletto all’inizio del decennio, il repubblicano Ronald Reagan, ad avviare una politica di liberalizzazione dei mercati e riduzione dei vincoli alla finanza che ebbe l’effetto di fare affluire verso la Borsa nuovi capitali. La ricchezza, il guadagno, il successo personale, la libera iniziativa in campo economico divennero, molto

più che negli anni precedenti, valori positivi per larghi strati della popolazione. Alcuni grandi finanzieri riuscirono in pochi anni ad accumulare enormi fortune, imitati da milioni di piccoli speculatori. Dopo un sessantennio, Wall Street tornò a occupare un posto centrale nell’economia e nella società statunitensi. Come negli anni ’20, anche questa volta la febbre speculativa fu interrotta bruscamente da una crisi finanziaria. Il 19 ottobre 1987 (il “lunedì nero”) una massiccia vendita di titoli fece precipitare in basso le quotazioni. In un solo giorno fu registrata una perdita del 22,61%, la più grave nella storia di Wall Street, peggiore ancora di quella del 1929. A differenza di allora, tuttavia, la caduta fu breve e l’economia tornò a crescere in poco tempo, trascinando presto la Borsa con sé. Ma, nel 2007-8, un nuovo shock borsistico originato dallo scoppio di una “bolla” speculativa avrebbe dato inizio alla crisi economica internazionale destinata a prolungarsi nel decennio successivo. Nelle fasi di crescita e in quelle di crisi, la Borsa di New York ha comunque mantenuto un ruolo centrale nel sistema economico mondiale. Non è un caso che il movimento di protesta contro le ineguaglianze e le conseguenze sociali della crisi sorto nel 2011 si sia denominato “Occupy Wall Street”. Nonostante la globalizzazione, l’ascesa di nuove

potenze economiche e la smaterializzazione delle Borse (le contrattazioni si svolgono sempre più spesso online), le vicende della finanza globale sono tuttora profondamente legate a quanto avviene nei palazzi del distretto finanziario di Manhattan.

La Borsa di Wall Street a New York

287

C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

quello agricolo, dove il calo fu di oltre il 50%. I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e di 6 milioni in Germania, cui si deve aggiungere la cifra, ingente anche se incalcolabile, dei sotto-occupati [► _5]. La diffusione internazionale della crisi era il risultato delle strette relazioni commerciali e finanziarie che univano le diverse aree del mondo fra loro e le rendevano tutte dipendenti, sia pur in diversa misura, da quanto accadeva nel paese leader dell’economia mondiale, gli Stati Uniti. Quando, con lo scoppio della crisi, le banche americane ridussero, fino a sospenderla, l’erogazione di crediti all’estero, gli Stati europei si trovarono a corto di capitali, mentre le loro esportazioni negli Usa si ridussero per il generale calo della domanda. A tutto ciò si aggiunse la decisione, presa nel 1930 dal presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, di inasprire il protezionismo per difendere la produzione interna.

bilancia commerciale La bilancia commerciale registra l’ammontare delle importazioni e delle esportazioni di un paese. Il saldo della bilancia commerciale è attivo se prevalgono le esportazioni e passivo se prevalgono le importazioni.

La polizia di New York distribuisce beni alimentari di prima necessità ai disoccupati 1930 [Library of Congress, Washington]

La crisi e le risposte che ad essa vennero date dai governi provocarono un brusco passo indietro nell’integrazione tra i diversi mercati nazionali. L’inasprimento del protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare analoghe misure a difesa della propria bilancia commerciale. Molti Stati, poi, svalutarono le loro monete, per rendere più competitivi i prezzi delle proprie merci e quindi favorire le esportazioni. Anche in questo caso, si avviarono reazioni a catena che ebbero l’effetto di rendere altamente instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. La conseguenza di tutto ciò fu una contrazione drastica del commercio internazionale, che fra il 1929 e il 1932 – l’anno in cui la crisi giunse al culmine – si ridusse di oltre il 60% rispetto al triennio precedente [► _6].

Protezionismo e svalutazioni

L’aumento delle disuguaglianze

Anche i paesi meno sviluppati, in America Latina, Asia e Africa, pagarono un ingente prezzo. Le loro economie si basavano in larga

5_LA CRISI NEGLI STATI UNITI E IN EUROPA STATI UNITI 100

EUROPA

indice 1929=100

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indice 1929=100

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U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

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STIPENDI 40

I due grafici dimostrano la gravità della crisi negli Stati Uniti e in Europa. Per gli Usa le difficoltà del sistema economico sono qui rappresentate, oltre che dall’andamento dei prezzi, dalla diminuzione degli indici dell’occupazione e degli stipendi (solo in parte compensata dal calo dei prezzi). Solo a partire dal 1932 si registra un’inversione di tendenza.

La contrazione del commercio, 1929-1933

6_LA CONTRAZIONE DEL COMMERCIO MONDIALE, 1929-33 aprile

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Il grafico a spirale illustra la drastica e progressiva riduzione del commercio mondiale seguita alla crisi del 1929. Gli scambi passarono dai 2998 milioni di dollari-oro del gennaio 1929 ai 992 del gennaio 1933.

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gennaio

1933

Dopo l’inizio della crisi i governi dei paesi più industrializzati provarono a mettere a punto soluzioni condivise per fronteggiare le emergenze. Tuttavia, gli incontri e le conferenze internazionali non portarono ad alcun risultato. Al crescente allentamento dei legami commerciali e finanziari corrispose l’assenza di una effettiva collaborazione tra gli Stati. La crisi più grave fino ad allora sperimentata in età contemporanea, la prima ad avere un’estensione realmente globale, fu quindi affrontata senza meccanismi di controllo e di governo adeguati. Se alla vigilia della prima guerra mondiale il mondo sembrava, sul piano economico, sempre più unificato da flussi crescenti di merci, capitali e persone, venti anni dopo appariva frammentato da nuovi confini, barriere doganali e linee di separazione, mentre gli scambi si concentravano in aree specifiche sempre meno comunicanti le une con le altre. no

L’assenza di collaborazione

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parte sull’esportazione di prodotti agricoli e materie prime verso i paesi più ricchi e quindi furono fortemente penalizzate dalle politiche protezionistiche. Nel giro di pochi anni i ricavi delle esportazioni si ridussero di quasi due terzi per l’America Latina e l’Asia e di circa il 40% per l’Africa. Negli stessi anni, in quei continenti si accelerava la crescita demografica: non solo quindi la ricchezza prodotta diminuiva, ma si doveva distribuire a un numero più elevato di persone. In quel periodo il divario tra i paesi più ricchi e quelli meno sviluppati toccò una delle sue punte massime.

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ottobre



METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le conseguenze della crisi del 1929.  b  Spiega per iscritto chi decise di adottare il pro­ tezionismo e perché, e cosa comportò questa scelta.  c  Cerchia i paesi più penalizzati dalla crisi statunitense e sottolinea gli eventi che li caratte­ rizzarono.

7_4 LA CRISI IN EUROPA

In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose una crisi finanziaria che ebbe le sue prime manifestazioni in Austria e in Germania, dove il fallimento di alcune importanti banche portò al collasso dell’intero sistema del credito. I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono un allarme incontrollato sulla solidità delle finanze del Regno Unito (molti capitali britannici erano stati infatti investiti in quei due paesi) e sulla stessa tenuta della sterlina. Le banche dovettero far fronte a un precipitoso ritiro dei capitali stranieri e a ingenti richieste di conversione delle sterline nel loro equivalente in oro. Nel settembre 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d’Inghilterra, fu sospesa la convertibilità della sterlina in oro e la moneta fu svalutata: si trattò di un avvenimento che destò sensazione, poiché sanzionava emblematicamente la decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di “banchiere del mondo”.

La crisi finanziaria

Quando la crisi ebbe inizio, i governi dei paesi industrializzati si preoccuparono di mettere ordine nei bilanci statali e cercarono di ridurre il deficit tagliando drasticamente la spesa pubblica: vennero così ridotti gli stipendi ai pubblici dipendenti, furono diminuite le prestazioni sociali fornite dallo Stato e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti compressero ulteriormente la domanda interna, aggravando la recessione e la disoccupazione.

Le politiche di austerità

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro Stato europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali aveva creato fra l’economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall’onere delle riparazioni di guerra. La crisi mise in difficoltà il governo di coalizione allora guidato dai socialdemocratici, provocando un dissenso insanabile fra questi ultimi e i partiti di centro-destra sui sussidi di disoccupazione e sulle altre prestazioni sociali assicurate dallo Stato, che i moderati volevano ridimensionare sensibilmente. Il governo cadde e il nuovo cancelliere, il cattolico-conservatore Heinrich Brüning, attuò una severissima politica di sacrifici, anche allo scopo di rivelare al mondo l’intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tener fede all’obbligo delle riparazioni. Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza internazionale ridusse sensibilmente l’entità delle riparazioni e ne sospese il versamento per tre anni (trascorsi i quali, comunque, i pagamenti non furono mai ripresi). Ma intanto la politica di Brüning aveva prodotto ben più tragici frutti: 6 milioni di lavoratori disoccupati facevano da sfondo alla rapida ascesa del Partito nazionalsocialista di Hitler [►5_5] che, come si vedrà nel prossimo capitolo, seppe sfruttare il disagio e il risentimento largamente diffusi nella popolazione.

La crisi in Germania

Anche in Francia la politica di austerità fu applicata con estremo rigore. Qui la crisi giunse in ritardo, nella seconda metà del ’31, ma durò più a lungo (nel ’38 la produzione non era ancora tornata ai livelli del ’29) anche perché i governi vollero legare il loro prestigio alla difesa della moneta nazionale, il franco, ritardandone fino al ’37 la svalutazione. La crisi economica coincise con un periodo di grande instabilità della situazione politica francese: fra l’ottobre del ’29 e il giugno del ’36 si succedettero ben diciassette governi, ora di centro-destra ora di centro-sinistra. In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay MacDonald cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva, fra l’altro, un drastico taglio del sussidio ai disoccupati. Questo programma incontrò però la ferma opposizione delle Trade Unions, le associazioni sindacali, nerbo del movimento laburista. A quel punto (agosto 1931) MacDonald ruppe clamorosamente col suo partito e, seguito da una minoranza di deputati laburisti, si accordò con liberali e conservatori per la formazione di un “governo nazionale” di cui egli stesso assunse la presidenza. Fu sotto questo governo che la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la sua secolare tradizione liberoscambista, adottando un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nell’ambito del Commonwealth. A partire dal 1933 l’economia europea cominciò a manifestare sintomi di miglioramento. Ma nella maggior parte dei paesi la ripresa fu molto lenta: un vero rilancio produttivo si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto anche al generale incremento delle spese militari conseguente all’aggravarsi delle tensioni internazionali.

Francia e Gran Bretagna



Una disoccupata tedesca cerca lavoro 1930 Una immagine emblematica della disoccupazione dilagante in Germania nei primi anni ’30: una giovane donna disoccupata cerca lavoro stazionando in una strada di Berlino e cercando di attirare l’attenzione dei passanti con un cartello su cui è scritto: «Salve! Io cerco lavoro! So stenografare e scrivere a macchina; conosco il francese e l’inglese...». METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto cosa vuol dire che «la Gran Bretagna smise di essere il banchiere del mondo».  b  Trascrivi sul quaderno i titoli degli ultimi due sottoparagrafi e le relative parole evidenziate in gras­ setto. Quindi, metti in relazione le parole trascritte e argomentale in brevi testi che seguano lo schema delle 5W (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?).  c  Sottolinea il nome del partito che in Germa­ nia seppe sfruttare il disagio della popolazione per accrescere i suoi sostenitori e cerchia il nome del suo leader.

7_5 IL NEW DEAL DI ROOSEVELT

Nel novembre 1932, dopo tre anni di crisi che avevano gettato la popolazione in un angoscioso stato di insicurezza, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il presidente uscente, il repubblicano Herbert Hoover, che non aveva conseguito alcun successo nella lotta contro la crisi, fu nettamente sconfitto dal democratico Franklin 290

La vittoria di Roosevelt

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

► Leggi anche: ► Personaggi Franklin Delano Roosevelt: “leone e volpe”, p. 292

Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York. Già nella campagna elettorale Roosevelt seppe far valere le sue notevoli doti di comunicatore, instaurando con i cittadini un rapporto diretto, convinto com’era che la condizione preliminare di un’azione politica efficace stesse nella capacità di infondere speranza e coraggio nella popolazione. Diventato presidente, avrebbe aperto un nuovo canale di comunicazione con i cittadini: le Conversazioni al caminetto, una trasmissione radiofonica in cui illustrava le sue scelte con tono familiare e suadente. Nel discorso che aveva ufficializzato la sua candidatura, il 2 luglio 1932, Roosevelt annunciò di voler inaugurare un New Deal (“nuovo patto” o “nuovo corso”) nella politica degli Stati Uniti: un nuovo corso che si sarebbe caratterizzato soprattutto per un più energico intervento dello Stato nei processi economici [►FS, 58]. Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi della presidenza Roosevelt – i cosiddetti “cento giorni” – con una serie di provvedimenti che dovevano servire da terapia d’urto per arrestare il corso della crisi: si cercò in primo luogo di ristrutturare e risanare, con ingenti aiuti pubblici, il sistema creditizio, sconvolto da cinquemila fallimenti bancari che avevano polverizzato i risparmi di milioni di americani; furono facilitati i prestiti per consentire ai cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e fu svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni. A queste misure di emergenza, il governo affiancò alcuni provvedimenti più organici e qualificanti, caratterizzati dall’uso di nuovi e originali strumenti d’intervento. L’Agricultural Adjustment Act (Aaa) si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, assicurando premi in denaro a coloro che avessero ridotto coltivazioni e allevamenti. Il National Industrial Recovery Act (Nira) imponeva alle imprese operanti nei vari settori dei “codici di comportamento” volti a evitare, mediante accordi sulla produzione e sui prezzi, le conseguenze di una concorrenza troppo accanita, ma anche a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori. Particolare rilievo ebbe, infine, l’istituzione della Tennessee Valley Authority (Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori, ed era anche impegnato in opere di sistemazione del territorio.

Il New Deal

Dorothea Lange, Una madre con il figlio, fuggiti dalla siccità dell’Oklahoma, sostano al bordo della strada a Blythe California, 17 agosto 1936 [Library of Congress, Washington]

Nel 1935, la fotografa Dorothea Lange fu incaricata dal governo degli Stati Uniti di documentare la condizione di mezzadri e piccoli affittuari costretti dal crollo dei prezzi agricoli ad abbandonare le proprie terre in cerca di lavori

Dorothea Lange, Una famiglia abbandona l’Arizona sulla Us 99 verso San Diego California, febbraio 1939 [Library of Congress, Washington]

saltuari e temporanei. Anche grazie al suo lavoro (di cui fanno parte queste immagini) nel 1937 fu varata la Farm Security Administration, un’istituzione fondata nell’ambito del New Deal per limitare il declino della proprietà agricola e i disagi che ne

conseguivano. Molte immagini di Dorothea Lange furono utilizzate dallo scrittore John Steinbeck a sostegno dei suoi articoli, e ispirarono il romanzo Furore, che narra le vicende di una famiglia di migranti.

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

Se l’esperienza della Tva – rimasta come un modello di intervento organico sul territorio da parte del potere centrale – rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia sul piano economico sia su quello propagandistico, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e contraddittori. Il calo della produzione agricola previsto dall’Aaa causò l’espulsione dalle campagne di vaste masse di lavoratori. Alla fine del ’34 gli investimenti erano ancora stagnanti, mentre i disoccupati raggiungevano gli 11 milioni. Per porre rimedio a questa situazione, il governo federale allargò al di là di ogni consuetudine il flusso della spesa pubblica, nella convinzione che ciò avrebbe favorito l’aumento della produzione e del reddito. Parallelamente, si intensificò l’impegno nel campo delle riforme sociali. Nel 1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale – che garantì alla maggior parte dei lavoratori la pensione di vecchiaia e riorganizzò l’assistenza statale a favore dei bisognosi – e una nuova disciplina dei rapporti di lavoro, che garantiva il libero svolgimento dell’azione sindacale.

Spesa pubblica e legislazione sociale

Con le sue misure progressiste in campo sociale Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione grazie anche a un’ondata di lotte operaie senza precedenti nella storia americana. D’altra parte, le novità del New Deal e i suoi risultati non sempre brillanti diedero spazio al formarsi di un’ampia coalizione avversa al presidente. Tra il 1935 e il 1936 la Corte suprema degli Stati Uniti, massimo organo del potere giudiziario, cercò di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando l’incostituzionalità del Nira e dell’Aaa. Forte dello schiacciante successo ottenuto nelle elezioni presidenziali del ’36, Roosevelt reagì ripresentando con lievi modifiche le leggi bocciate. In conclusione, l’azione di Roosevelt, se da un lato smentì un principio cardine del liberismo

Consensi e opposizioni

PERSONAGGI

Franklin Delano Roosevelt: “leone e volpe”

F

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ranklin Delano Roosevelt nacque nel 1882 da una delle più antiche e ricche famiglie dello Stato di New York. Lontano parente del presidente Theodore Roosevelt [►2_8], al cognome paterno aggiunse anche quello materno, Delano, non solo per ragioni sentimentali, ma perché l’unione delle due famiglie aveva rappresentato un accordo di affetti e di interessi. Roosevelt fu presidente degli Stati Uniti dal 1933 al 1945 guidando il paese dal momento più acuto della grande crisi economica mondiale fino alla vigilia della vittoria alleata contro la Germania nazista e il Giappone nella seconda guerra mondiale. Eletto per la prima volta nel 1932, fu confermato nella carica nel 1936, nel 1940 e nel 1944: al momento della morte, il 12 aprile del 1945, aveva dunque da poco iniziato il suo quarto mandato. Fu l’unico presidente degli Stati Uniti a essere stato eletto per più di due volte, prima che un emendamento costituzionale del 1951 limitasse appunto a due il numero massimo dei mandati. La sua lunga permanenza nell’incarico fu in parte il risultato delle circostanze eccezionali che contraddistin-

sero la sua presidenza, ma testimoniava anche la sua grande popolarità, la sua capacità di comunicare con i cittadini e una straordinaria abilità politica, maturata in una serie di incarichi e di ruoli istituzionali: dalla elezione al Senato con il Partito democratico nel 1910, alla nomina a sottosegretario alla marina nel 1913, da candidato alla vicepresidenza nel 1920 a governatore dello Stato di New York tra il 1929 e il 1932. Questo talento politico, che riusciva a coniugare coraggio, attenzione alle esigenze di cambiamento e curiosità intellettuale con l’uso disinvolto del potere e con una spiccata capacità di coltivare clientele e fedeltà personali, lo portò a essere definito da uno dei suoi primi biografi “leone e volpe”, forza e astuzia. Doti che consentirono a Roosevelt di raccogliere consensi da settori sociali e gruppi economici diversi, mantenendo nel complesso una collocazione che egli stesso definiva “appena a sinistra del centro”. Nonostante il giudizio nei confronti di Roo­sevelt si sia fatto nel tempo più sfumato e più equilibrato, il suo ruolo decisivo nell’arrestare la spirale recessiva, che

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

aveva ricevuto in eredità al momento della sua prima elezione, non può essere negato; così come è evidente il ruolo di potenza globale che la presidenza di Roosevelt conferì al suo paese, un ruolo che, sancito dall’esito vittorioso del secondo conflitto mondiale, avrebbe poi segnato tutta la seconda metà del XX secolo. Una parte della popolarità di Roosevelt è pure riconducibile alla sua storia personale, alla malattia che gli provocò la paralisi degli arti inferiori nel 1921, alla lunghissima battaglia che egli condusse contro i limiti imposti dall’infermità e che apparve ai suoi concittadini un esempio di determinazione e di perseveranza. Ma ciò che più di tutto gli valse la fiducia del suo elettorato fu una straordinaria capacità oratoria: le sue famose “conversazioni al caminetto”, con le quali aggiornava, attraverso la radio, i cittadini sui suoi progetti e sulla situazione del paese, divennero un modello di riferimento nella comunicazione politica. Il grande fascino personale di Roosevelt fu una delle componenti dell’attrattiva che esercitò su una vasta area intellettuale di ispirazione progressista, nella quale trovò molti dei collaboratori che lo affiancarono nella definizione dei programmi di go-

– secondo cui lo Stato deve lasciare libero corso alle leggi del mercato e all’iniziativa imprenditoriale – dall’altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo che si era proposto: quello cioè di ridare slancio all’iniziativa economica dei privati. Per tutti gli anni ’30 l’economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico. Sarebbe giunta a una vera ripresa, nonché alla piena occupazione, solo durante la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo della produzione bellica.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto il significato delle espres­ sioni Conversazioni al caminetto e New Deal.  b  Sottolinea le caratteristiche principali del New Deal.  c  Rinomina l’ultimo sottoparagrafo mettendo in rilievo i risultati della politica attuata da Roosevelt.

IL NEW DEAL

Intervento dello Stato nell’economia

Risanamento del sistema creditizio

Sussidi di disoccupazione

Svalutazione del dollaro

Agricultural Adjustment Act

National Industrial Recovery Act

Prestiti facilitati per estinguere ipoteche sulle case

Sostenere la domanda

Favorire le esportazioni

Controllare la produzione agricola

Limitare la concorrenza e tutelare i diritti dei lavoratori

verno e nella gestione degli interventi che ne scaturirono: si instaurò così nel tempo un solido legame tra il Partito democratico e un’estesa area di pensiero progressista. Del fascino di Roosevelt fa parte anche la storia delle sue relazioni femminili, che continuò negli anni della presidenza, nonostante la sua disabilità e nonostante gli impegni eccezionali di comandante in capo di una nazione in guerra. Il matrimonio con Eleanor Roosevelt, contratto nel 1905, si logorò rapidamente, nonostante la nascita di sei figli, le comuni radici familiari (erano lontani cugini) e le affinità ideali che pure li caratterizzavano. Alla concretezza pratica di lui si contrapponevano il rigore intellettuale e il radicalismo di lei che, sempre più lontana dal marito, finì per rappresentare, già negli anni della presidenza, una voce indipendente e un interlocutore privilegiato delle battaglie di rinnovamento sociale. La vita affettiva di Roosevelt si indirizzò presto fuori del matrimonio con legami anche prolungati come quello con Lucy Mercer, entrata nel circolo familiare come segretaria di Eleanor nel 1914 e rimastagli accanto, con alterne vicende, fino alla morte. Questa e altre vicende sentimentali, però, furono tutte trattate con una certa discrezione sia da par-

te della stampa sia della stessa opposizione politica, per non danneggiare l’immagine di un presidente molto amato e rispettato, e considerato la guida del mondo libero nella battaglia contro il totalitarismo. Jean Edward Smith (uno dei biografi di Roosevelt) ha scritto che Roosevelt si era sollevato dalla sua sedia a rotelle per far rialzare un paese in ginocchio. Queste af-

fermazioni semplificano una vicenda certamente molto più complessa ma rappresentano, più che un giudizio storico, la sintesi di un sentimento collettivo, se è vero che in numerosi e ripetuti sondaggi Roosevelt viene ancora considerato uno dei più grandi presidenti degli Stati Uniti, preceduto solo da Abraham Lincoln e da George Washington.

Franklin Delano Roosevelt mentre parla alla radio 1938 [Library of Congress, Washington] Nelle sue Conversazioni al caminetto, la trasmissione radiofonica da lui ideata, per tutto il periodo in cui rimase in carica, il presidente degli Stati Uniti raccontò ai radioascoltatori la sua attività di governo, riportando grande successo presso il pubblico e contribuendo ad allargare il consenso nei confronti della sua politica del New Deal.

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30



7_6 IL NUOVO RUOLO DELLO STATO

► Leggi anche:

Prima dello scoppio della grande crisi, l’intervento dei poteri pubblici in economia era stato largamente attuato, soprattutto in Europa, per favorire l’industrializzazione, per moderare i conflitti di classe e, in forme particolarmente incisive, per organizzare la produzione in tempo di guerra. Ma la cultura dominante fra gli economisti e gli statisti dei paesi industrializzati considerava ancora queste forme di intervento come una conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva rendere più scorrevole il funzionamento del mercato. La crisi del 1929 fece però sorgere un complesso di problemi la cui soluzione non poteva essere affidata all’iniziativa dei soggetti privati. E la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi per forza propria precipitò. Molti, in quegli anni, subirono il fascino delle alternative di sistema che si andavano affermando in Europa: dal collettivismo integrale dell’Urss di Stalin agli esperimenti corporativi (basati cioè sulla gestione diretta dell’economia da parte delle rappresentanze sociali) proposti, ma mai realmente attuati, dal fascismo italiano e dai regimi autoritari di destra [►9_4].

La sfiducia nel mercato

► Laboratorio di cittadinanza L’intervento dello Stato nell’economia, p. 301

Ovunque, dopo la crisi del ’29, lo Stato assunse nuovi e importanti compiti. Dalle tradizionali misure di sostegno alle attività produttive (come i dazi sulle importazioni) si passò all’adozione di più radicali misure di controllo (sul cambio della moneta, sui prezzi e sui salari) e, infine, all’assunzione da parte dei poteri pubblici di un ruolo attivo nel promuovere l’espansione economica. In alcuni casi, come quello appena visto degli Stati Uniti, si agì soprattutto attraverso lo stimolo alla domanda interna mediante l’espansione della spesa pubblica; in altri, come in Italia, si giunse all’assunzione diretta da parte dello Stato di imprese industriali in difficoltà [►9_4]; altrove – in Gran Bretagna e, in forme più incisive, nei paesi scandinavi – si puntò sull’elaborazione di programmi di sviluppo che si proponevano di orientare, tramite il credito o la manovra fiscale, l’attività economica verso obiettivi fissati dal potere politico.

Le forme dell’intervento

Le teorie di Keynes

Il primo e più importante tentativo di sistemazione teorica delle trasformazioni in corso giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte dell’economista inglese

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Il quartiere di case popolari “Quarry Hill” a Leeds in costruzione anni ’30 [Biblioteca Centrale, Leeds] Già dalla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, il Parlamento britannico approvava il primo Housing, Town Planning, & c. Act, con il quale sovvenzionava la costruzione di 500 mila case in tre anni. Il finanziamento fu in seguito tagliato per via del rapido indebolimento dell’economia; tuttavia l’atto rappresentava un

significativo passo in avanti nella fornitura di alloggi, che diventava una responsabilità di pertinenza dello Stato. L’intervento statale nel settore edile continuò anche negli anni successivi fino a culminare nel 1930 con un secondo Housing Act, che obbligava le amministrazioni comunali a demolire i quartieri profondamente degradati e a costruire abitazioni per i meno abbienti. Questo atto portò alla scomparsa dei cosiddetti slums di molte città e alla costruzione di

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700 mila nuove case. Fra gli interventi, quello di Leeds (nell’Inghilterra settentrionale) fu sicuramente il più rilevante, in termini quantitativi ma anche qualitativi: gli appartamenti infatti furono dotati di gas, illuminazione elettrica, un sistema di smaltimento dei rifiuti e strutture comuni. Purtroppo la tecnica costruttiva impiegata (acciaio rivestito in calcestruzzo), all’epoca innovativa, si rivelò nel tempo inadeguata e l’intero quartiere fu demolito nel 1978.

John Maynard Keynes del volume Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, che aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Il crollo del ’29 e la successiva crisi fornirono a Keynes gli elementi per confutare alcune proposizioni fondamentali della teoria economica classica, in particolare quella secondo cui il mercato tenderebbe spontaneamente a produrre l’equilibrio tra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione. Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di garantire da soli un’utilizzazione ottimale delle risorse. Ciò lo indusse a criticare radicalmente le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d’acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica e la restrizione del credito, aggravavano, nelle situazioni di crisi, le difficoltà dell’economia. Era dunque compito dello Stato sostenere la domanda con politiche di aumento della spesa pubblica, anche a costo di allargare, per periodi determinati, il deficit del bilancio statale e di accrescere la quantità di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste misure sarebbero stati compensati dai benefici arrecati ai redditi e alla produzione. Le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica rispecchiavano molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando – o aveva già attuato – negli Stati Uniti del New Deal. Politiche analoghe, basate essenzialmente sull’espansione della spesa pubblica, sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale.



domanda/offerta In economia, la “domanda” è la quantità di beni o servizi che i consumatori sono disposti ad acquistare a un determinato prezzo. L’“offerta” è l’insieme dei beni o servizi disponibili sul mercato a un dato prezzo. deflazione Si ha deflazione quando, in presenza di una domanda debole, i prezzi scendono e parallelamente diminuisce la circolazione della moneta, che si rivaluta aumentando il suo potere d’acquisto. Si parla di politiche “deflazionistiche” quando governi e autorità monetarie, per combattere l’inflazione, favoriscono queste tendenze con la contrazione del credito e la riduzione della spesa pubblica. METODO DI STUDIO

 a  Individua e sottolinea le soluzioni alter­ native all’iniziativa privata adottate per risolvere la grande crisi.  b  Spiega in che senso e perché la crisi del ’29 rilanciò il ruolo dello Stato in economia.  c  Sottolinea con colori diversi qual era il com­ pito dello Stato secondo le teorie di Keynes e le con­ siderazioni su cui queste si basavano.

7_7 NUOVI CONSUMI E COMUNICAZIONI DI MASSA

Dopo il 1929 l’intero Occidente industrializzato subì, come si è visto, un generale processo di impoverimento. Ma questo non impedì che nuove abitudini di vita, nuovi e più moderni modelli di consumo si affermassero, anche in Europa, presso vasti strati della popolazione, soprattutto urbana. Nel corso degli anni ’30, il processo di urbanizzazione accelerò a causa della grave crisi in cui versava il settore agricolo. Crescita delle città significava sviluppo del settore edilizio. Lo sviluppo edilizio ebbe a sua volta conseguenze notevoli non solo sull’economia, ma anche sul modo di vita delle masse urbane. Le case di nuova costruzione, in particolare quelle destinate ai ceti medi, erano di solito fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre, dato che si trovavano per lo più in zone periferiche, resero necessario uno sviluppo dei trasporti pubblici – tram elettrici, autobus e metropolitane – e della stessa motorizzazione privata.

Le città e i servizi

► Leggi anche: ► Parole della storia Ceto medio, p. 297 ► Storia e ambiente Dalle città alle metropoli: le emergenze ambientali del XX secolo, p. 699

Inoltre la grande crisi, se per un verso accentuò le distanze fra ricchi e poveri, e fra occupati e disoccupati, per un altro determinò un certo miglioramento nelle retribuzioni reali e nei livelli di consumo di quei lavoratori che avevano mantenuto la loro occupazione e che, grazie al drastico calo dei prezzi agricoli, avevano potuto ridurre la quota di reddito riservata ai consumi alimentari, aumentando quindi quella da destinare ad altri beni. Così si spiega come mai, proprio negli anni ’30, in Europa alcuni settori sociali – in primo luogo i ceti medi – poterono fruire per la prima volta su larga scala di quei beni di consumo durevoli che si erano diffusi negli Stati Uniti durante il decennio precedente.

I ceti medi

La produzione europea di veicoli a motore fece registrare consistenti progressi, anche se restò lontana dai livelli statunitensi: nel 1938 circolavano in Europa oltre 8 milioni di autovetture, contro i 5 del 1930, mentre nello stesso periodo gli Usa passarono da 25 a 30 milioni. In Europa l’automobile rimase, per tutti gli anni ’30, un bene riservato a pochi. Ma intanto cominciavano a comparire anche in Europa le prime vetture “popolari” – come la Volkswagen

I nuovi consumi

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

(“vettura del popolo”) in Germania o la “Topolino” in Italia – concepite per emulare il successo della leggendaria Ford T, la prima utilitaria, che negli Stati Uniti, fra il 1908 e il 1924, era stata venduta in 15 milioni di esemplari. Un discorso analogo si può fare per la produzione degli elettrodomestici. I più costosi, come frigoriferi e scaldabagni, continuarono a essere considerati beni di lusso, ma il loro uso si andò ugualmente estendendo, almeno fra le categorie a reddito più elevato. Più ampia diffusione, anche fra i ceti medio-inferiori, ebbero altri apparecchi domestici, come il ferro da stiro elettrico, la cucina a gas e soprattutto la radio. I primi apparecchi per la trasmissione del suono attraverso l’etere senza l’ausilio dei fili erano stati realizzati e sperimentati da Guglielmo Marconi alla fine dell’800. Durante i primi vent’anni del ’900 la tecnica radiofonica aveva fatto continui progressi. Il grande salto si ebbe dopo la fine della prima guerra mondiale, quando la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti in strumento di diffusione di programmi di informazione e di svago destinati al pubblico. Le prime trasmissioni regolari si ebbero negli Stati Uniti nel 1920 e furono organizzate da compagnie private che si finanziavano con gli introiti pubblicitari. Nei maggiori paesi europei, invece, le trasmissioni si svilupparono, negli anni immediatamente successivi, per lo più a opera di enti che operavano sotto il controllo statale, sul modello della britannica Bbc (British Broadcasting Corporation), e imponevano agli utenti un canone di abbonamento. Nell’uno come nell’altro caso, lo sviluppo della radiofonia fu rapidissimo: alla fine degli anni ’20 esistevano circa 3 milioni di apparecchi in Gran Bretagna, altrettanti in Germania e quasi 10 negli Stati Uniti. Queste cifre si moltiplicarono nel decennio successivo: nel 1939 c’erano in tutto il mondo circa 100 milioni di radio, metà delle quali nel Nord America.

Lo sviluppo della radiofonia

Anche come mezzo di informazione la radio non temeva confronti: i notiziari radiofonici potevano essere ascoltati in qualsiasi ora, non richiedevano particolari sforzi di attenzione né spese supplementari ed erano per giunta molto più tempestivi dei giornali. A partire dagli anni ’30, infatti, la diffusione della stampa subì un netto

Le nuove frontiere dell’informazione

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Una Fiat 500 A “Topolino” 1936 [Lane Motor Museum, Nashville (Usa)] L’idea di costruire un’auto a basso costo che servisse a “motorizzare l’Italia” fu “suggerita” agli inizi degli anni ’30 da Benito Mussolini a Giovanni Agnelli, fondatore e amministratore delegato della Fiat. L’incarico di progettare la nuova vettura fu affidato a Dante Giacosa, il risultato fu la Fiat 500 A, subito ribattezzata “Topolino” per il muso che ricordava il Mickey Mouse dei fumetti. Commercializzata nel 1936 al prezzo di 8900 lire (venti volte lo stipendio di allora di un operaio specializzato), ottenne un grande successo, nonostante le prestazioni tecniche non proprio ottimali. Negli anni seguenti la “Topolino” subì alcune migliorie. L’ultimo modello, la Tipo C, fu fabbricata dal 1949 al 1955, anno in cui se ne chiuse definitivamente la produzione; due anni più tardi nasceva la Nuova 500.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

rallentamento. I giornali quotidiani continuarono a essere acquistati e letti soprattutto dal pubblico più qualificato, ma persero molta della loro capacità di espansione fra le classi popolari. Per riguadagnare il terreno perduto, il settore della carta stampata cominciò a puntare più sull’immagine: da qui lo sviluppo delle riviste illustrate (capofila del genere fu l’americana “Life”), dove la parte fotografica prevaleva decisamente sui testi. Capostipite di una serie di invenzioni destinate a improntare di sé la civiltà contemporanea, la radio segnò una tappa decisiva nel cammino della società di massa e inaugurò – come a suo tempo il telegrafo e il telefono – un’era nuova nel campo delle telecomunicazioni. Lo capirono alcuni grandi gruppi industriali, in particolare i colossi elettrici americani e tedeschi, che puntarono decisamente sullo sviluppo della radiofonia. E se ne resero conto anche gli uomini politici, da Roosevelt a Hitler e Mussolini, che affidarono alla radio i loro discorsi più importanti e di essa si servirono per assicurare ai loro messaggi una diffusione capillare. Gli anni del trionfo della radio videro anche l’affermazione di un’altra forma di comunicazione di massa tipica del nostro tempo: il cinema. Verso la fine degli anni ’20, con l’invenzione del sonoro, il cinema divenne uno spettacolo “completo”, come lo erano il teatro di prosa o l’opera lirica. Con la differenza che la proiezione di un film, ripetibile infinite volte, aveva costi incomparabilmente più bassi rispetto a una rappresentazione teatrale, poteva essere realizzata in qualsiasi locale abbastanza ampio per contenere uno schermo ed era quindi alla portata di un pubblico vastissimo. Spettacolo popolare per eccellenza, esempio di fusione fra creazione artistica e prodotto industriale, il cinema non era solo un mezzo di svago. Era anche un veicolo attraverso cui imporre immagini e personaggi: col boom del cinema nacque il fenomeno del “divismo” di massa, ossia quel particolare rapporto di attrazione, spesso ai limiti dell’idolatria, che lega il grande pubblico agli attori più popolari, o meglio alla loro immagine diffusa dagli schermi. Ma attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo: si pensi al ruolo svolto dalla cinematografia statunitense – la più importante per prestigio e volume di produzione – nel diffondere in tutto il mondo i valori tipici della società americana: il coraggio, la tecnica, l’ascesa individuale. Una forma di propaganda più diretta era quella affidata ai cinegiornali d’attualità che venivano proiettati nelle sale cinematografiche in apertura di spettacolo e svolgevano una funzione complementare a quella dei notiziari radiofonici.

Il cinema

Parole della storia

Ceto medio

L’

espressione “ceto medio” (o “classe media”) indica genericamente quegli strati sociali che occupano una posizione intermedia nella distribuzione della ricchezza, del potere e del prestigio in una società che si presume divisa secondo uno schema bipolare (aristocrazia-popolo, ricchipoveri, borghesia-proletariato). Già nel tardo ’700 si parlava di ceto medio in riferimento al “Terzo stato”, cioè alla borghesia. Più tardi, con lo sviluppo del capitalismo, l’espressione è diventata sinonimo di “piccola e media borghesia” ed è passata a designare un arco molto ampio e variegato di ceti e gruppi sociali. Rientravano sotto questa definizione tutti quei gruppi che non potevano essere assimilati alla borghesia propriamente

detta (imprenditori e proprietari), ma si distaccavano dalle classi popolari per cultura, mentalità e orientamenti politici, oltre che per condizioni economiche: piccoli proprietari e piccoli commercianti, ma soprattutto impiegati pubblici e privati. Le trasformazioni economiche e sociali intervenute nel ’900 – in particolare la crescita degli apparati statali e lo sviluppo del settore dei servizi – gonfiarono numericamente questi strati e ne aumentarono progressivamente il peso politico. Nel periodo fra le due guerre mondiali furono soprattutto le inquietudini e le oscillazioni del ceto medio (fin da allora considerato come una garanzia di stabilità sociale e come la base più sicura delle istituzioni liberal-democratiche) a determinare le più profonde trasformazioni politiche. I regimi autoritari e fascisti, in particolare, trovarono il loro principale sostegno di massa proprio nel ceto medio;

mentre i partiti operai pagarono spesso duramente l’errore di averne sottovalutato la forza e di averlo giudicato fatalmente subalterno alle scelte della grande borghesia. Nel secondo dopoguerra, tutti i partiti di massa, compresi quelli di sinistra, riservarono un’attenzione crescente alle esigenze di questo strato sociale (da cui, fra l’altro, provenivano in gran parte i quadri dirigenti dei partiti stessi) e cercarono di guadagnarne i consensi. Oggi si parla sempre più spesso, nei paesi economicamente avanzati, di una progressiva scomparsa delle classi tradizionalmente intese, o meglio di un loro assorbimento in un unico grande ceto medio che comprende ormai la maggioranza della popolazione, lasciando fuori solo alcune consistenti sacche di “nuova povertà” (non più coincidenti col proletariato industriale) e alcune esigue minoranze di ricchissimi e di privilegiati.

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

Insomma, lo sviluppo delle comunicazioni di massa non solo cambiò radicalmente i modi di concepire e di usare il tempo libero, ma ebbe effetti rivoluzionari in tutti i settori dell’attività umana. Radio e cinema costituivano un formidabile moltiplicatore, capace di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale: la creazione artistica come la competizione sportiva (fu in questo periodo che lo sport perse il suo caMETODO DI STUDIO rattere di attività dilettantistica fine a sé stessa per trasformarsi in esibizione desti a Cerchia i beni di consumo che si diffusero in­ nata essenzialmente al pubblico), la cultura come la politica. Furono soprattutto i torno agli anni ’30. regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità insite nei nuovi mezzi di co b Evidenzia gli strumenti più utilizzati dalla comunicazione di massa. municazione e ad accentuare il lato “spettacolare” delle manifestazioni di massa.  c  Individua per ogni sottoparagrafo da tre a Ma anche nelle democrazie la radio, il cinema e la stampa illustrata contribuirono cinque parole chiave in grado di riassumere il senso a “spettacolarizzare” la competizione politica, a valorizzarne gli aspetti più eclacomplessivo del testo e argomenta la tua scelta per tanti, a concentrare l’attenzione sulle figure dei leader. iscritto.

Politica e spettacolo



7_8 LA SCIENZA E LA GUERRA

Negli anni fra le due guerre mondiali, l’onda lunga della rivoluzione scientifica e tecnologica cominciata negli ultimi decenni dell’800, continuò a far sentire i suoi effetti sulla vita quotidiana e sulla salute, sulle attività di pace e sullo sviluppo dei mezzi bellici. Risalgono agli anni ’20 e ’30 alcune scoperte che avrebbero segnato in modo decisivo la storia del ’900, dando la misura del carattere non neutrale della scienza moderna. Già la mobilitazione della comunità scientifica al servizio degli interessi delle potenze in guerra durante il primo conflitto mondiale aveva mostrato del resto le implicazioni politiche e sociali della ricerca scientifica.

Il potere della scienza

A partire dagli anni ’20, un folto gruppo di fisici di diversi paesi, quasi tutti nati all’inizio del secolo (l’italiano Enrico Fermi, gli inglesi Paul Dirac e James Chadwick, i francesi Frédéric Joliot-Curie e ­Louis De Broglie, i tedeschi Erwin Schrödinger e Werner Heisenberg per citarne solo alcuni), portò avanti gli studi e gli esperimenti sul nucleo dell’atomo avviati all’inizio del ’900 da Ernest Rutherford e da Niels Bohr. Si trattava di ricerche essenzialmente teoriche, che assunsero però un’immediata risonanza anche al di fuori degli ambienti scientifici quando, alla fine degli anni ’30, si scoprì che dalla scissione, provocata artificialmente, di un nucleo atomico di materiale radioattivo era possibile liberare enormi quantità di energia. Molti intuirono allora che da questa nuova straordinaria fonte di energia sarebbe stato possibile ottenere un’arma più potente di qualsiasi altra fino ad allora realizzata. Ma soltanto nel 1942, quando, durante la seconda guerra mondiale, una equipe di scienziati nordamericani guidata da Fermi (emigrato negli Stati Uniti nel 1938) realizzò il primo reattore nucleare, lo spettro della “guerra atomica” si materializzò minacciosamente, inducendo i due schieramenti in lotta a un’affannosa e segretissima corsa verso la costruzione della nuova bomba.

La ricerca sull’atomo

Se i possibili impieghi bellici della fisica nucleare restarono per molto tempo sconosciuti ai più, nessuno poteva ignorare il nesso strettissimo che intercorreva fra le caratteristiche della guerra futura e gli sviluppi della tecnica aviatoria. Negli anni ’20 e ’30, l’aeronautica compì in tutti i paesi industrializzati progressi notevoli: gli aerei divennero più

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L’aviazione civile

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Un idrovolante Macchi prodotto in Italia 1926 Nei primi anni della sperimentazione tecnologica in campo aeronautico, la formula dell’idrovolante sembrò essere preferita al carrello con ruote, sia per motivi di praticità (non necessitava infatti di una pista di atterraggio), sia per questioni di sicurezza, non essendo il carrello ancora ben collaudato. Molto diffusi fino alla seconda guerra mondiale, gli idrovolanti caddero poi in disuso, mentre l’attenzione delle maggiori industrie produttrici si volgeva ai velivoli capaci di atterrare sulla terraferma.

sicuri e più rapidi (i mezzi più veloci toccavano punte di 7-800 chilometri orari), aumentando nel contempo la loro capacità di carico e la loro autonomia. Imprese come la trasvolata solitaria dell’americano Charles Lindbergh, che nel 1927 compì per primo su un piccolo aereo il volo senza scalo da New York a Parigi, valsero a esaltare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale le nuove possibilità offerte dal trasporto aereo. L’aviazione civile, dopo i primi timidi passi negli anni ’20, conobbe nel decennio successivo un considerevole incremento, soprattutto negli Stati Uniti, pur restando, a causa dei suoi alti costi, un servizio accessibile solo alle categorie privilegiate. I progressi dell’aviazione civile furono però superati dai contemporanei sviluppi dell’aeronautica militare. Dopo aver accolto con scetticismo i primi impieghi bellici dell’aviazione, generali e uomini di governo finirono col convincersi che un’arma aerea autonoma dall’esercito e dalla marina era destinata a svolgere un ruolo decisivo nelle guerre future. Tutte le grandi e medie potenze intensificarono, dall’inizio degli anni ’30, la costruzione di aerei militari: ­aerei da caccia sempre più veloci, aerei da trasporto sem­ pre più capienti, bombardieri dotati di sempre maggiore autonomia. L’ipotesi di una guerra in cui i contendenti si combattessero seminando morte dal cielo fra le popolazioni civili diventava ormai una tragica certezza.

L’aeronautica militare



Il prototipo del velivolo XN3N_2 dell’aviazione americana 1936 [National Naval Aviation Museum, Pensacola (Usa)] Del Canarino o Pericolo giallo – così fu soprannominato questo velivolo dell’aviazione militare americana – furono prodotte ben tre versioni, ognuna delle quali correggeva un difetto della precedente. Solo il terzo modello (l’XN3N_3), prodotto fino al 1942, fu impiegato nel corso di tutto il secondo conflitto mondiale.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto perché nel periodo fra le due guerre la scienza moderna non poteva più dirsi neutrale e quale relazione legava la ricerca scientifica alla tecnologia militare.  b Evidenzia i maggiori progressi in campo aeronautico.

7_9 LA CULTURA DELLA CRISI

► Leggi anche:

Anche per la cultura europea, gli anni ’20 e ’30 furono anni di crisi e di mutamenti profondi. Si accentuarono in questo periodo i fenomeni di disgregazione e di perdita dell’unità che già si erano delineati negli anni precedenti il primo conflitto mondiale con l’irruzione dell’irrazionale e del relativismo nel campo delle scienze e delle arti [►1_9]. Le maggiori scuole di pensiero sorte dopo la guerra (il neopositivismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo, lo spiritualismo cattolico e le varie correnti del marxismo) avevano metodologie e interessi molto distanti fra loro e procedettero quindi senza influenzarsi in modo significativo.

► Parole della storia Intellettuale, p. 41

La perdita dell’unità

Nell’ambito delle arti figurative e della musica, proseguì in questi anni la tendenza alla rottura delle forme canoniche e la ricerca, a volte esasperata, di nuovi moduli espressivi. Continuò la stagione delle grandi correnti d’avanguardia che, in una società delusa e disorientata come quella postbellica, trovarono un pubblico più ampio e disponibile che in passato. Ai movimenti già affermatisi prima della Grande Guerra (l’astrattismo, il cubismo, il futurismo e l’espressionismo) se ne aggiunsero altri nuovi come il surrealismo: lanciato nel 1924 da un Manifesto scritto da André Breton, questo movimento vedeva nell’arte l’espressione delle tendenze profonde dell’inconscio, e promuoveva, nel campo culturale come in quello politico, la lotta contro ogni forma di convenzione borghese. Ma nessuna delle correnti che aerei da caccia si diffusero nel primo dopoguerra giunse ad affermarsi sulle altre, tanto da essere Si chiamano aerei da caccia, o semplicemente “caccia”, rappresentativa di un’epoca e di una temperie culturale. Non è forse un caso se quelli progettati per intercettare e abbattere gli aerei nemici, due fra le maggiori personalità dell’epoca rispettivamente nel campo pittorico e grazie al radar e ai missili in dotazione. in quello musi­cale, Pablo Picasso e Igor Stravinskij, non si identificarono con

Le avanguardie

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una sola corrente d’avanguardia, ma piuttosto le attraversarono e le utilizzarono tutte con straordinario eclettismo. Nel periodo fra le due guerre furono pubblicati anche alcuni tra i più grandi capolavori del ’900: gli ultimi volumi di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust uscirono a guerra appena terminata, come molti dei racconti e dei romanzi di Franz Kafka; l’Ulisse di James Joyce è del 1922, La montagna incantata di Thomas Mann del 1924, mentre L’uomo senza qualità di Robert Musil fu pubblicato all’inizio degli anni ’30. Queste opere sono accomunate dalla volontà di rappresentare i problemi e le angosce dell’uomo del ’900 e di esprimere, in modi anche molto diversi (ora restando, come Mann, nel solco della tradizione del romanzo ottocentesco ora forzando, come Joyce, strutture letterarie e convenzioni linguistiche), la rottura dell’universo borghese che aveva fatto da sfondo alla grande narrativa dell’800.

La crisi del romanzo borghese

Un ulteriore elemento di crisi e di disgregazione della cultura europea di questi anni fu indubbiamente rappresentato dalle divisioni politico-ideologiche. Anche se le loro opere non recavano spesso alcuna traccia visibile delle vicende sociali contemporanee e apparivano invece come distaccate e ripiegate sulla sperimentazione formale e sull’introspezione psicologica, letterati e artisti furono fortemente coinvolti nelle grandi contrapposizioni fra liberalismo borghese e comunismo marxista, tra fascismo e democrazia.

Lo scontro ideologico

L’impegno politico non era certo una cosa nuova per gli intellettuali europei. Ma ciò che accadde negli anni fra le due guerre fu un fenomeno più esteso e più carico di implicazioni. Gli intellettuali furono chiamati sempre più spesso non solo a testimoniare, ma a parteggiare apertamente, a prendere posizione su singoli problemi (fu allora che si diffuse l’uso dei manifesti e degli appelli pubblici firmati da personalità della cultura); furono mobilitati, e spesso utilizzati spregiudicatamente, da partiti e governi; si divisero secondo linee di contrapposizione che ricalcavano gli schieramenti politico-ideologici: se la cultura liberale aveva i suoi maggiori punti di riferimento in Benedetto Croce e in Thomas Mann, se i comunisti potevano vantare illustri “compagni di strada” come Pablo Picasso e Maksim Gor’kij, André Gide e Romain Rolland, anche la destra autoritaria poteva mettere in campo personaggi prestigiosi come i filosofi Giovanni Gentile e Martin Heidegger (uno dei padri dell’esistenzialismo), il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt e il poeta statunitense Ezra Pound. Parve a molti che gli intellettuali, lasciandosi coinvolgere così a fondo nelle contese politiche, tradissero in qualche modo la loro missione, che abdicassero al loro ruolo di guida delle coscienze per adattarsi a quello di propagandisti.

L’impegno degli intellettuali

René Magritte, La firma in bianco 1965 [National Gallery of Art, Washington; © René Magritte, by SIAE 2018] Attivo in Francia e in altri paesi europei negli anni fra le due guerre mondiali, il movimento surrealista si avvale della scoperta freudiana dell’inconscio e delle tecniche psicoanalitiche per dare vita a una produzione artistica e letteraria basata su irrazionalità, sogno, follia, attraverso cui liberare l’io dalle gabbie della vita borghese. Tra i suoi esponenti, il pittore belga René Magritte (1898-1967) crea immagini che sfidano la normale visione delle cose e della realtà: nei suoi dipinti, il mistero e l’inesplicabile irrompono nella vita di tutti i giorni creando sconcerto nello spettatore.

Divisa e lacerata dalla radicalizzazione ideologica e politica, la cultura europea subì anche in modo diretto e drammatico le conseguenze dell’avvento dei regimi totalitari. Se la dittatura staliniana provocò la scomparsa fisica di una parte non trascurabile dell’intellettualità russa (una perdita che si aggiunse alla cospicua “fuga di cervelli” verificatasi dopo la rivoluzione del 1917), il regime nazista in Germania costrinse all’esilio centinaia di intellettuali, soprattutto ebrei. Molti si rifugiarono in Francia, in Gran Bretagna, METODO DI STUDIO in Svizzera. Ma i più scelsero come meta della loro emigrazione gli Stati Uniti. La  a   Evidenzia per ogni sottoparagrafo le frasi che cultura e la scienza europee subirono così, negli anni ’30, un’emorragia di grandi contengono l’idea principale. proporzioni: dopo quello economico, anche il centro culturale del mondo indu b   Spiega per iscritto quale ruolo assunsero gli intellettuali nel dopoguerra e perché. strializzato cominciava a dislocarsi al di là dell’Atlantico.

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La “fuga di cervelli” dall’Europa

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LABORATORIO DI CITTADINANZA L’INTERVENTO DELLO STATO NELL’ECONOMIA

L

a crisi economica internazionale apertasi nel 1929 indusse gran parte dei governi dei paesi industrializzati a mettere in atto politiche innovative, che attribuivano allo Stato un ruolo più incisivo (aumento della spesa pubblica, sostegno al reddito e all’occupazione, misure per impedire il fallimento di banche e imprese). Se il principio dell’intervento pubblico fu comune a tutte le nazioni industrializzate, ogni governo mise però in atto misure diverse e peculiari, a seconda delle specifiche situazioni che si trovava ad affrontare. Mentre negli Stati Uniti il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt dava vita al New Deal, nella Germania nazista furono incrementate le commesse pubbliche, e soprattutto le spese militari, per assorbire la disoccupazione e rimettere in moto l’economia nazionale; intanto in Italia il governo fascista attuava la nazionalizzazione (cioè il passaggio dai privati alla proprietà dello Stato) delle imprese industriali e delle banche che rischiavano di fallire, dando vita a un vasto settore pubblico in gran parte controllato dall’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) [►9_4]. Nonostante fosse nato come risposta alla particolare situazione degli anni ’30, l’intervento pubblico non fu abbandonato dopo la seconda guerra mondiale. In alcuni paesi, anzi, venne ulteriormente rafforzato. Molti governi introdussero forti controlli sulle imprese attive in settori ritenuti di fondamentale importanza (trasporti, produzione di energia elettrica, miniere, siderurgia, aeronautica, banche). In molti casi attuarono la nazionalizzazione delle imprese. Fu questo il caso soprattutto della Gran Bretagna, dove, tra il 1945 e il 1951, lo Stato assunse il controllo diretto di numerosi settori, e circa due milioni di lavoratori passarono alle dipendenze di grandi industrie nazionalizzate. Sebbene in misura più ridotta, anche in Germania occidentale e in Francia ci fu un’ondata di nazionalizzazioni, mentre in Italia l’Iri vide ampliate le sue dimensioni. In tutti questi casi, la proprietà pubblica delle imprese aveva diversi scopi: aumentare la presenza dello Stato in settori tecnologici chiave, per sostenerne l’espansione e favorirne l’ammodernamento; imporre prezzi e tariffe più bassi di quelli del mercato per favorire gli utenti, a scapito

dei profitti; combattere la disoccupazione limitando le possibilità di licenziamento. Al tempo stesso, tra i tardi anni ’40 e i primi anni ’70, le nazioni dell’Europa occidentale, il Giappone e, in misura minore, gli Stati Uniti incrementarono la spesa pubblica per le politiche sociali. In molti di questi paesi (a partire dalla Svezia e dalla Gran Bretagna) furono istituiti un sistema sanitario pubblico, pensioni di anzianità e di invalidità, sussidi di disoccupazione e venne migliorata l’istruzione pubblica. Questo nuovo sistema – chiamato Welfare State, “Stato del benessere” [►12_3 e 15_3] – aveva lo scopo di proteggere i cittadini dalle conseguenze negative della malattia, della disoccupazione e della vecchiaia, nel tentativo di eliminare le cause della povertà e, contestualmente, di ridurre le differenze di ricchezza e di reddito tra i diversi strati della popolazione: i servizi sociali erano infatti in larga parte finanziati con l’incremento della tassazione e dei contributi pagati soprattutto dai ceti benestanti. La forte presenza dello Stato accompagnò la

crescita dell’economia internazionale per circa un trentennio dopo la fine della secon­da guerra mondiale. La crisi petrolifera degli anni ’70 [►16_1] costrinse però tutti i governi a ripensare le politiche adottate fino a quel momento. Il rallentamento della crescita, l’inflazione e la disoccupazione rendevano infatti difficilmente gestibili i costi delle politiche sociali e della presenza pubblica nell’industria. La crisi dell’intervento pubblico non era però legata soltanto alla situazione particolare del periodo, ma anche agli squilibri accumulatisi negli anni precedenti e che si sarebbero progressivamente aggravati negli anni successivi. In primo luogo, la dilatazione della spesa pubblica (che in Europa oltrepassò in media il 50% del prodotto interno lordo) fu all’origine di un incremento del debito pubblico e dell’inasprimento della tassazione, che a sua volta alimentò un diffuso malcontento. Inoltre, la globalizzazione, vincolando le decisioni dei governi all’operato delle imprese multinazionali e degli investitori internazionali, ne riduceva le possibilità di intervento. Un’eccessiva tassazione e vincoli troppo rigidi posti alle scelte delle imprese e dei detentori di capitali avrebbero rischiato di indurli a trasferire le proprie attività in al-

Manifestazione di protesta “Occupy the World” Bologna, 11 novembre 2011 [© Alessandro Tosatto/Contrasto] Studenti universitari e delle medie superiori protestano contro le politiche finanziarie internazionali: la scritta recita «Salvate le scuole, non le banche». In seguito alla crisi economica mondiale iniziata nel 2007-8, infatti, gli Stati sono intervenuti con risorse del bilancio pubblico nel salvataggio di alcuni grandi istituti di credito esposti alla speculazione finanziaria.

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C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

tri paesi. La tendenza dei governi dei paesi economicamente avanzati, a partire dagli anni ’80, fu dunque quella di ridimensionare la spesa statale, di alleggerire la tassazione, di ridurre l’intervento nell’economia e di assicurare maggiore libertà alle imprese e al mercato. Sulla scia delle esperienze della Gran Bretagna (con il governo conservatore di Margaret Thatcher) e degli Stati Uniti

(con la presidenza del repubblicano Ronald Reagan [►16_4 e 16_7]), i governi delle nazioni industrializzate intrapresero da allora politiche basate sulla privatizzazione di molte proprietà statali, sulla soppressione di alcuni vincoli posti alle attività economiche, sulla riduzione delle imposte, sui tagli alle spese statali e sul ridimensionamento del Welfare State.

Gli effetti della crisi mondiale scoppiata nel 2007-8 hanno però determinato, in Europa e negli Stati Uniti, una nuova, parziale inversione di tendenza. L’intervento pubblico è stato spesso invocato, e in qualche caso attuato, soprattutto per sopperire alle difficoltà del sistema bancario e per porre rimedio, con regole più stringenti, agli eccessi della speculazione finanziaria.

LABORATORIO DI SCRITTURA DI CITTADINANZA 1 Utilizzando le informazioni contenute nella scheda, redigi un testo (max 10 righe di documento Word) intitolato

Lo Stato e la spesa pubblica in cui illustri la diversa posizione assunta, di volta in volta, dai governi dei paesi industrializzati dell’Occidente. Sviluppa l’argomento a partire dalla scaletta che ti proponiamo.

● La risposta dei governi alla crisi economica degli anni ’30 ● L’affermazione del Welfare State (anni ’40-70 del XX secolo) ● La risposta dei governi alla crisi economica degli anni ’70 ● L’era della globalizzazione I RAPPORTI ECONOMICI NELLA COSTITUZIONE 2 La Costituzione italiana, all’articolo 41, riconosce la libertà di iniziativa economica:

«L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.»

Riflettiamo insieme sull’articolo:

a. Dopo aver enunciato il principio di libertà dell’iniziativa economica privata, l’articolo ne fissa i limiti.

● Quali sono? Rintracciali nel testo e sottolineali. ● Qual è il significato di tale affermazione? b. La libertà dell’iniziativa economica privata non è “assoluta”, perché allo Stato spetta un ruolo.

● Quale? ● Che tipo di sistema economico vige dunque in Italia? c. La libertà dell’iniziativa economica privata si inserisce all’interno di un contesto, quello dello Stato sociale.

302

● Dopo aver definito lo Stato sociale, specificane lo scopo.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

SINTESI molte imprese, il dilagare della disoccupazione.

7_1 SVILUPPO E SQUILIBRI ECONOMICI NEGLI ANNI ’20 La seconda metà degli anni ’20 segnò per l’Europa e il mondo industrializzato un periodo di ripresa economica e di espansione produttiva non privo di elementi di squilibrio. Le economie capitalistiche, infatti, si trovarono, a guerra finita, di fronte a una sovrapproduzione cronica, cioè a una capacità produttiva eccessiva rispetto alle capacità di assorbimento dei mercati. La situazione fu aggravata dalla scelta degli Stati Uniti che ostacolarono le importazioni e bloccarono l’immigrazione.

7_2 GLI STATI UNITI: DAL BOOM AL CROLLO DI WALL STREET Gli Stati Uniti degli anni ’20 erano il primo paese produttore in tutti i settori più importanti dell’industria e dell’agricoltura, il primo esportatore di capitali e il primo creditore; il dollaro aveva scalzato definitivamente la sterlina come moneta forte dell’economia internazionale. Il tutto in una situazione sociale non priva di contraddizioni e problemi (diseguaglianza sociale, crescita della intolleranza nei confronti delle minoranze etniche). La stessa febbre speculativa che portò a investimenti frenetici in Borsa aveva in realtà fondamenta assai fragili. A far precipitare la situazione fu la crisi borsistica del ’29, innescata da massicce vendite, che determinarono la perdita di valore delle azioni e il polverizzarsi di grandi e piccoli risparmi, la chiusura di

7_3 IL DILAGARE DELLA CRISI Dato lo stretto legame di interdipendenza delle economie europea e mondiale con gli Usa, la crisi innescata dal crollo del 1929 si diffuse in tutto il mondo (eccetto l’Urss): fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30%, quella di materie prime del 26%. I disoccupati raggiunsero i 14 milioni negli Stati Uniti e i 6 milioni in Germania. Tutti i paesi risposero alla crisi adottando, come gli Stati Uniti, politiche protezionistiche in difesa della produzione nazionale e svalutando le loro monete, per rendere più bassi i prezzi delle proprie merci e favorire le esportazioni. Ne conseguì una contrazione drastica del commercio internazionale, che fra il 1929 e il 1932 si ridusse di oltre il 60%.

7_4 LA CRISI IN EUROPA In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrapposero una crisi bancaria e una monetaria che, nel 1931, spinsero la Banca d’Inghilterra a sospendere la convertibilità della sterlina in oro. Tutti i governi risposero alla crisi con gli strumenti classici (taglio alla spesa pubblica e nuove tasse), aggravando in realtà la recessione e la disoccupazione. In Germania le conseguenze della crisi furono particolarmente severe, in quanto il paese, gravato da

ingenti riparazioni di guerra, dipendeva ancor più degli altri dai prestiti statunitensi. In Francia la crisi giunse in ritardo ma durò più a lungo e coincise con un periodo di instabilità politica. In Gran Bretagna fu adottato un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nel Commonwealth.

contrasto con i princìpi del liberismo. A livello teorico, l’utilità dell’intervento statale a sostegno delle attività produttive fu sostenuta dall’economista inglese Keynes che, in particolare, sottolineò il ruolo della spesa pubblica ai fini dell’incremento della domanda e del raggiungimento della piena occupazione.

7_5 IL NEW DEAL DI ROOSEVELT

7_7 NUOVI CONSUMI E COMUNICAZIONI DI MASSA

Nel 1932 divenne presidente degli Usa il democratico Franklin Delano Roosevelt, abile politico e uomo di grande carisma e forza comunicativa. La sua politica (New Deal) si caratterizzò per un energico intervento dello Stato nell’economia: ingenti finanziamenti furono volti a risanare il sistema creditizio, furono facilitati i prestiti ai privati, aumentati i sussidi di disoccupazione e svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni. A queste misure si aggiunsero alcuni provvedimenti più organici di sostegno al settore agricolo, industriale, energetico. Il New Deal rappresentò un’esperienza innovativa anche se non riuscì a determinare una piena ripresa dell’economia americana, che si sarebbe verificata solo con la guerra.

Negli anni ’30 si registrò un’accelerazione del processo di urbanizzazione, che comportò un boom edilizio e, grazie alla disponibilità di case nuove dotate di servizi, un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione urbana. Aumentò anche la produzione europea di automobili, che rimasero in Europa però, diversamente dagli Usa, beni di lusso, come gli elettrodomestici. Grande diffusione ebbe, invece, la radio, che divenne un fondamentale mezzo di svago e soprattutto di comunicazione di massa. Gli stessi anni videro anche l’affermazione del cinema, dalla fine degli anni ’20 passato al sonoro. La radio e il cinema costituirono un formidabile moltiplicatore, capace di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale.

7_6 IL NUOVO RUOLO DELLO STATO In quasi tutti i paesi la grande crisi favorì l’adozione di nuove forme di intervento dello Stato in campo economico: una tendenza in radicale

7_8 LA SCIENZA E LA GUERRA Alcune scoperte degli anni ’20 e ’30 segnarono in

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modo decisivo la storia del ’900. La†più importante fu la scoperta dell’energia nucleare, che avrebbe portato†alla costruzione della bomba atomica. Tra le applicazioni belliche della scienza, furono fondamentali anche i grandi sviluppi dell’aeronautica.

7_9 LA CULTURA DELLA CRISI Per la cultura europea gli anni ’20 e ’30 furono anni di crisi e di mutamenti profondi.

Proseguì la tendenza alla rottura delle forme canoniche e la ricerca, a volte esasperata, di diversi moduli espressivi. Nacquero nuove avanguardie artistiche, come il surrealismo, e furono pubblicati alcuni dei più grandi capolavori della narrativa del ’900. Letterati e artisti cominciarono a essere fortemente coinvolti nelle

contrapposizioni ideologiche fra liberalismo borghese e comunismo marxista, tra fascismo e democrazia. Dopo l’affermazione dei regimi totalitari, molti intellettuali russi e tedeschi abbandonarono i propri paesi per rifugiarsi all’estero, soprattutto negli Stati Uniti.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa la mappa concettuale relativa alla situazione economica mondiale che portò alla crisi del ’29 inserendo, in

maniera opportuna, le espressioni riportate di seguito.

● ● ● ●

● ● ●

Politica protezionistica degli Stati Uniti Il settore dell’industria pesante Dopo la prima guerra mondiale Crisi del ’29

Durante la prima guerra mondiale Crisi di sovrapproduzione La produzione di beni di consumo e materie prime

..........................................................................

Gli Stati europei privilegiarono soprattutto

Gli Stati extraeuropei privilegiarono soprattutto

..........................................................................

..........................................................................

..........................................................................

●..................................................................... ●.....................................................................

304

..........................................................................

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

2 Seleziona la frase opportuna per completare correttamente le affermazioni riportate di seguito relative alla crisi

economica del ’29.

1. La Borsa di Wall Street prende il nome... a. dal primo direttore generale fondatore dell’ente. b. da una città in cui si praticava solo l’attività bancaria. c. dalla via dove ancora ha sede. 2. Nel 1928 le banche statunitensi smisero di concedere prestiti all’Europa e cominciarono a... a. investire nelle operazioni della Borsa di Wall Street. b. prestare capitali ai paesi africani per ottenere materie prime. c. erogare denaro solamente alle grandi industrie americane. 3. L’indebolimento dell’economia europea determinò... a. il fallimento di tutte le società commerciali occidentali.



b. conseguenze negative anche sulla produzione industriale degli Stati Uniti. c. una sfiducia generalizzata nel futuro.

4. Il crollo della Borsa di Wall Street dipese da... a. una vendita delle azioni a prezzi super quotati. b. una stagnazione improvvisa dell’economia. c. una corsa alla vendita delle quote azionarie. 5. Il crollo della Borsa di Wall Street colpì... a. unicamente i ceti ricchi e benestanti. b. i ceti medi e quelli benestanti e, in generale, tutta l’economia nazionale. c. gli strati più poveri della popolazione.

3 Rispondi alle seguenti domande selezionando le risposte tra quelle in elenco. Usa poi le risposte per sintetizzare

oralmente la politica di Roosevelt e il suo New Deal.

1. A quale partito apparteneva Roosevelt? 3. Cosa significa il termine New Deal? a. Democratico a. Nuovo governo b. Repubblicano b. Nuova economia c. Socialista c. Nuovo corso 2. Quando divenne presidente degli Stati Uniti d’America? 4. Con quale frase si potrebbe riassumere la politica di Roosevelt? a. 1939 a. Lo Stato deve intervenire b. 1932 b. Lo Stato non deve intervenire c. 1929 c. Lo Stato è dappertutto 4 Completa sul quaderno la tabella seguente con le informazioni richieste. Sintetizzerai così il modo in cui Stati Uniti ed

Europa vissero e affrontarono la grande crisi.

Stati Uniti

Europa

Periodo

Cause

Effetti economici

Conseguenze sociali

Rimedi attuati dai governi

Trasformazioni di lunga durata provocate dalla crisi

305

C7 LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI ’30

5 Tra quelli proposti di seguito, seleziona i nuovi beni di consumo e i nuovi strumenti di comunicazione che

caratterizzarono la società degli anni ’30 e trascrivili nell’insieme. microonde ● frigorifero ● scooter ● computer ● scaldabagno ● ferro da stiro ● lettore dvd ● cucina a gas ● radio ● giornali ● bancomat ● cinema

Automobile, ................................................................................ .................................................................................................. ..................................................................................................

COMPETENZE IN AZIONE 6 Argomenta sul tuo quaderno le relazioni esistenti tra i seguenti soggetti in brevi testi (max 5 righe):

Le minoranze etniche I governi repubblicani degli Stati Uniti negli anni ’20

Il proibizionismo Wall Street

Economia statunitense

Economie europee

7 Tra i concetti in elenco, sottolinea quelli che consideri una conseguenza della crisi del 1929 e spiega sul tuo quaderno

il perché in brevi testi di massimo 5 righe.

a. Aumento delle materie prime b. Incremento della disoccupazione c. Diminuzione dell’erogazione di crediti da parte degli Stati Uniti d. Aumento delle importazioni negli Stati Uniti e. Inasprimento del protezionismo 8 Scrivi un testo di 10 righe utilizzando tutti gli elementi qui di seguito elencati, nell’ordine che ritieni più opportuno.

Scegli quindi un taglio e un titolo per il tuo elaborato.

306

a. Ricerca sull’atomo b. Reattore nucleare c. Aeronautica militare d. Sviluppi della tecnica aviatoria

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

E

A

XTR

CAP8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

E

O

N LI N

Storia, società, cittadinanza I meccanismi del terrore Focus Sport e nazismo: le Olimpiadi di Berlino del 1936 • Il mondo rurale e il regime staliniano: la “grande fame” del 1932-33 • Intellettuali e antifascisti a difesa della Spagna Atlante Economia e politica negli anni ’30 Lezioni attive Dittature e totalitarismi. Lenin e Stalin, dalla rivoluzione al potere Test interattivi Audiosintesi

8_1 L’ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA

► Leggi anche:

Negli anni ’30 del ’900, in coincidenza col dilagare della crisi economica, la democrazia visse la sua stagione più buia e rischiò addirittura di vedere le sue istituzioni e le sue culture cancellate dall’Europa continentale, anche dai paesi in cui sembravano avere basi più solide [►FS, 56]. Già nel decennio precedente, regimi autoritari si erano affermati in molti Stati dell’Europa mediterranea e orientale [►6_8]. Ma, nei paesi più progrediti sul piano dell’economia e delle strutture civili, questi regimi erano stati visti soprattutto come un prodotto dell’arretratezza economica e politica e dell’insufficiente radicamento dei princìpi liberal-democratici. Con la grande crisi del 1929, con i successi del nazismo in Germania e con la crescita generalizzata dei movimenti antidemocratici soprattutto in Europa orientale, si capì che il male era più profondo.

Autoritarismo e totalitarismo

► Parole della storia Totalitarismo, p. 309 ► Fare Storia Due regimi totalitari: nazismo e stalinismo, p. 435

Raduno nazista a Norimberga 1936 L’accurata scenografia delle manifestazioni mirava a dare a chi partecipava la sensazione fisica dell’appartenenza alla comunità e a chi osservava (giornalisti, ospiti stranieri) l’impressione dell’efficienza del regime e della compattezza del popolo. Le adunate di massa rendevano i partecipanti spettatori e protagonisti al tempo stesso di tali rappresentazioni, appagando il bisogno di spettacolo in un’epoca in cui lo spettacolo non era ancora una componente abituale della vita quotidiana.

307

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

In ampi strati dell’opinione pubblica, infatti, si era diffusa la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini; che la vera alternativa fosse quella fra il comunismo sovietico e i regimi autoritari di destra [►FS, 59]. Furono questi ultimi a conoscere negli anni ’30 il loro periodo di maggior fortuna: sia sotto la veste delle dittature reazionarie di tipo tradizionale, sia nelle forme più “moderne” del fascismo italiano e poi del nazismo tedesco. Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che convenzionalmente chiamiamo fascisti – anche se il fascismo non ebbe mai una base dottrinaria ben definita – era il tentativo di proporsi come artefici di una propria rivoluzione, di dar vita a un nuovo ordine politico e sociale, diverso da quelli conosciuti fino ad allora [►FS, 60]. Sul piano dell’organizzazione politica, fascismo significava accentramento del potere nelle mani di un capo, struttura gerarchica dello Stato, inquadramento più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, rigido controllo sull’informazione e sulla cultura. Sul piano economico, il fascismo si vantava di aver inventato una “terza via” fra capitalismo e comunismo: ma questo modello non riuscì mai a prender corpo e l’unica vera novità in questo campo consistette nella soppressione della libera dialettica sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell’intervento statale in economia.

I caratteri dei fascismi

Eppure, nonostante la sua inconsistenza teorica, il fascismo e i regimi ad esso affini esercitarono una notevole attrazione, soprattutto sugli strati sociali intermedi. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di certezze, ai piccolo-borghesi delusi dalla democrazia e spaventati dall’alternativa comunista, le nuove dittature parevano offrire una prospettiva nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere a una comunità e di riconoscersi in un capo, la convinzione, non importa quanto fondata, di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito (e non sulla ricchezza o sui privilegi di nascita), l’indicazione di un nemico cui attribuire ogni possibile colpa.

Fascismo e ceti medi

Tutto ciò rappresentava una sorta di protezione contro il senso di schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di “massificazione”: dunque una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un’esaltazione di alcuni suoi aspetti. Più di quanto non avessero mai fatto le classi dirigenti liberal-democratiche, il fascismo seppe capire la società di massa, ne interpretò le componenti aggressive e violente e soprattutto ne sfruttò appieno le

Società di massa e totalitarismi

I CARATTERI DEI FASCISMI

Affermazione di GOVERNI AUTORITARI

Instabilità economica in seguito alla crisi del ‘29

Sfiducia nelle istituzioni democratiche

Controllo su...

POLITICA

308

Accentramento dei poteri nelle mani di un capo

ECONOMIA

Rigida gerarchia politica

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Abolizione dei sindacati

SOCIETÀ

Intervento statale in economia

Organizzazioni di massa

Controllo della cultura e propaganda

◄◄ Manifesto

di propaganda della Gioventù hitleriana: la gioventù al servizio del Führer ◄ Manifesto di propaganda sovietico 1945 I totalitarismi riservarono grande attenzione all’educazione della gioventù. Da un lato inquadrarono i giovani e i giovanissimi in organizzazioni paramilitari, dall’altro usarono ogni mezzo di comunicazione diretta per raggiungere le masse dei più piccoli che dovevano essere educati all’ideologia dominante.

tecniche e gli strumenti: i mezzi di propaganda (soprattutto quelli nuovi, come la radio e il cinema), i canali di informazione e di istruzione, le strutture associative, in particolare quelle giovanili. Questa capacità di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi meccanismi costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma anche di un regime di opposta matrice ideologica e sociale come quello sovietico nell’età di Stalin: fu insomma propria di tutti quei regimi che, per la loro pretesa di dominare in modo “totale” la società, di condizionare non solo i comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono stati definiti totalitari.

METODO DI STUDIO

 a  Cerchia i paesi europei in cui, negli anni ’20, si affermarono regimi autoritari.  b  Evidenzia i motivi principali che favorirono l’ascesa dei regimi autoritari di destra.  c  Individua almeno quattro parole chiave che sintetizzino i caratteri principali dei fascismi e argomenta la tua scelta per iscritto.  d  Evidenzia il ceto sociale che sostenne maggiormente i fascismi e spiega le sue motivazioni.

Parole della storia

Totalitarismo

I

l termine “totalitarismo” fu inventato dagli antifascisti italiani già nella prima metà degli anni ’20. Successivamente, furono gli stessi fascisti, a cominciare da Mussolini, a usarlo “in positivo” per definire la loro aspirazione, peraltro mai pienamente realizzata, a una identificazione totale fra Stato e società. Nel secondo dopoguerra, il termine fu adottato nei paesi occidentali per designare quella particolare forma di potere assoluto che non si accontenta di controllare la società, ma pretende di trasformarla dal profondo in nome di un’ideologia onnicomprensiva, di pervaderla tutta attraverso l’uso combinato del terrore e della propaganda: quel

potere, insomma, che non solo è in grado di reprimere, grazie a un capillare apparato poliziesco, ogni forma di dissenso, ma cerca anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie organizzazioni, di imporre la propria ideologia attraverso il monopolio dell’educazione e dei mezzi di comunicazione di massa. Il concetto di “totalitarismo” – così come lo ha definito la scienza politica, da Hannah Arendt a Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinski – è modellato sulla concreta esperienza del nazismo tedesco e del comunismo sovietico. Più discussa è la sua applicabilità al caso del fascismo italiano (che pure, come abbiamo visto, si autodefiniva “totalitario”) o a quella dei regimi comunisti imposti all’Europa dell’Est nel secondo dopoguerra. Certamente scorretto è parlare di “totalitarismo”

in riferimento a regimi autoritari più “tradizionali” come il franchismo, affermatosi in Spagna dopo la guerra civile del ’39 [►8_9]. Per molto tempo la categoria del totalitarismo è stata rifiutata, o quanto meno guardata con sospetto, dalla cultura di sinistra (in particolare da quella marxista) perché, prescindendo da qualsiasi riferimento alla base sociale dei regimi, accomunava fenomeni giudicati incomparabili come il nazismo e lo stalinismo. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, il termine “totalitarismo” si è largamente affermato nel linguaggio politico corrente (e anche in quello della sinistra), tanto che oggi rischia di essere addirittura “inflazionato”. Lo si usa infatti comunemente – e impropriamente – come sinonimo di “autoritarismo” o di “dittatura” o di “tirannia”.

309

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE



8_2 TOTALITARISMO E POLITICHE RAZZIALI

Un elemento caratterizzante dei regimi totalitari, anche in tempo di pace, fu la scarsa o nulla considerazione del valore della vita umana e della dignità dell’individuo. Mai come in questa fase della storia europea – non a caso culminata con le stragi di massa del secondo conflitto mondiale – si affermò la tendenza a risolvere i problemi col ricorso sistematico alla forza, con le deportazioni e i campi di concentramento, infine con lo sterminio di intere popolazioni o gruppi sociali.

Il ricorso alla violenza

Queste pratiche non erano del tutto estranee all’Europa di inizio ’900, che aveva conosciuto ripetuti e indiscriminati massacri nei territori dell’Impero ottomano (durante le guerre balcaniche e poi con lo sterminio degli armeni), senza contare gli eccidi perpetrati nelle guerre coloniali. Il salto qualitativo si ebbe però con la prima guerra mondiale, che non solo produsse una generale assuefazione alla morte di massa, ma abituò i gruppi dirigenti e le opinioni pubbliche a ragionare in termini di salute e di efficienza collettiva (delle forze armate e della stessa nazione), più che di benessere dei singoli. Infine, la controversa applicazione del principio di nazionalità, a guerra terminata, creò, come abbiamo visto [►5_3], nuovi problemi di convivenza fra gruppi etnici, spesso risolti con il trasferimento forzato o la persecuzione delle minoranze, da parte di Stati che si volevano il più possibile omogenei. Tutto ciò contribuiva a creare un atteggiamento diffuso, quasi un senso comune che vedeva nella comunità nazionale non tanto un insieme di individui, quanto un’entità collettiva, un organismo unico la cui integrità andava tutelata a ogni costo, anche al prezzo dell’espulsione di qualsiasi corpo estraneo o dell’amputazione di presunte parti “malate”.

La nazione come corpo unico

In questo quadro si spiega la rinnovata fortuna dell’eugenetica, una teoria nata nella seconda metà dell’800 che sosteneva la necessità di un perfezionamento non spontaneo della specie umana attraverso pratiche simili a quelle adottate per gli animali e per le piante: selezioni e incroci volti a far prevalere, nella trasmissione ereditaria, i caratteri positivi su quelli negativi. Figlia della cultura positivista ottocentesca (il suo inventore, l’inglese Francis Galton,

L’eugenetica

Ragazze del Bdm e uomini delle SS 1939 [foto di Heinrich Hoffmann]

310

Nella foto a sinistra, ragazze “di pura razza ariana” del Bdm (Bund Deutscher Mädchen), l’“Unione delle ragazze tedesche”, che inquadrava le giovani dai 10 ai 21 anni, incontrano uomini delle SS in un centro Lebensborn. Il progetto Lebensborn (“Sorgente di vita”) fu avviato dal nazismo per mettere in pratica

Il nido del centro Lebensborn “Incontro e maternità” di Steinhöring 1938 [foto di Heinrich Hoffmann]

le teorie eugenetiche del Terzo Reich sulla razza ariana, ossia favorire la “qualità della razza” da un lato prestando assistenza in cliniche modello a quelle ragazze-madri di certificata “razza ariana” che avevano avuto rapporti con membri delle SS, dall’altro creando asili destinati a “germanizzare”

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

quei bambini di altre nazionalità che presentavano tratti razziali nordici (capelli biondi, occhi azzurri) e che, rapiti alle proprie famiglie, venivano in seguito dati in adozione. Nei centri Lebensborn nacquero circa 8 mila bambini con un’altissima percentuale di illegittimi (80% prima del 1940, 50% in seguito).

era cugino di Charles Darwin), l’eugenetica non era all’inizio necessariamente legata al nazionalismo né alle ideologie razziste (al contrario, affascinò non pochi intellettuali progressisti, soprattutto anglosassoni). E alcune delle sue applicazioni più inquietanti – divieto di matrimoni fra soggetti sani e portatori di malattie ereditarie, sterilizzazione di questi ultimi, interventi chirurgici invasivi sul cervello di malati mentali o presunti tali – furono adottate per la prima volta, nei primi decenni del ’900, dai poteri pubblici in Stati democratici, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e i paesi scandinavi (non in quelli a maggioranza cattolica, per la decisa opposizione della Chiesa). Il passaggio da queste esperienze a una diffusa pratica di eliminazione fisica dei soggetti ritenuti estranei alla comunità, pericolosi o semplicemente inadatti si ebbe però solo nei regimi totalitari. Nella Germania nazista l’adozione di misure di sterilizzazione forzata e poi di soppressione di individui malati si inquadrava nel progetto di una società basata sulla purezza della razza “eletta” e sulla sua vocazione al dominio; METODO DI STUDIO e suonava come minacciosa premessa alle deportazioni e allo sterminio razziale  a  Sul tuo quaderno realizza uno schema a stelche sarebbero stati praticati ai danni degli ebrei negli anni del secondo conflitto la, al cui centro sia collocata la parola “violenza” e i cui raggi indichino le motivazioni con cui la classe mondiale. Diverse nelle motivazioni ma analoghe nelle conseguenze furono le dirigente e l’opinione pubblica giustificarono il ricorso politiche di sterminio adottate nell’Unione Sovietica di Stalin: qui le vittime (in alla forza nella risoluzione dei problemi. primo luogo i kulaki [►5_7 e 8_6]) erano scelte su basi ideologiche e di classe. Ma  b  Completa la seguente affermazione sottolineando sul testo la parte conclusiva: «Le teorie anche intere popolazioni (i tartari di Crimea, i tedeschi del Volga) furono deporeugenetiche si basavano sulla convinzione che la tate e in larga parte sterminate perché ritenute in blocco politicamente infide. riproduzione della specie umana potesse essere conAlla base di questi orrori c’erano dunque storie diverse, ma un’unica idea di fontrollata al fine di...». do: quella di una comunità omogenea e compatta, capace di espellere da sé ogni  c  Sia in Germania che in Russia furono adottate pratiche di sterminio: individua nel paragrafo le elemento di diversità (ideologica o religiosa, etnica o razziale) e di operare come motivazioni che si riferiscono ai due Stati ed espoun’unica massa agli ordini di un unico capo dotato di un potere assoluto e innile per iscritto. controllato. Il che costituiva l’obiettivo autenticodei totalitarismi novecenteschi.

Dalla selezione allo sterminio



8_3 L’ASCESA DEL NAZISMO

Nel novembre 1923, quando finì in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di Stato a Monaco di Baviera [►5_5], Adolf Hitler era un personaggio semisconosciuto, capo di una piccola formazione politica – il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap) – con un programma accesamente nazionalista e confusamente demagogico. Di lui si sapeva che era di origine austriaca, che aveva servito durante la guerra nell’esercito tedesco col grado di caporale guadagnandosi alcune decorazioni al valore, che aveva tentato senza successo di fare il pittore. Meno di dieci anni dopo, nel gennaio 1933, Hitler, leader di un partito che ormai rappresentava circa un terzo dell’elettorato tedesco, riceveva l’incarico di formare il governo. Per capire i motivi di questa imprevedibile ascesa è necessario tornare alla grande crisi e ai suoi effetti sulla società tedesca.

L’ascesa di Hitler

Fino al 1930, infatti, il Partito nazionalsocialista – o Il partito e le SA nazista, come veniva comunemente chiamato – rimase un gruppo minoritario e marginale, che fondava la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione armata: le SA (sigla di Sturm-Abteilungen, cioè “reparti d’assalto”) comandate dal capitano dell’esercito Ernst Röhm. Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato, sull’esempio di quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più “rispettabile”. Aveva messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico (riforma agraria, nazionalizzazione dei grandi complessi

Busto fìttile femminile proveniente da Paestum VI sec. a.C. [Museo archeologico nazionale di Paestum] La svastica, o croce uncinata, è un simbolo antichissimo, che compare fin dalla Preistoria su manufatti dell’area mediterranea, dell’Asia minore, dell’Estremo Oriente, dell’America precolombiana. Gli studiosi pensano che sia un simbolo di rotazione, probabilmente di un astro, legato a culti di tipo solare. Sopravvissuta come forma grafica fino all’epoca contemporanea, la svastica diventò in certi ambienti esoterici il simbolo di una superiore civiltà e conoscenza. Con questo significato essa fu introdotta nei rituali nazisti. Fu adottata da Hitler anche perché ritenuta, erroneamente, un segno tipico della tradizione indoeuropea o “ariana”, che la dottrina razzista del nazismo riteneva l’origine di una civiltà superiore.

311

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

industriali) che figuravano nel programma nazista del ’20, riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno finanziario da parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma non aveva affatto rinunciato al nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova “grande Germania”, l’adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del “parlamentarismo corruttore”. I suoi progetti a lungo termine Hitler li aveva esposti con molta chiarezza in un libro dal titolo Mein Kampf (“La mia battaglia”) scritto nei mesi del carcere, pubblicato nel ’25 e destinato a diventare una sorta di testo sacro del nazismo. Al centro dei piani hitleriani c’era un’utopia nazionalista e razzista. Antisemita radicale fin dai tempi della giovinezza passata a Vienna, sostenitore di una concezione grossolanamente darwiniana della vita come continua lotta in cui solo i forti sono destinati a vincere, Hitler credeva nell’esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella ariana [►1_8], progressivamente inquinata dalla commistione con le razze “inferiori”. I caratteri originari dell’arianesimo si erano per lui conservati solo nei popoli nordici, in particolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dovuto dominare sull’Europa e sul mondo. Per realizzare questo sogno era necessario dapprima schiacciare i nemici interni: primi fra

Il progetto hitleriano

Diego Rivera, Cultura nazista, particolare 1933 [International Ladies’ Garment Workers’ Union, New York; © Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museum Trust, México, D.F., by SIAE 2018]

PERSONAGGI

Adolf Hitler, il Führer del nazismo

N

312

ato nel 1889 a Braunau am Inn, cittadina austriaca vicina al confine con la Germania, da una famiglia piccolo-borghese, ebbe un’infanzia segnata dal contrasto fra la figura del padre, un funzionario delle dogane dal carattere austero e irascibile, e quella della madre, una donna apprensiva e protettiva, forse l’unica persona per cui provò un amore sincero. Senza rimpianti a sedici anni Hitler abbandonò la scuola superiore, dopo un percorso non brillante. Non gli andò meglio quando decise di entrare all’Accademia delle belle arti di Vienna, che lo respinse due volte all’esame di ammissione. Il trasferimento a Vienna fu però cruciale per la formazione della sua visione politica: qui assorbì l’antisemitismo del sindaco Karl Lueger e sviluppò l’ostilità alla monarchia asburgica abbracciando la causa del pangermanismo, che voleva tutte le popolazioni di lingua tedesca unite in un unico Stato. Spaventato dalle donne, incapace di stabilire amicizie autentiche, conduceva una vita solitaria. Viveva alla giornata, senza un mestiere: dipingeva e vendeva piccole vedute pittoriche, riuscendo a mantenersi a stento. Indolente, ma capace di grande energia nel fantasticare, dotato di una cultura dogmatica e poco sistematica, presuntuosamente

autodidatta, artista dilettante: nulla lasciava presagire il futuro di Hitler. La prima guerra mondiale fu l’occasione che gli offrì una via d’uscita dalla mediocrità: abbandonata Vienna nel 1913, per sottrarsi alla chiamata di leva dell’esercito asburgico, si trasferì a Monaco di Baviera, dove si arruolò con entusiasmo come volontario nell’esercito tedesco. Per il coraggio mostrato fu decorato due volte con la Croce di Ferro, ma non fu mai promosso oltre il grado di caporale. Dopo il trauma della sconfitta tedesca tornò a Monaco, dove l’esercito lo assunse come informatore, per scoprire eventuali movimenti politici nella truppa, finché un ufficiale non ne riconobbe il talento come oratore e lo nominò istruttore di una delle unità di propaganda e formazione ideologica dell’esercito. Così Hitler raggiunse la consapevolezza di saper parlare in pubblico. A trentun anni la svolta: iniziò la sua vita politica, unendosi alla Dap (Deutsche Arbeiter partei, “Partito tedesco dei lavoratori”), una piccola formazione ultranazionalista. Come “oratore da birreria” gli si spalancarono le porte della scena politica bavarese. Il messaggio, dai contenuti razzisti e antisemiti, a cui aggiungerà la componente antibolscevica, non era originale, ma era in sintonia con

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

la paura e la frustrazione della piccola borghesia bavarese. Di comizio in comizio il pubblico crebbe rapidamente, come le iscrizioni alla Dap, di cui assunse la presidenza nel 1921. Anche dopo il fallito colpo di Stato di Monaco dell’8 novembre 1923, Hitler riuscì a trasformare il clamoroso insuccesso in un trionfo propagandistico. Si assunse la piena responsabilità dell’azione e usò il processo (in cui era accusato di alto tradimento) come tribuna politica, estendendo la sua notorietà oltre i confini della Baviera. L’anno di detenzione nel carcere di Lands­ berg lo passò leggendo (Nietzsche, H.S. Chamberlain, Bismarck) e iniziando la stesura del volume Mein Kampf (“La mia battaglia”), vasta esposizione del suo programma politico e della sua biografia (opportunamente manipolata, per potersi presentare come il leader eroico che la Germania aspettava). A questi anni risale la nascita del culto della personalità di Hitler, che si diffuse, come in cerchi concentrici, a partire dai seguaci più prossimi fino a raggiungere negli anni ’30 ampi strati dell’elettorato. Più che l’intelligenza acuta (unita a un’ottima memoria), furono il suo credo politico, la convinzione e la radicalità che lo animavano a permetterne l’affermazione, prima nel partito (di cui riprese la guida a fine ’24) poi nel paese. Contribuirono all’ascesa l’attenzione meticolosa che prestava alla sua immagine, l’uso effi-

tutti gli ebrei, considerati, in quanto “popolo senza patria”, i portatori del virus della dissoluzione morale, responsabili a un tempo dei misfatti del capitalismo e di quelli del bolscevismo, causa e simbolo vivente della decadenza della civiltà europea. Una volta ricostituita la propria unità in un nuovo Stato, attorno a un capo in grado di interpretare i bisogni profondi del popolo, i tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati anch’essi inferiori. La ricerca dello spazio vitale a oriente avrebbe permesso di far coincidere l’espansione territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo. Questo programma, in apparenza irrealistico, aveva trovato scarsi consensi nella Germania di Weimar. Nelle elezioni del maggio 1928, infatti, i nazisti ottennero appena il 2,5% dei voti. Ma con lo scoppio della grande crisi economica, la maggioranza dei tedeschi, colpiti per la terza volta in poco più di un decennio (dopo i traumi della guerra e della grande inflazione), perse fiducia nella Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. In questa situazione i nazisti poterono uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della grande borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Ai suoi concittadini provati dalla crisi Hitler offriva non solo la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della nazione tedesca, non solo l’indicazione rassicurante di una serie di capri espiatori cui addossare la responsabilità delle disgrazie del paese, ma anche l’immagine tangibile di una forza politica in grado di ristabilire l’ordine contro “traditori” e “nemici interni”.

La crisi economica e l’ascesa dei nazisti

cace e consapevole dei mezzi di comunicazione (radio, cinema, giornali) e la forza emotiva e suggestiva delle grandi esibizioni pubbliche, in cui era primo protagonista e regista. Il partito, ora denominato Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, divenne una comunità retta dalla fede in Hitler, che si presentava come un messia, come il capo e la guida (il Führer) del suo popolo, fornito di quel potere che Max Weber, ai primi del secolo, aveva definito carismatico, in quanto fondato su un dono, su una presunta qualità straordinaria (appunto il carisma), di cui il capo sarebbe dotato, sulla consapevolezza di una missione da compiere in nome di tutto il popolo. Irraggiungibile, intoccabile, non umano, lo definì la moglie di Joseph Goebbels, che pure fu fra le persone a lui più vicine. Allo stesso modo avrebbe potuto definirlo Eva Braun, sua amante dagli anni ’30. Hitler apprezzava la compagnia delle donne, era prodigo di lusinghe, ma le considerava “graziosi gingilli” in un mondo maschile. Nonostante queste relazioni, non si può dire che Hitler avesse una vita privata: la sua esistenza era tutta assorbita dal ruolo pubblico. Non gli mancavano le fissazioni: salutista (quasi astemio e vegetariano, non fumava e non beveva caffè), maniaco della pulizia, ipocondriaco. Il Terzo Reich fu, sotto molti punti di vista, lo specchio della sua personalità. Il tem-

peramento non metodico, l’ostilità al lavoro sistematico finirono per influenzare gli aspetti amministrativi del regime, in cui si crearono poteri conflittuali, legittimati solo dal Führer, che aveva sempre l’ultima parola. Il suo potere carismatico aveva bisogno di continui successi per alimentarsi, in un dinamismo continuo e distruttivo. Dinamismo che, associato all’obiettivo di un dominio assoluto sull’Europa, condusse alla seconda guerra mondiale, la cui responsabilità storica, unita a quella dello sterminio ebraico, pesa tutta su Hitler. Le prime vittoriose fasi della guerra, dalla Polonia alla Francia, ne rafforzarono il mito agli occhi dei tedeschi, ma più la sconfitta si avvicinava più Hitler si distaccava dalla realtà, si sottraeva alla dimensione

pubblica. Il capo carismatico si nascose agli occhi del suo popolo, rintanandosi nel bunker sotto la Cancelleria. Lì, il 30 aprile 1945, pose fine alle illusioni di vittoria, suicidandosi con Eva Braun. Una settimana dopo, la resa totale della Germania chiuse la guerra in Europa. Fra le macerie delle città tedesche lo spettro di Hitler si sarebbe aggirato ancora a lungo; troppo profonde le cicatrici morali inflitte dal nazismo, con la negazione totale dei valori della civiltà, perché il congedo fosse rapido o indolore per il popolo tedesco. Hitler studia le sue pose da oratore davanti alla macchina fotografica 1930 [foto di Heinrich Hoffmann; Bundesarchiv, Coblenza]

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C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il cancelliere Heinrich Brüning [►7_4] convocò nuove elezioni, sperando di far uscire dalle urne una maggioranza favorevole a una politica di austerità, ritenuta necessaria per fronteggiare gli effetti della crisi economica. Accadde invece che i nazisti ebbero uno spettacoloso incremento (dal 2,5 al 18,3% dei voti) a spese soprattutto della destra tradizionale, mentre i comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici. L’aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che, mentre le forze antisistema si ingrossavano, i partiti fedeli alla Repubblica non disponevano più della maggioranza. Il ministero Brüning continuò a governare per altri due anni grazie al sostegno del vecchio presidente Hindenburg, che si valse sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla Costituzione nei casi di emergenza. Ma in quei due anni le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andava precipitando.

Il governo Brüning

Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. La produzione industriale calò del 50% rispetto al 1928 e i senza lavoro raggiunsero i 6 milioni: ciò significava che la disoccupazione toccava, direttamente o indirettamente, la metà delle famiglie tedesche. Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante (un milione e mezzo di iscritti) e riempivano le piazze con comizi [►5_2] e cortei. Le città divennero teatro di scontri sanguinosi fra nazisti e comunisti, di agguati, di spedizioni punitive: nei soli mesi di luglio e agosto si registrarono più di 150 morti. Il dissesto economico e l’esplodere della violenza andarono di pari passo con il collasso del sistema politico. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali tenute a pochi mesi di distanza l’una dall’altra non fecero che confermare la crescita delle forze eversive e l’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza “costituzionale”. Si cominciò, nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici non trovarono di meglio che appoggiare la rielezione dell’ottantacinquenne maresciallo Hindenburg [►5_5]. Quest’ultimo fu eletto con un margine abbastanza netto su Hitler (che ottenne comunque ben 13 milioni di voti, pari al 37%). Ma, una volta confermato nella carica, cedette alle pressioni dei militari e della grande industria, congedò il primo ministro Brüning e cercò una via d’uscita dalla crisi prendendo atto dello spostamento a destra dell’asse politico.

Il collasso della Repubblica

A guidare il governo furono chiamati due uomini della destra conservatrice, il cattolico Franz von Papen e, poi, il generale Kurt von Schleicher, consigliere personale del presidente. Entrambi i tentativi, privi di una base parlamentare, si risolsero in un fallimento. Nelle due successive elezioni politiche che Papen fece convocare nella vana speranza di procurarsi una maggioranza, i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco: 37% dei voti in luglio, il doppio che nelle elezioni del 1930, e 33% in novembre. I gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi che senza di loro non era possibile governare.

I governi di destra

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Manifesto tedesco per le elezioni del 1932, «La nostra ultima speranza: Hitler» Con poche parole e un’immagine efficace, il manifesto di propaganda pre-elettorale racconta lo stato d’animo del popolo tedesco, duramente colpito dalla crisi economica all’inizio degli anni ’30: una folla di persone dallo sguardo smarrito a cui non rimane che votare Hitler e credere alle sue promesse.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Il 30 gennaio 1933 Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici e in cui erano rappresentate tutte le più importanti componenti della destra. Gli esponenti conservatori credettero di aver ingabbiato Hitler – così come, una decina di anni prima, i liberali italiani si erano illusi di aver neutralizzato Mussolini – e di poter utilizzare il nazismo per un’operazione di pura marca conservatrice. Si sarebbero presto resi conto di aver sbagliato grossolanamente i loro calcoli.

Hitler capo del governo



METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia nel paragrafo le teorie sulla razza che Hitler espresse nel suo libro Mein Kampf.  b  Leggi con attenzione i primi tre sottoparagrafi e realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) selezionando le parole chiave relative all’ascesa di Hitler e del suo partito e attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti. Quindi argomenta la tua scelta.  c  Individua e numera le tappe che portarono dalla crisi di Weimar all’affermazione di Hitler al potere. Quindi descrivi per iscritto le cause che favorirono questo percorso.

8_4 LA COSTRUZIONE DEL REGIME

► Leggi anche:

Per trasformare lo Stato liberale italiano in una dittatura monopartitica Mussolini aveva impiegato circa quattro anni. A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un regime pienamente totalitario [►FS, 62d]. L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico quanto oscuro: l’incendio appiccato alla sede del Reichstag, il Parlamento nazionale, nella notte del 27 febbraio 1933, una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione elettorale. L’arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato come l’autore materiale dell’incendio, fornì al governo il pretesto

► Eventi La “notte dei lunghi coltelli”, p. 316

L’incendio del Reichstag

I vigili del fuoco tentano di spegnere l’incendio del Reichstag a Berlino 27 febbraio 1933 A Berlino, la notte del 27 febbraio 1933, un incendio di vaste proporzioni distrugge in poco più di due ore l’edificio che ospitava il Parlamento tedesco, il Reichstag. L’incendio, di cui vengono accusati i comunisti, fornisce il pretesto a Hitler per far approvare una serie di misure eccezionali fra cui la soppressione della libertà di stampa.

LE TAPPE DELL’ASCESA DEL NAZISMO

1923: Hitler viene imprigionato per il tentato colpo di Stato a Monaco

1925: pubblicazione di Mein Kampf

1928: il Partito nazista ottiene il 2,5% dei voti alle elezioni politiche

1930: nelle nuove elezioni i nazisti salgono al 18,3% dei voti 1932: con il 37% dei voti, quello nazista diventa il primo partito tedesco

1933: Hitler viene nominato cancelliere

1934: Hitler concentra su di sé le cariche di cancelliere e capo dello Stato

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per un’imponente operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione. Nelle successive elezioni del 5 marzo i nazisti ottennero un numero di voti (il 44%) che, uniti a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un’ampia base parlamentare. Ma Hitler mirava ormai all’abolizione del Parlamento. E il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di modificare la Costituzione. Nel giugno 1933 la Spd fu sciolta dopo che era stata soppressa la Confederazione dei sindacati liberi, di ispirazione socialdemocratica. Una sorte non molto migliore toccò a quei partiti che avevano favorito o assecondato l’avvento del nazismo. Alla fine di giugno il Partito tedesco-nazionale, espressione della destra conservatrice, si autosciolse su pressione dei nazisti. La stessa cosa fece di lì a poco il Centro cattolico. In luglio Hitler poteva varare una legge che proclamava il Partito nazionalsocialista unico partito legale in Germania. Infine, in novembre, una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo “plebiscitario”, su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli.

I pieni poteri

EVENTI

La “notte dei lunghi coltelli”

E

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ra l’alba del 30 giugno 1934 quando ­l’aereo personale di Hitler atterrò a Monaco, da dove, alla testa di una lunga colonna di automobili, il cancelliere raggiunse l’albergo Hanselbauer presso la località termale di Bad Wiessee. Pistola in pugno, Hitler entrò nella stanza dove il capitano Ernst Röhm, comandante delle SA, ancora dormiva e lo dichiarò in arresto per tradimento. Era iniziata la «notte dei lunghi coltelli», la resa dei conti di Hitler con i vertici delle SA. Legate strettamente a Hitler sin dalla loro istituzione, nel 1920, le SA costituivano la milizia armata del Partito nazista. Strumento di repressione e minaccia, si erano rivelate decisive per la conquista del potere. Röhm, fra i primi membri del Partito nazista, stava però maturando orientamenti sempre più distanti da quelli di Hitler. Ritenendo che la rivoluzione nazionalsocialista non si fosse realizzata pienamente con l’ascesa di Hitler al governo, e che i conservatori detenessero ancora le leve del potere, Röhm invocava una “seconda rivoluzione”. Per questo mirava a fare della milizia di partito il vero esercito tedesco, in sostituzione dell’esercito nazionale (la Reichswehr, drasticamente ridotta nei suoi effettivi dal trattato di Versailles), che sarebbe stato così sommerso dalla “marea bruna” delle SA (dal colore delle divise naziste). Se la violenza delle SA allarmava il ceto medio, le loro idee insurrezionali spaventavano i conservatori, che chiedevano un paese stabile e un’autorità statale indiscussa. Sullo sfondo c’era lo stato di salute compromes-

so del presidente Hindenburg e il problema della sua successione. Le speranze dei conservatori convergevano, infatti, sulla figura del vice cancelliere Franz von Papen, con l’obiettivo di instaurare una dittatura militare o restaurare la monarchia. Hitler non poteva correre questo rischio. Con il sostegno dei vertici del partito scelse di agire contro l’irrequieta milizia. Non era facile, però liquidare le SA, che nel 1934 contavano quasi tre milioni di membri e si distinguevano per un crescente attivismo, con frequenti comizi e parate. Hitler allertò sia le SS sia l’esercito e la polizia segreta contro un’imminente rivolta delle SA e il rischio di un colpo di Stato. Illazioni diffuse ad arte: fra le SA non c’era un reale progetto di ribellione, i vertici erano fedeli a Hitler, tanto che Röhm inviò in licenza gran parte delle sue formazioni, mentre Hitler si preparava ad agire contro di loro. Quando, il 29 giugno, alcuni reparti delle SA sfilarono a Monaco, Hitler aveva già pianificato l’operazione-lampo, a cui sovraintese di persona. Il giorno seguente, nel ministero degli Interni per la Baviera, fu lui a strappare i gradi ai comandanti delle SA locali. A Bad Wiessee fu arrestato tutto lo stato maggiore, a partire dal comandante. A mezzogiorno Hitler denunciò ai vertici del partito il «più nero tradimento nella storia del mondo», accusando Röhm di aver ricevuto denaro dalla Francia per farlo arrestare. Promettendo una punizione esemplare, diede ordine di uccidere i sei comandanti già inviati alla prigione

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

di Stadelheim. Furono fucilati seduta stante, senza neanche un processo sommario: fu detto loro solo che erano condannati a morte da Hitler. In una cella della stessa prigione era stato rinchiuso Röhm, ma non era ancora il suo momento. Mentre continuavano su scala nazionale le esecuzioni dei vertici delle SA, a Berlino scattava la seconda fase dell’operazione, rivolta contro l’opposizione conservatrice: furono fucilati i più stretti collaboratori di von Papen e lo stesso vicecancelliere fu messo agli arresti domiciliari. Hitler sfruttò l’occasione anche per saldare i vecchi conti: fece uccidere Gregor Strasser (vecchio rivale di Hitler nel partito), il generale von Schleicher, l’ultimo cancelliere prima del nazismo, che fu assassinato nella sua biblioteca, di fronte alla moglie e alla domestica, nonché il suo collaboratore, il generale von Bredow. Fra le esecuzioni sommarie anche quelle di von Kahr, ex commissario generale di Stato in Baviera, che pagò per aver ostacolato il colpo di Stato di Hitler del 1923, e di padre Stempfle, fra i curatori di Mein Kampf, poi allontanatosi dal partito. Morì anche un critico musicale, vittima di uno scambio di persona con un comandante delle SA. Gli assassinii avvennero per lo più sul posto, per la strada, negli uffici, con brutale noncuranza. Tornato a Berlino in serata, Hitler mise fine all’operazione, in parte sfuggita al suo controllo. Il giorno seguente diede un ricevimento nel giardino della Cancelleria, per dimostrare di aver recuperato il controllo e ristabilito la sicurezza del paese. Occorreva però ancora decidere le sorti di Röhm. Scartata l’idea di un processo esemplare, si

Di fronte a Hitler restavano ancora due ostacoli: da una parte l’ala estremista del nazismo, rappresentata soprattutto dalle SA di Röhm che invocavano apertamente una “seconda ondata” rivoluzionaria ed erano poco disposte a sottomettersi al controllo dei poteri legali; dall’altra la vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg e dai capi dell’esercito, che chiedevano in termini ultimativi a Hitler di frenare i rigurgiti estremisti e di tutelare le tradizionali prerogative delle forze armate. Hitler, che temeva anche lui l’autonomia delle SA e che, già da qualche anno, aveva provveduto a formare una sua milizia personale, le SS (sigla di Schutz-Staffeln, “squadre di difesa” ►FS, 63), decise di risolvere il problema nel modo più drastico e a lui più congeniale: con un massacro che fece inorridire il mondo civile. Nella notte del 30 giugno 1934, la “notte dei lunghi coltelli”, reparti delle SS assassinarono Röhm insieme con tutto lo stato maggiore delle SA.

La “notte dei lunghi coltelli”

Hitler capo dello Stato

La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler in cambio della testa di Röhm fu l’assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg. Quando il vecchio maresciallo morì, nell’agosto del ’34, Hitler si trovò

scelse di indurlo al suicidio. Gli furono portati nella cella del carcere di Stadelheim una pistola e la copia dell’edizione straordinaria del quotidiano “Völkischer Beobachter”, con i dettagli del tradimento di cui era accusato. Dopo dieci minuti, in cui non si erano uditi spari, Röhm fu ucciso. Era il 1° luglio; il giorno seguente fu annunciata la fine dell’operazione, e fu dato fuoco alla documentazione. Si salvò, però, materiale sufficiente per accertare i nomi di 85 vittime, di cui solo 50 appartenenti alle SA (le stime complessive parlano però di 150-200 uccisi). La comunità internazionale condannò la carneficina, condotta con metodi da malavita. In Germania le reazioni furono altre: il presidente Hindenburg espresse la sua gratitudine a Hitler, come il ministro della Difesa Blomberg. Il ministro della Giustizia Gürt­ner fornì sanzione legale agli omicidi, presentandoli come misure dettate dall’interesse di Stato. Il 13 luglio Hitler si presentò in Parlamento, dove assunse la piena responsabilità degli omicidi, definendoli necessari e presentandosi come il responsabile del destino della nazione tedesca, giudice supremo del popolo. Alla legge si sostituiva così una ragione di Stato dittatoriale e omicida. Il Parlamento accettò la versione ufficiale. Röhm e i vertici delle SA furono dati in pasto alla propaganda: ne furono denunciate con enfasi l’immoralità e la corruzione, l’abuso di denaro e l’omosessualità. Hitler fu visto come il restauratore dell’ordine, come il purificatore del movimento, e il suo consenso crebbe. Le Chiese, nonostante fosse stato ucciso anche Erich Klausener, dirigente dell’Azione

cattolica, rimasero in silenzio. L’esercito, nonostante l’assassinio di due generali, fece lo stesso. Il più illustre giurista del paese, Carl Schmitt, pubblicò un articolo dall’eloquente titolo Il Führer salvaguarda la legge. Le SA, guidate ora dal fedelissimo Viktor Lutze, continuarono ad essere impiegate dal regime – la loro azione violenta fu rivolta contro le minoranze –, ma non ebbero più alcuna possibilità di condizionare i poteri dello Stato. L’esercito poteva festeggiare la sconfitta dei rivali, ma era un falso trionfo: il 30 giugno

lo legò ancora di più a Hitler. A beneficiare dell’azione furono le fedeli SS, che divennero un organismo più autonomo e potente. Soprattutto, dopo il 30 giugno divennero chiare le conseguenze di qualsiasi gesto di opposizione a Hitler. Hitler nel 1931, mentre conversa con due importanti esponenti del movimento nazionalsocialista, Hermann Göring (a sinistra) e il capo delle SA, Ernst Röhm (al centro)

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così, in virtù di una legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello Stato. Ciò significava, fra l’altro, l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà a Hitler (quindi al nazismo): in prospettiva, la fine di quell’autonomia dal potere politico di cui i generali tedeschi si erano mostrati così gelosi. Le conseguenze sarebbero apparse chiare pochi anni dopo, nel febbraio ’38, quando Hitler decise di assumere personalmente il comando supremo delle forze armate. Con la vittoria di Hitler in Germania (uno degli Stati più progrediti e più forti d’Europa), la crisi dei regimi e dei valori democratici subì una forte accelerazione. In tutta l’Europa centro-orientale si assisté, a partire dal ’33, al rafforzamento delle tendenze dittatoriali e militariste nei paesi già soggetti a regimi autoritari (fu il caso dell’Ungheria, della Polonia, della Jugoslavia, della Bulgaria), alla nascita di nuove dittature di stampo monarchico-fascista (in Grecia nel ’36, in Romania nel ’38). Crebbero nel contempo i movimenti estremisti e violentemente antisemiti (come le Croci frecciate in Ungheria o la Guardia di ferro in Romania) che più direttamente si richiamavano all’esempio del nazismo e su questa base contestavano gli stessi regimi autoritari dei loro paesi. Anche nella Repubblica austriaca, il regime clericale e autoritario del cancelliere Dollfuss – che pure aveva represso sanguinosamente la protesta operaia scoppiata nella capitale e aveva messo fuori legge il Partito socialdemocratico [►6_8] – era minacciato dai nazisti locali, fautori dell’annessione alla Germania.

I movimenti filonazisti



Il presidente von Hindenburg e il cancelliere Adolf Hitler sfilano in auto alla festa nazionale del lavoro a Berlino 10 maggio 1933

METODO DI STUDIO

 a  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, descrivi sinteticamente gli eventi indicati in ogni titolo spiegando il ruolo dei soggetti (singoli e collettivi) nel contesto dell’ascesa di Hitler al potere.  b  Cerchia le due cariche assunte da Hitler nel 1934.

8_5 POLITICA E IDEOLOGIA DEL TERZO REICH

Con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime tracce del sistema repubblicano. Nasceva il Terzo Reich, il terzo Impero (dopo il Sacro romano impero medievale e quello nato nel 1871). Nel nuovo regime si realizzava pienamente quel “principio del capo” (Führerprinzip) che costituiva un punto cardine della dottrina nazista. Il capo (Führer è l’equivalente tedesco di “duce”) non era soltanto colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del diritto; non era solo la guida del popolo, ma anche colui che sapeva esprimerne le autentiche aspirazioni. Il rapporto tra capo e popolo passava esclusivamente attraverso la mediazione del partito unico e delle altre organizzazioni del regime, come il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati, o le organizzazioni giovanili che facevano capo alla Hitlerjugend (Gioventù hitleriana). Compito di queste organizzazioni era trasformare l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata. Dalla “comunità di popolo” erano esclusi per definizione gli elementi “antinazionali”, i cittadini di origine straniera o di discendenza non “ariana” e soprattutto gli ebrei, investiti come si è detto del ruolo di capro espiatorio, di obiettivo predeterminato del malcontento popolare [►FS, 61].

Il Führer e le masse

Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500 mila su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto accadeva nei paesi dell’Europa orientale, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città (quasi 200 mila nella sola Berlino) e, pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti (un terzo dei medici e degli avvocati delle grandi città erano ebrei), intellettuali e artisti; parecchi avevano

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Gli ebrei tedeschi

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

► Leggi anche: ► Personaggi Adolf Hitler, il Führer del nazismo, p. 312

posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta finanza. Nei confronti di questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale (oltre 100 mila ebrei avevano combattuto nell’esercito tedesco durante la Grande Guerra), la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità – contro la diversità etnica e religiosa e contro il presunto privilegio economico – che erano largamente diffusi, soprattutto fra le classi popolari, in tutta l’Europa centro-orientale. La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga (dal nome della città in cui annualmente si tenevano i congressi del Partito nazista) che tolsero agli ebrei la nazionalità tedesca, e con essa i diritti politici, e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei. Successivamente agli ebrei fu impedito di avere attività industriali e commerciali; di esercitare determinate professioni (come la medicina e l’avvocatura), di ricoprire incarichi statali e direttivi. Alla discriminazione “legale” si accompagnava una crescente emarginazione dalla vita sociale: il che spinse molti ebrei – circa 200 mila fra il ’33 e il ’39 – ad abbandonare la Germania. La persecuzione antisemita subì un’ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938, quando, traen­do pretesto dall’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom [►1_8] in tutta la Germania. Quella fra il 9 e il 10 novembre ’38 fu chiamata notte dei cristalli per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che furono infrante dalla furia dei dimostranti. Ma vi furono conseguenze ben più gravi: sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei uccisi e migliaia arrestati. Da allora in poi per gli ebrei rimasti in Germania la vita divenne pressoché impossibile: taglieggiati nei loro beni, privati del lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e di nuove misure repressive. Finché, a guerra mondiale già iniziata, Hitler non concepì il progetto mostruoso di una soluzione finale del problema: soluzione che prevedeva la deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico.

Dalla discriminazione alla persecuzione

La persecuzione antiebraica fu la manifestazione più vistosa e più orribile della politica razziale nazista, ma non fu l’unica. Essa si inquadrava in un più vasto programma di difesa dell’integrità della “razza” che comportò, fra l’altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e, dalla fine degli anni ’30, anche la soppressione dei malati di mente classificati come incurabili. Si trattava di pratiche incompatibili coi fondamenti dell’etica cristiana, che suscitarono reazioni di rivolta morale e di contenuta protesta in alcuni settori della società tedesca: reazioni che indussero il regime a sospendere il programma impropriamente detto di “eutanasia”. Fu uno dei rari casi in cui si manifestò una frattura fra una parte della società civile e un regime che in generale poggiava su un’ampia base di consenso.

La difesa della razza

La stella di Davide con la scritta “Jude” (ebreo), usata dai nazisti come marchio d’infamia

Boicottaggio di un negozio di ebrei a Berlino 1º aprile 1933 Le azioni naziste contro gli ebrei iniziarono già nell’anno della presa del potere con un boicottaggio indetto dal partito che “invitava” i tedeschi a non comprare da imprese di proprietà di ebrei. Il giorno del boicottaggio, membri delle SA stazionarono minacciosamente davanti a tutte le attività commerciali di proprietà ebraica, dai grandi magazzini ai piccoli negozi, agli uffici dei professionisti come medici e avvocati. Su migliaia di porte e finestre fu dipinta in giallo e nero la stella di Davide, accompagnata da slogan antisemiti, come quello ritratto nella foto, che recita: «Tedeschi! Difendetevi! Non comprate dagli ebrei!».

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Fino a quando non fu definitivamente sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese resistenze efficaci ed estese. L’opposizione comunista, quasi annientata dopo l’incendio del Reichstag, riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isolati nuclei clandestini. La socialdemocrazia, per nulla preparata alla lotta illegale, fece sentire la propria voce solo attraverso gli esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del Partito del Centro, finirono con l’adattarsi al regime, incoraggiati anche dall’atteggiamento della Chiesa di Roma che, nel luglio del ’33, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo 1937, di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, papa Pio XI intervenne con un’enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e pratiche che sempre più rivelavano il loro carattere “pagano”. Ma non vi fu, né allora né in seguito, una denuncia del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo. Se pochi furono i problemi creati al regime dalla minoranza cattolica, deboli furono anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le Chiese luterane, per lo più orientate in senso conservatore e tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Führer. Solo una minoranza di ministri del culto (la cosiddetta “Chiesa confessante”) si oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò perseguitata.

La debolezza delle opposizioni

Come spiegare la debolezza dell’opposizione al nazismo in un paese che aveva un fortissimo proletariato industriale e che, fin quando aveva potuto esprimersi liberamente, aveva dato una parte rilevante dei suoi consensi alla sinistra? È necessario mettere in conto, in primo luogo, la vastità e l’efficienza dell’apparato repressivo e terroristico: i diversi corpi di polizia – da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, all’onnipresente “servizio di sicurezza” delle SS – che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini [►FS, 63]; i campi di concentramento (Lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la regia di speciali reparti delle SS, a un lento annientamento. La repressione poliziesca e i Lager possono spiegare la debolezza del dissenso, ma non bastano a spiegare le dimensioni del consenso al regime. Una prima risposta sta nei successi di Hitler in politica estera, di cui parleremo più avanti [►8_9]. Un altro importante fattore di consenso fu senza dubbio la ripresa economica. Superato già nel ’33 il momento più acuto della crisi, la produzione industriale tornò in pochi anni ai livelli del ’28, per superarli nel ’38-39. Grazie all’impulso dato ai lavori pubblici e soprattutto alla politica di riarmo messa in atto da Hitler, la disoccupazione diminuì rapidamente: fra il ’33 e il ’36 i disoccupati si ridussero da 6 milioni a 500 mila. Nel ’39, alla vigilia della seconda guerra mondiale, era stata raggiunta la piena occupazione.

Repressione e consenso

I successi in economia e in politica estera non basterebbero però a spiegare l’ampiezza del consenso al regime se non si tenesse conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell’anima popolare. Attraverso la stampa, i discorsi del Führer, i film di propaganda, il nazismo propose ai tedeschi un’utopia reazionaria e “ruralista”: un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una società patriarcale di contadini-guerrieri, libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà industriale. Questo ideale – ovviamente irrealizzabile in una società industrializzata e altamente urbanizzata come quella tedesca – contrastava in modo stridente con la prassi concreta del regime, sospinto dalla sua logica bellicistica a favorire lo sviluppo della grande industria. Ma si innestava su una solida tradizione culturale nazionale, di origine soprattutto romantica, fondata sui miti della terra e del sangue; e rifletteva uno stato d’animo, largamente diffuso a livello popolare, di istintivo rifiuto della civiltà moderna e di rimpianto per un passato preindustriale dipinto in forme idilliache.

Un’utopia antimoderna

La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che per diffondere un’utopia antimoderna il regime si serviva dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di pace un Ministero per la Propaganda che, affidato all’abilissimo Joseph Goebbels, divenne uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo e 320

Propaganda e comunicazioni di massa

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Hitler a un raduno nazista a Norimberga 1938

inglobata in un unico apparato alle dipendenze del ministero. Gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale (la Camera di cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non vollero piegarsi furono costretti al silenzio od obbligati a lasciare il paese. Oltre a sfruttare abilmente i nuovi mezzi di comunicazione di massa, il potere nazista seppe utilizzare in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi da feste e cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e soprattutto adunate di massa culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti. Queste cerimonie-spettacolo erano preparate con estrema cura: la scenografia doveva essere solenne e monumentale, il colpo d’occhio suggestivo, la coreografia impeccabile. L’importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava a questi aspetti di parata. Nella grande adunata il cittadino trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la METODO DI STUDIO  a  Individua nel paragrafo il significato dell’espressione Terzo Reich e spievita delle grandi città non offriva spontaneamente; trovava galo oralmente mettendolo in relazione ai due imperi precedenti. quegli elementi “sacrali” che aveva perso col tramonto del b Leggi con attenzione il paragrafo e realizza una “nuvola di parole chiave” la vecchia società contadina, il cui ritmo era appunto scan(tag clouds) selezionando quelle relative al Terzo Reich (indicane almeno due dito da feste e da riti. Era questo un fenomeno, ha scritto lo per ogni sottoparagrafo) e attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti. Quindi descrivi in una didascalia il Terzo Reich usando la nuvola da storico George L. Mosse, «che non può essere classificato te realizzata come scaletta e mettendo in rilievo gli aspetti che afferiscono alle con i tradizionali canoni della teoria politica. [Era] una reliparole chiave che hai scritto con il font di dimensioni maggiori. gione laica, la prosecuzione, dai tempi primordiali e cristia c  Sottolinea la risposta alle seguenti domande: a. Quali erano i lavori praticati in prevalenza dagli ebrei tedeschi? b. Quale fu l’accusa rivolta agli ebrei a ni, di un modo di considerare il mondo attraverso il mito e il seguito dell’uccisione di un diplomatico tedesco nel 1938? Quali le conseguenze? simbolo, di manifestare le proprie speranze e timori in forc. Che cosa s’intende con l’espressione “soluzione finale”? me cerimoniali e liturgiche».

Le cerimonie pubbliche

321

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE



8_6 L’URSS E L’INDUSTRIALIZZAZIONE FORZATA

Negli anni della grande depressione e del fascismo trionfante, lavoratori e intellettuali antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza all’Unione Sovietica: il paese che tentava di costruire una nuova società fondata sui princìpi del socialismo e che si presentava come l’estrema riserva dell’antifascismo mondiale. Non solo: mentre gli Stati capitalistici si dibattevano nelle spire della grande crisi, l’Urss, in virtù del suo stesso isolamento economico, non ne era affatto toccata, anzi si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo di industrializzazione.

L’Urss e l’antifascismo

La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all’esperienza della Nep – che aveva reintrodotto elementi di parziale liberalizzazione economica [►5_7] – fu presa da Stalin tra il ’27 e il ’28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell’opposizione di sinistra che proprio sulla priorità dell’industrializzazione aveva impostato la sua battaglia. Del resto quasi tutto il gruppo dirigente comunista aveva sempre considerato la Nep come una soluzione transitoria. L’idea – comune a Lenin e a tutto il Partito bolscevico – dell’industrializzazione come presupposto insostituibile della società socialista si univa alla convinzione, forte soprattutto in Stalin, che solo un deciso impulso all’industria pesante avrebbe potuto fare dell’Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche.

La fine della Nep

Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un’economia totalmente collettivizzata e altamente industrializzata fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta e di venderla sul mercato arricchendosi alle spalle del popolo. Dopo una prima fase caratterizzata da misure restrittive e sistematiche requisizioni dei loro prodotti, a partire dall’estate ’29 i kulaki furono espropriati di terre, bestiame e mezzi di produzione e inquadrati a forza nelle fattorie collettive, i cosiddetti kolchozy [►5_7]. Queste misure avevano l’obiettivo di “eliminare i kulaki come classe” e di procedere immediatamente alla collettivizzazione del settore agricolo.

La campagna contro i kulaki

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Sergej V. Gerasimov, Festa della raccolta in un kolchoz 1937 [© Sergej V. Gerasimov, by SIAE 2018] La propaganda sovietica ricorse sistematicamente all’uso delle immagini per “elevare il livello di coscienza delle masse”. Gli artisti dovettero mettere il loro talento al servizio del regime e ricreare nelle loro opere una visione idilliaca della realtà, popolata di nuovi eroi dai volti sorridenti e dai corpi atletici. Le correnti artistiche come la pittura informale e l’astrattismo vennero messe al bando quali “degenerazioni” mutuate dall’Occidente capitalistico. Il dipinto, tipico esempio di realismo socialista, mostra come un kolchoz sia un luogo di abbondanza e di fraternità.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

7_VALORE DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE IN RUSSIA SULLA BASE DEI PREZZI DEL 1926-27 (IN MILIARDI DI RUBLI)

Anni

Beni strumentali

Beni di consumo

Totali

1913

4,7

6,3

11,0

1920

0,8

0,9

1,7

1928

7,8

9,0

16,8

1932

21,6

17,2

38,8

1936

49,1

31,8

80,9

La tabella indica l’entità dello sforzo di industrializzazione compiuto dall’Urss negli anni ’30. Beni strumentali sono tutti quelli che servono alle imprese per svolgere le loro attività: dai macchinari agli automezzi, dagli attrezzi ai mobili per ufficio.

8_LA PRODUZIONE INDUSTRIALE DEI MAGGIORI PAESI IN PERCENTUALE RISPETTO A QUELLA MONDIALE

Anni

Stati Uniti

Germania

Francia

Gran Bretagna

Russia (Urss dal 1922)

1913

35,8%

14,3%

14,1%

7,0%

4,4%

1926-29

42,2%

11,6%

9,4%

6,6%

4,3%

1936-38

21,2%

10,7%

9,2%

4,5%

18,5%

La tabella mostra come la crescita dell’Unione Sovietica nel campo industriale sia tale da collocarla, alla fine degli anni ’30, alle spalle degli Stati Uniti.

Contro questa linea prese posizione Nikolaj Bucharin, nucollettivizzazione mero due del regime e convinto teorico della Nep, che sosteProvvedimento con cui lo Stato o un altro ente sancisce neva la necessità di non spezzare l’alleanza fra operai e contadini. Ma la maggioche una unità di produzione (azienda agricola o ranza del partito si schierò con Stalin: Bucharin e i suoi seguaci, condannati nel industriale) o una intera risorsa produttiva (la terra, le 1930 come “deviazionisti di destra”, subirono una sorte analoga a quella dell’oppominiere, le fabbriche, ecc.) venga sottratta ai singoli proprietari e resa proprietà statale. sizione “di sinistra”. E il gruppo dirigente comunista procedette sulla via della collettivizzazione forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di una inevitabile, sanguinosa repressione. Non solo i contadini ricchi, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive furono considerati “nemici del popolo”. Migliaia furono i fucilati dopo processi sommari. Centinaia di migliaia gli arrestati. Milioni di contadini furono deportati con le loro famiglie in Siberia o nella Russia settentrionale, chiusi in campi di lavoro forzato o abbandonati in terre inospitali.

La collettivizzazione

Agli effetti della repressione si sommarono quelli di una nuova spaventosa carestia (dopo quella del 1921 [►5_7]). Culminata negli anni 1932-33, e a lungo nascosta al mondo, la nuova carestia fu determinata da una serie di fattori concomitanti: l’inefficienza di una macchina organizzativa troppo grande e troppo centralizzata per tener conto delle situazioni locali; la resistenza dei contadini che, in molti casi, preferirono macellare subito il bestiame piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive; ma anche la cinica determinazione delle autorità centrali che non solo non aiutarono in alcun modo la popolazione affamata, ma insistettero nella politica delle requisizioni, decise com’erano a stroncare con tutti i mezzi ogni possibile resistenza. Gli effetti furono terribili in termini di costi umani: fra il ’29 e il ’33 i kulaki, che in tutta l’Urss erano circa 5 milioni, scomparvero non solo “come classe”, ma in gran parte anche come persone fisiche. Nella sola Ucraina, in quegli stessi anni, le vittime ammontarono, secondo calcoli recenti, a 4 milioni, fra cui numerosissimi bambini. Ma anche il bilancio economico dell’operazione fu, nell’immediato, disastroso: solo alla fine degli anni ’30 la produzione agricola, grazie al massiccio impiego di macchine e concimi, tornò ai livelli dei tempi della Nep, mentre, per l’allevamento, si dovettero attendere gli anni ’50. In compenso, fra deportazioni, morti per fame e fuga nelle città, l’eccesso di popolazione nelle campagne fu drasticamente ridotto e la grande maggioranza dei contadini (oltre il 90% nel 1939) fu inserita nelle fattorie collettive.

La grande carestia

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C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

Il vero scopo di quella che lo stesso Stalin definì una “rivoluzione dall’alto” era però favorire l’industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli, anche se inferiori a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l’industria, varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire, frutto più di una decisione politica che di un calcolo economico. La crescita del settore fu comunque imponente e si svolse con ritmi che nessun paese capitalistico aveva mai conosciuto fino ad allora. Nel 1932 la produzione industriale era aumentata, rispetto al ’28, di circa il 50% e il numero degli addetti all’industria era passato da 3 milioni scarsi a oltre 5 milioni. Col secondo piano quinquennale (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i 10 milioni.

I piani quinquennali

Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione di risorse – resa a sua volta possibile da un gigantesco prelievo di ricchezza a spese dell’intera popolazione e soprattutto dei ceti rurali – ma anche dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia intorno agli obiettivi del piano e che permise ai lavoratori dell’industria di sopportare sacrifici pesanti, anche se non paragonabili a quelli dei contadini, in termini di consumi individuali e di ritmi lavorativi. Gli operai furono infatti sottoposti a una disciplina severissima, ai limiti della militarizzazione, ma furono anche stimolati con incentivi materiali che premiavano in modo vistoso i lavoratori più produttivi. Il caso di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, diventato famoso per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di esaltazione del lavoro, detto appunto stachanovismo, sostenuto dalle autorità ed esaltato da Stalin.

Lo stachanovismo

L’eco di questi successi varcò i confini dell’Urss galvanizzando i comunisti di tutto il mondo, che ne trassero auspici per un prossimo trionfo della rivoluzione nell’Occidente capitalistico, e suscitando ammirazione anche presso esponenti di altri schieramenti politici. Intellettuali sin allora lontani dai partiti comunisti ne divennero simpatizzanti o

Il mito dell’Unione Sovietica

324

Un lavoratore modello: Aleksej Stachanov 1935 ca. [Library of Congress, Washington] Stimolando il senso di emulazione dei lavoratori, il regime staliniano riuscì a presentare un lavoro massacrante come una sorta di competizione sportiva. In questa fotografia, il volto del minatore-eroe appare sorridente e non segnato dalla fatica.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

aderenti. Meno noti fuori dall’Urss erano i costi umani e politici di quell’impresa. Pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne. E pochi si resero conto che il clima creatosi nel paese in coincidenza col lancio dei piani quinquennali – un clima di esal­ tazione collettiva, ma anche di sospetto e di repressione giustificata con l’esigenza di colpire i “sabotatori” – era il più adatto ad accentuare i tratti totalitari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin.



METODO DI STUDIO

 a  Continua la frase sottolineando sul testo la parte conclusiva: “Nella Russia di Stalin si attuò una collettivizzazione forzata ovvero...”.  b  Spiega per iscritto chi erano i kulaki, quale fu la loro sorte e perché.  c  Realizza e compila una tabella a doppia entrata sulla Russia di Stalin i cui indicatori siano “Elementi di forza e sviluppo” e “Criticità”. Quindi spiega come mai la maggior parte della popolazione non si ribellò ai costi umani imposti da Stalin.  d  Seleziona le parole chiave principali relative alla Russia di Stalin e inizia una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) che continuerai nel paragrafo successivo attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti.

8_7 LO STALINISMO, LE GRANDI PURGHE, I PROCESSI

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Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco – ma anche dal consenso spontaneo di milioni di lavoratori che vedevano in lui il continuatore dell’opera di Lenin e l’artefice dell’industrializzazione – Stalin finì con l’assumere in Urss un ruolo di capo assoluto, non diverso da quello svolto nello stesso periodo dai dittatori di opposta sponda ideo­ logica [►FS, 59]. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo. Era l’autorità politica suprema, ma anche il depositario della “autentica” dottrina marxista – anzi marxista-leninista, secondo la formula codificata negli anni ’30 – e al tempo stesso il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica, da qualunque parte avanzata, assumeva i caratteri odiosi del tradimento.

Il potere di Stalin

► Eventi Stalin, il burocrate d’acciaio, p. 326

Le stesse attività intellettuali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi interpreti autorizzati: uno di questi, Andrej Zdanov, sarebbe assurto alla fine degli anni ’30 al ruolo di controllore di tutto il LO STALINISMO settore culturale. La letteratura, il cinema, la musica e le arti figurative furono sottoposte a un regime di rigida censura e costrette a svolgere una funzione propagandistico-pedagoEliminazione dei kulaki gica entro i canoni del cosiddetto realismo socialista: il che in pratica significava limitarsi alla descrizione e all’esaltazioCollettivizzazione ne della realtà sovietica. La storia recente fu riscritta per forzata dell’agricoltura mettere meglio in luce il ruolo di Stalin e cancellare quello di Creazione di fattorie collettive (kolchozy) Trotzkij e degli altri oppositori sconfitti ed emarginati alla fine degli anni ’20. Persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo e scienziati illustri furono perseguitati Militarizzazione del lavoro per aver sostenuto teorie giudicate non ortodosse.

Il controllo sulla cultura

Questa deriva totalitaria, che si accentuò nel corso degli anni ’30, era in parte già implicita nei caratteri del bolscevismo e nella prassi autoritaria inaugurata da Lenin subito dopo la presa del potere. Ma Stalin introdusse nella gestione di questo sistema elementi di spietatezza e arbitrio, riconducibili anche ad alcuni aspetti patologici della sua personalità, che peraltro non gli impedivano di ragionare in termini di cinico rea­ lismo: non si limitò a combattere i nemici della rivoluzione, ma eliminò buona parte del gruppo dirigente comunista e tutti coloro che considerava rivali reali o potenziali [►FS, 64]. E fece sparire assieme a loro migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti di “deviazionismo” o soltanto invisi alla polizia politica.

Le radici del terrore staliniano

Piani quinquennali per l’industrializzazione

Calo dei consumi Stachanovismo

Controllo sulla cultura e propaganda Repressione del dissenso

Processi sommari ed epurazione di massa Reclusione nei Gulag

325

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

PERSONAGGI

Stalin, il burocrate d’acciaio

E

326

ra consueto per i rivoluzionari russi dei primi del ’900 utilizzare degli pseudonimi. Josif Vissarionovič Džugašvili cambiò molte volte il proprio nome prima di decidere, nel 1912, di chiamarsi Stalin (da stal’, in russo “acciaio”, dal tedesco stahl), per indicare l’immagine di un uomo disposto ad affrontare ogni difficoltà, pur di realizzare i propri progetti. Sono poche le notizie certe che riguardano la sua infanzia: Stalin non ne parlava quasi mai e alcuni studiosi ritengono falsa anche la sua data di nascita ufficiale, il 21 dicembre 1879. Era georgiano e i suoi genitori provenivano da una famiglia di servi della gleba che avevano lasciato la campagna per raggiungere Gori. Il futuro leader sovietico nacque in questa cittadina della Georgia, dove i Džugašvili conducevano una vita di estrema povertà. Sebbene suo padre non volesse farlo studiare, sua madre riuscì a iscriverlo a una scuola religiosa. Josif si dimostrò particolarmente capace: imparava a memoria i testi sacri con grande rapidità. Ottenne una borsa di studio e raggiunse il seminario di Tbilisi nel 1894 per diventare un prete ortodosso. Con il passare del tempo, però, il giovane Džu­gašvili capì di preferire alle Sacre Scritture gli scritti rivoluzionari e in particolare «Iskra» (“La scintilla”), il giornale diretto da Lenin. A diciannove anni lasciò il seminario e cominciò a girovagare per il Caucaso. Viveva con lavori saltuari e frequentava i circoli politici clandestini. Nel 1903 aderì alla frazione bolscevica del Partito operaio socialdemocratico. Fu arrestato sette volte e in cinque occasioni riuscì a evadere. Stalin era diverso dagli altri capi rivoluzionari: lontano dagli ambienti intellettuali europei, frequentati dai russi in esilio, interessato all’organizzazione politica piuttosto che alle discussioni teoriche sul marxismo, si concentrava sui problemi nazionali dell’Impero russo, trascurando la prospettiva internazionalista tipica dei bolscevichi. Inoltre, fatto alquanto raro per un agitatore politico, non amava parlare in pubblico: i suoi discorsi erano monotoni e noiosi. Ma non era un politico privo di formazione culturale: studiava molto ed era un lettore estremamente vorace. Nel 1912 Lenin scelse Stalin come membro del Comitato centrale del partito dopo aver letto un suo saggio intitolato Il marxismo e la questione nazionale. Quando ebbe inizio la rivoluzione del 1917, Stalin si trovava

al confino in una regione del circolo polare artico e raggiunse Pietrogrado a marzo. Durante gli eventi di ottobre Stalin svolse incarichi di secondo piano, ma già era evidente la sua tendenza alla brutalità nell’azione politica. Divenne comunque un autorevole esponente del Partito bolscevico durante la guerra civile, soprattutto come uomo di fiducia di Lenin. Il rapporto fra i due leader sovietici non fu però privo di contrasti. Stalin considerava Lenin un modello da imitare, un maestro da cui apprendere. Eppure, in più di un’occasione, si trovò in disaccordo con il capo dei bolscevichi. Lenin apprezzava l’efficienza di Stalin. Eppure espresse nel suo “testamento politico”, mai reso pubblico all’epoca, un giudizio molto negativo su di lui. Dopo la morte di Lenin, nel 1924, Stalin, divenuto segretario generale del Pcus nel 1922, conquistò il completo ­controllo del partito, unendo la sua conoscenza del­l’apparato all’intrigo politico: sconfisse Trotzkij, alleandosi con Zinov’ev e Kamenev, per poi estrometterli grazie all’aiuto di Bucharin, a sua volta espulso dal partito nel 1929. Ma l’origine della sua fortuna politica non risiede soltanto nel suo spregiudicato opportunismo. Stalin, infatti, fu capace di interpretare e guidare una voce profonda del bolscevismo: quella che voleva completare la rivoluzione interna, costruire uno Stato forte e industrializzato. Il tentativo di raggiungere tali obiettivi e l’attitudine alla violenza politica del leader georgiano resero lo stalinismo uno dei fenomeni più cruenti della storia del ’900. La collettivizzazione forzata della fine degli anni ’20 fu il più evidente esempio della ferocia staliniana. L’intero gruppo dirigente della rivoluzione d’ottobre cadde sotto la scure staliniana negli anni ’30. Ma la maggior parte delle vittime del terrore, fucilate o recluse nei Gulag, furono cittadini comuni ritenuti dal regime, per vari motivi, potenziali nemici interni. Lo stesso leader sovietico coordinava questo sistema di repressione di massa, firmando di suo pugno le condanne a morte. Con la vittoria nella seconda guerra mondiale, l’Urss divenne una grande potenza militare e politica: il dittatore aveva guidato la “Grande guerra patriottica” contro l’invasione delle truppe tedesche ed era diventato un simbolo del sentimento nazionale russo, tanto che anche l’icono-

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Ritratto fotografico di Josif Stalin Anni ’30

grafia di Stalin fu modificata, attenuando i tratti caucasici del suo volto. Dopo la guerra, impose il modello politico ed economico sovietico alle nazioni dell’Europa orientale che erano state liberate dal nazismo dall’Armata rossa e aprì la stagione della contrapposizione con il mondo capitalista occidentale (la cosiddetta “guerra fredda”). La sconfitta di Hitler segnò inoltre l’apogeo internazionale del mito di Stalin, alimentato dal consenso dei partiti comunisti di tutto il mondo: milioni di persone ammiravano e sostenevano il dittatore sovietico, ignorando, sottovalutando oppure giustificando gli orrori della sua politica. Un fenomeno che coinvolse anche una parte significativa del mondo intellettuale dell’Occidente. La sera del 5 marzo 1953 Radio Mosca annunciò la morte di Stalin. Al suo funerale partecipò una enorme folla e più di cento persone morirono travolte dalla ressa. Ma fin da subito emerse nell’Urss il desiderio di rimuovere l’ingombrante memoria del dittatore: sulla «Pravda», il quotidiano del Partito comunista sovietico, del 25 marzo 1953 il nome di Stalin era citato più di centocinquanta volte, ma già il 1° aprile era praticamente scomparso da ogni giornale pubblicato in Unione Sovietica.

Il Gulag Perm-36 al confine con la Siberia: esterno, cella per quattro persone e cortile Il Gulag Perm-36, uno degli ultimi campi di lavoro ad essere costruito ai piedi degli Urali, in una regione particolarmente colpita dal freddo invernale, è stato trasformato in un museo sugli orrori dei Gulag, l’unico nel suo genere in tutta l’ex Unione Sovietica. Qui i detenuti vivevano in condizioni estreme, lavoravano più di 10 ore al giorno, in qualsiasi condizione meteorologica, tagliando legna dai boschi vicini. Perm-36 ha continuato a funzionare come campo di lavoro forzato fino al 1987, “ospitando”, ancora molto oltre la morte di Stalin, i contestatori del regime.

La macchina del terrore indiscriminato aveva cominciato a funzionare già negli anni del primo piano quinquennale e della collettivizzazione: vittime principali erano stati i contadini e tutti coloro che potevano essere accusati di ostacolare lo sforzo produttivo. Nel 1934, l’assassinio – probabilmente organizzato dallo stesso Stalin – di Sergej Kirov, astro nascente del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto per un’imponente ondata di arresti che colpirono in larga misura gli stessi quadri del partito. Cominciava così la stagione delle “grandi purghe”, ossia delle epurazioni di massa che periodicamente colpivano dirigenti politici o intere categorie di cittadini, sempre giustificate con la necessità di combattere traditori e nemici di classe. Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca che fu condotta nell’arbitrio più assoluto: milioni di persone, spesso senza neanche conoscere le accuse a loro carico, furono deportate nei numerosi campi di lavoro disseminati nelle zone più inospitali dell’Urss e chiamati, con termine tedesco, “Lager”: quell’universo a cui molti anni dopo lo scrittore Aleksandr Solženicyn avrebbe dato il nome di “Arcipelago Gulag” [►FS, 65d].

La macchina del terrore: “purghe” e Gulag

Ancora peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi, formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura, in cui gli imputati si confessavano colpevoli di complotti tramati immancabilmente d’intesa con i “trotzkisti” e con gli agenti del fascismo internazionale. In questo modo furono eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin – Zinov’ev e Kamenev furono Gulag fucilati nel ’36, Bucharin nel ’38 – ma anche molti stretti collaboratori del dittatore, Il termine “Gulag”, usato per indicare l’universo inghiottiti dalla stessa macchina che avevano contribuito a creare. Lo stesso concentrazionario staliniano, è in realtà una sigla burocratica Trotzkij, esule dal ’29 e animatore dall’estero di un’instancabile polemica antistaliche sta per “Amministrazione centrale dei Lager”. niana, fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin.

I processi agli oppositori

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C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

La repressione non risparmiò alcun settore della società. Professionisti e intellettuali, tecnici e scienziati scomparvero a migliaia nei campi di concentramento. Nel ’37 una drastica epurazione colpì i quadri delle forze armate: furono eliminati circa 20 mila ufficiali, a cominciare dal maresciallo Tuchačevskij, capo dell’Armata rossa. Si calcoMETODO DI STUDIO la che, tra il ’37 e il ’38, circa 700 mila persone perirono a causa delle purghe. Fra  a  Continua la “nuvola di parole chiave” (tag l’inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il clouds) che hai iniziato nel paragrafo precedente conto totale delle vittime ammontò a 10-11 milioni. attribuendo un font di dimensioni più grandi alle

Un tragico bilancio

Le “grandi purghe” e i processi degli anni ’30 provocarono Gli echi in Occidente notevole impressione in Occidente. Nel complesso, però, la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo negli ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano la scarsità di informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi ideologici – in particolare l’idea, di origine giacobina, che una certa dose di terrore fosse componente indispensabile di ogni grande rivoluzione – e soprattutto le remore politiche: troppo prezioso era il contributo dell’Unione Sovietica e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo. Così l’immagine di Stalin riuscì a passare indenne attraverso il drammatico periodo delle persecuzioni di massa e il regime comunista sovietico continuò a esercitare il suo fascino su milioni di lavoratori europei.



parole più importanti. Quindi descrivi in una didascalia la Russia di Stalin usando la nuvola da te realizzata come scaletta e mettendo in rilievo gli aspetti che afferiscono alle parole chiave che hai scritto con il font di dimensioni maggiori.  b  Spiega il significato delle espressioni “grandi purghe” staliniane e “Arcipelago Gulag” e indica a chi erano rivolte e quali erano le loro funzioni nel disegno politico di Stalin.  c  Cerchia i nomi dei politici russi citati e indica se erano oppositori o alleati di Stalin. Quindi specificane la sorte e motivala.  d  Seleziona nel testo la risposta alle seguenti domande: a. Come reagiva l’opinione pubblica occidentale alle notizie provenienti dall’Urss? b. Perché?

8_8 LE DEMOCRAZIE E I FRONTI POPOLARI

Se già la grande crisi aveva distrutto le basi economiche della cooperazione fra vinti e vincitori e fra Europa e Stati Uniti, l’avvento al potere di Hitler diede un colpo definitivo all’equilibrio internazionale faticosamente costruito nella seconda metà degli anni ’20, all’insegna della “sicurezza collettiva” [►5_6]. La prima importante decisione del governo nazista in materia di politica estera fu, nell’ottobre ’33, il ritiro della delegazione tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze (comprese Usa e Urss) cercavano di giungere a un accordo sulla limitazione degli armamenti. Seguì, pochi giorni dopo, il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni. Queste decisioni, con le quali Hitler mostrava chiaramente di non sentirsi legato al “sistema di Locarno” e agli impegni assunti dai governi precedenti, destarono allarme in tutta Europa.

La fine della sicurezza collettiva

Anche l’Italia fascista, nonostante le indubbie affinità ideologiche e nonostante il comune atteggiamento revisionista, cioè critico nei confronti dell’assetto internazionale stabilito a Versailles, dovette preoccuparsi per le mire aggressive tedesche. Quando in Austria, nel luglio del ’34, gruppi nazisti ispirati da Berlino tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss [►8_4] al fine di preparare l’unificazione fra Austria e Germania, Mussolini reagì immediatamente facendo schierare quattro divisioni al confine italo-austriaco. Hitler, che non era ancora pronto per una guerra, fu costretto a far marcia indietro.

L’assassinio di Dollfuss

Meno di un anno dopo (aprile 1935) Hitler reintrodusse in Germania la coscrizione obbligatoria vietata dal trattato di Versailles. Di fronte a questa palese violazione degli accordi internazionali, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per ribadire la validità dei trattati e per riaffermare il loro interesse all’indipendenza dell’Austria, senza peraltro adottare misure concrete contro le ambizioni tedesche. Fu questa l’ultima manifestazione di solidarietà fra le tre potenze vincitrici. Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l’aggressione all’Impero etiopico [►9_5], dando avvio al riavvicinamento fra Italia e Germania.

La conferenza di Stresa

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La svolta della politica estera sovietica

Intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo e insperato sostegno proprio nel paese che fino ad allora era rimasto – per sua e per altrui volontà – completamente estraneo a tutte le iniziative nate nell’ambito della Società

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

delle nazioni: l’Unione Sovietica. Fino al ’33 la politica estera dell’Urss si era ispirata a una linea dura e spregiudicata: rifiuto dei trattati di Versailles, nessuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie borghesi. I successi di Hitler, che non aveva mai fatto mistero dei suoi progetti ostili nei confronti della Russia, indussero Stalin a intraprendere la strada della cooperazione internazionale. Nel settembre ’34 l’Urss entrò nella Società delle Nazioni e nel maggio ’35 stipulò un’alleanza militare con la Francia. Questa brusca svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido capovolgimento della linea seguita dal Comintern e dai partiti comunisti europei. Fu accantonata la tattica della contrapposizione frontale alle forze democratico-borghesi e più ancora alle socialdemocrazie, fino ad allora accusate di favorire “oggettivamente” il fascismo o addirittura di costituire “un’ala del fascismo” (da cui l’espressione polemica socialfascismo): una tattica che, dividendo la sinistra, aveva contribuito a spianare la strada al nazismo in Germania. La nuova parola d’ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del Comintern (Mosca, agosto 1935) fu quella della lotta al fascismo, indicato ora come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti non solo con gli altri partiti operai, ma anche con le forze democratico-borghesi, di favorire ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni dette “fronti popolari” (dove l’aggettivo stava a indicare il passaggio in secondo piano degli obiettivi più propriamente socialisti), allo scopo di appoggiare i governi democratici decisi a combattere il fascismo.

L’Internazionale comunista e i fronti popolari

Questa linea, se da una parte era funzionale alla nuova politica estera dell’Urss, dall’altra fu il risultato di una pressione unitaria della base operaia europea, spaventata dalla minaccia fascista. Questa spinta si avvertì soprattutto in Francia, dove l’instabilità governativa e il susseguirsi degli scandali politico-finanziari mettevano a dura prova le istituzioni repubblicane, dando spazio alla crescita della destra reazionaria e dei movimenti filofascisti. Quando, il 6 febbraio 1934, l’estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento (interrotta dall’intervento della polizia) per impedire l’insediamento del governo presieduto dal radicale Daladier, socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie, le prime dopo molti anni. Fu questo il segno di un riavvicinamento che anticipava e preparava la svolta dell’Internazionale comunista e che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in Francia e in altri paesi, di patti di unità d’azione fra socialisti e comunisti.

I fatti del febbraio ’34 in Francia

Manifestazione del Fronte popolare in Francia 24 maggio 24 maggio 1936

La nuova linea unitaria ebbe l’effetto di rinfrancare un movimento operaio depresso da una lunga serie di sconfitte e di far rinascere la speranza che fosse possibile fronteggiare vittoriosamente il fascismo con l’unità fra tutte le forze di sinistra. Queste speranze si sarebbero rivelate illusorie. L’av­vicinamento fra l’Urss e le democrazie e il rilancio della politica di sicurezza collettiva non bastarono a fermare, nel ’35, l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia [►9_5]; né poterono impedire che, nella primavera del ’36, Hitler violasse un’altra clausola di Versailles reintroducendo truppe tedesche nella Renania “smilitarizzata” [►4_11]. La passività mostrata in questa occasione dalle democrazie, che non intervennero contro una Germania militarmente ancora debole, avrebbe oggettivamente incoraggiato i piani aggressivi di Hitler.

La rimilitarizzazione della Renania

Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta dopo la grande rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra l’opportunità di assumere il governo nelle democrazie occidentali. Nel febbraio 1936, una coalizione di fronte popolare

I governi di fronte popolare

329

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

comprendente anche i comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno, in Francia il netto successo elettorale delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto dall’esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Léon Blum. L’insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu accompagnato da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare. La Francia repubblicana e socialista parve ritrovare per un momento l’atmosfera fra esaltata e festosa delle rivoluzioni ottocentesche. Gli operai dell’industria diedero vita a un’imponente ondata di scioperi e di occupazioni di fabbriche, strappando a un padronato riluttante, grazie anche alla decisiva mediazione del governo, la firma degli storici accordi di Palazzo Matignon (giugno 1936), che prevedevano, oltre a consistenti aumenti salariali, la riduzione della settimana lavorativa a quaranta ore e la concessione di quindici giorni di ferie pagate. Sebbene andassero incontro a esigenze più che legittime (le due settimane di ferie, ad esempio, erano state conquistate in altri paesi europei già nell’immediato dopoguerra ed erano in vigore anche in Italia e in Germania), gli accordi di Palazzo Matignon crearono notevoli difficoltà all’economia francese, che non si era ancora ripresa dalla grande depressione. L’improvviso aumento del costo del lavoro pregiudicò la competitività dei prodotti dell’industria e innescò un rapido processo inflazionistico che vanificò in gran parte i vantaggi salariali conseguiti dai lavoratori. L’inflazione, e la contemporanea fuga dei capitali all’estero, costrinsero i governi di fronte popolare a due successive svalutazioni del franco. Divenuto bersaglio della violenta ostilità degli ambienti industriali e finanziari, oltre che delle ricorrenti minacce dell’estrema destra, il governo Blum si dimise nel giugno del ’37 senza essere riuscito a condurre in porto un organico programma di riforme. La maggioranza di sinistra resistette ancora per un anno, prima di dissolversi a causa dei continui contrasti fra i radicali e i partiti operai. Nella primavera del ’38, mentre la situazione internazionale si andava rapidamente deteriorando, l’esperienza del Fronte popolare poteva considerarsi già chiusa.

Declino e caduta del Fronte popolare in Francia



Manifesto a favore della settimana lavorativa di 40 ore 1936 «La settimana di 40 ore libererà le famiglie operaie dall’inquietudine e dalla miseria generate dalla disoccupazione». METODO DI STUDIO

 a   Individua e numera le iniziative internazionali di Hitler che generarono timori fra i paesi europei.  b   Completa la seguente affermazione: «I fronti popolari erano alleanze tra i partiti comunisti europei e ............................ al fine di ........................... ..... Il loro esito fu ................................».  c   Spiega che cosa era il fronte di Stresa e se riuscì nel suo intento.

8_9 LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA

Fra il 1936 e il 1939, mentre in Francia si consumava l’esperienza del Fronte popolare, la Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile: un conflitto che si caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno scontro fra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. Scoppiata in un momento di forti tensioni internazionali, la guerra civile spagnola contribuì a sua volta ad aggravarle. Ma le sue origini furono essenzialmente nazionali e vanno ricondotte ai contrasti che avevano lacerato il paese nella prima metà degli anni ’30. Dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera e la caduta della monarchia [►6_8], la Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale, che aveva visto succedersi un fallito colpo di Stato militare (estate ’32) e una violenta insurrezione anarchica nella regione delle Asturie (autunno ’34). Alle tensioni che percorrevano l’intera Europa negli anni della grande depressione si sommavano quelle specifiche di un paese arretrato e prevalentemente agricolo qual era allora la Spagna, dove qualsiasi tentativo riformatore si scontrava da un lato contro l’ottusità di un ceto dominante reazionario, dall’altro contro le tendenze sovversive e antistatali di un proletariato fortemente influenzato dalle ideologie anarco-sindacaliste. La Spagna era l’unico paese al mondo in cui il maggiore sindacato (la Cnt) fosse controllato dagli anarchici. Ma era anche

330

Le tensioni sociali

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

uno degli Stati in cui più si faceva sentire il peso dell’aristocrazia terriera, che possedeva oltre il 40% delle terre coltivate ed era strettamente legata a una Chiesa, a sua volta schierata in gran parte su posizioni conservatrici e tradizionaliste. Queste tensioni condizionarono pesantemente anche la vita politica della Spagna repubblicana, che pure si era data, nel 1932, una Costituzione democratica molto avanzata. Il quadro delle forze in campo non era in apparenza molto diverso da quello di altri paesi europei: a sinistra c’era un forte partito socialista (mentre scarso era il peso dei comunisti), ma si faceva sentire anche la presenza degli anarchici; a destra i gruppi cattolico-conservatori apertamente ostili alla Repubblica; al centro, come in Francia, i partiti di ispirazione radicale e democratico-repubblicana. Ma queste forze politiche, divise su tutto, erano accomunate da una concezione strumentale della democrazia, che le portava a rispettare i verdetti elettorali solo quando erano favorevoli alla propria parte. Da un lato i socialisti facevano ampie concessioni alla retorica rivoluzionaria e appoggiavano ogni movimento di contestazione politica e sociale. Dall’altro i cattolico-conservatori non si riconoscevano nella Costituzione repubblicana, guardavano con favore a un possibile intervento dei militari e non facevano mistero della loro simpatia per i regimi autoritari e fascisti.

Le forze politiche

Quando, nel febbraio 1936, le sinistre unite in una coalizione di Fronte popolare si affermarono nelle elezioni politiche, le tensioni accumulate esplosero in tutto il paese. Le masse proletarie vissero la vittoria come l’inizio di una rivoluzione sociale: un’ondata di collera popolare si rivolse contro i grandi proprietari, i notabili conservatori e soprattutto contro il clero cattolico. I gruppi di destra risposero con la violenza squadristica, in cui si distinsero le formazioni della Falange, che si ispiravano al modello fascista.

La vittoria del Fronte popolare

Una guerra civile di fatto era dunque già in corso, quando un gruppo di militari, seguendo una consolidata tradizione nazionale, decise di ribellarsi al governo repubblicano. L’evento scatenante fu l’uccisione, il 13 luglio 1936, da parte di poliziotti repubblicani, dell’esponente monarchico-conservatore José Calvo Sotelo. A guidare la ribellione fu una giunta di cinque generali, in cui il ruolo predominante fu assunto dal poco più che quarantenne Francisco Franco, a capo delle truppe coloniali di stanza in Marocco. I ribelli, detti nazionalisti, assunsero inizialmente il controllo di gran parte della Spagna occidentale; le prime fasi dello scontro parvero però favorevoli al governo repubblicano che, appoggiato da una parte delle stesse forze armate e sostenuto da un’intensa mobilitazione popolare (si organizzarono corpi volontari e si distribuirono armi alla popolazione), mantenne il controllo della capitale e delle regioni del Nord-Est, le più ricche e industrializzate.

Il colpo di Stato

Joan Miró, «Aiutate la Spagna» 1937 [© Successió Miró, by SIAE 2018] La guerra civile spagnola mobilitò gran parte della cultura artistica e letteraria europea e americana. Il pittore catalano Joan Miró disegnò questo manifesto per sostenere la causa repubblicana.

Ciò che fece pendere la bilancia a favore dei nazionalisti di Franco fu il comportamento delle potenze europee. Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Mussolini inviò in Spagna un contingente di 50 mila “volontari” (ma si trattava in realtà di reparti regolari) oltre a notevoli quantità di materiale bellico, mentre Hitler fornì soprattutto aerei e piloti e si servì della guerra per sperimentare l’efficienza della sua aviazione. Nessun aiuto venne invece alla Repubblica da parte delle potenze democratiche. Frenato dagli alleati inglesi e preoccupato dal rischio di uno scontro aperto con gli Stati fascisti, il governo francese di Fronte popolare si astenne da ogni aiuto palese ai repubblicani e si illuse di bloccare gli aiuti al campo opposto promuovendo un accordo generale fra le grandi potenze per il non intervento nella crisi spagnola. Sottoscritto, nell’agosto del ’36, anche da Italia e Germania, l’accordo fu però rispettato solo da Francia e Gran Bretagna.

Gli interventi esterni

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C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

L’unico Stato a portare aiuto alla Repubblica fu l’Urss, che non solo rifornì il governo spagnolo di materiale bellico ma favorì, attraverso il Comintern, la formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in buona parte da comunisti ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi, fra cui non pochi intellettuali di prestigio, come l’americano Ernest Hemingway, il francese André Malraux, l’inglese George Orwell. Numerosi furono gli italiani e i tedeschi che trovarono nella guerra l’occasione per combattere in campo aperto quella battaglia che non potevano affrontare in patria. «Oggi in Spagna, domani in Italia» fu lo slogan lanciato da Carlo Rosselli a nome dell’emigrazione antifascista italiana. L’intervento dei volontari antifascisti ebbe un significato morale e politico largamente superiore a quello militare, che pure non fu trascurabile (lo si vide nella battaglia di Guadalajara del marzo ’37, quando gli italiani della Brigata Garibaldi inflissero una sconfitta ai loro connazionali inquadrati nei reparti fascisti). Ma non bastava a controbilanciare gli appoggi internazionali di cui godevano i franchisti.

Le Brigate internazionali

Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche indeboliti politicamente dalle loro divisioni interne. Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo (“duce, condottiero”), si guadagnava l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, dell’aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata e realizzava l’unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange nazionalista (ma con i falangisti della prima ora ridotti in posizione subalterna), il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora spaventati dagli eccessi ASTURIE di violenza cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici. Mentre i nazionalisti mettevano in piedi nei loro territori uno StatoFRANCIA dai chiari connotati autoritari, i repubblicani si scontravano fra loro sull’organizzazione presente e futura della società e sul modo stesso di comGuernica battere la guerra.

Le divisioni fra i repubblicani

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i tedeschi bombardano i civili, 1937

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13_LA GUERRA DI SPAGNA

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LA GUERRA DI SPAGNA, 1936-39 nazionalisti, luglio 1936

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LA GUERRA DI SPAGNA, 1936-39 ALGERIA

nazionalisti, luglio 1936 nazionalisti, ottobre 1937 nazionalisti, luglio 1938 nazionalisti, febbraio 1939 repubblicani, febbraio 1938 U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE principali attacchi dei nazionalisti principali attacchi dei repubblicani

La cartina mostra come, nella fase iniziale della guerra civile spagnola, le forze fedeli alla Repubblica controllassero la maggior parte del paese, compresa la capitale. L’avanzata dei franchisti fu lenta e sistematica: si sarebbe conclusa solo nel marzo 1939 con la caduta di Madrid.

Pablo Picasso, Guernica 1937 [Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid; © Succession Picasso, by SIAE 2018] Pablo Picasso realizzò questa opera, tra le più famose del XX secolo, nel 1937 dopo che i

giornali europei pubblicarono le foto della città basca di Guernica, distrutta dal bombardamento condotto dalla legione aerea tedesca Condor ed effettuato con il tacito assenso dei franchisti. Il tragico episodio viene simbolicamente rappresentato dall’artista attraverso il linguaggio

cubista, che taglia animali e persone in una visione da incubo e dove non vi è traccia di colore se non nei toni cupi del bianco, grigio e nero. La tela, dalle imponenti dimensioni, diventò uno dei più potenti manifesti artistici di lotta alla barbarie e agli orrori della guerra.

Particolarmente grave era il contrasto che divideva gli anarchici – insofferenti di qualsiasi disciplina militare e di ogni compromesso politico – dagli altri partiti della coalizione: a cominciare dai comunisti, favorevoli, in omaggio alla strategia dei fronti popolari, a una linea relativamente moderata, tale da non rompere l’unità con le forze democratico-borghesi. Il contrasto assunse toni drammatici soprattutto nella primavera del ’37, quando a Barcellona gli anarchici si scontrarono armi in pugno con i comunisti e l’esercito regolare repubblicano. I comunisti che, grazie al legame con l’Urss, godevano di un’influenza sproporzionata alla loro modesta consistenza numerica, adottarono nei confronti degli anarchici metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin: numerosi militanti scomparvero fra il ’37 e il ’38 e un intero partito, il Poum, nato dalla confluenza fra trotzkisti e anarco-sindacalisti, fu liquidato anche con l’intervento di agenti sovietici.

Anarchici e comunisti

Le divisioni nel fronte repubblicano contribuirono a far svanire quel clima di entusiasmo popolare che aveva caratterizzato le prime fasi della resistenza antifranchista e facilitarono l’offensiva delle forze nazionaliste: un’offensiva lenta ma sistematica e spietata, volta a eliminare non solo ogni sacca di resistenza militare, ma anche ogni possibile centro di dissidenza politica. La sorte della guerra fu segnata nella primavera del ’38, quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio controllato dai repubblicani separando Madrid dalla Catalogna. Abbandonata da tutti (anche il Comintern decise in autunno il ritiro delle Brigate internazionali), la Repubblica spagnola resistette ancora per quasi un anno. All’inizio del ’39, i nazionalisti sferrarono l’offensiva finale che si concluse, in marzo, con la caduta di Madrid.

La sconfitta repubblicana

Tre anni di guerra civile lasciarono nel paese una pesante eredità di lutti e distruzioni: circa 500 mila morti (ai quali vanno aggiunte le decine di migliaia di vittime di una feroce repressione protrattasi per molti anni), quasi 300 mila emigrati politici, un dissesto economico di proporzioni incalcolabili. Terminata pochi mesi prima dello scoppio del secondo

Un bilancio tragico

333

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

conflitto mondiale, la guerra civile spagnola ne rappresentò per molti aspetti un sinistro preludio: non solo perché ne prefigurò, almeno in parte, gli schieramenti (Urss e democrazie contro gli Stati fascisti) e ne anticipò il carattere di “guerra ideologica”, ma anche perché in Spagna furono adottati per la prima volta metodi e tecniche di guerra (i bombardamenti dei centri abitati, le rappresaglie, i rastrellamenti) che l’Europa e il mondo avrebbero presto sperimentato su ben più ampia scala.



METODO DI STUDIO

 a  A margine del paragrafo individua e numera i tre momenti che videro la Spagna passare dal governo semidittatoriale del 1923 a quello di Francisco Franco, attraverso l’esperienza del Fronte popolare. Quindi descrivili sinteticamente sul quaderno.  b  Sottolinea le informazioni principali relative ai seguenti aspetti della guerra di Spagna: a. i governi europei e franchisti; b. le Brigate internazionali, foraggiamento e composizione; c. le divisioni interne al fronte repubblicano.  c  Spiega per iscritto in che modo si concluse la guerra civile in Spagna e perché essa rappresentò un preludio della seconda guerra mondiale.

8_10 L’EUROPA VERSO LA GUERRA

Nel periodo in cui si combatté la guerra di Spagna, la marcia dell’Europa verso la catastrofe di un secondo conflitto generale subì una paurosa accelerazione. Il fattore scatenante dell’accresciuta tensione fu senza dubbio la politica della Germania hitleriana. Il comportamento arrendevole tenuto da Gran Bretagna e Francia in tutte le occasioni di confronto con le potenze fasciste convinse Hitler di poter accelerare i tempi per la realizzazione del suo programma. Programma che, come abbiamo visto, prevedeva prima la distruzione dell’assetto europeo uscito da Versailles, con la riunione di tutti i tedeschi in un unico “grande Reich”, poi l’espansione verso est ai danni della Russia.

L’espansionismo hitleriano

I piani hitleriani non comportavano necessariamente una guerra contro le potenze occidentali. Al contrario, Hitler sperò fino all’ultimo di poter evitare uno scontro con la Gran Bretagna, a patto naturalmente che la Gran Bretagna lasciasse campo libero alle mire tedesche in Europa centro-orientale. In questa speranza fu indubbiamente incoraggiato dalla linea seguita dai conservatori britannici, soprattutto a partire dal maggio ’37, quando la guida del governo fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che allora fu chiamata politica dell’appeasement (in inglese, “pacificazione”): una politica basata sul presupposto che fosse possibile “ammansire” Hitler accontentandolo nelle sue rivendicazioni più “ragionevoli” e risarcendo in qualche modo la Germania del duro trattamento subìto a Versailles. Il presupposto era sbagliato, visto che i programmi di Hitler non erano affatto ragionevoli. Ma l’idea dell’appeasement riscosse ugualmente notevole successo perché rispondeva a una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell’opinione pubblica inglese, incline al pacifismo (anche i laburisti, che contestavano l’appeasement in nome dell’antifascismo, si opponevano poi a qualsiasi politica di riarmo) e poco convinta, nel fondo, dell’equità del trattato di Versailles. La più coerente opposizione alla politica di Cham­berlain venne da un’esigua minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill, convinti che l’unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di affrontare subito una guerra.

Chamberlain e l’appeasement

Quanto alla Francia, che era stata negli anni ’20 la prima garante dei trattati di Versailles, essa fu attraversata in questo periodo, oltre che da profonde lacerazioni politiche, da una sorta di crisi morale che ne minò la capacità di reazione. In Francia la paura della Germania era, per ovvi motivi di vicinanza geografica, più sentita che in Gran Bretagna. Ma ancora più forte era la paura di una nuova guerra: troppo recente era il trauma del primo conflitto mondiale, costato un prezzo altissimo in vite umane. Sentendosi protetti dalla linea Maginot [►5_6], i francesi si chiedevano se valesse la pena rischiare un nuovo terribile scontro armato per difendere la Russia comunista o i lontani alleati dell’Est europeo. Ad alimentare queste perplessità concorrevano sia il tradizionale pacifismo dei socialisti sia l’aperto filofascismo di una destra tanto spaventata dal Fronte popolare da dimenticare le sue tradizioni nazionaliste («meglio Hitler che Blum» fu lo slogan di moda in quegli anni negli ambienti reazionari). Così la Francia, che restava almeno sulla carta la prima potenza militare d’Europa, si adattò a una politica timida e oscillante, sostanzialmente subalterna a quella del-

334

La crisi della Francia

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

la Gran Bretagna. E ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di successi senza nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di ricostituzione. Un successo clamoroso Hitler lo ottenne nel marzo 1938 con l’annessione (Anschluss) dell’Austria al Reich tedesco. Era questo un obiettivo che il Führer, austriaco di nascita, aveva particolarmente a cuore e che aveva già tentato di raggiungere nell’estate del ’34 [►8_8]. Allora ne era stato impedito dalla decisa reazione delle potenze occidentali, in particolare dell’Italia. Ma quando, all’inizio del ’38, Hitler rilanciò la questione dell’Anschluss, mobilitando i nazisti austriaci e costringendo alle dimissioni il cancelliere Schuschnigg, Mussolini rinunciò a opporsi alle pretese tedesche. Né alcuna reazione venne dal governo britannico, che considerava la questione austriaca fuori dalla sua sfera di interessi e riteneva non del tutto infondata la rivendicazione dell’Anschluss (l’Austria era un paese di lingua tedesca, che già in passato si era mostrato favorevole all’unificazione). L’11 marzo 1938 il capo dei nazisti austriaci Seyss-Inquart, nuovo capo del governo, chiese ufficialmente l’intervento dell’esercito tedesco “per salvare il paese dal caos”. Il giorno seguente le truppe del Reich procedettero all’occupazione del territorio austriaco. Un mese dopo, un plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l’avvenuta annessione.

L’Anschluss

Simpatizzanti naziste applaudono l’arrivo delle truppe tedesche a Vienna 1938

La questione austriaca si era appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione, anch’essa fondata su motivi etnici: quella riguardante i Sudeti, ossia gli oltre tre milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia. Anche in questo caso Hitler agì mobilitando i nazisti locali e spingendoli a formulare richieste sempre più pesanti all’indirizzo del governo ceco: il quale, in un primo tempo, si mostrò disposto alla concessione di più larghe autonomie alla comunità tedesca. Ma questo non bastò ad accontentare Hitler, che in realtà mirava apertamente all’annessione della regione dei Sudeti e alla distruzione dello Stato cecoslovacco. Due volte, nel settembre del ’38, Chamberlain volò in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso.

La questione dei Sudeti

Alla fine di settembre, quando ormai l’Europa si stava preparando a una guerra che sembrava inevitabile, Hitler accettò la proposta di un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Urss esclusa), lanciata in extremis da Mussolini su suggerimento dello stesso Chamberlain. Nell’incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-30 settembre 1938, Chamberlain e il primo ministro francese Édouard Daladier accettarono un progetto presentato dall’Italia che in realtà accoglieva quasi alla lettera le richieste tedesche e prevedeva l’annessione al Reich dell’intero territorio dei Sudeti. Ai cecoslovacchi, che non erano stati ammessi alla conferenza e nemmeno consultati, non restò che accettare un accordo che li lasciava alla mercé della Germania e apriva la strada al dissolvimento della loro Repubblica.

Gli accordi di Monaco

Chamberlain, Daladier e lo stesso Mussolini furono accolti, al rientro in patria, da imponenti manifestazioni di entusiasmo popolare e acclamati come salvatori della pace. Ma quella salvata a Monaco era una pace fragile e precaria, pagata per giunta a caro prezzo. Accordandosi con Hitler sulla testa della Cecoslovacchia, le potenze democratiche avevano distrutto, assieme alle ultime tracce del principio di sicurezza collettiva, la loro stessa credibilità e avevano aperto la strada a nuove aggressioni. Il commento più appropriato agli accordi di Monaco fu quello di Winston Churchill: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra».

La falsa pace

METODO DI STUDIO

 a   Spiega per iscritto i piani politico-militari progettati da Hitler e come fu attuato l’Anschluss dell’Austria.  b   Sottolinea con colori diversi in cosa consistette la politica dell’appeasement, chi la sostenne e chi vi si oppose.  c   Cerchia i nomi dei territori annessi da Hitler nel 1938.  d   Spiega oralmente quale rapporto esiste fra la questione dei Sudeti e gli accordi di Monaco e se questi si rivelarono efficaci.

335

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

ARTE E TERRITORIO IL MOVIMENTO MODERNO RIPROGETTA LA CITTÀ

L’

urbanistica è una disciplina nata alla fine del XIX secolo per rispondere ai problemi abitativi generati dall’industrializzazione: quali erano le misure che i governi dovevano adottare per risolvere il problema delle abitazioni degli operai, spesso sovraffollate in quartieri degradati, sorti in modo spontaneo attorno alle fabbriche? Che futuro avrebbero avuto le città assediate da nuovi bisogni e nuovi abitanti? Gli artisti del Rinascimento avevano immaginato la struttura della città ideale a partire dalle proprie idee filosofiche o da immagini astratte del mondo classico; gli architetti dell’età contemporanea dovettero partire dalle esigenze dei nuovi centri industriali, integrando la loro visione estetica con uno studio quasi scientifico sulle funzioni degli edifici progettati. Il problema si era posto già alla fine della prima guerra mondiale, quando al momento della ricostruzione bisognò tenere conto del mutato contesto sociale: la priorità andava data ai trasporti e ai servizi utilizzati dalle classi lavoratrici e ai loro alloggi, non alle belle case progettate per la borghesia; bisognava costruire abitazioni a basso costo e con strutture semplici, cioè realizzabili in serie, in modo da formare quartieri uniformi e vie ordinate. Gli storici dell’architettura

chiamano questa nuova corrente Movimento moderno. Anche se i suoi protagonisti provenivano da scuole diverse, infatti, possono essere tutti raccolti nel comune rifiuto dell’ornamento: le linee degli edifici non dovevano perdersi in movimenti eclettici, ma restare essenziali, pulite. I progetti delle costruzioni dovevano rispondere alle funzioni a cui queste erano finalizzate, non all’estro creativo e alla fantasia dell’architetto. La grande stella del Movimento moderno fu senza dubbio Le Corbusier, pseudonimo del francese di origine svizzera Charles-Édouard Jeanneret (1887-1965). La sua fama è dovuta anche alle sue doti di instancabile comunicatore: coi suoi scritti, le sue interviste e i suoi disegni si impose come la figura forse più importante dell’architettura novecentesca. Se il grande pubblico lo conosce forse più per il design di oggetti di uso comune, come poltrone e lampade così di successo da venire prodotte e imitate ancora oggi, i suoi sforzi più importanti furono proprio nell’ambito dell’urbanistica. Più di ogni altro, Le Corbusier si pose il problema di quale forma dovesse avere la città moderna rispetto a quella antica. In due progetti, mai realizzati, offrì una visione coraggiosa che ispirò tutte le future generazioni di urbanisti.

Nel 1922, a un’esposizione d’arte piuttosto importante di Parigi, presentò il suo piano per Une ville contemporaine (“una città contemporanea”). Ponendosi il problema di far risiedere in questo centro urbano ben tre milioni di abitanti, Le Corbusier immaginò di realizzare ventiquattro grattacieli per gli uffici, attorniati da palazzi più bassi circondati dal verde e altri edifici più grandi ma con terrazze-giardino e servizi commerciali cooperativi. La città doveva poi comprendere zone per le attività sportive e ricreative, mentre la mobilità sarebbe stata affidata a vie di transito su più livelli. Tre anni dopo, nel 1925, Le Corbusier presentò il secondo progetto, un piano per la ricostruzione del centro di Parigi. Il Plan Voisin, com’era chiamato, era particolarmente caro al suo autore, che lo riprese più volte, almeno fino al 1946. Particolare attenzione era data qui alla rete stradale: per rendere fluido e armonico il traffico della città, ogni via sarebbe stata differenziata secondo il mezzo di trasporto. In questo modo pedoni, automobilisti e servizi pubblici avrebbero armonizzato i propri spostamenti senza intralciarsi a vicenda, contribuendo a rendere quindi ancora più vivibile lo spazio urbano. A queste autostrade venivano intervallati anche qui dei giganteschi grattacieli, che dovevano però essere immersi nel verde. Anche se questo piano non venne mai realizzato, le idee che ne erano alla base costituirono un

◄  Le

Corbusier, Une ville contemporaine – Progetto di una “Città per tre milioni di abitanti” 1922 [© FLC, by SIAE 2018]

336

▼  Le

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Corbusier, Plan Voisin 1925, plastico

patrimonio essenziale per l’architettura contemporanea e per le sue sfide: immaginare un’organizzazione dello spazio in grado di correggere e prevenire gli squilibri dello sviluppo senza ostacolarlo. Tra coloro che erano più impegnati in questa missione c’era anche il francese Auguste Perret (1874-1954). Sin dai primi anni del ’900 Perret si impegnò a dare risalto a nuovi materiali come ferro, vetro e cemento armato, che cominciò così a essere utilizzato non soltanto per l’ossatura degli edifici ma anche per gli esterni. Era un modo per dargli dignità artistica, ma anche per ribadire il concetto che l’essenza di un edificio era nella sua struttura funzionale, non nelle sue decorazioni estetiche. Come avrebbe detto un altro protagonista dell’architettura di questa stagione, il tedesco Walter Gropius (1883-1969), era la funzione a determinare la forma degli edifici. Acquisita una gran fama per i suoi primi esperimenti in questa direzione a Parigi, dopo la seconda guerra mondiale a Perret venne affidato il compito di progettare la ricostruzione del centro di Le Havre, sempre in Francia. Situata sulla Manica e quindi in posizione strategica, questa città fu così duramente danneggiata

◄  Auguste

Perret, Garage di rue Ponthieu a Parigi, esterno 1906 [© Auguste Perret, by SIAE 2018]

▲  Auguste

Perret, Nuovo centro di Le Havre [© Auguste Perret, by SIAE 2018]

dai bombardamenti della seconda guerra mondiale da apparire quasi una distesa di macerie, soprattutto nella zona portuale. Perret e la sua squadra ebbero così mano libera per ricostruirla integralmente adottando criteri uniformi: i diversi edifici dovevano riproporre tutti uno stesso tema, grazie all’uso intensivo del cemento armato e ai lunghi pilastri che caratterizzavano quasi tutte le costruzioni. Di fatto, Le Havre rappresentò un laboratorio eccezionale per gli architetti del Movimento moderno, che poterono mettere in atto in

modo esteso la propria visione urbanistica. Non si limitarono infatti solo alla progettazione dei singoli immobili, ma pensarono ad armonizzare lo spazio tra costruzioni, aree verdi e vie di transito, considerando il rapporto tra edifici pubblici, aree commerciali e abitazioni civili. Proprio per preservare la lezione offerta da questo tentativo riuscito di ricostruire una città integralmente, tenendo presente i bisogni della città insieme a quelli della progettazione artistica, nel 2005 il centro di Le Havre è stato inserito nella lista dei Patrimoni dell’Umanità.

PISTE DI LAVORO

a Redigi due piccoli profili biografici di Auguste Perret e di Le Corbusier a partire dalle notizie contenute nella scheda e integrandole con informazioni reperite in Rete. Ricordati di non superare le 50/60 parole e di consultare un sito affidabile. b In quale contesto storico e per rispondere a quali bisogni nasce la disciplina dell’urbanistica? c Perché Perret è considerato un pioniere nel campo dell’urbanistica? d Spiega perché Le Havre è considerata un laboratorio per gli architetti del Movimento moderno. e Adoperando le informazioni contenute nella scheda, redigi una didascalia a commento dell’immagine di Le Havre qui presentata. Non superare le 50/60 parole. f Perché Le Corbusier è considerato la figura più importante dell’architettura novecentesca? g Adoperando le informazioni contenute nella scheda, redigi una didascalia a commento delle immagini di Une ville contemporaine e Plan Voisin di Le Corbusier. Non superare le 50/60 parole. h In che modo è dunque cambiato il modo di concepire la città nel passaggio dal Rinascimento all’età contemporanea?

337

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

SINTESI

8_1 L’ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA Nel corso degli anni ’30, i sistemi politici democratici attraversarono un periodo di enorme difficoltà: l’ascesa del nazismo in Germania dimostrò che la democrazia poteva essere messa in discussione anche nei paesi più sviluppati. Caratteristiche fondamentali dei movimenti e dei regimi fascisti furono l’accentramento del potere nelle mani di un capo, la struttura gerarchica dello Stato, l’inquadramento forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, il rigido controllo sull’informazione e sulla cultura. Il fascismo esercitò una notevole attrazione, negli anni ’30, soprattutto sui ceti medi: rappresentò una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un’esaltazione di alcuni suoi aspetti. Questa capacità di adattamento alla società di massa costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma anche del regime sovietico nell’età di Stalin. Per la loro pretesa di dominare in modo “totale” la società, di condizionare comportamenti e mentalità dei cittadini, tali regimi sono detti totalitari.

8_2 TOTALITARISMO E POLITICHE RAZZIALI

338

Caratteristica comune ai regimi totalitari fu il disprezzo del valore della vita e della dignità umane e il ricorso sistematico alla forza. In una visione della nazione come organismo unico

la cui integrità va tutelata a ogni costo, anche al prezzo dell’espulsione dei “corpi estranei”, si inquadra la fortuna dell’eugenetica, disciplina che persegue il miglioramento di una popolazione attraverso la selezione genetica. Il passaggio a una diffusa pratica di eliminazione fisica si ebbe solo nei regimi totalitari, in particolare nella Germania nazista. Diverse nelle motivazioni ma analoghe nelle conseguenze furono le politiche di sterminio adottate nell’Unione Sovietica di Stalin: qui le vittime (categorie sociali o intere popolazioni) erano scelte su basi ideologiche e di classe.

8_3 L’ASCESA DEL NAZISMO Il successo del nazismo è strettamente collegato alle conseguenze della crisi economica. Dopo il fallito colpo di Stato di Monaco (1923), che comportò per Hitler il carcere, e fino al 1930, infatti, il Partito nazionalsocialista era un gruppo marginale, che si serviva della violenza contro gli avversari politici, grazie ai suoi reparti d’assalto (le SA). In carcere Hitler scrisse Mein Kampf (“La mia battaglia”), in cui espose la sua ideologia fondata sulla esistenza della “razza superiore” ariana che avrebbe dovuto, nel suo programma, dominare sull’Europa e sul mondo, dopo aver sottomesso i popoli slavi per costruire il suo nuovo impero. Questo programma trovò ascolto nella popolazione tedesca solo dopo la crisi economica. Il partito di Hitler vide crescere i suoi consensi nelle numerose elezioni che si tennero fra il ’30 e il ’32, fino a diventare il primo partito tedesco. Nel gennaio ’33

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Hitler fu chiamato a guidare il governo.

8_4 LA COSTRUZIONE DEL REGIME La trasformazione della Repubblica tedesca in dittatura avvenne nel giro di pochi mesi. Traendo pretesto dall’incendio del Reichstag del febbraio ’33, Hitler varò una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione. Dopo l’affermazione elettorale del marzo (il Partito nazista prese il 44%), Hitler fece approvare una legge che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di modificare la Costituzione. In luglio una legge sancì che il Partito nazionalsocialista era l’unico partito consentito in Germania. In novembre, le nuove elezioni di tipo plebiscitario accordavano al partito unico il 92% dei voti favorevoli. Nell’estate del ’34, dopo la “notte dei lunghi coltelli” con cui si sbarazzò dell’ala estremista del nazismo che faceva capo alle SA, Hitler unificò nelle sue mani le cariche di cancelliere e di capo dello Stato.

l’insieme dei cittadini in una “comunità di popolo” compatta che escludesse gli elementi estranei e nemici, primi tra tutti gli ebrei. Contro la comunità ebraica tedesca, Hitler scatenò una massiccia campagna di odio, fino alla discriminazione legale sancita dalle leggi di Norimberga (1935) con le quali gli ebrei perdevano la nazionalità tedesca e tutti i diritti politici. Non vi fu, durante il nazismo, alcuna forma di opposizione politica e anche le Chiese cristiane finirono per lo più con l’adattarsi al regime. All’efficienza dell’apparato repressivo (controllato dalla Gestapo e dalle SS) si aggiunsero i consensi ottenuti dal regime per i successi di Hitler in politica estera e soprattutto per la ripresa economica, e la capacità dei miti antimoderni della ideologia nazista di toccare le corde profonde del popolo tedesco, unita a una capillare propaganda e al controllo assoluto della cultura. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da cerimonie pubbliche che assumevano per i cittadini il valore di un rito sacrale: sfilate militari, esibizioni sportive, adunate di massa.

8_6 L’URSS E L’INDUSTRIALIZZAZIONE FORZATA 8_5 POLITICA E IDEOLOGIA DEL TERZO REICH Il Terzo Reich (“terzo impero”) creato da Hitler si basava sul rapporto diretto fra il Führer (“capo”, “duce”) del nazismo e le masse, inquadrate nel partito unico e nei suoi organismi collaterali. Compito di queste organizzazioni era trasformare

In Urss, alla fine degli anni ’20, Stalin decise di industrializzare il paese a tappe forzate e di collettivizzare il settore agricolo. I kulaki, i contadini agiati, furono individuati come un ostacolo a questo piano ed eliminati con una feroce repressione. Unita allo scoppio di una tremenda carestia nel 1932-33, tale repressione costò

milioni di vittime, decimando la popolazione delle campagne e determinando un sensibile abbattimento della produzione agricola. Positivi furono, invece, in termini economici i risultati dei piani quinquennali per l’industria: con il primo, varato nel 1928, la produzione al 1932 risultava aumentata del 50%; con il secondo (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120%.

8_7 LO STALINISMO, LE GRANDI PURGHE, I PROCESSI Gli anni ’30 videro anche il continuo rafforzamento della dittatura personale di Stalin, che assunse il ruolo di capo assoluto, procedendo alla eliminazione di ogni dissenso. Stalin non solo epurò dal partito tutti i suoi rivali ma li eliminò fisicamente insieme a migliaia di quadri dirigenti del partito e a un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti. Nel 1934,

iniziarono le “grandi purghe”, una gigantesca repressione poliziesca che colpì negli anni milioni di persone. Fra l’inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il conto totale delle vittime ammontò a 10-11 milioni.

borghesi. Nel ’36 governi di fronte popolare si formarono, prima in Spagna, poi anche in Francia sotto la guida del socialista Léon Blum, che cadde però l’anno successivo senza essere riuscito a portare a termine il suo programma di riforme sociali.

8_8 LE DEMOCRAZIE E I FRONTI POPOLARI

8_9 LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA

Le prime iniziative hitleriane in politica estera – a cominciare dal ritiro dalla Società delle Nazioni – rappresentarono una minaccia all’equilibrio internazionale costruito negli anni ’20. A partire dal 1935 la causa della sicurezza collettiva trovò un sostegno nella nuova politica estera sovietica, che si riflesse nella linea dettata ai partiti comunisti dalla Terza Internazionale: in nome della lotta al fascismo fu incoraggiata la formazione di alleanze – i “fronti popolari” – tra i comunisti e le forze socialiste e democratico-

Fra il 1936 e il 1939, la Spagna fu sconvolta da una sanguinosa guerra civile: un conflitto basato su una forte contrapposizione ideologica che presto si trasformò in uno scontro fra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. Alla vittoria del fronte popolare (febbraio ’36), seguì una ribellione militare. I golpisti, guidati dal generale Franco, ebbero il decisivo appoggio di Italia e Germania, mentre i repubblicani poterono contare solo su rifornimenti sovietici e sui reparti di volontari antifascisti (Brigate

internazionali). Nel 1939 la guerra civile terminò con la vittoria di Franco grazie anche alle profonde divisioni esistenti all’interno del fronte repubblicano, soprattutto fra comunisti e anarchici.

8_10 L’EUROPA VERSO LA GUERRA Negli stessi anni della guerra di Spagna, la linea della pacificazione (appeasement) seguita da Francia e Gran Bretagna nei confronti della Germania finì con l’incoraggiare la politica espansionistica del nazismo. Nel 1938 si compiva l’annessione (in tedesco, Anschluss) dell’Austria alla Germania; subito dopo Hitler avanzava mire sul territorio cecoslovacco abitato da popolazione tedesca (i Sudeti). Gli accordi di Monaco (settembre ’38) che accettavano le richieste tedesche, finirono con lo spianare la strada a un nuovo conflitto mondiale.

339

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa lo schema sui regimi totalitari seguendo le indicazioni delle 5W: who, what, where, when, why, (chi, cosa, dove, quando, perché). DOVE

COSA

I REGIMI TOTALITARI

QUANDO

PERCHÉ

CHI

...................................................

Erano forme di governo ............ ..................................................

..................................................

Le cause che portarono alla nascita furono ..........................

..................................................

2 Completa la seguente mappa nelle sue parti mancanti per delineare le caratteristiche del Partito nazionalsocialista dei

lavoratori tedeschi (Nsdap) fino all’ascesa di Hitler a capo del governo tedesco.

Il capo del partito era

I sostenitori del Nsdap erano

.................................................

..................................................

NSDAP

Il Nsdap utilizzava la violenza

Percentuale di voti al Nsdap

delle SA ovvero ....................... ........................ per reprimere il dissenso. Il capo delle SA era ..... .................................... 1933: Hitler viene eletto ............

340

..................................................

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE



1928 .......



1930 18,3%



1932 ........

3 Collega ciascun termine o espressione alla definizione corrispondente.

a. Leggi di Norimberga b. Führer c. Terzo Reich d. Notte dei cristalli

1. Nome attribuito dai nazisti allo Stato tedesco 2. Distruzione di negozi, abitazioni, sinagoghe, uccisione di ebrei per mano dei tedeschi 3. Stabilivano l’inferiorità della popolazione ebraica e la sua emarginazione dalla vita sociale 4. Polizia segreta di Stato che, insieme alle SS, controllava ogni aspetto della vita pubblica e privata dei cittadini 5. Deportazione in massa e sterminio del popolo ebraico 6. Nome attribuito al leader del regime nazionalsocialista tedesco, Adolf Hitler

e. Soluzione finale f. Gestapo

4 Evidenzia gli effetti più evidenti della collettivizzazione forzata voluta da Stalin scegliendo tra le proposte di seguito;

successivamente realizza sul tuo quaderno di storia un testo dal titolo Le scelte di Stalin in politica economica.

a. L’eliminazione totale dei kulaki come classe sociale b. Milioni di arresti, deportazioni, fucilazioni c. Una più alta qualità della vita per i contadini d. L’incapacità del sistema produttivo di fronteggiare la spaventosa carestia del 1932-33 e. Risparmio di manodopera f. La fuga dalle campagne nelle città g. Maggiori periodi di riposo dal lavoro 5 Cosa furono i Fronti popolari? Seleziona la risposta corretta tra quelle indicate di seguito e scrivi un breve testo

sull’argomento sul tuo quaderno di storia.

a. Circoli ricreativi per il popolo voluti dallo Stato b. Organizzazioni operaie sovietiche clandestine c. Leghe di Stati confinanti con l’Italia d. Coalizioni di forze politiche di sinistra e. Misure difensive contro le ondate di migranti f. Patti militari fra tutte le classi sociali tedesche 6 Abbina gli eventi presenti di seguito alle date corrispondenti e poi completa con un tuo racconto gli eventi che

accaddero in Spagna tra il 1936 e il 1939.

a. 1934 b. estate 1932 c. 1932 d. 1936 e. 1936-1939

1. Nuova Costituzione democratica 2. Una insurrezione anarchica viene sanguinosamente repressa. 3. Alle nuove elezioni vince la coalizione del Fronte popolare: comincia una vera e propria rivoluzione tra classi popolari e gruppi di destra che furono organizzati nella formazione della Falange con a capo Francisco Franco 4. Un colpo di Stato militare fallisce 5. ........................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................

COMPETENZE IN AZIONE 7 Spiega in un testo di massimo 10 righe le ragioni del consenso al regime nazista da parte della popolazione tedesca e

scegli un titolo significativo. Puoi utilizzare la seguente scaletta:

● gli apparati repressivi del regime ● i successi politici di Hitler ● la ripresa economica ● l’invenzione di miti ● gli strumenti di propaganda.

341

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

8 Osserva con attenzione le immagini e rispondi alle domande, utilizzando anche informazioni contenute nel testo:

Membro del Comsomol in una fabbrica a Balakhna 1931 La figura del lavoratore viene idealizzata dalla propaganda stalinista: l’operaio domina la macchina e sembra lavorare senza sforzo, con la sicurezza di chi è cosciente del fine più alto del proprio lavoro.

Tat’jana N. Jablonskaja, Le messi 1949 [Museo Statale Russo, San Pietroburgo] La raffigurazione del mondo del lavoro è uno dei filoni principali imposti all’arte sovietica dalla dottrina del realismo socialista, che esige una funzione educativa delle arti e dunque una facile lettura figurativa. In questo dipinto, che da un punto di vista stilistico potrebbe risalire all’800 tanto è lontano dalle innovazioni delle avanguardie novecentesche, l’abbondante mietitura e la felice espressione delle contadine alludono alla ricostruzione dopo l’immane sforzo sostenuto dall’Urss nella seconda guerra mondiale; non manca l’intento celebrativo dei successi dell’agricoltura collettivizzata, la cui realizzazione era costata prima della guerra milioni di vite.

a. Dove e in quale anno sono stati prodotti i documenti? b. Qual è lo scopo diretto o indiretto dei documenti? A chi si rivolgono? c. Lo stile è moderno o tradizionale? d. Quali messaggi vogliono comunicare gli autori in merito alla società sovietica e ai suoi lavoratori? Dopo aver risposto alle domande, definisci con una frase la corrente artistico-culturale del “realismo socialista”. 9 Usa tutti gli argomenti elencati di seguito come spunti per costruire un testo di 20 righe dal titolo La Russia di Stalin.

Fai attenzione, dovrai utilizzare tutti i suggerimenti senza cambiarne l’ordine:

● Industrializzazione forzata ● Eliminazione dei kulaki ● Collettivizzazione forzata ● Primo piano quinquennale per l’industria

● Andrej Zdanov ● Il terrore staliniano: “purghe”, Gulag e processi ● I crimini di Stalin e l’Occidente

COMPITI DI REALTÀ 10 Realizza un prodotto multimediale avvincente e dal taglio narrativo destinato a ragazzi della tua età.

Tema storico da affrontare: La guerra civile di Spagna.

Contesto di lavoro

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Lavori per un canale che si occupa di storia e curi in particolar modo il settore destinato agli studenti di scuola secondaria superiore. Hai già realizzato un documentario sulla peste nera, ricco di ricostruzioni storiche e testimonianze. Ai tuoi capi è piaciuto molto e ti hanno chiesto di realizzarne un altro sulla guerra civile spagnola e sul coinvolgimento internazionale su ambo i fronti.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un video sulla guerra civile di Spagna dal taglio avvincente e fedele ai risultati delle ricerche degli storici. Per realizzare questo compito dovete: ● inquadrare storicamente il tema schematizzando sul quaderno le notizie principali (date, luoghi, impatto sulla popolazione, ecc.). ● cercare fonti dell’epoca, iconografiche e testuali, utili a creare riferimenti visivi ed emotivi. Potete far riferimento ai materiali presenti nel capitolo e nel Fare Storia, e cercare altre fonti su Internet. In questo caso, fate riferimento a siti attendibili, il cui valore sia certificato da università o da enti di ricerca storica o che presentino una bibliografia accademica di riferimento. ● abbinare le fonti ai contenuti storici che avete individuato. ● decidere quale modello comunicativo adottare. Per far questo potete cercare su Internet dei documentari storici delle maggiori emittenti televisive italiane e straniere che si occupano di storia e realizzare uno schema sulla struttura del programma. Es. presenza/assenza di un conduttore; presenza/ assenza di uno storico che illustri carte geostoriche o fonti iconografiche o che esponga alcuni concetti chiave; presenza/assenza di attori che realizzano scene verosimili basate sulle fonti storiche a disposizione, ecc. ● realizzare una scaletta della vostra trasmissione. ● produrre i contenuti: se avete deciso che: 1. ci sarà un conduttore, dovrete scrivere i testi; 2. ci saranno degli attori, dovrete selezionare le fonti più adatte e affidare i ruoli; 3. ci sarà uno storico, dovrete individuare il brano storiografico di riferimento e riscriverlo secondo la modalità comunicativa che vi sembrerà più efficace per il vostro prodotto. 4. verrà illustrata una carta geostorica, dovrete pensare a come poterla utilizzare. ● realizzare un copione per tutti i partecipanti coerentemente con i contenuti che avrete scelto. ● realizzare concretamente un video con gli strumenti tecnologici a voi più congeniali. Non dimenticate il rigore storico: per coinvolgere e affascinare non è necessario inventare, ma basta individuare le testimonianze (scritte e visive) e le riflessioni storiografiche più efficaci.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti ai capi dell’agenzia e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più la visione del video.

Tempo a disposizione

mezz’ora per individuare sul manuale i contenuti e schematizzarli; 1 ora per cercare le fonti più idonee, sul manuale e in Rete; 2-3 ore per la visione di documentari da prendere da esempio e schematizzarne la struttura; 6 ore per la realizzazione dei contenuti e la realizzazione del video; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

343

C8 L’EUROPA DEGLI ANNI ’30: TOTALITARISMI E DEMOCRAZIE

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XTR

CAP9 IL REGIME FASCISTA IN ITALIA



9_1 LO STATO FASCISTA

Nella storia dei regimi autoritari fra le due guerre mondiali, il fascismo italiano occupa un posto di grande rilievo, se non altro per una questione di priorità cro­ nologica. Come abbiamo visto [►6_7], nella seconda metà degli anni ’20, quando in Germania il na­ zismo era ancora una forza marginale, in Italia lo Stato fascista era una realtà già consolidata nelle sue strutture giuridiche – fondate sulla negazione di ogni principio democratico di rappresentanza dal basso – e nelle sue manifestazioni esteriori: le adunate di cittadini in uniforme, le campagne propa­ gandistiche orchestrate dall’autorità, l’amplificazione dell’immagine e della parola del capo, oggetto di un vero e proprio culto. Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato, che aveva conservato l’impalcatura del vecchio Stato monarchico, e quella del partito con le sue numerose ramificazioni. Al di sopra di tutti si eserci­ tava il potere incontrastato di Mussolini, che riuniva in sé la qualifica di capo del governo e quella di “duce” del fascismo.

Stato e partito

E

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Focus Il liceo in Italia dall’Unità alla riforma Gentile • Indottrinare i giovani: i Gruppi universitari fascisti • Il cinema e la propaganda di regime Atlante Economia e politica negli anni ’30 Lezioni attive Il fascismo, un movimento che si fa Stato Test interattivi Audiosintesi

► Leggi anche: ►     Focus Indottrinare i giovani: i Gruppi universitari fascisti ► Parole della storia Consenso, p. 348 ► Laboratorio di cittadinanza I rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, p. 361

Ma, contrariamente a quanto sarebbe accaduto nei regimi più tipicamente tota­ litari, nel fascismo italiano l’apparato dello Stato ebbe fin dall’inizio, per espli­ cita scelta di Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del partito. Per trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti – i funzionari pubblici che rappresentano, in ogni Provincia, il governo – assai più che degli organi locali del Partito fascista. A controllare l’ordine pubblico e reprimere il dissenso provve­ deva la Polizia di Stato, mentre la Milizia [►6_6] era confinata a una funzione decorativa e “ausiliaria”, imparagonabile al ruolo svolto, per esempio, dalle SS nella Germania nazista.

La prevalenza dello Sato

Seppur privo di autonomia politica, il Pnf venne però continuamente dilatando le sue dimensioni e la sua presenza nella società civile. Dalla fine degli anni ’20 l’iscrizione al partito cessò di essere il segno dell’appartenenza a un’élite e di­ venne una pratica di massa (nel 1939 gli iscritti superavano i 2 milioni e mezzo), necessaria fra l’altro per ottenere un posto nell’amministrazione statale. Balilla Faceva capo al partito anche una serie di organismi collaterali, come l’Opera Secondo la tradizione, era il soprannome di un ragazzo nazionale dopolavoro (che si occupava del tempo libero dei lavoratori organiz­ genovese che nel 1746, all’epoca della dominazione austriaca in Liguria, ebbe il coraggio di scagliare un sasso zando gare sportive, gite e altre attività ricreative) e le numerose organizzazioni contro i soldati austriaci che pretendevano aiuto dai civili giovanili: i Fasci giovanili, per i giovani dai diciotto ai ventun anni, i Gruppi uniper sollevare un pezzo di artiglieria caduto nel fango mentre veniva trasportato. Il gesto di quel ragazzo avrebbe versitari fascisti (Guf ) e soprattutto l’Opera nazionale Balilla (Onb). Quest’ul­ dato avvio alla rivolta di Genova contro l’Austria. Il termine tima, nata nel 1926, inquadrava tutti i ragazzi fra i sei e i diciotto anni – divisi, “balilla” venne quindi adottato dal fascismo come simbolo secondo l’età, in “figli della lupa”, “balilla” e “avanguardisti” – e forniva loro, oltre di patriottismo e coraggio giovanile. a un supplemento di educazione fisica e a qualche forma di istruzione premili­ 344

Le organizzazioni di massa

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Un piccolo “figlio della lupa” in divisa, in posa con il ritratto del duce

Mussolini passa in rivista un gruppo di “piccole italiane” a Padova

Inseguendo il progetto totalitario di trasformare globalmente la società, creando il “nuovo uomo fascista”, Mussolini affidò un ruolo fondamentale alle organizzazioni parallele al partito, in primo luogo

alle associazioni giovanili e sportive che dovevano formare le future generazioni nell’ideologia del regime. La formula del giuramento che i nuovi membri dovevano pronunciare e che era riportata

sul tesserino di appartenenza era: «Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista».

tare, anche un indottrinamento ideologico di base. Dall’Onb dipendevano anche i corpi femminili: figlie della lupa, piccole italiane, giovani italiane. Nel complesso, queste strutture svolsero una fun­ zione importante nella fascistizzazione del pae­se: attraverso queste e altre organizzazioni di massa, dai sindacati di regime alla Milizia, il fascismo cercava di “occupare”, insieme con lo Stato, anche la società, riplasmandola dalle fondamenta [►FS, 67]. Nel suo tentativo di permeare di sé la società il fascismo incontrava però alcuni ostacoli: il maggiore era rappresentato dalla Chiesa. In un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede cattolica, in cui la pratica religiosa era ovunque diffusa, in cui le parrocchie rappresentavano spesso l’unico centro di aggregazione so­ ciale e culturale, non era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa un qualche accor­ do. Consapevole di ciò, Mussolini cercò un’intesa col Vaticano, profittando della disponibilità mani­ festata dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del regime, per comporre definitivamente lo storico contrasto fra Stato e Chiesa che aveva segnato l’intera vita del Regno d’Italia.

L’influenza della Chiesa

Le trattative, condotte in segreto, fra governo e Santa Sede si conclusero l’11 febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome dai palazzi del Laterano, cioè dal luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Gasparri, si incon­ trarono per la firma. I Patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla “questione romana” riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano” (uno Stato poco più che simbolico, comprendente la basilica di San Pietro, i palazzi pontifici e un piccolo territorio circostante); una convenzione finanziaria, con cui lo Stato si impegnava a corri­ spondere alla Santa Sede una forte somma, equivalente all’importo delle annualità previste dalla “legge delle guarentigie” dopo la presa di Roma (somma che il papa aveva sempre rifiutato di accetta­ re); infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno d’Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva fra l’altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che i preti spretati fossero esclusi dagli uffici pubblici, che il matrimo­ nio religioso avesse effetti civili, che l’insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato

I Patti lateranensi

345

C9 il regime fascista in italia

“fondamento e coronamento” dell’istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico. Per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un notevole successo. Presentandosi come l’artefice della “conciliazione”, Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fino ad allora ostili o indifferenti. Le prime elezioni plebiscitarie – tenute col sistema della lista unica [►6_7] e in­ dette, non a caso, nel marzo 1929, a poche settimane dalla firma dei Patti – registrarono un afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti favorevoli. Un risultato da valutare con cautela (come tutti quelli dei plebisciti tenuti in regimi autoritari, dove l’elettore non ha una vera li­ bertà di scelta e manca qualsiasi controllo sulla veridicità dei dati), ma comunque indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime.

La crescita del consenso

Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant’anni (il potere temporale), la Chiesa acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato, anche in materie importanti come la legislazione matrimoniale e l’istruzione. Non a caso, l’unico serio contrasto emerso dopo il concordato fra il regime e la Santa Sede riguardò le organizzazioni di Azione cattolica, che, nel 1931, furono oggetto di violenze squadristiche per aver difeso la loro autonomia organizzati­ va nel settore giovanile. Il contrasto fu presto superato: il Vaticano ribadì il carattere non politico di quelle organizzazioni. E la Chiesa riuscì a mantenere intatta, seppur con un’operatività limitata, la sua rete di associazioni e circoli, assicurandosi un margine di autonomia ed entrando in oggettiva con­ correnza col fascismo proprio nel settore delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa non si servì mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai suoi valori una parte non trascu­ rabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace, all’occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che si sarebbe verificata nel secondo dopoguerra.

I vantaggi per la Chiesa

La Chiesa non costituì l’unico ostacolo per le aspirazioni to­ talitarie del fascismo. Un altro limite insuperabile stava al­ l’interno, anzi al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato dalla monar­ chia. Per quanto fosse nei fatti regolarmente esautorato, fino ad apparire come un ostaggio nelle mani di Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità dello Stato. A lui spettavano, secondo lo Statuto, il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo. Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il regi­ me fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi o di spaccatura interna, le carte migliori sarebbero fatalmente tornate in mano al re, punto di riferimento obbligato per i militari e la borghesia conservatrice. Questa eventualità rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza.

La monarchia



METODO DI STUDIO

 a   Spiega in che modo era articolato il rapporto fra lo Stato e il Partito nazionale fascista e quale fu il ruolo di Mussolini all’interno di questo rapporto.  b   Cerchia i nomi delle numerose organizzazioni fasciste descritte nel paragrafo e sottolinea lo scopo per cui ciascuna di esse fu creata.  c   Sottolinea con colori diversi le informazioni relative al rapporto del fascismo con la Chiesa e la monarchia e gli effetti che le scelte operate da Mussolini in questi settori ebbero sulla società italiana e sulle sorti del fascismo. Quindi descrivi sinteticamente per iscritto quanto analizzato.

9_2 UN TOTALITARISMO IMPERFETTO

Se osserviamo l’Italia del ventennio fascista quale ci appare attraverso i materiali prodotti durante il regime (cinegiornali d’attualità, foto ufficiali, stampa illustra­ ta), vediamo emergere con evidenza l’immagine di un paese largamente fasci­ stizzato: i ritratti di Mussolini esposti nelle scuole e negli uffici o innalzati per le strade in giganteschi cartelli; gli edifici pubblici e i monumenti; le copertine dei libri e le cartoline ornate dall’emblema del fascio littorio (insegna del potere dei magistrati di Roma antica, eletto a simbolo del regime); i muri istoriati da scritte guerriere; le grandi folle mobilitate in occasione delle ricorrenze fasciste (come

346

L’immagine dell’Italia fascista

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

l’anniversario della marcia su Roma) o dei discorsi del duce trasmessi dalla radio; gli scolari che sfilavano in formazione militare, in camicia nera e armati di fucili di legno, e i loro padri, anch’essi in divisa fascista, che si riunivano nei giorni festivi agli ordini dei Fasci locali per celebrare i riti del regime. Il problema è vedere se queste immagini rispecchiavano la realtà dell’Italia di allora. Il paese era davvero cambiato rispetto al periodo precedente, così com’era cambiata la sua immagine ufficiale? Per dare una risposta a questa domanda è necessario dare uno sguardo alle condizioni del “paese reale”, quali risultano dai dati statistici. I dati ci dicono in primo luogo che, anche durante il periodo fascista, l’Italia con­ tinuò a svilupparsi secondo le linee di tendenza comuni a tutti i paesi dell’Euro­ pa occidentale, benché con un ritmo più lento di quello tenuto nel ventennio precedente. La popolazione, che era di 38 milioni nel 1921, passò a 44 nel 1939. Nello stesso periodo si accentuò l’urbanizzazione e la percentuale dei residenti in comuni con più di 100 mila abitanti salì dal 13 al 18%; la quota degli addetti all’agricoltura sul totale della popolazione attiva calò dal 58 al 51%, mentre quella degli occupati nell’industria passò dal 23 al 26,5% e quella degli addetti al terziario dal 18 al 22%. Nonostante questi segni di sviluppo, alla vigilia della seconda guerra mondiale l’Italia era ancora un paese fortemente arretrato rispetto alle maggiori potenze eu­ ropee. Alla fine degli anni ’30, il reddito medio di un italiano era poco più della metà di quello di un francese, un terzo di quello di un britannico (e un quarto di quello di uno statunitense). Malgrado spendesse più della metà del suo reddito in consumi alimentari, l’italiano medio si nutriva essenzial­ mente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte inferiore a quella di un cittadi­ no britannico o statunitense e considerava generi di lusso il caffè, il tè e lo zucchero. Nel 1938 c’era in Italia un’automobile ogni 100 abitanti (mentre il rapporto era di 1 a 20 in Gran Bretagna e in Francia), un telefono ogni 70 abitanti (1 a 13 in Gran Bretagna, 1 a 27 in Francia), un apparecchio radio ogni 40 (1 a 6 in Gran Bretagna, 1 a 8 in Francia).

La società italiana tra sviluppo e arretratezza

Benito Mussolini arringa la folla dal balcone di palazzo Venezia a Roma

347

C9 il regime fascista in italia

L’arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti fun­ zionale al regime e all’ideologia fascista. Il fascismo, come il nazismo, predicò il “ritorno alla campagna”, lanciando a più riprese la parola d’ordine della ruralizzazione, e tentò di scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l’afflusso dei lavoratori verso i centri ur­ bani. Il regime inoltre, d’accordo in questo con la Chiesa, difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della fa­miglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico. Ispirandosi alla dottrina che identificava la potenza con la forza del numero, il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l’incremento della popolazione: furono aumentati gli assegni fami­ liari dei lavoratori, vennero favorite le assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più prolifiche, venne addirittura imposta una tassa sui celibi. In coerenza con questa linea, il regime IL TOTALITARISMO IMPERFETTO ostacolò il lavoro delle donne (anche in questo caso con scarso successo) e, più in generale, si oppose al processo di emancipazione femminile. In realtà anche le Le strutture dello Stato donne ebbero, durante il fascismo, le loro strutture or­ prevalgono su quelle di partito ganizzative – i Fasci femminili, le Giovani italiane, le Massaie rurali –, ma si trattava di organismi poco vitali, la cui funzione principale stava nel ribadire la centralità Riconoscimento delle organizzazioni giovanili cattoliche delle virtù domestiche, l’immagine tradizionale della donna come “angelo del focolare”.

Il tradizionalismo fascista

Il fascismo, però, non era solo un re­ gime conservatore e immobilista. Se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall’altro era in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazio­ ne dell’“uomo nuovo”, verso un sistema totalitario mo­ derno, in cui l’intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime e pronta a combattere per la gran­ dezza nazionale [►FS, 67]. Per la realizzazione di questa

L’utopia dell’“uomo nuovo”

I LIMITI DEL POTERE FASCISTA

Il re rimane la più alta carica dello Stato Arretratezza economica e tradizionalismo culturale

Consenso passivo dei ceti popolari

Parole della storia

Consenso

N

348

el linguaggio politico moderno, il termine “consenso” indica l’accordo fra i membri di una comunità su alcuni valori e princìpi o su alcuni obiettivi specifici che la comunità stessa si pone attraverso l’azione dei suoi gruppi dirigenti. Nei sistemi democratici e pluralistici, un certo grado di consenso sui princìpi e sulle istituzioni è considerato indispensabile alla vita dello Stato; ma sulle scelte dei governanti il dissenso è ammesso e in qualche misura istituzionalizzato attraverso meccanismi che permettono il ricambio della classe dirigente. Invece nei sistemi autoritari – e soprattutto in quelli totalitari – il dissenso è represso o nascosto, mentre il consenso è dato per scontato, sulla base di una arbitraria

attribuzione al capo, o al partito dominante, della capacità di rappresentare il popolo e di interpretarne i bisogni. Questo non significa che i regimi autoritari non possano godere di autentico consenso popolare. Il problema, per gli storici, è di verificare e misurare questo consenso, in assenza di indicatori attendibili (poiché tali non sono i risultati delle consultazioni elettorali “plebiscitarie” e le manifestazioni di massa organizzate dai regimi stessi). Nel caso del fascismo italiano, ad esempio, si è discusso e si continua a discutere sulla natura e sulle dimensioni del consenso di cui il regime godette. Negli anni ’70 il più autorevole storico del fascismo, Renzo De Felice (1929-1996) [►FS, 66], autore di una grande biografia di Mussolini, ha sostenuto che, per la maggioranza della

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

popolazione, questo consenso fu ampio e stabile, soprattutto nella prima metà degli anni ’30 (prima che cominciasse la fase delle guerre e dell’avvicinamento alla Germania nazista). Altri studiosi hanno contestato sia le conclusioni di De Felice, sia l’attendibilità delle fonti da lui prevalentemente utilizzate (la stampa, le carte di Mussolini, i rapporti di polizia), e hanno affermato che il grosso della popolazione diede al regime niente più che un consenso “passivo”, un’accettazione rassegnata (salvo che in alcuni momenti particolari, come la conquista dell’Etiopia o la conferenza di Monaco). Oggi la maggior parte degli storici tende a riconoscere al fascismo una certa base di consenso, soprattutto fra i ceti medi, anche se ci si rende conto della difficoltà di valutarne la natura e di misurarne con precisione l’entità.

Massaie rurali cardano la lana 1933 [Caerano San Marco, Treviso] La politica del fascismo nei confronti dell’universo femminile fu contraddittoria. Da un lato inquadrò le donne nel ruolo tradizionale della buona madre e della brava moglie, dall’altro rivoluzionò almeno in parte l’immagine delle donne nella società

Littoriali femminili dello sport 1941 [Archivio Storico Luce] favorendone l’attività sportiva, in un’epoca in cui questa era considerata un’occupazione poco consona alla femminilità, oltre che potenzialmente immorale. L’educazione fisica femminile era vista dal fascismo soprattutto come strumento per il

miglioramento della razza (“la donna fascista deve essere fisicamente sana per poter diventare madre di figli sani”); le atlete divennero quindi simbolo della “modernità” del regime e della sua volontà di creare una “donna nuova”.

utopia il ritardo economico e culturale del paese rappresentava però un ostacolo insormontabile. Non era facile far giungere il messaggio fascista nei piccoli paesi dove non arrivavano le strade carroz­ zabili, non c’erano scuole e non si sapeva che cosa fossero la radio e il cinema. Ma era soprattutto la scarsezza delle risorse che impediva al regime di praticare una politica economica e sociale capace di conquistare il consenso delle classi lavoratrici. Nel 1927 venne varata con grande solennità la Carta del lavoro (in cui si parlava fra l’altro di “uguaglianza giuridica” fra imprenditori e prestatori d’opera e di “solidarietà fra i vari settori della produzione”). Ma le generiche enunciazioni della Carta non erano certo sufficienti a ripagare i lavo­ ratori della scomparsa dei sindacati liberi e dunque della perdita di qualsiasi autonomia organizza­ tiva e capacità contrattuale. I vantaggi offerti dall’organizzazione del dopolavoro e i miglioramenti nel campo della previdenza sociale (pensioni, ferie pagate) non bastarono a compensare il calo dei salari reali che, nel settore industriale, scesero del 20% fra il 1921 e il 1939.

Le classi lavoratrici

Non a caso, i maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, il regi­ me li ottenne presso la media e piccola borghesia [►FS, 66]. I ceti medi, infatti, non solo furono complessivamente favo­ METODO DI STUDIO riti dalle scelte economiche del regime e si videro aprire nuovi canali di ascesa  a  Spiega per iscritto in cosa consiste il divario fra l’immagine dell’Italia così come proposta dalla sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici (sia nello Stato, sia nel propaganda fascista e i dati reali. partito e negli enti di nuova istituzione), ma erano anche i più sensibili ai valori  b  Sottolinea, con colori diversi, le informazioesaltati dal fascismo (la nazione, la gerarchia, l’ordine sociale), i più disposti a ni principali che riguardano i seguenti aspetti della società italiana durante il fascismo: a. i valori prorecepirne i messaggi e a farne proprie le parole d’ordine. pagandati dal fascismo; b. il ruolo della donna; c. In sintesi, il fenomeno della fascistizzazione fu ampio, ma riguardò essenzial­ “l’uomo nuovo”. mente gli strati intermedi della società, toccando solo parzialmente le classi po­  c  Indica per iscritto i settori sociali in cui il fascismo raggiunse i maggiori successi, in termini di polari. Il regime riuscì a cambiare, in maniera anche vistosa, i comportamenti partecipazione e di consenso, e indica le cause di pubblici e le forme di partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel pro­ questo fenomeno. fondo mentalità e strutture sociali.

I limiti del consenso al regime

349

C9 il regime fascista in italia



9_3 SCUOLA, CULTURA, INFORMAZIONE

In coerenza con la sua aspirazione al controllo totale della società, il fascismo dedicò un’attenzione particolare alla scuola, già profondamente ristrutturata nel 1923 con la riforma Gentile [►6_6]: una riforma che mirava ad accentuare la severità degli studi e sanciva il primato delle discipline umanistiche, considerate il principale stru­ mento di formazione della classe dirigente. Una volta consolidatosi, il regime si preoccupò di fasci­ stizzare l’istruzione sia con una più stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il controllo dei libri scolastici e l’imposizione, dal 1930, di testi unici per le elementari.

La fascistizzazione della scuola

► Leggi anche: ►     Focus Il liceo in Italia dall’Unità alla riforma Gentile

Rispetto alla scuola elementare e media, l’università godette di una maggiore au­ tonomia. Ma non la usò per contestare le scelte culturali del fascismo. Quando, nel 1931, fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime, su 1200 professori titolari solo una dozzina, per lo più anziani e prossimi alla pensione, rifiutarono di giurare e persero così le cattedre. Vi furono insegnanti non fascisti, o notoriamente antifascisti, che si piegarono all’imposizio­ ne solo per poter continuare la loro attività. Ma, nella maggior parte dei casi, il giuramento non susci­ tò particolari problemi di coscienza.

L’università

In generale, gli ambienti dell’alta cultura – universitaria e non – si allinearono su una posizione di sostanziale adesione al regime. Alcuni fra i nomi più illu­ stri della cultura italiana – oltre a Giovanni Gentile, storici come Gioacchino Volpe, scrittori come Luigi Pirandello, scienziati come Guglielmo Marconi, musicisti come Pietro Mascagni, architetti come Marcello Piacentini – fecero esplicita professione di fede fascista. Molti accettarono di inserirsi nelle istituzioni culturali pubbliche, godendo delle gratificazioni materiali e dei riconoscimenti di cui il fascismo fu prodigo nei loro confronti.

Il consenso degli intellettuali

Ancor più diretto e capillare fu il controllo esercitato dal regime sull’informazione e sui mezzi di comunicazione di massa. Tutto il settore della stampa politica – già fascistizzata fra il ’22 e il ’26 [►6_7] – fu sottoposto a un controllo sempre più stretto e soffo­ cante da parte del potere centrale, che non si limitava alla sempli­ ce censura, ma interveniva con precise direttive sul merito degli articoli. Affidata istituzionalmente a un apposito ufficio – poi tra­ sformato in Ministero per la Cultura popolare (Minculpop), crea­ to nel 1937 a imitazione di quello nazista per la propaganda – la sorveglianza sulla stampa era in realtà esercitata personalmente da Mussolini: il quale, non dimentico del suo passato di giornali­ sta, dedicava alla lettura dei quotidiani una parte notevole del suo tempo.

Il controllo della stampa

Al controllo sulla carta stampata il regime univa quello sulle trasmissioni radiofoniche, affidate, dal 1927, a un ente di Stato denominato Eiar (progenitore dell’attuale Rai). Come mezzo d’ascolto privato, la radio ebbe però una diffusione abbastanza lenta, in confronto a quella dei paesi più sviluppati. Solo dopo il 1935 si affermò come essenziale canale di propaganda, grazie anche alla decisione del governo di installare apparecchi nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle sedi delle organizzazioni di partito. E solo negli ultimi anni ’30 entrò stabilmente nelle case della classe media, influenzandone non poco i gusti e le abitudini.

350

La radio

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Un libro di letture per le elementari approvato dal governo fascista 1929 [copertina del volume di G. Pignatti, Fanciulli Fascisti, Bemporad, Firenze 1929]

Come la radio, anche il cinema fu oggetto privile­ giato delle attenzioni del regime e ne ricevette gene­ rose sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la produzione nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film statunitensi. Sulla normale produzione cinematografica il regime esercitò però un controllo abbastanza elastico, volto più a bandire dalle pellicole qualsiasi argo­ mento politicamente e socialmente scabroso che non a introdurvi temi di esplicita propaganda. Per questo bastavano i cinegiornali d’attualità, prodotti da un apposito ente statale – l’Istituto Luce – e proiettati obbli­ gatoriamente nelle sale cinematografiche [►7_7]. I cinegiornali furono uno dei più importanti strumenti di propaganda di massa di cui dispo­ nesse il fascismo: sia perché raggiungevano un pubblico valutabile in pa­ recchi milioni di persone, sia perché fornivano immagini capaci di attira­ re l’attenzione popolare e scelte accuratamente per meglio illustrare i trionfi del fascismo e del suo capo.

Il cinema

METODO DI STUDIO

 a   Cerchia le parole chiave che si riferiscono ai seguenti argomenti e utilizzale per descriverne sinteticamente i contenuti: a. gli interventi del fascismo nel campo scolastico; b. gli intellettuali e l’adesione al regime; c. il Minculpop; d. l’Eiar e l’Istituto Luce; e. gli strumenti, i punti di forza e quelli di debolezza della ricerca del consenso.



9_4 LA POLITICA ECONOMICA E IL MONDO DEL LAVORO

Fin dai suoi esordi, il fascismo italiano ebbe l’ambizione di presentarsi come por­ tatore di nuove soluzioni nel campo dell’economia. La formula fatta propria uffi­ cialmente dal regime fu quella del corporativismo: un’idea che affondava le sue radici addirittura nel Medioevo, nell’esperienza delle corporazioni di arti e mestieri, e aveva già ispi­ rato nell’800 il pensiero sociale cattolico. In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell’economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in “corpo­ razioni” distinte per settori di attività e comprendenti sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Le istituzioni corporative avrebbero dovuto incarnare una “terza via” fra capitalismo e socialismo e contemporaneamente risolvere il problema della rappresentanza politica secondo criteri diversi da quelli “individualistici” della democrazia. In realtà un vero sistema corporativo non vide mai la luce. Per molti anni le corporazioni restarono un puro progetto. Quando infine vennero istituite, nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti e priva di qualsiasi rappresentatività in quan­ to designata dall’alto. Il fascismo riuscì ugualmente a realizzare interventi importanti nell’economia, ma non inventò un nuovo sistema. E non mantenne nemmeno, nel corso del ventennio, una linea di politica economica coerente.

Il progetto corporativo

Manifesto pubblicitario dell’Ente italiano audizioni radiofoniche (Eiar) L’Ente italiano audizioni radiofoniche (Eiar) trasmetteva non solo i messaggi propagandistici – diffusi con i notiziari – ma anche opere liriche, musica leggera, servizi sportivi, varietà e sceneggiati radiofonici: tutti elementi di quella cultura di massa destinata a svilupparsi su più vasta scala dopo la seconda guerra mondiale e, soprattutto, dopo l’avvento della televisione.

Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo aveva adottato una linea li­ berista, di forte incoraggiamento all’iniziativa privata [►6_6]. Questa politica però aveva provocato, oltre a un consistente incremento produttivo, un riaccen­ dersi dell’inflazione, un crescente deficit negli scambi con l’estero e un deterioramento del valore della lira. Nell’estate del 1925 si ebbe una brusca svolta; e venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell’economia.

Dal liberismo al protezionismo

351

C9 il regime fascista in italia

Prima importante misura fu l’aumento del dazio sui cereali: una misura che si inseriva in una tendenza di lungo periodo volta a fa­ vorire la produzione cerealicola nazionale, ma che questa volta fu accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica detta “battaglia del grano”. L’obiettivo era il raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione dei cereali, da conseguire sia attra­ verso l’aumento della superficie coltivata a frumento, sia mediante l’impiego di tecniche più avanzate: il che avrebbe favorito anche le industrie produttrici di concimi e macchine agricole. Lo scopo fu in buona parte raggiunto: alla fine degli anni ’30 la produzione di grano era aumentata del 50%. Ma il prezzo fu il sacrificio di altri set­ tori, come l’allevamento (danneggiato dalla riduzione dei pascoli), e delle colture rivolte all’esportazione. La seconda “battaglia” fu quella per la rivaluta­ zione della lira. Nell’agosto 1926 il duce an­ nunciò di voler riportare il cambio internazio­ nale della moneta ai livelli precedenti il conflitto mondiale, e fissò l’obiettivo di “quota novanta”, ossia 90 lire per una sterlina (contro le 145 del cambio allora in vigore). Alla base di questa scelta c’era soprattutto il desiderio di dare al mondo un’immagine di stabilità monetaria oltre che politica, rassicurando i risparmiatori. Anche questo obiettivo fu raggiunto, grazie a una forte restrizione del cre­ dito e con l’aiuto di un cospicuo prestito concesso da grandi banche statunitensi. I prezzi diminuirono e la lira recuperò il potere d’ac­ quisto perduto. Ma a goderne non furono i lavoratori, che si videro tagliare i salari in misura più che proporzionale. Molte piccole e medie aziende agricole entrarono in crisi perché strozzate dal calo dei prezzi dei loro prodotti e dalla restrizione del credito. Nel settore industriale, furono colpite soprattutto le imprese che lavoravano per l’esportazione, danneggiate dal­ la rivalutazione della moneta; al contrario, quelle che operavano sul mercato interno poterono gio­ varsi della contrazione del costo del lavoro e di un forte aumento delle commesse pubbliche. Tutto questo avvantaggiò le grandi industrie e favorì i processi di concentrazione aziendale.

La rivalutazione della lira

L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della crisi mondiale: conseguenze meno drammatiche che in altri paesi europei, anche perché la politica economi­ ca adottata dopo il 1925 aveva in qualche modo anticipato gli effetti negativi della crisi. Ma la recessione si fece ugualmente sentire: il commercio con l’estero si ridusse drasticamente (nel ’33 il volume delle esportazioni era più che dimezzato rispetto al ’29); l’agricoltura subì un nuovo colpo a causa del calo delle esportazioni e dell’ulteriore tracollo dei prezzi; le imprese industriali accusarono gravi difficoltà e la disoccupazione aumentò bruscamente. La risposta del regime si attuò su due direttrici principali: lo sviluppo dei lavori pubblici come stru­ mento per rilanciare la produzione (qui si può notare una analogia con le politiche messe in atto sia negli Stati Uniti di Roosevelt sia nella Germania di Hitler); e l’intervento diretto dello Stato a soste­ gno dei settori in crisi.

Gli effetti della grande crisi

La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima metà degli anni ’30. Furono realizzate nuove strade e costruiti nuovi edifici pubblici dove il regime poté appagare il suo gusto per il monumentale. Fu varato il “risanamento” del centro storico della capitale, che provocò la distruzione di interi antichi quartieri. E fu avviato un ambizioso programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero e alla valoriz­ zazione delle terre incolte. Il progetto, ostacolato sia dalle difficoltà della finanza pubblica sia dalle resistenze dei grandi proprietari, fu attuato solo parzialmente. Fu però portata a termine, nel giro di

352

I lavori pubblici

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Manifesto per il concorso nazionale indetto dal governo per celebrare i successi della “battaglia del grano” 1928

soli tre anni (dal ’31 al ’34), la bonifica dell’Agro Pontino, un vasto territorio paludoso e malarico a sud della capitale. In complesso furono recuperati alle colture circa 60 mila ettari. Furono creati 3 mila nuovi poderi dove vennero trasferiti contadini provenienti dalle zone più depresse del CentroNord (soprattutto dal Veneto); furono costruiti villaggi rurali e vere e proprie “città nuove” come Sabaudia e Littoria (l’odierna Latina): per il regime, un indubbio successo propagandistico. Fu comunque nel settore dell’industria e del credito che l’intervento dello Stato assunse le forme più incisive. In difficoltà erano soprattutto le grandi banche (Banca Commerciale e Credito italiano) che erano state create alla fine dell’800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell’industria e che, nel dopoguerra, avevano assunto il controllo di importanti gruppi industriali, soprattutto nel settore siderurgico. Per evitare che la crisi di questi gruppi trascinasse con sé quella delle banche, il governo intervenne creando nel 1931 un nuovo istituto di credito, l’Istituto mobiliare italiano (Imi), col compito di sostituire le banche in difficoltà nel sostegno alle industrie in crisi, e dando vita nel 1933 all’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l’Iri rilevò le partecipazioni industriali delle banche, assumendo così il controllo di alcune fra le maggiori im­ prese italiane, fra cui l’Ansaldo, l’Ilva e la Terni.

La crisi bancaria e l’intervento dello Stato

Nei progetti originari, il compito dell’Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro riprivatizza­ zione. Accadde invece che la vendita ai privati risultò impraticabile (date le di­ mensioni delle imprese e i rischi connessi alla loro gestione) e l’Iri diventò, nel 1937, un ente permanente. In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro paese (salvo naturalmente l’Urss): diventò cioè Stato imprenditore oltre che Stato banchiere, senza con ciò minacciare l’autonomia delle grandi imprese. Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l’intervento statale, che accollava alla collettività i costi della crisi industriale e bancaria.

Lo Stato imprenditore

Queste scelte non si tradussero comunque in una fascistizzazione dell’economia: per gli interventi più importanti Mussolini non si servì di personale proveniente dal partito o dalla nascente burocrazia “corporativa”, ma si affidò piuttosto a tecnici, come l’esperto di agraria Arrigo Serpieri, teorico della bonifica integrale, o come Alberto Beneduce, ex socialista, fondato­ re e primo presidente dell’Iri. Nei nuovi enti che furono detti “parastatali” e nella stessa Banca d’Italia (che vide i suoi poteri ulteriormente rafforzati da una riforma bancaria nel 1936) si formò così una “burocrazia parallela” destinata a svolgere un ruolo di primo piano nell’Italia postfascista.

Il ruolo dei tecnici

9_LA POLITICA ECONOMICA DEL FASCISMO

Obiettivo

Interventi

Esiti

Raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione dei cereali

• Dazio sui cereali • Battaglia del grano

Aumento della produzione cerealicola del 50%, ma a svantaggio dell’allevamento e delle colture rivolte all’esportazione

Stabilità monetaria e deflazione

“Quota novanta”: riportare il cambio con la sterlina da 145 a 90 lire

• Diminuiscono i prezzi, ma anche i salari • Vengono favorite le concentrazioni aziendali

Superare le conseguenze della crisi del ’29

• Impulso ai lavori pubblici • Bonifica dell’Agro Pontino

Grande successo propagandistico

Risolvere la crisi bancaria e industriale

Fondazione di un nuovo istituto di credito, l’Istituto mobiliare italiano (Imi) e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri)

Lo Stato diventa il maggiore imprenditore del paese

Raggiungere l’autosufficienza economica (autarchia)

• Ulteriore stretta protezionistica • Più intenso sfruttamento del sottosuolo • Incoraggiamento alla ricerca applicata

• Rallentamento della crescita nel settore industriale • Economia di guerra

353

C9 il regime fascista in italia

Intorno alla metà degli anni ’30 l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi, sia pure a prezzo di sacrifici non lievi. A questo pun­ to, però, mancarono al regime la capacità e la volontà di profittare della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione. Al contrario, il regime si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari. Alla fine del 1935, traendo spunto dalle sanzioni economiche imposte all’Italia per l’aggressione all’Etiopia [►9_5], Mussolini decise di insistere con la politica “autarchica” già inaugurata con la “battaglia del grano” e consistente nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime utili in caso di guerra. In pratica l’autarchia si tradusse in una ulteriore stretta prote­ zionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili sintetici. I risultati finali non furono brillanti. L’autosufficienza rimase un traguardo irrag­ giungibile e la produzione industriale crebbe piuttosto lenta­ mente. Le spese militari sottrassero risorse ai consumi e agli in­ vestimenti produttivi accentuando l’isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che per i settori interes­ sati alle commesse belliche, quegli effetti positivi che il riarmo produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista. Cominciava per l’Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a prolungarsi senza interruzioni fino al se­ condo conflitto mondiale.

L’autarchia e l’economia di guerra

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto in cosa consiste il progetto corporativo del fascismo.  b  Evidenzia le “battaglie” portate avanti dal fascismo.  c  Descrivi per iscritto le azioni di intervento statale operate durante il fascismo e i fattori che portarono lo Stato a diventare “imprenditore”.  d  Sottolinea le frasi che permettono di comprendere meglio il significato dell’autarchia per l’Italia di questi anni.



L’ingresso alla mostra dell’autarchia a Roma Le misure economiche adottate dal governo fascista furono supportate da una imponente campagna di propaganda con iniziative diverse, che andavano dall’impegno personale del duce, che si faceva ritrarre intento a tagliare spighe di grano o in visita ai lavori di bonifica dell’Agro Pontino, ai concorsi che premiavano gli agricoltori per la migliore produzione di grano, alle mostre fieristiche sull’autarchia, come quella che si tenne a Roma dal novembre 1938 al maggio 1939 dedicata ai progressi italiani in campo minerario.

9_5 LA POLITICA ESTERA E L’IMPERO

Diversamente dalla Germania, uscita sconfitta dalla guerra e punita al tavolo della pace, l’Italia mussoliniana non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali capaci di mobilitare l’opi­ nione pubblica. Nonostante le delusioni subìte a Versailles, era pur sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente la spinosa questione adriatica [►6_1 e 6_3] . Ma non per questo il fascismo poteva accantonare quella vocazione nazionalista ed espansionista che faceva parte dei suoi caratteri origina­ ri e lo portava a proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica. Fino ai primi anni ’30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una generica contestazione dell’assetto europeo uscito dai trattati di Versailles. Il che tutta­ via non impedì all’Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna e di restare all’interno del sistema di sicurezza collettiva fondato sull’intesa fra le 354

La vocazione nazionalista

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

autarchia Il termine “autarchia” letteralmente significa “governo di sé stesso” e indica un tipo di politica economica che si pone come obiettivo l’autosufficienza produttiva e alimentare, per superare la dipendenza dalle importazioni.

economia di guerra Con l’espressione “economia di guerra” si intende l’adeguamento del sistema economico di un paese per far fronte alle necessità belliche, ovvero per reperire le risorse necessarie al conflitto (armamenti, mobilitazione e mantenimento dell’esercito), da un lato attraverso strumenti utili a finanziare le spese di guerra come l’aumento del debito pubblico, la tassazione, l’inflazione; dall’altro con la riorganizzazione della produzione a sostegno dello sforzo militare, per esempio dando maggiore spazio alle produzioni belliche a scapito di quelle civili, o razionando i beni di prima necessità.

potenze vincitrici. Questa fase, culminata negli accordi di Stresa dell’aprile 1935 [►8_8], si esaurì però con l’attacco dell’Italia fascista all’Impero etiopico, allora l’unico grande Stato indipendente del continente africano.

plutocrazia Predominio nella vita pubblica di gruppi finanziari o individui che grazie all’ampia disponibilità di capitali sono ritenuti in grado di influenzare in maniera determinante gli indirizzi politici dei rispettivi governi.

A spingere Mussolini verso un’impresa di cui pochi in Italia sentivano la necessità furono motivi di politica internazionale e interna. Con la conquista dell’Etiopia il duce intendeva innanzitutto dare uno sfo­ go alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando al contempo lo scacco subìto dall’Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economici e sociali del paese [►FS, 68d e 69]. I governi francese e britannico erano disposti ad assecondare, almeno in parte, le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Così, quando all’inizio di ottobre del 1935 l’Italia die­ de inizio all’invasione dell’Etiopia, Francia e Gran Bretagna chiesero al Consiglio della Società delle Nazioni di adottare sanzioni economiche, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessa­ rie all’industria di guerra.

L’impresa etiopica e le sanzioni

Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione, le sanzioni ebbero un’efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società delle Nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania. Le decisioni prese ebbero però l’effetto di approfondire la frattura fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare un’imponente campagna propagandistica tesa a presentare l’Italia come vittima di una congiura internazionale. L’immagine dell’Italia “proletaria” cui le nazioni plutocratiche, già padro­ ne di sterminati imperi coloniali, volevano impedire la conquista di un proprio “posto al sole” riuscì in effetti a far breccia nell’opinione pubblica italiana, non escluse le classi popolari, alle quali fu fatto intravedere il miraggio di nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità di ricchezza da conquistare oltremare. Le piazze si riempirono di folle inneggianti a Mussolini e alla guerra. Studenti e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni anti-inglesi. Milioni di coppie, a cominciare da quella reale, accolsero l’invito del governo a donare alla patria l’oro delle loro fedi nuziali.

La rottura con le democrazie

Sul piano militare l’impresa fu più difficile del previsto: gli etiopici si batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailè Selassiè. Ma il loro esercito, male organizzato e peggio equipaggiato, nulla poteva contro un corpo di spedizione che giunse a impegnare circa 400 mila uomini e fece ampio ricorso ai mezzi corazzati e all’aviazione, usata in più occasioni per bombardare le truppe nemiche con gas letali. Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo Pietro Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo,

L’Impero

Enrico De Seta, Cartolina umoristica destinata alle truppe impegnate in Africa orientale: un soldato italiano fa strage di etiopi usando un insetticida 1935-36 I gas tossici furono usati per la prima volta su ampia scala durante la prima guerra mondiale. Finito il conflitto, tutti i principali paesi del mondo (con la sola eccezione degli Stati Uniti) avevano firmato nel 1928 una convenzione per la messa al bando degli aggressivi chimici, anche se nessuno aveva rinunciato a fabbricarli. Ciononostante, l’esercito italiano fece ampio uso di gas in Africa già contro i ribelli libici, tra il 1923 e il 1931, e poi ancora nell’attacco all’Etiopia del ’35-36. L’iprite fu l’aggressivo chimico più usato negli anni ’30. Il liquido corrosivo, e quindi mortale, era introdotto in bombe che venivano sganciate dall’aviazione in particolare sui punti strategici delle retrovie (strade, villaggi, guadi, accampamenti, corsi d’acqua...), lontano dal fronte, per evitare di colpire i propri soldati. La bomba, una volta esplosa a terra, irrorava goccioline di iprite su una vasta area e il suo effetto letale durava diversi giorni.

355

C9 il regime fascista in italia

Mussolini poteva annunciare alle folle plaudenti «la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma» e offrire a re Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d’Etiopia. Da un punto di vista economico la conquista dell’Etiopia, paese povero di risorse naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l’Italia un peso non indifferente, cui si aggiunsero i problemi suscitati dalle sanzioni. Ma sul piano politico il successo fu indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e co­ stringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni furono ritirate nell’estate 1936), Mussolini diede a molti la sensazione, illusoria, di aver conquistato per l’Italia una posizione di grande potenza. Inebriato dal successo, il duce credette di poter condurre una politica ambiziosa e spregiudicata, sfruttando ogni occasione (come, per esempio, la guerra civile in Spagna: ►8_9) per allargare l’area di influenza italiana. In questo piano rientrava anche l’avvicinamento dell’Italia alla Germania, cominciato subito dopo la guerra d’Etiopia e sancito, nell’ottobre 1936, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino. Rafforzata dal comune impegno nella guerra civile spagnola e, nell’autunno ’37, dall’adesione italiana al cosiddetto patto anti-Comintern (un accordo stipulato l’anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a lottare contro il comunismo internazionale), l’Asse Roma-Berlino non era ancora una vera alleanza militare. Mussolini considerava infatti l’appoggio alla Germania non tanto come una scelta irreversibile, quanto come uno strumento che, aumentando il peso contrattuale dell’Italia, le consentisse di ottenere qualche ulteriore vantaggio in campo coloniale: il tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un conflitto in posizione di forza.

L’Asse Roma-Berlino

Ma il dinamismo aggressivo della Germania non consentì a Mussolini i tempi e gli spazi di manovra necessari per realizza­ re il suo programma. Credendo di potersi servire dell’amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler (comprese quelle più sgradite come l’annessione dell’Austria). Finché, nel maggio 1939, si decise alla scelta che sarebbe risultata fatale al regime e al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania – il “patto d’ac­ ciaio” – che legava definitivamente le sorti dell’Italia a quelle dello Stato nazista.

Il “patto d’acciaio”



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea, con colori diversi, le informazioni principali che riguardano i seguenti aspetti dell’impresa etiopica: a. gli obiettivi che Mussolini intendeva raggiungere; b. gli eventi; c. le reazioni internazionali e quelle italiane; d. gli esiti. Quindi sintetizza per iscritto i risultati della tua analisi.  b   Evidenzia le tappe di avvicinamento fra l’Italia e la Germania nazista e cerchia le date di riferimento.

9_6 LA STRETTA TOTALITARIA E LE LEGGI RAZZIALI

La vittoriosa campagna contro l’Etiopia segnò per il regime fascista l’apogeo del successo e della popolarità. Ma, svaniti gli entusiasmi che avevano accompagna­ to l’impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi conobbe alcune significative incrinature. A suscitare preoccupazione era soprattutto il nuovo indirizzo di poli­ tica estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore di questi anni, il genero Galeazzo Ciano, assurto poco più che trentenne alla carica di ministro degli Esteri. L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era l’amicizia con la Germania: un’amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della Grande Guerra, e soprattutto contro la diffusa antipatia (anche se talvolta mista a una certa dose di ammirazione) di cui era oggetto lo Stato nazista. La politica mussoliniana si mo­ strava inoltre avara di risultati immediati e faceva sembrare più vicina l’eventualità di una nuova guer­ ra europea. Non fu un caso se le uniche manifestazioni di spontaneo entusiasmo popolare di questo periodo si ebbero in coincidenza col ritorno di Mussolini dalla Conferenza di Monaco del ’38 [►8_10], e furono rivolte al duce (che non le gradì) in quanto presunto salvatore della pace.

Le incrinature del consenso

Ma le aspirazioni alla pace contrastavano con i programmi di Mussolini. Il duce auspicava per l’Italia un avvenire di imprese militari e pensava che gli italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel pro­ fondo, trasformandosi in un popolo di conquistatori e di guerrieri. Ciò implica­ va da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in parti­

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La campagna antiborghese di Mussolini

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

colare della borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita comoda, ricerca del profitto individuale anteposta al perseguimento di superiori ideali collettivi) che doveva essere definitivamente estirpato dal costume nazionale. Per avvicinarsi a questo obiettivo, il regime doveva diventare più totalitario di quanto non fosse stato fino ad allora. Da qui scaturirono alcune modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del Ministero per la Cultura popolare all’accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio (Gil), dall’amplia­ mento delle funzioni del Partito fascista alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si entrava sempli­ cemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime. A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un’idea del clima di quegli anni: la campagna contro l’uso del “lei” (considerato “servile” e poco italiano e da sostituirsi quindi col “voi”) e contro tutti i termini stra­ nieri; l’imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l’adozione del “passo romano” (una variante del “passo dell’oca” in uso nell’esercito tedesco) per conferire un aspetto più marziale alle sfilate militari.

La radicalizzazione del regime

Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l’introduzione, nell’autunno del 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle grandi linee quelle naziste del ’35 [►8_5], escludendo gli israeliti dagli uffici pubblici, limitandone l’accesso alle professioni e vietando i matrimoni misti. Preannunciata da un manifesto di dieci scienziati (in cui si sosteneva l’esistenza di una “pura razza italiana” di indiscutibile origine ariana) e preparata da un’intensa campagna di stam­ pa [►FS, 70d], la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto – al contrario della Germania, della Russia e della stessa Francia – forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità ebraica era assai poco numerosa (circa 50 mila persone concentra­ te per lo più a Roma e nelle città del Centro-Nord) e complessivamente ben integrata nella società. Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell’orgoglio razziale e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione (non vi

Le leggi razziali

◄  Copertina

del primo numero della rivista «La difesa della razza» 1938 [Biblioteca Nazionale, Torino] La rivista, fondata nel luglio 1938, fu il principale organo di stampa specificamente dedicato alla campagna razzista che il governo fascista italiano inaugurò ufficialmente con la promulgazione della legislazione antiebraica.

▼  Vignette

1938

di propaganda delle leggi razziali

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C9 il regime fascista in italia

furono in Italia, né allora né in seguito, episodi di violenza popolare contro gli ebrei, come mancaro­ no, d’altro canto, le proteste e le manifestazioni di solidarietà con le vittime), le leggi razziali furono accolte con indifferenza o con perplessità dall’opinione pubblica; e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni non religiose, ma biologico-razziali. In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni ’30 per fare del regime fascista un totalitarismo pienamente realizzato e per cambiare la mentalità degli italiani ebbe risultati mediocri. L’unico settore della società in cui le aspira­ zioni totalitarie ottennero qualche successo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani più im­ METODO DI STUDIO pegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai “littoriali del a  Sottolinea le cause dei primi malumori nei la cultura” (concorsi nazionali riservati ai migliori studenti medi e universitari) si confronti del regime. abituarono a “pensare fascista”, a considerare il regime come una realtà immutabi­  b  Evidenzia la descrizione delle aspirazioni le, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue linee di fondo. Fu solo con lo di Mussolini per il popolo italiano e per i giovani e cerchia l’evento che incrinò il rapporto con questi scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a perdere ultimi. progressivamente il sostegno sul quale più contava: quello appunto dei giovani. I  c  Spiega per iscritto in cosa consiste la radicalizquali, diventati nel frattempo soldati e ufficiali, vissero in prima persona il falli­ zazione del regime, a livello politico e per quel che riguarda il rapporto con gli ebrei, e quali furono le mento di un regime che, avendo puntato tutto sulla politica di potenza, si dimostrò conseguenze. poi incapace di preparare sul serio la guerra e la perse rovinosamente.

Il coinvolgimento dei giovani



9_7 L’ANTIFASCISMO ITALIANO

A partire dalla metà degli anni ’20 – da quando cioè ogni forma di dissenso politico fu proibita e punita co­ me un crimine – un numero crescente di italiani do­ vette affrontare il carcere o il confino politico, l’esilio o la clandestinità [►FS, 71]. Non tutti gli antifascisti sperimentarono i rigori della repressio­ ne. Molti, anzi i più, scelsero il silenzio o cercarono di sfruttare i ridotti spa­ zi di autonomia culturale che il regime lasciava sussistere purché non si trasformassero in centri di opposizione politica. Fu questa la strada scelta dalla maggior parte dei popolari e dei liberali non fascistizzati e anche da molti socialisti. Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente appoggio da parte di una Chiesa che restava pur sempre alleata del fascismo, i liberali trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla sua notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime (preoccupato per i danni di immagine che gli sarebbero derivati da un intervento repressivo), l’anziano filosofo poté pro­ seguire senza eccessivi fastidi la sua attività culturale e pubblicistica, evi­ tando però ogni esplicita presa di posizione politica. Grazie ai suoi libri e alla sua rivista «La Critica», che continuò a stamparsi per tutto il ventennio, molti intellettuali ebbero la possibilità di conoscere e mantenere in vita la tradizione dell’idealismo liberale, contrapposta a quella nazionalista e tendenzialmente totalitaria impersonata da Gentile.

Il silenzio e l’esilio interno

Per coloro che intendevano opporsi attivamente alla dittatura, restavano aperte solo due strade: l’esilio all’estero e l’agitazione clandestina in patria. A praticare fin dall’inizio quest’ultima forma di lotta furono soprattutto, anche se non esclusiva­ mente, i comunisti: gli unici preparati all’attività cospiratoria, sia per le caratteristiche della loro struttura organizzativa, sia perché erano stati

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La clandestinità

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Benedetto Croce e Giovanni Laterza L’opera di Benedetto Croce costituì un punto di riferimento fondamentale per tutta la cultura antifascista, e in particolare per quella di ispirazione liberale. Il suo incontro (1901) con la casa editrice Laterza fu decisivo per i destini di quest’ultima, in quanto saldò le sorti di una piccola iniziativa editoriale di provincia all’ambizioso programma del filosofo di costruire e diffondere una cultura di forte impianto idealistico e storicistico. Croce rappresentò il principale riferimento dell’antifascismo culturale negli anni più bui del ventennio fascista.

oggetto per primi di una repressione sistematica da parte delle autorità. Durante tutto il ventennio, il Partito comunista riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall’interno e dall’estero una propria rete clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di propaganda, a infiltrare suoi uomini nei sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i modesti risultati im­ mediati e gli altissimi rischi cui andavano incontro i militanti: più di tre quarti dei 4500 condannati dal Tribunale speciale [►6_7] e degli oltre 10 mila confinati fra il ’26 e il ’43 furono infatti comunisti.

confino politico Provvedimento che colpiva gli oppositori politici e consisteva nell’obbligo, imposto dalle autorità di polizia, senza bisogno di un processo, di dimorare in una località isolata, lontano dal proprio luogo di residenza o da quello in cui si svolgeva attività politica. Furono luoghi di confino dell’Italia fascista le piccole isole (come Ponza, Ventotene, Ustica, le Tremiti) e alcuni paesi situati nelle zone interne del Sud Italia.

Anche gli altri gruppi antifascisti (socialisti riformisti e massimalisti, repubblica­ ni, liberali di sinistra) cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clande­ stino in Italia. Ma la loro attività principale si svolse all’estero, soprattutto in Francia, già sede di una numerosa comunità italiana, dove si erano rifugiati molti esponenti antifa­ scisti (fra cui i vecchi capi del socialismo italiano come Turati e Treves e i leader della generazione più giovane, come Pietro Nenni e Giuseppe Saragat). Nel 1927 questi gruppi si federarono in un’organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista, che si ricollegava all’esperienza dell’Aventino [►6_6], ereditandone però, con il contenuto ideale, an­ che i limiti pratici e le divisioni interne. Nonostante ciò, i partiti della Concentrazione svolsero un’atti­ vità importante a livello di testimonianza e di propaganda, fecero sentire la voce dell’Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, stamparono i loro giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui possibili fattori di una riscossa democratica [►FS, 72]. Di particolare interesse fu la riflessione autocritica che vide impegnati i socialisti e che portò, nel 1930, in un congresso tenuto a Parigi, alla riunificazione dei due tronconi (massimalista e riformista) in cui il Psi si era diviso nel ’22 [►6_5].

L’emigrazione politica

Un nuovo impulso all’azione concreta contro il fascismo e un’aperta critica alla tattica attendista della Concentrazione vennero dal movimento di Giustizia e Libertà (in sigla GL), fondato nell’estate del ’29 da due antifascisti della giovane generazione: Emilio

Giustizia e Libertà

Lorenzo Da Bove, Filippo Turati, Carlo Rosselli, Sandro Pertini e Ferruccio Parri in Corsica 1926 Nel dicembre del 1926, all’indomani delle “leggi eccezionali” varate dal regime, un gruppo di militanti antifascisti organizzò l’espatrio clandestino verso la Francia dell’anziano Filippo Turati, padre fondatore del socialismo italiano, per sottrarlo alle minacce della dittatura. Gli ideatori della fuga, Carlo Rosselli e Ferruccio Parri (il terzo e l’ultimo da sinistra, nella foto; il primo è Lorenzo Da Bove, il secondo Turati, il quarto Sandro Pertini), rientrando in Italia, furono fermati e arrestati. Il 9 settembre 1927, a Savona, iniziò il processo contro di loro: Parri e Rosselli attaccarono frontalmente il regime, giustificando il loro gesto come una necessità di fronte all’ondata di violenze e persecuzioni. Il verdetto del processo fece scalpore: gli imputati furono ritenuti colpevoli e condannati al confino, ma furono riconosciute le circostanze attenuanti derivanti dal fatto che la situazione di eccezionalità in cui versava il paese rappresentava un reale pericolo di vita per il leader socialista. Lo scrittore Carlo Levi, presente al processo, scrisse che «la sentenza fu coraggiosa. Riconoscere lo stato di necessità nell’espatrio di Turati significava affermare l’illegalità del regime».

359

C9 il regime fascista in italia

Lussu e Carlo Rosselli [►FS, 74d], che nel ’37 sarebbe stato assassinato in Francia da sicari fascisti assieme al fratello Nello. GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta, capace di far concorrenza ai comunisti sul piano dell’attività clandestina (infatti riuscì a costi­ tuire piccoli nuclei organizzati in varie città); ma si pro­ poneva anche come nucleo di una nuova formazione politica che sapesse coniugare gli ideali di libertà e di giustizia sociale, ricomponendo la frattura fra liberali­ smo e socialismo secondo le linee indicate da Rosselli in un libro del 1930 intitolato Socialismo liberale. Fortemente polemici verso i par­ titi della Concentrazione, ma al­ trettanto ostili ai tentativi di GL, erano i comunisti, attestati su una posizione di rigido isolamento. Anche i comunisti avevano un “centro estero” con sede a Parigi, ma il vero centro dirigente era a Mosca. Palmiro Togliatti [►FS, 73d], il leader che guidò il partito negli anni dell’esilio, era anche un dirigente di primo piano della Terza Internazionale. Era dunque inevitabile che il Pci si allineasse senza riserve alla strategia dettata da Mosca, che ne seguisse fe­ delmente anche le formulazioni più settarie, che si adeguasse all’imperante culto di Stalin. I diri­ genti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le critiche alla linea ufficiale formulate in carcere da leader come Umberto Terracini e Antonio Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Egualmente sconosciute rimasero le originali riflessioni sulla storia d’Italia, sul ruolo degli intellettuali e sulla strategia del partito elaborate, sempre in carcere, da Gramsci e affidate ai quaderni di appunti che sarebbero stati pubblicati nel secondo dopoguerra, molti anni dopo la morte, nel 1937, del loro autore.

I comunisti

Antonio Gramsci in una foto giovanile Il dirigente comunista si spense in una clinica romana nel 1937, malato da tempo e provato dagli anni di carcere. Nei suoi Quaderni del carcere Gramsci riprese e approfondì le riflessioni compiute fra il 1919 e il ’26 sul problema della rivoluzione. Nei paesi sviluppati la rivoluzione andava intesa soprattutto in termini di conquista dell’egemonia, culturale prima che politica, sull’intera società da parte di una classe operaia resa pienamente consapevole del suo ruolo.

A metà degli anni ’30, la svolta dei “fronti popolari” [►8_8] aprì anche per l’anti­ fascismo italiano una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti con le altre forze d’opposizione, partecipare alle manifestazioni unitarie contro il fascismo, stringere nel ’34 un patto di unità d’azione con i socialisti. Ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto con l’esperienza della guerra di Spagna, durò solo pochi anni. Il fallimento del Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano in Spagna, gli echi delle “grandi purghe” sta­ liniane, la rottura fra l’Urss e le democrazie occidentali culminata, come vedremo più avanti, nel patto tedesco-sovietico del ’39 si ripercossero negativamente sull’unità del movimento antifascista italiano, che fu colto disorientato e diviso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.

I “fronti popolari”

Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai suoi scar­ si successi immediati, si dovrebbe concludere che la sua incidenza sulla situa­ zione italiana di quegli anni fu poco più che nulla. Per molto tempo gli antifascisti attesero invano un grande sommovimento popolare che METODO DI STUDIO abbattesse il regime. Si illusero che lo scossone potesse venire dalla grande crisi  a  Cerchia con colori differenti le forme di dissenso che furono esercitate nei confronti del fascio dall’avventura etiopica, dovendo poi constatare che il fascismo era uscito raf­ smo e sottolinea, mantenendo i colori scelti, i forzato dall’una e dall’altra. Eppure il movimento antifascista svolse, fra il ’26 e il nomi dei partiti che le portarono avanti. ’43, un ruolo di grande importanza politica oltre che morale: testimoniò con la  b  Sintetizza sul quaderno le azioni compiute e la strategia adottata dai seguenti partiti e soggetti sua sola presenza l’esistenza di un’Italia che non si piegava alla dittatura e ad politici in opposizione al fascismo e gli effetti ragessa diede voce e rappresentanza politica; rese possibile il sorgere, dopo il ’43, di giunti: a. Partito comunista; b. Giustizia e Libertà; c. esponenti socialisti e repubblicani. un movimento di resistenza armata al nazifascismo (movimento che invece  c  Sintetizza l’ultimo sottoparagrafo mettenmancò in Germania); anticipò con le sue riflessioni teoriche e i suoi dibattiti do in rilievo le motivazioni riportate. molti tratti della futura Italia democratica.

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Un bilancio dell’antifascismo

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

LABORATORIO DI CITTADINANZA I RAPPORTI TRA STATO E CHIESA IN ITALIA

I

n Italia, il problema della definizione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica emerse già durante il processo di unificazione. Lo Statuto albertino (1848), pur concedendo la tolleranza per gli altri culti, affermava che il cattolicesimo era la sola religione dello Stato. Negli anni successivi, però, furono proclamate delle leggi anticlericali, che diedero inizio alla fase separatista dei rapporti tra il Regno di Sardegna – e poi il Regno d’Italia – e la Chiesa. Esse esclusero, per esempio, il controllo della Chiesa sull’istruzione, abolirono il tribunale ecclesiastico, il diritto di immunità e il diritto di asilo nei luoghi sacri. Dopo l’Unità d’Italia furono denunciati tutti i concordati tra la Chiesa e gli Stati preunitari, fu cancellato l’insegnamento della religione nelle scuole e fu sospeso il riconoscimento di ordini, corporazioni e congregazioni religiose, di cui lo Stato incamerò parte dei beni; il Codice civile del 1866 ammise poi il matrimonio civile come l’unico valido. Il 27 marzo 1861 Cavour aveva pronunciato in Parlamento il discorso sulla “libera Chiesa in libero Stato”, in cui proclamava Roma, ancora sotto la sovranità del papa, capitale “naturale” del Regno. Nasceva così, assieme allo Stato unitario, la cosiddetta “questione romana”, la controversia che condizionò i rapporti tra lo Stato e la Chiesa fino al 1929. Già il 30 gennaio 1868 la Sacra Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari stabilì che la partecipazione alla vita politica “non era conveniente” (non expedit) per i cattolici, ai quali fu vietato di votare alle elezioni politiche, mentre la partecipazione era concessa per quelle amministrative. La rottura divenne irrevocabile con l’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870). Dopo aver invano cercato una soluzione concordata, il governo italiano decise di regolare con un atto unilaterale la posizione del pontefice. Il 13 maggio 1871 fu così emanata la legge delle Guarentigie (“garanzie”), che riconosceva al papa – la cui persona fu dichiarata sacra e inviolabile  – la piena libertà nell’esercizio del suo magistero spirituale e la sovranità sui palazzi del Vaticano, del Laterano e sulla villa di Castel Gandolfo; si conservava, anche, “a favore della Santa Sede la dotazione dell’annuale rendita di £ 3.225.000”. Inoltre, la legge disciplinava i rapporti tra Stato e Chiesa stabilendo la reciproca indipendenza. Pio

IX rifiutò questa legge e si dichiarò prigioniero dello Stato italiano ribadendo ufficialmente (nel 1874) la formula del non expedit; i governi italiani, invece, la rispettarono e conservarono i capitali accumulati dalla prevista dotazione annuale a favore della Santa Sede. Con l’inizio del XX secolo, la Chiesa si mostrò più disponibile a risolvere la questione romana. Nel 1905, con l’enciclica Il fermo proposito, Pio X (1903-14), pur non abolendo il non expedit, permise ai cattolici di entrare in Parlamento a titolo personale. Nel 1909, poi, mise alla direzione dell’Unione elettorale cattolica italiana Vincenzo Ottorino Gentiloni, che promosse un accordo con i liberali in vista delle elezioni politiche del 1913 (patto Gentiloni). In chiara funzione antisocialista, ai cattolici fu consentito di votare i candidati liberali che si erano impegnati a osteggiare eventuali provvedimenti anticlericali. Con l’elezione al soglio pontificio di Benedetto XV (1914-22) iniziò, poi, una collaborazione indiretta e ufficiosa tra lo Stato e la

Chiesa; nel 1919 il papa abolì il non expedit, legittimando il neonato Partito popolare italiano. Dal 1922, con la presa del potere da parte del fascismo, l’Italia e la Chiesa si avvicinarono ulteriormente. Benito Mussolini, abbandonato il suo precedente anticlericalismo, diede sempre più importanza al ruolo istituzionale della Chiesa: dal 1923 si susseguirono numerosi incontri tra rappresentanti del governo italiano e il segretario di Stato vaticano, il cardinal Gasparri. Nello stesso anno, inoltre, la riforma Gentile dell’istruzione scolastica introduceva l’insegnamento della religione cattolica e disponeva l’esposizione del crocifisso nelle aule. I contatti tra il governo italiano e i rappresentanti della Chiesa si fecero più intensi a partire dal 1925 e, nell’agosto del 1926, diventarono ufficiali. L’11 febbraio 1929 Mussolini e il segretario di Stato cardinal Gasparri firmarono i Patti lateranensi che, oltre al pagamento dell’indennità prevista già dalla legge delle Guarentigie, prevedevano il libero esercizio del potere spirituale, del culto e della giurisdizione in materia ecclesiastica da parte della Chiesa, gli effetti civili del matrimonio religioso, la parificazione delle scuole private

La firma del Concordato tra l’Italia e la Chiesa cattolica 11 febbraio 1929 [Istituto Nazionale Luce] L’11 febbraio del 1929 nel Palazzo Lateranense a Roma fu siglato l’accordo fra lo Stato italiano e la Santa Sede. Il segretario di Stato cardinal Gasparri (1852-1934) era il delegato del pontefice che condusse le trattative con Mussolini e il governo fascista.

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C9 il regime fascista in italia

con quelle pubbliche, l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari e medie e l’esenzione dei sacerdoti dal servizio militare. Il modello dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa passò così da quello separatista a quello concordatario. Caduto il regime fascista, nell’Assemblea costituente si pose il problema del riconoscimento dei Patti lateranensi. Con l’articolo 7 della Costituzione italiana si affermò che lo Stato e la Chiesa cattolica sono “indipendenti e sovrani”, ma che i loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi e che le modificazioni di essi, “accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Lo Stato italiano poteva modificare il trattato solo tramite accordo con la Chiesa o modificando la Costituzio-

ne. Fino agli anni ’80 del ’900 non vi furono cambiamenti nel sistema dei rapporti tra Stato e Chiesa. Tuttavia, la laicizzazione della società – evidente ad esempio nell’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto negli anni ’70, in aperto contrasto con il magistero cattolico –, il confronto con altre confessioni e il riconoscimento della libertà di religione, insieme con le aperture portate dal Concilio Vaticano II [►15_9], evidenziarono la necessità di rivedere alcune norme concordatarie. Il 18 febbraio 1984, con gli accordi di Villa Madama firmati dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal segretario di Stato cardinal Casaroli, fu varato il Nuovo Concordato. La Chiesa cattolica e le confessioni religiose che ne facciano richiesta possono beneficiare dell’attribuzione di una percentuale

delle ritenute fiscali (“otto per mille”) sulle tasse dei cittadini che lo desiderino. L’insegnamento della religione cattolica, non più obbligatorio, è stato però garantito in tutte le scuole, a spese dello Stato; gli insegnanti di religione sono comunque scelti dalla Chiesa, che richiede una “testimonianza di vita cristiana”. A partire dagli anni ’90, dopo il crollo della Democrazia cristiana, il partito che per tutta la storia repubblicana aveva espresso gli orientamenti dell’elettorato cattolico, la Chiesa è intervenuta spesso nella politica italiana, soprattutto su questioni riguardanti la bioetica: la disciplina che si occupa degli interrogativi morali sollevati dagli avanzamenti della ricerca scientifica, per esempio nel campo della genetica, della fecondazione artificiale e della eutanasia.

LABORATORIO DI SCRITTURA DI CITTADINANZA 1 Utilizzando le informazioni contenute nella scheda, redigi un testo (max 10 righe di documento Word) intitolato

Lo Stato italiano e la questione romana in cui ripercorri i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica dall’età liberale alla fine del XX secolo. Sviluppa l’argomento a partire dalla scaletta che ti proponiamo.

● La fase preunitaria e le leggi anticlericali ● “Libera Chiesa in libero Stato”: la fase postunitaria e la radicalizzazione del modello separatista ● L’età fascista e il passaggio dal modello separatista a quello concordatario: i Patti lateranensi ● L’età repubblicana: dall’articolo 7 della Costituzione al Nuovo Concordato del 1984 LA LAICITÀ DELLO STATO E LA LIBERTÀ RELIGIOSA NELLA COSTITUZIONE 2 Il ragionamento che sottende il principio della laicità dello Stato, affermatosi pienamente in Europa nel corso del XIX

secolo, è il seguente: se le istituzioni statali appartengono ai cittadini, qualunque sia il loro credo religioso, allora esse non devono avere alcuna caratterizzazione religiosa. Parimenti, lo Stato deve garantire la libertà spirituale e organizzativa di tutte le confessioni religiose. A questo principio si ispira anche la nostra Costituzione repubblicana, agli artt. 7, 8, 19.

Art. 7: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le mo­ dificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

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Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libe­ re davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cat­ tolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Art. 19: Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o as­ sociata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

Prima dell’entrata in vigore della Costituzione, l’articolo 1 dello Statuto albertino recitava: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Cosa significava questo? Che lo Stato italiano era uno Stato confessionale, nel senso che aveva una religione di Stato. Rileggi attentamente gli articoli 8 e 19 della nostra Costituzione e rispondi alle seguenti domande: a. Cosa si stabilisce in materia di esercizio di libertà religiosa? b. Quale significato contrastivo hanno gli incisi presenti negli articoli 8 e 19 rispetto all’articolo 1 dello Statuto albertino? Rifletti ora sulla prima parte dell’articolo 7. A tuo parere, quando il dettato costituzionale afferma che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», intende forse rimarcare che nessuna Chiesa, nessuna confessione religiosa, nemmeno quella cattolica, ha il potere o il privilegio di legittimare le nostre istituzioni? Argomenta la tua risposta. Soffermati ora sulla seconda parte dell’articolo, che rimanda ai Patti lateranensi. Se è indubbia la scelta di laicità da parte dei Padri costituenti, è vero anche che la religione cattolica occupa un posto privilegiato. Come si concilia dunque, nella Costituzione, il principio della laicità con l’evidente posizione di privilegio della religione cattolica? Per rispondere alla domanda, ritorna sul testo della scheda e sottolinea il passaggio che, a tuo parere, offre una risposta plausibile all’interrogativo.

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C9 il regime fascista in italia

SINTESI

9_1 LO STATO FASCISTA Nel regime fascista l’organizzazione dello Stato e quella del partito venivano a sovrapporsi. Fu la prima però a prevalere, mentre la funzione del Pnf fu quella di “occupare” la società civile, soprattutto attraverso le sue organizzazioni collaterali: l’Opera nazionale dopolavoro, che si occupava del tempo libero dei lavoratori, le numerose organizzazioni giovanili e l’Opera nazionale Balilla che inquadrava tutti i ragazzi fra gli otto e i diciotto anni. Un primo ostacolo a questo processo di completa fascistizzazione della società era rappresentato dalla Chiesa, la cui influenza venne espressamente riconosciuta coi Patti lateranensi (1929). I Patti rappresentarono, per il fascismo, anche un successo politico, sancito dalle prime elezioni plebiscitarie – tenute col sistema della lista unica e indette in quello stesso anno. Altro ostacolo ai propositi totalitari era la presenza del re quale massima autorità dello Stato. La monarchia rimase, infatti, un punto di riferimento per i militari e la borghesia conservatrice e questa presenza costituì per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza.

“fascistizzazione” perseguita dal regime, portatore di un’ideologia tradizionalistica e insieme aspirante alla creazione di un “uomo nuovo”, poté realizzarsi solo in parte: il fascismo riuscì a ottenere il consenso della piccola e media borghesia, ma solo in misura limitata quello delle classi popolari, che videro diminuire i loro salari e i loro consumi.

9_3 SCUOLA, CULTURA, INFORMAZIONE Il regime cercò di esercitare uno stretto controllo sulla scuola e, in generale, sul mondo della cultura. Molti intellettuali fecero esplicita professione di fede fascista, altri scelsero un’opposizione silenziosa. Il regime controllò capillarmente la stampa e i mezzi di comunicazione di massa, consapevole della loro importanza ai fini del consenso. Il controllo era affidato a uno specifico ministero (Minculpop). La radio e il cinema divennero fondamentali strumenti di propaganda. Ne erano un esempio i cinegiornali di attualità dell’Istituto Luce.

9_4 LA POLITICA ECONOMICA E IL MONDO DEL LAVORO

Negli anni del fascismo, nonostante l’aumento dell’urbanizzazione e degli addetti all’industria e ai servizi, e la stessa immagine trionfante propagandata dal regime, la società italiana restava notevolmente arretrata. La

Il fascismo proponeva il modello economico corporativo, ovvero la gestione diretta da parte delle categorie produttive organizzate in corporazioni formate da imprenditori e lavoratori insieme. Ma tale progetto rimase sostanzialmente sulla carta. Sul

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9_2 UN TOTALITARISMO IMPERFETTO

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

piano della politica economica si passò nel 1925 da una linea liberista a una protezionistica e di maggior intervento statale. Sempre nel ’25, Mussolini lanciò la “battaglia del grano” il cui obiettivo era il raggiungimento dell’autosufficienza cerealicola. Un anno dopo attuò la rivalutazione della lira (“quota novanta”) per dare al paese un’immagine di stabilità monetaria. Di fronte alla crisi del 1929, il regime reagì attraverso una politica di lavori pubblici (come la bonifica delle Paludi Pontine) e intervenendo direttamente per salvare grandi banche e industrie in difficoltà. Fu creato un nuovo istituto di credito (Imi) e, nel 1933, nacque l’Iri, che rilevò le partecipazioni industriali delle banche. Con l’Iri lo Stato italiano acquisì il controllo di una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro paese occidentale, facendosi Stato imprenditore. Superata la crisi, il fascismo indirizzò l’economia verso l’autarchia e la produzione bellica che sottrassero, però, risorse ai consumi privati.

9_5 LA POLITICA ESTERA E L’IMPERO Fino ai primi anni ’30 le aspirazioni imperiali, pur connaturate all’ideologia del fascismo, rimasero vaghe. L’aggressione all’Etiopia (1935) mutò bruscamente la posizione internazionale del regime. Se l’impresa costituì un grosso successo politico per Mussolini, significò anche una rottura con le potenze democratiche. Questa rottura fu accentuata dall’intervento nella guerra civile spagnola e dal riavvicinamento alla Germania (sancito, nel 1936, dall’Asse Roma-Berlino). Tale riavvicinamento era concepito

da Mussolini come un mezzo di pressione su Francia e Gran Bretagna: si sarebbe risolto invece, con la firma del “patto d’acciaio” (1939), in una subordinazione alle scelte di Hitler.

9_6 LA STRETTA TOTALITARIA E LE LEGGI RAZZIALI Il consenso ottenuto dal regime cominciò a incrinarsi dopo l’impresa etiopica. L’avvicinamento alla Germania suscitò timori e dissensi nella maggioranza della popolazione. Nell’autunno del 1938 furono varate le leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei che ricalcavano quelle naziste, escludendo gli ebrei dagli uffici pubblici, limitandone l’esercizio delle professioni e vietando i matrimoni misti. Rivolte contro una comunità poco numerosa (circa 50 mila persone concentrate per lo più a Roma e nelle città del Centro-Nord) e ben integrata nella società, le leggi razziali furono accolte con perplessità dall’opinione pubblica e aprirono un contrasto con la Chiesa. Soltanto fra i giovani il disegno mussoliniano di trasformare in senso fascista la vita e la mentalità degli italiani ottenne qualche successo.

9_7 L’ANTIFASCISMO ITALIANO In italia la maggioranza degli antifascisti rimase in una posizione di silenziosa opposizione. I comunisti

invece si impegnarono, benché con scarsi risultati, nell’agitazione clandestina in patria. Sulla stessa linea si mosse il gruppo di Giustizia e Libertà, di indirizzo liberal-

socialista. Gli altri gruppi antifascisti, in esilio all’estero – socialisti, repubblicani, democratici, federati nel 1927 nella Concentrazione antifascista – svolsero

soprattutto un’opera di elaborazione politica in vista di una sconfitta del regime che l’antifascismo, di fatto, non era in grado di provocare. Nonostante questa debolezza,

l’importanza dell’antifascismo risiedette nella funzione di testimonianza e di preparazione dei quadri e delle piattaforme politiche della futura Italia democratica.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Abbina i nomi delle seguenti organizzazioni ed eventi fascisti alle caratteristiche corrispondenti.

a. Fasci giovanili b. Opera nazionale Balilla (Onb) c. Opera nazionale dopolavoro d. Littoriali della cultura

1. Inquadrava i giovani dai diciotto ai ventun anni. 2. Si trattava di concorsi nazionali riservati ai migliori studenti medi e universitari. 3. Forniva a tutti i ragazzi un supplemento di educazione fisica, qualche forma di istruzione “premilitare” e un indottrinamento ideologico di base. 4. Si occupava del tempo libero dei lavoratori organizzando gare sportive, gite e altre attività ricreative.

2 Argomenta in un testo di massimo 10 righe le relazioni esistenti fra i seguenti soggetti e il fascismo.

la Chiesa cattolica ● la monarchia ● i partiti antifascisti ● il cinema ● i giovani

3 Sottolinea nei testi che seguono le frasi o parole errate (3 nel primo, 2 nel secondo, 2 nel terzo, 2 nel quarto) e

riscrivi gli elaborati sul tuo quaderno nella versione corretta. Chiarirai in questo modo alcuni aspetti della politica estera di Mussolini e dei movimenti antifascisti.

a. Nel 1935 Mussolini decise di aggredire l’Impero libico perché voleva dare uno sfogo all’ideologia nazionalista e imperiale del fascismo e, nello stesso tempo, voleva mettere in primo piano i progressi dell’economia. In risposta, l’Onu decise di adottare delle sanzioni a cui Mussolini rispose con una campagna propagandistica che presentava l’Italia come vittima di una congiura internazionale. b. Con la creazione dell’Impero, Mussolini si avvicinò alla Germania firmando un patto di amicizia, cui fu dato il nome di duplice alleanza, rafforzato dal comune impegno nella guerra civile spagnola e dall’adesione, nell’autunno ’37, al patto anti-Comintern con Germania e America contro il comunismo internazionale. c. Nell’autunno del 1938 gli ebrei furono espulsi dagli uffici pubblici, fu loro limitato l’esercizio delle professioni mentre furono sollecitati i matrimoni misti con donne ebree; erano state introdotte, inoltre, le “leggi razziali” nei confronti degli ebrei, una comunità molto presente, soprattutto nelle città del Sud, e complessivamente ben integrata nella società italiana. d. Dal momento in cui il dissenso fu punito in Italia come un crimine, un numero crescente di italiani dovette affrontare il carcere o il confino politico, l’esilio o la clandestinità poiché le strade per opporsi attivamente alla dittatura erano l’esilio all’estero o l’agitazione clandestina in patria. La seconda strada fu percorsa soprattutto da repubblicani, mentre altri gruppi antifascisti, socialisti e comunisti, svolsero la loro attività di opposizione al regime all’estero.

365

C9 il regime fascista in italia

4 Completa la mappa concettuale inserendo negli appositi spazi i numeri corrispondenti ai termini elencati.

Schematizzerai così le diverse fasi della politica economica fascista. Attento perché dovrai collocare le voci in grassetto negli insiemi più grandi. 1. “battaglia del grano”; 2. creazione dell’Iri; 3. protezionismo; 4. politica dei lavori pubblici; 5. commesse per l’industria militare; 6. politica dell’autarchia; 7. linea liberista; 8. “quota novanta”; 9. creazione dell’Imi; 10. economia di guerra; 11. dazio sui cereali

1922-25

1925-29

5 Osserva con attenzione la fotografia del 1936

che ritrae Mussolini ad Aprilia, una delle città fondate durante il fascismo nell’Agro Pontino, su un trattore a cingoli Fiat e seleziona la didascalia più appropriata facendo riferimento a ciò che osservi e alle informazioni in tuo possesso.

a. Poiché gli abitanti di Aprilia erano quasi tutti coloni ed erano dediti ai lavori dei campi durante la visita del duce, Mussolini, per essere più visibile e non avendo a disposizione un palco, sale sul trattore. b. L’impostazione della fotografia non è casuale: il duce sale su di un trattore italiano (Fiat) e sembra voler affermare che l’agricoltura e la tecnologia italiana sono un elemento di forza della nazione.

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Mussolini su un trattore a cingoli Fiat 26 aprile 1936 [Istituto Luce, Roma]

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

1929-35

dal 1935

COMPETENZE IN AZIONE 6 Sul tuo quaderno di storia scrivi un testo argomentativo (max 15 righe) sulla propaganda fascista e il suo ruolo nella

società. A tal fine seleziona le 5 immagini che ritieni più significative presenti nell’intero capitolo e utilizza i contenuti a cui fanno riferimento come scaletta per l’elaborazione del tuo testo. Ricordati di numerare le immagini selezionate e di citarle all’interno del tuo discorso inserendo il numero di quella a cui fai riferimento fra parentesi.

7 Scrivi un testo di circa 40 righe dal titolo Contropoteri e dissenso politico nell’Italia fascista facendo riferimento alla

seguente scaletta di argomenti:

a. Dal punto di vista politico-istituzionale, benché il potere fosse interamente nelle mani di Mussolini, l’Italia restava una monarchia e pertanto... b. Sul piano socioculturale la presenza capillare della Chiesa sul territorio italiano costituiva per il fascismo... c. Grazie a Benedetto Croce... d. Esistevano, infine, movimenti politici dichiaratamente antifascisti, che... 8 Completa la linea del tempo relativa agli eventi salienti dell’affermazione del fascismo, quindi seleziona almeno i

5 momenti per te più significativi e utilizzali come scaletta per realizzare un testo espositivo. Assegna un titolo al tuo elaborato.

a. Vennero siglati i Patti lateranensi. b. L’Italia fascista aggredì militarmente l’Impero etiopico. c. L’Italia firmò il “patto d’acciaio”, un patto di alleanza militare con la Germania. d. Si tennero le prime elezioni col sistema della lista unica che registrarono un afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) e un 98% di voti favorevoli. e. Mussolini rilanciò l’autarchia già inaugurata con la “battaglia del grano”. f. Vennero promulgate le “leggi razziali”. g. Germania e Italia firmarono un patto di amicizia, cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino. 11 febbraio 1929

1929

1935

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1938

1939

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CAP10 IL DECLINO DEGLI IMPERI COLONIALI

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Storia, società, cittadinanza Il Commonwealth ieri e oggi Audiosintesi

10_1 LA CRISI DELL’EGEMONIA EUROPEA

Negli anni ’20 e ’30 del ’900 l’egemonia europea sugli altri continenti cominciò a indebolirsi. La Gran Bretagna e la Francia si illusero di poter continuare a svolgere il loro ruolo di grandi potenze mondiali, grazie alla scelta isolazionista degli Stati Uniti e grazie anche al fatto che i loro domìni d’oltremare erano usciti intatti dalla guerra, anzi si erano ampliati con l’acquisto delle colonie tedesche e di alcuni territori dell’ex Impero ottomano. In realtà le potenze europee, esaurite dal conflitto mondiale, non avevano più le risorse economiche e le capacità militari necessarie per mantenere il controllo sui loro sterminati imperi, dove nel frattempo si moltiplicavano i segni di insofferenza nei confronti dei dominatori. Nel corso della prima guerra mondiale Gran Bretagna e Francia avevano fatto ampio ricorso all’aiuto dei loro territori d’oltremare, sotto forma non solo di materie prime ma anche di uomini da mandare al fronte. Circa 400 mila africani e 70 mila fra indocinesi e caraibici avevano combattuto nell’esercito francese. La Gran Bretagna aveva mobilitato un milione e trecentomila indiani e quasi altrettanti uomini dai dominions bianchi: Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa. La partecipazione alla guerra e il contatto con altre culture politiche fortemente imbevute di ideali nazionali e democratici avevano fatto crescere nei popoli extraeuropei la consapevolezza di aver maturato nuovi diritti e di aver mutato i rapporti di forza con i colonizzatori. Nacquero così, in molti paesi, nuovi movimenti indipendentisti, animati all’inizio da ristretti dominions gruppi intellettuali che per lo più avevano studiato nelle università europee. Si chiamavano dominions quei territori, abitati per lo più

La partecipazione delle colonie alla guerra mondiale

368

A questa prima, embrionale presa di coscienza contribuiroIl diritto no anche gli echi dei grandi eventi politici che avevano acall’autogoverno compagnato la fase finale del conflitto, a cominciare dalla rivoluzione russa: i bolscevichi non solo concessero ampie autonomie amministrative e linguistiche ai territori dell’Asia centrale già appartenenti all’Impero zarista, ma non esitarono a innalzare la bandiera della liberazione dei popoli dall’imperialismo e sostennero apertamente i movimenti anticoloniali. Non meno importante fu la diffusione dell’ideologia wilsoniana che, sia pure in termini vaghi, imponeva alle potenze coloniali il rispetto della volontà dei popoli [►4_11]. In realtà fu subito chiaro che, per la maggior parte degli europei e degli stessi americani, questi diritti si immaginavano riservati alle sole popolazioni bianche. Alla conferenza di pace di Versailles, la proposta della delegazione giapponese di proclamare in un documento ufficiale l’uguaglianza fra tutte le “razze” non fu

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

da popolazioni di origine europea, che, pur facendo parte dell’Impero britannico, godevano di larghe autonomie per la gestione degli affari interni. Dopo la seconda guerra mondiale, i dominions divennero di fatto Stati indipendenti, conservando tuttavia un legame simbolico con la Corona britannica all’interno del Commonwealth. mandato coloniale Era una forma di amministrazione di carattere temporaneo, istituita dalla Società delle Nazioni per governare i territori extraeuropei ceduti dalla Germania e dall’Impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Il mandato coloniale poneva un paese destinato all’indipendenza, ma considerato non ancora “in grado di reggersi da sé”, sotto la tutela temporanea di una grande potenza con la motivazione di favorirne il progresso economico e politico. Dopo la seconda guerra mondiale, il sistema del mandato fu sostituito con quello dell’amministrazione fiduciaria.

Affissione di manifesti per il Congresso dei popoli d’Oriente 1920 Nel settembre del 1920 si svolse a Baku, nell’Azerbaigian, allora occupato dall’Armata rossa, il primo Congresso dei popoli d’Oriente a cui parteciparono i delegati dei paesi asiatici ancora sotto il domino coloniale delle grandi potenze europee. Sin da questa occasione, l’Internazionale comunista rivolse un’attenzione costante alle possibilità rivoluzionarie esistenti in Oriente, dove la lotta per l’indipendenza dei popoli coloniali avrebbe potuto rivelarsi utile per allargare l’area di influenza dello Stato sovietico.

nemmeno presa in considerazione. In compenso gli Stati Uniti – che non erano mai stati una potenza coloniale in senso stretto – si batterono affinché l’assegnazione alle potenze vincitrici dei territori extraeuropei già appartenenti alla Germania e all’Impero turco avvenisse sotto la forma del mandato: un istituto che, se da un lato serviva a mascherare la prosecuzione a tempo indeterminato del dominio coloniale, dall’altro conteneva un implicito riconoscimento del diritto dei popoli extraeuropei all’autogoverno.



METODO DI STUDIO

 a   Perché, dopo la prima guerra mondiale, si rafforzarono i movimenti indipendentisti delle colonie? Sottolinea sul testo la risposta.  b   Spiega per iscritto quali avvenimenti alimentarono, durante e appena dopo la prima guerra mondiale, il diritto dei popoli all’autodecisione e che cosa era il mandato coloniale.

10_2 RIVOLUZIONE E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA

Fra tutti i paesi sconfitti nella prima guerra mondiale, l’Impero turco fu forse quello a cui venne riservata la sorte peggiore. Drasticamente ridimensionato dal punto di vista territoriale, amputato anche nel suo nucleo storico (l’Anatolia) dall’occupazione greca di Smirne [►4_12], era inoltre oggetto di un tentativo di spartizione in zone di influenza da parte di Gran Bretagna e Francia, che occupavano militarmente alcune regioni costiere e manovravano un governo centrale inefficiente e corrotto. La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu infatti un generale, Mustafà Kemal, che aveva combattuto contro i britannici durante la guerra, ad assumere la guida del movimento di riscossa nazionale, con l’appoggio di molti intellettuali e di buona parte della borghesia turca. Mentre le potenze vincitrici trattavano col governo-fantoccio del sultano, un’Assemblea nazionale riunita ad Ankara nella primavera del 1920 affidava a Kemal il compito di liberare il suolo della Turchia dagli stranieri. L’impresa fu condotta a termine in poco più di due anni. Britannici e francesi rinunciarono ai loro progetti di penetrazione economica e lasciarono la Grecia a vedersela da sola contro i turchi. Fra il ’21 e il ’22, l’esercito turco sconfisse ripetutamente i greci e li costrinse a evacuare la zona di Smirne: la città fu in parte incendiata e i suoi abitanti costretti a fuggire precipitosamente su navi britanniche e francesi. Per la Grecia, costretta a riaccogliere in patria quasi un milione di profughi che da secoli vivevano in quella regione, fu un’autentica tragedia nazionale. La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta l’Anatolia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo (la Tracia orientale) che le garantiva il controllo degli Stretti.

Kemal e la guerra con la Grecia

Repubblica e modernizzazione

Contemporaneamente, si avviava la trasformazione della Turchia in uno Stato nazionale laico. Nel novembre ’22 venne abolito il sultanato e, un anno dopo, fu proclamata la repubblica. Nel ’24 fu approvata una nuova Costituzione. No369

C10 il declino degli imperi coloniali

minato presidente con poteri semidittatoriali, Mustafà Kemal (insignito del soprannome di Atatürk, ossia “padre dei turchi”) si impegnò a fondo in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. Furono varati nuovi codici ispirati ai modelli occidentali e aboliti i tribunali che giudicavano in base ai princìpi del Corano. Fu adottato l’alfabeto latino e tutto il sistema di istruzione fu riformato sull’esempio delle nazioni euroCorsi di formazione per le donne turche pee. Anche l’abbigliamento tradizionale fu sostituito con 1930 ca. quello occidentale e alle donne fu proibito l’uso del velo negli uffici pubblici. L’esperimento modernizzatore riuscì solo in parte, come avrebbero dimostrato le travagliate vicende della Repubblica turca dopo la morte, nel 1938, del suo fondatore; ma ebbe il valore di un modello per molti paesi impegnati sulla strada dell’emancipazione dai vincoli coloniali.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia il nome del generale che portò la Turchia all’indipendenza e sottolinea le informazioni principali sul suo progetto politico.  b  Cerchia con colori diversi i nomi degli Stati con cui si confrontò la Turchia dopo la Grande Guerra e sottolinea gli eventi salienti che caratterizzarono questi rapporti.  c Spiega per iscritto in che modo la Turchia divenne uno Stato nazionale, repubblicano e laico indicando le tappe di questo percorso, dopo averle sottolineate e numerate nel paragrafo.

LE CONSEGUENZE DELLA DISGREGAZIONE DELL’IMPERO OTTOMANO

MEDIO ORIENTE

Turchia

Accordi Sykes-Picot (1916)

Kemal riconquista l’Anatolia e il controllo sugli Stretti

Mandati francesi

Mandati inglesi

Proclamazione della Repubblica

Siria e Libano

Mesopotamia e Palestina

370

Modernizzazione e laicizzazione dello Stato

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Nascita di nuovi Stati (Arabia Saudita, Iraq e Transgiordania)

Legittimazione di un futuro Stato ebraico in Palestina (dichiarazione Balfour)



10_3 NAZIONALISMO ARABO E SIONISMO

Il crollo dell’Impero ottomano fece sentire le sue conseguenze nelle regioni rimaste formalmente sotto la sua autorità, vale a dire in tutta quella vasta area compresa fra la Turchia, la sponda sud-orientale del Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo Persico, che in gran parte coincide con quello che oggi siamo soliti chiamare “Medio Oriente”. In questa regione, abitata quasi per intero da popolazioni arabe di religione musulmana, gli impegni spesso contraddittori presi durante la guerra dalle potenze dell’Intesa determinarono una situazione quanto mai intricata. Un impegno totalmente disatteso fu ad esempio quello assunto dalle potenze vincitrici nei confronti dei curdi, un popolo musulmano non arabo che viveva in un ampio territorio montuoso oggi diviso fra Turchia, Siria, Iraq e Iran. La promessa di un Kurdistan indipendente non si realizzò, anche perché contrastava con la priorità allora accordata dalla Gran Bretagna ai rapporti con il mondo arabo.

Impegni e strategie delle potenze europee

Il nazionalismo arabo, in quegli anni, era ancora un movimento in embrione, legato più al prestigio dei capi tribali che alla spinta delle popolazioni. Nel 1915 i britannici si accordarono con uno di questi capi, Hussein Ibn Ali, emiro della Mecca (la città santa dell’islam) e fondatore della dinastia hashemita, promettendo l’appoggio alla creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l’Arabia, la Mesopotamia e la Siria in cambio di una collaborazione militare contro l’Impero ottomano. Nel 1916 Hussein lanciò le sue tribù beduine – composte per lo più da nomadi che vivevano nel deserto e si spostavano a dorso di dromedari – in una “guerra santa” contro i turchi, che si affiancò efficacemente alla campagna dell’esercito britannico. Alla guida delle truppe erano i figli di Hussein, Abdallah e Feisal. Loro consigliere era un agente britannico, appassionato della cultura islamica, il colonnello Thomas Edward Lawrence, il leggendario Lawrence d’Arabia.

Il nazionalismo arabo

Peter O’Toole in un fotogramma del film Lawrence of Arabia (1962) di David Lean Thomas Edward Lawrence (18881935), archeologo per il British Museum, fu reclutato dallo spionaggio inglese e, allo scoppio della guerra, assegnato al servizio informazioni del Cairo. Nel 1916, in Arabia, divenne consigliere militare degli arabi dell’Higiaz in rivolta contro l’Impero ottomano. Lawrence si trovò presto “stritolato” nella morsa del doppio gioco: da un lato doveva manipolare gli arabi per favorire gli interessi inglesi, dall’altro era sempre più affascinato dall’universo musulmano, tanto da guardare con entusiasmo all’ipotesi di un grande Stato arabo. Lawrence costruì la propria leggenda sottraendo ai turchi l’imprendibile Medina il 6 luglio 1917. Le contraddizioni vennero alla luce dopo la guerra, quando, di fronte alla spartizione anglo-francese del Medio Oriente, vide svanire il sogno del grande Stato arabo indipendente. Nel 1922 Lawrence si dimise dai servizi segreti per arruolarsi nell’aviazione britannica sotto falso nome. Nel luglio del 1935, a un mese dalla sua morte per un banale incidente motociclistico, furono pubblicate le sue memorie in un libro intitolato I sette pilastri della saggezza, successo mondiale da cui furono tratti numerosi film (fra cui il kolossal del 1962, diretto da David Lean, vincitore di ben sette premi Oscar).

371

C10 il declino degli imperi coloniali

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AFGHANISTAN IRAN

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AFGHANISTAN IRAN

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TRANSGIORDANIA GO LFO

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INDIA BRITANNICA

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14_IL MEDIO ORIENTE FRA LE DUE GUERRE MONDIALI

PERSI CO

INDIA BRITANNICA

OMAN OCEANO INDIANO OMAN GOA OCEANO INDIANO GOA

ERITREA

territori sotto mandato della Società delle nazioni territori sotto mandato della Società delle nazioni

Le vere intenzioni della Gran Bretagna sul futuro dei territori arabi sottratti all’Impero ottomano erano però diverse, anche perché il governo doveva tener conto degli interessi della Francia in quella regione. Nel maggio 1916 francesi e britannici firmarono un patto segreto, gli accordi Sykes-Picot (così chiamati dal nome dei diplomatici che avevano condotto i negoziati), per la spartizione in zone d’influenza di tutta la zona compresa fra la Turchia e la penisola arabica: alla Francia la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna la Mesopotamia e la Palestina. A guerra finita, nonostante le proteste degli arabi, la spartizione si realizzò, appena mascherata dall’assegnazione alle due potenze dei rispettivi territori sotto forma di mandato. Come compenso alla forzata rinuncia al grande regno arabo, la Gran Bretagna creò nella zona di sua competenza due nuovi Stati, governati dalla dinastia hashemita, sempre sotto controllo britannico: l’Iraq (l’antica Mesopotamia) e la Transgiordania (l’attuale Giordania). Nel 1932 nacque un altro Stato, l’Arabia Saudita, fondato nella penisola arabica dal sovrano Ibn Saud, che aveva sottratto alla dinastia hashemita il controllo dei luoghi santi dell’islam.

I progetti di spartizione

Un’altra ipoteca sulla sovranità nei territori ex ottomani era stata intanto posta in Palestina, dove il governo britannico aveva riconosciuto, nel novembre 1917, con una dichiarazione ufficiale del ministro degli Esteri Arthur James Balfour, il diritto del movimento sionista a creare in Palestina una sede nazionale per il popolo ebraico, secondo il progetto lanciato alla fine dell’800 da Theodor Herzl [►1_8]. La Dichiarazione Balfour, redatta in consultazione col presidente americano Wilson e sotto la pressione del movimento sionista, faceva salvi i “diritti civili e religiosi” (non si parlava di quelli politici) delle comunità non ebraiMETODO DI STUDIO che, ma sostanzialmente mirava a legittimare l’immigrazione sionista, che co a Cerchia, con colori diversi, gli Stati stranieri minciò a svilupparsi in quegli anni attorno ai piccoli insediamenti ebraici già preche avevano interessi in Medio Oriente e sottolinea in cosa consistevano questi interessi mantesenti nella regione. Tra 1920 e 1921 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni nendo gli stessi colori. ebrei e i residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla  b  Sottolinea, con colori diversi, gli impegni asPalestina. Negli anni ’30, dopo l’avvio delle persecuzioni razziali in Europa, il flusso sunti dal governo britannico nei confronti dell’emiro Hussein e gli eventi che seguirono. degli immigrati ebrei aumentò rapidamente, suscitando ulteriori tensioni e risen c Spiega per iscritto cosa stabiliva la Dichiaraziotimenti nella popolazione araba. Era l’inizio di un conflitto che avrebbe insanguine Balfour e quali conseguenze immediate scatenò. nato la regione nei decenni successivi, prolungandosi per tutto il ’900 e oltre. 372

L’immigrazione ebraica

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE



10_4 LA LOTTA PER L’INDIPENDENZA IN INDIA

Fra le grandi potenze coloniali la Gran Bretagna fu quella che prima di tutte si orientò, sia pure con riluttanza, verso un ridimensionamento della sua posizione imperiale, attraverso la concessione graduale di maggiori autonomie ai suoi possedimenti extraeuropei. Questa tendenza si manifestò, come si è visto, nell’area mediorientale e portò, oltre che alla creazione dei nuovi regni arabi, alla rinuncia al protettorato britannico sull’Egitto: il più importante e il più popoloso fra i paesi del Nord Africa fu trasformato nel ’22 in regno autonomo e ottenne nel ’36 la piena indipendenza, pur restando nell’orbita della Gran Bretagna, che conservava comunque una presenza militare nel paese, e controllava, assieme alla Francia, la Compagnia del Canale di Suez.

Il ridimensionamento dell’Impero britannico

► Leggi anche: ► Personaggi Gandhi, il profeta della non violenza, p. 374

Una tappa importante nel processo di graduale smobilitazione dell’Impero britannico fu rappresentata dalla Conferenza imperiale che si tenne a Londra nel 1926 e nella quale i dominions bianchi (Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda) – che già godevano di una condizione di semi-indipendenza e avevano partecipato con proprie delegazioni alla conferenza di pace – furono riconosciuti come “comunità autonome ed eguali in seno all’Impero”, unite dal comune vincolo di fedeltà alla Corona d’Inghilterra e “liberamente associate come membri del Commonwealth britannico”, ossia una libera federazione fra Stati, che sarebbe servita anche in futuro ad assicurare il mantenimento di una serie di legami economici e istituzionali fra la Gran Bretagna e le sue ex colonie.

Il Commonwealth

Il paese in cui il processo di emancipazione assunse un valore esemplare fu senza dubbio l’India: la più importante, sul piano economico e strategico, fra le colonie britanniche, quella il cui controllo era ancora considerato essenziale da buona parte della classe dirigente del Regno Unito. Ma anche quella in cui le aspirazioni all’indipendenza si erano fatte sentire maggiormente già prima della Grande Guerra, trovando un canale di espressione nel Congresso nazionale indiano: un organismo nato alla fine dell’800 come rappresentanza dei notabili e poi apertosi a istanze più radicali.

Il caso dell’India

15_IL COMMONWEALTH OGGI Nel corso degli anni il numero dei membri del Commonwealth aumentò, inglobando anche le ex colonie dell’Impero Gran che raggiungevano Bretagna l’indipendenza, fino ad Canada Gran arrivare ai circa 50 dei nostri Bretagna Canada giorni, che corrispondono a un terzo della popolazione mondiale. L’adesione è in ogni modo volontaria, tanto Malta che vi furono nazioni che, Cipro ottenuta l’indipendenza, Malta Bahamas preferirono rimanerne fuori, India Cipro Belize Bangladesh Rep. Dominicana Nigeria come la Birmania, o che Bahamas Barbados India Belize Bangladesh Jamaica Malaysia decisero di uscirne, come Rep. Dominicana Papua Trinidad e Tobago Uganda Kenya Maldive Nigeria Barbados Guyana Nuova Guinea l’Irlanda (1948). Negli Jamaica Sri Lanka Malaysia Brunei Papua Sierra Ghana Trinidad e Tobago Uganda Kenya Maldive anni ’90 aderirono anche il Is. Salomone Singapore Nuova Guinea Leone Camerun Tanzania Guyana Tuvalu Camerun e il Mozambico, Sri Lanka Brunei Sierra Ghana Seychelles Zambia Is. Salomone Vanuatu Samoa che non avevano mai fatto Singapore Leone Camerun Tanzania Tuvalu Seychelles Mozambico parte Tongadell’Impero britannico. Zambia Namibia Vanuatu Samoa Australia Is. Fiji Il Commonwealth non è Botswana Namibia Tonga dunque un’unione politica, Swaziland Sudafrica Mozambico Australia Is. Fiji Botswana Lesotho bensì un’associazione con Swaziland Sudafrica scopi per lo più consultivi, Lesotho all’interno della quale i Nuova Zelanda paesi intrattengono rapporti economici e culturali e Nuova Zelanda condividono obiettivi e princìpi comuni. paesi del Commonwealth paesi del Commonwealth

373

C10 il declino degli imperi coloniali

Durante il primo conflitto mondiale il governo britannico aveva premiato il lealismo manifestato dalla classe dirigente locale in occasione della guerra, promettendo ufficialmente, nel novembre 1917, “una crescente associazione degli indiani a ogni ramo dell’amministrazione e un graduale sviluppo di forme di autogoverno, in vista della progressiva realizzazione di un governo responsabile in India”. Queste promesse, formulate non a caso nel momento più difficile della guerra e successivamente attuate in modo lento e parziale, non bastarono però a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista. Quando, nell’aprile ’19, nella città di Amritsar, le truppe britanniche repressero sanguinosamente una manifestazione popolare di protesta (i morti furono quasi 400), la frattura fra colonizzatori e colonizzati si approfondì irrimediabilmente.

Gandhi e la non violenza

Intanto, in seno al Congresso nazionale indiano – trasformatosi nel 1920 in un vero e proprio partito politico – e in genere fra la maggioranza della popolazione di religione induista, riscuoteva sempre maggiori consensi la predicazione di un

PERSONAGGI

Gandhi, il profeta della non violenza

Q

374

uando, il 30 gennaio 1948, tre colpi di pistola, esplosi da un fanatico indù, lo uccisero, Mohandas Karamchand Gandhi era già da tempo un indiscusso protagonista della storia del ’900. Gli indiani lo chiamavano Bapu, in hindi “padre”, o più comunemente Mahatma, in sanscrito “grande anima”. Gandhi era nato nel 1869 a Porbandar (nella regione del Gujarat) da una famiglia benestante: lì aveva trascorso una fanciullezza tranquilla nel corso della quale aveva sviluppato un carattere timido e riservato. Nel 1888 si iscrisse alla facoltà di Legge dello University College di Londra. Questa scelta suscitò l’opposizione della sua casta che vietava ai suoi membri periodi di permanenza all’estero perché rendevano impossibile rispettare i precetti induisti. Ma in Gran Bretagna Gandhi, pur assumendo rapidamente abiti e modi da gentleman inglese, riuscì a non abbandonare le prescrizioni della sua religione: questa capacità di coniugare fedeltà alle sue origini e conoscenza della cultura occidentale si rivelerà in seguito un grande vantaggio nel confronto con avversari che, in molti casi, ignoravano e più spesso consideravano con grande sufficienza l’induismo. Dopo il ritorno in India le difficoltà incontrate nell’esercizio della professione di avvocato lo spinsero ad accettare un impiego presso un’importante ditta commerciale indiana nel Natal, in Sudafrica. Saranno proprio il Sudafrica e il contatto con le discriminazioni razziali a determinare una svolta decisiva nella sua vita e a trasformarlo in un attivista politico. Nel 1893 fondò il Natal Indian Congress, che si proponeva di rappresentare le istanze della comunità indiana in Sudafrica, e, per sostenerne le ragioni, si recò ripe-

tutamente in India, divenendo rapidamente noto anche nel suo paese di origine. In quegli anni, mentre promuoveva le sue prime battaglie politiche, Gandhi cambiò radicalmente il suo stile di vita, improntandolo alla povertà, alla semplicità, alla preghiera; meditazione, rigore e ascetismo che si accompagnarono dal 1906 con la pratica della castità. Tornato definitivamente in India nel 1915, aderì al Partito del Congresso nazionale indiano, nel quale divenne immediatamente una figura di spicco e un punto di riferimento anche quando non rivestì incarichi formali di direzione. La sua autorevolezza e il suo personale carisma fecero crescere la sua popolarità e l’adesione alle pratiche di mobilitazione e di lotta basate sulla non violenza (ahimsā, alla lettera “non nuocere”). Secondo la strategia gandhiana, gli indiani dovevano rispondere alla violenza della dominazione inglese non con la forza delle armi (in base al modello delle rivoluzioni europee, da quella francese a quella russa), ma con la resistenza passiva, col digiuno volontario, col rifiuto di obbedire alle leggi ingiuste, con lo sfruttamento dei margini legali consentiti dalle leggi esistenti, con la non collaborazione coi dominatori e con il boicottaggio dei prodotti dell’industria europea: una scelta, quest’ultima, che significava anche difendere le strutture tradizionali della società e dell’economia locale, basata sull’agricoltura e l’artigianato. La pratica non violenta si collegava, nel pensiero di Gandhi, alla cultura e alla spiritualità induista, tutta volta alla trasformazione interiore dell’uomo, premessa necessaria per qualsiasi trasformazione politica.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Tutto questo non significava dunque rassegnarsi all’ingiustizia, ma combatterla adottando una strategia nuova e particolarmente rischiosa, in quanto non escludeva la risposta violenta degli avversari. La “non violenza” si presentava dunque non come una rassegnata accettazione dell’ingiustizia ma come uno strumento attivo di azione politica che si concretizzava in forme di disobbedienza: “La resistenza passiva è il metodo di salvaguardare i diritti mediante la sofferenza personale; è l’opposto della resistenza armata”. Le azioni di disobbedienza civile si moltiplicarono rapidamente, coinvolgendo milioni di persone: clamorosa fu, nel 1930, la marcia del sale contro il monopolio esercitato dagli inglesi sulla produzione e sulla vendita di questo prodotto. Gan-

nuovo e prestigioso leader indipendentista, Mohandas Karamchand Gandhi. Adottando nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, sulla non violenza e sul rifiuto di qualsiasi collaborazione con i dominatori, e coniugando la battaglia per l’indipendenza con quella per la rottura del sistema delle caste, Gandhi acquistò in breve tempo un’immensa popolarità e fece del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa. Alla crescita del movimento indipendentista – che faceva proseliti anche nella forte minoranza musulmana – i britannici risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni. Nel 1919, con il Government of India Act, venne riconosciuto maggiore spazio agli indiani nei ranghi dell’amministrazione, fu attuato un limitato decentramento e venne consentita a una ristretta minoranza l’ele-

Il movimento indipendentista

dhi percorse a piedi circa 400 chilometri per arrivare al mare, aggregò lungo la sua strada un’enorme massa di donne e uomini e, giunto sulla costa, raccolse il sale depositatosi sulla spiaggia, violando simbolicamente il monopolio. Oltre che guida politica, Gandhi divenne ben presto anche la guida morale e spirituale del suo popolo: la sua vita prese sempre più le vie dell’ascetismo, della povertà e dell’ancoraggio alla tradizione culturale indiana. Una scelta profondamente spirituale, ma al tempo stesso patriottica: vestiva con un semplice dhoti bianco, un abito indossato dai contadini che consiste in un unico pezzo di tessuto allacciato in vita che scende fino ai piedi, e si dedicava ogni giorno alla tessitura, antichissima attività artigianale indiana (il paese in passato aveva venduto stoffe a tutto l’Oriente) che la concorrenza dei prodotti dell’industria britannica aveva distrutto. Il rispetto della tradizione si coniugava però in Gandhi a una critica radicale di quei costumi e di quelle strutture tradizionali della società indiana che ne frammentavano l’identità e che contrastavano con la sua concezione di dignità della persona: avversò le caste, promuovendo una ferma batta­ ◄  Gandhi

a Dandi alla fine della “marcia del sale” 5 aprile 1930 Continuando la grande campagna di disobbedienza civile, iniziata nel 1919, che prevedeva il boicottaggio delle merci inglesi e il non pagamento delle imposte, nel 1930 il Mahatma Gandhi, per opporsi al monopolio inglese del sale, organizzò una lunga marcia di protesta, la cosiddetta “marcia del sale”: seguito da un pugno di seguaci, percorse a piedi quasi 400 km per raggiungere il mare, dove cominciò a raccogliere il sale direttamente dalle saline. Arrestato, venne liberato dopo un lungo, estenuante digiuno volontario.

glia a favore degli “intoccabili”, anche attraverso ripetuti digiuni o compiendo degli atti esemplari (come pulire le latrine, un compito obbligatoriamente affidato ai fuori casta), e condannò con fermezza l’usanza dei matrimoni infantili combinati dai genitori. Egli stesso, seguendo le decisioni dei genitori, aveva sposato all’età di tredici anni una sua coetanea, Kasturba, da cui ebbe 4 figli. L’unione, nonostante le condizioni in cui era maturata, si rivelò vitale e duratura: egli insegnò subito a Kasturba, analfabeta come era allora la stragrande maggioranza delle donne indiane, a leggere e scrivere e lei lo sostenne attivamente nelle battaglie. La lotta condotta per raggiungere l’indipendenza nazionale fu molto dura, lungo un percorso di mediazioni e rotture, di repressione e compromessi, nel confronto sia con il governo britannico sia con le autorità coloniali, sia entro lo stesso movimento indipendentista, lacerato da contrasti politici e religiosi che solo la sua autorità riusciva a ricomporre. Su entrambi questi fronti, Gandhi

sistema delle caste La società tradizionale indiana è suddivisa in innumerevoli caste raggruppate in quattro categorie gerarchicamente ordinate: al vertice i sacerdoti (brahmani), seguiti da guerrieri e nobili (ksatriya), commercianti e contadini (vais‘ya), plebei, artigiani e servi (s‘uˉdra). Al di fuori di queste categorie, restano gli strati piu poveri della popolazione, i paria (o “intoccabili”), adibiti ai lavori piu umili. Questa separazione è legata all’idea che venga contaminato chi entri in contatto con i paria, ritenuti appunto “impuri” a causa delle usanze alimentari e dei mestieri esercitati.

non venne mai meno ai princìpi della sua satyagraha (“lotta per la verità”). «E vorrei ripetere al mondo, infinite volte – scriveva Gandhi – che non conquisterò la libertà del mio Paese sacrificando la non violenza». Egli aveva immaginato un’India indipendente in cui potessero convivere convinzioni e fedi religiose diverse, ma nel momento decisivo questo non avvenne: a mezzanotte del 14 agosto 1947 nacquero due Stati, uno a maggioranza indù, l’Unione indiana, e uno a maggioranza musulmana, il Pakistan, e nacquero in una situazione di drammatica violenza. Di quel clima Gandhi fu una delle molte vittime, certo la più illustre. L’Unione indiana adottò comunque una Costituzione laica e democratica che, pur con molte contraddizioni, ha resistito nel tempo. La strategia della non violenza fece proseliti in tutto il mondo, in contesti molto diversi fra loro. Il movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, guidato dal pastore Martin Luther King, la fece propria e la applicò con coerenza negli anni ’60 del ’900.

►  Il

Mahatma Gandhi accanto all’arcolaio per filare 1946 La scelta di povertà compiuta da Gandhi e l’obiettivo di sottrarsi alla soggezione economica degli inglesi lo indussero a promuovere l’uso di abiti di foggia tradizionale e di stoffe tessute a mano (la filatura divenne una delle sue attività quotidiane). L’emblema dell’arcolaio sarà inserito in seguito al centro della bandiera nazionale indiana.

375

C10 il declino degli imperi coloniali

zione di propri organismi rappresentativi. Nel 1935 il diritto di voto fu esteso al 15% circa della popolazione e vennero ampliati gli spazi di autonomia delle singole province. Questi provvedimenti non valsero METODO DI STUDIO a fermare la marcia dell’India verso la piena indipenden a  Sottolinea nel testo il significato del termine inglese Commonwealth. Quindi spiegalo oralmente indicando anche in quale importante occasione fu za (che si sarebbe realizzata dopo la seconda guerra moninizialmente utilizzato. diale), ma offrirono al movimento nazionale indiano ca b  Rinomina il paragrafo simulando il titolo di un articolo di giornale che internali legali attraverso cui esprimersi e combattere le preti le aspirazioni del popolo indiano.  c  Cerchia il nome di colui che adottò una nuova forma di lotta “non violenta” proprie battaglie: un’esperienza che avrebbe contribuito per conseguire l’indipendenza dell’India. Quindi descrivi per iscritto in cosa conalla tenuta delle istituzioni rappresentative nella futura sisteva questa modalità di lotta e il contesto storico-politico in cui prese vita. India indipendente.



10_5 LA GUERRA CIVILE IN CINA

Per tutta la prima metà del ’900, lo Stato più popoloso del mondo, la Cina, fu sconvolto e paralizzato da una lunga e sanguinosa guerra civile. La Repubblica democratica creata dalla rivoluzione del 1911 [►2_7] ebbe vita quanto mai travagliata. Il suo padre fondatore, Sun Yat-sen, leader del Kuomintang (il Partito nazionalista cinese), fu costretto all’esilio dopo appena due anni di governo. E il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shi-kai nel 1913 non riuscì ad assicurare al paese tranquillità e unità. Anzi, venuto meno il collante costituito dal pur screditato potere imperiale, la Cina precipitò in una situazione di semi-anarchia. Il governo non aveva forza sufficiente né per imporre la sua autorità alle province, dove i governatori militari – i cosiddetti signori della guerra – si comportavano come capi feudali, arruolando milizie e imponendo tributi, né per opporsi alle mire egemoniche del Giappone che, entrato in guerra contro la Germania nel 1915, mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina. La decisione, presa dalla Cina nell’agosto 1917, di intervenire nel conflitto mondiale a fianco dell’Intesa non servì a mutare la situazione. Alla conferenza di pace – cui pure partecipò come Stato vincitore – la Cina fu sacrificata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung.

L’anarchia militare

Questa ennesima umiliazione – che significava per la Cina la conferma di una condizione di sovranità limitata – ebbe l’effetto di risvegliare l’agitazione nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al Kuomintang e a Sun Yat-sen, tornato nel frattempo dall’esilio. Nel maggio 1919, scoppiarono dimostrazioni di protesta iniziate nelle università e poi propagatesi in tutte le grandi città. Alla base di queste agitazioni c’era l’alleanza, già operante nella rivoluzione del 1911, fra la gioventù intellettuale, la nascente borghesia industriale e commerciale insofferente dell’invadenza straniera e quei nuclei di classe operaia che si erano formati nelle regioni più esposte alla penetrazione del capitale europeo.

Il ritorno di Sun Yat-sen

La lotta intrapresa contro il governo centrale da Sun Yat-sen, che nel ’21 formò un proprio governo a Canton, ebbe anche l’appoggio del Partito comunista cinese, fondato, sempre nel ’21, da un gruppo di intellettuali (fra i quali il giovane Mao Zedong), per lo più passati attraverso l’esperienza nazionalista e successivamente influenzati dall’esempio della rivoluzione russa. Anche l’Unione Sovietica sostenne attivamente la causa di Sun Yat-sen (in omaggio alla strategia che prescriveva l’appoggio del movimento operaio alle “borghesie nazionali” impegnate nei movimenti di liberazione dal colonialismo), inviò aiuti economici e militari al governo di Canton e indusse addirittura il Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang (conservando però la sua struttura organizzativa).

L’alleanza fra Kuomintang e Partito comunista

376

Chiang Kai-shek e la repressione dei comunisti

L’alleanza fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse però alla morte, nel 1925, di Sun Yat-sen. Il suo successore Chiang Kai-shek, esponente dell’ala destra del Kuomintang, era molto meno aperto alle istanze di riforma sociale e molto più diffidente nei riguardi dei comunisti, i cui progressi suscitavano crescente

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

preoccupazione nei ceti borghesi. I contrasti cominciarono a manifestarsi nel ’26 – quando Chiang Kai-shek, alla guida di un nuovo esercito, iniziò la campagna per scacciare il governo di Pechino, ancora riconosciuto dalle potenze occidentali – ed esplosero l’anno successivo. Nell’aprile 1927 a Shanghai, massimo centro industriale cinese e roccaforte dei comunisti, le milizie operaie, che avevano liberato da sole la città dai governativi e non intendevano deporre le armi, furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chiang Kai-shek. In dicembre un’insurrezione operaia a Canton fu repressa in un bagno di sangue. Il Partito comunista fu messo fuori legge e molti dirigenti furono incarcerati. Dopo aver condotto a termine vittoriosamente la lotta contro il governo di Pechino (la capitale fu conquistata nel giugno ’28), Chiang Kai-shek cercò di riorganizzare l’economia e l’apparato statale secondo modelli di ispirazione occidentale, ma fortemente venati di autoritarismo. Il suo progetto però si scontrava contro l’obiettiva difficoltà di controllare un paese immenso e profondamente diviso. Da un lato c’erano i comunisti che, sconfitti nelle città, cominciarono a organizzare “basi rosse” nelle campagne, rimaste fino ad allora estranee al processo rivoluzionario. Dall’altro sopravviveva in alcune province il potere dei “signori della guerra”, aiutati dal Giappone che non aveva rinunciato ai suoi progetti di espansione ed era ostile al consolidamento di un forte potere statale in Cina.

I tentativi di riforma

Nel 1931, traendo pretesto da un incidente di frontiera, i giapponesi invasero la Manciuria, una vasta regione sotto la sovranità cinese, ai confini con la Siberia, da tempo oggetto delle loro mire, e vi crearono uno Stato-fantoccio, il Manchukuo, che avrebbe dovuto servire da base per un’ulteriore espansione sul continente. L’inerzia manifestata nell’occasione dal governo di Chiang Kai-shek e lo scarso appoggio ad esso fornito dalle potenze occidentali (la Società delle Nazioni si limitò a una condanna dell’aggressione) diedero nuovo spazio all’azione dei comunisti, che sempre più potevano presentarsi come i soli autentici difensori degli interessi nazionali.

L’invasione giapponese della Manciuria

Mao Zedong e la “lunga marcia”

Decisiva per le fortune del Partito comunista fu la strategia di Mao Zedong, che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario, rovesciando la teoria marxista ortodossa in modo ancor più radicale di quanto Truppe giapponesi occupano la Manciuria 1931

377

C10 il declino degli imperi coloniali

16_LA “LUNGA MARCIA” DEI COMUNISTI CINESI, 1934-35

Pechino

Port Arthur

COREA

SHANXI Yenan

Nanchino

Pechino

H U N A N Port Arthur

SHANXI o

Yenan

H ng

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lunga marcia 1934-35

fasi di espansione del dominio comunista:

Shanghai

CINA

Ya ng tze

lunga marcia 1934-35

comunisti fino al 1934 linee di marcia dei comunisti territorio comunista, 1936

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Hw

La “lunga marcia” dal Sud al Nord della Cina non solo riuscì a mettere in salvo il nucleo più agguerrito dei comunisti cinesi minacciato dalle truppe di Chiang Kai-shek, ma rafforzò il legame fra i contadini e il Partito comunista territori controllati dai guidato da Mao Zedong.

Canton

fino a metà del 1948 fino a metà del 1949 nel 1950-51 confini nel 1949

OCEANO PACIFIC O

COREA TAIWAN

territori controllati dai comunisti fino al 1934 linee di marcia dei comunisti territorio comunista, 1936

Hong Kong (br.)

Nanchino Shanghai

CINA

fasi di espansione del dominio comunista:

Ya ng tze

fino a metà del 1948 fino a metà del 1949 non avesse fatto a suo tempo Lenin. All’inizio degli anni ’30, i comunisti fecero numerosi proseliti fra OCEANO nel 1950-51 i contadini (delusi per la mancata attuazione della promessa riforma agraria da parte del governo PACIFIC O confini nel 1949 H

nazionalista) e allargarono Ule Nloro A Nbasi in molte zone agricole, dove i latifondi furono espropriati e le terre distribuite fra i coltivatori. Nel 1931 fu fondata addirittura una “Repubblica sovietica cinese”, con TAIWAN centro nella regione dello Jiangxi. Costretto a combattere su due fronti, Chiang Kai-shek decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti, anche aCanton costo diHong trascurare la minaccia giapponese, e lanciò, fra il ’31 e il ’34, una serie di Kong (br.) sanguinose campagne militari contro le zone da loro controllate. Nell’ottobre del ’34, circa 100 mila militanti, accerchiati nello Hunan, nel Sud del paese, decisero di evacuare quella zona e di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi, giudicata meglio difendibile. Ne giunsero a destinazione meno di 10 mila, dopo una marcia durata un anno attraverso l’interno della METODO DI STUDIO Cina. Con quella che sarebbe poi passata alla storia e all’epopea rivoluzionaria  a  Quale classe sociale costituiva la base del Parcome la “lunga marcia”, Mao Zedong riuscì comunque a salvare il nucleo diritito comunista cinese? Quali eventi caratterizzarono i rapporti con i nazionalisti? Sottolinea le risposte gente comunista e a ricostituire il partito proprio nelle zone in cui più forte era nel testo, utilizzando colori diversi. la minaccia giapponese. Quando, nel ’36, Chiang Kai-shek decise di lanciare una  b  Sottolinea le informazioni relative ai seguennuova campagna contro i comunisti, dovette scontrarsi con l’aperta dissidenza ti aspetti: a. chi era Mao Zedong; b. quali erano i suoi progetti; c. quali azioni politiche intraprese. di una parte dell’esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e l’unione di  c  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparatutte le forze nazionali contro l’aggressione giapponese. Si giunse così, all’inizio grafi. Quindi, descrivi sinteticamente il significato del ’37, a un accordo stipulato sotto gli auspici dell’Urss fra comunisti e naziodi ogni titolo spiegando il ruolo dei soggetti (singoli e collettivi) e degli eventi indicati facendo nalisti: le due parti si impegnavano a costituire un fronte unito contro il nemico riferimento al contesto storico. giapponese che si apprestava a lanciare una nuova e più devastante offensiva.



10_6 L’IMPERIALISMO GIAPPONESE

La partecipazione alla prima guerra mondiale aveva consentito al Giappone di consolidare, con un impegno militare relativamente esiguo, la sua posizione di massima potenza asiatica e di rafforzare la sua struttura produttiva, grazie soprattutto alla conquista di nuovi mercati non più raggiungibili dalle potenze europee impegnate nel conflitto. Il dinamismo dell’economia – in particolare delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie, gli zaibatsu –, l’impetuosa crescita demografica (nei primi trent’anni del secolo la 378

Sviluppo industriale e militarismo

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

popolazione passò da 44 a 65 milioni di abitanti), la stessa struttura della classe dirigente, imperniata sull’unione fra grande industria, grande proprietà terriera e alti gradi militari, spingevano il Giappone verso una politica imperialistica: una politica che aveva come campo d’azione il Pacifico e l’intera Asia orientale e come obiettivo principale la sottomissione di vaste zone della Cina. Questa politica veniva giustificata dalla classe dirigente con le esigenze reali di un paese troppo popoloso e dinamico rispetto alla sua limitata estensione territoriale, ma poggiava anche sulla rivendicazione di una superiorità culturale e razziale e di una naturale vocazione al dominio sull’intero scacchiere asiatico. Durante il primo decennio postbellico, le spinte imperialistiche si conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale vicino al modello liberale, in cui la crescita, sia pur contrastata, di partiti e sindacati operai aveva permesso lo sviluppo di una certa dialettica politica. Già negli anni ’20, però, fecero la loro comparsa movimenti autoritari di destra, in parte ispirati al modello dei fascismi occidentali, in parte impregnati di cultura tradizionalista (difesa delle antiche strutture sociali e familiari, culto dell’imperatore come suprema autorità politica e religiosa). Alla fine degli anni ’20, queste tendenze furono favorite sia dalle conseguenze della grande crisi, che determinò una certa contrazione delle attività economiche suscitando un diffuso malcontento popolare, sia dalle preoccupazioni suscitate nella classe dirigente dai progressi dei partiti di sinistra nelle prime elezioni a suffragio universale che si tennero nel 1928.

La crescita dei movimenti di destra

L’imperatore Hirohito in uniforme 1935 [Library of Congress, Washington] Hirohito fu il 124esimo imperatore del Giappone e il suo regno (1926-89), definito Showa, cioè “era della pace illuminata”, fu il più lungo della storia nipponica.

Cominciò così per il Giappone, in significativa coincidenza con quanto stava accadendo in molti Stati europei, una stagione di crescente autoritarismo. Questo autoritarismo non sfociò, almeno in un primo tempo, in forme esplicitamente fasciste (un tentativo di colpo di Stato dei gruppi estremisti di destra fu represso dall’esercito nel 1936; e solo nel ’40 fu istituito un regime a partito unico); ma si risolse ugualmente nella chiusura di ogni spazio di opposizione legale e in una dura repressione antioperaia. Con l’appoggio dell’imperatore Hirohito, salito al trono nel

Il regime autoritario

L’IMPERIALISMO GIAPPONESE

Dinamismo economico degli zaibatsu

Crescita demografica

Alleanza tra industria, proprietà terriera e alti gradi militari

Limitata estensione territoriale

Giappone, massima potenza asiatica

Politica imperialistica

Rivendicazione di superiorità razziale e culturale

Guerra vittoriosa contro la Cina

Sviluppo di movimenti di destra

379

C10 il declino degli imperi coloniali

1926, i generali e gli esponenti delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie assunsero un peso crescente nelle scelte politiche giapponesi. Furono queste METODO DI STUDIO forze a gestire la politica imperialistica in Estremo Oriente, a  a  Sottolinea nel paragrafo i motivi principali che animarono l’imperialismo scegliere una collocazione internazionale molto vicina a giapponese. quella delle potenze fasciste europee (nel ’36 il Giappone fir b  Accorpa il penultimo paragrafo con l’ultimo e rinomina questa porzione di mò con la Germania il patto anti-Comintern, cui successitesto utilizzando il punto di vista cinese.  c  Descrivi per iscritto il quadro politico del Giappone tra gli anni ’20 e ’30, vamente avrebbe aderito anche l’Italia [►9_5]) e, infine, a far spiega chi erano gli zaibatsu e perché la storia giapponese si può paragonare a precipitare il paese nella catastrofica avventura del secondo quella degli Stati fascisti europei. conflitto mondiale.



10_7 L’ORIENTE IN GUERRA

Nel luglio del 1937, uno scontro fra militari giapponesi e cinesi sul ponte Marco Polo, presso Pechino – forse un incidente, forse una messa in scena orchestrata dagli aggressori –, fornì al governo nipponico il pretesto per lanciare un attacco in forze contro la Cina. L’Estremo Oriente asiatico, dove già dall’inizio degli anni ’30 era in atto un conflitto non dichiarato, che si intrecciava con le vicende della guerra civile in Cina, entrò da questo momento in un vero stato di guerra, anticipando di due anni lo scontro mondiale che si sarebbe acceso a partire dall’Europa e annunciandone in larga misura le devastazioni e gli orrori. Questa volta la resistenza cinese fu accanita, sia da parte dell’esercito regolare sia da parte dei guerriglieri-contadini organizzati dai comunisti. Ma non bastò a compensare l’enorme dislivello militare (e soprattutto industriale) fra i due contendenti e il peso delle divisioni interne alla Repubblica cinese, dove, come si è visto, comunisti e nazionalisti avevano appena raggiunto un precario accordo.

L’aggressione giapponese alla Cina

Alla fine del 1937, dopo pochi mesi di guerra, i giapponesi raggiunsero Nanchino, allora capitale della Cina, e la occuparono dopo un breve assedio. Per sei terribili settimane (fra il dicembre ’37 e il febbraio ’38), gli occupanti infierirono sulla popolazione, donne e bambini compresi, con uccisioni, incendi e saccheggi. I morti, in buona

Il massacro di Nanchino

Una scultura nei giardini del Memoriale del Massacro di Nanchino Il Memoriale del Massacro di Nanchino, una sorta di museo della memoria, fu costruito nel 1985 a Nanchino per commemorare i 300 mila cinesi, fra civili e militari, vittime dell’aggressione nipponica consumatasi fra il 1937 e il 1938. Durante le prime settimane dell’occupazione di Nanchino, infatti, l’esercito giapponese commise numerose atrocità, tra cui stupri, esecuzioni di massa e torture, incendi e saccheggi. Tuttavia, nonostante l’ampia documentazione (oltre alle numerose fotografie e ai resoconti verbali sono stati anche riesumati innumerevoli corpi in fosse comuni), è ancora oggi forte in Giappone il gruppo dei negazionisti, che rifiutano di ammettere la verità storica del massacro.

380

Cinque prigionieri cinesi vengono sepolti vivi dai soldati giapponesi durante i massacri di Nanchino 1937

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

parte civili, furono moltissimi: fra i 200 mila e i 300 mila secondo stime attendibili. E altissimo fu il numero degli stupri (tanto da far parlare dello “stupro di Nanchino” come di una sorta di crimine collettivo). La guerra si prolungò con fasi alterne, sempre contrassegnata dall’elevatissimo numero di vittime civili, causate soprattutto dai bombardamenti METODO DI STUDIO giapponesi. L’avanzata degli aggressori proseguì sistematicamente ma lenta a  Sottolinea con colori diversi il pretesto che il Giappone accampò per attaccare la Cina nel 1937 e mente, anche a causa dell’impossibilità di controllare le aree interne di un paese le conseguenze di questa decisione. vastissimo come la Cina. Nell’estate del ’39, il Giappone occupava comunque  b  Evidenzia la descrizione della reazione cinebuona parte della zona costiera, tutto il Nord-Est industrializzato e quasi tutte le se all’attacco giapponese.  c  Descrivi per iscritto ciò che accadde a Nanchicittà più importanti, a cominciare da Nanchino dove fu insediato un governo tra il dicembre 1937 e il febbraio 1938 e quale fu no-fantoccio. Ma a questo punto le vicende della guerra cino-giapponese coil significato e quali le conseguenze politiche di questo minciarono a intrecciarsi con quelle del secondo conflitto mondiale che, dal evento. 1941, avrebbe avuto proprio in Asia orientale un teatro decisivo.



10_8 L’AFRICA COLONIALE

I nuovi fermenti politici che, negli anni fra le due guerre, si manifestarono nelle colonie asiatiche e nei paesi arabi interessarono solo marginalmente quella parte del continente africano – comunemente chiamata “Africa nera” o “Africa subsahariana” – in cui il dominio coloniale era nella maggior parte dei casi arrivato più tardi e non sembrava mostrare segni di crisi. Nonostante il miglioramento delle condizioni sanitarie (causa principale dello sviluppo demografico del continente, che passò dai circa 120 milioni del 1900 ai 165 del 1935), la pur lenta diffusione dell’istruzione di base, soprattutto attraverso le scuole missionarie, l’aumentata partecipazione al commercio internazionale e la crescita rapidissima dei grandi centri urbani (come Dakar, Lagos, Nairobi), la condizione di marginalità economica e di subalternità politica delle popolazioni africane, escluse da ogni forma di partecipazione al governo dei loro paesi, rimase sostanzialmente immutata.

Marginalità e soggezione

Qualcosa tuttavia cominciava a cambiare. Se per i figli delle famiglie economicamente più agiate (ma anche per chi riusciva a fruire di borse di studio) si apriva la possibilità di studiare in Europa, per un numero ben più elevato di giovani era il servizio militare a offrire l’occasione di uscire dal chiuso delle comunità di villaggio, di maturare nuove esperienze e di praticare nuove forme di socializzazione. Nacquero così, all’inizio degli anni ’20, le prime organizzazioni autonome dei nativi: la Young Baganda Association in Uganda, il National Congress of British West Africa in Costa d’oro (il futuro Ghana), la East Africa Association in Kenya, il National Democratic Party in Nigeria, e altre consimili. Fra il 1919 e il 1927 si tennero, in diverse capitali europee, quattro congressi panafricani, dove furono discussi i problemi comuni e furono lanciate per la prima volta proposte di federazione fra le colonie. Il tema dell’indipendenza era ancora assente da questi dibattiti, dove si affrontavano per lo più questioni specifiche (in primo luogo la lotta contro la discriminazione razziale) e si studiavano forme di partecipazione e canali di rappresentanza più aperti per le popolazioni locali. Ma intanto venivano emergendo nuove figure di intellettuali, come il keniano Jomo Kenyatta, laureato in etnologia a Londra, il

Le prime organizzazioni politiche

Jomo Kenyatta 1978 Autore di un famoso libro sulla vita della sua tribù, i kikuyu, intitolato Facing Mount Kenya (1938) in cui controbatteva i pregiudizi degli europei sulle culture africane e difendeva il diritto dei kikuyu a riavere le terre requisite, Jomo Kenyatta divenne nel 1963 il primo presidente del Kenya, quando il paese ottenne l’indipendenza.

381

C10 il declino degli imperi coloniali

senegalese Léopold Senghor, laureato in lettere a Parigi e apprezzato poeta in lingua francese, il ghanese Nkwame Krumah, laureato in filosofia dopo aver studiato in Gran Bretagna e negli Usa: tutti destinati, nel secondo dopoguerra, a svolgere un ruolo decisivo nelle lotte per l’indipendenza dei loro paesi.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia con colori diversi le condizioni relative alla situazione sociale e a quella politico-economica delle popolazioni subsahariane.  b  Cerchia le opportunità offerte a un giovane africano per uscire dalla realtà del proprio villaggio.  c  Rispondi oralmente alla domanda: Quale caratteristica accomunava l’intellettuale keniano Kenyatta e il senegalese Senghor?

10_9 L’AMERICA LATINA FRA LE DUE GUERRE



MONDIALI

► Leggi anche: ► Parole della storia Populismo, p. 382

Negli anni ’20 e ’30 anche i paesi latino-americani risentirono fortemente dei mutamenti in atto in Europa e nel Nord America. Il trauma maggiore fu rappresentato dalla grande crisi economica, che ridusse i tradizionali flussi commerciali e fece crollare i prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari: tutte le economie del continente, che si fondavano essenzialmente sulle esportazioni di minerali, carne e prodotti agricoli, si trovarono in gravi difficoltà. Anche nel caso dell’America Latina, gli effetti della depressione economica furono accentuati dal legame sempre più stretto con gli Usa, che si erano ormai sostituiti alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza egemone dell’intero continente. Alcuni Stati subirono passivamente la crisi, altri – i più grandi e i più importanti: Brasile, Argentina, Cile e Messico – reagirono promuovendo un processo di diversificazione produttiva, che consentì lo sviluppo di alcuni settori di industria manifatturiera per sopperire alle esigenze del mercato interno.

Le conseguenze della grande crisi

Questi mutamenti non furono senza influenza sugli equilibri politici dei singoli Stati, che conobbero quasi tutti vicende molto agitate. Nei paesi ancora legati al sistema della monocoltura [►2_9] continuarono a prevalere le vecchie oligarchie terriere, in un’alternanza di instabili regimi liberali e spietate dittature personali gestite per lo più da militari, come quelle di Fulgencio Batista a Cuba (1933) e di Anastasio Somoza in Nicaragua (1936), destinate a durare ben oltre la fine della seconda guerra mondiale. Nei paesi in via di industrializzazione, invece, dove era già emerso un nucleo di classe operaia, la crisi ebbe effetti più complessi e contraddittori. Anche gli Stati più importanti e dinamici, comunque, sperimentarono forme di autoritarismo più o meno marcato.

Le dittature personali

Parole della storia

Populismo

P

382

er “populismo” si intende un orientamento politico e culturale che si fonda su una visione idealizzata e indifferenziata del “popolo”, visto – in opposizione all’aristocrazia e ai ceti privilegiati – come depositario dei più autentici valori nazionali e come protagonista del processo di rinnovamento sociale. Il populismo si differenzia dunque dal marxismo, che contrappone all’idea del popolo come un tutto unico la visione di una società divisa in classi individuate in base al loro ruolo nel processo produttivo.

In quanto movimento politico organizzato, il populismo nacque e si sviluppò in Russia nella seconda metà dell’800. I teorici del populismo russo (Herzen, Cˇernysˇevskij) teorizzavano il dovere degli intellettuali di «andare verso il popolo» (identificato soprattutto con le masse contadine) e si ispiravano a ideali di socialismo agrario. A ideali di democrazia rurale (ma senza sconfinamenti nel socialismo) si ispirò anche il Partito populista che nacque e si affermò negli Stati Uniti nell’ultimo decennio dell’800 ed esprimeva la protesta dei piccoli e medi agricoltori, messi in crisi dalle politiche protezioniste e dalla difficoltà di accesso al credito, contro il mondo industriale e finanziario.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

In epoche più recenti il termine “populismo” è stato usato anche in riferimento a ideologie e movimenti di stampo nazionalista e autoritario (in questo senso si può parlare di un populismo fascista o nazista). In particolare, sono definiti populisti quei movimenti e quei regimi sviluppatisi in America Latina a partire dagli anni ’30 e ’40 – come il “getulismo” in Brasile e il “peronismo” in Argentina – che hanno cercato di combinare il nazionalismo col riformismo sociale, la lotta contro le vecchie oligarchie terriere con una gestione più o meno autoritaria e personalistica del potere, e che hanno trovato la loro principale base di sostegno nel proletariato industriale e nella piccola borghesia urbana.

Il presidente Getulio Vargas durante una celebrazione ufficiale in Brasile 15 novembre 1939 Getulio Vargas fu presidente del Brasile una prima volta fra il novembre 1930 e l’ottobre del 1945 e una seconda dal 1951 al 1954.

Nell’autunno del 1930 due sommovimenti politici quasi contemporanei ebbero luogo in Argentina e in Brasile. In Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche: seguì, per oltre un decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto stretta tutela dai generali e dalla grande proprietà terriera. In Brasile, invece, una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie, appoggiata da una parte delle forze armate, portò al potere Getulio Vargas, avvocato e politico di formazione liberal-progressista, governatore del Rio Grande do Sul (uno degli Stati in cui era divisa la Repubblica federale brasiliana). Vargas diede vita a un regime autoritario, basato sul rapporto diretto fra capo e masse, su un acceso nazionalismo e su un energico intervento statale a sostegno della produzione, ma anche sulla concessione di una legislazione sociale per i lavoratori urbani: un regime destinato a servire da modello ad altre esperienze politiche latino-americane, che sarebbero state definite col termine populismo. Nella sua versione più radicale e demagogica, il populismo si sarebbe poi affermato in Argentina, durante e dopo la seconda guerra mondiale, con l’ascesa al potere del colonnello Juan Domingo Perón e del movimento che da lui prese il nome di peronismo, improntando di sé la storia del paese anche nei decenni successivi METODO DI STUDIO [►13_11]. Una forma di populismo molto avanzata sul piano sociale fu quella pra a  Quali furono gli effetti della grande crisi ecoticata in Messico sotto la presidenza di Lazaro Cárdenas (1934-40), che portò nomica degli anni ’20 e ’30 in America Latina? avanti in modo deciso la riforma agraria iniziata negli anni ’20 e nazionalizzò la Sottolinea nel paragrafo la risposta.  b  Cerchia tutti gli Stati dell’America Latina in produzione petrolifera. Ma la stabile affermazione delle forze che si dicevano procui scoppiarono rivolte che diedero vita a regimi augressiste – unite dal 1929 nel Partito rivoluzionario istituzionale – non bastò a toritari e sottolineane le relative caratteristiche. superare gli squilibri sociali che segnavano la società messicana.

Autoritarismo e populismo

383

C10 il declino degli imperi coloniali

SINTESI

10_1 LA CRISI DELL’EGEMONIA EUROPEA La Grande Guerra influì in modo determinante sullo sviluppo dei movimenti indipendentisti in Asia e in Africa: Gran Bretagna e Francia avevano infatti ampiamente utilizzato uomini e mezzi delle loro colonie, facendo scaturire nei popoli colonizzati la consapevolezza di nuovi diritti. Determinanti furono anche gli echi della rivoluzione russa e la diffusione dell’ideologia wilsoniana, in particolare del principio di autogoverno dei popoli. Anche per questo gli Stati Uniti spinsero affinché l’assegnazione alle potenze vincitrici dei territori extraeuropei già appartenenti alla Germania e all’Impero turco avvenisse sotto la forma del mandato.

10_2 RIVOLUZIONE E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA

384

Il collasso dell’Impero ottomano suscitò in Turchia un movimento di riscossa nazionale promosso dalle forze armate e guidato da Mustafà Kemal. Dopo aver sconfitto la Grecia, la Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta l’Anatolia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo (la Tracia orientale) che le garantiva il controllo degli Stretti. Nel 1923 Kemal, abolito il sultanato, proclamò la repubblica e avviò una politica di modernizzazione e laicizzazione del paese.

10_3 NAZIONALISMO ARABO E SIONISMO Durante la prima guerra mondiale, Gran Bretagna e Francia cercarono di sfruttare la crisi dell’Impero ottomano per imporre la loro egemonia sull’area mediorientale, prospettando, con gli accordi Sykes-Picot del 1916, una spartizione in zone di influenza: Iraq e Palestina ai britannici, Siria e Libano ai francesi (la spartizione si sarebbe realizzata a guerra finita sotto la forma del mandato). Contemporaneamente, la Gran Bretagna cercò di mobilitare contro l’Impero ottomano il nascente nazionalismo arabo, promettendo di favorire la costituzione di un nuovo regno indipendente. Questo impegno contrastava però con il riconoscimento da parte britannica (dichiarazione Balfour del 1917) del diritto del popolo ebraico a fondare un proprio Stato in Palestina, come richiesto dal movimento sionista. Si ponevano così le premesse per un conflitto fra ebrei e palestinesi destinato a prolungarsi per oltre un secolo.

10_4 LA LOTTA PER L’INDIPENDENZA IN INDIA La Gran Bretagna fu tra le potenze coloniali quella che per prima comprese la necessità di dare maggiore autonomia ad alcune sue colonie: nel ’22 l’Egitto fu trasformato in un regno autonomo e ottenne nel ’36 la piena indipendenza. Nel 1926 i dominions bianchi (Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda) furono riconosciuti come Stati indipendenti all’interno del Commonwealth britannico. In India durante il primo conflitto mondiale il governo

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

inglese aveva promesso un graduale sviluppo di forme di autogoverno, ma questa promessa ebbe una attuazione lenta e parziale. La repressione da parte della Gran Bretagna delle proteste del movimento indipendentista determinò la rottura tra colonizzatori e colonizzati. Intanto nel Partito del Congresso nazionale indiano cresceva l’influenza politica e morale di Gandhi. Quest’ultimo, adottando nuove forme di lotta basate sulla resistenza passiva e sulla non violenza, coniugò la battaglia per l’indipendenza con quella per la rottura del sistema delle caste, e acquistò in breve tempo un’immensa popolarità, facendo del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa.

10_5 LA GUERRA CIVILE IN CINA Negli anni ’20 e ’30 la Cina fu teatro di una lunga guerra civile. Fino alla metà degli anni ’20 il contrasto principale fu quello tra i nazionalisti del Kuomintang – guidati da Sun Yat-sen e alleati con i comunisti – e il governo centrale. Negli anni successivi si scatenò una dura lotta tra il Kuomintang, alla cui testa era ora Chiang Kai-shek, e i comunisti. Sconfitto il governo centrale, Chiang proseguì nella sua lotta contro i comunisti, relegando in secondo piano quella contro i giapponesi che, nel ’31, avevano invaso la Manciuria. Nell’ottobre 1934, accerchiati nello Hunan, nel Sud del paese, 100 mila militanti comunisti decisero di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi. Ne giunsero a destinazione meno di 10 mila, dopo una “lunga marcia” conclusasi, un anno dopo, nel ’35. Nel ’37, sotto gli

auspici dell’Urss, comunisti e nazionalisti si accordarono in funzione antigiapponese.

10_6 L’IMPERIALISMO GIAPPONESE In Giappone il dinamismo dell’economia e la struttura della classe dirigente, imperniata sull’unione fra grandi concentrazioni industriali e finanziarie (gli zaibatsu), grande proprietà terriera e alti gradi militari, spinsero il paese verso una politica imperialistica che ebbe come principale obiettivo la Cina. Durante il primo decennio postbellico queste spinte si conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale di tipo liberale, ma alla fine degli anni ’20 cominciò una stagione di crescente autoritarismo. Nel decennio successivo il Giappone assunse una collocazione internazionale molto vicina a quella delle potenze fasciste europee.

10_7 L’ORIENTE IN GUERRA L’attacco del Giappone alla Cina, nel luglio del 1937, portò nel giro di due mesi gli aggressori a occupare la capitale Nanchino, messa per settimane a ferro e fuoco. L’avanzata proseguì sistematicamente anche se lentamente: alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale in Europa, nell’estate del ’39, il Giappone (che sarebbe entrato in guerra nel ’41) occupava buona parte della zona costiera, tutto il

Nord-Est industrializzato e quasi tutte le città più importanti; a Nanchino fu insediato un governo fantoccio.

10_8 L’AFRICA COLONIALE Rispetto all’Africa del Nord e all’Asia, nell’Africa subsahariana il dominio coloniale era arrivato più tardi e non mostrava segni

di crisi, mentre permaneva la condizione di marginalità economica e di subalternità politica delle popolazioni africane, pur in presenza di migliori condizioni sanitarie e di una lenta diffusione dell’istruzione. All’inizio degli anni ’20 nacquero però le prime organizzazioni autonome dei nativi e, tra il ’19 e il ’27, quattro congressi panafricani discussero i problemi comuni e lanciarono per la prima volta proposte di federazione fra le colonie; in questo contesto emersero nuove figure di intellettuali che avrebbero svolto, nel secondo

dopoguerra, un ruolo decisivo nelle lotte per l’indipendenza dei loro paesi.

10_9 L’AMERICA LATINA FRA LE DUE GUERRE MONDIALI In America Latina la grande crisi ebbe conseguenze negative, ma stimolò in alcuni paesi un processo di diversificazione produttiva.

Sul piano politico, molti Stati videro l’affermarsi di dittature personali o di governi più o meno autoritari. Nel 1930 in Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche, mentre in Brasile una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie portò al potere Getulio Vargas, fondatore di un regime populista. Un regime dai forti tratti populisti si sarebbe poi affermato in Argentina, negli anni della seconda guerra mondiale, con l’ascesa di Perón.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa il seguente schema sulla rivoluzione kemalista in Turchia. FINE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Perde i suoi territori fuori dell’Anatolia L’IMPERO TURCO .............. e britannici si spartiscono le zone d’influenza. I .............. occupano Smirne.

............... si mette a capo di un movimento nazionale per l’indipendenza della Turchia TURCHIA

● Nel .............. ottiene l’indipendenza; i greci di .............. furono evacuati e la Turchia vide riconosciuta la sovranità su .............. ● Nel 1922 viene abolito il .................... ● Nel 1923 viene proclamata la .................... ● Nel 1924 viene approvata una nuova ...................

385

C10 il declino degli imperi coloniali

2 Ricostruisci l’ordine cronologico degli eventi presenti nell’elenco per delineare lo scenario politico ed economico della

Cina.

.................. .................. .................. .................. .................. ..................

I comunisti di Mao Zedong compiono la lunga marcia Il Giappone invade la Manciuria Nazionalisti e comunisti raggiungono un accordo di collaborazione Chang Kai-shek mette fuori legge il Partito comunista e conduce da solo la lotta contro il governo di Pechino L’alleanza tra nazionalisti e comunisti si spacca alla morte di Sun Yat-sen Sun Yat-sen forma un proprio governo a Canton

3 Tra le affermazioni di seguito scegli quelle che si riferiscono alla condizione dell’Africa subsahariana dopo la prima

guerra mondiale.

a. Migliorano le condizioni sanitarie e l’istruzione elementare b. Le popolazioni indigene vivono una condizione di esclusione e marginalità politica ed economica c. Si cominciano a progettare nuove armi belliche capaci di distruggere interi paesi d. Si tennero quattro congressi panafricani

e. Le donne africane cominciarono a occupare ruoli dirigenziali f. Si affrontò il problema della discriminazione razziale g. Le religioni animiste lasciarono il posto all’induismo e al buddhismo h. Nacquero nuove figure di intellettuali i. Si riduce nettamente il numero dei disoccupati

4 Individua per le seguenti definizioni gli Stati protagonisti e inserisci i numeri corrispondenti sulla carta del mondo

negli anni ’30:

386

1. Il Partito del Congresso vi rappresentava l’opposizione nazionalista agli inglesi. 2. Occupò la Manciuria nel 1931. 3. A partire dal 1933 un colpo di Stato instaurò la dittatura di Batista. 4. Insieme al Libano, rientrò sotto il controllo francese a partire dal 1916.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

5. Una sommossa vi instaurò il governo di stampo populista di Getulio Vargas. 6. La “dichiarazione Balfour” lo indicava come la sede della nazione ebraica. 7. Fu governato a partire dal 1928 dagli esponenti dell’ala destra del Kuomintang.

COMPETENZE IN AZIONE 5 Scrivi un testo di massimo 20 righe in cui metterai a confronto i movimenti indipendentisti turco e indiano sulla base

della scaletta che ti viene fornita.

● Periodo storico ● Gli artefici della rivolta e i loro leader ● Scopo ● Durata delle proteste ● Metodi di lotta ● Risultati ottenuti 6 Scrivi un testo di circa 30 righe sulle politiche imperialiste dei primi decenni del ’900 utilizzando le seguenti domande

come scaletta:

a. Quali sono i principali fattori internazionali di crisi degli imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna? b. Quali strategie politico-militari sono messe in atto per assumere il controllo dei territori coloniali da parte dei britannici nel Vicino Oriente e in India? Con quali risultati? c. Perché la politica estera giapponese può essere definita “imperialista”? 7 Rispondi ai quesiti impiegando il numero di righe indicato tra parentesi:

1. Quali cause determinarono l’affermazione, in Giappone, di un regime autoritario? (6 righe) 2. Perché scoppiò e come si svolse il conflitto tra Cina e Giappone? (7 righe) 3. Quale situazione politica ed economica caratterizzò i più importanti paesi dell’America Latina nel periodo tra le due guerre? (10 righe)

387

C10 il declino degli imperi coloniali

E

A

XTR

CAP11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

11_1 LE ORIGINI E LO SCOPPIO DELLA GUERRA

Nell’estate del 1939 lo scoppio di una nuova guerra fra le potenze europee era un evento largamente atteso. Mentre nel 1914 il conflitto generale era stato occasionato da un singolo evento tragico e imprevedibile come l’attentato di Sarajevo, venticinque anni dopo tutto sembrava condurre verso l’inevitabile scontro fra la Germania nazista e le democrazie dell’Europa occidentale. Per la seconda guerra mondiale, inoltre, la questione delle responsabilità è molto meno controversa di quanto non sia per la prima. Non vi sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della Germania hitleriana. Anche se ciò non significa che le altre potenze fossero immuni da errori o da colpe.

Le responsabilità tedesche

Le democrazie occidentali si erano illuse, nella conferenza di Monaco [►8_10], di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti. In realtà, già nell’ottobre del ’38, Hitler aveva pronti i piani per l’occupazione della Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa e industrialmente più sviluppata dell’unico Stato democratico del Centro-Europa, la Repubblica cecoslovacca, già indebolita dalla perdita dei Sudeti e minata dalla lotta fra le diverse nazionalità che convivevano entro i suoi confini. L’operazione scattò nel marzo 1939. Mentre la Slovacchia si proclamava indipendente con l’appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al “protettorato di Boemia e Moravia”, parte integrante del Grande Reich tedesco.

La fine della Cecoslovacchia

La distruzione dello Stato cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze occidentali. Fra il marzo e il maggio 1939, accantonata la politica dell’appeasement, Gran Bretagna e Francia diedero vita a una offensiva diplomatica, volta a contenere l’aggressività delle potenze dell’Asse, stipulando patti di assistenza militare con i paesi più direttamente minacciati dall’espansionismo tedesco (Belgio, Olanda, Grecia, Romania). Il più importante fu quello con la Polonia, che costituiva il nuovo obiettivo dei progetti di Hitler: già in marzo, infatti, il Führer aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il “corridoio” che univa la città al territorio polacco [►4_12]. L’alleanza fra Gran Bretagna, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile, costituiva una risposta a queste minacce; e significava che le potenze occidentali erano disposte ad affrontare la guerra pur di impedire che la Polonia subisse la sorte della Cecoslovacchia.

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Francia e Gran Bretagna in difesa della Polonia

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

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► Leggi anche: ► Fare Storia Guerra mondiale, guerra totale, p. 465

Manifesto di propaganda nazista: «Danzig ist deutsch» (“Danzica è tedesca”) 1939

La gioventù albanese del Littorio in attesa del passaggio di Vittorio Emanuele III in visita a Tirana 1941 Il 7 aprile 1939 l’esercito italiano mise in atto una invasionelampo ed entrò in Albania disarmandone la debole resistenza. Il re fuggì in Grecia, mentre il territorio albanese veniva accorpato all’Italia e Vittorio Emanuele III proclamato re d’Albania.

Il radicalizzarsi della contrapposizione fra la Germania e gli anglo-francesi tolse ogni residuo spazio di manovra all’Italia. Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale: l’occupazione (aprile 1939) del piccolo Regno di Albania, considerato una base per una ulteriore penetrazione nei Balcani. Un mese dopo (maggio ’39), Mussolini, convinto che l’Italia non potesse restare neutrale nello scontro che si andava profilando e sicuro della superiorità della Germania, decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell’Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare, che fu significativamente chiamata “patto d’acciaio” [►9_5]. Il patto stabiliva che, se una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi (dunque anche in veste di aggressore), l’altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco. Mussolini e il ministro degli Esteri Ciano, pur sapendo che l’Italia non era preparata militarmente a un conflitto europeo, accettarono sconsideratamente un impegno così gravoso, fidandosi delle assicurazioni verbali di Hitler circa la sua intenzione di non scatenare la guerra prima di due o tre anni. In realtà, nel maggio ’39, lo Stato maggiore tedesco stava già preparando l’invasione della Polonia.

L’Italia e il “patto d’acciaio”

La principale incognita era costituita a questo punto dall’atteggiamento dell’Urss. Un’adesione sovietica alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente bloccato i piani di Hitler, che temeva il ripetersi dello scenario della prima guerra mondiale (la Germania minacciata da Est e da Ovest). Ma le trattative fra l’Urss e i franco-britannici furono compromesse da una serie di reciproche e non infondate diffidenze: i sovietici sospettavano che gli occidentali mirassero a indirizzare su di loro l’aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici ambizioni egemoniche sull’Europa dell’Est; inoltre i polacchi – che temevano una presenza militare russa non meno di un’aggressione tedesca – non volevano concedere alle truppe dell’Urss il permesso di attraversare il proprio territorio in caso di attacco da parte della Germania. I sovietici cominciarono allora a prestare attenzione alle offerte di intesa che stavano intanto giungendo da parte di Hitler.

L’Urss e le democrazie

Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Joachim von Ribbentrop e Vjačeslav Molotov, firmarono a Mosca un patto di non aggressione fra i due paesi. L’annuncio dell’accordo fra due regimi ideologicamente contrapposti rappresentò uno dei più grandi colpi di scena nella storia della diplomazia di ogni tempo e fu accolto

Il patto tedesco-sovietico

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

in tutto il mondo con un misto di stupore e di indignazione. Si trattò in realtà di un gesto di spregiudicato realismo, che assicurava ad ambo le parti considerevoli vantaggi. L’Urss non solo allontanava momentaneamente la minaccia tedesca dai suoi confini, ma otteneva anche, mediante un protocollo segreto, un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della Romania e della Polonia (di cui si prevedeva la spartizione). Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua strategia di fondo, rinviando lo scontro col nemico storico, la Russia sovietica; ma intanto poteva risolvere la questione polacca senza correre il rischio di una guerra su due fronti. Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccarono la Polonia. Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania, mentre l’Italia, il giorno stesso dello scoppio delle ostilità, si affrettò a proclamare la sua “non belligeranza”. La seconda guerra mondiale cominciava così come una continuazione, o una replica, della prima. Molto simili erano la posta in gioco e le cause di fondo: il tentativo della Germania di METODO DI STUDIO affermare la propria egemonia sul continente europeo e la volontà di Gran  a  Sottolinea le informazioni relative al “patto Bretagna e Francia di impedire questa affermazione. Simile era anche la tend’acciaio”. denza del conflitto ad allargarsi fuori dai confini europei. Ma questa volta l’e b  Individua, con un segno a margine del pastensione del teatro di guerra sarebbe stata ancora maggiore e ancora più rivoragrafo, la porzione di testo che potresti intitolare: “Il patto Molotov Ribbentrop”. Quindi descrivine luzionarie le conseguenze sugli equilibri internazionali. Rispetto al primo sinteticamente sul quaderno i contenuti. conflitto mondiale, il secondo vide inoltre accentuarsi il carattere totale della  c  Quando e come iniziò la seconda guerra monguerra [►FS, 75]: lo scontro ideologico fra i due schieramenti fu più aspro e diale? Evidenzia nel testo la risposta e trascrivi le informazioni principali sul quaderno. Inizierai radicale, e più ampia fu la mobilitazione dei cittadini con o senza uniforme. così un elenco schematico degli eventi della seconda Nuove tecniche di guerra e nuove armi furono impiegate anche fuori dai campi guerra mondiale che continuerai anche per i paragrafi successivi. di battaglia e le conseguenze sulle popolazioni civili furono più tragiche che in  d  Sottolinea con colori diversi le analogie e le qualsiasi guerra del passato.

Una guerra totale

differenze fra le due guerre mondiali.

11_2 L’ATTACCO ALLA POLONIA MARE DEL NORD

17_L’ESPANSIONE DEL TERZO REICH

1938

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

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SUDETI 1938

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AUSTRIA 1938

La cartina, che dà un’idea di cosa Hitler intendesse per Grande Reich, mostra l’espansione della Germania nazista con l’annessione dell’Austria, l’occupazione dei Sudeti, l’occupazione della Boemia e della Moravia e infine l’attacco della Polonia. territorio originario territori annessi data di annessione

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Varsavia 1939

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Fu esattamente quanto accadde nella La spartizione campagna di Polonia. A metà settembre della Polonia le armate del Reich già assediavano Varsavia che, semidistrutta dai bombardamenti, capitolò alla fine del mese. Frattanto l’Urss, in base alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop, si impadroniva delle regioni orientali del paese, dopo aver invaso le tre piccole repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) che persero così la loro indipendenza. All’inizio di ottobre cessava ogni resi-

MAR BALTICO

MARE DEL NORD

or .

Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia e per offrire al mondo un’impressionante dimostrazione di efficienza bellica. L’offensiva tedesca, accompagnata da una serie di micidiali bombardamenti aerei, ebbe facilmente ragione di un esercito antiquato e mal guidato. Fu  questa il primo esempio di guerra-lampo (in tedesco ­Blitzkrieg), una strategia che si basava sull’uso congiunto del­ l’aviazione e delle forze corazzate, cui era affidato il peso principale dell’attacco. L’impiego su vasta scala dei carri armati e delle autoblindo e il loro raggruppamento in speciali reparti motorizzati rendevano di nuovo possibile la guerra di movimento, e consentivano, in caso di successo, di impadronirsi in pochi giorni di territori molto vasti, tagliando fuori gli eserciti nemici dalle loro fonti di rifornimento.

La guerra-lampo

sia



1938

territorio originario territori annessi data di annessione

stenza da parte dell’esercito polacco. Tedeschi e sovietici imposero nei territori sotto il loro controllo uno spietato regime di occupazione: in questo periodo si consumò, per opera dei sovietici, il massacro di oltre 4 mila ufficiali polacchi fatti prigionieri, i cui corpi, gettati in fosse comuni, sarebbero stati scoperti dai tedeschi, nel ’43, nella foresta di Katyn, in territorio russo. La Repubblica polacca cessava così di esistere dopo appena vent’anni di vita, senza aver ricevuto alcun aiuto concreto dai suoi alleati occidentali che, non volendo affrontare uno scontro in campo aperto, restarono sulla difensiva, aspettando l’attacco tedesco. Per i successivi sette mesi, la guerra a Occidente restò così congelata. L’Europa visse una fase di attesa che i francesi chiamarono drôle de guerre (“strana guerra” o “guerra per finta”) e che certo non giovò al morale delle truppe franco-britanniche, mentre consentì ai tedeschi di riorganizzare le forze in vista dello scontro decisivo.

La drôle de guerre

Mentre le armi tacevano sul fronte occidentale, il teatro di guerra si spostava inaspettatamente nell’Europa del Nord. Questa volta fu l’Urss a prendere l’iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine. La campagna si rivelò però più difficile del previsto: i finlandesi resistettero per più di tre mesi infliggendo notevoli perdite agli aggressori. Nel marzo 1940 la Finlandia dovette cedere alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua indipendenza. A questo punto fu di nuovo la Germania a cogliere tutti di sorpresa e a prevenire ogni eventuale mossa anglo-francese nel Nord Europa lanciando, il 9 aprile 1940, un improvviso attacco alla Danimarca e alla Norvegia. La Danimarca si arrese senza combattere. La Norvegia oppose una certa resistenza, ma anche in questo caso l’azione tedesca si rivelò incontenibile, nonostante la relativa esiguità delle forze impiegate. Nella primavera del ’40, Hitler controllava buona parte dell’Europa centro-settentrionale. I tempi erano maturi per scatenare l’attacco a Occidente.

La guerra nel Nord Europa



I tedeschi a Varsavia Nonostante gli atti di coraggio dei polacchi, il 5 ottobre 1939 le truppe tedesche sfilavano vittoriose nel centro di Varsavia, lasciato deserto dai suoi abitanti. La capitale era caduta il 27 settembre, dopo neanche un mese di guerra, ed era stata largamente distrutta. Alla fine del conflitto, parte della città fu ricostruita, adottando il criterio che prevedeva di mantenere il più possibile vicino all’originale il volto dei nuovi edifici. METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto in cosa consisteva la strategia della guerra-lampo.  b  Che cosa intendevano i francesi con l’espressione drôle de guerre? Sottolinea la risposta.  c  Individua e numera gli eventi principali della seconda guerra mondiale descritti. Quindi trascrivili sul quaderno sotto forma di titoletti continuando l’elenco iniziato nel paragrafo precedente.

11_3 LA DISFATTA DELLA FRANCIA E LA RESISTENZA DELLA GRAN BRETAGNA

L’attacco tedesco alla Francia ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane in un nuovo travolgente successo, tanto più clamoroso in quanto ottenuto a spese delle due maggiori potenze occidentali coalizzate. L’esercito francese, disponendo di una forte aviazione e di ingenti forze corazzate, era il più consistente e il meglio armato d’Europa. A provocare la sconfitta furono gli errori dei suoi comandi, ancora legati a una concezione statica

► Leggi anche: ► Personaggi Churchill, il campione della lotta al nazifascismo, p. 394

Un esito inatteso

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

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18_ATTACCO TEDESCO ALLA FRANCIA (PRIMAVERA 1940)

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Le date delle diverse Aisne fasi dell’attacco tedesco ARDENNE allaS Francia, con le en St. indicazioni Quentin delle zone na Sedan via via occupate, danno la misura della rapidità ed efficacia Parigi Aisne della “guerra-lampo” 14 giugno (Blitzkrieg). Sono ben Reims visibili la manovra concentrata verso Dunkerque, da cui riuscì Parigi R A N C I A aFimbarcarsi il grosso 14 giugno del contingente inglese, e la successiva avanzata verso Parigi.

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linea Maginot

dal 10 al 14 maggio dal 15 al 24 maggio dal 25 al 28 maggio avanzata tedesca

della guerra e troppo fiduciosi nell’efficacia delle fortificazioni difensive che costituivano la famosa SVIZZERA linea Maginot [►5_6 e FS, 76d]. Queste in realtà coprivano solo la frontiera franco-tedesca, lasciando ► scoperto il confine col Belgio: fu proprio da qui che, come nel 1914 [ 4_1 e 4_2], i tedeschi iniziarono l’attacco violando la neutralità dello Stato confinante. Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi an29 maggio dal 10 al 14 maggio che l’Olanda e il Lussemburgo. Fra il 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato velocemente la foresta dal 30 maggio al 4 giugno dal 15 al 24 maggio delle Ardenne, in territorio belga (ritenuta fino allora dal 5ad al 12 giugnoinvalicabile dai carri armati), i reparti corazdal 25 al 28 maggio 4 giugno date dell’occupazione avanzata tedesca zati tedeschi sfondarono nei pressi di Sedan, ossia nel punto centrale della linea difensiva francese, le cui forze più consistenti erano in parte impegnate nella difesa del Belgio, in parte dislocate più a sud, a presidiare l’inutile linea Maginot. Le truppe tedesche dilagarono in pianura e puntarono verso il canale della Manica, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e belgi e l’intero corpo di spedizione britannico, da poco sbarcato sul continente. Solo un momentaneo arresto dell’offensiva consentì al grosso delle forze britanniche (circa 200 mila, assieme a 130 mila tra francesi e belgi) un difficile reimbarco nel porto di Dunkerque (29 maggio-4 giugno). La sosta tedesca era dovuta in parte al timore degli alti comandi di aver spinto l’attacco troppo lontano dalle basi di partenza, e di esporle così a una possibile controffensiva nemica; in parte forse a un calcolo politico di Hitler, che voleva lasciarsi aperta la strada di un accordo con la Gran Bretagna. Per i britannici la ritirata rappresentò comunque la possibilità di continuare la lotta. Ma per la Francia, fiaccata nel morale oltre che nell’efficienza bellica, la sconfitta era ormai irreparabile. Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre lunghe colonne di profughi si riversavano verso il Sud.

Dunkerque

Assieme alle forze armate, cedeva anche la classe politica: il governo presieduto da Paul Reynaud, fautore della resistenza a oltranza, fu costretto a dimettersi. Divenne presidente del Consiglio l’ottantaquattrenne maresciallo Philippe Pétain (comandante dell’esercito francese nell’ultima fase della Grande Guerra), che aprì immediatamente le trattative per

Pétain e l’armistizio

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dal 10 al 14 maggio dal 15 al 24 maggio dal 25 al 28 maggio avanzata tedesca

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4 giugno

29 maggio dal 30 maggio al 4 giugno dal 5 al 12 giugno date dell’occupazione

4 giugno

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Carro armato tedesco in avanzata

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SVIZZERA

l’armistizio. Invano il generale Charles De Gaulle, sottosegretario alla difesa nel governo Reynaud, lanciò da Londra, il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a continuare a combattere a fianco dei loro alleati. L’armistizio fu firmato il 22 giugno 1940 nella stessa località (il villaggio di Rethondes) e nello stesso vagone ferroviario che nel novembre ’18 avevano visto la delegazione tedesca piegarsi ai vincitori di allora [►4_11]. In base all’armistizio il governo, che stabilì la sua sede nella cittadina termale di Vichy, conservava la sua sovranità su una zona corrispondente grosso modo alla metà centro-meridionale del paese, oltre che sulle colonie. Parigi e il resto della Francia restavano sotto l’occupazione tedesca. Il crollo militare della Francia e l’avvento di Pétain segnarono anche la fine della Terza Repubblica, nata settant’anni prima da un’altra catastrofe bellica, quella subita da Napoleone III contro i prussiani. Il 9 luglio l’Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri, affidando al presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova Costituzione. Come molti francesi, Pétain attribuiva la responsabilità della sconfitta non agli errori dei comandi militari, ma alla classe dirigente repubblicana e al sistema democratico-parlamentare, considerato troppo permissivo e dunque causa di rilassamento morale. La “rivoluzione nazionale” da lui promossa – col diffuso consenso di un’opinione pubblica passiva e smarrita, desiderosa soprattutto di finirla con la guerra – si risolse così in un ritorno alle tradizioni dell’ancien régime: culto dell’autorità, difesa della religione e della famiglia, esaltazione retorica della piccola proprietà e del lavoro nei campi, organizzazione sociale di stampo corporativo. Il regime di Vichy vide progressivamente restringersi i suoi margini di autonomia e si ridusse al rango di Stato-satellite della Germania hitleriana. Ogni rapporto con la Gran Bretagna fu interrotto dopo che il 3 luglio la flotta francese, ancorata nella Baia di Mers el Kebir in Algeria, fu attaccata e distrutta da quella britannica per evitare che cadesse in mano ai tedeschi.

Il regime di Vichy

Dal giugno 1940 la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la Germania e i suoi alleati. A questo punto Hitler sarebbe stato disposto a trattare, a patto di vedersi riconosciute le sue conquiste. Ma ogni ipotesi di tregua trovò un ostacolo insuperabile nella volontà di resistenza della classe dirigente e del popolo britannico. Interprete e ispiratore di questa linea intransigente fu il primo ministro conservatore Winston Churchill, da sempre intransigente oppositore della politica di appeasement. Chiamato nel maggio del 1940, dopo le dimissioni di Chamberlain, a guidare un nuovo governo di coalizione nazionale, Churchill enunciò subito il suo programma in un celebre discorso: una sola politica, «la guerra per mare, per terra e nell’aria, con tutte le nostre energie», e un solo obiettivo, «la vittoria a tutti i costi [...] per quan-

L’intransigenza di Churchill

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Londra in fiamme dopo i primi bombardamenti tedeschi 7 settembre 1940 [Collezione New York Times Paris Bureau; NARA, College Park, Maryland (Usa)]

PERSONAGGI

Churchill, il campione della lotta al nazifascismo

N

acque il 30 novembre 1874 nella contea di Oxford, da Lord Randolph, duca di Marlborough e politico conservatore, e dalla statunitense Jenny Jerome, figlia di un noto finanziere e affarista. Dopo una carriera scolastica non particolarmente brillante, nel 1894 entrò nell’Accademia militare rea­ le di Sandhurst e fu arruolato nell’esercito. Il suo carattere poco rispettoso per le gerarchie, anticonformista e critico non riscuoteva le simpatie dei suoi superiori. Desideroso di vedere da vicino un teatro di guerra, grazie alle conoscenze dei suoi genitori, negli anni successivi si recò come reporter di guerra e soldato nei teatri di conflitti coloniali, in Pakistan e in Egitto. Da queste esperienze trasse due libri di memorie: veri e propri successi di pubblico, non apprezzati però dai generali, che venivano criticati duramente in entrambe le opere. Congedatosi dall’esercito, dopo una breve e poco fortunata esperienza politica nel Partito conservatore, nel 1899 si recò in Suda-

frica come giornalista per seguire la guerra anglo-boera. Mentre raggiungeva il fronte, però, cadde in un’imboscata e fu fatto prigioniero dai boeri. Fu trasferito nel campo di concentramento di Pretoria, da cui però riuscì a evadere: dopo la fuga, per sfuggire alle ricerche, trascorse otto giorni nascosto in una miniera sotterranea, a 75 metri di profondità, prima di mettersi in salvo raggiungendo la colonia portoghese del Mozambico.

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Winston Churchill leva le dita nel segno di vittoria 1948 Quando, nel 2002, la Bbc lanciò un sondaggio su quali fossero i britannici più grandi di tutti i tempi, i risultati videro al primo posto Winston Churchill. Simbolo della resistenza liberaldemocratica contro il nazismo, abilissimo oratore (nonostante i difetti di pronuncia), uomo di grande carisma, ambizioso e lungimirante, Winston Churchill, a partire dal secondo conflitto mondiale, venne considerato dagli inglesi come il salvatore della patria.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Tornato in Gran Bretagna, ormai famosissimo tanto per i suoi scritti quanto per la spettacolare evasione, riprese a dedicarsi all’attività politica con i conservatori e nel 1900 fu eletto alla Camera dei Comuni. Nel 1904, contrario alle politiche protezioniste dei Tories, entrò nel Partito liberale. Negli anni seguenti ricoprì diversi incarichi governativi: propose molte misure sociali contro lo sfruttamento sul lavoro, mentre si oppose alla concessione del diritto di voto alle donne. Nel 1908 sposò Clementine Hozier, che rimase la sua compagna per tutta la vita. Nel 1911, Churchill fu nominato primo Lord dell’Ammiragliato (ministro della Marina

to lunga e dura possa essere la strada». Ai suoi concittadini non aveva nulla da offrire «se non sangue, travagli, lacrime e sudore». I sacrifici annunciati da Churchill divennero ben presto una dura realtà. All’inizio di luglio, Hitler dava il via all’operazione “Leone marino” per l’invasione della Gran Bretagna. Premessa essenziale per la radar riuscita del piano era il dominio dell’aria, che avrebbe consentito ai tedeschi di Il radar, inventato nel 1935 dallo scienziato scozzese Robert Watson-Watt (1892-1973), è un dispositivo che compensare la superiorità navale della Gran Bretagna. Quella scatenata dalla Gertrasmette delle onde radio, le quali, se incontrano nel loro mania nell’estate del ’40 fu la prima grande battaglia aerea della storia. Per circa percorso un oggetto solido, vi rimbalzano sopra e una tre mesi l’aviazione tedesca (Luftwaffe) effettuò continue incursioni in territorio briloro parte ritorna al punto di partenza. Il radar misura il tempo che intercorre prima che l’onda ritorni, permettendo tannico, prima contro obiettivi militari, poi contro i principali centri industriali, (grazie al fatto che si conosce la distanza percorsa da compresa Londra, che fu ripetutamente bombardata. Gli attacchi furono però effiun’onda radio in un secondo) di calcolare la distanza alla quale si trova l’oggetto sul quale essa è rimbalzata. In cacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air Force questo modo diviene possibile individuare e misurare la (Raf), che si avvaleva fra l’altro di un ottimo sistema di informazione e di avvistaposizione di oggetti altrimenti invisibili. mento radar. All’inizio dell’autunno apparve chiaro che, nonostante le perdite

La battaglia d’Inghilterra

militare). Sostenitore entusiasta della nascente aviazione, decise di dotare la Marina di aerei per difendere i porti e le installazioni navali e prese lezioni di volo egli stesso. Si dimise dall’incarico nel 1915, dopo l’insuccesso della spedizione nei Dardanelli [►4_5] contro l’Impero ottomano nella prima guerra mondiale. Tra il 1917 e il 1918, fu nominato ministro degli Armamenti: convinto dell’importanza dei carri armati, decise di ordinarne 10 mila, ma il conflitto terminò prima che fossero pronti. Nel 1918 fu nominato ministro della Guerra e dell’Aeronautica: anticomunista convinto, sostenne l’intervento britannico e alleato a favore delle forze antibolsceviche contro la neonata Russia sovietica. All’inizio degli anni ’20 il Partito liberale, dopo alcune sonore sconfitte elettorali, cominciò ad avvicinarsi al Partito laburista. ­Churchill, contrario, nel 1924 rientrò nel Partito conservatore e divenne cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze) nel nuovo governo. Mantenne questo incarico per cinque anni, durante i quali applicò una politica finanziaria rigidamente deflazionistica, che provocò numerosi scioperi nel paese. Nel 1929 tornarono al governo i laburisti e Churchill, per dieci anni, non ebbe incarichi nell’esecutivo. In questo periodo rimase isolato anche nel Partito conservatore, esprimendo posizioni autonome: ad esempio, si oppose a ogni apertura verso le istanze di Gandhi e del movimento per l’autonomia dell’India. Nel 1933, fu il primo a esprimere timori per gli scenari che stava aprendo l’avvento dei nazisti al potere. Negli anni se-

guenti espresse posizioni durissime tanto contro Hitler quanto contro il suo nuovo alleato Mussolini, che precedentemente aveva lodato per la lotta contro il comunismo. Criticò duramente gli accordi di Monaco (settembre 1938), commentando: «tutto è finito. [...] Ci troviamo di fronte a un disastro di prima grandezza piombato addosso alla Francia e all’Inghilterra». Il 3 settembre 1939, all’inizio della seconda guerra mondiale, Churchill fu nominato nuovamente primo Lord dell’Ammiragliato: con il sigaro cubano (il Churchill, che prese, appunto, il suo nome) perennemente in bocca e il cappello sempre in testa, tornò sulle prime pagine dei giornali. Il 10 maggio 1940, dopo l’attacco tedesco alla Francia, fu nominato primo ministro di un governo di coalizione. Nel suo primo discorso, destinato a restare famoso, fissò come unico obiettivo la vittoria contro il nazismo: «Chiedete qual è il nostro scopo? Rispondo con una parola sola: vittoria, vittoria a ogni costo, vittoria malgrado tutto il terrore, vittoria, per quanto la strada possa essere lunga e ardua; senza vittoria infatti non c’è sopravvivenza». Durante i grandi bombardamenti su Londra, si fece vedere spesso per le strade, tra macerie e feriti. Divenne così il simbolo della lotta e della riscossa contro i tedeschi, personificando le speranze e l’ottimismo del popolo britannico. In uno dei suoi più famosi discorsi, affermò: «andremo fino in fondo; combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con sempre maggiore fiducia e rinnovata forza in aria, difenderemo la nostra isola, a qualunque prezzo; combatteremo sulle

spiagge, combatteremo nei campi e sugli alberi, combatteremo sulle colline; non ci arrenderemo mai». La sua popolarità crebbe e i suoi discorsi ispirarono la resistenza di tutte le forze alleate contro la Germania. Dopo la resa della Germania nel maggio 1945, il suo nome fu gridato nelle manifestazioni di gioia per le strade: Churchill sfilò trionfante, levando le dita nel segno di vittoria (V come Victory) che diventò un suo gesto tipico. Nonostante il successo, nel luglio del 1945 fu sconfitto nelle elezioni dai laburisti. Il 5 marzo 1946, durante un viaggio negli Stati Uniti, pronunciò il celebre discorso in cui denunciava la “cortina di ferro” fatta calare sull’Europa dalla politica di Stalin. Il 26 ottobre 1951 fu nuovamente nominato primo ministro e si impegnò soprattutto a stringere legami più forti con gli Usa in chiave antisovietica. Nel 1953 ricevette il premio Nobel per la letteratura, per la sua opera storica e autobiografica The Second World War (“La seconda guerra mondiale”). Nel novembre 1954, a Westminster, fu celebrato il suo ottantesimo compleanno, con una cerimonia in cui gli fu reso omaggio dal Parlamento e dalla famiglia reale. La sera del 4 aprile 1955, Churchill offrì nella sua residenza un pranzo in onore della regina Elisabetta II, che fu sua ospite: il giorno successivo diede le sue dimissioni. Morì il 28 gennaio 1965 in seguito ad un attacco di cuore che lo aveva colpito due settimane prima. Si spegneva così una delle figure più amate della storia britannica: la regina Elisabetta II decise di onorarlo con i funerali di Stato, mentre Francia e Stati Uniti fecero sventolare le loro bandiere a mezz’asta.

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

umane e le distruzioni materiali subìte, la Gran Bretagna non era stata piegata e l’operazione “Leone marino” fu rinviata a tempo indefinito. La battaglia d’Inghilterra, tuttavia, aveva dato una tragica dimostrazione delle potenzialità distruttive del mezzo aereo [►FS, 79]: i bombardamenti sulle città, le terrificanti incursioni notturne precedute dal suono delle sirene e dalla fuga dei civili verso i rifugi antiaerei, gli orrori prodotti dalle bombe incendiarie sarebbero diventati un elemento ricorrente e un fattore decisivo nelle successive fasi della guerra. La tenace resistenza britannica aveva ottenuto comunque un successo determinante, anche dal punto di vista psicologico, imponendo alla Germania la prima battuta d’arresto dall’inizio del conflitto.

La guerra aerea



METODO DI STUDIO

 a  Completa la frase che segue sottolineando sul testo la conclusione corretta: «L’armistizio di Rethondes tra Francia e Germania aveva stabilito che...».  b  Scrivi un termine che indichi le principali caratteristiche del nuovo governo instaurato da Pétain a Vichy: .....................  c  Cerchia il nome del primo ministro inglese e sottolinea le caratteristiche della politica bellica che intraprese. Quindi indica almeno quattro parole chiave in grado di rappresentarle e argomenta la tua scelta per iscritto.  d  Continua l’elenco schematico degli eventi della seconda guerra mondiale che hai precedentemente iniziato.

11_4 L’ITALIA E LA “GUERRA PARALLELA”

Nell’estate del 1939 l’Italia fu colta di sorpresa dal precipitare della crisi internazionale. E, allo scoppio della guerra, non poté far altro che annunciare la propria “non belligeranza” (un’espressione usata per evitare il termine “neutralità”, poco consono alla retorica fascista). L’inadempienza agli impegni del “patto d’acciaio” era giustificata con l’impreparazione ad affrontare un conflitto di lunga durata. In effetti l’equipaggiamento delle forze armate, già scarso e antiquato, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna. Insufficienti erano anche le scorte di materie prime, per le quali l’Italia dipendeva in larga parte dalle importazioni. Ma nel maggio 1940, di fronte al crollo della Francia, Mussolini pensò che l’esito del conflitto fosse ormai deciso e vinse le resistenze di quei settori della classe dirigente (il re, i gerarchi dell’ala “moderata” del fascismo, gli industriali, gli stessi vertici militari) che fino ad allora si erano mostrati meno favorevoli all’entrata in guerra. Anche l’opinione pubblica, prima avversa all’alleanza con la Germania, cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenersi col minimo sforzo (lo stesso Mussolini, in privato, parlò di “qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”). Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, il duce annunciò a una folla plaudente l’entrata in guerra dell’Italia contro Francia e Gran Bretagna.

Dalla “non belligeranza” alla dichiarazione di guerra

L’offensiva sulle Alpi contro la Francia, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità numerica contro un avversario praticamente già sconfitto, si risolse però in una disastrosa prova di inefficienza. L’armistizio subito richiesto dalla Francia e firmato il 24 giugno prevedeva solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una fascia di territorio francese profonda 50 chilometri. Non diversamente andarono le cose in Africa settentrionale, dove l’attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro le forze britanniche in Egitto dovette arrestarsi per l’insufficienza dei mezzi corazzati. Mussolini, convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela e non subalterna a quella tedesca, rifiutò un’offerta d’aiuto da parte della Germania, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente alleato. Si trattava però di una guerra che le forze armate italiane non erano in grado di affrontare, come gli avvenimenti dei mesi successivi avrebbero ampiamente dimostrato.

I primi fallimenti

Nell’ottobre 1940 l’esercito italiano, muovendo dall’Albania, attaccava improvvisamente la Grecia. Questa offensiva, decisa senza adeguata preparazione e senza alcuna giustificazione plausibile, si scontrò con una resistenza molto più dura del previsto. Alla fine di novembre i greci passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio albanese [►FS, 89]. L’esito fallimentare della campagna di Grecia provocò un terremoto nei vertici militari (il capo di stato maggiore Badoglio fu costretto alle

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L’aggressione alla Grecia

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

► Leggi anche: ► Fare Storia La guerra italiana, p. 488

Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma 10 giugno 1940 [foto di Adolfo Porry Pastorel]

dimissioni) e suscitò nel paese una diffusa crisi di sfiducia. Le notizie che filtravano dal fronte greco – e parlavano di disorganizzazione, di carenza di equipaggiamento invernale, di fenomeni di sbandamento fra le truppe – diedero un grave colpo all’immagine guerriera del regime e alla popolarità di Mussolini. Tanto più che quelle notizie si accompagnavano all’eco dei contemporanei insuccessi in Africa. Nel dicembre ’40 i britannici passarono al contrattacco sul fronte libico e, grazie anche alla superiorità dei loro carri armati, in poche settimane conquistarono l’intera Cirenaica (ossia la parte orientale della Libia) infliggendo agli italiani la perdita di 140 mila uomini fra morti, feriti e prigionieri. Per evitare la definitiva cacciata dalla Libia, Mussolini fu costretto questa volta ad accettare l’aiuto della Germania. Nel marzo 1941, con l’arrivo dei primi reparti tedeschi, equipaggiati con moderni mezzi corazzati e comandati da un brillante stratega della guerra di movimento, il generale Erwin Rommel, le truppe dell’Asse cominciarono una lunga controffensiva che, già in aprile, portò alla riconquista della Cirenaica. Ma intanto l’Africa orientale italiana (Etiopia, Somalia, Eritrea), difficilmente difendibile per la sua posizione geografica, stava cadendo nelle mani della Gran Bretagna: il 6 aprile 1941 fu occupata Addis Abeba, dove pochi giorni dopo rientrava trionfalmente il negus. Fu un altro durissimo colpo per il prestigio dell’Italia, ormai costretta a rinunciare a ogni sogno di “guerra parallela” e ridotta ovunque a recitare il ruolo dell’alleato subalterno.

Gli insuccessi sui fronti africani

Anche nei Balcani, come in Nord Africa, il fallimento delle iniziative italiane finì con l’aprire la strada all’intervento in forze della Germania. Nell’aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe tedesche e italiane, furono facilmente travolte, mentre i britannici – che in marzo erano sbarcati in territorio ellenico – erano costretti a ritirarsi, abbandonando per la seconda volta in poco più di un anno il continente europeo. L’Italia, da questo momento, si trovò a svolgere assieme alla Germania il ruolo di potenza occupante nei Balcani, vedendosi assegnate una parte della Slovenia (che fu annessa al Regno d’Italia), ampie zone della Croazia, della Dalmazia e del Montenegro e gran parte del territorio greco.

L’intervento tedesco nei Balcani

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

LA GUERRA PARALLELA DELL’ITALIA

LA GUERRA ITALIANA

FRONTE FRANCESE

FRONTE AFRICANO

FRONTE BALCANICO

Offensiva contro la Francia sulle Alpi: l’Italia mostra l’inefficienza del suo esercito

Nel settembre ’40 fallisce l’offensiva in Africa settentrionale

Nell’ottobre ’40 l’Italia attacca la Grecia, ma deve ripiegare in Albania

Firma dell’armistizio con la Francia il 24 giugno ‘40

In dicembre gli italiani perdono la Cirenaica. La riconquisteranno con l’aiuto tedesco nel marzo ’41

Aprile ‘41: intervento tedesco nei Balcani. L’Italia diventa potenza occupante al fianco della Germania

Pur se meno feroce di quella tedesca, l’occupazione italiana fu segnata da violenze e rappresaglie che si sovrapposero ai conflitti etnici e politici di un paese già METODO DI STUDIO profondamente diviso com’era allora la Jugoslavia. Nella  a  Sottolinea con colori diversi le motivazioni che portarono Mussolini a diprimavera del ’41, restava aperto il solo fronte nordafricano chiarare prima la non belligeranza e poi la guerra. (dove i britannici erano avvantaggiati dalla superiorità na b Evidenzia con colori diversi i fronti di guerra su cui l’Italia sferrò le sue vale nel Mediterraneo, oltre che dall’ampio retroterra di cui offensive dopo la sua entrata in guerra e i relativi esiti. disponevano in Africa e in Medio Oriente). Ma Hitler non  c  Cosa s’intende con l’espressione “guerra parallela”? Evidenzia nel testo la risposta e riportala per iscritto. aveva più rivali in Europa. E poteva concentrare il grosso  d  Continua l’elenco schematico degli eventi della seconda guerra mondiale delle sue forze verso l’obiettivo più ambìto: la conquista già iniziato. dello “spazio vitale” a Est ai danni dell’Urss.



11_5 1941: L’ENTRATA IN GUERRA DI URSS E STATI UNITI

Con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, all’inizio dell’estate 1941, la guerra entrò in una nuova fase. Un altro vastissimo fronte si aprì in Europa orientale. La Gran Bretagna non fu più sola a combattere. Lo scontro ideologico si semplificò e si radicalizzò col venir meno dell’anomala intesa fra nazismo e comunismo sovietico. Che l’Urss costituisse da sempre il principale obiettivo delle mire espansionistiche di Hitler non era un mistero per nessuno. Stalin si illuse tuttavia che Hitler non avrebbe scatenato l’attacco a Est prima di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941 l’offensiva tedesca – denominata in codice operazione Barbarossa – scattò su un fronte lungo 1600 chilometri, dal Baltico al Mar Nero, i sovietici furono colti impreparati (anche perché le “grandi purghe” del ’37-38 avevano privato l’Armata rossa dei suoi migliori ufficiali). In due settimane le armate del Reich penetrarono in territorio sovietico per centinaia di chilometri. L’offensiva – cui prese parte anche un corpo di spedizione italiano inviato in tutta fretta da Mussolini, ansioso di inserirsi nella crociata antibolscevica [►FS, 90d] – continuò per tutta l’estate travolgendo ogni resistenza. Ma l’attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all’inizio di ottobre, e fu bloccato a poche decine di chilometri dalla capitale dal sopraggiungere del maltempo, che rese impraticabili molte strade e rallentò il movimento degli automezzi.

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L’attacco tedesco all’Unione Sovietica

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

► Leggi anche: ► Eventi Pearl Harbor, p. 401

In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. All’inizio dell’inverno, i tedeschi erano ancora padroni di territori vastissimi e importantissimi dal punto di vista economico e strategico: l’Ucraina, la Bielorussia, le regioni baltiche. Ma Hitler aveva mancato l’obiettivo di mettere fuori causa l’Urss ed era costretto a tenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle prese con un terribile inverno e con una resistenza sempre più accanita. Guidata personalmente da Stalin – che fece appello al sentimento patriottico del popolo russo – la guerra difensiva dei sovietici risultò infatti più efficace del previsto. Attingendo a un serbatoio umano che sembrava inesauribile e riorganizzando la produzione industriale nelle regioni a est del Volga, l’Urss riuscì infatti a compensare le spaventose perdite subìte (3 milioni di uomini, 20 mila carri armati e 15 mila aerei nei primi tre mesi di guerra). Anche la guerra meccanizzata si trasformava così in una guerra d’usura, in cui l’elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare rapidamente il logorìo degli uomini e dei materiali. In una guerra del genere – così com’era accaduto nel primo conflitto mondiale – la Germania era destinata a perdere il suo vantaggio iniziale, dovuto soprattutto alla superiorità tecnica e strategica. Tanto più nel momento in cui gli Stati Uniti, massima potenza industriale del mondo, si schieravano a fianco di Gran Bretagna e Urss.

La resistenza dell’Urss

Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la loro linea di non intervento negli affari europei, ma, una volta rieletto alla presidenza per la terza volta, nel novembre 1940, Roosevelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro la Germania. Nel marzo 1941 fu approvata una legge, detta “degli affitti e prestiti”, che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni molto favorevoli a quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani. In maggio gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania e Italia. In giugno la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all’Islanda i convogli che trasportavano aiuti a nazioni alleate e autorizzata a rispondere a eventuali attacchi.

Gli aiuti americani alla Gran Bretagna

◄  Un

soldato russo viene fatto prigioniero dai tedeschi novembre 1941

▼  Soldati

dell’Armata rossa combattono nella neve inverno 1941

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Questa politica – che tendeva a fare degli Stati Uniti l’“arsenale delle democrazie” – ebbe il suo suggello ufficiale nell’incontro fra Roosevelt e Churchill avvenuto il 14 agosto 1941 su una nave da guerra al largo dell’isola di Terranova. Frutto dell’incontro fu la cosiddetta Carta atlantica: un documento in otto punti – una sorta di riedizione aggiornata dei 14 punti di Wilson – in cui i due statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita: rispetto dei princìpi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari, cooperazione internazionale, rinuncia all’uso della forza nei rapporti fra gli Stati. Il coinvolgimento degli Usa in quella che sempre più stava diventando una guerra antifascista sembrava già a questo punto inevitabile.

La Carta atlantica

A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu però l’aggressione improvvisa subita nel Pacifico da parte del Giappone: la maggiore potenza dell’emisfero orientale e il principale alleato asiatico di Germania e Italia, cui era legato, dal settembre 1940, da un patto di alleanza militare detto patto tripartito. Già impegnato dal ’37 nella guerra contro la Cina [►10_7], il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche a tutti i territori del Sud-Est asiatico. Quando, nel luglio 1941, i giapponesi invasero l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone. L’Impero asiatico si trovò a questo punto di fronte a una scelta: piegarsi alle richieste delle potenze occidentali (che esigevano il ritiro delle truppe giapponesi dall’Indocina e dalla Cina) o scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi così le materie prime necessarie alla sua politica di grande potenza. Il governo giapponese, dominato dalle correnti belliciste, scelse la strada della guerra.

L’espansionismo del Giappone

Il 7 dicembre 1941, l’aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, e la distrusse in buona parte. Nei mesi successivi, profittando della netta superiorità navale così conquistata nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obiettivi che si erano prefissati: nel maggio ’42 controllavano le Filippine (strappate agli Usa), la Malesia e la Birmania britanniche, l’Indonesia olandese; ed erano in grado di minacciare l’Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere forze preziose dal Medio Oriente.

L’attacco a Pearl Harbor

Pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor, anche Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti. Il conflitto diventava a questo punto METODO DI STUDIO veramente mondiale. Gli anglo-americani e i sovietici, tro a  «Il nome in codice operazione Barbarossa vatisi a combattere dalla stessa parte più per scelta altrui che per propria volontà, stava a indicare...»: continua la frase sottolineando nel paragrafo la conclusione opportuna e si posero subito il problema di elaborare una strategia comune per battere le spiega quali conseguenze ebbe questa operazione potenze fasciste. Lo fecero per la prima volta nella conferenza che si tenne a per gli Stati che ne furono coinvolti. Washington fra il dicembre 1941 e il gennaio 1942, nella quale tutte le 26 nazioni  b Cerchia il nome dello Stato che si alleò con Germania e Italia e sottolinea le motivazioni che in guerra contro Germania, Italia e Giappone (oltre a Stati Uniti, Unione Sovietica lo spinsero in guerra. e Gran Bretagna c’erano anche i paesi del Commonwealth e numerosi rappre c  Spiega per iscritto cosa sono la Carta atlantica sentanti di Stati occupati dai tedeschi) sottoscrissero il patto “delle Nazioni e il patto delle Nazioni Unite mettendo in rilievo i relativi contenuti e i paesi contraenti. Unite”: i contraenti – gli alleati, come da allora sarebbero stati definiti – si impe d  Continua l’elenco schematico degli eventi gnavano a tener fede ai princìpi della Carta atlantica, a combattere le potenze della seconda guerra mondiale già iniziato. fasciste e a non concludere con esse paci separate.

Il patto delle Nazioni Unite



11_6 RESISTENZA E COLLABORAZIONISMO NEI PAESI OCCUPATI

Nella primavera-estate del 1942 le potenze dell’Asse Roma-Berlino-Tokio raggiunsero la loro massima espansione territoriale. Il Giappone dominava su tutto il Sud-Est asiatico, su vaste zone della Cina e su molte isole del Pacifico. In Europa i tedeschi controllavano, direttamente o indirettamente, un territorio di circa 6 milioni di km2 con oltre 350 milioni di

400

Il dominio dell’Asse

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

EVENTI

Pearl Harbor

L’

quanto agli Stati Uniti, Pearl Harbor ridefinì completamente gli equilibri politici interni, spostando il peso dell’opinione pubblica a favore dell’intervento in guerra. Nella primavera del 1941, alla vigilia del­ l’attacco alla Russia, i tedeschi già pensavano a un eventuale ingresso in guerra del Giappone, che il patto tripartito

attacco giapponese alla base statunitense di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 determinò una svolta decisiva nella seconda guerra mondiale ed ebbe come conseguenza diretta il coinvolgimento di Giappone e Stati Uniti nel conflitto e il suo allargamento all’area del Pacifico. Per entrambi i paesi lo scontro costituiva il punto d’arrivo di una lunga parabola di avvicinamento alla guerra: nel caso del Giappone era lo sbocco obbligato di una politica di espansione estremamente aggressiva ai danni dei paesi del Sud-Est asiatico: politica che, insieme al sodalizio con la Germania hitleriana, lo poneva inevitabilmente in rotta di collisione con le democrazie occidentali;

del 1940 vincolava alle potenze dell’Asse. Il Führer avrebbe voluto sfruttare la politica espansionistica del Giappone in funzione antibritannica, ed era convinto che questo avrebbe avuto un effetto deterrente anche verso gli Stati Uniti, che in caso di guerra si sarebbero trovati di fronte l’unica flotta capace di competere con la loro, quella nipponica. Il

L’attacco a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 Il disegno riproduce l’attacco dell’aviazione giapponese, comandata dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto, alla flotta statunitense concentrata nella Baia di Pearl Harbor, nelle Hawaii, all’alba del 7 dicembre del 1941. Al centro, in fiamme, sono raffigurate le corazzate americane colpite dai bombardieri e dagli aerosiluranti: la Nevada (1), colpita, sta affondando; l’Oklahoma (2) si rovescia dopo essere stata colpita da tre siluri; l’Arizona (3) è stata irrimediabilmente colpita e sta esplodendo; la corazzata West Virginia (4), che sta affondando, ha marginalmente protetto la Tennessee (5); la corazzata California (6) si sta inclinando su un fianco mentre l’equipaggio tenta di mettersi in salvo. Delle corazzate colpite solo tre risultarono irrecuperabili; le altre, invece, furono impiegate ancora durante il corso della guerra.

    1     2     3     4     6     5

401

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

402

Giappone però aveva le sue logiche di espansione, e tutte incrociavano inevitabilmente gli interessi americani. Riluttanti a lanciarsi in guerra senza adeguata contropartita e solo per compiacere Hitler, i giapponesi evitarono di assumere impegni precisi e di svelare i propri disegni, mentre la Germania si impegnava a intervenire al loro fianco in caso di guerra contro gli Stati Uniti. La situazione precipitò nell’estate del 1941 con l’occupazione dell’Indocina francese: Roosevelt aveva reagito con l’embargo delle forniture petrolifere americane, a cui avevano fatto seguito quelle delle colonie britanniche e olandesi, ovvero l’intero fabbisogno del Giappone. Su questo nodo decisivo erano in corso a Washing­ ton negoziati tra i due paesi: in cambio dell’interruzione dell’embargo Roosevelt chiedeva il ritiro non solo dall’Indocina francese, ma anche dalla Cina, e questo non lasciava al Giappone molta scelta. Mentre le riserve di petrolio diminuivano rapidamente, il 25 novembre veniva deciso l’attacco. Fu scelta la base di Pearl Harbor nell’isola di Oahu, nelle Hawaii, perché, per la sua posizione strategica in mezzo al Pacifico, ospitava dal 1940 il grosso della flotta americana. Ideatore del piano d’attacco era l’ammiraglio Yamamoto Isoroku, a capo della Marina militare e artefice del potenziamento della forza aeronavale giapponese, che proprio sotto la sua guida era diventata la più imponente del Pacifico. Yamamoto aveva ideato un piano audace per mettere fuori gioco la forza navale americana nel Pacifico, basato sulla totale sorpresa. La flotta giapponese doveva avvicinarsi all’obiettivo in totale oscuramento seguendo una rotta insolitamente lunga che l’avrebbe portata a nord delle Hawaii, da dove gli americani non si attendevano alcun attacco, tanto più che non vi era stata alcuna dichiarazione di guerra. Ma il Giappone intendeva mantenersi nell’ambito delle convenzioni internazionali, seppure ridotte a pura formalità: quindi la consegna della dichiarazione di fallimento dei negoziati (e quindi di una possibile guerra) era stata prevista in modo da non lasciare al nemico il tempo di preparare le difese, e cioè mezz’ora prima dell’attacco. Una serie di disguidi (non si sa quanto accidentali) fece invece slittare i tempi, e la dichiarazione giunse quando l’attacco era già in atto e i negoziati ufficialmente ancora aperti. Quella che mosse verso Pearl Harbor era

Bombardamenti su Pearl Harbor (Hawaii)

una formazione imponente, la cui forza d’urto era costituita da 6 portaerei e oltre 400 aerei tra aerosiluranti, bombardieri in picchiata, bombardieri in quota e caccia (gli aerei progettati per attaccare altri aerei in volo). Quando giunsero a ridosso di Pearl Harbor i giapponesi ebbero la certezza che tra le 86 unità navali americane ospitate nella base c’erano 8 corazzate e 7 incrociatori, ma non c’erano le portae­rei, in missione fuori dalla base. L’ammiraglio Nagumo, che aveva il comando delle operazioni, lanciò comunque l’attacco e, intorno alle 8 di mattina del 7 dicembre, la prima delle due ondate successive di aerei piombava sull’isola. Gli attacchi, micidiali e fulminei, colsero, come era nei piani giapponesi, gli americani del tutto impreparati: delle 8 corazzate, 3 vennero affondate, 2 capovolte e le altre gravemente danneggiate; gran parte degli hangar e degli aerei a terra andarono distrutti, le vittime furono migliaia. L’esiguità delle perdite nipponiche attesta che la difesa americana non ebbe modo di reagire [►FS, 78].

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

L’attacco fu un successo schiacciante per i giapponesi, ma solo nell’immediato. Non solo erano scampate all’attacco le portaerei statunitensi, ma erano rimasti intatti i cantieri per le riparazioni, i depositi di carburante e le basi dei sommergibili. La durata della guerra si sarebbe incaricata di trasformare questa negligenza dei vertici militari giapponesi in un errore fatale, perché tutti questi elementi si sarebbero rivelati decisivi. Negli Stati Uniti l’effetto di Pearl Harbor fu tale da far nascere il sospetto che l’incredibile impreparazione delle truppe statunitensi nella difesa della base non fosse frutto del caso, ma di un complotto ordito dallo stesso presidente per superare l’opposizione degli isolazionisti (ipotesi poi smentita da un’apposita commissione d’inchiesta). L’attacco, in ogni caso, compattò il paese in un moto spontaneo di sdegno che lasciava aperta una sola strada: il giorno dopo, definendo il 7 dicembre 1941 «una data che resterà segnata dall’infamia», Roosevelt annunciava l’entrata degli Stati Uniti in guerra.

abitanti. Attorno alla Germania e all’Italia ruotavano gli alleati “minori”: Finlandia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia e Francia di Vichy. Olanda, Norvegia e Boemia erano governate da “alti commissari” tedeschi. Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali, erano di fatto incluse nella sfera politico-economica dell’Asse. All’interno di questo blocco l’Italia aveva un ruolo marginale. Il cuore pulsante del sistema era infatti la Germania, la cui macchina bellica lavorava a pieno ritmo, grazie anche al lavoro obbligatorio dei prigionieri di guerra e degli operai prelevati dai paesi occupati.

ISLANDA

Sia la Germania sia il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un “nuovo ordine” basato sulla supremazia della nazione eletta. Mentre però il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti dei paesi soggetti al dominio coloniale e fece propria, strumentalmente, la causa della lotta contro l’imperialismo europeo, la Germania non concesse nulla alle aspirazioni dei popoli ad essa soggetti. Per le popolazioni considerate razzialmente inferiori, i progetti hitleriani prevedevano solo la totale subordinazione, se non addirittura lo sterminio (era questo, come vedremo fra poco, il destino riservato agli ebrei).

Il nuovo ordine nazista

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Nella carta sono indicate N A tutte le direttrici degli R Vichy attacchi tedeschi e italiani F e l’estensione raggiunta dal dominio delle potenze dell’Asse Madrid alla fine del 1942.

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attacchi delle forze dell’Asse nel 1939 nel 1940 nel 1941-42 battaglia d’Inghilterra, 8 agosto - 31 ottobre 1940

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

403

paesi dell’Asse paesi occupati dalle forze dell’Asse paesi neutrali paesi alleati

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paesi dell’Asse paesi occupati dalle forze dell’Asse paesi neutrali paesi alleati Francia di Vichy paesi occupati dagli alleati confini al 1939 fronte orientale, dicembre 1941 massima espansione delle forze dell’Asse

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19_LE VITTORIE DELL’ASSE, 1939-42

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Parigi

Un trattamento particolarmente duro e inumano fu riservato ai popoli slavi, considerati razza inferiore e destinati, nei piani di Hitler, a una condizione di semischiavitù [►FS, 77]: tutta l’Europa orientale doveva diventare una colonia agricola del Reich, ogni traccia di industrializzazione e di urbanizzazione doveva essere cancellata, ogni forma di istruzione superiore bandita. Le élite dirigenti e gli intellettuali (a cominciare dai quadri del Partito comunista in Russia) andavano eliminati fisicamente. Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni e mezzo di polacchi, senza contare gli ebrei, morirono negli anni dell’occupazione tedesca. Dei quasi 6 milioni di prigionieri di guerra russi, più della metà non fece mai ritorno in patria. Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato costruito dai tedeschi nell’Europa occupata portò alla Germania consistenti vantaggi immediati: una riserva inesauribile di forza-lavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme prelievo di ricchezza e di beni di consumo che permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al ’43, un livello di vita molto più elevato di quello consentito agli altri popoli europei. Questo sistema di dominio, ispirato a un cieco fanatismo razziale, costrinse però i tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe; suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione che spesso sarebbero sfociati in resistenza armata; sollevò infine contro la Germania nazista un’ondata di odio che avrebbe finito per rivolgersi contro l’intero popolo tedesco.

Sfruttamento e terrore

Episodi di resistenza all’occupazione nazista – in forme che andavano dalla non collaborazione alla diffusione di materiale propagandistico, dalla trasmissione di informazioni agli alleati al sabotaggio – si manifestarono già nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi dai tedeschi. Protagonisti di questi episodi erano all’inizio piccoli gruppi, legati per lo più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione (come la Francia libera di De Gaulle) che avevano trovato ospitalità in Gran Bretagna. Le file della Resistenza si ingrossarono dopo l’attacco tedesco all’Urss, che portò i comunisti di tutta Europa a impegnarsi attivamente nella lotta armata contro il nazismo. Non sempre le diverse forze che confluivano nella Resistenza riuscirono però a stabilire una linea d’azione comune. Sebbene avessero operato in gran fretta un nuovo cambio di strategia, subordinando ogni obiettivo rivoluzionario alla lotta di liberazione nazionale – in base a questa strategia Stalin, nel maggio 1943, decise lo scioglimento del Comintern [►5_4] – i comunisti erano guardati con sospetto dagli anglo-americani e dalle componenti moderate del fronte antifascista. Accordi unitari furono ugualmente raggiunti in Francia e in Italia. Ma la collaborazione si rivelò impossibile in quei paesi dell’Europa orientale e balcanica dove più fondato era il timore che i partiti comunisti fungessero da strumento per i piani egemonici dell’Urss. In Jugoslavia in particolare – il paese in cui il movimento di resistenza assunse più che altrove le dimensioni di una guerra di popolo – l’esercito partigiano guidato dal comunista Josip Broz (più noto col nome di battaglia di Tito) si scontrò con i gruppi nazionalistici e monarchici che pure si opponevano ai tedeschi.

I movimenti di resistenza

partigiano Letteralmente “partigiano” significa “colui che fa parte di una fazione”, il “seguace di un’idea”. Durante la seconda guerra mondiale furono chiamati “partigiani” i combattenti della resistenza armata contro i nazifascisti.

404

ghetto Questo termine deriva dal nome di una contrada di Venezia, “gheto”, dove si trovavano alcune fonderie. Nella città veneta designava la zona, poi appositamente chiusa, assegnata nel 1516 agli ebrei come luogo di residenza. Nel ’500 questa espressione divenne comune in tutta Europa per indicare i quartieri cittadini dove gli ebrei erano obbligati ad abitare. I ghetti, imposti quasi ovunque nel periodo della Controriforma, furono aboliti nell’800, ma vennero ricostituiti nel ’900 in alcuni Stati dell’Europa centrale e orientale durante le persecuzioni razziali. Oggi, per estensione, chiamiamo “ghetti” i quartieri dei centri urbani abitati in prevalenza da gruppi sociali disagiati o emarginati.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Manifesto francese di propaganda per il Service du travail obligatoire (Sto) Nel giugno 1942 il governo di Vichy annunciò un accordo preso con gli occupanti che prevedeva il rilascio da parte dei tedeschi di un prigioniero di guerra francese ogni tre lavoratori mandati a prestare manodopera “volontaria’’ in Germania. Lo stesso anno il primo ministro Laval e il capo di Stato Pétain vararono una legge per cui gli uomini abili fra i 18 e i 50 anni e le donne (non sposate) fra i 21 e i 35 anni erano «tenuti a fare qualsiasi lavoro il governo ritenga necessario». L’anno dopo venne istituito il Servizio di lavoro obbligatorio (Sto), per cui tutti i giovani maschi nati tra il 1920 e il ’22 erano reclutati per il lavoro in Germania. La scritta in alto esprime gratitudine per «coloro che sono partiti per la Germania».

La resistenza al nazismo rappresentò solo una faccia della realtà dell’Europa occupata. In tutti i paesi invasi dalla Germania o da essa controllati, vi fu una parte più o meno consistente della popolazione che, per opportunismo o per convinzione, accettò di collaborare con i dominatori. Le forze di occupazione tedesche trovarono ovunque alleati nella lotta contro la Resistenza, volontari pronti ad arruolarsi nelle loro file (decine di migliaia di giovani di diversi paesi furono inquadrati nei reparti combattenti delle SS), leader dispoMETODO DI STUDIO sti a governare in nome e alle dipendenze degli occupanti. In alcuni paesi i tedeschi  a  Sottolinea le nazioni europee alleate alle potenze dell’Asse. si servirono di esponenti dei fascismi locali, come il norvegese Vidkun Quisling,  b  Spiega per iscritto in cosa consisteva il “nuoche, diventato capo del governo, si legò ai nazisti al punto da rendere il suo cognovo ordine” imposto da Germania e Giappone nei me sinonimo di “collaborazionista”. In altri trovarono il sostegno di movimenti sepaesi occupati.  c   Scrivi le domande a partire dalle seguenti paratisti (gli slovacchi, gli ustascia croati in lotta contro il centralismo serbo) o di risposte: a. L’Europa orientale fu considerata coloesponenti della classe dirigente al potere prima della guerra. Il caso più significatinia agricola del Reich; b. Una riserva inesauribile di vo in questo senso fu quello della Francia di Vichy, la cui sottomissione ai tedeschi forza-lavoro gratuita e un flusso di materie prime.  d  Sottolinea i nomi dei paesi in cui si sviluppasi accentuò nella primavera del ’42, quando Pétain affidò il governo a Pierre Laval, rono movimenti di resistenza e descrivi le carattegià primo ministro negli anni ’30. La sua accondiscendenza verso la Germania non ristiche di questi ultimi. servì a evitare che, dopo lo sbarco alleato in Nord Africa alla fine del ’42, per preve e  Descrivi per iscritto il significato del termine “collaborazionismo” riferito agli anni della seconda nire un attacco anglo-americano nella Francia meridionale, i tedeschi occupassero guerra mondiale. anche la Francia di Vichy ponendo fine a ogni finzione di autonomia.

Il collaborazionismo



11_7 LA SHOAH

► Leggi anche:

Ancor prima che il conflitto mondiale avesse inizio, in un discorso tenuto il 30 gennaio 1939, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare definitivamente la Germania dalla presenza degli ebrei e aveva anche profetizzato “la distruzione della razza ebraica in Europa”, come punizione per le presunte responsabilità della “finanza internazionale ebraica” nello scoppio della guerra. La minaccia hitleriana divenne realtà già nelle prime fasi del conflitto [►FS, 82]. Prima i massacri indiscriminati, ma ancora sporadici, nelle comunità israelitiche in Polonia, dove vivevano oltre 3 milioni di ebrei, progressivamente rinchiusi nei ghetti istituiti dai nazisti. Poi la deportazione degli ebrei dai territori via via occupati dai tedeschi in appositi campi di lavoro e di prigionia. Quindi, dopo l’invasione dell’Urss nell’estate 1941, cominciò a essere praticata in modo sistematico l’eliminazione fisica dei deportati. Cominciava così quell’operazione di sterminio, di genocidio pianificato che, con un termine ebraico, sarebbe stata definita Shoah (“catastrofe”, “cataclisma”).

Un progetto di sterminio

► Parole della storia Genocidio, p. 406 ► Laboratorio di cittadinanza I crimini contro l’umanità e la giustizia penale internazionale, p. 544 ► Fare Storia La Shoah: carnefici e vittime, p. 476

Inizialmente furono reparti speciali di SS (gli Einsatzgruppen: “gruppi operativi”), con l’ausilio di militari dell’esercito regolare e di collaborazionisti (prevalentemente dei paesi baltici), a eseguire fucilazioni di massa, come quella del settembre del 1941, quando nella fossa di Babi Yar, in Ucraina, furono uccisi oltre 33 mila ebrei di Kiev. Ma questa procedura richiedeva tempi lunghi, era troppo visibile e inadatta ai grandi numeri: in più poteva provocare qualche resistenza, o qualche cedimento psicologico, tra i militari. Dall’inizio di dicembre 1941 a Chełmno, in Polonia, erano state impiegate camere a gas mobili su autocarri diesel in cui gli ebrei venivano uccisi dall’ossido di carbonio dei motori. Intanto era iniziata a Bełzec la costruzione del primo campo (in tedesco Lager) di sterminio, cui seguirono quelli di Treblinka, Majdanek e il più sinistramente noto, quello di Auschwitz-Birkenau,

Dalle fucilazioni alle camere a gas

Vittime delle camere a gas accatastate in attesa di essere bruciate nei forni crematori, nel campo di Buchenwald [foto di Margaret Bourke-White, pubblicata sulla rivista «Life»]

405

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

non lontano da Cracovia. In questi campi vennero avviati non solo gli ebrei polacchi, ucraini, russi ma anche quelli prelevati negli altri paesi occupati dai nazisti [►FS, 83 e 84d]. Deportare milioni di ebrei costituiva un grosso problema organizzativo che si provò a risolvere in una riunione dei maggiori responsabili della politica antiebraica tenuta a Wannsee, un sobborgo residenziale di Berlino, nel gennaio 1942. Per gli ebrei tedeschi si doveva passare dall’incentivo all’emigrazione alla deportazione verso est. Egualmente verso est sarebbero stati evacuati quelli rastrellati nel resto d’Europa (il totale degli ebrei europei ammontava a circa 11 milioni). Il verbale della riunione, giunto fino a noi, era volutamente reticente per quanto riguardava il destino degli ebrei: era chiaro però che i più deboli sarebbero stati vittime della «selezione naturale» durante i lavori forzati a cui erano destinati, mentre gli elementi più validi sarebbero stati «opportunamente trattati» (ossia eliminati quando non fossero più stati in grado di lavorare) per evitare che ricostituissero «la cellula germinale di una rinascita ebraica».

L’organizzazione dello sterminio

Soprattutto ad Auschwitz cominciarono a giungere, dopo lunghi viaggi nei carri bestiame piombati, i deportati provenienti da tutta Europa [►FS, 86d]: all’arrivo veniva compiuta una selezione che divideva gli abili al lavoro dai più deboli, dagli anziani, dai bambini che venivano immediatamente portati nelle camere a gas alimentate dai fumi sprigionati da un potente insetticida a base di acido cianidrico (lo Zyklon B). I corpi venivano poi bruciati nei forni crematori o seppelliti in grandi fosse comuni. Ad Auschwitz le vittime furono 1,5 milioni, a Treblinka 900 mila. Nel complesso gli ebrei sterminati – uccisi direttamente o morti di stenti – furono poco meno di 6 milioni. Il maggiore contributo di vittime fu costituito da poco meno di 3 milioni di polacchi (il 90% del totale), 900 mila ucraini, 450 mila ungheresi, 300 mila romeni, per ricordare solo gli appartenenti alle maggiori comunità dell’Europa orientale. Ma anche nei paesi occidentali le vittime furono numerose in rapporto alla loro più ridotta presenza: i 54 mila greci e i 105 mila olandesi rappresentavano più del 70% delle loro comunità di appartenenza. 6800 furono i deportati dall’Italia, solo 837 i sopravvissuti.

I numeri dello sterminio

Parole della storia

Genocidio

“G

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enocidio” (dal greco ghènos, “stirpe”) è lo sterminio deliberato di tutto un popolo, a prescindere dall’età, dal sesso, dalle opinioni politiche e dalle credenze religiose dei suoi membri. Il termine fu coniato dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1946, durante il processo di Norimberga contro i dirigenti nazisti, e fu usato per indicare la più orribile delle colpe addebitate agli imputati: lo sterminio degli ebrei nei paesi occupati dall’esercito tedesco. Quello messo in atto dai nazisti contro gli ebrei non fu certo l’unico massacro indiscriminato compiuto nella storia ai danni di un intero popolo. Riferendosi ai secoli passati, si è parlato di genocidio in relazione ad alcune guerre di religione del Medioevo (per esempio, la crociata contro gli albigesi) o alla decimazione degli Incas e degli Aztechi a opera dei colonizzatori spagnoli. Per restare al nostro secolo, basterà ricordare lo sterminio di oltre un milione di armeni perpetrato dai turchi durante la

Grande Guerra [►4_7]; la deportazione – che comportava un vero e proprio sterminio di classe – di milioni di contadini (ma anche di intere popolazioni considerate infide, sulla base di discriminanti etniche) decisa da Stalin nel corso degli anni ’30 e ’40; il trasferimento forzato, risoltosi in una strage, di tutta la popolazione urbana della Cambogia sotto la dittatura comunista di Pol Pot nel 1975-76 [►16_10]. Sul problema dell’“unicità” del genocidio del popolo ebraico (che gli ebrei preferiscono chiamare Shoah, in ebraico “sciagura”, “catastrofe”) si è sviluppato in tempi recenti un acceso dibattito. Certo è difficile, e forse inutile, stabilire una graduatoria fra stermini di massa tutti caratterizzati dal fatto di coinvolgere intere popolazioni inermi e di non risparmiare nemmeno i bambini. Si può tuttavia osservare che nessuno di questi stermini ebbe il carattere sistematico e pianificato della “soluzione finale” progettata da Hitler, che aveva lo scopo di cancellare tutti gli ebrei dalla faccia della

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

terra e aveva l’aggravante di compiersi nel cuore della civilissima Europa. A maggior ragione appare improprio usare il termine “genocidio” – come spesso si è fatto negli ultimi decenni – per denunciare il carattere di indiscriminata crudeltà (soprattutto nei confronti della popolazione civile) di alcune guerre condotte contro movimenti di guerriglia partigiana (per esempio, dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan) o per richiamare l’attenzione sull’oppressione di minoranze etniche e su episodi particolarmente sanguinosi di repressione politica. È importante comunque sottolineare che la definizione di “genocidio”, contenuta nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948) e ripresa nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (1998), pone come requisito l’esistenza di un progetto per distruggere del tutto o in parte un intero gruppo etnico o una determinata categoria di persone.

L I IN T U EUROPA ANIA 20_PRINCIPALI CAMPI DI CONCENTRAMENTO E DI STERMINIO

Neuengamme Ravensbrück

Amburgo

PRUSSIA ORIENTALE

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Sachsenhausen Bergen-Belsen Mittelbau Buchenwald

Varsavia

Berlino GERMANIA

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Majdanek

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▼ Prigionieri del campo di concentramento di Ebensee (Austria) subito dopo la liberazione 7 maggio 1945

Budapest

AUSTRIA

UNGHERIA Trieste - San Sabba

ROMANIA

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▲I

forni crematori nel campo di Auschwitz-Birkenau

Alle vittime ebree si devono aggiungere anche gli zingari, sinti e rom, anch’essi oggetto dei pregiudizi razziali nazisti, con un numero di uccisi che oscilla, secondo le stime, tra un minimo di 220 mila e un massimo di 500 mila. Nei campi affluirono anche molti prigionieri sovietici, in particolare i commissari politici dell’Armata rossa, e numerosi militari e civili polacchi.

Le altre vittime

Questa gigantesca operazione di sterminio sottrasse truppe e risorse all’impegno bellico tedesco, anche se moltissimi ebrei, come del resto i prigionieri di guerra, vennero impiegati nelle attività produttive tedesche, trovando egualmente la morte per malattia o denutrizione. L’ossessione ideologica antiebraica non si spense nemmeno negli ultimi mesi di guerra; allo stesso modo non si fermò la macchina dello sterminio: i superstiti delle eliminazioni furono costretti a lunghe marce nel gelo dell’inverno 1945 per abbando-

L’ossessione ideologica

407

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia nel testo, con due colori diversi, tutte le informazioni relative alla situazione degli ebrei prima e dopo l’invasione russa del 1941. Quindi esponile per iscritto.  b  Trascrivi sul quaderno le parole e frasi in grassetto e spiegane il significato nel contesto descritto. UNIONE SOVIET  c  Evidenzia i nomi dei paesi e campi di sterminio citati, sottolineane le caratteristiche o gli eventi che vi si svolsero e segnalali sulla carta.  d  Realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) relative alla Shoah MONGOLIA MANCIUR attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti. Quindi realizza una didascalia in cui descrivi questo evento usando la nuvola daPechino te realizzata come scaletta e mettendo in rilievo gli aspetti che afferiscono alle CORE C parole chiave che hai scritto con il font di dimensioni maggiori. I N

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nare i Lager minacciati dall’avanzata sovietica, e anche per occultare l’infamia che vi era stata perpetrata. Auschwitz col tempo è diventata l’emblema del male assoluto, un luogo e un evento su cui misurare quanto la barbarie possa allignare nei popoli civili e possa alimentarsi della modernità tecnologica del mondo industrializzato. La condanna di questi orrori sarebbe diventata nel tempo un principio basilare della coscienza occidentale e avrebbe dato impulso allo sviluppo di una giustizia penale internazionale incaricata di colpire i responsabili dei “crimini contro l’umanità”.

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11_8 LE BATTAGLIE DECISIVE



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Fra il 1942 e il 1943, l’avanzata delle potenze dell’Asse si arrestò e la una svolta decisiva su tutti i fronti. I primi segni di un’inversione di ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani – nel maggio-giugno ’42 – nelle due battaglie del Mar dei Coralli, di fronte alle coste della Nuova Guinea, e delle isole Midway, a ovest delle Hawaii: le prime battaglie navali in cui le flotte si affrontarono senza vedersi, a decine di chilometri l’una dall’altra, bombardandosi a vicenda con gli apparecchi che decollavano dalle grandi navi portaerei. Dopo che, nel febbraio ’43, le truppe da sbarco americane (i marines) ebbero conquistato l’isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono alle azioni offensive, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte all’inizio della guerra. Da allora, nonostante la priorità accordata al fronte europeo, gli Stati Uniti iniziarono una lenta riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico.

La guerra sui mari

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giapponese, U3 dominio CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE dicembre 1941 attacchi giapponesi, 1941-42

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21_LA GUERRA NEL PACIFICO, 1941-45 UNIONE

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dominio giapponese, dicembre 1941 attacchi giapponesi, 1941-42 estensione del dominio giapponese alla fine del 1942 contrattacchi americani e inglesi, 1943-45 Leyte 1944 battaglie bombe atomiche, agosto 1945

AUSTR

Lo sbarco dei marines a Makin, atollo delle isole Gilbert 21 novembre 1943 Le isole Gilbert, nel Pacifico, furono occupate dai giapponesi il 10 dicembre 1941 e liberate dai marines nel novembre del ’43.

Dalla fine del ’42, i rapporti di forza cambiarono anche nell’Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto fino ad allora un’efficace guerra sottomarina contro i convogli che trasportavano armi e approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite, grazie a una serie di innovazioni tecniche (radar più perfezionati, bombe di profondità, razzi antisommergibile) e grazie a una migliore organizzazione dei trasporti via mare. A segnare la svolta furono però due grandi battaglie di terra combattute, quasi contemporaneamente, in Egitto e in Russia. Nell’estate del 1943, in Nord Africa, le truppe italo-tedesche comandate dal generale Rommel, avanzando dalla Cirenaica lungo la costa mediterranea [►11_4], erano arrivate a circa cento chilometri da Alessandria, minacciando la preRoma senza britannica in Egitto e, in prospettiva, in tutto il Medio Oriente. S P A Fra G N Aluglio e ottobre, nei pressi 4.6.44 della cittadina costiera di El Alamein, i due eserciti si affrontarono in una serie di sanguinosi scontri. A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva disponendo di una notevole superiorità in uomini e mezzi. Ai primiAlgeri di novembre gli itaTunisi lo-tedeschi cominciavano una lunga ritirata che li avrebbe portati,Cin C Otre mesi, a ripercorrere a ritroso RO tutto il litorale libico fino alla Tunisia. MA TU

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paesi dell’Asse paesi occupati dalle forze dell’Asse, novembre 1942 paesi neutrali paesi alleati l’avanzata di Rommel fino a El Alamein avanzate delle truppe alleate nel 1943 4.6.44 conquiste alleate

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

409

paesi dell’Asse paesi occupati dalle forze dell’Asse, novembre 1942 paesi neutrali paesi alleati

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22_NORD AFRICA E SUD ITALIA, 1942-43

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Ancora più decisivo fu lo scontro fra tedeschi e sovietici che ebbe per centro la città industriale di Stalingrado (così battezzata dal 1925 in omaggio al dittatore), sul Volga, punto nodale della difesa sovietica nel settore sud-est. Nell’agosto 1942, le armate tedesche (rinforzate da quelle dei paesi alleati, fra cui l’Italia) misero sotto assedio la città che, se conquistata, avrebbe aperto agli invasori la strada del bacino del Don, con le sue risorse minerarie, e del Caucaso, con i suoi pozzi petroliferi. In novembre, dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per casa, i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello schieramento nemico, e chiusero i tedeschi in una morsa. Anziché autorizzare la ritirata, Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando così un’intera armata che, all’inizio di febbraio, fu costretta ad arrendersi. Per i tedeschi questo fu il più grave rovescio subìto dall’inizio della guerra. Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne immediatamente un simbolo di riscossa, il segno più evidente della svolta intervenuta nel corso del conflitto. La controffensiva sovietica travolse anche il corpo di spedizione italiano, schierato nella regione del Don. Male armate e peggio equipaggiate, quasi sprovviste di mezzi motorizzati, le truppe italiane furono costrette a una tragica ritirata nell’inverno russo, durante la quale persero circa la metà dei loro effettivi (oltre 100 mila uomini su poco più di 200 mila).

Stalingrado

Frattanto, sempre nel novembre ’42, un contingente anglo-americano era sbarcato in Algeria e in Marocco, accerchiando le forze dell’Asse (gli ultimi reparti si sarebbero arresi nel maggio del 1943). Si apriva ora per gli alleati il problema dell’attacco alla “fortezza Europa”. Su questo punto, però, la strategia di Churchill, che intendeva chiudere prima di tutto la partita in Africa per poi intervenire in Europa meridionale (e prevenire un’avanzata sovietica in quel settore), si scontrava con le richieste di Stalin, che premeva per uno sbarco immediato nell’Europa del Nord al fine di alleggerire la pressione tedesca sull’Urss. Prevalse, in questa fase, il punto di vista britannico. Nella conferenza che si tenne METODO DI STUDIO a Casablanca, in Marocco, nel gennaio 1943, si decise che per prima sarebbe  a  Rinomina il paragrafo facendo presagire i vincitori delle battaglie combattute tra il 1942 e il stata attaccata l’Italia, considerata l’obiettivo più facile sia per motivi logistici (la 1943. vicinanza della Sicilia alle coste della Tunisia), sia per ragioni politico-militari (lo  b  Cosa permise agli alleati di limitare le perdite? stato di crisi in cui versavano le forze armate italiane e il regime fascista). Nella Sottolinea sul testo la risposta. stessa conferenza, con una decisione di portata storica che serviva soprattutto  c  Spiega cosa ha rappresentato la resistenza di Stalingrado per l’andamento della guerra e gli Stati a rassicurare i sovietici sulla serietà dell’impegno alleato, gli anglo-americani si contendenti. accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari:  d  Continua l’elenco schematico degli eventi la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale, senza patteggiamenti di della seconda guerra mondiale già iniziato. sorta con la Germania o con i suoi alleati.

Lo sbarco in Nord Africa e la conferenza di Casablanca



11_9 DALLO SBARCO IN SICILIA ALLO SBARCO IN NORMANDIA

La campagna militare contro l’Italia (il “ventre molle” dell’Asse, secondo la definizione di Churchill) ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell’isola di Pantelleria. Un mese dopo, il 10 luglio, i primi contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano dell’isola, mal difesa da truppe in larga parte convinte dell’inevitabilità della sconfitta. Lo sbarco, come vedremo fra poco, determinò non solo il crollo del regime fascista, ma anche l’occupazione da parte dei tedeschi dell’Italia centro-settentrionale. E l’avanzata degli alleati rimase a lungo bloccata a sud di Roma.

La campagna d’Italia

410

L’avanzata dell’Armata rossa e l’incontro di Teheran

Intanto i sovietici riprendevano l’iniziativa sul fronte orientale. Dopo aver respinto, nel luglio 1943, l’ultima offensiva tedesca nella battaglia di Kursk, la più grande battaglia di carri armati mai combattuta su tutti i fronti di guerra, l’Armata rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

nell’aprile-maggio 1945 con la conquista di Berlino. Queste vittorie, ottenute a prezzo di un eccezionale sforzo organizzativo e di un enorme sacrificio di vite umane (quasi 10 milioni di militari morti nel corso della guerra), consentirono all’Unione Sovietica di accrescere notevolmente il suo peso in seno alla “grande alleanza” antinazista. Il nuovo ruolo dell’Urss emerse chiaramente nella conferenza interalleata di Teheran (novembre-dicembre 1943), la prima in cui i “tre grandi” – Roosevelt, Stalin e Churchill – si incontrarono personalmente. Questa volta Stalin ottenne dagli anglo-americani l’impegno, da tempo sollecitato, per uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del ’44. Si trattava di un’operazione rischiosa, anche perché i tedeschi avevano munito tutta la zona costiera di imponenti fortificazioni difensive (il cosiddetto “vallo atlantico”). Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste settentrionali della Normandia, furono necessari un lungo lavoro di preparazione, un’accurata campagna di disinformazione circa il luogo esatto dello sbarco e un eccezionale spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati – che agivano sotto il comando unificato del generale americano Dwight Eisen­ hower – una schiacciante superiorità aeronavale. L’operazione Overlord – questo il nome in codice dello sbarco in Normandia – scattò all’alba del 6 giugno 1944, preparata da una serie di massicci bom-

Lo sbarco in Normandia

Lo sbarco degli alleati in Normandia 1944 L’“operazione Overlord” (in inglese, “signore supremo”) colse impreparate le truppe tedesche: la maggior parte delle loro divisioni era infatti impegnata sul fronte russo e persino il loro

comandante, Rommel, era assente. Il 6 giugno 1944 gli anglo-americani, comandati dal generale Dwight Eisenhower, sbarcarono sulle coste settentrionali della Francia, in Normandia. Circa 5 mila navi trasportavano soldati britannici, statunitensi e canadesi mentre 14 mila bombardieri alleati appoggiavano lo sbarco sulla costa.

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

bardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Nonostante l’accanita resistenza tedesca, gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle successive quattro settimane, oltre un milione e mezzo di uomini. Alla fine di luglio, dopo due mesi di combattimenti, gli alleati sfondarono le difese tedesche e dilagarono nel Nord della Francia. Il 25 agosto, gli METODO DI STUDIO anglo-americani e i reparti di De Gaulle entravano a Parigi,  a  Evidenzia data e luogo dello sbarco anglo-agià liberata dai partigiani. In settembre la Francia era quasi completamente libemericano in Italia e nell’Europa del Nord. rata. Poche settimane prima (20 luglio 1944) Hitler era miracolosamente scampa b  Spiega che cosa era l’operazione Overlord e to a un attentato organizzato da un gruppo di alti ufficiali dell’esercito e di espocome si svolse. nenti della vecchia classe dirigente tedesca, nell’ultimo disperato tentativo di  c  Continua l’elenco schematico degli eventi della seconda guerra mondiale già iniziato. separare le sorti della Germania da quelle del nazismo e del suo capo.

La liberazione della Francia

11_10 L’ITALIA: LA CADUTA DEL FASCISMO E L’ARMISTIZIO Lo sbarco anglo-americano in Sicilia rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista, già in profonda crisi, screditato da una lunga serie di insuccessi militari. Un segnale allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai che, partendo da Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. La protesta – la prima di queste dimensioni nella storia del regime fascista – era il sintomo di un diffuso disagio popolare legato al carovita, all’acuirsi dei disagi alimentari, agli effetti dei bombardamenti aerei alleati che, nell’inverno ’42-43, avevano colpito sempre più frequentemente le città italiane; ma in essa aveva avuto parte anche l’iniziativa di nuclei clandestini comunisti.

Gli scioperi operai

A determinare la caduta di Mussolini non furono però le proteste popolari, né le iniziative dei partiti antifascisti, ancora sconosciute alla maggioranza della popolazione. Fu invece una sorta di congiura che faceva capo al re e vedeva tutte le componenti moderate del regime (industriali, militari, gerarchi dell’ala monarchico-conservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista, nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il pretesto formale per l’intervento del re fu offerto da una riunione del Gran consiglio del fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 e conclusasi con l’approvazione a larga maggioranza di

La congiura del 25 luglio

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Manifestazioni di giubilo a Milano per la caduta del fascismo 25 luglio 1943

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

un ordine del giorno presentato dall’ex ministro Dino Grandi. Nel documento si auspicava il «ripristino di tutte le funzioni statali» – in pratica un ritorno alle regole dello Statuto albertino – e si invitava il sovrano a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate: un atto di evidente sfiducia nei confronti del duce. Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini fu convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai carabinieri. Capo del governo fu nominato il maresciallo Pietro Badoglio, già comandante delle forze armate. L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibili manifestazioni di esultanza. La gente scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro sedi e simboli del regime. Non vi fu spargimento di sangue, anche perché il Partito fascista, che per vent’anni aveva riempito la scena politica italiana, scomparve praticamente nel nulla con tutte le sue mastodontiche organizzazioni collaterali, prima ancora che il governo provvedesse a scioglierlo d’autorità. L’entusiasmo popolare era dovuto non tanto alla gioia per la riconquistata libertà, quanto alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra. L’uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l’Italia più tragica di quanto già non fosse stata la guerra stessa. I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare nella penisola per prevenire, o punire, la ormai prevedibile defezione dell’alleato. Il governo Badoglio, dal canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano (“la guerra continua”). Ma intanto allacciò trattative segretissime con gli alleati per giungere a una pace separata.

Il crollo del regime

Con gli anglo-americani, legati all’impegno della “resa incondizionata”, c’era però ben poco da trattare. Quello che l’Italia dovette sottoscrivere fu appunto un atto di resa. Firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, l’armistizio fu reso noto solo l’8 settembre 1943, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno. L’annuncio dell’armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio radiofonico, gettò l’Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano all’occupazione dell’Italia centro-settentrionale [►FS, 91]. Abbandonate a sé stesse, con ordini vaghi e contraddittori, le truppe si sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Roma fu inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati ai quali si unirono gruppi di civili armati: gli scontri, che ebbero luogo a Porta San Paolo il 9 settembre, furono il primo episodio della Resistenza italiana. Ben 600 mila furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Molti soldati fuggirono cercando di tornare alle loro case. La sorte più tragica toccò ai militari raggiunti dall’annuncio dell’armistizio lontano dall’Italia, in particolare ai 650 mila che operavano nei Balcani, trattati come nemici sia dai partigiani jugoslavi e greci sia dai tedeschi, che punirono spietatamente ogni tentativo di resistenza: l’episodio più grave avvenne nell’isola greca di Cefalonia dove, in settembre, fu sterminata un’intera divisione italiana (la divisione Acqui) che aveva rifiutato di arrendersi.

L’armistizio e il disastro dell’8 settembre

Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta a Pescara e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l’offensiva alleata fino alla primavera dell’anno successivo. Nel gennaio 1944, un forte contingente anglo-americano ­riuscì a sbarcare ad Anzio, circa cinquanta chilometri a sud di Roma, ma fu bloccato sulla costa dalla reazione tedesca. Solo nel maggio del ’44, le armate alleate (composte da reparti americani, inglesi, australiani, polacchi e anche da truppe coloniali arruolate sotto la bandiera della Francia libera) riuscirono a sfondare le linee nemiche sui monti Aurunci. Protagonisti dell’azione decisiva furono i reparti nordafricani, che, dopo aver subìto fortissime perdite, si resero responsabili di violenze d’ogni genere sulla popolazione civile, in particolare sulle donne. Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri, l’Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria.

La linea Gustav

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea gli elementi che evidenziarono la crisi del consenso al regime.  b  Chi sostituì Mussolini nella carica di Capo del governo? Cerchia il nome che costituisce la risposta e spiega con quali modalità avvenne questo avvicendamento.  c  Spiega per iscritto quali eventi e considerazioni portarono all’armistizio dell’8 settembre e quali conseguenze ebbe quest’ultimo per il paese e per l’esercito.  d  Inserisci le parole corrette per completare la frase: «La linea Gustav andava da Gaeta a ............... .............. ed era una linea ............................. presso la quale i ........................... riuscirono a fermare l’avanzata degli .............................».

413

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

11_11 RESISTENZA E GUERRA CIVILE IN ITALIA A partire dall’autunno 1943, l’Italia fu non solo divisa di fatto da un fronte, ma anche spezzata in due entità statali distinte, in guerra l’una contro l’altra. Mentre nelle regioni meridionali già liberate dagli anglo-americani (il “Regno del Sud”) il vecchio Stato monarchico sopravviveva formalmente col suo governo e la sua burocrazia, esercitando la sua teorica sovranità sotto lo stretto controllo degli alleati, nell’Italia settentrionale il fascismo rinasceva dalle sue ceneri sotto la protezione degli occupanti nazisti. Roma fu dichiarata “città aperta”, ovvero zona non di guerra, ma questa condizione, mai ufficialmente riconosciuta, non le evitò di subire l’occupazione nazista e i bombardamenti alleati.

Un paese spezzato in due

Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, e lo condusse in Germania. Pochi giorni dopo, il duce annunciò, in un discorso trasmesso da Radio Monaco, la nascita, nell’Italia occupata dai tedeschi, di un nuovo Stato fascista, che avrebbe preso il nome di Repubblica sociale italiana (Rsi), con un suo nuovo esercito e un nuovo partito fascista [► FS, 92]. Il regime repubblicano – o “repubblichino”, come fu spregiativamente chiamato dagli antifascisti – trasferì i suoi ministeri da Roma, troppo vicina al fronte, nella zona del Lago di Garda (donde la denominazione di Repubblica di Salò). E cercò di accreditarsi come unico legittimo rappresentante dell’Italia in contrapposizione al governo del Sud e alla monarchia. Suo obiettivo primario era punire gli artefici del “tradimento” del 25 luglio, ossia monarchici, “badogliani” e fascisti moderati: cinque dei gerarchi che avevano votato l’ordine del giorno Grandi – fra cui il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano – furono arrestati e fucilati a Verona nel gennaio ’44 dopo un sommario processo. Il nuovo regime, e il nuovo Partito fascista repubblicano (Pfr), cercarono di guadagnare consensi e credibilità riesumando le parole d’ordine rivoluzionarie del primo fascismo e lanciando un programma di socializzazione delle imprese industriali, che non riuscì mai a decollare.

La Repubblica sociale

In realtà la Repubblica di Mussolini non acquistò mai credibilità a causa della sua totale dipendenza dai tedeschi, che si comportavano a tutti gli effetti come un esercito di occupazione, praticando un intenso sfruttamento delle risorse economiche e umane dei territori controllati – requisizioni, deportazione di lavoratori in Germania – e applicandovi le politiche razziali già sperimentate negli altri paesi occupati. L’episodio più tragico si verificò il 16 ottobre ’43, quando oltre mille ebrei di Roma (la più antica comunità israelitica d’Europa) furono prelevati dalle loro case e inviati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale pochissimi fecero ritorno [►FS, 93d].

L’occupazione tedesca

Il governo di Salò e le sue forze armate erano impegnati soprattutto a combattere il movimento di Resistenza contro i tedeschi che stava nascendo nell’Italia occupata [►FS, 94]. Le regioni del Centro-Nord diventavano così teatro di una guerra civile tra italiani, che si sovrapponeva a quella combattuta dagli eserciti stranieri [►FS, 96]. Le prime formazioni armate si raccolsero nelle zone montane dell’Italia centro-settentrionale subito dopo l’8 settembre; e nacquero dall’incontro fra piccoli nuclei di militanti antifascisti e di militari sbandati che non avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. Col prolungarsi della guerra, le formazioni armate allargarono la loro base di reclutamento a strati più vasti della popolazione (lavoratori, studenti, intellettuali, con una significativa partecipazione femminile). Il movimento non raggiunse mai dimensioni di massa, ma si appoggiò su una diffusa rete di sostegno nelle campagne e nelle zone montane. I partigiani – questo il nome con cui venivano comunemente indicati i combattenti della Resistenza – agivano soprattutto lontano dai centri abitati, con attacchi improvvisi e con azioni di sabotaggio; ma erano presenti anche nelle città con i Gruppi di azione patriottica (Gap), piccole formazioni di tre o quattro elementi che compivano attentati contro militari o contro singole personalità tedesche e repubblichine. Gli occupanti risposero con spietate rappresaglie: particolarmente feroce quella messa in atto a Roma, nel marzo ’44, quando, in

414

La Resistenza

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Partigiani in azione a Venezia 1945

risposta a un attentato in cui avevano trovato la morte 33 militari tedeschi, furono fucilati alle Fosse Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e militari badogliani (in una proporzione di 10 a 1, con 5 in più aggiunti per errore). Dopo una prima fase di aggregazione spontanea, le bande partigiane si andarono organizzando in base all’orientamento politico prevalente fra i loro membri: le Brigate Garibaldi, le più numerose e attive, erano formate in maggioranza da comunisti; le formazioni di Giustizia e Libertà si ricollegavano all’omonimo movimento antifascista degli anni ’30 [►9_7]; le Brigate Matteotti erano legate ai socialisti; vi erano poi formazioni cattoliche e liberali e bande “autonome” composte per lo più da militari di orientamento monarchico. Fin dall’inizio, dunque, le vicende della Resistenza si intrecciarono strettamente con quelle dei partiti antifascisti, ricostituiti in clandestinità o riemersi alla luce dopo la caduta del fascismo. Nell’estate del 1942 era sorto, dalla confluenza di diversi gruppi che si collocavano in area intermedia fra il liberalismo progressista e il socialismo, il Partito d’azione (Pda). In ottobre numerosi esponenti cattolici avevano elaborato il programma di una nuova formazione destinata a raccogliere l’eredità del Partito popolare: la Democrazia cristiana (Dc). Subito dopo il 25 luglio ’43, fu costituito il Partito liberale (Pli) e rinacquero il Partito repubblicano (Pri) e quello socialista, col nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Sempre nell’estate ’43, per iniziativa dell’ex presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi [►6_5], fu fondato il Partito democratico del lavoro, che si collegava alla tradizione della democrazia radicale prefascista. Quanto ai comunisti, da sempre presenti nel paese coi loro nuclei clandestini e già attivi negli scioperi di marzo, riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente, soprattutto dopo la liberazione, avvenuta in agosto, di molti militanti antifascisti dal carcere o dal confino.

La rinascita dei partiti

Il Cln e il governo Badoglio

Fra il 9 e il 10 settembre, i rappresentanti di sei partiti (Pci, Psiup, Dc, Pli, Pda, Democrazia del lavoro), si riunirono clandestinamente a Roma sotto la presidenza di Bonomi e si costituirono in Comitato di liberazione nazionale (Cln), 415

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

incitando la popolazione “alla lotta e alla resistenza [...] per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”. I partiti antifascisti si proponevano così come guida e rappresentanza dell’Italia democratica, in contrapposizione non solo agli occupanti tedeschi e ai loro collaboratori fascisti, ma anche a Badoglio e allo stesso sovrano, corresponsabile della dittatura e della guerra. Privi di una base organizzata nell’Italia libera, i partiti del Cln non avevano però la forza per imporsi al governo Badoglio, che godeva della fiducia degli alleati, in quanto garante degli impegni assunti con l’armistizio. Nell’ottobre ’43 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di “cobelligerante”: un piccolo Corpo italiano di liberazione combatté in effetti a fianco degli anglo-americani, come nucleo di un ricostituito esercito italiano. Tra il Cln e il governo del Sud, espressione della continuità dello Stato, si aprì un contrasto sulla sorte del re e dello stesso istituto monarchico. Anche il Cln era diviso al suo interno tra i partiti di sinistra, che avrebbero voluto sbarazzarsi subito della monarchia, e i gruppi moderati, che si sarebbero accontentati dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Il contrasto fu sbloccato solo nel marzo 1944 dall’iniziativa del leader comunista Palmiro Togliatti, giunto in Italia dall’Urss dopo un esilio durato quasi vent’anni. Appena sbarcato a Napoli, Togliatti, scavalcando la posizione ufficiale del Cln, propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o contro Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie sulla lotta contro il nazifascismo. La “svolta di Salerno” (così chiamata perché Salerno era allora la capitale provvisoria del Regno del Sud) era in armonia con la linea allora tenuta dell’Urss, che aveva già riconosciuto il governo Badoglio, ma serviva anche a legittimare il Pci come partito nazionale.

Togliatti e la “svolta di Salerno”

La svolta togliattiana fu criticata da socialisti e azionisti; e suscitò qualche perplessità anche all’interno del Pci. Ma consentì di formare, il 24 aprile, il primo governo di unità nazionale, presieduto sempre da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln. L’accordo prevedeva che Vittorio Emanuele III, pur senza abdicare, si facesse da parte, delegando i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che, a guerra finita, fosse il popolo a decidere la sorte dell’istituzione monarchica. Nel giugno 1944, dopo che gli alleati avevano finalmente liberato Roma, Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto a un nuovo governo guidato da Ivanoe Bonomi, presidente del Cln. L’avvento del

La tregua istituzionale

L’ITALIA DOPO L’ARMISTIZIO

Sbarco alleato in Sicilia e armistizio (8/9/’43)

Linea Gustav

Occupazione tedesca del Centro-Nord

Il governo e il re si insediano a Brindisi

Roma “città aperta”

Liberato dai tedeschi, Mussolini fonda la Repubblica di Salò

Rinascita dei partiti

Fondazione del Cln

Lotta di RESISTENZA contro l’occupazione nazifascista

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Liberazione del Sud

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Civili e soldati americani in festa Roma 6 giugno 1944

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linea gotica aprile ’45

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governo Bonomi significò un più stretto collegamento fra i poteri legali dell’Italia liberata e il movimento di resistenza. Le formazioni partigiane, che già dal gennaio ’44 avevano riconosciuto la loro guida politica nel Cln Alta Italia (Clnai), si diedero anche, nel giugno ’44, una organizzazione militare unitaria (Corpo volontari della libertà), con un comando unificato. Riprendeva intanto, dopo la liberazione di Roma, l’avanzata alleata nelle regioni centrali. La base di reclutamento delle formazioni partigiane si allargò, anche per l’afflusso di molti giovani renitenti alla leva decretata dal governo di Salò. Le azioni militari dei partigiani divennero più ampie e frequenti, nonostante le continue rappresaglie tedesche: la più terribile, in questa fase, fu quella messa in atto a Marzabotto, nell’Appennino bolognese, dove, nel settembre ’44, furono uccisi 770 civili. Molte città, fra cui Firenze, furono liberate prima dell’arrivo degli alleati. Questa attività – che testimoniava Un difficile inverno l’esistenza di un’Italia decisa a rompere i ponti col fascismo e a dare un contributo attivo alla causa alleata – aveva però un valore simbolico molto superiore alla sua forza militare. L’efficacia dell’azione partigiana era infatti limitata dalla difficoltà di coinvolgere una popolazione preoccupata soprattutto della propria sopravvivenza e spesso incline a non schierarsi in uno scontro il cui esito restava affidato essenzialmen-

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luglio ’43

417

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

te all’azione delle armate alleate. Nell’autunno del ’44, l’offensiva sul fronte italiano – diventata secondaria nel quadro della strategia degli anglo-americani dopo lo sbarco in Normandia – si bloccò lungo la linea gotica (la nuova linea difensiva tedesca, fra Pesaro e La Spezia). La Resistenza visse allora il suo momento più difficile, soprattutto dopo il proclama firmato dal generale inglese Harold Alexander, che, nel novembre ’44, invitava i partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala in attesa dell’ultima e definitiva spallata prevista per l’anno successivo. Alle difficoltà oggettive si aggiungevano i contrasti fra le diverse componenti politiche, che talvolta sfociarono in aperto conflitto [►FS, 95d]. Lo scontro più grave si ebbe nel febbraio del 1945, quando a Porzus, una piccola località montana del Friuli, diciassette membri della Brigata Osoppo (una formazione autonoma, che riuniva antifascisti di orientamento cattolico, liberale e METODO DI STUDIO socialista) furono catturati e fucilati da un reparto di parti a  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, descrivi sinteticagiani comunisti perché ritenuti di ostacolo a una totale inmente il contenuto di ognuno di essi utilizzando anche le parole in grassetto. tegrazione con le forze jugoslave agli ordini di Tito [►11_6  b  In una tabella a due colonne, stila un elenco di tutti i partiti di opposizione e 12_4]. Il movimento partigiano riuscì tuttavia a manteal fascismo e delle loro caratteristiche. nersi attivo e a sopravvivere al difficile inverno ’44-45. Nella  c  Realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) relative alla guerra civile in Italia attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più imprimavera del ’45, con la ripresa dell’offensiva alleata, la portanti. Quindi realizza una didascalia in cui descrivi questo evento usando Resistenza, che aveva visto ingrossare le sue file fino a racla nuvola da te realizzata come scaletta e mettendo in rilievo gli aspetti che afferiscono alle parole chiave che hai scritto con il font di dimensioni maggiori. cogliere circa 200 mila uomini armati, sarebbe stata pronta  d  Continua l’elenco schematico degli eventi della seconda guerra mondiale a promuovere l’insurrezione generale contro gli occupanti già iniziato. in ritirata.

11_12 LA FINE DELLA GUERRA E LA BOMBA ATOMICA Nell’autunno 1944 la Germania poteva considerarsi virtualmente sconfitta. Il fronte dei suoi alleati nella guerra contro l’Urss (dopo l’Italia, si ritirarono dal conflitto Romania, Bulgaria, Finlandia, Ungheria) si stava sfaldando. In ottobre, i sovietici e i partigiani jugoslavi liberarono Belgrado, mentre i britannici sbarcavano in Grecia. L’offensiva alleata si era momentaneamente arrestata in Francia e in Italia. Ma la sproporzione di forze fra i due schieramenti era tale da lasciare pochi dubbi sull’esito dello scontro. Il territorio del Reich non era ancora stato toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui bombardamenti da parte degli alleati che disponevano ormai del dominio dell’aria. L’offensiva aerea aveva lo scopo non solo di colpire la produzione industriale e il sistema di comunicazioni, ma anche di “demoralizzare” il popolo tedesco fino a minarne la capacità di resistenza. Molte città della Germania, fra cui Amburgo e Dresda, furono ridotte a cumuli di macerie. In tutto, oltre 600 mila civili perirono sotto i bombardamenti. Nemmeno i bombardamenti servirono, però, a piegare la feroce determinazione del Führer, deciso a far sì che l’intero popolo tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista. Peraltro, Hitler si illuse fino all’ultimo di poter rovesciare la situazione grazie all’impiego di nuove “armi segrete” (razzi telecomandati V1 e V2 furono in effetti lanciati contro le città britanniche, ma con risultati tutt’altro che decisivi) o per un’improvvisa rottura dell’“innaturale” coalizione fra l’Urss e le democrazie occidentali.

Il dramma della Germania

Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Nonostante l’accesa concorrenzialità che si manifestava all’interno della “grande alleanza”, anglo-americani e sovietici continuarono a tener fede agli impegni assunti e a cercare accordi globali per la sistemazione dell’Europa postbellica. Nella conferenza di Mosca dell’ottobre ’44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d’influenza dei paesi balcanici (Romania e Bulgaria all’Urss, Grecia alla Gran Bretagna, situazione di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria): un progetto che, in contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati.

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La “grande alleanza” e gli accordi sul dopoguerra

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

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ET A VI IC SO ET E I N OV Mosca IO PAESI E S UN A ON BASSI OCEANO I Londra D PAESI N UN B R E TA G N A Berlino A DANIMARCA G ROCEANO AN LA BASSI Mosca IC Londra IR ATLANTICO 2.5.45 6.6.44 O I VarsaviaV I E T Berlino Leningrado G L A E A O B I D ATLANTICO Stalingrado D GVarsavia 2.5.45 E R M A N I A E S 6.6.44 N IO Kiev B R E TA G N A A AN DANIMARCA PAESI BELG LA I CN I O N 2.2.43 Dn IR G E R M A NF I NIL A E T5.5.45 e Kiev U I p Parigi r 6.11.43 BASSI Dn OV OCEANO Londra Praga S 5.5.45 e E pr Parigi GRAN Berlino 6.11.43 25.8.44 Mosca Monaco ON Praga IA PAESI ATLANTICO Stalingrado NI 2.5.45Monaco 6.6.44 Varsavia A SLOVACCH U30.4.45 GIO 25.8.44 L D F R A N C I A E BASSI B EANO 2.2.43 G 30.4.45 E R M A N I ASLOVACCHIA CVienna B R E TA G N A Londra AN A Kiev Leningrado UNGHERIA DANIMARCA L Berlino I F R A N C I A R Dn SVIZZERA I UNGHERIA ET Vienna Vichy 31.12.44 ANTICO Stalingrado 5.5.45 2.5.45 6.6.44 e O V Varsavia pr Parigi GI 6.11.43 Budapest SO BEL SVIZZERA 2.2.43 G E Vichy R M A NMonaco I A Praga N EBudapest 31.12.44 OKiev 25.8.44 I PAESI C ROMANIA N Dn Milano IA H R C U C 5.5.45 GRAN VA 30.4.45 epr OA Mosca SLO BASSI Parigi 6.11.43 Londra F R A N C I A 25.8.44 C26.4.45 ROMANIA ZI Milano Vienna RO UNGHERIA ITALIA A Belgrado ABerlino Monaco Praga D A 25.8.44 25.8.44 ZI N 2.5.45B R E TAVichy 26.4.45 Stalingrado MAR NERO Bucarest SVIZZERA 6.6.44 O G N A IA I 31.12.44 A S A Varsavia H ITALIA A ERBIA Belgrado 13.10.43 G VACC L 30.4.45 SLODANIMARCA Budapest BEFL R A N C TIC IR I A G E R M A N I Madrid 2.2.43 MAR Bucarest A Sofia I E NERO S Vienna E 13.10.43 V Kiev R B UNGHERIA D Madrid IA Gran O CR nep ROMANIA Sofia 5.5.45S P AMilano E S SVIZZERA 31.12.44 GNA Sasso Parigi Vichy Istanbul Gran r O BULGARIA 6.11.43 ON Roma I PAESI A Budapest Praga N 25.8.44 ZI 26.4.45 ITALIA SPAGNA Sasso A Monaco 4.6.44 Belgrado Istanbul 8.9.44 BULGARIA U 25.8.44 Roma BASSI OCEANO Londra IA ROMANIA MAR NERO Bucarest 8.9.44 30.4.45 Milano Berlino SERB T U R C H I A 4.6.44 SLOVACCH CRO 13.10.43 Madrid IA F R AATLANTICO N C I A AZ 25.8.44 2.5.45 6.6.44 OUNGHERIA 26.4.45Vienna I 23.2.45 Sofia Varsavia T U R C H IStalingrado A G I ITALIA A Belgrado EL Gran B 2.2.43 GRECIA SVIZZERA G E R M Bucarest A N I A Vichy 31.12.44 23.2.45 MAR NERO Kiev S S P A G N A Sasso E 13.10.43 R Istanbul Budapest BULGARIA Roma BIA Madrid Dn GRECIA 5.5.45 epr Sofia 8.9.44 Parigi Atene 6.11.43 4.6.44 Gran Praga CR ROMANIA Algeri Milano Atene Monaco O T U R C H I A 25.8.44 Tunisi SPAGNA Sasso Istanbul A BULGARIA Roma M A R O C C O 25.8.44 A L G E R I A Algeri ZI 26.4.45 ITALIA CHIA 30.4.45 23.2.45 A Belgrado 8.9.44 SLOVAC Tunisi F 4.6.44 R AAL N MAROCCO G ECR II AA GRECIA MAR NERO SIRIA BucarestVienna S UNGHERIA E 13.10.43 R B T U R C H I A d IA SVIZZERA Vichy 31.12.44 Sofia Atene23.2.45 Gran Budapest Algeri GRECIA NA Sasso Istanbul BULGARIA Roma Tunisi C ROMANIA MAROCCO ALGERIA Milano 8.9.44 RO SIRIA 4.6.44 Atene AZ 25.8.44 26.4.45 ITALIA Algeri IA T UBelgrado R C H I A Tunisi CCO MAR NERO Bucarest ALGERIA SERB23.2.45 13.10.43 SIRIA Madrid IA GRECIA Sofia Gran GUERRA LA SECONDA dominio SPAGNA Atene Sasso Istanbultedesco alla fine BULGARIA MONDIALE(1942-45) LA SECONDA GUERRA Roma Algeri dominio tedesco 8.9.44 alla fine del 1944 4.6.44 Tunisi MONDIALE(1942-45) ALGERIA del 1944 all’inizio S I R I Adominio tedesco T U R C H I A

A RL

in Europa

Terzo Reich. A metà gennaio, dopo un’ultima efficace controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli anglo-americani riprendevano l’iniziativa sul fronte occidentale. I sovietici, 419

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

S

10_GLI ACCORDI INTERNAZIONALI

Carta atlantica

Conferenza di Washington

Conferenza di Casablanca

Conferenza di Teheran

Conferenza di Mosca

Conferenza di Yalta

Quando

14 agosto ’41

Dicembre ’41- gennaio ’42

Gennaio ’43

Novembre-dicembre ’43

Ottobre ’44

Febbraio ’45

Chi

Roosevelt e Churchill

Tutte le 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone

Roosevelt e Churchill

Roosevelt, Churchill e Stalin

Churchill e Stalin

Roosevelt, Churchill e Stalin

Perché

Stabilire un nuovo ordine da dare all’Europa dopo la fine della guerra

Elaborare una strategia comune per battere le potenze fasciste

Pianificare la strategia d’attacco all’Europa

Accelerare la fine di Hitler

Suddividersi le rispettive zone di influenza nei Balcani

Assicurare il processo di denazificazione della Germania

Cosa

Rispetto dei princìpi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli, libertà economica, cooperazione internazionale e rinuncia all’uso della forza

Si impegnano a tener fede ai princìpi della Carta atlantica, a combattere le potenze fasciste e a non concludere con esse paci separate (nascono le Nazioni Unite)

Gli anglo-americani decidono di effettuare il primo sbarco in Sicilia; viene anche stabilito il principio della resa incondizionata

Gli anglo-americani si impegnano a organizzare uno sbarco in forze sulle coste francesi per la primavera del ’44

Romania e Bulgaria all’Urss, Grecia alla Gran Bretagna, situazione di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria

Divisione della Germania in quattro zone di occupazione (francese, britannica, statunitense e sovietica)

dopo aver conquistato Varsavia, attraversavano tutto il restante territorio polacco. In febbraio erano già a poche decine di chilometri da Berlino (un obiettivo che Stalin voleva raggiungere prima degli anglo-americani). Più a sud l’Armata rossa cacciava i tedeschi dall’Ungheria per poi puntare su Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile, e su Praga, liberata il 4 maggio. Frattanto gli anglo-americani, che il 22 marzo avevano attraversato il Reno, penetravano in profondità in territorio tedesco incontrando, per la prima volta dall’inizio della guerra, una scarsa resistenza da parte delle truppe del Reich, che invece continuavano a combattere con disperato accanimento sul fronte orientale, al doppio scopo di proteggere la fuga dei civili dalla devastante avanzata dell’Armata rossa e di ridurre per quanto possibile la zona di occupazione dell’Urss. Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano con i sovietici che stavano accerchiando Berlino. In quegli stessi giorni crollava anche il fronte italiano. Il 25 aprile, mentre gli alleati sfondavano la linea gotica, il Cln lanciava l’ordine dell’insurrezione generale contro il nemico in ritirata, e i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini fu catturato mentre tentava di fuggire in Svizzera e fucilato dai partigiani il 28 aprile, assieme ad altri gerarchi e alla sua giovane amante, Clara Petacci. I loro cadaveri, appesi per i piedi, furono esposti per alcune ore a piazzale Loreto, a Milano. Il 30 aprile, mentre i sovietici stavano entrando a Berlino, Hitler si suicidò nel bunker sotterraneo dove era stata trasferita la sede del governo, lasciando la presidenza del Reich all’ammiraglio Karl Dönitz, che offrì subito la resa agli alleati. Il 7 maggio 1945, nel quartier generale alleato a Reims, fu firmato l’atto di capitolazione delle forze armate tedesche. Le ostilità cessarono nella notte fra l’8 e il 9 maggio. La guerra europea si concludeva così, a cinque anni e otto mesi dal suo inizio, con la morte dei due dittatori che più d’ogni altro avevano contribuito a scatenarla. Restava aperto, a questo punto, solo il fronte del Pacifico.

La morte di Mussolini e Hitler e la resa tedesca

420

La sconfitta del Giappone e la bomba atomica

Nell’estate del ’45 gli americani, ormai liberi da impegni bellici in Euro­ pa,  ­attaccarono in forze il Giappone, ormai isolato e sottoposto a continui bombardamenti, ma ancora deciso a combattere con eccezionale acca­ nimento, escludendo ogni ipotesi di resa e facendo ampio ricorso all’azione

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Hiroshima all’indomani dell’esplosione della bomba atomica agosto 1945

dei kamikaze, aviatori suicidi che si gettavano sulle navi avversarie con i loro aerei carichi di esplosivo. Il nuovo presidente americano Harry Truman (Roosevelt era morto il 12 aprile 1945) decise allora di impiegare contro il Giappone la nuova arma “totale”, la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, che era stata appena messa a punto da un gruppo di scienziati [►7_8] e sperimentata per la prima volta in luglio nel deserto del Nuovo Messico [►FS, 80]. La decisione di Truman serviva innanzitutto ad abbreviare una guerra che rischiava di essere ancora lunga e sanguinosa, ma aveva anche lo scopo di offrire al mondo (e soprattutto agli alleati-rivali sovietici) la dimostrazione della potenza militare americana. Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano sganciava la prima bomba atomica sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo, l’operazione era ripetuta a Nagasaki. In entrambi i casi le conseguenze furono spaventose: non METODO DI STUDIO solo per il numero dei morti (circa 100 mila a Hiroshima,  a  Trascrivi i titoli dei sottoparagrafi sul quaderno, poi descrivi sinteticamen60 mila a Nagasaki) e per la distruzione totale delle due te il loro contenuto. città, ma anche per gli effetti di lungo periodo su quanti  b  Spiega oralmente cosa fu deciso a Mosca nel ’44 e a Yalta nel ’45.  c  Evidenzia con due colori diversi gli eventi che portarono alla fine della erano stati contaminati dalle radiazioni [►FS, 81d]. Il 15 guerra in Europa e nel Pacifico. agosto, dopo che l’Urss aveva anch’essa dichiarato guerra  d  Sottolinea con due colori diversi l’epilogo di Mussolini e di Hitler nel 1945. al Giappone, l’imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa  e  Continua l’elenco schematico degli eventi della seconda guerra mondiale senza condizioni. Con la firma dell’armistizio, il 2 settemgià iniziato. bre 1945, si concludeva così il secondo conflitto mondiale.

421

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

SINTESI

11_1 LE ORIGINI E LO SCOPPIO DELLA GUERRA Nel marzo 1939, la Germania occupò la Boemia e la Moravia, le regioni più avanzate della Repubblica cecoslovacca. La distruzione della Cecoslovacchia (marzo ’39) determinò una svolta nella politica anglofrancese verso la Germania. In risposta alle mire tedesche sulla Polonia, Francia e Gran Bretagna conclusero un’alleanza con questo paese. Si arenarono, invece, per reciproche diffidenze, le trattative fra sovietici e anglofrancesi, mentre si chiusero quelle tra Urss e Germania, che portarono a un patto di non aggressione fra le due potenze e a un accordo per tutelare i reciproci interessi in Europa orientale (patto MolotovRibbentropp, agosto ’39). Garantitosi a est, Hitler poté attaccare subito dopo la Polonia (1° settembre 1939). Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania mentre l’Italia – che da poco aveva concluso il “patto d’acciaio” con i tedeschi, ma era militarmente impreparata a sostenere un conflitto – annunciò la “non belligeranza”. Si apriva la seconda guerra mondiale, una guerra “totale”, che lo scontro ideologico, l’uso di nuove potentissime armi, la mobilitazione dei cittadini e le vittime civili resero diversa da tutte quelle del passato.

11_2 L’ATTACCO ALLA POLONIA

422

La conquista tedesca della Polonia fu rapidissima, grazie al nuovo tipo di guerra-lampo praticato dai tedeschi, con l’uso

congiunto di aviazione e mezzi corazzati. Nei primi mesi la guerra si svolse in pratica solo al Nord. L’Urss, dopo aver occupato la parte orientale della Polonia, attaccò la Finlandia, che resistette per più di tre mesi. La Germania, invece, occupò la Danimarca e la Norvegia.

11_3 LA DISFATTA DELLA FRANCIA E LA RESISTENZA DELLA GRAN BRETAGNA Nel maggio-giugno 1940 l’offensiva tedesca sul fronte occidentale si risolse in un travolgente successo: i tedeschi penetrarono in Francia da Belgio, Olanda e Lussemburgo. La parte centrosettentrionale della Francia fu occupata dai tedeschi; il resto del paese rimase formalmente sotto la sovranità della Repubblica di Vichy, il nuovo regime autoritario costituito dal generale Pétain, di fatto subordinato alla Germania. La Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro le potenze fasciste, riuscì sotto la guida di Churchill a respingere il tentativo tedesco di invadere le isole britanniche. La battaglia d’Inghilterra dell’estate ’40 – combattuta soprattutto nell’aria (numerosi furono i bombardamenti sulle città inglesi, compresa Londra) – segnò per la Germania la prima battuta d’arresto.

11_4 L’ITALIA E LA “GUERRA PARALLELA” Il 10 giugno ’40, convinto che la guerra stesse ormai per

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

finire, Mussolini annunciò l’intervento dell’Italia a fianco dell’alleato nazista. Ma l’esercito italiano fornì subito una pessima prova sia contro i francesi, sia – in Africa e nel Mediterraneo – contro gli inglesi. Nell’autunno del ’40 un improvviso attacco italiano alla Grecia si risolse in un nuovo fallimento. Gli insuccessi italiani nel Nord Africa e in Grecia obbligarono Mussolini a chiedere l’aiuto dei tedeschi che intervennero a supporto dell’Italia – e con successo – rispettivamente nel marzo e nell’aprile ’41: finiva così l’illusione di Mussolini di poter combattere una “guerra parallela”, non subalterna a quella tedesca.

11_5 1941: L’ENTRATA IN GUERRA DI URSS E STATI UNITI Nel 1941 il conflitto entrò in una nuova fase, divenendo effettivamente mondiale. Nell’estate la Germania attaccò l’Unione Sovietica, riportando notevoli successi ma finendo con l’immobilizzare su quel fronte, in una guerra di usura, gran parte del proprio esercito. A partire dal ’40 gli Stati Uniti iniziarono a sostenere massicciamente lo sforzo bellico inglese garantendo fornitura di armamenti a condizioni favorevoli (legge “degli affitti e prestiti”), per poi sottoscrivere con la Gran Bretagna (agosto ’41) la Carta atlantica: un documento in cui i due paesi ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita. In dicembre gli Stati Uniti entrarono anch’essi in guerra dopo l’attacco subito a Pearl Harbor da parte del Giappone

(unito alle potenze dell’Asse dal patto “tripartito”). Nei mesi successivi i giapponesi raggiunsero tutti gli obiettivi espansionistici che si erano prefissati.

11_6 RESISTENZA E COLLABORAZIONISMO NEI PAESI OCCUPATI Nella primavera-estate del 1942 le potenze del patto “tripartito” raggiunsero la massima espansione. Nelle zone occupate, il Giappone e la Germania cercarono di costruire un “nuovo ordine” fondato sulla supremazia della nazione “eletta”. I tedeschi, in particolare, miravano a ridurre i popoli slavi in condizioni di semischiavitù, con l’obiettivo di fare di tutta l’Europa orientale una colonia agricola al servizio del Reich. Lo sfruttamento e lo sterminio pianificati dai nazisti in Europa assicurarono alla Germania un’ingente forza-lavoro gratuita e grandi quantità di materie prime, ma costrinsero i tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe. Soprattutto dopo l’attacco tedesco all’Urss, si svilupparono in Europa movimenti di resistenza. In molti dei paesi controllati dai nazisti una parte della popolazione e della classe dirigente accettò invece di collaborare con gli occupanti.

11_7 LA SHOAH La persecuzione di Hitler si concentrò soprattutto

contro gli ebrei: poco meno di 6 milioni furono sterminati nei Lager, dove i prigionieri venivano subito “selezionati” tra abili e inabili al lavoro (questi ultimi mandati a morte nelle camere a gas). Vittime dei campi furono anche zingari, sinti e rom, con centinaia di migliaia di uccisi.

11_8 LE BATTAGLIE DECISIVE Nel 1942-43 si ebbe una svolta nella guerra. I giapponesi subirono alcune sconfitte nel Pacifico (Mar dei Coralli, Midway). Sul fronte nordafricano gli alleati fermarono le forze dell’Asse a El Alamein e le costrinsero a ritirarsi. Sul fronte russo la lunga e sanguinosa battaglia di Stalingrado si risolse in una sconfitta dei tedeschi, che per gli antifascisti di tutto il mondo divenne un segnale di riscossa. Nella conferenza di Casablanca (gennaio 1943) gli anglo-americani si accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre alla Germania e ai suoi alleati e decisero di portare l’attacco all’Europa, sbarcando dall’Africa in Italia, considerata l’obiettivo più facile.

11_9 DALLO SBARCO IN SICILIA ALLO SBARCO IN NORMANDIA Il 10 luglio gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia,

impadronendosi dell’isola in poche settimane. Frattanto l’Urss aveva iniziato una lenta ma inarrestabile avanzata, che permise a Stalin di accrescere il suo peso in seno alla “grande alleanza” antinazista. Il nuovo ruolo dell’Urss emerse nella conferenza interalleata di Teheran (novembre-dicembre 1943), in cui Roosevelt, Stalin e Churchill decisero, su istanza di Stalin, lo sbarco in forze sulle coste francesi. Gli alleati sbarcarono in Normandia (operazione Overlord) nel giugno ’44. In settembre la Francia era quasi completamente liberata.

11_10 L’ITALIA: LA CADUTA DEL FASCISMO E L’ARMISTIZIO Lo sbarco alleato in Sicilia nel luglio ’43 rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista. Il 25 luglio Mussolini fu destituito e arrestato. L’8 settembre 1943 fu annunciato l’armistizio fra l’Italia e gli alleati. Mentre il re e i membri del governo Badoglio fuggivano a Brindisi, i tedeschi occupavano l’Italia centro-settentrionale. Le forze armate italiane, prive di chiare direttive, si sbandarono. Circa 600 mila militari furono fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Gli episodi di aperta resistenza furono puniti dai tedeschi con veri e propri massacri, come avvenne nell’isola greca di Cefalonia. Attestatisi su una linea difensiva che andava da Gaeta a Pescara (la linea Gustav), i tedeschi riuscirono a bloccare l’offensiva alleata fino alla primavera del ’44.

11_11 RESISTENZA E GUERRA CIVILE IN ITALIA

11_12 LA FINE DELLA GUERRA E LA BOMBA ATOMICA

Dall’autunno 1943, l’Italia era un paese diviso in due entità statali, in guerra l’una contro l’altra: nel Sud, occupato dagli alleati, sopravviveva lo Stato monarchico, mentre nel Centro-nord, occupato dai tedeschi, Mussolini costituiva un nuovo Stato fascista detto Repubblica sociale italiana. Nasceva intanto il movimento di Resistenza contro tedeschi e fascisti. Dopo una prima fase di aggregazione spontanea, le bande partigiane si organizzarono in brigate in base all’orientamento politico; frattanto i partiti antifascisti (Pci, Psiup, Dc, Pli, Pda), che si andavano ricostituendo, si riunirono nel Comitato di liberazione nazionale (Cln), proponendosi come guida dell’Italia democratica, in contrapposizione allo stesso governo Badoglio. Il contrasto si sbloccò per l’intervento del leader comunista Togliatti, che propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re e il governo finché non si fosse giunti alla liberazione del paese. Nell’aprile ’44 si formò il primo governo di unità nazionale, con la partecipazione dei partiti del Cln. Dopo la liberazione di Roma, in giugno, il re trasmise i propri poteri al figlio Umberto e si costituì un nuovo governo (con alla testa Bonomi), più direttamente legato al movimento partigiano.

Nel 1945 i tedeschi dovettero arretrare su tutti i fronti. Frattanto, nelle conferenze di Mosca (ottobre ’44) e di Yalta (febbraio ’45), sovietici, americani e inglesi si accordavano sulla futura sistemazione dell’Europa, sancendo la divisione della Germania in quattro zone d’occupazione. Crollava anche il fronte italiano: il 25 aprile 1945 il Cln lanciò l’ordine dell’insurrezione generale contro il nemico in ritirata. Mussolini fu catturato e fucilato dai partigiani il 28 aprile, mentre i russi entravano a Berlino, Hitler si suicidava e la Germania capitolava il 7 maggio ’45. Restava aperto il fronte del Pacifico, dove il Giappone continuava a combattere con eccezionale accanimento. Il nuovo presidente americano Truman decise di impiegare la bomba atomica: la prima fu lanciata il 6 agosto su Hiroshima, un’altra tre giorni dopo su Nagasaki. In entrambi i casi le conseguenze furono spaventose: 100 mila morti a Hiroshima, 60 mila a Nagasaki; altrettanto tragici furono gli effetti delle distruzioni e della contaminazione. L’imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa senza condizioni. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre 1945, si concluse il secondo conflitto mondiale.

423

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa la seguente mappa concettuale per sintetizzare le relazioni politiche tra i principali Stati europei prima della

seconda guerra mondiale. Inserisci le parole riportate di seguito negli spazi opportuni e completa in maniera autonoma i due riquadri in basso. Gran Bretagna ● Italia ● si accordano ● non si fidano

GERMANIA

FRANCIA

......................................

......................................

..............................

..............................

URSS

Erano diffidenti perché:

PATTO MOLOTOV-RIBBENTROP Stabiliva che ......................................

● l’Urss temeva che

......................................

● gli occidentali temevano che ......................................

2 La seguente linea del tempo puntualizza i momenti salienti della seconda guerra mondiale fino al 1941: completala

inserendo date ed eventi laddove necessario.

424

1° settembre 1939 Dal 1939 al maggio 1940 .................................... .................................... Luglio 1940 .................................... .................................... Ottobre 1940 Marzo 1941 Aprile 1941 22 giugno 1941 14 agosto 1941 7 dicembre 1941 Dicembre 1941

................................................................................................. L’Urss invade: Estonia, Lettonia, Lituania, parte della Polonia, Finlandia La Germania invade: parte della Polonia, Danimarca, Norvegia I tedeschi invadono Olanda, Lussemburgo e Belgio L’Italia entra in guerra Si insedia il regime di Vichy guidato da Pétain Londra viene bombardata dall’aviazione tedesca Attacco dell’Italia alle forze britanniche in Egitto L’Italia attacca la Grecia ma è un insuccesso Arrivano i rinforzi tedeschi e inizia la controffensiva dell’Asse Jugoslavia e Grecia vengono sconfitte dalle truppe dell’Asse ................................................................................................. ................................................................................................. ................................................................................................. .................................................................................................

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

3 Individua e scrivi sulla carta geostorica i

GERMANIA

nomi dei fronti di guerra che hanno segnato le tappe fondamentali del secondo conflitto mondiale. Scegli tra le espressioni proposte di seguito tralasciando le espressioni errate:

FRANCIA ..............................

● Linea Maginot ● Linea Sigfrido ● Linea Gustav ● Linea Transiberiana ● Linea Gotica ● Linea Rossa

Francia di Vichy

..............................

JU

Pesaro

La Spezia

G

O

SL

IT AL

Pescara

A

V

IA

IA

..............................

Anzio M A R

M E D

I T

E

R

R

A

GRECIA N

E O

offensive italiane

4 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate; ripercorrerai le tappe salienti del conflitto tra Russia e Germania offensive tedesche

durante la seconda guerra mondiale.

a. Il 22 giugno 1941 scattò l’offensiva russa contro la Germania. ................................................................................................................................................................................. b. Questa offensiva fu chiamata “operazione Barbarossa”. ................................................................................................................................................................................. c. Il nemico più pericoloso per l’esercito tedesco si rivelò il freddo terribile dell’inverno russo. ................................................................................................................................................................................. d. Alla fine del 1941 la Francia intervenne a favore dell’Urss. ................................................................................................................................................................................. e. Il 14 agosto 1941 Churchill e Roosevelt approvarono la Carta atlantica. ................................................................................................................................................................................. f. La Russia il 7 dicembre 1941 attaccò la flotta degli Usa a Pearl Harbor. ................................................................................................................................................................................. g. 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone nel dicembre del 1941 firmarono il patto delle Nazioni Unite. .................................................................................................................................................................................

V

F

V

F

V

F

V

F

V

F

V

F

V

F

5 Scegli le risposte appropriate relative alle domande sui movimenti di Resistenza e sul trattamento dei popoli slavi, e

completale laddove necessario.

a. Quali erano i piani di Hitler nei confronti dei popoli slavi? b. Cosa ricavava Hitler dai paesi conquistati? c. Chi costituì i primi movimenti di Resistenza? d. Quale fu il limite principale dei movimenti di Resistenza?

425

C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Risposte: 1. Una riserva inesauribile di forza-lavoro gratuita e ................................................................ 2. Non sempre le diverse forze riuscirono a stabilire una linea d’azione comune; inoltre nei paesi dell’Europa orientale era forte la diffidenza nei confronti ................................................................. 3. Piccoli gruppi legati a governi in esilio o a movimenti di liberazione; comunisti impegnati nella lotta al nazismo soprattutto dopo la campagna di Russia. 4. Far diventare tutta l’Europa orientale una colonia agricola del Reich, eliminando ogni traccia di ........................................................................ 6 Completa il seguente brano sulla Shoah scegliendo l’opzione corretta tra quelle fornite tra parentesi.

Fin dalle origini Hitler manifestò la sua volontà di liberare la Germania e l’Europa ........................... (dagli ebrei/dai musulmani). In Polonia il Führer operò massacri indiscriminati e gli ebrei furono progressivamente chiusi nei ........................... (quartieri latini/ghetti). Fu nel ........................... (1932/1941), dopo l’invasione dell’Urss, che cominciò a essere praticata in modo sistematico ....................(l’eliminazione fisica/la deportazione) degli ebrei. Inizialmente furono reparti ........................... (speciali di SS/ordinari dell’esercito) a eseguire fucilazioni di massa. Con la costruzione di campi di ........................... (lavoro/sterminio) come quello di Auschwitz-Birkenau, furono utilizzati forni crematori, camere a gas, fosse comuni. In questi campi ........................... (vennero avviati/non vennero avviati), oltre agli ebrei prelevati dai paesi occupati dai nazisti, anche zingari, rom, sinti comunisti e tutti coloro ritenuti nemici della Germania.

COMPETENZE IN AZIONE 7 Esponi per iscritto, in un testo informativo (max 3 colonne di foglio protocollo) i momenti salienti della seconda guerra

mondiale avvalendoti anche della linea del tempo dell’esercizio 2 e delle carte geostoriche presenti nel capitolo. Ricordati di evidenziare:

● le cause scatenanti ● l’anno di svolta ● le caratteristiche della guerra

● composizione e limiti dei movimenti di Resistenza ● l’operazione Overlord ● la fase finale della guerra nel Pacifico

8 Completa la cronologia individuando e aggiungendo i passaggi mancanti, quindi scrivi un testo di circa 20 righe che

racconti gli eventi:

a. Riunione del Gran consiglio del fascismo e destituzione di Mussolini dalle sue cariche. b. ................................................................................................................... c. Liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso. d. Mussolini fonda la Repubblica di Salò. e. ................................................................................................................... f. Togliatti e la “svolta di Salerno”. g. Viene costituito il primo governo di unità nazionale.

COMPITI DI REALTÀ 9 Realizzare un approfondimento storico sulla rappresentazione della Resistenza al cinema in forma di poster per un

convegno. Tema storico da affrontare: La Resistenza al cinema.

Contesto di lavoro

426

Sei un ricercatore universitario che si occupa del rapporto fra la storia dell’Italia contemporanea e il cinema e hai deciso di partecipare a un convegno sulla rappresentazione del passato nella nostra società per illustrare una parte degli esiti della tua ricerca. Dovrai realizzare un poster che rappresenti graficamente il rapporto fra alcuni film sulla Resistenza italiana e i risultati della ricerca storica su questi eventi drammatici.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un poster sulla rappresentazione della Resistenza italiana attraverso i film. Per realizzare questo compito dovete: ● cercare e visionare alcuni film sulla Resistenza italiana (almeno due). Eccone alcuni di epoche diverse: Il generale Della Rovere, Roberto Rossellini, 1959 L’Agnese va a morire, Giuliano Montaldo, 1976 Il partigiano Johnny, Guido Chiesa, 2000 I nostri anni, Daniele Gaglianone, 2001 ● individuare i principali argomenti storici affrontati (il ruolo dei monarchici, gli schieramenti politici fra i partigiani, l’8 settembre, la necessità di “fare qualcosa”, la lotta fratricida, il ruolo delle donne, ecc.). Scegliete due temi che vi sembrano più rilevanti. ● decidere come gestire gli spazi all’interno del poster (le dimensioni indicate dagli organizzatori del convegno sono di 1,8 m di larghezza per 1,2 m di altezza). ● individuare il modo in cui vengono affrontati i temi scelti nei film che avete selezionato. ● individuare le informazioni storiche che vi permettono di fare un confronto in base ai temi che avete già selezionato. Scoprirete che film di epoche diverse rispecchiano i temi caldi del dibattito storiografico dell’epoca in cui il film è stato prodotto. Cercate online informazioni sulle letture storiografiche della Resistenza. Potete aiutarvi con il testo di Aldo Agosti, La centralità della Resistenza. Rivendicazione e contestazione politica (reperibile online), con i brani storiografici del Fare Storia e con gli studi di Giovanni De Luna che ha affrontato in particolar modo il rapporto fra cinema e Resistenza (alcuni articoli sono reperibili online). ● ricercare online indicazioni su come realizzare un esempio di poster scientifico e cercarne qualche esempio che vi convinca e che abbia le seguenti caratteristiche: che esponga un concetto in forma grafica (anche la disposizione delle immagini e del testo è funzionale al messaggio da comunicare), che non sia la trasposizione di una pagina di un libro (non deve prevedere testi scritti fitti e lunghi e con un carattere dalla dimensione troppo piccola), che le immagini non siano solo evocative, ma che contengano parte dei messaggi da trasmettere. ● realizzare per ogni film una scheda con le informazioni tecniche principali (autore, anno, trama in 3 righe) e quelle che è possibile ricavare in relazione al tema in esame (punto di vista del regista sulla Resistenza). ● selezionare per ogni tema individuato almeno un fotogramma per film e realizzare una scheda per ognuno di essi con le informazioni di contesto (momento del racconto, personaggi presenti, rimandi storici dei dialoghi e degli elementi scenografici, ecc.). ● realizzare una linea del tempo che contenga gli episodi salienti del periodo storico di cui vi state occupando e a cui i registi hanno dato particolare rilievo. ● scrivere un testo argomentativo di massimo 5 righe che contenga le vostre riflessioni sul rapporto fra i film e la storia (fedeltà/infedeltà della rappresentazione, aspetti messi in rilievo, idee del passato che vengono suggerite dai testi, dagli sviluppi e dagli esiti delle vicende), e sul successo o meno del film nelle sale cinematografiche. Potete anche riportare riflessioni di studiosi presenti su siti web o riviste, ma citate sempre la fonte! ● realizzare un impianto grafico che contenga rimandi ai seguenti elementi: 1. i fotogrammi selezionati; 2. i contenuti descritti sinteticamente (max 3-5 righe); 3. il titolo del poster; 4. localizzazione e temporalità degli eventi (se necessario); 5. una riflessione conclusiva su come il cinema italiano ha rappresentato nel corso del tempo il tema della Resistenza. ● realizzare concretamente il poster con il programma di grafica a voi più congeniale in base alle dimensioni indicate.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti al comitato scientifico del convegno e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più l’illustrazione del poster. Quest’ultimo potrà essere stampato o visualizzato con la Lim.

Tempo a disposizione

2- 3 ore per visionare ogni film selezionato e analizzarlo; 1 ora per individuare sul manuale le fonti e i contenuti da utilizzare; 1 ora per cercare in Rete le indicazioni di metodo e gli esempi di poster e scegliere quello più congeniale; 5 ore per elaborare i contenuti; 3 ore per la realizzazione del poster; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

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C11 LA SECONDA GUERRA MONDIALE

FARESTORIA LA SOCIETÀ AMERICANA DURANTE LA GRANDE CRISI DEL ’29 La “grande crisi” che si aprì nel 1929 negli Stati Uniti con il crollo della Borsa di Wall Street fece sentire i suoi effetti in tutto il mondo nel corso degli anni ’30, non soltanto colpendo l’economia ma provocando importanti trasformazioni sul piano politico e sociale. Nel brano di apertura, Richard Overy [►55] analizza le cause immediate e remote che portarono al crollo. Piers Brendon [►56] prende in esame le drammatiche conseguenze sociali e politiche che misero in crisi definitivamente i già fragili equilibri usciti dalla prima guerra mondiale. Le pagine di un celebre romanzo americano scritto alla fine degli anni ’30 da John Steinbeck [►57d] descrivono poi con grande efficacia uno degli effetti della crisi negli Stati Uniti: l’emigrazione verso la California di migliaia di piccoli coltivatori del Mid West. Infine, Arnaldo Testi [►58] si sofferma sulla politica del New Deal, messa in atto dal presidente Roosevelt per superare la crisi.



55 R. OVERY IL GRANDE CROLLO

R. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali 1919-1939 (1998), il Mulino, Bologna 2007, pp. 65-70.

Nelle pagine che seguono, lo storico britannico Richard Overy (nato nel 1947) analizza le cause della grande crisi che seguì il crollo della Borsa di Wall Street nel 1929, ricostruendo con chiarezza il contesto economico globale degli anni ’20. L’autore individua nella Grande Guerra un momen-

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Alle dieci del mattino del 29 ottobre 1929 alla Borsa di New York, a Wall Street, suo­ nò il gong di apertura degli scambi. Quel che avvenne dopo fu un indecente, di­ sperato parapiglia per vendere depositi e azioni a qualsiasi prezzo. Una cosa risultò chiara al di sopra del frastuono degli ope­ ratori di borsa: il boom americano degli anni Venti s’era esaurito in una fiamma­ ta. Alla fine della giornata 16 milioni di azioni avevano cambiato mano a prezzi fallimentari. Quando l’indice Dow Jones1 interruppe la sua caduta nel luglio 1933, 74 miliardi di dollari erano stati prosciu­ gati e le azioni erano al 15% appena del livello di quel giorno del 1929 in cui la crisi era scoppiata. Il «grande crollo», come si prese a chiamarlo, decretò la rovina finan­ ziaria di migliaia di investitori americani, grandi e piccoli; ma i suoi effetti si avver­ tirono ben oltre i confini degli Stati Uniti. La crisi di Wall street fu un colpo mortale per l’economia mondiale, da cui essa non si riprese del tutto prima del 1939. Il crollo

to decisivo, in grado di trasformare gli equilibri dell’economia mondiale e capace di determinare importanti cambiamenti nel modo di gestire gli affari economici e commerciali. Il “grande crollo” della Borsa statunitense si andò dunque a inserire in una fase di recessione già in atto da tempo e il panico che generò nel mondo rese possibile lo scoppio della peggiore crisi economica del ’900.

del mercato azionario in quanto tale aveva cause dirette nella situazione americana. Per due o tre anni prima del 1929 un boom consistente dell’industria americana ave­ va alimentato un’orgia speculativa nella compravendita delle azioni. La fiducia nel futuro dell’economia americana era così alta che gli speculatori facevano incetta di titoli di certi prodotti per gli anni a venire. Il capitale era esorbitante, e le compagnie lucravano emettendo azioni quando non c’era un mercato reale a sostenere l’ecces­ so di produzione. Non si poteva parlare esattamente di un commercio illegale, se mai di eccessi sfrenatamente ottimistici e imprudenti. I piccoli investitori erano ossessionati dalle promesse di profitti a pioggia, ma quando si manifestarono i primi segnali di incertezza l’effetto psico­ logico fu devastante. La montatura specu­ lativa si sgonfiò e l’economia americana imboccò la strada del declino. Il crollo di Wall Street spiega solo in parte le ragioni di quella recessione: esso fu tan­

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to un sintomo quanto una causa. I fattori alle origini del crollo, che spiegano i tempi lunghi di quella grande crisi, vanno ricon­ dotti alla Grande Guerra. Prima del 1914 il mondo aveva sperimentato trent’anni di crescita quasi ininterrotta della pro­ duzione industriale e del commercio in­ ternazionale. Il mercato mondiale faceva affidamento su un buon accordo di col­ laborazione tra i principali produttori per conservare scambi relativamente liberi e per fissare un tasso stabile di cambio tra le valute basato sul sistema monetario aureo, il gold standard. Merci e manodo­ pera valicavano le frontiere con relativa facilità. Al centro di questo sistema inter­ nazionale si trovava l’economia della Gran Bretagna, la cui grande potenza finanzia­

1. L’indice della Borsa di New York che si basa sull’andamento medio giornaliero dei titoli quotati.

ria, l’esperienza nei commerci e la vastità degli interessi imperialistici assegnavano un vivo interesse alla continua stabilità del mercato mondiale e dei mezzi economici per ottenerla. [...] La Grande Guerra scom­ bussolò buona parte di questa struttura: il commercio internazionale ne fu profon­ damente intralciato. Mentre l’Europa era impegnata nella guerra, altre economie, nella fattispecie il Giappone e gli Stati Uni­ ti, rilevavano i mercati dell’esportazione del vecchio continente. I paesi extraeu­ ropei, in crisi per la carenza di merci e di finanziamenti prima forniti dall’Europa, si lanciarono nella creazione di proprie industrie a spese dei vecchi fornitori. Alla fine della guerra, quando l’industria euro­ pea riprese a funzionare, si manifestò una tendenza alla sovrapproduzione che por­ tò a un crollo dei prezzi e a una corsa all’i­ stituzione di barriere tariffarie per proteg­ gere le industrie domestiche in difficoltà. Perfino la Gran Bretagna, la più accanita sostenitrice del libero commercio prima della guerra, impose dazi sull’importa­ zione di automobili e di altri manufatti per frenare la forte competitività ameri­ cana. Ne conseguì che il tasso di crescita del commercio internazionale non riuscì a tornare ai livelli eccezionali del periodo prebellico, e i dati delle esportazioni dei due paesi più attivi negli scambi, Gran Bretagna e Germania, indicavano una stagnazione. I risultati relativamente mo­ desti dell’economia britannica nel corso degli anni Venti resero difficile il manteni­ mento del ruolo centrale avuto prima del conflitto. Il calo netto delle esportazioni delle maggiori industrie inglesi finì per in­ cidere negativamente sulla capacità degli altri paesi di vendere alla Gran Bretagna. Il declino degli introiti inglesi provenien­ ti dal commercio estero privò l’economia mondiale di un’importante fonte di finan­ ziamenti [...]. La guerra aveva distrutto la stabilità del gold standard. Gli stati belligeranti abban­ donarono l’oro perché costretti a finanzia­ re lo sforzo bellico con prestiti e deficit sta­ tali enormi, o ricorrendo pesantemente al prestito dall’estero. Pesanti debiti statali e contrazione della quantità di merci e di alimenti portarono ad alti livelli inflazio­ nistici. Nel 1919 il marco aveva solo un quinto del suo valore di prima della guer­ ra, il franco solo un terzo. Lo sforzo bellico in Russia aveva finito per portare a un’in­ flazione galoppante nel corso del 1917 e al collasso completo della moneta. Dopo la

guerra le finanze statali furono sconvolte dai costi sostenuti per la smobilitazione e per far fronte agli enormi debiti interni e ai prestiti di guerra. [...] Se è vero che il mar­ co si ristabilizzò nel 1924, ciò nonostante milioni di tedeschi persero i loro risparmi e l’economia del paese fu costretta a fare pesante affidamento sui prestiti esterei, alla mercé quindi dei mercati finanziari mondiali. Il collasso della moneta ­tedesca trascinò con sé anche le altre valute del­ l’Europa centrale e orientale. L’inflazione record in Austria, Ungheria, Polonia e Ce­ coslovacchia fu in parte il riflesso dei co­ sti e delle difficoltà di fondare nuovi stati e nuovi sistemi economici partendo da zero, con l’ovvia tentazione dei governi di stampare moneta senza criterio, e in par­ te la conseguenza di una reale scarsità di beni. Sebbene anche queste monete finis­ sero per stabilizzarsi verso la metà degli anni Venti, l’Europa si ritrovò con un siste­ ma finanziario sostanzialmente instabile. [...] L’unica possibile fonte di salvezza erano gli Stati Uniti, la cui economia aveva risentito meno della guerra. L’America elargì 6.400 miliardi di dollari all’economia mondiale tra il 1924 e il 1929, gran parte dei quali alla Germania e all’Europa dell’est. Ma molti di questi prestiti erano a breve ter­ mine, soggetti a immediata riscossione in situazioni di crisi. Gli investitori ame­ ricani s’erano scottati le dita con i prestiti di guerra che gli alleati restituivano con grande lentezza, e con i prestiti dell’Euro­ pa centrale che avevano perso ogni valore al tempo delle crisi inflazionistiche degli anni Venti. Nonostante gli stanziamenti continuassero ad arrivare generosamen­ te, le economie degli altri paesi erano però totalmente in ostaggio della tenuta della prosperità del popolo americano e della fiducia nella stabilità d’oltreoceano. [...] Crescita economica ci fu, naturalmente, negli anni Venti, per quanto discontinua e incline a periodi di crisi, dapprima nel biennio 1920-1921, poi ancora nel 1926, e segnata da una linea di sviluppo assai diseguale. Certi settori registrarono un boom, mentre altri battevano la fiacca; certi paesi sperimentarono brevi fiamma­ te di crescita, intervallate da periodi di sta­ gnazione o di declino. Si poteva fare pro­ fitti facili con le auto, la radio o il cinema, ma i settori industriali tradizionali (carbo­ ne, acciaio, tessuti, cantieristica navale) ebbero scarsa spinta (quando l’ebbero) dopo le vacche grasse del periodo bellico.

Una volta che il periodo di inflazione e di penuria postbellica fu passato, i prezzi dei prodotti alimentari e delle materie prime scesero drasticamente. Agricoltura e pro­ duzione di base agirono da zavorra sull’e­ conomia nel suo complesso. Il calo dei prezzi fu avvertito più acutamente nelle regioni più povere d’Europa che vivevano soprattutto dell’esportazione di alimenti e materie prime, e nelle aree meno evolute del mondo al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti. La capacità di queste regioni di assorbire prodotti industriali dai paesi più sviluppati venne di molto ridotta, il che portò a livelli di disoccupazione più alti del solito nelle principali industrie esportatrici d’Europa. Le conseguen­ ze per un gran numero di persone negli anni Venti furono povertà di lunga durata e calo delle entrate. Vaste aree di miseria esistevano accanto alle nuove industrie in espansione. Persino negli Stati Uniti c’e­ rano evidenti contrasti tra le vecchie città siderurgiche dell’est, le fattorie cadenti delle grandi pianure e le febbrili fabbriche d’automobili a Detroit. Tutti questi fattori soffocarono la fiducia nel mondo degli affari e la domanda da parte dei consumatori, comprimendo i profitti e scoraggiando gli investimenti. Sul finire degli anni Venti si avevano già segni evidenti di una recessione immi­ nente, visto che la caduta dei prezzi con­ tinuava mentre aumentava la disoccupa­ zione. In Germania il declino iniziò nel 1928, e nella primavera dell’anno seguen­ te, sei mesi prima del grande crollo di Wall Street, si registravano già più di 2 milioni di disoccupati. Il crollo del mercato borsi­ stico americano ebbe l’effetto di scatenare il panico a livello mondiale, con la conse­ guenza di fare di una modesta recessio­ ne un crollo catastrofico, la peggiore crisi economica del secolo.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le cause dirette del grande crollo del 1929. Quindi spiega cosa comportò quest’ultimo evento e in cosa consistette.  b  Sottolinea con colori diversi le caratteristiche strutturali del mercato internazionale e l’impatto che ebbe su di esse la Grande Guerra. Quindi descrivi per iscritto gli effetti di quest’ultima sull’economia e sulla vita delle persone negli anni ’20.  c  Spiega perché l’autore definisce, nella parte finale del brano, il grande crollo come «una modesta recessione» che, in virtù di alcuni fattori, divenne la peggiore crisi economica del secolo.

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FARESTORIA LA SOCIETÀ AMERICANA DURANTE LA GRANDE CRISI DEL ’29

POLITICA

56 P. BRENDON CRISI ECONOMICA E CRISI

P. Brendon, Gli anni Trenta. Il decennio che sconvolse il mondo, Carocci, Roma 2002, pp. 706-8.

Lo storico britannico Piers Brendon (nato nel 1940) ha dedicato un volume alla storia degli anni ’30, dalla depressione economica alle fasi iniziali della seconda guerra mondiale. Nelle pagine che seguono, tratte dal capitolo conclusivo, si

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Il vecchio ordine liberale del mondo, che era stato seriamente compromesso dalla Prima guerra mondiale e ulteriormente minato dalla rivoluzione comunista in Russia, crollò definitivamente durante gli anni trenta. La depressione economica causò la rovina della Repubblica di Wei­ mar, portando Hitler al potere in Germa­ nia. Distrusse il già fragile consenso per l’internazionalismo e il parlamentarismo in Giappone, aprendo la porta ai milita­ risti. Indusse Mussolini ad andare alla ri­ cerca di un profitto interno tramite avven­ turose imprese all’estero. Finì di chiudere nel suo isolamento l’Unione Sovietica, che, pur affermando di essere immune alla crisi, lasciava morire di fame i suoi cittadini al fine di armare il socialismo in vista di uno scontro apparentemente ine­ vitabile con il fascismo, ovvero l’ultimo stadio di un capitalismo disperato e votato alla rovina. L’ostilità reciproca dei sistemi totalitari tra loro rivali, ognuno dei quali prometteva di trascendere e insieme com­ piere il cammino della Storia, ognuno dei quali polarizzava di conseguenza l’opinio­ ne pubblica del proprio paese, contribuì in gran parte a formare la caratteristica dominante del periodo. Prima del 1939, l’antagonismo tra quei sistemi trovò una memorabile espressione nella guerra civi­ le spagnola. Si trattò di una lotta nazionale che sembrò essere il preludio a una guerra mondiale; C. Day Lewis1 insieme a molti altri la considerarono «semplicemente il conflitto tra la luce e le tenebre». La grande depressione indebolì anche la forza e la fiducia in sé delle democra­ zie occidentali. La Gran Bretagna esperì un grave ammutinamento navale, dimo­ strazioni d’orientamento fascista e mani­ festazioni di protesta da parte dei disoc­ cupati. La Francia fu lacerata dalla più forte conflittualità sociale dai tempi della Comune di Parigi. Per scongiurare quella che minacciava di risolversi in una rivolu­ zione imminente, Roosevelt intraprese la realizzazione del programma federale di maggiore portata che la storia degli Stati

sofferma sulle conseguenze politiche e sociali della crisi economica. Pur rifiutando apertamente le spiegazioni più semplicistiche, l’autore mette in luce come il grave stato dell’economia e le drammatiche condizioni di disagio di ampi strati della società contribuirono in misura rilevante a far vacillare la fiducia nella democrazia. Alla crisi economica dunque si sovrappose, nel corso del decennio, una più generale crisi sociale e politica, che condusse il mondo di nuovo in guerra.

Uniti avesse mai visto in tempo di pace. Le altre nazioni risposero in modo diverso al disastro, che colpì maggiormente i paesi più poveri. Tutte le valute principali, però, abbandonarono alla fine la base aurea, detronizzando così il «vecchio idolo sacro dell’economia liberale». Per pareggiare i bilanci nazionali i governi abbandona­ rono le politiche liberistiche in favore del protezionismo. Le barriere doganali si trasformarono nell’equivalente economi­ co della Linea Maginot2. Al posto dell’i­ deale della cooperazione internazionale subentrarono aspre rivalità commerciali, accentuate da una serie di svalutazioni monetarie. In effetti, il commercio ces­ sò di essere una questione di vantaggi reciproci per tramutarsi in una sorta di sistema di vicendevole «rubamazzetto»3. Il nazionalismo economico si trasformò facilmente in aggressione politica. Il processo risultò inasprito dalle tan­ gibili ineguaglianze vigenti nell’ordine mondiale. Agli occhi di altre nazioni, po­ tenze imperiali come la Gran Bretagna e la Francia erano doppiamente avvan­ taggiate dal possedere fonti esclusive di materie prime nonché ampi mercati nei possedimenti coloniali per i loro prodotti industriali. Questo incoraggiò gli Stati co­ siddetti «non abbienti» a crearsi «sfere di prosperità» autonome, a dispetto di una Società delle Nazioni sempre più debo­ le. Il Giappone si annetté la Manciuria e cercò di conquistare la Cina, sfidando la posizione egemone della Gran Bretagna in Estremo Oriente. L’Italia s’impadronì dell’Etiopia e prese a mostrare i muscoli nel Mediterraneo il quale, una volta che Franco ebbe soggiogato la Spagna, sem­ brava ormai sul punto di trasformarsi in un grande lago fascista. La Germania occupò alcune strisce di territori confi­ nanti, contravvenendo tanto al Trattato di Locarno quanto alla Pace di Versailles e sconvolgendo così gli equilibri del potere in Europa. In realtà, la formazione di un asse agguerrito, ostile tanto alle demo­ crazie quanto al comunismo internazio­

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nale, presentava una chiara minaccia per l’intero equilibrio mondiale. L’America destabilizzò ulteriormente la situazione rifiutando di fare sentire il proprio peso a livello internazionale: Roosevelt non po­ teva fare molto, soprattutto per la ragione che gli occorreva l’appoggio interno de­ gli isolazionisti per implementare il New Deal. Nel frattempo, la grande depres­ sione aveva a tal punto demoralizzato i leader di Gran Bretagna e Francia che questi erano restii a mettere a repentaglio la ripresa economica tramite un aumen­ to della spesa negli armamenti. Essi si trovarono così ad adottare una condotta di pacificazione che si fece sempre più umiliante, particolarmente dopo aver perso un’occasione decisiva per fermare Mussolini nella questione dell’Etiopia. Seguendo la strategia contraria, Hitler ravvivò l’economia tedesca facendo del riarmo l’assoluta priorità del paese. La conclusione logica dell’autarchia4, quin­ di, non poteva essere che la guerra. Cordell Hull5 poteva benissimo avere ra­ gione, quando affermò che le guerre com­ merciali erano il germe delle guerre com­ battute con le armi. Indubbiamente la depressione mondiale acutizzò le animo­ sità nazionali. In larga misura, i movimenti politici degli anni trenta rappresentarono la cristallizzazione di una moltitudine di risentimenti personali, originatisi dalle ri­ strettezze economiche. Le grandi contro­ versie dell’epoca si formarono nel crogiolo d’innumerevoli ideali individuali forgiati sull’incudine della grande depressione. La guerra fu la continuazione della com­

1. Cecil Day Lewis (1904-1972), poeta e scrittore britannico. 2. Linea di fortificazioni costruita, negli anni ’30, dalla Francia a difesa del confine orientale. 3. Gioco di carte. 4. Autosufficienza economica. 5. Cordell Hull (1871-1955), politico statunitense, fu segretario di Stato dal 1933 al 1944.

petizione spietata con altri mezzi. Tutta­ via, essa non fu predeterminata dalla crisi economica (nonostante il presente tenda sempre a pensare che il passato dovesse necessariamente diventare ciò che è di­ ventato). È del tutto evidente che il «primo motore» della Seconda Guerra mondiale volle la deflagrazione del conflitto al fine di perseguire i propri scopi funesti: ven­ detta, Lebensraum6, genocidio e dominio mondiale. Il Führer era più interessato al sangue che al denaro; egli disprezzava i «proiettili d’argento» di Chamberlain7, e li apprezzava soltanto per il fatto che gli avrebbero consentito di comprare proiet­ tili di piombo. Per Hitler la depressione economica rappresentò un bruciante mo­ tivo di malcontento popolare da sfruttare

NOMADI

politicamente, così come un’occasione d’oro per dimostrare che con i manganelli si poteva ridurre la disoccupazione e che i campi di concentramento potevano im­ pedire l’aumento dell’inflazione. Forte del fatto che i suoi metodi avevano rivelato una certa efficacia, egli affermò di avere rinvigorito la Germania grazie a un’ecce­ zionale forza di volontà. La rivendicazione di quei meriti, pur ampiamente esagerata, acquistò nondimeno largo credito. Esat­ tamente come i primi «cento giorni» del New Deal avevano di fatto garantito a Ro­ osevelt la presidenza a vita, la presuppo­ sta sconfitta della grande depressione da parte di Hitler aumentò a tal punto il suo prestigio da renderlo praticamente inat­ taccabile in Germania.

57d JOHN STEINBECK L’ITINERARIO DEI POPOLI

J. Steinbeck, Furore, Bompiani, Milano 1979, pp. 131-35.

Negli anni più difficili della grande crisi, decine di migliaia di contadini e braccianti abbandonarono le terre delle regioni centrali degli Stati Uniti per emigrare verso la California. Vittime della recessione economica, della disoccupazione e della meccanizzazione dell’agricoltura, caricarono tutti i loro averi su autocarri e automobili e cominciarono un lungo esodo verso quella che consideravano una “terra promessa”, percorrendo L’arteria 66 è il grande itinerario dei popo­ li nomadi. Infinito nastro d’asfalto gettato sul continente per allacciare regioni grigie e regioni rosse, si adatta a tutte le pieghe del terreno, serpeggia su pei fianchi delle catene montane, valica i crinali e si preci­ pita in basso nel terribile deserto, divora il deserto e si lancia all’assalto di altre mon­ tagne, le conquista e irrompe nelle ricche vallate della California. L’arteria 66 è il calvario dei popoli in fuga, di gente che migra per salvarsi dalla polve­ re e dall’isterilimento della terra, dal rom­ bo della trattrice e dall’avarizia dei latifon­ disti, dai venti devastatori che nascono nel Texas e dalle inondazioni che invece d’ar­ ricchire il suolo lo defraudano della poca ricchezza che ancora possiede. Son questi i malanni che i nomadi fuggono confluen­ do da ogni dove per strade secondarie e tratturi1 e sentieri sull’arteria 66, la strada maestra, la direttrice di fuga. [...] I profughi sciamavano sulla 66 in auto­ mobili isolate, talora, ma più spesso rag­

6. Spazio vitale. 7. Arthur Neville Chamberlain (1869-1940), primo ministro britannico. Per “proiettili d’argento” si intendono le offerte economiche della Gran Bretagna.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia le conseguenze della depressione economica.  b  Spiega perché «Le barriere doganali si trasformarono nell’equivalente economico della linea Maginot» e perché la conclusione logica dell’autarchia non poteva essere che una, spiegando quale fu.  c  Spiega il significato dell’espressione «il “primo motore” della Seconda Guerra mondiale» e cerchia gli obiettivi che intendeva raggiungere.

la principale arteria stradale (la Route 66) che collegava Chicago alla costa californiana. Le attese e le illusioni di queste famiglie, che speravano di poter trovare lavoro e benessere in California, sono state raccontate con grande efficacia dallo scrittore statunitense John Steinbeck (1902-1968) in un famoso romanzo, Furore, pubblicato nel 1939. In queste pagine Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, descrive le difficoltà dell’estenuante viaggio, affrontato con mezzi di fortuna e in ambienti ostili a chi emigrava. Dal romanzo fu tratto, nel 1940, un celebre film di John Ford.

gruppate in carovane. Durante il giorno intero rotolavano adagio, e a sera sosta­ vano vicino all’acqua. Durante il giorno interi radiatori sconquassati eruttavano getti di vapore, e bielle2 matte martella­ vano e ponzavano3 instancabilmente. E i conducenti degli autocarri e delle vetture sovraccariche ascoltavano intenti e pieni di apprensione i rumori sospetti. Che di­ stanza di qui all’abitato? Nei tratti lunghi tra un luogo abitato e un altro imperava il terrore. Se capita un guasto? Be’, se ca­ pita un guasto si fa tappa dove si è, e Jim fa una corsa fin nel più vicino luogo abi­ tato e torna col pezzo di ricambio... ma da mangiare ce n’è? Per quanti giorni? Orecchio al motore. Orecchio alle ruote. Ma ascoltare oltre che con gli orecchi, con le mani sul volante, ascoltare con la palma posata sulla leva del cambio, e con le piante dei piedi che premono i pedali. Con tutti i sensi vigilare: un mutamen­ to di tono, una variazione di ritmo può significare, quanto? tre giorni, una setti­

mana, forse più, di sosta obbligatoria nel più completo isolamento. Quello? Bah, solo un pistone che batte in testa, non fa nessun male; ma quell’altro stridore piut­ tosto, lo senti?, quello sì mi fa paura, può esser la distribuzione dell’olio; forse una bronzina4 logora. Dio, se è una bronzina cosa si fa? I soldi vanno ch’è un piacere. E perché scalda così, oggi, quel bastardo d’un radiatore? Non s’è in salita. Vado a dare un’occhiata. Puttana della miseria, saltata la cinghia del ventilatore. Qua, Jim, facciamo una cinghia con questo pezzo di corda. Misuriamo la lunghezza... così. Ora aggiuntare i due capi. Mah, mi sa che non regge per molto. Se si va piano, pianissi­ 1. Sentieri naturali tracciati dalle greggi. 2. Parti del motore che trasformano il movimento rettilineo alternativo di uno stantuffo in movimento rotatorio dell’albero. 3. Spingevano con sforzo. 4. Cuscinetto di bronzo o di lega metallica che guarnisce i perni degli alberi rotanti.

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FARESTORIA LA SOCIETÀ AMERICANA DURANTE LA GRANDE CRISI DEL ’29

mo, probabile che si riesca ad arrivare fino al prossimo paese. Oh, se solo ce la facessimo ad arrivare in California, dove ci sono tutti quegli aranci, con questa vecchia carretta, prima che si sfasci del tutto! Se solo ce la facessimo! E i copertoni. Due strati di tela già consu­ mati; e son quattro strati soli, in questo tipo. Attento a scansare i sassi, dannazione, se vogliamo fare i centocinquanta chilometri di qui al rifornimento. Che dici, conviene tirare avanti e fare tutti quei chilometri e rischiare di far scoppiare la camera d’aria? Cosa? Centocinquanta chilometri, c’è pro­ prio da stare allegri. Tutte rattoppate quel­ le camere d’aria della malora! Capace che appena ci si muove, scoppia. Perché non la cambiamo subito? No, si possono far altri sette ottocento chilometri. Meglio andare avanti finché scoppia. Cer­ to è che i copertoni bisogna cambiarli, se non tutti almeno uno. Solo che ti chiedono una valanga di quattrini, ti squadrano da capo a piedi, e vedono subito che devi tirar avanti a ogni costo, che non puoi aspettare, e ti chiedono un occhio della testa. Prendere o lasciare, caro voi. Son mica qui per ordine del medico. Le gomme io le vendo, mica le do via. Mica posso far­ ci niente se vi capitano questi guai. Ho da pensare agli affari miei, io. Quanto c’è di qui al prossimo rifornimen­ to? Ieri ho contato fino a quarantadue auto­ carri del genere del vostro qui. Da dove diavolo venite tutti? E dov’è che ve ne an­ date? Ah, la California è grande, certo, ma se cre­ dete ci sia posto per tutti sbagliate. Se cre­ dete ci sia posto per ricchi e poveri, grassi e magri, galantuomini e delinquenti, sba­ gliate di grosso. Perché non ve ne tornate a casa vostra? Ma questo è un paese libero e uno non può forse andare dove gli pare e piace? Già, questo è quanto credete voi. Mai sen­ tito parlare della guardia di frontiera ai



confini della California? Della polizia di Los Angeles? Vi fermano, sapete; son ca­ paci di farvi tornare indietro. Vi chiedono la licenza di guida, e se non l’avete, se l’ave­ te persa, non vi ci vogliono. Se non siete in grado di comperare terreni, vi dicono, non vi ci vogliamo. Un paese libero! Certo lo è, ma solo per chi può pagarsela, la libertà. Però le paghe son alte. C’è scritto qui sul volantino della propaganda. Buggerate5. Ne ho visti parecchi, tornare indietro, e ho le mie idee sulle paghe alte della California. Comunque, il copertone lo prendete o no? Per forza lo devo prendere, ma, signore, mi portate via tutto quel che ho. Mi resta quasi niente. Eh, questo è mica un istituto di beneficen­ za. Salute a voi e buon viaggio. Un momento, un momento, fatelo vedere. Figlio d’un cane! E questo strappo, largo come la mia mano? Strappo, dove? To’, non l’avevo visto. Ah, non l’avevate visto, eh? Sicuro, non l’a­ veva visto, l’imbroglione! Ma i miei quattro dollari, quelli volevate vederli, eh? Merite­ reste che vi spaccassi il muso. Ohilà, badate come parlate, sapete. Vi ri­ peto che non l’avevo visto. Vuol dire che ve lo do a meno, ve lo do a tre e cinquanta. Ma va’ al diavolo! Vieni via, Jim, si va al prossimo rifornimento. Con quel copertone? Non ce la facciamo. Andiamo, andiamo. A costo d’andare sul cerchione, pur di non dare una lira a quel figlio di puttana. Farabutti tutti dal primo all’ultimo! Assi­ stenza Automobilistica. Ottima Accoglien­ za ai Viaggiatori. Servizio Di Tutto Punto a Macchine e Persone. Tutti ladri. L’essen­ ziale per loro è rubare. Ma se io rubo un copertone mi metton dentro, mentre se lui mi ruba i quattro dollari è un uomo che sa fare i suoi affari. Girala come vuoi, fregati siamo sempre noi. Il piccolo ha sete. C’è modo d’avere un bic­ chiere d’acqua?

58 A. TESTI ROOSEVELT E IL NEW DEAL

A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2008, pp. 134-39.

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In questo brano, lo storico Arnaldo Testi (nato nel 1947) analizza le due fasi del programma economico e sociale di ­Roosevelt: la prima, avviata nel 1933, immediatamente dopo la sua elezione

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

Qui no, bisogna aspettare. Maledizione! È partita! Era inevitabile. Be’, rattoppiamo; non c’è altro da fare. Vetture e autocarri fermi, cofani alzati, gomme a terra. Bruchi feriti striscianti sul­ la 66 a venti chilometri l’ora, ansanti, tra­ ballanti, radiatori bollenti, bielle ubriache, bronzine logore, carrozzerie rumorose. Il piccolo vuole un bicchier d’acqua. I profughi confluiscono sulla 66 e il nastro d’asfalto splende nel sole come uno spec­ chio. Duecentocinquantamila sventurati sulla strada. Cinquantamila decrepiti ca­ tenacci, feriti, fumanti. Relitti, macchine abbandonate lungo il cammino, macchi­ ne morte. Che ne sarà dei loro passegge­ ri? Avranno continuato il viaggio a piedi? Dove saranno ora? Dove avranno trovato il coraggio di proseguire? Dove la fede? E c’è una storiella che pare incredibile, ma è vera. È divertente, e bella. C’era una fami­ glia di dodici, sfrattata dalla trattrice. Non poteva comprarsi l’automobile. Han cari­ cato la roba sul carro, han tirato o spinto a braccia il carro sulla 66, si sono arrampi­ cati tutti e dodici in cima al carico, e han­ no aspettato. Passa una berlina, e li piglia a rimorchio, e in quattro salti li porta fino in California. Il padrone della berlina badò lui alle spese di mantenimento di tutta la famiglia durante il viaggio. È storia vera, e riconforta. Perché risolleva la nostra fiducia nella carità umana. 5. Stupidaggini, frottole. METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea in rosso le tipologie di persone che percorrevano l’arteria 66 e con un altro colore i motivi che le spingevano a farlo.  b Evidenzia le emozioni che provavano coloro che percorrevano la strada e spiega cosa le sollecitava.  c  Rispondi alle seguenti domande: a. Fra chi avviene il dialogo riportato nel brano? b. Quali sono i suoi contenuti? c. È un dialogo reale? Quindi inventa un titolo.

a presidente degli Stati Uniti, non ebbe però i risultati sperati e spinse il governo a mettere in atto un «secondo New Deal», a partire dal 1935, dal carattere più incisivo. Roosevelt ricevette un ampio consenso per quanto stava facendo, soprattutto tra le classi operaie e le fasce più deboli della popolazione, tanto da essere rieletto presidente, a grande maggioranza, nel 1936.

Nel discorso di insediamento del 4 mar­ zo 1933, Roosevelt lanciò alcuni mes­ saggi cruciali che definirono la sua pre­ sidenza sia sul piano sostanziale che su quello retorico. In primo luogo, dopo aver denunciato gli egoismi economici privati e le inazioni delle amministrazio­ ni repubblicane, che a suo dire avevano messo il paese in ginocchio, propose che il governo federale si assumesse nuove e più dirette responsabilità per il benes­ sere pubblico. In secondo luogo, si disse pronto a raccomandare al Congresso le misure necessarie perché ciò avvenisse e, qualora il potere legislativo non avesse risposto con rapidità, a esercitare la più ampia autorità che la Costituzione at­ tribuisce al potere esecutivo in tempi di emergenza. Infine, intrecciò con effica­ cia la retorica dell’emergenza immediata e della speranza nel futuro per chiedere agli americani di raccogliersi dietro la sua leadership, far fronte alle difficoltà ed esorcizzare la paura. «La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa – il terrore senza nome, irragio­ nevole, ingiustificato che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in una nuova avanzata», proclamò. «Que­ sta grande nazione sopporterà come ha già sopportato, rinascerà e prospererà». E tuttavia «dobbiamo agire e agire in fretta». Roosevelt mise la sua carica e la sua persona al centro dell’azione, un’a­ zione che paragonò a quella necessaria in una guerra, come «se fossimo invasi dallo straniero». «Assumo senza alcuna esitazione il comando di questo grande esercito formato dalla nostra popolazio­ ne che ha per obiettivo un attacco disci­ plinato ai nostri problemi comuni». E scommise sulla vitalità democratica del paese. «Noi non abbiamo sfiducia nel futuro della vera democrazia. Il popolo degli Stati Uniti non ha fallito». Quest’ul­ timo richiamo non era di routine nei giorni in cui, travolta dalla crisi e paraliz­ zata dalla paura, la Germania si affidava alla dittatura nazista. Fu l’azione vigorosa e incalzante del presidente a indirizzare l’intensa attivi­ tà legislativa dei mesi successivi, in una sessione speciale del Congresso passata alla storia come «i primi cento giorni». Aiutato da un gruppo di collaboratori estranei ai soliti circoli di governo (pro­ fessori universitari, assistenti sociali e avvocati noti come i newdealers o il brain trust, il «trust dei cervelli»), Roosevelt

propose rimedi a raffica per i mali del paese. E deputati e senatori, ubbidienti, approvarono. A parte la determinazione e la voglia di sperimentare, non c’era un principio ispiratore unico e coerente in questi rimedi. I newdealers volevano con urgenza la ripresa economica e il ritorno alla prosperità ma anche, in prospetti­ va, la riforma di alcune delle strutture portanti del sistema economico-socia­ le; e non sempre fra ripresa e riforma c’era una facile compatibilità. Volevano aiutare gli industriali e gli agricoltori af­ flitti dalla sovrapproduzione, ma anche gli strati popolari piegati all’indigenza, mentre il caos sociale stava diventan­ do un problema politico, con scioperi nelle campagne e nelle città, nuovi atti­ vismi sindacali, scontri fra polizia e di­ soccupati, marce della fame, disordini razziali. Intuivano che una politica di aumento della spesa pubblica, di lavori pubblici e di sussidi di assistenza pote­ va creare lavoro e stimolare i consumi e quindi far bene all’economia e alla pace sociale; e però temevano (Roosevelt so­ prattutto temeva) che spendere troppo non facesse bene al bilancio dello stato. I newdealers, infine, avevano una visio­ ne nazionale dei problemi, e tuttavia do­ vevano cercare soluzioni in un contesto politico-amministrativo che era federale e decentrato; l’iniziativa poteva essere di Washington, ma poi molte competenze passavano ai singoli stati. Fra tutte que­ ste contraddizioni cercarono di destreg­ giarsi con immaginazione e con gusto per il bricolage. Nella primavera del 1933, dunque, il governo si impegnò freneticamente ad affrontare l’emergenza. Riordinò le ope­ razioni bancarie e borsistiche, per au­ mentarne l’efficienza, la trasparenza e l’affidabilità pubblica. Rafforzò le ispe­ zioni sugli istituti di credito, assicurò i depositi dei risparmiatori contro i rischi di fallimento, fornì prestiti agevolati alle famiglie. Rafforzò i controlli sulla borsa che poi, nel 1934, furono affidati a una specifica commissione indipendente, la Securities and Exchange Commis­ sion (SEC). Per alleviare la disoccupa­ zione, aiutò gli stati a finanziare i loro programmi di assistenza tramite la Fe­ deral Emergency Relief Administration (FERA), e i loro progetti di lavori pubbli­ ci tramite la Public Works Administra­ tion (PWA). Avviò programmi di lavori pubblici gestiti a livello federale tramite

la Civil Works Administration (CWA), che ebbe vita breve, e i Civilian Conser­ vation Corps (CCC), che per anni impie­ garono centinaia di migliaia di giovani in opere di conservazione delle risorse na­ turali nelle foreste e nei parchi del paese. Con la legge per la ripresa industriale istituì una National Recovery Admini­ stration (NRA) che promosse accordi fra gli imprenditori per regolare il mercato, sospendere la legislazione antitrust, li­ mitare la produzione, rialzare i prezzi e garantire qualche profitto; gli accordi o «codici di concorrenza leale» erano ne­ goziati dagli imprenditori stessi sotto la supervisione del governo. Con la legge per la ripresa dell’agricoltura, infine, il governo istituì l’Agricultural Adjustment Administration (AAA) che, con la stessa filosofia della NRA incentivò i farmers1 ad accordarsi per produrre di meno, smaltire i surplus e ottenere prezzi mi­ gliori per i loro prodotti. Gli incentivi consistevano in sussidi monetari a colo­ ro che avessero escluso dalla coltivazio­ ne parte dei loro terreni. Quell’anno era troppo tardi per farlo, e allora si ricorse a metodi più spicci: parte dei raccolti fu distrutta. Improvvisamente gli americani diven­ nero familiari con il proliferare di nuovi enti amministrativi designati con sigle, una «zuppa alfabetica» che sembrava indicare una volontà di pianificazio­ ne economica e sociale dall’alto. [...] I programmi d’emergenza del 1933 pro­ dussero molta eccitazione ma non i risultati sperati. La ripresa economica fu modesta, la disoccupazione diminuì di poco. Inoltre l’AAA e la NRA furono dichiarate incostituzionali dalla Corte suprema, e solo la prima fu poi modifi­ cata e mantenuta in vita; la NRA fu in­ vece lasciata morire. Di fronte a questi fallimenti, nell’estate del 1935 ci fu una nuova ondata di interventi legislativi che gli storici hanno chiamato «secon­ do New Deal». Questa volta le preoccu­ pazioni riformatrici furono prevalenti. Il governo rilanciò i lavori pubblici con la Work Progress Administration (WPA), che impiegò milioni di persone nella costruzione di scuole, strade e ospeda­ li. Costruì case popolari a basso costo e portò l’elettricità nelle aree rurali più

1. Agricoltori, fattori.

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FARESTORIA LA SOCIETÀ AMERICANA DURANTE LA GRANDE CRISI DEL ’29

isolate. Ma soprattutto mise mano a im­ portanti innovazioni strutturali. Il Ban­ king Act aumentò il controllo pubblico sulla politica monetaria, affidando la direzione del Federal Reserve System, la banca centrale creata nel 1913, a un consiglio d’amministrazione e a un chairman2 di nomina presidenziale. Il Revenue Act rese più progressiva l’im­ posta personale sul reddito, facendo pa­ gare di più i contribuenti ricchi. Il Social Security Act istituì un sistema naziona­ le di assegni di disoccupazione, gestito dagli stati con il contributo federale, e un sistema di pensioni di vecchiaia ge­ stito direttamente da una Social Securi­ ty Administration [...]. Istituì inoltre, in cogestione con gli stati, un programma di assistenza alle famiglie bisognose e agli anziani indigenti, pagato con i sol­ di di tutti. Il National Labor Relations Act, infine, riconobbe definitivamente il diritto dei sindacati a organizzarsi e a contrattare collettivamente con i datori di lavoro. [...] Le riforme del 1935 segnarono una svol­ ta verso politiche sociali stabili e di largo respiro, che furono il tema principale della campagna elettorale presidenziale dell’anno successivo. Roosevelt le dife­ se con determinazione come strumenti democratici per dare potere al popolo e toglierlo agli interessi privati, ai «monar­

chi dell’economia» e alla loro «dittatura industriale». In effetti definì tutta la sua attività di governo un tentativo di salvare il capitalismo e la democrazia dalle loro degenerazioni e cioè, rispettivamente, l’egoismo classista dei ricchi e l’anar­ chia sovversiva dei popoli. Sostenne che l’intervento pubblico per regolare l’eco­ nomia e promuovere la giustizia sociale era necessario al buon funzionamento delle libere istituzioni. In questo senso si presentò come un conservatore. «Il vero conservatore», disse, «cerca di pro­ teggere il sistema della proprietà priva­ ta e della libera iniziativa correggendo, quando ne emergono, le ingiustizie e le disuguaglianze. La minaccia più seria alle nostre istituzioni viene da coloro che rifiutano di prendere in considera­ zione il bisogno di cambiamento. Il libe­ ralismo riformista diviene la protezione dei conservatori lungimiranti». E con­ cluse: «Io sono quel tipo di conservatore perché sono quel tipo di liberale». Nel novembre 1936 il presidente vinse la sua battaglia e fu rieletto. Seppellì il suo av­ versario, il repubblicano Alfred M. Lan­ don, sotto una valanga di voti, 28 milioni contro 17 milioni, il 61% contro il 37%; e trainò i democratici a migliorare le mag­ gioranze di cui già godevano in Con­ gresso. Riuscì persino a portare alle urne nuovi elettori, facendo lievitare la parte­

cipazione elettorale al 61% degli aventi diritto. Conquistò il consenso di farmers e professionisti urbani, di impiegati del ceto medio e lavoratori dell’industria. In particolare, questa fu l’elezione con la massima polarizzazione di classe della storia del paese: la classe operaia votò in massa democratico, il business3 votò repubblicano. 2. Chi svolge la funzione di presidente di un’assemblea o di un consiglio. 3. Il mondo degli affari e della finanza.

METODO DI STUDIO

 a  Individua i messaggi principali del discorso di insediamento di Roosevelt e rendili riconoscibili attraverso dei titoli che scriverai vicino al testo.  b  Quali sono i valori proposti dal nuovo presidente? Rispondi facendo riferimento alle parti del suo discorso.  c  Individua le fasi del programma economico e sociale di Roosevelt e rendile riconoscibili con dei segni a margine del testo. Quindi sintetizza per ognuno di essi gli eventi rilevanti e le azioni intraprese dal presidente e i relativi risultati.

PISTE DI LAVORO

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DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti mettendo in rilievo l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra essa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo descrittivo di circa 30 righe sulla crisi economica degli anni ’30, di cui inventerai il titolo mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di citare opportunamente i brani.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Dopo aver letto i brani del percorso storiografico, cerca di individuare la lettura storiografica proposta dagli storici selezionati sulle cause della crisi degli anni ’30 e riassumila in un testo di circa 20 righe. Prima di scrivere, indica sul quaderno per ogni brano la tesi storiografica dell’autore aiutandoti con il contenuto dei cappelli introduttivi. Quindi, costruisci il tuo testo citando opportunamente gli autori a cui fai riferimento.

DUE REGIMI TOTALITARI: NAZISMO E STALINISMO Il termine “totalitarismo” fu coniato e usato per la prima volta in Italia in riferimento al fascismo. I maggiori studiosi di questo fenomeno, nel secondo dopoguerra, hanno però usato la categoria soprattutto per descrivere la realtà dei due regimi in cui il sistema si sarebbe sviluppato in forma più compiuta: l’Unione Sovietica di Stalin e la Germania di Hitler, ai quali sono dedicati i brani di questa sezione. Nel primo, Enzo Traverso [►59] riprende il dibattito storiografico sul concetto di totalitarismo per mettere in evidenza aspetti comuni e differenze tra stalinismo e nazismo. Tzvetan Todorov [►60] riflette invece sulla capacità da parte dei regimi totalitari di ottenere consenso tra la popolazione: grazie alla carica utopica presente nell’ideologia che li caratterizzava, quei regimi seppero dare risposte più immediate rispetto ai governi democratici, in un periodo di crisi economica, politica e sociale. Anche tenendo conto di questa caratteristica è possibile spiegare il consenso riservato dal popolo tedesco al nazismo negli anni ’30, come risulta dal testo di Peter Fritzsche [►61]. In una suggestiva testimonianza tratta dalle pagine del suo diario, Victor Klemperer [►62d] racconta le divisioni e le paure provocate dalla salita al governo di Adolf Hitler, seguita immediatamente dai primi provvedimenti liberticidi, repressivi e antisemiti. Sempre al Terzo Reich è dedicato il brano successivo, nel quale Norbert Frei [►63] analizza le caratteristiche dello Stato nazista: una particolare attenzione è prestata al ruolo dell’apparato poliziesco del Partito nazionalsocialista, soprattutto delle SS. Proprio l’uso indiscriminato della violenza a fini repressivi, tratto distintivo dei regimi totalitari, è un aspetto centrale nell’altro totalitarismo novecentesco: lo stalinismo. Il brano di Nicolas Werth [►64] chiarisce in cosa consista la fase, durata due anni (1937-38), nota come «Grande Terrore», durante la quale, in pochi mesi, vennero messi in atto processi pubblici e operazioni segrete di massa ai danni di centinaia di migliaia di dissidenti politici, dirigenti di partito, ma anche semplici cittadini considerati «nemici del popolo». Infine, la testimonianza di Aleksandr Solženicyn [►65d] illustra il funzionamento della repressione staliniana, basata sul famigerato «articolo 58» del Codice penale sovietico.



59 E. TRAVERSO TOTALITARISMI A CONFRONTO

E. Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 159-63.

Nel brano seguente, tratto da un volume nel quale viene ricostruito il dibattito storico e politico sul concetto di “totalitarismo”, lo storico Enzo Traverso (nato nel 1957) analizza le differenze tra lo stalinismo e il nazismo. L’autore riflette in parIl Novecento, ha scritto Hanna Arendt1, ha svelato tutti i limiti della vecchia de­ finizione del dispotismo data da Mon­ tesquieu – un potere arbitrario fondato sulla paura (De l’esprit des lois, III, IX) – decisamente inadatta o quanto meno insufficiente a cogliere l’associazione di ideologia e terrore che caratterizza le tirannie moderne. Il concetto di totali­ tarismo cerca di colmare questa lacuna del vocabolario politico classico. In que­ sto senso, risponde a un’esigenza che lo giustifica e lo legittima. Altro è sapere se questo «idealtipo»2 basta a rendere conto della complessità delle realtà storiche che descrive. Bisogna infatti riconoscere che, nel corso del secolo, esso è stato usato per­ lopiù come contenitore e passe-partout teso soprattutto a schivare la «complica­ zione» rappresentata da ogni singolo tota­

ticolare sui limiti e i rischi che nasconde l’uso della categoria di “totalitarismo” per spiegare questi due fenomeni: se infatti entrambi presentano alcuni elementi comuni (l’ideologia di Stato, la violenza repressiva, il ruolo del partito unico), molto importanti rimangono anche le differenze, di cui bisogna tenere conto se si vuole comprendere in pieno la complessità di queste due esperienze politiche.

litarismo in quanto «fatto sociale totale». [...] La tendenza dominante è stata quella di ridurlo a una serie di “tratti collaterali”: partito unico, dittatore assoluto, ideologia di Stato, monopolio dei media e dei mezzi di coercizione, terrore ed economia piani­ ficata. Questa definizione si adatta, dosan­ do in modo diverso i vari elementi, sia alla Germania nazista sia alla Russia di Stalin, ma si limita a una descrizione delle loro forme esteriori che ignora superbamente la loro genesi, il loro contenuto sociale, la loro evoluzione e i loro obiettivi. In al­ tri termini evita di fare i conti con alcune differenze essenziali che separano stalini­ smo e nazismo: uno nato da una rivoluzio­ ne, l’altro giunto al potere per via elettora­ le, approfittando dei calcoli sbagliati delle élite tradizionali e trasformatosi poi in regime attraverso una “rivoluzione dall’al­

to”; uno ­crollato dopo un’esistenza di vari decenni, tra un’ef­fimera fase rivoluzio­ naria e un lungo declino post-totalitario, l’altro radicalizzato fino alla sua caduta, a conclusione di una guerra che metteva fine a una parabola di appena dodici anni; uno fondato su un’economia collettiviz­ zata, instaurata grazie all’espropriazione delle vecchie classi dominanti, l’altro sorto sulle basi del capitalismo, sostenuto dalle

1. Hannah Arendt (1906-1975), filosofa e storica tedesca di origini ebraiche, emigrata per motivi razziali negli Stati Uniti negli anni ’30, autrice del libro Le origini del totalitarismo (1951). 2. Rappresentazione ideale che definisce un fenomeno storico con caratteristiche tipiche e che serve a comprendere la realtà.

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FARESTORIA DUE REGIMI TOTALITARI: Nazismo e stalinismo

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élite tradizionali e dai grandi monopoli industriali (un’economia per la quale si può parlare di “pianificazione”, fino a un certo punto, soltanto durante gli anni del­ la guerra); uno sbandierante una filosofia emancipatrice, universalista e umanista – poco importa, per il momento, sapere con quale legittimità e a prezzo di quali distor­ sioni dogmatiche –, l’altro fiero della sua Weltanschauung3 nazionalista, biologica e razziale. Altre differenze vanno sottoline­ ate. Il carisma di Stalin non attingeva alle stesse fonti di quello di Hitler o Mussolini. Si fondava sullo stretto controllo dell’ap­ parato di uno Stato-partito, nell’ambito di un regime nato da una rivoluzione in cui il militante georgiano aveva svolto un ruolo marginale e che sopravviverà alla sua morte. [...] Egli non era né uno scrit­ tore né un oratore, era un uomo dell’om­ bra, incarnazione e frutto di un apparato. Il potere di Hitler e Mussolini, al contrario, rispecchiava un carisma nel senso webe­ riano del termine4, quello di un capo che ha bisogno del contatto con la massa, alla quale appare come un uomo di qualità eccezionali, “chiamato dal destino”. Non è affatto casuale se i regimi fascista e nazista nascono e muoiono con i loro capi, men­ tre il sistema sovietico sopravvive quasi quarant’anni alla morte di Stalin. Il terrore, infine, presenta caratteristiche profondamente diverse nei due sistemi. La violenza dello stalinismo si esercitava contro dei cittadini sovietici, i quali costi­ tuivano la quasi totalità delle sue vittime. Esso aveva una duplice natura, sociale e politica, tesa a trasformare in modo au­ toritario le strutture socio-economiche del paese (l’industrializzazione e la col­ lettivizzazione delle campagne) e ad in­ quadrare la società civile per mezzo della repressione. All’apogeo dello stalinismo, ogni cittadino sovietico costituiva un ber­ saglio potenziale della Nkvd5, ed erano dei sovietici (tra i quali una maggioranza di russi) i quindici milioni di zek6 che, tra il 1930 e il 19537, hanno formato la popola­ zione dei campi, sottomessi a condizioni di lavoro di tipo schiavistico. Ben diverso è il caso delle vittime del nazismo, che ad eccezione di una minoranza di opposi­ tori, erano dei “non ariani”. Per i tedeschi che non svolgevano un’attività clandesti­ na di resistenza e che non appartenevano a una categoria di Gemeinschaftsfremde8 (innanzitutto gli ebrei, ma anche gli omosessuali, gli zingari, gli handicappati e altri gruppi “fuori norma”), la vita sotto il Terzo Reich non era messa in pericolo. In Urss, il terrore stalinista nasceva da una

vera e propria guerra scatenata dal potere contro la società tradizionale allo scopo di trasformare il paese, con metodi estre­ mamente violenti, in una grande potenza industriale. Questa violenza ha spezzato e disarticolato il corpo sociale, in partico­ lare all’epoca della collettivizzazione delle campagne, attaccando uno dei pilastri se­ colari della società russa: i contadini (l’a­ ristocrazia era già stata distrutta nel 1917, come pure gli strati borghesi). Il terrore nazista, all’opposto, era quello di un regi­ me che non metterà mai in discussione le potenti élite fondiarie, industriali e militari della Germania. Era un terrore proietta­ to verso l’esterno. A partire dal 1939 sarà la violenza di una guerra per la conquista dello “spazio vitale” e per la distruzione del “giudeo-bolscevismo”, due obiettivi che si tradurranno nel tentativo di distruggere l’Urss, di colonizzare il mondo slavo e nel genocidio degli ebrei. Qualitativamente diversa era anche la natura che caratte­ rizzava i due regimi. I campi di sterminio, riservati alle “razze” come gli ebrei e gli zingari, rimangono una peculiarità del nazionalsocialismo. Per quanto la morte segnasse profondamente l’universo con­ centrazionario russo, essa ne era un sottoprodotto e non, come nei campi di ster­ minio nazisti, la sua finalità immediata. Il gulag possedeva una certa razionalità economica che si ritrova in parte, nel Terzo Reich, soprattutto a partire dal 1941, nella vasta rete di campi riservati ai prigionieri di guerra, ma che era del tutto assente nei campi di sterminio come Majdanek e Au­ schwitz-Birkenau. Privi di ogni funzione produttiva o militare, questi ultimi erano, letteralmente, delle fabbriche di morte. Lo sterminio fine a se stesso, ecco un tratto essenziale del nazionalsocialismo inesi­ stente nello stalinismo. Nel corso di una ventina d’anni, tra il 1934 e il 1953, il siste­ ma concentrazionario sovietico ha accolto all’incirca quindici milioni di deportati, di cui almeno due milioni non usciranno vivi. L’organizzazione dei campi nazisti ha avuto una durata molto più breve e ha toc­ cato un numero più limitato di deportati, ma le sue conseguenze omicide sono state ben più intense. Nel gulag il tasso di mor­ talità era del 2,5% nel 1936 e del 18,4% nel 1942, al suo apogeo; in quello stesso anno, esso era del 60% nell’insieme dei campi nazisti. [...] Lager nazisti e gulag stalinisti fanno parte di uno stesso fenomeno con­ centrazionario, vasto e differenziato, tipico del Novecento. Essi condividono, sotto for­ me e in misure diverse, uno stesso sbocco criminale che ne fa dei luoghi di umilia­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

zione e annientamento della vita umana. Il loro rapporto con la modernità non era tuttavia lo stesso, cosa forse secondaria sul piano etico, ma certo non irrilevante da un punto di vista storico. Il nazionalsociali­ smo si caratterizzava per l’irrazionalità dei suoi fini e la razionalità dei mezzi impie­ gati per raggiungerli; tutto il suo percorso può essere interpretato come un titanico sforzo di piegare la razionalità strumentale (tecnica, amministrativa, industriale) delle società moderne a un progetto di rimo­ dellamento biologico dell’umanità. In una parola, i campi di sterminio rappresenta­ vano l’unione del contro-illuminismo con la tecnica moderna, nella forma di un mil­ lenarismo secolarizzato e rivisitato attra­ verso le categorie del darwinismo sociale e del razzismo biologico. [...] Lo stalinismo si caratterizzava piuttosto per l’irrazionalità dei mezzi che usava per raggiungere degli obiettivi non privi di razionalità. Riabilita­ va su scala di massa il dispotismo agrario, il lavoro schiavistico, la repressione poli­ ziesca più indiscriminata e altre forme di coercizione allo scopo di modernizzare e industrializzare l’Urss. Lo Stato totalitario era lo strumento indispensabile di questo progetto. 3. Visione del mondo. 4. Legato cioè alle teorie del sociologo e storico tedesco Max Weber (1864-1920). 5. Il Commissariato del popolo per gli affari interni, ovvero il ministero dell’Interno dell’Urss e la polizia politica tra lo scioglimento della Gpu (1934) e la sua trasformazione in Kgb (1953). 6. Termine russo per definire i prigionieri nei Gulag. 7. Anno della morte di Stalin. 8. Non appartenenti alla comunità.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea gli elementi propri dei totalitarismi.  b  Realizza una tabella comparativa che metta in luce gli elementi comuni (quelli che l’autore definisce i «tratti collaterali») e le differenze tra nazismo e stalinismo.  c  Descrivi per iscritto la funzione del terrore e dei campi di sterminio nella Russia sovietica e nella Germania nazista.  d  Spiega per iscritto perché Lager nazisti e Gulag stalinisti fanno parte di uno stesso fenomeno tipico del ’900 e spiega e argomenta la seguente frase: «i campi di sterminio rappresentavano l’unione del contro-illuminismo con la tecnica moderna, nella forma di un millenarismo secolarizzato e rivisitato attraverso le categorie del darwinismo sociale e del razzismo biologico».

60 T. TODOROV DEMOCRAZIA E TOTALITARISMO



T. Todorov, Il secolo delle tenebre, in Storia, verità e giustizia. I crimini del XX secolo, a c. di M. Flores, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 1-3; 7-8.

Nato in Bulgaria ed emigrato in Francia nel 1963, Tzvetan Todorov (1939-2017) è stato innanzitutto un critico letterario e un teorico della letteratura, ma ha anche affrontato in alcune delle sue opere più importanti temi di grande rilievo storico e filosofico: dal difficile confronto fra culture diverse alle radici della violenza politica in età moderna e contempoIndividuare ciò che è stato più rilevan­ te nel secolo, ciò che permette dunque di costruirne il senso, dipende in parte dall’identità di ciascuno. Per un africano, per esempio, l’avvenimento politico de­ cisivo è sicuramente rappresentato dal­ la colonizzazione, in un secondo tempo dalla de-colonizzazione. Per un europeo – e io non mi occuperò in questa sede che del XX secolo europeo – la scelta è larga­ mente aperta. Alcuni affermerebbero che l’evento principale, nella lunga durata, è quel fenomeno che viene chiamato la «liberazione delle donne»: il loro ingres­ so nella vita pubblica, il raggiungimento del controllo sulla fecondità («la pillola») e, nello stesso tempo, la dilatazione dei valori tradizionalmente «femminili», ca­ ratteristici della sfera privata, alla vita di ambo i sessi. Altri potrebbero pensare che il senso del secolo sia determinato dalla drastica diminuzione della mortalità in­ fantile, dall’allungamento della vita nei paesi occidentali, dai rivolgimenti demo­ grafici. O ancora dai grandi avanzamenti della tecnica: controllo dell’energia ato­ mica, decifrazione del codice genetico, circolazione elettronica dell’informazio­ ne, televisione. Sono d’accordo con gli uni e con gli al­ tri, ma la mia esperienza personale non offre alcun chiarimento supplementare riguardo a tali tematiche; essa mi orien­ ta piuttosto verso una scelta differente. L’avvenimento centrale, per me, consiste nel manifestarsi di un male nuovo, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato su buo­ na parte del mondo; un regime che è at­ tualmente scomparso dall’Europa ma indubbiamente non dagli altri continenti, e i cui postumi continuano ad agire tra noi. Il XX secolo sarebbe dunque con­ trassegnato dalla lotta tra il totalitarismo e la democrazia o da quella fra le due ra­ mificazioni totalitarie. Non ricorderò in questa occasione i grandi episodi di tali

ranea. In questo intervento, apparso nel 2001 in un volume collettaneo dedicato ai crimini del XX secolo, Todorov individua nel totalitarismo il principale tratto distintivo del ’900 e ne ricerca le origini mettendolo a confronto con quello che definisce il suo nemico: la democrazia. Alla base del totalitarismo, secondo l’autore, ci sarebbe una sorta di millenarismo laico che, al contrario dell’ideale democratico, promette l’avvento di una società perfetta e contempla l’eliminazione di chiunque rappresenti un ostacolo al progetto di instaurare il paradiso in terra.

conflitti, impressi nella memoria di cia­ scuno. Ad ascoltare la litania dei massacri e delle sofferenze che li accompagnano, le cifre smisurate delle vittime dietro cui si nascondono volti di persone che sa­ rebbe necessario evocare una a una, ci si può domandare: il XVIII secolo è stato designato dagli storici come il «secolo dei Lumi», si finirà un giorno per chiamare il XX il «secolo delle Tenebre»? [...] Non affronterò la descrizione del totali­ tarismo dall’interno. Vorrei piuttosto ri­ volgermi a un altro aspetto del confronto tra totalitarismo e democrazia e tentare di comprendere perché, per milioni di persone, per decenni, il primo è potuto sembrare più seducente della seconda. La prima risposta che mi viene in mente è la seguente: il totalitarismo contiene una promessa di pienezza, di vita armoniosa e di felicità. È vero che non la mantiene, ma la promessa perdura, e ci si può sem­ pre raccontare che la prossima volta sarà quella buona e che verremo salvati. La democrazia liberale, invece, non contiene una promessa simile; si impegna soltanto a permettere a ognuno di cercare per pro­ prio conto felicità, armonia e pienezza. Assicura, nel migliore dei casi, la tranquil­ lità dei cittadini, la loro partecipazione alla conduzione degli affari pubblici, la giustizia nei loro reciproci rapporti e in quelli con lo stato; non promette la sal­ vazione. L’autonomia, sia individuale che collettiva, pietra angolare dei regimi de­ mocratici, corrisponde al diritto di cerca­ re attraverso se stessi, non alla certezza di trovare. Kant sembrava credere che l’uo­ mo apprezzi una condizione che gli per­ mette di uscire «dallo stato di minoran­ za in cui si mantiene per propria colpa»; ma non è detto che tutti preferiscano la maggioranza alla minoranza, l’età adulta all’infanzia. Riconoscere la posizione detenuta da una tale promessa di felicità per tutti equivale a mettere in luce un fatto ben conosciuto:

il totalitarismo è un utopismo. Considera­ to nella prospettiva della storia europea, l’utopismo si presenta a sua volta come una forma di millenarismo, un millena­ rismo ateo. Che cos’è il millenarismo? È un movimento religioso in seno al cri­ stianesimo (un’«eresia») che promette ai credenti la salvezza in questo mondo, e non nel regno di Dio. Il messaggio cri­ stiano delle origini impone la separazione dei due mondi; per questo san Paolo può proclamare: «Non ci sono né ebrei né gre­ ci; non ci sono né schiavi né uomini liberi; non ci sono né uomini né donne, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù», senza mettere minimamente in discussione lo statuto di padrone e di schiavo, per sorvo­ lare sulle altre distinzioni: l’uguaglianza e l’unità degli uomini non si realizzano che nella città di Dio, la religione non si pro­ pone di modificare alcunché nell’ordine di questo mondo. Il cattolicesimo, dive­ nuto religione di stato, infrange appunto questo principio, si intromette negli affari intramondani; ma non promette tuttavia la salvezza in questa vita. [...] A differenza dei millenarismi medievali e protestanti, l’utopismo consiste nell’in­ tenzione di costruire una società perfetta tramite i soli sforzi degli uomini, senza alcun riferimento a Dio; vi è dunque uno scarto di due gradi rispetto alla dottrina cristiana originaria. L’utopismo deriva il proprio nome dall’utopia, che altro non è se non una costruzione intellettuale, un’immagine della società ideale. Le fun­ zioni dell’utopia possono essere moltepli­ ci, essa può servire a nutrire la riflessione o a criticare il mondo esistente; ma solo l’utopismo tenta di introdurre l’utopia in questa mondo. L’utopismo è necessaria­ mente legato alla costrizione e alla vio­ lenza (ugualmente presenti nei millenari­ smi cristiani, che non si accontentano di attendere l’azione divina), poiché vuole raggiungere la perfezione qui e ora, pur sapendo che gli uomini sono imperfetti.

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FARESTORIA DUE REGIMI TOTALITARI: Nazismo e stalinismo

[...] Le dottrine totalitarie sono casi parti­ colari di utopismo – i soli che si conosca­ no nell’epoca moderna – e, per ciò stesso, di millenarismo; ciò significa che rientra­ no nel campo della religione (come ogni altra dottrina della salvazione). Non è un caso, ben inteso, che questa religione sen­ za Dio si sviluppi in un contesto di decli­ no del cristianesimo. [...] È una fortuna che le democrazie moder­ ne non aspirino a instaurare il regno della perfezione sulla terra, né a produrre un uomo nuovo, una specie migliorata, poi­ ché, a differenza dei totalitarismi del XX secolo, apprendisti stregoni, sarebbero capaci di andare molto lontano su que­ sta strada. Esse dispongono di mezzi di sorveglianza e di controllo incomparabi­ li, detengono armi capaci di distruggere l’intero pianeta, sono dotate di scienziati in grado di controllare il codice genetico e dunque di fabbricare realmente una nuova specie. I mezzi grossolani dei co­



munisti, che hanno cercato di mettere al mondo un uomo nuovo tramite la riedu­ cazione e il terrore; o dei nazisti, che sono ricorsi al controllo della riproduzione e all’eliminazione delle «razze» e degli indi­ vidui ritenuti inferiori, tutti questi mezzi sembrano appartenere alla preistoria, se li si compara alle manipolazioni geneti­ che possibili nel nostro tempo. Di che cosa ha bisogno l’uomo? Gli abi­ tanti dei paesi democratici, o per lo meno i loro porta parola, hanno frequente­ mente creduto che egli non aspiri che alla soddisfazione dei suoi desideri im­ mediati e dei suoi bisogni materiali: più comfort, maggiori facilità, più svaghi. Gli strateghi del totalitarismo si sono rivelati, a riguardo, migliori antropologi e migliori psicologi. Gli uomini hanno certamente bisogno di comfort e di piacere; ma per di più, in modo meno percettibile e tuttavia più imperioso, hanno bisogno di beni che il mondo materiale non procura loro: pre­

61 P. FRITZSCHE LA COMUNITÀ DEL POPOLO

P. Fritzsche, Vita e morte nel Terzo Reich, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 38-43.

Il brano seguente è tratto da un recente volume nel quale lo storico statunitense Peter Fritzsche (nato nel 1959) ha cercato di rispondere alla domanda: fino a che punto la società tedesca aderì veramente al nazismo? In queste pagine l’autore analizza un concetto centrale nell’ideologia nazista: la Volksgemeinschaft, ovvero la “comunità del popolo”. Riprendendo un’idea

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La popolarità durevole dei nazisti si ba­ sava sull’idea della Volksgemeinschaft. Questa idea non era nazista e non era percepita come una forzatura o una stra­ nezza. Al contrario, era ascritta a credito dei nazisti l’aver realizzato finalmente quella solidarietà nazionale cui i tedeschi avevano tanto a lungo anelato. Questo è un punto importante perché molte delle conquiste della «rivoluzione nazionale» del 1933 furono apprezzate da cittadini che non si identificavano necessariamen­ te con il nazionalsocialismo. La legittima­ zione di Hitler e del suo regime poggiava su un’ampia base di simpatie. La rivolu­ zione nazionale veniva prima dei nazisti, sebbene questi ultimi fossero il mezzo in­ dispensabile alla sua realizzazione. A partire dalla Prima guerra mondiale la «comunità del popolo» aveva simbo­ leggiato la riconciliazione tra i tedeschi,

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi ciò che potrebbe caratterizzare il XX secolo e ciò che, secondo Todorov, lo caratterizza effettivamente. Quindi descrivi i punti salienti dell’argomentazione dell’autore.  b Evidenzia e numera i motivi per cui il totalitarismo è apparso a milioni di persone più seducente della democrazia nel periodo storico esaminato.  c  Spiega per iscritto il rapporto esistente tra totalitarismo, utopismo e millenarismo.

diffusa già da alcuni decenni in Germania ed estremizzandone alcuni aspetti, il nazismo riuscì a fornire una risposta ai problemi che attraversavano il paese all’inizio degli anni ’30 e ad assicurarsi velocemente un ampio consenso anche tra chi non condivideva i caratteri più radicali della sua politica. E, soprattutto, riuscì a far accettare l’idea che da questa “comunità del popolo” dovessero rimanere esclusi, anche ricorrendo alla violenza e alla repressione, gli elementi estranei per motivi ideologici e razziali.

per molto tempo divisi tra classi, regioni e confessioni. Già le «Giornate di Ago­ sto» del 1914, durante le quali migliaia di tedeschi si erano radunati nelle strade per sostenere la causa della nazione in guerra, avevano rivelato lo straordinario investimento emotivo nella promessa di unità nazionale. Naturalmente «il 1914» era stata un’immagine costruita più che una real­tà vissuta, e la politica tedesca non si era fusa in un’armonia collettiva. E tuttavia l’idea di solidarietà nazionale ebbe grande risonanza perché pareva of­ frire maggiore uguaglianza sociale. Essa indicava una via per integrare i lavoratori nella vita nazionale, per spezzare la men­ talità di casta delle classi medie tedesche e per neutralizzare le pretese di superio­ rità delle élite. Affinché quell’idea avesse forza d’attrazione era essenziale che as­ sumesse carattere democratico o popu­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

tendono che la loro vita abbia un senso, che la loro esistenza trovi una collocazio­ ne nell’ordine dell’universo, che tra loro e l’assoluto si stabilisca un contatto. Il tota­ litarismo, a differenza della democrazia, ambisce a soddisfare tali bisogni e, per questa ragione, è stato liberamente scelto dalle popolazioni interessate. Lenin, Sta­ lin e Hitler sono stati desiderati e amati dalle masse, non bisogna dimenticarlo.

lista. La comunità del popolo costituiva anche una dichiarazione di forza collet­ tiva. Essa stava a indicare la «pacificazio­ ne della fortezza», che durante la Prima guerra mondiale consentì ai tedeschi di mobilitarsi contro i nemici esterni. Que­ sto aspetto marziale acquistò maggiore importanza dopo la sconfitta della Ger­ mania nel 1918. La catastrofe della resa imprevista, le «frontiere insanguinate» del riassetto politico postbellico definito a Versailles e l’immenso caos dell’infla­ zione all’inizio degli anni Venti furono esperienze collettive che contribuirono a rendere visibili le sofferenze della nazio­ ne. Durante gli anni di Weimar il concet­ to di Volksgemeinschaft fu usato per indi­ care la condizione di assedio comune ai tedeschi, e al tempo stesso l’unità politica necessaria al rinnovamento nazionale. Di conseguenza, la «comunità del popo­

lo» ebbe sempre una drammatica impli­ cazione di accerchiamento. I nazisti condussero il concetto di co­ munità del popolo al suo esito più ra­ dicale. Fecero leva sui dati di fatto delle sofferenze tedesche e al tempo stesso rinnovarono una prospettiva di grandez­ za futura della Germania. Insisterono in modo martellante sui nemici interni ed esterni – ebrei, profittatori di guerra, marxisti, potenze alleate – accusandoli di ostacolare la rigenerazione naziona­ le. Il nazionalsocialismo offrì una visio­ ne completa del rinnovamento che per molti tedeschi era attraente, accompa­ gnandola allo spauracchio della disgre­ gazione nazionale. Dal punto di vista na­ zista il 1914 era il rinnovamento e la vita, mentre il 1918 era il pericolo incombente sui tedeschi della rivoluzione, del caos e in ultima analisi della morte. Su questa contrapposizione tra 1914 e 1918 si strut­ turò il pensiero politico tedesco fino al 1945. I nazisti elaborarono una visione del mondo sostanzialmente imperniata sull’accerchiamento, secondo cui la lot­ ta era l’unica garanzia di conservazione della vita; la lotta era anzi un segnale di vita. In una prospettiva così drastica la comunità del popolo era inevitabilmente minacciata e implicitamente violenta. Lo stato di emergenza permanente decreta­ to dai nazionalsocialisti aiuta a spiegare il loro enorme sforzo per ricostruire il cor­ po collettivo e la soddisfazione che i loro seguaci traevano dalle immagini di unità e solidarietà. Esso aiuta a spiegare anche l’accettazione dell’esclusione violenta come parte del processo di ricostruzione. Gli ingredienti di base della visione del mondo nazista, tra cui il grande timore di una disgregazione totale della vita nazio­ nale, la determinazione a scongiurare il caos del 1918 e il calcolo morale secondo cui per conservare la vita poteva essere necessario distruggerla, erano molto dif­ fusi nel Terzo Reich. Questi presupposti non furono mai gli unici ingredienti della miscela, ma erano ampiamente utilizzati e discussi dai tedeschi nel momento in cui questi riflettevano sulle politiche del nazismo e sul proprio comportamento. Tuttavia, soltanto i nazisti irriducibili se­ guirono fino all’esito doloroso del 1945 la logica della vita come violenza. Nell’idea di solidarietà nazionale si espri­ mevano i desideri di milioni di tedeschi che deploravano la Rivoluzione di No­ vembre e diffidavano della Repubblica di

Weimar per il potere che dava ai socialde­ mocratici. Quell’idea all’inizio degli anni Trenta era attraente anche per i cittadini spaventati dall’insicurezza economica e dall’instabilità politica. A molti sostenito­ ri della Repubblica, e soprattutto a molti dei sei milioni di tedeschi privi da mesi o da anni di qualsiasi prospettiva di lavoro, la comunità del popolo offriva un tenta­ tivo di risposta all’amara domanda posta nel 1933 dal romanziere Hans Fallada1: «E adesso, pover’uomo?». Le parole sem­ plici e definitive pronunciate da un amico di Karl Dürkefälden2, disoccupato e con­ vertito al nazismo, furono: «Si doveva pur fare qualcosa». Parole ripetute durante l’inverno e la primavera del 1933, da mi­ gliaia di operai, e che lo stesso Karl, pur essendo socialista, comprendeva: «anche questo è vero», annotò sul proprio dia­ rio, tra parentesi. Innumerevoli tedeschi identificarono la propria povertà con le disgrazie della Germania e sperarono che una leadership forte a Berlino risollevasse le loro sorti. Resta il fatto però che in li­ bere elezioni i nazisti non raccolsero mai più voti della somma di quelli raccolti da socialdemocratici e comunisti. Il nazismo penetrò significativamente tra gli operai, e poteva contare su simpatie nell’eletto­ rato di altri partiti. Ma il repulisti politico che prometteva aveva bisogno di distrug­ gere la forza dei socialisti. La sera del 30 gennaio 1933 centinaia di migliaia di cittadini si radunarono attor­ no agli iscritti al partito in uniforme che sfilavano sotto la porta di Brandeburgo a Berlino per celebrare la vittoria nazista e si unirono agli heil, agli evviva, agli urrà e ai cori Deutschland über Alles e dell’inno del partito, la Canzone di Horst Wessel3. Si affermò che la folla era stata vasta come nel 1871, quando i tedeschi si erano ra­ dunati per festeggiare l’unificazione del paese. [...] Nei giorni seguenti i socialisti risposero alla vittoria nazista con contro­ manifestazioni in tutta la Germania. Ma il loro numero si assottigliò rapidamente. La grande presenza della polizia, che ten­ deva a simpatizzare con i nazionalsocia­ listi, ridusse la mobilità degli oppositori, mentre i teppisti irrompevano nelle sedi dell’Spd4 e dei sindacati e i funzionari nazisti mettevano al bando i giornali so­ cialisti. Inoltre l’ondata di violenza con­ tro la sinistra fu ufficialmente sancita dai decreti di emergenza che consentivano di incarcerare prima del processo i citta­ dini sospettati di costituire una minaccia

per la pace. [...] Migliaia di oppositori fu­ rono rinchiusi in improvvisate prigioni e dovettero subire percosse e umiliazioni. Tra il 1933 e il 1934 oltre 100.000 tedeschi passarono per Dachau, Oranienburg e altri campi di concentramento. Il terrore fu la vendetta sulla sinistra dopo anni di scontri nelle strade, e il risarcimento per il 1918. Ma la furia della violenza era ricon­ ducibile anche al fatto che i nazisti ricono­ scevano solo Volkskameraden, «camerati del popolo», e Volksfeinde, «nemici del popolo» che essi sottoposero a crudeltà deliberate e raffinate con «arbitraria vio­ lazione di norme». [...] La violenza contro i presunti nemici del popolo rimase un elemento costitutivo della politica tede­ sca fino alla fine del Terzo Reich; l’arresto dei socialisti proseguì per tutta l’estate del 1933 e preannunciò gli attacchi nazisti agli «asociali»: ebrei, zingari e altri nemici della razza, accusati di ostacolare uno svi­ luppo sano della Volksgemeinschaft. Non sempre si poteva scegliere se stare dentro o fuori della comunità del popolo, e spes­ so era questione di vita o di morte. 1. Hans Fallada (1893-1947), pseudonimo del romanziere tedesco Rudolf Ditzen. 2. Karl Dürkefälden, autore di un diario utilizzato da Fritzsche come fonte per la sua analisi storica. 3. Heil era il saluto nazista; Deutschland über Alles, ovvero “la Germania al di sopra di tutti gli altri”, l’inno nazionale; il cosiddetto Horst-Wessel-Lied (Canzone di Horst Wessel) fu composto, sulle note di un vecchio canto marinaro, da Horst Wessel (1907-1930), militante delle SA e considerato tra i primi martiri nazionalsocialisti. 4. Sigla del Partito socialdemocratico tedesco.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto cosa è, come cambia e cosa indica la “comunità del popolo”.  b Sottolinea le caratteristiche del “1914” nel contesto descritto.  c  Spiega in cosa consisteva la visione del mondo elaborata dai nazisti e cosa significa che «per conservare la vita poteva essere necessario distruggerla».  d  Sottolinea i fattori che resero possibile, secondo l’autore, l’adesione al nazismo.  e  Descrivi gli eventi narrati, cerchia la data di riferimento e sottolineane il significato.

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FARESTORIA DUE REGIMI TOTALITARI: Nazismo e stalinismo

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 6 IMMAGINI DI PROPAGANDA NAZISTA

Già in Mein Kampf Hitler aveva riconosciuto un grande ruolo pedagogico all’immagine poiché – egli scriveva – «c’è ancora meno bisogno di lavorare con l’intelletto: basta guardare». Con il Terzo Reich la fotografia viene usata sistematicamente come strumento di propaganda e ritrae e diffonde le grandiose messe in scena in cui bandiere, fiaccole, colonne di luce incorniciano masse di uomini in uniforme. Nello stesso tempo, le immagini di Hitler, realizzate giorno dopo giorno, lo mostrano all’opera per il futuro radioso della Germania e del suo popolo. La maggior parte è stata realizzata dal suo fotografo ufficiale, Heinrich Hoff­mann (1885-1957), che pubblicò molti album di propaganda, incentrati essenzialmente sulla figura del Führer, come quello realizzato per il suo cinquantesimo compleanno. Le riviste espongono immagini dei giovani “ariani”, ispirati dal loro Führer, di soldati perfettamente disciplinati, di bimbi allevati nell’amore del Führer o di madri chiamate a perpetuare la “razza”. Il culto del leader è uno dei temi più diffusi nella propaganda dei regimi totalitari e la fotografia è uno dei mezzi più efficaci per trasmettere e diffondere l’ideologia dominante.

►  La

copertina dell’album fotografico Ein Volk Ehrt Seinen Führer, a cura di Heinrich Hoffmann 20 aprile 1939 L’album dal titolo Un popolo onora il suo Führer fu realizzato per il cinquantesimo compleanno di Hitler. GUIDA ALLA LETTURA

◄  Giovani

donne si sporgono per toccare le mani di Hitler durante il Festival musicale tedesco tenuto a Breslau 3 agosto 1937 L”’immagine è stata pubblicata nel testo Bei Uns in Deutschland: Ein Bericht di Friedrich Heiss, un resoconto per immagini della vita in Germania nel 1938.



62d VICTOR KLEMPERER HITLER AL GOVERNO

V. Klemperer, Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Mondadori, Milano 2000, pp. 7-13.

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Victor Klemperer (1881-1960), figlio del rabbino capo della Comunità ebraica riformata di Berlino ma convertitosi al protestantesimo, dopo essere partito volontario nella prima guerra mondiale, dal 1920 fu professore di filologia romanza

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

 a  Analizza le due immagini qui riprodotte e l’immagine Manifesto di propaganda della Gioventù hitleriana a p. 309. Riporta sul quaderno la tipologia dei personaggi fotografati (sono adulti o bambini? uomini o donne?) e descrivi la posizione che assumono rispetto a Hitler (sono distanti? si intersecano?, ecc.).  b  Osserva con attenzione il volto delle persone fotografate. Quale emozione vivono e quindi trasmettono all’osservatore?  c  L’autore di queste fotografie è un fotografo professionista. Con quale intento le ha scattate? Ci sono indizi che permettono di capirlo? Quali? Rispondi alle domande facendo riferimento ai particolari delle immagini e al cappello introduttivo.  d  Perché secondo te Hitler dedica attenzione alla rappresentazione del suo rapporto con i bambini, i ragazzi e le donne? Pensi che queste rappresentazioni siano in grado di rendere un sentimento sincero del Führer verso tutti i giovani e tutte le donne? Perché?

all’Università di Dresda. I suoi diari, che vanno dal 1933 al 1945, costituiscono una straordinaria e drammatica testimonianza degli anni del regime nazista in Germania. Nel brano seguente si riportano alcune pagine tratte dalle note scritte nei primi mesi del 1933, che descrivono l’atmosfera delle settimane nelle quali Hitler e il suo partito giunsero al potere. In questi passaggi è evidente il senso di disorientamento di chi

scrive e la preoccupazione per un futuro sempre più cupo: la salita al governo del nazismo, accompagnata dall’immediato e violento accanimento nei confronti degli oppositori politici e 10 marzo, venerdì sera 30 gennaio: Hitler cancelliere. Ciò che fino alla domenica delle elezioni, il 5 mar­ zo, ho chiamato terrore non era che un blando preludio. Ora si ripete esattamen­ te quanto è avvenuto nel 1918, ma con una diversa premessa, la croce uncinata. E ancora è incredibile come tutto crolli senza opporre resistenza. Dov’è la Bavie­ ra, dov’è il vessillo imperiale, e così via? Otto giorni prima delle elezioni la grosso­ lana impresa del rogo del Reichstag, non riesco davvero a pensare che qualcuno possa davvero credere che siano stati i co­ munisti e non gente prezzolata dalle [ri­ produzione di una croce uncinata]. Poi i brutali divieti e gli atti di violenza. E come se non bastasse, per le strade, la radio, ecc., una propaganda senza limiti. Sabato 4 ho sentito una parte del discorso di Hit­ ler da Königsberg1. La facciata illuminata di un albergo alla stazione, davanti a una fiaccolata, sui balconi portatori di fiaccole e di bandiere con la croce uncinata, alto­ parlanti. Non afferravo che singole paro­ le. Ma il tono! Quello sbraitare infervora­ to e mellifluo, davvero, lo sbraitare di un sacerdote. Domenica ho votato per i de­ mocratici, Eva2 per il centro. La sera verso le nove con i Blumenfeld dai Dember3. Per scherzare, visto che io speravo nella Baviera, mi ero messo la croce al merito della Baviera. Poi la clamorosa vittoria elettorale dei nazionalsocialisti. Il rad­ doppio in Baviera. Nel frattempo lo HorstWessel-Lied. Una smentita indignata, agli ebrei onesti non accadrà nulla di male. Subito dopo la messa al bando dell’As­ sociazione centrale dei cittadini ebrei di Turingia perché avrebbe criticato il gover­ no «in uno spirito talmudico»4 e lo avreb­ be screditato. Da quel momento in poi, giorno dopo giorno, commissari, governi calpestati, bandiere [riproduzione di una croce uncinata] issate ovunque, case oc­ cupate, gente fucilata, divieti (oggi per la prima volta anche il moderato «Berliner Tageblatt»)5 ecc. ecc. Ieri «per ordine del partito NS»6 – non si fa più nemmeno il nome del governo – licenziato il diretto­ re artistico Karl Wollf7, oggi l’intero mi­ nistero della Sassonia, e così via. Totale rivoluzione e dittatura del partito. E tutte le forze di opposizione come sparite dalla faccia della terra. Questo assoluto crollo

degli ebrei, ebbe soprattutto la conseguenza di dividere rapidamente la società tedesca e distruggere molti vecchi legami di solidarietà e amicizia esistenti tra le persone.

di una forza che fino a poco fa era ancora presente, anzi, la sua completa dissolu­ zione (proprio come nel 1918) è ciò che più mi colpisce. [...] 17 marzo [...] Martedì sera abbiamo avuto qui i Thie­ me8. È stato terribile ed è stata la fine. Thieme – proprio lui! – ha dichiarato la sua adesione al nuovo regime con una tale entusiastica convinzione e con una tale esaltazione! Tutti i luoghi comuni sull’unità e il progresso, li ripeteva con devozione. Trude molto più contenuta. Diceva che è andato tutto storto e ora bi­ sogna tentare anche questa. «Se dobbia­ mo ballare, balliamo!». Lui l’ha corretta con foga: «Non dobbiamo affatto», si trat­ ta davvero della cosa più giusta, sceglien­ do in libertà. Questa non gliela perdono. È un povero diavolo e teme di perdere il posto. Deve dunque seguire il branco. E va bene. Ma perché di fronte a me? Pre­ cauzione dovuta alla sua incontenibile ipocrisia spinta fino alle estreme conse­ guenze? O davvero un totale annebbia­ mento? Probabilmente si tratta di questo, secondo Eva. Ci siamo sbagliati sul conto di Thieme e del suo intelletto. Possiede un parziale talento matematico. Per il resto è volubile, in balìa delle influenze esterne, della propaganda, del successo. Eva se n’era resa conto già anni fa. Dice di lui che è «privo di giudizio». Ma che potesse arri­ vare a questo... Con lui ho chiuso. La sconfitta del 1918 non mi ha depres­ so tanto quanto la situazione attuale. È sconvolgente come, giorno per giorno, il puro atto di violenza, l’infrazione della legge, la peggiore ipocrisia, una mentali­ tà barbara vengano alla luce in forma di decreto. I giornali socialisti sono vietati permanentemente. Quelli «liberali» tre­ mano. Recentemente hanno vietato per due giorni il «Berliner Tageblatt»; alle «Dresder NN»9 non potrà mai succedere, sono assolutamente ligie al governo [...]. Thieme mi ha raccontato, con divertita approvazione, di una «spedizione puniti­ va» delle SA alla Società elettrica sassone, contro i «comunisti di Okrilla10, troppo sfacciati»: l’olio di ricino11 e le forche cau­ dine dei randelli di gomma. Quando sono gli italiani a fare certe cose... mah sì, sono analfabeti, figli del Meridione e un po’

animaleschi... Ma i tedeschi. Thieme era entusiasta del socialismo forte dei nazi e mi ha mostrato il loro appello per l’elezio­ ne del consiglio aziendale della Società elettrica sassone. Il giorno dopo l’elezione è stata vietata dal commissario Killinger12. A dire il vero è molto imprudente scrivere tutto questo nel mio diario. [...] 31 marzo, venerdì sera Sempre più scoraggiato. Domani inizia il boicottaggio13. Manifesti gialli, guardie. Obbligo di pagare due mensilità agli im­ piegati cristiani e di licenziare gli ebrei. Nessuna risposta alla sconvolgente lette­ ra degli ebrei al presidente del Reich e al governo. Uccidono a freddo o «a distan­ za». Non ci «torcono un capello», si limi­ tano a lasciarci morire di fame. Se non maltratto i miei gatti e mi limito a non dar loro da mangiare, non sono forse un torturatore di animali? Nessuno osa pro­ nunciarsi. L’Associazione degli studenti di Dresda rilascia una dichiarazione: tutti uniti e compatti dietro... e, poi, è disono­

1. Città capoluogo della Prussia orientale. 2. Eva Schlemmer (1882-1951), pianista e musicologa, prima moglie di Victor Klemperer. 3. Il pedagogo Walter Blumenfeld e sua moglie Grete, emigrati poi in Svizzera nel 1935, e il fisico Harry Dember con sua moglie Agnes. 4. Da Talmud, testo fondamentale dell’ebraismo che contiene le norme che regolano la vita delle comunità. 5. Quotidiano di Berlino. 6. Nazionalsocialista. 7. Karl Wollf, direttore del Teatro Schauspielhaus di Dresda. 8. Si tratta di Johannes Thieme e sua moglie Trude. Con Johannes, inquilino dei Klemperer a Dresda nell’estate del 1920, si era instaurato un rapporto molto intimo tanto da essere considerato dalla coppia quasi un figlio adottivo. 9. Quotidiano di Dresda. 10. Piccolo comune della Sassonia. 11. Per i suoi effetti purganti era utilizzato dagli squadristi fascisti nelle spedizioni punitive contro gli avversari politici. 12. Manfred von Killinger (1886-1944), incaricato per la sicurezza e l’ordine in Sassonia. 13. Il boicottaggio annunciato dai nazisti contro le attività commerciali ebraiche.

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FARESTORIA DUE REGIMI TOTALITARI: Nazismo e stalinismo

rante per gli studenti tedeschi entrare in contatto con gli ebrei. È stato proibito loro l’accesso alla casa dello studente. Con quanto denaro ebraico è stata costruita pochi anni fa questa casa dello studen­ te! A Monaco alcuni docenti ebrei sono stati fermati proprio mentre varcavano la soglia dell’università. L’appello e l’in­ giunzione del comitato per il boicottaggio stabiliscono che «la religione non conta» e tutto dipende solo dalla razza. Nel caso dei proprietari di un negozio, se il marito è ebreo e la moglie cristiana o viceversa, il negozio viene considerato ebreo. Ieri sera da Gusti Wieghardt14. Atmosfera molto opprimente. Nella notte verso le tre Eva, insonne, mi ha consigliato di dare oggi la disdetta della casa, per poi eventualmen­ te affittarne una parte. Oggi ho dato la di­



sdetta. Il futuro è molto incerto. [...] Non vi sono vie d’uscita, è tutto privo di senso. Martedì al nuovo cinema Universum di Prager Straße. Accanto a me un soldato di leva, ancora un ragazzino, e la sua ami­ chetta poco simpatica. Era la sera prima dell’annuncio del boicottaggio. Dialogo mentre passa la pubblicità [...]. Lui: «In effetti non bisognerebbe comprare dagli ebrei». Lei: «E tuttavia è così convenien­ te». Lui: «Allora è merce cattiva e non dura». Lei, molto fredda e senza pathos: «No, davvero, è merce buona e dura esat­ tamente come quell’altra, davvero esatta­ mente come quella dei negozi cristiani ed è molto più conveniente». Lui tace. Quan­ do sono comparsi Hitler, Hindenburg ecc. lui ha battuto le mani entusiasta. Più tar­ di, durante il film assolutamente ameri­

63 N. FREI IL POTERE DELLE SS

N. Frei, Lo Stato nazista (1992), Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 148-55.

Lo storico tedesco Norbert Frei (nato nel 1955), autore di un’importante opera di sintesi sul regime nazista pubblicata per la prima volta nel 1987, ricostruisce in queste pagine l’organizzazione capillare dell’apparato repressivo hitleriano, fondata sulla moltiplicazione e sull’espansione di corpi

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L’obiettivo a cui puntavano Himmler e Heydrich1 andava ben al di là della costi­ tuzione di un corpo di polizia politica con funzioni di sorveglianza e controllo ideo­ logico. All’ordine del giorno era invece per loro l’utopia totalitaria di una super-isti­ tuzione incentrata su princìpi ideologi­ co-razziali e impegnata in un’opera per­ manente di risanamento e igiene sociale, la visione dello Stato ideale con la veste tecnocratica della modernità, pensato non sulla base dei tradizionali concetti di poli­ zia, ma dei precetti della profilassi2 medi­ ca. Come ebbe a dire già nella primavera del 1936 Werner Best3, sostituto di Heyd­ rich nella Gestapo4, commentando la legge sulla Gestapo, la polizia politica era «un’istituzione chiamata a sorvegliare ac­ curatamente lo stato di salute politica del corpo del popolo tedesco, di riconoscere per tempo ogni sintomo di malattia e di individuare ed eliminare con ogni mezzo opportuno i germi di distruzione, sia che derivino da processi degenerativi interni, sia che abbiano causa in un contagio por­ tato intenzionalmente dall’esterno».

14. Auguste Wieghardt-Lazar (1887-1970), scrittrice austriaca di origini ebraiche, andata in esilio in Gran Bretagna nel 1939 e tornata a Dresda dopo la guerra.

METODO DI STUDIO

 a  Cerchia i giorni citati e sottolinea i principali eventi descritti.  b  Descrivi lo stato d’animo dell’autore e indica se cambia in relazione agli eventi descritti facendo degli esempi.  c Spiega che tipo di documento è questo e chi ne è l’autore. Quindi sintetizzane in due righe i contenuti.

di polizia sempre più potenti: primo fra tutti le SS, organismo la cui attività non si limitava alla sorveglianza e al controllo, ma era indirizzata a «un’opera permanente di risanamento e igiene sociale» e alla lotta contro «gli elementi nocivi della nazione». L’autore mostra inoltre che l’opinione pubblica non vide nell’ascesa delle SS la nascita di un sistema di terrore e illegalità, ma la percepì come parte di un processo di normalizzazione e consolidamento della dittatura nazista.

Quali erano, nella prospettiva delle SS, i focolai di malattia? La risposta la troviamo nell’organigramma dell’Ufficio centrale della Polizia di sicurezza, con i suoi tre set­ tori Amministrazione e Giustizia (compe­ tente, fra l’altro, del rilascio dei passaporti e dei documenti d’identità), Polizia cri­ minale e infine Polizia ­politica, che a sua volta si articolava negli ­uffici competenti dei seguenti campi: «comunismo e altri gruppi marxisti; chiese, sette, emigranti, ebrei, società segrete; reazioni, opposi­ zione, affari austriaci; detenzione caute­ lare e campi di concentramento; politica agraria, economica e sociale, associazioni d’interesse; vigilanza sulle trasmissioni ra­ diofoniche; affari del partito, delle sue sot­ to-organizzazioni e delle organizzazioni collegate; polizia politica estera; rapporti sullo stato della nazione; stampa; lotta all’omosessualità e all’aborto; controspio­ naggio». Nella sfera di competenza della polizia criminale rientrava ora non solo l’investigazione sui reati criminali classici, ma anche la persecuzione degli «elemen­ ti nocivi alla nazione». Parallelamente a

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

cano con le orchestrine jazz, a tratti deci­ samente ebraicizzante, ha battuto le mani ancora più entusiasta.

questa profonda trasformazione e am­ pliamento dell’attività di polizia si verificò anche una modificazione significativa nel settore dei campi di concentramento. Mentre nel «campo modello» di D ­ achau5 continuavano ad essere detenuti in pre­

1. Heinrich Himmler (1900-1945) fu comandante supremo (Reichsführer delle SS), concentrando dal 1936 nelle sue mani le cariche di capo delle SS e di capo della polizia; divenne nel 1943 ministro degli Interni del Reich. Reinhard Heydrich (1904-1942) fu responsabile del Reichssicherheits-hauptamt (RSHA), Ufficio centrale per la sicurezza del Reich; morì per le ferite riportate in un attentato organizzato dal movimento di resistenza cecoslovacco. 2. Prevenzione. 3. Karl Rudolf Werner Best (1903-1989) ufficiale delle SS, divenne commissario del Terzo Reich in Danimarca durante la guerra. 4. Sigla della Geheime Staats-Polizei (polizia segreta di Stato). 5. Località vicino Monaco di Baviera. Il campo di concentramento fu aperto già nel 1933.

valenza prigionieri politici, i nuovi Lager nazionali di Sachsenhausen e Buchen­ wald6 vennero riempiti in misura crescen­ te da cosiddetti asociali, criminali abi­ tuali, omosessuali e testimoni di Geova, individui cioè che non potevano essere giudicati da tribunali ordinari perché non si erano resi colpevoli di reati perseguibili per legge, ma erano socialmente indesi­ derati. In tal modo venne accentuata la funzione di correttivo svolta dai campi di concentramento nei confronti della giu­ stizia, sulle orme di quanto aveva comin­ ciato a fare sin dalla presa del potere la Gestapo, prendendo in consegna – a vol­ te già nelle sale dei tribunali – e rinchiu­ dendo a tempo indeterminato nei campi di concentramento soprattutto detenuti politici che avevano finito di scontare la pena e imputati assolti o beneficianti del­ la sospensione del procedimento. Adesso questa prassi venne perfezionata ai danni degli «elementi nocivi alla nazione». All’inizio del 1937 Himmler, nella sua veste di capo della polizia tedesca, ordinò l’arre­ sto su tutto il territorio nazionale e la de­ portazione nei campi di concentramento di «circa 2000 delinquenti di professione e delinquenti abituali e rei di crimini morali pericolosi per la collettività», individuati sulla base di una lista da poco redatta ne­ gli uffici della polizia criminale. [...] Seguì un’ondata d’arresti –  annunciata come «intervento a sorpresa globale e straordi­ nario» – contro i renitenti al lavoro, scelti grazie alla collaborazione amministrativa fra uffici di collocamento e Gestapo. L’a­ zione successiva si ebbe in Germania nel giugno del 1938, quando cioè anche l’Au­ stria, annessa alla Germania, era diven­ tata teatro di una «campagna preventiva di lotta alla criminalità». L’ordine era di arrestare e imprigionare nel Lager di Bu­ chenwald «almeno 200 individui maschi in età da lavoro (asociali)» nel distretto territoriale di competenza delle direzioni della polizia criminale, e «inoltre tutti gli ebrei maschi già condannati a qualunque pena detentiva». Nel novero degli «asocia­ li» rientravano i vagabondi, i mendicanti con o senza abitazione fissa, «gli zingari e tutti i girovaghi della stessa specie che non abbiano manifestato volontà di assumere un lavoro regolare o siano perseguibili per qualche reato», lenoni7 e «quegli individui che abbiano il maggior numero di prece­ denti penali per resistenza, lesioni fisiche, risse, violazione di domicilio e simili, di­ mostrando così di non volersi conforma­

re all’ordine pubblicamente sancito dalla comunità popolare». Nella motivazione ufficiale addotta per la cosiddetta azione contro gli asocia­ li emerse per la prima volta ­l’argomento dell’utilizzabilità economica. Esso avreb­ be assunto una forza dirompente e fune­ sta negli anni successivi, in connessione con il concetto dell’eliminazione dei sog­ getti giudicati inefficienti o improdutti­ vi: «La rigida attuazione del Piano qua­ driennale richiede l’impiego di tutte le forze abili al lavoro e non ammette che individui asociali si sottraggano ad esso, sabotando così il piano». Di fatto si trat­ tava per allora del reclutamento forzato di manodopera per prime fabbriche ge­ stite dalle SS, fra cui possiamo ricordare, oltre a fabbriche di laterizi [...], le cave di granito – che fornivano il materiale per la costruzione degli «edifici del Führer» – di Flossenbürg, nel Palatinato, e di Mau­ thausen, nella Bassa Austria, dove sorsero dei nuovi campi di concentramento (in seguito si aggiunsero Gross-Rosen, nella Bassa Slesia, e Natzweiler, in Alsazia). I motivi che spingevano Himmler a que­ sta politica di deportazione di massa – una sorta di anticipo ed esercitazione per le fu­ ture azioni di rastrellamento nei territori occupati – non erano soltanto di natura economica o politico-ideologica. In ballo c’erano anche questioni di potere. Con il riempimento dei campi di concentramen­ to, i cui prigionieri, nell’inverno 1936-37, erano scesi al di sotto dei 10.000, si voleva da un lato sottolineare il potere istituzio­ nale delle SS, dall’altro vanificare l’aspi­ razione dell’amministrazione interna e della giustizia e definire con criteri unita­ ri lo strumento dell’arresto preventivo o «custodia cautelare di polizia», rendendo controllabile la sua applicazione [...]. Certamente solo pochi conoscevano gli aspetti particolari di quel sistema di sorve­ glianza, mentre al cittadino medio appari­ vano per lo più poco chiare le differenze fra Servizio di sicurezza, SS, Polizia crimi­ nale, Pubblica sicurezza e Polizia politica, la qual cosa, però, contribuiva a rafforzare il senso diffuso di minaccia e insicurezza. I  più restavano angosciati alla vista dei cappotti di pelle scura e delle uniformi nere, e la parola «Gestapo» si associava quasi sempre a paura. Il potere della po­ lizia segreta si esercitò ben oltre quelli che furono vittime dirette del suo terrore. Ciò nondimeno sarebbe fuorviante affer­ mare che gli anni centrali del decennio

furono caratterizzati in prevalenza dal­ la violenza e dall’oppressione politica, poiché allora la situazione interna era dominata in gran parte da sentimenti di lealtà verso il regime e di entusiasmo nei confronti del Führer, lasciando poco spazio ad atteggiamenti ostruzionistici o di opposizione. I successi spettacolari della Gestapo, che era riuscita a portare davanti alla Suprema corte popolare di giustizia centinaia di avversari politici, e la crescente insensibilità politica dell’am­ biente in cui operavano, avevano inferto colpi mortali all’attività clandestina di comunisti e socialdemocratici, mentre in netto declino era anche l’opposizione ge­ nerica, e spesso apolitica, prima riscon­ trabile in alcuni settori della popolazione. Quest’ultima constatazione era suffragata dal ristagno numerico delle condanne per «tradimento» e «disfattismo» commi­ nate dai tribunali speciali – e che tra l’altro colpirono soprattutto individui social­ mente marginali, secondo il metro severo della vecchia giustizia di classe. Solo pochi considerarono un cattivo se­ gno il fatto che la normalizzazione politi­ ca di quegli anni non fu seguita dal mini­ mo accenno al ritorno nella legalità dello Stato di diritto ampiamente sospesa nel 1933, come invece continuavano a spera­ re le élites conservatrici. La maggioranza dei tedeschi era in completa balìa della forza di suggestione esercitata dall’idea della Volksgemeinschaft e dal mito del Führer, rafforzato dai successi hitleriani in politica estera. L’impressione di stabi­ lità generale del regime fece passare inos­ servati la formazione e il rafforzamento del complesso di potere delle SS che di quella solidità erano parte integrante. Soprattutto a livello personale, furono anzi proprio gli anni di normalizzazione a creare molti dei presupposti della futura radicalizzazione del regime. A quell’epo­ ca infatti un’istituzione come il Servizio di sicurezza – incentrata più sulla flessi­ bilità, l’intelligenza e la capacità organiz­ zativa, che non sul fanatismo ideologico – fu la culla ideale di quel tipo efficien­ tista di comandante delle SS per il quale ogni nuovo compito non appariva altro che una sfida personale da affrontare in

6. Il primo sorgeva in una località poco a nord di Berlino, il secondo non lontano da Weimar. 7. Ruffiani, sfruttatori di prostitute.

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FARESTORIA DUE REGIMI TOTALITARI: Nazismo e stalinismo

METODO DI STUDIO

maniera pragmatica. Tale era il contesto in cui maturava la mentalità da SS tanto apprezzata da Himmler, per la quale nulla era impossibile, nemmeno accettare, alla fine, «incarichi speciali» di qualsiasi gra­ vità, fino al comando dei reparti operativi e allo sterminio di massa.



 a  Evidenzia la descrizione dell’obiettivo che si erano prefissati Himmler e Heydrich.  b  Sottolinea le principali informazioni che rispondono alle seguenti domande: a. Cosa riguardano i cambiamenti descritti? b. Di quale andamento sono sintomo?  c Cerchia i soggetti considerati asociali e sottolinea la sorte loro riservata.  d  Evidenzia gli elementi che caratterizzarono la parte centrale degli anni ’30, quindi trascrivili sul quaderno e argomenta la posizione dell’autore.

64 N. WERTH IL GRANDE TERRORE

N. Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss, 1937-1938, il Mulino, Bologna 2009, pp. 10-16.

Nel seguente brano, tratto dalle pagine introduttive di un volume dedicato ai crimini di Stalin negli anni ’30, lo storico francese Nicolas Werth (nato nel 1950) spiega cosa avvenne nel biennio 1937-38 in Urss durante quello che è conosciuto sotto il nome di Grande Terrore. L’autore chiarisce che, grazie allo studio di nuovi documenti emersi a partire dagli

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Vent’anni dopo la rivoluzione socialista d’Ottobre, il regime sovietico perpetrò il più grande massacro di Stato mai com­ piuto in Europa in tempo di pace: in sedici mesi, dall’agosto del 1937 al no­ vembre del 1938, circa 750 mila cittadini sovietici furono giustiziati dopo essere stati condannati a morte da un tribuna­ le speciale, in seguito a una parodia di giudizio. Ciò significa: circa 50 mila ese­ cuzioni al mese, 1.600 al giorno. Durante il Grande Terrore un sovietico adulto su cento fu messo a morte con una pallotto­ la alla nuca. Nello stesso tempo oltre 800 mila sovietici vennero condannati a una pena di dieci anni di lavori forzati e spe­ diti nel Gulag. Come spiegare quest’or­ gia di terrore? Come fu possibile attuarla nel più grande segreto? Chi ne furono le vittime e chi ne furono i carnefici? È le­ gittimo definire questo crimine di mas­ sa, come si è fatto per lungo tempo, delle «grandi purghe»? Settant’anni dopo i tre grandi «processi di Mosca» del 1936, 1937 e 1938, cinquant’anni dopo il «rap­ porto segreto» di Nikita Chruščëv al XX congresso del Pcus e quindici anni dopo l’apertura degli archivi sovietici, è final­ mente possibile avere l’esatta misura di ciò che fu davvero il Grande Terrore del 1937-1938 in Unione sovietica. Diciamolo subito: i grandi processi di Mosca, che mettevano in scena i mag­ giori dirigenti bolscevichi caduti in di­ sgrazia, accusati dei peggiori crimini di tradimento e spionaggio, così come

anni ’90 (custoditi negli archivi sovietici e a lungo rimasti inaccessibili agli storici), è stato possibile ricostruire meglio i fatti: accanto alle grandi purghe politiche e agli spettacolari processi che colpirono pubblicamente moltissimi dirigenti comunisti, vennero attuate in segreto “operazioni di massa” ai danni di cittadini comuni, in particolare contadini e persone appartenenti a nazionalità straniere, considerati in quel momento «nemici del popolo» sovietico.

il rapporto segreto sono stati, ciascuno alla sua maniera, formidabili «avveni­ menti schermo». In effetti i processi di Mosca, parodie di giustizia largamente seguite dagli organi d’informazione tan­ to sovietici quanto occidentali, hanno a lungo mascherato l’altra faccia, nasco­ sta e inconfessata, del Grande Terrore: quella delle «operazioni di massa», di­ svelate soltanto dopo la caduta dell’Urss e l’apertura degli archivi sovietici negli anni Novanta. Quanto al rapporto se­ greto, che dava una visione molto par­ ziale e filtrata dei crimini di Stalin, esso ha fatto credere per lungo tempo che la repressione era stata diretta soprattutto contro i quadri comunisti del partito, dell’economia e dell’esercito. Questa opinione è ancora largamente condivi­ sa da diversi storici per i quali il Grande Terrore resta, in larga parte, una «grande purga» del partito, più sanguinosa del­ le altre. In realtà, il Grande Terrore fu da principio e prima di tutto una vasta impresa di ingegneria e di «purificazio­ ne sociale», volta a sradicare, con ope­ razioni segrete decise e pianificate al più alto livello da Stalin e Nicolaj Ežov1 (commissario del popolo agli Interni), tutti gli elemen­ti «socialmente perico­ losi» ed «etnicamen­te sospetti» che, agli occhi dei dirigenti stalinisti, apparivano non soltanto come «estranei» alla nuo­ va società socialista in corso di edifica­ zione, ma anche, nell’eventualità ormai probabile di un nuovo conflitto mondia­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

le, come altrettante potenziali reclute di una mitica «quinta colonna di spie e terroristi al soldo delle potenze straniere ostili all’Urss». Naturalmente, nel corso di queste operazioni, un numero estre­ mamente elevato di persone che non appartenevano ad alcuna delle catego­ rie colpite dalle direttive segrete fu tra­ volto dalle repressioni di massa. [...] Tra i documenti più importanti emersi all’inizio degli anni Novanta figurava­ no, in particolare, le risoluzioni segrete del Politbjuro2 e gli «ordini operativi» dell’Nkvd relativi alle azioni «repressive di massa». Questi documenti chiarivano l’altra faccia, fino ad allora nascosta, del Grande Terrore: i meccanismi di repres­ sione contro i «cittadini ordinari», vitti­ me anonime scomparse senza traccia e di cui le famiglie non conoscevano, il più delle volte, né la condanna inflitta né la data di morte. Le operazioni segrete, pia­ nificate e centralizzate, messe a punto, al più alto livello, da Stalin e Ežov, erano dirette contro un vasto insieme di «ele­ menti socialmente pericolosi» ed «etni­ camente sospetti», raggruppati in due

1. Nicolaj Ežov (1895-1940), capo dell’Nkvd, fu poi rimosso da ogni incarico di partito nel 1939 e subì a sua volta un processo per tradimento: fu fucilato l’anno dopo. 2. Ufficio politico del Comitato centrale, ovvero l’organo direttivo del Pcus.

grandi categorie, due «linee», nel voca­ bolario in codice dei funzionari della po­ lizia politica: la «linea kulak» e la «linea nazionale». La prima, stabilita con l’«or­ dine operativo» dell’Nkvd n. 00447 del 30 luglio 1937, mirava a «eliminare una vol­ ta per tutte» un largo ventaglio di nemici, che si potrebbero definire «tradizionali», del regime bolscevico: «ex kulaki», «per­ sone del passato», élite dell’Antico regi­ me, membri del clero, vecchi esponenti di partiti politici non bolscevichi, non­ ché una vasta corte di marginali sociali, raggruppati sotto l’espressione generica di «elementi socialmente pericolosi». La «seconda linea», detta «nazionale», stabilita da una decina di operazioni segrete – «operazione polacca», «ope­ razione tedesca», «operazione di Char­ bin»3, «operazione lettone», «operazione finlandese», «operazione greca», «ope­ razione estone», «operazione romena» – era diretta in particolare contro gli emi­ grati soprattutto politici, ma non solo, di questi paesi, rifugiatisi in Urss; contro i cittadini sovietici di origine polacca, te­ desca, lettone, finlandese, greca ma an­ che contro tutti i cittadini sovietici che avevano un legame, per quanto sottile, di tipo professionale, familiare o sem­ plicemente geografico (gli abitanti delle regioni di frontiera erano per questo par­ ticolarmente vulnerabili) con un certo numero di paesi considerati ostili: Polo­ nia, Germania, paesi baltici, Finlandia, Giappone. In un contesto di crescenti crisi internazionali, la «linea nazionale» traduceva la comparsa di nuove cate­ gorie di nemici, un orientamento che si sarebbe confermato nel corso degli anni seguenti. La scoperta di queste grandi operazioni segrete di massa, che sono radicalmente differenti nel loro svolgimento da quel­ lo ben accertato dalle purghe politiche, [...] ha imposto di ripensare il Grande Terrore come un fenomeno molto più complesso, multiplo, combinazione di processi repressivi differenti che, in un dato momento, sono venuti a conver­ gere in un «nodo di radicalizzazione cu­ mulativa», in un parossismo repressivo e sterminazionistico unico nella storia sovietica. I sedici mesi del Grande Ter­ rore, dal luglio del 1937 al novembre del 1938, concentrano in effetti, da soli, quasi i tre quarti delle condanne a morte pronunciate tra la fine della guerra civile (1921) e la morte di Stalin (1953) da una

giurisdizione speciale dipendente dalla polizia politica o dai tribunali militari. Le grandi operazioni terroristiche se­ grete, all’origine di oltre il 90% degli ar­ resti, delle condanne e delle esecuzioni nel 1937-1938, riguardanti «categorie», «contingenti di elementi» e simili a una sorta di ingegneria sociale, mi sembrano dover essere tenute chiaramente distin­ te dalle purghe delle élite e dei quadri. Nelle purghe, ciò che era in gioco era la sostituzione di una élite con un’altra, più giovane, spesso meglio formata, po­ liticamente e ideologicamente più ob­ bediente e malleabile, modellata nello «spirito staliniano degli anni Trenta». Le purghe dovevano distruggere tutti i lega­ mi, politici, amministrativi, professiona­ li e personali, generatori di solidarietà, ciò che Stalin chiamava «cerchia fami­ liare», e promuovere un nuovo strato di giovani dirigenti, debitori della loro ver­ tiginosa carriera alla Guida, a cui sareb­ bero stati totalmente devoti. Per quanto spettacolari e politicamente significa­ tivi, l’arresto e l’esecuzione di una per­ centuale molto elevata di quadri comu­ nisti – immediatamente sostituita dalla generazione dei «promossi» del primo piano quinquennale [...] – non rappre­ sentò tuttavia che una piccola frazione (circa il 7%) dell’insieme degli arresti e delle esecuzioni del Grande Terrore. Ac­ compagnate da un processo ritualizzato di riunioni, pubbliche o semipubbliche, del partito a diversi livelli (dalla cellula al plenum del Comitato centrale, pas­ sando per il Comitato regionale), con la sollecitata partecipazione del pubblico o dei militanti, con le denunce e le au­

tocritiche, le purghe politiche rappre­ sentarono il volto pubblico del Terrore. La sua manifestazione più clamorosa fu la grande spettacolarizzazione dei processi politici: i famosi «processi di Mosca» del 1936, 1937, 1938. Ma altret­ tanto significative furono le centinaia di processi pubblici, a vocazione peda­ gogica, contro dirigenti comunisti loca­ li, inscenati in numerosi capoluoghi di provincia. «Formidabile meccanismo di profilassi sociale», queste parodie della giustizia, accompagnate da innumere­ voli comizi largamente «popolarizzati» nella stampa e alla radio, smascherava­ no i tanti «complotti» e consegnavano alla riprovazione popolare capri espia­ tori, responsabili delle difficoltà incon­ trate nella «costruzione del socialismo» e dei disfunzionamenti endemici di una industrializzazione caotica. Mentre i rituali di annientamento dei «nemici del popolo» invadevano la sfe­ ra pubblica, i gruppi operativi dell’Nk­ vd lanciavano le «operazioni segrete di massa», le cui direttive erano conosciu­ te solo da un numero estremamente ri­ stretto di alti dirigenti del partito e dello stesso Nkvd.

3. Dal nome della città di Charbin, in Manciuria, nella quale risiedeva una colonia di lavoratori sovietici della compagnia ferroviaria della Cina orientale: quando questa compagnia sovietica fu venduta al Giappone, nel 1935, la maggior parte del personale venne rimpatriato in Urss, ma agli occhi delle autorità queste persone rappresentarono delle possibili spie al soldo dei giapponesi.

PALESTRA INVALSI

1 L’espressione «avvenimenti schermo» indica... [ ] a. che i processi di Mosca mascheravano in realtà l’orrore delle operazioni di massa. [ ] b. che il Grande Terrore era in realtà un fenomeno che serviva a distrarre dalla politica sovietica internazionale. [ ] c. quegli avvenimenti che venivano pubblicizzati attraverso film. [ ] d. che i processi di Mosca servivano per distrarre l’attenzione dalle grandi purghe. 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? Argomenta la tua risposta in circa 5 righe. «Il Grande Terrore appare oggi agli storici come un fenomeno lineare.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

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ˇ ENITSYN 65d ALEKSANDR I. SOLZ L’ARTICOLO 58

A. Solzˇenitsyn, Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, Mondadori, Milano 1974, pp. 75-83.

Negli anni ’30 milioni di russi furono accusati e imprigionati per «delitti contro lo Stato»: contadini, operai, intellettuali, dirigenti di partito. Autore di una delle più clamorose denunce del terrore staliniano è stato lo scrittore Aleksandr Isaevicˇ Solzˇ enitsyn (1918-2008), massima voce del dissenso sovietico, premio Nobel per la letteratura nel 1970, autore del celebre saggio-inchiesta Arcipelago Gulag (“Gulag” era la sigla dell’«Amministrazio-

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Un paradosso: un solo articolo dei cen­ toquarantotto della sezione particolare del Codice penale dell’anno 1926 ha dato impulso a tutta la pluriennale attività degli Organi eternamente vigili e ovun­ que presenti. In lode di quest’articolo si potrebbero trovare epiteti più numero­ si di quanti ne avesse trovati una volta Turgenev per la lingua russa o Nekrasov per la Madre Russia1: grande, possente, abbondante, ramificato, vario, universa­ le Cinquantotto, che esaurisce il mondo nean­ che tanto nelle formulazioni dei suoi punti quanto nella loro interpreta­ zione latissima2 e dialettica. Chi di noi non ha sperimentato su di sé il suo abbraccio amplissimo? In verità non v’è trasgressione, pensiero, azione o ina­ zione sotto il sole che non possa essere punita dalla mano dell’articolo Cinquan­ totto. Era impossibile formularlo così ampiamente, ma è risultato invece pos­ sibile interpretarlo con tale ampiezza. L’articolo 58 non ha costituito nel codice un capitolo sui delitti politici e in nessun luogo è scritto che sia «politico». No, a fianco dei crimini contro l’ordine pub­ blico e del banditismo è riportato nel capitolo dei «delitti contro lo Stato». Così il Codice penale inizia col rifiutare di ri­ conoscere chicchessia sul suo territorio criminale politico, è solo un delinquente comune. L’articolo 58 consisteva di quattordici punti. Dal primo apprendiamo che viene rico­ nosciuta controrivoluzionaria qualsiasi azione (secondo l’articolo 6 del Codice penale anche inazione) diretta... a inde­ bolire il potere... Interpretando in senso lato risulta che il rifiuto, nel lager, di an­ dare a lavorare quando sei affamato ed estenuato, è indebolimento del potere e ha per conseguenza la fucilazione. (Fuci­ lazione dei renitenti in tempo di guerra.) [...] Il punto secondo parla di rivolta arma­

ne generale dei Lager», organismo statale che gestiva il sistema concentrazionario nell’Urss), pubblicato per la prima volta in Francia in tre volumi tra il 1973 e il 1978. In queste pagine Solzˇ enicyn, detenuto a lungo in un campo di concentramento, emigrato negli Usa e poi ritornato in Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, analizza lo strumento di controllo e repressione più efficace a disposizione del regime comunista: l’articolo 58 del Codice penale. Una norma generica e ambigua, che consentiva di accusare e condannare senza limiti qualunque cittadino per qualsiasi presunta «attività controrivoluzionaria».

ta, di presa del potere nei grandi e pic­ coli centri e in particolare allo scopo di separare con la violenza qualche parte dell’Unione delle repubbliche. Per que­ sto si prevede la pena della fucilazione (come in ogni punto successivo). Per estensione (come non si potrebbe enun­ ciare nell’articolo, ma come suggerisce la coscienza giuridica rivoluzionaria) rientra qui ogni tentativo di realizzare il diritto, concesso a ogni repubblica, di uscire dall’Unione. Infatti non è specifi­ cato a chi si riferisce la «violenza». Anche se l’intera popolazione della repubblica volesse separarsi ma a Mosca non lo vo­ lessero, la separazione sarebbe violenta. Dunque tutti i nazionalisti estoni, lettoni, lituani, ucraini e turkestani si prendeva­ no facilmente, secondo questo articolo, dieci e venticinque anni. Il terzo punto è «cooperazione con qual­ sivoglia mezzo con uno Stato straniero che si trovi in guerra con l’Urss». Questo articolo può far condannare qualunque cittadino che si sia trovato in territorio occupato, abbia egli riparato il tacco d’un militare tedesco, venduto un maz­ zo di ravanelli, o una cittadina che abbia sollevato lo spirito combattivo dell’inva­ sore ballando e passando una notte con lui. Non tutti furono condannati secon­ do questo punto (data l’abbondanza dei territori occupati) ma chiunque poteva essere condannato. Il quarto punto parlava dell’assistenza (fantasiosa) prestata alla borghesia in­ ternazionale. Chi, a prima vista, potreb­ be essere contemplato? Leggendo esten­ sivamente con l’aiuto della coscienza rivoluzionaria si trovò agevolmente la categoria: tutti gli emigranti che ave­ vano abbandonato il paese prima del 1920, ossia qualche anno prima che fos­ se promulgato il codice stesso, e sorpresi in Europa dalle nostre truppe un quarto di secolo dopo (1944-45), ebbero il 584: dieci anni o la fucilazione. Infatti, che

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altro facevano all’estero se non prestare assistenza alla borghesia mondiale? [...] Favorirono la medesima anche tutti i so­ cialisti rivoluzionari, tutti i menscevichi (a loro intenzione era stato inventato l’articolo) e poi gli ingegneri della Pia­ nificazione statale e il Soviet supremo dell’economia nazionale. Quinto punto: invito rivolto a una po­ tenza straniera perché dichiari guerra all’URSS [...] Sesto punto: spionaggio. È stato interpre­ tato così estensivamente che, se si doves­ sero contare tutti i condannati secondo tale punto, bisognerebbe concludere che il nostro popolo nei tempi di Stalin non visse né di agricoltura, né d’indu­ stria, ma di solo spionaggio a favore di potenze straniere e solo così si procac­ ciava il denaro per vivere. Lo spionaggio era qualcosa di oltremodo comodo nel­ la sua semplicità, comprensibile tanto all’incolto delinquente quanto all’evo­ luto giurista e giornalista, e all’opinione pubblica. La lettura estensiva consisteva anche nel condannare, non per lo spionaggio direttamente, bensì per: il Ss, sospetto di spionaggio (oppure per lo Snp, spio­ naggio non provato, e anche questo con il massimo della pena!) e persino per i Rcss: rapporti atti a condurre (!) al so­ spetto di spionaggio. Ossia, poniamo, una conoscente d’una conoscente di vo­ stra moglie si è fatta fare un vestito dalla stessa sarta (naturalmente collaboratrice dell’Nkvd) della moglie d’un diplomati­ co straniero. [...] Settimo punto: danno recato all’indu­ stria, ai trasporti, al commercio, alla cir­

1. Ivan Turgenev (1818-1883), romanziere russo; Nikolaj Nekrasov (1911-1987), poeta e giornalista russo. 2. Larghissima.

colazione monetaria e alla cooperazio­ ne. Negli anni Trenta questo articolo era molto in voga e colpiva l’immaginazione delle masse in virtù della semplicità del termine sabotaggio, comprensibile a tutti. Infatti, tutto quanto era enumerato nel punto sette era evidentemente e quo­ tidianamente sabotato: ci dovevano pur essere dei colpevoli. Per secoli il popolo aveva costruito e creato, sempre onesta­ mente, anche per i signori. Non si era mai sentito parlare di sabotaggio fin dai tempi di Rjurik3. Ed ecco che, allorquan­ do le ricchezze passarono in proprietà del popolo, centinaia di migliaia dei mi­ gliori figli di questo popolo si buttarono inspiegabilmente a sabotare. (Il punto non prevedeva il sabotaggio, ma poiché senza di questo era impossibile spiegare ragionevolmente come mai i campi era­ no infestati da erbacce, i raccolti diminui­ vano, le macchine si rompevano, l’intui­ zione dialettica aveva introdotto anche il sabotaggio.) Ottavo punto: terrore (non quello al quale il Codice penale sovietico doveva «dare un fondamento e legittimare» ma il terrore dal basso). Il terrore veniva in­ teso in senso lato, molto lato: era preso in considerazione non quello che sa mette­ re le bombe sotto la carrozza dei gover­ natori, ma per esempio lo schiaffeggiare un nemico personale, se questo era un esponente del partito, del komsomol4 o un attivista della milizia, era già consi­ derato atto di terrorismo. Tanto più l’assassinio di un attivista non era mai con­ siderato alla pari di quello d’un uomo comune. [...] Punto nono: distruzione o danneggia­ mento... mediante esplosione o incendio (e immancabilmente a scopo controrivo­ luzionario), detto brevemente diversione. L’estensione consisteva nell’ascrivere il fine controrivoluzionario (il giudice istruttore sapeva meglio che cosa avve­ niva nella coscienza del delinquente!) e nel considerare qualunque umano erro­ re, manchevolezza, insuccesso sul lavo­ ro, nella produzione come imperdonabi­ le «diversione». Ma nessun punto dell’art. 58 era inter­ pretato in senso altrettanto lato e con tanto ardore di coscienza rivoluzionaria quanto il Decimo. Suonava così: «Pro­ paganda o agitazione contenente un ap­ pello all’abbattimento, danneggiamento o affievolimento del potere sovietico... come pure la diffusione, produzione o

custodia di letteratura avente tale conte­ nuto». In tempo di pace era specificato, per questo punto, solo il limite inferiore della pena (non meno! non troppa in­ dulgenza!) mentre quello superiore era illimitato. Così poco una grande Potenza teme la parola d’un suddito. Famose estensioni di questo famoso punto furono: – per «agitazione contenente un appello» si poteva intendere una conversazione a quattr’occhi tra amici (o anche fra coniu­ gi) o una lettera privata; appello poteva essere un consiglio personale. (Conclu­ diamo che «poteva essere» perché così è stato.) – «danneggiamento e affievolimento» del potere era qualsiasi pensiero che non coincidesse con quello del quotidiano del giorno o non raggiungesse la sua in­ candescenza. Infatti affievolisce tutto ciò che non rafforza! Infatti, danneggia tutto ciò che non coincide perfettamente! «Chi oggi non canta con noi è contro di noi!» (Majakovskij)5 – per «produzione di letteratura» s’inten­ devano lettere scritte in un’unica copia, annotazioni in un diario intimo. Quale pensiero, ideato, pronunziato od anno­ tato non abbracciava il punto dieci così felicemente esteso? Il punto undicesimo era di un tipo par­ ticolare: non aveva un contenuto suo proprio, ma fungeva da aggravante a qualunque altro dei punti precedenti se l’azione era stata premeditata o se i delinquenti erano organizzati. In realtà il punto veniva esteso in modo tale che un’organizzazione non occorreva nem­ meno. Ho provato su di me l’elegante applicazione di questo punto. Eravamo in due a scambiarci i nostri pensieri in segreto, dunque esisteva un embrione di organizzazione, dunque l’organizzazio­ ne esisteva! Il punto dodicesimo si riferiva principal­ mente alla coscienza dei cittadini: era quello sulla mancata delazione in qua­ lunque dei casi elencati sopra. E per il grave crimine di non delazione la pena non aveva un limite superiore! Questo punto era talmente esteso da non richie­ dere ulteriore ampliamento. Sapeva e non l’ha detto era come se l’avesse fatto. Il punto tredicesimo, che sembrerebbe del tutto superato, era: servizio nella po­ lizia politica zarista. (Più tardi un servi­ zio analogo fu al contrario ritenuto prova di patriottico valore.)

Il punto quattordicesimo puniva «l’in­ tenzionale inadempienza di determi­ nati doveri o la loro esecuzione inten­ zionalmente negligente» ed era punita, si capisce, con pene che andavano fino alla fucilazione. In breve era chiamato «sabotaggio» o «controrivoluzione eco­ nomica». Il solo giudice istruttore poteva distinguere l’intenzionale dal non inten­ zionale, basandosi sulla sua coscienza rivoluzionaria. Il punto era applicato ai contadini che non consegnavano le derrate all’ammasso, ai kolchoziani6 che non avevano messo insieme il numero richiesto di giorni lavorativi. Ai detenuti dei lager che non adempivano la «nor­ ma». E, di rimbalzo, si cominciò ad ap­ plicarlo dopo la guerra ai delinquenti co­ muni per la fuga dal lager, vedendo cioè nella fuga non un’aspirazione alla dolce libertà, ma al sabotaggio del sistema dei campi di concentramento. Tale era l’ultima stecca del ventaglio dell’art. 58, ventaglio che ricopriva tutta l’esistenza umana. 3. Personaggio a metà tra realtà e leggenda, principe dei variaghi, guerrieri scandinavi, vichinghi o normanni, che nell’XI secolo fondarono i principati di Novgorod e Kiev, nuclei del futuro Stato russo. 4. Federazione giovanile del Pcus. 5. Vladimir Majakovskij (1893-1930), poeta russo. 6. Contadini delle aziende agricole cooperative.

METODO DI STUDIO

 a  Numera i punti citati e indica per ognuno di essi un titolo che ne riassuma i contenuti.  b  Indica per iscritto l’articolo che, più degli altri, era interpretato con zelo rivoluzionario e chiariscine le cause.  c  Immagina di essere un cittadino russo. Quale azione svolgeresti in tutta tranquillità? Di cosa avresti maggiormente paura?

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FARESTORIA DUE REGIMI TOTALITARI: Nazismo e stalinismo

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Facendo riferimento ai brani di Traverso [►59], Todorov [►60], Fritzsche [►61], Werth [►64], scrivi un testo di massimo 60 righe sul totalitarismo mettendo in rilievo gli elementi caratteristici e facendo dei riferimenti concreti basati sui documenti storici presentati (Klemperer [►62d] e Solzˇenitsyn [►65d]). Evidenzia nei brani presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. 2 Scrivi un testo di circa 30 righe sul nazismo e sui caratteri totalitari in esso condensati avendo come punti di riferimento i brani di Traverso [►59], Todorov [►60], Fritzsche [►61], Frei [►63], la testimonianza di Klemperer [►62d] e le fotografie di Hoffmann [►FONTE ICONOGRAFICA 6]. Scegli un titolo e un taglio per il tuo elaborato e cita opportunamente i testi su cui costruisci la tua argomentazione.

3 Scrivi un testo di circa 30 righe sul ruolo della violenza e del terrore

nell’esercizio del potere staliniano avendo come punti di riferimento i brani di Traverso [►59], Werth [►64] e Frei [►63] e la testimonianza di Solzˇenitsyn [►65d]. Scegli un titolo e un taglio per il tuo elaborato e cita opportunamente i testi su cui costruisci la tua argomentazione. IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 4 A partire dai brani di Traverso [►59] e di Todorov [►60] e dalla FONTE ICONOGRAFICA 6, sintetizza la posizione degli storici circa gli strumenti di adesione al totalitarismo mettendo in rilievo quelli che puntavano sull’uso della violenza e quelli che puntavano a un’adesione ideologica convinta. Quindi argomenta la posizione che ritieni maggiormente condivisibile in un testo di massimo 30 righe facendo riferimento agli altri brani e documenti del percorso storiografico. Prima di procedere con la scrittura individua i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo discorso, trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale che utilizzerai come guida per la tua argomentazione.

L’ITALIA FASCISTA

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Fra i regimi totalitari del ’900, il fascismo italiano fu il primo a costituirsi e a imporsi come modello, anche se per alcune sue caratteristiche, quali ad esempio la presenza della monarchia e della Chiesa cattolica in Italia, molti storici lo ritengono un totalitarismo “imperfetto”. Il fascismo cercò in ogni modo di creare uno «Stato nuovo», basato sul coinvolgimento delle masse (e non solo sulla repressione del dissenso) e propose un nuovo quadro di riferimento ideologico, una “terza via” tra socialismo e democrazia liberale, tra comunismo e capitalismo. Nel primo brano, Renzo De Felice [►66] analizza i caratteri del fenomeno che prende il nome di “fascismo” e mostra quanto fu importante, per la sua affermazione al potere, il sostegno che ricevette dai ceti medi. Emilio Gentile [►67], invece, focalizza l’attenzione su un aspetto particolare del fascismo italiano: il tentativo, in questo senso totalitario, di organizzare la società sotto il controllo del partito, compattando la popolazione e l’opinione pubblica intorno ad alcuni “miti” fascisti, primo fra tutti quello del duce. Benito Mussolini, infatti, riuscì ad attrarre entusiasmo e fiducia intorno alla sua figura: i discorsi politici tenuti dal balcone di piazza Venezia a Roma, ad esempio, ebbero un ruolo importante nella creazione del consenso, come mostra quello pronunciato in occasione dell’inizio della guerra in Etiopia [►68d]. Alla volontà del regime di creare un potente impero è dedicato il brano di Nicola Labanca [►69], che analizza il significato storico della spedizione in Africa del 193536 e l’uso che il regime fece in quell’occasione della propaganda. Con la conquista coloniale il fascismo maturò anche la decisione di intraprendere una politica che preservasse gli italiani da “contaminazioni” con altre “razze” ritenute inferiori: da qui la promulgazione, nel 1938, delle leggi razziali, i cui contenuti furono annunciati da una dichiarazione ufficiale del governo [►70d], leggi che si ponevano l’obiettivo di discriminare ed estromettere dalla società italiana la minoranza ebraica. Sebbene il fascismo godesse di ampio consenso, l’Italia del Ventennio non fu interamente schierata a suo favore: per tutti questi anni, infatti, come mostra il brano di Leonardo Rapone [►71], vi fu una parte della popolazione che espresse solo timidamente o in forma privata il suo dissenso, mentre un’altra parte, minoritaria, continuò a far sopravvivere in clandestinità una vera e propria opposizione “antifascista” militante. Molti uomini politici e intellettuali che decisero di opporsi al regime furono costretti a proseguire la

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

loro attività politica al di fuori dell’Italia, dando così vita a un antifascismo in esilio, le cui caratteristiche sono descritte da uno studioso e testimone, Aldo Garosci [►72]. In conclusione, vengono proposti due documenti degli anni ’30, i cui autori sono espressione dei diversi orientamenti politici dell’antifascismo: il comunista Palmiro Togliatti [►73d] e Carlo Rosselli [►74d], fondatore del movimento Giustizia e Libertà e volontario nella guerra civile spagnola, esperienza importante, anche se sfortunata, nella storia dell’antifascismo italiano ed europeo.

66 R. DE FELICE IL FENOMENO FASCISTA E I CETI MEDI



R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 254-56; 261-65.

Renzo De Felice (1929-1996) è stato lo storico che prima e più di ogni altro ha applicato allo studio del fascismo il metodo della ricerca documentaria. La sua opera maggiore, una grande biografia di Mussolini (nove tomi, usciti fra il 1965 e il 1997), ha aperto la strada agli studi sul Ventennio e ha A costo di qualche inevitabile schema­ tizzazione, cercheremo pertanto di rias­ sumere gli elementi che, a nostro avviso, si debbono tenere presenti per compren­ dere storicamente il fenomeno fascista. Il primo di questi elementi è di tipo geo­ grafico-cronologico: il fascismo è stato un fenomeno europeo che si è svilup­ pato nell’arco di tempo racchiuso dalle due guerre mondiali. Precondizioni, ra­ dici indubbiamente preesistevano alla prima guerra mondiale, sotto un pro­ filo sia morale sia sociale. Esse erano però strettamente legate alla situazione culturale ed economica dell’Europa (e soprattutto di alcuni suoi paesi). Ogni confronto con situazioni extraeuropee, anche successive, anche attuali, è im­ possibile data la radicale differenza dei contesti storici (nel senso più estensi­ vo del termine). Queste precondizioni e radici erano però «marginali» e nul­ la autorizza a pensare che si sarebbe­ ro sviluppate senza la crisi traumatica determinata, direttamente e indiretta­ mente, dalla prima guerra mondiale e dalle sue conseguenze, immediate e a più lunga scadenza (grande crisi del 1929). La crisi determinata dalla guerra fu la sola e vera causa del loro erompere e del loro estendersi a gruppi sociali che ne erano stati sino allora immuni e die­ de ad esse la forza o l’esasperazione di nuovi contenuti aggiuntivi, sia morali e politico-morali, sia economico-sociali. Sicché nel dopoguerra la crisi divenne attiva e generale e investì, sia pure con manifestazioni diverse, tutto l’assetto

toccato una serie di temi controversi, suscitando spesso aspre polemiche: le origini “rivoluzionarie” del movimento, la base sociale del fascismo, il consenso al regime, per citarne solo alcuni. Il brano seguente è tratto da una fortunata opera su Le interpretazioni del fascismo (pubblicata per la prima volta nel 1969): De Felice insiste nel collocare il fenomeno fascista entro il contesto cronologico in cui si sviluppò, dando conto nel contempo di alcuni fra i principali fattori del suo successo, primo fra tutti il sostegno ricevuto dai ceti medi.

della società, in tutte le sue stratifica­ zioni e in tutti i loro rispettivi valori. Ma, detto questo, bisogna subito mettere in guardia dal trarre da questa constata­ zione conclusioni troppo estensive. La crisi ebbe nei vari paesi manifestazioni e dimensioni diverse, connesse sia alle peculiari situazioni (attuali e storiche) di essi, sia alla capacità, alle colpe e agli errori [...] degli uomini d’allora, delle classi dirigenti tradizionali, ma anche dei partiti politici che affondavano le loro radici e traevano le loro forze in classi e ceti sociali diversi da quelli che esprimevano le classi dirigenti e che si rifacevano ad altre tradizioni e auspi­ cavano diversi sblocchi della crisi. Lo sbocco fascista o autoritario che la crisi ebbe in alcuni pae­si non fu affatto inevi­ tabile, non corrispose affatto ad una necessità. Fu la conseguenza di una mol­ teplicità di fattori, tutti razionali e tutti evitabili, di incomprensioni, di errori, di imprevidenze, di illusioni, di paure, di stanchezza e – solo per una minoranza – di determinazione, molto spesso per niente consapevole per altro degli sboc­ chi che effettivamente la propria azione avrebbe avuto. Il secondo elemento che si deve tenere presente per comprendere storicamen­ te il fenomeno fascista è quello relativo alla sua base sociale. Chi, come Croce, ha sostenuto che il fascismo non è stato espressione di una determinata clas­ se sociale ma ha trovato sostenitori ed avversari in tutte le classi ha pienamen­ te ragione. Anche più ragione ha però

chi, come Fromm1, ha osservato che, mentre nella classe operaia e nella bor­ ghesia liberale e cattolica è, in genere, prevalso verso il fascismo un atteggia­ mento negativo o rassegnato, il fasci­ smo ha trovato i suoi più ardenti fautori nella piccola borghesia. Il rapporto fa­ scismo-piccola borghesia e, più in ge­ nere, fascismo-ceti medi è infatti uno dei nodi essenziali del problema storico del fascismo, certamente per il momen­ to dell’affermazione del fascismo stesso, ma, anche, per quello successivo. Non a caso ad esso è stato riservato ampio spazio, sia nella pubblicistica politica di qualsiasi orientamento e tendenza, sia nella letteratura storica e sociologica sul fascismo. [...] Detto questo, dobbiamo per altro dire che, per comprendere storicamente i veri fascismi e in particolare quello ita­ liano e quello tedesco (tra i quali, tutta­ via, esistevano differenze notevoli, attri­ buibili ad almeno tre cause: i differenti caratteri dei due popoli, il fatto che nel nazionalsocialismo l’ideologia del Volk2 ebbe un ruolo, un fondamento e una tradizione tanto radicali quali nessuna altra componente delle altre ideologie

1. Erich Fromm (1900-1980), psicoanalista tedesco emigrato negli Stati Uniti dopo l’avvento al potere del nazismo, autore di importanti studi sui comportamenti sociali. 2. Popolo, in tedesco.

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FARESTORIA L’ITALIA FASCISta

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fasciste ebbe neppure lontanamente e, infine, il diverso grado di totalitarizza­ zione della vita nazionale realizzato dai due regimi) e per distinguerli da altri movimenti, partiti o regimi che fasci­ sti furono solo superficialmente o non lo furono per niente, per cogliere cioè quel famoso minimo comune denomi­ natore [...], il rapporto ceti medi-fasci­ smo è a nostro avviso da tenere sempre ben presente. In caso contrario si perde la possibilità di cogliere la novità e la differenza (non solo tecnologiche e di intensità) del fascismo rispetto ai vari movimenti e regimi conservatori e au­ toritari che lo precedettero, lo accom­ pagnarono e lo hanno seguito e, anco­ ra, ci si lascia sfuggire la possibilità di comprendere la vera origine, i caratteri e i limiti del consenso che per anni il fa­ scismo seppe realizzare sia in Italia sia in Germania attorno a sé in vasti settori dei due paesi e che sarebbe troppo sem­ plicistico ed errato spiegare solo con il regime di polizia, il terrore, il monopo­ lio della propaganda di massa. Si perde cioè la possibilità di capire i due aspetti forse più caratterizzanti il fascismo. I regimi conservatori e autoritari classi­ ci hanno sempre teso a demobilitare le masse e ad escluderle dalla partecipa­ zione attiva alla vita politica offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentati nel passato e ai quali vie­ ne attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche re­ cente parentesi rivoluzionaria. Al con­ trario il fascismo ha sempre teso (e da ciò ha tratto a lungo la sua forza) a crea­ re nelle masse la sensazione di essere sempre mobilitate, di avere un rapporto diretto col capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e con­ tribuire non ad una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tut­ ti i limiti e l’inadeguatezza storica, bensì ad una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine so­ ciale migliore e più giusto di quello pre­ esistente. Da qui il consenso goduto dal fascismo. Un consenso che, per altro, può essere veramente capito e valutato solo se si mettono in luce i valori (mo­ rali e culturali) che lo alimentavano e l’ordine sociale ipotizzato che lo soste­ neva: gli uni e l’altro tipici dei ceti medi e di quei limitati settori del resto della società sui quali l’egemonia culturale

dei ceti medi riusciva in qualche misura ad operare. Un consenso, dunque, vasto ma non vastissimo, facile ad infrangersi sulle secche di una troppo prolunga­ ta stasi del progresso sociale e che – in mancanza di questo – poteva essere ali­ mentato solo con il ricorso a succedanei irrazionali e proiettati al di fuori della società nazionale, quali, in Germania, il mito della superiorità della razza ariana e, in Italia, quello dei diritti della nazio­ ne «proletaria» e «giovane» da far vale­ re contro le nazioni «plutocratiche»3 e ormai «vecchie»: non a caso, tutti e due miti tipicamente piccolo-borghesi. [...] Se dal generale passiamo al particolare ed esaminiamo il caso italiano, la carat­ terizzazione fondamentalmente piccolo e medio-borghese del fascismo non tro­ va praticamente che conferme. E le trova a tutti i livelli, negli scritti degli osserva­ tori più acuti del tempo, nei documenti della polizia, in quelli del partito fascista, nelle ricerche e negli studi sempre più numerosi che in questi ultimi anni sono stati dedicati al fascismo. Sulla base di questo complesso di dati, di notizie, di testimonianze e di giudizi, si può affer­ mare che, sino a quando – stabilizzatosi il regime in totalitarismo – l’iscrizione al Pnf non divenne sempre più un fatto di massa e una necessità pratica, la base sociale del partito fascista fu costituita in larga maggioranza dai ceti medi e so­ prattutto dalla piccola borghesia, urbana e rurale. Questi elementi, di per sé già assai in­ dicativi, acquistano poi anche maggiore significato se si esaminano parallela­ mente alla stampa e alla propaganda fascista del tempo. Queste – con la loro ambivalenza ed oscillazione tra con­ servatorismo (rispetto al proletariato) e sovversivismo (rispetto all’alta bor­ ghesia), tra liberismo e protezionismo, tra autoritarismo e democrazia sociale, tra realismo e romanticismo – rispec­ chiano infatti largamente la mentalità, le aspirazioni, gli interessi, la cultura, le contraddizioni e persino la fraseologia dei ceti medi italiani (e delle loro inter­ ne stratificazioni) di quegli anni e de­ notano chiaramente una effettiva ege­ monia della componente espressa dai ceti medi sulle altre componenti, quel­ la grande borghese e quella proletaria. Una effettiva egemonia che Mussolini e il nuovo gruppo dirigente fascista [...] si sarebbero affrettati ad eliminare, ma

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

che, nel periodo a cavallo della «mar­ cia su Roma», fu per le sorti del fasci­ smo decisiva, in quanto gli permise di diventare un partito di massa e di non perdere la propria autonomia politica (come sperava invece Giolitti e con lui gran parte della vecchia classe dirigente liberale). E, ancora, gli permise di pe­ netrare progressivamente sempre più in profondità nell’apparato burocratico e militare dello Stato dissolvendone il tessuto connettivo e – specie alla base – recidendone in molti casi i legami di­ sciplinari tra il centro e la periferia; così come, ad un altro livello, gli permise di sottrarre larga parte degli iscritti e degli elettori ai partiti più tipicamente pic­ colo-borghesi, sia quelli di più antica tradizione sia al partito popolare, ver­ so il quale, subito dopo la guerra, si era orientata una buona parte dei ceti medi più integrati e tradizionali. 3. La plutocrazia è il dominio su tutti di pochi ricchi. Il regime fascista denominava spregiativamente «plutocratiche» le democrazie occidentali: Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia gli elementi che permettono, secondo De Felice, di comprendere il fenomeno fascista e sintetizzali sul quaderno.  b  Cerchia gli elementi della crisi che influenzarono gli eventi descritti.  c  Spiega per iscritto perché lo sbocco autoritario della crisi non fu una necessità e argomenta la posizione dell’autore.  d  Evidenzia le differenze esistenti fra il fascismo italiano e quello tedesco.  e Realizza due “nuvole di parole chiave” (tag clouds) selezionando le parole chiave relative al fascismo in generale e allo specifico caso italiano attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti. Quindi scrivi un’unica didascalia comparativa.

67 E. GENTILE ORGANIZZAZIONE E “MITI” NEL REGIME FASCISTA



E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista (1995), Carocci, Roma 2008, pp. 142-44; 147-52.

In un volume uscito alla metà degli anni ’90, poi aggiornato e rivisto con nuovi spunti di riflessione, lo storico Emilio Gentile (nato nel 1946) propone un’interpretazione originale del fascismo italiano, soffermandosi sulla spinta “totalitaria” che il regime di Mussolini impresse alla sua azione di goverPer comprendere la natura storica del regime fascista, nel suo concreto dive­ nire, occorre considerare che si trattò di una realtà composita, in continuo movi­ mento e in perenne cambiamento, sotto l’azione di fattori oggettivi e soggettivi. Una distinzione fra questi fattori è ne­ cessaria per differenziare, nel sistema politico fascista, le innovazioni che fu­ rono adottate per far fronte ai problemi che qualsiasi stato capitalistico moderno si trovò di fronte nel periodo tra le due guerre, e quelle innovazioni che rispon­ devano invece alla logica e alla dinami­ ca propria del fascismo e che risultava­ no coerenti con la sua concezione della politica e delle masse. Un altro fatto da considerare è la presenza, nel regime fa­ scista, di una tensione costante, anche se mai palesata come scontro aperto, se non agli inizi del governo fascista e nei mesi che precedono la caduta di Musso­ lini, fra il fascismo autoritario e il fascismo totalitario. Queste due componenti erano concordi nella diagnosi della crisi di transizione dalla società tradizionale alla società di massa, che comportava per entrambe il rifiuto della democrazia liberale ed accettavano, come soluzio­ ne moderna al problema delle masse e dello Stato, il “regime chiuso” costruito da Alfredo Rocco1. Ma mentre il fascismo autoritario considerava il sistema realizzato tra il 1925 e il 1929 uno Stato definitivo, e sostanzialmente compiuto, per il fascismo totalitario si trattava, in­ vece, soltanto di un primo stadio verso la costruzione di uno Stato integralmente fascista; uno stadio che corrispondeva solo alla “fase di compromesso” del­ la rivoluzione, quando la necessità di “durare” aveva imposto un arresto alle ambizioni del fascismo rivoluzionario, ma uno stadio, appunto per questo, che bisognava superare per procedere verso la realizzazione del mito totalitario. Una volta consolidato il possesso del potere, il cammino della “rivoluzione fascista”

no negli anni ’30. Come mostra il brano seguente, l’autore distingue un fascismo “autoritario” da un fascismo appunto “totalitario”: quest’ultimo si poneva l’obiettivo di andare oltre quanto già acquisito negli anni ’20 e di attuare una radicale rivoluzione politica, istituzionale e culturale in Italia, “fascistizzando” le masse e gli apparati statali attraverso nuove forme di organizzazione sociale e la diffusione di nuovi miti, primo fra tutti quello che ruotava intorno alla figura carismatica del duce.

doveva passare alla fase delle trasforma­ zioni radicali, alla effettiva fascistizza­ zione della società. Il fascismo totalitario reclamava nuovi sperimentalismi politi­ co-istituzionali, per realizzare in modo più effettivo e capillare l’integrazione delle masse nello Stato, e per creare lo “Stato nuovo”, di cui il “regime chiuso” degli anni venti era solo la rudimentale ossatura, che lasciava fuori ancora trop­ pe zone non fasciste o afasciste. A nostro parere, negli anni Trenta il fascismo totalitario guadagnò nuovo impeto, soprattutto per iniziativa del partito fa­ scista, e si mosse in tre direzioni: verso la definizione ideologica dello Stato tota­ litario, verso l’ampliamento sistematico delle forme di organizzazione e di mobi­ litazione delle masse, sotto la guida del PNF, per un’opera capillare di formazio­ ne in senso fascista, e verso la radicaliz­ zazione del processo di concentrazione del potere nel fascismo, attraverso una crescente espansione della presenza del partito nella società e nello Stato, con una nuova serie di riforme che mutaro­ no sostanzialmente l’antica costituzione del regno. Quel che appare oggi evidente a chi os­ serva la realtà del fascismo nella seconda metà degli anni trenta, dopo il successo della conquista d’Etiopia, è l’accelerazione, consapevole e programmata, del processo di totalitarizzazione delle società e dello Stato. In questo periodo, sotto la guida di Starace2, il PNF estese la sua presenza attiva nella società, moltiplicò il numero delle sue istituzioni e dei suoi compiti. Nel 1937, con la creazione della GIL3, il partito assunse il monopolio del­ la formazione delle nuove generazioni, dall’infanzia alla maturità. Inoltre, attra­ verso forme sempre più meticolose di rituali di massa, il PNF cercò di intensifi­ care la fascistizzazione del costume e del comportamento pubblico e privato, as­ sumendo in modo sempre più intransi­ gente e formalistico la funzione di istitu­

zione custode della “fede”. Dal punto di vista istituzionale, il fatto più significati­ vo, nella fase di accelerazione totalitaria, fu la creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, decisa dal Gran Con­ siglio il 14 marzo 1938, allorché fu anche deciso di «procedere al completamento della riforma costituzionale con l’ag­ giornamento dello Statuto del Regno». Un altro avvenimento significativo fu il conferimento, nel 1937, delle funzioni di ministro segretario di Stato al segretario del PNF. Con lo statuto del 1938, il PNF diveniva formalmente il “partito unico” e gli venivano, per la prima volta, ufficial­ mente assegnati come compiti specifici la difesa e il potenziamento della rivolu­ zione fascista e l’educazione politica de­ gli italiani. [...] Il problema della fascistizzazione totalitaria ci riporta al nesso fra mito e or­ ganizzazione nella politica di massa del fascismo e nel suo sistema politico. Il problema delle masse era per il fascismo il banco di prova per la sua capacità ri­ voluzionaria nel costruire una “nuova civiltà politica”, che doveva essere civiltà di masse organizzate e integrate nello Stato. [...] Il fascismo totalitario riteneva che l’organizzazione e il controllo delle masse fossero la condizione per trasfor­ mare il loro carattere, la loro mentalità, il loro comportamento, producendo così l’adesione attiva al fascismo. I fascisti

1. Alfredo Rocco (1875-1935), giurista, fu tra i principali teorici del nazionalismo italiano e poi aderì al fascismo: durante gli anni del regime fu ministro della Giustizia dal 1925 al 1932 e con il suo nome venne indicato il Codice penale entrato in vigore nel 1930. 2. Achille Starace (1889-1945), segretario del Pnf dal 1931 al 1939. 3. Sigla della Gioventù Italiana del Littorio, organizzazione dipendente dal Pnf, nata nel 1937 dalla fusione dell’Opera nazionale Balilla con i Fasci giovanili di combattimento.

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FARESTORIA L’ITALIA FASCISta

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consideravano la natura delle masse un materiale duttile, plasmabile sotto l’azio­ ne di una volontà di potenza, per farne una nuova collettività organizzata e ani­ mata da un’unica fede. La concezione fascista delle masse escludeva pregiu­ dizialmente la possibilità che le masse potessero giungere a governarsi da sé e conquistare una consapevolezza auto­ cosciente e autonoma, ma tuttavia rite­ neva possibile modificare la loro men­ talità, per educarle a vivere nello Stato, attraverso l’azione costante e quotidiana del mito e dell’organizzazione: «la folla (...) ha bisogno di spiritualismo, di reli­ giosità, di catechismo, di rito; l’uomo de­ sidera un potere spirituale affermativo e volentieri lo segue e ad esso ubbidisce; lo sente più aderente alla propria esistenza e trae da esso disciplina a aiuto». Mito e organizzazione dovevano promuovere simultaneamente il «processo di inte­ grazione» delle masse nello Stato, com­ piere cioè «la riduzione ad unità delle varietà sociali, mercé l’adesione colletti­ va alla formula politica del regime», per cui «la amorfa “popolazione” si trasfor­ ma nell’“organismo del popolo”». [...] Il fascismo in questo modo voleva formare una collettività di cittadini partecipan­ ti alla vita dello Stato fascista non come individui autonomi, bensì come militi disciplinati ed obbedienti, pronti a far sacrificio della vita per la potenza dello Stato. L’uomo nuovo del fascismo non era un individuo divenuto consapevole di sé e padrone del proprio destino, ma il “cit­ tadino-soldato” che svuotava la propria individualità per lasciarsi interamente assorbire nella comunità totalitaria. Il fascismo cercò di mettere in atto questo disegno attraverso un triplice processo di organizzazione, educazione e integra­ zione dell’individuo e delle masse. Tutte le organizzazioni popolari del fascismo, dal PNF all’OND4, dovevano effettuare questa costante e capillare opera di so­ cializzazione fascista, adattando natu­ ralmente, ai diversi livelli sociali, codici di valori differenziati, in funzione del ruolo che il fascismo aveva assegnato a ogni organizzazione, e del pubblico a cui questa si rivolgeva. [...] Anche il culto politico fascista acquista una sua razionale funzionalità nell’u­ niverso mitico e organizzativo del fa­ scismo, come rappresentazione e cele­ brazione drammatica dell’integrazione comunitaria, e processo mistico di fusio­

ne della massa con il duce. Lo Stato fasci­ sta doveva, per la sua natura totalitaria, assumere naturalmente il carattere di un’istituzione laico-religiosa, inglobante interamente l’uomo, anima e corpo, nel­ le sue strutture. Solo attraverso miti, riti e simboli era possibile coinvolgere il sin­ golo e la collettività nel “corpo politico” della comunità, e dare la percezione im­ mediata della continua realizzazione del mito dello Stato totalitario. Il fascismo, aveva scritto nel 1930 Bottai5, era una «religione politica e civile (...) la religione d’Italia». Su questo campo la coerenza fascista si dimostrò più rigorosa nel gui­ dare i comportamenti pratici, al punto, per esempio, che il fascismo non esitò a mettere in discussione il compromesso con la Chiesa per rivendicare ed ottenere il monopolio dell’educazione, politica e guerriera, delle nuove generazioni, con­ finando la presenza del cattolicesimo ad elemento integrativo morale della “reli­ gione fascista”. Il nesso tra mito e organizzazione trova infine una verifica concreta nella figura di Mussolini come duce del fascismo. Il mito di Mussolini e la sua funzione di “duce del fascismo e capo del governo” costituirono l’elemento più decisivo nel­ la caratterizzazione del sistema politico fascista. [...] Vertice del potere e unica sede della “volontà politica” che dava direttive a tutta la complessa macchina organizzativa del partito e del regime, Mussolini era anche un “mito vivente” che alimentava con la sua potenza sug­ gestiva tutto l’universo fascista. Giovan­ ni Gentile6 esaltò Mussolini come la per­ sonificazione dell’idea fascista e il suo realizzatore. Il PNF diede un contributo decisivo all’elaborazione del mito del duce e alla formalizzazione di un culto della sua figura, fin dal 1926, con la se­ greteria di Turati7, e poi, con perfezioni­ smo maniacale dello stile e dei riti, con Starace. Nel 1940 la Scuola di mistica fascista, espressamente istituita nel 1930 per alimentare il mito di Mussolini, isti­ tuì corsi per maestri elementari che vole­ vano «vivificare la propria fede nei valori spirituali e nei principi della Rivoluzione traendo dal Mito Mussoliniano le diret­ tive d’azione pedagogica». Qualche ze­ lante adoratore del mito giunse a collo­ care Mussolini nella schiera dei profeti, come novello Cristo delegato da Dio, quale «punto di congiunzione fra il divi­ no e l’umano». L’assurdità del fenomeno

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

non diminuisce la sua importanza per lo storico che vuol capire il nesso fra mito e organizzazione nel fascismo. Il mito di Mussolini dilagò e si affermò perché era coerente con la mentalità mitica del fa­ scismo, e contribuì ad alimentarla nelle masse e nella cerchia dei gerarchi, che subirono il potere carismatico di Musso­ lini. 4. Opera Nazionale del Dopolavoro. 5. Giuseppe Bottai (1895-1959), ministro dell’Educazione nazionale dal 1936 al 1943. 6. Giovanni Gentile (1875-1944), uno dei maggiori filosofi italiani del ’900, svolse, fino a tutti gli anni ’20, il ruolo di teorico ufficiale del fascismo: ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini (1922-24), promosse un’importante riforma della scuola. 7. Augusto Turati (1888-1955), segretario del Pnf dal 1926 al 1930.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto cosa sono il fascismo autoritario e quello totalitario e quale rapporto esiste fra di essi.  b  Individua e numera le tappe dell’affermazione del fascismo totalitario.  c  Spiega per iscritto il rapporto esistente fra i seguenti termini: a. mito e organizzazione politica; b. uomo nuovo e comunità totalitaria.  d  Descrivi e argomenta il ruolo di Mussolini nell’organizzazione del fascismo.



68d BENITO MUSSOLINI UN DISCORSO DAL BALCONE

Scritti politici di Benito Mussolini, a c. di E. Santarelli, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 292-94.

Il contatto diretto tra il capo e le masse è una componente essenziale della mitologia politica fascista. Mussolini (18831945) amava parlare davanti alle folle che riempivano le piazze: i suoi discorsi, costruiti con frasi brevi e a effetto, utilizzavano tutti gli stratagemmi della retorica patriottica per trasmettere sicurezza e suscitare entusiasmi. In queste pagiCamicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari! Ascol­ tate! Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria. Venti milioni di uo­ mini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una deci­ sione sola. La loro manifestazione deve dimostrare e dimostra al mondo che Italia e fasci­ smo costituiscono una identità perfetta, assoluta, inalterabile. Possono credere il contrario soltanto i cervelli avvolti nella più crassa ignoran­ za su uomini e cose d’Italia, di questa Ita­ lia 1935, anno XIII dell’era fascista. Da molti mesi la ruota del destino, sotto l’impulso della nostra calma determina­ zione, si muove verso la meta: in queste ore il suo ritmo è più veloce e inarresta­ bile ormai! Non è soltanto un esercito che tende ver­ so i suoi obiettivi, ma è un popolo inte­ ro di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di to­ glierci un po’ di posto al sole. Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sba­ raglio e confuse le sue sorti con quelle degli Alleati, quante esaltazioni del no­ stro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla quale l’I­ talia aveva dato il contributo supremo di seicentosettantamila morti, quattro­ centomila mutilati, e un milione di feri­ ti, attorno al tavolo della esosa pace non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui. Abbiamo pazientato tredici anni, duran­ te i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vi­ talità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora Basta! Alla Lega delle nazioni, invece di ricono­

ne è riportato il discorso pronunciato dal balcone di piazza Venezia, a Roma, il 2 ottobre 1935: il duce annuncia la mobilitazione per la guerra di Etiopia. Nelle parole di Mussolini l’impresa coloniale trova giustificazione nell’ostilità delle potenze occidentali, che vogliono vietare all’Italia di conquistare «un po’ di posto al sole». Il richiamo alle presunte ingiustizie subite dall’Italia con il trattato di pace della prima guerra mondiale viene utilizzato come legittimazione della politica di potenza avviata in Africa orientale.

scere i nostri diritti, si parla di sanzioni. Sino a prova contraria, mi rifiuto di cre­ dere che l’autentico e generoso popolo di Francia possa aderire a sanzioni contro l’Italia. I seimila morti di Bligny1, caduti in un eroico assalto, che strappò un rico­ noscimento di ammirazione allo stesso comandante nemico, trasalirebbero sot­ to la terra che li ricopre. Io mi rifiuto del pari di credere che l’au­ tentico popolo di Gran Bretagna, che non ebbe mai dissidî con l’Italia, sia di­ sposto al rischio di gettare l’Europa sul­ la via della catastrofe per difendere un paese africano, universalmente bollato come un paese senza ombra di civiltà. Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari. Ad atti di guerra risponderemo con atti di guerra. Nessuno pensi di piegarci senza avere prima duramente combattuto. Un po­ polo geloso del suo onore non può usare linguaggio né avere atteggiamento diver­ so! Ma sia detto ancora una volta, nella ma­ niera più categorica – e io ne prendo in questo momento impegno sacro davanti a voi – che noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere colo­ niale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo. Ciò può essere nei voti di coloro che intravvedono in una nuova guerra la vendetta di templi crollati, non nei nostri. Mai come in questa epoca storica il popolo italiano ha rivelato le qualità del suo spirito e la potenza del suo ca­ rattere. Ed è contro questo popolo, al quale l’umanità deve talune delle sue più grandi conquiste, ed è contro que­ sto popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigratori, è contro questo popolo che si osa parlare di sanzioni.

Italia proletaria e fascista, Italia di Vitto­ rio Veneto e della rivoluzione! In piedi! Fa’ che il grido della tua decisione riem­ pia il cielo e sia di conforto ai soldati che attendono in Africa, di sprone agli ami­ ci, e di monito ai nemici in ogni parte del mondo: grido di giustizia, grido di vittoria! 1. Villaggio francese, teatro di una battaglia della prima guerra mondiale (luglio 1918) che vide impegnate anche truppe italiane.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi le espressioni che Mussolini utilizza per descrivere l’Italia, le altre nazioni e il loro rapporto con l’Italia.  b  Evidenzia i richiami alla dimensione spirituale del popolo italiano pronto alla guerra.  c  Descrivi il tono del discorso di Mussolini attraverso degli aggettivi.  d  Spiega per iscritto in che modo Mussolini si pone rispetto al popolo italiano e quale idea di sé sembra proporre.

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FARESTORIA L’ITALIA FASCISta

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 7 IMMAGINI DI PROPAGANDA FASCISTA

Attraverso la propaganda, Mussolini costruì un’immagine di sé e del fascismo che, sul finire degli anni ’30, divenne “monumentale”. Le adunate venivano organizzate facendo ricorso ai simboli che, come l’aquila delle legioni e il fascio littorio, risalivano idealmente all’Impero romano, ma anche a scritte sui muri o sulle strutture che sovrastavano i podi dei discorsi contenenti motti fascisti o frasi celebri del duce. In un’Italia ancora poco alfabetizzata, la scritta DUX e gli stessi caratteri romani utilizzati per queste scritte divennero così familiari agli italiani che anche chi non sapeva leggere era in grado di riconoscerli. La rappresentazione del duce si militarizzò sempre più, in preparazione della guerra, e la divisa divenne l’abbigliamento pubblico abituale delle più alte gerarchie fasciste. In alcune fotografie, egli stesso appare quasi come il monumento di sé stesso, proponendosi come colui che avrebbe condotto l’Italia verso un grande futuro. Le immagini di propaganda, come quelle proposte, erano realizzate dall’Istituto Luce e mostravano folle oceaniche in adorazione del loro capo, pronte a formare la scritta DUX con il colore dei propri vestiti. La guerra, con i suoi lutti, smentì i contenuti di questa costruzione propagandistica e costrinse Mussolini a cambiare la propria strategia comunicativa per immagini. GUIDA ALLA LETTURA

 a  Cerchia il protagonista principale di queste fotografie e le scritte che rimandano alla sua persona. Quindi descrivilo facendo ricorso ad alcune parole chiave.  b  Individua e rendi riconoscibili i simboli fascisti presenti nelle immagini.  c  Individua nel cappello introduttivo i riferimenti diretti alle fonti e numerali in ordine progressivo. Quindi indica sulle immagini i numeri corrispondenti.  d   Chi ha realizzato queste fotografie e per quale motivo? Rispondi per iscritto.  e  La risposta dell’esercizio precedente può influenzare l’analisi dei contenuti di queste fonti? Perché? ▲  Mussolini

tiene un discorso in piazza Vittorio Veneto a Torino 14 maggio 1939 Mussolini parla da un podio sovrastato da un’aquila su cui si legge la seguente iscrizione: «Torino piazzaforte della rivoluzione fascista saluta te Benito Mussolini duce di nostra gente fondatore dell’impero».

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▼  Mussolini

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

tiene un discorso all’arena di Verona 26 settembre 1939

▼  Mussolini

assiste a una sfilata militare settembre 1938



69 N. LABANCA LA GUERRA D’ETIOPIA

N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002 pp. 246-49; 251-52.

Il brano seguente è tratto da un importante studio dello storico Nicola Labanca (nato nel 1957) dedicato alle guerre coloniali italiane in epoca liberale e durante il Ventennio fascista e alla loro memoria oggi: nelle pagine qui riportate l’autore analizza in che modo il regime di Mussolini presentò al paese la guerra di conquista dell’Etiopia. Strumento fondamentale per mobilitare Alla vigilia della metà degli anni Trenta il regime si era ormai sostanzialmente stabilizzato: l’antifascismo che non era stato spinto all’esilio o carcerato versava in profonde difficoltà; il regime segnava qualche successo; la crisi del 1929, che in altri paesi aveva destrutturato l’econo­ mia, in Italia pesava ma pesava meno. Fu su questa base oggettiva che Mussolini ordinò quell’escalation della propaganda coloniale che avrebbe accompagnato e mobilitato il Paese sulla via della guerra all’Etiopia. Dal 1934 in poi, effettivamen­ te, la propaganda colonialista raggiunse in pochi mesi un climax sino ad allora im­ pensato per un’Italia dal piccolo impero. Tutti gli enti del regime collaborarono alla campagna e vi gareggiarono. Ma su tutti primeggiò il vecchio ufficio Stampa del­ la Presidenza del consiglio dei ministri, poi (settembre 1934) sottosegretariato alla Stampa e propaganda. Guidato dal genero del duce, Galeazzo Ciano (19031944)1, il sottosegretariato fu addirittura elevato a ministero per la Stampa e Pro­ paganda (giugno 1935; dal 1937 ministero della Cultura popolare) a significare il suo ruolo strategico per la preparazione della guerra e per il regime. Contrastare la propaganda straniera, che nel frattempo denunciava le mene guer­ riere del fascismo italiano; sfruttare pro­ pagandisticamente i possibili casus belli a partire da quello di Ual-ual2; creare e rafforzare un consenso attorno alla immi­ nente prova di forza del fascismo; centra­ lizzare e dare impulso alle varie attività di propaganda dei vari enti e istituzioni del regime: tutto questo rientrò sotto la com­ petenza del sottosegretariato, e poi mi­ nistero, che ebbe il compito strategico di creare in pochi mesi nel paese un clima di guerra e di tensione patriottica all’espan­ sione. Va ammesso che quasi tutti questi obiettivi furono raggiunti. Per la verità va osservato che una parte del successo di Ciano, nonché di Mussolini e del suo regime tendenzialmente totalitario, più

l’opinione pubblica e diffondere entusiasmo e consenso attorno alla spedizione africana fu la propaganda, attuata attraverso un utilizzo specifico e guidato dall’alto dei principali mezzi di comunicazione dell’epoca: i giornali, la radio, il cinema. Il rigido controllo del governo sui mass media, il ricorso alla censura, il bombardamento di immagini positive della guerra, la volontà di compattare la popolazione intorno alla scelta del regime di creare un impero fascista sono tutti elementi che mostrano il volto totalitario del fascismo nella seconda metà degli anni ’30.

che alla specifica azione propagandistica e alle sue parole fu dovuta ai fatti della po­ litica italiana e alle reazioni che essi solle­ varono. Ad esempio la drammatizzazione della crisi con l’Etiopia e l’imposizione della sanzioni da parte della Società delle Nazioni spinsero di per sé – indipenden­ temente dall’azione di propaganda – ver­ so un rinsaldamento nazionalistico. È certo però che l’azione propagandistica di Ciano, Mussolini e in genere del fasci­ smo poté avvalersi di mezzi larghissimi e fu concentrica e massiccia. Una ampia e complessa serie di «immagine coordi­ nate» fu lanciata dal regime e diffusa tra gli italiani. Mentre prima e durante la guerra il ministero degli Interni esigeva periodiche e minute relazioni dai pre­ fetti e dai propri informatori sullo spirito pubblico del Paese, la stampa quotidia­ na obbedì rigidamente alle veline3 im­ poste da Mussolini. Nel periodo della sua preparazione e per tutta la durata del conflitto la stampa illustrata scelse le im­ magini più adatte per dimostrare i «di­ ritti» italiani. La radio diffuse nell’etere le «prove» della «barbarie» dell’Etiopia schiavista e al momento dei discorsi di Mussolini tutto il Paese veniva fermato nell’ascolto delle parole del duce. L’edi­ toria si adattò a pubblicare opere e volu­ mi di semplice propaganda. I cinegior­ nali dell’Istituto Luce4 («il cinema è l’ar­ ma più forte») ebbero un ruolo strategico nel sostenere l’opinione interna, anche organizzando proiezioni mobili5. Il tea­ tro allestì comme­diuole d’occasione. Il mondo della canzone si ingegnò e trovò motivetti poi diventati famosi, a partire da Faccetta nera6. I maestri di scuola ob­ bligarono scolari e scolare a scrivere temi e pensieri sulla forza del regime alle pre­ se con la conquista del proprio impero. Un esempio dell’attenta organizzazione della propaganda coloniale per la guerra d’Etiopia è ormai divenuto classico. Chi ha studiato come il maggior quotidiano d’informazione del tempo, il «Corriere

della Sera», rappresentò ai suoi lettori il culmine vittorioso della guerra d’Etiopia ha osservato che la stampa mise in atto una serie di meccanismi concentrici mi­ ranti a trasformare la realtà della guerra in una vera e propria «epica coloniale» del regime. L’immagine dei colonizzato­ ri conquistatori fu intonata all’apoteosi, quella degli etiopici vinti e poi coloniz­ zati fu invece «animalizzata». Più che di eurocentrismo, il grande quotidiano di origini liberali diede mostra di vero e proprio razzismo nei confronti degli «in­ digeni», mentre all’opposto sviluppava un culto personalistico di Mussolini e degli «eroi» della conquista, nonché del­ la Chiesa cattolica che li benediceva. La descrizione e la narrazione di quanto av­ veniva in Etiopia non poteva non mirare anche ad una «rinnovata identità collet­ tiva» italiana, cui portarono acqua sia le grandi firme del giornalismo italiano nella prima pagina, sia i più oscuri cro­

1. Galeazzo Ciano aveva sposato la figlia di Mussolini, Edda: fu tra i più importanti uomini politici del regime fascista, ricoprendo anche la carica di ministro degli Esteri dal 1936. Nella seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, Ciano votò la sfiducia a Mussolini e, per questo, venne condannato a morte da un tribunale della Repubblica sociale italiana e fucilato nel 1944. 2. Oasi nella regione al confine tra l’Etiopia e la Somalia, teatro di uno scontro armato nel dicembre 1934, che venne poi preso come pretesto dagli italiani per l’aggressione all’Etiopia. 3. Note spedite alla stampa contenenti direttive da seguire. 4. Società per la promozione della “Cinematografia educativa”, creata nel 1924. 5. Ovvero itineranti e allestite laddove non vi erano dei cinema. 6. Nota canzone, osteggiata dal regime perché invitava gli italiani a civilizzare le popolazioni africane e quasi a fraternizzare con loro.

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FARESTORIA L’ITALIA FASCISta

nisti delle pagine interne, sia infine gli intellettuali e gli «elzeviristi»7 della terza pagina. Il meccanismo della «creazione della notizia» a mezzo fra trasmissione degli ordini del regime e operato della censura è stato poi confermato da studi più specifici. Ma quanto tutto ciò fosse, spesso, basato sulla censura e sull’auto­ censura da parte dei giornalisti era già stato documentato dalla pubblicazione del diario originale del giornalista Ciro Poggiali che, inviato in Etiopia per il «Corriere» nei mesi successivi alla con­ quista, nelle pagine scritte per sé stesso annotava e si scandalizzava per quelle brutalità che invece scomparivano dalle colonne, ordinate e apologetiche, pub­ blicate a sua firma sul prestigioso quo­ tidiano8. Non ci furono tecniche mas­ smediatiche nuove o che non fossero già state sperimentate negli anni preceden­ ti. Ma tutto venne attivato contempora­ neamente, imposto e guidato con pugno ferreo: la contemporaneità e la concen­ tricità, in una parola il coordinamento e l’organizzazione, rappresentarono forse il fattore più importante. Anche il fattore tempo ebbe un ruolo spesso sottovaluta­ to. Dal dicembre 1934 all’ottobre 1935, in dieci mesi, l’opinione pubblica fu prepa­ rata e «lavorata»: dall’ottobre al maggio 1936, nel conflitto «dei sette mesi», essa



fu bombardata di messaggi concentrici e insistenti. Lo stato totalitario rivelava in questo frangente la straordinaria dut­ tilità per l’imposizione di una moderna propaganda di massa. [...] La propaganda colonialista del fascismo del 1935-1936 ebbe presa – come quella del 1911-1912 e già del 1895-1896 – per­ ché non nasceva dal nulla. Per quanto «moderna» nella forma (cinematografica, radiofonica, giornalistica, fotografica), il contenuto dell’immagine dell’Africa da essa veicolata aveva aspetti tradizionali, se non proprio atavici9. L’Africa miste­ riosa o tenebrosa, gli africani bonari fan­ ciulli o perfidi selvaggi, gli arabi infidi, il Bianco naturalmente civilizzatore ecc. facevano parte di un repertorio tradizio­ nale, stucchevole e ripetitivo, ma di quasi sicura presa in assenza di una critica ser­ rata all’ideologia coloniale. [...] Rispetto a quella coloniale dell’Italia liberale, la pro­ paganda del fascismo insisté sempre più sull’immodificabilità degli «indigeni», sul carattere «mistificante»10 dei tentativi di incivilimento e delle politiche di assimi­ lazione teorizzate (se non proprio messe in atto) dall’Italia liberale. Gli «indigeni» dovevano invece essere «preservati» nel­ la loro naturalità, con un’accentuazione che oggi diremmo differenzialista. Pro­ prio nel momento in cui non pensavano

7. Che scrivevano cioè articoli (“elzeviri”) di taglio culturale. 8. Si riferisce al fatto che i giornali dell’epoca nascosero i metodi brutali adottati dai militari italiani per sconfiggere la resistenza etiopica. 9. Che risalgono ai tempi antichi. 10. Ingannevole.

METODO DI STUDIO

 a Cerchia il nome dell’ufficio preposto alla propaganda coloniale e sottolinea i suoi obiettivi internazionali.  b  Spiega per iscritto in che modo e con quali intenti i media italiani seguirono la preparazione del conflitto con l’Etiopia e il suo svolgimento. Prima di scrivere cerchia i media citati nel brano.  c  Evidenzia i fattori che resero efficace la propaganda colonialista del fascismo nel 1935-36.

70d LA DICHIARAZIONE SULLA RAZZA

La «dichiarazione sulla razza» approvata dal Gran Consiglio (6 ottobre 1938), in R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario (1936-1940), Einaudi, Torino 1981, pp. 914-17.

Il 6 ottobre 1938 il Gran consiglio del fascismo approvò una Dichiarazione sulla razza, di cui si riporta qui il testo integrale. In questo documento, preceduto da una martellante campagna di stampa e da un Manifesto firmato da sedicenti scienziati, era indicato l’aberrante obiettivo del «miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana», minacciato da «incroci e imbastardimento». In particolare, venivano vietati i matrimoni tra italiani e «non ariani». Tra questi ultimi Il Gran Consiglio del Fascismo, in segui­ to alla conquista dell’Impero, dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razzia­ le. Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, migliora­ mento che potrebbe essere gravemente

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di civilizzarli, essi avrebbero dovuto ve­ dere nel fascismo – secondo la retorica del regime – il loro miglior alleato. È evi­ dente a tutti la rilevanza sinistra assunta da questa impostazione con l’approssi­ marsi del 1937 e della codificazione di vere e proprie leggi razziali coloniali, se­ guite l’anno successivo dalla legislazione antisemita.

erano compresi gli ebrei, il vero bersaglio della campagna, per i quali si prevedevano forti discriminazioni: era loro proibito, tra l’altro, di lavorare nelle amministrazioni pubbliche, di possedere aziende o terreni di valore. Poche le eccezioni, e non tali da snaturare l’ispirazione sostanzialmente «biologica» del razzismo fascista, che individuava come principale criterio discriminatorio quello della nascita e del sangue. Quando questo documento fu approvato era già stata varata da un mese una prima serie di provvedimenti antiebraici, cui ne seguiranno altri in novembre: le cosiddette “leggi razziali”.

compromesso, con conseguenze politi­ che incalcolabili, da incroci e imbastar­ dimenti. Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carat­ tere generale. Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce: a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

razze camita1, semita e altre razze non ariane; b) il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici – personale civile e mili­

1. Secondo la Bibbia, i discendenti di Cam, il figlio di Noè.

tare – di contrarre matrimonio con don­ ne straniere di qualsiasi razza; c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri anche di razze ariane, dovrà avere il preventivo consenso del Mini­ stero dell’Interno; d) dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell’Impero. Ebrei ed ebraismo Il Gran Consiglio del Fascismo ricorda che l’ebraismo mondiale – specie dopo la abolizione della massoneria – è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoruscito è stato – in taluni periodi cul­ minanti come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica – unanimemente ostile al Fascismo. L’immigrazione di elementi stranieri – accentuatasi fortemente dal 1933 in poi – ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani, nei confronti del Regime, non accettato sinceramente, poiché an­ titetico a quella che è la psicologia, la po­ litica, l’internazionalismo d’Israele. Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l’ebraismo mondiale è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona2. Il divieto d’entrata e l’espulsione degli ebrei stranieri Il Gran Consiglio del Fascismo ritiene che la legge concernente il divieto d’in­ gresso nel Regno, degli ebrei stranieri, non poteva più oltre essere ritardata, e che l’espulsione degli indesiderabili – secondo il termine messo in voga e ap­ plicato dalle grandi democrazie – è indi­ spensabile. Il Gran Consiglio del Fascismo decide che oltre ai casi singolarmente contro­ versi che saranno sottoposti all’esame dell’apposita commissione del Ministero dell’Interno, non sia applicata l’espul­ sione nei riguardi degli ebrei stranieri i quali: a) abbiano un’età superiore agli anni 65; b) abbiano contratto un matrimonio mi­ sto italiano prima del 1° ottobre XVI3. Ebrei di cittadinanza italiana Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l’appartenenza o meno alla razza ebrai­ ca, stabilisce quanto segue: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera;

c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica co­ lui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori della ebraica, alla data del 1° ottobre XVI. Discriminazione tra gli ebrei di cittadinanza italiana Nessuna discriminazione sarà applica­ ta – escluso in ogni caso l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado – nei confronti di ebrei di cittadinanza italia­ na – quando non abbiano per altri motivi demeritato – i quali appartengono a: 1) famiglie di caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo secolo: li­ bica, mondiale, etiopica, spagnola; 2) famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spa­ gnola; 3) famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, in­ signiti della croce al merito di guerra; 4) famiglie di Caduti per la Causa fascista; 5) famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa fascista; 6) famiglie di Fascisti iscritti al Partito negli anni ’19-20-21-22 e nel secondo semestre del ’24 e famiglie di legionari fiumani; 7) famiglie aventi eccezionali beneme­ renze che saranno accertate da apposita commissione. Gli altri Ebrei I cittadini italiani di razza ebraica, non appartenenti alle suddette categorie, nell’attesa di una nuova legge concer­ nente l’acquisto della cittadinanza italia­ na, non potranno: a) essere iscritti al Partito Nazionale Fa­ scista; b) essere possessori o dirigenti di azien­ de di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone; c) essere possessori di oltre cinquanta et­ tari di terreno; d) prestare servizio militare in pace e in guerra. L’esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti. Il Gran Consiglio del Fascismo decide inoltre: 1) che agli ebrei allontanati dagli impie­ ghi pubblici sia riconosciuto il normale diritto di pensione; 2) che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosa­ mente repressa;

3) che nulla si rinnovi per quanto riguar­ da il libero esercizio del culto e l’attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti; 4) che, insieme alle scuole elementari, si consenta l’istituzione di scuole medie per ebrei. Immigrazione di ebrei in Etiopia Il Gran Consiglio del Fascismo non esclude la possibilità di concedere, an­ che per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigra­ zione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia. Questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei, potranno essere annul­ late o aggravate a seconda dell’atteggia­ mento che l’ebraismo assumerà nei ri­ guardi dell’Italia fascista. Cattedre di razzismo Il Gran Consiglio del Fascismo prende atto con soddisfazione che il Ministro dell’Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle princi­ pali Università del Regno. Alle Camicie Nere Il Gran Consiglio del Fascismo, mentre nota che il complesso dei problemi raz­ ziali ha suscitato un interesse ecceziona­ le nel popolo italiano, annuncia ai Fasci­ sti che le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali e im­ pegnative per tutti e che alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli Ministri. 2. Capitale della Catalogna, roccaforte delle formazioni repubblicane che combattevano contro Franco. 3. Ovvero il 1938. Il calendario fascista iniziava dall’ottobre 1922, cioè dalla presa del potere dopo la marcia su Roma.

METODO DI STUDIO

 a  Realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) selezionando le parole chiave relative alla dichiarazione sulla razza e attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole che rispecchiano i concetti a cui gli autori hanno voluto dare maggior rilievo. Quindi argomenta le tue scelte.  b  Sintetizza sul quaderno i contenuti di ogni tema affrontato.  c  Spiega che tipo di documento è questo, chi sono gli autori e per quali motivi è stato scritto.

457

FARESTORIA L’ITALIA FASCISta



71 L. RAPONE ANTIFASCISMO E DISSENSO

L. Rapone, L’Italia antifascista, in Storia d’Italia, a c. di G. Sabbatucci, V. Vidotto, vol. 4 Guerre e fascismo 1914-1943, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 501-9.

Nel brano seguente, lo storico Leonardo Rapone (nato nel 1952) propone una definizione di ciò che viene indicato con il nome di “antifascismo”, distinguendolo dai sentimenti più generali di opposizione morale e di dissenso diffusi tra la

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L’«Italia antifascista» è innanzitutto un problema di definizione. Occorre infat­ ti attribuire un significato appropriato a questa espressione per determinare quanto estesi furono i confini, quanto ampio fu il territorio di quell’«altra Italia» che negli anni del fascismo si contrappo­ se all’Italia legale della dittatura mussoli­ niana. Si tratta di stabilire, in altre parole, quali orientamenti di pensiero, quali in­ clinazioni della sfera privata, quali com­ portamenti pubblici possano ricondursi nella categoria dell’«antifascismo». [...] Se ci si chiede quando l’urto tra il fasci­ smo e i suoi oppositori assuma tale suo carattere tipico e quando l’opposizione al fascismo divenga perciò propriamen­ te antifascismo, dobbiamo differenziare la risposta a seconda che ci si riferisca ai singoli protagonisti dell’azione politica – partiti, movimenti, personalità indivi­ duali – o all’antifascismo come fenomeno unitario e d’insieme. Nel primo caso, per­ ché si possa ravvisare nell’antifascismo la caratteristica saliente di una politica, occorre che da parte degli avversari del fascismo si giunga non solo ad escludere ogni possibilità di compromesso, ma an­ che ad acquisire la consapevolezza che il contrasto con il fascismo non rappresen­ ta uno dei molteplici fronti della compe­ tizione politica, bensì quello centrale e decisivo, da cui dipendono e attorno a cui si ordinano tutti gli altri. Le forze non fa­ sciste – anche quelle che, come i partiti e i sindacati operai, sin dall’inizio sono il ful­ cro dell’opposizione al fascismo e su cui s’abbatte la violenza squadrista – solo gra­ datamente e in tempi diversi raggiungono lo stadio dell’antifascismo nel senso pie­ no del termine, man mano che si lasciano alle spalle le illusioni, a seconda dei casi, sulla normalizzazione e sulla costituzio­ nalizzazione del fascismo, sulla transi­ torietà della sua presenza al centro della scena politica del paese o sulla continuità tra il dominio fascista e i precedenti asset­ ti di potere. Affinché poi l’antifascismo si affermi an­

popolazione italiana per tutto il Ventennio. Come mostra l’autore, infatti, a fianco di una minoranza di persone impegnata in una militanza politica antifascista consapevole e clandestina, era presente una cosiddetta “terza Italia”, né convintamente fascista né antifascista in senso stretto, che continuò ad avere in privato o, in parte, anche in pubblico, idee e atteggiamenti non aderenti all’ideologia dominante.

che come realtà generale, dotata di una propria consistenza, è necessario un al­ tro passaggio, e cioè che i diversi antifa­ scismi, pur mantenendo distinte le loro individualità, si riconoscano partecipi di una lotta comune e sentano l’esigenza di operare congiuntamente. Sotto questo secondo profilo gli svolgimenti della crisi Matteotti segnano senza dubbio l’atto di nascita dell’antifascismo unitario, benché sia allora sia negli anni successivi l’am­ piezza dello schieramento unitario vari ripetutamente e solo nella fase culminan­ te della Resistenza giunga a comprende­ re la quasi totalità delle forze impegnate contro il fascismo. Se da un lato lo sviluppo dell’antifascismo dipende dalla maturazione interna delle forze di opposizione, dall’altro è inevita­ bilmente condizionato dall’evoluzione del fascismo, da cui non si può pertan­ to prescindere in una periodizzazione dell’antifascismo. È la svolta del novem­ bre 1926, con il passaggio al sistema del partito unico e la distruzione degli ultimi simulacri di libertà, a togliere al conflitto fascismo-antifascismo ogni residuo ca­ rattere di competizione all’interno di un medesimo quadro politico-istituzionale e a conferirgli definitivamente l’aspetto di un’antitesi fra due Italie, che si manife­ sta concretamente nel fatto che, da allo­ ra, l’opposizione politica può esprimersi solo attraverso attività clandestine o in esilio. Tuttavia una visione rigidamente dualistica, che consideri fuori della realtà fascista solo quelle posizioni e quelle atti­ vità «illegali» che apertamente le si con­ trappongono, semplifica arbitrariamente una situazione più mossa e differenziata, perché cancella l’esistenza di una «terza Italia», a sua volta costituita da una mol­ teplicità di posizioni e di comportamenti, individuali e collettivi, che sfuggono alla dicotomia fascismo-antifascismo. Sebbe­ ne temi come il grado d’intensità del tota­ litarismo fascista o la misura e la qualità del consenso al regime non siano argo­ menti specifici di una storia dell’antifa­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

scismo, è importante, perché si abbia una rappresentazione adeguata dell’habitat in cui si svolse l’opposizione militante al regime mussoliniano, accennare alle re­ lazioni e alle distinzioni tra l’antifascismo vero e proprio e una serie di manifesta­ zioni che, pur non assumendo i caratteri di un antagonismo radicale e consape­ vole, testimoniano l’esistenza di falle nel sistema fascista di controllo della società italiana e una presenza di «germi di oppo­ sizione» o almeno una volontà di distin­ zione più diffusa di quanto si potrebbe desumere dalle sole attività propriamente antifasciste. Per comodità di esposizione si possono individuare cinque situazioni tipiche. Il primo caso è quella della pubblicistica e dell’associazionismo del laicato cattoli­ co, a cui il governo fascista, malgrado le pretese totalitarie e i momenti di scon­ tro per la determinazione delle rispettive aree (si pensi ai conflitti del ’31 e del ’38 con l’Azione cattolica)1, consente relativa autonomia di sviluppo nel quadro del­ la politica di accordo con la Chiesa che rappresenta uno dei cardini del regime. A personalità singole e a gruppi organiz­ zati, seppur circoscritti, del cattolicesimo italiano si offre così la possibilità di svol­ gere un’opera di approfondimento sul piano culturale e dottrinale, proponendo all’attenzione anche soluzioni distanti e talvolta in contrasto con l’ideologia, l’eti­ ca e la prassi politica del fascismo. [...] Ciò che il cattolicesimo organizzato riesce ad esprimere attraverso le sue componenti più distanti dal clerico-fascismo2 non è tanto una particolare forma di antifasci­ smo quanto un atteggiamento distacca­ to e riservato nei confronti della politica 1. Organizzazione del laicato cattolico nata all’inizio del ’900 dall’unione delle principali associazioni cattoliche e riconosciuta dal Concordato del 1929. 2. Ovvero quella parte di mondo cattolico e clericale che obbediva al fascismo e, in molti casi, lo sosteneva apertamente.

dominante, «una sotterranea opera di preservazione individuale» che consenta di non farsi sommergere dalla piena del fascismo. Il secondo caso che è arduo collocare nella dicotomia fascismo-antifascismo è quello delle proteste popolari (scioperi, rimostranze, assembramenti, tumulti) che, in misura non trascurabile per un paese da cui è stata bandita ogni forma di lotta di classe, si registrano in Italia so­ prattutto nei momenti di più grave crisi economico-sociale attraversati dal regi­ me fascista, dopo la rivalutazione della lira e nei primi anni Trenta. [...] Una terza questione è relativa al rapporto tra il mondo della cultura e l’antifascismo. Nel panorama dell’élite culturale italiana gli esempi di mobilitazione antifascista dopo il 1926 sono assai rari e concernono soprattutto casi di impegno intellettuale e politico nell’emigrazione [...] Malgrado l’esiguità di queste manifestazioni di op­ posizione, non mancarono tra i protago­ nisti della vita intellettuale italiana quelli che, pur tenendosi distanti dagli svolgi­ menti politici clandestini e astenendosi da atti di aperta rottura, cercarono d’i­ spirarsi a un’esigenza di differenziazio­ ne culturale e di propagazione di valori autonomi e distinti da quelli espressi dal regime. Ma questa cultura che non accet­ tò il fatto compiuto del fascismo non può essere identificata senz’altro con una po­ sizione antifascista. [...] Si giustifica quin­ di il giudizio consolidato che attribui­sce solo all’opera di Benedetto Croce – la sua personale e quella del milieu3 da lui più direttamente influenzato, che aveva



nella rivista «La Critica» e nella casa edi­ trice Laterza i suoi canali di diffusione – il carattere di un’opposizione al fascismo svolta con continuità sul piano della cul­ tura, in attuazione del proposito di fare opera di chiarificazione delle coscienze e di «restaurazione delle necessarie pre­ messe intellettuali e morali» di una ri­ scossa della libertà. Vi è poi il nodo di quello che qualcuno che ne ha fatto l’esperienza ha definito talvolta, con gusto del paradosso, «un antifascismo in camicia nera» o «antifa­ scismo fascista», per alludere alla virtuale estraneità al nucleo sostanziale del fasci­ smo di una serie di posizioni e di idealità presenti e dibattute dalla metà degli anni Trenta nei ranghi giovanili fascisti, segna­ tamente tra gli studenti, caratterizzate dall’aspirazione a un fascismo che fosse moto continuo di trasformazione, anti­ conformista e antiborghese, rinnovatore nel profondo del costume e dei rapporti sociali. [...] L’ultimo problema è costituito da quel­ la che potrebbe sommariamente dirsi l’«opposizione delle coscienze». Si tratta di quei sentimenti avversi al regime – ba­ sati su vecchie fedeltà ideali, su tradizioni individuali o di gruppo, su convinzioni razionali –, che normalmente non danno luogo a manifestazioni di dissenso e arri­ vano tutt’al più ad esprimersi all’interno di una rete di relazioni personali di sicu­ ro affidamento, protette da infiltrazioni esterne, ma per ciò stesso isolate dal resto della società: idonee alla celebrazione di un culto che, borghese o proletario, libe­ rale o sovversivo, rimane però un culto

72 A. GAROSCI IL FUORUSCITISMO

A. Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, Bari 1953, pp. 9-10; 239-41.

La Storia dei fuorusciti di Aldo Garosci (1907-2000) è uno degli studi più significativi sull’antifascismo. Amico e compagno di lotte di Carlo Rosselli, di cui scrisse anche una biografia, Garosci fu tra i fondatori del movimento «Giustizia e Libertà», e partecipò alla guerra di Spagna e poi alla Resistenza. Pubblicò questo volume sull’emigrazione italiana antifascista nel Anche senza risalire agli esempi del Rina­ scimento e della Riforma e limitandoci al confronto con l’età del Risorgimento, l’e­ migrazione politica del 1922 e degli anni seguenti presenta caratteri nettamente originali.

privato, nutrito di ricordi del passato e di indignazione per il presente, restio a esporsi alla repressione, fermo nell’attesa di eventi che scuotano le basi della ditta­ tura. [...] Da quanto detto risulta che per definire l’antifascismo non si può rinunciare a un criterio selettivo e restrittivo: consapevo­ lezza politica e impegno attivo di lotta, o comunque svolgimento di una funzio­ ne effettiva di contrasto, sono i requisiti essenziali, senza i quali si può avere dis­ senso, protesta, ripulsa morale, ma non reale antagonismo nei riguardi del fasci­ smo. Così definito, l’antifascismo è, dopo il 1926, un fenomeno animato da ridotte minoranze, che, non rassegnandosi alla sconfitta e all’oppressione, si incaricano con la loro combattività di rendere visibi­ le l’insanabile contrasto di valori suscitato dall’affermazione del fascismo. 3. Ambiente intellettuale e culturale.

METODO DI STUDIO

 a  Realizza uno schema in grado di sintetizzare le due strade attraverso cui, secondo l’autore, l’opposizione al fascismo diventa antifascismo.  b  Spiega cosa accadde con la crisi Matteotti e cosa essa rappresenta nello sviluppo dell’antifascismo e perché.  c  Indica un titolo per le cinque situazioni caratteristiche dei “germi di opposizione” al fascismo e sintetizzale per iscritto.  d Evidenzia una frase in grado di esprimere la posizione dell’autore sulle caratteristiche proprie dell’antifascismo.

1953. Nel brano scelto, tratto in parte dall’introduzione all’opera e in parte dalle conclusioni, l’autore evidenzia i caratteri innovativi del fenomeno dei “fuorusciti” nel Ventennio rispetto agli esiliati politici del Risorgimento e traccia un giudizio sul loro ruolo storico. Secondo Garosci, l’emigrazione antifascista ebbe un indubbio significato morale, anche a prescindere dai suoi risultati politici. I fuorusciti contribuirono soprattutto alla propaganda internazionale antifascista e alla difesa delle tradizioni politiche democratiche durante gli anni della dittatura.

Prima di tutto essa ha il peso e i caratteri di una emigrazione «di massa». Nel Risorgimento gli esuli politici appar­ tenevano per lo più a ceti medi o supe­ riori, solo in alcuni casi artigiani, e non si trovavano in presenza di una grossa

emigrazione economica italiana, rap­ presentata da lavoratori manuali. Essi fruirono ancora per un certo tempo del «mercato» e della fama che gl’italiani dei secoli precedenti, quando la nostra cultura era superiore a quella degli altri

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FARESTORIA L’ITALIA FASCISta

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paesi, s’erano procacciata come maestri delle lettere e delle belle maniere e delle arti di rendere la vita ordinata e piacevo­ le. Fino a che, verso il 1840, la moda del tedesco non ebbe del tutto soppiantato quella dell’italiano come lingua di coltu­ ra, la professione del maestro di lingua o del precettore privato fu esercizio comu­ ne dell’esule italiano. I militari implicati nei «pronunciamenti» di Piemonte e di Napoli1 guerreggiarono in Grecia, in Por­ togallo, in Spagna e nell’America Latina, ed ebbero sorte comune con i demi-soldes2 degli eserciti napoleonici. Alcuni nuclei e colonie commerciali italiane, come quelle genovesi e livornesi, a volte li accolsero e li sostennero. Nell’emigrazione politica sotto il regime fascista poco emigrarono le classi politi­ che dirigenti; non ci fu una vera e propria emigrazione di intellettuali; emigrò inve­ ce una massa di lavoratori, in prevalenza manuali, cui il fascismo rendeva impos­ sibile la vita e che si riversò, sulle orme della emigrazione economica che l’aveva immediatamente preceduta, soprattutto nella vicina Francia. È questa massa che, fino alla fine del regime fascista, e anche dopo essersi in gran parte assimilata alla popolazione locale, costituì la base per la propaganda e l’azione politica dei «fuo­ rusciti». I quadri intellettuali e politici dell’emi­ grazione non trovarono all’estero (in ge­ nerale non la cercarono, ma se anche lo avessero voluto, non l’avrebbero trovata) la possibilità di inserirsi nella vita delle classi dirigenti degli altri paesi. Non nu­ clei fiorenti di banca o di imprese italia­ ne; la lingua scarsamente interessante per lo straniero moderno, meno utile ai traffici non solo dell’inglese, del francese e del tedesco, ma anche dello spagnolo, rigorosamente protette a vantaggio degli indigeni le professioni liberali. Solo re­ stando italiani gli esuli politici potevano restare classe dirigente. Infine, i fuorusciti del 1922-1925 non provenivano da un paese che non aves­ se conosciuto la libertà, come l’Italia del Risorgimento o la Russia di Herzen3 o di Lenin. Essi portavano con sé la tra­ dizione, i quadri, il nome e le bandiere dei partiti e delle formazioni politiche che erano state soppresse in Italia ma che perduravano nel resto dell’Europa e continuavano ad averci svolgimento. L’e­ migrazione politica antifascista fu così, in parte notevole, nelle sue manifesta­

zioni ufficiali, una emigrazione di partiti e contribuì assieme alla conservazione e all’evoluzione dei partiti dell’Italia prefa­ scista. Nacquero certo, si fondarono, si svi­ lupparono nell’esilio tradizioni politi­ che nuove; e ci furono tenaci resistenze dell’ambiente tradizionale, polemiche con esso e parziali assimilazioni in esso o da parte di esso. Attraverso le forma­ zioni nuove e le vecchie, che prolunga­ vano nel nome i partiti dell’Italia prefa­ scista e che spesso trovavano accanto a loro formazioni analoghe in Francia (si sa quale sia stata l’importanza dei mo­ delli francesi nella vita politica italiana dell’Ottocento e del primo Novecento) gli emigrati vissero parecchie esperien­ ze che altrimenti sarebbero rimaste quasi affatto estranee al nostro paese (esempi cospicui i fronti popolari e l’u­ nità d’azione social-comunista); e ciò li fece poi più pronti a cogliere talvolta aspetti nuovi della vita europea, e anche italiana, del 1945. [...] I fuorusciti esercitarono una influenza diretta sugli avvenimenti politici, sulla resistenza in Italia, e quale? Abbiamo, credo, già risposto a questo problema implicitamente nel corso del­ la nostra indagine. Anche qui, varie le azioni e varie le fasi di esse, come varie le valutazioni che se ne possono dare. Le elenchiamo di nuovo pro memoria: a) agitazione ardita e imprese avventate, talvolta terroristiche, da parte di singo­ li uomini o gruppi, nel primo periodo, concluso verso il 1932-33. Tale azione non fu priva di efficacia, quantunque non coronata da successi decisivi. Ai vantaggi di essa, che ricordava a Italiani e stranieri come la partita, neppure sul terreno interno, non fosse definitiva­ mente chiusa, andarono strettamente congiunti i danni di aver alimentato la speranza nella liberazione miracolosa, portata dall’alto attraverso un colpo for­ tunato; b) conservazione di nuclei importanti di tradizioni politiche del periodo demo­ cratico, di centri di vita e di discussioni e di esperienze condotte attorno a queste tradizioni; legame mantenuto tra alcuni italiani e la vita degli ideali politici della democrazia negli altri paesi d’Europa. È stata questa la funzione dei partiti in esi­ lio: e può darsi che, in quell’opera, siano state mantenute anche forme e tradizio­ ni che erano degne di cadere; ma certo si

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

conservarono anche valori positivi (ba­ sta pensare anche a elementi apparente­ mente trascurabili della tecnica demo­ cratica: saper condurre una discussione, presiedere un’assemblea) e la tradizione si arricchì di qualche nuova esperienza. Si rifletta 1. che nei partiti che non ebbe­ ro fuorusciti, la tradizione venne ripresa esattamente al punto in cui era stata in­ terrotta nel 1924, con immissione più o meno incosciente di elementi assorbiti dal fascismo; 2. che nei partiti nei quali affluì una massa tradizionalista, spesso furono proprio i fuorusciti a aver meglio compreso il senso di alcuni mutamenti che si erano frattanto operati nelle isti­ tuzioni e nello spirito in tutta Europa; c) creazione all’estero di centri ausilia­ ri, ispiratori e motori della cospirazione italiana: nel P.C.I. e in G.L.4 è assai diffi­ cile, ad esempio, tracciare un solco netto fra quanto fu operato e pensato in Italia e quanto si pensò e operò all’estero, con la mente rivolta all’Italia. Senza centri esterni, quella cospirazione, che costituì classi dirigenti importanti, sarebbe stata certo meno efficace e più saltuaria; d) lotta aperta, armata, fisica, condotta non senza fortuna contro singole impre­ se mussoliniane. Una prima volta nel periodo 1921-1924, quando il fascismo cercò di estendere sulle masse emigrate la sua egemonia con il metodo squadri­ stico con il quale s’era imposto nel pae­ se; una seconda volta in Spagna, quan­ do i fuorusciti combatterono con le armi contro l’intervento mussoliniano; e) propaganda tra l’opinione pubblica e i governi stranieri, mirante a negare al fa­ scismo la qualità di legittimo e solo rap­ presentante dell’opinione della nazione italiana e ad assumerne, in certa guisa, la rappresentanza. [...] La verità è che l’attività dei maggiori tra i fuorusciti fu costante e cospicua negli organi di stampa e nell’attività orato­ ria per illuminare l’opinione pubblica straniera su quella che era la reale si­ tuazione in Italia, che la propaganda fascista presentava come un paese feli­

1. L’autore si riferisce ai moti insurrezionali del 1820-21. 2. Militari a mezza paga. 3. Aleksandr Ivanovič Herzen (1812-1870), politico e scrittore russo, uno dei padri del populismo. 4. Sigla di «Giustizia e Libertà».

ce, il quale godeva di una reale libertà e di una prosperità prima sconosciuta. Le campagne di Salvemini5 nel mondo anglosassone; le polemiche (nutrite di cifre di fatti) contro agenti della propa­ ganda fascista all’estero, come Villari, Pellizzi e Criscuolo, i suoi libri, come Il terrore fascista, Mussolini diplomatico e Sotto la scure fascista; i volumi di Sfor­ za6, alcuni dei quali, come Les bâtisseurs de l’Europe ebbero notevole successo; i libri e gli articoli di Don Sturzo seguiti con attenzione negli ambienti cattolici anglosassoni e nel mondo del cattolice­ simo liberale francese rappresentarono indiscutibili contributi alla difesa contro la penetrazione fascista nel mondo de­ mocratico internazionale, e in tal senso la loro efficacia si aggiunse a quella de­ gli scrittori di fama internazionale che, come Croce, mantenevano vivi in Italia gli ideali di libertà. Il «credito» o piut­ tosto il «millantato credito» del regime fascista ne uscì alquanto danneggiato tra gli spiriti riflessivi e più colti e la resi­ stenza istintiva delle masse straniere ne ricevette conforto.

6. Carlo Sforza (1872-1952), ministro degli Esteri nel governo Giolitti (1920-21), in esilio

PALESTRA INVALSI

1 Indica quali caratteristiche sono proprie dell’emigrazione politica del Risorgimento e quali del 1922 e degli anni seguenti.

Caratteristiche

Emigrazione politica del Risorgimento

Emigrazione politica dal 1922 in poi

Gli esuli erano per lo più lavoratori, soprattutto manuali Gli esuli politici erano per lo più appartenenti ai ceti medi e alti Gli esuli non trovarono spazio per integrarsi nella classe dirigente all’estero Gli esuli erano avvantaggiati dalla fama che gli italiani avevano guadagnato nei secoli precedenti Gli esuli guerreggiarono in Spagna, in Portogallo, in Grecia e nell’America Latina Gli esuli emigrarono soprattutto in Francia Questa emigrazione contribuì alla permanenza dei partiti politici preesistenti la lotta 2 Completa il testo che segue tenendo in considerazione quanto detto dall’autore. L’autore sostiene che i fuoriusciti esercitarono una influenza sugli avvenimenti politici e sulla Resistenza in Italia in modalità e forme differenti. Queste andavano dalle XXXXXX fino al 1932-33, alla conservazione di importanti YYYYYY del periodo democratico, alla creazione all’estero di MMMMMM di organizzazione e cospirazione politica (come nel caso del NNNNNN e G.L.), alla WWWWWW e alla propaganda all’estero tesa alla legittimazione di un altro pensiero politico italiano differente da quello mussoliniano. Che parole metteresti al posto di XXXXXX? E di WWWWWW? E di MMMMMM? [ ] d. lotta aperta armata [ ] a. tradizioni politiche [ ] b. Pci [ ] e. imprese terroristiche [ ] c. centri ausiliari

5. Gaetano Salvemini (1873-1957), storico e scrittore politico, nel 1925 fu arrestato e processato in quanto oppositore del fascismo e fuggì dall’Italia l’anno successivo, vivendo tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Fu tra i fondatori del movimento «Giustizia e Libertà». Le opere citate successivamente furono scritte in esilio tra il 1928 e il 1936.

73d PALMIRO TOGLIATTI UNA DITTATURA “TERRORISTA” E DI CLASSE

P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 3-5; 7-10.

Nell’ottobre del 1935, il leader dei comunisti italiani, Palmiro Togliatti (1893-1964), tenne un corso di lezioni «sugli avversari» alla sezione italiana della scuola leninista di Mosca. Gli appunti, raccolti da uno dei partecipanti al corso (e rivisti da Togliatti), furono poi pubblicati in Italia nel 1970, Quando noi parliamo di «avversari» non abbiamo in vista le masse che sono iscritte alle organizzazioni fasciste, socialdemo­ cratiche, cattoliche. Avversari nostri sono le organizzazioni fasciste, socialdemocra­ tiche, cattoliche, ma le masse che vi ade­ riscono non sono nostri avversari, sono delle masse di lavoratori che noi dobbia­ mo far tutti gli sforzi per conquistare.

durante il fascismo, di nuovo responsabile della politica estera nel secondo dopoguerra.

sei anni dopo la morte del segretario del Pci, col titolo Lezioni sul fascismo. Nelle lezioni, svolte in stile informale e colloquiale, da una parte si nota l’estrema rigidità dell’impianto ideologico, ispirato all’ortodossia leninista; dall’altra si apprezza la notevole duttilità tattica, che induce Togliatti a una parziale autocritica circa la politica svolta dal partito nel primo dopoguerra e lo porta a valutare con attenzione l’importanza dell’organizzazione di massa nel regime fascista.

Passiamo al nostro tema: il fascismo. Che cos’è il fascismo? Qual è la definizione più completa che è stata data di esso? La definizione più completa sul fascismo è stata data dal XIII Plenum dell’IC1 ed è la seguente: «Il fascismo è una dittatura terrorista aperta degli elementi più rea­ zionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario».

Non sempre del fascismo si è data la mede­ sima definizione. In diverse tappe, in diver­ si momenti, si sono date del fascismo delle definizioni diverse, molte volte errate. [...]

1. L’Internazionale comunista. Il XIII Plenum (ovvero assemblea plenaria) è quello svoltosi a Mosca nel gennaio 1933.

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Al IV Congresso per esempio Clara Zetkin2 fece un discorso sul fascismo il quale fu quasi tutto dedicato a rilevare il carattere piccolo-borghese del fascismo. Bordiga3 invece insistette sul non vedere alcuna differenza tra la democrazia bor­ ghese e la dittatura fascista facendole ap­ parire quasi come la stessa cosa, dicendo che vi era, fra queste due forme di gover­ no borghese, una specie di rotazione, di avvicendamento. In questi discorsi manca lo sforzo per uni­ re, per collegare, due elementi: la dittatu­ ra della borghesia e il movimento delle masse piccolo-borghesi. Dal punto di vista teorico comprendere bene il legame tra questi due elementi è ciò che è difficile. Eppure bisogna com­ prenderlo, questo legame. Se ci si ferma al primo elemento non si vede, si perde di vista la grande linea dello sviluppo storico del fascismo e il contenuto di classe. Se ci si ferma al secondo elemento, si perdono di vista le prospettive. Questo errore è quello che è stato com­ messo dalla socialdemocrazia la quale, fino a poco tempo fa, negava tutto ciò che noi dicevamo sul fascismo e lo con­ siderava come un ritorno a delle forme medievali, come una degenerazione del­ la società borghese. In queste sue defini­ zioni la socialdemocrazia partiva esclusi­ vamente dal carattere piccolo-borghese di massa che effettivamente il fascismo aveva assunto. Ma il movimento delle masse non è ugua­ le in tutti i paesi. Nemmeno la dittatura è uguale in tutti i paesi. Per questo io devo premunirvi contro un errore facile ad es­ sere commesso. Non bisogna credere che ciò che è vero per l’Italia debba esser vero, debba andar bene anche per tutti gli altri paesi. Il fascismo in vari paesi può avere delle forme diverse. Anche le masse di vari paesi hanno delle diverse forme di organizzazione. E quello che anche dob­ biamo tener presente è il periodo di cui si parla. In tempi diversi, nello stesso paese, il fascismo assume degli aspetti differenti. [...] Perché il fascismo, perché la dittatura aperta si instaura oggi, proprio in questo periodo? La risposta voi dovete trovarla in Lenin stesso, dovete cercarla nei suoi la­ vori sull’imperialismo. Non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce l’imperialismo. Voi conoscete le caratteristiche economi­ che dell’imperialismo. Conoscete la defi­

nizione che ne dà Lenin. L’imperialismo è caratterizzato da: 1) la concentrazione della produzione e del capitale; la forma­ zione dei monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del ca­ pitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base del capitale finanzia­ rio, di una oligarchia finanziaria; 3) gran­ de importanza acquistata dall’esportazio­ ne di capitali; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitali­ sti; e, ultimo, la ripartizione della terra tra le grandi potenze capitalistiche, che può considerarsi come finita. Queste, le caratteristiche dell’imperia­ lismo. Sulla loro base, vi è una tendenza ad una trasformazione reazionaria di tutti gli istituti politici della borghesia. Anche questo voi trovate in Lenin. Vi è una ten­ denza a rendere questi istituti reazionari e questa tendenza si manifesta nelle forme più conseguenti, col fascismo. Perché? Perché, dati i rapporti tra le classi e data la necessità da parte dei capitalisti di garantire i propri profitti, la borghesia deve trovare delle forme onde fare una forte pressione sui lavoratori. D’altra par­ te i monopoli, cioè le forze dirigenti del­ la borghesia, si concentrano al massimo grado e le vecchie forme di reggimento diventano degli impedimenti per il loro sviluppo. La borghesia deve rivoltarsi contro quello che essa stessa ha creato, perché ciò che altra volta era stato per lei elemento di sviluppo è diventato oggi un impedimento alla conservazione della società capitalistica. Ecco perché la borghesia deve diventare reazionaria e ricorrere al fascismo. A questo punto devo mettervi in guardia contro un altro errore: lo schematismo. Bisogna stare attenti a non commettere l’errore di considerare come fatale, ine­ vitabile, il passaggio dalla democrazia borghese al fascismo. Perché? Perché l’imperialismo non deve necessariamente dar luogo al regime di dittatura fascista. Vediamo con esempi pratici; ad esempio, l’Inghilterra che pure è un grande Stato imperialista e nel quale vi è un regime de­ mocratico parlamentare (seppure anche qui non si può dire che non vi siano dei caratteri reazionari). Vediamo la Fran­ cia, gli Stati Uniti, ecc. In questi paesi voi trovate le tendenze alla forma fascista di società ma esistono ancora le forme par­ lamentari. Questa tendenza alla forma fascista di governo vi è dappertutto. Ma questo non vuole ancora dire che dapper­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

tutto si debba arrivare obbligatoriamente al fascismo. Facendo questa affermazione si commet­ terebbe un errore schematico perché si affermerebbe una cosa che non è nella realtà, e si commetterebbe nello stesso tempo un grosso errore politico in quanto non si vedrebbe che le probabilità d’in­ staurazione di una dittatura fascista sono legate al grado di combattività della classe operaia ed alla sua capacità di difendere le istituzioni democratiche. Quando il proletariato non vuole, è difficile abbat­ tere queste istituzioni. Questa lotta per la difesa delle istituzioni democratiche si amplia e diventa la lotta per il potere. Questo è un primo elemento da mettere in luce nel definire il fascismo. Il secondo elemento consiste nel carat­ tere delle organizzazioni del fascismo, a base di massa. Molte volte il termine fasci­ smo viene adoperato in modo impreciso, come sinonimo di reazione, terrore, ecc. Ciò non è giusto. Il fascismo non signifi­ ca soltanto la lotta contro la democrazia borghese, noi non possiamo adoperare questa espressione soltanto quando sia­ mo in presenza di questa lotta. Dobbiamo adoperarla soltanto allorquando la lotta contro la classe operaia si sviluppa su una nuova base di massa con carattere picco­ lo-borghese come vediamo in Germania, in Italia, in Francia, in Inghilterra, ovun­ que esiste un fascismo tipico. La dittatura fascista, quindi, si sforza di avere un movimento di massa organiz­ zando la borghesia e la piccola borghesia. È molto difficile legare questi due mo­ menti. È molto difficile non sottolineare l’uno a scapito dell’altro. Per esempio, nel periodo di sviluppo del fascismo italiano, prima della marcia su Roma, il partito ha ignorato questo importante problema: intralciare la conquista delle masse pic­ colo-borghesi malcontente da parte della grande borghesia. Questa massa era allo­ ra rappresentata dagli ex combattenti, da alcuni strati di contadini poveri in via di arricchimento, da tutta una massa di spo­ stati creati dalla guerra.

2. Clara Zetkin (1857-1933) fu tra i maggiori dirigenti del Partito comunista tedesco. 3. Amadeo Bordiga (1889-1970) fu tra i fondatori e fra i primi dirigenti del Partito comunista italiano. Entrato in contrasto con i vertici dell’Internazionale, fu emarginato dai vertici del partito e poi espulso nel 1930.

Noi non abbiamo compreso che al fon­ do di tutto ciò c’era un fenomeno sociale italiano, non abbiamo visto le profonde cause sociali che lo determinavano. Non abbiamo compreso che gli ex combatten­ ti, gli spostati non erano degli individui isolati, ma una massa, e rappresentavano un fenomeno che aveva degli aspetti di classe. Non abbiamo compreso che non si poteva mandarli semplicemente al dia­ volo. Così per esempio gli spostati, che in guerra avevano avuto una funzione di comando, tornati a casa volevano conti­ nuare a comandare, criticavano il potere

esistente e ponevano tutta una serie di problemi che da noi dovevano essere pre­ si in considerazione. Compito nostro era quello di conquistare una parte di questa massa, di neutralizzare l’altra parte onde impedire che diventasse una massa di manovra della borghesia. Questi compiti sono stati da noi ignorati. Questo è uno dei nostri errori. Errore che si è ripetuto anche altrove: ignorare lo spostamento degli strati intermedi nel senso del crearsi nella piccola borghesia di correnti che possono essere sfruttate dalla borghesia contro la classe operaia.

74d CARLO ROSSELLI «OGGI IN SPAGNA, DOMANI IN ITALIA»



Atlante del Ventesimo secolo. I documenti essenziali 1919-1945, a c. di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 219-23.

Carlo Rosselli (1899-1937) fu una delle più importanti figure dell’antifascismo italiano in esilio. Dopo aver aderito al Partito socialista unitario a seguito dell’assassinio di Matteotti, insieme ad altri intellettuali e politici antifascisti, fu animatore di riviste clandestine. Arrestato, venne inviato nel 1926 al confino nell’isola di Lipari, dove scrisse Socialismo liberale (pubblicato in Francia nel 1930), proponendo una revisione del marxismo basata su un’idea di socialismo deCompagni, fratelli, italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle fila dell’armata rivolu­ zionaria. Una colonna italiana combatte da tre mesi sul fronte di Aragona. Undici morti, venti feriti, la stima dei compagni spagnuoli: ecco la testimonianza del suo sacrificio. Una seconda colonna italiana, formatasi in questi giorni, difende eroica­ mente Madrid. In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che avendo per­ duto la libertà nella propria terra, comin­ ciano col riconquistarla in Ispagna, fucile alla mano. Giornalmente arrivano volon­ tari italiani: dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dalle lontane Americhe. Dovun­ que sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall’Italia oppressa partono volontari. Nelle nostre file contiamo a decine i com­ pagni che, a prezzo di mille pericoli, han­ no varcato clandestinamente la frontiera. Accanto ai veterani dell’antifascismo lot­ tano i giovanissimi che hanno abbando­ nato l’università, la fabbrica e perfino la

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia la definizione di fascismo ritenuta maggiormente esaustiva da Togliatti. Quindi sottolinea gli elementi rilevanti da mettere in luce nel definire il fascismo.  b   Spiega per iscritto il collegamento esistente tra la dittatura della borghesia e il movimento delle masse piccolo-borghesi.  c   Evidenzia la domanda presente nella parte centrale del brano e sintetizza sul quaderno la risposta.  d   Spiega cosa è lo schematismo e perché è un errore.  e   Spiega chi è l’autore, per quale motivo ha scritto questo testo e quale tema affronta.

mocratico. Evaso dal confino, fu tra i principali organizzatori dell’emigrazione antifascista clandestina in Francia e tra i fondatori del movimento «Giustizia e Libertà». Allo scoppio della guerra civile in Spagna partì volontario nelle file delle formazioni repubblicane. Ferito e tornato in Francia, venne assassinato insieme al fratello da sicari che agivano in collegamento con i servizi segreti italiani. Nel brano seguente si riporta il discorso pronunciato da Rosselli alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936, nel quale l’autore sprona gli italiani alla rivolta contro il regime di Mussolini, individuando nella mobilitazione antifascista in Spagna il preludio della liberazione dall’oppressione fascista in Italia.

caserma. Hanno disertato la guerra bor­ ghese per partecipare alla guerra rivolu­ zionaria. Ascoltate italiani. È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Un secolo fa l’Italia schiava taceva sotto il tal­ lone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti1. Ogni sforzo di liberazione ve­ niva spietatamente represso. Coloro che non erano in prigione, venivano costretti all’esilio. Ma in esilio non rinunciarono alla lotta. Santarosa in Grecia, Garibaldi in America, Mazzini in Inghilterra, Pisa­ cane in Francia, insieme a tanti altri, non potendo più lottare nel paese, lottarono per la libertà degli altri popoli, dimostran­ do al mondo che gli italiani erano degni di vivere liberi. Da quegli esempi uscì con­ sacrata la causa italiana. Gli italiani riac­ quistarono fiducia nelle loro forze. Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell’antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che uti­ lizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero

italiani. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante ripro­ va. Nessuno parla più di de Rivera2. Nes­ suno parlerà più domani di Mussolini. E come nel Risorgimento, nell’epoca più buia, quando quasi nessuno osava spera­ re, dall’estero vennero l’esempio e l’inci­ tamento, così oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile dei volontari italiani, troverà alimento doma­ ni una possente volontà di riscatto. È con questa speranza segreta che siamo accor­ si in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Fratelli, compagni italiani, ascoltate. È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Non prestate fede alle noti­

1. In questo passaggio l’autore fa riferimento al periodo delle lotte risorgimentali e ai suoi protagonisti, alcuni dei quali sono elencati poco più avanti. 2. Miguel Primo de Rivera (1870-1930), generale spagnolo e dittatore dal 1923 al 1930.

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FARESTORIA L’ITALIA FASCISta

zie bugiarde della stampa fascista, che di­ pinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della scon­ fitta. La rivoluzione in Ispagna è trionfan­ te. Penetra ogni giorno di più nella vita del popolo rinnovando istituti, raddrizzando secolari ingiustizie. Madrid non è caduta e non cadrà. Quando sembrava in pro­ cinto di soccombere, una meravigliosa riscossa di popolo arginava l’invasione ed iniziava la controffensiva. Il motto della milizia rivoluzionaria che fino ad ora era «No pasaran»3 è diventata «Pasaremos», cioè non i fascisti, ma noi, i rivoluzionari, passeremo. La Catalogna, Valencia, tutto il litorale mediterraneo, Bilbao e cento altre città, la zona più ricca, più evoluta e industriosa di Spagna sta solidamente in mano alle forze rivoluzionarie. Un ordi­ ne nuovo è nato, basato sulla libertà e la giustizia sociale. [...] Comunismo, sì, ma libertario. Socializzazione delle grandi in­ dustrie e del grande commercio, ma non statolatria4: la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio è concepita come mezzo per liberare l’uomo da tut­ te le schiavitù. L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazio­ ne delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non solo un partito che, preten­ dendosi infallibile, sequestra la rivoluzio­ ne su un programma concreto e realista:

anarchici, comunisti, socialisti, repubbli­ cani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Qua­ le insegnamento per noi Italiani! Fratelli, compagni italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per recarvi il saluto dei vo­ lontari italiani. Sull’altra sponda del Me­ diterraneo un mondo nuovo sta nascen­ do. È la riscossa antifascista che si inizia in Occidente. Dalla Spagna guadagnerà l’Europa. Arriverà innanzitutto in Italia, così vicina alla Spagna per lingua, tradi­ zioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perché la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo di inerzia e di abbandono, di riprendere in mano il loro destino. [...] Italiani che ascoltate la radio di Barcello­ na, attenzione. I volontari italiani com­ battenti in Ispagna, nell’interesse, per l’ideale di un popolo intero che lotta per la sua libertà, vi chiedono di impedire che il fascismo prosegua nella sua opera criminale a favore di Franco e dei gene­ rali faziosi. Tutti i giorni aeroplani forniti dal fascismo italiano e guidati da aviatori mercenari che disonorano il nostro pae­ se, lanciano bombe contro città inermi, straziando donne e bambini. [...] Che l’I­ talia proletaria si risvegli. Che la vergogna cessi. Dalle fabbriche, dai porti italiani non debbono più partire le armi omici­

de. Dove non sia possibile il boicottaggio aperto, si ricorra al boicottaggio segreto. Il popolo italiano non deve diventare il po­ liziotto d’Europa. Fratelli, compagni italiani, un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona in nome di migliaia di combattenti italia­ ni. Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l’emancipazione di tutti i popoli. – Aiutate italiani la rivo­ luzione spagnuola, Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari. – E se per persecuzio­ ni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, tanto più presto sor­ gerà per il popolo italiano il tempo della riscossa. 3. «Non passeranno!», slogan delle forze repubblicane durante la guerra civile. 4. Fiducia assoluta nello Stato e nei suoi poteri.

METODO DI STUDIO

 a Dividi il testo in blocchi tematici il cui inizio sia corrispondente ai capoversi e indica per ogni blocco il tema affrontato e almeno due parole chiave che ne sintetizzino i contenuti.  b  Spiega che fonte è questa, chi è l’autore, da dove parla e perché.

PISTE DI LAVORO

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DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Facendo riferimento al brano di Gentile [►67], al discorso di Mussolini e alle fotografie che lo rappresentano [►FONTE ICONOGRAFICA 7] descrivi il ruolo di Mussolini nel fascismo e in che modo la propaganda contribuì a rafforzarlo. Evidenzia nei brani presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. 2 Scrivi un testo di circa 30 righe sul movimento antifascista italiano e sulla sua organizzazione facendo riferimento a Rapone [►71] e Garosci [►72], e ai documenti di Togliatti [►73d] e di Rosselli [►74d] citando opportunamente i testi. Prima di procedere con la scrittura, leggi attentamente i brani e realizza una scaletta di argomenti da trattare che utilizzerai in forma di indice del tuo elaborato.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

LO STORICO RACCONTA 3 Scrivi un testo di massimo 15 righe dal titolo L’impresa africana e la questione della razza, facendo riferimento al brano di Labanca [►69] e al documento sulle leggi razziali [►70d]. Evidenzia i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le citazioni che intendi riportare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 4 Realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) relativa al fascismo selezionando le parole chiave che puoi desumere basandoti sui testi di De Felice [►66], Gentile [►67], Labanca [►69], Rapone [►71] e attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti secondo l’interpretazione degli storici esaminati. Realizza quindi un testo descrittivo di massimo 60 righe in cui espliciterai le letture storiografiche che hai analizzato a partire dalle parole maggiormente in rilievo. Ricordati di citare opportunamente i brani e scegli un titolo per il tuo elaborato.

GUERRA MONDIALE, GUERRA TOTALE La seconda guerra mondiale è un evento centrale nella storia del ’900, sia per il carattere planetario che assunse a partire dal 1941, sia perché rappresentò il più drammatico esempio di «guerra totale»: una guerra cioè in cui, abbattute tutte le distinzioni fra militari e civili, le popolazioni vennero coinvolte in maniera indiscriminata. Il brano di Joanna Bourke [►75], che apre la sezione, affronta il tema in termini generali e descrive le principali caratteristiche del conflitto. Seguono poi alcuni testi dedicati alla guerra combattuta: la testimonianza di March Bloch [►76d] fa riflettere sui motivi che portarono alla rapida sconfitta, nel 1940, della Francia di fronte alla “guerra-lampo” tedesca; Omer Bartov [►77] ricostruisce il comportamento delle truppe tedesche in Unione Sovietica, spiegando così i caratteri particolarmente violenti e “barbari” del conflitto sul fronte orientale; infine Gerhard Schreiber [►78] affronta il tema delle violenze nel teatro di guerra del Pacifico, di cui si resero protagonisti soprattutto i soldati giapponesi. Niall Ferguson [►79] si sofferma poi sui motivi per cui gli anglo-americani si convinsero a fare un largo uso dei bombardamenti aerei, strategia fondamentale per sconfiggere le potenze nemiche ma anche causa di un gran numero di vittime tra le popolazioni civili. Gli ultimi due brani sono dedicati all’evento che avrebbe segnato irreversibilmente la storia del mondo e la stessa percezione della guerra: l’esplosione della bomba atomica. Robert Frank [►80] ripercorre le fasi della corsa, da parte dei principali paesi coinvolti nel conflitto, alla realizzazione di un ordigno nucleare. Chiude la testimonianza di Tamiki Hara [►81d], uno dei sopravvissuti al bombardamento di Hiroshima il 6 agosto 1945, che ci restituisce con pagine di rara intensità la drammaticità di quel giorno.



75 J. BOURKE GUERRA TOTALE

J. Bourke, La seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2005, pp. 8-10.

Le pagine che seguono sono tratte dall’introduzione a un volume di sintesi sulla seconda guerra mondiale della storica neo­zelandese Joanna Bourke (nata nel 1963), nel quale viene lasciato ampio spazio alle testimonianze e alle memorie delle La seconda guerra mondiale è stata il più grande cataclisma della storia moderna, una «guerra mondiale» nel pieno senso del termine, come dimostra il parago­ ne con quella che la precedette: duran­ te la guerra furono ventotto gli stati che parteciparono alla carneficina, mentre tra il 1939 e il 1945 ne furono coinvolti sessantuno. Le caratteristiche principa­ li del conflitto furono l’ampiezza delle ostilità, estese a ogni angolo della terra, e l’annullamento di ogni distinzione tra il campo di battaglia e il fronte interno: fattori che hanno portato il concetto di «guerra totale» a estremi di vertiginoso orrore. La maggioranza delle vittime fu­ rono infatti i civili e ciò, ancora una vol­ ta, è sottolineato nella maniera più cru­ da da un paragone con la prima guerra mondiale: mentre solo il 5% delle morti del 1914-18 riguardarono i civili, tale quota salì al 66% durante il conflitto del 1939-45. In Belgio, Cina, Francia, Grecia, Ungheria, Olanda, Norvegia, Polonia, Unione Sovietica e Iugoslavia furono uc­ cisi molti più civili che militari. Inoltre,

persone che vissero quella drammatica esperienza. In questo brano l’autrice si sofferma sulla complessità dell’evento storico e offre una chiara panoramica delle principali caratteristiche del conflitto, durante il quale vennero portati alle estreme conseguenze aspetti già osservati nel corso del 1914-18: il coinvolgimento dei civili in una «guerra mondiale» e «totale» e la morte in massa di milioni di vittime innocenti.

quale che sia la definizione da noi adot­ tata, la maggior parte di queste vittime erano incontestabilmente innocenti [...]. Se l’Olocausto è il caso più clamoroso di efferato massacro di civili, la stessa cosa avvenne in molte altre campagne della guerra; dei sei milioni di polacchi (ebrei e non) uccisi dai tedeschi, ad esempio, un terzo erano bambini. Infine la se­ conda guerra mondiale merita la fama di evento più sconvolgente della storia moderna in considerazione del fatto che i processi di disumanizzazione e stermi­ nio furono condotti in base a calcoli per così dire razionali. La scienza e la tecno­ logia furono utilizzate per i fini più aper­ tamente micidiali mai perseguiti nella storia dell’umanità. La gamma di que­ ste modalità d’impiego fu sbalorditiva, dall’impersonale bombardamento aereo all’assassinio spersonalizzato nelle ca­ mere a gas, fino alle esecuzioni dirette di intere comunità. Non meraviglia che, per gli 85 milioni di uomini e donne che mi­ litarono nelle diverse forze armate come anche per l’enorme numero di superstiti

civili, la guerra abbia costituito l’evento più indelebilmente impresso nelle loro memorie. La confusione e la complessità sono le caratteristiche dominanti di questa «guerra totale». Per questo motivo ogni storia della seconda guerra mondiale è necessariamente frammentaria e in­ completa [...]. Ogni nazione che vi prese parte racconta una storia diversa del­ la guerra e [...] i tratti comuni sono ben pochi: anche le questioni più elementari relative a protagonisti e date sono con­ troverse, per non parlare delle denomi­ nazioni. Gli europei la chiamano, nelle varie lingue, «seconda guerra mondia­ le», mentre gli americani preferiscono «World War Two»; per i russi è la Grande guerra patriottica, mentre per i giappo­ nesi è la Grande guerra dell’Asia orienta­ le. Molto ampio è poi il disaccordo sulla denominazione dell’evento più atroce della guerra: il massacro dei sei milio­ ni di ebrei. Come definirlo? Olocausto, Shoah, «l’Evento», genocidio, sterminio, omicidio di massa, «univers concentra­

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FARESTORIA GUERRA MONDIALE, guerra totale

tionnaire»1, o si dovrebbe addirittura preferire l’espressione nazista «soluzio­ ne finale»? In questo libro si userà la pa­ rola Olocausto, termine greco per «com­ bustione totale» o «sacrificio rituale con il fuoco». Ma cosa significano queste parole per i 14-16 milioni di non ebrei che rima­ sero anch’essi vittime dello sterminio di massa messo in atto dai nazisti? In fon­ do, anche polacchi, slavi e zingari furono bersagli del genocidio, oltre ai comunisti tedeschi, ai testimoni di Geova, ai crimi­ nali «asociali», ai disabili mentali e fisici, ai malati cronici e agli omosessuali. A un livello più prosaico, quando è inizia­ ta la guerra? In Giappone la data d’inizio è considerata il 1931 (Showa 6, in base al calendario giapponese)2, quando prese il via l’occupazione della Manciuria, una provincia cinese di confine: l’evento co­ stituì l’esordio di ciò che viene chiamato «la valle oscura» (kurai tanima), ossia un decennio e mezzo di guerra. La Gran Bre­ tagna, la Francia e i paesi del Common­ wealth la fanno partire dal settembre del 1939, anche se l’opinione pubblica bri­ tannica visse un lungo periodo di «guerra non guerreggiata» fino all’aprile 1940. Per i russi la guerra cominciò effettivamente nel giugno 1941, benché l’Armata rossa fosse già da tempo impegnata in Finlan­ dia. Gli americani entrarono ufficialmen­ te in lizza solo nel dicembre 1941, anche se le loro navi erano già coinvolte da tem­ po nelle operazioni belliche. Chi fosse il nemico, poi, dipendeva dalla «parte» dalla quale si stava, e gli schiera­



menti potevano mutare piuttosto rapi­ damente; persino all’interno di un unico paese poteva non esserci accordo sulla natura del nemico. Un polacco di Leopo­ li3, ad esempio, aveva buoni motivi per temere i russi o gli ucraini, mentre un po­ lacco di Varsavia si sentiva certo più spa­ ventato dalla possibilità che arrivassero i nazisti. Gli americani della costa orientale erano forse un po’ più inquieti per la mi­ naccia tedesca, mentre quelli che risiede­ vano sulla costa occidentale erano assai più preoccupati dal Giappone. Infine per milioni di combattenti e di civili, il nemi­ co principale non aveva neppure un volto umano: c’era la «natura» che poteva at­ taccare in qualunque momento con furia indiscriminata. Come imprecò un soldato semplice americano dislocato in Lorena4, la vita era «un maledetto campo fangoso dove i piedi erano sempre bagnati, un ac­ cidente di cielo che minacciava pioggia, un fottuto bosco dal quale un cecchino crucco5 ci poteva sparare standosene na­ scosto per ore». Nella guerra sul fronte orientale europeo il clima rigido riuscì a uccidere più persone dei proiettili e del­ le bombe. Il soldato tedesco Bernhard Bechler descrisse la situazione in cui si venne a trovare negli immediati dintorni di Stalingrado: Provate solo a immaginare la scena: steppa, tutto gelato, temperature di 20 o 30 gradi sotto zero, montagne di neve... noi stavamo sdraiati per terra e i carri armati ci schiacciavano per­ ché molti non erano più in grado di alzarsi per farsi vedere. Pensavo tra me e me: se la gente

76d MARC BLOCH LA STRANA DISFATTA

M. Bloch, La Strana disfatta. Testimonianza del 1940, Einaudi, Torino 1995, pp. 37-38; 50-52.

Marc Bloch (1886-1944), uno dei più grandi storici francesi, fu combattente nella prima guerra mondiale e nella seconda, dietro sua richiesta, fu richiamato come capitano di stato maggiore nonostante l’età e il numero dei figli lo dispensassero dal servizio militare. Imbarcatosi con gli inglesi a Dunkerque per non cadere prigioniero dei tedeschi, ritornò poi in Francia, ma fu escluso dallo Stato di Vichy dai pubblici uffici in quanto di origine ebraica. Nel 1943 entrò nel movimento di Resistenza: fu catturato, torturato e ucciso dai nazisti nel giugno 1944. Nell’estate del 1940, Bloch scrisse il saggio La Strana disfatta, in cui analizzava i motivi che avevano

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Non pretendo di scrivere una storia criti­ ca della guerra, neppure della campagna

Dovunque ci si trovasse, in piedi o acco­ vacciati, una morte orribile e violenta era in agguato. 1. Universo concentrazionario è il titolo di un libro, uscito nel 1946 e incentrato sul sistema repressivo nazista di campi di concentramento e di sterminio, dello scrittore e politico francese David Rousset (1912-1997), militante nelle file della Resistenza al nazifascismo ed ex deportato. 2. L’era «Showa» («Pace illuminata») iniziò nel 1926 con la salita al potere dell’imperatore Hirohito (1901-1989). 3. Città dell’Ucraina. 4. Regione della Francia orientale, vicina al confine con la Germania, storicamente al centro di contese tra francesi e tedeschi per il suo possesso. 5. Nome dispregiativo con il quale venivano chiamati i soldati tedeschi. METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le caratteristiche principali della seconda guerra mondiale ed evidenzia le definizioni di quest’ultima.  b  Spiega per iscritto cosa rappresentano, per l’autore, i diversi nomi dati al conflitto e allo sterminio degli ebrei. Prima di procedere con la scrittura, cerchiali nel testo con colori diversi.  c  Sottolinea le informazioni principali relative all’uso della scienza durante la guerra.  d Evidenzia i caratteri discordanti che definiscono il conflitto per gli Stati in guerra e sottolinea per ognuno di essi due esempi che ti paiono maggiormente rappresentativi.

determinato la precipitosa resa della Francia di fronte all’invasione tedesca. Pubblicato nel 1946, dopo la sua morte, questo libro rappresenta un lucidissimo esame di coscienza compiuto da un intellettuale francese, di sentimenti democratici e patriottici, quasi a nome dell’intera nazione: Bloch indica infatti con forza le responsabilità dei ceti dirigenti, della borghesia e delle classi lavoratrici nella mancata resistenza davanti al nemico. Nel brano che presentiamo, tratto dal capitolo intitolato La deposizione di un vinto, Bloch analizza quella che secondo lui fu una delle principali cause militari della capitolazione francese: i tedeschi, con la loro guerra di movimento, stavano combattendo un conflitto scoppiato nel 1940, mentre i francesi erano rimasti a strategie e tattiche del 1915-18, come le inutili fortificazioni della linea Maginot.

del Nord. Non dispongo dei documen­ ti necessari, non ne ho la competen­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

in patria potesse vederci qui, se solo potessero vedere i nostri soldati morire in maniera così miserabile!

za tecnica. Ma alcune constatazioni di particolare evidenza si impongono sin

d’ora senza attendere oltre. Molti errori di diversa natura, i cui effetti si sono ac­ cumulati, hanno condotto al disastro le nostre armate. Ma un limite sovrastava tutti gli altri. I nostri comandanti, o colo­ ro che agivano in loro nome, non hanno saputo pensare questa guerra. Il trionfo dei tedeschi, in altre parole, fu essenzial­ mente una vittoria intellettuale ed è que­ sto forse l’aspetto più inquietante. Ma si può essere più precisi. Un elemento tra tutti decisivo oppone la società contem­ poranea a quelle che l’hanno preceduta: dall’inizio del XX secolo, la nozione di distanza è radicalmente mutata. La me­ tamorfosi si è prodotta all’incirca nello spazio di una generazione e, per quanto rapida, si è inscritta troppo bene, via via, nei nostri costumi, perché l’abitudine non abbia potuto mascherarne, alme­ no in parte, il carattere rivoluzionario. Ma gli avvenimenti che stiamo vivendo ci hanno aperto gli occhi. Le privazio­ ni causate dalla guerra e dalla sconfitta hanno agito sull’Europa come una mac­ china del tempo, riportandoci ad un ge­ nere di vita solo ieri considerato defini­ tivamente scomparso. Scrivo dalla mia casa di campagna. L’anno scorso, quan­ do al pari dei miei fornitori disponevo di benzina, il capoluogo di cantone, nostro piccolo centro economico, sembrava alle porte. Quest’anno, che i più agili di noi devono accontentarsi di una bicicletta o di un carretto trainato da un asino per i carichi più pesanti, ogni partenza per il paese ha assunto il carattere di una spedizione, come trenta o quarant’anni fa. I Tedeschi hanno fatto una guerra di oggi, sotto il segno della velocità. Quan­ to a noi, non solo abbiamo tentato di condurre una guerra di ieri o dell’altro ieri ma, nel momento in cui vedevamo i Tedeschi condurre la loro, non abbiamo saputo o voluto comprenderne il ritmo, scandito dalle vibrazioni accelerate di una nuova era. Al punto che, a ben ve­ dere, a scontrarsi sui nostri campi di bat­ taglia furono due avversari appartenenti a due diverse età dell’umanità. Abbiamo insomma rinnovato i combattimenti, noti alla nostra storia coloniale, della za­ gaglia1 contro il fucile. Ma eravamo noi, questa volta i primitivi. [...] Ovviamente, questa guerra di velocità richiedeva mezzi idonei. I tedeschi se li erano procurati. La Francia no, almeno non in misura adeguata. Lo si è detto e ridetto: non avevamo sufficienti carri

armati, aerei, autocarri, motociclette, motrici, e sin dall’inizio, non riuscimmo a condurre le operazioni come sareb­ be stato necessario. Questo è un dato di fatto, ed è altrettanto innegabile che le cause di tale deplorevole e fatale penuria non furono tutte di ordine specificamen­ te militare. Anche questo argomento, al momento opportuno, non cadrà sotto si­ lenzio. Gli errori degli uni non giustifica­ no però quelli degli altri, e l’alto coman­ do non può certo proclamarsi innocente. Tralasciamo, se si vuole, il criminale er­ rore strategico che indusse le truppe del Nord ad abbandonare sulle spiagge delle Fiandre o direttamente nelle mani del nemico l’equipaggio di tre divisioni mo­ torizzate e di altrettante divisioni leggere meccanizzate, nonché di diversi reggi­ menti di artiglieria autotrainata e di tutti i battaglioni di carri blindati di un’arma­ ta. Il miglior materiale di cui disponeva la nazione in armi, che tanto ci sarebbe servito sui campi della Somme e dell’Ai­ sne! Ma in questo caso si parla ancora della preparazione della guerra. Se non abbiamo potuto disporre dei carri arma­ ti, degli aerei e delle motrici che ci ser­ vivano, fu innanzitutto perché le nostre disponibilità di denaro e di mano d’ope­ ra, certo non illimitate, furono inghiottite dal cemento, senza che peraltro si prov­ vedesse a fortificare in misura adeguata la nostra frontiera settentrionale, altret­ tanto esposta di quella orientale; perché ci era stato insegnato a riporre tutta la nostra fiducia nella linea Maginot, la cui costruzione, assai dispendiosa e am­ piamente pubblicizzata, non fu tuttavia completata sul lato destro, sì che i tede­ schi poterono aggirarla e, sul Reno, per­ sino aprirvi una breccia (quanto a questo sconcertante episodio, il passaggio del Reno, non so altro che ciò che riportò la stampa, vale a dire nulla); perché anche all’ultim’ora ci si affrettò a costruire nel Nord fortificazioni di cemento munite solo sul lato anteriore di difese efficaci, che attaccate alle spalle furono poi espu­ gnate; perché le nostre truppe dovettero impegnare ogni loro energia per realiz­ zare uno straordinario fossato anticarro che avrebbe dovuto proteggere Cambrai e Saint-Quentin2 e che i Tedeschi, un bel giorno, raggiunsero partendo proprio da Cambrai e Saint-Quentin; perché una teoria, ampiamente diffusa tra i dottri­ nari, ci voleva ad uno di quei momenti della storia strategica in cui la corazza

ha la meglio sul cannone – in cui cioè la posizione fortificata è praticamen­ te inespugnabile – senza che peraltro il comando abbia avuto il coraggio, nel momento decisivo, di conservarsi fedele ad una teoria secondo la quale almeno l’avventura del Belgio era sin dall’ini­ zio destinata al fallimento; perché molti dei dotti professori di tattica diffidavano delle unità motorizzate, ritenute troppo lente negli spostamenti (i tempi previsti secondo i calcoli erano effettivamente assai lunghi, giacché si pensava che per motivi di sicurezza esse potessero circo­ lare solo di notte; la guerra di velocità si è svolta invece, quasi dappertutto, in pie­ no giorno); perché al corso di cavalleria della Scuola di guerra era stato insegnato che i carri armati, di qualche utilità nelle operazioni difensive, avevano capacità offensive quasi nulle; perché i tecnici, o sedicenti tali, ritenevano il bombarda­ mento dell’artiglieria di gran lunga più efficace di quello aereo, non consideran­ do che le munizioni dei cannoni devono spesso giungere da lontano mentre gli aerei provvedono essi stessi a rifornirsi. In breve, i nostri comandanti, tra mille contraddizioni hanno voluto combattere nel 1940 la guerra del 1915-18. I Tede­ schi, invece, stavano facendo quella del 1940. 1. Arma primitiva e rudimentale, consistente in un’asta di legno con una punta di ferro. 2. Città della Francia nord-orientale, vicine al confine con il Belgio.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega perché secondo l’autore il trionfo dei tedeschi fu essenzialmente intellettuale e perché questo viene definito da Bloch l’aspetto più inquietante.  b  Evidenzia le caratteristiche della guerra portata avanti dai tedeschi e sottolinea le reazioni francesi.  c  Sottolinea con colori diversi gli errori tattici compiuti dai tedeschi e dai francesi.  d  Evidenzia le riflessioni conclusive riportate dallo storico e realizza una scaletta delle sue argomentazioni.

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FARESTORIA GUERRA MONDIALE, guerra totale

ORIENTALE

77 O. BARTOV LA VIOLENZA SUL FRONTE

O. Bartov, Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945), il Mulino, Bologna 2003, pp. 107-8; 145-50.

Lo storico statunitense Omer Bartov (nato in Israele nel 1954), studioso di storia europea e della Shoah, nel brano che segue analizza il progressivo imbarbarimento della condotta di guerra delle truppe tedesche nei territori dell’Unione Sovietica. L’autore, studiando i documenti relativi ad alcune divisioni dell’esercito tedesco (la Wehrmacht) impegnate sul fronte orientale, mostra che il conflitto contro l’Urss fu pre-

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L’invasione dell’Unione Sovietica pro­ dusse un mutamento fondamentale nel carattere dell’indottrinamento del­ le truppe. La Weltanschauung nazista era assai meglio delineata per quanto riguardava le regioni dell’Europa orien­ tale, popolate da nemici del popolo te­ desco nazionalsocialista sia dal punto di vista razziale sia da quello politico. Fin dall’inizio i russi vennero visti come «sottouomini giudaico-bolscevichi» e «orde mongoliche». Il nazionalismo si sforzò di ottenere una completa disu­ manizzazione delle popolazioni orien­ tali e l’esercito si adeguò con crescente rapidità. La crisi del primo inverno, e poi la catastrofe di Stalingrado, serviro­ no unicamente a rafforzare la convin­ zione degli ufficiali sul fatto che il loro ascendente sulle truppe doveva basar­ si su un ancora più marcato contenuto nazista. La durezza della guerra lunga e dispendiosa, le convinzioni ideologiche del nemico, come pure il tradizionale odio contro gli slavi, che risaliva a ben prima dell’ascesa di Hitler, rendeva più facile per i militari adottare la visione nazista della guerra. Durante i combat­ timenti in Unione Sovietica il processo di disumanizzazione del nemico ebbe probabilmente maggior successo che in ogni altro conflitto della storia moderna. Russi, slavi, ebrei, mongoli avevano per­ so ogni legame con la specie umana, e non erano altro che mostri satanici che tentavano invano di apparire umani, impostori la cui identità doveva essere smascherata e la cui esistenza minac­ ciava tutto quanto gli uomini civili ave­ vano di caro. Come mostra chiaramente questo passo tratto dalle «Mitteilungen für die Truppe»1 c’era una sola cosa da fare con queste belve senza pietà, ossia toglierle di mezzo:

sentato dai vertici nazisti come scontro razziale, in cui i russi erano visti come «sottouomini» (Untermenschen), portatori del virus del «bolscevismo» e quindi assimilabili a un morbo da debellare senza pietà. Tale visione del nemico si diffuse rapidamente anche nelle truppe dell’esercito regolare (e non solo nei reparti più ideologizzati dal nazismo), come dimostra l’elevato livello di violenza da loro scatenato contro i civili russi, accusati di appoggiare il movimento resistenziale e per questo costantemente privati delle loro scorte di cibo e bestiame. Il risultato fu il susseguirsi di numerosi e ripetuti massacri di civili inermi, che provocarono milioni di morti tra la popolazione.

Chiunque abbia visto in faccia un commis­ sario rosso sa a cosa assomiglino i bolscevi­ chi. Non c’è bisogno di espressioni teoriche. Insulteremmo gli animali se parlassimo di questi uomini, che sono in massima parte ebrei, come di bestie. Essi sono l’incarnazio­ ne dell’odio satanico contro l’intera umani­ tà nobile. L’aspetto di questi commissari è rivelazione della rivolta dei sottouomini nei confronti del sangue nobile. Le masse che essi hanno inviato incontro alla morte ricor­ rendo a tutti i mezzi a loro disposizione, il gelido terrore e l’istigazione insana, avrebbe­ ro messo fine a ogni vita piena di significato, se quest’eruzione non fosse stata arginata all’ultimo istante.

Una delle spie più importanti della pe­ netrazione dell’ideologia nazista nell’e­ sercito e della sua influenza sui soldati è il mutamento del vocabolario usato dai comandanti impegnati al fronte. Gli or­ dini emanati da questi ufficiali non era­ no controllati da Goebbels2 o dall’Okw3, per cui essi riflettono più fedelmente l’ef­ fettiva mentalità dei comandanti, o al­ meno quello che essi ritenevano il tono più adatto per esortare i propri uomini nel continuare a combattere. Inoltre questi ordini potrebbero aver avuto una maggiore influenza sui soldati, perché essi non venivano da funzionari di par­ tito delle retrovie, ma da ufficiali stimati, che dividevano con i propri uomini mol­ te delle esperienze al fronte. [...] Sebbene le disposizioni relative al trat­ tamento dei prigionieri di guerra venis­ sero in qualche misura modificate dopo i primi mesi di guerra, l’insieme degli «ordini criminali» impartiti alle truppe al fronte diede loro carta bianca in ma­ teria di uccisioni in massa di civili al più piccolo sospetto di resistenza, e spesso anche in assenza di questo, come parte di misure «preventive» e «collettive», o per motivi di ordine politico e razziale.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

In questo modo l’ideologia sottesa alla guerra in Unione Sovietica, insieme agli ordini dati per la sua attuazione e alla frustrazione per l’incapacità di «pacifi­ care» la popolazione, crearono una sorta di circolo vizioso di violenza e stragi che segnarono la distruzione di vaste aree nelle regioni occidentali sovietiche. Le tre divisioni prese in esame parteciparo­ no a queste attività, e i documenti met­ tono in rilievo quanto sia stata ampia la partecipazione delle unità combattenti tedesche a questi crimini, attribuiti fino a tempi recenti soprattutto alle formazio­ ni operanti nelle retrovie, le Einsatzgruppen4 e le SS. Come vedremo fra poco, il peggioramento della situazione al fronte indusse le truppe ad andare anche oltre le regole di comportamento stabilite dalle «direttive Barbarossa», che già di per sé ammettevano un concetto estre­ mamente ampio di resistenza da parte dei civili. La 12ª Divisione di Fanteria emanò un primo ordine relativo al trattamento dei partigiani il giorno stesso dell’invasione. Esso non ammetteva alcuna flessibilità rispetto alle istruzioni dell’Okh5: i par­

1. Comunicazioni per le truppe. 2. Joseph Goebbels (1897-1945), ministro della Propaganda del Terzo Reich. 3. Sigla dell’Oberkommando der Wehrmacht, vale a dire il Comando supremo delle forze armate tedesche. 4. Truppe speciali di combattimento, altamente nazificate essendo composte dalle forze di polizia politica del regime. Furono impiegate dall’esercito tedesco non solo contro l’Armata rossa, ma soprattutto per realizzare i grandi massacri di massa contro la popolazione ebraica. 5. Sigla dell’Oberkommando des Heeres, vale a dire il Comando supremo dell’esercito.

tigiani non sarebbero stati trattati come prigionieri di guerra, bensì «giustizia­ ti sul posto da un ufficiale». Il 31 luglio 1941 la 16ª Armata comunicò alle pro­ prie unità che i «battaglioni di irregola­ ri» che si formavano dietro il fronte e che non avessero ottemperato esattamente alle leggi di guerra per quanto concer­ neva abbigliamento, armi e mezzi di identificazione, sarebbero stati trattati come partigiani, che si trattasse o meno di soldati; i civili che avessero dato loro assistenza sarebbero stati trattati nel­ lo stesso modo. In questo contesto l’e­ spressione «trattati come partigiani» era un eufemismo che significava semplice­ mente morte per fucilazione o impicca­ gione. Lo stesso ordine venne emanato anche dalla 18ª Divisione Corazzata il 4 agosto 1941. Ciò significava, natural­ mente, che se una formazione partigia­ na fosse entrata in un villaggio e si fosse procurata da sé gli approvvigionamenti necessari, i tedeschi avrebbero visto ciò come collaborazione con i partigiani e, per rappresaglia, avrebbero distrutto il villaggio e ucciso i suoi abitanti. E in ef­ fetti il 30 gennaio 1942 la 12ª Divisione di Fanteria riferiva che in seguito a un incidente in cui alcune delle sue slitte erano finite su delle mine nei pressi del villaggio di Nov Ladomiry, l’intera po­ polazione maschile dell’abitato era stata fucilata e le case bruciate come «misura collettiva». Ai reparti al fronte venne pure ordinato di procedere contro gli «elementi so­ spetti». Il II Corpo dava istruzioni alle truppe in base alle quali «come pro­ tezione contro i gruppi partigiani, si debbono inviare delle pattuglie in pro­ fondità nella nostra area per rafforzare il rigido controllo sui villaggi e sui loro abitanti; contro gli elementi sospetti si deve procedere immediatamente e sen­ za pietà!». È importante ricordare che, secondo le «Linee guida per la condot­ ta delle truppe in Russia», gli «elementi sospetti» comprendevano «gli agitatori bolscevichi, i partigiani, i sabotatori e gli ebrei», mentre «azione senza pietà» significava fucilazione o impiccagione. Il significato di quest’ordine era dunque che l’esercito doveva agire non solo con­ tro i civili che mettevano in atto una resi­ stenza, attiva o passiva, ma anche contro i potenziali nemici politici e razziali del Reich – bolscevichi ed ebrei –, che faces­ sero resistenza o meno. Già il 4 luglio

1941 la 12ª Divisione di Fanteria riferiva dell’esecuzione, nel villaggio di Dukszty, di dieci civili accusati di essere membri del partito comunista, di organizzazioni giovanili, o perché ebrei. Ovviamente il comportamento brutale dell’esercito nei confronti della popola­ zione civile produsse come unico risul­ tato l’aumento dell’attività partigiana: in conseguenza di ciò le unità al fronte intensificavano ulteriormente le loro operazioni, causando ancor più stenti e distruzioni fra gli abitanti delle zone oc­ cupate. Nell’agosto 1941 il II Corpo, alle dipendenze del quale si trovava anche la 12ª Divisione di Fanteria, stabilì che «i partigiani dovevano essere impiccati pubblicamente e lasciati appesi per un certo tempo», mentre i comunisti e gli ex funzionari sovietici contro i quali non fosse stato possibile trovare prove certe, dovevano essere consegnati ai campi di prigionia, cioè alle «fidate» mani delle Einsatzgruppen. [...] Con lo stabilizzarsi della linea del fronte la Wehrmacht fece ricorso a un meto­ do più sistematico di «controllo» della popolazione civile. Il 7 dicembre 1941 alla 12ª Divisione di Fanteria fu ordi­ nato di evacuare entro nove giorni tutti i civili che si trovavano in una fascia di sei miglia dietro la linea del fronte; agli abitanti era concesso prendere con sé cibo e i propri averi, mentre le loro case dovevano essere impiegate come allog­ giamenti militari o distrutte. Anche nel­ le zone in cui i civili potevano rimanere erano costretti ad abbandonare le abi­ tazioni, destinate ad ospitare i soldati. Una settimana più tardi la 12ª riferiva di essere riuscita a evacuare «solo» 350 dei 2.000 abitanti che vivevano nella «zona di evacuazione». Qualche settimana più tardi il II Corpo riconobbe che una parte dei civili era stata evacuata «con scor­ te alimentari del tutto inadeguate»; ciò nonostante esso ordinò la creazione di un’ulteriore «zona vietata» in cui il mo­ vimento dei civili era sottoposto a un ri­ gido controllo, rivelatosi così stretto che la 12ª, in un rapporto di qualche giorno dopo, osservava che il rifornimento dei generi essenziali ai villaggi era «divenu­ to del tutto impossibile». Tuttavia queste norme rimasero in vigore per tutto l’in­ verno e vennero ulteriormente raffor­ zate con il ricorso a pattuglie speciali e a «comandanti di villaggio» (Orts Kommandanten) che lasciarono consapevol­

mente morire di freddo e di fame la po­ polazione durante il durissimo inverno del 1941-42. Gli abitanti che non rispet­ tavano queste norme venivano fucilati sul posto o internati nei campi delle re­ trovie, in mano alle Einsatzgruppen. [...] La «guerra contro i partigiani» nel set­ tore centrale del fronte venne condotta con le stesse drastiche misure, ed ebbe ancora meno successo nel «pacificare» la popolazione, anche per le diverse condizioni geografiche, più favorevoli allo sviluppo della guerriglia. Durante il 1942 la 18ª Divisione Corazzata sgom­ berò una vasta area lungo il fronte, creò delle speciali unità per la lotta contro i partigiani e passò per le armi tutti i so­ spetti fiancheggiatori. Allo stesso modo la Großdeutschland6 diede istruzioni ai propri reparti affinché «distruggessero» tutti i partigiani catturati e, su ordine dei comandanti di battaglione, giustiziasse­ ro tutti i civili sospettati di aiutare i guer­ riglieri. Misure di questo genere non fecero altro che intensificare le attività dei partigiani, così che la 18ª Divisione Corazzata dovette lamentare crescenti perdite e soprattutto l’interruzione del­ le proprie comunicazioni nelle retrovie. La politica di occupazione tuttavia non cambiò, e anzi il raggio delle operazioni contro i partigiani venne ulteriormente ampliato nel corso dell’anno successivo. 6. Divisione dell’esercito tedesco, il cui nome significa “Grande Germania”.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le informazioni principali relative alla visione nazista della guerra e alle cause che portarono ad adottarla.  b Spiega per iscritto cosa è la citazione riportata nel testo e a quale proposito viene inserita dall’autore nelle sue argomentazioni.  c  Contro chi erano rivolte le disposizioni dirette alle truppe inserite nel brano? In cosa consistevano? Quali conseguenze ebbero? Rispondi sinteticamente alle domande per iscritto.  d  Cosa accadde quando si stabilizzò la linea del fronte ai civili russi e ai militari tedeschi che non rispettavano le direttive? Sottolinea la risposta nel testo.

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FARESTORIA GUERRA MONDIALE, guerra totale

78 G. SCHREIBER GLI ORRORI DELLA GUERRA IN ESTREMO ORIENTE



G. Schreiber, La seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2004, pp. 94-97.

In questo brano, tratto da un volume di sintesi sulla seconda guerra mondiale, lo storico Gerhard Schreiber (1940-2017), studioso di storia militare, pone l’attenzione sulle atrocità e le violenze commesse dalle truppe giapponesi nei teatri di guerra in Estremo Oriente: si tratta di episodi ancora poco

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Al più tardi a partire da Guadalcanal1 la massima «uccidere per non essere uccisi» cominciò a caratterizzare il modo di agire di molti combattenti nel teatro di guerra asiatico. In altre parole, nel 1931 aveva avuto inizio una guerra che i soldati giap­ ponesi affrontarono senza alcun riguardo per se stessi, ma anche con una brutalità e una ferocia inimmaginabili, di cui fece­ ro le spese il «nemico» e le popolazioni civili. Diversamente dall’Europa, in Estre­ mo Oriente non si trattava di eliminare fisicamente uno specifico gruppo etnico e nemmeno di combattere una guerra di sterminio in esecuzione di ordini ben precisi impartiti dalle massime autorità dello stato. Le forze armate imperiali, in realtà, condussero una guerra – di fatto – di sterminio in modo del tutto spontaneo, e lo fecero benché ogni soldato portasse con sé le «regole per il servizio al fron­ te»: regole che, non diversamente dalle «dieci norme di comportamento per la condotta in guerra del soldato tedesco» che ogni appartenente alla Wehrmacht doveva tenere con sé, avrebbero dovuto obbligare i combattenti a conformarsi alle disposizioni in materia del diritto interna­ zionale. Tuttavia, in un conflitto in cui le motivazioni dei contendenti avevano una forte componente razzista, regole di com­ portamento di tal fatta erano destinate ad essere largamente disattese. A fronteg­ giarsi, in altre parole, non furono uomini, ma «bastardi bianchi» e «gialli» o, ancora, «diavoli» e «mezze scimmie». Una simile degradazione dell’avversario contribuì ad allontanare psicologicamente i conten­ denti e quindi a trasformare i «nemici» in Untermenschen anche nel conflitto che si combatté in Asia. Uccidere non dava adito a scrupoli di sorta, e a volte, anzi, poteva dare perfino piacere e magari trasformarsi in uno sport, come avvenne quando due ufficiali giapponesi gareg­ giarono tra loro per vedere chi avrebbe impiegato meno tempo a uccidere con le loro spade da samurai 150 cinesi.

noti alla maggior parte degli europei, di cui rimasero vittime milioni di civili (in particolare nel corso dell’occupazione in Cina) oltre che prigionieri militari: paragonabili a quelli commessi dai nazisti e dai loro alleati in Occidente. Il modo così violento di condurre la guerra da parte dei soldati giapponesi rende quindi più comprensibile (anche se non la giustifica moralmente) la risposta altrettanto spietata delle armate allea­ te, fino alla terribile punizione imposta al Giappone con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.

Che gli americani e i loro alleati abbiano ripagato i giapponesi con la loro stessa moneta, ad esempio evitando di fare pri­ gionieri, è comprensibile così come lo è la brutalità nei confronti della popolazione tedesca con cui i soldati dell’Armata rossa replicarono alle efferatezze di cui gli uo­ mini della Wehrmacht, della polizia e del­ le SS si erano resi in precedenza respon­ sabili nei territori occupati dell’Unione sovietica. Però anche queste reazioni co­ stituirono veri e propri crimini di guerra, e come tali non possono essere in alcun modo e per nessun motivo minimizzate o relativizzate. Ciò vale ugualmente per il trattamento, spesso vendicativo e non di rado omicida, riservato alle minoranze tedesche nei paesi liberati. I giapponesi commisero ogni sorta di atrocità: dall’uccisione dei prigionieri di guerra all’uso sistematico della tortura, dalla deportazione di uomini e donne per lavori forzati all’espulsione di interi gruppi di popolazione. A ciò si aggiunse la cosid­ detta «pacificazione delle campagne» in Cina, un eufemismo per indicare la po­ litica del terrore che venne applicata in senso anticomunista nei confronti dei pic­ coli contadini. La soldataglia imperiale agì sempre all’insegna del motto: «Uccidere tutto, bruciare tutto, distruggere tutto», e ciò comprese la libertà di saccheggio. Durante una «operazione di punizione» effettuata nel corso del 1942 in due pro­ vince cinesi, i giapponesi uccisero più di 250 mila civili. Nella Cina settentrionale le vittime della repressione nelle campa­ gne furono circa 2.300.000, ma c’è anche chi parla di 19 milioni tra morti e profughi. Uno dei crimini più terribili commessi dagli uomini in uniforme giapponese fu la sistematica, bestiale violenza carnale nei confronti di circa 200 mila donne nei paesi occupati. Nel dicembre del 2000, a Tokyo, un tribunale di guerra internazio­ nale composto da sole donne, che tra l’al­ tro ha preteso dal Giappone scuse ufficiali e un congruo risarcimento finanziario per

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

le vittime, ha riconosciuto che l’impera­ tore Hirohito (scomparso nel 1989) ebbe almeno moralmente la colpa dei milioni di stupri commessi dalle sue truppe. Non meno esecrabili furono gli esperimenti che vennero compiuti su esseri umani dal famigerato «battaglione 731»2 per mettere a punto aggressivi chimici e batteriologici da usare come arma nel prosieguo della guerra. Più di 3 mila asiatici di tutte le età trovarono la morte a causa di questi espe­ rimenti, che a quanto pare vennero con­ dotti senza alcuno scrupolo. Il Giappone portò morte e violenza non solo tra i suoi nemici ma anche tra quei popoli che, grazie al «nuovo ordine» e alla cosiddetta «sfera di coprosperità nella grande Asia orientale» cui Tokyo intende­ va dare vita, avrebbero dovuto finalmen­ te affrancarsi dal dominio coloniale. In real­tà quel che Tokyo voleva, e i vari paesi che avrebbero dovuto far parte di questa «sfera» non tardarono a rendersene conto a loro spese, era semplicemente prendere il posto delle potenze europee. Arroganti, razzisti e brutali, i giapponesi suscitarono ben presto odio e diffusa ostilità in tutti i paesi in cui misero piede: del resto il loro atteggiamento sprezzante nei confronti degli altri popoli asiatici si manifestò nel­ la propensione a fare un largo ricorso alle punizioni corporali. Una campagna pro­ pagandistica – politico-culturale, pana­ siatica, antimperialista e diretta a mettere in rilievo la superiorità morale e spirituale giapponese – organizzata dal ministero per la grande Asia orientale, non riuscì

1. Isola dell’arcipelago delle Salomone dove si combatté una lunga e dura battaglia tra giapponesi e alleati che iniziò nella seconda metà del 1942 e si concluse nel febbraio 1943. 2. Unità speciale dell’esercito imperiale giapponese, incaricata di condurre in segreto un programma di esperimenti chimici durante la guerra con la Cina (1937-45).

a dissimulare a lungo la vera natura del «nuovo ordine» voluto da Tokyo. Sicché non dovette passare molto tempo prima che le iniziali simpatie dei circoli nazio­ nalistici si convertissero in un atteggia­ mento di rifiuto, quando non di aperta opposizione, nei confronti della potenza occupante. Del resto bastano pochi dati a illumina­ re una realtà che fu quanto mai tragica: a causa delle catastrofiche condizioni di lavoro, dei circa 670 mila coreani che vennero deportati in Giappone tra il 1939 e il 1945 come lavoratori forzati, 60 mila circa non fecero più ritorno a casa; in due anni i cinesi si ridussero a 31 mila dai 42 mila che erano all’inizio, mentre dei 300 mila «schiavi del lavoro» asiatici che fu­ rono impiegati per la costruzione della ferrovia Birmania-Thailandia, ne periro­ no in un solo anno ben 60 mila. Durante la realizzazione di questo stesso progetto trovarono la morte anche 15 mila prigio­ nieri angloamericani. Complessivamente il numero dei civili che trovarono la mor­ te in seguito all’occupazione giapponese



in Cina e nel Sudest asiatico superò i 14 milioni, e tra questi vanno annoverati i 5 mila cinesi – medici, pazienti, infermiere – che la plebaglia in uniforme massacrò senza alcuna ragione a Singapore negli ospedali della città. Lo stesso avvenne a Hong Kong, dove i giapponesi trucidaro­ no 50 soldati e ufficiali inglesi caduti nel­ le loro mani, e anche alcune suore, non prima però di averle violentate davanti a tutti. In Malesia la soldataglia impiccò numerosi prigionieri inglesi dopo averli torturati e dopo aver loro infilato in bocca i genitali. E nel corso della terribile marcia della morte di Bataan (Filippine, aprile 1942)3 i soldati del paese del Sol Levante trucidarono con le baionette centinaia di prigionieri di guerra mostrando un sadi­ smo senza pari. A questi pochi esempi, che danno co­ munque l’idea della realtà della guerra che si combatté in Asia orientale, se ne potrebbero aggiungere moltissimi altri. Molto probabilmente, tuttavia, non sarà mai possibile elaborare dati statistici attendibili in merito ai terribili crimini

79 N. FERGUSON I BOMBARDAMENTI ALLEATI

N. Ferguson, XX secolo. L’età della violenza. Una nuova interpretazione del Novecento, Mondadori, Milano 2008, pp. 520-23.

In questo brano, tratto da un volume che reinterpreta il ’900 prendendo come chiave di lettura la violenza, lo storico scozzese Niall Ferguson (nato nel 1964) si sofferma su un aspetto specifico della seconda guerra mondiale: i bombardamenti a tappeto attuati dagli alleati sui territori dei paesi nemici. Gli effetti di queste operazioni furono devastanti, in quanto provocarono Il concetto che un paese potesse esse­ re sottomesso con la violenza dei bom­ bardamenti era nato molto prima della seconda guerra mondiale. Gli alieni di Wells1, per esempio, vengono sterminati dalla potenza letale dei microbi terrestri proprio quando sono sul punto di man­ dare le loro macchine volanti su Londra, mentre alla vigilia del primo conflitto mondiale, nel racconto Facile come l’ABC, Rudyard Kipling2 aveva immaginato un mondo ridotto all’obbedienza da una for­ za aerea internazionale. I raid compiuti dall’aviazione tedesca sugli obiettivi civili tra il 1914 e il 1918 ebbero senza ombra di dubbio un valore militare trascurabile e nella popolazione suscitarono non tanto reazioni di panico quanto sete di vendet­

commessi dai soldati giapponesi, né sarà possibile identificare gli esecutori e attri­ buire le relative responsabilità. E tuttavia gli storici sono d’accordo nel ritenere che l’inimmaginabile serie di atrocità di cui finora si ha conoscenza corrisponde, di regola, alla realtà. 3. Il trasferimento forzato da parte delle autorità militari giapponesi di decine di migliaia di prigionieri di guerra, iniziato nell’aprile del 1942.

METODO DI STUDIO

 a  Leggi con attenzione il cappello introduttivo e argomenta ciò che vi è scritto con esempi tratti dal brano.  b  Cerchia i crimini descritti ed evidenzia i dati relativi alle vittime in termini di numeri e di conseguenze.  c  Spiega per iscritto chi sono gli autori dei crimini descritti, per quali motivi commisero questi ultimi e in quale contesto.

centinaia di migliaia di vittime civili: intere città furono rase al suolo soprattutto in Germania e in Giappone, e anche l’Italia ne rimase parzialmente coinvolta. Ferguson ricostruisce in particolare le fasi che portarono britannici e statunitensi ad attuare una strategia così violenta. Di certo vi furono considerazioni di ordine militare, ovvero la volontà di distruggere obiettivi strategici come fabbriche e industrie belliche, ma anche di natura psicologica: i bombardamenti a tappeto e le devastazioni che ne seguivano dovevano colpire il morale delle popolazioni civili nemiche.

ta. La funzione principale dell’aviazione, quindi, si rivelò la ricognizione e non il bombardamento, tuttavia l’immagine di città rase al suolo si infiltrò nelle fantasie popolari e vi rimase per tutta la durata del dopoguerra. Da segretario di Stato per la Guerra e l’Aviazione, Churchill non aveva visto nulla di male nell’invio delle forze aeree per soffocare la rivolta irachena del 1920, ma quando i tedeschi bombardaro­ no Guernica il mondo rimase scioccato3. A quanto pare i villaggi della Mesopota­ mia erano un bersaglio lecito, ma non le città europee. Dopo il 1937 gli attacchi aerei del Giappone contro la Cina non fe­ cero che confermare l’adagio «il bombar­ diere riesce comunque a passare», e con effetti devastanti. [...]

Negli anni Trenta la strategia britannica aveva puntato sulle forze aeree di difesa e non su quelle d’attacco, nella speranza

1. Herbert George Wells (1866-1946), scrittore britannico, autore di romanzi di fantascienza. 2. Rudyard Kipling (1865-1936), scrittore e poeta britannico, autore anche di celebri libri di avventura e per ragazzi. 3. Nel 1920, dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano seguita alla Grande Guerra, l’Iraq fu posto sotto l’amministrazione britannica che soffocò le aspirazioni indipendentiste; Guernica, città della Spagna settentrionale, fu rasa al suolo nell’aprile del 1937 da un bombardamento dell’aviazione tedesca, che appoggiava le forze nazionaliste di Franco durante la guerra civile.

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di scoraggiare, anziché respingere, un’ag­ gressione dell’aviazione tedesca. Si trattò senz’altro di una risposta irrazionale alla minaccia della Luftwaffe4 ma nel 1940 la Gran Bretagna poteva dire di possedere perlomeno un potenziale distruttivo allo stadio embrionale. Se si considera il tem­ po che fu necessario per l’addestramento dei piloti e dei navigatori (oltre due anni), quell’investimento iniziale si rivelò dav­ vero di vitale importanza. Nel settembre 1939, però, i 488 bombardieri britannici non erano ancora pronti a compiere raid sulla Germania. Eppure una settimana dopo la nomina a primo ministro, Chur­ chill ordinò alla RAF5 di condurre esat­ tamente quel tipo di operazione, proprio come ci si sarebbe aspettato da lui. Po­ trebbe addirittura sembrare che sia sta­ to Churchill a precedere Hitler, dando ai tedeschi l’occasione di presentare il loro blitz su Londra come una rappresaglia contro i raid inglesi su Berlino. Hitler in seguito avrebbe dichiarato: «Sono stati gli inglesi a lanciare il primo attacco aereo». L’attesa strategica della Germania, però, non era stata dettata da «scrupoli di na­ tura morale» e Churchill avrebbe potuto legittimamente citare l’attacco tedesco su Rotterdam e il bombardamento in pic­ chiata contro la popolazione civile polac­ ca come ottimi precedenti. Ma quali furono esattamente i bersagli dei raid britannici? Durante gran parte della guerra le forze di combattimento tedesche si disseminarono su una superficie piutto­ sto ampia, perciò gli obiettivi più ovvi fu­ rono quelli di natura economica, ovvero le fabbriche che fornivano a Hitler le armi e i mezzi per trasportarle sui vari fronti. Molti di quegli stabilimenti, però, si trovavano per forza di cose in zone densamente po­ polate, come la Ruhr, e i bombardieri bri­ tannici avevano un sistema di puntamen­ to tutt’altro che preciso. Nell’ottobre 1940 gli inglesi stabilirono che, in condizioni di visibilità ridotta, i loro avieri avrebbero potuto sganciare le bombe anche in pros­ simità dei bersagli, nelle cosiddette «zone di fuoco libero». Questo però aumentava il rischio di colpire anche la popolazione, una necessità di cui il 30 ottobre Churchill tentò di fare virtù dichiarando: «I civili che vivono nei dintorni degli obiettivi devono sentire tutto il peso della guerra». Nel cor­ so del 1941 il primo ministro britannico sottolineò in più di un’occasione come il compito del Bomber Command fosse quello di minare il morale dei cittadini tedeschi. La tattica del «bombardamento

a tappeto», che mirava intenzionalmente a ridurre in cenere i centri urbani fu adot­ tata ancor prima che il maresciallo dell’a­ ria Arthur «Bomber» Harris6 prendesse la direzione del comando. Nove giorni prima della sua nomina, il giorno di San Valentino del 1942, Norman Bottomley, vicemaresciallo dell’aria e vicecapo di sta­ to maggiore dell’aviazione, avvertì il Bom­ ber Command che «il bersaglio principale delle vostre operazione dovrà essere ora il morale della popolazione civile nemica e, in particolare, degli operai delle industrie» che le azioni avrebbero dovuto assumere la forma di «attacchi incendiari e concen­ trati». Alla comunicazione si allegava un elenco di «obiettivi scelti», in cima ai quali compariva la città di Essen. Attaccandola per prima, «il vantaggio massimo sarebbe derivato dal fattore sorpresa». Al pari de­ gli altri bersagli principali come Duisburg, Düsseldorf e Colonia, Essen era un inne­ gabile centro industriale, ma i criteri se­ guiti per il calcolo del «valore dell’attacco stimato per un danno decisivo» erano la superficie e il numero di abitanti dell’area edificata. I raid sulle fabbriche e sui can­ tieri di costruzione dei sottomarini erano considerati «diversivi» da compiere «sen­ za trascurare la possibilità di bombardare gli obiettivi primari». Ciò significa che una percentuale sempre maggiore delle risor­ se britanniche, e poi americane, fu desti­ nata alla devastazione delle città tedesche e giapponesi, in altre parole per colpire i civili. Questa era la medesima condotta che il Dipartimento di Stato americano aveva biasimato quando i giapponesi avevano bombardato per la prima volta le città cinesi, definendola «illegittima e contraria ai principi della legge e dell’u­ manità», e la stessa politica che Neville Chamberlain aveva disapprovato in quan­ to «mero terrorismo», un’alternativa a cui «il governo di Sua Maestà non [avrebbe] mai fatto ricorso». Cosa rendeva la tattica dei bombarda­ menti a tappeto così allettante? La guerra aerea non era necessariamente la scelta più economica visti gli elevati costi della produzione di velivoli e dell’addestramen­ to degli equipaggi. [...] Ma alle classi diri­ genti i bombardamenti a tappeto sembra­ rono un’alternativa preferibile alle azioni delle forze di terra per via del numero relativamente basso di uomini da impie­ gare. La guerra aerea fu soprattutto una forma di sostituzione del lavoro con il ca­ pitale, degli uomini con le macchine. Un solo equipaggio di avieri addestrati avreb­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

be ucciso un numero enorme di tedeschi o giapponesi nel corso di appena dodici missioni prima di essere abbattuto o fatto prigioniero. Durante la visita a Mosca del 1942 Churchill parlò di «coprire le spese bombardando la Germania». Le spese che aveva in mente sarebbero state paga­ te con la vita dei tedeschi, non con quella degli inglesi. Più Stalin assillava gli Alleati per l’apertura di un secondo fronte in Eu­ ropa occidentale, più Churchill esaltava i vantaggi dei bombardamenti a tappe­ to e prometteva una serie di attacchi che avrebbero «devastato il morale del popolo tedesco». L’idea di lanciare le bombe sull’I­ talia era fonte di altrettanto ottimismo, poiché «la demoralizzazione e il panico prodotto dai raid aerei intensi e numero­ si» avrebbero superato «qualunque esa­ sperazione dei sentimenti antibritannici». [...] A convincere Roosevelt a investire nel bombardamento aereo furono valutazioni analoghe: innanzitutto l’eccessiva soprav­ valutazione di ciò che avrebbero provo­ cato i bombardieri tedeschi in America e, in secondo luogo, l’esagerazione, di poco inferiore, di ciò che i bombardieri statuni­ tensi sarebbero riusciti a fare in Germania. L’approccio degli Stati Uniti, comunque, differì da quello britannico in altri aspetti. Mentre gli inglesi preferivano i bombarda­ menti notturni, gli americani si gloriavano della precisione dei propri aerei. Con il loro sistema di puntamento Norden7, le Fortezze volanti erano quasi certamente migliori delle macchine britanniche ma, pur avendo il vantaggio di essere usate in attacchi diurni (che al tempo stesso costi­ tuiva uno svantaggio economico, per via della maggiore vulnerabilità) si dimostra­ rono meno precise di quanto sperato. Al tempo della Conferenza di Casablanca, nel gennaio 1943, gli americani si erano già convertiti al punto di vista di Churchill e avevano accettato che l’obiettivo fosse «la progressiva distruzione e demolizio­ ne del morale del popolo tedesco fino a infiacchire fatalmente ogni possibilità di resistenza armata». 4. L’aviazione militare tedesca. 5. Sigla di Royal Air Force, l’aviazione militare britannica. 6. Arthur Harris (1892-1984), ufficiale dell’aviazione britannica e comandante del Bomber Command, il comando responsabile dei bombardamenti della Raf. 7. Una sorta di computer analogico, che prendeva il nome dall’ingegnere olandese che lo mise a punto, Carl Norden (1880-1965).

PALESTRA INVALSI

1 Indica quali caratteristiche sono proprie dell’aviazione e dei bombardamenti nazisti e giapponesi e quali di quelli degli alleati.

Caratteristiche

Nazisti e Giapponesi

Gran Bretagna e suoi alleati

Gli attacchi aerei che colpirono la Cina furono devastanti I raid ebbero come obiettivi le fabbriche di armi anche se collocate in zone densamente popolate La strategia delle forze aeree degli anni ’30 si basava sulla difesa e non sull’attacco Fu adottata la tattica del bombardamento a tappeto Durante la Grande Guerra la funzione principale dell’aviazione era la ricognizione e non il bombardamento 2 I criteri seguiti per stabilire il valore dei danni che era possibile provocare durante gli attacchi erano: [ ] a. la vicinanza da un centro abitato. [ ] b. la superficie e il numero degli abitanti dell’area edificata scelta. [ ] c. la presenza di fabbriche per scopi civili. [ ] d. la possibilità di colpire solo soldati.



80 R. FRANK LA CORSA AL NUCLEARE

R. Frank, La mobilitazione della scienza, in La guerra mondo. 1937-1947, vol. II, a c. di A. Aglan e R. Frank, Einaudi, Torino 2016, pp. 1239; 1246-54.

Le pagine che seguono sono tratte da un’opera in più volumi dedicata agli anni della seconda guerra mondiale, definita dagli autori “Guerra-mondo” in quanto coinvolse tutti i paesi del globo, estese a tutto il pianeta importanti trasformazioni in ambito economico, sociale, politico e culturale, nonché costituì un “mondo a sé”: sempre secondo questa interpretazione, Nel conflitto totale che fu la Seconda guer­ ra mondiale, la scienza fu pesantemente mobilitata. Lo stesso era accaduto per la Prima guerra mondiale, nel corso della quale intellettuali, ingegneri e tecnici era­ no stati invitati a inventare nuove armi e strumenti per aumentare la potenza di fuoco. [...] Tuttavia, la mobilitazione degli scienziati e degli ingegneri nel corso della guerra-mondo, mutò per ampiezza e an­ che per natura. I principali paesi bellige­ ranti spinsero a un livello ancora più alto questa corsa alle invenzioni, ritenute de­ cisive per la vittoria. Scienza e tecnologia ebbero sicuramente una parte importante nello svolgimento e quindi nell’esito del conflitto. Occorre però sottolineare che il ritmo delle scoperte, anche se accelerato, si inserì totalmente nella durata e nella continuità proprie di questi ambiti: esse erano tanto dovute alla fecondità dei de­ cenni precedenti, gli anni Venti e Trenta, quanto portatrici di innovazioni in tempo di pace. Tutto il sistema della ricerca si ri­ trovò modificato per un lungo periodo, così come il suo inserimento nella società

fu inoltre un’esperienza che iniziò prima del 1939 e durò oltre il 1945 (da qui l’originale cronologia proposta nel titolo dell’opera). Nel brano scelto, uno dei due curatori dei volumi, lo storico francese Robert Frank (nato nel 1944), analizza il ruolo della tecnologia e della scienza che contribuirono in maniera decisiva all’esito del conflitto e ai tragici massacri di massa ai danni di soldati e popolazioni civili. Una specifica attenzione è posta all’uso in ambito bellico del nucleare e alla corsa di alcuni Stati belligeranti per realizzare per primi la bomba atomica.

e nella politica. Cosa significava fare la guerra scientificamente? Innanzitutto si­ gnificava mettere in atto qualsiasi strategia per non perderla e difendersi meglio; poi agire allo scopo di aumentare le proprie possibilità di vincerla; infine, per gli scien­ ziati, tentare di rispondere alle domande sugli obiettivi e i mezzi, sugli incroci di compatibilità o incompatibilità morale tra progresso, guerra e civiltà. [...] Anche la ricerca nucleare fu debitrice dei progressi decisivi avvenuti nel corso degli anni, anzi dei mesi precedenti al conflitto. Numerose ricerche, tra cui quelle di Pier­ re e Marie Curie1 sulla radioattività all’i­ nizio del XX secolo, furono fondamentali per migliorare la conoscenza dell’atomo, del suo nucleo a carica positiva, intorno al quale gravitano degli elettroni a carica negativa. Nel 1919, una scoperta del bri­ tannico Rutherford permise di svelare i misteri del nucleo, isolandone uno dei componenti, il protone. Ma bisognava at­ tendere il 1932 perché l’altro componen­ te dell’atomo, il neutrone, fosse messo in evidenza a Oxford da Chadwick, braccio

destro di Rutherford2. Enrico Fermi3 co­ minciò a Roma nel 1934 gli esperimenti di bombardamento del nucleo con neutroni, producendo in tal modo degli isotopi4 ra­ dioattivi. La scoperta cruciale fu quella del fisico tedesco Otto Hahn5, nel dicembre del 1938, il quale bombardando degli ato­ mi di uranio con neutroni riuscì a operare la fissione6 in due frammenti che a loro volta liberarono neutroni. Gli studiosi del

1. Pierre Curie (1859-1906) e sua moglie Marie Sklodowska (1867-1934), scopritori della radioattività, vinsero il premio Nobel per la fisica nel 1903. 2. James Chadwick (1891-1974), fisico britannico, premio Nobel per la fisica nel 1935; Ernest Rutherford (1871-1937) vinse il premio Nobel per la chimica nel 1908. 3. Enrico Fermi (1901-1954), fisico nucleare italiano, vinse il premio Nobel per la fisica nel 1938. 4. Atomi appartenenti a uno stesso elemento. 5. Otto Hahn (1879-1968), chimico tedesco, premio Nobel per la chimica nel 1944. 6. Divisione di un nucleo.

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mondo intero rimasero turbati, poiché di­ venne evidente che i neutroni liberati dalla fissione nucleare dell’uranio potevano a loro volta bombardare altri nuclei, crean­ do una fissione che avrebbe liberato altri neutroni che avrebbero colpito altri nu­ clei, ecc. Questa «reazione a catena», dalla quale ci si aspettava che producesse una quantità colossale di energia, venne mes­ sa in evidenza già dal marzo del 1939 dal­ l’équipe francese di Frédéric Joliot-Curie7. Sul piano scientifico, tutto era pronto alla vigilia della guerra per la produzione di una terrificante arma distruttrice. La Ger­ mania nazista era ben posizionata per pro­ durre un simile esplosivo. Enrico Fermi, Eugene Wigner e Léo Szilárd8, fisici rifugia­ ti negli Stati Uniti, anche loro impegnati in questa corsa alla reazione a catena, ne era­ no perfettamente consapevoli e convinse­ ro Albert Einstein9 a scrivere al presidente Roosevelt per sensibilizzarlo sulla necessi­ tà di perseguire la ricerca nucleare. [...] Lo scopo di questa lettera era mostrare che era cominciata una corsa contro il tempo. Il presidente americano rispose il 19 otto­ bre 1939 annunciando la formazione di una commissione costituita dal responsa­ bile del Bureau of Standards10 e da rappre­ sentanti dell’esercito e della marina «per investigare a fondo le possibilità della pro­ posta [di Einstein] riguardante l’elemento uranio». [...] Nel 1942, Roosevelt decise di passare alla tappa successiva. Dopo quella del 1939, lanciò il progetto «Manhattan», di cui affidò il coordinamento al generale Leslie Groves11. I britannici decisero allora di integrare le loro ricerche agli sforzi ame­ ricani. [...] Furono costruiti due enormi complessi, uno a Hanford, nello Stato di Washington, dove vennero messi in opera tre reattori nucleari e una fabbrica di se­ parazione del plutonio dall’uranio, l’altro a Oak Ridge, dove nel 1943 fu infine edi­ ficata la prima fabbrica di diffusione gas­ sosa. La finalizzazione e la fabbricazione



della bomba vera e propria furono affidate a un’équipe diretta da Robert Oppenhei­ mer12 a Los Alamos, nel deserto del New Mexico. Nella primavera del 1945 era tutto pronto: due bombe al plutonio e una all’u­ ranio 23513. La prima bomba al plutonio servì per l’esplosione sperimentale del 16 luglio ad Alamogordo; la bomba all’ura­ nio, Little Boy, fu lanciata su Hiroshima il 6 agosto; e la seconda al plutonio, Fat Man, su Nagasaki tre giorni più tardi. Come avvenne che i tedeschi, più avanti degli altri nel 1939 in materia di «reazione a catena», non furono i primi a produrre la bomba atomica? Innanzitutto, il regime nazista fu vittima della sua stessa ideolo­ gia: molti fisici di talento erano fuggiti dal paese o dai paesi annessi al Reich a causa delle loro origini ebraiche e avevano par­ tecipato al progetto «Manhattan» negli Stati Uniti. Coloro che restarono, intorno a Werner Heisenberg14, lavorarono al «pro­ getto uranio» e al programma nucleare al Kaiser-Wilhelm-Institut di Berlino. Quan­ do la guerra proseguì e arrivarono le prime vittorie alleate, Hitler si affidò alla scienza tedesca per trovare delle Wunderwaffen, quelle armi miracolose di cui parlava il ministro della Propaganda, Joseph Goeb­ bels. È noto tuttavia che il Führer aveva dato priorità alla realizzazione di razzi piuttosto che alla ricerca sull’arma atomi­ ca. Occorre dire che i fisici del Reich, pur pensando, a torto, che il vantaggio tedesco sarebbe stato preservato, erano a loro volta convinti che i risultati delle ricerche sulla separazione dell’uranio 235 o la produzio­ ne di plutonio sarebbero stati ottenuti in un futuro lontano, molto dopo la guerra. In Giappone, le ricerche di Nishina Yoshio15 e dei suoi colleghi dell’équipe del RIKEN, l’Istituto di fisica e chimica di Tokyo, pun­ tavano alla separazione dell’uranio 235 con l’aiuto di un ciclotrone. Credevano di esserci arrivati dal febbraio 1944. Ma l’e­ sperimento non si concretizzò. Il colpo di

81d TAMIKI HARA LETTERA DA HIROSHIMA

«Il Corriere Unesco. Mensile dell’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura», novembre 1975, pp. 19 e 32-33.

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Con il lancio della bomba atomica si concluse il secondo conflitto mondiale: la resa del Giappone fu segnata da due massacri di violenza inaudita, per mezzo di un’arma micidiale che trasformò l’idea stessa di guerra. Il documento qui citato è una delle testimonianze più agghiaccianti e commoventi degli

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

grazia giunse il 13 aprile del 1945, quando un bombardamento americano distrusse il loro laboratorio. L’arma nucleare fu decisiva. Ma non servì a vincere la guerra. La accorciò: la Germa­ nia era fuori gioco nel momento in cui le bombe caddero su Hiroshima e Nagasaki, e il Giappone sarebbe stato battuto in ogni caso; il conflitto però sarebbe durato anco­ ra per lunghi mesi e probabilmente sareb­ be costato all’America centinaia di migliaia di altre vittime. 7. Frédéric Joliot-Curie (1900-1958), fisico francese, premio Nobel per la chimica nel 1935. 8. Eugene Wigner (1902-1995), fisico ungherese trasferitosi negli Usa nel 1930, premio Nobel per la fisica nel 1963; Léo Szilárd (1898-1964), fisico ungherese naturalizzato statunitense. 9. Albert Einstein (1879-1955), tra i più importanti scienziati del ’900 e premio Nobel per la fisica nel 1921. 10. Ufficio governativo statunitense nato per uniformare le unità di misura e di peso; già durante la prima guerra mondiale fu investito del compito di sviluppare la ricerca scientifica e in campo militare. 11. Leslie Groves (1896-1970), ufficiale dell’esercito statunitense. 12. Robert Oppenheimer (1904-1967), fisico statunitense. 13. Uno dei due “isotopi” che compongono l’uranio. 14. Werner Heisenberg (1901-1976), fisico tedesco, premio Nobel per la fisica nel 1932. 15. Nishina Yoshio (1890-1951), fisico giapponese. METODO DI STUDIO

 a  Spiega in che modo la mobilitazione degli scienziati e degli ingegneri nel corso della guerra cambiò e quale fu il loro ruolo in questo conflitto.  b  Individua e numera le tappe della ricerca nucleare che portarono al lancio di Little Boy e Fat Man.  c  Spiega per iscritto perché i nazisti svilupparono l’arma atomica e quale tipo di vantaggio ne ricavarono gli alleati.

effetti dell’esplosione del primo ordigno su Hiroshima, lasciataci da un cittadino giapponese, Tamiki Hara (1905-1951), morto suicida sei anni dopo essere sopravvissuto alla bomba. In queste pagine, raccolte per la prima volta in un libro tedesco di testimonianze delle vittime della seconda guerra mondiale, Hara racconta cosa sia successo il 6 agosto 1945: un colpo, le tenebre, il ritorno della vista, la città distrutta, le fiamme, i cadaveri irriconoscibili. E migliaia di persone colpite dalle radiazioni atomiche e condannate a una lenta e atroce morte.

Hiroshima, agosto 1945 Mi ero alzato verso le otto di mattina quel 6 agosto 1945. Il giorno avanti, alla sera, vi erano stati due allarmi, nessuno dei quali seguito da bombardamento... Improvvisamente ricevetti un colpo sulla testa e tutto diventò oscuro davanti ai miei occhi. Gettai un grido ed alzai le braccia. Nelle tenebre, non sentivo che un sibilo di tempesta. Non arrivai a comprendere cosa fosse successo. Il mio proprio grido, io l’a­ vevo inteso come se fosse stato gettato da qualcun altro. Poi il mondo intorno mi ritornò visibile, benché ancora non nettamente, ed ebbi l’impressione di trovarmi sui luoghi di un immenso cataclisma. Dietro la spessa nu­ vola di polvere apparve un primo spazio blu, seguito ben presto da altri spazi blu sempre più numerosi. Brevi fiammate cominciarono a sprizzare dall’edificio vicino, un deposito di prodotti farmaceutici. Era tempo di abbandonare quei luoghi. In compagnia di K., mi aprii la strada fra le macerie. Fumate vorticose si elevavano da tutte le case in rovina. Raggiungemmo un posto in cui le fiamme mandavano un calore insopportabile. Poi trovammo un’altra strada che ci portò sino al ponte di Sakai. Il numero dei profughi che affluiva verso quel posto aumentava sempre. [...] Gli al­ beri erano quasi tutti decapitati. Ciascuno dapprincipio pensava che solo la casa sua fosse stata colpita; ma una volta al di fuori, ci si accorgeva che tutto era stato distrutto. Tuttavia, benché le case fossero completamente distrutte, in nessun posto si vedevano quelle buche che normal­ mente fanno le bombe. Sull’altra sponda, l’incendio, che sembrava essersi calmato, riprese a divampare. Improvvisamente, nel cielo, al di sopra del fiume, vidi una massa d’aria straordinaria­ mente trasparente che risaliva la corren­ te. Ebbi appena il tempo di gridare «Una tromba» che già un vento terribile ci colpì. I cespugli e gli alberi si misero a tremare; alcuni furono proiettati in aria da dove ri­ caddero come saette sul tetro caos. Si ave­ va l’impressione che il riflesso verde di un orribile inferno venisse a stendersi al di so­ pra della terra. Dopo il passaggio della tromba, ben pre­ sto il crepuscolo invase il cielo. Incontrai mio fratello maggiore il cui viso era ri­ coperto come da una sottile pellicola di pittura grigia. Il dorso della sua camicia era ridotto a brandelli e scopriva una lar­

ga lesione che somigliava ad un colpo di sole. Risalendo con lui la stretta banchina che co­ steggia il fiume alla ricerca di un traghetto, vidi una quantità di persone completamen­ te sfigurate. Ve ne erano lungo tutto il fiume e le loro ombre si proiettavano nell’acqua. I loro visi erano così orrendamente gonfiati che appena si potevano distinguere gli uo­ mini dalle donne. I loro occhi erano ridotti allo stato di fessure e le loro labbra erano colpite da forte infiammazione. Erano quasi tutti agonizzanti ed i loro corpi malati erano nudi. Quando passavamo vi­ cino a questi gruppi, ci gridavano con voce dolce e debole «Dateci un po’ d’acqua», «Soccorretemi, per favore»; quasi tutti ave­ vano qualche cosa da chiederci. Il cadavere nudo di un ragazzo giaceva nel fiume e, ad un metro di distanza, accovac­ ciate su un gradino, si trovavano due donne. Riconoscemmo che erano donne soltanto per la loro acconciatura per metà bruciata. Trovammo infine un piccolo traghetto e, remando, giungemmo all’altra riva. Era quasi notte quando toccammo terra. An­ che da questa parte sembrava che ci fosse­ ro molti feriti. Un soldato accovacciato sui bordi dell’ac­ qua mi chiese di dargli un po’ d’acqua calda. Appoggiandosi alla mia spalla, camminava sulla sabbia con sforzo. Bruscamente, mi disse: «Sarebbe meglio esser morti». Accon­ sentii in silenzio e, in quel momento, senza scambiare una sola parola, ci trovammo tutti e due riuniti in una incontenibile colle­ ra davanti alla pazzia che ci circondava. Seduto ad una tavola, un uomo dalla testa enorme e bruciata beveva acqua calda in una tazza da tè. Il suo strano viso sembrava fatto di una serie di grani di soia neri; inoltre i suoi capelli erano tagliati orizzontalmente all’altezza delle orecchie. Soltanto più tardi, dopo aver incontrato molti altri ustionati con i capelli tagliati oriz­ zontalmente, finii per capire che le loro ca­ pigliature erano state distrutte sino al bordo dei loro cappelli. [...] Improvvisamente un allarme: da qualche parte una sirena doveva esser rimasta intat­ ta. Il suo urlo lacerò la notte. La città conti­ nuava a fiammeggiare: a valle, si scorgeva il bagliore incerto dell’incendio. Nel quartiere del tempio, numerosi feriti gravi erano sdraiati un po’ dappertutto, per terra. Non un albero, non una tenda per dar loro un po’ d’ombra. Noi ci costruimmo un riparo appoggiando pezzi di tavole contro un muro e scivolammo lì sotto. Dovemmo

passare ventiquattro ore in quel breve spa­ zio dividendolo in sei. Due metri più lontano c’era un ciliegio che aveva conservato qualche foglia. Due studentesse si erano lasciate cadere sotto questo albero: avevano tutte e due il viso carbonizzato e, volgendo il loro magro dor­ so al sole, supplicavano che si desse loro un po’ d’acqua. Erano giunte il giorno prima ad Hiroshima per partecipare alla mietitura e così erano state colpite da questa grande disgrazia. Il sole era al suo declino... Anche prima del levar del giorno, ascolta­ vamo intorno a noi il mormorio ininterrotto delle preghiere: in quell’angolo le persone sembrava morissero l’una dopo l’altra. Le due studentesse morirono all’alba. Nuovo allarme verso mezzogiorno; si intese un rombo nel cielo. Le persone morivano l’una dopo l’altra e nessuno veniva a portar via i cadaveri. Con l’aria sconvolta, i vivi er­ ravano tra i corpi. Si videro allora tutte le rovine nelle stra­ de principali. Uno spazio vuoto e grigio si estendeva sotto un cielo di piombo. Sol­ tanto le strade, i ponti ed i bracci del fiume erano ancora riconoscibili. Nell’acqua gal­ leggiavano cadaveri dilaniati, gonfiati. Era l’inferno divenuto realtà. Tutto ciò che era umano, era stato cancel­ lato. I visi dei cadaveri si somigliavano tutti, come se portassero tutti la stessa maschera. Prima di irrigidirsi, le membra degli agoniz­ zanti si agitavano sotto l’effetto del dolore e in maniera assai strana. [...] Verso sera, attraversai il ponte e mi diressi, attraverso i campi, in direzione del terrapie­ no che si trova ai margini di Yamata. Una libellula nera asciugava le sue ali su una roccia. Io feci il bagno là, respirando assai profondamente. Girando la testa, vidi i piedi della montagna avviluppati nel crepuscolo, mentre le cime lontane scintillavano ancora al sole che tramontava. Si sarebbe creduto un paesaggio di sogno. Il cielo al di sopra di me era di un silenzio assoluto. Ebbi l’impressione di non esser venuto sul­ la terra che dopo l’esplosione della bomba atomica. METODO DI STUDIO

 a  Sintetizza le informazioni relative al tipo di danni a persone e a cose causati dalla bomba atomica.  b  Leggi con attenzione il testo e indica le sensazioni e reazioni provate dall’autore man mano che passa il tempo.  c  Spiega chi è l’autore e che tipo di documento è questo. A quali elementi dell’esperienza vissuta viene riservato maggiore spazio? Perché?

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FARESTORIA GUERRA MONDIALE, guerra totale

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Dopo aver letto i brani e il documento del percorso storiografico scrivi un testo di circa 30 righe sui fronti orientali del secondo conflitto mondiale. Seleziona i brani utili al tuo ragionamento ed evidenzia in essi i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e non dimenticare di affrontare i seguenti temi: • caratteri violenti del conflitto; • fronte orientale: la «pulizia etnica»; • fronte del Pacifico: l’Impero giapponese e l’atomica. 2 Dopo aver letto il documento di Hara [►81d] e i brani di Ferguson [►79], di Schreiber [►78] e di Frank [►80], scrivi un saggio di circa 30 righe sulla legittimità degli obiettivi e strumenti militari e le ripercussioni sui civili partendo dal caso giapponese e citando

opportunamente i testi. Puoi seguire la seguente scaletta di domande: • Che tipo di guerra combatteva il Giappone in Estremo Oriente? I suoi obiettivi erano esclusivamente militari o anche civili? • Da quali punti di vista gli autori dei testi parlano dei bombardamenti aerei? Qual è stato il loro grado di coinvolgimento personale nelle vicende descritte? • In che modo e perché i principali capi di Stato giustificano o non giustificano gli attacchi aerei? E il ricorso alle armi nucleari? • In che modo, secondo te, lo studio della storia può rendere conciliabili i punti di vista espressi nei testi che hai analizzato? IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 3 A partire dal brano di Bourke [►75] schematizza il concetto di guerra totale. Quindi individua nei brani e documenti del percorso storiografico i contenuti che sono riferibili ad esso e individua per ognuno delle parole o frasi chiave. Utilizza queste ultime come guida per il tuo lavoro citando il brano da cui le hai estrapolate e arricchendo la trattazione con esempi diretti.

LA SHOAH: CARNEFICI E VITTIME

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Shoah è una parola ebraica che significa “distruzione, catastrofe”. La si usa oggi, preferendola al più antiquato termine “olocausto” (che contiene un’idea di sacrificio volontario), per indicare il genocidio del popolo ebraico operato dai nazisti nel corso della seconda guerra mondiale: si tratta di uno degli eventi chiave della storia del ’900, sul quale rimane ancora aperto il dibattito storiografico relativo alle cause e ai motivi che ne resero possibile l’esecuzione. Nel primo brano Hans Mommsen [►82] analizza le diverse fasi decisionali che portarono i vertici nazisti alla creazione dei campi di sterminio, mentre Christopher Browning [►83] si sofferma sugli esecutori materiali dello sterminio: non soltanto spietati carnefici, imbevuti dell’ideologia nazista e convintamente antisemiti, ma anche “uomini comuni” che si trovarono coinvolti nelle violenze sui fronti di guerra. Tra i primi va senza dubbio incluso Rudolf Höss [►84d], comandante del luogo simbolo dello sterminio, il campo di Auschwitz, che nella sua testimonianza descrive il funzionamento di questa struttura. I due brani successivi sono dedicati invece alle vittime della Shoah: il primo è uno straordinario documento lasciatoci da Carel Perchodnik [►85d], un ebreo polacco che, all’arrivo dei tedeschi, scegliendo di diventare poliziotto nel ghetto della sua città, si trasformò inconsapevolmente in un ingranaggio della macchina di sterminio nazista. Nel secondo, Primo Levi [►86d], autore di una delle testimonianze più celebri ed efficaci su Auschwitz fra quelle fornite dai superstiti, descrive il processo di disumanizzazione subito dagli internati nei campi. Per concludere, Claudio Vercelli [►87] analizza un fenomeno ancora oggi assai diffuso tra studiosi, giornalisti e opinione pubblica: il cosiddetto “negazionismo”, ovvero la tendenza a minimizzare o, addirittura, a negare l’esistenza dei campi di sterminio e l’uccisione di milioni di ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale.

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82 H. MOMMSEN COME SI GIUNSE ALLO STERMINIO



H. Mommsen, La soluzione finale. Come si è giunti allo sterminio degli ebrei, il Mulino, Bologna 2003, pp. 160-62; 165-66; 168-69; 172-73.

Hans Mommsen (1930-2015), uno fra i maggiori storici tedeschi, ricostruisce in queste pagine, tratte da un’opera di sintesi sulla Shoah, le diverse fasi che portarono allo sterminio degli ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale. La L’attacco all’Unione Sovietica, la cui pre­ parazione cominciò già nella primavera del 1941, cambiò le prospettive in merito alle concrete azioni da intraprendere per risolvere la questione ebraica. Tanto per cominciare, infatti, i dirigenti tedeschi ri­ tenevano possibile già per il tardo autun­ no la sconfitta dell’Unione Sovietica, cosa che avrebbe spianato la strada verso una soluzione del problema ebraico su basi continentali mediante la deportazione della popolazione ebraica al di là della catena degli Urali. All’occorrenza, anzi, si sarebbero potuti usare gli stessi campi di lavoro forzato che il regime stalinista ave­ va fatto costruire per internarvi i suoi op­ positori. Se poi, come si sperava, dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica l’Inghilter­ ra avesse rinunciato a combattere da sola una guerra ormai divenuta impari e senza speranza, in tal caso sarebbe di nuovo tor­ nata d’attualità, in quanto concretamente realizzabile, una soluzione transatlantica dell’intera questione. Probabilmente fu con la mente rivolta a un simile scenario che Heydrich volle garantirsi il formale sostegno di Göring1 al fine di preparare una soluzione finale del problema ebrai­ co nel suo complesso. Il decreto con cui furono concessi a Heydrich i pieni poteri richiesti – il testo fu redatto da Eichmann2 – venne sottoscritto da Göring il 31 luglio 1941. [...] Heydrich ottenne che venisse riconosciuta una volta per tutte la compe­ tenza esclusiva del RSHA3 nella questione ebraica. Certo, in quel momento – luglio 1941 – erano già in corso in territorio so­ vietico i primi eccidi da parte delle Ein­ satzgruppen, ma tutto lascia pensare che l’auspicata soluzione globale fosse stata programmata per il periodo immediata­ mente successivo alla sconfitta, attesa al più tardi per ottobre, dell’Unione Sovie­ tica. La lettera del testo fa ritenere che in luogo dell’emigrazione o della creazione di apposite riserve si volesse piuttosto puntare su una possibile alternativa ter­ ritoriale, o «oltremare» o nei grandi spazi

dichiarazione di guerra all’Urss nel 1941 rappresentò una cesura fondamentale, spingendo i nazisti verso la «soluzione finale» di quello che consideravano il problema ebraico. Di fronte alla resistenza sovietica, tramontata ogni ipotesi di allontanamento forzato dall’Europa, gli ebrei furono in parte eliminati attraverso fucilazioni di massa e poi deportati in campi di sterminio appositamente allestiti. La guerra in corso creò quindi le condizioni che resero possibile l’organizzazione del genocidio.

orientali. Del proposito di giungere a una sistematica liquidazione degli ebrei euro­ pei nel mandato non si faceva menzione. D’altra parte, tutti gli «addetti ai lavori» erano d’accordo sul fatto che in futuro gli ebrei avrebbero dovuto essere espulsi dal territorio del Reich, ma sul «che cosa e come fare» per perseguire un simile obiettivo non c’era assolutamente identi­ tà di vedute. [...] Un primo passo verso lo sterminio su va­ sta scala venne compiuto con la fittizia equiparazione degli ebrei ai partigiani. L’iniziativa di Himmler volta ad accelera­ re la politica dello sterminio nei territori occupati dell’Unione Sovietica mediante l’impiego di alcune brigate SS e di bat­ taglioni di polizia, nonché a liquidare, a partire dall’autunno del 1941, anche le donne e i bambini, segnò l’inizio della sistematica distruzione della popolazio­ ne ebraica autoctona. Avviata all’inizio dell’autunno del 1941, questa operazione, tuttavia, interessò in un primo tempo solo gli ebrei sovietici e mirò a introdurre, pri­ ma della conclusione (e con il pretesto) della guerra, le prime misure in vista di una futura soluzione globale della que­ stione ebraica. Nella mente degli esecuto­ ri la deportazione degli ebrei non impli­ cava ancora, o non necessariamente, la loro liquidazione. [...] L’iniziativa che Heydrich assunse nel lu­ glio 1941 ebbe un seguito nella celebre e molto discussa conferenza che si tenne il 20 gennaio 1942, e quindi dopo un rinvio di circa quaranta giorni rispetto alla data originariamente prevista (avrebbe dovuto tenersi il 9 dicembre 1941), rinvio proba­ bilmente dovuto all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Tecnicamente, la conferenza di Wannsee4 fu una delle tante conferen­ ze di routine riservate ai segretari di Stato che si tenevano in luogo delle riunioni di gabinetto che Hitler aveva cancellato e la cui funzione consisteva essenzialmente nel cercare di coordinare gli interessi dei vari uffici coinvolti. Inconsueto fu solo

il luogo scelto per la riunione, una villa della polizia criminale usata dal RSHA. Al termine, venne anche manifestato il proposito di continuare l’incontro in un momento successivo. Dunque, non solo non venne presa alcuna decisione defi­ nitiva, ma al centro della discussione ci fu piuttosto la messa a punto degli ambi­ ziosi piani di deportazione di Heydrich. Si è spesso voluto ravvisare nella confe­ renza di Wannsee il decisivo via libera all’implementazione dell’Olocausto, se non addirittura una cospirazione delle élite di potere, ma essa, in realtà, costituì tutt’al più un ulteriore passo compiuto nella direzione dello sterminio ed ebbe soprattutto la funzione di indurre le am­ ministrazioni interessate ad accettare l’e­ stensione, reclamata da Heydrich in con­ siderazione della situazione venutasi a creare nell’Europa orientale, del concetto di ebreo così come era stato stabilito dalle leggi di Norimberga. [...] Il 26 febbraio Heydrich scrisse che la con­ ferenza era «fortunatamente» servita a «definire le linee fondamentali per quan­ to concerne la pratica messa in opera del­ la soluzione finale della questione ebrai­ ca, anche se non i singoli dettagli», ma

1. Hermann Göring (1893-1946), dagli anni ’20 uno dei più stretti e autorevoli collaboratori di Hitler: nel 1935 fondò l’aviazione militare del Reich (la Luftwaffe) e ne fu il principale responsabile durante la seconda guerra mondiale. 2. Adolf Eichmann (1906-1962) diresse dal 1939 l’ufficio «Emigrazione ed evacuazione» del servizio di sicurezza delle SS. In questa veste si occupò dell’invio di migliaia di ebrei nei campi di sterminio, crimine per cui fu processato e condannato a morte in Israele, dopo essere stato catturato in Argentina, dove si era rifugiato. 3. Reichssicherheits-hauptamt (RSHA), Ufficio centrale per la sicurezza del Reich. 4. È la località nei pressi di Berlino dove si tenne la conferenza.

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anche questo era un eufemismo. Un vero e proprio piano, così com’era nei proposi­ ti di Heydrich, non venne più realizzato. Nei mesi successivi, infatti, la fase di pro­ gettazione venne bruscamente interrotta, e la Sezione IV B4 cominciò a mettere su­ bito mano alla politica delle deportazioni. La svolta che si andava delineando nel conflitto, ma che non si voleva ammettere apertamente, contribuì a intensificare gli sforzi per accelerare quanto più possibi­ le lo sterminio della popolazione ebraica mentre la guerra era ancora in corso: di fatto, era ciò che alla conferenza di Wann­ see il segretario di Stato Josef Bühler5 aveva inteso dire quando aveva parlato di «certi lavori preliminari» da eseguire localmente. Quando si cominciò a capi­ re che i territori nord-orientali scelti per deportarvi gli ebrei stavano diventando irraggiungibili, i concreti obiettivi a bre­ ve termine si sovrapposero sempre di più al chimerico obiettivo a lungo termine, e finirono col fondersi nel ruolo centrale che nella politica di sterminio assunse il lager di Auschwitz-Birkenau, dove avreb­ be trovato la morte la maggior parte degli ebrei ivi deportati dall’Europa centrale e occidentale. In questo processo di radica­ lizzazione basato su un’intensa interazio­ ne fra Berlino e «gli addetti ai lavori» sul posto, Hitler ebbe soprattutto il ruolo di istanza legittimante. L’espressione usata da Heydrich – «previa autorizzazione del Führer» – lasciava trasparire che Hitler non era il principale motore del processo ormai in corso. Il fatto che non sia possi­ bile provare l’esistenza di ordini formali del dittatore destinati a implementare la soluzione finale e che egli a quanto pare si limitasse a spronare i subalterni a im­ pegnarsi di più e a dare il suo assenso



solo per particolari azioni non è affatto casuale, e si può anche spiegare con la sua istintiva tendenza a non lasciarsi for­ malmente coinvolgere nella politica dello sterminio, di cui pure era il vero «motore» ideologico, perché sapeva che era tutt’al­ tro che popolare. In effetti, le sue affer­ mazioni in merito o avevano un carattere meramente ideologico o si mantenevano nel quadro del lessico ufficiale. [...] Le deportazioni di massa avviate a par­ tire dalla primavera del 1942, e della cui organizzazione si occupò soprattutto Ei­ chmann, presupponevano che una parte dei deportati venisse liquidata immedia­ tamente dopo l’arrivo nelle località orien­ tali di destinazione. Per questo, il RSHA dovette come prima cosa preoccuparsi di aumentare soprattutto le capacità tec­ niche di sterminio e di perfezionare l’uso del gas come strumento di morte. [...] A questo punto, certo, un ordine definiti­ vo e preciso diretto a coinvolgere gli ebrei europei nello sterminio ancora non era stato impartito, ma l’estensione dei mas­ sacri si impose, per così dire, da sé a tutti i protagonisti. Dopo che Himmler, in se­ guito all’intervento di Otto Abetz6, amba­ sciatore tedesco a Parigi, aveva assicurato nell’ottobre del 1941 l’espulsione degli ebrei tedeschi detenuti dalle autorità di occupazione ma anche di quelli france­ si e di altre nazionalità, Adolf Eichmann e Theodor Dannecker7, che divenne Ju­ denreferent8 a Parigi, si misero al lavoro per mettere a punto un vasto programma di deportazioni dall’Europa occidenta­ le. Dopo un primo trasporto (marzo del 1942), a partire dal mese di luglio ebbero inizio le deportazioni su vasta scala degli ebrei francesi. [...] Inizialmente la deportazione della popo­

83 C. BROWNING UOMINI COMUNI

C. Browning, Funzionari intermedi e uomini comuni, in Storia della Shoah, vol. II, Utet, Torino 2005, pp. 198-200; 203-6; 211-12.

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In un libro pubblicato nel 1992 dal significativo titolo Ordinary men, «uomini comuni», lo storico statunitense Christopher Browning (nato nel 1944) inaugurò una nuova fase di studi sulla Shoah, basata sull’idea che gli autori dello sterminio di milioni di ebrei non furono soltanto poliziotti e giovani soldati imbevuti dell’ideologia nazista, ma anche tedeschi «comuni», di età più avanzata, non per forza convinti e radicali antisemiti. Questa

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lazione ebraica detenuta nella Francia oc­ cupata dovette essere rinviata a causa del­ le difficoltà insorte nella rete dei trasporti, ma nonostante alcuni intoppi furono ben 42 mila gli ebrei francesi che vennero de­ portati nel Governatorato generale entro la fine dell’anno (33 mila finirono nel la­ ger di Auschwitz); dopo che gli idonei al lavoro vennero separati dagli altri nel campo di Schmelt (Slesia settentriona­ le), i deportati vennero immediatamente condotti nelle camere a gas. Nei mesi di giugno e luglio toccò agli ebrei olandesi, in agosto a quelli belgi. A questo punto il meccanismo di sterminio messo a punto da Eichmann era perfettamente oliato e funzionante, e Auschwitz divenne il sim­ bolo stesso del genocidio ebraico. 5. Josef Bühler (1904-1948), segretario di Stato del governatorato generale, ossia della Polonia occupata dai nazisti. 6. Otto Abetz (1903-1958), diplomatico tedesco, ambasciatore del Reich nella Francia di Vichy. 7. Theodor Dannecker (1913-1945), capitano delle SS e tra i principali esecutori sul campo della «soluzione finale» della questione ebraica, in particolare nell’Europa occidentale. 8. Responsabile per gli affari ebraici.

METODO DI STUDIO

 a  Individua e numera le tappe che portarono dall’inizio della deportazione allo sterminio di massa.  b  Descrivi il ruolo di Hitler nella politica dello sterminio nazista.  c  Cerchia i nomi dei personaggi storici citati e indica il ruolo di ognuno di essi nella struttura del Partito nazista e nello sterminio.

interpretazione nasce dalle numerose ricerche condotte su alcuni reparti dell’esercito tedesco e della polizia nazista: la lettura che Browning propone tiene conto del contesto di guerra, senza ovviamente tralasciare l’importanza dell’ideologia e della cultura in cui erano inquadrati questi uomini. Nel brano seguente, tratto da un saggio pubblicato in un’opera collettanea in più volumi sulla Shoah, pubblicata nel 2005, l’autore analizza il comportamento dei soldati della Wehrmacht e di alcuni battaglioni di polizia in Serbia e sul fronte orientale, cercando di rispondere alla domanda: perché questi «uomini comuni» si trasformarono in spietati assassini di ebrei?

Gli specialisti di affari ebraici [Judensachbearbeiter] e gli amministratori dei ghetti erano funzionari di medio livello e mem­ bri del Partito nazista coinvolti pratica­ mente a tempo pieno nell’elaborazione e nell’attuazione della politica ebraica na­ zista. Ma esiste anche un’altra, foltissima schiera di cosiddetti «uomini (e in alcuni casi anche donne) comuni» provenien­ ti da ogni ceto sociale tedesco che si rese complice, in momenti e modi diversi, dell’applicazione e dello sfruttamento di quelle misure antisemite che altri avevano concepito. Macchinisti alla guida dei con­ vogli della morte; operai che sorvegliava­ no il lavoro degli ebrei nelle fabbriche di materiale bellico o nei cantieri stradali; impiegati comunali che emettevano sem­ pre nuove leggi discriminatorie; donne delle pulizie delle stazioni di polizia locale che arrotondavano i loro introiti facendo spogliare e perquisendo le ebree tedesche prima della deportazione; cittadini tede­ schi di ogni estrazione sociale che si mi­ sero in lista per ottenere i posti di lavoro e le attività degli ebrei allontanati dai vari settori dell’economia, oppure gli apparta­ menti e le proprietà dei loro ex-vicini ebrei che erano emigrati o erano stati deportati. La categoria più problematica, ovviamen­ te, era quella degli «uomini comuni» che avevano il compito di uccidere le loro vittime ebree faccia a faccia, uomini che, massacro dopo massacro, tornavano dai «campi di esecuzione» zuppi di sangue e imbrattati del cervello degli uomini, don­ ne e bambini ebrei a cui avevano sparato a bruciapelo. I capi di queste squadre del­ la morte erano spesso, ma non sempre, selezionati per la loro comprovata adesio­ ne all’ideologia nazista, presunta inflessi­ bilità e smodata ambizione. Ma i gregari (nella stragrande maggioranza soldati semplici della Wehrmacht o agenti della polizia d’ordine, e non membri delle SS) erano assegnati soprattutto in base alla loro disponibilità immediata. [...] Il comportamento della Wehrmacht in Serbia costituisce un esempio di partico­ lare rilevanza, in quanto in quella zona la Wehrmacht si trovava in posizione di relativo predominio rispetto alle SS, men­ tre la Serbia non era al centro dei progetti hitleriani di «guerra di distruzione» e di ri­ cerca dello «spazio vitale» [Lebensraum]. I comandanti militari godevano perciò di una maggiore libertà che permetteva loro di agire in base alle proprie inclina­ zioni e ai propri atteggiamenti e valori.

Dopo la rapida conquista e lo smembra­ mento della Jugoslavia nella primavera del 1941, l’amministrazione militare te­ desca in Serbia rimase sotto organico: aveva a disposizione divisioni composte principalmente da austriaci in età avan­ zata, scarsamente equipaggiati e male addestrati. Nell’incapacità di controllare la pressione crescente dei movimenti in­ surrezionali comunisti, i tedeschi invia­ rono rinforzi dalle prime linee e ricorsero a misure di aperto terrore nei confronti di tutta la popolazione civile. Per usare le parole pronunciate dal generale Franz Böhme1 nell’esortare le sue truppe: «Va dato un esempio intimidatorio a tutta la Serbia, che colpisca severissimamente l’intera popolazione». Quando, nonostan­ te tutto, gli attacchi partigiani non solo continuarono ma anzi aumentarono di intensità, l’amministrazione militare si attenne all’ordine di Keitel2 di fucilare per rappresaglia da 50 a 100 «comunisti» per ogni soldato tedesco ucciso dagli in­ sorti, applicando il rapporto massimo di 100 a 1 e raccogliendo le vittime serbe a caso intorno ai luoghi delle aggressioni, tra cui studenti delle scuole superiori e operai di una fabbrica che produceva ae­ roplani tedeschi a Kragujevac3. Com’era facile prevedere, queste rappresaglie alla cieca non fecero che contribuire all’inde­ bolimento del governo fantoccio serbo, spingendo un numero sempre maggiore di serbi terrorizzati a unirsi alle bande partigiane. Agendo di propria iniziativa i comandi tedeschi a Belgrado tentarono di minimizzare queste ripercussioni ne­ gative della loro politica di massima rap­ presaglia punendo «in linea di principio» tutti i maschi adulti ebrei e «zingari», ben­ ché fosse impossibile che questi gruppi, già rinchiusi nei ghetti, potessero esse­ re coinvolti negli attacchi dei partigiani. Inoltre, molti degli ebrei dei ghetti serbi erano rifugiati austriaci, i quali ora si tro­ vavano a essere fucilati da soldati austria­ ci per rappresaglia contro attacchi serbi all’esercito tedesco. [...] Ciò che emerge non solo esplicitamente dai documenti tedeschi dell’epoca, ma anche implicitamente dalle testimonian­ ze rese venti anni dopo nel corso delle indagini giudiziarie, è l’accettazione pra­ ticamente incondizionata e generalizzata in primo luogo delle misure draconiane in risposta alla resistenza partigiana, e in secondo luogo della prassi di scegliere le vittime della rappresaglia contro le insur­

rezioni comuniste serbe tra la popolazio­ ne maschile ebraica (che comprendeva anche dei compatrioti austriaci) e zinga­ ra. In una logica straordinariamente per­ versa e paradossale, i soldati della Wehr­ macht si consideravano delle vittime di strategie di resistenza partigiana partico­ larmente «crudeli e insidiose» (grausame und heimtückische), che riflettevano la mentalità balcanica per cui la vita umana e le regole della civiltà non contavano nul­ la. Sembra non si rendessero conto della realtà storica, ovvero che gli occupanti te­ deschi – che si consideravano pienamen­ te in diritto di governare incontrastati su tutta l’Europa – non solo uccidevano tutti i partigiani catturati, ma avevano ucciso migliaia di serbi la cui unica colpa era stata quella di essere rastrellati in pros­ simità di un qualche attacco partigiano [...]. Alcuni furono colpiti dall’anomalia di fucilare ebrei piuttosto anziani, o vetera­ ni che avevano combattuto per l’Impero austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, come misura antipartigiana; ma nessuno mise in dubbio il presuppo­ sto assiomatico che gli ebrei e gli zingari fossero nemici della Germania. Mentre molti degli uomini coinvolti descrissero le fucilazioni come «spaventose» e la rea­ zione dei commilitoni come «turbamen­ to», solo uno di essi definì «innocenti» (unschuldig) le vittime ebree e zingare. Non solo al tempo delle esecuzioni, ma anche ad anni di distanza, l’abitudine di mascherare l’uccisione di uomini adulti ebrei e zingari con motivazioni di ordine militare e di lotta al comunismo si dimo­ strò una strategia efficace nel plasmare le percezioni dei carnefici «comuni». La fucilazione di donne e bambini, soprat­ tutto ebrei, per nessun altro motivo se non che erano ebrei, mise gli uomini «comuni» di fronte a una situazione completamente diversa. Qui possiamo chiamare in causa l’esempio della polizia d’ordine, che fornì gran parte della manovalanza per i massa­

1. Franz Böhme (1885-1947), generale austriaco della Wehrmacht, condannato dal tribunale di Norimberga, morì suicida in carcere. 2. Wilhelm Keitel (1882-1946), capo del Comando delle forze armate tedesche, condannato a morte dal tribunale di Norimberga per crimini contro l’umanità. 3. Kragujevac, città della Serbia centrale, a sud di Belgrado.

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cri di ebrei perpetrati nelle retrovie. Igno­ rati per molti anni dalla letteratura acca­ demica, la polizia d’ordine e in particolare il suo ruolo nell’Olocausto sono divenuti oggetto di studi approfonditi. Il suo con­ tributo all’eccidio si concretizzò essenzial­ mente in tre forme diverse: la sorveglian­ za ai convogli per il trasporto degli ebrei ai campi di stermino, il servizio stanziale nei commissariati locali [Einzeldienst] in cui spesso addestravano e supervisionava­ no le unità di polizia ausiliaria nazionali, e i battaglioni. Se oggi nell’ambito della comunità accademica il ruolo ricoperto dalla polizia d’ordine nella realizzazione della «Soluzione finale» è largamente ri­ conosciuto, rimangono aperte due que­ stioni: prima di tutto, in che misura questi poliziotti erano rappresentativi della so­ cietà tedesca ovvero erano davvero tede­ schi «comuni»? E in secondo luogo, cosa li motivava ad uccidere? [...] La polizia d’ordine comprendeva anche elementi che potevano senza dubbio es­ sere considerati a tutti gli effetti dei sem­ plici «uomini comuni», per la loro sele­ zione relativamente casuale dai ranghi della società tedesca, per la mancanza di indottrinamento e addestramento inten­ sivi, e per lo status non elitario all’interno del regime nazista. Si trattava di uomi­ ni di mezza età che, impiegati in lavori considerati non essenziali all’economia di guerra, ritenuti troppo anziani per la Wehrmacht e non risultati oppositori del regime in seguito a controlli somma­ ri da parte della Gestapo e delle autorità comunali locali, furono coscritti come poliziotti «riservisti». Svariate migliaia di

questi uomini di mezza età fornirono la manodopera essenziale all’occupazione tedesca dell’Europa orientale, prestando servizio nei battaglioni di polizia di riser­ va oppure nella polizia municipale o ru­ rale, con il compito di supervisione degli organi di polizia ausiliaria nazionale. In entrambi i ruoli molti di essi si trasfor­ marono in noti carnefici dell’Olocausto. È proprio questo fenomeno che mette in crisi la rassicurante convinzione secondo la quale solo individui psicologicamente anormali, prodotto di una cultura distor­ ta e patologica, professionisti selezionati con cura e indottrinati in maniera inten­ siva, o fanatici dell’ideologia nazista han­ no potuto compiere crimini tanto efferati. Alcuni battaglioni di polizia di riserva si distinsero per l’elevato numero di massa­ cri a cui presero parte. Il battaglione 45 di Vienna, ad esempio, dopo l’inarrestabile avanzata in Ucraina dell’estate del 1941, fu una delle prime squadre della morte tedesche [...] a segnare il passaggio dal­ le esecuzioni di massa selettive di ebrei maschi adulti all’uccisione indiscrimina­ ta di donne e bambini ebrei. Lasciando­ si dietro una scia di morte e distruzione in tutta l’Ucraina, il battaglione 45 fucilò centinaia di ebrei in agosto, poi migliaia nella prima metà di settembre a Vinnica e Berdičev4. Il 29 e il 30 settembre esso si unì al famigerato Sonderkommando5 4a di Paul Blobel e ad altre unità nel grande massacro di Babi Yar, alle porte di Kiev, che costò la vita a 33.000 ebrei. Alla fine dell’anno, il battaglione 45 contava al suo attivo altri eccidi di ebrei ucraini [...]. In Europa orientale la guerra scatenata

84d RUDOLF HÖSS LA MACCHINA DELLO STERMINIO



R. Höss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1997, pp. 171-76; 179.

Rudolf Höss (1900-1947) fu il comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Membro dei Freikorps, entrò nel Partito nazista nel 1932, militando nelle SS, organizzazione in cui raggiunse gradi elevati. Arrestato dalla polizia militare britannica, fu processato dal Supremo Tribunale polacco

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Nell’estate del 1941 – al momento non potrei citare la data esatta – venni improv­ visamente convocato a Berlino presso il Reichsführer1, tramite il suo aiutante. Contrariamente al solito, Himmler mi

4. Città dell’Ucraina centrale. 5. Unità speciale di polizia.

METODO DI STUDIO

 a  Cerchia le categorie di “uomo comune” che parteciparono allo sterminio degli ebrei.  b  Spiega per iscritto in cosa consiste, e perché, secondo l’autore, è interessante il caso della Wehrmacht in Serbia. Indica alcune parole chiave che permettono di sintetizzare il senso di questa esperienza nel contesto descritto e argomenta la tua scelta.  c  Sottolinea le informazioni principali relative alla polizia d’ordine e al suo ruolo nello sterminio.

del popolo e condannato a morte. Nel corso del processo stilò un memoriale, poi pubblicato, sulla sua esperienza di responsabile del campo di sterminio: una testimonianza agghiacciante sugli orrori dei Lager e sulla freddezza burocratica con cui venivano perpetrati. In queste pagine, dedicate alla ricostruzione degli aspetti “tecnici” dello sterminio, Höss descrive l’attività svolta dai comandi nazisti al fine di assicurare un funzionamento efficiente della macchina della morte.

ricevette senza che fosse presente nes­ sun aiutante, e mi disse sostanzialmente quanto segue: – Il Führer ha ordinato la soluzione fina­ le della questione ebraica, e noi SS dob­

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dai nazisti era di matrice al tempo stesso ideologica e razziale. Nonostante ciascu­ no dei tedeschi «comuni» dislocati a est durante il conflitto abbia portato con sé un diverso tipo e grado di antisemitismo, gli stereotipi dell’ebreo partigiano, bol­ scevico o nemico della Germania diven­ nero tanto generalmente accettati e ac­ quisirono un’intensità tale da legittimare e stimolare una partecipazione ampia, se non dilagante, allo sterminio degli ebrei. Il bagaglio culturale che i tedeschi «co­ muni» portavano con sé, formato sia da attitudini generali sia da orme specifiche o proprie della cultura professionale delle organizzazioni di cui facevano parte, in­ fluiva sul loro modo di rappresentare nel­ la propria mente ed elaborare le situazio­ ni in cui si trovavano e le azioni che svol­ gevano. A loro volta, situazioni e atteggia­ menti estremizzavano le loro percezioni, legittimando l’ideologia del massacro e giustificando le esecuzioni di massa per­ petrate da questi «uomini comuni».

biamo eseguire quest’ordine. I centri di sterminio attualmente esistenti a Oriente

1. Comandante nazionale.

non sono assolutamente in condizione di far fronte alle grandiose azioni previste. Ho scelto perciò Auschwitz, sia per la sua ottima posizione dal punto di vista delle comunicazioni, sia perché il territorio ad esso appartenente può essere facilmente isolato e camuffato. Per, questo compito, avevo pensato di scegliere un alto ufficia­ le delle SS; ma per evitare fin dall’inizio difficoltà dovute a incompetenza, ho ab­ bandonato tale idea; il compito sarà dun­ que affidato a Lei. Si tratta di un lavoro duro e difficile, che richiede l’impegno di tutta la persona, quali che possano essere le difficoltà future. Apprenderà ulteriori particolari dallo Sturmbannführer2 Eich­ mann, del RHSA, che Le invierò tra bre­ vissimo tempo. – Tutti gli uffici che in un modo o nell’al­ tro saranno compartecipi di tale compito, verranno da me informati a tempo de­ bito. Lei ha il dovere di mantenere il più assoluto silenzio riguardo a quest’ordine, anche con i Suoi superiori. Dopo il Suo colloquio con Eichmann, mi mandi im­ mediatamente i piani delle istallazioni previste. – Gli ebrei sono gli eterni nemici del po­ polo tedesco, e devono essere sterminati. Tutti gli ebrei su cui possiamo mettere le mani in questo tempo di guerra, devono essere ammazzati, senza eccezione. Se non riusciremo ora a distruggere le basi biologiche dell’ebraismo, un giorno sa­ ranno gli ebrei ad annientare il popolo tedesco. Subito dopo aver ricevuto quest’ordine così grave, feci ritorno ad Auschwitz, sen­ za neppure recarmi a rapporto dai miei superiori a Oranienburg3. Poco tempo dopo venne da me ad Au­ schwitz Eichmann, che mi espose il piano delle azioni per i diversi paesi. Non saprei più ridare con esattezza la successione. In ogni modo, Auschwitz avrebbe dovuto occuparsi prima di tutto dell’Alta Slesia orientale e delle zone ad essa confinanti del General Gouvernment4. Contempo­ raneamente, e poi di seguito, secondo le possibilità, sarebbe toccato agli ebrei della Germania e della Cecoslovacchia; finalmente agli ebrei occidentali, della Francia, del Belgio, dell’Olanda. Egli mi fece anche le cifre approssimative dei tra­ sporti che sarebbero arrivati, ma anche queste non saprei più ridire. Quindi passammo a discutere le modalità per attuare il piano di sterminio. Il mez­ zo non poteva essere che il gas, perché

sarebbe stato senz’altro impossibile eli­ minare le masse di individui in arrivo con le fucilazioni; e, oltre tutto, sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi del­ le SS incaricati di eseguirle, data anche la presenza di donne e bambini. Eichmann mi parlò dell’uccisione con gas da scappamento su autocarri, che era il metodo usato fino allora in Oriente. Ma era un metodo da scartare ad Auschwitz, dati i trasporti di massa previsti. L’ucci­ sione mediante gas di ossido di carbonio filtrati attraverso le docce nelle stanze da bagno (cioè il metodo con cui si stermina­ vano i malati di mente in alcuni istituti nel Reich), richiedeva un numero eccessivo di edifici; inoltre, era assai problematica la possibilità di procurarsi il gas in quantità sufficiente per masse così ingenti. Su que­ sto punto, quindi, non fu possibile arrivare a una decisione. Eichmann promise che si sarebbe informato sull’esistenza di qual­ che gas di facile produzione e che non ri­ chiedesse istallazioni particolari, e che mi avrebbe poi riferito in proposito. Andammo a ispezionare il terreno per stabilire il posto più indicato, e stabilim­ mo che era senz’altro la fattoria situata nell’angolo nordoccidentale del futuro terzo settore di edifici, Birkenau. Era una località fuori mano, protetta contro sguar­ di indiscreti da boschi e siepi, e non trop­ po lontana dalla ferrovia. I cadaveri avreb­ bero potuto essere interrati in lunghe e profonde fosse nel prato contiguo. In quel momento non avevamo ancora pensato alla cremazione. Calcolammo che negli stanzoni già esistenti, dopo averli resi a prova di gas, avremmo potuto uccidere contemporaneamente 800 individui, ser­ vendoci di un gas appropriato. Queste ci­ fre furono poi confermate dalla pratica. Eichmann non era ancora in grado di dir­ mi l’epoca in cui sarebbero cominciate le azioni, poiché tutto era ancora in fase di preparazione, e Himmler non aveva an­ cora dato il via. Eichmann fece quindi ritorno a Berlino, per riferirgli il contenuto del nostro col­ loquio. Qualche giorno più tardi spedii a Himmler, a volta di corriere, un piano det­ tagliato della situazione e una descrizione accurata delle istallazioni. Non ho mai ri­ cevuto da lui in proposito una risposta né una decisione. In seguito, Eichmann una volta mi disse che si era mostrato d’accor­ do su tutto. [...] Non saprei stabilire in quale epoca co­ minciò lo sterminio degli ebrei; proba­

bilmente già nel settembre del 1941, ma forse anche solo nel gennaio del 1942. La prima operazione riguardò gli ebrei dell’Alta Slesia orientale. Questi venne­ ro arrestati dal dipartimento di polizia di Kattowitz5 e condotti per ferrovia a una deviazione posta sul lato occidentale della linea Auschwitz-Dziedzice, e quivi fatti scendere. Per quanto ne so, questi trasporti non comprendevano mai più di 1000 persone. Sulla banchina, la polizia consegnava i prigionieri a un distaccamento del cam­ po; divisi in due gruppi venivano quindi condotti dal comandante del campo fino al bunker, come era chiamato l’edificio dello sterminio. I bagagli erano lasciati sulla banchina, e in seguito trasportati al reparto selezione, chiamato Canada, tra il Daw6 e il cantiere. Giunti presso il bun­ ker gli ebrei erano costretti a spogliarsi, essendo stato loro detto che dovevano entrare nelle stanze per la disinfestazio­ ne. Tutte le camere – cinque in tutto – ve­ nivano completamente riempite, le porte a prova di gas sbarrate e il contenuto dei recipienti di gas immesso nelle camere attraverso appositi fori. Dopo una mezz’ora, le porte venivano riaperte – ogni stanza ne aveva due –, i morti estratti e, mediante vagoncini che correvano su rotaie, portati alle fosse. Gli autocarri provvedevano a trasporta­ re i capi di vestiario al reparto selezione. L’intera serie di operazioni, cioè aiutare durante la svestizione, far riempire i bun­ ker, svuotarli, trasportare i cadaveri, sca­ vare e riempire di cadaveri le grandi fosse comuni, veniva compiuta da un reparto speciale di ebrei, alloggiati separatamen­ te, e che, secondo una disposizione di Eichmann, dopo ognuna delle azioni più in grande dovevano essere sterminati a loro volta. Mentre si effettuavano i primi trasporti, giunse un’ordinanza di Himm­

2. Comandante di battaglione. 3. Città tedesca poco lontana da Berlino, nei pressi della quale era entrato in funzione dalla metà degli anni ’30 un campo di concentramento. 4. Il Governatorato generale della Polonia occupata. 5. Katowice, città della Polonia meridionale, nella regione della Slesia. 6. Sigla di Deutsche Ausrüstungeswerke (“Opere di equipaggiamento tedesche”). Nel campo di Auschwitz costruirono alcuni capannoni, dove lavoravano circa 2500 prigionieri.

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FARESTORIA LA SHOAH: CARNEFICI E VITTIME

ler, per cui bisognava estrarre ai cadaveri i denti d’oro, e tagliare i capelli alle donne. Anche questo lavoro veniva compiuto da­ gli ebrei del Sonderkommando7. [...] I malati, che non potevano essere con­ dotti nelle camere a gas, venivano uccisi con un colpo alla nuca mediante armi di piccolo calibro. Era richiesta anche la pre­ senza di un medico delle SS. L’immissio­ ne del gas era affidata ai disinfettatori già istruiti (addetti al servizio sanitario). Mentre nella primavera 1942 le azioni erano ancora di portata ridotta, i trasporti cominciarono a ingrossare durante l’e­ state, e fummo costretti a creare un altro edificio di sterminio. Venne prescelta e attrezzata convenientemente la fattoria posta a occidente dei futuri crematori III e IV. Per la svestizione sorsero due ba­ racche presso il I bunker e tre presso il II bunker. Questo secondo era più capace, potendo contenere circa 1200 persone. Fino all’estate 1942, i cadaveri venivano gettati nelle grandi fosse comuni. Soltan­ to verso la fine dell’estate cominciammo a cremarli; dapprima su una catasta di legno – circa 2000 cadaveri per volta –,

quindi nelle fosse, insieme ai cadaveri del primo periodo, riesumati dalle fosse. Dapprima i cadaveri furono cosparsi di residui di benzina, più tardi di metanolo. La cremazione non aveva soste, giorno e notte. Alla fine di novembre tutte le gran­ di fosse comuni erano state svuotate. Il numero dei cadaveri sepolti in esse am­ montava a 107.000. In questa cifra sono compresi non soltanto i trasporti di ebrei sterminati dall’inizio fino all’epoca in cui si cominciò la cremazione, ma anche i ca­ daveri dei prigionieri morti nel campo di Auschwitz nell’inverno 1941-42, quando il crematorio annesso all’ospedale era sta­ to fuori uso per un lungo periodo. Vi sono compresi anche tutti i prigionieri morti nel campo di Birkenau. [...] Fin dalle prime cremazioni all’aperto, ap­ parve chiaro che questo sistema non po­ teva essere applicato durevolmente. Col tempo cattivo, o con vento forte, la puzza della cremazione si diffondeva tutto intor­ no per chilometri e chilometri, cosicché tutta la popolazione circostante parlava della cremazione degli ebrei, nonostante la contropropaganda svolta dal Partito e

85d CAREL PERCHODNIK POLIZIOTTO EBREO NEL GHETTO



C. Perchodnik, Sono un assassino? Autodifesa di un poliziotto ebreo, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 87-91.

Nel 1941, all’arrivo dei tedeschi a Otwock, città della Polonia poco lontana da Varsavia, l’ebreo Carel Perchodnik (1916-1944), colto e benestante, fu rinchiuso nel ghetto insieme alla sua famiglia: pensando di poter scampare alle violenze e alle retate naziste, entrò a far parte della polizia del ghetto dipendente dal governo ebraico locale voluto dai tedeschi (Judenrat). La sua scelta lo portò ad essere complice dei programmi di deportazione, che non risparmiarono

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Le notti prima delle esecuzioni noi, poli­ ziotti ebrei, montavamo di guardia ai nostri confratelli ebrei. Sapevamo che il mattino successivo sarebbero stati fucilati, del resto lo sapevano anche i condannati. Devo for­ se descrivere quelle notti? Dimenticarle, non le dimenticherò mai. Vedo un’angu­ sta piazzetta di fronte alla prigione, cinta­ ta con un reticolato, e in essa fittamente stipate a terra alcune centinaia di perso­ ne. Ci sono uomini, donne, bambini: tutti lontani o vicini conoscenti fin dagli anni della gioventù. Ho scritto che facevamo loro la guardia, ma non è vero. Nessuno li contava, cosicché la maggioranza poteva

7. Unità speciale di polizia.

METODO DI STUDIO

 a  Indica attraverso dei titoli i contenuti dell’incontro tra Höss e Himmler nell’estate del 1941 ed evidenzia delle parole chiave per ognuno di essi.  b Spiega per iscritto quando cominciò lo sterminio degli ebrei e indica cosa accadeva loro una volta giunti ad Auschwitz.  c Evidenzia le caratteristiche che hanno reso Birkenau un luogo adatto per la costruzione delle camere a gas.  d Quello che accadeva ad Auschwitz era reso noto? Perché? Secondo te la gente del luogo ne era a conoscenza? Rispondi alle domande per iscritto.

nemmeno la moglie e la figlia, che lui stesso consegnò ai tedeschi e caricò sui treni diretti ai campi di sterminio. Fuggito in seguito, Perchodnik riuscì a nascondersi fortunosamente nel retrobottega di un negozio di Varsavia: lì probabilmente scrisse, prima di morire in circostanze sconosciute, un memoriale ritrovato solo cinquant’anni dopo. La sua testimonianza, di cui si riporta un drammatico passaggio relativo alle continue rappresaglie ed esecuzioni ai danni degli ebrei nel ghetto, rappresenta una riflessione importante sulla collaborazione di alcuni ebrei con i loro aguzzini nazisti e sull’atteggiamento dei polacchi nei confronti delle vittime della Shoah.

tranquillamente fuggire a Kolbiel o andar­ sene senza scopo e senza meta. Anche se nessuno li avrebbe fermati, erano pochi quelli che scappavano. Gli ebrei erano pro­ strati sia spiritualmente che fisicamente, e molto più spiritualmente. La maggioranza aveva perduto la voglia di vivere. Ho alle spalle molte notti passate accanto ai miei fratelli ebrei. Le vivevo tre volte: da ebreo, da uomo e da bestia guidata dall’istinto di sopravvivenza. Queste tre nature erano te­ nute insieme dalla paura di morire. Infatti non eravamo mai sicuri di non venir fuci­ lati l’indomani. Tuttavia non scappavamo, perché mai allora stupirsi degli altri ebrei?

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

dagli uffici amministrativi. Tutti i militi SS che partecipavano alle operazioni di ster­ minio erano tenuti al più rigoroso segreto su tutta l’azione, ma alcuni processi tenuti in seguito al Tribunale delle SS dimostra­ rono che non avevano mantenuto il si­ lenzio. Anche le punizioni più gravi non impedirono agli uomini di chiacchierare.

Tutti passavamo le notti piangendo. Piangevano i condannati, piangevano i loro guardiani. Alcuni si lamentavano a voce alta, ricordavano a Dio tutte le loro buone azioni, indicavano i loro bambini, chiedendo a Dio se non avesse più pietà nemmeno per quegli esseri. Altri invece bestemmiavano Dio, si facevano beffe di quegli ebrei che per tutta la notte, indos­ sati i talesy1, cantavano i salmi e recitava­ no preghiere per i defunti. Altri, ancora in

1. Fazzoletti bianchi a righe nere che fanno parte del rituale della preghiera.

un accesso di follia deridevano se stessi, ricordando i loro sforzi e le loro fatiche per vivere meglio, per arricchirsi, per costruir­ si un’altra casa a Otwock... I più poveri in­ vece non potevano perdonarsi di essersi negati tutto in quei tre anni di guerra, di aver mangiato soltanto patate per paura che le provviste finissero. Adesso, i mise­ rabili, si ritrovavano in una situazione tale che qualcuno avrebbe ereditato da loro. Man mano però che passavano le ore della notte, le preghiere, i pianti, le risate selvagge e sfrenate si facevano più deboli. Quando i condannati piangevano, pian­ gevo insieme con loro, quando pregava­ no, pregavo insieme con loro. Come gli altri poliziotti-guardiani coglievo al volo i salmi conosciuti. Di tanto in tanto mi fer­ mavo a metà, sfiorato da un improvviso pensiero. «Perché mai lo faccio», mi chie­ devo, «e in generale c’è chi pregare?». [...] La gendarmeria2 spuntava di solito in­ torno alle otto. Nell’intervallo tra l’alba e il suo arrivo la maggioranza dei poliziotti si volatilizzava con pretesti di ogni genere. In quel momento era meglio non essere nei pressi dei condannati. E se ai gen­ darmi qualcosa non fosse andato a ge­ nio e avessero decisero di fucilare anche i poliziotti? Restavano quindi sul posto soltanto coloro che vi erano costretti, per­ ché comandati di servizio alla prigione. L’arrivo dei gendarmi non segna l’inizio dell’esecuzione. Prima ha luogo un ulte­ riore rastrellamento. I tedeschi in compa­ gnia della polizia polacca perquisiscono ancora altre abitazioni. Ogni minuto si sente uno sparo. Un colpo singolo signi­ fica la morte di una sola persona, una scarica comporta la morte di una decine di persone, un colpo singolo a seguito di una scarica fa sapere che stanno finendo qualcuno. Ma succede di rado, i boia han­



no una mira troppo buona per sbagliare da una distanza di uno o due metri. Sen­ to gli spari stando davanti alla prigione. Non mi è consentito piangere: e se se ne accorgessero? Dopo ogni colpo mi chie­ do se abbiano catturato zia Góralska e suo figlio Mulik, se proprio quello sparo abbia reciso il filo della loro vita. Mi consolo, pensando che forse non li troveranno. C’è da impazzire! Per noi, guardiani, aiutanti dei carnefici dei nostri fratelli, comincia la geenna3. Di notte gli ebrei non tentavano di scappare, benché sapessero perfettamente quel che avrebbe portato loro il mattino. Solo di tanto in tanto un’ombra ci sfrecciava sotto gli occhi, si trattava di singoli fuggiaschi che erano passati attraverso i buchi del re­ ticolato. Di solito non erano più di cinque, una decina forse. Con il sopraggiungere del giorno, quando ormai la gendarmeria s’aggirava per tutto il ghetto, nuove forze entravano nei condannati. Tutti volevano scappare. Di certo da un punto di vista psicologico si trattava di un fenomeno del tutto comprensibile, ma noi avevamo un altro punto di vista, il nostro. Infatti che cosa dovevamo fare noi, povere vittime della nostra abiezione? Consentir loro di tentare la fuga? Erano condannati in partenza all’insuccesso, e ciò avrebbe si­ gnificato per noi una sentenza di morte. So perfettamente che esiste una comoda giustificazione. Potrei infatti dire che non ero di guardia da solo, perché davanti alla prigione prestavano servizio almeno tre poliziotti. Ciò equivarrebbe però soltan­ to a discolparsi, mentre io mi sono de­ ciso a scrivere queste memorie non per giustificarmi, bensì per testimoniare la verità. Non so quale fosse la disposizio­ ne d’animo di quei poliziotti che avevano salvato le mogli. Il terreno scottava loro

86d PRIMO LEVI L’ARRIVO AL CAMPO

P. Levi, Opere, vol. I, Einaudi, Torino 1987, pp. 15-21.

Il brano seguente, dedicato all’arrivo dei deportati ebrei nel campo di Auschwitz dopo un lungo ed estenuante viaggio in treno, è tratto da Se questo è un uomo di Primo Levi (19191987). Il libro, edito per la prima volta nel 1947, riscosse scarsa attenzione all’epoca, in un’Italia uscita da poco dalla guerra. Ripubblicato alla fine degli anni ’50, e poi tradotto in molti paesi, divenne in seguito un classico della letteratura sulla Shoah. Levi, di professione chimico, fu catturato dai tedeschi perché legato alla Resistenza italiana, ma venne poi

sotto i piedi, pensavano solo alla fuga. I rimanenti si dividevano in due categorie. Gli uni, quelli a cui le sofferenze aveva­ no reso l’animo più nobile, compativano tutti gli ebrei senza eccezione e aiutavano disinteressatamente il prossimo. Altri era­ no rimasti amareggiati dalle sofferenze e costoro nelle altrui sventure non soltanto cercavano, ma trovavano conforto. Ricor­ do l’avvocato Solowiejczyk, una persona perbene fino a quel momento, il quale, sentendo il pianto degli ebrei, non prova­ va nemmeno un briciolo di pietà. “Le nostre mogli”, diceva loro, “han potu­ to morire e voi no?” A nulla giovavano i miei argomenti. “Gli altri ebrei”, ripetevo, “non hanno colpa se lei ha portato sua moglie sul piazzale”4. Non mi rispondeva mai, si limitava a mi­ nacciare i condannati a voce ancor più alta. 2. I poliziotti tedeschi e polacchi. 3. Valle alle porte di Gerusalemme: nella tradizione ebraica è un luogo di eterna dannazione. 4. I luoghi della città dove le autorità tedesche ordinavano di radunare gli ebrei che sarebbero stati deportati o uccisi.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega perché una parte degli ebrei collaborò con i nazisti facendo riferimento alle parole dell’autore.  b Sottolinea le frasi che permettono di comprendere il punto di vista dell’autore sulle motivazioni per cui gli ebrei non scappavano nel momento in cui era possibile.  c  Descrivi le emozioni provate dal protagonista e gli episodi e considerazioni che le suscitano. Spiega quindi chi è l’autore e che tipo di documento è questo.

deportato ad Auschwitz dopo aver rivelato di essere di origine ebraica (temendo la fucilazione qualora avesse ammesso di essere un partigiano). Sopravvissuto al campo di sterminio, nel libro La tregua, del 1963, raccontò il difficile ritorno a casa attraverso un’Europa devastata. La privazione di qualsiasi dimensione umana a cui gli ebrei furono sottoposti dai loro carcerieri è efficacemente ricordata in queste pagine: l’autore sottolinea tutti quei momenti, dalla spoliazione dei beni personali al taglio dei capelli, passando per la nudità iniziale imposta ai detenuti, funzionali alla cancellazione, nel prigioniero, del senso di appartenenza al genere umano.

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FARESTORIA LA SHOAH: CARNEFICI E VITTIME

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Il viaggio non durò che una ventina di mi­ nuti1. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vi­ sta una grande porta, e sopra una scritta vi­ vamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi. Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscal­ data. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Ep­ pure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, «essi» sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera, e c’è un rubinetto, e Wassertrin­ ken verboten2. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude. Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in pie­ di, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualco­ sa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia. Non siamo morti; la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda ­senza fretta, chiede: «Wer kann Deutsch?»3. Si fa avanti uno fra noi che non ho mai vi­ sto, si chiama Flesch; sarà lui il nostro in­ terprete. La SS fa un lungo discorso paca­ to: l’interprete traduce. Bisogna mettersi in fila per cinque, a intervalli di due metri fra uomo e uomo; poi bisogna spogliarsi e fare un fagotto degli abiti in un certo modo, gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto dall’altra, togliersi le scarpe ma fare molta attenzione di non farcele rubare. Rubare da chi? perché ci dovrebbero ruba­ re le scarpe? e i nostri documenti, il poco che abbiamo in tasca, gli orologi? Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete in­ terrogò il tedesco, e il tedesco fumava e lo guardò da parte a parte come se fosse stato trasparente, come se nessuno avesse par­ lato. Non avevo mai visto uomini anziani nudi. [...] Poi viene un altro tedesco, e dice di met­ tere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è finita e ci sen­ tiamo fuori del mondo e l’unica cosa è ob­ bedire. Viene uno con la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un

mucchio. È matto, le mescola tutte, novan­ tasei paia, poi saranno spaiate. La porta dà all’esterno, entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il tedesco la ria­pre, e sta a vedere con aria assorta come ci contorciamo per ripararci dal vento uno dietro l’altro; poi se ne va e la richiude. Adesso è il secondo atto. Entrano con vio­ lenza quattro con rasoi, pennelli e tosatrici, hanno pantaloni e giacche a righe, un nu­ mero cucito sul petto; forse sono della spe­ cie di quegli altri di stasera (stasera o ieri sera?); ma questi sono robusti e floridi. Noi facciamo molte domande, loro invece ci agguantano e in un momento ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbiamo sen­ za capelli! I quattro parlano una lingua che non sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo capisco. Finalmente si apre un’altra porta: eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell’acqua, è una sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parlia­ mo, e tutti domandano e nessuno rispon­ de. Se siamo nudi in una sala di docce, vuol dire che faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano an­ cora. E allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci danno da bere, e nessuno ci spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure sederci. E le nostre donne? L’ingegner Levi mi chiede se penso che an­ che le nostre donne siano così come noi in questo momento, e dove sono, e se le po­ tremo rivedere. Io rispondo che sì, perché lui è sposato e ha una bambina; certo le ri­ vedremo. Ma ormai la mia idea è che tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci, e poi è chiaro che ci uccidono, chi crede di vivere è pazzo, vuol dire che ci è cascato, io no, io ho capito che presto sarà finita, forse in questa stes­ sa camera, quando si saranno annoiati di vederci nudi, ballare da un piede all’altro e provare ogni tanto a sederci sul pavimento, ma ci sono tre dita d’acqua fredda e non ci possiamo sedere. Andiamo in su e in giù senza costrutto, e parliamo, ciascuno parla con tutti gli altri, questo fa molto chiasso. Si apre la porta, entra un tedesco, è il maresciallo di pri­ ma; parla breve, l’interprete traduce. «Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è una scuola rabbini­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

ca». Si vedono le parole non sue, le parole cattive, torcergli la bocca uscendo, come se sputasse un boccone disgustoso. Lo pre­ ghiamo di chiedergli che cosa aspettiamo, quanto tempo ancora staremo qui, delle nostre donne, tutto: ma lui dice di no, che non vuole chiedere. [...] Il tedesco se ne va, e noi adesso stiamo zit­ ti, quantunque ci vergogniamo un poco di stare zitti. Era ancora notte, ci chiedevamo se mai sarebbe venuto il giorno. Di nuovo si aprì la porta, ed entrò uno vestito a righe. Era diverso dagli altri, più anziano, cogli occhiali, un viso più civile, ed era molto meno robusto. Ci parla, e parla italiano. Oramai siamo stanchi di stupirci. Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio. Parla italiano malamente, con un forte accen­ to straniero. Ha fatto un lungo discorso, è molto cortese, cerca di rispondere a tutte le nostre domande. Noi siamo a Monowitz, vicino ad Ausch­ witz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in te­ desco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano per una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna. Riceveremo scarpe e vestiti, no, non i no­ stri: altre scarpe, altri vestiti, come i suoi. Ora siamo nudi perché aspettiamo la doc­ cia e la disinfezione, le quali avranno luogo subito dopo la sveglia, perché in campo non si entra se non si fa la disinfezione. [...] Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi. Improvvisamente l’acqua è sca­ turita bollente dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiacciano in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbia­ mo tempo di comprendere e già ci trovia­ mo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il cor­ redo in mano, dobbiamo correre fino ad

1. Il tragitto dalla stazione al campo di lavoro al quale erano stati inviati alcuni ebrei, ritenuti idonei e quindi non destinati all’uccisione immediata nelle camere a gas. 2. Proibito bere acqua. 3. Chi conosce il tedesco?

un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci. Quando abbiamo finito, ciascuno è rima­ sto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta di­ nanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci tra­ sformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: sia­ mo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più mise­ ra non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe,



anche i capelli; se parleremo, non ci ascol­ teranno, e se ci ascoltassero, non ci capi­ rebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro il nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. [...] Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto in­ fine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discer­ nimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decide­ re della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortu­

87 C. VERCELLI IL NEGAZIONISMO

C. Vercelli, Il negazionismo. Storia di una menzogna, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 10-13.

Il seguente brano è tratto da un recente libro dello storico Claudio Vercelli (nato nel 1964), dedicato a un tema particolarmente delicato e ancora oggi molto attuale: il negazionismo, ovvero la tendenza da parte di sedicenti storici, giornalisti, uomini politici e opinione pubblica in generale a negare lo sterminio di milioni di ebrei ad opera dei nazifasciI negazionisti non negano l’antisemiti­ smo nazista. Tuttavia ne rifiutano l’esito criminale, che portò all’uccisione indi­ scriminata di donne e uomini in base all’«appartenenza di razza». È senz’altro vero che Hitler e i suoi gerarchi odiasse­ ro gli ebrei. Non è men vero che il regime nazista li perseguitasse. Le leggi razziste di Norimberga del 1935 sono esistite e con esse le pratiche di esclusione dalla vita sociale e la confisca dei beni delle famiglie ebraiche. In genere i negazioni­ sti non rifiutano l’evidenza storica della deportazione. I campi di concentramen­ to tedeschi, i Konzentrationslager (cono­ sciuti anche con gli acronimi KZ e KL), sono esistiti, essendo parte della politica repressiva attuata dalla Germania contro i suoi «nemici» tra il 1933 e il 1945. Peraltro i nazisti, secondo questa interpretazione, facevano le medesime cose che, in tem­ po di guerra, venivano compiute dai loro avversari. Il concentramento dei civili era una prassi ordinaria, motivata sia da ragioni militari (sottrarre la popolazione ai luoghi di combattimento, impedire di

nato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprime­ re con questa frase: giacere sul fondo.

METODO DI STUDIO

 a Spiega perché Levi definisce il campo l’inferno e sottolinea le ulteriori definizioni che dà della sua realtà. Quindi metti in rilievo le emozioni che trapelano dalle sue parole.  b Evidenzia le definizioni e aggettivi che l’autore utilizza per sé e per i suoi compagni.  c  Esamina l’ultimo capoverso e individua le parole chiave della riflessione di Levi. Utilizzale quindi per descrivere le funzioni del campo di annientamento proposte dall’autore.

sti. Nato già l’indomani della guerra, sostenuto dalle correnti neonaziste e di estrema destra, questo fenomeno ha continuato a diffondersi nella pubblicistica, in particolare quella che si esprime su siti web faziosi e antisemiti (che ritengono ad esempio la Shoah un’invenzione utile solo a legittimare l’esistenza dello Stato di Israele in Palestina). In queste pagine, l’autore mostra su quali basi poggia la teoria negazionista e, subito dopo, chiarisce perché queste considerazioni sono totalmente prive di fondamento storico e scientifico.

intralciare il corso delle operazioni) che di sicurezza (porre sotto controllo coloro che potessero risultare pericolosi, contra­ ri o avversi allo sforzo bellico, e tra que­ sti gli ebrei). Già da ciò si può desumere come la parola «deportazione», che per i più ha un significato inequivocabile, in­ dicando la procedura attraverso la quale i perseguitati razziali e politici venivano mandati a morire, nel discorso negazioni­ sta assuma un connotato completamen­ te diverso. Infatti i negazionisti rifiutano con decisione l’esistenza di Vernichtungs­ lager-VL, i campi di sterminio propria­ mente intesi, dove l’obiettivo era quello di uccidere tutti i deportati nel più breve tempo possibile, molto spesso nella stes­ sa giornata in cui vi erano arrivati con i convogli merci. In ragione di ciò pongono anche in discussione i tre elementi essen­ ziali dello sterminio: 1. la sua natura tecnologica, ovvero il ri­ corso alle camere a gas e ai forni crema­ tori; 2. la sua dimensione quantitativa, ossia i sei milioni di morti;

3. l’intenzionalità e la progettualità: la pri­ ma derivata dalla teoria razzista che era presupposto del nazionalsocialismo; la seconda come insieme delle azioni con­ sapevolmente compiute dalle ammini­ strazioni tedesche chiamate in causa nel­ la realizzazione dello sterminio, affinché esso potesse materialmente attuarsi. Gli ebrei furono imprigionati in campi di concentramento, non di sterminio. Subi­ rono senz’altro violenze e vessazioni ma non furono mai fatti oggetto di una politi­ ca di sterminio poiché i nazisti non inten­ devano assassinarli sistematicamente. Da ciò deriva anche che: 1. le cause principali delle morti nei KZ furono l’inedia e le malattie, causate so­ prattutto dalla distruzione da parte allea­ ta delle linee di rifornimento e di distribu­ zione delle risorse tedesche. Se vi furono fucilazioni, impiccagioni ed eventual­ mente ricorso, ma solo in chiave speri­ mentale, al gas, ciò non fu la ragione della maggior parte delle morti. Le camere a gas erano usate per la disinfezione degli abiti. I forni crematori servivano per libe­

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FARESTORIA LA SHOAH: CARNEFICI E VITTIME

rarsi dei corpi dei morti, inevitabilmente numerosi perché le difficili condizioni in cui si trovavano i campi nei tempi di guer­ ra facilitavano i decessi, soprattutto tra quei prigionieri meno giovani e già debi­ litati in origine; 2. gli ebrei costituivano una comunità ne­ mica e come tali furono trattati, in tempo di guerra [...]; 3. gli ebrei morti nei Lager, come nei ghetti istituiti dai nazisti nelle principa­ li città dell’Est europeo, furono tra un minimo di 200/300 mila e un massimo di due o tre milioni. È fuorviante parla­ re della cifra di sei milioni, come invece la storiografia abitualmente fa nelle sue pubblicazioni; 4. non esisteva una politica nazionalso­ cialista di sterminio: la «soluzione finale della questione ebraica», come gli stessi nazisti avevano definito la loro politica contro gli ebrei, consisteva nella loro de­ portazione fuori dal Reich. [...] A sostegno di queste considerazioni ag­ giungono inoltre che: 1. i resoconti sulla Shoah erano un falso, inizialmente creati dagli Alleati in lotta contro la Germania e poi acquisiti e dif­ fusi dagli ebrei per avvalorare l’obiettivo di creare un proprio Stato nazionale sulle terre palestinesi; 2. le evidenze documentarie dello stermi­ nio, dalle fotografie alle memorie scritte pervenuteci, sono state fabbricate ad arte; 3. i sopravvissuti che hanno testimoniato delle loro vicissitudini sono inattendibili. I loro resoconti sono pieni di incongruen­ ze ed errori; 4. le deposizioni e le confessioni dei pri­ gionieri di guerra nazisti sono state estor­

te con la violenza, le torture e la minaccia della pena di morte. L’evidenza documentaria e testimoniale – in altri termini la tangibilità fattuale – del genocidio degli ebrei per mano nazista è fuori discussione. Sussiste una totale con­ vergenza di prove in tal senso. Si tratta di un grandissimo numero di scritti (lettere, diari, appunti, memorie, ordini di servi­ zio, documenti di lavoro, articoli e così via), per parte sia delle vittime che dei carnefici. Benché i secondi, poco prima della fine della guerra, abbiano tentato di distruggerli per lasciare il minore nume­ ro di tracce possibili, ben sapendo quale fosse la natura del crimine che avevano commesso, è pervenuta a noi una no­ tevole quantità di materiali. Alle cose su carta si legano quelle dette a voce, le te­ stimonianze dei sopravvissuti così come delle guardie dei campi, dei loro capi, dei leader nazisti, delle popolazioni che vive­ vano nelle vicinanze dei Lager, ma anche dei parenti e dei corrispondenti degli uni e degli altri, che se non videro con i loro occhi a volte intuirono, da quanto veni­ va loro riferito, che qualcosa di tragico si stava consumando. Un terzo genere di riscontri è fornito dai repertori fotografi­ ci, di parte sia alleata che tedesca. Tutta­ via non sono certo gli unici elementi sui quali fare affidamento. Ad essi si aggiun­ gono quelle foto, preziosissime ancorché assai rare, fatte segretamente dagli stessi deportati; le immagini riprese dalla po­ polazione locale e i reportage dei militari tedeschi. Anche qui il tentativo di cancel­ lare le tracce non è riuscito, almeno non nella proporzione sperata dai persecu­ tori. Un quarto elemento di prova sono i

Lager stessi, ossia i campi di lavoro, quelli di concentramento e, infine, di stermi­ nio. La persistenza di alcune installazioni come quelle di Auschwitz I e II1 è risulta­ ta oltremodo preziosa per ricostruire le dinamiche dello sterminio attraverso un vero e proprio lavoro archeologico. Un ultimo fattore è quello, statistico-probabi­ listico, relativo alla demografia (sul piano civile, ai registri anagrafici): confrontando i dati di prima e dopo la guerra, dove sono finiti milioni di persone di cui più nulla si è saputo? Tutte queste fonti convergono quindi su un unico obiettivo, confermando che i nazisti fecero di tutto per eliminare fisi­ camente tutti gli ebrei che cadevano nelle loro mani. Mai un crimine di tali propor­ zioni, per occultare il quale ci si adoperò da subito, ha lasciato così tante tracce. Ma per i negazionisti e i loro libri le cose non stanno in questi termini. 1. Il campo di Auschwitz era suddiviso in varie sezioni, di cui la seconda, nota anche con il nome di Birkenau (dalla località vicino a cui sorgeva), era dotata di camere a gas per lo sterminio.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi ciò che i negazionisti negano essere esistito e quello che riconoscono come proprio della politica e azione nazista portate avanti contro gli ebrei. Quindi realizza una tabella che contenga i risultati della tua analisi e commentala descrivendo le conseguenze della visione negazionista.  b  Sintetizza le considerazioni esplicitate dall’autore e descrivi per iscritto le prove che confutano quanto sostenuto dai negazionisti.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 8 FOTOGRAMMI TRATTI DAL FILM NAZISTA CONOSCIUTO COME IL FÜHRER REGALA UNA CITTÀ AGLI EBREI, REGIA DI KURT GERRON, 1944

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Terezín è un campo con un ruolo particolare nella storia nazista. Costruito nell’antica fortezza di Theresienstadt, alle porte di Praga, divenne ben presto un campo di smistamento, ma fu proposto ufficialmente come un ghetto modello con l’obiettivo di nascondere al mondo ciò che realmente accadeva agli ebrei una volta che venivano catturati e internati nei campi nazisti. Con questo obiettivo, i tedeschi organizzarono due visite della Croce Rossa al campo, nel giugno del 1943 e il 23 giugno

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

1944. In questa seconda occasione i delegati poterono osservare una realtà preparata ad arte, con internati in buona salute, vitto abbondante, alloggi puliti e senza problemi di sovraffollamento. L’inganno riuscì e per rafforzarne l’effetto, in agosto-settembre, un internato, l’attore e regista ebreo Kurt Gerron (Berlino, 1897 - Auschwitz, 1944), ebbe il compito di girare un documentario che rappresentasse la vita degli internati con l’obiettivo di cancellare una volta per tutte le voci rela-

▲  Durante

il film, a ridosso delle mura della fortezza che ospitava il campo, vennero ripresi ebrei al lavoro negli orti

▲  Una

partita di calcio nel cortile della caserma della fortezza

tive a ciò che realmente stava accadendo agli ebrei. Contemporaneamente, il film doveva suscitare indignazione in Germania per il contrasto tra l’idilliaca vita degli ebrei e la drammatica situazione dei tedeschi durante il conflitto. Il titolo dell’opera doveva essere Il Führer regala una città agli ebrei, o forse Terezín. Documentario da un insediamento ebraico. In questa occasione, il campo venne ripulito, le persone magre o malate vennero scartate mentre le altre furono impegnate come comparse: vi erano rappresentati uomini e donne in laboratori di sartoria e falegnameria, durante il lavoro nell’orto, in biblioteca o durante una conferenza e in occasione di un concerto. Tutti indossavano abiti civili con le stelle gialle e venivano chiamati residenti (Bewohner) invece che detenuti. Erano ben vestiti, ben nutriti e spesso sorridenti. Nel film non si vedono SS o altri tedeschi armati. Nel vasto cortile della caserma venne inoltre impiantato un campo da calcio e fu organizzata una partita, mentre un pubblico festoso faceva il tifo. Successivamente, coloro che avevano lavorato al film, compreso il regista, vennero deportati e uccisi ad Auschwitz. Nella fortezza di Theresienstadt furono internati molti artisti, musicisti e intellettuali famosi, e molti di essi riuscirono a testimoniare di nascosto con la propria arte quello che vedevano e vivevano mostrando condizioni tutt’altro che idilliache: per quanto in alcuni momenti furono consentite attività culturali, il cibo era scarso, e le condizioni generali (promiscuità, lavori forzati, condizioni igieniche disastrose) provocavano gravi

▼  Internati

ebrei assistono ad una conferenza durante le riprese del documentario

malattie infettive, come il tifo. Per gestire l’alto numero di morti, furono costruiti forni crematori capaci di incenerire i corpi di 200 persone in un giorno.

GUIDA ALLA LETTURA

 a Osserva con attenzione le immagini e descrivi i soggetti rappresentati: si tratta di uomini? donne? bambini? Individua degli aggettivi in grado di rappresentarne le caratteristiche.  b Spiega in che contesto sono ripresi questi soggetti e quali messaggi intendono trasmettere le immagini.  c Numera le immagini proposte e, quando trovi nel cappello introduttivo collegamenti ad esse, inserisci tra parentesi i numeri di riferimento.

 d  Che tipo di immagini sono queste? Raccontano realmente la vita nel ghetto? Come hanno fatto gli storici, secondo te, a rispondere a questa domanda? Elabora le tue risposte per iscritto facendo riferimento a ciò che sai di queste immagini e al contesto e alla finalità per cui sono state prodotte. Se vuoi, per dare una risposta più esaustiva, puoi cercare su Internet il video che contiene alcuni frammenti del film (puoi usare per la tua ricerca le parole chiave “Nazi propaganda, Theresienstadt/Terezin”) e approfondirne la storia.

487

FARESTORIA LA SHOAH: CARNEFICI E VITTIME

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti mettendo in rilievo l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo descrittivo di circa 30 righe sui protagonisti della Shoah (vittime e carnefici) mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di citare opportunamente i brani.

2 Scrivi un testo di massimo 10 righe dal titolo Il popolo tedesco e la

conoscenza della Shoah facendo riferimento al brano di Browning [►83], al testo di Höss [►84d] e alla FONTE ICONOGRAFICA 8. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.

LA GUERRA ITALIANA

488

L’Italia entrò in guerra nel 1940 con l’ambizione di svolgere un ruolo da grande potenza mondiale: come spiega nel primo brano Davide Rodogno [►88], il progetto del regime era quello di creare un “nuovo ordine” nel Mediterraneo, ovvero un nuovo equilibrio basato sulla supremazia militare, politica, economica e culturale dell’Italia fascista. Questo progetto, tuttavia, si scontrò con le reali possibilità militari del regime e con i piani del suo più stretto alleato, la Germania nazista, desiderosa a sua volta di appropriarsi con la forza di un suo “spazio vitale”: la guerra italiana si rivelò insomma ben più complessa di quanto previsto e le iniziali speranze di vittoria lasciarono presto il posto a pesanti sconfitte su tutti i fronti sui quali era impegnato l’esercito. Giorgio Rochat [►89] mostra ad esempio le difficoltà riscontrate dalle truppe italiane nei Balcani, dove si trovarono a fronteggiare la forte guerriglia del movimento di resistenza jugoslavo. Una delle più gravi decisioni prese dal regime fascista fu poi quella di inviare un corpo di spedizione in Russia a fianco dei tedeschi: la ritirata da quel fronte, segnata da un enorme numero di perdite umane, è rievocata nella testimonianza di Mario Rigoni Stern [►90d]. Il fallimentare andamento della guerra fu decisivo nel determinare il crollo della dittatura mussoliniana, cui seguì il passaggio dell’Italia dalla parte degli anglo-americani. Un’operazione, quest’ultima, preparata male e condotta ancora peggio, tanto da dar luogo, dopo l’annuncio dell’armistizio, a un rovinoso collasso delle forze armate e delle stesse istituzioni statali. Il nodo dell’8 settembre 1943 è affrontato da Elena Aga Rossi [►91] che mette in evidenza soprattutto le responsabilità del re, del governo Badoglio e dei vertici militari. Con l’8 settembre si aprì per l’Italia una fase drammatica, in cui la guerra combattuta sul suo territorio dagli alleati contro i tedeschi si sovrappose allo scontro fra gli stessi italiani: da un lato coloro che presero le armi contro gli occupanti nazisti, dall’altro quelli che scelsero la fedeltà all’alleanza con la Germania aderendo al nuovo regime fascista repubblicano, la Repubblica sociale italiana. A questa breve esperienza politica fascista è dedicato il brano di Luigi Ganapini [►92], mentre la testimonianza di Giacomo Debenedetti [►93d] pone l’attenzione su uno degli eventi più tragici dei primi mesi di occupazione tedesca: l’arresto e la deportazione nei campi di sterminio di più di mille ebrei romani. Nel brano successivo Santo Peli [►94] analizza invece le molteplici componenti dalle quali prese forma il movimento di Resistenza, nato proprio per combattere la presenza dei nazisti sul territorio italiano e i fascisti che intendevano collaborare con loro. Nel racconto della guerra partigiana di Beppe Fenoglio [►95d] emergono le divisioni interne alla Resistenza e molte delle contraddizioni del biennio 1943-45, durante il quale l’Italia fu attraversata da una vera e propria «guerra civile», definizione controversa su cui si sofferma Claudio Pavone [►96]. Nell’ultimo brano, Raoul Pupo e Roberto Spazzali [►97] affrontano infine un tema che è stato al centro del dibattito politico e pubblico in anni recenti, non senza suscitare aspre polemiche: quello delle “foibe”, ovvero delle violenze contro gli italiani nelle regioni al confine nord-orientale della penisola avvenute in due fasi, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e al termine della guerra, nel 1945.

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

88 D. RODOGNO UN “NUOVO ORDINE MEDITERRANEO”



D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 72-76.

Il brano seguente è tratto da un volume dello storico Davide Rodogno (nato nel 1972), dedicato al progetto imperiale portato avanti dal fascismo durante la seconda guerra mondiale e al ruolo che ebbe l’Italia nelle politiche di occupazione militare di molte parti d’Europa. In queste pagine l’autore analizza il concetto di “nuovo ordine mediterraneo” ideato Cosa s’intendeva esattamente per spazio vitale? «Quella parte del globo terrestre, sulla quale si estendono o le esigenze vi­ tali o la forza d’espansione di uno stato a forte organizzazione unitaria che cerca di soddisfare i proprio bisogni, dilatandosi oltre i confini nazionali». Quale avreb­ be dovuto essere l’estensione geografica dello spazio vitale? Nel caso del ­fascismo il limes1 non fu esattamente definito per ragioni politiche, tuttavia l’obiettivo del­ l’espansione fu chiaro sin dall’inizio: il Mediterraneo. Secondo Mussolini, già nel 1922, se si fosse governata bene la na­ zione «indirizzandola verso i suoi destini gloriosi», «proiettando gli italiani come una forza unica verso i compiti mondia­ li», facendo del Mediterraneo un lago italiano, si sarebbe inaugurato un perio­ do grandioso della storia italiana. Dodici anni dopo, il 19 marzo 1934, durante il di­ scorso tenuto alla terza assemblea quin­ quennale del regime, Mussolini precisò le direzioni dell’espansione: «Parliamo tran­ quillamente di un piano che va sino al vi­ cino millennio: il duemila (...) Gli obiettivi storici dell’Italia hanno due nomi: Asia e Africa. Sud e Oriente (...) non si tratta di conquiste territoriali (...) ma di espansio­ ne territoriale». Successivamente affermò che la rivoluzione avrebbe dovuto rag­ giungere il suo culmine con la conquista e l’espansione: «la marcia all’oceano At­ lantico» attraverso l’Africa settentrionale francese e «la marcia all’oceano Indiano», attraverso il Sudan, che avrebbe «salda­ to» la Libia all’Etiopia. La conquista dello spazio vitale sarebbe stata attuata in tre momenti: corto, medio e lungo termine. Nei discorsi del 30 novembre 1938 e del 5 febbraio 1939, pronunciati dinanzi ai membri del Gran consiglio, Mussolini distinse gli obiettivi da realizzare dopo il 1942: la Tunisia, la Corsica, «tutto ciò che sta[va] al di qua delle Alpi» e l’Albania; una seconda serie di obiettivi (a medio

dal regime fascista e ne spiega le principali caratteristiche: si trattava di un progetto indirizzato a riordinare gli equilibri geopolitici europei (e in parte mondiali) sotto la guida della Germania nazista e dell’Italia fascista. Un progetto dettato da obiettivi di conquista e volto ad affermare, anche con la forza militare, la supremazia politica, economica e culturale dei due paesi alleati su rispettive aree d’influenza (il cosiddetto “spazio vitale”). Rodogno osserva che, nella realtà, i tedeschi imposero con la forza una loro idea di “spazio vitale” e “nuovo ordine”, che non teneva conto delle aspirazioni di conquista e controllo imperiale formulate dal regime fascista.

termine) era Malta e Cipro; poi, su tempi lunghissimi, Suez e Gibilterra, le «chiavi del Mediterraneo». Inoltre, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto, «stati pronti a fare catena con la Gran Bretagna, e a perfezio­ nare l’accerchiamento politico-militare dell’Italia (...) [dovevano] essere conside­ rati (...) virtualmente nemici dell’Italia e della sua espansione». Questo timing2 fu accelerato dalla guerra nella quale il duce e parte della popolazione non scorsero un pericolo per il regime ma l’occasione per realizzare il progetto totalitario fascista. Sino alla sconfitta della Francia, i «came­ rati italiani» non compresero pienamen­ te che l’espansione nazista rispondeva a un progetto di dominazione illimitata ed esclusiva, nel quale l’Italia avrebbe avuto, tutt’al più, un ruolo subordinato al Reich. Prima di questa «drammatica» presa di coscienza, vagheggiarono sull’estensione e la divisione delle due sfere d’influen­ za e s’illusero che lo spazio euroafricano potesse essere suddiviso così: la Mitte­ leuropa3 ai nazisti e Mediterraneo – Afri­ ca – Asia vicina ai fascisti. Evidentemen­ te, spiegò la propaganda, i «riordinatori d’Europa», Mussolini e Hitler, avrebbero ridisegnato la carta europea solo a guerra finita, tenendo conto di situazioni etniche e religiose, dei contributi delle varie nazioni alla guerra, dell’orientamento dei popoli vinti e delle necessità varie dell’immedia­ to dopoguerra. Il fatto stesso di parlare di due sfere di dominazione mette in evi­ denza una differenza con i tedeschi che, nei loro progetti di dominio, non si oc­ cuparono minimamente di cosa lasciare al­l’Italia. Roma, pur sviluppando un suo autonomo progetto imperiale, dovette tenere conto dell’ingombrante presenza dell’alleato persino nei suoi piani più se­ greti e ambiziosi. Lo spazio vitale fu articolato in piccolo spazio – «territorio nel quale un popolo ha sede fissa» – e grande spazio, «territorio

riservato in modo esclusivo all’influsso direttivo di uno stato potente, chiamato a svolgere un ruolo speciale nella storia». Lo spazio vitale era la somma del piccolo e del grande spazio. Entro le sue frontie­ re nessuna altra grande potenza avrebbe potuto ingerirsi o intervenire. Al centro di esso si trovavano «gli antichi e rinnovati valori» della civiltà italiana, la capacità di civilizzazione, motore e ragione del­ la responsabilità formativa e direttiva di Roma. All’interno del suo spazio, Roma avrebbe imposto il nuovo ordine (o ordi­ ne nuovo, ché le due formule erano utiliz­ zate indistintamente) e organizzato una comunità, «sia rispetto ai popoli che la componevano, sia rispetto agli altri meno civili, ma destinati anch’essi a crescere e a svilupparsi, così com’era avvenuto per quelli che, nell’impero romano, erano venuti a contatto con la sua superiore ci­ viltà». Il nuovo ordine europeo si sarebbe fondato: «sulla superiorità della politica sull’economia; sulla subordinazione de­ gli interessi individuali a quelli collettivi; sul diritto dello stato guida alla direzione economica delle molteplici entità compo­ nenti lo spazio vitale; sul riconoscimento dell’iniziativa privata e la sua elevazione a una funzione di pubblica utilità; sulla col­ laborazione delle classi ai fini dell’ordine e del benessere sociale e d’un più alto li­ vello produttivo». Il nuovo ordine avrebbe garantito ciò che l’autodeterminazione wilsoniana aveva fallito: la pace in Europa, nonché il co­ ordinamento dell’attività economica e l’equa divisione del lavoro all’interno di grandi organismi statali, portando a un equilibrio duraturo. I soggetti del dirit­

1. Il confine. 2. Programma, scadenze temporali. 3. L’Europa centrale e continentale.

489

FARESTORIA LA GUERRA ITALIANA

to internazionale sarebbero stati i nuovi agglomerati spaziali, gli imperi e non più i singoli stati. La scomparsa dei piccoli stati, confluiti all’interno di nuovi imperi, avrebbe sensibilmente ridotto il nume­ ro delle organizzazioni armate indipen­ denti, controllato l’evoluzione economi­ co-demografica, favorito lo sviluppo eco­ nomico e la prosperità. Nel nuovo ordine, i principi dell’autodeterminazione dei po­ poli e della sovranità nazionale sarebbero stati aboliti e si sarebbe affermato il prin­ cipio supernazionale delle relazioni inter­ nazionali, arena nella quale solo le nazio­ ni protagoniste avrebbero avuto diritto di entrare. Le singole nazionalità sarebbero state «integrate» (in realtà, sottomesse violentemente) all’interno del «principio organizzativo imperiale romano e fascista il quale non intende negare, ma salva­ guardare le altrui individualità etniche e culturali, integrando in tal modo l’espe­ rienza mazziniana». Roma, come asserito dalla propaganda, avrebbe pensato sub specie universali4, facendo d’un rapporto di gerarchica subordinazione, un sistema

di solidale responsabilità. All’interno del­ lo spazio vitale, l’universalità era intesa come il rapporto fra elementi diversi e un elemento comune e superiore, al quale i primi potevano «spontaneamente» ridur­ si senza essere per forza soppressi. Roma avrebbe attuato il suo imperium da de­ spota illuminato, «con i metodi che (...) il grado di incivilimento dei popoli con­ quistati suggerivano», tenendo salde in mano le redini della suprema direzione, «non concependosi un consorzio senza capo». L’impero non sarebbe stato concepito come una confederazione di stati, poiché solo a Roma sarebbe spettato il diritto di regolare la vita degli «associati». Il proces­ so d’aggregazione non avrebbe portato alla creazione degli Stati Uniti d’Europa, giacché l’Europa era costituita da «trop­ pe numerose e diverse razze», né alla Repubblica di Platone o alla città del Sole di Campanella5, né all’impero mondia­ le britannico, né, infine, alla federazione napoleonica sotto egida francese. Gli stati e le entità autonome, spogliati della loro

89 G. ROCHAT OCCUPAZIONE MILITARE E GUERRIGLIA NEI BALCANI



G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005, pp. 365-68; 370-71.

Giorgio Rochat (nato nel 1936), tra i principali studiosi italiani di storia militare, analizza le caratteristiche della guerra condotta dall’esercito italiano nel territorio dei Balcani e la politica di occupazione adottata in quel contesto bellico: i soldati italiani si trovarono a combattere una forte resistenza locale e

490

Quando si parla della guerra italiana come subalterna a quella tedesca, si pen­ sa subito alla guerra nel Mediterraneo e in Africa settentrionale, i cui esiti dipen­ devano dal concorso tedesco. In realtà le occupazioni balcaniche rappresentano un altro aspetto di questa subalternità, maggiore e dimenticato. Trenta divisioni italiane (metà di quelle disponibili) fu­ rono destinate a presidiare territori che Mussolini sperava di annettere, ma il cui futuro dipendeva dalle decisioni di Hit­ ler. Alle forze tedesche spettava vincere la guerra, a quelle italiane difendere le retrovie, senza garanzie per la spartizione del bottino dopo la vittoria. [...] A grandi linee, nei territori jugoslavi – Slo­ venia, Dalmazia, Croazia, Montenegro –

4. In maniera universale. 5. Nel dialogo la Repubblica Platone teorizza la migliore forma di Stato, dove si possa realizzare un’armonica convivenza sociale basata sulla giustizia; La città del Sole, scritta dal filosofo Tommaso Campanella (1568-1639), è un’opera nella quale si descrive una città “ideale” e utopica.

METODO DI STUDIO

 a Evidenzia le domande presenti nel brano e sottolinea, con lo stesso colore, le riposte sintetiche.  b  Sottolinea le informazioni principali relative ai seguenti argomenti: a. la «drammatica presa di coscienza» citata; b. il piccolo spazio; c. il grande spazio.  c  Evidenzia le caratteristiche principali del “Nuovo ordine europeo fascista” e sottolinea il rapporto con le singole nazionalità. Spiega quindi per iscritto in che modo esso avrebbe portato all’impero.

una guerriglia partigiana efficace e ben organizzata, contro la quale i comandi militari decisero di attuare una repressione dura e feroce, che non risparmiò neanche le popolazioni civili. Sebbene non raggiunsero lo stesso livello di atrocità dei nazisti, anche gli italiani si macchiarono di violenze e devastazioni nel tentativo di sconfiggere il nemico: quello del “buon soldato italiano” è dunque solo un mito che si è diffuso negli anni del dopoguerra grazie alla rimozione, nella memoria storica italiana, di queste guerre di occupazione.

le truppe italiane dovettero affrontare una forte guerra partigiana, su cui comincia­ mo a disporre di buoni studi. In Albania e nelle diverse regioni greche la resistenza delle popolazioni fu di minore intensità e organizzazione, con molte variabili, ma mancano studi di qualche portata. Non possiamo ripercorrere queste vicende ma ci limitiamo ad alcune osservazioni gene­ rali. La prima cosa da rilevare è che tutti gli eserciti regolari hanno difficoltà a ca­ pire e affrontare una guerra partigiana. L’istituzione militare si legittima come monopolio della violenza organizzata al servizio dello Stato, quindi ricerca la mas­ sima potenza distruttiva consentita dallo sviluppo degli armamenti per un conflit­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

sovranità, sarebbero stati asserviti alla na­ zione guida. Questi erano i cardini costi­ tutivi, i postulati del nuovo ordine.

to programmato contro forze analoghe degli Stati nemici. I suoi codici di valore sono orientati a questo tipo di conflitto, definirlo «cavalleresco» sarebbe eccessi­ vo, ma tutti gli eserciti regolari accettano alcune regole di massima come il rispetto del nemico ferito o che si dà prigioniero (non fosse per ovvie esigenze di reciproci­ tà) e dei civili, fino a quando restano civili, ossia non partecipano ai combattimenti. L’esercito che non rispetta queste regole, come quello nazista, si espone a ritorsioni di pari brutalità. La cultura e l’addestramento di un eserci­ to regolare vanno però in crisi quando si trova ad occupare un paese ostile con una resistenza di popolo, dove ogni civile è potenzialmente nemico, e deve far fronte

a una guerra partigiana condotta secondo regole tattiche e codici di comportamen­ to differenti da quelli «regolari». Per di più l’esercito che occupa un paese straniero è portatore di una cultura diversa e ritenuta superiore (non importa se a torto o a ra­ gione), quindi ha difficoltà a comprende­ re le cause della resistenza e a distinguere tra forze collaborazioniste, popolazione più o meno neutrale e forze nemiche. Quindi tende a ricorrere a soluzioni bru­ tali (fucilazioni, distruzioni di villaggi, deportazioni) anche quando sono con­ troproducenti perché costringono la po­ polazione a schierarsi con i partigiani, verso i quali si hanno soltanto espressioni di condanna totale (bande di criminali e simili), non la ricerca delle cause del loro radicamento e successo. Le truppe italiane nei Balcani si trova­ rono a operare in questo quadro, senza direttive politiche di qualche utilità o buon senso per guadagnare un qualche favore nelle popolazioni. Il pletorico1 quanto inefficiente apparato ammini­ strativo creato dal regime (in cui aveva largo spazio il personale fascista di origi­ ne triestina o «adriatica», certo non il più adatto a creare consensi)2 vide nelle oc­ cupazioni balcaniche soprattutto l’occa­ sione per una fiera retorica sull’italianità di questi territori, da ricuperare o inven­ tare contro ogni evidenza. In una situa­ zione quanto mai difficile e complessa, tra crisi economica e miseria dilagante, invadenza tedesca, un alleato come il governo ustascia di Croazia3 che era un diretto rivale per il futuro della costa dal­ mata e conduceva una «pulizia etnica» di bestiale efferatezza, poi le contrappo­ ste formazioni cetniche4 che nel 1941 si impadronirono di quasi tutto il Monte­ negro e nel 1942 collaborarono con gli italiani, infine lo sviluppo della guerra partigiana comunista, in questa situa­ zione la gestione politico amministrativa dei territori jugoslavi fu un disastro su tutta la linea. Parlare di fallimento delle ambizioni fasciste di un nuovo impero è persino eccessivo dinanzi alla pochezza dei protagonisti. Il «nuovo ordine fasci­ sta» si riduceva alla brutale repressione che ricadeva tutta sulle truppe. Nel suo volume sulle occupazioni fasciste Davide Rodogno ha scritto di un’impo­ stazione «coloniale» della guerra italiana nei Balcani. Il termine è corretto per la si­ tuazione di partenza: l’ignoranza presso­ ché totale della situazione locale, il senso

di superiorità dell’occupante, il razzismo latente, l’ostilità di massa della popolazio­ ne. Poi però intervengono due elementi diversi. Il nemico era più forte, la società jugoslava, per quanto lacerata, aveva uno sviluppo e una capacità di resistenza ben diversi dall’Etiopia. Soprattutto la guerra partigiana comunista rappresentava un salto di qualità, malgrado la scarsezza dei mezzi, era una guerra moderna sia nazio­ nale sia di classe, con dirigenti e quadri di buon livello, capace di coagulare consen­ si, di condurre offensive di notevole por­ tata e di sopravvivere alla serie di offen­ sive italo-tedesche. Una guerra vincente. L’altro elemento di differenza rispetto alle guerre coloniali era la mancanza di bat­ taglioni ascari5, che in Etiopia avevano il ruolo principale della repressione. Non potevano certo sostituirli le bande di col­ laborazionisti, esigue, sanguinarie e poco affidabili. Il peso del controllo di vasti ter­ ritori e delle relative operazioni antiguer­ riglia ricadeva tutto sulle truppe italiane, poco addestrate, poco motivate e poco mobili. La reazione dei comandi fu quella classica di un esercito occupante: creare una rete di presidi statici, che non erano in grado di controllare dinamicamente il territorio, non sempre di resistere se attaccati in forze. Il terreno era montuo­ so, poche le strade, mancavano colonne mobili di potenza adeguata per forzare i blocchi dei partigiani. Restavano le trup­ pe alpine, le uniche in grado di muovere per creste e sentieri con i loro muli: a loro si dovettero i non molti successi. Le gran­ di operazioni offensive italo-tedesche che si succedettero nel 1942-43 contro le zone liberate dalle brigate partigiane di Tito riuscirono di regola a dislocare il dispo­ sitivo partigiano, non mai ad annientare, ogni volta il nerbo delle unità comuniste riusciva a salvarsi per continuare la guer­ ra nelle regioni vicine. Quali che fossero i limiti delle truppe italiane, i tedeschi non riuscirono a fare di meglio contro la vincente guerra partigiana, malgrado un livello assai più alto di devastazioni e massacri. [...] Tutte le indicazioni dicono che le trup­ pe italiane affrontarono questa guerra con scarso entusiasmo e partecipazione, una testimonianza indiretta viene dalla necessità dei comandi di rinnovare ripe­ tutamente le direttive di massimo rigore (fino al «non si ammazza abbastanza» del generale Robotti)6. Le truppe erano poco addestrate, con vitto, alloggiamenti,

equipaggiamento insufficienti, non sem­ pre ben comandate, ma non si sottrasse­ ro agli ordini e fecero la loro parte nella repressione. Nei combattimenti scattava­ no poi sentimenti di solidarietà e di ven­ detta per i compagni uccisi, non di rado in modo efferato. Che il soldato italiano sia «buono» è un mito abusato, il solda­ to italiano non è migliore né peggiore di quello britannico o francese, il suo com­ portamento verso il nemico o i civili di­ pende dalle circostanze e dagli ordini. Va comunque ricordato che in una guerra con uno straordinario livello di atrocità e massacri da entrambe le parti, le truppe italiane furono certamente le meno fero­ ci. Anche i più duri ordini dei comandi prevedevano limitazioni alle rappresa­ glie, come il rispetto di donne e bambi­ ni. E la repressione fu condotta con largo ricorso a fucilazioni e devastazioni, senza i massacri e le efferatezze compiute dagli altri belligeranti, tedeschi compresi. [...]. Un altro aspetto del dominio italiano, ancor più dimenticato fu la deportazione di decine di migliaia di civili, soprattutto dalla Slovenia, ma anche dall’Istria e dal­ la Dalmazia, per lo più a titolo preventivo, un appoggio sospettato o potenziale alla resistenza. Le accurate ricerche di Ro­ dogno hanno individuato una cinquan­ tina di campi gestiti dal ministero degli Interni nell’Italia centro meridionale e una decina dell’esercito nell’Italia setten­ trionale, più una quindicina in Dalma­ zia, alcuni di notevoli dimensione, come Gonars (Udine), Chiesanuova (Padova),

1. Eccessivo, sovrabbondante. 2. Per le tradizionali rivendicazioni italiane sui territori costieri dell’Istria e della Dalmazia, nonché per la politica di “fascistizzazione” e di “italianizzazione” forzata (con l’imposizione dell’uso solo della lingua italiana, ad esempio) portata avanti dal regime nei confronti delle popolazioni di origine slovena che abitavano le regioni al confine orientale. 3. Governo filonazista croato formatosi con l’occupazione tedesca dei Balcani e guidato da Ante Pavelić (1889-1959). 4. Bande armate di guerriglieri locali, partigiani monarchici e anticomunisti. 5. Soldati locali reclutati nelle truppe italiane. 6. Così si espresse in una nota del 4 agosto 1942 il generale Mario Robotti (1882-1955), comandante dell’XI corpo d’armata in Slovenia.

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FARESTORIA LA GUERRA ITALIANA

METODO DI STUDIO

Monigo (Treviso), Renicci (Arezzo). Non è possibile arrivare a una cifra totale, si­ curamente oltre i 100.000 confinati. Di particolare durezza fu il campo nell’Isola di Arbe (Rab), dove nel 1942-43 morirono forse un quinto degli oltre 10.000 prigio­ nieri per l’insufficienza del vitto e degli alloggiamenti.



 a  Evidenzia il tema principale del brano e sottolineane le caratteristiche principali.  b  Spiega per iscritto perché gli eserciti regolari si trovano in difficoltà quando devono affrontare una guerriglia partigiana e in che modo reagiscono.  c  Spiega chi è Davide Rodogno, cosa sostiene e se l’autore è d’accordo con lui.  d Sottolinea e spiega le cause della gestione politica amministrativa dei territori jugoslavi e quello che comportò.  e Individua alcune parole chiave relative al dominio italiano in questi territori e argomenta con esempi.

90d MARIO RIGONI STERN LA RITIRATA DI RUSSIA

M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino 2008, pp. 95-100.

Fra le fallimentari operazioni militari della guerra fascista, una delle più tragiche fu quella del Corpo di spedizione italiano inviato da Mussolini in Russia nel 1941 e, l’anno seguente, ingrandito e trasformato in Armata (Armir, Armata italiana in Russia). Alla fine del 1942, la violenta controffensiva russa investì in pieno i reparti italiani schierati lungo il corso del Don e li costrinse a una drammatica ritirata. L’ultimo

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Il sole nel cielo limpido ci riscalda le membra indolenzite e si continua a cam­ minare. Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina. Passando per un villaggio vediamo dei ca­ daveri davanti agli usci delle isbe1. Sono donne e ragazzi. Forse sorpresi così nel sonno perché sono in camicia. Le gambe e le braccia nude sono più bianche della neve, sembrano gigli su un altare. Una donna è nuda sulla neve, più bianca del­ la neve e vicino la neve è rossa. Non vo­ glio guardare, ma loro ci sono anche se io non guardo. Una giovane è con le braccia aperte, e ha sul viso un lino bianco. Ma perché questo? Chi è stato? E si continua a camminare. Passiamo per una valletta stretta e deser­ ta. Cammino con angoscia, vorrei che se ne fosse già fuori; mi sembra di soffocare. Guardo da tutte le parti con apprensione. Ascolto e trattengo il fiato. Vorrei correre. Mi aspetto di veder comparire da un mo­ mento all’altro le torrette dei carri armati e di sentire la raffiche delle mitragliatrici. Ma passiamo. Ho fame. Quando ho mangiato l’ultima volta? Non ricordo. La colonna passa tra due villaggi distanti tra loro pochi chilo­ metri. Lì ci sarà certamente qualcosa da mangiare. Dalla colonna si staccano dei gruppetti che vanno verso i villaggi in

a ripiegare fu il Corpo d’armata alpino che, per sfuggire all’accerchiamento, dovette aprirsi la strada con una serie di duri combattimenti. Testimone di quella ritirata fu lo scrittore veneto Mario Rigoni Stern (1921-2008): finito poi in un Lager tedesco, durante la prigionia scrisse nell’inverno del 1944 i suoi ricordi, pubblicati successivamente in un libro dal titolo Il sergente nella neve (1953). Nelle pagine che seguono l’autore descrive efficacemente le sue peripezie e quelle dei suoi commilitoni nel corso del difficile ripiegamento, eseguito in un ambiente naturale ostile, caratterizzato da freddo e gelo.

cerca di cibo. Gli ufficiali gridano, dico­ no che potrebbero esservi dei partigiani o delle pattuglie russe. Soldati del mio plotone vanno anch’essi in cerca di cibo. Durante una breve sosta ci fermiamo a bere ad un pozzo e poi vado in un’isba che mi sembra la più vicina. Ma è una delle più vistose ed è già stata visitata da molti. Non vi trovo che un pugno di fetti­ ne di mele essiccate che i russi usano per fare i decotti. Si cammina e viene ancora notte. È fred­ do: più freddo di sempre, forse quaran­ ta gradi. Il fiato si gela sulla barba e sui baffi; con la coperta tirata sulla testa di cammina in silenzio. Ci si ferma, non c’è niente. Non alberi, non case, neve e stelle e noi. Mi butto sulla neve; e sem­ bra che non ci sia neanche la neve. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà così la morte, o forse dormo. Sono in una nuvola bianca. Ma chi mi chiama? Chi mi dà questi scossoni? Lasciatemi stare. «Rigoni. Rigoni. Rigoni! In piedi. La colonna è partita. Svegliati, Rigoni.» È il tenente Moscioni che mi chiama quasi con angoscia e aprendo gli occhi lo vedo curvo su di me. Mi dà un paio di scossoni e vedo bene il suo viso ora, e i due occhi scuri che mi fissano, la barba dura e lucente di brina, la coperta so­ pra la testa. «Rigoni, prendi» dice. E mi dà due piccole pastiglie. «Inghiotti, fatti

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

forza, avanti.» Mi alzo, cammino con lui e a poco a poco raggiungiamo la compa­ gnia e capisco tutto... Ma quanti che si sono buttati sulla neve e non si alzeran­ no più? Cenci e Moscioni mi fanno salire su un cavallo. Ma è peggio che cammi­ nare; temo di congelarmi, ridiscendo e cammino. Cenci mi dà una sigaretta e fumiamo. «Di’ Rigoni, che desidereresti adesso?» Sorrido, sorridono anche loro. Lo sanno la risposta perché altre volte l’ho detta camminando nella notte. «En­ trare in una casa, in una casa come le nostre, spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne, senza coperte sulla testa; fare un bagno e poi mettermi una cami­ cia di lino, bere una tazza di caffè-latte e poi buttarmi in un letto, ma un letto vero con materassi e lenzuola, e grande il let­ to e la stanza tiepida con un fuoco vivo e dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e sentire il suono delle campane e trovare una tavola imbandi­ ta: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliege, fichi, e poi tornare a dormire e sentire una bella musica.» Cenci ride, Antonel­ li ride e anche i miei compagni ridono. «Eppure lo voglio fare, se ci ritorno – dice Cenci – e poi – aggiunge – un mese

1. Abitazione tipica delle campagne russe.

di mare alla spiaggia, sulla sabbia tutto nudo, solo con il sole che brucia». In­ tanto camminiamo e Cenci vede il mare verde e io un letto vero. Ma Moscioni è serio, è il più consapevole tra noi, ha i piedi nella neve e vede steppa, alpini, muli, neve. Laggiù si vede un lume. Non è il mare verde, non è il letto vero, è solo un villaggio. Ma quel lume è come quello della favola. Anzi è più lontano. Non ci si arriva mai. Il villaggio è piccolo e non c’è posto per tutti; siamo tra i primi, ma le isbe sono già tutte occupate. Dovremo forse pas­ sare il resto della notte all’aperto. Il capi­ tano, Cenci, Moscioni e una metà della già ridotta compagnia vanno in cerca di un alloggio. Io rimango con il resto degli uomini e il mio plotone. Il mattino dopo il capitano mi disse che aveva mandato un portaordini: da loro c’era posto per tutti. Ma io non vidi ar­ rivare nessun portaordini, quella notte. Parte dei miei compagni si sistemarono attorno a un pagliaio coprendosi poi di paglia. Altri andarono non so dove, e io rimasi solo con Bodei davanti a un fuoco. D’un tratto si sentì belare e Bo­ dei si alzò, andò a prendere la peco­ ra che aveva belato e l’uccise vicino al fuoco. Io l’aiutai a scuoiarla e sul fuoco vivo mettemmo ad arrostire una coscia ­della pecora per ciascuno. La carne cal­ da e sanguinolenta era incredibilmente buona. E dopo le cosce, abbrustolimmo il cuore, il fegato, i rognoni infilati alla bacchetta del fucile. Attorno al fuoco si abbrustoliva la carne della pecora e l’odore del fumo era grasso e buono.



Mangiammo le braciole, e passavano le ore, poi il collo e le gambe anteriori. Vennero da noi, forse attratti dall’odore, due fanti italiani e un tedesco; finirono di mangiare la pecora; anzi spolparono le ossa che Bodei e io avevamo lasciato. Erano senza armi e al posto delle scarpe avevano stracci e paglia legati attorno ai piedi con filo di ferro. Facemmo loro un po’ di posto vicino al fuoco, e se ne stettero lì silenziosi. Non si alzavano nemmeno per andare in cerca di legna e Bodei brontolava; nemmeno il fumo scansavano con la testa. Io avevo un gran sonno. Mi addormentai ma incominciava l’alba, e di lì a poco mi svegliarono i rumori che sempre prece­ devano la partenza della colonna. Radu­ no i miei compagni di plotone. Si va, ma la colonna, invece di proseguire, ritorna sulla pista di ieri. Che succede? Vediamo giù a destra un paese abbastanza grosso. Dicono che vi sono i russi e che bisogna conquistarlo per lasciare la strada aperta agli altri dei nostri che seguiranno [...]. Ci viene comunicato da che parte attaccare e andiamo ancora una volta. Il plotone di Cenci e Moscioni a destra, io al centro e un po’ arretrato con la pesante2, poi le altre compagnie del battaglione, infine i tedeschi. Da un fosso vengono fuori dei soldati russi con le mani alzate e i no­ stri li disarmano. Si sente qualche sparo qua e là, ma fiacco. Il maggiore Bracchi ci segue e ogni tanto ci grida degli ordi­ ni. Vediamo altri soldati russi che se ne vanno. Non sembra una vera battaglia. La pesante non spara nemmeno un col­ po. Noi siamo più in alto e vediamo tutto.

91 E. AGA ROSSI L’8 SETTEMBRE

E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna 2003, pp. 194-97; 199-200.

Nel volume Una nazione allo sbando, uscito per la prima volta nel 1993 e poi più volte ripubblicato, Elena Aga Rossi (nata nel 1940) ha fornito una ricostruzione documentata e convincente di uno degli eventi più importanti della storia italiana: l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nelle pagine che Nel dopoguerra tutti i dirigenti politici e militari italiani hanno sostenuto non solo di aver voluto raggiungere al più presto un armistizio con gli alleati, ma

Raggiungiamo le prime isbe e aggiriamo il paese. Troviamo un branco di oche che strepitano. Ne acciuffiamo alcune; e tiriamo loro il collo e ce le portiamo in spalla tenendole per la testa. È stata per le oche la battaglia. Dal centro del paese, dove c’è la chiesa, gridano adunata. È già finito tutto. [...] I tedeschi si prendono tutti i prigionieri russi che abbiamo fatto, si allontanano e poi sentiamo numerose raffiche e qual­ che colpo. Nevica. Si riprende a camminare. I reparti si confondono fra loro. Si alza un forte vento freddo. Siamo tutti bianchi. Il ven­ to sibila tra l’erba secca, la neve punge il viso. Ci attacchiamo uno all’altro. I muli degli artiglieri sprofondano sino alla pancia, ragliano e non vogliono andare avanti. Bestemmie, richiami, urli nella tormenta. 2. Mitragliatrice pesante.

METODO DI STUDIO

 a Indica le emozioni vissute dal protagonista e precisa quali situazioni le hanno suscitate.  b  Qual è il colore dominante? Pensi che sia solo legato a elementi fisici e meteorologici o anche allo stato d’animo del protagonista? Rispondi sul quaderno.  c  Sottolinea le informazioni di tattica militare contenute nel brano. Quindi descrivi le informazioni che uno storico può ricavare complessivamente.

seguono, tratte dalla conclusione del libro, l’autrice ricorda che, nonostante le difficoltà obiettive, gli esiti dell’operazione sarebbero stati meno catastrofici se il re, il governo e i comandi militari avessero gestito il cambio di alleanza con maggiore chiarezza e decisione, dando indicazioni precise alle forze armate e al complesso della macchina statale. I vertici politici e militari furono così i principali responsabili del disfacimento delle istituzioni, lasciando ai singoli cittadini, militari e civili, il compito di dover scegliere cosa fare e da che parte stare.

anche di aver considerato necessario un rivolgimento di fronte. In realtà tale vo­ lontà comune non si manifestò. Le trat­ tative per l’armistizio furono condotte fin

dall’inizio con molta incertezza e in un clima di reciproco sospetto all’interno dei comandi militari e del governo. Pur nella generale convinzione che la guerra

493

FARESTORIA LA GUERRA ITALIANA

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ormai fosse persa, rimase l’illusione di poter far uscire il paese dal conflitto evi­ tando uno scontro diretto con i tedeschi, da tutti considerato la prospettiva più te­ mibile. Il re e Badoglio avrebbero potuto deci­ dere di rendere pubblici i piani tedeschi per un colpo di stato contro il governo e chiamare il paese e le forze armate alla difesa della patria. Se l’avessero fatto nei giorni immediatamente seguenti al 25 lu­ glio1, e avessero chiuso il passo del Bren­ nero per impedire l’arrivo delle divisioni tedesche, come il Comando tedesco te­ meva, si sarebbe potuta salvare dall’oc­ cupazione almeno una parte del paese. La decisione di sfuggire al rischio di es­ sere fatti prigionieri, lasciando Roma, poteva essere legittima, ma solo dopo aver organizzato una difesa del paese dall’aggressione tedesca. In realtà essi nutrivano una totale sfiducia nelle forze armate e nelle capacità dei comandanti, preoccupati come loro non del bene del­ la nazione ma della propria incolumità personale, e temevano che qualunque reazione popolare avrebbe potuto inne­ scare un processo rivoluzionario. Pur­ troppo non ci fu in Italia un De Gaulle che fosse in grado di prendere l’iniziati­ va, avendo l’autorità necessaria per fare un appello in difesa della patria minac­ ciata. Non sembra possibile stabilire quale fos­ se l’atteggiamento prevalente all’interno dei vertici militari, ma certamente vi era una forte corrente contraria a un cam­ biamento di fronte e favorevole alla con­ tinuazione dell’alleanza. Diverse ragioni spiegano tale orientamento: dal timore di assumere responsabilità in prima per­ sona alla paura delle reazioni tedesche, dalla convinzione ideologica al senso dell’onore verso l’alleato. D’altra parte soltanto il re, che costitui­ va l’unico punto di riferimento di tutte le forze politiche e aveva il controllo delle forze armate, avrebbe potuto teorica­ mente guidare un passaggio repentino dell’Italia dalla parte degli angloameri­ cani. In realtà, la sua personalità, il carat­ tere indeciso, la ventennale convivenza e corresponsabilità con il fascismo, la pro­ fonda diffidenza nei confronti delle for­ ze antifasciste, erano tutti elementi che rendevano molto improbabile una sua iniziativa, se non sotto la pressione di circostanze eccezionali. Per mancanza di capacità decisionali e per debolezza

di carattere, il re non era all’altezza del compito che si trovò ad affrontare. Così, non solo non venne presa alcuna mi­ sura per un rivolgimento di fronte, ma fino alla fine continuò anche la prepa­ razione militare per reagire al previsto sbarco alleato, scelta questa impossi­ bile da giustificare con l’«esigenza del­ la segretezza». Il tentativo di evitare, o quanto meno limitare a una parte del paese l’occupazione tedesca, con un’a­ zione offensiva, comportava una presa di posizione contro il proprio passato e anche rischi personali che il re e Bado­ glio non avevano nessuna intenzione di affrontare. [...] A parte la responsabilità delle più alte cariche dello Stato nel momento più grave – la notte tra l’8 e il 9 settembre – vi fu allora anche un problema di scelta individuale, e qui si verificò una diffe­ renza di comportamento sostanziale tra lo Stato maggiore della Marina e quello dell’Esercito e dell’Aeronautica. Mentre il primo continuò a funzionare, anche dopo la partenza di de Courten2, lo Stato maggiore dell’Esercito e dell’Aeronauti­ ca, così come il Ministero della Guerra e il Comando supremo, furono subito abbandonati dal personale; le richieste di ordini provenienti dai comandi peri­ ferici, in Italia e fuori, non ebbero così risposta. La completa assenza di un’azione di co­ mando subito dopo la proclamazione dell’armistizio fu considerata espressio­ ne della decisione, presa al più alto livel­ lo, di non combattere contro i tedeschi e in concreto si tradusse nella parola d’or­ dine «tutti a casa». I comandanti e i sol­ dati che decisero di reagire ai tedeschi e di contrastare il loro ordine di consegna­ re le armi furono molto più numerosi di quanto si pensi generalmente, ma la loro fu una scelta individuale, molto più diffi­ cile da prendere che quella di obbedire a un comando, tanto più che si trattava di opporsi a un alleato di poche ore prima. Per questo gli atti di resistenza, anche se furono isolati, assumono un’importanza fondamentale. D’altra parte, la decisione di non dare l’ordine di reagire ai tedeschi presa dal governo Badoglio e dal Comando supre­ mo, gli innumerevoli episodi di viltà e di totale acquiescenza ai tedeschi costitui­ scono una delle pagine più tristi e umi­ lianti della storia d’Italia. Nel caso più clamoroso, quello della man­

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

cata difesa di Roma, la decisione di non difendere la capitale fu presa quasi su­ bito, di fronte alle prime avvisaglie di un’azione offensiva tedesca, nonostante l’indubbia preponderanza delle forze italiane, che erano state disposte e ap­ prontate proprio allo scopo di reagire a un colpo di mano tedesco. In tale occa­ sione un’azione decisa avrebbe avuto il significato di una scelta inequivocabile, qualunque fosse stato l’esito finale, e avrebbe potuto avere conseguenze enor­ mi, dando un segnale della compattez­ za dell’esercito italiano e favorendo la sua partecipazione attiva alla battaglia in corso a fianco degli angloamericani, e portando al ritiro dei tedeschi a nord della capitale e quindi anche a una più rapida liberazione del paese. Invece per Roma, come per il resto del paese, il go­ verno Badoglio fece una scelta precisa, quella di non agire in attesa di vedere come si sarebbero comportati i tedeschi. È molto indicativo il fatto che della difesa di Roma alla famosa riunione del Consi­ glio della Corona dell’8 settembre non si parlò nemmeno: se i tedeschi si ritirava­ no il problema non si sarebbe posto, se rimanevano, la questione di approntare una resistenza non veniva presa seria­ mente in considerazione. È da condivi­ dere il giudizio di una fonte alleata se­ condo cui «con un po’ di organizzazione in anticipo ciò che era certamente una difficile situazione avrebbe potuto esse­ re gestita in un modo da proiettare meno discredito sulla nazione italiana agli oc­ chi del mondo». Gli avvenimenti del settembre 1943 di­ mostrano che vent’anni di regime tota­ litario avevano annullato ogni capacità della classe dirigente, e in particolare dei quadri militari italiani, di assumere re­ sponsabilità e prendere decisioni. Costi­ tuiscono anche la prova evidente dell’i­ nadeguatezza della monarchia di fronte al grave compito di guidare il paese fuori e oltre l’esperienza fascista [...].

1. Il 25 luglio del 1943 è la data della caduta di Mussolini a seguito del voto a lui contrario da parte del Gran consiglio del fascismo. 2. Raffaele de Courten (1888-1978), ammiraglio, fu ministro e capo di stato maggiore della Marina nel governo Badoglio, mantenendo le cariche fino al 1946.

L’8 settembre costituì però anche un importante punto di svolta perché il vuoto di potere venutosi a creare con il tracollo di tutta una classe dirigente costrinse una parte della popolazione a fare un bilancio del disastro cui il re­ gime aveva portato il paese. Nei giorni e nelle settimane che seguirono molti italiani furono costretti a prendere una posizione, a fare una scelta tra le due parti in lotta. I leader dell’opposizione antifascista, che durante i quarantacin­

ITALIANA

que giorni avevano accelerato il pro­ cesso di riorganizzazione dei loro par­ titi, lo stesso 9 settembre dettero vita a Roma al Comitato di Liberazione Na­ zionale, ma anche molti che fino a quel momento avevano appoggiato il regime fascista, di fronte alla occupazione te­ desca sentirono l’esigenza di reagire, la necessità di un rinnovamento nazio­ nale, che avrebbe trovato l’espressione più ampia nell’adesione al movimento di resistenza.

92 L. GANAPINI LA REPUBBLICA SOCIALE

L. Ganapini, La repubblica delle Camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Garzanti, Milano 2002, pp. 7-10; 16.

Scesi ad occupare il territorio italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre, i tedeschi favorirono la rinascita di un governo fascista e lo affidarono nuovamente alla guida di Benito Mussolini: nacque così la Repubblica sociale italiana, più nota, forse, ancora oggi, con il nome di Repubblica di Salò. Al suo interno confluirono gli uomini politici più vicini e fedeli al duce, i fascisti più radicali e desiderosi di rispettare l’alleanza Lo stato fascista repubblicano si presen­ ta sulla scena immediatamente dopo che il maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo nominato dal re Vittorio Ema­ nuele III il 25 luglio 1943 a sostitui­re il ventennale primo ministro, Benito Mus­ solini, ebbe annunciato (la sera dell’8 settembre 1943) l’armistizio con le po­ tenze dell’alleanza guidata dagli Usa, dal Regno Unito e dall’Urss, invitando l’eser­ cito italiano a r­eagire agli attacchi, «da qualunque parte» provenissero. La Ger­ mania nazista, con cui l’Italia fascista si era fino a quel momento battuta in base al patto d’acciaio siglato nel 1939, pro­ cede a una rapida e decisa occupazione del territorio, in parte peraltro già invaso dalle truppe angloamericane, sbarcate in Sicilia nel luglio 1943 e avanzanti or­ mai nelle estreme regioni me­ridionali. I tedeschi non hanno esitazioni a col­ pire chiunque s’opponga e a disarmare e avviare nei campi di concentramento in Germania i reparti italiani dalla Gre­ cia, dai Balcani, dall’Italia: le loro trup­ pe sono sparse nell’intera penisola, la loro superiorità militare è indiscutibile e soprattutto sono pronte e decise ad an­

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia le scelte operate dal re e da Badoglio e sottolinea con colori diversi le conseguenze di tali scelte e le motivazioni che li spinsero ad agire in questo modo.  b Cerchia le caratteristiche attribuite al re e spiega come queste, secondo l’autore, condizionarono le sue scelte.  c Spiega per iscritto in quale occasione l’autore parla di «problema di scelta individuale», cosa vuole intendere e in che modo e da chi fu risolto quest’ultimo.  d  Sottolinea gli avvenimenti del settembre 1943 citati e ciò che dimostrano secondo l’autore. Evidenzia gli effetti che ebbero sul popolo italiano.

con i nazisti, ma anche moltissime persone (funzionari dello Stato, amministratori) che continuarono a svolgere il loro lavoro negli uffici e negli apparati governativi statali. Per molti anni, la Repubblica sociale italiana è stata quasi rimossa dalla memoria storica italiana, indicata come uno “Stato-fantoccio” asservito a Hitler e ai suoi scopi repressivi (per combattere innanzitutto il movimento partigiano). Lo storico Luigi Ganapini (nato nel 1939), nel volume da cui è tratto il brano seguente, ha ricostruito invece, per la prima volta in modo organico, la complessità di questa breve esperienza politica, spiegando chi vi aderì e perché scelse di farlo.

nullare quell’alleato che hanno sempre considerato di seconda scelta e della cui fedeltà andavano dubitando ancor pri­ ma che gli stessi gruppi dirigenti legati alla monarchia muovessero i primi pas­ si della congiura che avrebbe portato al colpo di stato da cui sarebbe stato travol­ to Mussolini e da cui sarebbero scaturite le trattative armistiziali con i comandi Alleati. L’armistizio con gli angloamericani, l’oc­ cupazione tedesca, il dissolversi di ogni autorità statale riconosciuta aprono sce­nari inediti, pongono i cittadini di fronte a una scelta di portata profonda: deve prevalere la lealtà al re o la lealtà ai patti sottoscritti con l’alleato? [...] Gli italiani, ciascun italiano ha di fronte una scelta etica radicale. Ciò non significa che tutto sia chiaro, che le motivazioni di ciascuno non possano essere incer­ te. Ogni decisione si carica di tensioni che vengono da lontano: da tradizioni famigliari, da elementi di cultura appre­ si nel quadro del regime dei vent’anni precedenti, dall’opposizione nascosta, o palese, o inespressa, talvolta solo intui­ ta piuttosto che conosciuta nei suoi ele­

menti fondanti. O anche da un’adesione irrazionale alle componenti dei miti che il fascismo ha sparso a piene mani, e che i sacrifici della guerra, i legami affettivi verso i caduti, i prigionieri, i dispersi, la coscienza dei pericoli cui il paese è espo­ sto rendono determinante nel momento cruciale. Dalla Germania viene un ap­ pello di fedelissimi del duce, già la sera dell’8 settembre 1943; nella settimana successiva torna sulla scena Mussolini, liberato dalla prigionia del Gran Sasso cui l’aveva confinato il re; butta sulla bi­ lancia il proprio carisma1. Ma allo stesso tempo deve fare i conti con la potenza e gli interessi dell’alleato-occupante, tut­ t’altro che convinto della solidità delle

1. Molti uomini politici rimasti “fedeli” al duce dopo il 25 luglio erano fuggiti in Germania per evitare di essere arrestati, come era successo invece a Mussolini, imprigionato sul Gran Sasso, in Abruzzo, e liberato successivamente da un’unità specializzata di paracadutisti tedeschi.

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garanzie offerte dal nuovo stato che i fascisti tentano di costruire. Su di esso pesano i dubbi di tanti che ritengono illegittimo un potere così palesemente condizionato dalle forze tedesche; ad esso si oppongono apertamente le for­ ze degli avversari, antichi o recenti, del fascismo; contro di esso si scatenano le forze armate della nascente resistenza, chiamate alla lotta sotto il segno tan­ to della liberazione nazionale quanto dell’abbattimento degli ultimi residui del regime totalitario che aveva domina­ to l’Italia nel ventennio precedente. I fa­ scisti per parte loro tornano sulla scena gonfi di volontà di rivalsa: hanno vissuto l’umiliazione dell’allontanamento del loro capo senza avere alcuna possibili­ tà o capacità di reagire; vedono sfumare ogni prestigio presso quell’alleato che era stato fino allora garanzia di vittoria, esempio da emulare per coerenza ed ef­ ficienza; vogliono non solo ristabilire il loro diritto a rappresentare l’anima vera della nazione, ma anche tentare per la seconda volta la costruzione di un re­ gime politico coerente con le premes­ se del loro movimento, bruciando ogni residuo compromesso con le forze che si sono dimostrate avverse o inadegua­ te. La violenza costitutiva di tutti i mo­ vimenti fascisti del secolo li assiste fin dall’inizio. E la Repubblica inizia così il suo tragico cammino tra gli appelli alla concordia e all’amor patrio e le vendette per le nega­ zioni, i rifiuti, gli attacchi che sembrano diretti contro di loro ancor prima che contro i tedeschi. Nel contesto interna­ zionale il suo peso appare irrilevante: ambigue sono le risposte alla richiesta di riconoscimento, benché caldeggiata da Hitler stesso. L’Ungheria, la Roma­ nia, la Bulgaria, la Slovacchia e la Croa­ zia si espressero positivamente ma non senza palese freddezza; in alcuni casi il riconoscimento di Salò2 non escludeva che anche il governo di Badoglio aves­ se una sua rappresentanza diplomatica. Un rifiuto venne dalla Spagna, quasi un insulto da parte del Caudillo3 al quale Mussolini aveva prestato un aiuto de­ terminante per il successo della sua ri­ volta contro la repubblica spagnola; e un rifiuto venne dal Portogallo, Svezia, Turchia, Argentina, nonché lo Stato del Vaticano. Solo il Giappone appariva ve­ ramente interessato ai rapporti con il governo di Salò. [...]

La costruzione della nuova Repubblica fu un’opera lenta, che si avvalse in parte dei tiepidi e disastrati apparati dello sta­ to tradizionale. Essa tuttavia aspirava a connotarsi in modo nuovo: nella forma istituzionale repubblicana e nel carat­ tere fascista (ancorché l’aggettivo non compaia esplicito nel nome) e totalita­ rio del nuovo ordine. Fino al dicembre 1943 fu poco più che un simulacro di apparato, soprattutto repressivo; e poi – compiute le vendette contro i tradito­ ri massimi (la fucilazione dei gerarchi che nella seduta del Gran consiglio del­ la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 ave­ vano votato contro Mussolini) – prese l’avvio una legislazione socializzatrice, echeggiante aspirazioni populiste mus­ soliniane, lusingatrici delle aspirazioni eversive dell’anticapitalismo «plebeo» di gran parte della base del nuovo fa­ scismo. Ma prese anche vigore il poten­ ziamento del corredo razzista, la pro­ gettazione di nuove misure antisemite, la fattiva collaborazione con i tedeschi nella cattura e nello sterminio degli ebrei. [...] Malgrado tutte le opposizioni, il governo della Repubblica sembra poter spera­ re, anche in mezzo ai rovesci sui fronti meridionali e alla progressiva ritirata tedesca, di riuscire nuovamente ad as­ surgere al ruolo di comprimario nell’al­ leanza col Grande Reich, che pure l’ha privato – in via contingente e provvisoria per mere esigenze militari, assicurano i rappresentanti di Hitler e Hitler stesso – della sovranità su territori (province orientali e dell’Alto Adige, Trento e Trie­ ste) che ancora rappresentano «luoghi della memoria» sacri alla tradizione e al culto dell’irredentismo italiano. [...] La morte del duce chiude senza appelli questa fase della storia italiana e la bru­ tale esibizione del cadavere in piazzale Loreto ha poi oscurato ogni memoria di percorsi più complessi. Nella memoria dei vinti le immagini funeree che han­ no accompagnato l’esperienza fascista repubblicana dal suo primo sorgere fino alla tragedia finale si sono strettamente intrecciate all’umiliazione per la sconfit­ ta, alla memoria dei caduti, al bruciante ricordo della persecuzione subita4, del­ l’isolamento nell’Italia nata dalla nuova Costituzione, e fors’anche al dolore per i colpi inferti al fratello nemico. Nella me­ moria dei vincitori quei segni di lutto e di annullamento sono stati d’altro canto

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strettamente connessi alla ripulsa pro­ fonda dell’ideologia e della cultura del nemico interno, compatriota ma colla­ boratore della potenza occupante, ideal­ mente corresponsabile di stragi e delitti di proporzioni immani.

2. Il nome di “Repubblica di Salò” deriva dal fatto che i ministeri e gli uffici governativi del nuovo Stato di Mussolini non ebbero una sede unica, ma furono sparsi in varie località dell’Italia settentrionale, tra cui appunto Salò, cittadina sul lago di Garda. 3. Termine spagnolo che indica un capo militare o politico: titolo attribuito a Francisco Franco, che Mussolini aveva sostenuto (anche militarmente) nel corso della guerra civile spagnola del 1936-39. 4. I processi del dopoguerra intentati dall’Italia democratica contro chi aveva collaborato con il regime fascista e i nazisti.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia gli elementi che caratterizzano lo scenario dell’armistizio e sottolinea i fattori che contribuirono alla presa di decisione.  b  Spiega per iscritto cosa è la Repubblica sociale italiana e in quale contesto nacque. Quindi indica le caratteristiche che le sono proprie, sia nelle aspirazioni che nella realtà.  c  Sottolinea con colori diversi coloro che appoggiarono e coloro che contrastarono la Repubblica di Salò.  d  Spiega per iscritto cosa ha rappresentato per l’autore l’esperienza della Repubblica sociale nell’Italia del dopoguerra.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 9 GINO BOCCASILE PER ARRUOLARSI NELLA LEGIONE SS ITALIANA: ONORE FEDELTÀ CORAGGIO, 1944 Durante la vita della Repubblica sociale italiana o Repubblica di Salò vennero prodotti disegni, manifesti, cartoline, volantini e opuscoli con lo scopo di infondere negli italiani una nuova motivazione all’adesione alla Repubblica e ai suoi valori. Essi

mostrano, inoltre, il tentativo di riattualizzare quella dimensione “rivoluzionaria” che era stata propria del fascismo delle origini. I numerosi manifesti realizzati affrontano tematiche diverse ma che è possibile accorpare in alcune categorie, come il tradimento compiuto con l’8 settembre, l’alleanza con i tedeschi, i volti del nemico, la difesa del valore e dell’onore, o i tragici effetti dell’azione dei cosiddetti liberatori. Una sorta di compendio pedagogico quindi dei valori fondanti la nuova realtà politica. Per quanto i tedeschi siano già occupanti, l’alleanza viene mostrata basata su di un cameratismo dell’onore in realtà inesistente. I valori e l’onore rappresentati sono quelli che permettono di affrancare l’Italia dalla vergogna dell’8 settembre: il riscatto patriottico, la celebrazione distorta dello spirito risorgimentale, il sacrificio dei militari italiani, l’esaltazione dello spirito bellico incarnato dal fascismo e infangato dai Savoia. Questa propaganda tende a costruire un’immagine illusoria della realtà e nello stesso tempo ha l’obiettivo di spingere all’adesione ideologica attraverso slogan che esaltano la Repubblica sociale. Il manifesto qui riportato fa parte di un trittico che richiama i valori dell’onore, della fedeltà e del coraggio e che in nome di questi invita all’arruolamento volontario nelle SS italiane. Vi facevano parte coloro che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 continuarono a combattere a fianco dei nazisti in nome dell’alleanza con la Germania (a questi temi fanno riferimento i valori indicati).

GUIDA ALLA LETTURA

 a  Il manifesto è composto da diversi elementi grafici: un disegno, alcune scritte e i colori (del disegno e dello sfondo). Descrivili con riferimenti precisi. Quando descrivi il disegno, metti in rilievo lo sguardo e la postura del soggetto rappresentato.  b  Indica se ci sono collegamenti impliciti o espliciti fra il disegno e le scritte e da cosa lo desumi.  c  Quale messaggio intende trasmettere questo manifesto? A chi si rivolge? Rispondi per iscritto facendo riferimento a quanto analizzato e al cappello introduttivo.

93d GIACOMO DEBENEDETTI LA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI ROMANI



G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Sellerio, Palermo 1993, pp. 36-42; 44-46.

Il 16 ottobre 1943, le strade di Roma, e in particolare il vecchio e centrale quartiere ebraico del “ghetto”, furono tea­ tro del più grande rastrellamento di ebrei avvenuto in Italia nel periodo di occupazione nazista. Centinaia di persone furono prelevate all’alba dalle loro case, caricate su camion e rinchiuse in una caserma della capitale: dopo poche ore,

più di mille ebrei furono avviati al campo di sterminio di Ausch­witz-Birkenau e solo pochi di loro riuscirono a far ritorno. Giacomo Debenedetti (1901-1967), tra i principali critici letterari italiani del ’900, registrò quasi a caldo quanto era accaduto a Roma in un breve libro, pubblicato per la prima volta nel dicembre 1944, a metà tra il racconto e la testimonianza: nelle pagine che seguono, l’autore ricostruisce le drammatiche fasi iniziali dell’operazione tedesca nel ghetto romano, che colse di sorpresa gli ebrei che abitavano in quel quartiere.

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Gli ebrei dormivano nei loro letti verso la mezzanotte del venerdì 15 ottobre, al­ lorché dalle strade cominciarono a udirsi scoppiettate e detonazioni. Dal 25 luglio, quando Badoglio aveva messo il copri­ fuoco, e più ancora dall’8 settembre, qua­ si ogni notte si sentivano spari per le vie e si diceva ch’erano contro la gente che circolava oltre l’ora senza permesso. Ma quegli spari abituali rimanevano isolati, come i rintocchi dell’ora, e di rado giun­ gevano così vicini, e mai così insistenti. Questi invece si intensificano, si strin­ gono, si sovrappongono, diventano una vera sparatoria. E fossero solo spari, ma qualche cosa di più sinistro vi si mescola: colpi che partono secchi, per propagarsi poi quasi ondulati e fare dentro il buio un cratere cupo e svasato. Barúch dajàn emèd1, sembra di stare in mezzo a una battaglia. Qualcuno si alza a sedere sul letto. Ma dell’avviso portato sul far della sera dalla piazza di Trastevere, nessuno si ricorda più2. I coraggiosi si avvicinano alle finestre. Pallottole e schegge sibila­ no e guaiscono a pochi centimetri dalle persiane, si piantano nei vecchi intonachi delle facciate. Attraverso le persiane chiu­ se, si vedono nella via, sotto la pioggia fine e viscida, trai bagliori della fucileria e gli sprazzi dei petardi, drappelli di soldati che sparano in aria e lanciano bombe a mano verso i marciapiedi. Dagli elmetti, si direbbe che sono tedeschi; ma l’occhia­ ta è stata rapida, non è prudente rimane­ re presso la finestra. Ora i jorbetín3 si sono messi anche a urlare e schiamazzare: voci e grida squarciate, colleriche, sarcastiche, incomprensibili. Che vogliono? Con chi ce l’hanno? Dove vanno? Nelle case sono ormai tutti in piedi. I vici­ ni si riuniscono per farsi coraggio, e vice­ versa non riescono che a farsi paura a vi­ cenda. I bambini strillano. Che si può dire ai bambini per azzittirli, quando non si sa che dire a se stessi? Stai buono, ora vanno a Monte Savello, vanno a Piazza Cairoli4, tra poco tutto finisce, vedrai. Ma non fini­ sce affatto. Quelli pare che si allontanino, e poi rieccoli, e intanto la sparatoria non è mai cessata. Facessero qualche cosa, sfondassero una porta, una saracinesca, una bottega, almeno si capirebbe il per­ ché. Ma no, sparano, urlano, nient’altro. È come il mal di denti, che non si sa quanto può durare, quanto può peggiorare. Que­ sto non capire è il peggiore degli incubi. Una donna che si è sgravata5 da poche ore non resiste più all’ossessione, si butta giù

dal letto, afferra il neonato, corre nel tinel­ lo di una vicina, ma lì si sviene. Le donne la soccorrono: il cognac, la borsa calda, questa almeno è la vita di tutti i giorni, sono i mali di cui si sa il rimedio. Ma quel­ li giù sparano sempre e urlano da due ore, tra tre ore, da più di tre ore. [...] Loro soli sapevano la ragione di quell’in­ ferno. E forse la vera ragione era proprio che non ce ne fosse nessuna: l’inferno gratuito, perché riuscisse più misterioso, e perciò più intimidatorio. La gente lì per lì suppose che volesse essere un dispetto, una beffa contro gli ebrei. Più tardi, con la logica e il senno del poi, si pensò che i tedeschi si proponessero di spaventare la gente del Ghetto e – caso mai qualco­ sa fosse trapelato dei progetti per l’indo­ mani – costringerla a tapparsi in casa, per prenderla tutta. Verso le quattro del mattino, la sparatoria si placò. Faceva freddo, l’umidità della notte piovosa attraversava i muri. Nella levataccia tutti erano rimasti in camicia o in ciabatte, con appena qualche scial­ letto o pastrano sulle spalle. I letti abban­ donati avevano forse custodito un po’ di tepore. Stanchi, con quel senso di cavo e di disseccato che lascia dentro le orbite una grossa emozione, con le ossa peste, battendo i denti, ciascuno tornò alla sua casa, nel proprio letto. Tra due ore sareb­ be stato giorno, qualche cosa si sarebbe finalmente saputa. E poi, a ripensarci, non era capitato niente. Pare che il primo allarme l’abbia dato una donna di nome Letizia, che il vicinato chiama Letizia l’Occhialona: una grossa ragazza attempata, tutta tumida di tratti e di forme, con gli occhi fissi e i labbro­ ni all’infuori, che le immobilizzano sulla faccia un sorriso inerte e senza comuni­ cativa. Dal quale esce una voce assente, contrariata, estranea a ciò che dice. Verso le 5, costei fu udita gridare: «Oh Dio, i mamonni!». «Mamonni» in gergo giudio-romanesco significa gli sbirri, le guardie, la forza pub­ blica. Erano infatti i tedeschi che, col loro passo pesante e cadenzato (conosciamo persone per cui questo passo è rimasto il simbolo, lo spaventoso equivalente au­ ditivo del terrore tedesco), cominciavano a bloccare strade e case del Ghetto. [...] Lungo i marciapiedi due file di tedeschi: a occhio e croce, forse un centinaio. Nel mezzo della via stavano gli ufficiali, che disposero sentinelle armate a tutti i can­ ti6 di strada. I radi passanti si fermavano a

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guardare. I tedeschi non si interessavano di loro. Solo più tardi cominciarono ad acciuffare chi portasse involti o valigie, indizi di tentata fuga. Noi seguiteremo a parlare del Ghetto, perché fu l’epicentro della razzia. Ma in altri punti della città il lavoro si era iniziato parecchie ore prima. Risulta, per esempio, che un avvocato, Sternberg Monteldi, da Trieste, era stato preso fin dalle 23 della sera precedente all’Albergo Vittoria, dove abitava con la moglie. Qui cominciano gli interrogativi sui criteri e sul modo come la razzia ven­ ne regolata. L’avvocato e la signora erano muniti di passaporto svizzero, quindi non figuravano sui registri della popolazione romana; non avevano fatto denunce raz­ ziali, quindi non risultavano ebrei7. Come giunsero i loro nomi alle SS? Quanto alla procedura, si sa che in questo caso il fer­ mo venne intimato in maniera durissima: i coniugi furono costretti a vestirsi alla presenza dei militi, che tenevano le armi puntate su di loro. Questo inizio anticipato avrebbe potuto gravemente pregiudicare i piani tedeschi. Sarebbe bastato che la notizia se ne pro­ palasse, come avvenne la mattina suc­ cessiva, che subito, appena cominciata l’azione in grande, corse tutta la città, per­ mettendo ad amici e perfino commissari di P.S.8 di avvertire parecchi interessati, quelli almeno a cui si poteva telefonare. Giunto la sera prima, un simile allarme avrebbe svuotato una buona metà delle case ebraiche. Invece l’arresto degli Ster­ nberg, quantunque effettuato in un al­ bergo, rimase segreto, le chiacchiere dei camerieri e del portiere di notte non ba­ starono a farlo trapelare, nemmeno gli uf­ fici di Polizia, a quanto si dice, ne ebbero sentore; sicché la mattina dopo i tedeschi poterono operare ordinatamente, secon­

1. Benedetto il Giudice di Verità, in ebraico. 2. Nelle pagine precedenti si parla di una donna, Celeste, abitante del quartiere romano di Trastevere, che la sera prima era andata nel ghetto per avvisare gli ebrei dell’arrivo dei tedeschi l’indomani, ma nessuno aveva voluto crederle. 3. Soldati, in ebraico. 4. Luoghi intorno al quartiere del ghetto. 5. Ha partorito. 6. Angoli. 7. Ovvero non avevano denunciato alle autorità di essere ebrei. 8. Pubblica sicurezza.

do i piani prestabiliti e col più ampio suc­ cesso. [...] Dalla via del Portico di Ottavia9 giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all’angolo della via Sant’Ambro­ gio col Portico. Com’è vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnes­ sa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli mani­ poli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resi­ stenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni. Già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è im­ pressa la rassegnazione. Pare che quell’a­ troce, repentina sorpresa non li stupisca più. Qualche cosa in loro si ricorda di avi mai conosciuti, che erano andati con lo

stesso passo, cacciati da aguzzini come questi, verso le deportazioni, la schiavitù, i supplizi e i roghi10. Le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, condu­ cono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una ras­ sicurazione, un conforto che questi non possono più dare: ed è anche più tremen­ do che dover dire: «non ce n’è» ai figli che

9. La via principale che attraversa il ghetto. 10. Il riferimento va alle vicende di cui parla la Bibbia nell’Antico testamento, come ad esempio la fuga dall’Egitto.

PALESTRA INVALSI

1 Quando l’autore descrive il «peggiore degli incubi» si sta riferendo a: a. il fatto che i nazisti siano riusciti a catturare tutti gli ebrei del ghetto. b. l’impossibilità di comprendere quello che sta accadendo la notte del 15 ottobre. c. l’arrivo dei tedeschi che iniziarono a razziare il ghetto. 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? Argomenta la tua risposta per iscritto con riferimenti al testo. «I tedeschi decisero di stremare psicologicamente gli ebrei prima di giungere di sorpresa nel ghetto.» [ ] a. Coerente [ ] a. Non coerente

94 S. PELI LA NASCITA DEL MOVIMENTO PARTIGIANO

S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 22-27.

In un libro uscito nel 2004, lo storico Santo Peli (nato nel 1949) ha tracciato una sintesi dell’esperienza resistenziale nel 1943-45, riflettendo anche sulla memoria e le interpretazioni storiografiche di quell’evento storico. Nel brano che segue sono ricostruite la fasi di formazione del movimento partigiaNonostante la caccia serrata dell’eser­ cito tedesco, non tutti i soldati sbandati sono catturati, né tutti i fuggiaschi sono in grado di raggiungere rapidamente le proprie case, e si preparano per loro mo­ menti durissimi. La sorveglianza tede­ sca, il dissesto delle strade, la necessità per molti di attraversare il fronte: tutto congiura a trasformare anche pochi chi­ lometri in formidabili odissee [...]. Nei giorni immediatamente successivi alla disgregazione dell’esercito, decine di mi­ gliaia di soldati vagano sul territorio na­ zionale, aggregandosi in zone abbastan­ za isolate da rappresentare un iniziale riparo, privilegiando quindi montagne e vallate delle Alpi e della dorsale appen­ ninica. Mescolati a loro troviamo anche migliaia di prigionieri anglo-americani, fino a quel momento detenuti in campi di prigionia sorvegliati dal regio esercito, e poi slavi, russi catturati dalle armate

chiedono pane. D’altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l’ora anche per questo.

no, immediatamente dopo l’armistizio dell’8 settembre. Furono soprattutto alcuni ex ufficiali del regio esercito che decisero, mentre la classe dirigente si sottraeva alle sue responsabilità, di resistere alle violenze tedesche, formando le prime bande in montagna. Accanto a questo primo nucleo, un ruolo fondamentale nell’indirizzare il movimento resistenziale verso la scelta della guerriglia partigiana lo giocarono i quadri politici dell’antifascismo storico, soprattutto i comunisti, spesso provenienti dall’esperienza della guerra civile spagnola.

tedesche sul fronte orientale nell’espan­ sione verso est. In particolare in Piemonte, nelle valla­ te sopra Cuneo, la presenza di militari è più consistente in conseguenza della dissoluzione della IV armata in rientro dalla Francia1, ma anche in Lombardia, in Veneto, in Friuli e sulla dorsale appen­ ninica si determinano notevoli concen­ trazioni di soldati sbandati. Quanti sono, in tutto? Nessun autore ha avanzato cifre certe, qualcuno, per esempio Luigi Lon­ go2, parlerà di 100.000. La concentrazio­ ne maggiore si trova in Piemonte e nel Friuli Venezia Giulia, il fenomeno è però molto diffuso. Dai primi rastrellamenti, dagli scontri spesso disastrosi la grande maggioranza dei soldati sbandati si ritrae, le grandi concentrazioni rapidamente si sciolgono, non senza aver lasciato sul ter­ reno molti morti, e coinvolgendo in san­ guinose rappresaglie numerosi civili. Uno

dei primi casi (19 settembre), e anche tra i più noti, è quello di Boves, sopra Cuneo, dove si comincia a fare esperienza della prassi, adottata dall’esercito tedesco, di passare per le armi i civili prossimi al tea­ tro di scontri con forze irregolari, che sbri­ gativamente vengono equiparati ai parti­ giani. A Boves 23 civili, tra i quali vecchi, invalidi e bambini vengono passati per le

1. Dopo l’8 settembre, la IV Armata rientrò precipitosamente in Italia, per sfuggire ai tedeschi diventati nemici, dalle zone un tempo occupate dall’esercito italiano nel Sud della Francia. 2. Luigi Longo (1900-1980), dirigente comunista, combatté nelle “Brigate internazionali” durante la guerra civile spagnola e fu poi organizzatore e comandante delle Brigate Garibaldi nella Resistenza italiana. Dal 1964 al 1972 fu segretario del Pci.

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armi, mentre il paese è dato alle fiamme. In numerosi casi il flusso verso le mon­ tagne dopo l’8 settembre coinvolge an­ che sparuti gruppi di operai politicizzati, intellettuali che nelle giornate più mo­ vimentate successive al 25 luglio si sono compromessi, giovani entusiasti, studenti infiammati dal desiderio di avventura. Al Bosco Martese, sui monti della Laga so­ pra Teramo, i civili, tra cui molti giovanis­ simi, sono addirittura maggioranza, circa mille, o forse 1200. Con loro si trovano an­ che consistenti nuclei di carabinieri, tra cui anche due capitani (Bianco e Canger) attivi anche in seguito. Gli scontri con i tedeschi del 25/26 settembre porteranno alla dissoluzione del gruppo. Anche qui, come a Boves, come a San Martino, sopra Varese (novembre 1943) e in numerose altre località, sarà il primo scontro duro a segnare la netta separazione tra le gran­ di aggregazioni più o meno confuse e la successiva formazione di bande, esigue ma ormai selezionate. All’esito catastro­ fico dei primi scontri contribuiscono, in modo variabile, molti fattori; proviamo a isolarne almeno due. Da una parte si tratta di aggregazioni in qualche modo casuali, originate spesso dal preponderante desiderio di fare grup­ po, di unirsi, nella maggior parte dei casi per difendersi dalla paura, dallo spaesa­ mento, dall’incertezza che blocca chi, da mesi, o più sovente da anni, è abituato a obbedire, a eseguire. Fare gruppo, riag­ gregandosi per corpo di provenienza, per origine geografica, per pura casualità [...]. La motivazione più diffusa è il tentativo di sfuggire alla caccia che i tedeschi con­ ducono metodicamente, e l’obiettivo più immediato è tornare sani e salvi a casa. L’aggregazione avviene seguendo le mille casualità degli incontri, delle notizie sus­ surrate lungo le strade e i sentieri percorsi nel tentativo di allontanarsi dalle grandi vie di comunicazione, dalle strade ferra­ te, dalle città, che si sono in pochi giorni trasformate in trappole mortali. Non vi è dunque filtro e selezione, e i pochi ufficiali e soldati decisi e motivati a una guerriglia di lungo periodo subiscono il soffocante abbraccio di una pletora di sbandati con­ fusi e demoralizzati, motivati soprattutto dall’ansia di «sottrarsi alla cattura senza alcuna volontà di organizzarsi e combat­ tere». Il secondo motivo di fatale debolezza è costituito dal fatto che molte centinaia di uomini, a volte migliaia, per la loro stes­

sa consistenza, per la rigidità che questa implica, sono un bersaglio troppo facile per un esercito regolare, sperimentato e deciso a una guerra senza quartiere come quello tedesco. Soprattutto quando la preparazione tecnica degli ufficiali che si trovano a capo di queste variegate forze porta alla scelta di schieramenti tradizio­ nali e di schemi difensivi rigidi. A nume­ rosi tragici episodi si può applicare il lapi­ dario giudizio che Giorgio Bocca3 dà della disfatta del gruppo di militari che vengo­ no spazzati via dal colle San Martino: «È la raccolta degli errori che un gruppo par­ tigiano deve evitare: l’attesismo armato, la guerra di posizione, la concentrazione in breve spazio». Dopo gli scontri di Porta San Paolo, di Cefalonia, ecc., il fenome­ no dei militari sbandati può essere con­ siderato la prima manifestazione della resistenza armata, nel senso che il reclu­ tamento delle prime bande avverrà all’in­ terno del caotico pullulare di queste pre­ carie aggregazioni. Solamente un’esigua minoranza trasformerà in scelta irrever­ sibile di impegno totale l’iniziale esodo verso le vallate e le montagne; ma anche la semplice fuga, la confusa decisione di chiamarsi fuori è resistenza. Non chiara, non sufficientemente motivata, ma che avrà i suoi costi. Quante sono le bande a due mesi dall’ar­ mistizio? In che condizioni di armamen­ to? Max Salvadori4 scrive nel 1955: «Nelle bande ancora raccogliticcie dell’autunno 1943 e nelle squadre clandestine ancora malamente organizzate, si erano trova­ ti forse un 100.000 uomini. Quelli della montagna scesero probabilmente a non più di 10.000 nel pieno del primo inver­ no». Molto più contenute, anche per que­ sta prima fase, le cifre fornite da Giorgio Bocca nel 1966, relative alla fine novem­ bre ’43: 1650 partigiani in Piemonte, 250 in Lombardia, 700 uomini in Veneto, la sola banda di «Lupo» (numero impreci­ sato) in Emilia, 200 uomini in Liguria, 250 in Toscana, 100 nel Lazio, 300 in Abruz­ zo. Secondo lo stesso autore, «a tre mesi dall’armistizio la forza partigiana passa da circa 1500 a 3800 uomini». [...] Prota­ gonisti fugaci e combattenti di lunga lena, soldati allo sbando e partigiani in fieri si trovano a nuotare nella stessa corrente. La durezza e, quasi sempre, gli esiti tragici dei primi scontri sono il primo vero filtro dal quale vengono selezionati i combat­ tenti destinati a durare, capaci di reggere alla distanza, alla tensione, alla paura, agli

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

infiniti disagi che comporta il vivere alla macchia. Ma restiamo al dato di fatto: dalle grandi aggregazioni costituite principalmente da sbandati e da ex prigionieri evasi emergo­ no, entro la fine del ’43, dei gruppi decisi a combattere. I collegamenti fra questi gruppi sono difficoltosi e precari, quan­ do non del tutto inesistenti. Il coagularsi delle bande è affidato ai pochi le cui mo­ tivazioni alla lotta sono molto più salde e radicate di quelle confusamente rintrac­ ciabili nelle improvvisate aggregazioni rea­lizzatesi dopo l’8 settembre. Alle prime bande combattenti si giunge attraverso l’«emergere dalle masse popolari anco­ ra in preda al caos di alcuni elementi, di poche decine o centinaia d’antifascisti, di militari, di giovani, già decisi fin dal primo momento a impugnare le armi, a iniziare subito e non domani la guerriglia». Per comodità, e con qualche arbitrio sempli­ ficatorio, possiamo classificare le compo­ nenti fondamentali di questa minoranza in due gruppi. Il primo è costituito da ex militari, soprattutto sottufficiali e ufficiali dell’esercito; il secondo, più composito, da esponenti dell’antifascismo storico, quadri di partito (con una netta prevalen­ za del Partito comunista), ma anche in­ tellettuali che portano alle ultime conse­ guenze inquietudini e perplessità etiche rese drammatiche dall’esito della guerra fascista. 3. Giorgio Bocca (1920-2011), giornalista e scrittore, combatté come partigiano nelle formazioni di «Giustizia e Libertà»: è autore di numerosi libri e saggi, fra i quali Storia dell’Italia partigiana (1966). 4. Max Salvadori (1908-1992), militante di «Giustizia e Libertà», emigrato in Inghilterra, fu poi ufficiale di collegamento dell’esercito britannico col movimento partigiano. È autore di una Storia della resistenza italiana (1953).

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea gli eventi che spinsero molti italiani a diventare partigiani.  b  Cerchia i fattori che contribuirono all’esito catastrofico dei primi scontri e sottolinea quelli descritti da Giorgio Bocca.  c  Spiega per iscritto chi componeva le bande partigiane e indica se c’era una diversificazione col passare del tempo e perché.

95d BEPPE FENOGLIO UN EPISODIO DELLA GUERRA PARTIGIANA



B. Fenoglio, Una questione privata. I ventitrè giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1990, pp. 82-87.

Tra i libri più importanti sulla Resistenza ci sono le opere dello scrittore Beppe Fenoglio (1922-1963), piemontese delle Langhe, partigiano nelle formazioni «autonome» militari, ufficialmente apolitiche ma in realtà di orientamento monarchico e liberal-moderato. Il brano seguente è tratto da Una questione privata, romanzo breve che ha al centro della sua trama una storia d’amore ambientata nel corso della guerra partigiana. Fenoglio racconta la Resistenza non operando Quella era stata la prima volta che azzur­ ri e rossi avevano combattuto insieme. Il presidio di Verduno era badogliano e il versante successivo era occupato da una brigata rossa al comando di Victor il fran­ cese. Un battaglione del reggimento di Alba era già apparso in fondo alla valle. C’era fanteria e cavalleria, ma la cavalleria sbucò fuori all’ultimo momento. La fante­ ria avanzava senza criterio, senza punte di sicurezza, senza protezione laterale, sen­ za niente. Victor, che era già arrivato sulla piazza, l’aveva tenuta a lungo sotto il bino­ colo e poi disse: «Non spariamole in fase di avvicinamento, diamo a vedere che il paese è indifeso e pacifico e li riceveremo nelle strade e sulla piazza, à bout portant1, a bruciapelo. Non se ne accorgeranno che quando saranno in trappola. Quelli sono deficienti o ubriachi, non vedete?». Si riti­ rarono a discuterne nell’osteria, c’era una schifosa puzza di polmone di vacca bol­ lito. Edo, il comandante badogliano, era contrario al piano di Victor perché poi il paese avrebbe subito tremende rappre­ saglie. Era molto meglio, disse, combat­ tere regolarmente fuori paese, in campo aperto, e qualunque fosse stato l’esito, il paese avrebbe dovuto, ragionevolmente, andare esente da conseguenze. «Questo è tipicamente, spaventosamente azzurro,» bisbigliò a Milton Hombre che allora era semplice comandante di distaccamento. Milton e qualche altro azzurro appoggia­ rono il piano di Victor, ma Edo mantene­ va la sua linea regolare. Aveva una testa da ufficiale effettivo e soprattutto era con­ vinto che, certa la vittoria finale, i parti­ giani avrebbero invariabilmente perduto tutte le piccole o grandi battaglie interme­ die. Allora, mezzo in francese e mezzo in italiano, Victor disse: «Verdun è presidio vostro, ma io ci son dentro e non me ne ritiro. Voi difendetelo pure dall’esterno, io lo difenderò da dentro. E Verdun ne andrà

nessuna mitizzazione delle vicende e dei protagonisti, anzi cogliendo le divisioni tra coloro che la combattevano e le motivazioni, a volte contraddittorie, che spingevano ognuno a imbracciare le armi. In queste pagine, viene descritto un agguato a reparti fascisti da parte di partigiani delle formazioni autonome («gli azzurri») e combattenti delle brigate comuniste («i rossi»). Evidente è il differente modo di vedere e di pensare la guerra di chi vi militava e già dai nomi di battaglia dei personaggi si evincono quali siano gli orientamenti politici: l’«autonomo» si è scelto un nome inglese, Milton, mentre il comunista uno spagnolo, Hombre, in omaggio alla guerra civile spagnola.

di mezzo ugualmente, perché con le sole mie forze io non potrò tenerli lontani». Al che anche Edo si convinse e cedette. Si era rimasti d’accordo di riceverli dentro il paese e non dare nel frattempo il più piccolo segno di vita. Milton si era ap­ postato dietro il parapetto della piazza e accanto a lui venne ad accosciarsi proprio Hombre. Insieme guardavano i fascisti arrancare. Una parte saliva per la strada, l’altra tagliava per campi e prati. Questi penavano di più, sdrucciolavano spesso, la terra si era snevata da una settimana appena, e non ci fossero stati gli ufficiali sarebbero tutti passati per la strada, come un gregge. Ormai erano così vicini e l’aria tanto limpida che Milton col suo occhio superiore li vedeva bene in faccia, chi aveva barba e baffi e chi no, chi portava una automatica e chi il moschetto. Poi si voltò a vedere la disposizione nell’interno del paese e vide accanto alla pesa pub­ blica Victor e il grosso dei suoi appostati col Saint-Étienne2. Guardò dall’altra parte e vide i suoi azzurri con la mitragliatrice americana. Restarono dietro il parapetto qualche attimo ancora, poi si ritirarono carponi e Milton andò a riunirsi ai suoi sotto il portico del Comune. Hombre lui non andò in gruppo, si isolò invece il più possibile, si defilò dietro l’angolo della privativa3. Il primo che si presentò – un sergente grande e grosso, con una barba a spazzola – spuntò proprio di fronte alla privativa. Hombre si sporse appena e lo rafficò dall’angolo. Non al corpo, alla te­ sta mirò, e si vide volar via mezzo cranio e l’elmetto di quel sergente. La raffica di Hombre diede il segno del fuoco genera­ le. I fascisti non spararono che qualche colpo, erano troppo sbalorditi, non si ri­ presero più. La strage più grande la fece il Saint-Étienne di Victor. Dopo, sulla strada davanti alla pesa, ne contarono diciotto stesi, ognuno impiombato per due. Prima

della pesa la strada è selciata e fa discesa, lì il sangue ruscellava come vino e pezzi di cervello vi galleggiavano sopra. Milton ricordava che Giorgio Clerici vomitò e svenne e dovettero curarlo come se fosse ferito grave. Non si sentivano più spari, ma solamente urla. Urlavano i fascisti ancora vivi e urla­ va la gente nelle case. I soldati pur di sal­ varsi dalle strade erano entrati nelle case sforzando il barricamento e si erano na­ scosti sotto i letti e nelle madie4, persino sotto le sottane delle vecchie, nelle stalle sotto il foraggio e tra le bestie. Si sentiva Victor in una viuzza laterale correre come un cavallo e urlare: «En avant! En avant, bataillon!»5. A un certo momento Milton si era trovato solo, senza saper come, ma improvvisa­ mente e del tutto solo, a parte i cadaveri dei soldati. In quel mezzo silenzio e in quel deserto completo tremò. Poi udì un passo studiato, dalla sua parte, si appostò dietro una pila e spianò l’arma. Ma era Hombre. Si andarono incontro da amici, da fratelli. Intanto si risentivano urla e spari, ma era il loro festeggiamento della vittoria. Erano vicini alla chiesa e gli parve di cogliere un trepestìo6, gente che scappa a nascondersi in punta di piedi. Milton col mento accennò di sì a Hombre che con gli occhi gli domandava se avesse sentito pure lui. «In chiesa,» bisbigliò Hombre ed entrarono con ogni precauzione. C’era

1. Distanza ravvicinata. 2. Fucile mitragliatore francese. 3. Spaccio di generi di monopolio dello Stato (tabacco, sale, ecc.). 4. Mobili da cucina, in cui si conservano il pane e altri cibi. 5. «Avanti! Avanti, battaglione!», in francese. 6. Rumore di passi.

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FARESTORIA LA GUERRA ITALIANA

ombra e fresco. Cominciarono col frugare nel battistero, quindi nel primo confes­ sionale. Non si sentiva un alito. Hombre sbirciò su alla cantoria7 ma poi scacciò l’idea e si diede a perquisire i banchi uno dopo l’altro. Così, a spina di pesce, si avvi­ cinavano all’altare maggiore. Si avvicina­ vano e da dietro l’altare sbuca un solda­ to con le mani alzate e dice: «Siamo qui dietro,» con una voce da fanciulla. Aveva tanta paura che consegnarsi era un sollie­ vo. Hombre gli fece l’ombra di un sorriso e: «Venite fuori, quanti siete,» disse piano, dolce, col tono di un anziano che perdona una ragazzata nel punto in cui la scopre. E quelli, quattro, uscirono a mani alte da dietro l’altare e vedendo Hombre e Milton fare a quel modo, calmi, superiori, senza calci né pugni né insulti, respirarono. Uscirono dalla Chiesa. [...] D’un tratto Milton notò un movimento nella coda del grosso che li precedeva di un trecen­ to metri. Un movimento che lo rimescolò tutto, di allarme improvviso e di scatto di­ sperato, e subito dopo gli martellò le orec­ chie il galoppo di molti cavalli. Il grosso si era scompigliato ma Victor lo rinserrò in un baleno e fece la mossa più giusta. Co­ mandò a tutti di volare al crinale e tuffarsi

nel vallone, una specie di scivolo per gli uomini ma per i cavalli poco meno di un burrone. Arrivarono al ciglione, si tuffa­ rono e rotolarono giù e potevano dirsi in salvo, ma Milton e Hombre erano esposti alla carica. Erano molto indietro, a due­ cento passi dal crinale. Ce l’avrebbero fatta solamente a volare, ma se loro vola­ vano non volavano i quattro che avevano capito la situazione. «Correte!» ordinò Hombre, «correte da maledetti!» ma quel­ li correvano come donne. Milton scoccò un’occhiata al basso e vide i primi cavalli rampare sul pendio, fumando dai fianchi come stufe. I prigionieri si erano legger­ mente disuniti, il più a valle era a forse cento metri dai primi cavalli e abbozzava segnali ai cavalleggeri. Questi non spara­ vano ancora, per la distanza e perché nel tormento del galoppo rischiavano di col­ pire i loro camerati. Potevano distinguerli dal grigio-verde, mentre Hombre e Milton vestivano a più colori. «Che facciamo?» gridò Hombre a Milton. «Fa’ tu!» ma avevano entrambi i capelli ritti in testa come aghi. I cavalli erano a ottanta passi, galoppavano in diagonale. Allora Hombre urlò ai quattro di serrare e riunirsi, con tanta autorità che quelli

96 C. PAVONE LA GUERRA CIVILE: UNA DEFINIZIONE CONTROVERSA

C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 221-25.

Secondo lo storico Claudio Pavone (1920-2016), in Italia fra il 1943 e il 1945 si intrecciarono tre diversi conflitti: una «guerra di liberazione nazionale» combattuta dalla Resistenza contro gli occupanti nazisti nel quadro del conflitto generale fra gli alleati e la Germania; una «guerra civile» fra i partigiani antifascisti e gli aderenti alla Repubblica sociale alleata della Germania; una «guerra di classe» che, per alcune componenti del fronte resistenziale, avreb-

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L’interpretazione della lotta fra la Resisten­ za e la Repubblica sociale italiana come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimis­ simi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l’espressione ha finito con l’essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l’han­ no provocatoriamente agitata contro i vin­ citori. La diffidenza degli antifascisti ne è risultata accresciuta, alimentata dal timore che parlare di guerra civile conduca a con­ fondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di

7. La parte della chiesa in cui siedono i membri del coro. 8. Gli uomini a cavallo. METODO DI STUDIO

 a  Cerchia i nomi dei protagonisti usando il colore della relativa formazione. Sottolinea le decisioni intraprese utilizzando gli stessi colori.  b  Individua e descrivi le differenze di scelta tattiche effettuate dagli uni e dagli altri. Spiega quindi per iscritto chi erano i “rossi” e chi gli “azzurri”.

be dovuto abbattere, assieme al fascismo, anche il sistema capitalistico. In un importante studio pubblicato nel 1991, Pavone ha descritto questo intreccio attraverso una minuta analisi delle memorie e delle testimonianze di chi partecipò a questi eventi, ricostruendo le diverse motivazioni, etiche e politiche, che guidarono le scelte degli italiani in quelle drammatiche circostanze. Nel brano qui riportato, l’autore spiega perché la categoria di «guerra civile» è stata a lungo rifiutata dalla storiografia ispirata ai valori dell’antifascismo (valori cui lui stesso peraltro si richiama) e come questa rimozione abbia ostacolato la piena comprensione degli eventi di quegli anni.

assoluzione. In realtà mai come nella guer­ ra civile, che Concetto Marchesi1 chiamò «la più feroce e sincera di tutte le guerre», le differenze fra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili e gli odi tanto profondi. «Siamo quelli che hanno odiato di più», ha detto di recente un vecchio resistente. Affermare che la Resistenza è anche guer­ ra civile non significa andare alla ricerca di protagonisti che l’abbiano vissuta esclu­ sivamente sotto quel profilo. Al contrario, significa sforzarsi di comprendere come i tre aspetti della lotta – patriottica, civile, di

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

gli obbedirono istantaneamente e come li ebbe in un mazzo Hombre gli fece den­ tro tutto il caricatore. Andarono giù in un fascio, poi ognuno per suo conto ed abbrivo rotolava morto giù incontro alla cavalleria, e si sentì il tremendo urlo dei montati8. Fu quel tremendo urlo a far ri­ scuotere Milton e farlo partire a razzo, perché la cosa di Hombre l’aveva conge­ lato. I cavalleggeri sparavano, ma era un caso li colpissero, sebbene stessero a cin­ quanta passi. Insieme arrivarono al crina­ le e insieme si tuffarono a corpo perduto. Arrivarono in fondo e di tra le felci riguar­ darono su al ciglione e i cavalli non vi si erano ancora affacciati.

classe –, analiticamente distinguibili, ab­ biano spesso convissuto negli stessi sog­ getti individuali o collettivi. [...] Nel volume delle Opere di Togliatti relativo agli anni 1944-55 le parole «guerra civile» non compaiono mai, tanto era forte nel leader comunista la volontà di accreditare il proprio partito come partito naziona­

1. Concetto Marchesi (1878-1957), storico della letteratura latina e militante del Pci, deputato alla Costituente nel 1946.

le. Questa esigenza collimava con la pro­ pensione largamente diffusa a occultare il dato elementare che «anche i fascisti, nonostante tutto, erano italiani». «Italia­ ni» non rinvia soltanto a un dato etnico. Entrambe le parti intendevano reintegrare il «paradigma dello Stato moderno come sovrana unità politica», poiché entrambe si sentivano rappresentanti dell’Italia in­ tera. Il primo modo di esorcizzare quanto di regressivo e di pauroso c’è nella rottura dell’unità dello Stato nazionale sta nel ne­ gare la comune nazionalità in chi quella rottura compie. I fascisti avevano sempre chiamato «antinazionali» i loro avversari; e questi li hanno ricambiati espellendoli in idea – almeno quelli della Rsi2 – dalla sto­ ria d’Italia, se non addirittura dall’umani­ tà. [...] E non è un caso che Giorgio Bocca, uno dei pochi scrittori non fascisti che ab­ bia senza reticenza parlato di guerra civile, sia stato recensito sotto il titolo Anche Salò è storia nostra. Asserzioni come quella di Gorrieri3, «guerra civile non ci fu», sono in effetti il meccanico corollario di altre quali «il fascismo repubblicano non trovò nes­ suna rispondenza nella coscienza popo­ lare». La verità di fondo di questa afferma­ zione non elimina il problema dei fascisti che, sia pur poco numerosi e poco ascolta­ ti, si affiancarono ai tedeschi. La qualifica di servi dello straniero data ai fascisti non è sufficiente a cancellare in loro quella di italiani, né autorizza a eludere la riflessio­ ne sui nessi, non nuovi ma in questo caso strettissimi, fra guerra esterna e guerra interna. Nemmeno si può sorvolare sugli italiani, notevolmente più numerosi dei fascisti militanti, che di fatto accettarono il governo della Rsi, prestandogli in varie forme obbedienza, anche se con riserve mentali più o meno ampie. Alla sostanziale continuità dello Stato tra fascismo e Repubblica e, in particolare, agli esiti fallimentari dell’epurazione, è conso­ na una visione della Resistenza levigata e rassicurante, che espunga ogni traccia di guerra civile. L’unità antifascista incarnata­ si nel sistema dei Cln4, e che è tuttora fonte di legittimazione della Repubblica italiana e di quello che è stato chiamato il suo «arco costituzionale»5, viene così reinterpretata come mera unità antitedesca, quasi che la Repubblica si fondi sull’opposizione alla Germania e non invece al fascismo. [...] Il nesso fra guerra civile e rivoluzione va a sua volta scritto fra i motivi che hanno spinto a escludere che fra il 1943 e il 1945 sia stata combattuta in Italia una guerra ci­

vile. Questo innegabile nesso può peraltro essere visto in due modi. Da una parte la rivoluzione può venire connotata in senso positivo ed escatologico6, così che la guer­ ra civile appaia al confronto, nel giudizio avalutativo7 che si crede di poterne dare, sinonimo soltanto di disordine e di orro­ re. Da un’altra parte la guerra civile appare invece come lo sbocco quasi immancabile della rivoluzione, così da trascinarsi dietro le connotazioni, positive o negative, che della rivoluzione vengono date. E poiché la Resistenza italiana non è stata da nes­ suno rivendicata come rivoluzione, il suo nesso con la guerra civile è rimasto nella memoria soltanto come uno scampato pericolo. I comunisti si sono sempre fatti vanto di aver saputo risparmiare al nostro paese la «prospettiva greca»8, evitando che il moto resistenziale sboccasse in una devastante guerra civile post-liberazione. Il Partito d’azione invocava la rivoluzione democratica, ma dava a quella formula un significato fortemente innovativo rispetto all’uso corrente della parola rivoluzione e ai fantasmi che essa evoca (non è un caso, come già si è fatto notare, che la tradizione azionista sia sempre stata la meno restia a parlare di guerra civile). In effetti solo una rivoluzione vittoriosa ha la forza di iscri­ vere senza timore le sofferenze provocate dalla guerra civile nella propria storia. [...] Il prevalere della formula guerra, o movi­ mento, di liberazione nazionale rispetto a quella di guerra civile occulta dunque la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani. A un occultamento analogo ricorrono gli spagnoli quando definiscono di indipendenza la guerra contro i france­ si, dimenticando che esistevano anche gli afrancisados9. L’occultamento rende la formula guerra di liberazione nazionale tanto tranquillizzan­ te che l’uso di essa ha resistito al grande rafforzamento semantico verificatosi nel dopoguerra, quando la formula è venuta a designare i movimenti anticolonialisti e antimperialisti del Terzo mondo, nei qua­ li tutti erano incluse aspre componenti di guerra civile. L’individuazione del nemico principale – il tedesco o il fascista – è un problema che attraversa tutta la Resisten­ za. Un acuto indagatore americano di cose italiane ha scritto: «Within a very short time [...] the average citizen of Northern Italy came to hate the Neo-fascists even more than the Nazis»10. Questo supplemento d’odio è un fenome­ no che va indagato, anche per il riscontro

speculare che se ne trova tra i fascisti, a loro volta impegnati ad attribuire agli antifasci­ sti, e in particolare ai comunisti, tutta la re­ sponsabilità dell’inizio e dell’inasprimento della guerra civile. Le reciproche denunce di aver dato avvio alla lotta fratricida furo­ no e restano numerose. Esse non debbono tuttavia spingere a dimenticare coloro che sentirono sì la guerra civile come una tra­ gedia generatrice di stragi e lutti, ma anche come un evento da assumere con orgoglio, in nome della scelta compiuta e della con­ sapevole accettazione di tutte le conse­ guenze che essa comportava. Da questo punto di vista la corrente deprecazione può rovesciarsi: fu proprio infatti nella tensione insita nel carattere «civile» che trovarono modo di riscattarsi gli elementi negativi tipici della guerra in quanto tale. 2. Sigla di Repubblica sociale italiana. 3. Ermanno Gorrieri (1920-2004), partigiano e uomo politico cattolico. 4. Sigla di Comitato di liberazione nazionale. 5. Con questa espressione vengono designate le forze politiche che parteciparono all’elaborazione della Costituzione repubblicana. 6. Che concerne i destini ultimi dell’uomo. 7. Neutro, senza valutazioni politiche di parte. 8. Dopo la liberazione della Grecia dai nazifascisti, i partigiani comunisti e quelli monarchici si affrontarono per tre anni in una sanguinosa guerra civile da cui i comunisti uscirono sconfitti. 9. Gli spagnoli «infrancesati», cioè filofrancesi al tempo delle guerre napoleoniche. 10. «In brevissimo tempo [...] il cittadino medio dell’Italia del Nord giunse a odiare i neofascisti più dei nazisti». La citazione è tratta da un libro dello storico statunitense Henry Stuart Hughes (1916-1999).

METODO DI STUDIO

 a Cerchia gli aspetti della lotta partigiana.  b  Sottolinea con colori diversi gli intenti di chi accettava l’espressione “guerra civile” per indicare la lotta fra la Resistenza e la Repubblica sociale italiana e chi no. Quindi sintetizza per iscritto le due posizioni.  c  Spiega cosa è l’arco costituzionale e per quale motivo viene citato dall’autore.  d  Sottolinea quello che l’autore intendeva con la formula “guerra civile” e cosa questo comporta a livello politico.  e  Spiega il significato della frase conclusiva del brano.

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FARESTORIA LA GUERRA ITALIANA

97 R. PUPO • R. SPAZZALI LA VIOLENZA SUL CONFINE ORIENTALE: LE FOIBE



R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 2-6; 23-24; 26-27; 30.

Nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 alcune migliaia di italiani della Venezia Giulia furono uccisi nel quadro della guerra condotta dal movimento partigiano jugoslavo contro l’occupazione nazifascista, ma anche contro la presenza italiana in quelle terre. Molti furono gettati all’interno delle foibe, profonde crepe del territorio carsico, destinate a diventare il simbolo della tragedia del confine orientale. Il Foibe e infoibati

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Quando si parla di «foibe» ci si riferisce alle violenze di massa a danno di mili­ tari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree del­ la Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quin­ di va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale. Le foibe infatti sono gli inghiottitoi na­ turali tipici dei terreni carsici, che pre­ cipitano nel sottosuolo spesso per molte decine di metri, con pozzi verticali e ri­ petuti salti; anche il loro diametro può variare, da poche decine di centimetri ad alcuni metri. Considerata la natura rocciosa del terreno, che non favorisce lo scavo, tali cavità sono state usate da­ gli abitanti delle località carsiche per far sparire rapidamente ciò di cui essi intendevano disfarsi: poteva trattarsi di oggetti (ramaglie, sterpi, suppellettili fuori uso, carcasse di animali), ma anche di persone, vittime di tragedie private o delle violenze della storia. [...] L’uso che qui ci interessa comunque, è un altro, e cioè quello che delle foibe venne fatto nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 quando nelle voragi­ ni sparse nell’entroterra istriano, come pure alle spalle di Trieste e Gorizia, ven­ nero fatti sparire i corpi delle vittime di una serie di esecuzioni sommarie su lar­ ga scala, talvolta assieme a condannati ancora in vita. Al medesimo scopo si pre­ starono in quelle circostanze anche altre cavità, questa volta di natura artificiale, come le miniere di bauxite dell’Istria e il pozzo della miniera di Basovizza1. La stessa soluzione del resto venne, nel me­ desimo periodo, adottata anche altrove, in Slovenia e Croazia, dove l’ambiente è

brano seguente è tratto da un lavoro di Raoul Pupo (nato nel 1952) e Roberto Spazzali (nato nel 1956), fra gli studiosi che più hanno contribuito a una seria riflessione storica su quegli eventi: nel libro la vicenda delle foibe è ricostruita e spiegata tenendo conto del dibattito politico-storiografico sviluppatosi negli ultimi anni. Gli autori forniscono inoltre una stima del numero delle vittime di queste violenze, difficile da quantificare con precisione e al centro, ancora oggi, di dibattiti e polemiche tra chi minimizza la gravità della vicenda e chi invece la considera un “genocidio” perpetrato volontariamente ai danni di un’intera popolazione.

anch’esso ricco di voragini carsiche, per occultare le spoglie delle migliaia di anti­ comunisti slavi eliminati nell’immediato dopoguerra. In realtà, solo una parte degli eccidi ven­ ne perpetrata sull’orlo di una foiba o di un pozzo minerario, mentre la maggior parte delle vittime delle due ondate re­ pressive del 1943 e soprattutto del 1945, perì nelle carceri, durante le marce di trasferimento o nei campi di prigionia allestiti in varie località della Jugoslavia. Le foibe però sono immediatamente as­ surte a simbolo di tutti i tragici destini di quegli anni, e la ragione non è troppo difficile da intendere. La morte entro una voragine che sprofonda nelle viscere del­ la terra costituì infatti per le vittime – e, in quegli anni, si sentirono potenziali vittime tutti gli italiani della Venezia Giu­ lia – la più paurosa delle fini: una morte oscura, segno di una volontà di cancel­ lazione totale, resa ancor più aspra dalla negazione della pietà, visto che la scom­ parsa dei corpi prolungò per i congiunti l’incertezza angosciosa sulla sorte dei loro cari e rese impossibile, in molti casi fino ai giorni nostri, la celebrazione paci­ ficante della sepoltura. Così, nella memoria collettiva «infoibati» sono stati considerati tutti gli uccisi per mano dei partigiani comunisti sloveni e croati, dei comunisti italiani filojugo­ slavi e delle autorità jugoslave nelle due crisi dell’autunno del 1943 e della prima­ vera-estate del 1945. A essi, però, sono state frequentemente associate anche le vittime delle brutalità degli ultimi due anni di guerra in tutta l’area alto-adria­ tica, compresa la Dalmazia: non a caso, un sacerdote croato nel descrivere la si­ tuazione di un borgo rurale istriano nel 1944 commentava: «Viviamo sull’orlo della foiba». Infine, a tali vittime vengo­ no spesso aggiunte quelle delle violenze che la popolazione italiana fu costretta

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

a subire nel lungo dopoguerra istriano (1945-1956) culminato nell’esodo di non meno di duecentocinquantamila perso­ ne dalla loro terra di origine. Un uso simbolico di questo genere, pe­ raltro, per quanto ormai diffuso, può divenire fonte di equivoci qualora si af­ fronti il nodo della quantificazione del­ le vittime. Da un lato, infatti, sommare in maniera indifferenziata tutti i morti, compresi quelli della lotta partigiana e delle repressioni del dopoguerra in Istria, impedisce di cogliere la specificità e il si­ gnificato storico delle due ondate di vio­ lenza del 1943 e del 1945. D’altro canto, la differenza tra il numero dei corpi ma­ terialmente gettati nelle foibe e in parte recuperati, che è relativamente ridotto, e quello complessivo degli uccisi, che è invece assai più alto, è così ampia da modificare la stessa interpretazione del fenomeno, almeno per quanto riguarda il 1945. Più appropriato quindi sarebbe parlare di «deportati» e «uccisi» per indi­ care tutte le vittime della repressione, a prescindere dal luogo e dal modo in cui trovarono la morte. Dove e quando? Le stragi che vanno correntemente sotto il nome di «foibe giuliane» hanno, dun­ que, una precisa collocazione nel tempo e nello spazio. I periodi in cui il fenome­ no si verificò sono due: l’autunno del 1943, subito dopo l’armistizio dell’8 set­ tembre, per la durata di circa un mese, e la primavera del 1945, ancora una volta per poco più di un mese, dopo il collasso tedesco e l’occupazione di tutta la Vene­ zia Giulia da parte delle truppe jugosla­ ve. Nel primo periodo a essere interes­ sata dal fenomeno fu soprattutto l’Istria;

1. Località poco fuori Trieste.

nel secondo periodo, invece, anche se in Istria vi fu una ripresa su scala minore delle violenze, venne investita anche la città di Fiume, mentre l’epicentro della crisi si spostò verso le province di Trieste e Gorizia, dove si registrò il maggior nu­ mero di vittime. In entrambi i casi quindi, si trattò del crollo di una struttura di potere e d’op­ pressione: quella dello stato fascista nel 1943, quella nazifascista della «Zona di operazioni litorale adriatico» nel 19452. In entrambi i casi vi fu un breve periodo in cui si assistette al tentativo di sostitui­ re all’ordine appena abbattuto un nuovo ordine, alternativo rispetto al precedente in termini sia politici che nazionali: in al­ tre parole, si assistette, seppure in termi­ ni diversi, alla presa del potere da parte del Movimento di liberazione jugoslavo croato in Istria e sloveno nel resto della regione. Un inquadramento del genere offre già le coordinate di fondo per una colloca­ zione unitaria del fenomeno «foibe» in uno spazio storico ben definito: quello del cruento passaggio di potere fra re­ gimi contrapposti, e fra movimenti po­ litici che si erano ferocemente combat­ tuti per lunghi anni in uno scontro che aveva coinvolto senza risparmio l’intera società giuliana, esaltandone divisioni e contrapposizioni. Si tratta di un passag­ gio in cui, come spesso accade in questi casi, la cessazione formale delle ostilità fra gli eserciti fu ben lungi dal sedare le conflittualità profonde, e anzi, segnò il momento in cui la violenza sembrò tal­ volta sfuggire anche al controllo di chi era deputato a guidare l’uso istituziona­ lizzato, e si frammentò negli abusi perso­ nali, si alimentò di brutali semplificazio­ ni – come l’equivalenza italiano-fascista, già proposta dal «fascismo di frontiera» – concesse spazio all’inserimento della criminalità comune, e talvolta sembrò colpire con una tragica e quasi incredibi­ le casualità. [...] Quante vittime? Quanti sono gli infoibati? Quanti i de­ portati, gli uccisi in prigionia? Quanti complessivamente gli scomparsi per mano jugoslava nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 nella Venezia Giulia? A queste domande sono state date nel corso degli anni molte risposte, ma spesso insoddisfacenti. Eppure, per decenni, il dibattito sulle cifre ha susci­

tato più interesse di quello sulle cause, le responsabilità e le dinamiche delle stragi, anche perché in genere alle cifre è stato attribuito il grave compito di spie­ gare il senso della persecuzione inflitta da parte jugoslava alla fine della secon­ da guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra alla popolazione italiana della Venezia Giulia, fino a provocarne l’esodo dall’Istria, da Fiume e dalla Dal­ mazia. Diversi studiosi hanno proposto unità di grandezza degli eccidi molto diverse tra di loro: da poche centinaia a migliaia, a decine di migliaia di vitti­ me. Spesso tutti gli scomparsi, anche per cause diverse e in momenti diver­ si, sono stati genericamente compresi nella categoria degli “infoibati”, che in senso stretto riguarda soltanto coloro che sono stati trucidati subito dopo l’ar­ resto, spesso senza nemmeno un proce­ dimento sommario, e scaraventati nei profondi pozzi naturali che si aprono nel suolo carsico della Venezia Giulia. [...] È possibile calcolare separatamente il numero delle salme recuperate, quel­ lo delle persone arrestate e rilasciate e infine quello degli scomparsi in seguito alla deportazione, con l’avvertenza però che occorre distinguere i luoghi e i tempi nei quali si sono svolti i fatti. Per quanto riguarda gli eccidi perpetrati in Istria nel settembre-ottobre del 1943, sappiamo che nel corso di 31 esplorazioni ufficia­ li in cavità naturali e artificiali, vennero recuperate 217 salme (116 civili e 18 mi­ litari accertati) ma il numero degli scom­ parsi fu certo superiore e alcune fonti lo indicano in circa 500 persone (pari allo 0,06% della popolazione della provin­ cia). [...] Notizie ancora più frammenta­ rie riguardano, per il medesimo periodo, la provincia di Gorizia e i comuni carsici della provincia di Trieste. Segnalazioni, testimonianze e informative successive riportano casi di vendette e di giustizia sommaria, che però non sono precisabili per quanto riguarda il numero delle vit­ time. Dalla lontana Zara furono segnala­ ti almeno 200 casi di persone arrestate e deportate da forze jugoslave all’indoma­ ni dell’occupazione, nell’ottobre 1944, e dopo che gran parte della popolazio­ ne aveva già abbandonato la città gra­ vemente bombardata. Infine, secondo alcune valutazioni, da Fiume nel perio­ do maggio-agosto 1945 risulterebbero scomparse circa 500 persone, delle quali

accertati 242 civili, pari allo 0,9 % della popolazione [...]. Nell’aprile 1947 l’ufficio addetto alle Di­ splaced Persons3 comunicò al quartier generale del Governo militare alleato le cifre degli scomparsi registrati per la sola zona A: 1492 a Trieste (724 civili, 768 militari); 1100 a Gorizia (759 civili, 341 militari); 827 a Pola (637 civili, 190 militari), pari all’1,4% della popolazione; complessivamente, quindi, a quella data erano 3419 i nominativi fondati sulle ri­ chieste d’informazioni inoltrate dai fa­ miliari e riguardanti soltanto le località rimaste sotto il controllo anglo-america­ no. Infine, in un elenco pubblicato agli inizi degli anni sessanta dall’ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli, che aveva tratto le sue informazioni dallo schedario delle pratiche dell’Ufficio comunale pensioni di guerra, sono riportati 4122 nomina­ tivi, estesi parzialmente anche all’Istria e alla Dalmazia e comprendenti anche persone scomparse per cause belliche. 2. Le autorità di occupazione tedesche crearono nell’Italia settentrionale due zone di operazione militare, sotto il loro diretto controllo: la Zona del litorale adriatico, corrispondente alle province di Lubiana, Gorizia, Pola, Udine, Fiume e Trieste; la zona Prealpi, che comprendeva le province di Trento, Belluno e Bolzano. 3. Ufficio del governo militare alleato incaricato di ricercare le persone disperse durante la guerra.

METODO DI STUDIO

 a  Cosa sono le foibe? Evidenzia nel testo le possibili risposte.  b Spiega per iscritto chi sono gli “infoibati” nella memoria collettiva e spiega se questo corrisponde alla realtà accertata dagli storici. Quindi rifletti sulle conseguenze di questa visione simbolica e sottolinea la proposta avanzata dagli autori.  c  Evidenzia la domanda centrale del brano e sottolinea le risposte con colori diversi. Quindi indica i punti in comune e le differenze fra gli eventi considerati.

505

FARESTORIA LA GUERRA ITALIANA

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di massimo 20 righe dal titolo I fronti delle guerre italiane del secondo conflitto mondiale. Il rapporto con la popolazione locale facendo riferimento ai brani di Rodogno [►88], di Rochat [►89] e alla testimonianza di Stern [►90d]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.

506

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 A partire dal brano di Pavone [►96] sintetizza il concetto di guerra civile applicato allo scontro tra i partigiani e gli aderenti alla Repubblica

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

sociale italiana. Individua, quindi, nel testo di Fenoglio [►95d] e nei brani di Aga Rossi [►91], Ganapini [►92] e Peli [►94] argomentazioni che possono supportare le diverse parti del discorso di Pavone e organizza un testo argomentativo di massimo 60 righe in cui esprimi la tua posizione in merito. 3 A partire dai brani di Aga Rossi [►91], Pavone [►96] e Peli [►94], scegli una fra le seguenti posizioni sull’evento chiave della storia italiana rappresentato dall’8 settembre: a. Il tracollo politico-militare dello Stato italiano fu una grave responsabilità del re e del governo. b. L’opposizione armata all’occupazione nazifascista della Rsi fu anche una “guerra civile italiana”.

COMPITO DI STORIA Scrivi un saggio breve facendo riferimento ai paragrafi del libro sul nazismo, ai documenti di Klemperer [►62d] e ai brani di Traverso [►59], Fritzsche [►61], Frei [►63], Bartov [►77], Mommsen [►82], Browning [►83]. Individua un titolo che renda esplicito il taglio che hai scelto per il tuo elaborato. Se lo ritieni opportuno, suddividi il tuo elaborato in paragrafi.

Argomento Il nazismo e la violenza: elemento occasionale o strutturale? Organizza il tuo elaborato prendendo spunto dalle operazioni e dalle domande proposte dalla seguente scaletta: a. Lettura e comprensione • Seleziona, fra quelli dati, i brani, i documenti e i paragrafi del manuale più utili al tuo ragionamento. • Individua all’interno del materiale selezionato le informazioni specifiche relative all’utilizzo della violenza da parte delle truppe, della polizia o dei corpi speciali nazisti. • Specifica, per ogni evento che avrai individuato, i destinatari degli atti di violenza descritti. • Trascrivi sul quaderno, per punti, i contenuti che intendi citare nel tuo elaborato indicandone l’autore. b. Individuazione e analisi dei passaggi significativi in relazione alle questioni chiave affrontate nell’elaborato • Cerca nei brani storiografici la risposta che gli storici hanno fornito (anche implicitamente) alla domanda contenuta nell’argomento che stai trattando. Quindi trascrivi i risultati della tua analisi citando i brani di riferimento. c. Contestualizzazione storica • L’utilizzo della violenza da parte di coloro che aderivano al nazismo è stato in qualche modo favorito dagli eventi storici precedenti e dalla situazione internazionale? d. Interpretazione e problematizzazione • La violenza portata avanti dai nazisti era rivolta esclusivamente verso l’esterno? Aveva finalità ideologiche o era strumentale al successo militare? Chi erano gli aguzzini nazisti: persone particolarmente sadiche o gente comune? Perché?

Fossa comune nel campo di Bergen-Belsen maggio 1945

507

U3 CRISI, TOTALITARISMI, CONFLITTO MONDIALE

ANNOTAZIONI

ANNOTAZIONI

ISLANDA

FINLANDIA

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NORVEGIA

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SVEZIA

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GRAN BRETAGNA PAESI BASSI

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Berlino

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BELGIO

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LUSSEMBURGO

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FRANCIA

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SVIZZERA

UNGHERIA ROMANIA JUGOSLAVIA

PORTOGALLO

SPAGNA

BULGARIA

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ALBANIA

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L’EUROPA DIVISA Paesi beneficiari del piano Marshall Paesi dell’Est membri del Patto di Varsavia Paese comunista in contrasto con l’Urss

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TURCHIA

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Accordo militare con gli Usa Cortina di ferro Membri della Nato

UNITÀ 4 IL MONDO DIVISO

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CHIAVI DI LETTURA

Guerra fredda e decolonizzazione Per quasi mezzo secolo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la storia dell’Europa e del mondo fu segnata dalla “guerra fredda”: ossia dal confronto, mai sfociato in scontro armato diretto, fra le due potenze che avevano combattuto insieme il nazifascismo: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il vecchio sistema delle potenze lasciò il posto alla competizione bipolare fra due blocchi compatti e reciprocamente ostili – l’Occidente capitalistico e l’Est comunista –, che incarnavano ideologie e interessi contrapposti. Il confronto bipolare fra i due blocchi si accompagnò e si intrecciò con la

crisi di questo sistema a fine ’900, è stata definita “Prima Repubblica”. Caratteristica principale di quel sistema era sicuramente il ruolo di grande rilievo svolto dai partiti, già protagonisti della fuoriuscita dalla dittatura e della lotta di liberazione. La lunga egemonia di un partito di centro (la Dc) e la mancanza di ricambio finirono, però, per irrigidire il sistema. francesi

L’“età dell’oro” del capitalismo industriale

sovietici britannici BERLINO

Dopo la fine della guerra, cominciò per le economie americani dell’Occidente una fase di crescita della produzione e dei consumi che è stata definita l’“età dell’oro” del capitalismo industriale e dell’economia di mercato. Un’età che vide anche la diffusione, soprattutto in Europa, delle politiche di sicurezza sociale e dei sistemi assistenziali che contribuirono a migliorare i livelli di vita dei lavoratori. Furono anche anni, però, in cui il livello della conflittualità sociale si mantenne alto, intrecciandosi con le divisioni ideologiche della guerra fredda e con l’incubo dello scontro nucleare. Com’era accaduto già per la belle époque a inizio ’900, negli anni del boom economico postbellico non furono in molti a rendersi conto di vivere in una “età dell’oro”.

Consumismo e contestazione giovanile “decolonizzazione”, la conquista dell’indipendenza da parte dei paesi afroasiatici soggetti al dominio coloniale: un’altra conseguenza della guerra e del tramonto delle grandi potenze europee.

La Repubblica dei partiti Lasciatasi alle spalle l’esperienza del fascismo, l’Italia scelse di diventare una Repubblica e, nel giro di pochi anni, si diede una nuova Costituzione democratica e un nuovo sistema politico destinato a durare per quasi mezzo secolo e a dar forma a quella che, a partire dalla

La condivisione di merci prodotte in serie e di messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione di massa, primo fra tutti la televisione, determinò un processo di omologazione – nei comportamenti, nei gusti e nei modi di pensare – che suscitò una reazione di rigetto fra gli intellettuali di sinistra: essi, infatti, videro nella pubblicità e nel consumismo una nuova e più subdola forma di dominio esercitata dal sistema capitalistico sulle masse lavoratrici. La polemica contro la “società dei consumi” fu fatta propria dai movimenti di contestazione giovanile, ma anche da componenti importanti del mondo cattolico e dei partiti di sinistra.

GLI EVENTI 1947 Piano Marshall. Indipendenza dell’India

1946 Elezioni per la Costituente e referendum istituzionale: l’Italia diventa Repubblica

1948 Prima guerra arabo-israeliana

1948 Entra in vigore la Costituzione. La Dc vince le elezioni politiche

1949 Patto atlantico. Nasce la Repubblica popolare cinese

1949 L’Italia aderisce alla Nato

1950 Guerra in Corea

1955 Conferenza di Bandung dei paesi non allineati

1956 Kruscëv condanna i crimini dello stalinismo. Rivolta in Ungheria

1957 Nasce la Comunità economica europea

1964-75 Intervento militare americano in Vietnam

1963 Nasce il primo governo di centro-sinistra 1958-63 “Miracolo economico”

1968 Contestazione studentesca

1973 Guerra del Kippur e crisi petrolifera

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CAP12 L’ETÀ DELLA GUERRA FREDDA



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Storia e Geografia Berlino e il suo Muro Storia e Cinema Apocalypse Now di Coppola Focus Guerra fredda e corsa al riarmo: la bomba H • Il rapporto Beveridge Atlante L’Europa dopo la seconda guerra mondiale: popolazione, risorse, economia Audiosintesi

12_1 LA NASCITA DELL’ONU

La seconda guerra mondiale si concludeva con un bilancio di perdite umane che non aveva precedenti nella storia dell’umanità: circa 60 milioni furono i morti, per due terzi civili, vittime dei bombardamenti, delle carestie, delle deportazioni e dei massacri indiscriminati. L’entità dello sterminio, ma anche la sua inedita e sconvolgente “qualità”, colpirono profondamente la coscienza collettiva e conferirono una nuova dimensione all’orrore per la guerra. A ciò contribuì, alla fine del conflitto, un duplice trauma morale: da un lato quello derivante dalle agghiaccianti rivelazioni sui crimini nazisti e sul genocidio degli ebrei; dall’altro quello provocato dall’apparizione della bomba atomica, cioè di un’arma non solo dotata di capacità distruttive senza precedenti, ma addirittura capace di minacciare la sopravvivenza dell’umanità.

La lezione della guerra

Questa terribile lezione produsse allora, come in parte era già accaduto all’indomani della prima guerra mondiale, un generale desiderio di rifondare su basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali. Il risultato più importante fu la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Fondata, soprattutto per iniziativa americana, in una conferenza tenuta a San Francisco fra l’aprile e il giugno del 1945, dunque quando la guerra non era ancora finita, l’Onu si presentava all’inizio come un prolungamento destinato a sopravvivere in tempo di pace di quel “patto delle Nazioni Unite” che, dalla fine del 1941, aveva legato gli Stati in lotta contro le potenze dell’Asse [►11_5]. L’obiettivo era però quello di dar vita a una organizzazione permanente e a carattere tendenzialmente universale, che sostituisse la vecchia e screditata Società delle Nazioni nel compito di «salvare le generazioni future dal flagello della guerra» e di «promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli».

La conferenza di San Francisco

Ispirato ai princìpi della Carta atlantica [►11_5], lo statuto dell’Onu porta l’impronta di due diverse concezioni: da un lato l’utopia democratica che era stata di Wilson [►4_11], e a cui ancora si ispirava una parte dell’opinione pubblica americana; dall’altro l’approccio realistico tipico di Roosevelt, convinto della necessità di un “direttorio” delle grandi potenze come unico efficace 510

Lo statuto delle Nazioni Unite

U4 IL MONDO DIVISO

Il rappresentante dell’Etiopia firma la Carta dell’Onu durante la seduta finale della conferenza di San Francisco 26 giugno 1945

strumento di governo degli affari mondiali. I princìpi dell’universalità dell’organizzazione e dell’uguaglianza fra le nazioni si realizzano nell’Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce annualmente e può adottare solo risoluzioni non vincolanti. Il meccanismo del “direttorio” è invece alla base del Consiglio di sicurezza, organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli Stati membri e di adottare misure che possono giungere fino all’intervento armato. Il Consiglio si compone di quindici membri: le cinque maggiori potenze vincitrici – Usa, Urss (dal 1992 Russia), Gran Bretagna, Francia e Cina – sono membri permanenti di diritto, mentre gli altri dieci vengono eletti a turno fra tutti gli Stati. Ciascuno dei membri permanenti gode inoltre di un diritto di veto (che è stato adoperato ampiamente) col quale può paralizzare l’azione del Consiglio quando la ritenga contraria ai propri interessi o ai propri convincimenti: un meccanismo che fu introdotto soprattutto per volontà dell’Urss, diffidente nei confronti di un’organizzazione in cui avrebbe potuto facilmente essere messa in minoranza. Al fianco di questi organi, operano altri enti: in primo luogo il Consiglio economico e sociale, da cui dipendono le “agenzie specializzate” per la cooperazione nei vari campi, come l’Unesco per l’istruzione e la cultura, la Fao per l’alimentazione e l’agricoltura, l’Unicef per la tutela dell’infanzia; e infine la Corte internazionale di giustizia con sede all’Aja, in Olanda, per risolvere le controversie fra gli Stati. Malgrado l’aspirazione a costituire un embrione di governo mondiale, l’Onu è stata fin dall’inizio lo specchio del carattere conflittuale della comunità internazionale. Egemonizzata, ma anche esautorata, dalle maggiori potenze, paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, si è rivelata spesso inadempiente al suo compito principale: quello di prevenire e contenere le crisi. Ciò non toglie che abbia svolto, e svolga tuttora, un ruolo importante come sede di negoziati e consultazioni, nonché come tribuna da cui ogni Stato può far sentire la propria voce.

Gli organismi dell’Onu

Parallelo, e complementare, al progetto di rifondazione dei rapporti fra gli Stati fu il tentativo, già avviato senza grandi risultati all’indomani della Grande Guerra, di aggiornare e codificare il diritto internazionale, includendovi un settore penale, con i suoi reati e le sue sanzioni, in modo da colpire sia gli Stati sia i singoli individui. Per questo, gli alleati costituirono, a guerra conclusa, tribunali militari per giudicare i colpevoli dei crimini più odiosi fra i responsabili delle principali potenze sconfitte (l’uccisione di Mussolini giustificò l’esclusione dell’Italia). I processi che ne seguirono – quello di Norimberga (1945-46) contro i capi nazisti e quello di Tokyo (1946-48) contro i dirigenti giapponesi – si conclusero con numerose condanne a morte e destarono grande scalpore in tutto il mondo. Si trattò di un precedente (e quindi di un deterrente) di notevole rilievo, nonostante i problemi politici e morali che implicava: si trattava infatti di un procedimento intentato e condotto dai vincitori nei confronti dei vinti, scavalcando la sovranità dei singoli Stati.

I processi di Norimberga e Tokyo

Manifesto a favore delle Nazioni Unite 1949

Sotto l’impulso degli Stati Uniti, la rifondazione dei rapporti internazionali si estese anche al campo economico. L’opera di riforma fu improntata alla filosofia economica e agli interessi del capitalismo americano, che tendevano a creare un vasto e vitale mercato mondiale in regime di libera concorrenza. Vennero così ridimensionati i vincoli protezionistici e le aree preferenziali di commercio, a cominciare da quella legata al sistema imperiale britannico. A guerra ancora in corso, con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali, cui gli Stati membri potessero attingere in caso di necessità, e di assicurare la stabilità dei cambi fra le monete, ancorandoli non soltanto all’oro, ma anche al dollaro (di cui gli Stati Uniti si impegnavano a garantire la convertibilità in oro). Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come valuta internazionale per gli scambi e come valuta di riserva per le banche centrali di tutto il mondo. Al Fondo monetario fu affiancata, sempre a Bretton Woods,

Le istituzioni economiche internazionali

511

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

la Banca Mondiale, col compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo. Sul piano commerciale, un sistema fondato sul libero scambio fu instaurato dall’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt), stipulato a Ginevra nell’ottobre ’47, che prevedeva un generale abbassamento dei dazi doganali. Concepiti all’inizio come strumenti di governo dell’economia mondiale, questi organismi videro in parte compromessa la loro rappresentatività dalla mancata adesione dell’Urss (che pure aveva partecipato alla conferenza di Bretton Woods) e poi degli altri regimi comunisti. D’altra parte, grazie a questi strumenti, gli Stati Uniti rafforzarono il loro controllo sulle economie occidentali, usando la loro influenza per stimolarne la ripresa e al tempo stesso per integrarle nella propria sfera di interessi.

METODO DI STUDIO

 a  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, sintetizzane il contenuto ricordando di indicare i soggetti (singoli e collettivi) coinvolti e i reciproci accordi e interazioni.  b Spiega cosa s’intende per “trauma morale” in riferimento alla fine del secondo conflitto mondiale.

La sede delle Nazioni Unite a New York Nel dicembre del 1946 l’Assemblea generale dell’Onu scelse di stabilire il suo quartier generale permanentemente a New York; fu quindi riunito un gruppo di architetti di fama internazionale (fra cui Le Corbusier e Oscar Niemeyer) per dare forma al luogo che avrebbe ospitato le assemblee e gli uffici. Il complesso delle Nazioni Unite, completato nel 1952, è composto principalmente da 4 edifici: la sede del Segretariato generale (il grattacielo in vetro a specchi), l’Assemblea generale

(la costruzione bianca e bassa con una cupola in cemento grigio), la sala delle conferenze che ospita il Consiglio di sicurezza (la costruzione bassa e lunga che sorge quasi sul fiume) e la Biblioteca Dag Hammarskjöld (appena sotto il grattacielo). Circondati da giardini, gli edifici del complesso ospitano una collezione di opere d’arte, ispirate al tema della pace e alla fratellanza dei popoli, create appositamente per l’organizzazione o donate dagli Stati membri. Il terreno su cui sorge il complesso non appartiene agli Stati Uniti in quanto gode del diritto di extraterritorialità.

L’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE

Salvare le generazioni future dal flagello della guerra

Assemblea generale

● Composta dai rappresentanti di tutte le nazioni ● Si riunisce annualmente ● Esprime pareri non vincolanti

512

Unesco Fao Unicef

Consiglio economico e sociale

U4 IL MONDO DIVISO

ONU (1945)

Promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli

Consiglio di sicurezza

● Composto da 15 membri (potenze maggiori) ● È un organo permanente ● Prende decisioni vincolanti, ma i membri permanenti possono esercitare il diritto di veto

Corte internazionale di giustizia



12_2 I NUOVI EQUILIBRI MONDIALI

► Leggi anche:

Il verdetto del secondo conflitto mondiale non si esaurì nella sconfitta della Germania hitleriana e dei suoi alleati e nella liquidazione del nazifascismo. La guerra segnò anche un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali. Le antiche grandi potenze – la Gran Bretagna che aveva combattuto contro Hitler dal primo all’ultimo giorno di guerra, e anche la Francia che era stata subito sconfitta dalla Germania e poi generosamente riammessa al tavolo dei vincitori – dovettero presto rendersi conto di non poter più mantenere le proprie posizioni di dominio. In particolare la Gran Bretagna, che sulla carta avrebbe dovuto svolgere un ruolo di co-gestore del nuovo ordine, avviò un graduale ritiro dalle responsabilità mondiali. L’Europa, già esaurita dallo scontro fratricida della guerra ’14-18, perse definitivamente la sua centralità. A un ruolo egemonico, infatti, potevano ormai aspirare due soli Stati, due superpotenze continentali e multietniche, molto diverse dai vecchi Stati-nazione: gli Stati Uniti, che vantavano una schiacciante superiorità economica (nel 1945 la loro produzione industriale risultava raddoppiata rispetto al 1939 e la disoccupazione di fatto scomparsa) e una netta supremazia militare, esaltata dal possesso dell’arma atomica; e l’Unione Sovietica, che disponeva di un imponente apparato industriale e militare e occupava con le sue truppe la metà orientale del continente europeo.

Le superpotenze

► Parole della storia Nucleare, p. 517 ► Fare Storia Le politiche della guerra fredda, p. 641 • La guerra fredda e la corsa per il primato tecnologico, p. 656

A partire dal 1941, Usa e Urss avevano combattuto assieme contro le potenze fasciste, offrendo il contributo più consistente alla “grande alleanza” antihitleriana. E, nell’ultimo anno di guerra, avevano provato insieme a gettare le basi di un nuovo ordine internazionale centrato sulla creazione dell’Onu. Ma, proprio in quella fase, erano emerse tra i futuri vincitori divergenze profonde sul futuro del mondo e in particolare dell’Europa [►FS, 99]. Gli Stati Uniti puntavano a una ricostruzione nel segno dell’economia di mercato e della libertà degli scambi internazionali, come contesto ideale per far valere la loro egemonia. L’Unione Sovietica, che aveva pagato un prezzo altissimo in distruzioni materiali e perdite umane, pretendeva la punizione degli Stati aggressori, adeguate riparazioni economiche e soprattutto garanzie territoriali contro ogni possibile attacco lanciato da Occidente, sull’esempio di Napoleone, Guglielmo II e Hitler. Questa esigenza di sicurezza, che in Stalin assunse tratti quasi ossessivi, si traduceva per l’Urss nella richiesta di spingere le proprie frontiere il più possibile a Ovest e di non avere regimi ostili negli Stati confinanti. Gli alleati occidentali erano in parte disposti ad accogliere queste richieste, vuoi per realismo politico, come nel caso di Churchill [►FS, 98d], vuoi perché convinti, come Roosevelt, che una Unione Sovietica appagata nelle sue legittime aspirazioni (e magari gradualmente democratizzata) potesse rappresentare un fattore di stabilizzazione nell’irrequieto scacchiere dell’Europa orientale. Si trattava insomma di creare un nuovo ordine europeo in cui, ferma restando l’egemonia degli Usa, anche l’Urss avrebbe avuto un ruolo importante, presentandosi come forza d’ordine in un’area tradizionalmente turbolenta.

I contrasti fra Usa e Urss

Nell’aprile del 1945 Roosevelt morì, pochi mesi dopo essere stato eletto per la quarta volta (caso unico nella storia degli Stati Uniti); e con lui tramontò il “grande disegno” di cooperazione fra Occidente e Urss. Il successore di Roosevelt, Harry Truman, si mostrò subito meno aperto alle istanze di Stalin, che era portato già di suo – soprattutto dopo il lancio dell’atomica americana sul Giappone – alla diffidenza nei confronti degli alleati occidentali.

La crisi della “grande alleanza”

Il principale banco di prova del contrasto fra le potenze vincitrici fu l’Europa orientale. Nei paesi occupati dall’Armata rossa – Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria – le possibilità che l’influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà popolare erano praticamente nulle. Per imporsi in un contesto ostile, l’Urss non trovò così altro mezzo, come vedremo meglio più avanti, che puntare sui partiti comunisti locali, per lo più privi di larghe basi di consenso, e portarli al potere in spregio a qualsiasi principio democratico.

L’Urss e il controllo dell’Europa orientale

513

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

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territori polacchi ceduti all’Urss territori ceduti dalla Germania alla Polonia

territori ceduti dalla Germania alla PoloniaRepubblica democratica popolare di Polonia frontiere della Polonia nel 1938 già nella conferenza interalleata che si tenne a Potsdam, presI contrasti emersero chiaramente territori polacchi ceduti all’Urss so Berlino, fra luglio e agosto del 1945. Sei mesi dopo, nel marzo 1946, Churchill (che aveva perso pochi mesi prima guida del governo, ma conservava intatto il suo prestigio personale) pronunciò territori la ceduti dalla Germania alla Polonia a Fulton, negli Stati Uniti, un discorso che ebbe un’enorme risonanza, in cui denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale: «Da Stettino, sul Baltico, a Trieste, sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente. [...] Questa non è certo l’Europa liberata per costruire la quale abbiamo combattuto». Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler. La “grande alleanza” era ormai in frantumi e il processo negoziale sui trattati di pace ne subì le conseguenze.

Infatti, i lavori della conferenza di pace, che si aprirono a Parigi nel luglio 1946, si interruppero tre mesi dopo senza che su molti punti fossero state raggiunte conclusioni definitive. Nonostante l’assenza di un accordo generale, furono fissati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l’Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia), parte della Polonia dell’Est e della Prussia orientale; la Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della Germania, portando il suo confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse. 514

La conferenza di pace

U4 IL MONDO DIVISO

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La conferenza di Parigi fu l’ultimo atto sistema bipolare della cooperazione postbellica fra Urss Nel linguaggio della politica indica un sistema caratterizzato dalla prevalenza di due forze e potenze occidentali. Fra il 1946 e il contrapposte. L’espressione viene utilizzata non soltanto nelle relazioni internazionali (come 1947 i contrasti si approfondirono. E gli Stati Uniti – i soli a nel caso della contrapposizione Usa-Urss del secondo dopoguerra) ma anche per descrivere poterlo fare, dopo la rinuncia della Gran Bretagna alle sue la vita politica interna di un paese condizionata dall’antagonismo tra due partiti o coalizioni di forze. Esempio tipico, al riguardo, sono gli Stati Uniti, dove democratici e repubblicani ambizioni imperiali – si dichiararono pronti a intervenire competono per l’elezione del presidente e dei membri del Congresso. militarmente in sostegno di quei paesi che si sentissero minacciati da nuove mire espansioniste dell’Urss o da tentativi rivoluzionari da essa ispirati. Esposta in un discorso presidenziale nel marzo 1947, la “dottrina Truman” – che da allora avrebbe costituito la base della politica estera Usa – non metteva in discussione gli assetti raggiunti alla fine della guerra, ma mirava a impedire che l’Urss li modificasse a proprio vantaggio, in Europa e nel resto del mondo: si parlò per questo di “teoria del contenimento”.

La “dottrina Truman”

L’equilibrio Usa-Urss prodotto dal conflitto mondiale si trasformava così stabilmente in un rapporto conflittuale tra le due superpotenze, che avrebbe dato origine a un nuovo sistema bipolare imperniato su due blocchi contrapposti: un blocco “occidentale”, che riconosceva l’egemonia politica e culturale degli Usa e si ispirava agli ideali della democrazia rappresentativa, del libero scambio e dell’iniziativa individuale; e uno “orientale” guidato dall’Urss e organizzato secondo i princìpi del comunismo e dell’economia pianificata, in base a un’etica anti-individualista della disciplina e del sacrificio. Cominciava quella che, con una formula destinata a grande fortuna, il giornalista americano Walter Lippmann definì “guerra fredda”: una guerra – combattuta non sui campi di battaglia, ma con le armi dell’ideologia e della propaganda [►FS, 111] – fra due blocchi che non solo erano portatori di interessi divergenti e di strategie contrapposte, ma rappresentavano anche due diversi modelli di governo e due messaggi ideologici fra loro incompatibili.

La guerra fredda

Nella lunga stagione della guerra fredda, le due superpotenze non si combatterono mai direttamente, soprattutto perché, dal 1949, anche l’Urss si dotò dell’arma nucleare: da quel momento fu chiaro a tutti che un conflitto atomico avrebbe avuto conseguenze terrificanti per il mondo intero [►FS, 110]. Ma non mancarono le occasioni di scontro e le guerre per interposta persona, per lo più in aree periferiche del pianeta. Risorse immense

Il deterrente nucleare

LA GUERRA FREDDA

USA

CONTRAPPOSIZIONE

URSS

Ideologica

Politica

Economica

Militare

Libertà individuale vs collettivismo

Democrazia liberale vs comunismo

Liberismo vs economia pianificata

Competizione nucleare

515

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

vennero profuse dalle due superpotenze nella corsa agli armamenti e nella ricerca a fini militari. E l’incubo dello sterminio nucleare, magari frutto di un errore o di un calcolo azzardato, pesò a lungo, e in parte continua a pesare, nella coscienza dei contemporanei. La contrapposizione globale fra Usa e Urss non si limitò a tracciare un confine invalicabile fra i due blocchi, ma ebbe effetti di lungo periodo sulla vita dei singoli Stati: soprattutto in Europa, dove la linea divisoria fra area “socialista” e area “capitalista” rispecchiava in larga misura le posizioni raggiunte alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti. Dall’una e dall’altra parte – anche se in misura e con modalità molto diverse – il vincolo di politica estera, ossia la subordinazione di ogni altra istanza alla compattezza dei rispettivi blocchi, divenne prioritario e strutturale. Ovunque, la lotta politica interna fu largamente condizionata dalle logiche della guerra fredda e lo stesso dibattito culturale restò a lungo bloccato nella gabbia delle opposte ortodossie. Mentre nei paesi occupati dal­ l’Armata rossa le forze non comuniste erano ridotte al siMETODO DI STUDIO lenzio, in Europa occidentale i partiti legati all’Urss veni a Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi. Quindi, sintetizzane il vano esclusi dalle coalizioni di governo ed erano nel contenuto ricordando di indicare i soggetti (singoli e collettivi) coinvolti e i reciproci accordi e interazioni. contempo costretti ad accantonare i progetti rivoluzionari  b Spiega per iscritto in che modo gli esiti della seconda guerra mondiale [►FS, 100]. Unica eccezione la Grecia, dove, fra il 1946 e il influirono sugli equilibri internazionali e quali furono le conseguenze. 1949, si combatté una sanguinosa guerra civile tra comu c Spiega in cosa consistono la “teoria del contenimento” e il sistema “bipo­ nisti e forze di governo filo-occidentali conclusasi con la lare”. vittoria delle seconde.

La sfida globale

516

La portaerei Franklin D. Roosevelt della Marina americana all’ancora al Pireo, in Grecia settembre 1946 Nel 1946, nel corso della guerra civile in Grecia, il governo degli Stati Uniti inviò un suo contingente nel Mediterraneo per sostenere il governo filooccidentale.

U4 IL MONDO DIVISO



12_3 RICOSTRUZIONE E RIFORME

► Leggi anche:

Fra la situazione dell’Europa occidentale e quella dei paesi dell’Est c’era però una differenza sostanziale. Mentre il controllo sovietico si esercitava per lo più con mezzi coercitivi, l’influenza degli Stati Uniti, sostenuta da grandi risorse economiche e da un imponente apparato propagandistico, assumeva anche le forme di una egemonia culturale. In questi anni, l’imitazione dei modelli di vita d’oltreoceano – già importati dalle truppe di occupazione e poi veicolati attraverso la musica, la letteratura e soprattutto il cinema – diede corpo a un rapporto complesso e ambivalente, ma comunque intenso, fra le due sponde dell’Atlantico: all’indomani della più terribile delle guerre, il mito americano parve incarnare le speranze e le aspettative di benessere di molti europei costretti a confrontarsi con i problemi di una difficile ricostruzione.

Il mito americano

Su un piano più concreto, gli Stati Uniti si impegnarono massicciamente per rilanciare le economie dei paesi europei. Nel giugno 1947 fu lanciato un vasto programma di aiuti economici all’Europa, che prese il nome di European Recovery Program (Erp) o, più comunemente, piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne assunse l’iniziativa. Fra il 1948 e il 1951, il piano Marshall riversò sulle economie dell’Europa occidentale ben 13 miliardi di dollari fra prestiti a condizioni di favore e aiuti materiali d’ogni genere, soprattutto macchinari e grano. L’effetto fu non solo di favorire la ricostruzione, ma anche di avviare una forte ripresa delle economie dell’Europa occidentale, che già tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, raggiunsero e superarono largamente i livelli produttivi dell’anteguerra.

Il piano Marshall

►     Focus Verso lo Stato sociale: il rapporto Beveridge

Manifesto per il piano Marschall 1947 Questo manifesto in favore del piano Marshall, per incoraggiare la cooperazione fra i paesi coinvolti nell’European Recovery Program, propone l’immagine di una chiave sul cui profilo sono raffigurate le bandiere dei paesi europei che partecipano al piano. Il testo ricorda a tutti che la chiave per la buona riuscita del progetto è nelle mani degli europei. Sull’impugnatura sono raffigurate a rilievo due spighe di grano, simbolo di pace e di prosperità.

Parole della storia

Nucleare

L’

energia nucleare – o, meno propriamente, atomica – è quella contenuta nel nucleo dell’atomo e liberata mediante processi di reazione (scissione o fusione) provocati artificialmente. Le prime applicazioni dell’energia nucleare furono indirizzate a fini bellici. Furono le “bombe atomiche” (basate sulla scissione del nucleo di materiali radioattivi come l’uranio o il plutonio) fatte esplodere dagli americani a Hiroshima e Nagasaki nell’agosto ’45 a porre fine al secondo conflitto mondiale. Pochi anni più tardi (1952) sarebbero state sperimentate le più potenti bombe all’idrogeno (o termonucleari), in cui l’energia è sviluppata dalla fusione di atomi dell’idrogeno o dei suoi isotopi (deuterio e trizio). L’apparizione delle bombe nucleari – col loro enorme potenziale distruttivo e con i loro disastrosi effetti di lungo periodo sugli equilibri naturali – aprì una nuova fase nella storia delle

relazioni internazionali, portando un elemento di sconvolgente novità nella strategia militare e influendo profondamente sugli stessi modi di pensare dei contemporanei. Espressioni come “era nucleare” (o “era atomica”), “logica nucleare”, “equilibrio nucleare”, “rischio nucleare” sono entrate stabilmente nel linguaggio politico e militare. Da un lato, l’affermarsi di due superpotenze nucleari, ciascuna delle quali dotata di arsenali capaci di distruggere l’avversario, ha dato una notevole stabilità al quadro internazionale postbellico e ha fatto apparire più remota l’eventualità di un conflitto generale. D’altro canto, la stessa esistenza di armi capaci di alterare in modo irrimediabile gli equilibri naturali, di compromettere la salute delle generazioni future e, al limite, di distruggere ogni forma di vita sul pianeta ha introdotto un fattore di angoscia permanente che è tipico della nostra epoca (ed è sostanzialmente diverso dalla semplice paura della guerra e della morte).

L’incubo della morte nucleare ha dato argomenti e spazio alle tematiche pacifiste e, successivamente, ha costituito uno degli argomenti centrali delle campagne dei movimenti ecologisti, che dell’energia nucleare hanno contestato anche gli usi pacifici. Le numerose centrali nucleari, costruite a partire dagli anni ’50 in molti paesi industrializzati per assicurare la produzione di energia elettrica a costi inferiori a quelli delle centrali “termiche” (alimentate da petrolio, carbone o gas), presentano infatti alcune inquietanti incognite, legate sia al problema dell’eliminazione delle scorie radioattive sia al rischio di guasti o di errori umani. Incidenti come quello accaduto nel ’79 nella centrale statunitense di Three Mile Island o quelli più gravi verificatisi nell’86 nella centrale sovietica di Cˇernobyl’, e nel 2011 a Fukushima in Giappone hanno destato allarme in tutto il mondo determinando la rinuncia alla tecnologia nucleare da parte di alcuni paesi, fra cui l’Italia.

517

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

2825 M$

IL PIANO MARSHALL (1947-51)

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MAR MEDITERRANEO

importo (in milioni di dollari) e percentuale ricevuta dai principali paesi beneficiari del piano Marshall

importo (in milioni di dollari) paesi beneficiari M$ 257 M$ aiuti americani % e percentuale ricevuta ricevuti da altri paesi paesi che non hanno dai principali paesi beneficiari (in milioni di dollari) mai ricevuto gli aiuti del piano Marshall paesi che hanno richiesto 257 M$ aiuti americani e poi rifiutato gli aiuti ricevuti da altri paesi IL PIANO MARSHALL (1947-51) paesi che non hanno (in milioni di dollari) richiesto gli aiuti paesi beneficiari paesi esclusi d’ufficio a paesi che non causa dellehanno simpatie del mai loro ricevuto gli aiuti governo per l’Asse Pur realizzandosi complessivamente in un quadro economico liberista, il propaesi che hanno richiesto Le politiche sociali importo (in milioni di e poi rifiutato gli aiuti cesso M$ di ricostruzione sidollari) accompagnò, almeno in una prima fase, a una forte % e percentuale ricevuta paesi che non hanno spinta verso le riforme sociali edaia principali un diffuso ricorso all’intervento statale che riprendeva e ampliava paesi beneficiari richiesto gli aiuti del piano Marshall pratiche già sperimentate nel corso degli anni ’30. Negli Stati Uniti, nonostante il progressivo deteriopaesi esclusi d’ufficio a 257 M$ aiuti americani causa delle simpatie del politico ramento del clima in seguito alle tensioni della guerra fredda, il presidente Truman, rieletto ricevuti da altri paesi loro governo per(inl’Asse importo milioni di dollari) (in milioni diNew dollari)Deal e incrementò i programmi di assistenza. Ma il suo nelM$1948, rimase fedele all’eredità del % e percentuale ricevuta dai principali paesi(il beneficiari programma sociale Fair Deal, “giusto patto”), che si proponeva di portare avanti la politica riformidel piano Marshall

sta rooseveltiana, si realizzò solo in parte, a causa delle resistenze del Congresso, a maggioranza re257 M$ aiuti americani ricevuti edadei altri democratici paesi pubblicana, del Sud, contrari all’integrazione razziale. L’abolizione, seguita alla fine (in milioni di dollari) della guerra, dei controlli sulle attività industriali e il forte deficit del bilancio statale (gravato dalle importo (in milioni di dollari) M$ % spese da quelle per gli aiuti all’estero) provocarono inoltre un sensibile aumento del costo e militari percentuale ericevuta principali paesi beneficiari delladai vita. Ne seguì un’ondata di rivendicazioni salariali e di agitazioni operaie, cui il Congresso del piano Marshall rispose approvando nel 1947, contro il volere del presidente, il Taft-Hartley Act, una legge di impronta 257 M$ aiuti americani ricevuti da altriepaesi conservatrice antisindacale che limitava la libertà di sciopero nelle industrie di interesse nazionale. (in milioni di dollari) Le conquiste fondamentali del New Deal [►7_5-6] vennero comunque salvaguardate, ma la spinta ideologica dell’età rooseveltiana appariva ormai esaurita.

In Francia, nazionalizzazioni e politiche sociali furono varate dal governo provvisorio presieduto da De Gaulle fra il 1944 e il 1945 e dai successivi governi di coalizione basati sull’accordo fra i partiti di massa [►12_8]. Nel 1946, inoltre, fu varato un piano quadriennale (piano Monnet) che contemperava un’ispirazione liberista di fondo con aspetti di carattere riformatore e dirigistico. In Italia, pur nel quadro di un ritorno generalizzato 518

Il dopoguerra in Francia e Italia

U4 IL MONDO DIVISO

alle pratiche dello Stato liberale, gli strumenti di intervento sull’economia introdotti durante il fascismo furono mantenuti in vita; e altri ne furono sperimentati [►14_4]. Il caso più emblematico fu però quello della Gran Bretagna, dove, nelle elezioni del luglio 1945, Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo governo nazionalizzò le industrie elettriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche; riformò in senso progressivo la fiscalità ed estese il sistema di sicurezza sociale. Complessivamente furono gettate le basi di uno Stato sociale o Welfare State (letteralmente “Stato del benessere”) che aveva l’ambizione di assistere il cittadino “dalla culla alla tomba” in base al principio secondo cui la collettività deve farsi carico dei rischi METODO DI STUDIO ai quali l’individuo è esposto nel corso della sua esistenza: in particolare nelle  a  Trascrivi sul tuo quaderno i titoli dei sottofasi della vita più difficili (infanzia, anzianità), nelle condizioni di maggiore disaparagrafi e realizza con essi uno schema secondo gio (malattia, invalidità, disoccupazione) e nei settori sociali più svantaggiati. nessi di causa-effetto che espliciterai con delle frecce. Queste riforme, che ricalcavano in parte quelle attuate dai governi socialdemo b  Realizza per iscritto una didascalia a comcratici nella Svezia degli anni ’30 (ma erano anche ispirate all’esempio del New mento per lo schema che hai realizzato nell’esercizio Deal rooseveltiano), erano state già proposte in un celebre rapporto steso nel precedente.  c  Cerchia i nomi dei paesi citati nel paragrafo 1942, a guerra ancora in corso, dall’economista liberale William Beveridge e fated evidenzia le relative caratteristiche politiche o to proprio dal governo britannico. Il piano Beveridge avrebbe costituito da allora gli eventi rilevanti che vi si verificarono. un modello per molti paesi industrializzati dell’Occidente.

Il Welfare State in Gran Bretagna



12_4 L’URSS E LE “DEMOCRAZIE POPOLARI”

Il lancio del piano Marshall, se da un lato facilitò la ripresa economica europea, dall’altro ebbe l’effetto immediato di irrigidire le contrapposizioni dell’incipiente guerra fredda. Nella sua formulazione originaria, il piano aveva infatti come destinatari tutti i paesi europei, compresi quelli dell’Est. Ma i sovietici, convinti che l’aiuto promesso fosse un cavallo di Troia per affermare l’egemonia americana all’interno della loro area di influenza, respinsero il progetto e imposero di fare altrettanto ai paesi dell’Europa orientale. Anche i comunisti dell’Occidente si mobilitarono contro il piano, il che contribuì, in Francia e in Italia, alla rottura delle coalizioni di governo di cui ancora facevano parte. Per coordinare l’azione dei partiti “fratelli”, Stalin decise, nel settembre 1947, la formazione del Cominform (Ufficio d’informazione dei partiti comunisti): una sorta di riedizione su scala ridotta (ne facevano parte i partiti italiano e francese, oltre a quelli dell’Europa orientale) della Terza Internazionale che era stata sciolta nel ’43 in omaggio all’alleanza con le potenze democratiche.

Il rifiuto del piano Marshall

Procedeva frattanto a tappe forzate l’imposizione del modello politico ed economico sovietico ai paesi occupati dall’Armata rossa. L’operazione fu realizzata attraverso una serie di crescenti forzature delle istituzioni democratiche, che formalmente sopravvivevano (tant’è che i nuovi regimi si definivano “democrazie popolari”), ma venivano di fatto svuotate dall’attribuzione ai comunisti di tutte le posizioni chiave (ministero dell’Interno, vertici della polizia e dell’esercito). Gli altri partiti (socialisti, liberaldemocratici, partiti dei contadini), presenti in una prima fase nei governi di coalizione antifascista, furono gradualmente emarginati, perseguitati e infine sciolti o ridotti a una funzione puramente decorativa. Le stesse elezioni furono condizionate e manipolate, fino a trasformarsi in plebisciti dall’esito scontato. L’iniziativa privata fu cancellata o fortemente limitata e tutte le attività economiche furono portate sotto il controllo pubblico. Il meccanismo, sperimentato dapprima in Polonia e in Germania orientale, fu successivamente applicato in Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania.

La sovietizzazione dell’Europa dell’Est

La Cecoslovacchia e il colpo di Stato del ’48

Un caso a parte fu quello della Cecoslovacchia, paese economicamente e socialmente sviluppato, di solida tradizione democratica, che in politica estera seguiva una linea non ostile all’Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto la maggioranza

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

relativa nelle libere elezioni del maggio ’46. Il governo formatosi a seguito delle elezioni era guidato dal leader comunista Klement Gottwald e si fondava sull’alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe però all’inizio del ’48, quando si trattò di decidere circa l’accettazione degli aiuti del piano Marshall, sostenuta dalla maggioranza dei socialisti e dalle forze borghesi e osteggiata dai comunisti. Per imporre il loro punto di vista i comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, costringendo, sotto la minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Eduard Beneš ad affidare il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato. In marzo, il ministro degli Esteri socialista Jan Masaryk, l’unica personalità non comunista del nuovo ministero, morì cadendo dalla finestra in circostanze mai chiarite. Nel maggio 1948, le elezioni si tennero col sistema della lista unica e il presidente Beneš si dimise per non dover firmare la nuova Costituzione che trasformava definitivamente il paese in una “democrazia popolare”.

Josip Broz Tito incontra Eleanor Roosevelt nella sua residenza nell’isola di Brioni, in Jugoslavia (attuale Croazia) 16 luglio 1953 [National Archives and Records Administration, Washington] Il comunista Josip Broz, più noto con il nome di battaglia di Tito, guidò la resistenza contro i tedeschi dopo l’invasione della Jugoslavia nel 1941 fino alla liberazione del paese. Negli anni della guerra si guadagnò quel prestigio che gli permise di mantenere il potere: prima come presidente del Consiglio, quando, nel 1945, fu fondata la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, poi, nel 1953, come presidente della Repubblica, carica che mantenne fino alla morte nel 1980. In questa foto Tito è ritratto con la ex first lady americana Eleanor Roosevelt (membro della delegazione degli Usa alle Nazioni Unite), recatasi in Jugoslavia per intervistare il neopresidente e verificare le condizioni socioeconomiche del paese comunista.

Ancora diverso fu il caso della Jugoslavia. Qui i comunisti, sotto la guida di Tito (divenuto nel ’45 presidente della nuova Repubblica jugoslava), si imposero da soli al potere con ampio uso della violenza contro i loro avversari, ma anche grazie all’autorità e al prestigio guadagnati con l’impegno nel movimento di Resistenza, che aveva liberato il paese dall’occupazione nazista. Fu proprio la forza della leadership jugoslava, che aveva consentito al regime di superare o soffocare i tradizionali conflitti etnici e religiosi, a porre un ostacolo al pieno dispiegarsi del dominio dell’Urss. La rottura si consumò nel giugno 1948, quando si manifestarono le ambizioni jugoslave di svolgere un ruolo-guida fra i paesi balcanici e di perseguire una via autonoma allo sviluppo industriale: accusati da Stalin di “deviazionismo” e di collusione con l’imperialismo, i comunisti jugoslavi furono espulsi dal Cominform.

Lo scisma di Tito

Completamente isolata dal mondo comunista (che si schierò compatto con Stalin), la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull’equidistanza fra i due blocchi, e un nuovo corso in politica economica, volto alla ricerca di un difficile equilibrio fra statizzazione e autonomia gestionale delle imprese. In realtà, sul piano dell’organizzazione politica, il modello jugoslavo non si differenziava da quello delle altre democrazie popolari, basato com’era sulla ferrea dittatura del Partito comunista. Eppure l’esperienza jugoslava suscitò interesse in Occidente, perché rappresentò in quegli anni l’unica ribellione riuscita al dominio sovietico in Europa orientale, proprio nel momento in cui le tensioni della guerra fredda conoscevano la loro fase più acuta con il riproporsi della questione tedesca.

Il modello jugoslavo

Dalla fine della guerra, la Germania era divisa in quattro zone di occupazione (statunitense, britannica, francese e sovietica). La capitale Berlino, che si trovava all’interno dell’area sovietica, era a sua volta divisa in quattro zone. Saltata ogni possibilità di intesa con i sovietici sul futuro del paese, Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono, nel 1947, l’integrazione delle loro zone, introducendo una nuova moneta, liberalizzando l’economia e rivitalizzandola poi con gli aiuti del piano Marshall. Di fronte a quella che ormai si profilava chiaramente come la rinascita di un forte Stato tedesco integrato nel blocco

520

Il blocco di Berlino e le due Germanie

U4 IL MONDO DIVISO

Il ponte aereo per Berlino 1949

27_LA GERMANIA E BERLINO, 1946-49 Amburgo Amburgo PAESI BASSI

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occidentale, Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948 i sovietici chiusero gli accessi alla città impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare la zona ovest della ex capitale da loro occupata. L’Europa sembrò nuovamente sull’orlo di un conflitto. La crisi si risolse tuttavia senza uno scontro militare. Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel maggio ’49, i sovietici si risolsero a togliere il blocco, rivelatosi inefficace. Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania (compresa quella sotto controllo francese) e fu proclamata la Repubblica federale tedesca (Bundesrepublik Deutschland, Brd), con capitale Bonn. La risposta sovietica fu la creazione, nella parte orientale del paese, di una Repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratik Republik, Ddr), che aveva la sua capitale a Pankow (un sobborgo di Berlino). A questo punto la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti era compiuta. Nell’aprile 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a Washington il Patto atlantico [►FS, 101d], alleanza difensiva fra i paesi del­ l’Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia), gli Stati Uniti e il Canada. Il ponte aereo patto, che si fondava su una comune professione di fede nella “civiltà occidenÈ l’operazione che permette di collegare attraverso una tale”, prevedeva un dispositivo militare integrato composto da contingenti dei fitta sequenza di voli due località che non possono essere collegate via terra. singoli paesi membri: la Nato (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico). Nel 1951 aderirono al patto la Grecia e la Turchia, nel 1955 anche la Germania

Il Patto atlantico e il Patto di Varsavia

521

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

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paesi aderenti L’EUROPA NEL (Nato) 1956 al Patto atlantico paesi aderenti al Patto di Varsavia

MAR MEDITERRANEO

paesi aderenti Patto atlantico (Nato) federale, alfulcro della difesa avanzata contro un possibile attacco sovietico. Sempre nel ’55, proprio paesi aderenti a seguitoaldell’adesione Patto di Varsavia tedesco-occidentale alla Nato, l’Urss rispose stringendo con i paesi satelli-

ti  un’alleanza, il Patto di Varsavia [►FS, 102d], basata anch’essa su un’organizzazione militare integrata. L’imposizione del modello collettivistico sovietico ebbe conseguenze profonde sugli assetti socioeconomici dell’Europa orientale. I latifondisti furono spazzati via fin dalle prime riforme agrarie. Il ceto contadino si ridusse sensibilmente, in parallelo all’espansione di quello operaio. Fra il ’46 e il ’48, furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, le banche e l’intero settore commerciale. Furono lanciati i primi piani di sviluppo, basati sul modello sovietico, che assegnava la priorità all’industria pesante. Soprattutto nei primi anni, la crescita produttiva fu notevole, con incrementi medi superiori al 10% annuo.

Industrializzazione e modernizzazione

Questo sviluppo fu però condizionato, e in qualche modo distorto, dalla subordinazione delle economie dei paesi “satelliti” a quella dello “Stato-guida”. Gli obiettivi di produzione furono scelti in modo da risultare complementari a quelli dell’Urss. I tassi di cambio all’interno dell’“area del rublo”, nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati, furono rigidamente regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), fondato a Varsavia nel gennaio ’49 con l’adesione di tutti i paesi del blocco orientale. 522

La subordinazione all’Urss

U4 IL MONDO DIVISO

Inoltre, le caratteristiche del modello di sviluppo imposto ai paesi dell’Europa dell’Est comportavano una forte compressione dei consumi e del tenore di vita della popolazione. Tutto questo non avrebbe certo giovato alla popolarità dei regimi comunisti e avrebbe contribuito non poco a far nascere agitazioni sociali e moti di rivolta antisovietica, che paradossalmente avrebbero avuto per protagonista proprio il ceto operaio cresciuto con la collettivizzazione. Per conservare e tenere unito il suo “impero”, l’Urss dovette quindi esercitare un controllo molto forte sui partiti comunisti dei paesi satelliti. Una violenta stretta repressiva si ebbe già all’indomani dello scisma jugoslavo: per evitare che l’eresia di Tito troMETODO DI STUDIO vasse nuove adesioni, furono attuate, tra la fine degli anni  a  Sottolinea le caratteristiche delle democrazie popolari istituite nell’Europa dell’Est e cerchiane i nomi. ’40 e l’inizio degli anni ’50, massicce “purghe” nei confronti  b  Perché l’Urss accusò di “deviazionismo” il governo comunista jugoslavo? dei dirigenti comunisti dell’Est europeo sospettati di velleiSottolinea nel testo la risposta. tà autonomistiche. I processi di quegli anni furono una  c  Sintetizza gli eventi che portarono alla creazione, in Germania, di due Stati distinti. drammatica replica del copione già sperimentato in Unione  d  Cerchia le date della firma del Patto atlantico e del Patto di Varsavia e Sovietica nel periodo prebellico: arresti arbitrari, inverosisottolinea i paesi che vi aderirono. mili accuse di tradimento o di altri crimini, corroborate da  e  Esponi per iscritto le conseguenze della sovietizzazione sugli assetti socio-­ confessioni estorte con la tortura, condanne pesantissime, economici dell’Europa orientale e il costo che questi paesi dovettero pagare. anche alla pena capitale.

Le purghe nell’Europa dell’Est



12_5 RIVOLUZIONE IN CINA, GUERRA IN COREA

► Leggi anche:

Mentre in Europa il confine fra i due blocchi si andava stabilizzando, il teatro del confronto fra mondo comunista e mondo capitalistico si allargava al continente asiatico, intrecciandosi con le vicende della lunga e sanguinosa guerra civile che da decenni si stava combattendo in Cina [►10_5-7]. Dopo la sconfitta del Giappone e la fine del conflitto mondiale, la Repubblica cinese era diventata formalmente una potenza vincitrice; ma era sempre più lacerata dallo scontro fra il governo “nazionalista” di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong, che occupavano e amministravano ampie zone dell’ex impero. Fallito ogni tentativo di accordo fra i contendenti, Chiang Kai-shek lanciò, fra il 1946 e il 1947, una violenta offensiva militare, contando sul sostegno degli Stati Uniti. I comunisti, dopo un primo arretramento, riuscirono ancora una volta a riorganizzarsi e a contrattaccare, puntando sull’appoggio delle masse contadine, attratte dalla promessa di una radicale riforma agraria. Il fronte nazionalista, sempre più identificato con la causa dei proprietari terrieri e screditato dalla diffusa corruzione, si andò invece sfaldando di fronte all’efficace guerriglia condotta dalle forze maoiste.

► Personaggi Mao Zedong, il “Grande timoniere”, p. 524

La guerra civile

Nel febbraio 1949 i comunisti entrarono a Pechino. Due mesi dopo cadeva Nanchino, capitale della Cina nazionalista. Chiang Kai-shek, con quanto restava del governo e dell’esercito, riparò, sotto la protezione della flotta statunitense, nell’isola di Taiwan (Formosa), da dove non cessò mai di sognare la riconquista. Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese, subito riconosciuta dall’Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli Stati Uniti e da molti dei loro alleati, che continuarono a considerare come legittimo governo cinese quello di Taiwan (che avrebbe occupato, fino al 1971, il seggio della Cina all’Onu). La nuova Repubblica a guida comunista procedette subito a misure radicali: le banche e le grandi e medie industrie furono nazionalizzate, così come il commercio con l’estero, mentre la terra fu distribuita fra i contadini.

La vittoria dei comunisti

L’Urss, che durante la guerra civile aveva fornito ai comunisti cinesi solo aiuti limitati, continuando fino all’ultimo a riconoscere il regime di Chiang Kai-shek, stipulò subito col nuovo regime un trattato di amicizia e di mutua assistenza. Ma la dirigenza sovietica guardò con qualche preoccupazione all’emergere di una nuova potenza

Una nuova potenza comunista

523

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

capace di contestare all’Urss il suo ruolo di Stato-guida e di proporsi come modello di società comunista, distinto da quello sovietico e destinato a esercitare una certa attrazione sui paesi ex coloniali. Il contrasto sarebbe emerso, come vedremo, da lì a pochi anni. Sul momento, però, il successo della rivoluzione nello Stato più popoloso del mondo (comprendente da sola un quarto della popolazione mondiale) fu visto come un allargamento del “campo socialista” e dunque come una nuova e radicale sfida lanciata al blocco occidentale e in particolare agli Stati Uniti. La prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali assunte dal confronto fra i due blocchi si ebbe nel 1950 in Corea. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Corea (a lungo contesa fra Cina e Giappone e annessa all’Impero giapponese dal 1910), in

Le due Coree

PERSONAGGI

Mao Zedong, il “Grande timoniere”

È

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stato il “Grande timoniere” della rivoluzione comunista cinese. Nel 1949 ha riu­ nificato la Cina, ponendo fine a decenni di guerre civili e interrompendo un lungo processo di disgregazione nazionale. Mao Zedong, il padre della Cina moderna, era autoritario e risoluto, ma al tempo stesso animato da profonde contraddizioni: visionario e pragmatico, amava la cultura ma disprezzava gli intellettuali, alternava periodi di intensa attività a lunghe fasi di depressione. Nacque nel 1893 a Shaoshan, villaggio nella provincia meridionale dello Hunan, dove cominciò a lavorare nella fattoria di famiglia durante l’infanzia e sposò a 14 anni una ragazza di un paese vicino, che però morì tre anni dopo. Vedovo a soli 17 anni, decise di lasciare la vita contadina, per andare a studiare a Changsha, la capitale dello Hunan, nel Sud del paese, nel 1911. Era l’anno della rivoluzione di Sun Yat-sen: Mao si tagliò il codino, simbolo della tradizione imperiale, e si arruolò nell’esercito nazionalista, che abbandonò dopo pochi mesi per frequentare una scuola dove si tenevano lezioni sulla cultura occidentale. Studiò con particolare attenzione alcuni filosofi europei, come Rousseau e Spencer, ma fu influenzato soprattutto dalle opere dello storico cinese di fine ’800 Liang Qichao, nelle quali la Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano erano indicati come modelli da seguire per la rinascita nazionale della Cina. In questi anni cominciò anche a scrivere poesie, imitando i classici della letteratura cinese: una passione che coltivò nel corso di tutta la vita. La contaminazione fra cultura cinese e riferimenti occidentali caratterizzò la sua educazione scolastica. Grazie a Yang Changji, suo professore di filosofia, Mao conobbe il grup-

U4 IL MONDO DIVISO

po di intellettuali riuniti intorno alla rivista «Gioventù nuova», che avrebbe avuto un ruolo importante nelle rivolte nazionaliste del maggio 1919. Come gran parte del movimento nazionalista cinese, «Gioventù nuova» univa un programma di modernizzazione occidentale al progetto di liberare il paese dall’influenza straniera e poneva particolare attenzione al ruolo politico dei giovani

e alla necessità di uno svecchiamento della mentalità e della cultura del paese: due concezioni che saranno centrali nel pensiero politico di Mao Zedong. In questo periodo Mao cominciò a collaborare con alcune riviste: i suoi scritti erano influenzati soprattutto dall’anarchismo, ma fu l’interesse per la rivoluzione russa che lo condusse verso l’impegno politico a tempo pieno. L’adesione al comunismo apparve a Mao come una risposta ai tradizionali dilemmi della classe dirigente cinese: sulla ba-

Mao Zedong arringa la folla 6 dicembre 1944 [National Archives and Records Administration, Washington]

base agli accordi tra gli alleati, era stata divisa in due zone, delimitate dal 38° parallelo. Analogamente a quanto era accaduto in Germania, una delle due zone – la Corea del Nord – era governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung, mentre nell’altra – la Corea del Sud – si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli Stati Uniti. Dopo una serie di incidenti di frontiera, nel giugno 1950 le forze nordcoreane, armate dall’Urss, invasero il Sud. Di fronte a quella che appariva come una clamorosa conferma delle mire espansionistiche del blocco comunista, gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un forte contingente, che agiva sotto la bandiera dell’Onu, in quanto il Consiglio di sicurezza, assente il delegato sovietico (che intendeva così protestare contro la mancata

La guerra e gli interventi stranieri

se del modello dell’Unione Sovietica era possibile edificare un moderno Stato nazionale e il marxismo-leninismo poteva divenire il principale veicolo di occidentalizzazione. Nel 1921 Mao partecipò al congresso di fondazione del Partito comunista cinese, ma i suoi primi passi nel mondo della politica li percorse nel Kuomintang di Sun Yat-sen. Fra il 1924 e il 1927, negli anni dell’alleanza tra comunisti e nazionalisti, lavorò all’interno del Kuomintang, come responsabile della propaganda e del movimento contadino, ­acquisendo esperienze fondamentali per la sua carriera di rivoluzionario. Nel 1927, quando i contadini dello Hunan si ribellarono contro i proprietari, i dirigenti del Partito comunista cinese (Pcc) criticarono la violenza della rivolta. Mao, invece, difese l’azione dei contadini: «una rivoluzione non è un pranzo di gala», scrisse in un famoso rapporto, «una rivoluzione è una ribellione, un atto di violenza […] tutte le azioni etichettate come eccessive hanno una rilevanza rivoluzionaria». In questo documento erano già delineati gli elementi principali della sua strategia rivoluzionaria basata sulle masse contadine piuttosto che sul proletariato urbano. Dopo la rottura dell’alleanza con il Kuomintang, si rifugiò sulle montagne del Jinggangshan, dove costituì un’armata di comunisti. Mao si affermò come leader del Pcc nel corso degli anni ’30, sia contrastando i dirigenti comunisti cinesi più legati all’Unione Sovietica (fautori di una strategia rivoluzionaria a base urbana), sia eliminando gli avversari interni attraverso un sistema di purghe simile a quello utilizzato dal regime di Stalin. Organizzò inoltre un forte esercito contadino, guidandolo, per sfuggire alle truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek, nella “lunga marcia” del 1934 dallo Hunan fino al Nord della Cina; qui il partito poté rafforzarsi prima di af-

frontare con successo sia l’occupazione giapponese (1937-45) sia la fase conclusiva della guerra civile con i nazionalisti (1946-49). Il 1° ottobre 1949 si presentò vittorioso a Pechino, annunciando la nascita della Repubblica popolare cinese: aveva alle spalle più di due decenni di lotta armata. La guerra aveva forgiato la sua personalità politica e stravolto la sua vita privata. In questo periodo aveva avuto dieci figli, ma soltanto quattro erano sopravvissuti ai lunghi anni di fughe e combattimenti. Nel 1938 Mao si era risposato con Jiang Qing, una giovane attrice di teatro che aveva aderito al Partito comunista. Nel dicembre del 1949 lasciò per la prima volta il suo paese per recarsi a Mosca e consacrare l’alleanza con l’Unione Sovietica. Nel corso di tutta la sua vita, viaggiò all’estero soltanto in un’altra occasione, nel 1957, sempre alla volta di Mosca. Per tre decenni fu il leader indiscusso del comunismo cinese, oggetto di un culto della personalità che divenne una vera e propria venerazione popolare negli anni ’60. La sua immagine era così diffusa che il pittore americano Andy Warhol la trasformò in un’icona della pop art. La raccolta delle sue massime, il famoso “Libretto rosso” pubblicato in oltre un miliardo di copie, fu oggetto di devozione come un testo sacro. Sono gli anni in cui la Cina è sconvolta dalla “rivoluzione culturale”, una rivolta giovanile scatenata da Mao per eliminare i suoi oppositori interni: “Il mondo è vostro”, aveva detto Mao ai giovani cinesi nel 1966, spingendoli a ribellarsi con violenza contro il gruppo dirigente del suo stesso partito, per poi reprimere la ribellione giovanile con altrettanta violenza. Negli ultimi anni di vita, indebolito dall’età e dalle malattie, rimase per molto tempo isolato nel suo appartamento, fra le mura della Città proibita a Pechino, lasciando che au-

Andy Warhol, Mao 1972 [Per gentile concessione di Thomas Ammann, Zurigo; © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc., by SIAE 2018]

mentasse l’influenza e il potere politico della sua ultima moglie, Jiang Qing. Mao morì il 9 settembre 1976; un mese dopo Jiang Qing fu arrestata e in seguito condannata per delitti commessi durante la rivoluzione culturale. Nell’epoca postmaoista la Cina è radicalmente cambiata: si è aperta all’economia di mercato e si è allontanata profondamente dal pensiero del suo “Grande timoniere”. Tuttavia, l’eredità politica di Mao, in primo luogo il sistema a partito unico, è ancora presente. Nelle posizioni ufficiali dei dirigenti di Pechino prevale ancora il sintetico bilancio formulato nel 1981: il contributo positivo di Mao per la nazione cinese rappresenta il 70% della sua storia politica, gli errori occupano il restante 30%.

525

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

assegnazione del seggio alla Cina comunista), aveva condannato la Corea del Nord e autorizzato l’invio di truppe. I nordcoreani furono respinti e in ottobre gli americani oltrepassarono il 38° parallelo. A questo punto, però, fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei comunisti, con un massiccio invio di falsi volontari, che in poche settimane respinsero gli americani sulle posizioni di partenza. Nell’aprile 1951 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I negoziati – e con essi la guerra – si trascinarono per altri due anni, per concludersi infine nel 1953 con il ritorno alla situazione precedente, con la Corea divisa in due da una “Zona demilitarizzata”. Gli effetti della crisi coreana furono di ampia portata. Anche in assenza di un coinvolgimento diretto dell’Urss, l’eventualità di uno scontro fra le superpotenze era apparsa vicina e lo spettro di una guerra nucleare concreto come non mai. Da qui un vasto riarmo americano, un’accresciuta sensibilità degli Stati Uniti alla minaccia comunista nel Pacifico, un rafforzamento dei loro legami militari con gli alleati asiatici ed europei.

29_LA GUERRA DI COREA, 1950-53

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Le conseguenze della guerra

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea i fattori che determinarono la vittoria dei comunisti sui nazionalisti cinesi.  b  Sottolinea le cause della guerra di Corea e i nomi degli Stati intervenuti.  c  Sottolinea con colori diversi le conseguenze delle rivalità tra il mondo socialista e quello capitalistico in Cina e in Corea e sintetizzane gli esiti per iscritto.

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Pablo Picasso, Massacro in Corea 1951 [Musée Picasso, Parigi; © Succession Picasso, by SIAE 2018] Con questo quadro, Pablo Picasso manifestò ancora una volta la sua condanna della guerra (in questo caso il conflitto coreano). I soldati, colti con i fucili puntati su un gruppo di donne e bambini, sono rappresentati come minacciose macchine da guerra e contrapposti alla fertilità e alla vita incarnate dalle donne gravide e dai bambini.

U4 IL MONDO DIVISO

N A

COREA DEL NORD Pyongyang

linea di massima avanzata delle truppe Onu-Usa, novembre 1950 “Zona demilitarizzata” al momento dell’armistizio, luglio 1953 38° parallelo Nord

invasione delle truppe comuniste nordcoreane, giugno 1950

Seoul

COREA DEL SUD

GIAPPONE



12_6 IL GIAPPONE: DA NEMICO AD ALLEATO

La vittoria dei comunisti in Cina e la guerra in Corea resero sempre più essenziale, nel sistema di alleanze degli Stati Uniti, il ruolo del Giappone: nemico irriducibile fino all’agosto 1945, sottoposto dopo la sconfitta a un duro regime di occupazione affidato al generale Mac Arthur, il paese dovette non solo rinunciare alle sue ambizioni espansionistiche, ma anche adeguare le sue istituzioni ai modelli occidentali. La nuova Costituzione approvata nel 1946, in realtà scritta da funzionari americani, trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia parlamentare (a questo patto l’imperatore Hirohito poté conservare il trono). Sempre nel ’46 fu inoltre varata una vasta riforma agraria. L’azione di rinnovamento imposta dagli Stati Uniti ebbe un effetto durevole nel rimodellare su nuove basi la realtà del paese. Tuttavia essa incontrò un freno nella necessità di non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui gli occupanti contavano per legare a sé il paese e per farne un bastione del “mondo capitalistico” in Asia.

La tutela americana

Questo orientamento si accentuò quando, con la guerra di Corea, il Giappone divenne base logistica e fornitore dell’esercito americano. A partire dagli anni ’50 le grandi imprese sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall’assistenza degli Stati Uniti, oltre che da una stabilità politica che si fondava sull’egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberal-democratico. La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace, assieme a una politica economica fondata sul contenimento dei consumi, consentì negli anni ’50 un tasso di investimento elevatissimo, pari a un terzo del prodotto nazionale. Inoltre il sistema delle imprese – basato sulla compresenza di pochi grandissimi complessi industrial-finanziari (come la Honda, la Mitsubishi, la Sony e la Panasonic) e di una miriade di piccole e medie aziende – si rivelò particolarmente adatto a cogliere le occasioni di sviluppo. Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita – la siderurgia, la cantieristica, l’automobile, la meccanica di precisione e poi soprattutto l’elettronica – e sulle tecnologie d’avanguardia.

La ripresa economica

L’auto “2000GT JP-spec (MF10)” della Toyota A partire dai primi anni ’50 il Giappone trasse notevoli vantaggi dalla liberalizzazione degli scambi commerciali attuata nel dopoguerra e dagli aiuti e investimenti destinati al paese dagli Usa. Questi fattori – insieme con le politiche economiche statali tese a favorire gli investimenti, la ricerca tecnologica e la competitività delle aziende nipponiche sui mercati mondiali – condussero l’economia giapponese a tassi di crescita molto elevati fino all’inizio degli anni ’70. Un ruolo di primo piano fu svolto dalle industrie automobilistiche. Fra queste si distinse la Toyota con la sua “2000GT” (apparsa come prototipo nel 1965 e prodotta in serie dal ’67): un’auto sportiva in grado di competere con le rivali europee, che rivoluzionò l’opinione che il mercato occidentale aveva del mercato automobilistico nipponico.

527

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

Tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio 1950-70 un tasso di sviluppo medio del 15% annuo (il triplo di quello dell’Occidente industrializzato) e di invadere il mondo con i prodotti della sua METODO DI STUDIO industria, compensando ampiamente le importazioni di materie prime e mante a  Sottolinea le informazioni relative all’organendo in perenne attivo la bilancia commerciale. Come la Germania, il Giappone nizzazione politica che si affermò in Giappone nel secondo dopoguerra. trovava nell’alleanza con l’ex nemico la base per uno straordinario rilancio che  b Evidenzia con colori diversi le cause e le congli avrebbe consentito di ottenere con mezzi pacifici gli obiettivi egemonici priseguenze della ripresa economica del Giappone. ma perseguiti attraverso la guerra.

Il miracolo giapponese



12_7 GUERRA FREDDA E COESISTENZA PACIFICA

► Leggi anche: ► Parole della storia Nucleare, p. 517

Il quinquennio che va dalla crisi di Berlino del 1948 alla fine del conflitto in Corea fu il periodo più buio della guerra fredda. La minaccia di un conflitto nucleare imminente non solo gettò un’ombra di ansia e di pessimismo sul clima psicologico dei paesi che faticosamente si stavano riprendendo dai traumi della guerra appena conclusa, ma condizionò negativamente la politica interna delle maggiori potenze coinvolte. In Urss Stalin rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con l’Occidente accentuando i connotati autocratici e repressivi del suo regime. Le purghe tornarono a colpire quadri del partito e comuni cittadini, mentre i condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero ancora più soffocanti. Negli Stati Uniti, soprattutto a partire dal ’49 – in coincidenza con l’esplosione dell’atomica sovietica –, si scatenò una campagna anticomunista che prese a tratti la forma di una “caccia alle streghe” e che ebbe il suo principale ispiratore nel senatore repubblicano Joseph McCarthy (donde l’espressione “maccartismo”), presidente di una commissione parlamentare istituita

Repressione e “caccia alle streghe”

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McCarthy illustra la localizzazione delle organizzazioni comuniste negli Usa Washington, maggio 1954

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per reprimere le “attività antiamericane”. Nel 1950, il Congresso adottò l’Internal Security Act (“legge per la sicurezza interna”), che costituì lo strumento giuridico per emarginare o epurare quanti, nella pubblica amministrazione o nel mondo della cultura e dello spettacolo, fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra. Gli eccessi del maccartismo si protrassero fino al 1955, quando il senatore, le cui accuse arrivarono a colpire buona parte della classe dirigente, fu censurato dal Senato e costretto a uscire di scena. Nelle elezioni presidenziali del novembre 1952, Truman non si ripresentò e la vittoria andò al candidato repubblicano, il generale Eisenhower, già comandante degli eserciti alleati nell’ultima fase della seconda guerra mondiale. Nel marzo 1953, Stalin morì all’improvviso, celebrato e pianto dai comunisti di tutto il mondo. L’uscita di scena dei principali protagonisti della guerra fredda non portò, in un primo tempo, mutamenti significativi nei due blocchi. Eppure, proprio in questi anni di tensione, venne maturando un atteggiamento di accettazione reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto ideologico o alcuna pausa nella corsa agli armamenti, costituiva almeno la premessa per una coesistenza pacifica. Se i sovietici avevano di fronte lo spettacolo di crescente prosperità offerto dal blocco occidentale, gli Stati Uniti erano costretti a prendere atto del consolidamento dell’Urss e del continuo rafforzamento del suo apparato militare: nell’agosto 1953 l’esplosione della bomba all’idrogeno (o bomba H) sovietica, un anno dopo il primo analogo esperimento americano, mostrava che in questo campo il divario tecnologico fra le due superpotenze andava scomparendo. In questa fase, Usa e Urss rinunciarono ad agire militarmente fuori delle rispettive aree di influenza. E addirittura arrivarono a collaborare per il mantenimento dello status quo: accadde durante la “crisi di Suez” dell’estate 1956 [►13_5], quando le due potenze, dopo una breve fase di tensione, si trovarono sostanzialmente d’accordo nel bloccare l’azione anglo-francese contro l’Egitto. Ma proprio gli eventi di quel cruciale 1956 mostrarono come il prezzo da pagare per la stabilità e la pace fosse per l’Occidente la rinuncia a mettere in discussione le forme del controllo sovietico sull’Europa dell’Est.

Segnali di distensione

La “direzione collegiale” succeduta a Stalin alla guida dell’Urss, infatti, non aveva allentato la presa sui paesi satelliti: quando, nel giugno 1953, gli operai di Berlino Est scesero in piazza per protestare contro le dure condizioni di vita imposte dal regime comunista, la rivolta fu sanguinosamente repressa dalle truppe sovietiche. Qualcosa parve cambiare quando il successore di Stalin alla guida del Pcus, Nikita Kruscëv, si impose come leader indiscusso dell’Unione Sovietica. Personaggio vivace ed estroverso (molto diverso in questo da Stalin), dotato di una forte carica di comunicativa popolaresca, Kruscëv si fece promotore di alcune significative aperture sia in politica estera, sia in politica interna. Sotto il primo aspetto vanno ricordati il trattato di Vienna del 1955 – con cui i sovietici accettarono di ritirare le proprie truppe di occupazione dall’Austria in cambio della neutralità del paese – e l’incontro con i capi occidentali a Ginevra per discutere il problema tedesco; ma anche la clamorosa riconciliazione con i comunisti jugoslavi, sempre nel ’55, e lo scioglimento del Cominform, nell’anno seguente. In politica interna la svolta krusceviana non comportò mutamenti sostanziali nella struttura del potere e nella gestione centralizzata dell’economia, ma segnò la fine delle “grandi purghe”, un rilancio dell’agricoltura e una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei cittadini.

L’ascesa di Kruscëv

Per rendere irreversibile la svolta, Kruscëv non esitò a compiere un’operazione traumatica: la demolizione della figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia degli orrori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a partire dagli anni ’30. Nel febbraio 1956, in un rapporto al XX congresso del Pcus, Kruscëv pronunciò una durissima requisitoria contro il leader scomparso tre anni prima, rievocando senza reticenze gli arresti in massa e le deportazioni, le torture e i processi-farsa e riabilitando implicitamente le vittime del terrore staliniano (con l’eccezione di Trotzkij). Il rapporto Kruscëv – che fu letto ai soli dirigenti e non fu mai pubblicato in Urss, ma fu presto conosciuto in tutto il mondo occidentale – non metteva in discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniniana. Gli errori e le deviazioni erano

La denuncia dei crimini di Stalin

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attribuiti alle scelte di Stalin, al “culto della personalità” che lo aveva circondato, all’eccessivo potere della burocrazia e alle troppo frequenti violazioni della “legalità socialista”. La denuncia ebbe ugualmente effetti traumatizzanti. I partiti comunisti occidentali si allinearono al nuovo corso non senza imbarazzi e riserve. Ma le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell’Europa dell’Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In questi paesi, il rapporto Kruscëv fece nascere l’illusione che l’egemonia dell’Urss sui suoi satelliti potesse assumere forme più blande o essere cancellata del tutto. In Polonia, dopo una serie di agitazioni operaie iniziate in giugno e culminate in autunno in un generale moto di protesta, i sovietici favorirono il ritorno al potere del leader comunista Wladyslaw Gomulka, vittima delle epurazioni staliniste. Gomulka promosse una politica di cauta liberalizzazione e di parziale riconciliazione con la Chiesa, impegnandosi per contro a non mettere in discussione l’alleanza con l’Urss.

Le ripercussioni nell’Europa dell’Est

In Ungheria gli avvenimenti del ’56 seguirono all’inizio un corso analogo. Vi furono, per tutta l’estate, agitazioni e proteste animate soprattutto da intellettuali e studenti. In ottobre le proteste sfociarono in una vera e propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori. In tutte le fabbriche si formarono consigli operai, autonomi dalle organizzazioni ufficiali. A capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell’ala “liberale”, già espulso dal partito. Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall’Ungheria. A questo punto, però, il regime di piena libertà instauratosi nel paese aprì larghi spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando, il 1° novembre, Nagy annunciò l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Janos Kádár invocò l’intervento sovietico. Reparti dell’Armata rossa occuparono Budapest e, con i carri armati, stroncarono in pochi giorni la resistenza delle milizie popolari. Pochi mesi dopo, Nagy fu fucilato, mentre Kádár assumeva la guida del paese.

L’insurrezione ungherese

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Budapest, novembre 1956 Le foto mostrano due momenti della rivolta antisovietica: l’abbattimento di una statua di Stalin e l’intervento dei carri armati sovietici per le strade di Budapest, che soffocarono la rivolta nel sangue. Il rapporto Kruscëv, i fatti d’Ungheria e la repressione che ne seguì ad opera dell’Armata rossa modificarono profondamente l’immagine del comunismo sovietico. Per molti intellettuali e uomini di cultura, l’invasione dell’Ungheria significò il crollo del modello politico dai caratteri mitici formatosi negli anni della seconda guerra mondiale e della lotta al nazifascismo.

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L’intervento sovietico – che suonava come una brutale smentita alle speranze suscitate dalla destalinizzazione – provocò sdegno e proteste in Occidente e suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di tutto il mondo, già colpiti dal trauma del rapporto Kruscëv. Ma, sul piano dei rapporti di forza, la “rioccupazione” dell’Ungheria confermò il controllo sovietico sui paesi satelliti e l’immutabilità dell’assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale.



METODO DI STUDIO

 a  Individua e numera le tappe principali che portarono dalla guerra fredda alla distensione, quindi trascrivile sinteticamente sul quaderno indicando le date di riferimento.  b  Sottolinea le differenze tra l’operato di Stalin e quello di Kruscëv.  c  Spiega in cosa consistette il “maccartismo” e chi lo portò avanti.  d  Spiega per iscritto in cosa consistette la “destalinizzazione”, chi la portò avanti e quali conseguenze ebbe. Specifica anche se e quali conseguenze ebbe in Ungheria.

12_8 LE DEMOCRAZIE EUROPEE E L’AVVIO DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA

Mentre l’Europa orientale vedeva riaffermata la sua subordinazione all’Urss, mentre la Gran Bretagna si dedicava alla costruzione di un sistema di sicurezza sociale che la avvicinava alle democrazie scandinave, mentre nella penisola iberica sopravvivevano i regimi autoritari di Spagna e Portogallo (rimasti neutrali nel conflitto mondiale), nella parte centro-occidentale del continente che aveva sofferto i traumi e le distruzioni della guerra ma aveva mantenuto o recuperato le istituzioni democratiche, la ricostruzione e il rilancio produttivo si accompagnavano al primo avvio di un processo di integrazione economica tra gli Stati.

Sviluppo e integrazione

La ripresa più spettacolare, soprattutto se si tiene conto delle condizioni di partenza, fu quella della Germania federale, dove i governi postbellici applicarono un modello di economia sociale di mercato che combinava un sistema avanzato di protezione sociale con un’ispirazione di fondo liberistica e produttivistica. Il prodotto nazionale tedesco crebbe negli anni ’50 al ritmo del 6% annuo; la disoccupazione fu quasi completamente riassorbita, il marco divenne la più forte fra le monete europee e la bilancia commerciale rimase sempre in attivo. Diversi furono i fattori alla base del “miracolo tedesco”: in primo luogo la stretta integrazione nel blocco occidentale. Gli Stati Uniti, infatti, intendevano fare della Repubblica federale non solo un bastione avanzato dello schieramento atlantico, ma anche una sorta di vetrina del benessere “capitalistico”, contrapposto al modello “spartano” dei paesi dell’Est: rinunciarono perciò alle riparazioni di guerra loro dovute e consentirono alla Repubblica federale di beneficiare degli aiuti del piano Marshall. Contribuì all’eccezionale ripresa tedesca anche la disponibilità di una numerosa manodopera fornita dai profughi (ai dodici milioni circa provenienti dai territori perduti a est se ne aggiunsero, nel decennio ’50-60, altri 3 milioni fuggiti dalla Germania comunista) e la notevole stabilità politica: una stabilità dovuta anche alla Costituzione del ’49 – varata sotto la tutela delle autorità di occupazione alleate – che, pur mantenendo la struttura federale e l’impianto parlamentare, prevedeva meccanismi atti a penalizzare i piccoli partiti e a evitare le troppo frequenti crisi parlamentari che avevano indebolito la Repubblica di Weimar.

Il “miracolo tedesco”

A guidare il nuovo Stato tedesco furono innanzitutto le forze di cooperazione cristiana, che avevano raccolto l’eredità del vecchio Partito del Centro. L’Unione cristiano-democratica (Cdu) e la sua branca bavarese, l’Unione crisitano-sociale (Csu) mantennero ininterrottamente fino al ’63 la guida del governo con Konrad Adenauer, per lo più in coalizione con il Partito liberale. Il Partito socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione costituzionale, abbandonando ufficialmente, nel congresso di Bad Godesberg del 1959, l’antica base teorica marxista, in favore di una piattaforma democratico-riformista. La Germania federale si ricandidava così a svolgere un ruolo di rilievo nello scacchiere europeo, puntando però questa volta su una prospettiva di collaborazione e di integrazione.

Le forze politiche nella Germania federale

La spinta all’integrazione

Del resto, gli Stati-nazione dell’Europa occidentale, per il fatto stesso di aver perduto la posizione centrale a suo tempo occupata nel mondo, di essere inseriti nella

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

stessa alleanza e retti da regimi parlamentari molto simili fra loro, vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità e crescere gli elementi di affinità reciproca (diverso era il caso della Gran Bretagna che continuava a privilegiare i legami col Commonwealth). L’ideale di un’Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della cooperazione economica fu fatto proprio, nell’immediato dopoguerra, da autorevoli uomini politici di diversi paesi: soprattutto cattolici come l’italiano De Gasperi, il tedesco Adenauer e il francese Robert Schuman. Favorevoli al processo di integrazione erano anche gli Stati Uniti, interessati soprattutto a inserire la Germania occidentale nel dispositivo militare del Patto atlantico. La prima tappa significativa di questo processo si ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), che aveva il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano ancora i settori chiave della grande industria continentale. Il successo della Ceca incoraggiò i governi dei paesi membri (Francia, Germania federale, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) a proseguire sulla strada dell’integrazione. Ma il progetto di una Comunità europea di difesa (Ced), ovvero di un’organizzazione militare integrata che avrebbe dovuto porre le premesse per una vera e propria comunità politica, fallì nel 1954 per il voto contrario del Parlamento francese.

La Ceca e la Ced

A questo punto, i governanti europei ripiegarono su un obiettivo più realistico: un accordo che consentisse la creazione di un’area di libero scambio e il coordinamento delle politiche economiche, predisponendo almeno le strutture di base per una futura integrazione politica. Nel marzo 1957 i sei paesi membri della Ceca giunsero così alla firma dei trattati di Roma, che istituivano la Comunità economica europea (Cee) e davano vita all’Euratom, un ente che aveva il compito di coordinare gli sforzi dei paesi membri per lo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare.

I trattati di Roma

Lo scopo primario della Cee era quello di creare un Mercato comune (Mec), mediante il graduale abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche industriali e agricole e l’intervento in favore delle aree depresse e dei settori in crisi. Organi principali della Cee erano la Commissione, organismo tecnico che aveva il compito di proporre i piani di intervento e di disporne l’attuazione; il Consiglio, formato da delegati dei governi dei paesi membri; la Corte di

La Cee

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La firma dei trattati di Roma nella sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio 25 marzo 1957 Al centro, quarto da destra, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer. Gli ultimi due a destra sono i rappresentanti dell’Italia: il presidente del Consiglio Antonio Segni e il ministro degli Esteri Gaetano Martino.

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giustizia, incaricata di dirimere le controversie fra Stato e Stato; il Parlamento europeo, con funzioni puramente consultive, composto inizialmente da rappresentanti dei Parlamenti nazionali, poi (dal ’79) eletto direttamente dai cittadini. Sul piano economico, il Mercato comune ottenne buoni risultati, dando un forte stimolo alle economie dei paesi associati. Sul piano politico, però, la spinta all’integrazione si esaurì nel giro di pochi anni. E le scelte più importanti continuarono a essere prerogativa dei governi e dei Parlamenti nazionali. Nel complesso, le democrazie europee mantennero in questo periodo una notevole stabilità delle istituzioni, nonostante le tensioni della guerra fredda. Fece eccezione la Francia, che già nell’immediato dopoguerra aveva vissuto una difficile fase costituente, conclusasi nel 1946 col varo di una Costituzione voluta soprattutto dai tre partiti di massa, al governo insieme fino al 1947: comunisti, socialisti della Sfio [►1_5] e cattolici del Movimento repubblicano popolare (Mrp), un nuovo partito di ispirazione democratico-cristiana. Il sistema politico della “Quarta Repubblica” non si differenziava molto da quello della Terza (nata dopo la caduta di Napoleone III e abbattuta nel 1940 dall’invasione tedesca [►11_3]), anzi ne accentuava i difetti, a cominciare dalla frammentazione politica e dalla conseguente instabilità dei governi di coalizione. Per questo il generale De Gaulle ne criticò le linee ispiratrici e si ritirò in orgoglioso isolamento.

La Quarta Repubblica in Francia

Già fragile di per sé, la Quarta Repubblica non resse alle tensioni provocate dalla smobilitazione dell’impero coloniale francese il cui mantenimento si rivelava sempre più insostenibile, ma il cui abbandono era osteggiato da forti correnti dell’opinione pubblica. Nel maggio ’58 giunse al culmine la crisi legata al problema algerino, con la minaccia di un colpo di Stato da parte dei coloni e dei militari di stanza ad Algeri, contrari a ogni ipotesi di trattativa con il movimento indipendentista [►13_6]. Nel pieno della crisi, con una procedura del tutto anomala, il generale De Gaulle, da anni lontano dalla politica, fu chiamato a formare un nuovo governo di coalizione. Il Parlamento concesse al governo poteri straordinari e avviò un processo di revisione costituzionale, come richiesto dal generale. La nuova Costituzione – con cui nasceva la Quinta Repubblica – si distingueva dalla precedente soprattutto per il rafforzamento delle prerogative del presidente della Repubblica, che diventava il

La crisi algerina e la nascita della Quinta Repubblica

Un negozio musulmano ad Algeri distrutto da un attentato dell’Oas 19 marzo 1962 Fondata a Madrid all’inizio del 1961, l’Oas (Organizzazione dell’esercito clandestino) riuniva estremisti fautori del mantenimento della presenza francese in Algeria: con numerosissimi attentati l’organizzazione tentò di opporsi alla via della decolonizzazione imboccata da De Gaulle anche dopo la firma degli accordi di Evian nel 1962. Proprio l’inutile violenza espressa dal gruppo (tra il maggio 1961 e il settembre 1962, l’Oas uccise 2400 algerini) ne segnò la fine, portando al suo scioglimento, all’arresto e alla fuga di molti dei suoi esponenti.

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vero capo dell’esecutivo. Il presidente – in un primo tempo eletto dal Parlamento, poi, dal ’62, direttamente dal popolo – aveva il potere di nominare il primo ministro (che doveva però ottenere anche la fiducia del Parlamento), di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni quando lo ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più importanti. La Costituzione stessa fu sottoposta a referendum e approvata, nel settembre ’58, dall’80% degli elettori. Eletto alla presidenza della Repubblica nel dicembre dello stesso anno, De Gaulle deluse le aspettative della destra colonialista che pure ne aveva accolto con favore il ritorno al potere: avviò alla sua logica soluzione l’affare algerino, riconobbe, con gli accordi di Evian del 1962, l’indipendenza all’ex colonia e stroncò i tentativi di sedizione da parte degli oppositori più radicali, che diedero vita a un gruppo clandestino armato (l’Oas, Organisation de l’Armée secrète).

Gli accordi di Evian

D’altra parte, obbedendo alla sua vocazione nazionalista, De Gaulle cercò di risollevare il prestigio internazionale del paese, facendosi promotore di una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e a proporla come guida di una futura Europa indipendente dai due blocchi. METODO DI STUDIO Il presidente volle dunque che la Francia si dotasse di una propria “forza d’urto”  a  Sottolinea per ogni sottoparagrafo la frase nucleare; ritirò nel ’66 le truppe francesi dall’organizzazione militare della Nato, che, a tuo avviso, ne spiega meglio il titolo e argopur senza mettere in discussione l’Alleanza atlantica; contestò la supremazia del menta oralmente la tua scelta.  b  Sottolinea con colori diversi i fattori che perdollaro nell’economia occidentale, proponendo il ritorno al sistema della convermisero la ripresa tedesca e le relative conseguenze. tibilità in oro; si oppose ai progetti di integrazione politica fra i paesi della Cee, che  c  Cerchia i nomi degli organi principali della non si accordavano col suo ideale di un’Europa egemonizzata dalla Francia; mise Cee e sottolinea le relative funzioni e/o scopi.  d  Spiega per iscritto i fattori che contribuirono il veto all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. Era una politica per al passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica in molti aspetti velleitaria, anche perché non sostenuta da un’adeguata base econoFrancia mettendo in rilievo le differenze fra le mica. Ma suscitò ugualmente vaste adesioni, a destra come a sinistra, e contribuì a due situazioni politiche. Descrivi quindi le scelte di De Gaulle in politica estera motivandole. rendere più solida la base di consenso su cui poggiava la Quinta Repubblica.

La politica di De Gaulle

L’INTEGRAZIONE ECONOMICA EUROPEA

1951

CECA: Comunità economica del carbone e dell’acciaio

1954

Fallisce il progetto della CED (Comunità europea di difesa)

1957

Firma del TRATTATO DI ROMA e istituzione della COMUNITÀ ECONOMICA EUROPEA (CEE)

Coordinamento della produzione e dei prezzi

Libera circolazione di uomini e capitali e coordinamento delle politiche economiche nelle aree depresse

Consiglio

Corte di giustizia

Parlamento europeo

Organismo tecnico che propone e dispone i piani di intervento

Formato dai delegati dei governi dei paesi membri

Dirime le contese internazionali

Funzione consultiva; dal 1979 eletto dai cittadini

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Commissione

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12_9 DISTENSIONE E CONFRONTO:

► Leggi anche:

GLI ANNI DI KENNEDY E KRUSCËV

La pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise, per le democrazie occidentali, con una stagione di crescita demografica, di innovazione tecnologica e di intenso sviluppo produttivo [►15_2]. Soprattutto nei primi anni ’60, questo quadro positivo contribuì ad alimentare un clima di diffuso ottimismo, fondato sulla speranza che il progresso economico potesse rendere meno aspro il confronto ideologico e militare e che la stessa contrapposizione fra i blocchi si trasferisse sul terreno della pacifica competizione economica. In realtà, al di là delle rappresentazioni convenzionali, il clima dei rapporti internazionali fu in questi anni piuttosto agitato. Non mancarono le crisi locali e la coesistenza si consolidò solo attraverso momenti di scontro, a tratti anche drammatico.

La stagione dell’ottimismo

►     Storia e Geografia Berlino e il suo Muro ►   Personaggi Martin Luther King e la lotta per i diritti civili, p. 626

Le speranze e le contraddizioni di questa stagione furono ben incarnate dalle figure dei due leader che si trovarono allora alla testa delle due superpotenze. Il segretario del Pcus Nikita Kruscëv e il presidente degli Stati Uniti, il democratico John Fitzgerald Kennedy, eletto nel novembre 1960, a 44 anni, e primo cattolico a entrare alla Casa Bianca [►FS, 104d]. Assistito da un nutrito gruppo di intellettuali, Kennedy suscitò immediatamente ampi consensi attorno alla sua persona, riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e Roosevelt e aggiornandola col riferimento a una “nuova frontiera”: una frontiera non più materiale come quella dei pionieri dell’800, ma spirituale, culturale e scientifica. In politica interna lo slancio riformatore kennediano si tradusse in un forte incremento della spesa pubblica, assorbito in parte dai programmi sociali e in parte dalle esplorazioni spaziali [►15_5], ma anche nel sostegno al movimento per i diritti civili dei neri guidato dal pastore Martin Luther King e alle sue battaglie per imporre l’integrazione in quegli Stati del Sud che ancora praticavano forme di discriminazione razziale.

Kennedy e la “nuova frontiera”

Il confronto televisivo Nixon-Kennedy 13 ottobre 1960 La campagna elettorale presidenziale statunitense che vide la vittoria di J.F. Kennedy fu la prima nella storia a proporre i candidati in un confronto televisivo. I quattro incontri-dibattito avvenuti fra Kennedy e il repubblicano Richard Nixon furono variamente interpretati come vittoriosi per l’uno o per l’altro; ma ciò che fu evidente da subito fu l’importanza per il pubblico a casa del portamento e dell’aspetto fisico dei due candidati, prima ancora che delle loro parole. Almeno nel primo incontro, Kennedy risultò meglio curato rispetto a Nixon, che apparve stanco, pallido e nervoso.

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

In politica estera, la presidenza Kennedy seguì una linea ambivalente, in cui l’enfasi sui temi della pace e della distensione con l’Est si univa a una sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute essenziali. Il primo incontro fra Kennedy e Kruscëv, avvenuto a Vienna nel giugno ’61 e dedicato al problema di Berlino Ovest (che gli americani consideravano parte della Germania federale, mentre i sovietici avrebbero voluto trasformarla in “città libera”), si risolse in un fallimento. I sovietici risposero con la costruzione di un muro che separava le due parti della città, chiudendo l’unico varco praticabile attraverso la cortina di ferro e rendendo pressoché impossibili le fughe, fino ad allora molto frequenti, dal settore orientale a quello occidentale [►FS, 103d]. Il Muro di Berlino sarebbe diventato da allora il simbolo più visibile della divisione della Germania – e dell’Europa e del mondo – secondo le linee già segnate dalla guerra fredda.

Il Muro di Berlino

La costruzione del Muro di Berlino 12-13 agosto 1961

EVENTI

La crisi dei missili

«W

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e all feared by daybreak it would be World War Number Three» («Noi tutti avevamo paura che all’alba ci sarebbe stata la Terza Guerra mondiale»). Così cantava Bob Dylan in Cuban Missile Crisis, canzone scritta in ricordo dei lunghissimi giorni (22-28 ottobre) del 1962 in cui il mondo intero si era trovato col fiato sospeso: la guerra fredda non era mai stata tanto aspra né la minaccia di una guerra nucleare – e la conseguente distruzione del pianeta – così vicina. Teatro della crisi internazionale fu Cuba, la grande isola dei Caraibi distante meno di 100 miglia dalle coste statunitensi. Dopo il fallimento dello sbarco americano presso la Baia dei porci (1961), gli scambi culturali, economici e politici tra l’Urss e Cuba – considerata il simbolo della nascente tendenza del socialismo ad affermarsi nel Terzo Mondo – si erano fatti sempre più frequenti. Avendo saputo che gli Usa avevano installato in Turchia e in Italia missili Jupiter a medio raggio rivolti verso i paesi socialisti, il leader sovietico Nikita Kruscëv decise a sua volta di installare segretamente dei missili con testate nucleari a Cuba. Kruscëv, nelle sue memorie, scrisse che «era tempo che l’America sapesse che effetto fa avere la propria terra e il proprio popolo minacciato». Più concretamente sperava di rafforzare la sua posizione in un eventuale negoziato con gli Stati Uniti per la riduzione concordata degli armamenti missilistici. Il 15 ottobre 1962 un aereo U2 statunitense

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che sorvolava periodicamente Cuba per carpire informazioni scattò delle fotografie che smentivano le continue rassicurazioni sovietiche sulla natura meramente difensiva delle dotazioni militari inviate a Cuba. Le immagini mostravano la costruzione di una base presso San Cristóbal, a Cuba, per il lancio di missili a testata nucleare del tipo terra-terra che avrebbero potuto raggiungere le zone interne statunitensi, uccidendo in pochi istanti 80 milioni di persone. All’interno del comitato di crisi organizzato dal presidente Kennedy per l’occasione, si scontrarono diverse posizioni: alcuni consiglieri chiedevano un intervento immediato contro Cuba, altri (tra cui il ministro della Difesa Robert McNamara) di limitarsi a un blocco navale, alla luce del fatto che questi missili non avrebbero mutato sensibilmente l’equilibrio strategico, che sarebbe rimasto a vantaggio degli Usa. La presenza dei missili, tuttavia, costituiva un problema politico e di prestigio, più che militare. Kennedy, temendo che la crisi potesse degenerare e diventare mondiale, optò per il blocco delle navi dirette a Cuba, che sarebbero state controllate dagli americani, mentre intanto esercito, aviazione e marina iniziavano la mobilitazione. La sera del 22 ottobre, in un discorso alla nazione trasmesso in televisione, Kennedy mostrò le foto delle installazioni missilistiche a Cuba e affermò che gli Usa non avrebbero tollerato né di essere ingannati né di essere minacciati dall’Urss, che erano pronti a

un’ulteriore azione militare e che qualunque attacco missilistico di Cuba verso qualsia­ si paese sarebbe stato considerato come un attacco dell’Urss contro gli Usa, che avrebbero reagito di conseguenza. Nonostante le minacce statunitensi, le navi sovietiche continuarono ad avvicinarsi all’isola. Intanto, ai reparti sovietici di stanza a Cuba, era stato ordinato di non usare le armi nucleari, anche in caso di invasione, senza un preventivo ordine da Mosca. Era in corso la crisi più difficile e pericolosa della guerra fredda: il mondo si trovò col fiato sospeso a seguire davanti alla televisione e alla radio l’evolversi degli eventi. Come ha ricordato Robert Kennedy, in quei giorni la preoccupazione più grande di suo fratello era quella «di fare un calcolo sbagliato, un errore di valutazione» che avrebbe condotto alla guerra: i due fratelli Kennedy pensavano che l’Urss non volesse un conflitto armato, ma il timore era che una delle due parti «facesse qualche passo che – per ragioni di “sicurezza” o di “orgoglio” o di “prestigio” – rendesse necessaria una risposta della parte avversa». Il blocco navale iniziò la mattina del 24 ottobre, mentre le navi sovietiche continuavano ad avanzare verso Cuba. Alle 10,25 di mattina, però, giunse a Kennedy la notizia che alcune navi sovietiche si erano fermate, mentre altre avevano invertito la rotta per tornare indietro. Tuttavia la situazione rimaneva tesa e sembrava lontana da una soluzione. Il 26 ottobre Kruscëv inviò una lettera a Kennedy in cui chiedeva agli Usa la garanzia che non avrebbero aggredito Cuba, ma sen-

Ma in questo periodo il confronto più drammatico fra le due superpotenze ebbe per oggetto l’isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro [►13_11]. La presenza di uno Stato ostile a meno di duecento chilometri dalle coste della Florida fu sentita negli Stati Uniti come una minaccia alla sicurezza del paese. Per questo, all’inizio della sua presidenza, Kennedy tentò di soffocare il regime cubano, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi di esuli anticastristi che tentarono, nell’aprile 1961, una spedizione armata nell’isola. Lo sbarco, che ebbe luogo in una località chiamata Baia dei porci e che, nei progetti americani, avrebbe dovuto suscitare un’insurrezione contro Castro, si risolse però in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per l’amministrazione Kennedy.

La tensione fra Cuba e gli Usa

Nella tensione così creatasi si inserì l’Unione Sovietica, che non solo offrì ai cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l’installazione nell’isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando, nell’ottobre 1962, le basi furono scoperte da aerei-spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. Per sette drammatici giorni (22-28 ottobre) il mondo fu vicino a un conflitto generale [►FS, 110]: mai l’incubo della guerra nucleare era apparso così concreto. Ma alla fine Kruscëv cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche. In cambio gli Stati Uniti si

La crisi dei missili

za accennare allo smantellamento dele rampe dei missili; scrisse, inoltre, che intenzione dell’Urss era solo quella di proteggere Cuba, garantendo il rispetto della volontà del suo popolo, e che i missili non sarebbero mai stati rivolti contro gli Usa. Il giorno successivo, il 27 ottobre, Kennedy ricevette però un’altra lettera da Kruscëv, in cui, con un tono molto meno conciliante, il premier sovietico dichiarava che l’Urss avrebbe ritirato i missili da Cuba solo se gli Usa avessero ritirato i loro missili Jupiter dalla Turchia. Kennedy era disposto a trattare su questo punto, ma non poteva far mostra di cedere alle minacce sovietiche. Iniziarono così quelle che Robert Kennedy definì come «le ventiquattr’ore più difficili della crisi». La situazione si aggravò ulteriormente poche ore dopo, quando un aereo statunitense fu abbattuto da un missile sovietico mentre sorvolava l’isola per scattare delle foto e il suo pilota morì. All’interno del comitato di crisi statunitense si pensò di sferrare un attacco contro Cuba per distruggere le rampe dei missili, ma Kennedy frenò il progetto. Deciso a evitare una guerra, ignorò la lettera di Kruscëv del 27 e rispose, in modo conciliante, a quella del 26, assicurando che gli Usa erano pronti a non aggredire Cuba se si fosse interrotta l’installazione dei missili e se l’Urss, sotto il controllo dell’Onu, avesse provveduto al loro smantellamento. Parallelamente, Robert Kennedy si recò a un incontro non ufficiale con l’ambasciatore sovietico Dobrynin, rassicurandolo privatamente sul fatto che gli Usa erano comunque intenzionati a togliere i missili dalla Turchia, anche se non potevano subire apertamen-

te la pressione sovietica. Questo impegno di Robert Kennedy rimase segreto (fu reso noto solo due decenni più tardi), ma convinse i sovietici a cedere, accettando il rischio di apparire sconfitti. Il 28 ottobre, con un nuovo messaggio, Kruscëv annunciò che avrebbe smantellato le rampe di lancio e ritirato i missili da Cuba: la crisi trovava, così, uno sbocco pacifico. Meno di un anno più tardi, il 5 agosto 1963, l’Urss, gli Usa e la Gran Bretagna firmarono l’Accordo sull’interdizione degli espe-

rimenti nucleari nell’atmosfera, nello spazio e sott’acqua: la minaccia di una catastrofe aveva portato le maggiori potenze mondiali a optare per una regolamentazione degli armamenti nucleari.

Una base missilistica sovietica a Cuba ripresa da un aereo di ricognizione americano ottobre 1962

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

impegnavano ad astenersi da azioni militari contro Cuba e a ritirare i loro missili nucleari dalle basi Nato in Turchia. Lo scontro mancato dell’ottobre 1962 riaprì la strada del dialogo fra le superpotenze. Nell’agosto del 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera (continuarono invece quelli sotterranei, meno pericolosi per le conseguenze sull’ambiente). Nello stesso periodo entrò in funzione una linea diretta di telescriventi (la linea rossa) fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra “per errore”.

Il dialogo Usa-Urss

Nell’ottobre del 1964 Kruscëv fu estromesso da tutte le sue cariche e sostituito da una nuova “direzione collegiale”. Pesarono nel suo siluramento le divisioni interne al gruppo dirigente. Ma pesò soprattutto il fallimento dell’incauta sfida lanciata al mondo occidentale dal leader sovietico, che era giunto a promettere al suo popolo il raggiungimento, nel giro di un decennio, di un livello di vita superiore a quello dei paesi capitalistici più sviluppati. Un anno prima era scomparso tragicamente l’altro protagonista della scena internazionale dei primi anni ’60. Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas, nel Texas, in un attentato di cui non si giunse mai a scoprire i mandanti: il primo di una serie di omicidi poMETODO DI STUDIO  a  Sottolinea, con colori diversi, le informazioni litici (nel ’68 furono uccisi Robert Kennedy, fratello di John e probabile candidato relative agli elementi fondamentali che definiscono i democratico alla presidenza, e Martin Luther King, leader del movimento antiseseguenti aspetti del governo Kennedy: a. la politica gregazionista) che contribuirono a imprimere un segno di inquietante violenza su sociale; b. i rapporti con l’Urss e la questione di Berlino; c. il significato degli eventi relativi alla Baia dei tutta una fase della storia degli Stati Uniti. A Kennedy subentrò – e fu poi rieletto Porci; d. la linea rossa; e. la morte di Kennedy. nel ’64 – il vicepresidente Lyndon Johnson, che riuscì a tradurre in atto e ad am b  Spiega per iscritto chi e per quali motivi pliare alcuni importanti progetti in materia di legislazione sociale e di diritti civili volle costruire il Muro di Berlino.  c  Descrivi sinteticamente il ruolo di Kruscëv nella avviati in epoca kennediana. Johnson finì però, come vedremo, col legare il suo politica che l’Urss adottò nei confronti degli Usa. nome soprattutto allo sfortunato impegno americano nella guerra del Vietnam.

La caduta di Kruscëv e la morte di Kennedy

12_10 NUOVE TENSIONI NEI DUE BLOCCHI: GUERRA DEL VIETNAM E CRISI CECOSLOVACCA Per oltre dieci anni – fra il 1964 e il 1975 – gli Stati Uniti furono coinvolti in una guerra, questa volta con dispiegamento di armi ed eserciti, nel lontano Vietnam. Un conflitto combattuto sempre nel nome della lotta contro il comunismo, che logorò la superpotenza americana eco­ nomicamente e militarmente, ne sfigurò l’immagine e ne divise profondamente l’opinione pubblica. Dopo il ritiro della Francia dalla penisola indocinese, gli accordi di Ginevra del ’54 [►13_3] avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh; e quella del Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato dagli Stati Uniti che cercavano

L’intervento americano in Vietnam

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Attacco aereo americano in Vietnam 8 giugno 1972 [foto di Huynh Cong “Nick” Ut] La guerra in Vietnam coinvolse pesantemente le popolazioni civili, soprattutto a causa dei bombardamenti americani sui villaggi sospettati di dare sostegno ai Vietcong. Nei bombardamenti fu largamente usato il napalm incendiario, una potentissima miscela altamente infiammabile che distrugge tutto ciò su cui si posa. L’8 giugno 1972 venne bombardato con il napalm, per errore, il villaggio di Trang Brang nel Sud del Vietnam. Questa foto, scattata dal fotografo Nick Ut, è diventata un simbolo degli orrori di quella guerra, ritrae dei bambini in fuga terrorizzati e ustionati.

U4 IL MONDO DIVISO

di sostituire la loro influenza al dominio francese. Contro il governo del Sud, inviso anche alla maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò un movimento di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nordvietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un’Indocina comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di “consiglieri militari” che, durante la presidenza Kennedy, si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30 mila uomini. Sotto la presidenza Johnson la presenza Usa in Vietnam compì un salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. Nell’estate del 1964, in risposta a un attacco subìto da due navi da guerra statunitensi nel Golfo del Tonchino, il presidente, con l’autorizzazione del Congresso, ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi militari nel Vietnam del Nord. In seguito i bombardamenti divennero sistematici, mentre crescevano continuamente le dimensioni del corpo di spedizione impegnato nel Sud, che giunse a contare, nel 1967, oltre mezzo milione di uomini. La continua dilatazione dell’impegno militare americano (l’escalation, ossia graduale intensificazione, come fu definita negli Stati Uniti) non fu però sufficiente a domare la lotta dei Vietcong, che godevano di vasti appoggi fra le masse contadine, né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita che, aiutata da Russia e Cina, continuò ad alimentare la guerriglia con armi e uomini. Di fronte a un nemico inafferrabile, l’esercito statunitense entrò in una profonda crisi, originata non solo da fattori tecnici (le difficoltà di un esercito moderno, addestrato alla guerra meccanizzata, nell’affrontare una guerriglia partigiana), ma anche da un crescente disagio morale.

L’escalation militare

Negli Stati Uniti, infatti, il conflitto vietnamita – le cui immagini venivano quotidianamente diffuse dalla televisione e le cui vicende erano oggetto di un acceso dibattito – apparve ai settori più progressisti dell’opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta (una “sporca guerra”), contraria alle tradizioni della democrazia americana. Vi furono imponenti manifestazioni di protesta (che spesso si intrecciavano con la mobilitazione dei neri sulla questione razziale) e molti giovani in età di leva rifiutarono di indossare la divisa. Anche fuori dagli Usa le ripercussioni furono vastissime. Per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo le vicende vietnamite dimostravano che la più grande macchina militare poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo.

La protesta contro la guerra

All’inizio del ’68, i Vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una grande offensiva che, pur non ottenendo risultati decisivi, mostrò tutta la vitalità della guerriglia. In marzo Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord e annunciò contemporaneamente la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di quell’anno. Il suo successore, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con i rappresentanti del Vietcong, e ridusse progressivamente l’impegno militare americano. Ma nel contempo allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia, dove pure erano attivi movimenti di guerriglia comunisti, nel tentativo di tagliare ai Vietcong le vie di rifornimento.

I successi dei Vietcong

Un veterano del Vietnam a una manifestazione pacifista, Valley Forge, Pennsylvania 1970 Durante la campagna del Vietnam il governo degli Stati Uniti dovette fronteggiare un forte dissenso interno: le proteste contro la guerra si moltiplicarono, trovando larga eco fra i giovani universitari.

539

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

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Le zone controllate dai BinhVietcong CAMerano distribuite a “pelle Dinh di BOG leopardo”. Rifornimenti e IA

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infiltrazioni di uomini giungevano dal Nord lungo il “sentiero di Ho Chi-minh” e dal Sud attraverso la Cambogia. Fra il gennaio VIETNAM 1973 e l’aprile 1975 i Vietcong DEL SUD estesero il loro controllo su tutto il Saigon Vietnam del Sud. Il 30 aprile con la conquista di Saigon terminava la guerra.

MAR CINESE MERIDIONALE

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30_I CONFLITTI IN INDOCINA, 1972-75

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VIETNAM DEL SUD Saigon

LA GUERRA DEL VIETNAM territori controllati dal Pathet Lao, giugno 1972 territori controllati dal Pathet Lao, giugno 1975 territori occupati dai Vietcong, gennaio 1973 territori occupati dai Vietcong, 30 aprile 1975 territori occupati dai khmer rossi, luglio 1973 territori occupati dai khmer rossi, maggio 1975 linee di rifornimento dei Vietcong

GUERRA DEL VIETNAM Solo nelLAgennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armiterritori controllati stizio che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi. Dopo l’inizio del dal Pathet Lao, giugno 1972 ritiro americano, la guerra continuò per oltre due anni: fino a quando, il 30 aprile territori controllati dal Pathet Lao,truppe giugno 1975 1975, i Vietcong e le nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, territori occupati mentre i membri del governo, assieme ultimi dai Vietcong,agli gennaio 1973 consiglieri e al personale dell’ambasciata Usa, abbandonavano precipitosamente la città. territori occupatiPochi giorni prima, i guerriglieri comunisti cambogiani dai Vietcong, 30 aprile 1975 ­(khmer rossi) avevano conquistato Phnom Penh, capitale della Cambogia, cacciandone il governo territori occupati filoamericano. Tre mesi dopo (agosto Laos a cadere nella mani dei partigiani del Pathet Lao. dai khmer’75) rossi,era luglioil1973 territori comunista. occupati Tutta l’Indocina era così diventata Gli Stati Uniti, che avevano combattuto proprio per khmer rossi, maggio 1975 impedire questo esito, dovetterodairegistrare la prima grave sconfitta di tutta la loro storia.

La sconfitta degli Usa e l’Indocina comunista

linee di rifornimento dei Vietcong

Mentre la superpotenza americana si logorava nell’avventura vietnamita, l’Unione Sovietica doveva ancora una volta confrontarsi con le inquietudini dei paesi satelliti dell’Europa orientale. Il gruppo dirigente salito al potere dopo l’allontanamento di Kruscëv, guidato dal nuovo segretario del Pcus Leonid Brezˇnev, accentuò, pur senza mai raggiungere i livelli di brutalità dell’era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì in particolare gli intellettuali. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi margini di autonomia, ma i risultati non furono brillanti e l’Urss vide in questo periodo accentuarsi il suo distacco rispetto ai paesi occidentali. In politica estera, la linea della coesistenza con l’Occidente non fu mai messa in discussione, ma si accompagnò a una più decisa politica di riarmo che assorbì quote crescenti del bilancio, a scapito del tenore di vita dei cittadini. E soprattutto fu ribadito con i fatti il vincolo di subordinazione che doveva legare allo Stato-guida i paesi satelliti dell’Europa orientale: solo la Romania, sotto la guida di Nicolae Ceaus¸escu, riuscì a conquistare una certa autonomia, sia sul piano delle scelte economiche sia su quello della politica internazionale, ma senza mettere in 540

L’Urss di Brezˇnev

U4 IL MONDO DIVISO

discussione le strutture interne del regime. I dirigenti sovietici si mostrarono invece intransigenti nei confronti del più ampio e interessante esperimento di liberalizzazione mai tentato fino ad allora in un paese del blocco sovietico: quello avviato in Cecoslovacchia all’inizio del ’68 e culminato nella cosiddetta primavera di Praga. Nel gennaio 1968 salì alla segreteria del Partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubček, leader dell’ala innovatrice. Premuto da un’opinione pubblica in fermento, appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e dagli stessi operai, Dubček varò un programma che cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico e soprattutto politico (compresa la presenza di diversi partiti) e con la più ampia libertà di stampa e di opinione. Fra la primavera e l’estate del ’68, la Cecoslovacchia visse dunque una stagione di radicale rinnovamento politico e di grande fermento intellettuale, che parve dar corpo all’ideale di un “socialismo dal volto umano”. A differenza del moto ungherese del ’56, l’esperienza cecoslovacca del ’68 fu sempre controllata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico. E tuttavia fu sentita come una minaccia intollerabile dal gruppo dirigente sovietico, preoccupato dagli effetti di contagio che quel processo avrebbe potuto avere sugli altri Stati del blocco orientale.

La “primavera di Praga”

Il 21 agosto 1968, reparti corazzati dell’Urss e di altri paesi del Patto di Varsavia occuparono Praga e il resto del paese. Non vi fu in questo caso una reazione armata, ma solo una efficace resistenza passiva contro gli ocMETODO DI STUDIO cupanti, mentre un congresso clandestino del partito tenuto  a  Realizza sul tuo quaderno una tabella a due in una fabbrica di Praga confermava nel loro ruolo i dirigenti riformisti, vanificando colonne: una per il Vietnam del Nord e l’altra per il tentativo sovietico di insediare un nuovo gruppo dirigente. Ma fu un successo di il Vietnam del Sud. Quindi inserisci nelle relative colonne le informazioni che riguardano i due Stati breve durata: costretti in un primo tempo a mantenere i loro incarichi sotto il condurante la guerra e indica fra parentesi la data di trollo delle forze di occupazione, gli uomini della “primavera di Praga” furono ogni evento individuato. progressivamente emarginati, costretti a emigrare o a cercarsi un lavoro manuale,  b Spiega per iscritto in cosa è consistita la e sostituiti con elementi fidati. Con la rimozione di Dubček, che fu sostituito alla “primavera di Praga”, come è terminata e quali eventi ne hanno determinato gli esiti. guida del partito da Gustav Husák, cominciò la fase della “normalizzazione” e si chiuse ogni residuo spazio di libertà.

L’intervento sovietico e la “normalizzazione”

12_11 LA CINA DI MAO ZEDONG Mentre l’Unione Sovietica doveva tenere insieme con la forza (e con grave danno di immagine) il suo “impero” europeo, la seconda potenza comunista, la Cina di Mao Zedong, accentuava i tratti radicali del suo regime e si proponeva, in concorrenza con l’Urss, come guida e modello per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, in particolare per quelli dei paesi che si stavano emancipando dal dominio coloniale. Mentre l’Urss si proponeva come garante di un ordine mondiale “bipolare”, la Cina di Mao Zedong tendeva a

La sfida cinese

Giovani cinesi inneggiano a Mao mostrando la sua foto sulla prima pagina del Libretto rosso  Pubblicato nel 1966 e subito tradotto in numerosissime lingue, il Libretto rosso raccoglie citazioni tratte dagli scritti e dai discorsi di Mao. Lo studio del libretto viene imposto in Cina negli anni della “rivoluzione culturale” in tutte le scuole, ma anche nei luoghi di lavoro e nell’esercito. Il nome con cui ancora oggi è universalmente conosciuto gli venne dato in Occidente per il formato piccolo (entra nel taschino della tipica giacca cinese) e per il colore della copertina.

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

contestare lo status quo internazionale, ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, a proporsi come guida dei paesi in via di sviluppo in lotta contro l’imperialismo. Mentre l’Urss intendeva mantener fermo il suo ruolo di Stato-guida e di unica superpotenza del campo socialista, la Cina rivendicava maggior peso sulla scena internazionale e maggior voce in capitolo sulle questioni di interesse comune. Mentre in Urss la destalinizzazione diede luogo a una sia pur timida apertura in senso “liberale”, in Cina si assisté nello stesso periodo a una accentuazione dei tratti radicali e collettivistici del regime nato dalla rivoluzione del ’49. L’esperimento maoista si sarebbe risolto in una colossale tragedia umana, economica e politica. Ma, come era avvenuto per quello sovietico degli anni ’30, il “modello cinese” esercitò un notevole fascino su molti intellettuali e sui gruppi di estrema sinistra che si andavano formando in Occidente. Nel corso degli anni ’50 il regime comunista aveva nazionalizzato i settori industriale e commerciale e aveva compiuto uno sforzo notevole per dotarsi di una propria industria pesante, giovandosi dell’aiuto di tecnici sovietici. Nel settore agricolo (dove erano occupati oltre tre quarti della popolazione) aveva dapprima, con la riforma agraria del 1950, distribuito le terre fra i contadini, creando così una miriade di piccole aziende agricole. Quindi aveva obbligato le aziende familiari a riunirsi in cooperative, controllate dalle autorità statali. Mentre nel settore industriale si era ottenuta, partendo quasi da zero, una crescita molto rapida (con ritmi di poco inferiori al 20% annuo), molto meno soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l’onere di sfamare una popolazione in continuo aumento (poco più di mezzo miliardo nel ’49, quasi 600 milioni cinque anni dopo).

Industrializzazione e collettivizzazione

Per accelerare il rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu definita del “grande balzo in avanti”. Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le comuni popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all’autosufficienza economica, producendo in proprio quanto le era necessario (dunque anche le macchine e, in qualche caso, persino l’acciaio). L’intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto e mobilitata con una martellante campagna propagandistica. I risultati furono però fallimentari: la produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia (stime recenti parlano di 30 milioni di morti) e costringendo la Cina a massicce importazioni di cereali.

Le comuni popolari

Un’altra conseguenza di queste scelte politiche fu quella di far precipitare i rapporti con l’Urss. I sovietici, infatti, criticarono aspramente la strategia del “grande balzo in avanti” e, fra il ’59 e il ’60, richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo alla già provata economia cinese. Contemporaneamente, l’Urss rifiutò di fornire qualsia­ si assistenza nel campo nucleare (il che non avrebbe impedito alla Cina di far esplodere, nel ’64, la sua prima bomba atomica), motivando il rifiuto con l’“avventurismo” dei dirigenti cinesi. Questi replicarono accusando l’Urss di “revisionismo” e di acquiescenza all’imperialismo; e, in un crescendo di scambi polemici, giunsero a rimettere in discussione i confini fra Cina e Russia definiti nel ’600. Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati lungo il fiume Ussuri, ai confini fra la Siberia e la Manciuria.

La rottura con l’Urss

Il fallimento del “grande balzo in avanti” diede spazio, all’interno del gruppo dirigente comunista, alle componenti meno ostili all’Urss, rappresentate soprattutto dal presidente della Repubblica Liu Shao-chi. Non disponendo di un controllo dell’apparato tale da consentirgli una rapida epurazione dei suoi avversari, Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno dell’esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, si appellò ai giovani, esortandoli a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la “via capitalistica”. Si scatenò così una rivolta generazionale apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall’alto, che, richiamandosi all’“autentico” pensiero di Mao, contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro, nel partito e negli organi di governo locale, gruppi di giovani guardie rosse, in maggioranza studenti, mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e

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La rivoluzione culturale

U4 IL MONDO DIVISO

funzionari: molti di questi furono internati in “campi di rieducazione” e sottoposti a torture fisiche e psicologiche, alle quali spesso non sopravvissero. L’intento era quello di promuovere un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva (da qui il nome di “rivoluzione culturale”) e di superare in questo modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del comunismo. Anche in paesi di propaganda Critichiamo il tempo passato molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa occidenta- Manifesto e costruiamo un tempo nuovo grazie a Mao le, si formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati all’e- 1966 [Istituto Internazionale di Storia Sociale, Amsterdam] sempio delle guardie rosse e al pensiero di Mao. La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni: quanti furono necessari per eliminare i dirigenti contrari alla linea maoista. A partire dal ’68, lo stesso Mao Zedong cominciò a porre un freno al movimento da lui suscitato, che – al di là dei suoi pesantissimi costi umani (almeno un milione di morti) – stava provocando profonde spaccature nella base comunista e rischiava di gettare nel caos l’economia. Le guardie rosse furono allontanate dalle città. I leader più radicali furono emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da Chou En-lai, il più autorevole dopo Mao fra i capi comunisti cinesi, che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo ministro e che rappresentò, anche negli anni più agitati, la continuità del potere istituzionale.

Il ritorno all’ordine

Fu Chou En-lai ad avviare, all’inizio degli anni ’70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall’isolamento economico e diplomatico in cui il paese si trovava. Dal momento che i rapporti con l’Urss restavano pessimi, la nuova linea si tradusse in una clamorosa apertura agli Stati Uniti, sancita, nell’estate ’72, da un viaggio del presidente americano Richard Nixon a Pechino e dall’ammissione all’Onu della Cina comunista, che prese il posto occupato fino ad allora dalla Repubblica “nazionalista” di Chiang Kai-shek [►12_5]. Nell’autunno 1971 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale e successore designato di Mao, scomparve in un incidente aereo e fu successivamente accusato di aver tentato di fuggire in Urss dopo un fallito complotto antimaoista. Con questo misterioso episodio, il periodo della rivoluzione culturale si chiudeva definitivamente. Cominciava una fase di transizione destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e di Chou En-lai (scomparsi entrambi nel 1976), in un radicale mutamento di rotta anche sul piano interno.

La svolta in politica estera

METODO DI STUDIO

 a  Cerchia con colori diversi i settori produttivi della Cina degli anni ’50 e sottolineane le relative caratteristiche.  b  Sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze del “grande balzo in avanti”.  c  Spiega per iscritto in cosa consistette la “rivoluzione culturale”, quali furono gli obiettivi e quali gli esiti.

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

LABORATORIO DI CITTADINANZA I CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ E LA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE

F

ino al XIX secolo la responsabilità dei crimini internazionali era conferita agli Stati; solo nel XX essa cominciò a essere attribuita agli individui, parallelamente al riconoscimento dei diritti umani, ovvero quei diritti inerenti all’uomo e alla sua dignità che sono quindi inviolabili e non possono essere negati o violati neanche dallo Stato (per esempio, il diritto alla libertà personale, alla vita e all’integrità fisica, all’uguaglianza, al giusto processo). Durante la prima guerra mondiale, nel 1915, le potenze alleate indirizzarono al governo turco una dichiarazione con cui lo accusava-

no di aver compiuto crimini contro l’umanità e affermavano che i membri del governo ottomano sarebbero stati ritenuti personalmente responsabili dello sterminio del popolo ar­ meno [►4_7]. Nel 1919 l’articolo 227 del trattato di Versailles metteva sotto accusa l’ex imperatore tedesco Guglielmo II «per crimine supremo contro la morale internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati». Egli avrebbe dovuto essere giudicato da un apposito tribunale, composto da giudici nominati dalle potenze vincitrici; quel tribunale, però, non fu istituito a causa del rifiuto dei Paesi Bassi di estradare Guglielmo II. Negli anni

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Una seduta del processo di Norimberga 23 dicembre 1945 [foto di Raymond D’Addario; NARA, College Park, Maryland (Usa)]

U4 IL MONDO DIVISO

seguenti, nessuno dei progetti presentati presso la Società delle Nazioni per la creazione di una corte internazionale di giustizia penale andò a buon fine. Con la seconda guerra mondiale si affermò il convincimento che il crimine internazionale fosse un atto di cui doveva rispondere penalmente l’individuo. Nel 1945 le potenze vincitrici istituirono il Tri­ bunale militare internazionale di Norimber­ ga, e nel 1946 lo stato maggiore delle forze armate americane creò il Tribunale  militare internazionale per l’Estremo Oriente: essi dovevano giudicare i crimini contro la pace (o di aggressione), i crimini di guerra e contro l’umanità rispettivamente dei capi nazisti e dei dirigenti giapponesi [►12_1]. La guerra di aggressione cominciò così ad essere considerata illecita, mentre furono definiti, oltre ai

Nella foto, il grafico sul muro presentato dal pubblico ministero illustra l’organizzazione della Gestapo comandata da Ernst Kaltenbrunner, imputato al processo.

crimini di guerra (assassinii, maltrattamenti e deportazioni compiuti contro civili o prigionieri nemici e saccheggi e devastazioni non giustificati da necessità militari), i crimini contro l’umanità. Secondo il Tribunale di Norimberga sono crimini contro l’umanità «assassinio, sterminio, schiavizzazione, deportazione e altri atti inumani commessi ai danni di ogni popolazione civile, prima o durante la guerra, o persecuzioni su base politica, razziale o religiosa». Questi tribunali furono da più parti considerati illegittimi, perché creati dopo che erano stati commessi i crimini da giudicare: essi avrebbero contravvenuto, quindi, al principio di irretroattività, secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto come reato dalla legge. Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si trattava di reati di diritto comune già previsti dalle legislazioni dei rispettivi paesi: i relativi processi non erano quindi configurabili come casi di “giustizia retroattiva”. Con le risoluzioni 95 (I) e 96 (I) dell’11 dicembre 1946, l’Assemblea generale del­ l’Onu [►12_1] confermò i princìpi di diritto riconosciuti dai Tribunali militari internazionali. Con la risoluzione del 9 dicembre 1948 fu poi approvata la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di ge­ nocidio [►PAROLE DELLA STORIA, p. 406], cioè di qualsiasi atto commesso «con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale». Nel 1949 la comunità internazionale sottoscrisse le quattro Convenzioni

di Ginevra, che contenevano norme sulla conduzione dei conflitti e sul trattamento delle persone venute a trovarsi sotto il potere del nemico: norme il cui mancato rispetto può configurarsi come un crimine di guerra. Nel 1947 l’Assemblea generale dell’Onu aveva inoltre incaricato una apposita commissione di elaborare il progetto di un tribunale in­ ternazionale permanente e di un codice di crimini che esso avrebbe dovuto giudicare. A causa del mancato accordo sulla definizione dei crimini di “aggressione”, però, i lavori sul codice restarono a lungo sospesi. Negli anni ’90 il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituì dei tribunali penali internazionali ad hoc per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (maggio 1993) [►17_5] e per quelli commessi in Ruanda (novembre 1994) [►22_7]. Anche questi, tuttavia, contravvenivano al principio di irretroattività: il Tribunale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aja, infatti, prendeva in considerazione i crimini commessi dal 1° gennaio 1991, quello per il Ruanda, con sede ad Arusha (Tanzania), i delitti commessi dal 1° gennaio 1994. Entrambi dovevano giudicare i crimini di guerra, quelli di genocidio e quelli contro l’umanità: fra gli imputati presso il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia c’era, ad esempio, l’ex presidente serbo Slobodan Milošević che sarebbe morto in carcere nel 2006. Nel 1998, a Roma, fu approvato a larga maggioranza dall’Assemblea generale (fra i contrari Cina, India, Stati Uniti e Turchia) lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi; oppure International Criminal Court,

Icc), con sede all’Aja: la sua competenza temporale, irretroattiva, è iniziata il 1° luglio 2002. La giurisdizione della Corte è com­ plementare a quella degli Stati e si attiva solo quando essi non vogliono o non possono perseguire un crimine. La Cpi ha competenza penale sui crimini di guerra (compresi quelli verificatisi nei conflitti interni e nelle guerre civili su larga scala), su quelli di genocidio e contro l’umanità e sulle gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra. Questi crimini, considerati imprescrittibili, per essere giudicati dalla Cpi devono essere attribuibili a una persona, che si tratti di un leader o di un semplice esecutore di ordini. La massima pena prevista è l’ergastolo. I “crimini contro l’umanità” contemplati nello Statuto di Roma comprendono un gran numero di atti «nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco»: dall’omicidio alla riduzione in schiavitù; dalla deportazione alla tortura e allo stupro. Nel 2009, infine, è stato introdotto il crimine di “aggressione”, che comprende «la pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che, per il suo carattere, gravità e portata, costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite»: l’esatta definizione di questo crimine suscitò tuttavia molte discussioni fra gli stessi paesi che avevano aderito allo Statuto di Roma: nel 2017 solo una trentina di Stati avevano ratificato le relative norme.

I CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ NELLA STORIA CONTEMPORANEA 1 Completa la tabella sui principali crimini contro l’umanità commessi nel corso del XX secolo, inserendo le informazioni

richieste (quelle che non sono contenute nella scheda, reperiscile in Rete). L’esercizio è già avviato.

Periodo storico

Tipologia di crimine

Responsabile

Tribunale giudicante

Esito

XIX secolo

Crimini internazionali

Gli Stati

//

//

...................................... • ................................................ • ................................................ Corte internazionale di giustizia • ................................................ • ................................................ penale

Il tribunale non sarà mai istituito

...................................... • ................................................ • ................................................ • ................................................ ................................................... • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................ ...................................... • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................ • ................................................

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

2 Rispondi ora alle domande:

a. Perché la seconda guerra mondiale ha rappresentato una svolta nel campo del diritto penale internazionale? b. In che misura il “principio di irretroattività’’ ha inciso sugli esiti dei processi post seconda guerra mondiale e su quelli degli anni ’90? c. In che anno è stata istituita la Corte penale internazionale? d. La giurisdizione della Corte penale internazionale in quale relazione si trova con quella degli Stati? In quali situazioni si eccepisce? LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE 3 Una delle principali funzioni dell’Onu, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, consiste nel giudicare i crimini di guerra.

A tale scopo è stata istituita la Corte penale internazionale, che giudica il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, i crimini di aggressione.

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a. Fornisci una definizione per ciascuno dei crimini di portata internazionale. b. Lancia una ricerca in Rete e reperisci informazioni sulla composizione della Corte penale internazionale.

U4 IL MONDO DIVISO

ARTE E TERRITORIO L’ARTE NELL’ERA ATOMICA

N

ell’aprile del 1946, William Laurence, un editorialista del più prestigioso giornale americano, il «New York Times», aveva posto la domanda che avrebbe impegnato gli uomini e le donne per tutto il secondo dopoguerra: «L’energia atomica è la chiave per i nostri sogni?». Nell’articolo si spiegava che la possibilità di utilizzare la fissione atomica rappresentava per l’uomo la più grande occasione per dominare il suo ambiente materiale, per conquistare lo spazio e il tempo, la malat­ tia e la vecchiaia. Laurence si spinse anche oltre, sostenendo che l’umanità si trovava nelle stesse condizioni di Mosè al primo sguardo verso la terra che Dio gli aveva promesso. Altri giornalisti e commentatori sembrarono seguire lo stesso orientamento, accompagnando così i programmi energetici dei governi. Il conferimento, nel 1951, del premio Nobel per la Fisica a John Douglas Cockcroft (1897-1967) ed Ernest Wal­ ton (1903-1995), che avevano progettato l’acceleratore di particelle a cui si deve lo sviluppo delle tecnologie per lo sfruttamen­ to dell’energia nucleare, fu un ulteriore segnale all’opinione pubblica mondiale che era iniziata quella che ormai tutti i giornali chiamavano l’“era atomica”. Era impossibile che l’arte non reagisse a queste sollecitazioni. Del resto, speranze e paure nei confronti del nucleare, non erano oggetto solo del dibattito sui giornali, ma erano diventate parte integrante della cultura e della sensibilità delle masse. Se le novità venivano accolte generalmente come positive, infatti, le bombe dell’estate del 1945 su Hiroshima e Nagasaki avevano pure messo in guardia sui pericoli che l’era atomica aveva aperto per l’umanità, anche in ragione del clima di tensione degli anni della guerra fredda. Il contributo offerto dagli artisti non risolse i dubbi con cui gli uomini e le donne del tempo guardavano al nucleare, ma finì per rifletterli, dando loro una rappresentazione grafica. In primo luogo, molti pittori furono così impressionati dall’idea stessa di poter dominare la natura così in profondità da poterne controllare i suoi elementi più nascosti, gli atomi appunto, da pensare che anche l’arte dovesse scendere a quel livello. Bi-

sognava abbandonare le rappresentazioni della realtà come appare all’occhio umano, per cercare di dare conto di una visione più immateriale: si potevano dipingere sulla tela colori e forme astratte perché lo scopo dell’artista era ora dipingere l’essenza ato­ mica. Rifacendosi ad artisti dell’astrattismo internazionale come Yves Klein (1928-1962), famoso per le sue tele monocrome e le sue performance dal vivo, alcuni pittori italiani come Enrico Baj (1924-2003) e Sergio Dangelo (1932) scrissero il Manifesto tecnico della Pittura nucleare (1951). Vi si leggeva: «I nucleari [...] vogliono reinventare la pittura disintegrandone le forme tradizionali.

Nuove forme dell’uomo possono essere trovate nell’universo dell’atomo e nelle sue cariche elettriche. Non siamo in possesso della verità che può essere trovata solo nell’atomo. Siamo coloro che documentano la ricerca di questa verità [...]. La forza di gravità non appesantirà più le nostre menti e non ci riporterà a terra perché è stata sconfitta dall’arte nucleare, un supercarburante atomico per i nostri voli interplanetari». L’obiettivo non era quindi dare una rappresentazione

Yves Klein, Accordo blu 1960 [Museo Stedelijk, Amsterdam; © Succession Yves Klein, by SIAE 2018]

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

co e uranico melanconico (1945). La scena del bombardamento è trasfigurata attraverso immagini fantastiche ma ugualmente spaventose: sul cielo che si intravede in alto a destra si stagliano degli elefanti dalle zampe sottili, che dovevano rappresentare gli aerei che sganciarono le bombe, uno dei quali è pure rappresentato nella sagoma al centro del quadro. Tutte le figure e soprattutto quelle umane sembrano liquefarsi, perdono consistenza per fondersi nell’esplosione atomica. Una di esse, sulla destra e sotto il cielo, prima di perdere del tutto i connotati sembra affondare in un urlo di dolore.

PISTE DI LAVORO

Salvador Dalí, Idillio atomico e uranico melanconico 1945 [Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid; © Salvador Dalí, Gala-Salvador Dalí Foundation, by SIAE 2018]

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artistica della verità della fisica nucleare, ma prendere lo slancio dalle sue scoperte per immaginare nuovi mondi astratti, immaginari. Il movimento italiano rivaleggiava con un altro grande protagonista della scena artistica internazionale di quegli anni: Salvador Dalí (1904-1989). Questo pittore spagnolo si era avvicinato negli anni a tutte le avanguardie più importanti del ’900, dal futurismo al cubismo. Dopo la seconda guerra mondiale, i suoi interessi si spostarono così tanto verso la fisica che alcuni pittori “nucleari”

U4 IL MONDO DIVISO

italiani trovarono opportuno denunciarlo per plagio delle loro idee. In realtà, la riflessione di Dalí su questi temi risaliva allo sconcerto per la catastrofe che aveva colpito Hiroshima e Nagasaki, come avrebbe ricordato in seguito lui stesso: «L’esplosione atomica del 6 agosto 1945 mi ha provocato un brivido sismico. Da quel momento l’atomo è diventato il cibo preferito per la mia mente. Molti dei paesaggi dipinti in quel periodo manifestano la paura che ho provato alla notizia della deflagrazione». La prima tela che Dalí dedicò alla tragedia fu Idillio Atomi-

a Come definiresti il registro linguistico della dichiarazione di W. Laurence sul nucleare? Come esso si giustifica? b Qual è la posizione del mondo dell’arte rispetto al nucleare? c Realizza due schede divulgative sulla corrente artistica dell’astrattismo internazionale e sul pittore Yves Klein. Vai su Google, lancia la ricerca sull’astrattismo internazionale e su Klein, scegli un sito affidabile, raccogli le informazioni e redigi le due schede, non superando per ciascuna di esse le 50/60 parole. d Redigi due piccoli profili biografici dei pittori nucleari Enrico Baj e Sergio Dangelo. Vai su Google, digita i nomi dei due artisti nella maschera di ricerca, scegli un sito affidabile, leggi la loro biografia e redigi i testi, cercando di non superare le 50/60 parole. Ti consigliamo di consultare l’Enciclopedia online della Treccani. e Quali sono le parole chiave del Manifesto tecnico della Pittura nucleare? Ti ricorda qualche altro Manifesto artistico o letterario? f Perché i pittori nucleari italiani denunciano Salvador Dalí? Quale giustificazione il pittore spagnolo adduce a sua difesa?

SINTESI

12_1 LA NASCITA DELL’ONU Di fronte all’orrore della guerra, al cui bilancio di vittime si aggiungeva il doppio trauma del genocidio degli ebrei e dell’esplosione della bomba atomica, la comunità internazionale rispose con una serie di iniziative volte a evitare nuovi conflitti. Nella primavera del 1945, nacque l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), con l’obiettivo di salvaguardare la pace internazionale e promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli. Successivamente furono tenuti i processi di Norimberga (1945-46) contro i capi nazisti, e di Tokyo (1946-48) contro i dirigenti giapponesi. La rifondazione dei rapporti internazionali si estese anche al campo economico e commerciale. Con gli accordi di Bretton Woods (1944) furono creati il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. L’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt, 1947) portò a un abbassamento generalizzato dei dazi doganali.

12_2 I NUOVI EQUILIBRI MONDIALI La seconda guerra mondiale segnò un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali: sancì la perdita della centralità delle antiche grandi potenze europee e l’emergere di due superpotenze, Usa e Urss. Dopo aver combattuto contro le potenze fasciste, la “grande alleanza” fra le potenze vincitrici entrò definitivamente in crisi dopo la

morte di Roosevelt e l’avvento di Truman alla presidenza degli Usa. I contrasti fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica erano relativi al futuro della Germania e al controllo dell’Urss sui paesi dell’Europa orientale occupati dall’Armata rossa. Nel ’46-47 tali contrasti si accentuarono dando inizio a quella contrapposizione tra due blocchi – il blocco “occidentale” sotto l’egemonia Usa e quello “orientale” guidato dall’Urss – definita “guerra fredda”. Il deterrente nucleare impedì di fatto che la guerra fredda esplodesse in un vero e proprio conflitto armato diretto tra le due superpotenze.

12_3 RICOSTRUZIONE E RIFORME L’influenza degli Stati Uniti sull’Europa occidentale assunse anche le forme di una egemonia culturale. Sul piano pratico, gli Usa lanciarono un programma di aiuti economici detto “piano Marshall”, che favorì la ricostruzione e la ripresa delle economie dell’Europa occidentale. Il processo di ricostruzione si accompagnò a una forte spinta verso le riforme sociali. Il caso più emblematico fu quello della Gran Bretagna, dove nel ’45-51 i laburisti attuarono un vasto programma di interventi pubblici in campo fiscale e assistenziale che segnava la nascita del Welfare State.

scelta i paesi dell’Europa orientale, ai quali fu anche imposto, nella seconda metà degli anni ’40, il modello politico ed economico sovietico: tutti questi Stati (le cosiddette “democrazie popolari”) furono trasformati in “satelliti” dell’Urss. Un’eccezione fu la Jugoslavia di Tito, la cui autonomia portò nel ’48 a una rottura con i sovietici. Il paese sperimentò in politica estera l’equidistanza fra i due blocchi, e sul piano economico cercò un equilibrio fra statizzazione e autonomia gestionale delle imprese. In Germania, che dalla fine della guerra era divisa in quattro zone di occupazione (statunitense, britannica, francese e sovietica), Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono, nel 1947, l’integrazione delle loro zone. Stalin rispose con il blocco di Berlino (giugno 1948), cioè chiudendo gli accessi alla città e impedendone il rifornimento. Ma gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la ex capitale, finché, nel maggio ’49, i sovietici tolsero il blocco. Nello stesso mese fu proclamata la Repubblica federale tedesca. L’Urss rispose con la creazione della Repubblica democratica tedesca. Il Patto atlantico (1949) e il Patto di Varsavia (1955) completarono la divisione dell’Europa in due.

del “campo socialista”. La nuova “Repubblica popolare” procedette subito a misure radicali: nazionalizzazione di banche e grandi e medie industrie e distribuzione della terra fra i contadini. L’anno successivo la dimensione mondiale del confronto tra i due blocchi si manifestò con la guerra di Corea, originata dall’invasione del Sud del paese da parte di truppe del Nord comunista. All’intervento americano rispose quello cinese: la crisi coreana si concluse nel 1953 col ritorno alla situazione precedente la guerra.

12_6 IL GIAPPONE: DA NEMICO AD ALLEATO In Giappone si affermò, per iniziativa degli occupanti americani, un modello di organizzazione politica e sociale di tipo liberale e occidentale. Furono varate una nuova Costituzione, che trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale, e una radicale riforma agraria. La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace, assieme a una politica economica tutta fondata sul rilancio produttivo, consentì nel corso degli anni ’50 un tasso di investimento elevatissimo, che permise al paese di divenire una potenza economica mondiale.

12_5 RIVOLUZIONE IN CINA, GUERRA IN COREA

12_4 L’URSS E LE “DEMOCRAZIE POPOLARI” L’Urss respinse il piano Marshall e obbligò alla stessa

La vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chiang Kai-shek e la fondazione della Repubblica popolare cinese (1949) segnarono la rinascita della Cina come Stato indipendente e, insieme, un ampliamento

12_7 GUERRA FREDDA E COESISTENZA PACIFICA Il quinquennio 1948-53 fu il periodo di massima

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C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

tensione della guerra fredda. In Unione Sovietica si ebbe un’accentuazione dei caratteri autoritari e repressivi del regime. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza Truman, si diffuse una violenta campagna anticomunista il cui protagonista fu il senatore repubblicano McCarthy. Tra il ’52 e il ’53 con l’elezione del nuovo presidente Usa Eisenhower e la morte di Stalin uscirono di scena i due principali protagonisti della guerra fredda mentre veniva maturando una situazione di coesistenza pacifica fra le due superpotenze. In Urss, nel febbraio ’56, nel corso del XX congresso del Pcus, il leader sovietico Kruscëv denunciò i crimini di Stalin. Il processo di destalinizzazione avviato in Urss alimentò nei paesi dell’Europa dell’est la speranza di un allentamento del controllo sovietico. Diffusi movimenti di protesta si verificarono in Polonia (giugno-ottobre ’56) e in Ungheria (ottobre-novembre). Mentre le agitazioni polacche portarono a una cauta liberalizzazione, l’insurrezione ungherese fu stroncata dall’intervento dell’Armata rossa.

12_8 LE DEMOCRAZIE EUROPEE E L’AVVIO DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA

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Nell’Europa centrooccidentale, la ricostruzione e il rilancio produttivo (di cui la Germania federale fu l’esempio più clamoroso) si accompagnavano al primo avvio di un processo di integrazione economica tra gli Stati. La prima realizzazione concreta sul cammino dell’unità si ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità

U4 IL MONDO DIVISO

europea del carbone e dell’acciaio (Ceca). Nel 1957 si giunse alla firma del trattato di Roma fra i rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, che istituiva la Comunità economica europea (Cee). Scopo primario della Comunità era quello di creare un Mercato comune europeo (Mec). In Francia – dove nel ’46 fu varata una nuova Costituzione democratico-parlamentare (Quarta Repubblica) – la coalizione fra i partiti di massa resse fino al 1947, quando i comunisti furono esclusi dal governo. Negli anni ’50 il paese attraversò una grave crisi istituzionale, legata alla questione algerina, che si risolse nel 1958 con il ritorno di De Gaulle al governo e il varo di una nuova Costituzione (Quinta repubblica) che rafforzava le prerogative del Capo dello Stato. Eletto alla presidenza, De Gaulle riconobbe l’indipendenza all’Algeria mentre cercò di risollevare il prestigio internazionale del paese, facendosi promotore di una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti.

12_9 DISTENSIONE E CONFRONTO: GLI ANNI DI KENNEDY E KRUSCËV I primi anni ’60 da un lato furono un periodo di crescita economica e diffuso ottimismo, dall’altro conobbero crisi locali e scontri anche drammatici, sul fronte delle relazioni internazionali. Le contraddizioni di questi anni furono ben incarnate dai due leader Urss e Usa, il segretario del Pcus Kruscëv e il presidente Usa Kennedy. La presidenza di Kennedy – durata dal ’60 al

’63, anno del suo assassinio – fu improntata a un indirizzo riformistico (incremento delle politiche sociali e sostegno all’integrazione razziale). In politica estera il confronto con l’Urss si risolse in un fallimento relativamente alla questione di Berlino, la cui divisione fu definitivamente sancita con la costruzione da parte dei sovietici del Muro che divideva in due la città (1961). La crisi legata alla presenza di missili nucleari sovietici a Cuba (1962), che fece temere lo scoppio di una guerra fra le due superpotenze, si risolse invece con un successo americano. Nel 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera. In Urss Kruscëv accentuò i caratteri pacifici del confronto con l’Occidente, ma nel 1964 venne destituito anche per il fallimento dei suoi piani economici.

12_10 NUOVE TENSIONI NEI DUE BLOCCHI: GUERRA DEL VIETNAM E CRISI CECOSLOVACCA Fra il 1964 e il 1975, gli Stati uniti furono coinvolti in un conflitto armato nel Vietnam del Sud, che era governato da un regime semidittatoriale appoggiato dagli Usa, e dove era attivo un movimento di guerriglia che aveva l’appoggio del Vietnam del Nord, governato dai comunisti di Ho Chi-minh. L’intervento militare americano – che vide l’invio di contingenti nel Vietnam del Sud e bombardamenti sul Nord – divise profondamente l’opinione pubblica, scatenando manifestazioni di protesta, e si chiuse nel 1975 con il ritiro delle truppe americane. In Urss, il nuovo segretario del Pcus, Brežnev

(1964-82), accentuò la repressione del dissenso. Nel 1968 l’Unione Sovietica mise fine al tentativo riformatore dei comunisti cecoslovacchi – la cosiddetta “primavera di Praga” – intervenendo militarmente.

12_11 LA CINA DI MAO ZEDONG La Cina di Mao Zedong accentuò tra gli anni ’50 e ’60 i tratti radicali del suo regime e si propose, in concorrenza con l’Urss, come guida per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo. Nel maggio 1958, per rilanciare la produzione agricola Mao varò una nuova strategia (il “grande balzo in avanti”), che portò alla creazione di comuni popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all’autosufficienza economica. Mentre la popolazione veniva sottoposta a un controllo sempre più stretto, i risultati fallimentari di questa politica (crollo della produzione agricola e carestia) favorirono sul piano internazionale la definitiva rottura con l’Urss, mentre sul piano interno diedero spazio alle componenti meno ostili all’Urss del gruppo dirigente comunista. Per scalzare il potere di queste ultime, tra il 1965 e il 1968 Mao stimolò un vasto movimento di contestazione giovanile, la “rivoluzione culturale”: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nel partito, negli organi di governo locale, gruppi di giovani guardie rosse misero sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e funzionari, che furono in molta parte internati in “campi di rieducazione” e sottoposti a torture fisiche e psicologiche (si parla di almeno un milione di morti).

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Associa i luoghi di seguito agli eventi che vi si verificarono.

a. Parigi b. San Francisco c. Norimberga d. Tokio e. Bretton Woods f. Ginevra

1. Vi si tenne un processo alla fine della guerra per giudicare i dirigenti giapponesi. 2. Vi si tenne un processo alla fine della guerra per giudicare capi e dirigenti nazisti. 3. Vi si tenne una conferenza di pace nel 1946 nel corso della quale furono fissati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania. 4. Vi furono presi degli accordi nel 1944 che istituirono il Fondo monetario internazionale. 5. Vi fu stipulato l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt). 6. Vi si tenne una conferenza nel 1945 in cui fu decretata la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).

2 Indica quale dei seguenti accordi internazionali corrisponde alle caratteristiche di seguito.

piano Marshall ● Patto atlantico ● Patto di Varsavia

a. Prevedeva che i singoli paesi membri formassero una forza militare. b. Fu firmato a Washington nell’aprile del 1949. c. Si trattava di un’alleanza difensiva fra Stati Uniti, Canada e i paesi dell’Europa occidentale. d. Vi aderirono negli anni ’50 anche la Grecia, la Turchia e la Germania federale. 3 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

a. In Cina il governo “nazionalista” di Mao Zedong si scontrò con i comunisti di Chiang Kai-shek. ................................................................................................................................................................................. b. La Repubblica popolare cinese venne riconosciuta dall’Urss e dalla Gran Bretagna, mentre gli Stati Uniti consideravano legittimo il governo cinese di Taiwan. ................................................................................................................................................................................. c. Al termine della guerra di Corea, la Corea del Nord era governata da un governo filo-occidentale appoggiato dagli americani, e la Corea del Sud da un regime comunista. ................................................................................................................................................................................. d. In Urss, durante la guerra fredda Stalin represse tutte le forme di dissenso e ordinò una nuova ondata di purghe che colpì i quadri del partito e i comuni cittadini. ................................................................................................................................................................................. e. Dopo la seconda guerra mondiale in Giappone vi fu una rapidissima ripresa economica. ................................................................................................................................................................................. f. La morte di Stalin acuì gli atteggiamenti aggressivi da parte dell’Urss e incrementò la tensione fra i due blocchi. ................................................................................................................................................................................. g. Nikita Kruscëv avviò un processo di revisione critica della figura di Stalin durante un rapporto al XX congresso del Pcus. .................................................................................................................................................................................

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4 Indica quale delle seguenti affermazioni risponde alle caratteristiche del Giappone dopo la seconda guerra mondiale.

a. Vi fu instaurata una nuova Repubblica a guida comunista. b. Dopo la seconda guerra mondiale il paese fu occupato dagli americani e fu costretto ad adeguare le sue istituzioni politiche e il sistema economico ai modelli occidentali. c. Grazie alla presenza costante al potere dei gruppi moderati il paese fu caratterizzato dalla stabilità politica. d. Negli anni ’50 si registrò un tasso di investimenti elevatissimo, pari a un terzo del prodotto nazionale. e. Vi furono numerose agitazioni operaie in seguito alle quali i sovietici favorirono il ritorno al governo di uomini che erano stati vittime delle epurazioni staliniste. f. La nazionalizzazione dei settori industriale e commerciale aveva dotato il paese di un’industria pesante che aveva portato ad una crescita molto rapida. g. La classe imprenditoriale puntò sulla tecnologia d’avanguardia e sui settori industriali in crescita. h. Per tutto il ventennio ’50-70 il paese mantenne un tasso di sviluppo medio del 15% annuo.

551

C12 L’ETà DELLA GUERRA FREDDA

5 Inserisci nei due insiemi i nomi dei seguenti paesi distinguendo quelli che appartengono al blocco sovietico e quelli che

gravitano nell’area americana e argomenta per iscritto le tue scelte.

a. Jugoslavia b. Repubblica federale tedesca c. Repubblica democratica tedesca d. Grecia e. Giappone

f. Ungheria g. Polonia h. Cecoslovacchia i. Cina

Blocco sovietico

Blocco americano

6 Seleziona, fra quelli proposti di seguito, i paesi in cui Stati Uniti e Urss portarono avanti scontri indiretti gli uni nei

confronti dell’altra, appoggiando o contrastando i governi di quelle nazioni, e motiva la tua scelta per iscritto.

a. Germania (Berlino) b. Vietnam c. Corea

d. Cina e. Cecoslovacchia f. Giappone

COMPETENZE IN AZIONE 7 Osserva con attenzione la carta geostorica di p. 518 e a partire dal suo contenuto scrivi un testo di massimo 15 righe

in cui spiegherai in che modo il piano Marshall contribuì ad aumentare le tensioni fra Usa e Urss. Ricordati di fare esplicito riferimento ai contenuti della carta e di spiegare in cosa è consistito il piano Marshall e quali sono state le conseguenze della sua adozione o del suo rifiuto. Indica anche un titolo per il tuo elaborato.

8 Descrivi in un testo di massimo 30 righe la crisi cubana e la guerra del Vietnam, due fra gli avvenimenti fondamentali

della storia mondiale del secondo dopoguerra, e seleziona due immagini (fonti iconografiche o carte geostoriche) dal capitolo che potrai utilizzare nella tua argomentazione. Analizza poi, criticamente, gli elementi che rendono così diversi questi due episodi storici.

9 Spiega, in un testo di 15 righe, in che cosa consiste il “grande balzo in avanti” della Cina di Mao e indica quali furono,

552

a breve e a lungo termine, le conseguenze del suo fallimento.

U4 IL MONDO DIVISO

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CAP13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

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Personaggi Golda Meir, una donna alla guida di Israele Il Libro Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni Storia, società, cittadinanza Regimi e forme di potere nei paesi ex coloniali Focus La lotta contro la malaria • La modernizzazione dell’Egitto e la diga di Assuan • Discriminazione e separazione: l’apartheid • Esplosione urbana e sottosviluppo: le bidonvilles • I desaparecidos Atlante Le tappe della decolonizzazione Lezioni attive La decolonizzazione: nuove nazioni e nuovi conflitti Audiosintesi Test interattivi

13_1 LA CRISI DEGLI IMPERI COLONIALI

Per oltre quarant’anni, dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino agli anni ’80 del ’900, la scena internazionale fu dominata dal confronto “bipo­ lare” fra i due grandi blocchi a guida americana e sovietica. Negli stessi anni, però, a questa realtà tendenzialmente statica si aggiunse e si sovrappose un processo di rapida e profonda trasformazione che ebbe per protagonisti i paesi asiatici e africani sin allora rimasti, con poche ­eccezioni, fuori dai circuiti del potere mondiale, vuoi perché oggetto del dominio colonia­ le, vuoi perché, anche se formalmente indipendenti, soggetti all’influenza delle potenze maggiori. Per avere un’idea delle dimensioni di questo processo, basta guardare una carta politica del mondo nel 1945 [► _31]: si vedrà come vaste zone dell’Asia e buona parte dell’Africa fossero ancora

Un nuovo scenario internazionale

31_I POSSEDIMENTI COLONIALI, 1945

Regno Unito Francia Portogallo Spagna Paesi Bassi Belgio Stati Uniti Mandato Sudafrica

Francia

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

553

Regno Unito

possedimenti della Gran Bretagna e della Francia. Una trentina di anni dopo gli imperi coloniali erano scomparsi e il numero degli Stati indipendenti era cresciuto vertiginosamente (oggi sono circa duecento) [► _32]. Preparato già negli anni fra le due guerre con la nascita di movimenti indipen­ dentisti [►10_1], il processo di decolonizzazione – cioè lo smantellamento del sistema coloniale con l’accesso all’indipendenza dei popoli afroasiatici – ricevet­ te la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale: nei fronti extraeuropei i gruppi nazionalisti si TURCHIA impegnarono a fianco dell’uno o dell’altro schieramento e, a guerra finita, rimasero mobilitati politi­ CIPRO camente e militarmente per battersi contro il dominio coloniale. Un fenomeno analogo si era in parte 1960 SIRIA LI. 1946 verificato già durante il primo conflitto mondiale, ma, in sede di conferenza di pace, le promesseI. di GI. IRAQ ► emancipazione implicite nel messaggio wilsoniano [ 4_11] erano state largamente disattese dalle 1932 grandi potenze europee, ancora titolari di immensi imperi d’oltremare.

Decolonizzazione e guerre mondiali

Il principio di autodeterminazione

U N I O N E

IRAN KU. ARABIA B. Nel secondo dopoguerra la situazione era molto diversa. Le due superpotenze vin­ SAUDITA QA. E.A.U. citrici – gli Usa, nati da una rivoluzione anticoloniale e l’Urss da sempre impegnata

OMAN contro l’imperialismo – erano divise su quasi tutto, ma trovavano un terreno di YE. 1967 oggettiva convergenza nell’opporsi alla perpetuazione del vecchio sistema di dominio. Con la Carta YEMEN R.D.P. 1951 atlantica del 1941 [►11_5], per volontà soprattutto degli Stati Uniti, gli alleati avevano proclamato, an­ cora in piena guerra mondiale, il «diritto di tutti i popoli a scegliere la forma di governo da cui intendono essere retti». Il principio di autodeterminazione dei popoli, che avrebbe ispirato l’intera attività del­ O C l’Onu, si impose così come base di un nuovo codice etico-politico internazionale, a cui le potenze colo­ niali, uscite esauste dalla guerra, non potevano certo sottrarsi: tanto più che i benefici del colonialismo compensavano sempre meno i costi politici, militari e finanziari del mantenimento degli imperi.

AN IST N G TA AF IS 47 K 9 PA 1 N HA

IND 19

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32_L’ASIA NEL 1975 paesi già indipendenti in nero data dell’indipendenza

AN ST N GH TA AF IS 47 K 9 PA 1

IRAN

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Delhi INDIA 1947

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paesi già indipendenti IL MONDO DIVISO inU4 nero data dell’indipendenza = BAHREIN 1971 = BANGLADESH 1971

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OCEANO PACIFICO

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554

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KU. ARABIA B. SAUDITA QA. E.A.U.

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COREA DEL NORD 1945/48

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TURCHIA CIPRO 1960 SIRIA LI. 1946 I. GI. IRAQ 1932

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S O V I E T I C A

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U N I O N E

TAIWAN BH. Hong Kong 1997 BA. VIETNAM BIRMANIA LA. DEL 1948 NORD FILIPPINE THAILANDIA 1945/54 1946 VIETNAM CA. DEL SUD

SRI LANKA 1948 I N D I A N O

Macao 1999

7/63 IA 195 MALES SINGAPORE 1959/65 9 INDONESIA 1945/4

Tokyo

B. BA. BH. CA. E.A.U. GI. I. KU. LA. LI. QA. YE.

Del

= BAHREIN 1971 = BANGLADESH 1971 = BHUTAN 1947 = CAMBOGIA 1953 = EMIRATI ARABI UNITI 1971 = GIORDANIA 1946 = ISRAELE 1948 = KUWAIT 1961 = LAOS 1953 = LIBANO 1941/43 = QATAR 1971 = YEMEN 1967

N

O

I N D

Se la linea di tendenza era già chiara alla fine della guerra, non mancarono tuttavia le resistenze nella fase di attuazione. Il processo di decolonizzazione si compì attraverso vicende alterne, che risentirono sia della natura dei nazio­ nalismi locali, sia della consistenza numerica della colonizzazione bianca, sia delle politiche dei paesi europei. La Gran Bretagna, che aveva sempre praticato forme di dominio “indiretto”, ossia fondato su ampie deleghe alle élite locali, avviò nella maggior parte dei casi un ritiro graduale dalle colonie: i popoli soggetti furono preparati all’indipendenza mediante la concessione di co­ stituzioni e di organismi rappresentativi. In questo modo la Gran Bretagna cercava di trasformare l’impero in una comunità di nazioni sovrane, liberamente associate nel Commonwealth [►10_4] (un vincolo che peraltro sarebbe diventato puramente simbolico). La Francia, invece, oppose una tenace resistenza ai movimenti indipendentisti e praticò fino all’ultimo una politica “assimilatrice”, che pretendeva di riunire la madrepatria e le colonie in un’unica compagine politica e concedeva ai popoli soggetti una formale parità di diritti. Sia nel caso dei domìni britannici sia in quello dei possedimenti francesi (e delle potenze coloniali minori), lo sbocco obbligato fu comun­ que l’indipendenza.

Due vie alla decolonizzazione

Il rapporto con l’Europa, che nel bene e nel male era stato per i popoli afroasia­ tici un fattore decisivo di modernizzazione, rimase comunque importante, so­ prattutto per le nuove classi dirigenti che si erano formate nelle scuole, nelle università o nelle acca­ demie militari dei paesi colonizzatori. Nonostante la polemica ricorrente contro alcuni aspetti della cultura occidentale, l’eredità coloniale lasciò tracce durevoli non solo sul piano METODO DI STUDIO materiale, ma anche su quello delle abitudini, della cultura, della lingua (si  a  Spiega per iscritto che cosa si intende con pensi al caso dell’India, dove l’inglese continuò a svolgere la funzione di lingua l’espressione “decolonizzazione” e quale è stato il ruolo rivestito da Stati Uniti e Urss in questo pronazionale). Sul piano delle istituzioni politiche, però, la democrazia parlamenta­ cesso. re di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi. Le ragioni furono molteplici: il  b  Sottolinea con colori diversi le risposte dei peso di una tradizione diversa; il fatto che l’Europa aveva mostrato in Africa e in governi di Francia e Gran Bretagna alle richieste di indipendenza delle colonie. Asia non il suo volto liberale, ma quello autoritario del governo coloniale; i limiti  c  Spiega per iscritto quali furono i legami che delle classi dirigenti locali, espressione di clan o di élite numericamente esigue e l’Europa conservò con i paesi che conquistarono spesso corrotte; la difficoltà di avviare un processo di sviluppo partendo da con­ l’indipendenza e perché in questi ultimi i sistemi dizioni di grave arretratezza economica. Il risultato fu quasi ovunque, con l’im­ democratici stentarono ad affermarsi. portante eccezione dell’India, la prevalenza di regimi autoritari.

L’eredità coloniale

Bambini giocano a cricket al Shivaji Park di Mumbay (India) 1996 [© Catherine Karnow/Corbis] Una traccia della cultura e delle abitudini lasciate dai paesi colonizzatori è per esempio il cricket. Questo sport, nato in Inghilterra all’incirca nel XVI secolo e divenuto sport nazionale britannico due secoli più tardi, fu esportato fin dal ’700 nelle diverse colonie commerciali britanniche impiantate in Asia, Africa e Australia. In India il cricket è diventato un gioco molto popolare, restando fino ad oggi lo sport nazionale più giocato e seguito.

555

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

13_2 L’INDIPENDENZA DELL’INDIA



► Leggi anche:

Il percorso di emancipazione dei popoli colonizzati ebbe la sua prima e fonda­ mentale tappa nel 1947, quando la Gran Bretagna accettò di privarsi del pezzo più importante del suo impero: il sub-continente indiano, sede di antiche civiltà e di religioni mille­ narie (induismo, buddismo, islamismo), ma anche terminale di scambi commerciali che avevano svolto un ruolo decisivo nell’affermazione della Gran Bretagna come potenza industriale.

Una svolta storica

Abbiamo già visto come, negli anni fra le due guerre, fosse cresciuto in India un forte movimento indipendentista, organizzato nel Partito del Congresso, sotto la guida carismatica del mahatma Gandhi [►10_4]. Durante il secondo conflitto mondiale, la maggioranza degli indiani aveva contribuito lealmente allo sforzo bellico britannico, met­ tendo in campo un esercito volontario che fu impegnato su tutti i fronti di guerra e giunse a contare due milioni e mezzo di uomini. Nel contempo, il Partito del Congresso – guidato, dal 1941, da Jawaharlal Nehru, uno dei più stretti collaboratori di Gandhi – aveva continuato a promuovere il movimento di resistenza non violenta alla dominazione britannica, strappando la promessa di concedere all’India la condizione di dominion (quella di cui godevano Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica), che equivaleva a una indipendenza di fatto.

► Personaggi Gandhi, il profeta della non violenza, p. 374

Gandhi e il Partito del Congresso

A guerra finita si aprirono i negoziati per il trasferimento della sovranità, che si conclusero nell’agosto del 1947. Ma l’esito fu diverso da quello auspicato da Gandhi, che si era battuto per uno Stato unitario laico dove potessero convivere i diversi gruppi religiosi. La componente musulmana reclamò la creazione di un proprio Stato, che fu infine accordata dai britannici dopo gravi conflitti tra le due comunità. Così, nell’agosto 1947, nacquero due Stati: l’Unione indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano, geograficamente diviso in due tronconi situati alle opposte estremità della penisola indiana (il Pakistan vero e proprio a ovest; il Bengala orientale, l’odierno Bangladesh, a est) [► _33]. La creazione dei due Stati non impedì, soprattutto nelle zone miste, il moltipli­ carsi degli scontri fra le due comunità, che assunsero a tratti le proporzioni

Una separazione cruenta

LA FINE DEGLI IMPERI COLONIALI

Sviluppo di movimenti nazionalisti e indipendentisti

Aumento dei costi di mantenimento degli imperi coloniali DECOLONIZZAZIONE

Gran Bretagna

Inserimento dei futuri Stati nel Commonwealth

Ritiro graduale dalle colonie

556

Mobilitazione politica e militare dei popoli coloniali durante la seconda guerra mondiale

U4 IL MONDO DIVISO

Francia

Politica assimilatrice

Principio di autodeterminazione dei popoli

Resistenza ai movimenti indipendentisti

Jawaharlal Nehru e il nipote Rajiv nel giardino di famiglia ottobre 1947

P E R S I A

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PAKISTAN OCCIDENTALE

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OCEANO INDIANO

PAKISTAN ORIENTALE

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OCEANO INDIANO SRI LANKA

area contesa tra India e Pakistan

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33_INDIA E PAKISTAN, 1947 U

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P A M I R KASH MI R

BIRMANIA

LAOS

Indira Gandhi durante la campagna elettorale del 1971 Unica figlia del primo ministro indiano SRI LANKA THAILANDIA Jawaharlal Nehru, Indira Gandhi prese il nome dal marito Feroze Gandhi, in nessun modo imparentato con il Mahatma Gandhi. Fin dal 1947 entrò a far parte dello staff del padre, diventando una figura influente per il governo. Alla morte di Nehru, nel 1964, rifiutò in un primo momento di prenderne il posto. Accettò due anni più tardi e rimase alla guida del paese (con una interruzione fra il ’77 e l’81) fino alla sua morte, nel 1984, quando venne assassinata da due uomini di religione sikh facenti parte del suo servizio di sicurezza. Le successe il suo secondogenito, Rajiv Gandhi, rimasto in carica fino al 1989 e morto anche lui in un attentato nel 1991.

di una vera e propria guerra. Così la vicenda di un movimento di liberazione nazionale affermatosi con mezzi pacifici si concluse con oltre 200 mila morti e con il trasferimento da uno Stato all’altro di 17 milioni di persone, senza contare le conseguenze delle due guerre che India e Pakistan avrebbe­ ro combattuto successivamente (nel 1948 e nel 1965) per il controllo della regione del Kashmir, a ndia e Pakistan maggioranza musulmana ma assegnata all’Unione Indiana. Lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima di violenza e di odio religioso che tanto aveva combattuto: giudicato troppo arrendevole verso i mu­ sulmani, fu assassinato da un estremista indù nel gennaio 1948. Primo capo del governo dell’India indipendente, Nehru rimase fino alla sua morte (1964) alla guida di un paese sempre gravato da immensi problemi interni: la po­ vertà cronica delle campagne; l’eccezionale sovraccarico demografico (fra il 1951 e il 1981 la popolazione quasi raddoppiò, passando da 362 a 683 milioni); le tensioni fra i diversi gruppi etnici e religiosi che con­ vivevano nell’Unione indiana (tendenze separatiste si manifestarono soprattutto nella comunità religio­ sa dei sikh, concentrata nella regione del Punjab); la permanenza di abiti mentali arcaici e di divisioni legate al vecchio sistema delle caste [►10_4]. Tuttavia, malgrado alcuni aspetti autoritari e personalistici del potere esercitato prima da Nehru, poi da sua figlia Indira Gandhi [►FS, 121] – primo mi­ nistro dal 1966 al 1977 e dal 1981 al 1984, quando fu uccisa da due militanti sikh –, METODO DI STUDIO le istituzioni democratico-parlamentari lasciate in eredità dalla dominazione  a Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparabritannica riuscirono progressivamente a consolidarsi. grafi. Quindi indica per ognuno di essi le date pre-

L’India democratica

Assai più travagliata fu la vicenda politica del Pakistan, dove Pakistan la vita democratica fu prima a lungo interrotta da dittature e Bangladesh militari e, in anni più recenti, minacciata dalla crescita del­ le correnti islamiche integraliste. Nel 1971, inoltre, lo Stato nato nel ’47 dovette subire la secessione della sua parte orientale che, dopo un nuovo sanguinoso conflitto, diede vita alla Repubblica del Bangladesh.

senti e sintetizza i relativi eventi.  b  Sottolinea con due colori diversi le due comunità religiose prevalenti in India e i due Stati in cui si professavano tali culti.  c  Cerchia i nomi dei personaggi storici, partiti e movimenti politici citati e sottolinea i principali obiettivi e/o eventi che li riguardano. Quindi trascrivili sul quaderno, realizzando un glossario.

557

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO



13_3 LE GUERRE D’INDOCINA

In tutto il Sud-Est asiatico il processo di emancipazione si intrecciò con lo scontro fra le forze “nazionaliste”, alleate con l’Occidente, e i movimenti comunisti che avevano, come in Cina, la loro base principale nelle campagne. Il confronto ebbe esiti diversi. In Birmania (oggi Myanmar) e in Malesia (oggi Malaysia), entrambe colonie britanniche, indipendenti rispettivamente nel 1948 e nel 1957, prevalsero le forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu sconfitta. In Indonesia il movimento nazionalista guidato da Ahmed Sukarno ottenne l’indipendenza dall’Olanda nel 1949 e cercò di seguire una politica autonoma rispetto ai due blocchi, resistendo alle pressioni contrapposte della destra militare e dei comunisti. Nel 1965, a seguito di un fallito tentativo rivoluzionario dei comunisti risoltosi con un massacro di militanti del partito, Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suharto. Nel Regno di Thailandia – l’ex Siam, unico fra gli Stati della regione ad aver sempre mantenuto l’indipendenza – le forze moderate mantennero il potere in un alternarsi di regimi militari e governi civili. Nelle Filippine, cui gli Stati Uniti concessero l’indipendenza nel 1946 conservando tuttavia ampi privilegi economici e basi militari, go­ verni di carattere spesso autoritario – come quello di Ferdinand Marcos, al potere dal ’65 all’86 – dovet­ tero fronteggiare la guerriglia condotta dai comunisti e dai gruppi separatisti musulmani.

Nazionalisti e comunisti nel Sud-Est asiatico

Una netta prevalenza dei comunisti si ebbe invece negli Stati sorti dalla dissolu­ zione dell’impero francese in Indocina. Nel Vietnam i comunisti, sotto la guida di Ho Chi-minh, avevano assunto un ruolo preminente nella Lega per l’indipen­ denza (Vietminh), che era stata costituita nel 1941 per combattere la dominazione francese. Nel 1945, Ho Chi-minh proclamò nella capitale Hanoi l’indipendenza dalla Francia e la nascita della Repubblica

L’indipendenza del Vietnam

34_L’INDOCINA NEL 1954 C I N A VIETNAM DEL NORD Dien Bien Phu 1954

Hanoi GOLFO DEL TONCHINO

LAOS

divisione al 17° parallelo

Vientiane

THAILANDIA

CAMBOGIA Phnom Penh

VIETNAM DEL SUD

558

Saigon

U4 IL MONDO DIVISO

Monumento a Ho Chi-minh, artefice dell’indipendenza del Vietnam del Nord

democratica del Vietnam. Ma i francesi non riconobbero il nuovo Stato e occuparono la parte meri­ dionale del paese. Nel 1946 cominciò un lungo scontro tra i francesi e le forze del Vietminh, che riu­ scirono a logorare gli avversari con una sanguinosa guerriglia: il conflitto si concluse nel maggio 1954, quando la piazzaforte di Dien Bien Phu, dove era concentrato il grosso delle forze francesi, fu costretta a capitolare dopo tre mesi di assedio. Gli accordi di Ginevra METODO DI STUDIO del luglio dello stesso anno sancirono il ritiro dei francesi da tutta la penisola in­  a  Sottolinea con colori diversi i paesi in cui docinese – dunque anche dal Laos e dalla Cambogia – e la divisione provvisoria presero il potere le forze “nazionaliste” e quelle in cui riuscirono vincitori i movimenti comunisti. del Vietnam in due Stati: uno comunista al nord, l’altro filo-occidentale al Sud.  b  Cerchia le forze politiche che si confrontarono Ma a questo punto, come già era accaduto in Corea, la crisi indocinese veniva a in Vietnam, quindi sottolinea gli eventi principali inserirsi nel contrasto est-ovest, portando i germi di quel conflitto che si sarebbe di questo confronto ed evidenziane gli esiti. ► concluso con la storica sconfitta degli Stati Uniti [ 12_10].



13_4 IL MONDO ARABO E LA NASCITA DI ISRAELE

Dall’inizio del ’900, in tutti paesi del Medio Oriente e della sponda Sud del Mediterraneo, si era sviluppato un movimento nazionale arabo, in lotta prima contro la dominazione turca, poi contro l’influenza europea. Già nel corso della Grande Guerra, come si è visto, le vicende di questo movimento si erano intrecciate con quelle delle potenze coloniali e col loro tentativo di subentrare nel controllo dell’area al moribondo Impero ottoma­ no [►10_3]. Durante il secondo conflitto mondiale l’intreccio divenne più stretto: anche perché la regio­ ne mediorientale aveva visto crescere la sua importanza strategica, a causa delle sue ingenti risorse petrolifere. I tedeschi, in particolare, tentarono di giocare la carta dell’appoggio ai movimenti nazionali arabi contro Gran Bretagna e Francia, che controllavano la regione in virtù del mandato coloniale rice­ vuto all’indomani della Grande Guerra.

Il nazionalismo arabo

► Leggi anche: ►     Personaggi Golda Meir, una donna alla guida di Israele ► Fare Storia Il conflitto arabo-israeliano, p. 675

A guerra finita, le potenze “mandatarie” decisero di rinunciare ai loro possessi mediorientali, tentando però di mantenere su di essi qualche forma di controllo, appoggiandosi ai regimi monarchici e conservatori che loro stessi avevano con­ tribuito a insediare. Così, nel 1946 la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza della Transgiordania e la Francia ritirò le sue truppe dalla Siria e dal Libano. L’Iraq aveva ottenuto l’indipendenza dai britannici già nel ’32 [►10_3]. Insieme all’Egitto, all’Arabia Saudita e allo Yemen, questi paesi forma­ rono, nel 1945, la Lega degli Stati arabi (o Lega araba), con scopi di cooperazione politica ed econo­ mica e con ambizioni di integrazione federale che sarebbero peraltro rimaste sulla carta.

I nuovi Stati indipendenti

Restava da sciogliere il nodo della Palestina, assegnata per mandato alla Gran Bretagna, ma contesa fra arabi ed ebrei [►10_3]. Negli anni della guerra, la pressione del movimento sionista per la creazione di uno Stato ebraico si fece sempre più forte, alimentata dall’immigrazione degli ebrei europei che fuggivano dal terrore nazista (nel 1945 c’erano in Palestina 550 mila ebrei, contro 1 milione e 250 mila arabi); e l’aspirazione a un “focolare nazionale” ricevette una nuova, potente legittimazione presso l’opinione pubblica demo­ cratica dopo le rivelazioni sugli orrori dei campi di sterminio. La causa sionista fu sostenuta dagli Stati Uniti, dove la comunità ebraica era numerosa e influente, ma fu ostacolata dalle autorità britanniche, che temevano di inimicarsi gli Stati arabi. Mentre i leader sionisti chiedevano la libertà di immigrazione, le organizzazioni militari ebraiche in Palestina passavano alla lotta armata non più solo contro gli arabi, ma contro gli stessi britannici.

L’immigrazione ebraica in Palestina

Trovatasi di fronte a una situazione incontrollabile, e avendo constatato l’impos­ sibilità di formare uno Stato binazionale, la Gran Bretagna si chiamò fuori dal conflitto: nel 1947 il governo annunciò che avrebbe ritirato le sue truppe dalla Palestina alla mezzanotte del 15 maggio 1948 e rimise alle Nazioni Unite il compito di trovare una soluzione al problema. L’Onu approvò un piano di spartizione in due Stati [►FS, 125d], che venne

La prima guerra arabo-israeliana

559

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

però respinto dagli Stati arabi. Nel maggio ’48, in coincidenza col ritiro britannico, gli ebrei proclama­ rono la nascita dello Stato di Israele e gli Stati della Lega araba reagirono subito attaccandolo mili­ tarmente [►FS, 126]. L’esito dello scontro sembrava scontato, vista la sproporzione delle forze in cam­ po. Invece la prima guerra arabo-israeliana (maggio ’48-gennaio ’49) si risolse in una disfatta per le forze arabe, mal equipaggiate e mal coordinate fra loro, e segnò la definitiva affermazione del nuovo Stato ebraico, mostrandone la determinazione e la combattività. Stato moderno, ispirato ai modelli delle democrazie occidentali, dotato di strut­ ture sociali e civili molto avanzate – che contrastavano con la complessiva arre­ tratezza dell’area mediorientale – e di un’organizzazione economica in cui il capitalismo industriale conviveva con l’esperimento cooperativistico delle comunità agricole (kibbutzim) create dai pionieri LIBANO sionisti fin dall’inizio del secolo, Israele rivelò fin dai primi anni una forza insospettata rispetto alle sue piccole dimensioni: una forza che gli derivava non solo LIBANO Acri dalle risorse provenienti dall’esterno (le comunità ebraiche 35_PIANO ONU DI DIVISIONE DELLA PALESTINA, 1947 Haifa SIRIA europee e soprattutto americane), ma anche dalla prepara­ Acri L I B A N O Mar di zione e dall’intraprendenza dei suoi dirigenti – in partico­ Haifa Galilea Tulkarm lare dei leader laburisti, come David Ben Gurion e Golda SIRIA Nablus Acri Meir [►FS, 129d], che guidarono il paese dopo l’indipen­ Tel Aviv Mar di MAR Tulkarm Haifa MEDITERRANEO Galilea Jaffa denza – e dalla forte motivazione patriottica dei suoi Nablus Tel Aviv Gerusalemme MAR cittadini. Giordano

Lo Stato di Israele

Giordano

Jaffa TulkarmGerico Port Said Gerusalemme Nablus Tel Aviv MAR Mar Jaffa MEDITERRANEO Gaza Hebron Gerico Morto

MEDITERRANEO

NASCITA DELLO STATO DI ISRAELE (’48)

560

Prima guerra arabo-israeliana

U4 IL MONDO DIVISO

Indipendenza di Transgiordania, Libano e Siria, che...

L’Onu decreta la spartizione in due Stati

Canale di Suez

Indebolimento della presenza francese e britannica in Medio Oriente

Port Said Canale di Suez

ARABI ED EBREI IN MEDIO ORIENTE

Port Said Canale di Suez

Con la guerra del ’48, lo Stato ebraico si ingrandì rispetto al piano di sparti­ zione, occupando anche la parte occidentale di Gerusalemme, città che nei progetti dell’O­ nu sarebbe dovuta restare sotto controllo internazionale e che invece restò divisa in due fino al 1967. La Transgior­ dania, dal 1949 Regno di Giordania, incamerò i territori occupati dalle sue truppe durante il conflitto (la Cisgior­ dania, ovvero la riva occidentale del Giordano), mentre l’Egitto occupava la striscia di Gaza: si trattava in entram­ bi i casi di territori assegnati dal piano dell’Onu all’ipotiz­ zato Stato arabo di Palestina che invece non vide mai la luce. Circa 700 mila arabi abbandonarono, per scelta o

Il dramma palestinese

Gaza

ISRAELE Negev

E G I T TO

S i n a i

GIORDANIA

Negev

S i n a i

possibile Stato ebraico possibile Stato palestinese confini di Israele dopopossibile la guerraStato ebraico di indipendenza, 1948 possibile Stato palestinese confini di Israele dopo la guerra di indipendenza, 1948

possibile Stato ebraico possibile Stato palestinese confini di Israele dopo la guerra di indipendenza, 1948

insieme a Iraq, Egitto, Arabia Saudita e Yemen

formano la LEGA DEGLI STATI ARABI (’45)

EBREI

ISRAELE

Mar Morto

E G I GIORDANIA T TO Beersheba

S i n Ea G i I T TO

Per il controllo della Palestina

Beersheba

Gerusalemme Beersheba ISRAELE Gaza Hebron

Hebron

contro

G Negev

Un campo di profughi palestinesi tra Gerico e il Mar Morto 1948 Dopo la guerra del 1947-48, la Giordania accolse centinaia di migliaia di profughi provenienti dalla Palestina.

per costrizione, le terre che abitavano e ripararono nei pae­si vicini, per lo più in Giordania, dove furono ammas­ sati in campi-profughi, vivendo grazie agli aiuti dell’Onu e delle organizzazioni umanitarie, senza alcuna possibilità di integrarsi, e coltivando il sogno di un rapido ritorno alle loro case. Cominciò così il dramma palestinese, sul quale si sarebbe da allora incentrato il conflitto arabo-israeliano [►FS, 127].



METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia con colori diversi le forze contro cui combatteva il nazionalismo arabo e i paesi che facevano parte della Lega araba. Quindi sottolinea gli scopi di tale unione.  b  Cerchia i nomi dei popoli che si contendevano la terra di Palestina e sottolinea coloro che li appoggiavano.  c  Individua e numera le fasi del conflitto arabo-israeliano descritte. Quindi assegna a ognuna un titolo e spiega oralmente da quali eventi fu caratterizzata.

13_5 L’EGITTO DI NASSER E LA CRISI DI SUEZ

La disastrosa sconfitta subìta nella guerra contro Israele (che sarebbe stata ricor­ data come la nakba, “la catastrofe”) contribuì a radicalizzare le correnti nazionaliste e a far crescere nel mondo arabo il risentimento verso l’Occidente [►FS, 128]. In questo processo confluivano due diverse componenti: quella tradizionalista, rappre­ sentata dal movimento dei Fratelli musulmani (fondato alla fine degli anni ’20 da un intellettuale egiziano, Hassan al-Banna, e poi diffusosi in tutta l’area mediorientale), puntava a una “reislamizzazione” della società mediante l’applicazione integrale dei precetti coranici; quella laica e nazionalista era incarnata soprattutto dai militari, più attenti alle istanze di modernizzazione e di sviluppo economico. Questa seconda tendenza, che traeva ispirazione dalle esperienze occidentali, mesco­ lando spunti socialisti con temi presi a prestito dai regimi autoritari di destra, si affermò negli anni ’50, trovando il suo centro e la sua guida nell’Egitto, il più importante degli Stati arabi per popolazione e per storia.

Tradizionalismo e nazionalismo laico

Formalmente indipendente dal 1922, l’Egitto era retto da un regime monarchico strettamente legato alla Gran Bretagna, che manteneva sul paese una sorta di protettorato e conservava, assieme alla Francia, il controllo della Compagnia del Canale di Suez. Nel luglio 1952, la monarchia fu rovesciata da un colpo di Stato militare e il potere fu assunto da un “Comitato di ufficiali liberi” guidato da Mohammed Neguib e da Gamal Abdel Nasser. Nel 1954, Nasser allontanò il più moderato Neguib e si impose come unico leader del paese, instau­ rando di fatto una dittatura personale. Il nuovo regime avviò subito una serie di riforme di segno socialista (redistribuzione della terra, nazionalizzazione delle principali attività economiche) e tentò di promuovere un processo di industrializzazione. In politica estera, Nasser si propose come guida nella lotta dei paesi arabi contro Israele e si mosse con decisione per liberare il paese da ogni condi­ zionamento da parte delle potenze ex coloniali: ottenne così lo sgombero delle truppe britanniche dalla zona del Canale e stipulò accordi con l’Urss per aiuti economici e militari.

La rivoluzione nasseriana in Egitto

In risposta a quello che appariva come uno scivolamento verso posizioni filoso­ vietiche, gli Stati Uniti bloccarono il finanziamento da parte della Banca Mondiale della grande diga di Assuan, sull’alto Nilo, necessaria per l’elettrificazione del paese e per

La crisi di Suez

561

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

◄  Vignetta satirica sul fallimento dell’intervento franco-britannico nel Canale di Suez 1956 Durata pochi mesi, la crisi di Suez si concluse per l’opposizione dell’Urss e il mancato appoggio degli Usa all’intervento armato anglo-francese. In questa caricatura sovietica, il leone britannico e il galletto francese, provati da una faticosa traversata del Canale, giungono a riva. Sulla riva opposta, la Sfinge, trionfante con la coda strappata al leone ben salda sotto le zampe, guarda verso i due fuggitivi. ▼  Prigionieri

1956

egiziani durante la crisi di Suez, tenuti sotto tiro da soldati britannici

PERSONAGGI

Nasser, l’uomo simbolo del nazionalismo arabo

D

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urante la cosiddetta “primavera araba” del 2010-12, in moltissime piazze egi­ ziane furono innalzati ritratti di Gamal Ab­ del Nasser, colui che, come scrisse la rivista statunitense «Time» pochi giorni dopo la sua morte, aveva dato agli egiziani e a tutti gli ara­ bi “un senso di dignità personale e di orgo­ glio nazionale che non conoscevano più da 400 anni». Nato il 15 gennaio 1918 vicino ad Alessan­ dria d’Egitto, Nasser trascorse l’infanzia lon­ tano dalla famiglia, a causa della prematura scomparsa della madre. Già durante gli an­ ni della scuola secondaria, che frequentò tra Alessandria e Il Cairo, iniziò la sua carrie­ ra politica, entrando in contatto con il movi­ mento studentesco nazionalista, che chiede­ va la piena indipendenza dell’Egitto. Nel novembre 1935, durante una delle manife­ stazioni nazionaliste che frequentava assi­ duamente, fu ferito da una pallottola sparata da un soldato britannico: gli lasciò una cica­ trice sulla fronte, un “segno di onore” che gli avrebbe sempre ricordato il suo “dovere na­ zionale”. Terminati gli studi superiori, nella convin­ zione che l’Egitto non avrebbe ottenuto l’in­ dipendenza solo con i discorsi retorici, deci­ se di iscriversi all’accademia militare, ma fu

U4 IL MONDO DIVISO

respinto per i suoi trascorsi politici e per la sua origine modesta. Dopo il trattato dell’a­ gosto del 1936, che pose fine alla domina­ zione britannica, fu creato un esercito egiziano. Nel marzo 1937, Nasser poté entrare all’accademia militare, e ne uscì un anno do­ po con i gradi di ufficiale. Negli anni succes­ sivi fu inviato con un corpo militare in Sudan, dove strinse un rapporto molto stretto con i due colleghi Hakim Amer e Anwar Sadat, che gli rimasero accanto per i successivi decenni: e con loro, nel 1942, diede vita al movimento clandestino dei Liberi ufficiali. Durante la seconda guerra mondiale, il mo­ vimento auspicò la sconfitta dei britannici ad opera dell’esercito tedesco, vedendo in questo un’opportunità per l’indipendenza egiziana. Nel 1944 Nasser sposò Tahia Kha­ zem, figlia di un ricco commerciante di ori­ gine iraniana, con la quale ebbe cinque figli. Nel 1948, combatté nella guerra della Lega araba contro il nascente Stato d’Israele [►13_4]: la sconfitta convinse lui e altri Liberi ufficiali dell’incompetenza degli uo­ mini che governavano l’Egitto. Negli anni seguenti, i Liberi ufficiali assunsero un’im­ postazione sempre più rivoluzionaria e ac­ crebbero il loro seguito, mentre il governo egiziano era sempre più minato da scan­

dali e corruzione. Nel 1952, Nasser, convin­ to del sostegno dell’esercito, decise di pas­ sare alla sollevazione generale. La notte tra il 22 e il 23 luglio tutti i luoghi strategici del Cairo caddero nelle mani dei Liberi ufficia­ li: il 18 giugno 1953 l’Egitto divenne una repubblica e Mohammed Neguib presidente. L’uomo forte della rivoluzione era tuttavia Nasser, ministro dell’Interno e vice primo ministro: egli voleva espellere le truppe bri­ tanniche dal Canale di Suez, attuare una ri­ forma agraria, porre fine alla corruzione nel paese, dar vita a un sistema economico ba­ sato sulla giustizia sociale, rafforzare l’eser­ cito. Fautore di politiche laiche, Nasser era anche un musulmano osservante che am­ biva a coniugare i princìpi del nazionalismo arabo con quelli dell’islamismo, in un dise­ gno in cui l’Egitto sarebbe stato l’epicentro di un vasto movimento di lotta contro l’im­ perialismo occidentale. Il 26 ottobre del 1954 un membro della setta tradizionalista dei Fratelli musulmani tentò di uccidere Nasser, che dall’aprile era primo ministro, e i Liberi ufficiali accusarono Ne­ guib di essere coinvolto nell’attentato, estro­ mettendolo dalla vita politica. Nasser fu così nominato presidente del Consiglio del comando rivoluzionario: da allora la sua sto­ ria personale coincise con quella della Re­ pubblica egiziana e la sua figura diventò un simbolo della lotta degli arabi e degli africani contro le potenze occidentali: cari­

l’irrigazione di ampi territori desertici. Nasser rispose nazionalizzando la Compagnia del Canale di Suez. Si aprì a questo punto una crisi internazionale di vasta portata. Nell’ottobre 1956, d’intesa con i governi di Londra e Parigi, Israele attaccò l’Egitto e lo sconfisse, penetrando in profondità nella pe­ nisola del Sinai, mentre reparti di paracadutisti francesi e britannici occupavano la zona del Canale. A far fallire l’operazione, però, fu l’atteggiamento delle due superpotenze: gli Stati Uniti non diedero alcun appoggio all’impresa, anzi la sconfessarono apertamente; l’Urss inviò addirittura un ultimatum a Francia, Gran Bretagna e Israele. Anche l’Assemblea generale dell’Onu votò a larga maggioranza una mozione di condanna. Privi dell’appoggio americano, i franco-britannici dovettero fermare la loro offensiva e abbandonare la zona del Canale, mentre Israele si ritirava dal Sinai. Molte e importanti furono le conseguenze di questa crisi. Innanzitutto essa sancì simbolicamente la fine dell’era coloniale e la perdita di peso delle potenze che ne erano state protagoniste, Gran Bretagna e Francia. L’effetto più immediato fu però quello di rafforzare sia la posizione dell’Egitto, che pure era stato sconfitto militar­ mente, sia quella personale di Nasser. Rilanciando la causa del panarabismo (ossia dell’unità fra tutti i popoli arabi) e legandola a un progetto di modernizzazione fortemente osteggiato dai tradizionalisti, il leader egiziano acquistò un immenso prestigio presso le masse popolari e la borghesia intellettuale di tutto il mondo islamico. Ideali e programmi simili a quelli del dittatore egiziano furono fatti propri, in Siria e in Iraq, dal Partito socialista arabo Baath (in arabo “Rinascita”), che trovò consensi soprattutto fra i militari. Già nel ’54 in Siria si era affermato un regime militare di ispirazione panaraba. Nel ’58, mi­ litari legati al Baath presero il potere in Iraq, rovesciando la monarchia hashemita [►10_3].

La diffusione del nasserismo in Medio Oriente

smatico e disponibilissimo a parlare al popo­ lo, tra il 1953 e il 1970 pronunciò quasi 1400 discorsi pubblici. Nel 1955 Nasser cominciò a stringere rapporti con il primo ministro in­ diano Nehru e con quello jugoslavo Tito e, in aprile, guidò la delegazione egiziana alla conferenza di Bandung [►13_10]. Nel giu­ gno 1956, dopo una consultazione elettora­ le, fu proclamato capo dello Stato e del governo. Contemporaneamente, la rottura con l’Occidente che si era cominciata a palesare con la fornitura di armi dal blocco orienta­ le, si allargò: il 26 luglio Nasser decise infatti di nazionalizzare la Compagnia del Canale di Suez, di proprietà franco-britannica. Ne seguì una guerra con Israele, Francia e Gran Bretagna da cui Nasser uscì come un cam­ pione della lotta contro le potenze coloniali. L’anno successivo l’Egitto rifiutò l’aiuto eco­ nomico e militare degli Usa, che volevano in cambio una garanzia di anticomunismo, ed entrò nell’orbita dell’Urss, anche se, fino al 1967, riuscì a limitarne l’influenza sulla po­ litica egiziana. Nonostante il rapido fallimento del progetto di una Repubblica araba unita (1958-61) tra Egitto e Siria, l’ascen­ dente di Nasser sulle masse giovanili arabe crebbe incontrastato fino alla nuova durissi­ ma sconfitta nella guerra dei sei giorni (510 giugno 1967) [►13_7], che mostrò come il regime nasseriano, incapace di sconfiggere la corruzione, la povertà e la disoccupazione, non fosse riuscito a costruire un esercito vin­

cente. La sera del 9 giugno Nasser rassegnò le dimissioni: ma le ritirò quando, immedia­ tamente, milioni di persone scesero in piazza reclamando il suo ritorno. Dal 1967 il prestigio internazionale di Nasser iniziò a scemare, mentre in Egitto si fecero sempre più forti le voci che chiedevano una svolta democratica: i tratti autoritari del suo governo erano, infatti, sempre meno celati dal vigoroso populismo. Nel luglio del 1970, durante un soggiorno a Mosca, fu persuaso ad accettare la risoluzione di pace proposta dagli Usa per la questione di Suez, dove dal 1968 era in corso una “guerra di logoramen­ to” con gli israeliani che costava all’Egitto circa 40 morti al giorno. Nel settembre dello stesso anno riunì al Cairo i capi di Stato ara­ bi per trovare una soluzione alla guerra civile che nel frattempo era esplosa in Giordania. L’accordo tra il leader palestinese Yasser Arafat e re Hussein di Giordania fu il suo ul­ timo successo: la conferenza di pace lo affa­ ticò molto e, nel pomeriggio del 28 settem­ bre, fu colpito da un infarto e morì, a soli 52 anni. Il 1° ottobre, al suo funerale, partecipa­ rono almeno cinque milioni di persone: se ne andava l’unico uomo considerato incor­ ruttibile in un pae­se di scandali e tangenti. Alle esequie parteciparono il premier sovie­ tico Aleksej Kosygin e quasi tutti i capi di Sta­ to arabi: secondo le cronache, Arafat pian­ se copiosamente, mentre il libico Gheddafi svenne due volte. Con Nasser moriva colui

che, nonostante i caratteri autoritari e per­ sonalistici della sua politica, aveva tentato di infondere dignità e di dare una patria comu­ ne alle masse arabe. Gamal Abdel Nasser in pellegrinaggio a La Mecca agosto 1954 Ultimo a destra il suo successore Sadat.

563

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

Sempre nel 1958, Nasser annunciò la fusione fra Egitto e Siria in una Repubblica araba unita (Rau). Ma il progetto fallì nel giro di pochi anni: i sogni di unità pa­ naraba si scontrarono ben presto con METODO DI STUDIO la realtà delle gelosie nazionali e delle divisioni ideologi a  Spiega chi sono i Fratelli musulmani e quali obiettivi si ponevano. che. E il progetto di un socialismo islamico capace di conci­  b  Sottolinea nel testo le informazioni relative alla forma istituzionale instauliare tradizione e modernità si risolse in una sequenza di rata da Nasser in Egitto e alle riforme intraprese. colpi di Stato e di dittature militari. Tuttavia il richiamo del  c  Sottolinea con colori diversi le informazioni principali relative alle alleanze internazionali dello Stato egiziano e le loro finalità. nasserismo rimase molto forte ed ebbe un’influenza decisi­  d  Sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze dell’attacco israeliava anche sulle vicende dei paesi del Maghreb (ossia la parte no all’Egitto. occidentale del Nord Africa), in lotta contro il dominio colo­  e  Spiega cosa si intende per panarabismo e quali ne sono stati gli esiti. niale francese.

Il fallimento del panarabismo



13_6 L’INDIPENDENZA DEL MAGHREB

Sia il Marocco sia la Tunisia, dove la Francia esercitava il suo dominio in forma di protettorato e dove sussistevano forme di limitato autogoverno, avevano visto nascere, già all’inizio del secolo, forti movimenti indipendentisti. Nel dopoguerra la guida di questi movimenti fu assunta da forze di ispirazione nazionalista e laica: in Marocco l’Istiqlal, appoggiato dal sultano Ben Youssef, in Tunisia il Neo-Destur, guidato da Habib Burghiba. Nel 1956 i francesi, dopo aver cercato di reprimere questi movimenti, si rassegnarono a concedere la piena indipendenza a entrambi i paesi, che negli anni successivi avrebbero mantenuto una posizione moderata e filo-occidentale in politica estera.

Marocco e Tunisia

Ben più drammatica e cruenta fu la lotta di liberazione in Algeria, dove la presenza francese aveva radici più profonde (la conquista risaliva al 1830) e maggiore consistenza. La colonia algerina era a tutti gli effetti una provincia dello Stato francese, abitata da oltre un milione di coloni che erano in gran parte nati in Algeria e la consideravano come casa propria. Gli otto milioni di algerini musulmani erano anch’essi cittadini francesi dal 1945, ma non godevano di pieni diritti politici e non erano rappresentati nel Parlamento di Parigi. A partire dal 1954, il movimento nazionalista algerino, già attivo negli anni fra le due guerre, si organizzò nel Fronte di liberazione nazionale (Fln) guidato da Mohammed Ben Bella, un’orga­ nizzazione clandestina radicata soprattutto nelle città. Cominciava così uno scontro che avrebbe assunto il valore di un modello per i movimenti rivoluzionari delle ex colonie, anche per il ruolo rivestito dalle donne [►FS, 120]. Lo scontro culminò nel 1957 con la battaglia di Algeri, che durò quasi nove mesi e vide la parte araba della città mobilitata a sostegno dei combattenti del Fln. I francesi riuscirono a piegare l’insurrezione con un massiccio invio di reparti speciali e con una repressione particolarmente brutale, suscitando proteste anche in una parte dell’opinione pub­ blica nazionale.

La guerra di Algeria

Nel maggio 1958, la minaccia di un colpo di Stato da parte dei militari e dei coloni più oltranzisti provocò la crisi della Quarta Repubblica e favorì il ritorno al potere di De Gaulle [►12_8]. Il generale, inizialmente favorevole al mantenimento di una presenza nella colonia, capì ben presto che la causa dell’“Algeria francese” era ormai perduta e agì con determina­ zione per far uscire il paese da una guerra sempre più difficile e costosa. Si apriva così la strada all’indipendenza algerina che fu sancita dagli accordi di Evian del marzo 1962. Prima sotto la guida di Ben Bella, poi (dal ’65 al ’79) sotto quella del più moderato Huari Bumedien, l’Algeria si diede un ordinamento interno fortemente autoritario, con un’economia in buona parte statalizzata, e assunse una posizione di punta nello schieramento dei paesi arabi.

L’indipendenza

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Gheddafi al potere in Libia

Di ispirazione nazionalista, anche se con connotati particolari di ortodossia islamica, fu la rivoluzione che, nel 1969, depose la monarchia in Libia – l’ex co­ lonia italiana, indipendente dal 1951 – e portò al potere i militari guidati dal

U4 IL MONDO DIVISO

Fotogrammi dal film La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo Nel 1966, pochi anni dopo la proclamazione dell’indipendenza algerina, il regista italiano Gillo Pontecorvo realizzò una pellicola interamente girata ad Algeri con molti attori non professionisti. La proiezione del film, che ebbe un grande successo internazionale tanto da vincere il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia, fu vietata in Francia fino al 1971.

giovane colonnello Muhammar Gheddafi. Il regime di Gheddafi – che fra i suoi primi atti nazionalizzò le compagnie petrolifere straniere ed espulse la numero­ sa comunità italiana ancora residente nel paese – si sarebbe in seguito caratteriz­ zato per il tentativo di realizzare una sua speciale versione del socialismo islamico e soprattutto per il dinamismo a tratti avventuroso della sua politica estera: una politica che lo avrebbe portato ad appoggiare i movimenti di guerriglia an­ tioccidentali e a inserirsi nei conflitti interni di vari paesi africani, creando uno stato di permanente tensione con i regimi arabi moderati e soprattutto con gli Stati Uniti.



METODO DI STUDIO

 a  Cerchia la data dell’indipendenza del Marocco e della Tunisia dalla Francia. Quindi individua e numera le fasi principali della lotta per l’indipendenza algerina.  b  Cosa rappresentò simbolicamente la battaglia di Algeri? Evidenzia la risposta nel testo ed esponila per iscritto sul tuo quaderno.  c Rinomina l’ultimo sottoparagrafo mettendo in evidenza i connotati principali del governo Gheddafi in Libia. Quindi sottolinea con colori diversi le azioni di politica interna ed estera del regime.

13_7 LE GUERRE ARABO-ISRAELIANE

► Leggi anche:

Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare un pe­ ricoloso focolaio di tensione: a livello locale, a causa della permanente ostilità fra Israele e i paesi arabi, che rifiutavano di riconoscere lo Stato ebraico; a livello internazionale, in quanto terreno di scontro tra l’Unione Sovietica, divenuta grande protettrice dell’E­ gitto, e gli Stati Uniti, che sostenevano con decisione Israele. Nel 1967 Nasser proclamò la chiusura del Golfo di Aqaba, unico sbocco israeliano sul Mar Rosso, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando, il 5 giugno, un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito venne deciso fin dalle prime ore, con la distruzione dell’intera aviazione egiziana, colpita ancor prima di decollare, e fu disastroso per gli arabi. L’Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania perse tutti i territori della riva occidentale del Giordano, inclusa la parte orientale di Gerusalemme (la città venne successivamente annessa dallo Stato ebrai­ co e nel 1980 proclamata sua capitale), la Siria perse le alture del Golan. Gli arabi contarono più di 30 mila morti, gli israeliani poche centinaia. Altri 400 mila palestinesi ripararono in Giordania e negli altri paesi arabi, dove andarono a ingrossare le file dei rifugiati nei campi profughi.

La “guerra dei sei giorni”

►     Personaggi Golda Meir, una donna alla guida di Israele

La disfatta della “guerra dei sei giorni” ebbe per gli arabi conseguenze di vasta portata: segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo; indusse a un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati della zona; determinò

Arafat e l’Olp

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C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dalla tutela dei regimi arabi. Guidata, a partire dal 1969, da Yasser Arafat, già leader del gruppo principale, quello di al-Fatah, l’Olp pose le sue basi in Giordania, creandovi una specie di Stato nello Stato. Il re di Giordania, Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici condotti dai feddayn (“combattenti”) palestinesi contro lo Stato ebraico, de­ cise di interrompere la difficile convivenza: nel settembre 1970 – il cosiddetto “settembre nero” – le truppe regolari giordane si scontrarono con i militanti palestinesi che furono costretti a riparare nel vicino Libano. I morti, fra combattenti e civili, furono migliaia. Da allora l’Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi, come quello attuato a Monaco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi del 1972. Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore, Anwar Sadat, cercò di dare alla politica egiziana un’impronta più realistica e meno condizionata dall’ideologia. Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane investirono di sorpresa le linee israeliane sul Canale di Suez e dilagarono nel Sinai, mentre i siriani attaccavano nel Golan [►FS, 129d]. Ma Israele riuscì a respingere gli attaccanti e a passare all’offensiva, penetrando in territorio egiziano. Quando, con la mediazione degli Stati Uniti, si giunse a un “cessate il fuoco”, la guerra si chiuse senza O

La “guerra del Kippur”

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lsraele nei confini del 1949 territorio occupato nel 1967 e annesso nel 1981 (Golan) territori occupati dal 1967 (Cisgiordania e Gaza) territorio occupato nel 1967 lsraele nei confini del 1949 e restituito fra il 1979 e il territorio occupato nel 1967 lsraele nei confini del1982 1949(Sinai) e annesso nel 1981 (Golan) territorio occupato nel 1967 territori occupati dal 1967 e annesso nel 1981 (Golan) (Cisgiordania e Gaza) occupati dal 1967 territorio occupatoterritori nel 1967 (Cisgiordania e Gaza) e restituito fra il 1979 e il 1982 (Sinai) territorio occupato nel 1967 e restituito fra il 1979 e il 1982 (Sinai) U4 IL MONDO DIVISO EZ

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36_ISRAELE 1967-82

ARABIA S A U D I TA

Un membro del gruppo terroristico palestinese nel corso dell’attentato alle Olimpiadi di Monaco 5 settembre 1972 Questa foto, tristemente famosa per essere apparsa sui giornali di tutto il mondo, ritrae un membro del commando di otto palestinesi che all’alba del 5 settembre del 1972 (undicesimo giorno delle Olimpiadi di Monaco) fece irruzione negli alloggi della squadra olimpica di Israele. Due atleti vennero subito uccisi, gli altri nove furono tenuti in ostaggio per poco meno di 24 ore. Nelle intenzioni del gruppo terroristico “Settembre nero”, gli ostaggi dovevano servire a negoziare la liberazione di 234 prigionieri nelle carceri israeliane e di due terroristi tedeschi di estrema sinistra detenuti in Germania. Le trattative furono lente e disordinate e l’azione della polizia mal coordinata. Come richiesto dai sequestratori, i terroristi tedeschi e i nove atleti israeliani vennero trasferiti in elicottero nel vicino aeroporto di Fürstenfeldbruck; di qui, il gruppo sarebbe dovuto salire su un aereo diretto in Medio Oriente. Ma il piano della polizia di colpire gli attentatori durante il passaggio dall’elicottero all’aereo fallì: durante una confusa sparatoria durata otto minuti morirono cinque terroristi, il pilota di uno degli elicotteri, un poliziotto tedesco, e tutti gli ostaggi israeliani. I tre terroristi rimasti in vita vennero poi catturati.

vincitori né vinti. Gravi furono invece le conseguenze a livello internazionale: la chiusura per due anni del Canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi (fra i quali si annoveravano alcuni fra i maggiori produttori mondiali, come l’Arabia Saudita, l’Iraq, il Kuwait) contro i paesi occidentali amici di Israele, diedero alla crisi una dimensione globale. L’aumento improvviso del prezzo del petrolio imposto dai paesi produttori, infatti, provocò conseguenze di vasta por­ tata sulle economie di tutto il mondo [►16_1 e 2]. Sul piano degli equilibri locali, i successi iniziali ottenuti con l’attacco nel Sinai, per quanto vanificati dalla con­ troffensiva israeliana, diedero agli egiziani la sensazione di aver lavato l’onta del 1967 e scossero il mito dell’invincibilità dello Stato ebraico [►FS, 130].



METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea i nomi degli Stati protagonisti della “guerra dei 6 giorni”, cerchia quello del vincitore e evidenzia con colori diversi le cause e gli esiti.  b  Spiega in una mappa chi e cosa sono Yasser Arafat, Hussein di Giordania e l’Olp e il rapporto esistente fra di essi.  c  Segna la porzione di testo che potresti intitolare: Il riconoscimento di Israele in cambio della liberazione di Cisgiordania e Gaza.

13_8 TRADIZIONALISMO E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA E IRAN

Il contrasto che attraversò il mondo islamico fra tradizionalismo e spinte mo­ dernizzatrici si fece sentire anche nei due maggiori paesi musulmani non arabi del Medio Oriente: la Turchia e l’Iran (l’antica Persia), che non avevano cono­ sciuto la dominazione coloniale ma avevano subìto, in diversa misura, l’influenza delle potenze eu­ ropee: la Turchia, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella Grande Guerra, aveva rischiato di finire divisa in zone di influenza, ma era stata salvata dalla rivoluzione di Kemal Atatürk [►10_2]. L’Iran, grande produttore di petrolio, era oggetto, fin dall’800, delle opposte mire egemoniche di Russia e Gran Bretagna.

Due potenze regionali

Rimasta neutrale per quasi tutta la durata del secondo conflitto mondiale (una formale dichiarazione di guerra alla Germania arrivò solo nel febbraio ’45), la Repubblica turca aderì al sistema di alleanze occidentale (divenne membro della Nato nel 1952) per sottrarsi all’influenza della vicina Unione Sovietica. Sul piano interno, continuò a muoversi entro le linee tracciate da Atatürk, che aveva guidato con mano di ferro il paese lungo un percorso di acce­ lerata modernizzazione e di forzata laicizzazione. Nel secondo dopoguerra, però, in parallelo con l’apertura di nuovi spazi di democrazia (dal partito unico si passò al pluripartitismo), le maglie del controllo sui cittadini si allargarono e fu concessa una maggiore tolleranza nei confronti delle tradizionali forme di culto, che resistevano soprattutto nelle aree rurali e montane dell’interno dell’Ana­ tolia. Protagonista di questa fase politica fu Adnan Menderes, primo ministro per l’intero decennio 1950-60.

L’eredità di Atatürk

Accusato di aver gestito il potere con abusi autoritari, ma anche di aver tradito, con le sue aperture all’islam, l’eredità di Atatürk, Menderes fu rovesciato nel 1960 e mandato a morte da un colpo di Stato militare. Da allora, e per molti anni, la Turchia visse una vita politica alquanto agitata, in cui una vivace dialettica partitica veniva periodica­ mente interrotta (accadde nel 1971 e nel 1980) dagli interventi dei militari, custodi della tradizione laica della rivoluzione kemalista: il che peraltro non impedì al paese di progredire sulla via dello sviluppo economico e di rafforzare la sua posizione internazionale.

I colpi di Stato militari

Anche l’Iran, nel primo dopoguerra, aveva intrapreso un percorso di modernizzazione economica e politica sotto la monarchia di Reza Pahlavi (detto Rheza Khan), un militare insediatosi al trono nel 1925 col titolo di scià (impe­ ratore) dopo un colpo di Stato che aveva rovesciato la dinastia turca dei Cagiari. Durante la seconda guerra mondiale, il paese, collocato in posizione strategica fra il mondo arabo, la Russia e il subcon­ tinente indiano, fu sottoposto alla duplice occupazione di britannici e sovietici, che nel 1941 impo­ sero allo scià, sospettato di simpatie filotedesche, di abdicare in favore del figlio Mohammed Reza Pahlavi.

Il regime degli scià in Iran

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C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

Il giovane monarca continuò la politica del padre, governando con metodi auto­ ritari, ma si avvicinò alle potenze occidentali, in particolare alla Gran Bretagna, legata all’Iran da un accordo per lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Un ten­ tativo di svolta si ebbe nel 1951, quando divenne primo mi­ nistro Mohammed Mossadeq, fautore di una democratizMETODO DI STUDIO zazione del sistema politico e di un’emancipazione del  a  Sottolinea con colori diversi le scelte politiche della Turchia in politica estera e in politica interna paese dalla subordinazione economica all’Occidente. La dopo la seconda guerra mondiale. Quindi scegli la decisione di Mossadeq di nazionalizzare l’industria peparola in parentesi che completa correttamente la setrolifera provocò però la reazione del governo britannico, guente frase: «La Turchia aderì al sistema di alleanze dei paesi (orientali/occidentali)». che questa volta, diversamente da quanto sarebbe accaduto  b Cosa significa il termine scià riferito all’Iran? qualche anno dopo con la crisi di Suez, ottenne la collaboIndividua e cerchia nel paragrafo la risposta. razione degli Stati Uniti, preoccupati (era in corso la guer­  c  Sottolinea con colori diversi le direttrici sera in Corea) di una possibile penetrazione sovietica nell’a­ guite in politica interna e in economia estera dallo scià Mohammed Reza Pahlavi. rea. Nel 1953 un colpo di stato militare organizzato dai  d Evidenzia le cause della caduta del primo servizi segreti anglo-americani depose il primo ministro e ministro iraniano Mossadeq. restituì il potere assoluto allo scià.

Il tentativo di Mossadeq



13_9 L’INDIPENDENZA DELL’AFRICA NERA

568

La partita decisiva della decolonizzazione si giocò, come abbiamo visto, in quei paesi dell’Asia e del Nord Africa che avevano alle spalle una più lunga esperienza di soggezione al dominio coloniale, ma anche una più forte tradizione di statalità. Per i paesi dell’Africa a Sud della fascia sahariana (quella che comunemente chiamiamo “Africa nera”), che erano stati quasi tutti colonizzati nel giro di pochi decenni, alla fine dell’800, l’emancipazione fu più tardiva, ma anche più rapida e, nel complesso, meno contrastata, dal momento che le maggiori potenze coloniali avevano rinunciato a opporsi a un processo ormai inarrestabile.

U4 IL MONDO DIVISO

Dimostrazione a favore di Mossadeq a Teheran 1952 Primo ministro dal 1951 al 1953, Mohammed Mossadeq è ricordato per il suo tentativo di rendere l’Iran un paese democratico e traghettarlo fuori dall’influenza politicoeconomica delle grandi potenze occidentali. La sua prima mossa a capo del governo fu di smantellare la AngloIranian Oil Company (compagnia petrolifera britannica cui era stata data la concessione dello sfruttamento dei giacimenti del paese) e costituire una compagnia nazionale per la gestione delle risorse petrolifere. Ne seguì una crisi nei rapporti con la Gran Bretagna che mise in atto un blocco navale che impediva l’esportazione di petrolio. Mossadeq sottopose la questione all’attenzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riportando una vittoria diplomatica sulla Gran Bretagna. Ciononostante, la crisi economica e le forti resistenze interne alle sue importanti riforme politiche, fiscali e sociali, finirono per far perdere a Mossadeq importanti appoggi politici. Con il colpo di Stato dell’agosto 1953, la cosiddetta “operazione Ajax”, segretamente promossa dal Regno Unito e dagli Usa, Mossadeq fu destituito, processato e condannato a tre anni di detenzione in una prigione militare. Fu poi sottoposto agli arresti domiciliari dove restò fino alla morte nel 1967.

► Leggi anche: ► Parole della storia Neocolonialismo, p. 570

La grande stagione dell’emancipazione africana si aprì nei territori britannici con l’indipendenza del Ghana (l’antica Costa d’oro) nel 1957. Fra le colonie fran­ cesi la prima ad affrancarsi fu la Guinea nel 1958. Nel 1960, in quello che fu chia­ mato l’anno dell’Africa, ottennero l’indipendenza ben diciassette nuovi Stati: fra questi la Nigeria, il Congo belga (poi ribattezzato Zaire), il Senegal e la Somalia (dove era scaduto il mandato assegnato all’Italia [►14_3]). Nel 1961 fu la volta del Tanganica e nel 1963 di Zanzibar, che nel 1964 si unirono dando vita alla Repubblica di Tanzania, sotto la guida di Julius Nyerere. Il cammino verso l’indipendenza fu più travagliato dove erano in gioco interessi più forti o dove più consistente era la presenza dei coloni bianchi. Il Kenya, per esempio, prima di raggiungere l’indipen­ denza nel 1963, fu insanguinato dalla violenta campagna terroristica condotta dai Mau-Mau (braccio armato del movimento indipendentista guidato da Jomo Kenyatta), cui rispose un’altrettanto spieta­ ta repressione da parte dei britannici. Nella Rhodesia del Sud, la minoranza bianca (il 7% della popo­ lazione), per difendere le sue posizioni, non esitò a rompere con la Gran Bretagna: nel 1965 il governo razzista di Ian Smith proclamò unilateralmente l’indipendenza e l’uscita dal Commonwealth. Solo nel 1980, dopo quindici anni di lotte, il paese fu restituito alla maggioranza nera e prese il nome di Zimbabwe.

La stagione dell’indipendenza

Ultima roccaforte del potere bianco nel continente rimaneva l’Unione Sudafricana, dominion britannico di fatto già indipendente, le cui truppe avevano com­ battuto a fianco degli alleati nel secondo conflitto mondiale. Qui il dominio della forte minoranza bianca – circa 5 milioni fra anglofoni e boeri (i discendenti dei coloni olandesi) con­ tro oltre 20 milioni di neri – si reggeva su un regime di segregazione razziale, l’apartheid, che fu inasprito e reso più rigido già nel corso degli anni ’50: uno stato di cose non più tollerabile dalla co­ munità internazionale nell’era della decolonizzazione, che portò all’uscita del Sudafrica dal Commonwealth (1961) e a numerose condanne da parte dell’Onu. Il tentativo di concentrare una parte della popolazione nera in piccoli Stati semi-indipen­ denti (i Bantustan, dal nome del più numeroso gruppo etnico-linguistico dell’Africa subsahariana) non servì ad attenuare le tensioni, che si concentravano soprattutto nelle città, né a spegnere la protesta, anche violenta, del­ la maggioranza nera, organizzata nell’Anc (African National Congress), fuori legge dal 1960. Solo nell’ultimo decennio del secolo, come vedremo, si sarebbe giunti a una soluzione pacifica del contrasto: soluzione resa pro­ blematica sia dall’entità della posta in gioco (il Sudafrica era ed è uno dei massimi produttori mondiali di materie prime strategiche come l’uranio, oltre che di oro e dia­ manti), sia dalla consistenza della comunità bianca, so­ prattutto di quella boera, presente da tre secoli nel paese e dunque portata a considerarlo come la propria vera patria.

Il Sudafrica e l’apartheid

Città del Capo: un cartello delimita una zona riservata ai bianchi 1985 La foto ritrae un tipico simbolo del regime razzista sudafricano: posto all’ingresso di una spiaggia nei pressi di Città del Capo, scritto in inglese e afrikaans (la lingua dei boeri), recita «Solo persone bianche. Questa spiaggia e i servizi ad essa annessi sono stati riservati ai soli bianchi. Per ordine del Segretario Provinciale». Il cartello immediatamente sotto vieta l’ingresso anche ai cani.

Un caso di decolonizzazione parti­ colarmente drammatica e cruenta fu quello del Congo, lasciato dalla dominazione belga in condizioni di spaventosa arretra­ tezza. L’indipendenza, concessa nel 1960 senza alcuna preparazione, si accompagnò a una sanguinosa guerra civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mi­ neraria del Katanga, fomentato e appoggiato con l’invio di mercenari dalle compagnie minerarie belghe. Il capo del governo congolese e leader del movimento indipen­ dentista, Patrice Lumumba, fu fatto prigioniero e ucciso

Il dramma del Congo

569

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

dai secessionisti nel 1961. L’unità del paese – dove si affermò un regime militare guidato dal generale Sese Seko Mobutu – fu faticosamente ristabilita solo con l’intervento di truppe delle Nazioni Unite. Sia pure in forma estrema, il conflitto nel Congo fu emblematico delle contraddi­ zioni e dei contrasti – etnici, tribali, politici e religiosi – che attraversarono l’A­ frica all’indomani della decolonizzazione, e non fu un caso isolato. In Nigeria, il tentativo secessionista del Biafra, fra il ’66 e il ’68, fu sanguinosamente represso; in Etiopia, dopo il colpo di Stato che nel 1974 rovesciò il vecchio imperatore Hailè Selassiè, portando al potere i militari capeggiati dal colonnello Hayla Mariam Menghistu, si inasprirono le lotte degli indipendentisti in Eritrea, prima colonia italiana, inglobata dall’Etiopia nel 1947. Questi conflitti misero in drammatica evidenza l’intrinseca fragilità degli Stati africani e delle loro istituzioni. Per ottenere l’indipendenza, i leader nazionalisti avevano finito con l’accettare le frontiere tracciate a tavolino dai colonizzatori e gli stessi apparati amministrativi ereditati dall’epoca coloniale. Del resto non esistevano facili alternative. Rispetto alla frammentazione delle società tradizionali afri­ cane, l’organizzazione statale rappresentava un principio di aggregazione più avanzato e consentì in effetti un significativo ridimensionamento del potere dei capi-tribù. D’altro canto il tentativo di imporre strutture da Stato-nazione a popolazioni eterogenee per etnia, religione, lingua e tradizioni incontrò difficoltà formidabili. E quasi mai riuscì il ricalco delle istituzioni democratiche europee, tentato soprattutto nelle ex colonie britanniche. Nel giro di pochi anni questi istituti lasciarono il po­ sto a dittature monopartitiche e a regimi militari di stampo autoritario o decisamente dispotico, come la crudele dittatura dell’ex caporale Idi Amin in Uganda tra il 1971 e il 1979.

Conflitti interni e instabilità politica

I problemi economici e il modello socialista

All’instabilità politica si aggiungeva una condizione di grave debolezza economica, che rischiava di provocare una rinnovata dipendenza dai paesi industria­ lizzati, attraverso aiuti non sempre disinteressati e rapporti commerciali forte­ mente squilibrati. Contro queste forme di neocolonialismo si fecero più forti, a

Parole della storia

Neocolonialismo

D

570

i “neocolonialismo” si cominciò a parlare intorno alla metà del ’900, parallelamente al processo di decolonizzazione. Numerosi osservatori sostennero che all’acquisita indipendenza politica delle ex colonie asiatiche e africane non corrispondeva una piena autonomia economica: la fine del dominio “formale” era accompagnata dal persistere, con nuove modalità, di rapporti di dipendenza e di alcuni aspetti caratteristici del vecchio colonialismo. Secondo le teorie sul neocolonialismo, le ricchezze nazionali delle ex colonie continuavano a essere sfruttate a vantaggio del capitale estero in collusione con le classi dirigenti locali, spesso corrotte e prive di reale autonomia, in quanto dipendenti dal sostegno diplomatico, militare e finanziario dei governi occidentali e delle grandi multinazionali dell’industria e della finanza. Anche lo sfruttamento dei lavoratori (bassi salari e scarse tutele) poteva essere perseguito più facilmente e in

U4 IL MONDO DIVISO

misura maggiore nelle aree arretrate, dove non esistevano forze in grado di opporsi e dove lo Stato sosteneva i capitalisti stranieri. L’iniqua distribuzione delle risorse e il più elevato sfruttamento dei lavoratori sarebbero a loro volta stati sorretti da una visione eurocentrica del mondo, fondata sulla convinzione della superiorità economicoculturale dell’Occidente. Molte teorie sul neocolonialismo si basavano sul concetto di scambio ineguale: da un lato, l’arretratezza economica e tecnologica, le marcate disuguaglianze, la diffusa povertà e l’accentuata preminenza della produzione di materie prime o di raccolti poco remunerativi portava gli Stati di nuova indipendenza a indirizzare l’economia verso l’esportazione e non alla creazione di un mercato interno; dall’altro, la netta predominanza economica, tecnologica, diplomatica e militare avrebbe permesso alle economie occidentali di imporre rapporti contrattuali a loro molto più favorevoli, riuscendo così a ottenere prezzi più bassi. Ciò avrebbe comportato un trasferimento di ricchezza dai paesi poveri a quelli ricchi.

Elaborate da studiosi marxisti e da movimenti indipendentisti asiatici e africani negli anni ’50 e ’60, le teorie sul neocolonialismo esprimevano la delusione per le difficoltà incontrate dal processo di decolonizzazione e per il fatto che la nascita di nuovi Stati non si traduceva in piena indipendenza politica né dava luogo a uno sviluppo economico. All’accusa rivolta alle imprese multinazionali e ai governi occidentali di attuare politiche finalizzate a perpetuare le diseguaglianze e la subordinazione dei paesi sottosviluppati si saldò la denuncia del ruolo svolto dalle organizzazioni internazionali (soprattutto il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale), considerate una diretta emanazione degli interessi delle economie più avanzate, in particolare di quella statunitense. A partire dagli anni ’70 la crescita dell’economia e dell’autonomia politica di alcuni paesi sottosviluppati ha prodotto una forte differenziazione all’interno del Terzo Mondo, modificando pure il rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri; ciò ha indotto a una profonda revisione delle teorie e delle analisi elaborate sino ad allora.

MADEIRA (Port.)

MADEIRA (Port.) CANARIE (Sp.)

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37_LA DECOLONIZZAZIONE IN AFRICA MADEIRA (Port.)

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= AFARSUDAFRICANA) E ISSA 1977 (dal 1961 A.I. REPUBBLICA

B. D. G. in nero data dell’indipendenza G.B. A.I. = AFAR E ISSA 1977 G.E. B. = BURUNDI 1962 M. D. = DAHOMEY 1960 R. G. = GAMBIA 1965 S. G.B. = GUINEA-BISSAU 1974 G.E. = GUINEA EQUATORIALE 1968 T. paesi già indipendenti

= = = = = = = = =

BURUNDI 1962 DAHOMEY 1960 GAMBIA 1965 GUINEA-BISSAU 1974 GUINEA EQUATORIALE 1968 MALAWI 1964 RUANDA 1962 SWAZILAND 1968 TOGO 1960

paesi già indipendenti paesi già indipendenti in nero data dell’indipendenza inA.I. nero = data AFARdell’indipendenza E ISSA 1977 B. == AFAR BURUNDI 1962 A.I. E ISSA 1977 D. == BURUNDI DAHOMEY1962 1960 B. G. == DAHOMEY GAMBIA 1965 D. 1960 G.B. == GAMBIA GUINEA-BISSAU G. M. ’60, = MALAWI 1964 a una decolonizzazione radicale, partire dalla1965 metà1974 degli anni le spinte G.E. == GUINEA-BISSAU GUINEA EQUATORIALE G.B. 1974 1968 R. = RUANDA 1962 ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall’Unione Sovietica. Paesi come M. == GUINEA MALAWI 1964 G.E. EQUATORIALE 1968 S. = SWAZILAND 1968 R.Tanzania RUANDA1964 1962 == MALAWI laM. di Nyerere, il Congo Brazzaville (l’ex Congo francese) e il Benin T. = TOGO 1960 S. == RUANDA SWAZILAND 1968 R. 1962 scelsero la via della rottura con l’Occidente, a favore di uno sviluppo basato sul T. == SWAZILAND TOGO 19601968 S. mercato interno e pilotato dallo Stato. A questo indirizzo si ispirarono successi­ T. = TOGO 1960

vamente anche il regime etiopico di Menghistu e soprattutto l’Angola e il Mozambico, giunti all’indipendenza nel 1975, dopo una lunga lotta contro il dominio portoghese, e protagonisti di quella che è stata chiamata la “seconda decolonizzazione” africana. La scelta del modello socialista, tuttavia, non ri­ sparmiò ai paesi che l’avevano effettuata gli stessi problemi di quelli che aveva­ no mantenuto stretti legami con l’Occidente: povertà cronica, carestie, disgre­ gazione sociale, emarginazione dal mercato mondiale.

G.B. G.E. M. R. S. T.

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SÃO TOMÉ E REP. G.E. E PRÌNCIPE A T CIAD CENTRAFRICANA L VO 0 GABON O1960 G.B. 6 A.I. 19601975 1960 19 G. ALT CIAD GUINEA TA 1960 L D. 1956 NIGERIA O 0 1960 SUDAN V 1958 SÃO TOMÉ G.G.B. O A.I. A6 COSTA T. ETIOPIA SIERRA 1960 ALT VO1LT9 1956 GUINEA REP. G.E. LIB E PRÌNCIPE D’AVORIO OCEANO NIGERIA O G.B. 60 D. LEONE A.I. KENY 1958 19 E CENTRAFRICANA ALT GUINEA COSTA T. D. ETIOPIA GABON SIERRA 1960RIA 1960 NIGERIA 1961 196 REP. A T L A NZAIRE TICO 1975 1960 L1958 D’AVORIO 1960 R. T. ETIOPIA SIERRA 1960 LEONE IBER COSTA CENTRAFRICANA REP. 1960 1960 B. SÃO TOMÉ 1961 LIB IA D’AVORIO 1960 LEONE ER CENTRAFRICANA OCEANO IA 1960 G.E. 1961 E1960 PRÌNCIPE KENYA SÃO TOMÉ TANZANIA ANG GABONA T L A N T I C O 1963 ZAIRE 1975 1964 19 G.E. SÃO TOMÉ E PRÌNCIPE KENYA 1960 R. 1960 G.E.GABON E PRÌNCIPE B. 1963 KENYA ZAIRE 1975 1960 R. GABON OCEANO 1963 1960 ZAIRE 1975 ANGOLA TANZANIA 1960 R.B. M. AFRICA A T L A N T I C1960 O OCEANO ZAMBIA SUD-O B. 19641975 TANZANIA (Nam 1964 CA EN AN AO TL T IOC O 1964 TANZANIA ammi AT L A N T I C O COMORE 1975 Suda 1964 ANGOLA AFRICA DEL RHODESIA M. 1975 SUD-OVEST ZAMBIA 1965 1975 COMORE ANGOLA (Namibia) M. BOTSWANA 1964 1975 COMORE 1975 ZAMBIA ANGOLA amministr. 1966 M. Sudafrica 1975 1964 ZAMBIA AFRICA DEL RHODESIA S. 1964 SUD-OVEST (dal 1961 1965 UNIONE AFRICA DEL (Namibia) RHODESIA BOTSWANA LESOTHO 1966 SUDAF. SUD-OVEST amministr. AFRICA DEL 1965 RHODESIA 1966 1910-61 (Commonwealth) (Namibia) Sudafrica SUD-OVEST BOTSWANA 1965 amministr. (Namibia) 1966 paesi già indipendenti S. (dal 1961 REPUBBLICA SUDAFRICANA) BOTSWANA Sudafrica UNIONE amministr. 1966 LESOTHO 1966 S. SUDAF. Sudafrica in nero data dell’indipendenza UNIONE (Commonwealth) 1910-61 S. A.I. = AFAR E ISSA 1977 LESOTHO 1966 SUDAF. UNIONE paesi già indipendenti (dal 1961 REPUBBLICA B. = BURUNDI 1962 SUDAFRICANA) (Commonwealth) 1910-61 LESOTHO 1966 SUDAF. D. = DAHOMEY 1960 1910-61 nero data (Commonwealth) dell’indipendenza G. = GAMBIA 1965 (dal 1961inREPUBBLICA SUDAFRICANA) 1960

GUINEA-BISSAU 1974 GUINEA EQUATORIALE 1968 MALAWI 1964 RUANDA 1962 SWAZILAND 1968 TOGO 1960

METODO DI STUDIO

 a Individua le parole chiave in grado di descrivere i percorsi dei paesi africani verso l’indipendenza e argomenta la tua scelta per iscritto con esempi concreti.  b  Evidenzia nel testo il significato del termine apartheid e boeri e spiega oralmente quale relazione sussiste tra i due.  c  Sottolinea i motivi dei conflitti nell’Africa decolonizzata e argomenta oralmente tali ragioni.  d  Spiega per iscritto cosa si intende con l’espressione “seconda decolonizzazione”.

571

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

13_10 IL TERZO MONDO: NON ALLINEAMENTO E SOTTOSVILUPPO Fra il 18 e il 24 aprile 1955 si riunirono a Bandung, in Indonesia, i rappresentanti di ventinove Stati afroasiatici che avevano appena raggiunto l’indipendenza o che avevano combattuto per emanciparsi dall’egemonia delle grandi potenze europee: fra questi, oltre all’Indonesia, paese ospite, l’India e il Pakistan, l’Egitto e l’Arabia Saudita, e la stessa Repubblica popolare cinese. Era presente come Stato osservatore, in virtù della sua partico­ lare collocazione internazionale, anche la Jugoslavia di Tito. La Conferenza Asia-Africa si concluse con l’approvazione di un documento che proclamava l’eguaglianza fra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze. Ciò che univa questi paesi, diversi per condizioni economiche e ordinamenti politici, era l’idea di condividere un’eredità, quella della lotta di liberazione dal colonialismo, e di essere por­ tatori di comuni interessi e aspirazioni, che non potevano essere contenuti nella logica della com­ petizione fra i due blocchi: di far parte insomma di un Terzo Mondo distinto sia dall’Occidente capitalistico sia dall’Est comunista.

La conferenza di Bandung

Da allora si tennero periodicamente altre riunioni, in cui si cercò di rinsaldare il legame fra i paesi “terzi”. In una conferenza che si tenne a Belgrado nel 1961, i principali leader del movimento – l’indiano Nehru, l’egiziano Nasser e lo jugoslavo Tito – lanciarono la formula del “non allineamento”: gli Stati del Terzo Mondo si proponevano così come protagonisti di una politica di neutralismo attivo, destinata a erodere l’ege­ monia delle superpotenze e a sottrarre il mondo alla morsa della guerra fredda. In realtà, le aspirazioni neu­ traliste finirono col ridursi a rituali affermazioni di prin­ cipio. Man mano che il movimento si allargava (alla con­ ferenza di Algeri del 1973 erano rappresentati 75 Stati), si accentuava la sua eterogeneità. Accanto a paesi di os­ servanza filo-occidentale – fra gli altri l’Iran, la Thailan­ dia, le Filippine e l’Arabia Saudita – vi figuravano Stati strettamente legati all’Unione Sovietica, come Cuba e il Vietnam. Né mancarono i tentativi di spostare l’asse del non allineamento in senso filosovietico, sostenendo la posizione dell’Urss come “naturale alleata” dei paesi del Terzo Mondo, in quanto avversaria degli Stati Uniti e de­ positaria di una tradizione anti-imperialista.

I non allineati

► Leggi anche: ►     Focus La lotta contro la malaria • Esplosione urbana e sottosviluppo: le bidonvilles

Francobolli commemorativi della conferenza Asia-Africa tenutasi a Bandung emessi dalla Repubblica Indonesiana aprile 1955

IL TERZO MONDO E IL PRINCIPIO DEL “NON ALLINEAMENTO”

Bandung ’55

572

Eguaglianza di tutte le nazioni

U4 IL MONDO DIVISO

Lotta al colonialismo

Belgrado ‘61

“Terzo Mondo“

Arretratezza economica

Non allineamento al sistema bipolare Usa-Urss

Neutralismo attivo

Sottosviluppo

Se il non allineamento apparve fin dagli anni ’50 il comune denominatore po­ litico del Terzo Mondo, il sottosviluppo sembrò rappresentarne, con uguale semplificazione, la dimensione economica. Da questo punto di vista, i paesi di nuova indipenden­ za, pur nella grande diversità delle situazioni, presentavano alcune caratteristiche comuni: la carenza di strutture industriali; l’arretratezza dell’agricoltura, caratterizzata da una produttività molto bassa (mediamente inferiore alla metà di quella dell’Europa all’inizio della rivoluzione indu­ striale); la crescente emarginazione dalle grandi correnti degli scambi internazionali (fra il ’48 e il ’70 la partecipazione dei paesi del Terzo Mondo al commercio mondiale scese dal 33 al 18%); la drammatica sproporzione fra le risorse disponibili e una popolazione in continuo, inarrestabile aumento.

Il sottosviluppo

Da tutto ciò emergeva un quadro di generale e sconsolante povertà. Intorno al 1960, nei paesi definiti “sottosviluppati” o, più correttamente, in via di sviluppo, il prodotto procapite era mediamente inferiore di dieci volte a quello dei paesi industrializzati; l’analfabetismo era ancora molto diffuso (con punte del 90% e oltre in alcuni Stati africani); le infrastruttu­ re civili e le attrezzature igienico-sanitarie largamente carenti, con le inevitabili e catastrofiche conse­ guenze sul piano della mortalità, a causa del dilagare di epidemie; la sottoalimentazione una realtà molto diffusa. In questo contesto il fenomeno dell’urbanizzazione non era sin­ tomo di progresso, ma di miseria e degrado [►FS, 118]. Masse di diseredati si ri­ Terzo Mondo versavano nelle bidonvilles (grandi agglomerati di baracche costruite con mezzi Nata con un’accezione politica e diplomatica, l’espressione di fortuna) delle città capitali, alla ricerca di occupazioni saltuarie, sussidi gover­ “Terzo Mondo” ben presto assunse anche un significato economico e sociale. Secondo la definizione data dal nativi, aiuti umanitari.

Le aree povere

Non si trattava certamente di fatti nuovi, ma nuova fu la percezione del fenomeno. L’allargamento dell’orizzonte mondiale provocato dalla decolonizzazione fece sì che la povertà di massa che affliggeva i due terzi della popolazione del globo non po­ tesse più essere considerata come una condizione “naturale”, ma diventasse in­ vece una flagrante smentita a quel principio di uguaglianza dei popoli che era alla base del nuovo ordine affermatosi dopo la seconda guerra mondiale. Questa problematica fu inoltre amplificata dall’atteggiamento “rivendicazionista” as­ sunto dalla maggior parte dei paesi del Terzo Mondo nei confronti dell’Occidente sviluppato, accusato di aver costruito il suo benessere sullo sfruttamento coloniale, e poi su quello “neocoloniale”, e dunque chiamato a dividere questo benessere con i paesi più poveri. Ne derivò un’attenzione inedita da par­ te dei paesi occidentali, nei quali crebbe la consapevolezza della drammaticità del fenomeno e si sviluppò una tendenza politica e culturale, il “terzomondismo”, che individuò proprio nel superamento delle disuguaglianze l’obiettivo politico prioritario.

La polemica contro l’Occidente

demografo francese Alfred Sauvy, il termine “Terzo Mondo” indicava l’insieme dei paesi di Africa, Asia, Medio Oriente, America centrale e meridionale economicamente arretrati, rispetto al “Primo Mondo”, rappresentato dai paesi industrializzati dell’Occidente, e al “Secondo Mondo”, formato dagli Stati del blocco comunista.

METODO DI STUDIO

 a  Con l’espressione “Stati non allineati” s’intende...: completa la frase cercando nel paragrafo la conclusione corretta. Quindi spiega per iscritto in cosa consiste la politica del “non allineamento” e in quale occasione fu sancita.  b  Individua e numera le caratteristiche che accomunavano i paesi di nuova indipendenza.  c  Spiega in che cosa consiste l’atteggiamento “rivendicazionista” dei paesi del Terzo Mondo nei confronti dell’Occidente e come si rapportarono questi ultimi al blocco dei paesi non allineati.

13_11 DITTATURE E POPULISMI IN AMERICA LATINA Al movimento dei non allineati parteciparono quasi tutti i paesi dell’America Latina. Difficile dire se e in quale misura essi rientrassero nella categoria del “Terzo Mondo”: da un lato, per i grandi squilibri sociali e la presenza di estese aree di arretratezza, potevano essere assimilati alla tipologia dei paesi in via di sviluppo; dall’altro la condivisione dei modelli culturali europei li avvicinava piuttosto all’Occidente. Inoltre alcuni di quei paesi, a cominciare dai più importanti come Brasile, Argentina e Messico, avevano già avviato, negli anni del secondo conflitto mondiale, un processo di crescita economica, favorito sia dall’au­ mento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli sia dal calo delle esportazioni degli Usa e degli Stati europei impegnati nella guerra.

► Leggi anche: ►     Focus I desaparecidos

Fra Terzo Mondo e Occidente

573

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

Quando però questa congiuntura favorevole cessò, riemersero i problemi di un’antica arretratezza, accentuati dalla crescente dipendenza dagli Stati Uniti. In alcuni casi, come quello del Messico, i capitali statunitensi concorsero, pur con inevitabili condizionamenti, alla crescita industriale. In altri casi, soprattutto nei paesi più poveri del Centro America – le cui economie, basate sulle monocolture agricole, erano dominio riservato delle grandi corporations come la United Fruit Company –, i gruppi di interesse statunitensi e lo stesso governo di Washington si trovarono alleati alle oligarchie terriere locali nel combattere ogni forma di rinnovamento. In generale, gli Stati Uniti assunsero una funzione di tutela sull’intero continente. Sotto il loro impulso fu creata nel 1948 l’Organizzazione degli Stati americani, che doveva realizzare una più stretta cooperazione economica fra i paesi del continente, ma aveva anche un preciso scopo politico: impedire che l’aggravarsi dell’instabilità politica e il riacutizzarsi delle tensioni sociali apris­ sero spazi alla penetrazione comunista.

La dipendenza dagli Usa

A farsi interpreti delle spinte al cambiamento, in assenza di forti partiti operai, furono soprattutto i ceti medi urbani, animati per lo più da sentimenti nazionalistici, avversi alle oligarchie tradizionali, divisi fra le aspirazioni al rinnovamen­ to e l’esigenza di proteggersi contro le spinte dal basso: dunque portati ad allearsi ora con le classi più povere ora con gli strati più abbienti. Questa crescente centralità dei ceti medi si concretizzò in solu­ zioni politiche di segno diverso, ma sostanzialmente riconducibili alla tradizione del populismo [►10_9].

Ceti medi e populismo

Di stampo populista fu il regime instaurato in Argentina dal colonnello Juan Domingo Perón. Eletto presidente con largo margine nel 1946, Perón avviò, col sostegno dei sindacati, una politica di incentivi all’industria e di aumenti salariali, di lotta contro i monopoli e di nazionalizzazione dei servizi pubblici. Il suo riformismo sociale, condito da una forte dose di demagogia, si accompagnava a una prassi politica autoritaria, che ricordava per molti aspetti quella dei regimi fascisti: dialogo nelle piazze fra il leader e i suoi seguaci (i descamisados), pressioni sulla stampa, culto carismatico della figura del presidente e ancor più di quella di sua moglie Evita, subito diventata una icona popolare (e tale rimasta an­ che dopo la morte nel 1952). Sul piano economico, la politica peronista ebbe successo finché durò la congiuntura favorevole del periodo postbellico. Osteggiato dai conservatori, dai vertici delle forze armate, dalle gerarchie ecclesiastiche e alla fine – a causa del dissesto finanziario e del con­ tinuo aumento dell’inflazione – anche dai ceti medi, Perón fu rovesciato nel 1955 da un colpo di Stato militare e costretto ad abbandonare l’Argentina.

L’Argentina e il peronismo

Da allora, il paese visse anni agitati, in una continua alternanza fra deboli go­ verni civili e dispotici regimi militari. Nel 1972, in presenza di una situazione sempre più delicata, soprattutto sotto il profilo dell’economia e dell’ordine pubblico (erano attivi nel paese diversi gruppi di guerriglia, sia di ispirazione marxista sia di obbedienza peronista), furo­ no gli stessi militari a sollecitare il ritorno in patria dell’esule Perón. Rieletto alla presidenza della Repubblica nel ’73, il leader, anziano e malato, fallì completamente nel compito di riportare l’ordi­ ne nel paese. Né meglio di lui seppe fare la sua seconda moglie, Isabelita, salita alla presidenza dopo la morte del marito. Nel 1976, i militari decisero di deporre la presidentessa e di riprendere in mano il potere. La dittatura militare, per combattere i movimenti di opposizione, usò metodi estremamente brutali: decine di migliaia di persone furono arrestate e uccise o scomparvero nel nulla. Ma nemmeno il pugno di ferro dei militari servì a rimettere in sesto l’economia e a fermare l’inflazione.

I governi militari

Simili per molti aspetti a quelle vissute dall’Argentina furono le vicende del Brasile, dove si era sviluppato già negli anni ’30 il primo esperimento di gover­ no populista dell’America Latina, quello di Getulio Vargas [►10_9]. Rovesciato nel 1945 dai militari, Vargas tornò al potere nel 1950, ma si scontrò con difficoltà analoghe a quelle incontrate da Perón in Argentina. Nel 1954, esautorato nuovamente dai militari, Vargas si suicidò. I suoi successori seguirono una politica di non allineamento nelle relazioni internazionali e 574

Il Brasile e il ritorno di Vargas

U4 IL MONDO DIVISO

Foulard con la scritta «sempre con le madri» appeso ai cancelli della Casa Rosada a Buenos Aires 2011 Fra il 1976 e il 1983 l’Argentina fu governata da una spietata dittatura, durante la quale fu scatenata una violenta repressione contro gli oppositori politici, vittime di sequestri, torture e uccisioni. Circa 30 mila furono i desaparecidos, persone scomparse a seguito di arresti e processi sommari e la cui sorte è spesso rimasta oscura. A questi si aggiungevano i numerosissimi bambini, sequestrati insieme ai loro genitori o partoriti all’interno dei campi di concentramento, dati in adozione a famiglie fedeli al regime. Le prime a mobilitarsi su questo tema furono le madri degli scomparsi che, incontrandosi nei commissariati o nelle carceri in cerca di notizie dei loro figli, decisero di organizzarsi. Il fazzoletto bianco, simbolo dell’associazione Madres de Plaza de Mayo, fu indossato come segno identificativo da queste madri che, il 30 aprile 1977, si riunirono per la prima volta a Plaza de Mayo, la piazza principale di Buenos Aires, dove ha sede il palazzo del governo (la Casa Rosada visibile nella foto), per chiedere di essere ricevute dalle autorità e avere informazioni sui propri cari. Da allora, nonostante le pressioni e le violenze subite, tutti i giovedì si ritrovavano in piazza per manifestare il loro dissenso contro la repressione, riuscendo a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.

rilanciarono i progetti di industrializzazione e modernizzazione (nel 1960 fu fondata la nuova capitale, Brasilia) ma non riuscirono a cancellare i gravissimi squilibri di un paese immenso, carat­ terizzato dalla presenza di vaste zone di arretratezza (soprattutto nel Nord-Est). Nel 1964 un nuovo colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti riportò al potere i militari, che imposero una svolta autoritaria, basata sulla repressione dei conflitti sociali e sull’incoraggiamento all’afflusso dei capitali stranieri: l’economia brasiliana registrò buoni risultati al prezzo, però, di un ulteriore aggrava­ mento degli squilibri. In un quadro di generale debolezza delle forze di sinistra in tutto il continente, assunse enorme rilievo la vicenda di Cuba, dove il regime corrotto e dittatoriale di Fulgencio Batista fu rovesciato nel gennaio 1959, dopo una guerriglia iniziata tre anni prima sulle montagne della Sierra Maestra, da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro. Schierato inizialmente su posizioni democratico-riformiste, Castro avviò subito una riforma agraria che colpiva il monopolio esercitato dalla United Fruit Company sulla coltivazione del­ la canna da zucchero, principale risorsa dell’isola. Gli Stati Uniti, che pure non avevano osteggiato la rivoluzione e avevano prontamente riconosciuto il nuovo regime, assunsero a questo punto un atteg­ giamento ostile e iniziarono un boicottaggio economico verso l’isola, imponendo l’embargo nei suoi confronti. Castro si rivolse allora all’Urss, che si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano a prezzi molto superiori a quelli del mercato internazionale e a rifornire l’isola di petrolio e macchinari. Nel giro di pochi anni, il regime cubano, che aveva rotto le relazioni diplomatiche con gli Usa, si orientò sempre più decisamente in senso comunista. L’economia fu in gran parte statalizzata e venne istituito un regime a partito unico.

La rivoluzione di Castro a Cuba

Le vicende cubane assunsero subito una portata che anda­ va ben al di là di quella di un qualsiasi rivolgimento politico in un piccolo Stato del Centro America (lo si vide con la drammatica crisi dei missili del 1962 [►12_9]). Per la prima volta, in un continente sotto tutela norda­ mericana e in un paese vicinissimo agli Stati Uniti, si affermava un regime marxista e filosovietico che mirava apertamente a esportare il suo modello rivolu­ zionario in tutto il Terzo Mondo. Divenne celebre lo slogan “creare due, tre, cento

La sfida cubana

embargo È la misura con cui uno o più Stati interrompono i rapporti commerciali con un altro paese o gruppo di paesi, impedendo alle navi mercantili di quei paesi l’ingresso nei propri porti e disponendo il sequestro di quelle già attraccate.

575

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

Vietnam” coniato da Ernesto “Che” Guevara, medico argentino che aveva preso parte alla guerriglia contro Batista e ricopriva ora ruoli di primo piano nel governo cubano. I successi in questo campo furono scarsi: nel 1967 lo stesso Guevara, che si era impegnato in prima per­ sona nel tentativo di accendere focolai di guerriglia in America Latina, fu catturato e ucciso in Bolivia. In compenso, la sfida rivoluzionaria ebbe l’effetto di inasprire le tensioni interne nei paesi latino-america­ ni e di fornire nuovi pretesti per gli interventi repressivi dei militari, già affermatisi in buona parte del Sud e del Centro America. Nella prima metà degli anni ’70, i militari assun­ sero il potere anche in paesi di tradizione demo­ cratica. Fu, per esempio, il caso dell’Uruguay, dove il regime liberale, indebolito da una gravissima crisi economica e dalle spettacolari azioni di guerriglia urbana messe in atto dal mo­ vimento clandestino dei tupamaros, fu rovesciato nel ’73. Ma la vi­ cenda più emblematica fu quella del Cile, dove nel 1970 il socialista Salvador Allende aveva assunto la presidenza, a capo di una coali­ zione di Unità popolare. Allende tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e di radicali riforme sociali, ma dovette scon­ trarsi, oltre che con la debolezza della sua base elettorale (era stato eletto con circa un terzo dei voti), anche con una situazione econo­ mica ai limiti del dissesto, con l’opposizione della borghesia e con l’aperta ostilità degli Stati Uniti (che vedevano messi in pericolo i pri­ vilegi di alcune grandi corporations), nonché con le intemperanze estremiste di una parte dei suoi stessi seguaci. Nel settembre 1973 Allende fu rovesciato da un colpo di Stato militare e ucciso mentre tentava un’estrema resistenza nel palazzo presidenziale. Il potere fu assunto dal generale Augusto Pinochet, che schiacciò con la violen­ za ogni possibile opposizione e diede vita a un regime dai tratti dura­ mente autoritari.

Il Cile da Allende a Pinochet

METODO DI STUDIO

576

 a   Sottolinea gli artefici principali della crescita economica nei paesi basati sulle monoculture agricole. Quindi spiega quali erano gli interessi economici e politici statunitensi in America Latina.  b   Dividi il paragrafo in blocchi: il primo relativo alle dinamiche generali che portarono all’affermazione delle dittature e dei regimi populisti in America Latina; il secondo relativo agli esempi concreti di questa affermazione. Quindi individua per il primo blocco le caratteristiche delle dinamiche descritte e trascrivile schematicamente sul quaderno.  c   Cerchia con colori diversi i nomi degli Stati sudamericani descritti e sottolinea per ognuno di essi i nomi dei leader che si affermarono e gli elementi che rimandano alle dinamiche del primo blocco individuato nell’esercizio precedente.

U4 IL MONDO DIVISO

Ernesto “Che” Guevara a Cuba 1963 Nato in Argentina, fu tra i principali collaboratori di Castro. Negli anni ’60 fu il promotore e il teorico del progetto volto a creare movimenti rivoluzionari e “anti-imperialisti” in tutta l’America Latina e nell’intero Terzo Mondo. Ucciso nel 1967, mentre tentava di organizzare la guerriglia in Bolivia, il “Che” divenne in America Latina e in tutto il mondo il simbolo della lotta anti-imperialista. La sua immagine, stampata su manifesti, bandiere e magliette, divenne uno degli emblemi più popolari della contestazione giovanile alla fine degli anni ’60.

SINTESI

13_1 LA CRISI DEGLI IMPERI COLONIALI

13_3 LE GUERRE D’INDOCINA

13_5 L’EGITTO DI NASSER E LA CRISI DI SUEZ

13_7 LE GUERRE ARABO-ISRAELIANE

La seconda guerra mondiale sancì la definitiva crisi del colonialismo e l’affermazione, a livello internazionale, del principio di autodeterminazione. La Gran Bretagna procedette a una graduale abdicazione al proprio dominio, mentre la Francia oppose una tenace resistenza ai movimenti indipendentisti e praticò fino all’ultimo una politica “assimilatrice”. La democrazia parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi dei nuovi Stati indipendenti. Le ragioni furono molteplici: il peso di una tradizione diversa, i limiti delle classi dirigenti locali, la difficoltà di avviare un processo di sviluppo partendo da condizioni di grave arretratezza economica.

Nel Sud-Est asiatico l’emancipazione dalle potenze coloniali si intrecciò con lo scontro fra le forze “nazionaliste”, alleate con l’Occidente, e i movimenti comunisti, con esiti diversi. Lungo e combattuto fu il processo di emancipazione del Vietnam, conclusosi nel 1954 con gli accordi di Ginevra, che sancirono il ritiro dei francesi da tutta la penisola indocinese e la divisione provvisoria del Vietnam in due Stati: uno comunista al Nord, l’altro filooccidentale al Sud.

Nella prima metà degli anni ’50 il nazionalismo arabo trovò una guida nell’Egitto, dove Nasser assunse il potere (1954). Il nuovo regime avviò una serie di riforme in senso socialista. Nel 1956 Nasser decise di nazionalizzare la Compagnia del Canale di Suez, dove britannici e francesi conservavano forti interessi. Allora Israele, d’intesa con i governi di Londra e Parigi, attaccò l’Egitto e lo sconfisse. Gli Stati Uniti, però, condannarono l’impresa e l’Unione Sovietica inviò un ultimatum alle potenze occidentali. Israele fu costretto a ritirarsi dal Sinai, mentre le truppe franco-britanniche abbandonavano la zona del Canale. L’effetto più immediato di questa crisi fu quello di rafforzare la posizione dell’Egitto e il prestigio di Nasser.

Negli anni ’60-70 il Medio Oriente fu teatro di due successive guerre: la “guerra dei sei giorni” del ’67 e la “guerra del Kippur” del ’73. La guerra del ’67, che si concluse con l’occupazione da parte di Israele di nuovi territori arabi, determinò il declino di Nasser e la radicalizzazione dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Dopo l’espulsione dalla Giordania, dove aveva inizialmente posto le sue basi, l’Olp, guidata da Yasser Arafat, avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale. La guerra del ’73, iniziata dall’Egitto con un improvviso attacco a Israele, si concluse, grazie alla mediazione degli Usa, senza vincitori né vinti, ma fu all’origine del blocco petrolifero proclamato dai paesi arabi e del successivo aumento del prezzo del petrolio.

13_4 IL MONDO ARABO E LA NASCITA DI ISRAELE

13_2 L’INDIPENDENZA DELL’INDIA Nel 1947 raggiunge il suo compimento l’indipendenza dell’India, con la creazione di due Stati: l’Unione Indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano, paesi tra i quali la tensione sarebbe più volte sfociata in guerra. Vittima di queste tensioni fu anche il mahatma Gandhi, padre dell’indipendenza indiana e assertore della non violenza. Il primo capo del governo dell’India indipendente, Nehru, e poi dal 1964 sua figlia Indira Gandhi dovettero affrontare questo e numerosi altri problemi interni, ma seppero consolidare le istituzioni democratiche ereditate dalla Gran Bretagna.

La seconda guerra mondiale accelerò la decolonizzazione del Medio Oriente, ma lasciò irrisolto il nodo della Palestina, contesa fra arabi ed ebrei. Nel 1947 Londra annunciò il ritiro delle sue truppe dalla Palestina e rimise alle Nazioni Unite il compito di trovare una soluzione al problema. L’Onu approvò un piano di spartizione in due Stati, che venne però respinto dagli arabi. Nel maggio ’48 gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato di Israele e gli Stati arabi reagirono attaccandolo militarmente. La prima guerra arabo-israeliana si concluse con la sconfitta delle forze arabe. Circa 750 mila profughi abbandonarono i territori occupati da Israele riparando nei paesi vicini.

13_6 L’INDIPENDENZA DEL MAGHREB Particolarmente drammatico fu il processo di emancipazione in Algeria, per la presenza di oltre un milione di coloni francesi avversi all’indipendenza. Fu De Gaulle a capire che era ormai inevitabile rinunciare all’Algeria, riconoscendone l’indipendenza nel ’62. In Libia, nel 1969, una rivoluzione portò al potere il colonnello Gheddafi, artefice negli anni successivi di un discusso esperimento di “socialismo islamico”.

13_8 TRADIZIONALISMO E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA E IRAN Il contrasto fra tradizionalismo e modernizzazione caratterizzò la storia dei due maggiori paesi musulmani non arabi del Medio Oriente, che non avevano conosciuto il dominio coloniale: la Turchia e l’Iran. Nel dopoguerra, la Turchia aderì al sistema di alleanze occidentale, mentre in politica interna proseguì il cammino di modernizzazione avviato da Atatürk. In Iran – un paese ricco di petrolio e sottoposto

577

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

al regime autoritario dello scià (imperatore) Reza Pahlavi – fallì rapidamente l’esperimento di democratizzazione avviato nel 1951 dal primo ministro Mohammed Mossadeq: nel 1953 un colpo di Stato militare organizzato dai servizi segreti anglo-americani depose il primo ministro che aveva tentato di nazionalizzare le compagnie petrolifere straniere, e restituì il potere assoluto allo scià.

Le nuove istituzioni politiche, ricalcate sui modelli europei, mostrarono una particolare fragilità, lasciando spesso il posto a regimi militari. Un caso a sé fu quello del Sudafrica, dove la minoranza bianca riuscì a conservare il potere praticando una politica di discriminazione (apartheid) ai danni della maggioranza nera.

politici, riconoscevano di avere interessi e aspirazioni comuni che non potevano essere contenuti nella logica della competizione fra i due blocchi: di far parte insomma di un “Terzo Mondo” distinto sia dall’Occidente capitalistico sia dall’Est comunista. Sul piano economico, i paesi del Terzo Mondo erano accomunati dalla realtà del sottosviluppo, ovvero dall’incapacità di risolvere i problemi di arretratezza economica resi ancor più gravi dall’aumento assai rapido della popolazione.

13_10 IL TERZO MONDO: NON ALLINEAMENTO E SOTTOSVILUPPO

13_9 L’INDIPENDENZA DELL’AFRICA NERA

Sul piano della politica internazionale, i paesi di nuova indipendenza cercarono una piattaforma comune – a partire dalla conferenza di Bandung del ’55 – nel “non allineamento”. Questi paesi, nonostante le differenze di condizioni economiche e ordinamenti

A sud del Sahara, nell’Africa nera, il processo di decolonizzazione si compì fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Fu un processo pacifico tranne in pochi casi, come quelli del Kenya, della Rhodesia del Sud o del Congo.

13_11 DITTATURE E POPULISMI IN AMERICA LATINA I paesi dell’America Latina godevano da tempo dell’indipendenza politica

ma si trovavano in condizioni di dipendenza economica dagli Stati Uniti, che esercitavano una sorta di tutela su tutto il continente. La politica dell’America centrale e meridionale fu caratterizzata dall’alternanza di governi liberali e di regimi autoritari. Fra le esperienze più significative, quella del regime populista stabilito da Perón in Argentina negli anni ’40 e ’50 e quella tentata da Getulio Vargas in Brasile, entrambe fallimentari sul piano economico e stroncate da colpi di Stato militari. Di grande rilievo, per l’attrazione che esercitò in tutta l’America Latina, fu la rivoluzione cubana guidata da Castro (1959) che diede al nuovo regime un orientamento comunista. Negli anni ’70 i militari assunsero il potere anche in un paese tradizionalmente democratico come il Cile, che aveva vissuto una breve stagione di radicali riforme socialiste sotto la guida di Salvador Allende.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa lo schema di seguito. Sintetizzerai così le differenze tra la decolonizzazione britannica e quella francese. DECOLONIZZAZIONE

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FRANCIA

GRAN BRETAGNA

.........................................................................................

.........................................................................................

..........................................................................................

..........................................................................................

..........................................................................................

..........................................................................................

U4 IL MONDO DIVISO

2 Con colori diversi,

completa la legenda e trascrivi, sulla carta geostorica del mondo negli anni ’60-70 del XX secolo, gli Stati dell’elenco:

India ● Pakistan ● Bangladesh ● Indonesia ● Vietnam ● Cina ● Marocco ● Tunisia ● Algeria ● Libia ● Egitto ● Congo ● Etiopia ● Angola ● Mozambico ● Argentina ● Cile ● Cuba ● Messico ● Brasile

non allineati governati da dittature militari filo-sovietici filo-occidentali 3 Abbina correttamente gli Stati ai personaggi significativi che hanno caratterizzato la storia del dopoguerra in Oriente

e in Medio Oriente. Nehru ● Gheddafi ● Indira Gandhi ● Ben Gurion ● Golda Meir ● Sadat ● Arafat ● Gandhi ● Nasser

India: ..................................................................................................................................................................................................... Israele: ................................................................................................................................................................................................... Egitto: .................................................................................................................................................................................................... Libia: ..................................................................................................................................................................................................... Palestina: ............................................................................................................................................................................................... 4 Completa lo schema sulla Lega araba seguendo le indicazioni delle 5W: who, what, where, when, why (chi, cosa, dove, quando, perché).

LEGA ARABA

COSA (era)

................................................

PERCHÉ (scopo)

................................................

QUANDO

................................................

DOVE

CHI (erano i protagonisti)

in Medio Oriente

................................................

579

C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

5 Collega le date agli avvenimenti relativi. Quindi indica un titolo che riassuma il tema storico dell’esercizio.

Titolo: .................................................................................................................................................................................................. a. 1967 b. 5 giugno 1967 c. 1969 d. 1970 e. 1972 f. 6 ottobre 1973

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Attentato alle Olimpiadi di Monaco “Settembre nero” Nasser proclama la chiusura del Golfo di Aqaba “Guerra del Kippur” Israele attacca Egitto, Giordania e Siria (Guerra dei sei giorni) Yasser Arafat alla guida dell’Olp

6 Seleziona, tra i termini presenti in elenco, la natura dei principali contrasti che caratterizzarono i nuovi Stati africani

all’indomani della decolonizzazione.

a. problemi religiosi b. problemi legati al terrorismo c. problemi etnici d. problemi di produzione agricola e. problemi politici f. problemi sanitari g. problemi di trasporto h. problemi tribali COMPETENZE IN AZIONE 7 Colloca sulla carta geostorica i nomi dei personaggi proposti

di seguito. Quindi scrivi dei brevi testi (max 7 righe) per illustrare personaggi ed eventi significativi. Peròn ● Evita ● Vargas ● Batista ● Fidel Castro ● Che Guevara ● Allende ● Pinochet

8 Illustra in brevi testi (max 7 righe) i seguenti argomenti

● ● ● ●

La guerra dei sei giorni L’Olp e Arafat La guerra del Kippur La questione palestinese

580

relativi alle guerre arabo-israeliane:

U4 IL MONDO DIVISO

COMPITI DI REALTÀ 9 Realizzare la sceneggiatura e il materiale per una trasmissione radiofonica su Internet (podcast). Tema storico da affrontare: Ernesto “Che” Guevara e la sfida cubana.

Contesto di lavoro

Lavori per un canale radiofonico culturale online che ha deciso di proporre una trasmissione basata sul rapporto tra musica e storia. I tuoi capi ti hanno chiesto di preparare una prova basata sulla rivoluzione cubana e la figura di Ernesto “Che” Guevara, in grado di affascinare gli ascoltatori senza tralasciare il rigore storico.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare il materiale e la sceneggiatura di una trasmissione radiofonica dal taglio avvincente e fedele ai risultati delle ricerche degli storici. Se possibile, per essere maggiormente efficaci, realizzerete anche il podcast. Per realizzare questo compito dovete: ● inquadrare storicamente il tema schematizzando sul quaderno le notizie principali (date e luoghi del contesto e dei personaggi storici principali, ecc.). ● cercare fonti dell’epoca (canzoni, testi, testimonianze) da poter leggere o far ascoltare durante la trasmissione. Potete far riferimento ai materiali presenti nel capitolo e nel Fare Storia, ma soprattutto cercare altri materiali su Internet. In caso di fonti e informazioni storiche, fate attenzione a che i siti da cui estrapolate il tutto siano attendibili. Incrociate i dati individuati nei vari siti fra di loro. ● cercare le canzoni che parlano di questa realtà storica, indicando il contesto in cui sono state prodotte e il cantante che le ha proposte, e selezionarle in base a criteri che siano coerenti col taglio che intendete dare alla vostra trasmissione. ● abbinare le fonti e le canzoni ai contenuti storici che avete individuato. ● scegliere il modello comunicativo che volete adottare. Per far questo potete cercare su Internet degli esempi di podcast di storia e/o musicali e realizzare uno schema sulla struttura del programma. Es. presenza/assenza di ospiti in studio; presenza/assenza di attori che leggano scene basate sulle fonti storiche a disposizione, ecc. ● realizzare una scaletta della vostra trasmissione. ● decidere se inserire solo stralci di canzoni o canzoni intere e quando inserirle; per ogni canzone stilerete un’introduzione che renda conto: del contesto storico in cui è stata prodotta, del modo in cui tratta l’argomento e delle informazioni storiche che è possibile trarne. ● produrre i contenuti: se avete deciso che 1. ci sarà un conduttore: dovrete scrivere i testi; 2. ci saranno degli attori: dovrete selezionare le fonti più adatte e affidare i ruoli; 3. ci sarà uno storico: dovrete individuare il brano storiografico di riferimento e riscriverlo secondo la modalità comunicativa che vi sembrerà più efficace per il vostro prodotto. ● realizzare un copione per tutti i partecipanti coerentemente con i contenuti che avrete scelto. ● realizzare concretamente un podcast con gli strumenti tecnologici a voi più congeniali. In alternativa, potete realizzare la sceneggiatura completa, indicando anche i tempi degli interventi e dei brani selezionati.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti ai capi del canale e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) e l’ascolto del podcast.

Tempo a disposizione

mezz’ora per individuare sul manuale i contenuti e schematizzarli; 2 ore per cercare le fonti più idonee, sul manuale e in Rete e le canzoni esistenti; 2-3 ore per l’ascolto di podcast da prendere da esempio e schematizzarne la struttura; 6-8 ore per la realizzazione dei contenuti e la realizzazione del podcast; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

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C13 LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO

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CAP14 L’ITALIA REPUBBLICANA



14_1 L’ITALIA NEL 1945

Nel giro di pochi anni, fra il 1945 e il 1949, l’Italia si lasciò alle spalle l’esperienza della dittatura fascista ed entrò in una nuova fase della sua storia unitaria. Guidata dai partiti che si erano opposti al regime mussoliniano, si diede un nuovo ordinamento re­ pubblicano, una nuova Costituzione democratica e un nuovo sistema politico destinato a durare per quasi mezzo secolo e a dar forma a quella che, a partire dalle trasformazioni di fine ’900, è stata defi­ nita “Prima Repubblica”. Una vicenda lunga e complessa, segnata però da forti elementi di continui­ tà. Prima di ripercorrere le tappe principali di questa vicenda, sarà utile vedere quali fossero le condi­ zioni del paese a guerra appena terminata e quali le forze che si candidavano a governarlo.

La Prima Repubblica

Con la fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia aveva recuperato libertà e unità territoriale, anche se sotto la stretta tutela delle autorità di occupazione alleate. Ma la sua situazione era quella di un paese materialmente devastato. La produzione industriale era scesa a meno di un terzo di quella dell’anteguerra, quella agricola era più che dimezzata e il patrimonio zootecnico distrutto per tre quarti. La quantità media giornaliera di calorie a disposizione di ogni cittadino era meno della metà di quella del ’38. L’inflazione era aumentata in modo vertiginoso: i prezzi al consumo erano cre­ sciuti di 18 volte in sei anni, polverizzando i risparmi e ridimensio­ nando drasticamente i salari reali. Il sistema dei trasporti era in buona parte disarticolato. Circa tre milioni di vani di abitazioni erano stati distrutti dai bombardamenti; i molti italiani rimasti senza casa erano costretti a coabitazioni forzate o cercavano rifu­ gio nelle scuole e in altri edifici pubblici, trasformati in dormitori per gli “sfollati”.

Le distruzioni materiali

La fame, la mancanza di alloggi e l’elevata disoccupazione contribuivano a rendere pre­ caria la situazione dell’ordine pubblico. La fi­ ne della guerra aveva ridato slancio a una conflittualità sociale che gli stessi leader della sinistra faticavano a tenere a freno. Un serio problema era poi costituito da quegli ex partigiani che inten­ devano liquidare i conti del ventennio con misure di giustizia som­ maria nei confronti dei fascisti. Nelle regioni del Centro-Sud, fin dalla primavera del ’44, contadini e braccianti avevano ripreso, 582

I problemi dell’ordine pubblico

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Storia e Cinema Il sorpasso di Dino Risi Focus Le foibe • L’Assemblea costituente • Il divario Nord/ Sud e la Cassa per il Mezzogiorno • Il cinema neorealista e la commedia all’italiana • Alfabetizzazione e cultura di massa: la televisione italiana • La modernizzazione del paese: le autostrade Atlante La società dei consumi Audiosintesi

► Leggi anche: ► Personaggi Alcide De Gasperi: un leader per l’Italia del dopoguerra, p. 584 ► Parole della storia Mafia, p. 583 ► Fare Storia L’Italia repubblicana: partiti di massa e sistema politico, p. 648

Piccolo commercio per strada a Roma 1945

come nel primo dopoguerra, a occupare terre incolte e latifondi. Ma la minaccia più grave, nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla ma­ lavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera (ossia al commercio clandestino di generi razionati). In Sicilia, in particolare, si assisteva a una ripresa in grande stile del fenomeno mafioso, favorita anche dal comportamento delle autorità militari americane, che non avevano esitato, al momento dello sbarco nell’i­ sola, a servirsi di noti esponenti della malavita italoamericana per stabilire contatti con la popolazione. Sempre negli anni dell’occupa­ zione alleata, si era sviluppato in Sicilia un movimento indipendentista, strettamente legato agli agrari e alla vecchia classe dirigente pre­ fascista e condizionato da una forte presenza mafiosa. Il movimento, che disponeva di un proprio esercito clandestino, fu affrontato con energia e stroncato dai governi del dopo-liberazione. Ma molti suoi aderenti rimasero alla macchia, dando vita ad alcuni fra i più gravi episodi di banditismo del dopoguerra (come quelli di cui fu protago­ nista, sui monti del Palermitano, la banda capeggiata da Salvatore Giuliano).

Sicilia: banditismo e separatismo

La vendita di pane alla borsa nera, Milano 1945

Parole della storia

Mafia

L

a parola “mafia” (o “maffia”), termine dall’etimologia incerta, fece la sua comparsa nel dialetto siciliano, e poi nella lingua italiana, intorno alla metà dell’800; esso indicava una rete di associazioni legate da stretti vincoli gerarchici e da un codice d’onore fondato sull’omertà, che praticavano la violenza e l’intimidazione per trarne guadagni e vantaggi per i propri membri, ma anche per imporre, a livello locale, un proprio ordine, alternativo a quello dello Stato. In questo senso la parola ha poi goduto di larghissima fortuna, ben al di là dei confini nazionali (si è parlato, fra l’altro, di mafia russa e turca, cinese e giapponese), e viene oggi comunemente usata, assieme al derivato “mafioso”, per indicare la tendenza a prevaricare, a sostituire il proprio potere a quelli istituzionali, valendosi di una rete di amicizie e complicità illegali. Storicamente, le radici del fenomeno sono state individuate nella Sicilia semifeudale del ’700 e dell’800: nelle “compagnie d’armi” al servizio dei signori, ma anche nelle corporazioni artigiane di Palermo e soprattutto nell’azione dei grandi affittuari (gabellotti) per il controllo del mondo contadino nella parte centro-occidentale dell’isola. Dopo l’Unità d’Italia, l’associazionismo mafioso si estese

e si rafforzò anche come reazione alla più forte presenza dello Stato, diventando subito oggetto di studi e inchieste. Ma fu soprattutto dopo il 1893, con l’assassinio del direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo e il successivo processo che vide imputato come mandante il deputato Raffaele Palizzolo (sospettato di legami con la mafia), che il fenomeno assunse rilevanza nazionale, svelando i suoi stretti intrecci con la politica. Questi legami si intensificarono all’inizio del ’900, mentre la mafia varcava l’Oceano inserendosi, tramite le comunità emigrate, nel “gangsterismo” nordamericano. Nel 1926 il nascente regime fascista affrontò la questione, inviando a Palermo il prefetto Cesare Mori e investendolo di poteri straordinari per debellare la rete mafiosa, che fu in effetti colpita e decapitata, ma non del tutto estirpata. Quando molti esponenti della mafia italo-americana sbarcarono in Sicilia nel luglio 1943 assieme alle truppe statunitensi (e forse con l’appoggio delle autorità alleate), la rete fu rapidamente ricostituita e, nell’immediato dopoguerra, fu largamente usata come strumento della reazione padronale contro il movimento contadino. Un ulteriore salto di qualità si ebbe a partire dagli anni ’60, quando la mafia, originariamente espressione di una società contadina, si inserì, sfruttando anche i suoi collegamenti politici, nella speculazione

edilizia per poi applicarsi con profitto al traffico internazionale degli stupefacenti, senza per questo rinunciare alle attività tradizionali, come il taglieggiamento delle attività commerciali (il “pizzo”) richiesto come contropartita a una protezione imposta con la forza. L’estendersi degli interessi mafiosi scatenò una serie di cruente lotte interne all’organizzazione, da cui uscì vincitore il gruppo dei “corleonesi” (così chiamati dal loro paese d’origine), guidato da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Questi, a partire dalla fine degli anni ’70, di fronte ai primi segnali di reazione da parte dei poteri pubblici, dopo anni di interventi scarsamente incisivi, reagirono scatenando una autentica guerra allo Stato che provocò molte vittime illustri, culminando, nel 1982, nell’uccisione del prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa e, dieci anni dopo, nell’assassinio dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da allora l’azione repressiva di polizia e magistratura ha fatto registrare non pochi successi, a cominciare dall’arresto di Totò Riina (in carcere dal 1993, morto nel 2017) e di Bernardo Provenzano (detenuto dal 2006 e deceduto nel 2016). Ma la mafia, in quanto fenomeno radicato nel territorio e dotato di estesi collegamenti internazionali, è ancora lontana dall’essere definitivamente estirpata.

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C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

Fenomeni come questi erano solo i segni più evidenti della disgregazione morale, oltre che politica, in cui la guerra aveva gettato il paese. Le vicende seguite all’armi­ stizio avevano fortemente appannato l’immagine del potere statale e avevano sca­ vato nella compagine nazionale una profonda frattura che si sovrapponeva alle tradizionali spaccature fra Nord e Sud. A partire dal settembre ’43, le due metà del paese avevano infatti vissuto due esperienze diverse. Da una parte, al Sud, l’occupazione alleata, la continuità istituzionale sotto il segno della mo­ narchia, la sostanziale tenuta dei vecchi equilibri sociali. Dall’altra, nel Centro-Nord, l’occupazione tede­ sca, la guerra civile, un’insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si intrecciava alle istanze rivoluzionarie. Queste spinte al cambiamento si scontravano, inoltre, con la situazione obiettiva del paese nel contesto internazionale. L’Italia era una nazione sconfitta e occupata militarmente, dipen­ deva dagli aiuti alleati e non poteva dunque considerarsi completamente arbitra del proprio destino.

La frattura Nord-Sud

Il compito di affrontare questi problemi spettava in primo luogo ai partiti che si erano raccolti nel Comitato di liberazione nazionale [►11_11] e che già eser­ citavano di fatto un ruolo di governo. Il ritorno alla vita democratica si era accompagnato a un’impe­ tuosa crescita della partecipazione politica, che di per sé favoriva le forze organizzate su basi di massa cioè quelle che, per tradizione e per capacità organizzative, erano preparate a inquadrare grandi nu­

I partiti di sinistra

PERSONAGGI

Alcide De Gasperi: un leader per l’Italia del dopoguerra

P

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uò sembrare un paradosso, ma uno dei più importanti uomini politici della sto­ ria d’Italia non era, alla nascita, cittadino italiano. Alcide De Gasperi – uno dei pa­ dri fondatori della democrazia repubblica­ na – nacque infatti, nel 1881, a Pieve Tesino, in Trentino, che allora faceva parte dell’Im­ pero austro-ungarico. Sotto gli Asburgo mos­ se i suoi primi passi in politica, nelle file del movimento cattolico: prima a livello locale, poi, dal 1911, come deputato al Parlamento di Vienna. Negli anni della guerra si adoperò per migliorare le condizioni dei profughi ita­ liani costretti dal governo austriaco a sgom­ berare le zone vicine al fronte. Con il passag­ gio del Trentino al Regno d’Italia, De Gasperi fece il suo ingresso nella politica italiana. Nel giugno 1919 partecipò alla fondazione del Partito popolare accanto a don Luigi Stur­ zo e nel maggio 1921 fu eletto alla Camera. In quegli anni formò anche la sua famiglia: si sposò nel 1922 con Francesca Romani, una sua conterranea, che gli avrebbe dato quat­ tro figlie. Nel maggio 1924 De Gasperi divenne segre­ tario del partito e lo guidò nel momento più difficile, quello del passaggio dallo Stato libe­ rale alla dittatura fascista. Fu tra i promotori della secessione dell’Aventino, la cui scon­ fitta pagò personalmente. Subì infatti le in­ timidazioni, l’isolamento, l’impossibilità di svolgere attività politica e giornalistica. Fu

U4 IL MONDO DIVISO

anche arrestato, nel 1927, e fece qualche me­ se di carcere. Nel 1929 trovò una modesta si­ stemazione lavorativa alla Biblioteca Vatica­ na, dove restò fino alla caduta del fascismo. A partire dal 1942 riprese l’attività politica e fu tra i maggiori artefici della nascita, in clande­ stinità, della Democrazia cristiana di cui fu, dopo l’8 settembre ’43, uno dei rappresen­ tanti nel Comitato di liberazione nazionale. Già in quel periodo emerse come una delle figure più rilevanti della nuova politica italia­ na e come il vero leader dello schieramento moderato. Alla fine del 1944, con la for­ mazione del secondo governo Bonomi, De Gasperi ottenne l’incarico di ministro degli Esteri: un ruolo di grande importanza, che lo accreditò come il principale interlocutore delle potenze vincitrici. La sicurezza con cui gestì le relazioni con l’estero in un momen­ to delicato e i riconoscimenti che ottenne da Stati Uniti e Gran Bretagna fecero cresce­ re ulteriormente il suo peso politico e il consenso di cui godeva. Quando, nel novembre 1945, cadde il governo Parri, De Gasperi era il più accreditato ad assumere la guida del nuovo esecutivo. Da quel momento fu inin­ terrottamente presidente del Consiglio fino all’agosto 1953, dando un contributo fonda­ mentale alla costruzione e al consolidamen­ to del nuovo sistema politico negli anni diffi­ cili della guerra fredda. In questo contesto così delicato, la sua azione

Alcide De Gasperi in una foto del 1947

emerge soprattutto in alcuni momenti chia­ ve. Il primo fu sicuramente il 2 giugno 1946, ovvero il momento delle elezioni per la Costituente e insieme della scelta fra monar­ chia e repubblica. De Gasperi fu tra gli ar­ tefici della decisione di affidare alla volontà popolare, attraverso un referendum, la scel­

meri di aderenti nelle loro strutture territoriali (sezioni e federazioni), facenti capo a un unico centro dirigente [►FS, 105]. I più attrezzati da questo punto di vista erano i partiti di sinistra: il Partito socialista, che portava allora il nome di Psiup, assunto nel ’43, ed era guidato da Pietro Nenni; e il «Partito comunista», nato nel 1921 da una scissione del Psi [►6_3]. Il Partito socialista era storicamente il primo partito della classe operaia italiana, ma era diviso ancora una volta fra la tradizione riformista e le spinte rivoluzionarie, che lo portavano a mantenere uno stretto legame con i comunisti. Giocava inoltre a sfavore dei socialisti il ruolo non di primo piano svolto nella Resistenza. Al contrario, il Parti­ to comunista traeva forza e credibilità proprio dal contributo offerto alla lotta antifascista. Il «partito nuovo» che Palmiro Togliatti aveva cercato di costruire dopo la “svolta di Salerno” [►11_11] era un autentico partito di massa e aspirava a mantenere un ruolo di governo, senza però allentare il suo stretto legame con l’Urss e senza accantonare del tutto l’opzione rivoluzionaria. Fra gli altri partiti, l’unico in grado di competere con le sinistre sul piano dell’or­ ganizzazione di massa era la Democrazia cristiana. La Dc si richiamava all’espe­ rienza del Partito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma, ispirato alla dot­ trina sociale cattolica [►6_2] (rifiuto della lotta di classe, rispetto per il diritto di proprietà, apertura alle istanze di riforma agraria) e ne ereditava la base contadina e piccolo-borghese. Anche il gruppo dirigente, a cominciare dal segretario Alcide De Gasperi, veniva in buona parte da quel partito, ma

La Democrazia cristiana

ta dell’ordinamento dello Stato (monarchi­ co o repubblicano). Una scelta esplicita per la Repubblica avrebbe infatti evidenziato una spaccatura fra il partito e quell’elettora­ to moderato, prevalentemente monarchico, che la Dc intendeva conquistare. In quan­ to presidente del Consiglio, inoltre, De Ga­ speri riuscì a garantire che il passaggio alla Repubblica avvenisse in tempi rapidi e sen­ za strascichi legali. Un altro momento chia­ ve fu, nel maggio-giugno del 1947, la sua de­ cisione di escludere dal governo comunisti e socialisti e di far posto nel suo nuovo mini­ stero all’area liberaldemocratica, rappresen­ tata da Luigi Einaudi al ministero del Bilan­ cio e da Carlo Sforza agli Esteri: la presenza del primo voleva rassicurare i mercati e gli imprenditori e riconfermare l’impegno al ri­ sanamento monetario e finanziario, men­ tre Sforza rappresentava una linea di politica estera filo-occidentale ed europeista. In que­ sto modo De Gasperi – che non aveva specia­ le simpatia per il mondo bancario e impren­ ditoriale e guardava con una certa freddezza al modello sociale americano – confermò di essere un uomo politico di grande pragmatismo. Attraverso quelle scelte conferì alla Dc l’immagine di partito moderato, filo-occidentale e anticomunista e mise in piedi una formula di governo, quella centrista, che sa­ rebbe durata per diversi anni. La scelta del centrismo gli consentì di mettere un argine alle posizioni estreme, sia social-comuniste sia fasciste e monarchiche, e di rispondere alle pressioni che provenivano dall’interno del suo stesso partito.

La trionfale vittoria alle elezioni del 18 apri­ le 1948 costituì la maggiore conferma del­ la linea degasperiana. In quell’occasione De Gasperi, consapevole dell’enorme posta in gioco si spese in prima persona, impegnan­ dosi allo stremo nella campagna elettorale: per due mesi tenne un comizio al giorno, senza abbandonare gli impegni di gover­ no. I governi che guidò dopo il trionfo del 18 aprile realizzarono alcune importanti rifor­ me, come la creazione della Cassa del Mez­ zogiorno e la riforma agraria. In politica este­ ra, De Gasperi sostenne l’ingresso dell’Italia nella Alleanza atlantica e confermò la piena fedeltà agli Stati Uniti, ma senza cedere alle pressioni provenienti dall’amministrazione Usa e da quanti auspicavano una messa fuori legge del Partito comunista [►FS, 109]. Inol­ tre, seppe coniugare l’atlantismo con l’impe­ gno a favore dell’integrazione europea. Le battaglie per una più stretta cooperazione economica, ma anche politica e militare, fra i paesi dell’Europa occidentale lo videro sem­ pre in prima fila. Anche nei riguardi della Chiesa, De Gasperi seppe mantenere la sua autonomia. Da cat­ tolico ortodosso, devoto al papa, cercò una mediazione tra la sua identità di credente, leader di un partito di ispirazione cristiana, e la scelta di collaborare con le forze laiche. Quando, nell’imminenza delle elezioni am­ ministrative a Roma del maggio 1952, il Vati­ cano suggerì, per evitare una vittoria delle si­ nistre, la formazione di una lista civica aperta alle destre. De Gasperi, sostenuto dal suo par­ tito, si oppose all’accordo e l’operazione non

andò in porto. Questa scelta fu all’origine di una grave frattura fra il presidente del Con­ siglio e Pio XII: poche settimane dopo le ele­ zioni De Gasperi chiese un’udienza privata al papa, che non gliela accordò. De Gasperi gli indirizzò una lettera in cui tra l’altro scriveva: «Come cristiano accetto l’umiliazione, ben­ ché non sappia come giustificarla; come pre­ sidente del Consiglio italiano e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e dalla quale non mi posso spogliare anche nei rapporti privati m’impone di esprimere lo stupore per un rifiuto così eccezionale». Anche la riforma elettorale del 1953 – dura­ mente avversata dalle opposizioni che la bol­ larono con l’appellativo di “legge truffa” – fu vissuta da De Gasperi come un tentativo di rafforzare la maggioranza centrista, proteg­ gendola dall’avanzata delle destre, che mi­ nacciavano di erodere il consenso alla Dc. Il fallimento di quel progetto costituì la prima vera sconfitta politica di De Gasperi nel do­ poguerra. La sconfitta fu resa ancora più pe­ sante, nei mesi successivi, dalla bocciatura alla Camera del suo nuovo governo e dal­ la mancata unanimità nella sua rielezione a segretario del partito. A 72 anni, e in preca­ rie condizioni di salute, decise quindi di farsi da parte, anche se molti pronosticavano una sua elezione alla presidenza della Repubbli­ ca. Ma, nell’estate del 1954, De Gasperi morì. Il lungo viaggio della salma da Sella Valsuga­ na (il paese del Trentino dove lo statista sta­ va trascorrendo le vacanze) a Roma, poi dal­ la chiesa al cimitero, fu accompagnato da un’ampia partecipazione popolare.

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C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

era stato rafforzato dall’afflusso delle nuove leve cresciute politicamente durante il ventennio nelle file dell’Azione cattolica. La Dc godeva dell’appoggio della Chiesa, che aveva visto crescere il suo ruolo negli anni della guerra e poi della dissoluzione del potere statale; e anche per questo si presen­ tava come la forza principale del fronte moderato. Il Partito liberale, che raccoglieva nelle sue file gran parte della classe dirigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (come quelle di Luigi Einaudi e Benedetto Croce), oltre che sul sostegno della grande industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto personale e clientelare fra i leader liberali e la loro base elettorale era ormai definitivamente compromesso dopo vent’anni di dittatura fascista. Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla questione istituzionale (aveva infatti respinto ogni collaborazione con la monarchia, rifiutando persino di partecipare al Cln). In una po­ sizione particolare, al confine fra l’area liberal-democratica e quella socialista, si collocava il Partito d’azione. Forte del prestigio che gli veniva dal notevole contributo dato alla lotta partigiana, il Pda si faceva promotore di ampie riforme sociali (nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, ri­ forma agraria, massimo sviluppo delle autonomie locali), ma era privo di una base di massa e fatica­ va a trovare una sua identità, diviso com’era fra un’ala socialista e un’ala liberal-democratica. Si sa­ rebbe presto sciolto, così come il piccolo Partito democratico del lavoro [►11_11] che pure aveva fatto parte del Cln.

Liberali e democratici

Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima del dopo-liberazione. Assente ancora un movimento neofascista organiz­ zato (solo nel dicembre ’46 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano), gli elettori di destra si raccolsero in parte sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all’affermazione di un nuovo movimento: l’Uomo qualunque, fondato nel’45 dal commediografo Guglielmo Giannini. I qualunquisti rifiutavano qualsiasi caratterizzazione ideologica e si limitavano ad assu­ mere le difese del cittadino medio (dell’“uomo qualunque”, appunto), oppresso dalle tasse e dalla nuova “dittatura” dei partiti del Cln. Il movimento riscosse notevoli consensi, soprattutto presso la piccola e media borghesia del Centro-Sud. Ma presto sarebbe entrato in crisi, soprattutto per la con­ fluenza dell’opinione pubblica moderata attorno alla Democrazia cristiana.

Le destre

Un ruolo importante nell’Italia del dopoguerra fu svolto anche dalla Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), ricostituita su basi unitarie, nel giugno ’44, nella Roma ancora occupata dai tedeschi. Le tre componenti – socialista, comunista e cattolica – erano rappresentate pariteticamente negli organi dirigenti, ma erano molto squilibrate fra loro co­ me peso numerico (i comunisti erano di gran lunga i più forti, i cattolici nettamente i più deboli, so­ prattutto fra le categorie operaie). La loro convivenza non fu sempre facile e richiese un incessante lavoro di mediazione politica. La Cgil riuscì tuttavia, nel quadro di una linea complessivamente mo­ derata, a realizzare alcune importanti e durevoli conquiste normative: il riconoscimento delle commissioni interne, che rappresentavano il sindacato all’interno delle aziende; l’introduzione di un meccanismo di scala mobile per l’adeguamento automatico dei salari al costo della vita; una nuova e più rigida disciplina dei licenziamenti; un maggior egualitarismo retributivo fra i lavoratori delle diverse categorie.

La Cgil unitaria

La prima occasione di confronto fra i partiti del Cln all’in­ domani della liberazione si presentò al momento di sce­ gliere il nuovo capo del governo. Dopo un lungo braccio di ferro fra socialisti e democristiani, l’accordo fu trovato sul nome di Ferruccio Parri, esponente del Partito d’azione e già capo militare della Resistenza. Parri cercò di promuovere la normalizzazione del paese e mise all’ordine del giorno lo spinoso problema dell’epurazione dei funzionari statali e dei grandi im­ prenditori più compromessi col fascismo. Annunciò inoltre una serie di prov­ vedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a favorire le piccole e medie aziende. Ma in questo modo si attirò l’opposizione delle forze mode­

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Da Parri a De Gasperi

U4 IL MONDO DIVISO

qualunquismo Il termine indica un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei partiti e in genere della politica. Secondo i movimenti qualunquisti il ruolo della politica va limitato e auspicabilmente risolto nella buona amministrazione dello Stato; va anche fortemente arginato il controllo dello Stato nei vari settori di attività, soprattutto economiche, del paese. Per questo le proteste qualunquiste sono rivolte spesso contro la politica fiscale dei governi.

rate, in particolare del Partito liberale, che nel novem­ bre ’45 tolse la fiducia al governo, determinandone la caduta. La Dc riuscì allora a imporre la candidatura del suo leader Alcide De Gasperi. Il nuovo governo si reg­ geva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln, ma inaugurava una svolta di segno moderato de­ stinata a rivelarsi irreversibile.



METODO DI STUDIO

 a  Realizza una tabella dal titolo L’Italia all’indomani della guerra i cui indicatori siano “Economia”, “Divario Nord-Sud”, “Politica”, e compilala inserendo le informazioni ricavabili dal paragrafo.  b  Leggi con attenzione i sottoparagrafi relativi alla realtà politica italiana e realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) selezionando quelle che coprono i temi affrontati e attribuendo un  font  di dimensioni più grandi alle parole più importanti. Quindi argomenta la tua scelta.  c  Sottolinea e numera i motivi della frattura tra Nord e Sud alla fine della guerra.

14_2 LA REPUBBLICA E LA COSTITUENTE

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All’inizio del 1946, dopo molti rinvii dovuti alla difficile situazione del paese (col­ legamenti precari, mancato ritorno di molti militari dai campi di prigionia), il governo fissò al 2 giugno la data per le elezioni dell’Assemblea costituente, che sarebbe stata incaricata di scrivere la nuova Costituzione italiana. Erano le prime consultazioni poli­ tiche libere dopo venticinque anni, e le prime in cui, grazie a un decreto emanato dal governo Bonomi nel febbraio 1944, avevano diritto a votare anche le donne [►FS, 119]. Si stabilì inoltre che in quello stesso giorno gli italiani e le italiane sarebbero stati chiamati a decidere direttamente, mediante referendum, se mantenere in vita l’istituto monarchico o fare dell’Italia una repubblica. Il 9 maggio, quando mancavano poche settimane al voto, Vittorio Emanuele III tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, screditata dalla sua lunga collaborazione col regime fascista, e abdicò in favore del figlio Umberto II. Ma la mossa non ottenne gli effetti sperati.

►     Focus L’Assemblea costituente

Elezioni e referendum

Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate da un’affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni libere in Italia (circa il 90% degli aventi diritto), la repubblica prevalse con un margine abbastanza netto: 12.700.000 voti circa contro 10.700.000 per la monarchia. Il 13 giugno, dopo un vano tentativo dei monarchici di contestare la regolarità formale del voto, Umberto II partì per l’esilio in Portogallo. Si spezzava così definitivamente il legame fra l’Ita­ lia e la monarchia sabauda, che tanta parte aveva avuto nel processo di unificazione.

I risultati del 2 giugno

Edizioni straordinarie di quotidiani che annunciano la vittoria della repubblica al referendum istituzionale 6 giugno 1946

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C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito col 35,2% dei voti, seguita a notevole distanza dal Psiup (20,7%) e subito dopo dal Pci (18,9%). L’Unione democratica nazionale, che raccoglieva i maggiori esponenti della classe dirigente liberale, ebbe un risultato modesto, come i qualunquisti e i monarchici. Il Partito d’azione raccolse solo l’1,5% dei voti, molto meno del vecchio Partito repubblicano (4,4%).

tecnico In questo caso il termine indica un professionista esperto nelle materie di governo che non proviene dalle file dei partiti, ma viene scelto per la sua alta competenza.

Rispetto alle ultime elezioni prefasciste, era evidente il successo dei partiti di mas­ sa (Dc, Psiup e Pci raccolsero insieme i due terzi dei voti). E altrettanto evidente era la crisi dei vecchi gruppi liberal-democratici, ormai sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell’Italia moderata. La sinistra risultava complessivamente rafforzata, ma non tanto da diventare maggioritaria; e vedeva mutati i rapporti di forza al suo interno, col Psiup insidiato da vi­ cino dal Pci. Nel complesso, i risultati mostravano che gli elettori italiani avevano voltato pagina rispet­ to all’esperienza fascista. Quegli stessi risultati, però, se analizzati regione per regione, rivelavano che la vittoria della Repubblica nel referendum si reggeva tutta sulle regioni settentrionali; e che anche il voto politico vedeva la sinistra in vantaggio nel Centro-Nord, ma debolissima nel Mezzogiorno.

Nuovi equilibri e vecchie divisioni

Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e comunisti conti­ nuarono a governare insieme, accordandosi sull’elezione del primo, e provviso­ rio, presidente della Repubblica, il liberale Enrico De Nicola. Ma la coabitazione al governo non eliminava i contrasti, originati, da un lato, dall’inasprirsi dello scontro sociale, dall’altro dal profilarsi della guerra fredda. A fare le spese di questa radicalizzazione fu soprattutto il Partito socialista, all’interno del quale si erano delineati due schieramenti: il primo, che faceva capo a Nenni, voleva conservare i caratteri classisti e rivoluzionari del partito, era favore­ vole all’“unità d’azione” col Pci e puntava, a livello internazionale, sull’alleanza fra l’Urss e le sinistre occidentali; il secondo schieramento, che era guidato da Giuseppe Saragat, si batteva invece per un allentamento dei legami col Pci e non nascondeva la sua ostilità verso il comunismo sovietico e la politica staliniana nell’Europa dell’Est. Nel gennaio 1947, in un congresso a Roma, l’ala guidata da Saragat abbandonò il Psiup (che riassunse il vecchio nome di Psi) e diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito socialdemocratico italiano (Psdi). METODO DI STUDIO In maggio, traendo spunto dai contrasti in seno alla coalizione, De Gasperi  a  Spiega oralmente cosa è la Costituente. diede le dimissioni e formò un nuovo governo di soli democristiani, rafforzato  b  Per quali consultazioni si votò il 2 giugno 1946? dall’apporto di “tecnici” di area liberal-democratica (come Luigi Einaudi al Sottolinea la risposta. Bilancio e Carlo Sforza agli Esteri). Si chiudeva così, con i cattolici al potere  c  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi e le sinistre all’opposizione, la fase della collaborazione governativa fra i tre e sintetizza i contenuti in un elenco puntato. partiti di massa.

La crisi dell’unità antifascista e la scissione socialista



14_3 LA COSTITUZIONE E IL TRATTATO DI PACE

I contrasti politici culminati con l’esclusione delle sinistre dal governo non impe­ dirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di solidarietà che era ne­ cessaria alla Repubblica per il varo della Costituzione repubblicana. L’Assemblea incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale, dopo lo Statuto albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li concluse il 22 dicembre 1947 con l’approvazione a larghissima maggioranza del testo costituzionale, che entrò in vigore dal 1° gennaio 1948. La Costitu­ zione repubblicana si ispirava ai modelli democratici ottocenteschi per la parte riguardante le istitu­ zioni e i diritti politici: essa dava vita a un sistema parlamentare, col governo responsabile di fronte alle due Camere (la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica), entrambi titolari del potere legislativo, senza apprezzabili differenze di funzioni. Alle Camere, elette a suffragio universale, spet­ tava il compito di scegliere, in seduta congiunta, un presidente della Repubblica con mandato set­

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Genesi e caratteri della Costituzione

U4 IL MONDO DIVISO

► Leggi anche: ► Parole della storia Proporzionale/ Maggioritario, p. 803

La firma del testo della Costituzione della Repubblica italiana 27 dicembre 1947, Roma A destra il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola osserva Alcide De Gasperi che appone la sua firma al testo definitivo della Costituzione, in qualità di presidente del Consiglio.

tennale e con funzioni di garanzia e di rappresentanza dell’unità nazionale. Era inoltre previsto che un Consiglio superiore della magistratura assicurasse l’autonomia dell’ordine giudiziario, che una Corte costituzionale vigilasse sulla conformità delle leggi alla Costituzione, che le leggi potessero essere sottoposte a referendum abrogativo – diretto cioè all’annullamento di una legge o di alcune sue parti – dietro richiesta di almeno 500 mila cittadini, che la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata grazie al nuovo istituto della regione, dotato di ampi poteri (anche legislativi). Le norme relative al Consiglio superiore della magistratura, alla Corte costituzionale, al referendum e alle regioni erano però destinate a restare inattuate per molti anni, in assenza delle leggi applicative che dovevano essere approvate dal Parlamento. Non sempre, inoltre, avrebbero trovato riscontro nel­ la realtà alcune affermazioni di principio in materia di diritti sociali, che erano il risultato della con­ vergenza fra la Dc e i partiti di sinistra e che rappresentavano la maggiore novità rispetto ai modelli costituzionali ottocenteschi: fra l’altro, era sancito il “diritto al lavoro” ed era stabilito che il diritto di proprietà potesse essere limitato a vantaggio del benessere collettivo. Nel complesso, i costituenti – preoccupati di allontanarsi il più possibile dall’e­ sempio negativo dell’autoritarismo fascista – sentirono più l’esigenza di garanti­ re spazi di rappresentanza a tutte le forze politiche, grandi e piccole, che non quella di assicurare stabilità al potere esecutivo. La scelta in favore di un modello parlamentare – uni­ ta a un sistema elettorale proporzionale (in cui ad ogni lista viene assegnato un numero di seggi proporzionale ai voti raccolti) – faceva infatti dei partiti i primi destinatari del consenso e dunque gli arbitri della politica italiana, spesso a scapito della tenuta dei governi. I partiti, del resto, erano con­ siderati come il tramite più efficace fra i cittadini e le istituzioni, soprattutto se avevano una larga base popolare. Essi svolsero a loro modo una funzione educativa nei confronti dei ceti meno acculturati, offrendo un canale di partecipazione alla politica che contribuì al difficile processo di formazione di una cittadinanza repubblicana [►FS, 105]. Nel complesso, la Costituzione rappresentò un compro­ messo equilibrato fra le istanze delle diverse forze che avevano contribuito a realizzarla. Fu merito dei costituenti l’aver raggiunto questo risultato nonostante l’asprezza dei contrasti che si aprirono su sin­ gole questioni.

Il compromesso costituente

589

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

Lo scontro più clamoroso si verificò nel marzo ’47, quando si discusse la propo­ sta democristiana di inserire nella Costituzione un articolo (l’articolo 7) in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa erano regolati dal Concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime fascista [►9_1]. La proposta sembrava destinata a essere respinta. Ma all’ultimo mo­ mento, con una decisione che fece scalpore, Togliatti annunciò il voto favorevole del Pci, motivando la sua scelta con la volontà di rispettare il sentimento religioso della popolazione italiana e di non creare fratture in seno alle masse. L’articolo 7 fu così approvato, nonostante l’opposizione dei socialisti e degli altri partiti laici.

L’articolo 7

Nel luglio di quello stesso 1947, l’Assemblea Costituente fu chiamata ad affronta­ re un’altra importante scadenza: la ratifica del trattato di pace che il governo ave­ va firmato in febbraio a Parigi con gli Stati vincitori della guerra mondiale. Non fu una decisione faci­ le. L’Italia, nonostante gli sforzi del governo per veder riconosciuto il contributo fornito agli alleati fra il ’43 e il ’45, fu trattata a tutti gli effetti come una nazione sconfitta: si impegnò a pagare riparazioni agli Stati che aveva attaccato (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia), dovette ridurre la consi­ stenza delle sue forze armate e perse tutte le sue colonie (anche se, nel 1950, avrebbe ottenuto per un decennio l’amministrazione fiduciaria della Somalia). Dal punto di vista territoriale, a ovest l’Italia non subì perdite di rilievo, salvo alcune rettifiche secondarie a favore della Francia. A nord profittò della condizione di inferiorità dell’Austria (considerata Stato sconfitto in quanto parte del Terzo Reich) per mantenere il confine al Brennero, impegnandosi però a concedere ampie autonomie all’Alto Adige. Molto dolorose furono invece le mutilazioni subìte sul confine orientale, dove l’Italia doveva misurarsi con uno Stato vincitore, la Jugoslavia.

Il trattato di pace

L’esercito di liberazione jugoslavo comandato dal maresciallo Tito [►11_6 e 12_4] aveva infatti occupato l’Istria e rivendicava il possesso di Trieste. L’occu­ pazione aveva fatto riesplodere il conflitto fra italiani e slavi (sloveni e croati), esasperato dalla repressione condotta dal regime fascista contro le minoranze etniche. Nella prima­ vera-estate del 1945 migliaia di italiani, a Trieste, a Gorizia e in molti centri dell’Istria, erano stati uc­ cisi o deportati, con la generica accusa di complicità col fascismo. Molti di loro erano stati gettati, vivi o morti, nelle foibe, profonde cavità naturali dell’altopiano carsico comunemente usate come disca­ riche [►FS, 97]. Anche a seguito di queste violenze, un gran numero di italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia (circa 250 mila secondo stime attendibili) lasciarono le loro terre e ripararono per lo più in Italia. Il dramma del confine orientale si intrecciò così con le divisioni create dalla guerra fredda (fino alla rottura fra Tito e Stalin, la frontiera fra Italia e Jugoslavia coincideva con quella fra i due bloc­ chi); e divenne un fattore di mobilitazione per le forze anticomuniste, che ebbero buon gioco nel de­ nunciare la posizione ambigua del Pci e il suo sostanziale allineamento alle posizioni jugoslave.

Il dramma del confine orientale

LA COSTITUZIONE

590

L’Italia repubblicana

Potere giudiziario

Potere esecutivo

Consiglio superiore della magistratura

Governo

U4 IL MONDO DIVISO

Responsabile di fronte alla

Potere legislativo

Presidente della Repubblica

Camera dei deputati e Senato

Elegge...

Eletti a suffragio universale

Garanzia e rappresentanza dell’unità nazionale

A U S T R I A

A U S T R I A

Drava

Drava i a e n v o S l

38_ISTRIA E TRIESTE DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE Iso

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Gorizia Lubiana A U S T R I A Monfalcone

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territorio italiano A D R I AT I C O territori tolti all’Italia e assegnati alla Jugoslavia dal trattato di pace territorio italiano territori tolti all’Italia e assegnati alla Jugoslavia dal trattato di pace Trieste territorio libero Zona A sotto l’amministrazione militare anglo-americana Alla fine del B sotto l’amministrazione jugoslava LaZona questione

Trieste territorio libero Zona A sotto l’amministrazione militare anglo-americana Zona B sotto l’amministrazione jugoslava

territorio italiano Da lma territori tolti all’Italia zia Zara alla Jugoslavia e assegnati dal trattato di pace Trieste territorio libero Zona A sotto l’amministrazione militare anglo-americana Zona B sotto l’amministrazione jugoslava

territorio italiano territori tolti all’Italia e assegnati alla Jugoslavia dal che trattato di pace provvisoria,

’46 fu attuata una sistemazione METODO DI STUDIO lasciava alla Jugoslavia la penisola istriana, eccettuata una Trieste di Trieste territorio striscia comprendente Trieste e Capodistria, che avrebbe do­ libero a  Spiega oralmente perché si parla di “compromesso” costituente. Zonadiviso A sotto l’amministrazione vuto costituire il Territorio libero di Trieste. Il Territorio fu a sua volta in  b  Sottolinea con colori diversi i princìpi ispiramilitare anglo-americana una zona A (Trieste e dintorni) occupata dagli alleati e in una zona B tenuta dagli tori della jugoslava Costituzione repubblicana e le norme della Zona B sotto l’amministrazione Costituzione che rimasero, per molti anni, inattuati. jugoslavi. Solo nell’ottobre 1954, dopo momenti di forte tensione fra Italia e  c  Spiega oralmente che cosa stabiliva l’articolo Jugoslavia, si giunse a una spartizione di fatto, che sanciva il controllo jugoslavo 7 della Costituzione. sulla zona B e il passaggio dall’amministrazione alleata a quella italiana della zona  d  Sottolinea i punti salienti del trattato di pace che l’Italia dovette firmare nel ’47. A, ossia di Trieste, che veniva così riunita al territorio nazionale. Sarebbero passati  e  Spiega per iscritto cosa sono le foibe e a quaancora più di vent’anni perché si giungesse a un accordo (il trattato di Osimo del le episodio storico sono collegate. 1975) con cui le due parti riconoscevano ufficialmente i nuovi confini.

591

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA



14_4 IL TEMPO DELLE SCELTE

Il varo della Costituzione repubblicana fu l’ultima manifestazione significativa della collaborazione tra le forze antifasciste. Dall’inizio del ’48, i partiti si impe­ gnarono in una gara sempre più accanita in vista delle elezioni politiche, convo­ cate per il 18 aprile di quell’anno, che avrebbero dato alla Repubblica il suo primo Parlamento. Caratteristica di questa campagna elettorale fu la polarizzazione fra due schieramenti contrapposti [►FS, 109]: quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche i partiti laici minori (liberali, socialdemocratici e repubblicani, entrati nel dicembre ’47 nel governo De Gasperi); e quello di oppo­ sizione, in cui Psi e Pci si presentavano con liste comuni sotto l’insegna del Fronte popolare [►FS, 106 e 107]. Gli elettori si trovarono così di fronte a un’alternativa secca, che lasciava scarsi margini alle posizioni intermedie: due schieramenti che si combattevano non solo sul piano delle scelte politiche, ma anche su quello delle visioni del mondo e delle scelte di campo internazionali dettate dalla guerra fredda.

Due schieramenti contrapposti

Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi poté giovarsi dell’aiuto di due potenti alleati. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII, si impegnò in una vera crociata anticomunista e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una pro­ paganda spesso grossolana, ma indubbiamente efficace, a sostegno della Dc. Decisivo fu anche l’appog­ gio degli Stati Uniti, che consentì ai democristiani di presentarsi come i più accreditati rappresentanti della massima potenza mondiale e di agitare la concreta minaccia di una sospensione degli aiuti del piano Marshall [►12_3] in caso di vittoria delle sinistre. Giocavano quindi a favore della Dc, oltre alla paura di mutamenti radicali, e al tradizionale ossequio alla Chiesa di Roma, anche le prospettive di svi­ luppo e di benessere associate nella stessa mentalità popolare al legame con gli Stati Uniti. Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori e insistendo sui toni democratici e populisti (il ritratto di Garibaldi fu scelto come contrassegno delle liste del Fronte) rispetto a quelli classisti e rivoluzionari. Ma la loro propaganda fu fortemente danneggiata da una stretta adesione alla causa dell’Urss e alla politica estera di Stalin, in un momento in cui l’immagine del comunismo sovietico era inevitabilmente associata a quanto stava accadendo nell’Europa dell’Est, in particolare in Cecoslovacchia [►12_4].

La campagna elettorale

Le elezioni si risolsero in un travolgente successo del partito cattolico, che ot­ tenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, attiran­ do sulle sue liste i suffragi dell’elettorato moderato e anticomunista, istintivamente portato a con­ centrare i suoi voti sul partito più forte (le destre risultarono infatti in netto calo). Bruciante fu la sconfitta di socialisti e comunisti, che uniti ottennero il 31% contro il 39,6% del 1946. Il peso della sconfitta ricadeva per intero sul Psi, che vedeva più che dimezzata la sua rappresentanza parlamen­ tare e pagava così l’allineamento sulle posizioni del Pci. Cadevano le speranze della sinistra di guidare la trasformazione del paese, mentre si rafforzava l’egemonia del partito cattolico, già delineatasi con l’avvento al governo di De Gasperi e ora sancita in modo inequivocabile dal responso delle urne.

La vittoria della Dc

L’insofferenza dei militanti di sinistra per questo risultato esplose tre mesi dopo le elezioni, quando, il 14 luglio del ’48, il segretario comunista Togliatti fu ferito gra­ vemente mentre usciva da Montecitorio da un giovane di destra che gli sparò alcu­ ni colpi di pistola. In tutte le principali città, militanti dei partiti di sinistra scesero in piazza, scontran­ dosi con le forze dell’ordine. Ricomparvero armi e barricate e molte fabbriche furono occupate. Nella zona del Monte Amiata, in Toscana, il moto assunse un carattere insurrezionale. L’agitazione si esaurì in pochi giorni, anche per il comportamento prudente dei dirigenti comunisti e per l’appello alla calma lanciato dallo stesso Togliatti. Ma le tensioni nel paese risultarono ulteriormente esasperate.

L’attentato a Togliatti

592

La rottura dell’unità sindacale

Un’altra conseguenza delle giornate del luglio ’48 fu la rottura all’interno della Cgil, che era stata ricostituita nel 1944 su basi unitarie [►14_1]. La decisione del­ la maggioranza socialcomunista del sindacato di proclamare uno sciopero

U4 IL MONDO DIVISO

► Leggi anche: ► Eventi Il 18 aprile 1948: l’elezione del primo Parlamento della Repubblica, p. 594

Operai in sciopero dopo l’attentato a Togliatti 1948 Subito dopo il ferimento di Togliatti, la mattina del 14 luglio 1948, il ministro dell’Interno Scelba diramò tassative disposizioni ai prefetti per impedire manifestazioni di protesta; ma sin dalle prime ore del pomeriggio dello stesso giorno masse di dimostranti scesero nelle piazze delle città italiane, dove si verificarono gravi incidenti tra i manifestanti e le forze di polizia.

generale in segno di protesta contro l’attentato a Togliatti, infatti, fornì alla componente cattolica l’oc­ casione per dar vita a una nuova confederazione, la Cisl (Confederazione italiana sindacati lavorato­ ri). Pochi mesi dopo i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici fondarono una terza organizza­ zione, la Uil (Unione italiana del lavoro). Con le elezioni del 18 aprile ’48, gli elettori italiani non solo scelsero il partito che avrebbe governato il paese negli anni a venire, ma si espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale. Sul terreno della politica economica, i governi dell’immediato dopoguerra non introdussero riforme strutturali di rilie­ vo: anche perché la corrente di pensiero dominante fra gli economisti vedeva nella pianificazione un prodotto dei regimi autoritari. Comunisti e socialisti, finché restarono al governo, si limitarono so­ stanzialmente a un’azione di difesa dei salari e dell’occupazione. Anche questa linea di resistenza cadde però con l’estromissione delle sinistre dal governo e la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, in cui il ministero del Bilancio era tenuto dall’economista liberale Luigi Einaudi.

Le scelte di politica economica

Mentre le sinistre si impegnavano in un’impopolare battaglia contro il piano Mar­ shall, Einaudi attuò una manovra economica che aveva come scopi principali la fine dell’inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. La mano­ vra si attuò su tre distinti livelli: una serie di inasprimenti fiscali e tariffari; una svalutazione della lira (da 225 a 350 lire per un dollaro) che doveva favorire le esportazioni e incoraggiare il rientro dei capita­ li, attirati dal cambio favorevole; una energica restrizione del credito che limitò la circolazione della moneta e costrinse imprenditori e commercianti a mettere sul mercato le scorte accumulate in attesa di un aumento dei prezzi. Nel complesso, la “linea Einaudi” ottenne i risultati che si era prefissa: la lira recuperò potere d’acquisto, i capitali esportati rientrarono in Italia (soprattutto dopo le elezioni del ’48), i ceti medi risparmiatori riacquistarono fiducia, gli stessi salariati si giovarono del calo dei prezzi. L’operazione ebbe però forti costi sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione che, abolito il

La “linea Einaudi”

593

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

blocco dei licenziamenti, superò nel ’48 i due milioni di unità. I fondi del piano Marshall (1300 milioni di dollari fra il ’48 e il ’51) furono utilizzati per finanziare le importazioni di derrate alimentari e materie prime, ma non per sviluppare la domanda interna. La durezza dello scontro sociale che ne scaturì non impedì comunque al paese di trovare lo slancio necessario per una ricostruzione più rapida del previ­ sto: nel 1950 furono infatti raggiunti i livelli produttivi dell’anteguerra.

EVENTI

Il 18 aprile 1948: l’elezione del primo Parlamento della Repubblica

Q

594

uando, dopo una campagna elettorale accesissima, giunse finalmente la mat­ tina del 18 aprile 1948, data delle elezioni per il primo Parlamento repubblicano, le prime pagine dei quotidiani dei due princi­ pali contendenti – «l’Unità» del Partito co­ munista italiano (Pci) e «Il Popolo» della Democrazia cristiana (Dc) – evidenziarono l’importanza cruciale dello scontro in atto. Contro il governo della fame, della servitù, della guerra. Per la pace, la libertà e il lavoro vota Fronte Popolare era il titolo del pri­ mo, mentre il secondo invitava: Oggi tutti alle urne per la battaglia decisiva. La libertà e la pace d’Italia nella vittoria dello scudo crociato (alludendo al simbolo della Dc). La data del 18 aprile 1948 ha, infatti, un significato simbolico che va oltre il semplice confronto elettorale e si configura come un nodo centrale della storia dell’Italia repub­ blicana: essa fu attesa come il giorno della battaglia finale di uno scontro di civiltà, di una guerra tra bene e male. I due schiera­ menti che si fronteggiavano erano la Dc di Alcide De Gasperi alleata con i partiti laici minori (liberali, socialdemocratici, repub­ blicani) e il Fronte democratico popolare in cui, con il volto di Garibaldi inscritto in una stella rossa come simbolo, si erano coalizzati il Partito comunista italiano e il Partito socialista. La campagna elettora­ le fu accesa e i partiti investirono tempo ed energie in una propaganda che rispecchia­ va il clima della guerra fredda, nei temi, nei toni e nel linguaggio: in ballo c’era, infatti, l’adesione dell’Italia al campo occidenta­ le guidato dagli Usa (come auspicato dalla Dc, che stava già operando in questo sen­ so) o a quello guidato dall’Urss, come inve­ ce voleva il Pci. I temi della campagna elet­ torale si polarizzarono, dunque, lungo le fratture comunismo/anticomunismo, cat­ tolicesimo/marxismo e giustizia sociale/li­ bero mercato. La campagna elettorale, di conseguenza, fu impostata in modo diametralmente oppo­

U4 IL MONDO DIVISO

sto da parte dei due schieramenti: il Fron­ te si mostrò sicuro della sua vittoria e te­ se a tranquillizzare le masse; la Dc, invece, diffuse toni allarmistici che annunciava­ no i pericoli di una vittoria comunista, ri­ chiamandosi a quanto stava accadendo nei pae­si dell’Europa orientale e alluden­ do al pericolo di guerra civile e di dittatura, oltre che alla perdita, in caso di vittoria del Fronte, degli aiuti economici previsti dal piano Marshall [►FS, 107]. Ad esempio, in un comizio, De Gasperi ammonì: «Non ho mai passato un momento più serio di que­ sto [...]: questa volta bisogna vincere o non si vota più in Italia. [...] Amici miei, questa è l’ora suprema, la vostra ora; non passere­ te mai ora più storica e più grave di questa. Siate forti, coraggiosi, accorti, bisogna vin­ cere, costi quel che costi». I veri protagonisti della mobilitazione de­ mocristiana furono, però, i Comitati civici, organizzati dal dirigente dell’Azione catto­ lica Luigi Gedda, che, su impulso di papa Pio XII, mobilitarono l’associazionismo le­ gato alla Chiesa. I Comitati civici non si so­ vrapposero all’attività dell’Azione cattolica – che, secondo i Patti lateranensi, non po­ teva occuparsi di politica – ma scelsero una struttura formalmente apolitica, che rical­ cava quella delle diocesi e delle parrocchie, apparentemente lontana da ogni formazio­ ne partitica. Si impegnarono soprattutto nella lotta contro l’astensionismo e nella diffusione di una propaganda duramente anticomunista. In totale produssero una grande varietà di manifesti murari in cui di­ pingevano con toni apocalittici le conse­ guenze di una vittoria comunista. Essi raf­ figuravano scheletri, sangue e distruzione: «Vota o sarò il tuo padrone» affermava su un manifesto uno scheletro col colbacco e la stella rossa che si stagliava su una carti­ na dell’Europa orientale colorata di rosso sangue. Tra le iniziative più singolari promosse dai Comitati civici per ridurre l’astensionismo

Manifesti elettorali della Dc 1948

L’adozione di un modello di sviluppo fondato sull’iniziativa privata, sia pur cor­ retta dall’intervento pubblico, era anche il risultato di una crescente integrazio­ ne con le economie dell’Occidente capitalistico e contribuì a definire la collocazione internazionale del paese. Così, quando, alla fine del ’48, furono gettate le basi per il Patto atlantico [►12_4], il gover­ no italiano, per volontà soprattutto di De Gasperi e del ministro degli Esteri Sforza, decise di accettare la proposta di adesione che era stata rivolta all’Italia, nonostante l’opposizione di socialisti e comuni­

L’adesione alla Nato

ci fu il “Totalvoto”, un concorso nazionale a premi per il pronostico dell’esatto numero di seggi che ciascuna lista avrebbe avuto al­ la Camera. Anche Pio XII scese direttamen­ te in campo e, nel discorso pasquale del 28 marzo, ammonì i cattolici contro i «negato­ ri di ciò che vi è più sacro». Vescovi e parroci si mobilitarono facendo leva sul sentimen­ to popolare, organizzando processioni della statua della Madonna e diffondendo voci di miracoli. A sfondo religioso furono anche alcune vignette dello scrittore Gio­ vannino Guareschi, come quelle contenen­ ti il famoso slogan «Nel segreto della cabina Dio ti vede, Stalin no!». Il Fronte popolare, da parte sua, cercò di presentarsi come il rassicurante erede dei patrioti ottocenteschi, come mostrava la scelta del volto di Garibaldi come simbo­ lo. In generale, il Fronte chiedeva di esse­ re ­votato per difendersi dall’“attacco della borghesia reazionaria” – l’accusa principa­ le contro la Dc era, infatti, quella di voler instaurare un regime poliziesco – e dal­ l’“imperialismo statunitense” [►FS, 106]. Si profilò una nuova “guerra civile ideologica” [►FS, 108]: se i cattolici dipingevano il Pci come servo dell’Urss e di Stalin (e, per questo, diffusero delle parodie del simbolo elettorale del Fronte in cui, ribaltando il vol­ to di Garibaldi, si otteneva quello di Stalin), i socialcomunisti accusavano De Gasperi di collaborazionismo con gli Usa. I leader dei diversi schieramenti non risparmiarono le offese personali contro gli avversari: De Ga­ speri affermò che Palmiro Togliatti, il segre­ tario del Pci, aveva il “piede forcuto” come il demonio, mentre il segretario comunista dipingeva il leader Dc come un uomo di po­ ca cultura e di scarso intelletto. Quando il 15 aprile si chiuse la campagna elettorale, nel comizio conclusivo in Piazza San Giovanni a Roma, Togliatti affermò: «Se De Gasperi sperava di mandarmi in giro per le piazze a piede nudo per dimostrare che non ho il piede forcuto si è sbagliato, perché io invece di togliermi le scarpe me le sono fatte risuolare facendovi mettere due fila di chiodi che mi riprometto di applicargli pre­ sto su parti del corpo che non nomino».

Nonostante il clima arroventato, le votazio­ ni si svolsero senza incidenti e vi partecipò più del 92% degli elettori. La Dc ebbe un successo clamoroso e ottenne oltre il 48% delle preferenze, mentre il Fronte popolare

si attestò intorno al 31%: il partito democri­ stiano aveva preso oltre 4 milioni e mezzo di voti più degli avversari. Per oltre quattro decenni la Dc sarebbe rimasta il principale partito italiano.

11_RISULTATI NAZIONALI, ELEZIONE PER L’ASSEMBLEA COSTITUENTE (2 GIUGNO 1946)

Elettori

Votanti

Schede bianche

Schede nulle e bianche

28.005.449

24.947.187 (89,08%)

643.067

1.936.708

Partito

Voti di lista

%

Seggi

Democrazia cristiana

8.101.004

35,2

207

Partito socialista di unità popolare

4.758.129

20,7

115

Partito comunista italiano

4.356.686

18,9

104

Unione democratica nazionale

1.560.638

6,8

41

Fronte dell’uomo qualunque

1.211.956

5,3

30

Partito repubblicano italiano

1.003.007

4,4

23

334.748

1,5

7

7,2

29

Partito d’azione Altri

12_RISULTATI NAZIONALI, ELEZIONE PER LA CAMERA DEL 18 APRILE 1948

Elettori

Votanti

Schede bianche

Schede nulle e bianche

29.117.554

26.855.741 (92,23%)

164.392

591.283

Partito

Voti di lista

%

Seggi

Democrazia cristiana

12.741.299

48,5

305

Fronte democratico popolare

8.137.047

31,0

183

Unità socialista

1.858.346

7,1

33

Blocco nazionale

1.004.889

3,8

19

Partito nazionale monarchico

729.174

2,8

14

Partito repubblicano italiano

652.477

2,5

9

Movimento sociale italiano

526.670

2,0

6

2,3

5

Altri

595

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

sti e le perplessità di una parte del mondo cattolico. L’adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento, dopo un acceso dibattito, nel marzo 1949. Col passare degli anni, la scelta sarebbe stata accettata anche da molte delle forze che l’avevano inizialmente contestata e sarebbe rimasta un punto fermo della politica estera italiana.



METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia i nomi dei maggiori sostenitori della Dc alle elezioni del 1948.  b  Spiega per iscritto come fu impostata la campagna elettorale del Fronte popolare e quali furono le cause della sua sconfitta.  c  Sottolinea le conseguenze dell’attentato a Togliatti.  d  Spiega oralmente in cosa consiste la “linea Einaudi”.  e  Sottolinea con colori diversi le forze politiche che caldeggiarono e quelle che osteggiarono l’adesione italiana alla Nato.

14_5 DE GASPERI E IL CENTRISMO

I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-53) segnarono il perio­ do di massima egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, la Dc mantenne l’alleanza con i partiti laici minori; appoggiò la candidatura alla presidenza della Repubblica del liberale Luigi Einaudi, eletto nel maggio 1948; associò ai suoi governi, sempre presie­ duti da De Gasperi, rappresentanti del Pli, del Pri e del Psdi. Fu questa la formula del centrismo, che vedeva una Dc molto forte occupare il centro dello schieramento politico, lasciando fuori della mag­ gioranza sia la sinistra socialcomunista, sia la destra monarchica e neofascista. Componente essen­ ziale della politica centrista era una moderata dose di riformismo che rafforzasse la base di consenso popolare dei partiti di governo.

I governi De Gasperi

Da questo punto di vista, l’iniziativa più importante fu la riforma agraria del 1950, che prevedeva l’esproprio e il frazionamento di parte delle grandi proprietà terriere in ampie aree geografiche del Mezzogiorno e delle isole e anche del Centro-Nord (il delta del Po e la Maremma toscana). La riforma costituiva il primo tentativo di larga e profonda mo­ difica dell’assetto fondiario mai attuato nella storia dell’Italia unita e andava incontro alle attese delle masse rurali del Centro-Sud, protagoniste, ancora alla fine degli anni ’40, di alcuni drammatici epi­ sodi di lotta per la terra. Gli obiettivi a più lungo termine erano l’incremento della piccola impresa agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini indipendenti, tradizionalmente considerato un fat­ tore di stabilità sociale e largamente egemonizzato dalla Dc, attraverso la potente Confederazione dei coltivatori diretti. Questi obiettivi si sarebbero però rivelati illusori. Le nuove piccole aziende agricole si dimostrarono per lo più poco vitali. E la riforma non servì a contenere quel fenomeno di migrazione dalle campagne che, cominciato all’inizio degli anni ’50, avrebbe assunto proporzioni imponenti alla fine del decennio.

La riforma agraria

Nell’agosto 1950, contemporaneamente alla riforma agraria, fu varata un’altra legge importante: quella che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture (strade, acquedotti, centrali elettriche) e il credito agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. Un intervento imponente, che si prolungò per oltre un trentennio ed ebbe in­ dubbi effetti positivi sull’economia meridiona­ le e sul tenore di vita della popolazione, anche se non bastò a mettere in moto un autonomo processo di modernizzazione al livello della so­ cietà civile e a colmare il divario con le regioni del Nord, che stavano intanto conoscendo un impetuoso sviluppo.

596

La Cassa per il Mezzogiorno

U4 IL MONDO DIVISO

Una casa colonica costruita presso Matera in seguito alla riforma agraria del 1950

I primi interventi adottati dalla Cassa per il Mezzogiorno mirarono al miglioramento dell’agricoltura e alla costruzione di infrastruttu­ re atte a favorire l’industrializzazione: strade, linee elettriche e ac­ quedotti. A partire dal 1957 la politica della Cassa fu orientata verso il sostegno diretto, attraverso la concessione di crediti agevolati al­ le industrie che si fossero impiantate in aree prescelte dallo Stato, i cosiddetti poli di sviluppo. Nel giro di pochi anni grandi complessi industriali si insediarono a Taranto, Brindisi, Cagliari, Gela, Bagnoli, Pomigliano d’Arco e Pozzuoli. Le riforme varate dai governi centristi – accanto a quelle già citate si devono ricordare la legge Fanfani sul finanziamento alle case popolari e la riforma tributaria Vanoni, che introduceva per la prima volta l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi – furono fortemente avversate dalla destra: gli stessi liberali si ritirarono dal governo nel ’50 in quanto contrari alla riforma agraria. D’altro canto le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi un’opposizione dura, motivata anche dallo stato di disagio in cui ancora versavano le classi lavoratrici. Nonostante la forte ripresa produttiva iniziata nei primi anni ’50, la disoccupazione si mantenne su livelli elevati e i salari restarono bassi. La politica economica del governo continuava infatti a basarsi sull’austerità finanziaria e sul contenimento dei consumi privati. I partiti di sinistra e la Cgil reagirono mobilitando le masse operaie in una serie di scioperi e manifestazioni, che spesso si concludevano in scontri con le forze dell’ordine. A sua volta, il governo intensificò l’uso dei mezzi repressivi. Le forze di polizia furono potenziate con la creazione dei reparti celeri (ossia gruppi motorizzati di pronto intervento) impiegati esclusivamente nei servizi di ordine pubblico. Le armi da fuoco furono a volte usate contro i manifestanti, provocando non poche vittime. Comunisti e socialisti furono “schedati” e a volte discriminati negli impieghi pubblici. Il ministro degli Interni Mario Scelba, che tenne quasi ininterrottamente la carica fra il ’47 e il ’55, divenne, agli occhi dei militanti di sinistra, il simbolo di una politica illiberale e repressiva.

Le resistenze della destra e l’opposizione delle sinistre

I lavori per la superstrada S.S. 407 “Basentana” in Basilicata 1973

Costretti a fronteggiare la pressione della sinistra e minacciati dalla crescita della destra, De Gasperi e i suoi alleati tentarono, nell’imminenza delle elezioni del ’53, di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi elettorali. Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera a quel gruppo di partiti “appa­ rentati” (ossia uniti da una preventiva dichiarazione di alleanza) che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Dal momento che né l’opposizione di sinistra né quella di destra potevano aspirare a raggiungere un simile risultato, il sistema sembrava costruito su misura per la maggioranza. Da qui le violente polemiche che accompagnarono la discussione in Parlamento della riforma elettorale, ribat­ tezzata dalle sinistre “legge truffa”. La legge fu approvata nel marzo ’53, dopo una durissima battaglia parlamentare. Nelle elezioni che si tennero in giugno, però, la coalizione di governo fu sorprendentemente sconfitta: sia la Dc sia i suoi alleati persero consensi rispetto al ’48, mentre ne guadagnarono monarchici e neofascisti. L’obiettivo del 50% fu mancato per poche decine di migliaia di voti. Il premio di maggioranza non scattò e, dopo le elezioni, la legge fu abrogata.

La “legge truffa”

Uscito di scena De Gasperi, che si dimise nel ’53 e morì un anno dopo, i succes­ sivi governi a guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla ormai esi­ gua maggioranza centrista, rafforzata in qualche caso dall’apporto di voti monarchici e neofascisti. Frattanto, però, significative novità andavano maturando nelle istituzioni e nel governo dell’econo­ mia. La crescita economica si consolidava. E si rafforzavano di pari passo – grazie anche alla liberalizzazione degli scambi con l’estero attuata nei primi anni ’50 dal ministro del Commercio estero, il

Sviluppo e riforme

597

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

repubblicano Ugo La Malfa – i legami con l’Europa più avanzata, che sarebbero poi stati ribaditi, nel marzo 1957, dall’adesione italiana alla Comunità europea [►12_8]. Nell’estate 1955 fu presentato in Parlamento il cosiddetto piano Vanoni (dal nome dell’allora mini­ stro del Bilancio), che indicava fra gli obiettivi prioritari della politica economica l’assorbimento della disoccupazione e la cancellazione del divario fra Nord e Sud. Un’altra novità importante di questi anni, sul piano delle istituzioni, fu l’insediamento, nell’aprile ’56, della Corte costituzionale [►14_3]. Composta in parte da magistrati e in parte da membri nominati dal Parlamento e dal presidente della Repubblica, la Corte avrebbe svol­ to una funzione importante nell’adeguare la vecchia legislazione ai princìpi costituzionali e nel far cadere alcune fra le norme più au­ toritarie varate in periodo fascista. Due anni dopo (1958) si sarebbe insediato il Consiglio superiore della magistratura, anch’esso pre­ visto dalla Costituzione. Cambiamenti importanti si registrarono anche nei principali partiti. Nella Democrazia cristia­ na emergeva la nuova generazione cresciuta nell’Azione cattolica degli anni ’30, legata alle problematiche del cat­ tolicesimo sociale e favorevole all’intervento statale nell’economia. Il principale esponente di questa generazione, Amintore Fanfani, di­ venuto segretario nel 1954, cercò di rafforzare la struttura organizzativa del partito e di svincolarlo dai condizionamenti dell’industria privata, collegandolo più strettamente alle imprese di Stato: in parti­ colare all’Eni (Ente nazionale idrocarburi, azienda pubblica attiva nel settore del petrolio e dei gas naturali) di Enrico Mattei, un abile e dinamico manager che esercitò in questi anni una notevole in­ fluenza sul mondo politico. Nel dicembre ’56 fu creato il ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l’attività delle aziende di Stato: era il segno di una nuova volontà del potere politico di intervenire più incisivamente nella gestione dell’economia.

Verso nuovi equilibri

Frattanto, soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 1955 – che videro la vittoria di Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra, votato anche da socialisti e comunisti – comincia­ vano a delinearsi significativi mutamenti negli scenari politici nazionali, rimasti a lungo bloccati nelle contrapposizioni della guerra fredda. Un passaggio importan­ te verso nuovi equilibri fu rappresentato dalle ripercussioni dei fatti d’Ungheria del 1956 [►12_7]. Mentre il Pci approvò l’intervento sovietico, il Psi lo condannò. Fu Pietro Nenni, leader del partito ai tempi del Fronte popolare, a guidare la svolta autonomista, con cui il Psi si rendeva disponibile a una collaborazione con la Dc e i partiti laici. Si creavano così le premesse politiche per una apertura a sinistra. Né mancavano i margini economici per una politica di riforme, dato che il paese stava cominciando a vivere il più rapido boom industriale della sua storia.

La svolta autonomista del Psi



METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le informazioni principali relative ai seguenti temi: a. il centrismo; b. la Cassa per il Mezzogiorno; c. la “legge truffa”; d. la Corte costituzionale; e. la svolta politica del Psi.  b  Sottolinea le attività finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno e ricostruisci in un testo di 5 righe il contesto in cui venne istituita.  c  Spiega in cosa consisteva la riforma agraria varata nel 1950 e quale ne era lo scopo.  d  Sottolinea con colori diversi le principali forze di opposizione presenti nel Parlamento italiano e la corrente politica a cui apparteneva Amintore Fanfani.

14_6 IL “MIRACOLO ECONOMICO”

Già dall’inizio degli anni ’50, una volta esaurite le urgenze della ricostruzione, l’economia italiana aveva cominciato a crescere a ritmi mai conosciuti in passa­ to. Questo processo giunse al culmine fra il 1958 e il 1963: gli anni del “miracolo economico”, in cui l’Italia, con un tasso di sviluppo inferiore in Europa solo a quello tedesco, ridusse significativamente il divario che la separava dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Il prodotto interno lordo, 598

Il boom industriale

U4 IL MONDO DIVISO

Enrico Mattei ad una stazione di servizio Agip nei primi anni ’50 [Archivio storico Eni, Roma]

► Leggi anche: ►     Focus La modernizzazione del paese: le autostrade

prodotto interno lordo (pil) La somma di tutti i beni e i servizi prodotti in un determinato paese in un particolare periodo di tempo, generalmente rilevata su base annua.

13_IL PRODOTTO INTERNO ITALIANO, NAZIONALE E PRO CAPITE, 1951-70 Prodotto pro capite migliaia di lire 1963

Pil miliardi di lire 1963 40.000 –

Molti i fattori all’origine del miracolo: innanzitutto l’Italia I fattori poté inserirsi nella fase di crescita delle economie occiden­ del miracolo tali [►15_2]; contarono poi la politica di libero scambio avviata negli anni ’50, la modesta entità del prelievo fiscale e, soprattutto, lo scar­ to fra l’aumento della produttività e il basso livello dei salari che consentì alti profitti e tassi di investimento molto elevati. La compressione salariale era il ri­ sultato di una larga disponibilità di manodopera a basso costo, dovuta, a sua volta, al costante flusso migratorio dalle zone depresse a quelle più progredite. L’agricoltura, che nel ’51 assorbiva ancora quasi il 45% degli occupati, passava dieci anni dopo al 30% (e la percentuale sarebbe scesa ulteriormente negli anni successivi). Nello stesso periodo l’industria saliva dal 29 al 37% e i servizi dal 27 al 32%. Fu allora che, anche sotto questo aspetto, l’Italia divenne un paese industriale. Limitata, invece, fu la modernizzazione delle attività agricole, che man­ tennero in questo periodo un tasso di sviluppo modesto – circa il 3% contro il 9% dell’industria – e una scarsa produttività.

35.000 –

30.000 –

25.000 – – 800 20.000 –

– 700 – 600

15.000 –

– 500

– 300

1970 –

1965 –

1951 –

10.000 –

1960 –

– 400 1955 –

che fra il ’51 e il ’58 era cresciuto a un tasso medio annuo del 5,3%, nel quinquen­ nio successivo progredì ulteriormente a un ritmo del 6,5%. Fra il ’51 e il ’63, il prodotto pro capite crebbe mediamente del 5,8% all’anno [► _13]. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manifatturiera, che nel ’61 giunse a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico: un incremento particolarmente significativo si verificò nei settori siderurgico, meccanico e chimico, dove più ampio fu il rinnovamento degli impianti e delle tecnologie. La crescita industria­ le fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni, soprattutto nei settori degli elettrodomestici e dell’abbigliamento. La diffusione dei prodotti italiani, la soli­ dità della lira, la stabilità dei prezzi, ma anche alcuni eventi extraeconomici, co­ me il successo organizzativo delle Olimpiadi di Roma nel 1960 o le celebrazioni del centenario dell’Unità nel 1961 contribuirono a rafforzare l’immagine di un’I­ talia ormai avviata verso nuove prospettive di benessere.

39_DIFFUSIONE TERRITORIALE E CRESCITA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE NELLE PROVINCE ITALIANE (CENSIMENTI 1951, 1961, 1971)

1951

1961

1951

1961

1971

1971

Grado di industrializzazione alto

medio

scarso

minimo

Grado di industrializzazione alto

medio

scarso

minimo

599

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

La crescita economica, favorita all’inizio dal basso livello delle retribuzioni, si accompagnò, nella sua fase più intensa, a un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Il calo della disoccupazione, conseguenza dello sviluppo industriale, accrebbe la capacità contrattuale dei sindacati, che riuscirono a ottenere notevoli miglioramenti salariali. Questi aumenti, necessari anche per sviluppare il mercato interno, ebbero però l’effetto di ridurre i margini di profitto e di mettere in moto un processo inflazionistico. Così, nel 1963-65, il miracolo italiano conobbe una battuta d’arresto. La crescita riprese a partire dal ’66, anche se a ritmi più lenti.

Una battuta d’arresto

Negli anni del boom, la società italiana subì una serie di profonde trasformazio­ ni, che cambiarono il volto del paese e le abitudini dei suoi cittadini forse più di quanto non fosse avvenuto nei precedenti cent’anni di storia unitaria. Col “mira­ colo economico” l’Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi [►15_3]. Vi entrò disordinatamente, senza aver superato i suoi storici squilibri territoriali, che anzi nell’immediato apparvero aggravati. Il fenomeno più importante e più vistoso di questi anni fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città [►FS, 115 e 116]. Fra il ’51 e il ’61, circa 2 milioni di persone abbandonarono il Mezzogiorno. In tutto il paese il ceto dei coltivatori diretti subì una drastica riduzione, mentre aumentavano la piccola borghesia ur­ bana e la classe operaia. Sempre fra il ’51 e il ’61, la popolazione residente in città con più di 300 mila abitanti passò da 6.847.000 a 9.190.000. La popolazione di Milano crebbe del 22%, quella di Roma del 27%, quella di Torino (sede della maggior industria nazionale, la Fiat) di circa il 40%. La crescita delle città, anche di quelle non industriali, si accompagnò fra il ’51 e il ’63 a un fortissimo incremento dell’occupazione nei settori del commercio (+100%) e dell’edilizia (+84%). Nello stesso periodo l’occupazione nell’industria manifatturiera aumentò del 40%.

Migrazioni e urbanizzazione

Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano indubbiamente il segno di un progresso economico del paese: l’emigrazione verso l’estero, ancora molto elevata per tutti gli anni ’50, si ridusse fino a scomparire, i livelli di istruzione migliorarono significativamente e la dieta degli italiani divenne più ricca, soprattutto per

I costi della modernizzazione

600

La costruzione della Austostrada del Sole: la posa della prima pietra nel 1956 e l’inaugurazione dell’opera nel 1964

U4 IL MONDO DIVISO

Avviata negli anni ’50, l’Autostrada A1, chiamata Autostrada del Sole perché collega Milano con Napoli, il Nord con

il Mezzogiorno d’Italia,fu completata il 4 ottobre del 1964 con l’apertura del tratto fra Chiusi e Orvieto.

quanto riguardava il consumo di carne. Ma i costi umani e sociali furono pesanti. L’espansione delle città avvenne spesso in forme caotiche, senza un adeguato intervento dei poteri pubblici. Il difficile inserimento degli immigrati meridionali nei grandi centri industriali mise in evidenza il divario – che investiva anche i modi di vita e i modelli culturali – fra il Nord e il Sud del paese. Tuttavia, in quegli stessi anni, le differenze nei comportamenti sociali cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio un processo di integrazione legato alle comuni esperienze lavorative, ma favorito anche, per le generazioni più giovani, dalla scolarizzazione e, per l’insieme della popolazione, dalla diffusione di alcuni consu­ mi di massa. La televisione e l’automobile furo­ no gli strumenti e i simboli princi­ pali di questo cambiamento. I pri­ mi apparecchi televisivi entrarono nelle case degli italiani a partire dal 1954, con l’inizio di regolari tra­ smissioni da parte della Rai, l’ente di Stato che già de­ teneva il monopolio dell’emittenza radiofonica. Ma il boom della televisione cominciò alla fine del decen­ nio, in coincidenza col “miracolo economico”: nel 1955 c’erano 4 apparecchi ogni 1000 abitanti, 43 nel ’60, 117 nel ’65. La televisione non era solo un nuovo e pervasi­ vo mezzo di svago: era anche un veicolo attraverso cui passavano una lingua comune (la lingua nazionale, che solo in questi anni si affermò nell’uso parlato, a sca­ pito dei dialetti) e nuovi modelli culturali di massa [►FS, 140]. Anche il boom della motorizzazione privata [► _14] cominciò nella seconda metà degli anni ’50; e coincise

Televisione e automobile

Il motoscooter di famiglia Catania 1963 Insieme alle piccole utilitarie Fiat, gli scooter rappresentarono uno dei simboli più diffusi del “miracolo economico” italiano: fra questi, la Vespa della Piaggio e la Lambretta della Innocenti furono i modelli di maggior successo.

Dati in migliaia 11.000 – 10.000 – 9.000 – 8.000 –

14_SVILUPPO DELLA MOTORIZZAZIONE PRIVATA E DELLA TELEVISIONE IN ITALIA, 1950-70 Dati in migliaia 11.000 – 10.000 – 9.000 –

7.000 – 6.000 –

Si noti come, dalla fine degli 5.000 – la diffusione delle anni ’50, autovetture e quella degli 4.000 – apparecchi televisivi procedano perfettamente di pari passo. 3.000 – Fonti: 2.000Istat – (immatricolazione di vetture); Rai (abbonamenti 1.000 – ad uso privato). televisivi

8.000 – 7.000 –

0–

6.000 –

1950 1951 1952 1953 1954 19

5.000 – 4.000 –

Fonti: Istat (immatricolazione di vetture); Rai (abbon

3.000 – 2.000 – 1.000 –

Immatricolazioni di automobili

0– 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1956 1957 1958 1959 1960 1961 1962 1963 1964 1965 1966 1967 1968 1969 1970

Abbonamenti alla televisione

Fonti: Istat (immatricolazione di vetture); Rai (abbonamenti televisivi ad uso privato).

Abbonamenti alla televisione

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

601

Immatricolazioni di automobili

IL MIRACOLO ECONOMICO

Politica di libero scambio

Aumento delle esportazioni Flussi migratori

Abbondanza di manodopera e bassi salari

Alti profitti e investimenti

Aumento della produttività

Sviluppo dell’industria

BOOM ECONOMICO

Crescita del Pil

Diffusione della televisione e dell’automobile

col grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat: la Seicento e la Cinquecento. Dalle 18 automobili ogni 1000 abitanti del 1955 si passò alle 105 di dieci anni dopo. L’espansione dell’industria automobilistica nazionale fu incoraggiata anche dallo Stato, attraverso la costruzione di una grande rete autostradale che sarebbe stata completata a metà degli anni ’70.



 a  Sottolinea le informazioni che riguardano il “miracolo economico” (anni, fattori che lo resero possibile, conseguenze, ecc.) e sintetizzale per iscritto sul tuo quaderno di storia.  b  Evidenzia quello che a tuo parere fu il simbolo principale della modernizzazione e argomenta oralmente la tua scelta.  c  Spiega quale funzione culturale e sociale svolsero in Italia la televisione e la motorizzazione privata.

All’inizio degli anni ’60 i mutamenti economici e sociali legati al “miracolo italia­ no” si accompagnarono all’allargamento delle basi del sistema politico, con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. Si trattò del primo importante mutamento negli equilibri politici italiani dopo la rottura della coalizione tripartita nel ’47 e il trionfo democristiano nelle elezio­ ni del ’48. Fu una scelta sofferta e contrastata; e maturò per gradi, attraverso una sequenza di eventi anche drammatici. Non fu un mutamento traumatico, anche perché non nacque da un capovolgi­ mento dei rapporti di forza elettorali, ma da una scelta operata a livello dei gruppi dirigenti dei partiti interessati. Eppure esso suscitò, soprattutto nella sua fase iniziale, molte speranze di rinnova­ mento e anche, nell’opinione pubblica moderata, molti timori. L’apertura a sinistra fu a lungo osteg­ giata dalla destra economica e da una larga parte della stessa Democrazia cristiana. Opposizioni e perplessità nei confronti del nuovo corso si manifestarono anche in Vaticano e negli ambienti diplo­ matici statunitensi, prima dell’avvento di Kennedy alla presidenza.

Una svolta politica

Nella primavera 1960 il presidente del Consiglio incaricato Fernando Tambroni, non riuscendo a trovare l’accordo con socialdemocratici e repubblicani (che avrebbero voluto accelerare i tempi dell’apertura a sinistra), formò ugualmente un governo “monocolore”, composto da soli democristiani con l’appoggio determinante del Movimento sociale italiano: questa scelta suscitò le proteste dei partiti laici e della stessa sinistra della Dc, i cui rappresentanti si dimisero dal governo. La tensione esplose alla fine di giugno, quando il Msi fu autorizzato a tenere il suo congresso nazionale a Genova, nonostante l’opposizione delle forze democratiche cittadine. La decisione, che fu interpretata dalla sinistra come un prezzo pagato da Tambroni per l’appoggio parla­ mentare dei neofascisti e come una sfida alle tradizioni operaie e antifasciste della città, suscitò un’au­ tentica rivolta popolare: per tre giorni (dal 30 giugno al 2 luglio 1960) operai e militanti dei partiti di sinistra si scontrarono duramente con la polizia che cercava di garantire lo svolgimento del congresso. Alla fine il governo cedette e il congresso fu rinviato. Ma altre manifestazioni antigovernative dilagate 602

U4 IL MONDO DIVISO

Sviluppo dei consumi

METODO DI STUDIO

14_7 IL CENTRO-SINISTRA E LE RIFORME

La crisi Tambroni

Urbanizzazione

in molte città, fra cui Roma, furono represse aspramente, in qualche caso con le armi, provocando una decina di morti (cinque nella sola Reggio Emilia). In un clima di sollevazione dell’opinione pubblica di sinistra, Tambroni fu sconfessato dalla stessa Dc e costretto a dimettersi. Con lui cadde ogni ipotesi di governo ap­ poggiato dall’estrema destra.

voto di fiducia È il voto con cui il Parlamento si esprime sul governo all’atto della sua formazione, o quando lo richiede il governo stesso. Nei sistemi parlamentari la fiducia è condizione essenziale perché l’esecutivo possa iniziare o proseguire la sua attività.

Per superare la crisi, fu formato un nuovo governo monoco­ lore presieduto da Fanfani, che ottenne, nell’agosto ’60, l’astensione dei socialisti nel voto di fiducia in Parlamento, aprendo così la stagione politica del centro-sinistra. La nuova alleanza fu sancita dal congresso della Dc che si tenne nel gennaio ’62, grazie alla sapiente regia del segretario Aldo Moro, che riuscì a far accettare la svolta al grosso del suo partito. Un nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo ’62 e composto da Dc, Pri e Psdi, si presentò con un pro­ gramma concordato col Psi. Fu proprio in questa fase (in cui i socialisti non facevano parte del governo) che la svolta di centro-sinistra, ancora incompiuta sul piano della composizione dell’esecutivo, conse­ guì i risultati più importanti.

I governi Fanfani

Il programma di governo prevedeva infatti la realizzazione della scuola media unificata, l’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione, una più efficace tassazione dei titoli azionari e la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Queste due ultime riforme, che erano state da tempo richieste dai socialisti come con­ dizione per il loro ingresso nella maggioranza, miravano a introdurre dei correttivi nella struttura del capitalismo italiano e si inquadravano nel tentativo di dare avvio a una programmazione economica, nucleo qualificante e obiettivo prioritario del disegno riformatore: un disegno che mirava a poten­ ziare gli strumenti dell’intervento statale sull’economia, al fine di ridurre gli squilibri della società italiana, e soprattutto il divario fra Nord e Sud.

Il programma del centro-sinistra

La nazionalizzazione dell’industria elettrica fu portata a compimento, pur fra molte difficoltà, nel novembre 1962, con la creazione dell’Ente nazionale per l’e­ nergia elettrica (Enel). Nel dicembre 1962 fu approvata la legge di riforma che istituiva la scuola media unica, abolendo gli istituti di avviamento professionale (destinati, nel vecchio ordinamento, a coloro che non avevano la possibilità di proseguire gli studi). Breve vita ebbe invece la nuova tassazio­ ne dei titoli azionari, che fu radicalmente modificata già nel ’64 dopo una fase di caduta della Borsa e di fuga all’estero dei capitali. L’attuazione delle regioni, temuta dalla Dc perché avrebbe rafforzato le

Le prime riforme

Genova, 28 giugno 1960: manifestazione antifascista contro il governo Tambroni Nel giugno 1960, il governo Tambroni concesse al Movimento sociale italiano di celebrare il proprio congresso nazionale a Genova. Il congresso avrebbe dovuto svolgersi nei primi giorni di luglio al Teatro Margherita, in via XX settembre. Tale iniziativa fu ritenuta dagli antifascisti genovesi una grave provocazione, accentuata dalla notizia che il congresso sarebbe stato presieduto da Carlo Emanuele Basile che, quale capo della provincia di Genova durante l’occupazione nazista, aveva collaborato con i tedeschi contro le forze partigiane. Movimenti e partiti politici di sinistra, docenti e studenti universitari, lavoratori delle industrie e del porto organizzarono una forte mobilitazione con la partecipazione di migliaia di persone. Il 30 giugno 1960 i manifestanti si scontrarono duramente con le forze dell’ordine. Alla fine il governo cedette e il congresso fu annullato.

603

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

sinistre al livello del potere locale, fu rinviata. Quanto alla politica di programmazione, essa non riuscì mai a tradursi compiutamente in pratica e rimase il simbolo più evidente dell’utopia riformatrice del primo centro-sinistra. Tale politica avrebbe richiesto infatti consensi politici e sindacali più ampi di quelli rappresentati dalle forze di governo, peraltro largamente divise. Il contrasto non riguardava solo la quantità e la portata delle riforme, ma anche le priorità da introdurre nella politica di program­ mazione, che per i socialisti doveva privilegiare gli investimenti e la spesa sociale, mentre per i repub­ blicani (guidati dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa) comportava anche un controllo della dinami­ ca salariale (la cosiddetta politica dei redditi), al fine di commisurarla alla crescita produttiva e di contenere così i processi inflazionistici. I contrasti nella maggioranza furono esasperati dall’esito delle elezioni dell’aprile ’63. La perdita di voti di democristiani e socialisti, il successo dei liberali, che si erano opposti all’apertura a sinistra, e il rafforzamento dei comunisti accentua­ rono le resistenze moderate in seno alla Dc e inasprirono le divisioni interne del Psi. Un governo di centro-sinistra “organico” (cioè con la partecipazione di ministri socialisti ac­ canto a quelli democristiani, socialdemocratici e repubblicani) si formò solo nel dicembre 1963 sotto la presidenza di Moro e nacque su basi più moderate rispetto al precedente governo Fanfani.

Le elezioni del ’63 e il centro-sinistra “organico”

A partire dal ’63 il processo riformatore fu praticamente bloccato, anche per il manifestarsi dei primi segni di sofferenza dell’economia, che sembravano sug­ gerire una politica più cauta. Inoltre, si faceva sempre sentire il peso delle forze ostili al centro-sinistra, che annoveravano tra le loro file, oltre alla destra economica, anche le alte gerarchie militari (tre anni dopo, un’inchiesta giornalistica avrebbe denunciato addirittura una minaccia di colpo di Stato nell’estate del ’64) e lo stesso presidente della Repubblica, il democristiano Antonio Segni. In realtà gli ostacoli più seri a una politica radicalmente riformatrice venivano dall’in­ terno della coalizione governativa, in particolare dall’esigenza della Dc di mantenere unito il compo­ sito fronte di forze economiche e sociali che costituiva la sua base di consenso: un fronte in cui le istanze di rinnovamento erano nettamente minoritarie rispetto al peso dei gruppi moderati che ave­ vano accettato a malincuore la politica di centro-sinistra. Nell’atteggiamento della Dc agivano anche la visione solidaristica della politica e il rifiuto ideologico di scelte radicali che erano tipici del modo di operare di un leader come Moro, incline a risolvere i contrasti col compromesso e la mediazione (anche a costo di un progressivo svuotamento dei contenuti originari del programma di governo).

Il blocco delle riforme

Se la Dc riuscì in questo modo a mantenere la sua unità, il Psi pagò la partecipa­ zione al governo con una nuova scissione: nel gennaio 1964 la minoranza di si­ nistra, che si opponeva alla scelta governativa, diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Una perdita solo in parte compensata dalla riunificazione col Partito socialdemocratico (ottobre 1966), che peraltro durò poco: i due partiti si sarebbero nuovamente sepa­ rati tre anni dopo, anche in seguito all’esito deludente delle elezioni del 1968.

Le divisioni nella sinistra

All’indebolimento dei socialisti faceva riscontro la lenta ma regolare crescita del Pci. Nell’agosto 1964 Togliatti morì durante un soggiorno in Urss, lasciando al partito una difficile eredità ma indicando, nel cosiddetto memoriale di Yalta (una specie di testamento politico redatto alla vigilia della morte), una linea che riaffermava l’origina­ lità della «via italiana al socialismo». I funerali di Togliatti, che si tennero a Roma, furono un esempio emblematico del larghissimo seguito e delle grandi capacità organizzative di un partito che, con oltre il 25% dei voti, restava tuttavia in una posizione di marcato isolamento. Un isolamento non attenuato dal contributo determinante dei voti comunisti all’elezione alla presidenza della Repubblica del lea­ der socialdemocratico Giuseppe Saragat, nel dicembre ’64. Nonostante le difficoltà incontrate fin dai suoi esordi, la formula di centro-sinistra METODO DI STUDIO sarebbe durata, con fasi alterne e interruzioni, per oltre un decennio, con i gover­  a  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparani presieduti fino al ’68 da Moro, poi da Mariano Rumor e da Emilio Colombo. grafi. Quindi indica per ognuno di essi i principali eventi, i soggetti storici e le date corrispondenti. Progressivamente, però, si sarebbe esaurita, rivelandosi inadeguata a fronteggiare i  b Individua e numera le riforme previste dal problemi di una società sempre più articolata e percorsa da un’elevata conflittualità governo Fanfani. politica e sindacale. 604

Crescita e isolamento del Pci

U4 IL MONDO DIVISO

LABORATORIO DI CITTADINANZA IL REFERENDUM

I

l referendum è un istituto giuridico che costituisce uno dei principali strumenti di democrazia diretta, attraverso il quale i cittadini si pronunciano su alcune questioni, senza la mediazione dei loro rappresentanti. Il termine deriva dalla locuzione latina ad referendum “(convocazione) per riferire”. Il referendum discende dal più antico istituto del plebiscito, che riguardava i pronunciamenti popolari sulla struttura dello Stato o del governo (assegnazione di cariche, annessione di territori, scelta di una forma di governo). Ricordiamo ad esempio quello indetto da Napoleone per far approvare la nuova Costituzione dopo il colpo di Stato del 18 brumaio 1799, quello voluto da Luigi Napoleone per restaurare l’Impero (1852) e quelli che sancirono l’adesione degli Stati preunitari al Regno d’Italia (1859-70). Attualmente il referendum è previsto, con diverse modalità, dall’ordinamento di molti degli Stati che si ispirano ai princìpi democratici. La Costituzione italiana – figlia del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 da cui è nata la Repubblica – prevede due forme di referendum: quello sulle leggi costituziona-

li, o referendum costituzionale (art. 138); e quello sulle leggi ordinarie o referendum legislativo (art. 75), a cui si può ricorrere per l’abrogazione totale o parziale (in questo caso si parla di referendum abrogativo) di determinate leggi, su richiesta di almeno cinquecentomila elettori o di cinque Consigli regionali. In Italia, il referendum a cui si è ricorso più frequentemente è quello abrogativo, istituito solo nel 1970, nonostante fosse previsto dalla Costituzione. Sull’ammissibilità della richiesta è chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale, mentre l’esito della votazione referendaria è valido solo se vi partecipa almeno il 50% più uno degli aventi diritto. In Italia è possibile richiedere un referendum abrogativo solo nei confronti di alcune leggi: sono escluse, ad esempio, quelle tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto o di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Il primo referendum abrogativo si svolse, in Italia, nel 1974: si trattava di quello relativo alla legge sul divorzio, che fu confermata. Negli anni successivi il ricorso al referendum abrogativo fu frequente, soprattutto

per iniziativa del Partito radicale. Tra i quesiti referendari più importanti, ricordiamo quello del 1981 sulla legge sull’aborto (confermata) e quello del 1985 sulla “scala mobile”, ossia sull’abolizione dell’adeguamento automatico dei salari all’inflazione (confermata). Furono invece abrogate nel 1987 la legge sulla localizzazione degli impianti nucleari, nel 1991 e nel 1993 quegli articoli della legge elettorale che prevedevano la preferenza plurima per l’elezione dei deputati e che definivano il sistema per l’elezione dei senatori. Tra il 1997 e il 2009 l’istituto del referendum attraversò in Italia un periodo di crisi: nessuna delle consultazioni referendarie indette in tale periodo raggiunse il quorum (ovvero la partecipazione minima del 50% più uno degli aventi diritto), nonostante vertessero, in molti casi, su questioni che erano al centro del dibattito politico. Nel giugno 2011 l’istituto del referendum abrogativo ebbe un nuovo impulso: raggiunsero infatti il quorum i quattro quesiti riguardanti le leggi sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali, sulla distribuzione dell’acqua, sulla produzione di energia nucleare e sul “legittimo impedimento”, che consentiva al presidente del Consiglio e ai ministri di non comparire nelle udienze penali. Nel 2001 e nel 2006, intanto, si erano te-

3 giugno 1946: a Roma si festeggiano i primi risultati del referendum istituzionale che sancisce la nascita della Repubblica italiana

605

C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

nuti i primi due referendum costituzionali, che non richiedevano il raggiungimento del quorum. Nel 2001 la maggioranza degli elettori si pronunciò a favore del cambiamento del Titolo V della Costituzione (quello dedicato agli enti locali), mentre nel 2006 rifiutò la modifica, poposta dal centro-destra, della Parte II della carta costituzionale, riguardante l’intero assetto istituzionale dello Stato. Nel dicembre 2016, infine, un nuovo referendum costituzionale bocciò il progetto presentato dal governo Renzi, che prevedeva fra l’altro una radicale riforma del Senato e la fine del cosiddetto “bicameralismo perfetto” [►25_6]. Come abbiamo visto, la Costituzione italiana non ammette il referendum in materia di trattati internazionali. Per questo gli elettori italiani non si sono mai espressi in materie riguardanti l’Unione europea. Consultazioni referendarie su questo tema si sono invece tenute in altri Stati europei: nel 2005, ad esempio, alcuni paesi sottoposero al voto popolare il trattato del 2004 per l’adozione di una Costituzione europea [►18_5]. Votarono in maggioranza a favore gli elettori di Spagna e Lussemburgo, contro quelli di Francia e Paesi Bassi. Ciò, di fatto, congelò il processo di ratifica, poi d ­ efinitivamente abbandonato nel 2009. Uno strappo ancora più grave fu quello consumato dagli elettori britannici che, in un referendum consultivo del giugno 2016, votarono sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Una maggioranza, peraltro ristretta, si pronunciò per l’uscita (la Brexit, dalla fusione fra le parole British ed exit). Meno di due anni prima (settembre 2014) era stata sottoposto a referendum, con esito negativo, il progetto di separazione della Scozia dalla Gran Bretagna. Nell’ottobre 2017, invece, un discusso referendum approvò la dichiarazione di indipendenza della Catalogna dalla Spagna, aprendo nel paese – e nella stessa Unione europea – una grave crisi istituzionale.

Manifesto della campagna referendaria del 2011 sulla distribuzione dell’acqua Il referendum abrogativo del 2011 ha espresso la volontà degli italiani di impedire che la gestione dell’acqua pubblica sia affidata ad aziende private. Il principio che si è imposto in maniera

schiacciante dopo la consultazione popolare conferma che molti italiani considerano l’acqua un bene comune da amministrare nell’interesse collettivo e per questo preferiscono non correre il rischio di affidarne la gestione a soggetti privati che potrebbero essere interessati al profitto più che all’erogazione di un servizio pubblico adeguato.

COSTRUIAMO IL LESSICO DEL CITTADINO 1 Leggi la scheda e completa le seguenti definizioni:

● Il referendum è un ......................................... che nel nostro ordinamento può essere .......................................... ● Il ......................................... è una consultazione popolare con cui i cittadini sono chiamati a pronunciarsi sull’opportunità di mantenere in vita una determinata legge o una parte di essa.

● Il ......................................... è una consultazione popolare mediante la quale il popolo si esprime sulla conferma o meno di una legge di

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modifica costituzionale.

U4 IL MONDO DIVISO

IL REFERENDUM ABROGATIVO 2 L’art. 75 della Costituzione recita:

È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazio­ ne, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cin­ que Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratifica­ re trattati internazionali.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha par­ tecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum.

Sappi che quando si partecipa a un referendum abrogativo ci si deve pronunciare per un “sì’’ o per un “no’’ all’abrogazione. Se prevalgono i “sì’’, la legge viene approvata; se prevalgono i “no’’, la legge rimane in vigore. Leggi attentamente il dettato costituzionale e rispondi alle domande:

● Quando può essere presentata una richiesta di referendum abrogativo? Chi ha diritto di partecipare al referendum? ● Per quali leggi non è ammesso il referendum abrogativo? ● Quando la proposta soggetta a referendum si dice approvata? Qual è il sistema di pronunciamento referendario? ● Chi determina le modalità di attuazione del referendum? I REFERENDUM PIÙ SIGNIFICATIVI 3 Completa la tabella dei referendum più significativi celebrati nella storia dell’Italia repubblicana.

L’esercizio è già avviato. Rispondi infine alle domande che seguono.

Data

Tipologia di referendum

Legge

Esito

1974

Abrogativo

Divorzio

Confermato

...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................................................... ...................................... ...................................................................... ...................................................................... ......................................................................

● In quali decenni il ricorso al referendum è stato frequente e ad opera di chi? ● In quali decenni esso ha attraversato un periodo di crisi? ● Quando ha conosciuto un rinnovato impulso?

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C14 L’ITALIA REPUBBLICANA

SINTESI

14_1 L’ITALIA NEL 1945 Le condizioni in cui versava l’Italia alla fine della guerra erano molto gravi. L’apparato produttivo era stato fortemente colpito. Ingenti anche i danni subìti dall’edilizia, elevatissima l’inflazione. La maggioranza della popolazione risentiva della scarsità di cibo e abitazioni. La disoccupazione aveva raggiunto livelli preoccupanti. Numerosi erano anche i problemi d’ordine pubblico: difficoltà nella smobilitazione dei partigiani, occupazione delle terre, borsa nera. Il ritorno della democrazia determinò una crescita della partecipazione politica. La Democrazia cristiana, perno del fronte moderato, era l’unico partito in grado di competere con socialisti e comunisti sul piano dell’organizzazione di massa. Molto minor seguito avevano i liberali, i repubblicani e il Partito d’azione. A destra il movimento dell’Uomo qualunque ebbe, per breve tempo, notevole successo. Il primo governo dell’Italia liberata, basato sulla coalizione fra i partiti del Cln, fu presieduto da Ferruccio Parri. Nel novembre ’45 la guida del governo passò a De Gasperi, leader della Dc.

14_2 LA REPUBBLICA E LA COSTITUENTE

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Il 2 giugno 1946 un referendum popolare sancì la vittoria della Repubblica e la fine della monarchia. Nello stesso giorno si tennero le elezioni per l’Assemblea

U4 IL MONDO DIVISO

costituente, che videro il successo dei tre partiti di massa e, soprattutto, della Dc, che divenne il partito di maggioranza relativa. Nel ’46-47 i contrasti fra i partiti della coalizione antifascista si approfondirono. Le accresciute tensioni interne e internazionali provocarono, nel gennaio ’47, la scissione del Partito socialista: l’ala contraria alla stretta alleanza col Pci fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani (poi Partito socialdemocratico). A maggio De Gasperi estromise socialisti e comunisti dal governo e formò un ministero “monocolore”.

14_3 LA COSTITUZIONE E IL TRATTATO DI PACE I contrasti tra i partiti non impedirono il varo della nuova Costituzione repubblicana, approvata alla fine del 1947 ed entrata in vigore dal 1° gennaio 1948. La Costituzione affiancava agli istituti tipici di un sistema democratico-parlamentare alcuni importanti princìpi di tipo sociale come il diritto al lavoro. Sempre nel 1947 l’Italia firmò il trattato di pace, che comportava la rinuncia alle colonie e all’Istria, il mantenimento dell’Alto Adige e secondarie rettifiche di confine a favore della Francia. Restava aperta la questione del confine orientale, dove il contrasto fra italiani e slavi alimentò una catena di sanguinose vendette e spinse circa 250 mila italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia ad abbandonare le loro terre. Solo nel 1954 l’Italia raggiunse l’accordo con la Jugoslavia sulla questione di Trieste, che fu così riunita all’Italia.

14_4 IL TEMPO DELLE SCELTE La campagna per le elezioni parlamentari del 18 aprile ’48 vide una forte contrapposizione tra il Fronte popolare (socialisti e comunisti) e la Dc. I democristiani ottennero un grande successo, anche grazie all’appoggio della Chiesa e degli Stati Uniti. Dopo le elezioni De Gasperi diede vita a una coalizione “centrista” che vedeva la Dc alleata con liberali, repubblicani e socialdemocratici. Sul piano della politica economica, i governi postbellici non introdussero novità significative, preoccupandosi soprattutto di risanare il bilancio dello Stato e di contenere l’inflazione. Dopo l’estromissione delle sinistre dal governo, questa politica si affermò pienamente, ad opera del ministro del Bilancio Einaudi: il successo della sua linea di risanamento finanziario ebbe comunque forti costi sociali, soprattutto in termini di disoccupazione. Nel 1949, l’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale ottenne una sanzione sul piano militare con l’adesione al Patto atlantico.

14_5 DE GASPERI E IL CENTRISMO Dopo le elezioni del ’48, si affermò la formula del centrismo, che vedeva una Dc molto forte occupare il centro dello schieramento politico, lasciando fuori della maggioranza sia la sinistra social-comunista, sia la destra

monarchica e neofascista. Componente essenziale della politica centrista era un riformismo moderato. I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-53), in cui De Gasperi tenne la guida del governo videro importanti interventi sociali, come la riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. La linea di austerità finanziaria e contenimento dei consumi perseguita dal governo suscitò numerose proteste di piazza cui le forze dell’ordine risposero con durezza. In questa situazione la Dc cercò di rendere più stabile la propria maggioranza con una riforma del meccanismo elettorale (“legge truffa”), la cui approvazione suscitò vivaci proteste a sinistra e fu comunque priva di risultati pratici nelle elezioni del ’53. Gli anni ’53-58 furono un periodo di transizione: si consolidarono sia la crescita economica sia i legami con l’Europa più avanzata, confermati dall’adesione italiana alla Comunità europea (1957). Nella Dc si affermò con la segreteria Fanfani (1954) una nuova generazione, più favorevole all’intervento dello Stato nell’economia e più sensibile ai problemi sociali. Il Psi, soprattutto a partire dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56, cominciò ad allontanarsi dai comunisti. Si creavano così le premesse politiche per una apertura a sinistra.

14_6 IL “MIRACOLO ECONOMICO” Lo sviluppo dell’economia italiana si fece particolarmente intenso negli anni 195863. Fu questo il cosiddetto “miracolo economico”, che mutò definitivamente in senso

industriale il volto del paese. In questo periodo l’Italia riuscì a ridurre sensibilmente il divario dagli Stati più sviluppati dell’Europa occidentale grazie soprattutto al livello basso dei salari che garantì tassi di investimento molto elevati. Al boom nell’industria si accompagnarono due importanti fenomeni sociali: l’esodo dal Sud al Nord e l’urbanizzazione. Entrambi si svolsero in modo non coordinato, creando notevoli problemi. In quegli anni, con la televisione si ebbe per la prima volta un’unificazione

linguistica e nei modelli di comportamento. Altro simbolo dell’Italia del “miracolo economico” fu l’automobile, che ebbe una diffusione di massa.

14_7 IL CENTRO-SINISTRA E LE RIFORME I mutamenti economici e sociali si accompagnarono,

all’inizio degli anni ’60, a una svolta politica, con l’ingresso dei socialisti nell’area della maggioranza (centro-sinistra). L’inserimento fu graduale e molto contrastato. Nell’estate ’60, dopo la crisi del ministero Tambroni – che aveva tentato, suscitando violente proteste, di governare con l’appoggio determinante del Msi –, si formò un governo Fanfani che si reggeva grazie all’astensione – poi trasformata in appoggio parlamentare – dei socialisti. In questa fase furono varati due importanti provvedimenti: la nazionalizzazione

dell’industria elettrica e l’istituzione della scuola media unificata. Nel ’63 si formò il primo governo di centrosinistra “organico”, presieduto da Moro, con la partecipazione dei socialisti. Nonostante le difficoltà, la formula di centrosinistra durò, con fasi alterne, per oltre un decennio. Ma il processo riformatore si bloccò per le resistenze della Dc e delle componenti moderate della coalizione di governo.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa la mappa relativa alle forze politiche italiane

dopo la fine della seconda guerra mondiale, inserendo i relativi numeri negli spazi bianchi in rapporto alle preferenze ricevute (Attenzione! C’è un termine che non devi inserire): 1. sinistra ● 2. Pci ●3. Partito popolare ● 4. laici ● 5. Partito liberale ● 6. Democrazia cristiana ● 7. Psi ● 8. Partito repubblicano ● 9. Movimento qualunquista ● 10. Partito d’azione ● 11. comunisti ● 12. destra ● 13. centro ● 14. socialisti ● 15. Partito monarchico ● 16. Psdi ● 17. cattolici ● 18. Msi ● 19. conservatori ● 20. Demolaburisti

2 Individua le affermazioni vere e correggi quelle errate sull’avvio delle istituzioni repubblicane in Italia.

a. Il 2 giugno 1946 i cittadini italiani votarono l’Assemblea costituente e scelsero tra la forma istituzionale monarchica e repubblicana. ................................................................................................................................................................................. b. Al referendum non votarono le donne, bisognerà aspettare le elezioni successive. ................................................................................................................................................................................. c. Il referendum sancì la fine della monarchia in Italia soprattutto grazie ai voti del Sud. ................................................................................................................................................................................. d. Il primo presidente della Repubblica italiana fu Sandro Pertini. ................................................................................................................................................................................. e. Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la nuova Costituzione italiana. .................................................................................................................................................................................

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f. La nuova Costituzione diede vita ad un sistema parlamentare con una Camera dei deputati e un presidente della Repubblica. ................................................................................................................................................................................. g. Il primo motivo di scontro tra partiti fu l’approvazione dell’art. 7 e il voto favorevole di Togliatti e del Pci. .................................................................................................................................................................................

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3 Ricostruisci l’ordine cronologico degli eventi elencati di seguito inserendo le date relative.

a. Operai e militari antifascisti si scontrano a Genova con la polizia b. Fernando Tambroni forma un governo monocolore c. Moro forma il primo governo organico di centro-sinistra d. Fanfani forma un governo concordato con il Psi

(..........................) (..........................) (..........................) (..........................)

COMPETENZE IN AZIONE 4 Esponi in massimo 7 righe i seguenti argomenti utilizzando anche le immagini che riterrai opportune scegliendole tra

quelle presenti nel capitolo.

● Assemblea costituente ● Grandi migrazioni da Sud a Nord dell’Italia ● Riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno 5 Rispondi ai quesiti impiegando il numero di righe indicato tra parentesi:

1. Quali furono i partiti protagonisti dell’immediato dopoguerra in Italia? Quali valori proponevano e chi erano i politici alla loro guida? (12 righe) 2. Quali princìpi ispirarono i membri della Costituente nell’elaborazione della Costituzione? (3 righe) 3. Descrivi il sistema parlamentare sancito dalla Costituzione. (8 righe) 4. Quali cambiamenti territoriali subì l’Italia secondo quanto stabilito dal trattato di pace? (6 righe) 5. Quali schieramenti contrapposti si scontrarono alle elezioni del 18 aprile 1948 e chi vinse? (8 righe) 6. Quali furono le prime decisioni in materia economica prese dal primo governo dell’Italia repubblicana subito dopo la sua elezione? (5 righe) 6 Scrivi un saggio di circa 30 righe sul periodo della Repubblica caratterizzato dai seguenti fattori storici: egemonia

democristiana, centrismo, “miracolo economico”. Per svolgere più facilmente questo compito utilizza la scaletta suggerita:

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a. Riforma agraria b. Cassa per il Mezzogiorno c. “Legge truffa” d. Piano Vanoni e. Corte costituzionale f. Fatti d’Ungheria del ’56 e svolta autonomista del Psi g. Le scelte di politica economica alla base del “miracolo economico” h. Grande migrazione dal Sud al Nord e dalle campagne alle città i. Televisione e automobile

U4 IL MONDO DIVISO

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CAP15 LA CIVILTÀ DEI CONSUMI



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N LI N

Storia e Geografia Le terre del petrolio Focus Il baby boom • Contraccezione ed emancipazione: la pillola anticoncezionale • La rivoluzione dello spazio domestico: gli elettrodomestici • Arte, industria e cultura di massa: la nascita del design • La musica pop • Le forme della contestazione studentesca Laboratorio dello storico La storia delle donne Atlante La società dei consumi Audiosintesi

15_1 LA CRESCITA DEMOGRAFICA

► Leggi anche: ►     Focus Contraccezione ed emancipazione: la pillola anticoncezionale

Il mondo in cui oggi viviamo è circa venti volte più popolato rispetto a quello di tre secoli fa, che non aveva ancora conosciuto la rivoluzione industriale. In alcuni pae­si, non solo europei, la ripresa demografica si era avviata già nel ’700: da allora la popolazione aumentò a ritmi sempre più rapidi. Questa tendenza si accentuò all’indomani della seconda guerra mondiale. A partire dall’inizio degli anni ’50, la popolazione della Terra crebbe a un tasso medio annuo dell’1,8%: un ritmo più che doppio di quello del cinquantennio precedente (0,8%). In vent’anni, tra il 1950 e il 1970, gli abitanti della Terra aumentarono del 50%, passando da 2 miliardi e mezzo a 3 miliardi e 700 milioni. Nello stesso periodo la vita media dell’uomo salì da 65 a oltre 70 anni nelle zone più sviluppate e da 40 a 50 (quasi 60 nel 1985) nei paesi più poveri. Le cause di questo incremento spettacolare erano in parte già operanti a partire dalla seconda metà dell’800: i progressi della medicina e della chirurgia, l’uso di nuovi farmatasso di natalità/tasso di mortalità ci, la pratica delle vaccinazioni di massa, la diffusione di alcuni esIl tasso (o indice) di natalità è il rapporto fra il numero delle nascite e la senziali princìpi igienici, la maggior quantità di cibo disponibile e popolazione media di un paese o di una comunità durante un periodo di tempo dato (generalmente un anno). Il tasso di mortalità indica invece il rapporto fra – almeno nei paesi sviluppati – la miglior qualità d ­ ell’alimentazione.

Un mondo affollato

morti e popolazione totale nello stesso periodo di tempo.

La crescita della popolazione non si distribuì in I paesi in via modo omogeneo fra le diverse aree del pianedi sviluppo ta. Al contrario, si andò accentuando la forbice fra le tendenze demografiche dei paesi industrializzati e quelle dei paesi in via di sviluppo. Negli Stati del Terzo Mondo il regime demografico tipico delle società arretrate – alti tassi di natalità e alti tassi di mortalità – fu modificato solo per quanto riguarda la mortalità (soprattutto infantile), che cadde rapidamente in seguito alla diffusione delle pratiche mediche e igieniche, mentre i ritardi nel processo di modernizzazione continuarono a impedire che si affermasse l’abitudine al controllo delle nascite, mantenendo tassi di natalità molto elevati. Di conseguenza la popolazione di questi paesi crebbe a un tasso medio del 2,5% annuo (con punte del 4%): il che equivale a dire che raddoppiava ogni ventotto anni.

Le aree industrializzate: dal baby boom alla decrescita

Conseguenze del baby boom: ingorgo di carrozzine in una strada di New York settembre 1946 [dalla rivista «Life»]

Nei paesi industrializzati, la fase di slancio demografico (con tassi medi di incremento annuo dell’1,3%) si protrasse per tutto il decennio successivo alla fine del conflitto mondiale: il periodo del cosiddetto baby 611

C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

Pubblicità per la moda femminile proposta dallo stilista André Courrèges 1968 Fra le manifestazioni più visibili della liberalizzazione dei costumi sessuali e dell’emancipazione della

donna dal suo tradizionale ruolo di “madre buona” e “brava moglie” vi fu la moda. L’abbigliamento femminile, che aveva iniziato a cambiare sensibilmente fin dai primi decenni del ’900 con l’accorciamento della lunghezza delle gonne e

l’abbandono di guaine e corsetti, fu rivoluzionato nei primi anni ’60 dalla minigonna, la cui invenzione è contesa fra la britannica Mary Quant e il francese André Courrèges e il cui successo, fra grandi e piccoli scandali, fu immediato.

boom. Una crescita determinata in parte da fattori psicologici (la voglia di ricostruire e di riprogettare il futuro dopo i lutti e le distruzioni della guerra); e in parte, come vedremo fra poco, segno e insieme concausa del grande sviluppo economico postbellico. Dopo la metà degli anni ’50, riprese il sopravvento, in Europa e nel Nord America, la tendenza al calo della natalità. Questo fenomeno – che aveva come cause immediate la minor durata dei matrimoni (ci si sposava più tardi e si divorziava più spesso) e soprattutto l’abitudine al controllo delle nascite – si accompagnò ai processi di modernizzazione, collegandosi alla mentalità e ai modi di vita delle società urbanizzate e industrializzate: l’incremento del lavoro femminile, i costi crescenti per l’educazione e il mantenimento dei figli, la ristrettezza degli spazi abitativi, la maggior preoccupazione per il benessere materiale e la minor influenza delle religioni tradizionali, in particolare di quella cattolica, fermamente contraria al divorzio e alla contraccezione. La tendenza alla pianificazione familiare, e in genere alla limitazione delle nascite, fu favorita dalla diffusione delle nuove pratiche anticoncezionali, in particolare dei contraccettivi orali (la cosiddetta pillola, ossia il farmaco, introdotto all’inizio degli anni ’60, che inibisce l’ovulazione nella donna). L’uso generalizzato delle pratiche anticoncezionali significò per la prima volta la possibilità di un controllo pressoché totale sulla fertilità ed ebbe conseguenze rivoluzionarie non solo sulle tendenze demografiche, ma anche sulla mentalità e sul costume. La rapida liberalizzazione dei comportamenti sessuali che le società sviluppate conobbero a partire soprattutto dalla fine degli anni ’60 si dovette non solo alle METODO DI STUDIO caratteristiche generali di quelle società (maggior mobilità,  a  Sottolinea in ogni sottoparagrafo la frase che ne spiega meglio il titolo. maggiori possibilità di contatti, maggior circolazione delle  b  Evidenzia le cause della decrescita demografica della metà degli anni ’50 nei paesi industrializzati. informazioni e delle idee), ma anche alla drastica riduzione  c  Cerchia le conseguenze dell’introduzione delle pratiche anticoncezionali. del rischio di gravidanze indesiderate.

612

Le pratiche anticoncezionali

U4 IL MONDO DIVISO



15_2 IL BOOM ECONOMICO

► Leggi anche:

Una “età dell’oro”, un periodo di sviluppo ininterrotto e di benessere crescente: così appare oggi, a molti studiosi, la condizione economica dei paesi industrializzati negli anni ’50 e ’60 del ’900. L’uso di una metafora così impegnativa, presa in prestito dalla mitologia (dove indica un’immaginaria epoca remota della prosperità e dell’abbondanza), dà un’idea dei risultati conseguiti allora dalle maggiori economie del mondo, soprattutto se messi a confronto con le difficoltà attraversate nei decenni successivi. L’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone vissero infatti, tra il 1950 (fine della fase più difficile della ricostruzione) e il 1973 (inizio della cosiddetta “crisi petrolifera”), una crescita rapida e costante, che raramente avevano sperimentato in passato e che da allora non si sarebbe più registrata. In quel periodo il prodotto pro capite nelle nazioni industrializzate aumentò di circa il 3,8% l’anno. L’espansione postbellica differì profondamente da quella di altre fasi analoghe non solo per il ritmo intenso (quasi tre volte superiore alla crescita del 1896-1913), ma anche per la durata e la continuità. Lo sviluppo dei paesi industrializzati a economia di mercato era sempre stato, fino a quel momento, discontinuo. Anche le fasi di maggiore espansione avevano subito interruzioni se non vere e proprie crisi. L’“età dell’oro” postbellica, invece, per quasi un venticinquennio conobbe pochi brevi rallentamenti ma nessuna vera battuta d’arresto.

L’età dell’oro del capitalismo

►    Focus La rivoluzione dello spazio domestico: gli elettrodomestici

Il boom cominciò negli Stati Uniti subito dopo la guerra. La crescita americana, grazie anche agli aiuti erogati attraverso il piano Marshall [►12_3], trainò a sua volta la ripresa dell’Europa occidentale e del Giappone. Dopo aver portato a compimento la ricostruzione postbellica, questi paesi si svilupparono a ritmi sempre più elevati, tanto che, soprattutto negli anni ’60, grazie al progressivo rinnovamento delle loro strutture produttive, crebbero a una velocità superiore a quella degli stessi Stati Uniti. In questo modo, gli equilibri tra i paesi a capitalismo avanzato mutarono e gli Stati Uniti, pur conservando il primato economico sul mondo occidentale, videro ridursi le distanze dai propri alleati. Se nel 1945 il reddito statunitense corrispondeva alla metà di quello mondiale, nel 1970 era sceso al 30%, mentre la ricchezza prodotta da Europa occidentale e Giappone aumentava proporzionalmente.

Ricostruzione e sviluppo

Industria, agricoltura e servizi

L’espansione degli anni ’50 e ’60 si basò principalmente sull’industria, in particolare sui settori legati da un lato all’uso di tecnologie avanzate e, dall’altro, alla produzione di beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici, televisori), La brochure pubblicitaria dell’ultimo modello di Pontiac Prestige del 1959 Fra i settori industriali che maggiormente si svilupparono negli anni ’50 e ’60 del ’900 spiccavano quello automobilistico e quello degli elettrodomestici. In particolare, il mercato delle auto vide una corsa a rinnovare i modelli, come nel caso della Pontiac prodotta nel 1959 che, oltre alla potenza e al lusso tradizionali, propose un veicolo lungo più di 5,5 metri.

613

C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

che raggiunsero in questi anni una diffusione di massa non solo negli Stati Uniti, ma in tutto l’Occidente industrializzato. L’agricoltura ebbe uno sviluppo più lento, ma il processo di modernizzazione del settore si estese e si consolidò, consentendo un forte aumento della produttività, mentre gli addetti al settore scendevano, nei paesi sviluppati, sotto il 15% (sotto il 5% in Gran Bretagna e negli Usa). Parallelamente crebbe la quota degli addetti al settore terziario (commercio, servizi, amministrazione e, in genere, tutto ciò che non rientra nei settori agricolo e industriale), che nei paesi più avanzati, all’inizio degli anni ’70, risultavano i più numerosi. Anche i dati sull’occupazione furono molto positivi. Il tasso di disoccupazione medio dei paesi industrializzati in alcuni anni scese sotto il 2% (una soglia considerata pressoché insuperabile). La forte domanda di manodopera contribuì ad avviare una crescita sostenuta dei redditi da lavoro, che favorì a sua volta l’espansione dei consumi, la diffusione del benessere materiale e la riduzione delle disuguaglianze [►FS, 136]. Lo sviluppo di questi anni poté giovarsi di alcune condizioni favorevoli: la crescita della popolazione, determinò non solo un allargamento della domanda di beni di consumo, di abitazioni, di strutture sociali (scuole, ospedali), ma anche, sui tempi lunghi, l’immissione nei processi produttivi di nuova forza-lavoro più giovane e meglio qualificata (grazie ai progressi dell’istruzione); il costo relativamente basso delle materie prime, in particolare del petrolio, che aveva ormai preso il posto del carbone come principale fonte energetica; la disponibilità di una serie di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche, che consentirono di immettere nel mercato nuove tipologie di beni di consumo ma anche di ridurre i costi di produzione; la concentrazione delle imprese, che spesso assunsero dimensioni multinazionali, operando in diversi contesti geografici oltre che in diversi settori produttivi, consentendo alti tassi di investimento per l’innovazione e per la razionalizzazione dei costi; i notevoli risparmi accumulati dai cittadini, che, in Europa occidentale e Giappone, incrementarono solo lentamente i propri consumi, consentendo quindi nel frattempo un elevato livello di investimenti. Importantissima, infine, risultò anche l’opera dei governi, quasi tutti ammaestrati dalle esperienze negative degli anni ’30 e guadagnati alla causa delle politiche “keynesiane” di intervento statale in sostegno della crescita [►7_6].

I fattori della crescita

Alla crescita della produzione e dei redditi corrispose l’espansione del commercio internazionale che, dopo le chiusure protezionistiche della grande depressione, tornò dopo la guerra a espandersi velocemente. Il volume degli scambi aumentò di ben cinque volte fra il 1950 e il 1970 [► _15], grazie alla migliore efficienza dei mezzi e delle tecniche di

L’espansione degli scambi

I FATTORI DELLO SVILUPPO ECONOMICO 15_VOLUME DEL COMMERCIO MONDIALE, 1850-1971 (1913 = 100%)

Diffusione di massa di beni di consumo

1850

10,1

1896-1900

57,0

1913

Crescita dell’occupazione

Espansione della domanda

Materie prime a basso costo

1921-25 1930 1931-35

Aumento dei redditi

SVILUPPO DELL’INDUSTRIA

Innovazione tecnologica

614

Multinazionali e investimenti

U4 IL MONDO DIVISO

100,0 82,0 113,0 93,0

1938

103,0

1948

103,0

1953

142,0

1963

407,0

1971

520,0

trasporto delle merci, alla politica di liberalizzazione promossa dagli Stati Uniti, e all’opera di organismi internazionali (come il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale) o di accordi interstatali (come il Gatt) [►12_1], che fissarono un sistema di regole per il commercio e garantirono cambi stabili tra le monete e il coordinamento fra le economie nazionali. Il boom non rimase circoscritto all’area del capitalismo ma, seppure con ritmi diversi, investì la quasi totalità del mondo industrializzato. Proprio questa dimensione globale costituì uno dei tratti più caratteristici, e di maggiore novità, dell’“età dell’oro”. Gli stessi paesi socialisti dell’Europa orientale registrarono tassi di crescita elevati. Nel loro caso, tuttavia, il rigido controllo statale dell’economia attribuì la priorità al rafforzamento dell’industria pesante, a scapito dei consumi e del benessere materiale dei cittadini. Apprezzabili, in termini quantitativi, furono anche i risultati conseguiti dalle regioni meno sviluppate. Ma nel loro caso, come si è visto, il boom economico si accompagnò a una notevole espansione demografica. L’incremento della ricchezza prodotta si andò quindi a distribuire su una popolazione anch’essa in forte aumento: di conseguenza, il reddito medio pro capite variò in misura molto limitata e il divario con le nazioni più ricche e sviluppate aumentò ulteriormente.

Una dimensione globale



multinazionali Si dicono “multinazionali” quelle grandi imprese che posseggono stabilimenti e reti di distribuzione commerciale in diversi paesi e che, pur conservando il quartier generale (ossia gli uffici direttivi) nel paese d’origine, trasferiscono all’estero quote importanti delle loro attività. METODO DI STUDIO

 a Evidenzia i nomi dei paesi in cui dagli anni ’50 ai primi anni ’70 si verificò una crescita e cerchia i settori che ne furono interessati.  b Sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze della crescita di questi anni.  c  Descrivi per iscritto le caratteristiche peculiari dell’espansione economica degli anni ’50 (cause, settori e paesi interessati, ecc.).

15_3 NUOVI CONSUMI E POLITICHE SOCIALI

► Leggi anche:

In tutti i paesi industrializzati a economia di mercato la grande espansione economica postbellica si tradusse in un rapido miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Nordamericani, europei occidentali e giapponesi riuscirono, nel giro di pochi anni, a lasciarsi alle spalle le sofferenze vissute durante la grande crisi, la seconda guerra mondiale e i difficili anni della ricostruzione e a sperimentare un livello di benessere materiale mai vissuto in precedenza. Per queste ragioni si è parlato, in riferimento a questa parte del mondo, di “società del benessere” o, con chiaro intento polemico, di “civiltà dei consumi”, o di “consumismo”.

Il miglioramento dei livelli di vita

►     Focus La rivoluzione dello spazio domestico: gli elettrodomestici ► Parole della storia Consumismo, p. 617

La crescita dei consumi fu infatti uno dei tratti distintivi di questa fase. A beneficiarne furono non solo i ceti tradizionalmente benestanti, ma anche quei gruppi sociali, in particolare le classi lavoratrici, che in precedenza avevano potuto godere solo limitatamente dei vantaggi dello sviluppo. Era il risultato della maggiore disponibilità di reddito e della riduzione dei prezzi conseguente agli aumenti di produttività dell’industria, ma anche dell’ampliamento e della razionalizzazione della rete commerciale (si pensi ai supermercati [►FS, 141]), della moltiplicazione dei messaggi pubblicitari amplificati dai mezzi di comunicazione di massa [►FS, 138d] e dell’aumento del tempo libero consentito dalla progressiva riduzione degli orari di lavoro [►FS, 139].

La diffusione dei consumi

Non solo aumentava mediamente Omologazione la quantità di beni che ciascun indie standardizzazione viduo riusciva ad acquistare, ma si modificava anche la loro composizione. Il consumo essenziale per eccellenza, quello di prodotti alimentari,

Donne al supermercato anni ’60 Luogo simbolo dell’allargamento dei consumi negli anni ’50-60 fu il supermercato che, con i suoi bassi prezzi e la varietà e la quantità dei prodotti esposti, soppiantò gradualmente, prima negli Usa, poi in Europa, la tradizionale rete di distribuzione basata sui piccoli esercizi a conduzione familiare, in particolare nelle grandi città. In questi stessi anni fra i produttori crebbe l’uso della pubblicità come mezzo per promuovere la vendita dei prodotti.

615

C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

scese in vent’anni dalla metà a meno di un terzo della spesa globale di un salariato europeo, pur essendo cresciuto in quantità e in qualità. Aumentò, in compenso, la quota destinata all’abbigliamento, alla casa e soprattutto ai beni e servizi considerati comunemente non essenziali e in gran parte riservati fino ad allora (tranne che negli Usa) alle sole classi agiate: gli elettrodomestici e le automobili, i televisori e gli apparecchi per la riproduzione del suono, gli spettacoli e i viaggi. Il risultato fu l’accentuarsi del processo di omologazione delle preferenze, ovvero la standardizzazione dei modelli di consumo. Un processo che aveva accompagnato l’avvento della società di massa e che, nei paesi più avanzati, aveva cominciato a palesarsi già negli anni ’30. Si attenuarono le differenze tra i diversi paesi, nel segno di un’inarrestabile “americanizzazione” [►FS, 140], e si fecero meno evidenti – pur nel permanere di forti squilibri sociali e di grosse sacche di povertà – i segni esteriori delle differenze di classe [► _16].

standardizzazione È il modo di produrre secondo uno standard, ossia un modello riproducibile infinite volte, identico nelle dimensioni, nella composizione, nel costo di produzione e, in genere, nel prezzo alla vendita. Questo sistema è tipico del mercato di massa: porta a uniformare le merci – si pensi per esempio che esiste un unico tipo di lattina per un’infinità di bevande diverse – ed è in generale abbastanza vantaggioso per i consumatori perché garantisce un più semplice controllo della qualità del prodotto oltre a prezzi più bassi.

Il maggior benessere non si concretizzò soltanto nell’ampia diffusione dei beni di consumo individuale offerti dal mercato e dall’industria privata. Impatto non meno rilevante nel far crescere i consumi collettivi ebbe l’affermazione del Welfare State, un sistema organico di politiche sociali e assistenziali volte a migliorare le condizioni

L’aumento della spesa sociale

16_COMPOSIZIONE DEI CONSUMI PRIVATI DAL 1953 AL 1980 (IN PERCENTUALE)

Categorie di consumi

Francia

Italia

1953

1967

1980

1953

1967

1980

Alimentari

46

36

21,3

50,5

44,5

28

Vestiario

13,8

10,9

7,3

12,9

9,8

11,2

Abitazione*

7,5

12,4

17,4

10,9

12,6

13,4

Mobili e apparecchi per la casa

4

6,7

6,7

2,4

3



Servizi per la casa

5,9

3,5

2,8

4,2

3,8

9,3

Sanità

5

7,8

7,7

3,7

5,8

4,5

Acquisto mezzi di trasporto

4

2,6

4

0,5

2,6

3,9

Altre spese per trasporti e comunicazioni

2,7

7

12,5

5,1

7

8

11,1

13,1

20,3

9,8

10,9

21,7

Altro Categorie di consumi

Gran Bretagna

Stati Uniti

1953

1967

1980

1953

1967

1980

Alimentari

45,2

36,8

28,1

30,1

23,8

15,8

Vestiario

11,4

9,9

7,2

10,3

9,4

6,7

Abitazione*

12,8

16,9

18,5

16,2

18,2

19,3

Mobili e apparecchi per la casa

6,5

6,2

5,6

7,6

7,4

4,6

Servizi per la casa

4,3

2,6

1,6

4,2

3,8

1,9

Sanità

0,2

0,2

1

4,8

7,1

12,2

Acquisto mezzi di trasporto

3,3

8,2

4,8

5,6

5,4

4,3

Altre spese per trasporti e comunicazioni

4,6

4,3

11,8

8,7

9,2

11,8

11,7

14,9

21,4

12,5

15,7

23,4

616

Altro

U4 IL MONDO DIVISO

La tabella mostra la suddivisione delle spese a seconda del genere di consumi privati. Vale la pena di notare la progressiva e notevole diminuzione della quota di spese per l’alimentazione e il vestiario – le principali voci di uscita nelle società preindustriali – e l’aumento di quelle relative all’acquisto di mobili, beni per la casa e mezzi di trasporto. Il dato singolarmente basso per i consumi sanitari in Gran Bretagna deriva dalla presenza in quel paese di un servizio sanitario pubblico.

* Comprende energia elettrica, acqua e combustibili.

di vita dei cittadini, che abbiamo visto già sperimentato, oltre che nei paesi scanspesa pubblica dinavi, nella Gran Bretagna dell’immediato dopoguerra [►12_3]. Tra gli anni ’50 Insieme delle uscite o spese dello Stato e degli altri enti e gli anni ’70, pur con tempi, livelli e caratteristiche diverse, tutti i paesi induterritoriali minori per il mantenimento delle pubbliche strializzati adottarono politiche di questo genere. Aumentarono in misura consiamministrazioni e delle forze armate, per l’esercizio dei derevole gli investimenti pubblici per la scuola, l’università, le cure mediche, la servizi pubblici, per i sussidi a enti o privati. costruzione di nuovi ospedali, le pensioni di anzianità, l’erogazione di sussidi di disoccupazione, il sostegno agli invalidi. Il maggiore impegno per le politiche sociali comportò un notevole incremento della spesa pubblica [► _17]. A metà degli anni ’70 nella maggioranza dei paesi occidentali essa ammontava a oltre il 40% dell’intero reddito nazionale. Ogni Stato costruì un proprio sistema di Welfare, che differiva dagli altri per livello di spesa, ampiezza dell’intervento e modalità di attuazione. La principale differenza era quella tra il sistema cosiddetto “universalistico” – rivolto a tutti i cittadini indistintamente, il cui modello originario era stato disegnato in Gran Bretagna negli anni ’40 – e il sistema “occupazionale”, che offre servizi in base all’occupazione svolta e ai contributi pagati, e che trovò attuazione soprattutto in Germania. Pur con le differenze tra i diversi contesti nazionali, il Welfare State divenne, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, un tratto distintivo del mondo capitalistico industrializzato. Esso contribuì a migliorare il tenore di vita, in particolare dei settori più svantaggiati della popolazione, favorendo una complessiva riduzione delle disuguaglianze. Soprattutto in Europa oc17_SPESE STATALI (% DEL PIL) PER SETTORE IN GRAN BRETAGNA, 1938-67 cidentale, le politiche sociali ottennero un vasto consenso, contrassegnando l’iniziativa politica di Difesa e spese militari Amministrazione pubblica governi di diverso orientamento, e non solo dei 8,9 1,1 partiti progressisti o socialdemocratici. 1,1 9,6

Modelli di Welfare

1,2

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea in ogni sottoparagrafo la frase che ne spiega meglio il titolo.  b   Spiega per iscritto in cosa consiste la società del benessere, quale rapporto esiste fra questa e il Welfare State e in cosa consistono le politiche relative a quest’ultimo.

7,0

Ordine pubblico 0,7 0,7 1,6

Servizi sociali 11,3

Debito nazionale 4,0 4,2 5,5

Tutti i servizi

1938

18,0

24,9 30,0

1955

36,6

55,2

1967

Parole della storia

Consumismo

I

l termine “consumismo” entrò nel linguaggio delle scienze sociali, e poi nell’uso comune, in coincidenza con il boom economico degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, per definire, con forte connotazione polemica, le manifestazioni deteriori di un fenomeno (l’avvento della cosiddetta “società del benessere”) generalmente considerato in sé positivo. Aspetti caratteristici del consumismo sono: il rapido invecchiamento tecnologico di molti prodotti industriali; la spinta alla frequente sostituzione dei beni

di uso corrente (dai capi di abbigliamento all’automobile) al di là delle necessità imposte dall’usura materiale di questi beni; il massiccio, e spesso invadente, condizionamento esercitato dai messaggi pubblicitari; una certa tendenza allo spreco, un tempo caratteristica dei soli ceti privilegiati e ora ampiamente diffusa fra i ceti medi e anche popolari. In questo senso, il consumismo è orientato non tanto alla soddisfazione di bisogni reali quanto all’ostentazione di un rango sociale elevato, vero o fittizio che sia: il tutto nell’interesse di una macchina produttiva capitalista (o “neocapitalista”) che deve essere alimentata

da una domanda crescente. Insomma, la filosofia del consumo fine a sé stesso, in netto contrasto con l’etica del risparmio tipica della borghesia ottocentesca. Abbozzata già da Marx, che parlava di “feticismo della merce”, e in parte anticipata nel 1899 in un celebre libro del sociologo statunitense Thorstein Veblen (Teoria della classe agiata), la critica al consumismo è stata sviluppata e rilanciata da Herbert Marcuse e dai teorici della “scuola di Francoforte” [►15_7] ed è diventata un tema centrale dei movimenti di contestazione giovanile nati intorno al 1968 [►FS, 131 e 132d].

617

C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI



15_4 LE NUOVE FRONTIERE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA

► Leggi anche: ► Parole della storia Nucleare, p. 517

Uno dei fattori fondamentali dello sviluppo economico nel batterio secondo dopoguerra in Nord America e in Europa fu senza I batteri sono microrganismi composti da una sola dubbio costituito dalle scoperte scientifiche e dalle innovacellula, che si trovano in tutti gli ambienti e presiedono zioni tecnologiche, cioè dalla applicazione pratica delle nuove scoperte: un nesalla decomposizione di numerosi materiali organici (ad so, quello fra ricerca e produzione industriale, che era già operante a partire dalla esempio l’azoto, il carbonio, l’ossigeno o lo zolfo). seconda rivoluzione industriale e che si fece più stretto anche in conseguenza degli eventi bellici. Ciò che mutò rispetto all’anteguerra fu non tanto il ritmo dell’innovazione tecnologica, quanto la velocità della sua diffusione e della sua applicazione ai diversi setto- Pubblicità per le ri produttivi. Nel giro di pochi anni, il mondo sviluppato fu sommerso da un’ondata di nuovi materiali calze di nylon e di prodotti di ogni genere, in gran parte sconosciuti alla generazione precedente e spesso destinati ad anni ’40 Nel 1935 il ricercatore apparire superati alla generazione successiva. Cambiò anche il ruolo dei governi e degli apparati sta- Wallace Carothers il cosiddetto tali, che destinarono quote crescenti del reddito nazionale alla ricerca, creando spesso enti e agenzie sintetizzò “nylon 6,6” nei speciali a essa preposti. E il lungo periodo di pace seguito alla fine del conflitto consentì di indirizzare laboratori della ditta Du Pont de Nemours & Co. verso gli usi civili risorse intellettuali e finanziarie prima assorbite in misura preponderante dalle esi- nel Delaware (Usa). genze militari, che pure continuarono a farsi sentire, soprattutto nelle grandi potenze e soprattutto nei Grazie agli impianti per la produzione settori di rilevanza strategica, in primo luogo il nucleare. industriale della Du

Ricerca e innovazione

Nel settore chimico, le maggiori novità furono legate allo sviluppo di scoperte La chimica e i nuovi risalenti al periodo prebellico. I primi materiali sintetici, prodotti cioè in laboramateriali torio a partire da elementi chimici più semplici, risalivano ai primi anni del secolo. La più diffusa tra le fibre sintetiche, il nylon, era stata realizzata negli Stati Uniti nel 1935. Ma solo nel secondo dopoguerra materie plastiche e fibre sintetiche si affermarono su larghissima scala nelle forme e negli usi più vari, fino a sostituirsi in gran parte ai materiali “naturali” e a dominare lo scenario della vita quotidiana nei paesi industrializzati. Un discorso in parte analogo si può fare per i medicinali. Molti farmaci le cui proprietà erano già note prima della guerra entrarono nell’uso corrente solo dopo il secondo conflitto mondiale, grazie ai progressi della chimica, che consentirono di isolare una serie di sostanze e di produrle su larga scala. Il caso più noto è quello degli antibiotici, che costituiscono tuttora il più efficace strumento di difesa contro i batteri patogeni. La scoperta della penicillina avvenne nel 1928, per opera del chimico scozzese Alexander Fleming. Ma solo dieci anni dopo si poterono isolare i primi antibiotici, che sarebbero stati impiegati e portati in Europa dagli Stati Uniti durante la guerra mondiale; e solo alla fine degli anni ’50 cominciò la produzione delle penicilline sintetiche. Al periodo fra le due guerre risalgono anche l’isolamento di molte vitamine (la A, la C, la B12) e la scoperta di sostanze importantissime come i sulfamidici (antibatterici che poi sarebbero stati in parte soppiantati dagli antibiotici) e come gli ormoni, fra cui l’insulina e il cortisone. Alla ricerca del periodo postbellico si deve invece l’introduzione di altri farmaci che si possono considerare tipici della nostra epoca, come gli psicofarmaci e gli anticoncezionali [►15_1].

I nuovi farmaci

Paralleli a quelli della farmacologia furono i progressi della chirurgia, legati soprattutto all’uso di nuove apparecchiature e di nuovi anestetici meno tossici, che consentirono interventi di durata anche molto lunga, come le operazioni 618

La chirurgia

U4 IL MONDO DIVISO

Pont, le calze realizzate con questo innovativo materiale fecero la loro comparsa sul mercato nel 1940, riscuotendo un immediato successo.

“a cuore aperto”. Una svolta ulteriore nella storia della chirurgia si ebbe negli anni ’60 con la realizzazione dei primi trapianti di organi (retina, rene, midollo osseo, fegato e, dal 1967, anche il cuore): tecnica che presto si affermò, nonostante suscitasse non pochi problemi sia di ordine clinico – per la “reazione di rigetto” dell’organismo in presenza di un corpo estraneo – sia di natura etica, per la difficoltà di definire la morte clinica del donatore. Un altro salto qualitativo, non meno importante, venne dagli sviluppi della microchirurgia, che consentirono interventi non invasivi su parti molto ristrette del corpo, grazie all’uso di speciali microscopi e, dal 1960, di una nuova e rivoluzionaria invenzione della fisica, il laser: un dispositivo che, generando e amplifiMETODO DI STUDIO cando radiazioni ottiche, riesce a concentrare enormi quantità di energia in  a  In ogni sottoparagrafo cerchia le parole chiaspazi minimi. Usato con successo anche nella meccanica di precisione (per ve e utilizzale per realizzare un grafico a stella il cui centro sia il titolo del paragrafo e ai cui raggi esempio per il taglio e la saldatura dei metalli), il laser trovò ampie applicazioni corrispondano i diversi settori descritti. nel campo militare (soprattutto nella difesa antimissilistica o per il puntamento  b  Spiega per iscritto il concetto di innovazione e la guida delle bombe). Un tipico esempio, accanto a quello classico dell’energia tecnologica e quale relazione esiste, a partire dal dopoguerra, tra ricerca scientifica e innovazione. nucleare, di come le scoperte della scienza – in questo caso la fisica – e le tecno c  Descrivi sinteticamente le conseguenze delle logie da esse derivate possano avere applicazioni diverse e opposte, trasformanscoperte e delle innovazioni tecnologiche realizzate dosi di volta in volta in mezzi di distruzione o in strumenti capaci di incrementanel campo della medicina. re la durata e la stessa qualità della vita umana.

Il laser



15_5 LE IMPRESE SPAZIALI

► Leggi anche:

Nel 1960 John Kennedy, nel discorso che ufficializzava la sua candidatura alla presidenza, fece ricorso a una formula destinata a restare famosa: la “nuova frontiera” [►12_9]. Quella evocata da Kennedy, con esplicito riferimento alla storia degli Stati Uniti e della loro espansione a Ovest, era soprattutto una frontiera immateriale, di progresso e di conquiste civili. Ma esplicito era anche il riferimento a una nuova impresa scientifica in cui le due superpotenze si erano lanciate, in reciproca competizione, nel corso del decennio precedente: l’esplorazione dello spazio [►FS, 112]. Nessun aspetto del progresso scienti­ fico e tecnologico del secondo dopoguerra fu capace come questo di colpire la fantasia dei contemporanei, di simboleggiare lo slancio ottimistico di un’intera epoca, combinando l’avventura con le tecniche più sofisticate, il trionfo della grande organizzazione con lo spirito pionieristico. Nacque da qui una nuova mitologia, in parte anticipata e poi amplificata dalla letteratura e dal cinema di fantascienza.

Una “nuova frontiera” scientifica

► Fare Storia La guerra fredda e la corsa per il primato tecnologico, p. 656

I problemi da risolvere erano molti e difficili: respirare in assenza di ossigeno, muoversi in assenza di gravità, proteggersi da temperature estreme. Ma il primo problema era disporre di vettori abbastanza potenti da permettere a una navicella attrezzata per le ricerche di superare i confini dell’atmosfera (senza contare le difficoltà del rientro e del recupero degli astronauti). Il vettore fu individuato nei missili, già impiegati dai tedeschi nell’ultima fase del secondo conflitto mondiale [►11_12] e perfezionati negli anni successivi come veicoli capaci di colpire con ordigni esplosivi obiettivi molto lontani.

I problemi tecnici

Dal punto di vista politico-economico, i voli spaziali furono resi possibili da un’eccezionale concentrazione di risorse nel settore, da parte soprattutto delle due superpotenze, che si impegnarono in una gara accanita e spettacolare, dettata da motivi sia propagandistici sia strategici. Fu l’Unione Sovietica a ottenere il prisatellite artificiale mo, clamoroso (e per molti inatteso) successo mandando in orbita, il 4 ottobre È il mezzo spaziale in grado di orbitare intorno alla Terra, 1957, il primo satellite artificiale, lo Sputnik, precedendo di pochi mesi gli Stati in equilibrio tra l’attrazione gravitazionale del nostro Uniti, che lanciarono il loro Explorer nel gennaio 1958 [►FS, 112]. Furono ancora i pianeta e l’accelerazione centrifuga, garantita dalla velocità di rotazione. sovietici a inviare nello spazio il primo astronauta, Yuri Gagarin, che il 12 aprile 1961 girò per due ore attorno alla Terra a bordo della navicella Vostok [►FS, 113d].

La corsa allo spazio

619

C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

La bandiera americana e il primo passo sulla Luna 21 luglio 1969 L’era spaziale ebbe ufficialmente inizio il 4 ottobre del 1957, quando il primo satellite artificiale – una sfera di 58 cm, dal peso di soli 84 g – fu messo in orbita attorno alla Terra. Lo Sputnik 1 impiegò circa 90 minuti per compiere il giro

completo della Terra a una velocità sorprendente, circa 29 mila km all’ora. Soltanto un mese più tardi, strabiliando il mondo intero, l’Unione Sovietica lanciò in orbita un essere vivente, la cagnetta Laika, aprendo così all’uomo la strada nello spazio. Negli anni successivi si susseguirono una serie di missioni spaziali, fra cui quella più memorabile compiuta dagli Stati Uniti: il 16 luglio 1969, un razzo alto 111 m lanciò dalla base

di Cape Canaveral l’Apollo 11, con a bordo gli astronauti Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins. Cinque giorni più tardi, l’astronauta Neil Armstrong fu ripreso da una telecamera mentre appoggiava il suo stivale sinistro sul suolo lunare, pronunciando le famose parole: «that’s one small step for man, one giant leap for mankind» (‘questo è un piccolo passo per l’uomo, un balzo gigantesco per l’umanità’).

A questi successi gli Stati Uniti – che nel 1958 avevano dato vita a un’agenzia governativa per i voli aerospaziali, la Nasa (National Aeronautics and Space Administration, Ente Nazionale per le Attività Spaziali e Aeronautiche) – replicarono moltiplicando il loro impegno finanziario nel settore e puntando all’obiettivo più ambizioso: lo sbarco di uomini sulla Luna. L’obiettivo fu centrato il 21 luglio 1969, quando gli astronauti Neil Armstrong ed Edwin E. Aldrin, discesi dalla navicella Apollo 11, misero piede sul suolo lunare mentre le loro immagini venivano trasmesse in diretta sui teleschermi di tutto il mondo. L’impresa degli astronauti americani destò ovunque, com’è facile immaginare, entusiasmo e stupore. In molti allora pensarono che si aprisse per l’uomo l’era della conquista di altri mondi (così come la fase delle grandi esplorazioni della Terra aveva inaugurato l’età moderna), e magari dell’incontro con altre forme di vita nel cosmo. In realtà, nonostante il buon esito delle successive sei missioni americane sulla luna, quel percorso si interruppe dopo soli tre anni: costi e rischi di queste imprese apparvero troppo alti in relazione ai risultati scientifici e ai possibili vantaggi economici.

Lo sbarco sulla Luna

LA CONQUISTA DELLO SPAZIO

Gennaio ‘58

12 aprile ‘61

21 luglio ‘69

L’Urss lancia lo Sputnik, il primo satellite nello spazio

Gli Usa lanciano il loro primo satellite, l’Explorer

Il sovietico Yuri Gagarin viaggia nello spazio a bordo della Vostok

Gli statunitensi Armostrong e Aldrin sbarcano sulla Luna

620

4 ottobre ‘57

U4 IL MONDO DIVISO

Negli anni successivi gli sforzi delle potenze impegnate nella corsa allo spazio (agli Usa e all’Urss si erano intanto aggiunti i paesi della Cee, il Giappone e la Cina) si concentrarono su operazioni meno spettacolari, ma non meno importanti dal punto di vista scientifico: messa in orbita di satelliti meteorologici e per telecomunicazioni, invio di sonde spaziali senza uomini a bordo per esplorare il sistema planetario e gli spazi intersiderali, costruzione di “stazioni orbitanti”, lancio di “navette spaziali” (gli Space Shuttles realizzati dagli Stati Uniti) capaci di rientrare a terra dosonda spaziale po aver compiuto la loro missione. Al di là del loro specifico interesse scientifico, Con questa espressione si indica un mezzo inviato verso le imprese spaziali provocarono una fortissima ricaduta di tecnologia, che intedestinazioni spaziali remote e in grado di trasmettere a ressò tutti i settori produttivi di punta: la meccanica e la metallurgia, la chimica terra i dati raccolti durante il viaggio. dei combustibili e quella dei nuovi materiali, le telecomunicazioni e l’elettronica in genere [►FS, 114]. Non meno importanti furono le implicazioni di carattere militare. Il perfezionamento delle tecniche di lancio e di guida a distanza dei METODO DI STUDIO missili ebbe un riflesso immediato sui sistemi d’arma delle superpotenze, che  a  Cerchia i nomi dei paesi che furono i protagonisti della “corsa allo spazio”. ormai affidavano agli arsenali missilistici il grosso della loro capacità deterrente  b  Sottolinea e numera le più importanti tap– quella che doveva indurre i rivali a desistere da eventuali attacchi – e si servivape della conquista dello spazio. no regolarmente di “satelliti spia” dotati di potentissime apparecchiature foto c  Spiega per iscritto in cosa consistettero le ricagrafiche per raccogliere informazioni sui dispositivi degli avversari. dute tecnologiche e militari della corsa allo spazio.

Le ricadute tecnologiche e militari



15_6 UN PIANETA PIÙ PICCOLO: TRASPORTI E COMUNICAZIONI DI MASSA

► Leggi anche: ► Personaggi I Beatles e la rivoluzione della musica pop, p. 624

Come già era accaduto all’inizio dell’800 con le ferrovie e la navigazione a vapore, e un secolo dopo con l’elettricità e il motore a scoppio, gli effetti del progresso tecnologico si fecero subito sentire nel settore dei trasporti. Due furono le maggiori novità del periodo postbellico. La prima fu il boom del trasporto su strada, soprattutto nella forma della motorizzazione privata: un boom che dagli Stati Uniti, dov’era già esploso negli anni fra le due guerre, si estese progressivamente a tutti i paesi industrializzati a economia capitalistica. In Europa occidentale il rapporto fra vetture circolanti e abitanti, che era di 1 a 50 prima della guerra, passò da 1 a 5 nel 1970. Negli anni dei “miracoli economici”, l’automobile divenne non solo un mezzo per spostarsi più rapidamente e con- I posti in prima classe su un Boeing 747 quistare una libertà di movimento prima sconosciuta, ma anche 23 gennaio 1970 Il forte incremento di traffico aereo verificatosi negli anni ’60 spinse la il bene di consumo più ambito, la testimonianza più visibile di Pan Am (una delle prime e maggiori compagnie aeree del mondo) a e a finanziare la messa a punto di un nuovo velivolo capace successo e di status sociale, la protagonista di nuovi miti e mo- richiedere di trasportare il maggior numero di passeggeri possibile. Nel 1969, derne epopee; il boom dell’automobile, tuttavia, si portava dietro la ditta Boeing approntò il suo primo 747, il cui volo inaugurale fu effettuato il 22 gennaio 1970. Questo grande velivolo, capace di anche nuovi problemi, come il traffico e l’inquinamento da accogliere oltre 600 passeggeri in alcuni suoi modelli, celebrò l’inizio di una nuova era per i viaggiatori e portò a una notevole diminuzione combustione.

La motorizzazione privata

delle tariffe aeree.

La seconda e fondamentale novità nel campo dei trasporti fu lo sviluppo dell’aviazione civile. Anche in questo caso fu decisiva l’esperienza della guerra, che aveva stimolato la produzione non solo di mezzi da combattimento, ma anche di aerei da trasporto sempre più grandi e potenti. Già cresciuto nei primi anni del dopoguerra (i passeggeri in tutto il mondo passarono dai 2 milioni e mezzo del ’37 ai 21 milioni del ’47), il trasporto aereo ricevette una nuova spinta, nella seconda metà degli anni ’50, col passaggio dalla propulsione a elica a quella a reazione (o “a getto”, in inglese jet), grazie a motori capaci di trasformare in energia cinetica l’energia chimica della combustione. Gli aerei aumentarono contemporaneamente la loro velocità e la loro capienza: se nel 1950 un Constellation a elica impiegava 18 ore

L’aviazione civile

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per trasportare 60 passeggeri da Parigi a New York, vent’anni dopo un Boeing 747 (il cosiddetto Jumbo Jet) ne impiegava 7 per trasportarne 600. Negli anni ’70 nessun punto della Terra distava da un altro più di una giornata di volo. L’affermazione dell’aereo sui lunghi percorsi e dell’auto su quelli medio-brevi ebbe come conseguenza il declino del treno e della nave passeggeri. Il treno avrebbe risposto più tardi con le linee ad alta velocità. La navigazione marittima trovò invece un nuovo terreno di sviluppo in alcuni trasporti speciali (le gigantesche petroliere, di stazza anche superiore alle 500 mila tonnellate, e le navi porta-containers, che rivoluzionarono il movimento delle merci riducendone tempi e costi), ma vide contrarsi progressivamente, fino a scomparire del tutto, il traffico passeggeri sulle rotte transoceaniche.

Treni e navi

mass media L’espressione mass medium (mass media al plurale) nasce in ambito anglosassone dall’unione della parola inglese mass (“massa”) con la parola latina medium. I mass media, o mezzi di comunicazione di massa, sono tutti gli strumenti che vengono utilizzati per diffondere su larga scala informazioni e cultura. Gli strumenti e le tecnologie adoperati sono tra i più vari (stampa, radio, televisione, cinema, Internet), ma tutti hanno in comune la capacità di trasmettere contenuti culturali a un pubblico molto ampio.

Dunque, un mondo caratterizzato da una crescente facilità di spostamento e anche, in misura ancora maggiore, da una sempre più rapida circolazione delle informazioni e dei messaggi [►FS, 114]. Molto prima della rivoluzione elettronica e dell’avvento della Rete, già si parlava, in Occidente, di “villaggio globale”: un’espressione coniata dal sociologo canadese Marshall McLuhan che, in un libro del 1964, descriveva (anticipando i tempi) un pianeta diventato improvvisamente piccolo, in cui le distanze fisiche e culturali tendevano ad annullarsi, mentre contenuti e forme della comunicazione si uniformavano a modelli comuni [►FS, 137d].

Il “villaggio globale”

Protagonisti, o quanto meno veicoli principali, di queste trasformazioni furono i mezzi di comunicazione di massa (o mass media, come allora si cominciò a chiamarli). La rivoluzione in questo campo era cominciata già nel periodo fra le due guerre, con l’affermazione della radio e del cinema sonoro [►7_7]. Anche nel secondo dopoguerra, radio e cinema continuarono a svolgere un ruolo importantissimo. La radio, in particolare, conobbe un nuovo boom alla fine degli anni ’50, con l’apparizione degli apparecchi a transistor (caratterizzati dall’ingombro minimo, dai bassi costi di fabbricazione e dall’indipendenza dalle reti di alimentazione elettrica) e rimase a lungo il più diffuso fra i mezzi di comunicazione.

I mass media

Ma la vera protagonista di questa fase della storia delle comunicazioni di massa fu la televisione. Le prime trasmissioni sperimentali furono effettuate in Gran Bretagna già negli anni ’30. Ma le trasmissioni regolari per il grande pubblico cominciarono subito dopo la guerra negli Stati Uniti, per opera di alcune grandi compagnie private che si finanziavano con la pubblicità. E fu negli Stati Uniti che il nuovo mezzo si affermò in pochi anni fino a diventare un consumo di massa (un televisore ogni 4 abitanti nel 1960). Nel corso degli anni ’50 la televisione si impose anche in Europa occidentale e, nei decenni successivi, si diffuse nelle aree meno industrializzate: nel 1980 c’erano in tutto il mondo circa 400 milioni di apparecchi (uno ogni 10 abitanti) e anche i paesi più poveri disponevano di una propria rete televisiva.

La diffusione del mezzo televisivo

Frattanto il mezzo si andava perfezionando dal punto di vista tecnico. All’inizio degli anni ’60, l’uso dei satelliti per telecomunicazioni consentì la trasmissione dei segnali televisivi da un

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I progressi della telecomunicazione

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Una famiglia americana guarda la tv 1958 [National Archives and Records Administration, College Park, Maryland]

capo all’altro del mondo. Nello stesso periodo furono realizzati i primi apparecchi a colori, che sarebbero stati commercializzati su vasta scala nel decennio successivo. L’avvento della televisione non si limitò a trasformare il mondo dell’informazione, offrendo la possibilità di mostrare, e di diffondere in tutto il globo, le immagini di un evento – da una competizione sportiva allo sbarco del primo uomo sulla Luna, da un attentato all’eruzione di un vulcano – nel momento stesso in cui si svolgeva. Le trasmissioni televisive portarono lo spettacolo dentro le case, creando nuove forme di intrattenimento collettivo e un diverso uso del tempo libero. E contribuirono in modo decisivo alla diffusione di una nuova cultura di massa: una cultura in cui l’immagine tende a prevalere sulla parola scritta (quello di libri e giornali è l’unico fra i consumi culturali a non aver conosciuto incrementi di rilievo nell’ultimo quarantennio); una cultura i cui prodotti e i cui modelli, prevalentemente di origine nordamericana, si diffusero in tutto il mondo, imponendo ovunque i suoi linguaggi e i suoi valori, a scapito delle culture tradizionali. Un’altra componente fondamentale di questo universo culturale, un’altra fabbrica inesauribile di miti e di idoli popolari – in particolare giovanili – fu, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’50, la musica detta “leggera” per distinguerla da quella classica, lirica e sinfonica, più “seria” e tecnicamente impegnativa. La canzone – intesa come componimento musicale breve e orecchiabile – era da secoli una forma tipica della cultura popolare; e ancor più lo era diventata con l’avvento del grammofono e poi della radio. L’ulteriore boom commerciale degli anni postbellici si spiega, da un lato, con la diffusione della musica americana durante e dopo il conflitto mondiale; dall’altro, col perfezionamento degli strumenti per la riproduzione del suono: dai grammofoni si passò a registratori, dischi microsolco e cassette magnetiche (prodotte a partire dalla seconda metà degli anni ’60). In questo campo si assisté a un continuo affinamento delle tecnologie (alta fedeltà, stereofonia) e a un contemporaneo rapido allargamento del mercato (circa 2 METODO DI STUDIO miliardi di dischi e cassette venduti annualmente in tutto il mondo alla fine degli  a  Evidenzia gli ambiti del settore dei trasporti anni ’70). Anche in questo caso, come in quello della televisione, i progressi della descritti e sottolinea per ognuno di essi i principali progressi tecnologici. tecnologia elettronica si sovrapposero all’egemonia commerciale e culturale dei  b  Spiega l’espressione “villaggio globale”. paesi anglosassoni: l’inglese divenne la lingua della musica pop – ossia “popola c   Che cosa significa l’espressione “mass media” re, accessibile a tutti” (da popular) – come nel ’700 l’italiano era stato la lingua della e quali sono i principali mass media? Sottolinea musica colta. Il tutto contribuì a creare un linguaggio comune ai giovani di buona nel testo la risposta.  d Descrivi per iscritto le conseguenze della difparte del mondo, a diffondere valori alternativi alle convenzioni “borghesi” (magfusione dei mezzi di comunicazione di massa e della gior indipendenza, rapporti più liberi fra i sessi, pacifismo), a imporre un po’ ovunmusica leggera. que nuove mode e nuovi modelli di comportamento.

Musica e modelli culturali



15_7 CRITICA DEL CONSUMISMO

► Leggi anche:

E CONTESTAZIONE GIOVANILE

Come tutti i grandi processi di trasformazione, anche l’avvento della civiltà dei consumi e il boom dei mass media suscitarono dibattiti e reazioni contrastanti fra gli intellettuali. Da un lato, le trasformazioni della società e del costume favorirono, soprattutto nei paesi anglosassoni, l’affermazione delle scienze sociali: la sociologia, la scienza politica, la psicologia (in particolare la psicanalisi, diventata in questo periodo una componente essenziale della cultura dei paesi avanzati) e la stessa economia. Queste discipline erano viste come gli strumenti più adatti per capire la nuova realtà e, in una certa misura, anche per valutarne e accettarne gli effetti positivi, nella convinzione che dalla diffusione del benessere (un processo che molti tendevano a considerare irreversibile) dovesse discendere una progressiva attenuazione dello scontro di classe e del confronto ideologico nell’Occidente industrializzato.

Le scienze umane

Il rifiuto del consumismo

►     Focus Le forme della contestazione studentesca ► Personaggi Martin Luther King e la lotta per i diritti civili, p. 626

D’altro canto, quasi a smentire queste previsioni, si diffuse, proprio a partire dagli anni ’60, un atteggiamento di rifiuto ideologico nei confronti della civiltà dei consumi, accusata di sostituire allo sfruttamento economico tradizionale una

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forma più subdola e raffinata di dominio realizzato attraverso la pubblicità e i mass media, di sottoporre gli individui a una nuova tirannia tecnologica, di sopire i conflitti sociali con la diffusione di un benessere che si giudicava illusorio e comunque ottenuto a spese dei popoli poveri del Terzo Mondo [►13_10]. Questa reazione si espresse in primo luogo in una ripresa delle ideologie rivoluzionarie di matrice marxista, che peraltro avevano conservato, anche negli anni della guerra fredda, una forte influenza sugli intellettuali, soprattutto in Italia e in Francia. E non mancarono i tentativi di coniugare le teorie marxiste con le analisi delle nuove scienze sociali. Significativa fu la fortuna incontrata in questo periodo da quel filone di pensiero, formatosi nella Germania di Weimar e poi trapiantato negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo, che aveva il suo nucleo originario nella cosiddetta scuola di Francoforte (Francoforte era stata la sede dell’Istituto per la ricerca sociale, fondato nel 1923 e diretto da Max Horkheimer) e si era applicato fin dall’inizio all’analisi e alla critica della società di massa. Tra gli intellettuali che incarnarono questa reazione, un successo particolare, soprattutto fra i giovani, toccò, nella seconda metà degli anni ’60, a Herbert Marcuse [►FS, 132d], tedesco emigrato

PERSONAGGI

I Beatles e la rivoluzione della musica pop

Q

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uando, il 5 ottobre del 1962, i Beatles esordirono con il loro primo 45 giri (cioè il singolo, nei dischi in vinile, con due canzoni, una per ogni lato del disco), in pochi avrebbero scommesso che quei quattro ragazzi di Liverpool con i capelli a caschetto sarebbero diventati in breve tempo il più importante gruppo pop di sempre e avrebbero contribuito a segnare i costumi di un’epoca, esprimendo alla perfezione lo spirito degli anni ’60. La storia dei Beatles ha origine nel 1957. Mentre suona a una festa estiva di un sobborgo di Liverpool con il suo gruppo, i Quarrymen, l’allora sedicenne John Lennon viene avvicinato da un altro giovane chitarrista di nome Paul McCartney: da quel giorno inizierà il più fortunato sodalizio artistico del mondo della musica leggera. Con l’entrata nel gruppo di George Harrison, la band cambia vari nomi prima di scegliere The Beatles (gioco di parole tra beetles, “coleotteri, maggiolini”, e beat, “ritmo”). Poco prima di registrare il loro primo singolo Love Me Do, fa il suo ingresso nel gruppo il batterista Richard Starkey, meglio conosciuto come Ringo Starr. Nella loro formazione definitiva, i Beatles si apprestano a scalare le classifiche britanniche, dove rimangono in vetta per 51 settimane consecutive: nel 1963 il loro primo album (in vinile LP, cioè long playing o 33 giri), Please Please Me resisterà diversi mesi al numero uno, scalzato solo dal loro secondo 33 giri With The Beatles. È un’ascesa inarrestabile, in fatto di vendite e di popolarità, che porterà i fab four (“favo-

U4 IL MONDO DIVISO

losi quattro”) a trasferirsi definitivamente a Londra, dove faranno degli studi di Abbey Road il loro quartier generale. Siamo nella prima metà degli anni ’60, e il Regno Unito è diventato il centro della cultura pop a livello mondiale. Una nuova generazione di artisti fa parlare di sé in tutto il mondo, mentre emerge con forza una nuova categoria sociale, quella dei “giovani”, che si autodefinisce e manifesta in termini collettivi, cercando un’identità di gruppo [►15_7]. Il conflitto generazionale diventa un conflitto di valori: i capelli dei ragazzi si allungano e le gonne delle ragazze si accorciano, iniziano a cadere le vecchie costrizioni morali. L’imperativo è “vivere adesso”: la musica stessa diventa veicolo di queste pulsioni e diventa il regno dell’immaginario, in cui l’universo giovanile può esprimere i suoi sogni di libertà, di rivoluzione e una nuova visione del mondo. Le canzoni e la vita dei quattro di Liverpool sono l’esempio perfetto di questa tendenza e delle contraddizioni di quel periodo: testi che cantano la spensieratezza, l’immediatezza del presente, ma anche i desiseri e le delusioni adolescenziali, e un look studiato in ogni dettaglio. I Beatles trasformano l’immagine e l’idea di gruppo pop in un fenomeno di massa e in un prodotto commerciale esportabile su scala globale. E nel 1964 escono definitivamente dai confini britannici, irrompendo con prepotenza nel mercato americano con il singolo I Want To Hold Your Hand: in una famosa apparizione televisiva all’Ed Sullivan Show, cantano tre pezzi davanti a circa 73 milioni di te-

lespettatori estasiati, segnando un momento storico nel mondo dello show business e aprendo le porte alla British Invasion in America. Sull’onda dello straordinario successo e sempre all’insegna del massimo profitto, iniziano le riprese del loro primo film (A Hard Day’s Night) e partono per un tour mondiale che li vedrà impegnati in America, Europa, Australia e Nuova Zelanda. L’anno successivo la regina Elisabetta, tra mille polemiche, conferisce loro le insegne dell’Ordine dell’Impero britannico. La Beat­lemania è ormai un fenomeno planetario. I loro spettacoli innescano vere e proprie manifestazioni di isteria collettiva: «Credo che se mandassimo in giro quattro manichini di cera le folle sarebbero ugualmente soddisfatte», afferma con amarezza John Lennon. Il 29 agosto 1966 a San Francisco si tiene l’ultimo concerto della loro storia. Il 1966 è un anno cruciale per il gruppo. Lennon e McCartney, autori di gran parte delle canzoni, non vanno più d’accordo come un tempo, da un punto di vista artistico e non solo, anche se continuano a firmare i pezzi in coppia; la loro immagine pubblica, intanto, comincia a essere incrinata dagli atteggiamenti provocatori e dall’uso di droghe. Dopo l’uscita dell’album Revolver, che già segna una svolta nello stile e nei contenuti dei testi, nel 1967 pubblicano forse il più importante disco della storia del pop, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Sulla coloratissima copertina a collage, i vecchi Beatles appaiono come manichini di cera accanto a quelli nuovi, vestiti con giacche sgargianti e pettinati non più tutti uguali. I viaggi in India, l’uso di droghe, l’avvicinamento alle fi-

negli Stati Uniti, che univa alla critica della società “opulenta”, del consumismo e dell’etica borghese del successo un giudizio pessimistico sulle capacità rivoluzionarie di una classe operaia ormai “integrata” nel sistema: le residue speranze di trasformazione erano affidate agli emarginati delle metropoli moderne e soprattutto ai popoli extraeuropei non ancora toccati dall’industrialismo. La denuncia del consumismo nelle società sviluppate si unì dunque al “terzomondismo” nel fornire una base teorica a quei fenomeni di contestazione giovanile che si diffusero con eccezionale rapidità nelle società avanzate nella seconda metà degli anni ’60: proprio al culmine di una lunga fase di crescita economica. Il dato, apparentemente paradossale, si spiega in realtà col fatto che lo sviluppo prolungato suscitava l’aspettativa di nuovo sviluppo e di nuovo benessere e faceva risaltare le disuguaglianze nella distribuzione, nazionale e mondiale, della ricchezza. Sul piano politico, diventavano ancora una volta oggetto di critica le stesse istituzioni della democrazia “borghese”, incapace di mantenere le sue promesse. E apparivano sempre più intollerabili i residui del passato: come la discriminazione razziale negli Usa, ma anche la struttura

La rivolta giovanile

losofie orientali, favoriscono un mutamento concettuale nelle canzoni del gruppo. Oltre alla musica, anche i testi (per la prima volta presenti in forma scritta all’interno della copertina di un disco) abbandonano la spensieratezza adolescenziale degli esordi e di-

ventano più profondi e rilevanti, in molti casi sempre più complessi e sperimentali. Nel 1968, del resto, il clima di leggerezza che aveva animato l’universo giovanile dei primi anni ’60 si trasforma: la protesta culturale contro i valori dei padri si sposta su

un piano politico, diventa rabbia contro il sistema e sfocia nelle contestazioni di piazza [►15_7]. La morte per overdose dello storico manager, la vena sempre più sperimentale e avanguardista di Lennon, soprattutto dopo l’inizio della relazione con Yoko Ono, i problemi finanziari legati alla fallimentare esperienza imprenditoriale di una propria casa discografica (la Apple), non fanno altro che accelerare la burrascosa separazione alla fine del 1970. Dopo lo scioglimento, i quattro Beatles intraprenderanno tutti la carriera solista, con alterne fortune, artistiche e personali. L’8 dicembre 1980, a New York, John Lennon viene ucciso a colpi di pistola da uno squilibrato, mentre George Harrison, dopo essere scampato a un attentato, muore di cancro nel 2001. Ringo Starr e Paul McCartney, invece, continuano la loro attività discografica: in particolare quest’ultimo ha continuato a esibirsi sui palchi di tutto il mondo, riproponendo al pubblico il repertorio di una band che in soli otto anni di carriera ha rivoluzionato il mondo del rock e ha fatto da colonna sonora a un decennio di grandi cambiamenti culturali. Come affermò il grande compositore americano A ­ aron Copland, «se volete conoscere gli anni ’60, ascoltate la musica dei Beatles».

Jann Haworth e Peter Blake, Copertina dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles 1967

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C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

gerarchica del sistema universitario. La critica investiva poi lo stesso istituto familiare e la morale sessuale corrente; o, all’altro estremo, il sistema dei rapporti internazionali, che appariva ancora dominato dall’imperialismo, dalla guerra fredda e dall’incubo nucleare [►FS, 131]. La contestazione ebbe inizio negli Stati Uniti e trovò la più larga eco proprio fra i figli del baby boom, ossia i giovani nati nei primi anni del dopoguerra. La protesta si espresse dapprima nella forma del rifiuto delle convenzioni, della fuga dalla società industrializzata – fu il caso delle comunità hippies, che si diffusero soprattutto nel Nord America a partire dalla metà degli anni ’60 – e quindi nella creazione di una cultura alternativa, in cui confluivano pratica della non violenza e religiosità orientale (buddismo, induismo), consumo di droghe leggere e messaggi diffusi attraverso la nuova musica.

Le culture alternative

In seguito la rivolta giovanile assunse forme più politicizzate e trovò i suoi centri propulsori nelle università, dove la scolarizzazione di massa aveva concentrato un ceto studentesco numeroso e socialmente articolato, seppure di estrazione in prevalenza borghese. Anche in questo caso il fenomeno prese l’avvio dagli Stati Uniti, dove la mobilitazione – sit-in iniziata con l’occupazione dell’Università di Berkeley, in California, nel 1964 Manifestazione di protesta non violenta che consiste – si intrecciò con la protesta contro la guerra del Vietnam [►12_10] e col movinell’occupare un luogo pubblico sedendosi a terra. mento contro la segregazione razziale.

La protesta nelle università americane

PERSONAGGI

Martin Luther King e la lotta per i diritti civili

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ato nel 1929 ad Atlanta, in Georgia, Michael King (questo il suo nome di battesimo, poi cambiato dal padre in onore di Martin Lutero) crebbe in un ambiente familiare borghese e rassicurante, senza preoccupazioni di tipo finanziario. Era figlio di un pastore battista, attivista dei diritti dei neri e presidente della sezione di Atlanta della Naacp (National Association for the Advancement of Colored People, Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore): nonostante i numerosi episodi di discriminazione razziale che segnarono la sua infanzia, il giovane Martin si rivelò brillante a scuola, diplomandosi in Sociologia nel locale collegio per neri. Proseguì poi gli studi presso il seminario teologico di Chester, in Pennsylvania, per diventare anche lui pastore battista. Furono anni decisivi per la sua formazione culturale: nel 1950 ascoltò una conferenza sul Mahatma Gandhi [►PERSONAGGI, p. 374], rimanendo affascinato dalle sue teorie della non violenza. Ottenuto il diploma in Teo­logia si trasferì all’Università di Boston, dove conobbe e sposò Coretta Scott, futura madre dei suoi quattro figli. Poco

U4 IL MONDO DIVISO

Martin Luther King sul palco della manifestazione di Washington 28 agosto 1963

prima di conseguire il Dottorato in Filosofia, nel 1954, accettò l’incarico di pastore a Mont­gomery, in Alabama, ed entrò a far parte della sezione locale della Naacp. Fu proprio in questa cittadina del profondo Sud dell’America segregazionista e razzista che il reverendo King ebbe modo di mettere in pratica per la prima volta una

forma di protesta non violenta. Nel dicembre 1955 l’arresto di Rosa Parks, una donna di colore colpevole di non aver ceduto il posto sull’autobus a un passeggero bianco, provocò violente reazioni da parte della comunità nera. Martin Luther King, insieme ad altri influenti attivisti locali, optò invece per una forma di protesta pa-

Mentre la protesta studentesca ebbe un carattere prevalentemente pacifico e si espresse in marce, occupazioni e sit-in, la mobilitazione dei neri – che in un primo tempo era stata egemonizzata da leader non violenti come il pastore battista Martin Luther King – esplose fra il ’65 e il ’67 in una serie di rivolte dei quartieri poveri (i “ghetti neri”) delle grandi città. Le rivolte erano ispirate all’ideologia rivoluzionaria del Black Power (“potere nero”), che univa la protesta sociale alla rivendicazione da parte dei neri d’America di una propria identità culturale separata da quella della maggioranza bianca.

Le rivolte dei neri e il Black Power

A partire dal 1966-67 – e con un apice nel ’68, “l’anno degli studenti” – la rivolta giovanile si estese ai maggiori paesi dell’Europa occidentale (e anche al Giappone), dove prese forme più ideologizzate, ispirandosi ora alle correnti radicali del marxi-

La contestazione in Europa

cifica: il boicottaggio dei mezzi pubblici (nessun nero avrebbe più utilizzato un autobus), che ebbe un’inaspettata adesione e si protrasse fino all’anno successivo, diffondendosi rapidamente anche nel resto del paese. La protesta si concluse con un successo: la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la segregazione razziale sui mezzi pubblici. Una vittoria per la comunità nera ma un’iniezione di rabbia per le frange estreme degli attivisti bianchi, come il Ku Klux Klan [►7_2], che si scagliarono contro il reverendo King e i suoi più stretti amici e collaboratori. Ma, dopo i fatti di Montgomery, Martin Luther King era ormai diventato un leader e un simbolo per la comunità degli afro­ americani. Assieme ad altri attivisti fondò la Sclc (Southern Christian Leadership Conference, Congresso dei leader cristiani degli Stati del Sud) per convogliare in un unico movimento le varie associazioni locali antisegregazioniste. A partire dal 1960 si moltiplicarono i sit-in da parte di studenti neri all’interno di locali e ristoranti riservati ai bianchi, e le marce per le strade delle città. Con grande soddisfazione, Martin Luther King poteva constatare che queste forme di protesta non violenta stavano diventando il principale strumento di contestazione. Ormai portavoce del movimento, intensificò i contatti con il senatore John Fitzgerald Kennedy: King cercava nel fu-

turo presidente degli Stati Uniti un interlocutore alla Casa Bianca per promuovere riforme in materia di diritti civili e Kennedy beneficiò politicamente dell’appoggio dell’attivista per vincere le imminenti elezioni (circa il 70% della popolazione di colore votò per lui). Nel 1963 a Birmingham, in Alabama, con l’ausilio di altre associazioni, promosse una serie di dimostrazioni di disobbedienza civile. Queste manifestazioni si conclusero con numerosissimi arresti, tra cui anche quello dello stesso King. Sulla scia del successo di Birmingham, che ebbe l’effetto di eliminare la segregazione in quella città, il 28 agosto del 1963 oltre 250 mila persone (di cui 60 mila bianchi) parteciparono alla famosa “marcia di Washington”. La più grande dimostrazione a favore dei diritti civili, appoggiata anche dal presidente Kennedy, si concluse con il celebre discorso in cui King pronunciò più volte la frase «I have a dream» (“io ho un sogno”), divenuto un messaggio simbolo della lotta per i diritti civili. L’anno successivo, le proteste di St. Augustine in Florida, degenerate in violente cariche della polizia e arresti, si fermarono solo nel momento in cui si diffuse la voce che il neoeletto presidente Lyndon Johnson avrebbe firmato una serie di riforme sui diritti civili. In questo frangente King incontrò Malcolm X (il leader rivoluzionario degli afroamericani, che sarà ucciso nel 1965),

Malcolm X 12 marzo 1964 Nato nel 1925, Malcolm Little, più noto con lo pseudonimo di Malcolm X, fu leader e teorico della protesta dei neri americani negli anni ’60. Dopo una giovinezza turbolenta, aderì al movimento dei Black Muslim (“musulmani neri”), che si riconoscevano nell’islam per rivendicare la loro originaria identità e si battevano per una nazione nera separata all’interno degli Usa. Si spostò poi su posizioni sempre più radicali, molto distanti da quelle pacifiste di Martin Luther King, prendendo però le distanze dall’integralismo religioso e razziale dei dirigenti del movimento. Fu ucciso nel 1965 da alcuni suoi avversari politici, neri come lui.

da sempre molto critico riguardo ai metodi e alle iniziative della non violenza. Sempre nel 1964, a soli 35 anni, Martin Luther King fu il più giovane vincitore di un premio Nobel per la Pace. Gli anni che seguirono lo videro impegnato in numerose manifestazioni pubbliche: nel 1966, a Chicago, prese apertamente posizione contro la guerra del Vietnam, incrinando così i rapporti con il governo americano. Le immagini delle brutali repressioni della polizia durante le marce di protesta facevano il giro del mondo, come quella che coinvolse oltre 600 manifestanti a Selma, in Alabama, tristemente ricordata come Bloody Sunday (“domenica di sangue”). Nell’aprile 1968, a Memphis, mentre si trovava sul balcone del motel dove alloggiava, intento a preparare con i suoi collaboratori la marcia per il giorno successivo, Martin Luther King fu ucciso con un colpo di fucile alla testa sparato da 60 metri di distanza. Le indagini della polizia portarono all’arresto di James Earl Ray, un bianco con precedenti penali, che in un primo momento confessò l’omicidio, poi ritrattò: fin da subito, però, nacquero sospetti che King fosse stato vittima di una cospirazione. Pochi giorni dopo l’attentato, migliaia di persone, bianchi e neri, parteciparono alla cerimonia funebre di quello che era diventato, a fianco di Gandhi, un simbolo mondiale della lotta non violenta per i diritti civili.

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C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

▲  Le

forze dell’ordine fronteggiano gli studenti durante una manifestazione nel quartiere latino a Parigi maggio 1968 Il momento culminante della rivolta giovanile del ’68 in Europa fu il cosiddetto “maggio francese”. L’onda d’urto si esaurì, diversamente che in Italia, molto rapidamente per la reazione dell’opinione pubblica moderata, che decretò il successo elettorale delle forze governative, nel giugno dello stesso anno.

◄  Una

immagine del maggio francese del 1968

smo, ora a modelli “terzomondisti”, ora all’esempio della “rivoluzione culturale” nella Cina di Mao Zedong [►12_11]. In Francia la mobilitazione dei diversi movimenti di estrema sinistra – che cercavano di coniugare il tradizionale impegno rivoluzionario con nuove e più fantasiose forme di lotta antiautoritaria all’insegna dello slogan «l’immaginazione al potere» – diede luogo all’episodio più clamoroso di tutta la stagione delle rivolte studentesche: all’inizio di maggio del 1968, il quartiere latino di Parigi fu teatro di una prolungata e violenta guerriglia urbana che vide contrapposti studenti e forze di polizia e parve evocare l’immagine delle insurrezioni cittadine ottocentesche. Anche per questo, oltre che per l’ampiezza e per la simultaneità delle proteste, “il sessantotto” [►FS, 131], come nel secolo precedente “il quarantotto”, assunse un significato simbolico che andava ben al di là dei risultati immediati ottenuti dal movimento, nel complesso modesti: nei paesi toccati dalla contestazione non vi furono infatti significative svolte politiche. In alcuni casi (come nella Francia di De Gaulle o negli Stati Uniti di Nixon), furono le forze moderate ad avvantaggiarsi dell’allarme suscitato dalla contestaMETODO DI STUDIO zione giovanile. E mancò nel movimento un’adeguata riflessione critica sui regi a  Sottolinea nel testo in cosa consiste il rapmi comunisti: affascinati dagli esperimenti rivoluzionari della Cuba di Castro o porto fra società dei consumi e affermazione delle della Cina di Mao, i giovani ribelli dedicarono scarsa attenzione ai regimi autoriscienze umane. Quindi, cerchia queste ultime. tari dell’Europa dell’Est e ai fermenti libertari che lì si manifestavano, a comin b Spiega in cosa consistono e quali obiettivi si pongono la denuncia del consumismo e l’approccio ciare dalla “primavera di Praga” [►12_10]. “terzomondista”. Tuttavia, le lotte del ’68 lasciarono un segno profondo nella società occidenta c   Cerchia con colori diversi i settori in cui si afle: rilanciarono, seppure in modo effimero, il mito di una trasformazione rivofermarono le differenti forme di protesta di questi anni e sottolineane le caratteristiche mantenendo luzionaria della società; crearono nuove forme di mobilitazione e riproposero, i colori scelti. attraverso le assemblee e i cortei, le pratiche della democrazia diretta; influen d Spiega per iscritto se e perché il “sessantotzarono nel profondo i comportamenti individuali; diedero vita a un patrimonio to” può essere definito un movimento e descrivi di memorie e di tradizioni in cui molti giovani di allora avrebbero continuato a gli obiettivi della contestazione studentesca e i suoi effetti politici, culturali e sociali. riconoscersi anche negli anni successivi. 628

Mito e realtà del ’68

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15_8 IL NUOVO FEMMINISMO

► Leggi anche:

La grande ondata di contestazione che scosse i paesi industrializzati tra gli anni ’60 e i ’70 si accompagnò a un rilancio, in forme nuove e più radicali, della questione femminile. Un fenomeno all’inizio minoritario, e largamente sottovalutato dalle forze politiche (compresi i gruppi rivoluzionari), ma capace come pochi altri di agire nel profondo su comportamenti e modi di pensare. All’inizio del ’900, i primi movimenti femministi avevano lottato soprattutto per l’emancipazione politica delle donne e per la parità giuridica fra i sessi. All’indomani della seconda guerra mondiale, molte di queste battaglie – a cominciare da quella per il diritto di voto – potevano considerarsi vinte, almeno sulla carta: anche se permanevano, soprattutto nei paesi del Sud Europa, norme discriminatorie e soprattutto barriere di fatto che ostacolavano l’eguaglianza retributiva e l’accesso alle professioni (in Italia, per fare un esempio, le prime donne-magistrato entrarono in servizio solo nel 1965).

La parità e i suoi limiti

►   Laboratorio dello storico La storia delle donne ► Laboratorio di cittadinanza Femminismo e diritti delle donne, p. 632 ► Fare Storia Un nuovo soggetto sulla scena politica: le donne e il movimento femminista, p. 668

Ma proprio il permanere di questi e di altri ostacoli al pieno conseguimento della parità dimostrava che il problema principale non stava tanto nelle leggi, quanto negli equilibri e nei ruoli interni alla famiglia tradizionale – sempre strutturata, più o meno consapevolmente, in base a un modello patriarcale – e soprattutto in un’immagine convenzionale, ereditata dalla cultura tradizionale e riproposta dalla pubblicità e dai mass media, che confinava la donna a un ruolo comunque subalterno: sia che questo ruolo si esaurisse entro l’ambito delle mura domestiche, sia che si sommasse a un carico lavorativo “esterno”. Alle lotte tese al miglioramento della condizione delle donne attraverso misure legislative (legalizzazione dell’aborto volontario, riforma del diritto di famiglia, accesso alle professioni) andava dunque affiancata una battaglia culturale volta a sconfiggere e a capovolgere i vecchi e i nuovi stereotipi.

La contestazione dei modelli familiari

Nuovi obiettivi e nuove forme di lotta

Questa problematica fu al centro della nuova corrente femminista che ebbe origine negli Stati Uniti alla metà degli anni ’60 e trovò i suoi testi fondamentali Manifestazione femminista a Londra Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 il movimento femminista manifestò per le strade delle maggiori città europee, rivendicando la parità salariale fra i sessi e il miglioramento della condizione sociale e lavorativa delle donne. Un punto cruciale del programma fu la protesta contro la “commercializzazione della bellezza”, in particolare contro i concorsi di bellezza, considerati scandalosi “mercati del bestiame”. Le donne del movimento reclamarono la fine del “sessismo” con atti di protesta provocatori, lanciando in una simbolica “pattumiera della libertà” corpetti, reggiseni, scarpe con tacchi alti, bigodini, ciglia finte, e tutto quello che allora rappresentava l’immagine convenzionale della femminilità.

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C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

negli scritti di militanti come Betty Friedan, Kate Millett e Juliet Mitchell [►FS, 122 e 123d]. Netto era il cambio di impostazione rispetto alla fase precedente, sia per la radicalità degli obiettivi (che implicavano una politicizzazione del privato, ossia il riconoscimento della rilevanza politica di ciò che avviene nella sfera dei rapporti personali e familiari), sia per la novità dei metodi di lotta: la contestazione di tutti i modelli culturali legati al maschilismo e, in parallelo, la valorizzazione dei caratteri tipicamente e autenticamente femminili (“donna è belmaschilismo lo”), la rivendicazione di una sfera separata rispetto all’universo maschile, Questo termine indica il complesso di atteggiamenti, l’autonomia da qualsiasi altro gruppo, il rifiuto dell’organizzazione politica tradipsicologici e culturali, e di comportamenti basati su una presupposta superiorità del sesso maschile su quello zionale (vista come luogo e strumento di riproduzione della subalternità delle femminile nella società, nella famiglia, nei rapporti donne) e l’adozione del collettivo femminista come principale forma di aggrereciproci. gazione e di militanza. Nel corso degli anni ’70 il movimento delle donne allargò Parità e specificità ovunque il suo seguito, ma perse in parte le sue punte più aggressive e conobbe le prime divisioni interne. Da una parte si insisteva sulla parità con l’uomo, da raggiungersi attraverso la progressiva riduzione delle differenze nel comportamento quotidiano, soprattutto all’interno della struttura familiare, mettendo per esempio in discussione il ruolo tradizionale della madre e valorizzando quello del padre, fin dalla nascita del bambino. Dall’altra parte si tornava a rivendicare la specificità femminile, attraverso la rivalutazione di quelli che da sempre erano considerati i tratti tipici delle donne: la spontaneità, la dolcezza, la capacità di vivere i sentimenti, la conoscenza dei problemi emotivi. In coincidenza col generale declino dei movimenti di contestazione, anche la militanza femminista perse visibilità. Ma i suoi effetti sul ripensamento e sulla trasformazione del ruolo della donna continuarono a lungo a farsi sentire e sono tuttora operanti.



collettivo Nel linguaggio della sinistra, il “collettivo” è un gruppo di militanti (per esempio studenti, lavoratori, femministe) che si riunisce al di fuori dei canali ufficiali, come partiti e sindacati, per discutere problemi di interesse comune ed elaborare strategie di lotta.

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le cause che contribuivano al permanere di norme discriminatorie e di barriere di fatto esistenti nei confronti della donna e quali furono le strategie individuate per superarle.  b   Spiega per iscritto che cosa si intende per “politicizzazione del privato” e quale rapporto esiste fra questo e le rivendicazioni femministe di questi anni.

15_9 CHIESA E SOCIETÀ: IL CONCILIO VATICANO II

Come la società borghese, laica e positivista di metà ’800, anche la società “opulenta” e consumista sviluppatasi dopo il secondo conflitto mondiale trovò un critico severo e un avversario tenace nella Chiesa di Roma. I cattolici costituivano ancora, negli anni ’60, la più numerosa fra le comunità di credenti, con oltre 500 milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo. Ma non potevano non guardare con preoccupazione al progressivo declino delle pratiche religiose tradizionali nelle aree industrializzate, all’affermarsi di mentalità e valori tipicamente materialisti, al diffondersi di comportamenti e di costumi (soprattutto in materia di rapporti sessuali e di contraccezione) contrari agli insegnamenti della Chiesa. Questa volta però la reazione non si espresse, come un secolo prima, ai tempi del Sillabo di Pio IX, in una chiusura quasi totale alle novità del mondo esterno, ma sfociò in un tentativo di rinnovamento interno, accompagnato da una maggiore attenzione alla mutata realtà sociale e internazionale [►FS, 134]. Furono questi gli anni in cui il mondo cattolico non solo maturò una definitiva accettazione di quelle istituzioni democratico-rappresentative che sin allora aveva a malincuore tollerato (quando non apertamente avversato), ma fece anche proprio il principio della libertà religiosa come diritto fondamentale della persona e come unico contesto in cui far valere le proprie scelte di fede.

Religione e modernità

Il nuovo corso ebbe inizio col pontificato di Giovanni XXIII, salito al soglio nel 1958 dopo la morte di Pio XII. Diversamente dal suo predecessore – che aveva legato il suo pontificato alla riaffermazione dei dogmi tradizionali e alla lotta frontale contro il comunismo – il nuovo papa, che pure non era affatto un innovatore in materia dottrinaria, cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa e di instaurare un dialogo con le realtà esterne, o addirittura ostili, al mondo cattolico. In questo fu favorito sia dalla sua grande popolarità – legata alla sua imma-

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Giovanni XXIII

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gine bonaria e alla sua stessa origine contadina –, sia alla congiuntura internazionale di quegli anni: gli anni di Kruscëv e Kennedy e della distensione fra le due superpotenze [►12_9]. La svolta impressa alla politica vaticana da Giovanni XXIII fu sancita in due celebri encicliche. Nella prima, la Mater et Magistra del 1961, il papa condannava l’egoismo dei ceti privilegiati e dei paesi ricchi, per incoraggiare, pur nella persistente condanna delle ideologie e dei regimi comunisti, il riformismo politico ed economico. La seconda enciclica, la Pacem in Terris del 1963, era invece dedicata soprattutto ai rapporti internazionali e conteneva, oltre a un appello al negoziato fra le potenze e alla cooperazione fra i popoli – con una significativa apertura verso i paesi di nuova indipendenza – anche una proposta di dialogo con le religioni non cattoliche e con gli stessi non credenti. Ma l’atto più importante del pontificato di Giovanni XXIII fu la convocazione di un Concilio ecumenico (cioè una assemblea dei vescovi di tutto il mondo), il ► Vaticano II [ FS, 133d], a quasi cent’anni di distanza dal precedente – il Vaticano I del 1870 – che aveva segnato il momento di più rigida chiusura e di più grave isolamento della Chiesa di Roma. Apertosi nell’ottobre 1962, pochi mesi prima della morte di Giovanni XXIII, il Concilio si prolungò per oltre tre anni (fino al dicembre ’65) sotto il pontificato di Paolo VI, che continuò e consolidò, sia pure con uno stile più cauto, la svolta avviata dal suo predecessore. Dal Concilio la Chiesa uscì rinnovata, anche se non radicalmente trasformata, sia nell’organizzazione interna (per il maggior peso assunto dal collegio dei vescovi rispetto al papa e alla Curia romana), sia nella liturgia: l’innovazione più importante in questo campo fu l’introduzione della messa nelle lingue nazionali anziché in latino, per consentire una maggior partecipazione dei fedeli al rito. Sul piano strettamente dottrinario, non vi furono novità di grande rilievo. Ma fu ribadita l’importanza delle Sacre Scritture come fonti prime della rivelazione e fu affermata la necessità del dialogo con le altre Chiese (presenti al Concilio con loro osservatori), in vista di una possibile futura riunificazione della Cristianità.

Il Concilio Vaticano II

Vendita di souvenir di papa Giovanni XXIII nel suo paese natale, Sotto il Monte, nel Bergamasco Papa Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, 18811963) conobbe una grande popolarità nei cinque anni del suo pontificato. Di origini contadine, Roncalli aveva svolto numerosi incarichi nella Chiesa, in Italia e all’estero, prima di essere eletto papa nel 1958. Il suo modo di fare bonario, semplice e paterno gli attirò immediatamente le simpatie dei fedeli e dell’opinione pubblica. Soprattutto egli diede voce a esigenze di rinnovamento della Chiesa ormai improrogabili, prendendo gradualmente le distanze dalla tradizionale ingerenza della Curia nelle vicende politiche italiane.

Si trattava di novità importanti, capaci di cambiare l’immagine della Chiesa e di provocare conseguenze di diverso segno. Nacquero in molti paesi nuove correnti e nuovi movimenti che, andando spesso al di là delle indicazioni della gerarchia ecclesiastica, cercarono di coniugare il messaggio cattolico con un più accentuato impegno nelle lotte sociali. Gruppi di “cattolici del dissenso” si formarono in Italia e in Francia alla fine degli anni ’60 e spesso andarono a confluire nei partiti di sinistra o nei movimenti nati nel ’68. In America Latina la partecipazione di sacerdoti e di gruppi cattolici alla lotta contro le dittature e le oligarchie conservatrici fu addirittura all’origine di una nuova teologia, la “teologia della liberazione”, che reinterpretava il messaggio cristiano e le stesse Scritture nel quadro di una concezione marxista della storia METODO DI STUDIO [►FS, 135d]. Questa teologia fu ufficialmente condannata dalla Chiesa, ma  a  Evidenzia i rischi che la Chiesa ravvedeva conservò una certa influenza su una parte del clero latino-americano. nell’affermazione della società dei consumi e sotSu un opposto versante dottrinario, le novità introdotte dal Concilio suscitarono tolinea con colori diversi le risposte che vi diede. la reazione di un numeroso gruppo di prelati che facevano capo all’arcivescovo Quindi cerchia i nomi di coloro che consentirono di portare avanti queste ultime. francese Marcel Lefebvre: i seguaci di monsignor Lefebvre contestavano non  b  Sottolinea i risultati raggiunti dal Concilio solo alcune specifiche innovazioni, come la messa in volgare e la possibilità per Vaticano II e spiega perché costituì una svolta nella i preti di non indossare l’abito talare, ma lo spirito stesso del Concilio, rivendistoria della Chiesa.  c  Sottolinea le informazioni principali relative cando contro ogni apertura al dialogo il primato dell’unica verità. Il movimento al dissenso nel mondo cattolico e spiega che cosa tradizionalista diede vita a un vero e proprio scisma, che sarebbe stato ufficializsi intende per “teologia della liberazione”. zato nel 1988, raccogliendo però l’adesione di esigue minoranze.

Dissenso e scisma

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LABORATORIO DI CITTADINANZA FEMMINISMO E DIRITTI DELLE DONNE

I

l movimento femminista, che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo aveva lottato per i diritti politici e civili delle donne, entrò in crisi dopo la prima guerra mondiale. Nei decenni successivi solo alcune voci isolate e allora poco ascoltate, come quelle dell’antropologa statunitense Margaret Mead (1901-1978) e della scrittrice britannica Virginia Woolf (1882-1941), continuarono a parlare delle donne e dei loro diritti. Un ruolo importante nel rilanciare la questione femminile fu svolto dalla scrittrice francese Simone de Beauvoir (1908-1986): nel saggio Il secondo sesso, del 1949, si affermava che nella storia l’uomo aveva assunto il ruolo di protagonista, in diretto contatto con la natura e con la cultura, mentre la donna era stata vista in rapporto a lui, come “altro sesso”: l’oppressione femminile aveva, quindi, radici storiche profonde. Nel mondo occidentale dopo la seconda guerra mondiale le donne ottennero ovunque il riconoscimento dei diritti politici e, sempre più spesso, ebbero accesso all’istruzione superiore e al mondo del lavoro. Questi cambiamenti sociali fecero emergere nuovamente la questione delle diverse opportunità offerte alle donne. La conquista dei diritti politici non aveva risolto il problema del riconoscimento della soggettività femminile (individuale e collettiva): le donne non erano state affrancate dai ruoli tradizionali che erano stati riservati loro da sempre (“cittadinanza menomata”). Il movimento femminista riprese vigore negli anni ’60, sulla scia prima delle lotte per i diritti civili negli Usa e poi della contestazione studentesca e operaia in Europa, assumendo obiettivi diversi rispetto a quelli dei decenni precedenti: per questo si parla di “nuovo femminismo”. Secondo le teorie neofemministe, era necessario passare dalla rivendicazione dell’emancipazione basata sulla parità giuridica, politica ed economica alla richiesta di una vera e propria “liberazione femminile” che, partendo dall’affermazione della differenza delle donne,

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Una fotografia di Simone de Beauvoir nel 1957 Simone de Beauvoir (1908-1986), a lungo compagna del filosofo Jean-Paul Sartre, dedicò la sua attenzione al rapporto fra i due sessi, portando una nuova visione decisamente anticonvenzionale dell’universo femminile.

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mirasse a una trasformazione globale della società. Il modello maschile basato sul patriarcato fu negato come valore, poiché esso imponeva non solo l’oppressione delle donne, ma anche la repressione dei bisogni e dei desideri. Allo stesso modo, fu criticata la dottrina della Chiesa, imperniata su una visione tradizionale della natura e del ruolo delle donne. Nell’ambito delle teorizzazioni neofemministe si affermò la categoria di “genere” (gender), alternativa a quella di “sesso”, che indica la caratterizzazione sociale, culturale e psicologica delle diversità tra maschi e femmine. Essa suggerisce che tale differenza non sia tanto biologica quanto culturale e sociale. Una delle principali teoriche di questo “nuovo femminismo”, l’americana Betty Friedan, nel saggio La mistica della femminilità (1963), studiò le caratteristiche dell’oppressione femminile nella società industriale contemporanea, evidente nei valori delle donne della classe media, che erano educate alla cura della casa, dei figli, all’assistenza dei mariti. Al seguito di queste teo­rie si svilupparono molti collettivi di sole donne, che discutevano tematiche proprie della condizione femminile, dalla sessualità alla famiglia al lavoro: alla base c’era l’idea secondo cui “il personale è politico”, che permise di affrontare una serie di questioni fino ad allora considerate proprie della sfera privata e familiare.

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 il nuovo movimento femminista si diffuse in tutti i paesi occidentali. Gli obiettivi perseguiti erano, in genere, la legalizzazione dell’aborto attraverso una legge che considerasse la disponibilità fisica e psicologica della donna a diventare madre, la possibilità di gestire il proprio corpo, il diritto alla sessualità e alla contraccezione, gli aiuti alla maternità e l’eliminazione di pratiche e atteggiamenti discriminatori in tutti i campi della vita sociale. In Italia, una battaglia importante fu quella per l’introduzione del divorzio, approvata dal Parlamento nel 1970 e confermata dal referendum del 1974. Nelle teorie del neofemminismo il concetto di cittadinanza e quello di democrazia venivano ridefiniti a partire dal riconoscimento della differenza di genere e dell’uguaglianza di tutti i cittadini e di tutte le cittadine. Queste lotte condussero all’approvazione di numerose riforme in tema di diritti civili e sociali. In Italia, ad esempio, la pressione politica esercitata dal movimento femminista contribuì a far approvare dal Parlamento il nuovo diritto di famiglia (1975), che aboliva la patria potestas dei mariti e la sostituiva con la pari potestà di entrambi i genitori. Con la legge 9 dicembre 1977/903, fu poi vietata ogni discriminazione sulla base del sesso in ambito lavorativo mentre, nel 1978, la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’articolo 546 del Codice penale che puniva penalmente l’aborto e il Parlamento approvò la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, poi confermata dal referendum del 1981.

Campagna delle Nazioni Unite contro la violenza sulle donne: «40 years of happiness» (’40 anni di felicità’) L’Onu ha designato il 25 novembre “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”. Le vittime più numerose sono le giovani tra i 16 e i 24 anni e nella maggioranza dei casi le violenze non sono denunciate. I maggiori responsabili delle aggressioni sono i partner delle vittime.

Negli anni ’80 il neofemminismo entrò in crisi, ma molte delle sue rivendicazioni erano ormai penetrate in alcuni partiti, nei sindacati, nei mass media. Dopo un ripensamento critico di alcune posizioni più radicali (l’opposizione sistematica nei confronti delle

istituzioni, l’estraneità verso la politica e la critica della famiglia), alcune frange del movimento femminista cominciarono a chiedere che le istituzioni (economiche, sociali e politiche) prevedessero una maggiore presenza delle donne e riconoscessero le esigenze e

le aspirazioni femminili. A partire dalla fine degli anni ’80, furono affrontate questioni come la violenza sulle donne, il maltrattamento e le molestie sessuali, lo stalking (forma di persecuzione ripetuta e ossessiva, come pedinamenti, telefonate, ecc.) con la costituzione di gruppi antiviolenza e la realizzazione di case per le donne maltrattate. Nel 1996, la violenza sessuale ha cessato finalmente di essere considerata un reato contro la morale pubblica e il buon costume per diventare un reato contro la persona. In ambito istituzionale, si è affermata, non senza contrasti, la tendenza a promuovere misure “attive”, volte a imporre una maggiore presenza femminile nelle imprese, negli uffici pubblici e negli organismi politici, riservando alle donne quote prefissate (le cosiddette “quote rosa”). Nel 2003 l’articolo 51 della Costituzione è stato modificato inserendo nel testo un riferimento al dovere della Repubblica di «promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne e uomini». Una legge del 2012 ha poi stabilito che nelle aziende quotate in borsa un quinto dei posti in consiglio di amministrazione deve essere riservato alle donne. Infine, la legge elettorale varata nel 2017 prevede che nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi sia rappresentato in misura superiore al 60%. Nonostante questi progressi, permangono ancora molte discriminazioni nei confronti delle donne, che, soprattutto in Italia, sono ancora poco presenti nei ruoli dirigenziali e negli organi politici e di governo.

REALIZZARE UNA BIOGRAFIA 1 Adoperando le informazioni contenute nella scheda e quelle reperite in Rete su un sito affidabile, realizza il profilo

biografico di uno dei due personaggi a scelta tra Simone de Beauvoir e Betty Friedan.

Segui la traccia di lavoro che ti forniamo di seguito. Il personaggio

Ruolo nella storia del suo tempo

Idee

Eredità

Nome

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Data di nascita e di morte

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Professione

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Date chiave della sua biografia

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LABORATORIO DI SCRITTURA DI CITTADINANZA 2 Utilizzando le informazioni contenute nella scheda, redigi un testo (max 10 righe di documento Word) intitolato: Le

battaglie del movimento femminista nella seconda metà del ’900.

Sviluppa l’argomento a partire dalla scaletta che ti proponiamo.

● Introduzione: il riconoscimento dei diritti politici nel secondo dopoguerra ● Il riconoscimento della soggettività femminile: la nascita del nuovo femminismo ● Le principali battaglie del movimento del nuovo femminismo, 1960-80 ● Gli anni ‘80 e la crisi del nuovo femminismo ● Gli ultimi decenni e le nuove questioni di genere VIOLENZA DI GENERE 3 L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione numero 54/134 del 17/12/1999, ha designato il 25

novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le Ong a organizzare attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica in quel giorno.

Nell’art. 1 della dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne si legge: È violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, ses-

suale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà.

Per scoprire in che modo il nostro paese contrasta la violenza contro le donne, vai sul sito del ministero dell’Interno; nella barra di navigazione clicca su “temi” e poi su “sicurezza”; scorri la pagina e clicca su “violenza di genere”. Rispondi ora alle domande:

a. Cosa si intende con l’espressione “violenza di genere”? b. Quali obiettivi persegue la legge contro la violenza di genere 119 del 15/10/2013? c. Quale elemento di novità è presente nella normativa? All’interno di quale contesto giuridico internazionale si pone? d. Che cos’è l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) e di cosa si occupa? e. Quale ruolo il legislatore affida alle prefetture?

PREVENZIONE E CONTRASTO ALLA VIOLENZA DI GENERE A LIVELLO LOCALE 4 Nella tua regione e/o nella tua provincia o città metropolitana esiste un assessorato o un ufficio impegnato nella

prevenzione e nel contrasto alla violenza di genere? Solo per fare un esempio, sia nella Regione Puglia, sia nella Città metropolitana di Bari gli assessorati alle “Pari opportunità” si occupano, tra le altre cose, dell’erogazione di interventi e di servizi per la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere, a tutela delle donne che risiedono sul territorio.

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Vai sul sito istituzionale della tua Regione e/o della tua Provincia/Città metropolitana e scopri in che modo gli enti locali operano in questo settore. Realizza poi una brochure informativa indirizzata alla tua comunità scolastica.

U4 IL MONDO DIVISO

ARTE E TERRITORIO L’ARTE NELL’ETÀ DEL CONSUMISMO ALIMENTARE

C

hiunque entri in un supermercato dell’emisfero settentrionale, oggi, può farsi un’idea delle trasformazioni che hanno interessato il settore agricolo nella seconda metà del ’900. L’abbondanza e la varietà dei cibi accessibili sul mercato non hanno un equivalente nella storia dell’umanità. A questa quantità, certo, non corrisponde sempre una grande qualità dei prodotti. Tuttavia, per cogliere la rapidità e la portata di questa trasformazione basta pensare alla sensazione che quest’offerta poteva suscitare nella generazione di coloro che avevano patito i razionamenti delle derrate alimentari durante le guerre mondiali. Per costoro, l’industrializzazione del settore alimentare rappresentò una rivoluzione nelle abitudini e nell’immaginario. Bisogna partire da qui per capire come oggetti a noi così familiari abbiano potuto appassionare così tanti artisti negli anni ’60 del ’900. Rappresentando alcuni degli alimenti più caratteristici della società di massa del dopoguerra alcuni artisti portarono alla ribalta la questione del consumismo a tavola. Tra questi, un ruolo di primissimo piano va senz’altro riservato a Andy Warhol (pseudonimo di Andrew Warhola, 1928-1987), simbolo e anima della Pop Art americana.

Warhol seppe occupare la scena artistica mondiale come pochi prima di lui erano riusciti a fare: adottando linguaggio e stile di vita delle star, venne subito riconosciuto per i suoi comportamenti eccentrici e per le sue attività di tendenza. Il modo in cui Warhol diffuse con ogni mezzo la sua immagine rivela anche il suo interesse per tutto ciò che fosse popolare, pop, appunto. Scegliendo espressamente le tecniche della pubblicità, adoperò come soggetti dei suoi quadri prodotti di uso quotidiano, accessibili a tutti, che venivano riproposti con colori sgargianti per dare loro ancora più visibilità ed elevarli al rango di oggetti d’arte. Il Barattolo di minestra Campbell è forse la sua opera più conosciuta. In realtà, Warhol non voleva essere semplicemente provocatorio o denunciare le cattive abitudini alimentari degli americani. Scegliere questi soggetti per lui significava anzi rifiutare, almeno apparentemente, ogni intellettualismo, cer-

cando forme d’arte che non avessero bisogno di cultura artistica o conoscenze storiche. Le sue opere dovevano arrivare in maniera diretta, proprio come la pubblicità o la vetrina di un negozio. Certo è, però, che le forme del consumismo alimentare erano messe alla berlina, almeno in parte. In alcune opere, infatti, Warhol si prendeva gioco della monotonia della produzione industriale del suo tempo, raffigurando lo stesso soggetto più volte come se il suo quadro rappresentasse gli scaffali di un supermercato. Lo stesso barattolo di minestra Campbell venne riproposto in questa maniera. Una rappresentazione ancora più efficace di questa tecnica arriva però con delle bottigliette di Coca-Cola verdi, il simbolo per eccellenza della civiltà consumistica occidentale. Se l’atteggiamento di Warhol può sembrare ancora leggermente ambiguo di fronte alle

◄ Andy Warhol, Barattolo di minestra Campbell 1960 [Collezione Mr e Mrs Robert Rowan, Los Angeles; © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc., by SIAE 2018]

► Andy Warhol, Green Coca-Cola Bottles 1962 [Museo d’Arte Americana Whitney, New York; © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc., by SIAE 2018]

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abitudini alimentari dell’uomo novecentesco, altri artisti espressero con le loro opere giudizi ben più diretti. Un artista rumeno, Daniel Spoerri (1930), raggiunse la fama proprio additando al mondo gli aspetti più ripugnanti della bulimia consumistica occidentale. Appartenente alla corrente dei nouveaux réalistes, i nuovi realisti, che si ripropone-

vano di recuperare la materialità della vita reale, compresi i suoi rifiuti, Spoerri si dedicò a dei collages che rappresentavano le tavole alla fine di un pasto, che chiamò tableau-piège, quadri-trappola. Ciò che restava di una cena consumata diventava così il simbolo degli sprechi, del deterioramento della natura sotto lo sguardo disattento de-

Daniel Spoerri, Tableau-piège blu 1963 [Collezione Onnasch, Berlino; © Daniel Spoerri, by SIAE 2018]

gli uomini contemporanei, presi dalla loro vita quotidiana. Spoerri credeva così tanto in questo progetto che arrivò ad aprire un ristorante in cui le tavole sporche dei resti dei clienti venivano portate in un laboratorio, dove un suo collaboratore o lui in persona incollavano tutti gli oggetti così come erano stati lasciati. Dedicandosi a rappresentare le tavole del mondo contemporaneo, questi artisti non sceglievano solo oggetti di vita quotidiana per coinvolgere il proprio pubblico o lanciare un messaggio politico-sociale. Di fatto, dipingere l’alimentazione consumistica significava rompere con l’immagine idealizzante che artisti del passato avevano dato del cibo popolare. Se alla fine del ’500 un pittore poteva ritrarre una zuppa di fagioli per rappresentare la purezza delle abitudini contadine, la loro eternità rassicurante rispetto alle trasformazioni del mondo, Warhol o Spoerri dimostravano che la società industriale era arrivata fin dentro le case degli uomini e delle donne del loro tempo. Il mondo agricolo non era più un rifugio dalla modernità, ma una fucina di prodotti in serie consumati in modo squallido o banale.

PISTE DI LAVORO

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a Redigi due piccoli profili biografici degli artisti Andy Warhol e Daniel Spoerri. Vai su Google, digita i nomi dei due artisti nella maschera di ricerca, leggi la loro biografia e redigi i testi, cercando di non superare le 50/60 parole. Ti consigliamo di consultare l’Enciclopedia online della Treccani. b Perché Warhol scelse come soggetti dei suoi quadri i prodotti di uso quotidiano? Cosa voleva dimostrare? c Cosa sono i tableau-piège di Spoerri? Cosa si voleva dimostrare? d Quale messaggio è veicolato dalle opere dei nouveaux réalistes?

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SINTESI

15_1 LA CRESCITA DEMOGRAFICA Tra il 1950 e il 1970 gli abitanti della Terra aumentarono del 50%, mentre la vita media dell’uomo salì da 65 a oltre 70 anni nelle zone più sviluppate e da 40 a 50 nei paesi più poveri: progressi della medicina, nuovi farmaci e vaccinazioni, maggior quantità di cibo e qualità dell’alimentazione furono le principali cause di questo incremento. Si accentuò la forbice fra le tendenze dei paesi industrializzati e quelle dei paesi in via di sviluppo. Negli Stati del Terzo Mondo il regime demografico tipico delle società arretrate fu modificato solo per quanto riguarda la mortalità (soprattutto infantile), mentre i ritardi nel processo di modernizzazione continuarono a impedire che si affermasse l’abitudine al controllo delle nascite. I paesi industrializzati, invece, conobbero una fase di slancio demografico solo nel decennio successivo alla guerra: il periodo del cosiddetto baby boom. Dopo la metà degli anni ’50 riprese il sopravvento la tendenza al calo della natalità, favorito dalle pratiche contraccettive a da una più consapevole pianificazione familiare.

demografica, il costo basso delle materie prime, le scoperte scientifiche, le innovazioni tecnologiche, la razionalizzazione produttiva e il sostegno pubblico alla crescita.

15_3 NUOVI CONSUMI E POLITICHE SOCIALI La conseguenza più vistosa dell’espansione economica postbellica nei paesi industrializzati fu il rapido miglioramento del livello di vita della popolazione. Scese la percentuale di spesa per i prodotti alimentari, aumentò la quota destinata all’abbigliamento, alla casa e soprattutto ai beni e servizi considerati non essenziali. Questo boom dei consumi “superflui” fu favorito dall’aumento dei redditi, dal calo dei prezzi di molti beni prodotti in serie, dall’ampliamento della rete commerciale e dalla moltiplicazione dei messaggi pubblicitari. Di conseguenza, i modelli di consumo nelle aree industrializzate subirono un processo di omologazione. Un impatto rilevante nel far crescere i consumi ebbe anche l’affermazione delle politiche di Welfare a sostegno del reddito in tutti i paesi industrializzati.

15_2 IL BOOM ECONOMICO Negli anni ’50 e ’60 l’economia capitalistica attraversò un periodo di sviluppo senza precedenti: i progressi riguardarono soprattutto l’industria e il settore terziario. A favorire questa straordinaria espansione furono l’esplosione

15_4 LE NUOVE FRONTIERE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA Nel secondo dopoguerra il nesso fra ricerca scientifica

e produzione, che si era instaurato a partire dalla seconda rivoluzione industriale, divenne strettissimo. Il mondo sviluppato fu sommerso da un’ondata di nuovi materiali e di prodotti d’ogni genere in gran parte sconosciuti alla generazione precedente: le maggiori novità furono legate alla diffusione delle materie plastiche, delle fibre sintetiche e dei nuovi farmaci (antibiotici, sulfamidici, insulina e cortisone, psicofarmaci, anticoncezionali). Straordinari miglioramenti si ebbero anche nella chirurgia (trapianti, utilizzo del laser).

15_5 LE IMPRESE SPAZIALI Negli anni ’50 e ’60 del ’900 si sviluppò fra le due maggiori potenze mondiali la competizione per la conquista dello spazio. Nel 1957 i sovietici misero in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik. Nel 1969 gli astronauti americani Armstrong e Aldrin misero piede sul suolo lunare. Negli anni successivi gli sforzi si concentrarono su operazioni meno spettacolari, ma non meno interessanti dal punto di vista scientifico. Le imprese spaziali provocarono una fortissima “ricaduta” di tecnologia che interessò tutti i settori produttivi, compreso quello militare. Il perfezionamento delle tecniche di lancio e di guida a distanza dei missili potenziò i sistemi d’arma delle superpotenze, che affidarono agli arsenali missilistici nucleari la loro capacità deterrente.

15_6 UN PIANETA PIÙ PICCOLO: TRASPORTI E COMUNICAZIONI DI MASSA Un settore in cui gli effetti del progresso tecnologico si fecero subito sentire fu quello dei trasporti. Due furono le principali novità: il boom della motorizzazione privata e lo sviluppo dell’aviazione civile. Gli anni ’50 e ’60 videro anche un rapido aumento della circolazione delle informazioni e dei messaggi, di cui furono protagonisti i mass media: giornali, radio, cinema, e infine televisione, la vera protagonista della storia delle comunicazioni di massa della seconda metà del ’900. Le trasmissioni regolari per il grande pubblico cominciarono negli Stati Uniti subito dopo la seconda guerra mondiale. Nel corso degli anni ’50 la televisione si impose anche in Europa occidentale e, nei decenni successivi, si diffuse nelle aree meno industrializzate. L’avvento della televisione trasformò il mondo dell’informazione, portò lo spettacolo dentro le case e creò anche una nuova cultura di massa. Un’altra fabbrica inesauribile di miti e di idoli popolari fu costituita, a partire dalla fine degli anni ’50, dalla musica “leggera”.

15_7 CRITICA DEL CONSUMISMO E CONTESTAZIONE GIOVANILE Gli sviluppi della civiltà dei consumi da un lato favorirono l’affermazione delle scienze umane (sociologia,

637

C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

scienze politiche, psicologia, psicanalisi), dall’altro furono la causa di un rifiuto ideologico nei confronti di una società accusata di sostituire allo sfruttamento economico di tipo tradizionale una forma più subdola di dominio. La contestazione nei confronti della società del benessere trovò la più larga eco tra i giovani. Questa opposizione si espresse dapprima in un rifiuto delle convenzioni e nella creazione di una cultura alternativa, in seguito assunse forme più politicizzate e trovò i suoi centri propulsori nelle università. La protesta studentesca ebbe inizio negli Stati Uniti, dove si intrecciò col movimento contro la segregazione razziale, e più tardi si estese ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. In Francia ci fu l’episodio più clamoroso: nel maggio 1968 il quartiere latino di Parigi fu teatro di una guerriglia tra studenti e forze di polizia. Le lotte del ’68 lasciarono un

segno profondo nella società occidentale: rilanciarono il mito di una trasformazione rivoluzionaria della società, crearono nuove forme di mobilitazione e riproposero le pratiche della democrazia diretta, influenzando anche i comportamenti individuali.

15_8 IL NUOVO FEMMINISMO Fra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 si assisté a un rilancio della questione femminile. L’impegno del movimento femminista si rivolgeva innanzitutto alla rivendicazione di un trattamento egualitario per il lavoro femminile, ma metteva anche in discussione l’immagine convenzionale

della donna e i ruoli interni alla struttura familiare. Questa nuova ondata femminista, che ebbe origine negli Stati Uniti, segnò una svolta netta rispetto alla fase precedente sia per la radicalità degli obiettivi sia per la novità dei metodi di lotta. Nel corso degli anni ’70 il movimento delle donne allargò il suo seguito in tutti i paesi occidentali ma conobbe anche alcune fratture interne: da una parte c’era la ricerca della parità con l’uomo, dall’altra la rivendicazione della specificità femminile.

preoccupazione al declino delle pratiche religiose e reagì avviando un tentativo di rinnovamento interno. Il nuovo corso ebbe inizio con Giovanni XXIII, che cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa e di instaurare un dialogo con le realtà esterne al mondo cattolico. L’atto più importante del suo pontificato fu la convocazione del Concilio Vaticano II, che si svolse fra il 1962 e il 1965 sotto il Pontificato di Paolo VI. I nuovi fermenti introdotti nella Chiesa dal Concilio provocarono la nascita di nuovi movimenti impegnati a coniugare il messaggio cattolico con un più accentuato impegno nelle lotte sociali (cattolici del dissenso e teologia della liberazione).

15_9 CHIESA E SOCIETÀ: IL CONCILIO VATICANO II La società consumista trovò un critico severo nella Chiesa di Roma, che guardò con

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

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a. La crescita demografica della seconda metà del ’900 riguardò soprattutto i paesi industrializzati mentre in quelli del Terzo Mondo la natalità cominciò a calare alla metà degli anni ’50. ................................................................................................................................................................................. b. Il baby boom si verificò grazie al controllo delle nascite e alla minore durata dei matrimoni. ................................................................................................................................................................................. c. I settori maggiormente interessati dalla crescita economica nella seconda metà del ’900 furono l’industria, l’agricoltura e i servizi. ................................................................................................................................................................................. d. La standardizzazione dei consumi rese più evidenti le differenze tra le classi sociali. ................................................................................................................................................................................. e. La crescita demografica di questi anni portò ad un miglioramento limitato del reddito pro capite. .................................................................................................................................................................................

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f. Col miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, mutò anche la composizione dei consumi. ................................................................................................................................................................................. g. L’applicazione del Welfare State portò una riduzione della spesa pubblica. .................................................................................................................................................................................

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2 Seleziona, fra quelle proposte di seguito, le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche che concorsero allo

sviluppo economico e sociale del secondo dopoguerra in Europa e in Nord America, ma che furono inventate già nella prima metà del ’900.

a. Materie plastiche b. Antibiotici c. Laser d. Psicofarmaci

e. Trapianti di organi f. Fibre sintetiche g. Missili h. Sonde spaziali

3 Inserisci le affermazioni presenti di seguito per completare il seguente schema sui mezzi di comunicazione di massa e

la loro diffusione: a. Le notizie e le immagini poterono essere trasmesse in diretta; b. prime sperimentazioni in Gran Bretagna; c. portò a un diverso uso del tempo libero e a nuove forme di intrattenimento; d. fu resa più maneggevole ed economica; e. si impose nell’Europa occidentale; f. apparecchi a transistor.

La radio

Diffusione dei mezzi di comunicazione di massa

Anni ’50 → ............. (.................)

Anni ’30 → ............................................. Anni ’50 → .............................................. La televisione

Trasformò il mondo dell’informazione: ................................................................. Trasformò il mondo dell’intrattenimento: .................................................................

4 Associa i soggetti (individuali e collettivi) alle azioni che compirono, o alle decisioni che ne seguirono, nell’ambito

della Chiesa cattolica nella seconda metà del secolo.

a. Giovanni XXIII b. Pio XII c. Concilio Vaticano II d. Paolo VI e. Marcel Lefebvre

1. Attribuì un peso maggiore al collegio dei vescovi rispetto al papa e alla Curia romana. 2. Fondò un movimento che contestò ogni apertura al dialogo, in nome del primato dell’unica verità. 3. Legò il suo pontificato alla riaffermazione dei dogmi tradizionali e alla lotta frontale contro il comunismo. 4. Indisse il Concilio ecumenico Vaticano II. 5. Cercò di instaurare un dialogo con le realtà esterne se non ostili al mondo cattolico. 6. Decise la sostituzione della messa in latino con quella nelle lingue nazionali. 7. Chiuse il Concilio Vaticano II. 8. Aveva un’immagine bonaria e un’origine contadina. 9. Affermò la necessità del dialogo con le altre Chiese cristiane. 10. Con due celebri encicliche lanciò un appello al negoziato fra le potenze e alla cooperazione fra i popoli, aprendosi al dialogo con le religioni non cattoliche e con i non credenti.

COMPETENZE IN AZIONE 5 Osserva con attenzione la fotografia dal titolo Le forze dell’ordine fronteggiano gli studenti durante una

manifestazione nel quartiere latino a Parigi a p. 628 e leggine la didascalia. Quindi, immagina di essere uno studente universitario che ha partecipato alle contestazioni di questi anni e scrivi un articolo di giornale (di almeno 15 righe) sulla

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C15 LA CIVILTà DEI CONSUMI

critica del consumismo e sulle contestazioni giovanili del 1968. Argomenta le tue posizioni facendo riferimento a questa fotografia e ai punti della seguente scaletta. a. Rifiuto del consumismo b. “Terzomondismo” c. Discriminazione razziale d. Università e. Cultura alternativa 6 Per analizzare il significato ideologico della conquista dello spazio, rispondi sul quaderno alle seguenti domande:

a. Quando cominciò la corsa allo spazio? Chi vi partecipò? b. A quali finalità rispondevano le esplorazioni spaziali? Che cosa giustificava, sul piano geopolitico, gli enormi investimenti necessari all’impresa? c. Che cosa comportò dal punto di vista militare la corsa alla conquista dello spazio? d. In che senso la conquista dello spazio rinnovò il mito della frontiera? e. Che significato ebbe, nell’immaginario pubblico, la diretta televisiva dell’allunaggio? 7 Scrivi un testo di circa 25 righe in cui, dopo aver fatto un breve riassunto della questione femminile

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e dell’emancipazione della donna, fai un confronto con la realtà che ti circonda, analizzando il tema della parità tra uomini e donne.

U4 IL MONDO DIVISO

FARESTORIA LE POLITICHE DELLA GUERRA FREDDA Alla fine della seconda guerra mondiale, la scena della politica internazionale era dominata da due spinte contrastanti. Da un lato l’aspirazione a un nuovo ordine capace di governare i rapporti fra gli Stati e di rimuovere le cause dei conflitti. Dall’altro la tensione crescente fra i due blocchi in cui si stava dividendo il fronte dei vincitori e, in particolare, tra i due Stati-guida, Usa e Urss, gli unici usciti dalla guerra col rango di “superpotenze” planetarie. La spartizione dell’Europa in zone di influenza, come mostra un famoso passo delle memorie di Winston Churchill [►98d], era già stata preparata a guerra ancora in corso. Il confronto tra Usa e Urss, definito dagli storici “guerra fredda”, avrebbe dominato la politica mondiale per quasi mezzo secolo. Lo storico italiano Mario Del Pero [►99] ricostruisce con chiarezza le cause di fondo e le primissime battute dello scontro fra le superpotenze. Come messo in luce da John L. Harper [►100], il progressivo allontanamento tra i due blocchi ebbe ripercussioni anche in Europa e, soprattutto, in Francia e in Italia, i paesi in cui erano presenti i più forti partiti comunisti dell’Europa occidentale. I due documenti successivi contengono i testi del Patto atlantico [►101d] e del Patto di Varsavia [►102d], i due trattati di alleanza militare che legavano rispettivamente i paesi del blocco occidentale e quelli dell’Europa dell’Est. A partire dalla seconda metà degli anni ’50, la fase più acuta della contrapposizione tra i due blocchi cominciò a esaurirsi. Fu così che, all’inizio degli anni ’60, nonostante la costruzione del Muro di Berlino nel 1961, qui narrata dal giornalista statunitense Norman Gelb [►103d], le relazioni internazionali furono improntate a una politica di progressiva distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Protagonisti di questa fase furono il leader sovietico Nikita Kruscëv e il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy che nell’ultimo testo proposto [►104d] illustra la sua idea della missione statunitense nel mondo.

EUROPA

98d WINSTON CHURCHILL LE ZONE DI INFLUENZA IN

W. Churchill, La seconda guerra mondiale, IX, L’onda della vittoria, Mondadori, Milano 1970, pp. 261-63.

Ancor prima della fine della seconda guerra mondiale, le potenze alleate cominciano ad avviare trattative per definire le rispettive zone di influenza. A Mosca, nell’ottobre 1944, Gran Bretagna e Unione Sovietica raggiungono un accordo provvisorio sulla spartizione dei Balcani, che verrà in seguito parzialmente modificato. A raccontare la nascita di questa intesa è uno dei protagonisti di quella trattativa, Atterrammo a Mosca il pomeriggio del 9 ottobre e fummo ricevuti molto cordialmente e con solenne cerimoniale da Molotov1 e da parecchie alte personalità russe. [...] Alle dieci di sera di quello stesso giorno ebbe luogo la prima riunione importante al Cremlino: erano presenti soltanto Stalin, Molotov, Eden2, e io, oltre agli interpreti [...]. Il momento era favorevole per trattare;

il primo ministro britannico Winston Churchill (1874-1964). In questo brano, tratto dalle sue memorie sulla seconda guerra mondiale, pubblicate tra il 1948 e il 1953, Churchill descrive il suo incontro con Stalin e il brutale realismo con cui i due capi di Stato affrontano uno dei problemi più scottanti per l’equilibrio europeo. Studi recenti hanno mostrato come questo accordo sia stato il frutto di una gestazione più complessa, ma il racconto dello statista britannico resta una preziosa testimonianza sui rapporti fra i leader delle potenze alleate e sul loro atteggiamento alla vigilia della vittoria in guerra.

perciò io dissi: «Sistemiamo le nostre faccende nei Balcani. I vostri eserciti si trovano in Romania e in Bulgaria, dove noi abbiamo interessi, missioni e agenti. Non procediamo a offerte e controfferte stiracchiate. Per quanto riguarda la Gran Bretagna e la Russia, che ne direste se aveste una maggioranza del 90% in Romania e noi una percentuale analoga in Grecia e partecipassimo invece su piede

di perfetta parità in Jugoslavia?». Mentre si procedeva alla traduzione, trascrissi ciò su mezzo foglio di carta:

1. Commissario agli Esteri sovietico dal 1939 al 1949, uno dei più vicini collaboratori di Stalin. 2. Robert Anthony Eden (1897-1977), ministro degli Esteri britannico. Il più stretto collaboratore di Churchill.

641

FARESTORIA Le politiche della guerra fredda

Romania: Russia 90%; gli altri 10% Grecia: Gran Bretagna (d’intesa con gli Stati Uniti) 90%; Russia 10% Jugoslavia: 50-50% Ungheria: 50-50% Bulgaria: Russia 75%; gli altri 25%. Passai il foglietto attraverso il tavolo a Stalin, che nel frattempo aveva udito la traduzione. Ci fu una piccola pausa. Poi prese la sua matita blu e con essa tracciò un grosso segno di «visto» sul foglio, che quindi ci restituì. La faccenda fu così completamente sistemata in men che non si dica.



Naturalmente noi avevamo in precedenza esaminato a lungo e con estrema attenzione la proposta; d’altro canto, si trattava soltanto di accordi che dovevano servire immediatamente, finché durava la guerra. Entrambe le parti riservarono tutte le questioni di maggiore importanza per quella che noi speravamo sarebbe stata la conferenza della pace a guerra finita. Seguì un lungo silenzio. Il foglio segnato a matita era lì al centro della tavola. Finalmente io dissi: «Non saremo considerati cinici per il fatto che abbiamo deciso questioni così gravide di conseguenze

99 M. DEL PERO LE PREMESSE DELLO SCONTRO

M. Del Pero, La guerra fredda, Carocci, Roma 2001, pp. 15-21.

Lo storico delle relazioni internazionali Mario Del Pero ricostruisce in questo brano le ragioni del contrasto tra Stati Uniti e Unione Sovietica alla fine del secondo conflitto mondiale. All’origine della rottura della “grande alleanza” che aveva consentito la vittoria sulle potenze fasciste ci fu sicuramente un

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La Seconda guerra mondiale determinò una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali. Alla sconfitta della Germania nazista corrispose il definitivo tramonto di quel modello eurocentrico e multipolare che aveva contraddistinto le relazioni internazionali nei secoli precedenti. Tre nazioni uscivano vincitrici dal conflitto: gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna. Di queste, però, solamente le prime due erano in grado di assumere un ruolo di grandi potenze anche nel periodo postbellico. I costi dello sforzo bellico e la debolezza economica e militare rispetto a USA e URSS impedivano a Londra di continuare a svolgere un ruolo preminente negli affari internazionali. Con la fine del conflitto si affermava pertanto un sistema di relazioni internazionali di tipo bipolare. Due erano infatti le grandi potenze rimaste sulla scena. Si trattava peraltro di un bipolarismo non privo di alcune rilevanti asimmetrie, destinate a caratterizzare l’andamento dell’intero secondo dopoguerra. L’impegno bellico era costato agli Stati Uniti circa 400 mila vittime e un milione di feriti. A fronte di questo rilevante sacrificio, il paese usciva dalla guerra assai più ricco e florido di prima. [...] Tale predominio economico si combinava con una chiara superiorità militare, maturata nel corso del conflitto e simboleggiata dal

U4 IL MONDO DIVISO

per milioni di uomini in maniera così improvvisata? Bruciamo il foglio». «No, conservatelo voi» disse Stalin. E così feci.

METODO DI STUDIO

 a Cerchia i nomi delle aree coinvolte dalla guerra di cui discutono i due leader; quindi spiega quale importanza vi attribuiscono.  b  Spiega chi è l’autore del brano, quale evento sta descrivendo e che giudizio etico e/o politico sembra darne. Argomenta la tua posizione facendo riferimento a specifiche parti del brano.

intreccio fra spinte ideologiche (capitalismo contro comunismo) e fattori geopolitici di carattere strutturale, ma soprattutto quello che l’autore chiama «il dilemma della sicurezza», ovvero il timore, da parte dei leader di entrambe le superpotenze, che dietro le proposte di collaborazione si nascondessero propositi di egemonia tesi a cancellare, nelle rispettive zone di influenza, la supremazia appena acquisita.

possesso dell’arma nucleare. Gli USA disponevano pertanto di una forza preponderante che garantiva loro una posizione di preminenza unica e senza precedenti negli affari mondiali. Diversa era invece la situazione dell’Unione Sovietica. La marcia dell’Armata rossa verso occidente aveva posto le premesse per la creazione di una sfera d’influenza sovietica in Europa orientale. Questa, assieme alle potenzialità militari convenzionali dell’URSS e alla sua disponibilità di risorse naturali, costituiva il maggior elemento di forza a disposizione del regime bolscevico. Benché vincitrice, Mosca usciva da un conflitto che ne aveva devastato il territorio e che aveva causato la morte di una percentuale considerevole della sua popolazione maschile adulta. Il bipolarismo postbellico fu quindi da subito un bipolarismo asimmetrico. E non fu immediatamente un bipolarismo conflittuale. Entrambe le superpotenze [...] auspicavano la continuazione anche in tempo di pace della collaborazione del periodo bellico. Nelle intenzioni dei dirigenti statunitensi e sovietici questa collaborazione avrebbe garantito la sicurezza nazionale dei due paesi. Ma a Washington come a Mosca il concetto di sicurezza nazionale era inteso in un senso assai ampio, in cui le tradizionali dimensioni militari e geopolitiche venivano ora integrate

da considerazioni economiche, politiche e ideologiche. Ne derivava da ambo le parti una nozione per certi aspetti massimalista di sicurezza, che finì per porre le premesse dell’irresolubile dilemma dal quale originò l’antagonismo bipolare della guerra fredda: le azioni finalizzate al raggiungimento della sicurezza da parte di una delle due superpotenze tendevano oggettivamente a ingenerare insicurezza e paura nella controparte, causando una risposta da parte di questa, che a sua volta appariva offensiva e minacciosa. In una sorta di spirale viziosa – prodotta, appunto, dal cosiddetto “dilemma della sicurezza” – i due contendenti preferivano consolidare unilateralmente le proprie posizioni che correre il rischio, cooperando, di avvantaggiare la controparte. I progetti statunitensi per il dopoguerra si articolavano attorno ad alcuni presupposti fondamentali e irrinunciabili. Da un punto di vista geopolitico veniva ribadito uno degli assiomi fondamentali della politica estera statunitense: la necessità di evitare che una singola potenza potesse assumere il controllo dell’intera Eurasia. [...] A monte vi era l’intrinseca convinzione della superiorità del modello americano e della necessità che un mondo stabile, prospero e democratico dovesse essere il più possibile rimodellato a immagine e somiglianza degli Stati Uniti. [...]

La posizione sovietica poggiava sulla convinzione della necessità e possibilità di continuare a cooperare con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ottenendo così gli aiuti economici per la ricostruzione del paese. Il caposaldo centrale con cui Mosca riteneva di poter rafforzare la propria sicurezza era rappresentato dalla costituzione di una sfera d’influenza in Europa orientale. [...] Garantirsi l’amicizia e il sostegno dei paesi dell’Europa orientale voleva dire estendere la propria fascia difensiva attraverso la creazione di una zona cuscinetto tra l’URSS e l’Europa occidentale. Il piano sovietico di rafforzare la propria sicurezza attraverso un’estensione di tipo imperiale era generalmente riconosciuto come legittimo a Washington e a Londra. Ben

presto sorsero però incomprensioni e attriti sulle modalità con cui doveva essere esercitato il controllo di Mosca sui paesi dell’Europa orientale. [...] Le prime crepe nella coalizione alleata del tempo di guerra furono causate sia da elementi oggettivi sia da precisi eventi e decisioni politiche. Da un punto di vista sistemico, la configurazione bipolare ben presto assunta dagli assetti internazionali acuiva l’antagonismo tra USA e URSS: un sistema caratterizzato dalla presenza di due poli egemoni e dominanti tende infatti di per sé a stimolare e accentuare la competizione e le conflittualità tra loro. A ciò va aggiunto un secondo aspetto venutosi a determinare con la fine del conflitto: la scomparsa di un nemico comune

100 J.L. HARPER IL CONSOLIDAMENTO DEI BLOCCHI: LA PRIMAVERA DEL 1947



J.L. Harper, La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, il Mulino, Torino 2013, pp. 84-88.

Nell’Europa occidentale operavano, nel corso di tutta la guerra fredda, due forti partiti comunisti: il Pci in Italia e il Pcf in Francia. Entrambi queste formazioni rimasero – con modalità La crisi generale dell’Europa occidentale si compose di tre crisi distinte, sebbene interconnesse, che giunsero a maturazione simultaneamente nel primo semestre del 1947. Osservando il clima politico dopo il 1945, un commentatore scrisse: «Nessuno in Europa crede nel modo di vita americano; vale a dire, nell’iniziativa privata». Agli occhi di molti, il capitalismo liberista era stato screditato dalla depressione, e il nazionalismo estremo dalla guerra. In Gran Bretagna, il Partito laburista lanciò un programma per creare un welfare state e assumere la direzione dell’economia nell’interesse collettivo. Il Pcf e il Pci si crogiolarono nella gloria riflessa di Stalin e dell’Armata Rossa, ma guadagnarono anche prestigio e popolarità guidando la resistenza contro l’occupazione nazista e i governi collaborazionisti. Milioni di non comunisti erano favorevoli alla difesa della sovranità nazionale e alla sfida alla dominazione politica e culturale americana – la «cocacolizzazione» – che i comunisti pretesero di incarnare. […] Il numero degli iscritti al Pci crebbe da circa 5.000 nel 1943 a 1,7 milioni alla fine del 1945. Nelle elezioni all’assemblea co-

(la Germania nazista) che imponeva forzosamente la cooperazione tra le potenze alleate. Il venir meno di questo elemento di coesione, sia pure negativo, apriva la strada al riemergere di sospetti e diffidenze reciproci. METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia con colori diversi i nomi delle due potenze descritte e sottolinea gli elementi che le caratterizzavano alla fine della guerra, mantenendo gli stessi colori.  b  Sottolinea e numera le caratteristiche attribuite dall’autore al bipolarismo postbellico.  c  Individua e descrivi per iscritto le premesse all’antagonismo che caratterizzò la guerra fredda. Quindi metti in rilievo le ambiguità che lo storico rileva nei progetti americani e sovietici.

e fedeltà diverse – legate all’Unione Sovietica, nonostante i loro paesi facessero parte – con gradi differenti – del blocco occidentale. Secondo lo storico statunitense John L. Harper, ciò suscitava molti timori circa la fedeltà al proprio paese dei due partiti e delle loro centinaia di migliaia di iscritti: per questo motivo, a partire dal 1947, gli Usa fecero pressioni per estrometterli dai ruoli di governo.

stituente del giugno 1946, il Pci e il suo alleato, il Partito socialista (Psiup), conquistarono il 38% dei voti. Nelle elezioni legislative del novembre 1946, il Pcf conquistò il 28% e numerosi seggi in parlamento. In linea con la strategia di Mosca, i due partiti si concentrarono sul consolidamento della democrazia e sulla crescita di alleanze interclassiste. Il Pci mantenne le distanze dai progetti di nazionalizzazione e perfino da una modesta proposta di tassa patrimoniale che avrebbero potuto alienargli il sostegno delle classi medie. [….] Il problema per Washington e per gli anticomunisti locali, tuttavia, era l’apparente doppiezza dei comunisti: in buona sostanza, si sospettava che il Pcf e il Pci stessero facendo il doppio gioco. Mentre mantenevano un comportamento moderato e si ritagliavano spazi crescenti nei ministeri, nei sindacati e nel mondo della cultura (università, case editrici, cinema), si sospettava che i due partiti si preparassero a prendere il potere o con mezzi legali o, avendone l’opportunità, con la forza. In realtà, né Togliatti né la sua controparte francese, Maurice Thorez, pensarono mai seriamente di seguire l’esempio

del Kke1. Durante la campagna elettorale del 19482, condotta in un clima di violenta conflittualità, Molotov, rispondendo a una richiesta di Togliatti, gli trasmise segretamente l’opinione del Cremlino, ovvero che, tranne in caso di attacco armato al Pci, un’insurrezione sarebbe stata una «pericolosa avventura». […] La paura di quello che i comunisti avrebbero potuto fare influenzò negativamente l’economia francese e quella italiana. Nel timore di vedere le loro proprietà tassate o confiscate, gli imprenditori trasferirono i loro capitali all’estero. Benché non proponessero trasformazioni radicali, i comunisti usarono la loro influenza nel governo, nei sindacati e nei consigli di fabbrica per cercare di difendere i posti di lavoro e il tenore di vita della loro base. Anche questo costituì un ostacolo alla ripresa secondo un modello capitalistico, e gli stessi

1. Il Partito comunista greco, che tra il 1946 e il 1949 combatté una guerra civile con lo scopo di prendere il potere contro le forze filooccidentali [►12.2]. 2. ►FS, 106 e 107.

643

FARESTORIA Le politiche della guerra fredda

comunisti non proposero alcuna fondamentale alternativa. Gli impianti industriali italiani, come quelli tedeschi, avevano subito danni sorprendentemente lievi […], ma le fabbriche avevano urgente bisogno di razionalizzazione e ammodernamento dei macchinari. Ciò significava che centinaia di migliaia di lavoratori nei settori automobilistico e metalmeccanico, nelle acciaierie e nei cantieri navali, si sarebbero trovati in esubero. Ma, temevano in molti, se gli operai avessero perso il lavoro o il tenore di vita fosse crollato a causa della scarsità dei generi alimentari e del combustibile e dell’inflazione galoppante, i comunisti ne avrebbero tratto vantaggio, divenendo una minaccia ancora maggiore. […] Anche se il Pci e il Pcf esercitavano un’influenza moderatrice, gli anticomunisti scoprirono che ingigantire la minaccia comunista era un mezzo quasi infallibile per inchiodare l’attenzione americana sulla necessità di soccorso. Quando il principe di Monaco si offrì scherzosamente di accogliere qualche comunista italiano, De Gasperi ribatté: «Ho bisogno di ogni comunista che riesco a trovare». Ma i conservatori e i socialisti moderati erano sinceramente convinti che i comunisti e i loro sostenitori sovietici avrebbero cercato di sfruttare il caos economico.



Il primo ministro italiano e quello francese riconoscevano inoltre che la presenza di ministri comunisti nei loro governi era una fonte di ansietà in America a costitui­ va un ostacolo alla continuazione degli aiuti materiali. La crisi politica e quella economica si rafforzarono a vicenda agli inizi del 1947. […] L’Europa aveva affrontato un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti3 aggravato dalla guerra, vale a dire una scarsità di dollari con cui pagare il grano, il carbone, il cotone e le attrezzature industriali che solo gli Stati Uniti erano in grado di fornire in abbondanza. Questo «dollar gap»4 stava raggiungendo un punto critico, minacciando di recessione economica l’area europea; ma non perché le economie europee fossero paralizzate, bensì per la ragione contraria: era il rapido ritmo della ripresa a determinare la fame di dollari in Europa. […] L’approvazione del pacchetto Grecia-Turchia5 non voleva dire che il Congresso sarebbe stato pronto a rimettere mano al portafoglio. I funzionari dell’ambasciata americana a Roma chiarirono senza mezzi termini che l’Italia avrebbe dovuto prima «mettere ordine in casa sua». Anche se il messaggio non fu così esplicito, le aspettative degli Stati Uniti nei riguardi della Francia furono analoghe. Nel maggio 1947, quando

3. Il conto del valore degli scambi commerciali di beni, denaro e titoli di un paese con gli altri. 4. Scarsità di dollari. 5. Aiuti economici – pari a circa 400 milioni di dollari – varati nel febbraio 1947 dal Congresso statunitense su pressione del presidente Truman e diretti a Grecia e Turchia.

METODO DI STUDIO

 a  Cerchia i nomi dei soggetti storici collettivi protagonisti del brano. Trascrivili sul quaderno e riassumi per iscritto i maggiori eventi che li riguardano.  b  Descrivi il rapporto esistente negli anni esaminati tra il Pcf, il Pci, “Mosca” e “Washington”.  c  Spiega in cosa consiste il «dollar gap» citato e cosa comportò.

101d IL PATTO ATLANTICO

Trattato dell’Atlantico del nord, in E. Anchieri, La diplomazia contemporanea. Raccolta di documenti diplomatici (1815-1956), Cedam, Padova 1959, pp. 223-25.

Il Patto atlantico, un’alleanza militare che impegnava le parti contraenti a intervenire in difesa dei membri che fossero stati oggetto di un’aggressione [►12_4], fu ratificato a Washing­ ton il 4 aprile del 1949 da dodici paesi occidentali, che si dotarono di una forza militare integrata, la Nato (North Atlantic Treaty Organization). Esso sanciva lo stretto rapporto di collaborazione tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti Gli Stati Parti del presente trattato, Riaffermando la loro fede nei fini e nei principi della Carta delle Nazioni Unite1 e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e tutti i governi, Decisi a salvaguardare la libertà dei loro popoli, il loro comune patrimonio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, delle libertà individuali e dell’impero del diritto,

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il Pcf scelse di appoggiare gli operai della Renault che scioperavano per ottenere un aumento sfidando il blocco dei salari deciso dal governo, il premier Paul Ramadier espulse dal governo i ministri comunisti. Quando nello stesso mese il governo italiano cadde, De Gasperi formò un gabinetto senza ministri comunisti e socialisti e adottò misure pesanti per contenere l’inflazione. Ma con la sinistra ora all’opposizione, la battaglia politica si intensificò in parlamento e nelle strade della città.

U4 IL MONDO DIVISO

che caratterizzò tutto il dopoguerra. Formalmente l’iniziativa dell’alleanza partì dagli Stati europei (in particolare dalla Francia o dalla Gran Bretagna), che chiedevano una collaborazione con gli Stati Uniti nel timore di un’aggressione sovietica o dell’emergere di eventuali tendenze revansciste della Germania occidentale. Gli Stati Uniti, da parte loro, rafforzarono attraverso la Nato la loro egemonia atlantica e trovarono nuovi alleati nel confronto bipolare con l’Unione Sovietica.

Intesi a favorire nella regione dell’Atlantico del Nord il benessere e la stabilità, Risoluti a unire i loro sforzi per la comune difesa e per la conservazione della pace e della sicurezza, Si sono accordati sul presente trattato dell’Atlantico del Nord: Art. 1 Le Parti s’impegnano, come è anche stabilito nella Carta delle Nazioni Unite, a regolare con mezzi pacifici ogni contro-

versia internazionale nella quale potrebbero trovarsi implicate, in modo che la pace e la sicurezza internazionali, come anche la giustizia, non siano messe in pericolo, e ad astenersi nelle loro relazioni internazionali dal ricorrere alla minaccia

1. ►12_1.

o all’impiego della forza incompatibili con i fini delle Nazioni Unite. Art. 2 Le Parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli rafforzando le loro libere istituzioni, assicurando una migliore comprensione dei principi sui quali tali istituzioni sono fondate e sviluppando le condizioni adatte ad assicurare la stabilità e il benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni opposizione nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la collaborazione economica con ciascuna di esse o con tutte. Art. 3 Al fine di assicurare nel modo più efficace la realizzazione dei fini del presente trattato, le Parti, agendo individualmente e congiuntamente, in maniera continua ed efficace, attraverso lo sviluppo dei propri mezzi e prestandosi mutua assistenza, manterranno e accresceranno la loro capacità individuale e collettiva di resistenza ad un attacco armato. Art. 4 Le Parti si consulteranno ogni volta che, su parere di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle Parti saranno minacciate.



Art. 5 Le Parti convengono che un attacco contro una o più di esse, che avvenisse in Europa o nell’America del Nord, sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le Parti e, di conseguenza, convengono che, se si verifica un tale attacco, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, assisterà la Parte o le Parti in tal modo attaccate, prendendo al più presto, individualmente e d’accordo con le altre Parti, quei provvedimenti che riterrà necessari, ivi compreso l’impiego della forza armata, per ristabilire ed as­ sicurare la sicurezza nella regione del­ l’Atlantico del Nord. Ogni attacco armato di tale natura ed ogni misura presa in conseguenza saranno immediatamente portati a conoscenza del Consiglio di Sicurezza2. Tali misure avranno fine quando il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Art. 6 Per l’applicazione dell’art. 5, si considera come attacco armato contro una o più delle Parti: un attacco armato contro

il territorio di una di esse in Europa o in America del Nord, contro i dipartimenti francesi d’Algeria, contro le forze d’occupazione di una qualunque delle Parti in Europa, contro le isole poste sotto la giurisdizione di una delle Parti nella regione dell’Atlantico del Nord, a nord del Tropico del Cancro, o contro le navi o aeronavi di una delle Parti nella stessa regione. [...] Art. 10 Le Parti possono, mediante unanime accordo, invitare ad accedere al trattato ogni altro Stato europeo che possa favorire lo sviluppo dei principi del presente trattato e contribuire alla sicurezza della regione del Nord Atlantico. 2. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu [►12_1].

METODO DI STUDIO

 a Indica per gli articoli riportati un titolo che ne sintetizzi i contenuti e descrivi questi ultimi attraverso due-cinque parole chiave.  b  Stila una presentazione del documento rispondendo alle 5W del giornalismo anglosassone (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?).

102d IL PATTO DI VARSAVIA

Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza di Varsavia, 14 maggio 1955, in E. Anchieri, La diplomazia contemporanea. Raccolta di documenti diplomatici (1815-1956), Cedam, Padova 1959, pp. 293-95.

Il 14 maggio 1955, in seguito all’adesione della Germania occi­­ dentale alla Nato [►12_4 e FS, 101d], l’Unione ­Sovietica strinse con i paesi del blocco orientale un’alleanza basata anch’essa su un’organizzazione militare integrata. Il Patto di Varsavia – a Le Parti Contraenti, Riaffermando il loro desiderio di creare in Europa un sistema di sicurezza collettiva fondato sulla partecipazione di tutti gli Stati europei qualunque sia il loro regime sociale e politico, il che permetterà di unire i comuni sforzi per assicurare il mantenimento della pace in Europa; Tenendo conto, inoltre, della situazione creatasi in Europa in seguito alla ratifica degli accordi di Parigi, che prevedono la costituzione di un nuovo organismo militare sotto la forma di «Unione dell’Europa Occidentale»1, che comportano la partecipazione della Germania occidentale rimilitarizzata e la sua integrazione nel blocco dell’Atlantico del Nord, ciò che au-

cui oltre all’Urss aderirono l’Albania, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Repubblica democratica tedesca, la Romania e l’Ungheria – confermò la divisione dell’Europa in due blocchi, apertamente contrapposti ma in grado di coesistere sulla base di un riconoscimento reciproco delle proprie sfere di influenza. Il Patto di Varsavia fu sciolto nel 1991, dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo delle «democrazie popolari» [►CAP17].

menta i rischi di una nuova guerra e crea una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati pacifici; Convinti che, in tali condizioni, gli Stati pacifici dell’Europa debbano prendere le misure necessarie sia per garantire la loro sicurezza sia nell’interesse del mantenimento della pace in Europa; Ispirandosi ai fini ed ai principi della Carta delle Nazioni Unite; Desiderosi di consolidare e di sviluppare vieppiù la loro amicizia, la loro cooperazione e la loro mutua assistenza, in conformità ai principi del rispetto dell’indipendenza e della sovranità degli Stati e della non-ingerenza nei loro affari interni; Hanno deciso di concludere il presente

trattato di amicizia, di cooperazione e di mutua assistenza [...]: Art. 1 Le Parti Contraenti s’impegnano, in conformità alla Carta delle Nazioni Unite, ad astenersi, nelle relazioni internazionali, dal ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza, ed a regolare le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in modo che la pace e la sicurezza internazionali non vengano messe in pericolo. 1. Gli accordi di Parigi del 23 ottobre 1954 ratificarono la nascita dell’Unione dell’Europa Occidentale (Ueo) e permisero l’adesione della Germania federale che non era ancora membro della Nato, al sistema di difesa collettivo.

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FARESTORIA Le politiche della guerra fredda

Art. 2 Le Parti Contraenti si dichiarano pronte a partecipare con spirito di sincera cooperazione a tutte le azioni internazionali che abbiano come scopo quello di assicurare la pace e la sicurezza internazionali, e consacreranno tutte le proprie forze alla realizzazione di tali obiettivi. Per le stesse ragioni, le Parti Contraenti si sforzeranno, in accordo con gli altri Stati desiderosi di cooperare a tale opera, di far adottare efficaci misure tendenti alla generale riduzione degli armamenti ed all’interdizione delle armi atomiche, delle armi termonucleari e delle altre armi di distruzione massiccia. Art. 3 Le Parti Contraenti si consulteranno [...] d’urgenza per assicurare una difesa collettiva e per mantenere la pace e la sicurezza, ogni volta che, su parere di una di esse, si presenterà una minaccia di aggressione armata contro uno o più degli Stati parti al trattato. Art. 4 Nel caso in cui uno o più degli Stati

parti al trattato fossero oggetto, in Europa, di attacco armato da parte di un qualsiasi Stato o di un gruppo di Stati, ogni Stato parte al trattato, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, accorderà, individualmente e d’accordo con gli altri Stati parti al trattato un’assistenza immediata allo Stato o agli Stati vittime dell’aggressione, con tutti i mezzi che riterrà opportuni, compreso l’impiego della forza armata. […] Le misure prese in virtù del presente articolo saranno portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza2, secondo le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite. Avranno termine non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le indispensabili misure per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Art. 5 Le Parti Contraenti si sono accordate circa la creazione di un Comando unifica-

103d NORMAN GELB LA NOTTE DEL MURO DI BERLINO

N. Gelb, Il muro, Mondadori, Milano 1987, citato in Atlante del XX secolo. I documenti essenziali, 1946-1968, a c. di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 232-36.

Dopo la seconda guerra mondiale, la città di Berlino fu divisa in quattro settori (statunitense, britannico, francese, sovietico). Quando i tre settori occidentali furono unificati, la città si trovò di fatto divisa in due zone, una occidentale, sotto il controllo alleato, e una orientale, controllata dai sovietici. Per cercare di fermare i trasferimenti di tedeschi che dall’Est passavano in Oc-

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Il 13 agosto 1961, poco dopo l’una di notte, il rumore assordante di veicoli pesanti ruppe il silenzio delle strade altrimenti deserte del settore sovietico di Berlino. Svegliata nel sonno, la gente poté vedere dalle finestre convogli di camion e mezzi di trasporto delle truppe dirigersi a gran velocità verso il confine tra Berlino est e Berlino ovest. La fila dei convogli era senza fine. In due ore furono dislocati lungo il confine migliaia di soldati coi caschi e di polizia armata della Germania orientale. […] Persino lungo i tratti normalmente quieti della linea di confine risuonavano duramente, nella notte tiepida, le grida di comando degli ufficiali tedesco orientali che guidavano i loro uomini nelle posi-

U4 IL MONDO DIVISO

to per le forze armate che esse stabiliranno di concerto di porre sotto i suoi ordini. [...] Art. 8 Le Parti Contraenti dichiarano che esse agiranno con spirito di amicizia e di collaborazione per sviluppare e consolidare ancora di più i legami economici e culturali esistenti fra di loro, ispirandosi al principio del mutuo rispetto dell’indipendenza e della sovranità, ed al principio della non ingerenza negli affari interni dei popoli. 2. ► FS, 101d, nota 2.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi le cause e gli obiettivi del patto.  b  Indica per ogni articolo citato un titolo che ne riassuma i contenuti.  c  Inventa uno slogan che chiarisca i vantaggi per i paesi aderenti al Patto di Varsavia.

cidente attraverso Berlino, il governo della Germania orientale chiese ai sovietici di poter definitivamente chiudere il confine tra le due parti della città: l’Urss approvò questa richiesta all’inizio dell’agosto 1961 e, nella notte tra 12 e 13 agosto, polizia ed esercito cominciarono a costruire i primi sbarramenti di filo spinato e poi un alto muro di cemento, che circondò tutta Berlino Ovest per oltre 150 chilometri [►12_9]. Il Muro divenne così l’emblema della divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Nel seguente brano, il giornalista statunitense Norman Gelb (nato nel 1929), che si trovava a Berlino proprio durante la costruzione del Muro, fornisce un resoconto di quelle tragiche ore.

zioni. Sentinelle con armi automatiche furono collocate ai punti di incrocio tra i settori occidentali e il settore orientale della città. Furono stabilite le posizioni delle mitragliatrici, e pattuglie di controllo furono inviate a ispezionare il confine. Furono scavati buchi e fossati, trapanati marciapiedi, abbattuti alberi, in pratica fu fatto il vuoto per il filo spinato che doveva essere steso lungo quella linea che aveva diviso Berlino est da Berlino ovest fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Fino a quella notte, quella linea era stata contrassegnata con cartelli che in inglese, in russo, in francese e in tedesco informavano la gente che stavano passando da una parte all’altra della città. Senza fare

la minima attenzione a quei cartelli decine di migliaia di berlinesi attraversavano e riat­traversavano il confine ogni giorno, per andare a lavorare, per andare a trovare i parenti e gli amici, per andare al cinema o al teatro, o soltanto per fare una passeggiata. Ora, l’accordo Est-Ovest sulla libertà di movimento a Berlino veniva unilateralmente infranto. Una barriera fisica sorgeva nel mezzo della città a contrassegnare il punto in cui presto sarebbe stato innalzato il Muro. Le truppe e la polizia tedesco orientali stavano già attanagliando il traffico cittadino e riportando indietro i berlinesi orientali diretti a ovest. Durante la notte, camion militari della Germania

orientale rumoreggiarono a Berlino est ammucchiando balle di filo spinato e pali di cemento armato dove il filo spinato doveva essere steso. Durante tutta la notte, la gente che viveva presso la linea di confine scrutò con apprensione quell’inconsueto spettacolo notturno. Al mattino, Berlino era già stata divisa in due. […] Alle dodici di quella domenica mattina, il reticolato di filo spinato, in certi punti alto quasi due metri, era saldamente installato lungo ampi tratti del confine di settore. E dove non lo era, ce n’era l’inizio. L’aria ancora risuonava del fragore dei martelli pneumatici che aprivano buche in terra per piantare i pali. I bulldozer ammonticchiavano cumuli di detriti in diversi punti del confine. Dappertutto, uomini armati […]. A est del reticolato, ma tenuti a distanza,

UNITI

capannelli di berlinesi orientali, sbigottiti più che impauriti, sconcertati più che furiosi, seguivano il procedere dei lavori. Il pieno significato di quanto stavano osservando ancora sfuggiva loro. Era difficile afferrare il fatto che le strade che da mattina a sera avevano attraversato con noncuranza […] erano non solo vietate, ma sbarrate da uomini in uniforme pronti a sparare. Sul lato occidentale del confine di settore, tutta la polizia a disposizione era in servizio per controllare folle sempre più ampie, sempre più furenti. Molti che vivevano lontani dalla zona del confine e arrivavano adesso, avevano saputo quanto stava avvenendo soltanto quando avevano ricevuto preoccupate telefonate di parenti, da Ber­ lino ovest o dalla Germania occidentale, che avevano sentito i resoconti dei radio-

104d JOHN F. KENNEDY LA MISSIONE DEGLI STATI

J.F. Kennedy, Obiettivo mondo nuovo, Opere Nuove, Roma 1962, pp. 24-28.

Dopo l’elezione di John F. Kennedy (1917-1963) alla presidenza, nel 1960, gli Stati Uniti avviarono una nuova politica di distensione con l’Urss, pur senza rinunciare alla corsa agli armamenti e a una difesa intransigente dei propri interessi nazionali in diverse aree del pianeta [►12_9]. Nel discorso d’insediamento alla Casa Bianca, pronunciato il 20 gennaio Noi celebriamo oggi non una vittoria di partito, ma una affermazione di libertà, che simboleggia una fine e al tempo stesso un principio, che significa un rinnovamento e al tempo stesso un mutamento. [...] Che da questo luogo e da questo momento si diffonda l’annuncio, all’amico come al nemico, che la fiaccola è stata trasmessa ad una nuova generazione di Americani, [...] non disposti a considerare passivamente o a permettere il lento disfacimento di quegli umani diritti che questa nazione ha sempre sostenuto e che noi oggi ci impegniamo a sostenere in patria e in tutto il mondo. Che ogni nazione, auspichi essa bene o male per noi, sappia che noi siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo, sostenere qualsiasi onere, affrontare qualsiasi prova, appoggiare qualsiasi amico, opporci a qualsiasi nemico per assicurare la sopravvivenza e il trionfo della libertà.

giornali. Alcuni in città avevano ricevuto telefonate da berlinesi occidentali fuori città, o all’estero per affari o vacanza, preoccupati per la sicurezza delle loro famiglie o che, nella confusione del momento, temevano di non poter più tornare a casa. […] Molti […] lungo il reticolato gridavano contro i poliziotti e i soldati tedesco-orientali, con tono supplichevole o amaro, chiedendo loro se non si vergognavano, se avevano il coraggio di dirsi ancora tedeschi.

METODO DI STUDIO

 a   Indica quale evento viene raccontato dall’autore e almeno tre aggettivi che lo definiscano dal suo punto di vista.  b   Spiega per iscritto il significato dell’evento descritto e la percezione che ne ebbe la popolazione.

1961, Kennedy rilanciò gli ideali e i valori della tradizione democratica statunitense: la difesa dei diritti dell’uomo rappresentava l’insostituibile missione degli Stati Uniti, impegnati a lottare per «il trionfo della libertà» in ogni angolo della Terra. Con uno stile semplice ed efficace, rafforzato da un indubitabile carisma, Kennedy cercò di accreditare un’immagine nuova degli Stati Uniti. Questa abile strategia politica contribuì anche alla formazione del suo mito personale, ancora vivo oggi a decenni di distanza dal suo assassinio a Dallas.

A questo ci impegniamo, e ad altro ancora. A quegli antichi alleati di cui condividiamo le origini culturali e spirituali, promettiamo la lealtà di amici fedeli. [...] A coloro che nelle capanne e nei villaggi di metà del mondo lottano per infrangere le catene di una diffusa miseria, promettiamo i nostri sforzi migliori per aiutarli a provvedere a se stessi, per tutto il tempo che sarà necessario, non perché i comunisti facciano altrettanto, non perché desideriamo il loro voto, ma perché questo è giusto. Se una società libera non riesce ad aiutare i molti che sono poveri, non riuscirà mai a salvare i pochi che sono ricchi. Alle Repubbliche sorelle a sud dei nostri confini, offriamo una speciale promessa: di tradurre le nostre buone parole in fatti concreti, in una nuova alleanza per il progresso, di assistere gli uomini liberi ed i governi liberi a spezzare le catene della

povertà. Ma questa pacifica rivoluzione della speranza non deve servire alle mire predaci di potenze ostili. Che tutti i nostri vicini sappiano che ci uniremo a loro nell’opporci all’aggressione o alla sovversione in qualsiasi parte delle Americhe. E che ogni altra potenza sappia che questo emisfero intende rimanere padrone dei propri destini. A quell’assemblea di Stati sovrani che sono le Nazioni Unite, nostra ultima grande speranza in un’èra in cui gli strumenti di guerra hanno di gran lunga e rapidamente oltrepassato gli strumenti di pace, rinnoviamo il nostro impegno di appoggiarle, ad impedire che esse divengano unicamente una tribuna per aspre polemiche, a rafforzarle come scudo dei paesi nuovi e dei paesi deboli e ad ampliare l’area in cui la loro parola può avere valore di legge. Infine, a quelle nazioni che potrebbero divenire nostre avversarie, offriamo non

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FARESTORIA Le politiche della guerra fredda

già un impegno bensì una richiesta: che entrambe le parti inizino ex novo1 la ricerca della pace, prima che le potenze tenebrose della distruzione scatenate dalla scienza travolgano tutta l’umanità in un deliberato o accidentale autoannientamento. [...] Non dobbiamo mai negoziare per timore, ma non dobbiamo mai aver timore di negoziare. Che entrambe le parti esplorino i problemi che le uniscono, anziché dibattere quelli che le dividono. Che entrambe le parti, per la prima volta, formulino serie e precise proposte per l’ispezione e il controllo degli armamenti, e pongano il potere assoluto di distruggere altre nazioni sotto l’assoluto controllo di tutte le nazioni. [...]

Ed ora l’appello della tromba suona ancora una volta per noi: [...] ci chiama a sostenere il peso di una lotta lunga ed oscura, per anni ed anni, «lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione», una lotta contro i comuni nemici dell’uomo: la tirannide, la miseria, la malattia e la guerra stessa. Possiamo costituire contro questi nemici una grande e mondiale alleanza – Nord e Sud, Est ed Ovest insieme – che valga ad assicurare una vita più ricca a tutta l’umanità? Siete disposti a partecipare a questa storica impresa? [...] Pertanto, miei concittadini, non chiedetevi che cosa il vostro paese potrà fare per voi, ma che cosa voi potrete fare per il vostro paese. Cittadini di tutto il mondo, non chiedete-

vi che cosa l’America farà per voi, ma che cosa insieme potremo fare per la libertà dell’uomo.

1. Da principio.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia i valori a cui fa riferimento l’autore.  b  Cerchia gli interlocutori a cui si rivolge e sottolinea gli inviti e/o auspici che rivolge loro.  c  Immagina di essere un cittadino americano che ha ascoltato queste parole. Spiega a un tuo parente che vive in Europa chi ha pronunciato questo discorso, in quale occasione, quali sentimenti ti ha suscitato e perché.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti evidenziando l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo espositivo di circa 30 righe sulla politica internazionale ai tempi della guerra fredda mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di citare opportunamente i passi che ritieni più significativi. 2 Scrivi un testo di circa 20 righe sul processo che portò Usa e Urss dal fronte comune dei vincitori a quello di superpotenze planetarie, leader di fazioni contrapposte. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti e i passi delle fonti storiche che intendi utilizzare nelle tue

argomentazioni e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, il numero corrispondente ai concetti o alle citazioni cui fai riferimento. IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 3 A partire dai brani del percorso, valuta la seguente affermazione sulle responsabilità dell’escalation conflittuale tra le due superpotenze nei decenni centrali del XX secolo, ed esprimi la tua posizione a partire da essa in un testo di massimo 30 righe, citando opportunamente i testi che supportano la tua tesi: Gli Stati Uniti furono, già durante la guerra, molto risoluti nell’affermare la propria volontà di supremazia economico-militare; ogni atto della politica estera americana è una conferma della sua responsabilità diretta nell’accelerazione del conflitto.

L’ITALIA REPUBBLICANA: PARTITI DI MASSA E SISTEMA POLITICO

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Nei cinque anni che vanno dalla caduta del regime fascista (25 luglio 1943) alle elezioni per la prima legislatura repubblicana (18 aprile 1948), l’Italia uscita dalla dittatura e dalla sconfitta si diede una nuova classe politica dirigente, un nuovo sistema politico e una nuova Costituzione, compiendo anche alcune scelte decisive riguardo alla sua collocazione internazionale e al suo assetto economico. Protagonisti indiscussi di questa fase, e poi della successiva storia della Repubblica, furono i partiti, in particolare i partiti di massa: il ruolo da essi svolto in questa cruciale fase di transizione e di consolidamento della democrazia è ben evidenziato nel brano della storica Simona Colarizi [►105].

U4 IL MONDO DIVISO

Il sistema politico italiano non rimase immune dalle divisioni internazionali portate dalla guerra fredda. Mentre i comunisti, e (fino al 1956) i loro alleati socialisti, aderirono allo schieramento guidato dall’Urss, la Democrazia cristiana – alla guida del governo dal 1945 – si legò al blocco occidentale. Lo scontro politico all’interno del paese si polarizzò soprattutto in vista delle elezioni del 1948, che furono vissute come un vero e proprio scontro di civiltà: come spiegano gli storici Andrea Mariuzzo [►106] e Angelo Ventrone [►107], infatti, entrambi gli schieramenti adottarono formule propagandistiche che miravano soprattutto a delegittimare l’avversario politico. Secondo un altro storico Aurelio Lepre, questo scontro dai toni così aspri [►108] portò, nel corso degli anni ’50, da una «guerra civile fredda» a una «guerra civile minacciata». Le conseguenze della guerra fredda sul sistema politico italiano furono durevoli: anche nei decenni successivi, infatti, il Pci, nonostante l’alta percentuale di consensi raccolta, non fu mai considerato come una forza politica democratica che potesse andare al governo. Questa particolare caratteristica del sistema politico italiano è stata analizzata, da prospettive diverse, da due politologi: Giorgio Galli e Giovanni Sartori [►109].

105 S. COLARIZI IL RUOLO DEI PARTITI DI MASSA



S. Colarizi, Storia dei partiti politici nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 10-13.

Dopo il crollo del regime fascista nell’estate del 1943 [►11_10], i grandi partiti di massa (Dc, Pci e Psi) rivestirono un ruolo di primo piano sulla scena politica, emarginando progressivamente i gruppi di orientamento liberal-democratico e gli Le carenze del sistema prefascista e un ventennio di dittatura portano in eredità allo Stato da rifondare una società civile debole, percorsa da profonde fratture […], culturalmente e civilmente arretrata. Il fascismo ha soffocato i fermenti e i conflitti di una società in crescita tumultuosa, e ha ricondotto a forza nelle sue strutture dittatoriali le organizzazioni politiche ed economiche di massa che il vecchio sistema liberale non è stato in grado di assorbire attraverso un allargamento naturale delle basi democratiche dello Stato. […] A farsi carico della riconversione delle basi di massa del fascismo entro canali politici democratici sono proprio i grandi partiti; in una situazione, appunto, di evidente arretratezza della società civile solo forze politiche organizzate possono garantire il funzionamento di una democrazia di massa. […] Nella grande maggioranza, le élites del vecchio mondo liberale e dell’epoca fascista che sommano in sé i caratteri di un conservatorismo ottuso a quelli di un autoritarismo antidemocratico, si muovono solo per ostacolare e impedire l’avvento di una democrazia di massa. […] È, dunque, anche la debolezza delle vecchie élites ad aprire la strada al primato dei partiti e della nuova classe di politici professionisti, garanti della partecipazione politica delle masse che l’al-

esponenti del ceto dirigente prefascista. Nelle pagine che seguono, la storica Simona Colarizi (nata nel 1944) analizza questo passaggio, in cui furono gettate le basi del sistema politico repubblicano. I partiti di massa ebbero l’indubbio merito di educare la società italiana alla democrazia dopo il ventennio fascista. Tuttavia, essi finirono anche per sovrapporsi alle istituzioni dello Stato, dando vita a quella che è stata significativamente definita la «Repubblica dei partiti».

largamento all’elettorato femminile del suffragio – solo ora universale nel senso pieno del termine – sancisce definitivamente. La soluzione di continuità con il passato è da questo punto di vista netta e irreversibile: cambia la natura della competizione politica; sale al potere un nuovo ceto politico che deriva la sua forza e la sua autorità dal radicamento sociale e dalla presenza organizzata dei partiti nella società civile. È naturale, dunque, la preminenza immediata di socialisti, comunisti e cattolici che hanno profonde radici nelle due subculture dominanti nel paese. Di converso, in declino appaiono i partiti liberal-democratici, da sempre privi di basi di massa e legati ad una visione della partecipazione politica come libera scelta e libera espressione dell’opinione. […] Agli occhi dei liberali, i partiti di massa, nelle loro complesse articolazioni dentro la società civile, appaiono grandi macchine di manipolazione di un consenso popolare più emozionale che razionale […]. Anche quando, nel ’45, nessuno più disconosce la funzione positiva dei partiti nell’educazione politica e nella maturazione civile di milioni e milioni di italiani, non manca tra i liberal-democratici chi contesta la dominanza dei partiti, la loro invadenza nelle strutture dello Stato, trasformato

appunto in uno «Stato dei partiti». Questa mutazione altera alla base il rapporto tra i cittadini e le istituzioni fino a sostituire, nella coscienza dei più, la fedeltà verso il partito di appartenenza alla lealtà verso lo Stato. […] La profonda innovazione costituzionale che fissa le nuove regole del contratto sociale, rompe nettamente col passato, ma non ha effetti immediatamente percepibili nel complesso della vita civile, sociale, economica degli italiani. La cornice delle istituzioni diventa garanzia indispensabile alla crescita democratica del paese; non è di per sé in grado di produrla; lascia, però, aperta ai partiti – nominati solo marginalmente nella Carta costituzionale – la strada per guidare, gestire e contrattare tra loro l’intero processo di sviluppo e di maturazione delle masse. È il nuovo sistema partitico a far da tramite tra i cittadini e le istituzioni dello Stato che non rimangono un corpo rigido, avulso dalle contaminazioni e dalle influenze di una realtà politica viva e dinamica, capace di piegare e persino di distorcere col passar del tempo lo schema istituzionale, adattandolo alle sue esigenze. […] I grandi partiti che dopo la liberazione si assumono la pesante eredità del fascismo, non rinunciano alla forza del richiamo ideologico come fattore chiave dell’inte-

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FARESTORIA L’Italia repubblicana: partiti di massa e sistema politico

grazione delle masse. La secolarizzazione del paese e la «laicizzazione» della società politica si configurano, dunque, come un processo lento che si accompagna al progressivo sviluppo economico, sociale e culturale, destinato a poco a poco a cambiare anche il comportamento politico degli italiani e a modificare la stessa natura dei partiti. […] C’è, infine, ancora un altro elemento che rispetto al passato segna una profonda rottura della continuità tra l’Italia prefascista e fascista e l’Italia repubblicana e democratica, retta da un sistema di partiti. Il secondo conflitto mondiale distrugge gli equilibri internazionali dell’età contemporanea che poggiavano sul primato degli imperi dell’Occidente. Vinti o vincitori, Gran Bretagna, Francia e Germania si avviano sul viale del tramonto e il loro declino che segna la perdita dell’e-

gemonia europea nel mondo, trascina le nazioni più piccole, tutte relegate in una posizione di subalternità alle superpotenze – Usa e Urss – divenute i pilastri del nuovo ordine planetario. E si tratta di un ordine in bilico sul filo del rasoio: i due grandi blocchi contrapposti impongono ai popoli della terra una scelta di schieramento internazionale che passa per una divisione nettissima sul piano dei valori, dei sistemi economici e politici, delle ideo­logie, della cultura, del costume. Le aspirazioni imperialiste di entrambi e la concorrenzialità nell’acquisire nuove aree di influenza, si traducono in una corsa agli armamenti, sempre più micidiali, che ha fatto parlare di un equilibrio del terrore destinato a protrarsi, con punte di tensione e momenti di distensione, quasi fino ad oggi1. Solo il crollo del comunismo e la disgregazione dell’Unione Sovie-

106 A. MARIUZZO IL “FASCISMO” IN DEMOCRAZIA: LA LOTTA DEL PCI ALLA “DC TOTALITARIA”

tica hanno messo fine a questa bipolarità mondiale che ha avuto un’influenza profonda nel sistema politico italiano. 1. Il testo è del 1996, quando la guerra fredda era finita da soli sette anni.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega chi si fece carico della riconversione delle basi di massa del fascismo entro canali politici democratici e quali furono le strategie adottate.  b  Evidenzia gli elementi di rottura fra l’Italia fascista e quella repubblicana e individua da due a cinque parole chiave per ognuno di essi. Quindi argomenta la tua scelta per iscritto.



A. Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (19451953), Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 105-11.

Nel clima politico sempre più acceso dalla contrapposizione ideologica della guerra fredda, il Partito comunista italiano

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Nel corso degli anni Trenta, e soprattutto negli anni della Seconda guerra mondiale, nella cultura comunista di tutto il mondo si era radicata in profondità una interpretazione del fenomeno fascista e delle “basi oggettive” responsabili della sua nascita rigorosamente ancorata alla concezione della lotta di classe: […] il fenomeno fascista non era altro che «la dittatura aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario». Anche in Italia il Partito comunista, quando poté tornare alla libera attività di comunicazione, presentò ogni descrizione e ogni riflessione relativa al nemico fascista nell’ambito di queste coordinate interpretative […]. Uno dei motivi per cui la definizione parziale e unilaterale del fascismo come dittatura capitalista incontrò un simile successo negli ambienti comunisti era sicuramente la possibilità di declinarla “a geometria variabile”: attraverso essa i valori della lotta antifascista sarebbero stati utilizza-

U4 IL MONDO DIVISO

utilizzò per la sua attività di propaganda linguaggi e stilemi che tendevano a demonizzare l‘avversario. Come è illustrato nel seguente brano dallo storico Andrea Mariuzzo (nato nel 1979), il governo democristiano – a partire dal 1947 – fu sempre più spesso descritto dai partiti di sinistra come erede del regime fascista, di cui avrebbe ripetuto pratiche e politiche repressive.

bili in ogni situazione della lotta di classe, anche in un sistema politico-ideologico in cui l’alleanza antifascista era stata sostituita, come fondamento delle relazioni tra forze politiche all’interno e sul piano internazionale, dalle tensioni della guerra fredda. […] Fu ancora una volta la crisi di governo del maggio 19471 l’evento che portò le centrali di comunicazione orbitanti attorno al PCI a puntare contro la Democrazia cristiana la potente arma dell’identificazione tra fascismo e ostilità al Partito comunista. Mentre la Sezione stampa e propaganda alimentava la campagna contro il “cancellierato” degasperiano, gli autori del «Don Basilio»2 sfruttarono la possibilità di una maggiore asprezza di toni concessa ai fogli satirici alternando a tale termine quello di “regime”, e definendo l’allontanamento delle sinistre dal governo un “colpetto di stato” […]. Nelle settimane seguenti il settimanale divenne ancora più esplicito, ed iniziò ad usare

l’espressione “governo nero” per identificare il monocolore democristiano nato a maggio. Dato l’orientamento anticlericale del foglio, in tale riferimento si confondevano il richiamo al colore delle camicie fasciste a quello al colore delle tonache3; il riferimento all’appoggio incondizionato della Chiesa al fascismo era infatti costante, sulle pagine del giornale, dal 1946 […]. La DC del “colpetto di stato”, insomma, era presentata sulle colonne del «Don Basilio» come una riedizione, negli uomini e nei metodi, di un regime autoritario di cui la Chiesa era stata corresponsabile […]. A queste osservazioni si affiancavano ancora più caustici riferimenti, verbali e iconografici, a fatti e protagonisti della cronaca. De Gasperi, in una vignetta del 12

1. ►14_2. 2. Il «Don Basilio» era un settimanale satirico di impronta anticlericale, legato al Pci. 3. Gli abiti dei religiosi.

agosto 1947, si compiaceva del fatto che la ricostruzione italiana fosse più efficiente di quella tedesca, «perché mentre da noi il fascismo era tornato al potere, in Germania il nazismo non era ancora risorto». Circa un mese dopo, fu pubblicata una caricatura del ministro dell’Interno Scelba con un fascio al posto del naso, ed una conformazione del volto ovaleggiante che riprendeva la forma del distintivo appuntato dagli iscritti al PNF4. […] La campagna del «Don Basilio» ebbe subito grande influenza negli ambienti comunisti: tra l’estate e l’autunno del 1947 la locuzione “governo nero”, che descriveva il ministero De Gasperi come «contemporaneamente fascista, clericale e manovrato da interessi oscuri e pericolosi» fu protagonista di volantini prodotti in sede locale, di articoli apparsi su fogli di federazione e di scritte sui muri. […] Dalla fine dell’anno, con l’entrata nel clima elettorale, iniziò a sedimentarsi un insieme di riferimenti linguistici sempre più chiari all’equazione fascismo-governo democristiano, e soprattutto iniziarono a orientarsi in tal senso le analisi politiche ufficiali, in cui sempre più chiaramente

l’identificazione tra fascismo e capitalismo era proposta come base ideologica fondamentale per l’opposizione al nuovo “regime”. […] Poco più avanti, anche su «Propaganda»5 l’uso della polizia nella repressione di alcune dimostrazioni fu equiparato a quello mussoliniano, e la rinuncia a processare gli ex gerarchi era la prova di come «DC e fascismo servissero gli stessi interessi» e fossero composti essenzialmente dagli stessi uomini […] In parallelo a quanto accadeva in area comunista, anche sulle colonne dell’«Avanti!»6, a partire dalla seconda metà del 1947 l’identificazione tra il governo centrista in carica trovò piena espressione […]. Con l’inizio del 1948, nelle sezioni di cronaca, erano entrati nell’uso lemmi come “regime”, “sistema del Minculpop7” (per definire l’atteggiamento chiuso dei ministeri con la stampa d’opposizione) e “clerico-fascismo”, mentre gli episodi di violenza di cui era protagonista la polizia suscitavano paragoni col 19228. […] Come i comunisti, i socialisti si apprestavano al voto nella convinzione che l’alternativa tra il ritorno all’autoritarismo e la «rottura

107 A. VENTRONE LA CAMPAGNA ELETTORALE DEMOCRISTIANA

radicale e totale nella linea di continuità dello Stato italiano», fondata sull’interpretazione socialista dell’esperienza resistenziale, non lasciasse spazio a ulteriori possibilità. 4. Partito nazionale fascista. 5. Pubblicazione curata dalla Sezione nazionale stampa e propaganda del Pci. 6. Il quotidiano «Avanti!» era l’organo ufficiale del Partito socialista italiano. 7. Ministero della cultura popolare: sotto il regime fascista, controllava la cultura e organizzava la propaganda del regime [►9_3]. 8. Con la repressione scatenata dai fascisti nel 1922 contro lavoratori e partiti di sinistra. METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia le espressioni utilizzate per dimostrare la continuità fra fascismo e Democrazia cristiana.  b   Individua le tappe che portarono all’identificazione della Democrazia cristiana con il fascismo e cerchia i nomi di coloro che si fecero promotori di questa identificazione.  c    Spiega per iscritto chi erano i promotori della campagna di comunicazione descritta, in quale occasione l’avviarono e con quali intenti.



A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Come cattolici e comunisti hanno costruito la democrazia in Italia (1943-1948), il Mulino, Bologna 2008, pp. 258-64.

Come i comunisti e i socialisti, anche i democristiani non si risparmiarono nella propaganda in vista delle elezioni del Nessuna delle due parti in competizione evitò di trasformare la campagna elettorale in uno «scontro di civiltà»; tanto meno lo fecero i cattolici, che avevano tutte le intenzioni di screditare l’avversario colpendolo proprio nella sua ambiguità di fondo. Ambiguità del tutto evidente con il sostegno al colpo di stato comunista in Cecoslovacchia nel febbraio del 19481; una scelta che probabilmente danneggiò in modo definitivo il Fronte2, contribuendo a spostare definitivamente la polemica elettorale in Italia «dall’alternativa riforme-conservazione a quella democrazia parlamentare-dittatura comunista». Nel messaggio natalizio del 1947, Pio XII aveva d’altronde avvertito: «Essere con Cristo o contro: è tutta la questione». […] Ai comunisti in molti casi non solo non

1948 [►14_4]. In questo brano, lo storico Angelo Ventrone illustra i principali nuclei tematici della campagna anticomunista dei cattolici: i comunisti – e in particolare il segretario del Pci Palmiro Togliatti – venivano descritti come stranieri, in quanto fedeli più agli interessi sovietici che a quelli nazionali.

veniva data la benedizione pasquale alle abitazioni, ma era loro proibito di essere padrini e madrine nei battesimi, di sposarsi in chiesa, di ricevere i sacramenti e il funerale religioso, persino di essere sepolti sotto il segno della croce. Era forte la tendenza a leggere lo scontro tra cattolicesimo e marxismo come l’ultima delle tante battaglie condotte dalla chiesa «contro la sinagoga, contro il politeismo, contro la mezzaluna, contro il rinascimento pagano, contro la riforma, contro la rivoluzione» ed anche contro «il gran padre del socialismo, lo stato liberale», come aveva scritto padre Brucculeri3 su «La Civiltà Cattolica» già nel 1946. […] A loro volta, i comitati civili – nati per opera di Luigi Gedda4 all’inizio del 1948 con l’intento di utilizzare la struttura dell’A-

zione cattolica nella campagna elettorale, senza però coinvolgere direttamente la chiesa nelle contese politiche – producevano manifesti che riprendevano alcuni tipici stilemi della propaganda fascista e soprattutto quelli della Repubblica di 1. ►12_4. 2. Il Fronte Popolare, che legava in un unico schieramento comunisti e socialisti [►14_4]. 3. Padre Angelo Brucculeri (1879-1969), gesuita. 4. Luigi Gedda (1902-2000), medico, fu uno dei più importanti dirigenti dell’Azione cattolica nel dopoguerra. Nel 1948 creò in ogni diocesi i Comitati civici, organismi formalmente apolitici che affiancavano la propaganda a favore della Democrazia cristiana in vista delle elezioni [►14_4].

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FARESTORIA L’Italia repubblicana: partiti di massa e sistema politico

Salò. Essi infatti mostravano mostri sovietici, armati di pugnali, gatti a nove code e, naturalmente, falce e martello, in procinto di calpestare o distruggere l’Italia; oppure raffiguravano i comunisti come individui esterni alla comunità nazionale. In uno dei più noti, un torvo Togliatti veniva ad esempio cacciato via dall’Italia ad opera di Garibaldi e delle sue camice rosse al canto di «va fuori d’Italia/va fuori o stranier!». Obiettivo dei comitati civici, come diceva un foglio di istruzioni, era provocare «uno stato ossessivo» tale da spingere tutti alle urne. E, in effetti, essi costituivano una diretta rappresentazione di quella «guerra psicologica» contro il comunismo che gli americani stavano tentando di avviare in Europa. Per questo motivo, i comitati civici furono considerati un esperimento da ripetere in altri paesi europei, vista la loro capacità di unire, come avrebbe detto dopo le elezioni un diplomatico statunitense, «la forza morale della Chiesa cattolica con quella economica degli Stati Uniti per erigere una barriera contro l’invasione comunista». Il tema dello straniero interno era costantemente presente nella propaganda cattolica. Nel comizio conclusivo della campagna elettorale, padre Lombardi5 avrebbe detto: «C’è un uomo, qui in Italia, che si erge a campione degli interessi nazionali. Ma è un cittadino russo. Si è schierato con

la Russia dei senzadio. Costui si chiama Togliatti». E avrebbe concluso, accompagnando gli assordanti fischi dei presenti indirizzati al segretario comunista: «Va fuori d’Italia, va fuori straniero! Milanesi, non abbiate paura! Oggi con questo fischio comincia la primavera d’Italia». […] Antisovietismo e l’identificazione tra religione cattolica e moralità furono i maggiori cavalli di battaglia della propaganda cattolica. […] D’altronde non bisogna dimenticare che molti italiani erano abituati a identificare il comunismo con l’immagine demoniaca, malvagia, che il fascismo e la Chiesa stessa avevano diffuso negli ultimi venti anni. […] La Dc non restò certo estranea al linguaggio aggressivo che caratterizzava lo scontro elettorale; tuttavia usò generalmente toni meno estremi dei comitati civici, pur essendo nettissima la sua opposizione al «totalitarismo bolscevico». […] Il tema dell’indipendenza nazionale e del rischio di una nuova servitù nel caso di vittoria dei comunisti era sempre sottolineato. Nei manifesti democristiani grandeggiava un «No!» su di un tricolore spezzato da una bandiera sovietica; oppure una grossa scritta: «In Italia, mai!», sovrastata dalle bandiere sovietiche che sventolavano sul monumento al Milite ignoto al posto di quelle italiane; o anche la testa di Garibaldi (il simbolo del Fronte) era trasformata

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 10 MANIFESTI ELETTORALI DEL 1948

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Alle consultazioni elettorali del 1948 si giunse in un clima di crescente tensione sociale e politica che si riversò sulla lettura stessa che i partiti proponevano della competizione: essa fu vissuta e promossa come uno scontro di civiltà in cui l’avversario incarnava il male da sconfiggere. La posta in palio, in quel momento, sembrava essere una scelta di campo ideologica e il modello di società e sviluppo economico che il paese avrebbe dovuto perseguire. Per questo motivo, il voto veniva ricondotto alla rigida contrapposizione fra un futuro di libertà o di dittatura, o fra l’adesione al sistema capitalistico e all’economia pianificata. Lo storico Stefano Pivato (nato nel 1950 ed ex rettore dell’Università di Urbino) ha scritto che «la Guerra fredda

U4 IL MONDO DIVISO

è stata definita “la massima fiction dell’epoca”: contrapposizioni frontali, guerriglia psicologica e scenari apocalittici contraddistinguono gli anni del secondo dopoguerra. Si tratta di una guerra di propaganda il cui vocabolario, proprio per l’enfatizzazione e l’esasperazione del linguaggio, attinge a piene mani dal mondo delle fiabe. La Guerra fredda è affollata di orchi, mostri, lucignoli e, sul fronte opposto, da fate e principesse che assolvono a una funzione salvifica. Pochi linguaggi come quello fiabesco si prestano a dare la rappresentazione di

Vota o sarà il tuo padrone 1948 [manifesto a cura dei Comitati civici]

nella base di un fiasco, con la didascalia: «Secco, amabile, pastoso. Vuotate il fiasco bolscevico elettorale». […] L’ironia o il sarcasmo, naturalmente, si riversavano anche nelle canzoni politiche dell’epoca. I versi di Bandiera rossa6, ad esempio, venivano trasformati in «Bandiera rossa la trionferà / sui gabinetti pubblici della città», o in «Avanti popolo che siamo in tanti / i più ignoranti della città». E, come abbiamo visto, i comunisti rispondevano a tono. 5. Padre Riccardo Lombardi (1908-1979) fu un gesuita, particolarmente attivo nella propaganda per la Democrazia cristiana. 6. Bandiera rossa è uno dei canti dei socialisti e dei comunisti italiani. Nella versione originale, i due versi in questione recitano: «Bandiera rossa la trionferà / Evviva il comunismo e la libertà» e «Avanti o popolo, alla riscossa / Bandiera rossa, bandiera rossa». METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea l’evento storico che favorì la Dc nell’accusare il Fronte Popolare di voler instaurare una dittatura comunista.  b  Evidenzia i temi della propaganda cattolica distinguendoli, attraverso colori diversi, tra quelli che tendevano a denigrare il nemico e quelli che intendevano invece esaltare i valori positivi cattolici.  c  Spiega cosa sono i comitati civici e in cosa si distinsero i toni della loro propaganda.

quell’accesa contrapposizione fra “amico” e “nemico” nella quale deformazioni, narrazioni fantastiche e personaggi favolistici accompagnano la dialettica tra fronti opposti» [S. Pivato,  Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda, il Mulino,  Bologna 2015, p. 11]. La propaganda sui muri era capace di raggiungere in modo efficace gli individui e le masse, gli analfabeti e gli intellettuali. Proprio per questo motivo, i partiti le dedicarono particolare cura. La propaganda cattolica, in particolare, si avvalse dell’Ufficio mobilitazione e di quello psicologico e, per la preparazione dei manifesti, ricorse ad affermati professio-

nisti come Gino Boccasile e Giovannino Guareschi. I riferimenti grafici erano immediati per la gente dell’epoca: lo scudo crociato e la sigla DC permettevano di riconoscere la personificazione della Democrazia cristiana, la donna con la corona turrita era subito associata all’Italia, mentre falce e martello erano ormai il simbolo del Partito comunista italiano. Spesso venivano elencati i valori positivi difesi dalla Dc e insidiati dal Fronte popolare (che vedeva uniti il Partito comunista e il Partito socialista) come patria, famiglia, libertà. Mentre il Fronte popolare puntava al lato razionale dell’elettore e proponeva come simbolo la faccia di Garibaldi sta-

gliata su una stella rossa, la Dc utilizzava soprattutto immagini evocative, con poche parole e qualche slogan per lo più contenente riferimenti al “nemico”.

GUIDA ALLA LETTURA

 a  Rispondi per iscritto alle seguenti domande facendo riferimento ad entrambi i manifesti e citando i particolari che ti permettono di elaborare una risposta: 1. Chi è la figura principale del manifesto? 2. Quali sono i simboli che indossa? A quali valori fanno riferimento? 3. Quali sono i colori utilizzati? Questi ultimi hanno un significato ideologico o sono basati su semplici scelte cromatiche? 4. Quali toni sono stati scelti? Perché secondo te? 5. Ci sono scritte? A quali valori rimandano?  b  Chi sono i committenti di questi manifesti? Quali erano, secondo te, i timori che li animavano? Da cosa si capisce?  c  Come definiresti lo spirito della competizione elettorale animata dalla propaganda cattolica?

108 A. LEPRE DALLA GUERRA CIVILE FREDDA ALLA GUERRA CIVILE MINACCIATA



A. Lepre, Storia della prima repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, il Mulino, Bologna 2004, pp. 136-41.

Anche dopo le elezioni del 1948, l’Italia continuò a essere profondamente influenzata dalle dinamiche della guerra fredda. Nonostante l’emergere di nuove tendenze e di divisioni De Gasperi insediò il suo nuovo governo, il sesto, alla fine del gennaio 1950. La sinistra democristiana non entrò nel governo, per protesta contro la rinnovata presenza al ministero del Tesero e Bilancio Giuseppe Pella, che dava un’interpretazione riduttiva del programma governativo […]. Ai primi di giugno dello stesso anno si tenne a Venezia il III Congresso della DC, in cui si svolse un importante confronto di posizioni. Dossetti chiese che si desse sviluppo

Difendetemi! 1948 [manifesto della Dc]

interne nei due partiti maggiori, i governi a guida democristiana si impegnarono per tenere i comunisti – sospettati di essere una “quinta colonna” agli ordini dell’Urss – ai margini della vita politica e sindacale, se necessario anche minacciando l’uso della forza. Come sostiene Aurelio Lepre (19302014) nel brano che segue, si passò così da una situazione di «guerra civile fredda» a una di «guerra civile minacciata».

alla «costruzione del nuovo Stato democratico che abbiamo abbozzato con la Corte costituzionale» […]. La sinistra democristiana uscì dal congresso rafforzata, guidata però non da Dossetti ma da Amintore Fanfani […]. Nell’aprile 1950, ci fu un accordo tra la maggioranza della DC e la sinistra e Dossetti, che già nel giugno 1949 De Gasperi aveva invitato a «mettersi alla stanga»1, diventò vicesegretario. La partecipazione della sinistra [democristiana, NdR] al governo del

partito è legata a una serie di riforme, dall’istituzione dell’ENI2 a quella della Cassa per il Mezzogiorno3. […] Lo scoppio della guerra di Corea4, nel giugno del 1950, rese più difficile l’azio-

1. Mettersi a lavoro. 2. ►14_5. 3. ►14_5. 4. ►12_5.

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ne della sinistra DC, non solo perché rafforzò lo schieramento più intransigente anticomunista, ma anche perché, provocando il riarmo dell’Occidente, tolse risorse alle riforme. Il pericolo del coinvolgimento dell’Italia nello scoppio di un nuovo conflitto mondiale sembrò farsi più acuto. Nello stesso tempo, però, gli avvenimenti italiani di quei mesi mostrarono che il rischio di una guerra civile che non fosse in stretta relazione con la terza guerra mondiale (in questo caso, tutto sarebbe potuto accadere) andava sempre più attenuandosi. L’Italia appariva direttamente segnata, al suo interno, dalla contrapposizione mondiale: da un lato c’erano le forze schierata con l’Occidente, in una scelta che era stata ormai istituzionalizzata con la firma del Patto Atlantico5; dall’altro c’erano quelle comuniste che aderivano al Cominform6 e quelle del PSI che, pur non aderendovi, ne condividevano o accettavano la politica. La guerra di Corea vide una contrapposizione verbale violentissima: ciascuna delle due parti attribuì al campo avversario la responsabilità dello scoppio del conflitto e le sinistre fecero propria anche l’accusa agli Stati Uniti di adoperare armi batteriologiche, mossa dalla Repubblica coreana del Nord e dalla Repubblica popolare cinese e basata su prove del tutto inconsistenti. Il 2 luglio De Gasperi affermò la necessità d’impedire che si costituissero «quinte colonne» e in seguito, rivolgendosi al parlamento, ribadì l’esistenza di una «quinta colonna sistematica e organizzata» che introduceva elementi di disorganizzazione all’interno del paese. A fine luglio, durante le grandi manovre7, il ministro della Difesa Pacciardi asserì che il governo era a in possesso di una lista di 400 persone «da mettere fuori combattimento al momento opportuno». […] È difficile dire se De Gasperi ritenesse veramente che stesse per scoppiare una guerra mondiale in cui i comunisti si sarebbero comportati da «quinta colonna», alle spalle del fronte, o se accentuasse il pericolo per adottare più rigide misure di controllo dell’opposizione. […] Nel febbraio del 1951 lo stesso De Gasperi disse ai suoi collaboratori di non credere all’inevitabilità della guerra. Ma ciò non significa che l’allarme del luglio 1950 fosse strumentale. All’inizio del 1951 la situazione non era più quella

U4 IL MONDO DIVISO

dell’estate del 1950. […] Nel PCI la guerra di Corea vide accentuarsi lo scontro lo scontro interno. L’espressione più acuta di un dissenso tra Togliatti e altri dirigenti del PCI si ebbe proprio in quell’anno. […] In dicembre Togliatti si recò nell’URSS per trascorrere un periodo di riposo […]. A Mosca fu accolto con grandi onori, come un personaggio di particolare rilievo nel panorama internazionale: […] Stalin gli propose di assumere la guida del Cominform […] con la giustificazione che il PCI rischiava di essere dichiarato fuori legge. Nonostante le riserve di Togliatti, la direzione del PCI, riunitasi rapidamente a Roma, si disse d’accordo con Stalin: la terza guerra mondiale sembrava imminente. Ma Togliatti rifiutò […]. Togliatti continuò a esprimere la massima solidarietà e ammirazione per l’URSS, considerandola il paese in cui si compivano gigantesche opere pubbliche e che difendeva la pace, e continuò a indicare gli USA come aggressori imperialisti, ma il vecchio internazionalismo era finito per sempre: Togliatti rifiutava di diventare il massimo rappresentante, dopo Stalin, del comunismo mondiale. Era, anche questo, un segno della fine della «guerra civile fredda». Ma, allo stesso tempo, nasceva quella che può essere definita «guerra civile minacciata». Tra l’una e l’altra c’erano elementi di continuità. I tentativi di adottare misure repressive aperte non riuscivano a prendere forme concrete. L’espressione legislativa di questa tendenza fu una legge presentata nel 1951, che avrebbe dovuto proteggere la popolazione in caso di guerra o calamità, e che prevedeva, tra l’altro, il ricorso a una «milizia volontaria per rafforzare il potere del ministero dell’interno». Lo stesso Scelba disse al parlamento che, tra i pericoli a cui si sarebbe potuto fare fronte con questa legge, c’erano non solo quelli naturali, ma anche quelli creati dalla volontà dell’uomo. Un deputato della maggioranza chiarì, l’11 maggio del 1951, che la legge serviva anche a predisporre i mezzi di difesa contro quella parte politica che avesse avuto intenti sediziosi in caso di guerra. La legge però non poté essere approvata. All’interno delle strutture statali, in stretto rapporto con la politica della NATO, vennero allora predisposti piani e strutture di di-

fesa contro una eventuale insurrezione comunista. L’intervento delle forze della NATO vi sarebbe stato anche nel caso che i comunisti «avessero guadagnato la partecipazione al governo con mezzi legali e avessero minacciato di ottenerne il controllo», e persino se il governo italiano «avesse cessato di mostrare una determinazione ad opporsi alle minacce comuniste interne ed esterne». […] In questo modo si passò dalla «guerra civile fredda» alla «guerra civile minacciata». Se la prima sarebbe stata possibile solo per iniziativa delle sinistre, la seconda fu un’iniziativa delle forze di governo, o almeno di una parte di esse: uno spettro destinato a rendere impossibile per il PCI anche la conquista legale del potere. Fino a quel momento tutto era avvenuto in modo aperto: nessuno, né a destra, né al centro, né a sinistra aveva nascosto quale sarebbe stato il suo atteggiamento se fosse scoppiata la terza guerra mondiale. […] Nel periodo successivo, invece, la minaccia di un governo armato, se i comunisti avessero conquistato il potere per via legale, si espresse soprattutto sotto forma di complotti e portò elementi di degenerazione in alcuni momenti della vita politica. 5. ►12_4 e 14_4. 6. ►12_4. 7. Esercitazioni periodiche delle forze armate.

METODO DI STUDIO

 a   Descrivi in che modo lo scoppio della guerra in Corea influì sulle vicende narrate.  b   Sottolinea con colori diversi i segnali della fine della «guerra civile fredda» e quelli legati alla nascita della «guerra civile minacciata». Quindi spiega per iscritto il significato e le differenze esistenti fra le due espressioni.

109 G. GALLI • G. SARTORI «BIPARTITISMO IMPERFETTO» O «PLURALISMO POLARIZZATO»?



G. Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia, il Mulino, Bologna 1966, pp. 65-68; G. Sartori, Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, in Id., Teoria dei partiti e caso italiano, Sugarco, Milano 1982, pp. 7-13.

Alla metà degli anni ’60 furono coniate dai politologi due formule per descrivere il sistema politico italiano: «bipartitismo imperfetto» e «pluralismo polarizzato». La prima apparteneva a Giorgio Galli (nato nel 1928), che evidenziò il ruolo egemone delle due forze allora più radicate nella società (Dc e Pci), incapaci però di realizzare un’alternanza Galli: il bipartitismo imperfetto Il sistema politico italiano ha alcune caratteristiche decisive del sistema pluri-partitico, ma anche alcune peculiarità che gli sono proprie e che consentono di definirlo come una sorta di bipolarismo imperfetto. Vi sono, infatti, in esso, molti partiti, ma due soli vi hanno un ruolo egemonico e inconfondibile, che è quello della direzione del governo (la Dc) e della direzione dell’opposizione (il Pci). [...] Il sistema dispone, per vivere se non per godere della florida salute, dell’ossigeno di un apparente bi-partitismo stabilizzatore. La fondamentale polarizzazione delle forze politiche, che con le sue caratteristiche di stimolo per la maggioranza e di possibilità di costituire un’alternativa per la minoranza, è la principale condizione di efficienza della democrazia rappresentativa, nella forma anomala in cui si è sviluppata in Italia contribuisce a far vivere il sistema, ma riduce al minimo la sua funzionalità. Il bi-partitismo in certo modo sussiste nella misura in cui la Dc si identifica con un gruppo di valori (moderatismo, ecc.) e il Pci con un altro gruppo (radicalismo, ecc.), polarizzando per due terzi i voti dell’elettorato e la rappresentanza parlamentare. Ma questa sorta di bi-partitismo è, appunto, largamente imperfetto, mancandogli le caratteristiche insite nel binomio stimolo-alternativa. Quanto di esso esiste, stabilizza il sistema. Quanto vi manca, ne abbassa considerevolmente il livello di rendimento. Quanto vi manca, almeno sinora, è dunque, da un lato, una maggioranza omogenea, in grado di governare stabilmente per una legislatura e quindi di impostare un organico programma legislativo; e dall’altro, una opposizione tanto forte da stimolare in tal senso la maggioranza e da potersi proporre come possibile alternativa di governo qualora la maggioran-

al potere indispensabile per un buon funzionamento di un sistema bipartitico. La seconda formula fu ideata invece da Giovanni Sartori (1924-2017), caposcuola della politologia italiana del dopoguerra, che delineò un modello caratterizzato da un centro e da due opposizioni «antisistema», tra loro inconciliabili. In questi due brani, Galli e Sartori illustrano le rispettive teorie interpretative: due ipotesi di spiegazione della crisi strutturale del sistema politico italiano, “bloccato” dall’assenza di un’alternanza al potere e dall’incapacità di modificarsi in relazione alle trasformazioni sociali ed economiche degli anni ’60.

za non si dimostri in grado di assolvere i compiti e gli impegni che si assume. Il Pci, infatti, volge una opposizione al tempo stesso globale e perentoria all’apparenza, ma sterile e per nulla preoccupante nella sostanza. Questo partito, infatti, per la sua collocazione ideologica e per i suoi legami internazionali, non può costituire una alternativa di governo nell’ambito del sistema. [...] Ciò spiega perché una coalizione a direzione democristiana che nel 1966 non ha ancora realizzato i programmi del 1948 non abbia potuto essere «punita» alle elezioni da una opposizione a direzione comunista tanto verbalmente proterva1 quanto sostanzialmente impotente. Né governo né opposizione, dunque, si trovano in Italia in una condizione tale da assicurare la funzionalità del sistema democratico, parlamentare, rappresentativo secondo gli schemi di un normale rendimento. Sartori: il pluralismo polarizzato Di solito i sistemi partitici occidentali vengono classificati in due gruppi – sistemi bipartitici e sistemi pluripartitici [...]. In realtà, l’Europa occidentale conosce non due ma tre tipi di sistemi di partito: il pluralismo semplice (bipartitico), il pluralismo moderato, il pluralismo estremo. E la distinzione più importante non è quella tra il primo e il secondo tipo, ma quella tra il pluralismo moderato e il pluralismo estremo. La mia tesi è, dunque, che la classificazione tradizionale è insufficiente, e che considerare i sistemi a «più di due partiti» in blocco è un errore.

Un errore che ci porta a segnare il confine essenziale nel punto sbagliato. […] Il modo più semplice di procedere è di chiarire innanzitutto la mia terminologia che riassumo nella tabella [in basso]. Parlo di «poli», e non di partiti, perché cerco di individuare i perni, i punti di coagulazione, di un sistema partitico. Il numero dei poli non corrisponde dunque al numero dei partiti. Quando dico bipolare intendo che il sistema partitico si impernia su due poli (vuoi che i partiti siano due, tre o quattro). In questo caso il sistema non ha «centro», cioè non fa perno su un polo centrale. Multipolare vuol dire, invece, che il sistema partitico si basa su più di due poli. In questo caso, infatti, il sistema ha anche un «centro», anzi vi si impernia. Ciò che importa, tuttavia, non è solo il numero dei poli, ma anche la distanza tra questi. Quando lo spettro dell’opinione politica è «estremizzato», cioè quando i poli laterali di un sistema politico stanno letteralmente agli antipodi, il sistema è polarizzato. [...] Che l’Italia appartenga al novero dei sistemi di pluralismo estremo, multipolari e polarizzati, è presto detto. Cominciando dal numero dei partiti, il sistema politico italiano è [...] un sistema a otto partiti: Pci, Psi, Psdi, Pri, Dc, Pli, Monarchici, Msi. [...] Passando alla natura multipolare del nostro sistema, basterà osservare che lo schieramento dei partiti italiani è caratterizzato dalla presenza decisiva di un grosso partito, la Dc, che occupa – volente o

1. Arrogante.

Poli

Polarità

Direzione

Pluralismo semplice

bipolare

nessuna

centripeta (non polarizzato)

Pluralismo moderato

bipolare

moderata

centripeta

Pluralismo estremo

multipolare

massima

centrifuga (polarizzato)

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FARESTORIA L’Italia repubblicana: partiti di massa e sistema politico

nolente – la zona di centro. Infine, che il sistema sia polarizzato risulta a prima vista [...]: il Pci è arrivato a raccogliere il 25% dei suffragi, e, all’estremo opposto, il Msi mantiene una salda presa su circa il 5% dell’elettorato. Il che equivale a dire che la distanza tra i poli laterali del sistema è tale da consentire due «opposizioni al sistema» collocate agli antipodi.

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea gli elementi che secondo Galli rendono il sistema politico esaminato un “bipolarismo imperfetto”.  b   Spiega quali sono, secondo l’autore, i punti di debolezza del sistema politico italiano degli anni in esame e quali sono state le relative conseguenze.  c   Scrivi una didascalia a commento della tabella proposta da Sartori sul pluralismo politico descrivendone le variabili esaminate.  d   Spiega la differenza fra polo e partito e indica quale dei due termini viene utilizzato da Sartori nelle sue argomentazioni e perché.  e   Sintetizza in sei righe il messaggio principale dei due studiosi.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti evidenziando l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo espositivo di circa 30 righe sul sistema politico dei primi anni dell’Italia repubblicana mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale e citando opportunamente i passi

che ritieni più significativi. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. 2 Scrivi un testo di non più di 30 righe dal titolo Le elezioni politiche del 1948 e lo scontro ideologico. Prima di procedere con la scrittura, seleziona le fonti scritte e iconografiche e i testi storiografici utili alla tua argomentazione e individua per ognuno di essi delle parole o frasi chiave. Utilizza queste ultime come guida per il tuo lavoro citando il brano da cui le hai estrapolate e arricchendo la trattazione con esempi tratti dal manuale.

LA GUERRA FREDDA E LA CORSA PER IL PRIMATO TECNOLOGICO La guerra fredda fu una contesa politico-militare di nuovo tipo, caratterizzata, a partire dal 1949, da una gara per la supremazia nucleare. In particolare, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, entrambe le superpotenze indirizzarono i propri sforzi verso la creazione delle bombe a idrogeno, le cosiddette «superbombe». Come spiega Ennio Di Nolfo [►110], quando sia gli Usa sia l’Urss riuscirono a realizzarle (i primi nel 1952, la seconda nell’anno successivo), si stabilì un vero e proprio «equilibrio del terrore», messo continuamente a rischio dalla creazione di missili sempre più potenti in grado di lanciare questi ordigni. Lo storico della comunicazione Maurizio Zinni [►111] ha sottolineato come questo sforzo bellico sia stato accompagnato, negli Usa, da un grande impegno propagandistico dell’industria cinematografica. La ricerca missilistica aprì un nuovo terreno di competizione tra le due superpotenze: la battaglia per la conquista dello spazio, che le spinse a impegnare nei programmi spaziali moltissime risorse. Come mostra Amilcare Mantegazza [►112], questa gara sembrò vinta, fino alla metà degli anni ’60, dall’Urss, che lanciò il primo satellite e riuscì a mandare il primo uomo nello spazio [►113d]. Pensate inizialmente per fini militari, queste nuove tecnologie ebbero un’importanza fondamentale anche per la vita civile: lo studioso irlandese Johnny Ryan [►114] racconta come il sistema di Arpanet gettò le basi per la nascita di Internet.



110 E. DI NOLFO L’EQUILIBRIO DEL TERRORE

E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo a oggi, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 276-78.

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I primi anni della guerra fredda furono caratterizzati da un’accesa competizione tra le due superpotenze per la costruzione di armi nucleari sempre più potenti e distruttive. La politica internazionale cominciò così a basarsi sul cosiddetto «equilibrio

U4 IL MONDO DIVISO

del terrore»: il timore di un reciproco annientamento, infatti, determinava una sorta di situazione di stallo, che rendeva in realtà molto improbabile lo scoppio di un conflitto armato. Lo storico delle relazioni internazionali Ennio Di Nolfo (19302016), in questo brano, ripercorre le tappe fondamentali di questa gara fra le due superpotenze, prestando attenzione tanto agli armamenti nucleari quanto ai vettori utilizzati per il loro lancio.

Gli anni tra il 1957 e il 1963, in pratica gli anni del dominio incontrastato di Chruščëv al Cremlino1, segnarono il periodo durante il quale […] la competizione spaziale e quella nucleare furono i due terreni sui quali la competizione si manifestò, con momenti di asprezza, nelle relazioni bilaterali. La corsa alla supremazia nei due campi era l’altra faccia del mutamento delle relazioni bipolari. Sul piano militare il decremento di sicurezza provocato dall’ampliarsi delle esigenze di una presenza divenuta effettivamente globale, in un contesto economico che non consentiva incrementi nelle spese militari a nessuno dei contendenti, trasformava la competizione nucleare e missilistica in elemento centrale degli equilibri mondiali. La «diplomazia atomica», che velleitariamente era stata discussa per qualche mese dopo Hiroshima, diventava, un decennio dopo, il passaggio obbligato delle relazioni bipolari. Ma la portata del rischio nucleare, che, a ragione, faceva parlare di «equilibrio del terrore», creava una situazione anomala. Ciascuna delle superpotenze avvertiva il rischio di essere «annientata» da un colpo a sorpresa da parte dell’avversario; entrambe percepivano il fatto che tale pericolo era assoluto sul piano teorico ma relativo sul piano pratico, poiché il calcolo del rapporto costi/benefici conteneva una variabile indipendente, indicata dall’impossibilità di prevedere gli effetti di un attacco a sorpresa sulla capacità di risposta dell’antagonista. L’incertezza derivante da tale considerazione prospettava i rischi di una «mutua distruzione assicurata», come si disse allora, che imponeva, in parallelo con la crescita dei sistemi offensivi, la ricerca di regole condivise in relazione al loro uso. In pratica ciò portava a una situazione di stallo, che le parti percepivano, ma che esse tradussero in reciproche garanzie solo con grande lentezza e non senza punte di rischio assai accentuate. Nel 1953 i sovietici avevano sperimentato

due bombe all’idrogeno di potenza limitata (400 kilotoni2). Nel 1954 gli americani effettuarono sei esplosioni sperimentali, la prima della quali della potenza di 15 megatoni3. Gli esperimenti continuarono fino al 1962, con bombe dalla potenza sempre più spaventosa. Nella fase finale delle sperimentazioni nell’atmosfera, i sovietici fecero esplodere un ordigno di 100 megatoni. Gli arsenali di entrambe le potenze erano tali da assicurare, in caso di guerra, l’estinzione della vita civile nel mondo industrializzato. Per trasportare questi ordigni, gli americani si basarono sulla loro superiorità nel numero di bombardieri strategici e nella costruzione di sottomarini a propulsione nucleare, che avrebbero potuto effettuare lanci senza affiorare in superficie. I sovietici puntarono sulla superiorità missilistica. I primi missili avevano una gittata limitata o intermedia. I missili americani Jupiter o Thor, installati anche in basi europee (Gran Bretagna, Italia e Turchia), avevano una gittata di 1.500 miglia nautiche. I sovietici furono i primi a disporre, nel 1957, di missili intercontinentali a lunga gittata, Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles) dalla gittata di 8-10.000 chilometri, cioè tali da raggiungere il territorio degli Stati Uniti. Da quella data il «santuario» americano era esposto alla minaccia di essere colpito direttamente. Poi ebbe inizio la gara per incrementare le rispettive dotazioni e la potenza dei missili, sino a giungere, nella fase più sofisticata, alla costruzione di missili capaci di lanciare dieci testate nucleari in dieci diverse direzioni. La combinazione fra armamenti nucleari e vettori destinati al loro lancio pose il problema della partecipazione europea non solo nel senso della dislocazione di missili a gittata intermedia, situati (come quelli in Turchia) a poca distanza dal territorio sovietico, ma anche della partecipazione di paesi europei al possesso di ordigni nucleari. […]

111 M. ZINNI L’AMERICA VA ALLA GUERRA: ARMI NUCLEARI E PROPAGANDA CINEMATOGRAFICA



M. Zinni, Schermi radioattivi. L’America, Hollywood e l’incubo nucleare da Hiroshima alla crisi di Cuba, Marsilio, Venezia 2013, pp. 74-80.

Il riarmo nucleare postbellico fu accompagnato, tanto negli

Il vero anno di svolta fu il 1957, quando tutti i temi appena indicati divennero espliciti. Durante l’anno si ebbero 44 esperimenti nucleari, in maggioranza americani, con un susseguirsi regolare tra il 1958 e il 1962. Nel campo dei vettori, mentre gli americani agivano nella certezza di possedere un sostanziale primato, che avrebbe portato alla costruzione di 150 missili intercontinentali entro una scadenza ravvicinata, e al lancio di un satellite artificiale americano, i sovietici riuscirono clamorosamente a prevalere con il lancio, avvenuto il 4 ottobre 1957, del primo satellite artificiale, lo Sputnik (compagno di viaggio) che dimostrava i progressi tecnologici effettivamente compiuti dai sovietici […]. La sfida sovietica suscitò un profondo senso di panico negli Stati Uniti ma venne poi raccolta dal presidente John F. Kennedy, entrato in carica nel gennaio 19614. Questi lanciò una poderosa rincorsa, grazie alla quale gli statunitensi furono in grado di mettere in evidenza risorse tecnologiche irraggiungibili, con risultati culminati (luglio 1969) nel primo sbarco di un modulo lunare e di tre passeggeri sul suolo della Luna. 1. ►12_7 e 12_9. Qui il cognome di Nikita Kruscëv è traslitterato come Chruščëv. 2. Il kilotone è l’unità di misura del potere esplosivo delle armi nucleari, corrispondente a 1000 tonnellate di tritolo. 3. Un megatone equivale a 1000 kilotoni, ossia a un milione di tonnellate di tritolo. 4. ►12_9.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto in cosa consiste l’equilibrio del terrore, in quale periodo storico si è affermato e perché.  b  Sottolinea le informazioni principali relative al ruolo dell’Europa nelle dinamiche descritte.  c  Evidenzia gli eventi principali del 1957 e spiega quale significato assunsero per gli Stati Uniti e per l’Unione Sovietica.

Usa quanto in Urss, da un grande sforzo propagandistico. Nel caso degli Stati Uniti fu l’industria cinematografica di Hollywood a sostenere, da questo punto di vista, lo sforzo dell’esercito nel dar vita a nuove e più potenti armi nucleari. In questo brano, lo storico della comunicazione Maurizio Zinni (nato nel 1976) analizza il film Il prezzo del dovere (1952): partendo dalla vicenda biografica di Paul Tibbets

657

FARESTORIA La guerra fredda e la corsa per il primato tecnologico

(1915-2007), il pilota statunitense che nell’agosto 1945 aveva sganciato la bomba atomica su Hiroshima [►11_12], il

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La prima bomba atomica sovietica del 1949 non ridusse il coinvolgimento americano nello scacchiere mondiale, al contrario rese ancor più evidente e pressante agli occhi dell’amministrazione Truman la minaccia che correva il mondo libero e la necessità di adeguare al pericolo crescente le risposte da mettere in campo. […] L’inizio del decennio coincise, così, non solo con la decisione di procedere con una politica volta a espandere la capacità nucleare dell’arsenale statunitense, ma anche con la decisione di sviluppare armi ancora più potenti di quelle che avevano chiuso la seconda guerra mondiale: la bomba all’idrogeno. Tra il 1952 e il 1954 le armi nucleari acquistarono definitivamente un ruolo predominante nella strategia di sicurezza americana mentre al concetto di difesa cominciò ad affiancarsi quello di deterrenza. È in questo clima che vide la luce il secondo film dedicato da Hollywood al Progetto Manhattan e alla distruzione atomica di Hiroshima, Above and Beyond (Il prezzo del dovere l’indicativo titolo italiano) di Melvin Frank e Norman Panama (1952). […] Il film, anche se ambientato durante la seconda guerra mondiale, diviene lo specchio ideale per decifrare, sempre da una prospettiva tutta cinematografica, gli imperativi che la nuova sfida al monolite comunista portava con sé e il sacrificio che la nuova stagione «di guerra» richiedeva alla popolazione americana. Come rileva giustamente Evans1, nella pellicola si esemplifica la politica ufficiale seguita da Hollywood rispetto al tema della spesa militare e della lotta al comunismo in anni particolarmente difficili e problematici come quelli della guerra di Corea2 e del maccartismo3: «[…] le produzioni hollywoodiane cominciarono a promuovere il ruolo ricoperto dall’esercito nell’assicurare il bene della nazione mentre sollecitavano i civili ad accettare i vincoli imposti dalla segretezza, evitare di intromettersi nelle questioni militari ed essere grati che gli Stati Uniti fossero dotati di un arsenale atomico». Non è un caso, inoltre, che questa fosse la prima di una serie di collaborazioni, che arriveranno fino ai primi anni Sessanta, tra l’industria del cinema, il Pentagono4 e,

U4 IL MONDO DIVISO

film serve in realtà a dimostrare la necessità delle nuove armi nucleari per la sicurezza nazionale.

soprattutto, il SAC (Strategic Air Command)5 […]. Fin dalla scritta in sovraimpressione che apre il film […] che ringrazia il Dipartimento della Difesa e l’aeronautica degli Stati Uniti per la collaborazione prestata e per il materiale messo a disposizione, si percepisce lo stretto rapporto che lega la realizzazione della pellicola agli interessi contingenti della politica di difesa americana e il valore simbolico e propagandistico di un’opera che rilegge i fatti che portarono alla distruzione di Hiroshima […] alla luce del nuovo conflitto in atto. Protagonista della vicenda il colonnello Paul W. Tibbets Jr., l’uomo che pilotò il bombardiere Enola Gay […] su Hiroshima il 6 agosto 1945. La vicenda inizia dalla fine: la moglie di Tibbets attende all’aeroporto il ritorno del marito dalla missione che ha permesso di concludere una guerra altrimenti ancora causa di lutti e tragedie. Non è la prima volta che i due innamorati sono costretti per cause di forza maggiore a stare lontani. Tibbets infatti è la quintessenza del soldato: ligio al dovere e scrupoloso nell’eseguire gli ordini, non chiede mai «perché» ma solo «quando» e «come». […] Convocato dai vertici dell’Aeronautica […], Tibbets viene posto di fronte a un dilemma che mostra, se ancora ve ne fosse stato bisogno, di quanto coraggio e abnegazione debba dotarsi un soldato nel momento della sfida più difficile. In presenza di un pulsante rosso viene chiesto al pilota: «Supponiamo che premendo tu possa fermare la guerra domani salvando le vite di mezzo milione di americani e probabilmente altrettante del nemico, ma che facendolo tu debba uccidere un centinaio di migliaia di persone in un istante. Cosa faresti?». Tibbets lo preme senza esitazione e accetta in silenzio il nuovo incarico. Già da questi primi dialoghi sull’operazione è possibile riscontrare come il film si faccia portatore delle giustificazioni classiche sull’attacco a Hiroshima in maniera […] netta e semplificata […]. Anche il tema della sicurezza […] assume in questa pellicola una rilevanza comprensibile solo nella logica della guerra fredda e della nuova minaccia comunista. Tibbets è ossessionato dal silenzio, sulle sue spalle e su quelle degli uomini che

ha il compito di addestrare poggia la vittoria finale, il minimo cedimento e debolezza può compromettere tutto. […] Per lui questa è la guerra e fra un bombardamento con armi convenzionali ed uno con armi atomiche non vi è alcuna differenza. Indicativo uno scambio di battute con la moglie. Mentre la donna si rammarica per la sorte di tutti quei bambini che proprio in quel momento muoiono in guerra sotto i bombardamenti, il marito ribatte seccato che non sono le bombe a essere cattive, ma la guerra stessa, e che bisogna rassegnarsi all’idea terribile che possano morire degli innocenti. «Perdere la guerra sarebbe la cosa più immorale che possiamo fare a questi bambini» conclude Tibbets ribaltando l’assunto e rendendo inaccettabile l’idea stessa di non lanciare la bomba su Hiroshima. […] Proprio perché profondamente giusta, la scelta di lanciare la bomba su Hiroshima viene alla fine coronata da successo. […] Questa breve analisi mette in evidenza quanto il film risenta degli anni in cui vide la luce. Nella pellicola […] i dubbi che vengono sollevati riguardo alla bontà dello sviluppo e dell’impiego della bomba atomica sono risolti collegandoli esplicitamente alla sopravvivenza dell’American way of life. […] Non ci sono dubbi né incertezze: quello che si fa è solo nell’interesse della nazione e non lascia spazio ad alcun tipo di indecisione. […] Anche se non dichiarato, palese è il rimando del film a un contesto in cui il tema atomico si lega a doppio filo alla difesa degli interessi nazionali e alla lotta al comunismo. La bomba appare, così, come l’estremo baluardo dell’Occidente, l’ultimo gendarme a difesa del mondo libero. Una prospettiva «positiva» sulla nuova arma che divenne il punto di coesione del con-

1. Joyce A. Evans, autrice del volume Celluloid Mushroom Clouds. Hollywood and the Atomic Bomb (1999). 2. ►12_5. 3. ►12_7. 4. Il Dipartimento della Difesa statunitense, dal nome dell’edificio che lo ospita. 5. Struttura operativa dell’esercito statunitense incaricata della detenzione e dell’uso delle armi nucleari e dei missili balistici.

senso funzionale alla logica dei tempi in corso: la collettività doveva guardare al riarmo nucleare non come a una fonte di preoccupazioni, ma come a una speranza di pace in un orizzonte minacciato da nubi di guerra.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega quando comparve il concetto di “deterrenza” nelle strategie di difesa americane e perché.  b  Sottolinea le informazioni principali relative al ruolo delle produzioni hollywoodiane nella propaganda politica americana e riassumi in 3 righe il contributo dato dal film analizzato.  c  Spiega per iscritto in che modo viene rappresentato il ricorso alla bomba atomica da parte degli Usa attraverso precisi riferimenti al film.

112 A. MANTEGAZZA LA RIVALITÀ SPAZIALE: SUPERIORITÀ SOVIETICA E TIMORI OCCIDENTALI

A. Mantegazza, La conquista dello spazio e le applicazioni industriali, in Storia dell’economia mondiale, VI, Nuovi equilibri in un mercato globale, a c. di V. Castronovo, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 368-73.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60, una delle principali preoccupazioni occidentali riguardava la superiorità sovietica in campo spaziale, evidente da quando, nell’ottobre 1957, aveva Laddove la bomba atomica fu senz’altro un successo esclusivo degli Stati Uniti, giunti alla sua costruzione con un largo anticipo rispetto all’Unione Sovietica, l’esplorazione dello spazio, al contrario, nella dimensione di attività scientifica e commerciale autonoma dall’impiego militare dei missili come sistemi d’arma, è stata, se non proprio un’invenzione dell’Urss, una strada da essa battuta in anticipo rispetto agli americani. […] L’affermazione e il primo consolidamento delle iniziative e dei programmi spaziali in entrambe le superpotenze si inseriscono nella situazione geopolitica che si usa definire della «guerra fredda», dominata dalle nuove opzioni di strategia militare emerse in seguito alla fabbricazione della bomba atomica e delle sue successive evoluzioni, rispetto alle quali il lancio del primo Sputnik nel 1957 aprì una nuova frontiera nella dimensione del confronto militare e tecnologico. Negli Stati Uniti, dove l’impatto dell’evento sull’opinione pubblica fu molto forte, si attribuiva all’Unione Sovietica una superiorità anche maggiore di quella reale. […] Al di là degli spunti propagandistici, si vorrebbe sapere di più sulle origini della missilistica sovietica e soprattutto sul processo che ha portato al suo exploit1, nonché su quella situazione, che si protrasse almeno fino alla metà degli anni Sessanta, nel corso della quale la leadership sovietica nell’attività spaziale restò nelle mani dell’Urss. […] Il convinto sostegno finanziario e organizzativo da parte dello Stato, tanto dell’apparato politico quanto

lanciato nello spazio il primo satellite artificiale, lo Sputnik I [►15_5]. Il lancio di questi satelliti, infatti, richiedeva dei razzi molto potenti: lo Sputnik, quindi, dimostrò al mondo che l’Urss era ormai in grado di colpire, grazie ai suoi razzi, praticamente ogni luogo del pianeta. Come spiega in questo brano lo storico dell’industria Amilcare Mantegazza, il primato sovietico durò fino alla metà degli anni ’60, quando i progressi statunitensi superarono quelli sovietici, preparando il viaggio dei primi esseri umani sulla Luna.

delle forze armate, rappresentò un fattore importante nella fase iniziale dell’evoluzione dei razzi e restò centrale anche in seguito. […] Entrambe le superpotenze attinsero a piene mani dalle competenze accumulate dai tecnici e dagli scienziati tedeschi nel corso della guerra, che furono più o meno volontariamente arruolati allo scopo di ottenere le informazioni utili […]. Il volo del primo Sputnik, seguito a breve distanza di tempo da altri satelliti orbitali, in grado di navigare ed effettuare performances scientifiche sempre maggiori nello spazio, tuttavia, aveva alle spalle ben di più delle informazioni riprese dai tedeschi. L’exploit sovietico rifletteva un programma preciso che si fondava su un’intensa preparazione tecnica e scientifica, una visione altrettanto definita di quella che doveva essere l’esplorazione dello spazio e dei risultati che si volevano ottenere. Esso, peraltro, non solo presupponeva l’esistenza di un’élite scientifica dotata di un elevato spessore, bensì anche una struttura industriale in grado di produrre i velivoli spaziali e i sofisticati strumenti che servivano per guidare e svolgere le operazioni che si prevedeva di svolgere nello spazio: la costruzione del cosmodromo di Bajkonur2 iniziò nel 1955. […] Il programma spaziale sovietico seguì un crescendo fino grosso modo alla seconda metà degli anni Sessanta, dopodiché gli sviluppi americani, in vista del prossimo allunaggio, presero il sopravvento. Tra il 1957 e il 1965 furono lanciati i satelliti ar-

tificiali Sputnik I e Sputnik II, e dopo aver sperimentato il volo in assenza di gravità sugli animali, la cagnetta Laika e i cani Belka e Strelaka, nel 1961 Jurij Gagarin3 inaugurò la presenza umana nello spazio, seguito qualche mese dopo da German Titov. Nel frattempo, una sonda spaziale aveva raggiunto la Luna (settembre 1959) e un’altra era stata invita alla volta di Marte (1962); nel 1963 fu montata la prima stazione spaziale e, l’anno successivo, la Vostok orbita attorno alla Terra con un equipaggio di tre astronauti; nel 1965 Aleksej Leonov effettua la prima passeggiata nello spazio e nel 1966 la sonda Luna 9 effettua la circumnavigazione della Luna e rientra sulla terra. In sostanza tra il 1957 e il 1967 l’astronautica sovietica era passata dagli Sputnik, semplici satelliti di comunicazione, alla messa in orbita di capsule spaziali con equipaggio umano, in grado di effettuare missioni nello spazio, ed era stata capace di inviare sonde che avevano colpito e circumnavigato il satellite naturale della Terra. […] Il ritardo accumulato dall’America nei confronti dell’Unione Sovietica nell’ambito dell’attività spaziale dipese senz’altro da alcune scelte fatte dalle forze armate di quel paese subito dopo la guerra. […] Alle

1. Sviluppo coronato da successo. 2. Base di lancio per vettori missilistici, situata in Kazakistan, allora una delle repubbliche sovietiche. 3. ►15_5 e FS, 113d.

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FARESTORIA La guerra fredda e la corsa per il primato tecnologico

pressioni della comunità scientifica, particolarmente forti in previsione dell’International Geophysical Year (1957-58), che auspicavano il lancio di un satellite artificiale a scopo di studio, si rispose col varo del programma Vanguard […]. Il successo non arrise a tale iniziativa, anche a causa dello sviluppo arretrato del vettore, il Viking, e il lancio del primo Sputnik, il 4 ottobre 1957, giunse ben prima che l’iniziativa americana fosse pronta a mettere in orbita il proprio satellite – il che avvenne […] l’anno seguente. Negli Stati Uniti l’impatto dell’evento fu molto forte, suscitando nell’opinione pubblica una reazione che si spiega tanto con il clima creato dalla guerra fredda quanto con il fatto che i missili balistici con motore a razzo e l’esplorazione dello spazio possedevano implicazioni di carattere militare molto



ampie, soprattutto se riferiti alla possibilità di dotare i vettori di testate nucleari, la realizzazione dei quali, per la prima volta, avrebbe cancellato l’insularità4 del continente americano in caso di conflitti globali. Il vantaggio raggiunto dall’Urss con la messa in orbita di satelliti e la logica della guerra fredda, oramai imperante, convinsero gli Stati Uniti a ingaggiare una vera e propria competizione nella corsa verso la conquista dello spazio. [Il confronto politico] si imperniò sulla leadership tecnologica come indice del successo dei due sistemi, il capitalismo e il socialismo5, laddove le implicazioni militari restarono assai meno visibili e in larga misura segrete. La rincorsa americana durò fino alla fine degli anni Sessanta, cioè fino a quando il gap non fu colmato dallo sbarco sul-

4. Il fatto di essere un’“isola” costituiva un vantaggio per gli Usa, che non erano mai stati invasi. 5. ►FS, 113d.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega cosa era lo Sputnik e cosa ha rappresentato nell’immaginario americano.  b  Realizza una tabella comparativa delle tappe dell’esplorazione dello spazio da parte di Usa e Urss indicando le date di riferimento.  c  Scrivi una didascalia a commento della tabella che hai realizzato per l’esercizio precedente in cui analizzerai i risultati ottenuti dall’una e dall’altra parte e le relative conseguenze.

113d IL PRIMO UOMO NELLO SPAZIO

«Pravda», 13 aprile 1961, citato in Atlante del XX secolo. I documenti essenziali, 1946-1968, a c. di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 229-31.

Il 12 aprile 1961, l’astronauta sovietico Yuri Gagarin (1934-1968) fu il primo uomo a essere lanciato nello spazio, a bordo della navicella Vostok [►15_5]. Già nel 1957, i sovietici avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik: i due eventi, che dimostravano la suAL PARTITO COMUNISTA E AI POPOLI DELL’UNIONE SOVIETICA! AI POPOLI E AI GOVERNI DI TUTTI I PAESI! A TUTTA L’UMANITÀ PROGRESSISTA! Messaggio del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, del Presidium del Soviet Supremo dell’Urss1 e del Governo dell’Unione Sovietica Un grande avvenimento si è compiuto. Per la prima volta nella storia un uomo ha effettuato un volo nello spazio. Il 12 aprile 1961, alle ore 9 e 7 minuti ora di Mosca, la navicella spaziale «Vostok» [«Oriente»] con un uomo a bordo è stata lanciata nello spazio e, dopo aver compiuto un giro intorno al globo terrestre, è felicemente ritornata sul sacro suolo della nostra patria, il Paese dei Soviet. Il primo uomo ad entrare nello spazio è un uomo sovietico, un cittadino dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche! È una vittoria senza precedenti dell’uomo

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la Luna nell’agosto 1969, un obiettivo che i sovietici non furono in grado di, o non vollero, cogliere.

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premazia sovietica in campo spaziale, impressionarono profondamente l’opinione pubblica. Il brano che segue è un articolo della «Pravda», il giornale ufficiale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, del 13 aprile 1961: l’impresa di Gagarin viene qui propagandisticamente celebrata come una dimostrazione dei risultati straordinari raggiunti dal socialismo.

sulle forze della natura, una conquista suprema della scienza e della tecnica, esaltazione dell’intelligenza umana. È davvero l’inaugurazione dei voli dell’uomo nello spazio cosmico. In questa impresa, destinata a restare nella storia, si incarna il genio del popolo sovietico, la forza potente del socialismo. […] Ad aprire questa nuova era nel cammino di progresso dell’umanità è il nostro paese, il paese del trionfo del socialismo. L’arretrata Russia zarista del passato non avrebbe mai potuto nemmeno sognare di realizzare imprese del genere nel suo impegno verso il progresso, di trovarsi a competere con i paesi più evoluti in termini tecnico-economici. Grazie alla volontà della classe operaia, grazie alla volontà del popolo, ispirati dal partito dei comunisti con alla testa Lenin, il nostro paese si è trasformato in una grande potenza socialista, raggiungendo un livello altissimo nello sviluppo della scienza e della tecnica. […] Il nostro paese ha superato tutti gli altri Stati del mondo e

per primo ha segnato la strada nello spazio. Per prima l’Unione Sovietica ha lanciato razzi balistici intercontinentali, per prima ha spedito satelliti artificiali della Terra, per prima ha mandato una navicella spaziale verso la Luna, per prima ha creato un satellite artificiale del Sole, e ha fatto volare un’astronave in direzione del pianeta Venere. Una dopo l’altra, le navicelle spaziali sovietiche con esseri viventi a bordo compiono voli nello spazio e poi ritornano sulla Terra. A coronamento delle nostre vittorie nella conquista dello spazio, è arrivato ora il trionfale volo di un uomo sovietico su una navicella spaziale intorno alla Terra. [...] A noi, uomini sovietici, impegnati nella costruzione del comunismo, è stato dato l’onore di entrare per primi nello spazio

1. Organo direttivo permanente del Soviet supremo, massima autorità dello Stato.

cosmico. Per noi, ogni passo avanti sulla strada della conquista dello spazio non costituisce un avanzamento solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità. Con gioia noi lo mettiamo al servizio di tutti i popoli, nel nome del progresso, della felicità e del benessere di tutti gli uomini della Terra. Noi mettiamo le nostre realizzazioni e le nostre aperture di orizzonti non al servizio della guerra, ma al servizio della pace e della sicurezza dei popoli. Lo sviluppo della scienza e della tecnica apre illimitate possibilità per il dominio

delle forze della natura e per la loro utilizzazione a beneficio dell’uomo, e a questo fine è prima di tutto necessario assicurare la pace. In questo giorno solenne ci rivolgiamo ancora una volta ai popoli e ai governi di tutti i paesi con parole di invocazione della pace. Perché tutti gli uomini, senza distinzione di razze e nazioni, senza distinzione di colore della pelle, di religione e di condizione sociale, uniscano tutte le forze per assicurare una solida pace in tutto il mondo. Mettiamo fine alla corsa

agli armamenti! Attuiamo un generale e pieno disarmo sotto un severo controllo internazionale! METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le espressioni e gli aggettivi utilizzati per descrivere l’impresa della navicella spaziale «Vostok».  b  Sottolinea con colori diversi coloro che hanno reso possibile, nelle parole dell’autore, l’impresa spaziale e gli effetti che l’impresa sembrerebbe aver avuto.  c  Spiega che tipo di documento è questo e quale messaggio intende trasmettere.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 11 V. VOLIKOV (1927-1989) «GLORIA AL POPOLO SOVIETICO, PIONIERE DELLO SPAZIO!». «LO SPAZIO SARÀ NOSTRO!», MOSCA 1962

Tra il 1957 e il 1963 sono stati numerosi i primati sovietici nella corsa allo spazio, come il viaggio del primo essere vivente, del primo uomo e della prima donna. Grazie a questi risultati, il socialismo sembrò trionfare sul capitalismo e la propaganda sovietica cavalcò per diversi anni l’onda dell’”entusiasmo cosmico” per mezzo di numerosi manifesti, fotografie e filmati. Dal punto di vista grafico, particolare rilievo fu dato alla rappresentazione della sonda spaziale e agli astronuti che parteciparono alle missioni Vostok (Yuri Gagarin fu il primo uomo in assoluto a compiere un volo nello spazio e nel 1963 Valentina V. Tereškova fu la prima donna). L’uso dei colori, le forme svettanti verso i cieli siderali, tutto trasmette il senso di trionfo che i russi provavano in questa

competizione fino a farne una corsa ideo­logica e non solo tecnologica.

GUIDA ALLA LETTURA

 a   Rispondi per iscritto alle seguenti domande: 1. Quale sensazione ti trasmette il manifesto? 2. Chi è il soggetto rappresentato? Da cosa lo riconosci? Cosa sta facendo? Per rispondere a queste domande leggi con attenzione il cappello introduttivo e il titolo del manifesto e osserva i simboli presenti nella rappresentazione. 3. Quali sono gli elementi grafici che rimandano alla corsa allo spazio? 4. Qual è il messaggio che il manifesto intende trasmettere e quali elementi grafici concorrono alla sua comunicazione? Metti a confronto il risultato di questa analisi con la tua risposta al punto A. La sensazione da te provata inizialmente coincide con quella che l’autore intendeva sollecitare? Perché?

114 J. RYAN ARPANET: LE ORIGINI DI INTERNET ALL’OMBRA DELLE ARMI NUCLEARI



J. Ryan, Storia di Internet e il futuro digitale, Einaudi, Torino 2011, pp. 5-12; 20-28.

Le origini di Internet si collocano nelle logiche di difesa nazionale fatte emergere dalla guerra fredda: gli Stati Uniti, infatti, temevano che, in caso di attacco sovietico, i vertici dell’esercito avrebbero potuto perdere i contatti con i vari centri che gestivano l’armamento nucleare. Nella prima metà degli anni ’60, cercando una soluzione a questo problema, l’ingegnere Paul Baran (1926-2011) ebbe l’idea di far procedere le informazioni attraverso il passaggio in una serie di «nodi» che davano vita a una «rete»: l’idea era rivoluzionaria, ma fu accantonata

per l’indisponibilità della compagnia telefonica AT&T di metterla in pratica. Come è ricostruito in questo brano dallo studioso irlandese Johnny Ryan (nato nel 1980), l’idea alla base di questa proposta fu però ripresa da alcune tra le università che si occupavano di alta tecnologia (hi-tech) e da altre istituzioni di ricerca, sostenute dal Dipartimento della Difesa: dietro la divisione delle informazioni in «pacchetti», c’era tanto l’idea di creare una rete che portasse alla rimozione e addirittura alla distruzione di tutte le «infrastrutture» delle comunicazioni, quanto quella di garantire un libero accesso ai dati da parte dei ricercatori. Tra il 1969 e il 1971 nasceva così Arpanet, basata sulla trasmissione di messaggi di posta elettronica: si trattava del progenitore della rete Internet.

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FARESTORIA La guerra fredda e la corsa per il primato tecnologico

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Il decennio del 1950 fu un periodo di alta tensione. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si preparavano a una guerra nucleari in cui le vittime sarebbero state non nell’ordine di milioni ma di centinaia di milioni. All’inizio del decennio i consiglieri strategici del presidente Truman raccomandarono di attuare un massiccio programma di riarmo degli Stati Uniti per far fronte alla minaccia comunista […]. Entro la metà degli anni Sessanta l’aeronautica militare aveva potenziato i missili nucleari con l’uso di combustibile solido che riduceva il tempo di lancio da otto ore a pochi minuti. I nuovi missili, Minuteman e Polaris, erano azionati da dispostivi sensibilissimi che scattavano all’istante. Una conflagrazione nucleare sarebbe potuta divampare, letteralmente, in un batter d’occhio. Tuttavia, se da un lato era diventato più facile far piovere missili americani sul nemico, dall’altro i sistemi di comando e di controllo strategico che li coordinavano continuavano a rimanere vulnerabili come lo erano sempre stati. […] Questa era stata una preoccupazione fin dall’inizio dell’era nucleare. […] Ma per i dieci anni che seguirono nessuno ebbe la minima idea di come garantire le comunicazioni di comando e controllo una volta che i missili militari fossero stati lanciati. […] La RAND1, un istituto di ricerca statunitense, stava lavorando a questo problema e un suo ricercatore, Paul Baran, […] era convinto che il miglioramento della rete di comunicazioni attraverso gli Stati Uniti fosse la chiave di volta per evitare la guerra. […] In breve, i militari dovevano trovare un modo per restare in contatto con la propria forza d’urto nucleare, anche se questa era disseminata in tutto il paese per precauzione tattica contro il nemico. La soluzione fornita dalla RAND fu rivoluzionaria sotto molti aspetti – non ultimo quello che stabiliva i principi guida di Internet. […] In un memorandum del 1962, «Sulle reti distribuite di comunicazione», Baran descriveva il funzionamento della sua rete. I messaggi che viaggiavano non avrebbero seguito un percorso predefinito dal mittente al destinatario. Avrebbero avuto semplicemente delle etichette di destinazione e provenienza, «a» e «da», e a ogni nodo che avessero incrociato nel loro percorso a quel punto si sarebbe deciso verso quale nodo procedere successivamente per raggiungere la loro destinazione nel più breve tempo possibile. […]

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La sua idea superava di molto la capacità della tecnologia esistente. Tuttavia, la nuova tecnologia, quasi del tutto inesplorata, delle comunicazioni digitali poteva in teoria inviare segnali praticamente a qualunque distanza. Era una proposta rivoluzionaria. Baran stava proponendo di combinare due tecnologie che in precedenza erano isolate: i computer e le comunicazioni. […] Baran si rese conto che i messaggi digitali potevano essere resi più efficienti se fossero stati spezzettati in piccoli «pacchetti» di informazioni. […] I pacchetti di dati potevano viaggiare indipendentemente l’uno dall’altro da nodo a nodo attraverso una rete distribuita finché non giungessero a destinazione dove i messaggi venivano ricostituiti nella loro interezza. […] Quando l’aeronautica militare propose all’AT&T2 di esaminare l’idea di Baran, la compagnia «obiettò con veemenza». […] Quindi nel 1966 il programma fu quietamente accantonato […]. Sebbene fosse chiamata guerra fredda, quella che i belligeranti combatterono fu uno scontro rovente di sfide tecnologiche. Alla fine del 1957, gli americani ebbero l’impressione che i sovietici avessero la meglio. […] I sovietici non soltanto furono i primi a lanciare un satellite nello spazio, ma oltretutto si trattava di un satellite […] che pesava otto volte di più di quello che gli Stati Uniti intendevano mettere in orbita. […] Gli americani sentivano una forte sensazione di pericolo. […] Dopo lo Sputnik, Neil McElroy, nominato segretario alla Difesa nell’ottobre 1957, ricevette il mandato di smuovere la situazione. […] Nel febbraio 1958 fu creata l’Advanced Research Projects Agency (ARPA) […]. Una figura fondamentale nella storia del coinvolgimento dell’ARPA con Internet e con lo sviluppo dei computer in generale fu uno straordinario personaggio, J.C.R. Licklider. […] Nel suo modo di pensare Licklider poneva molto l’accento sulla collaborazione e ipotizzava uno scenario futuro in cui un ricercatore di un centro di ricerca potesse trovare in rete un’utile risorsa informatica proveniente da un altro centro di ricerca. […] Licklider aveva creato le premesse, ma colui che propose per primo all’ARPA di avviare un progetto importante di collegamento di reti fu Bob Taylor, capo dell’IPTO3 dalla fine del 1965. La sua motivazione era puramente pratica. Il dipartimento della Difesa era il più grande acquirente del mondo di mac-

chine informatiche e la stessa ARPA finanziava l’installazione di grossi computer nei centri di ricerca di tutto il paese. Eppure le incompatibilità tra le numerose varietà di computer acquistati impedivano loro di comunicare l’uno con l’altro […]. Taylor propose al direttore dell’ARPA, Charlie Herzfeld, la soluzione del problema […]. La proposta era semplice: l’ARPA doveva finanziare un progetto che cercasse di connettere insieme un numero ridotto di computer e realizzare una rete tramite la quale i ricercatori che l’usassero potessero collaborare. Se la rete avesse funzionato, non solo avrebbe fatto sì che computer diversi comunicassero ma avrebbe anche consentito ai ricercatori di un centro di usare da lontano i programmi dei computer di altri centri, contribuendo così a diminuire i costi per l’ARPA. La rete descritta da Taylor sarebbe diventata nota successivamente come ARPANET. […] L’ARPA avrebbe acquistato un minicomputer da installare in ogni centro connesso perché servisse da anello intermedio tra la rete dell’ARPA e il calcolatore del centro (denominato computer «host», ospite, in gergo informatico). […] Nel 1968 un nuovo direttore dell’agenzia, Eberhardt Rechtin, firmò un progetto per la costruzione iniziale di una rete a quattro nodi che avrebbe collegato tra loro i computer dello Stanford Research Institute (SRI), dell’Università della California (UC) a Santa Barbara, dell’Università della California a Los Angeles (UCLA) e dell’Università dello Utah, a un costo di 563000 dollari. […] Il 3 giugno 1968, l’ARPA bandì una gara d’appalto per la costruzione del modello di collaudo di una «rete informatica con condivisione di risorse». Una piccola impresa, la Bolt, Beranek e Newman (BBN), presentò la proposta vincente. […] Il progetto fu realizzato in nove mesi tra la firma del contratto e la consegna delle apparecchiature […]. Il 29 ottobre 1969 alle 22.30, due delle macchine IMP consegnate dalla BBN alla

1. La Rand è un istituto di ricerca statunitense nato nel 1946 con il supporto finanziario del Dipartimento della Difesa: il suo nome deriva dalla contrazione dei termini «research and development» («ricerca e sviluppo). 2. Compagnia telefonica statunitense, che avrebbe dovuto sostenere questo progetto sotto il profilo tecnico. 3. Ufficio per le tecniche di elaborazione dell’informazione dell’Arpa.

UCLA e allo Stanford Research Institute fecero il loro primo tentativo di comunicare l’una con l’altra a una distanza di 350 miglia di linea telefonica dedicata. Questa fu la prima trasmissione di ARPANET. Entro il dicembre 1969 il quarto nodo era stato connesso. Entro aprile 1971 la rete si era estesa fino a includere quindici nodi. […] Ma anche se la rete funzionante dell’ARPA fu una tappa di grande importanza, non era ancora Internet.

PALESTRA INVALSI

1 Quando a metà del testo l’autore parla di una proposta rivoluzionaria, intende... [ ] a. quella di costruire una rete a quattro nodi che avrebbe collegato tra loro i computer di diverse università; [ ] b. quella di spezzettare i messaggi digitali in piccoli «pacchetti» di informazioni; [ ] c. quella di combinare due tecnologie prima isolate: i computer e le comunicazioni; [ ] d. quella che avrebbe permesso ai militari di restare in contatto con la propria forza d’urto nucleare. 2 La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? Perché? «La “rete informatica con condivisione di risorse” realizzata sotto richiesta dell’Arpa nel 1969 coincideva con quella che poi sarebbe stata chiamata Internet.» [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di massimo 30 righe dal titolo La corsa allo spazio e la propaganda. Prima di procedere con la scrittura, seleziona i testi storiografici e le fonti scritte e iconografiche utili alla tua argomentazione e individua per ognuno di essi delle parole o frasi chiave. Utilizza queste ultime come guida per il tuo lavoro citando il brano o la fonte da cui le hai estrapolate e arricchendo la trattazione con esempi tratti dal manuale.

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Rileggi il brano storiografico di Di Nolfo [►110] sugli anni della guerra fredda e sintetizzane l’idea chiave sul quaderno. Quindi confrontala con le informazioni che puoi ricavare dalle fonti e dagli altri brani storiografici presenti nel percorso e utilizzale per supportare e/o arricchire quanto sostenuto dallo storico citando opportunamente i testi.

LE CITTÀ: METE DI IMMIGRAZIONE, LUOGHI DI DIVISIONE Nel secondo dopoguerra, con l’avanzare dell’industrializzazione, si assistette, in tutti i paesi, a un diffuso processo di urbanizzazione. Ovunque, questo processo creò notevoli problemi, dovuti all’incapacità delle città di offrire alloggi e infrastrutture sufficienti ai nuovi arrivati. In Italia, ad esempio, fra il 1958 e il 1963, il continuo esodo dalle campagne spinse grandi masse di lavoratori a emigrare, soprattutto a Roma e nei tre vertici del cosiddetto “triangolo industriale” (Genova, Torino, Milano). Vittorio Vidotto [►115] illustra il caso di Roma, dove i nuovi venuti andarono a ingrossare i nuclei già esistenti di baracche spontanee; lo studioso britannico John Foot [►116] invece analizza il caso di Milano, dove furono costruiti nuovi insediamenti, noti con il nome di “coree”. Lo studioso e diplomatico statunitense Edwin O. Reischauer [►117] si sofferma sul caso di Tokyo, dove l’urbanizzazione assunse caratteristiche ancora più selvagge e disordinate, ma dove si sviluppò su questo tema un vivace dibattito culturale. Lo storico dell’economia Paul Bairoch [►118] spiega, infine, come questa esplosione urbana non si sia limitata ai soli paesi industrializzati ma abbia riguardato anche – e forse soprattutto – quelli del cosiddetto Terzo Mondo.

115 V. VIDOTTO ROMA: CRESCITA DEMOGRAFICA E SVILUPPO URBANO



V. Vidotto, Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 278-80.

La città di Roma era sempre stata una meta di immigrazione, prevalentemente dal Lazio e dall’Italia centrale. Questa tendenza si fece ancora più evidente nel secondo dopoguerra

quando, nonostante una legge fascista che fino agli inizi degli anni ’60 limitò di fatto i trasferimenti nella capitale, essa divenne meta anche dell’immigrazione proveniente dall’Italia meridionale [►14_6]. In questo brano, lo storico Vittorio Vidotto (nato nel 1941) illustra le cifre di queste trasformazioni demografiche, prestando particolare attenzione alle loro ricadute sulla già precaria situazione abitativa della capitale.

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FARESTORIA LE CITTÀ: METE DI IMMIGRAZIONE, LUOGHI DI DIVISIONE

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La nuova fase politica1 trovava una città profondamente mutata rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra. Non tanto nella struttura della società, quanto nella dimensione quantitativa e nelle trasformazioni indotte da una fortissima crescita demografica. Nel 1961 la città contava 2.188.160 abitanti: più del doppio di trent’anni prima e un terzo in più che nel 1951 quando gli abitanti erano 1.651.700. Ormai la popolazione di Roma distanziava nettamente quella delle altre grandi città italiane: Milano aveva, nel 1961, oltre 600.000 abitanti in meno. Fra il 1951 e il 1961 i rioni centrali registrarono una diminuzione del 34%, passando dal 424.200 a 278.610 residenti […]. Nei quartieri urbani2, con 1.607.200 abitanti, grazie a una crescita del 50%, risiedevano, nel 1961, i tre quarti circa della popolazione romana. Un aumento più consistente avevano avuto, nel corso del decennio, i suburbi3, i quartieri marini4 e soprattutto l’Agro5, dove gli abitanti erano più che raddoppiati, segno evidente della diffusione di forme di residenza spontanee, abusive e precarie. Come in passato, l’espansione demografica era dovuta per gran parte all’immigrazione. Fra il 1955 e il 1961 si contano 438.000 immigrati e se ne conteranno 551.000 tra il 1962 e il 1968. In tre anni, dal 1961 al 1963, arrivano 350.000 nuovi abitanti mentre sono 112.700 quelli che lasciano la città. Si mantiene elevata l’immigrazione dal Lazio, con un contributo del 26-27%; cresce quella dal Sud, dal 36% degli anni 1948-1954 al 40% nel 1955-1961. […] Il carattere dominante di Roma è quello di una grande città terziaria, nonostante una lieve diminuzione del peso percentuale di questo settore, dal 66,8 al 65,5% proprio nel decennio 1951-1961. Una diminuzione legata al calo degli addetti della pubblica amministrazione, passati dal 28,3 al 21,7%, e non compensata dall’aumento negli altri comparti del terziario cresciuti dal 38,5 al 43,8. Nel decennio diminuisce anche la percentuale degli addetti all’agricoltura, dal 3,7 al 2,8%, e cresce invece, seppure di poco, quella degli addetti all’industria, dal 29,5 al 31,7%. Il peso dell’edilizia passa dal 10 al 10,8%. […] Sotto la spinta della grande crescita demografica, la domanda di alloggi rimaneva elevatissima. Non si trattava

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solo di accogliere i nuovi arrivati, ma di risolvere diffusi problemi di affollamento e coabitazione e insieme di sanare la questione sociale rappresentata dagli alloggi precari e impropri. L’inchiesta parlamentare del 1951-1952 sulla miseria in Italia registrava per Roma 93.054 persone residenti in abitazioni improprie. Oltre alle baracche, alle grotte e ai ruderi erano censite le borgate costituite dalle vecchie casette provvisorie degli anni del fascismo, prive di adeguati servizi igienici e largamente degradate. 9701 persone vivevano poi in alloggi collettivi di emergenza. Nel 1957 un’inchiesta del Comune, limitata agli alloggi precari, individuava 551 insediamenti e 54.576 abitanti. Fra i nuclei principali quelli di Campo Parioli con 1484 abitanti, di Prato Rotondo con 957, dell’Acquedotto Felice con 906: qui, come lungo la via del Mandrione, le baracche e le casette erano costruite fra gli archi o a ridosso dell’antico acquedotto, coniugando pittoresco e povertà estrema. Tutti questi nuclei erano privi di fognature e di illuminazione stradale. L’acqua era fornita solo dalle fontanelle pubbliche. Vi era tuttavia una logica funzionale di questi insediamenti: la maggior parte di essi, infatti, era collocata in prossimità dei servizi pubblici di trasporto. La provenienza dei capifamiglia presenti negli alloggi precari rispecchiava fedelmente la distribuzione dell’immigrazione povera dal Centro e dal Sud, con una netta prevalenza dei nati nel Lazio. Spesso si trattava di immigrati a Roma da molti anni: il 47% era arrivato prima del 1940. I nuclei registravano anche una certa mobilità, nel quadro di una marginalità sociale destinata inevitabilmente a riprodursi anche grazie all’esistenza stessa di quegli insediamenti. Contro gli abitatori delle grotte, i «trogloditi» del Flaminio, tuonavano i giornali benpensanti già nel primo dopoguerra, mentre ora le baracche si insinuavano persino nel parco di Villa Balestra ai Parioli6. Il problema della casa si presentava di nuovo come il nodo cruciale della vita cittadina. Intorno alla sua soluzione si giocarono le fortune politiche dei partiti e si misurarono le capacità progettuali dell’amministrazione. In questo campo iniziativa pubblica, investimenti privati, speculazione si confrontarono

con le attese dei cittadini: disponibilità di alloggi, fitti contenuti e, soprattutto, l’aspirazione alla proprietà formale o di fatto della casa. Nel tempo questi obiettivi furono sostanzialmente raggiunti grazie a una serie di interventi normativi, all’azione diretta di enti pubblici o semipubblici e alla messa in opera di un complesso intreccio politico e clientelare, che attraverso cooperative, mobilitazione dal basso, abusi e condoni edilizi diede luogo a un consolidato sistema di grandi e piccoli privilegi, di diffuse e articolate parzialità: mantenendo sempre precario e mai equamente risolto l’equilibrio fra aspirazioni e diritti. 1. L’elezione di una giunta di centro-sinistra, nel 1962. 2. I quartieri urbani di Roma, che circondano il centro storico fuori dalle Mura aureliane, sono 32. 3. I suburbi di Roma sono le zone periferiche “oltre quartieri”. 4. La località di Ostia, appartenente al Comune di Roma, è suddivisa dal punto di vista toponomastico in tre quartieri: Lido di Ostia Levante, Lido di Ostia Ponente, Lido di Castel Fusano. 5. L’Agro romano è la grande area rurale che si estende attorno alla città di Roma, tra il Grande raccordo anulare e i confini del Comune. 6. Quartiere benestante di Roma.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea e trascrivi sul quaderno i dati percentuali riportati nel brano indicando a quale città, a quale settore e a quale anno si riferiscono. Quindi indica quali informazioni puoi ricavare sulla crescita demografica e sullo sviluppo urbano della città analizzata dai dati riportati.  b  Sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze dello sviluppo urbano descritto.  c  Descrivi per iscritto quali problemi provocò l’aumento dell’urbanizzazione.



116 J. FOOT LE COREE MILANESI

J. Foot, Dentro una città irregolare. Una rivisitazione delle coree milanesi, 1950-2000, in R. Lumley, J. Foot, Le città visibili. Spazi urbani in Italia, culture e trasformazioni dal dopoguerra a oggi, Il Saggiatore, Milano 2007, pp. 56-73.

Nei primi anni ’50, come Roma [►FS, 115], anche Milano fu una delle mete predilette dei fenomeni di urbanizzazione e migrazioni che coinvolsero tutto il paese [►14_6]: tra il 1951 Le zone caratterizzate dall’autocostruzione cominciarono a essere chiamate «coree», per la somiglianza con le immagini che giungevano dalla guerra in Corea1. Le coree proliferavano negli anni cinquanta e sessanta. Nel 1965 si stimava che nella regione milanese vivessero oltre 100mila persone. Le parti di città autocostruite divennero per un breve periodo motivo di vergogna e furono oggetto di campagne politiche. […] Questo contributo […] si propone di rivisitare le coree cinquant’anni dopo la loro costruzione. Dimostrerò che […] lungi dall’essere illegali, le coree erano a tutti gli effetti legali. Stigmatizzate come esempi di carenti condizioni abitative e simboli di marginalizzazione, erano generalmente caratterizzate da abitazioni di buona qualità e spesso favorivano l’integrazione. Coloro che costruirono le coree non rappresentavano il gradino più basso nella scala sociale dell’immigrazione, ma piuttosto un’aristocrazia. […] Le coree nascevano quasi sempre a sud e a nord di Milano e non dentro la città; negli insediamenti mancavano […] servizi e infrastrutture come strade, servizi culturali, negozi, fogne, telefoni, uffici postali. Le coree erano quasi esclusivamente spazi per immigrati, fatta eccezione per qualche maestro, prete o qualche politico locale. […] Ciò che rendeva tale una corea era anche il suo aspetto: case piccole, tutte diverse fra di loro, costruite dagli immigrati stesi in vari tempi, senza un piano preciso, spesso con aggiunte fatte in un secondo momento (balconi, terrazzi, giardini, rustici, depositi per la legna, scale, tombini, pollai, pezzi di terra, garage, cortili). […] Una caratteristica delle coree era il loro dinamismo, il cambiamento continuo. Nella loro storia si possono individuare fondamentalmente quattro fasi […]. La prima è quella che si potrebbe definire pioneristica. Durante questa tappa, i primi lotti vennero acquistati e le prime case costruite. La costruzione iniziale non portava comunque sempre allo sviluppo

e il 1971, la popolazione della provincia di Milano aumentò del 26 %, corrispondenti a oltre 600 mila persone. Come emerge dal brano dello storico inglese John Foot (nato nel 1964), i nuovi immigrati fecero fronte al problema abitativo ricorrendo alla costruzione abusiva di nuove case, che andarono a formare quei villaggi spontanei di abitazioni noti come “coree”.

di una corea: alcune case autocostruite rimasero isolate, e non entrarono a far parte di una struttura a villaggio. [….] In questa fase dello sviluppo della corea, le infrastrutture (strade, fogne, elettricità, negozi) erano pressoché inesistenti. Le case non avevano nemmeno un indirizzo e venivano designate con il nome generico della zona. I collegamenti con la città o con le località limitrofe erano minimi e spesso difficoltosi. Per molti anni, gli abitanti delle coree trascorrevano i fine settimana e le serate milanesi nel rumore costante dei lavori di costruzione in corso, con i materiali di edilizia sparpagliati nelle case e nei cortili. […] Per quanto riguarda le condizioni di vita (in particolare quelle dei costruttori e delle loro famiglie), questo era senz’altro il momento peggiore. Non tutte le case venivano portate a compimento e i «pionieri» potevano essere costretti a vendere case fatte solo a metà a prezzi irrisori se i loro risparmi finivano troppo presto per completarle. […] Una seconda fase può essere definita di «sviluppo rapido». Nel giro di pochi anni le coree acquisivano una forma, quasi sempre con strade abbastanza dritte e strette e case affastellate, a volte inglobavano qualche vecchia cascina. […] Fu a questo punto che i comuni iniziarono a costruire infrastrutture e ad assegnare nomi alle strade della zona. Sempre in questa fase, gli insediamenti furono definiti «corea» [...]. In questa fase era comune trovare immigrati che costruivano case per poi affittarle ad altri immigrati. La costruzione delle coree favorì la nascita di una rete di imprenditori, mediatori, speculatori e tecnici di ogni tipo. Alcuni specialisti si dedicavano esclusivamente allo sviluppo delle coree portando acquirenti e guidandoli attraverso i diversi iter burocratici per la costruzione, i permessi, l’abitabilità e l’espansione delle proprietà. […] Molte di queste costruzioni e concessioni di permessi esulavano da schemi regolamentati o pianificati. […] La terza fase che si può individuare è

quella segnata da un consolidamento e da un ripopolamento delle coree. […] Il ripopolamento fu determinato dal subaffitto delle cantine o dei primi piani a nuove famiglie di immigrati, mentre i proprietari originali miglioravano la loro posizione trasferendosi sia altrove sia nella casa stessa, costruendo secondi e terzi piani, muri e annessi vari, e trasferendosi ai piani superiori più luminosi e meno umidi. […] In questa fase, le coree erano in grado di garantire la sopravvivenza dei principali servizi commerciali, che consentiva una maggiore autosufficienza. Le amministrazioni avevano provveduto a fornire i servizi di base come strade, scuole, sistema fognario e allacciamento telefonico. L’ultima fase può essere definita la fase di «invecchiamento» della corea, una situazione che caratterizzò gli anni ottanta e novanta. In questi decenni, le persone che erano nate nella corea se ne erano andate e la popolazione di quasi tutte le aree di questo tipo era in fase di invecchiamento o di declino. […] Si sono spesso presentate le coree con luoghi di estrema povertà e i loro abitanti come il più basso gradino nella scala dell’immigrazione. Questo non è vero e occorre distinguere fra coloro che costruivano le coree e coloro che vi abitavano. I costruttori, quasi sempre, erano una specie di élite fra gli stessi immigrati. […] I nuovi arrivati generalmente vivevano in condizioni ben peggiori dei padroni di casa. […] Un altro preconcetto da fugare riguarda la presunta illegalità delle coree. Si è spesso dato per scontato che le coree fossero baraccopoli sorte “spontaneamente”. Ma la maggior parte di queste costruzioni non erano illegali. Il processo di costruzione delle coree prevedeva, per ogni casa, accertamenti legali di vario tipo: commissioni edilizie e sanitarie, piani, certificati di abitabilità. Il problema all’epoca era

1. ►12_5.

665

FARESTORIA Le città: mete di immigrazione, luoghi di divisione

che la maggioranza dei documenti necessari venivano rilasciati senza controllo. […] Le coree erano una risposta al tempo stesso collettiva e su base familiare ai problemi posti dall’immigrazione e dall’urbanizzazione. Formavano «villaggi urbani» nuovi la cui forma, tuttavia, ricorre in molti quartieri autocostruiti nel mondo,

specialmente nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, ma anche, per esempio, nell’arMETODO DI STUDIO

 a  Spiega cosa sono le coree, da quali elementi sono caratterizzate e perché si chiamano così.  b  Individua all’interno del testo le fasi che hanno caratterizzato la vita delle coree e rendile riconoscibili attraverso dei titoli che contengano i riferimenti ai contenuti principali.  c  Indica per iscritto i fattori che hanno consentito la costruzione delle coree e spiega se e in che modo possono essere confrontate con analoghe situazioni in altre zone del mondo.

117 E.O. REISCHAUER TOKYO: UN’URBANIZZAZIONE SELVAGGIA



E.O. Reischauer, Storia del Giappone, Bompiani, Milano 19982, pp. 215; 217-19.

Anche il Giappone fu protagonista, nel secondo dopoguerra, di un vero e proprio “miracolo economico” [►12_6]. Tra il 1952 e il 1962, parallelamente a un generale miglioramento delle

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Il problema più grave prodotto dalla rapida industrializzazione fu lo scompenso che venne a crearsi tra i nuovi e bei complessi industriali e i servizi pubblici che rimasero inadeguati. Non fu fatto molto nel campo della previdenza sociale […] e neppure nel settore dei servizi sociali, come la costruzione di edifici pubblici o di parchi. Il fatto che la modernizzazione nel campo industriale fosse relativamente recente, unito alle terribili distruzioni della guerra, avevano portato il Giappone a essere un paese relativamente povero di capitali non solo nel senso strettamente finanziario ma anche in termini di strutture fondamentali quali le scuole, gli ospedali e altri edifici pubblici, che erano insufficienti per un paese del livello del Giappone. Mancavano in gran parte le fognature e i servizi moderni, la rete stradale era ancora quasi primitiva, mentre la tradizionale edilizia in legno, se da una parte era giustificata dall’abbondanza di foreste e dalla frequenza dei terremoti, dall’altra faceva sì che al paese mancasse un forte nucleo centrale di costruzioni resistenti all’usura dei secoli […]. Cioè, in altre parole, c’era specie nelle città rovinate dalla guerra, una paurosa mancanza di case di abitazione. Parte del problema, naturalmente, era la mancanza di spazio sufficiente in un pae­ se terribilmente sovraffollato. Più l’industria avanzava, peggiori diventavano le condizioni di vita. Le città divennero terribilmente sovraffollate: l’inquinamento dell’aria e dell’acqua si fece sempre più

U4 IL MONDO DIVISO

chitettura degli emigranti italiani nelle città statunitensi.

condizioni di vita, il paese visse, come il resto del mondo, un processo di urbanizzazione spontaneo, non guidato da alcun piano di sviluppo territoriale nazionale. In questo brano, il linguista e diplomatico statunitense Edwin O. Reischauer (19101990) illustra i principali problemi derivanti da questa urbanizzazione (sovraffollamento, traffico, alienazione), ma anche la straordinaria vivacità culturale da cui fu accompagnata.

grave, Tokyo venne a trovarsi in una situazione piuttosto pericolosa dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico, la rete stradale insufficiente cominciò a determinare ingorghi paurosi, gli incidenti stradali crebbero in modo allarmante e la superba rete ferroviaria e le comunicazioni urbane si rivelarono molto al di sotto delle esigenze del traffico, assurto a dimensioni inverosimili. Lo spazio vitale era inverosimilmente ristretto in piccole dimore individuali o in appartamenti ancora più piccoli dei danchi, file di case in cemento a quattro o a sei piani con appartamenti piccolissimi che cominciarono a circondare le grandi città. Milioni di lavoratori erano condannati a lunghi viaggi ogni giorno in terno, in autobus o in metropolitana per andare e ritornare dal lavoro. Quando ci mettevano un’ora erano considerati fortunati, e non era insolito impiegarci anche due ore. […] Ma quello che negli anni cinquanta e sessanta saltò più all’occhio fu il ritmo assunto dall’urbanesimo. Mentre ogni prefettura con struttura prevalentemente rurale cominciò a spopolarsi, tutte le grandi città videro aumentare vertiginosamente la loro popolazione, e, più grandi erano, più rapido fu il flusso urbanistico. Negli anni sessanta Tokyo raggiunse gli 8 milioni di abitanti, diventando il comune più grande del mondo, mentre Yokohama e numerose altre città satelliti aggiungevano diversi altri milioni all’agglomerato urbano della capitale. Tutte le principali città conobbero un boom edilizio che

arricchì i loro centri di edifici moderni a strutture metalliche. Nel caso di Tokyo, un buon sistema ferroviario creò quattro o cinque centri secondari, ciascuno fornito di grattacieli, grandi magazzini e luoghi di divertimento. I grandi magazzini, che già avevano preso piede prima della guerra, ora proliferavano diventando sempre più attraenti, pieni di merci di ogni genere e sempre affollatissimi, molti con sale per spettacoli e con parchi di divertimento per bambini e giardini pensili. Negli anni cinquanta e sessanta il Giappone stava chiaramente producendo la sua versione della moderna società di massa, una versione decisamente meno ricca di quella occidentale, ma forse proprio per questo più viva. […] E le metropoli giapponesi davano appunto un’impressione di vitalità, di allegria, di un’energia senza limiti. Si ebbe un fiorire di tutte le arti, da quelle propriamente locali a quelle occidentali, e insieme una più intensa vita intellettuale, una maggiore creatività nel campo della letteratura e del cinema. I quartieri dei divertimenti di Tokyo, con i loro cabaret, i loro night, i loro bar, immersi la notte in una fantasmagoria di luci, divennero forse i più grandiosi, i più allegri e brillanti luoghi di divertimento del mondo. Si può dire che non ci fosse casa, in città come in campagna, che non avesse la sua TV, che non ci fosse praticamente individuo che non avesse una buona macchina fotografica, mentre diventavano di uso comune tutti gli elettrodomestici, dal frigo-

rifero alla lavatrice, al bollitore per il riso, alleggerendo non poco le fatiche delle donne di casa. Molte erano anche le case con l’aria condizionata, e cominciò a diffondersi anche l’automobile, sia pure con conseguenze disastrose data l’insufficiente rete stradale giapponese. Non si parlava che di “tempo libero”, di modi di impiegare questo che con un termine inglese essi chiamavano leisure, e gli stadi di baseball, i campi di sci, le spiagge, videro folle sempre più numerose di frequentatori. La tristezza dell’immediato dopoguerra non esisteva quasi più, e l’aggettivo aka-

rui, che significava allegro, bello, vivace, divenne il termine preferito con cui si passò a indicare questa vita nuova, questa atmosfera piena di esuberanza. Naturalmente molti di questi cambiamenti avevano anche il loro lato negativo, così come lo sviluppo economico che li aveva prodotti. […] Apparvero […] alcuni dei disturbi propri delle società industriali urbane. Molti cominciarono a sentire un senso di alienazione e di confusione, il senso di andare alla deriva nel mare umano della città moderna. E si fecero preoccupanti, per un popolo abituato alla rigi-

118 P. BAIROCH L’ESPLOSIONE URBANA DEL TERZO MONDO

P. Bairoch, L’economia del sottosviluppo, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, a c. di N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. 6: L’età contemporanea, tomo I: I quadri generali, Utet, Torino 1988, pp. 215-19.

In questo brano, lo storico dell’economia e sociologo belga Nel mondo sviluppato, nel periodo in cui la crescita urbana risultante dalla rivoluzione industriale è stata più rapida – cioè tra il 1860 e il 1900 –, la popolazione delle città è aumentata soltanto del 2,3% all’anno. Tra il 1946 e il 1982 le città del Terzo Mondo nell’insieme hanno visto la loro popolazione crescere del 4,4% all’anno, vale a dire con un aumento di circa 780 milioni di persone, dunque maggiore di quello di tutta la popolazione urbana nel mondo del 1946, che era il risultato di un percorso di urbanizzazione plurisecolare. Ma, mentre in Europa e negli altri paesi sviluppati l’espansione urbana del XIX secolo ha avuto come base principale un aumento della produttività agricola e un processo di industrializzazione, l’inflazione urbana del Terzo Mondo può essere definita un’urbanizzazione senza eccedenze agricole e soprattutto senza industrializzazione. […] Chi dice stagnazione della produttività agricola e assenza di industrializzazione dice anche mancato sviluppo economico. Si tratta di un aspetto importante. L’esplosione urbana del Terzo Mondo si è realizzata senza uno sviluppo che potesse spiegarla, o meglio giustificarla. […] Ciò significa che questa esplosione urbana ha prodotto quello che giustamente si definisce ipertrofia urbana o sovraurbanizzazione; e si tratta di un’ipertrofia di

da obbedienza e ai forti legami familiari, la criminalità e la delinquenza minorile. METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le cause che avevano portato alla «paurosa mancanza di case di abitazione» citata nella parte iniziale del brano.  b  Evidenzia alcune parole chiave in grado di illustrare le caratteristiche della “versione giapponese” della società di massa e argomenta la tua scelta per iscritto.  c  Sottolinea le conseguenze che l’autore definisce positive e negative dei cambiamenti avventuti in seguito alla rapida industrializzazione negli anni ’50 e ’60.

Paul Bairoch (1930-1999) analizza attentamente uno degli aspetti principali dell’esplosione demografica nei paesi del Terzo Mondo [►13_10]: la rapidissima crescita della popolazione urbana. Questo fenomeno, senza precedenti nella storia, modificò profondamente non solo la struttura delle città, ma anche i modelli dell’organizzazione sociale.

un’ampiezza senza precedenti nella storia dell’umanità. Una delle caratteristiche principali e gravide di conseguenze della fase di urbanizzazione accelerata attraversata dal Terzo Mondo è la forte concentrazione della popolazione urbana nelle grandi città. […] A partire dal 1930 si assiste ad una vera e propria esplosione di grandi città nel Terzo Mondo. Nel Terzo Mondo a economia di mercato il numero di città con più di 100.000 abitanti si è trovato quasi decuplicato tra il 1930 e il 1982. […] Quali sono le cause e, soprattutto, le conseguenze di questa vera e propria esplosione urbana? […] A livello globale, si può stimare che tra il 1950 e il 1980 i movimenti migratori siano stati responsabili nella misura del 35-45% dell’aumento della popolazione urbana dei paesi sottosviluppati non comunisti. […] A causa della rapida crescita del numero di persone attive nell’agricoltura, si è assistito nel Terzo Mondo ad un forte aumento della densità dei terreni agricoli. […] Come l’alta densità dei terreni agricoli ha un posto privilegiato fra i fattori di «repulsione», così i livelli più alti dei redditi urbani costituiscono un elemento essenziale dei fattori di «attrazione». La misurazione del divario tra i redditi urbani e redditi rurali pone molti problemi, non fosse che per le differenze inerenti alle attività

di questi due sistemi economici. Il modo più valido di impostare questo problema è confrontare i salari della manodopera agricola e di quella industriale: in questo modo si scoprono differenze dell’ordine dell’80-150%. Questo divario tra reddito urbano e rurale è un fenomeno specifico, nella sua ampiezza, dei paesi sottosviluppati; nelle fasi di decollo dei paesi attualmente industrializzati era infatti molto più limitato, o in certi casi praticamente inesistente. […] Anche la rapidità e l’inadeguatezza dell’insegnamento sono state una causa fondamentale dell’esodo dalle campagne. Rapidità? In effetti, mentre verso il 1939 il tasso lordo di scolarizzazione primaria era dell’ordine del 15%, nel 1950 era del 26% (e verso il 1980 dell’85%). […] Questo fatto ha spinto verso le città una larga parte di questi giovani. A ciò si è aggiunta l’inadeguatezza dell’insegnamento, che ricalcava eccessivamente i modelli dei paesi sviluppati ed enfatizzava così oltre misura l’immaginario della città. A queste tre cause principali che spiegano la fuga dall’ambiente rurale e l’attrazione verso l’ambiente urbano se ne aggiungono poi delle altre. Prima di tutto la notevole crescita naturale delle città del Terzo Mondo. […] Bisogna anche parlare del processo di decolonizzazione, che è stato un fattore di urbanizzazione in partico-

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FARESTORIA Le città: mete di immigrazione, luoghi di divisione

lare per i seguenti motivi: allargamento degli apparati amministrativi; politica di industrializzazione; eliminazione delle restrizioni amministrative che durante la colonizzazione limitavano il diritto di insediamento in molte città; balcanizzazione1 degli antichi imperi coloniali; e, infine, agitazioni politiche che in alcune regioni hanno gonfiato le città (è difficile rifugiarsi nel territorio rurale). Infine, senza pretesa di esaustività, va ricordata l’attrazione naturale esercitata dalla città. Vediamo ora le conseguenze di questa esplosione urbana realizzata senza un vero sviluppo economico. Questo fa già intravedere una delle principali conseguenze: un drammatico deficit di impiego urbano che si traduce in un alto livello di disoccupazione (nel senso stretto del termine) e in sottoccupazione. […] Altra conseguenza: un eccessivo gonfiamento del terziario. Questo gonfiamento è stato ragguardevole in particolare nel commercio e nell’amministrazione, e pesa notevolmente sull’insieme dell’economia. Si tratta, in ultima analisi, di una conseguenza globa-

le dell’esplosione urbana: nel Terzo Mondo la città è diventata parassitaria, cosa che costituisce un fattore di sottosviluppo più che di sviluppo. Le bidonvilles2, questo habitat3 spontaneo, […] non sono un fenomeno nuovo né una caratteristica specifica della struttura urbana del Terzo Mondo. Quello che invece caratterizza il fenomeno del Terzo Mondo è la sua ampiezza senza precedenti e la sua generale diffusione. Praticamente nessuna delle grandi città del Terzo Mondo sfugge a questa riprovevole situazione che «risolve» un problema in apparenza irrisolvibile: fornire molto rapidamente un alloggio ad una grande massa di nuovi venuti in città, le cui risorse economiche sono pressoché inesistenti. […] Un’indagine delle Nazioni Unite, pubblicata nel 1976, riunisce dati su 67 grandi città che riguardano l’inizio degli anni settanta. Il risultato della media della percentuale che vivono nelle bidonvilles è del 44%. In molte di queste città la percentuale delle bidonvilles supera il 70%. Si può stimare che verso il

1980 circa il 40-45% dei cittadini del Terzo Mondo vivesse nelle bidonvilles. Precisiamo: nel Terzo Mondo a economia di mercato, perché la bidonville non esiste in Cina (in ogni caso non esisteva nella Cina di Mao). Dunque, nel Terzo Mondo a economia di mercato circa 280-320milioni di persone, di cui 115-135 milioni di bambini minori di 15 anni, vivevano nelle bidonvilles. 1. Frammentazione politica di territori prima uniti. 2. Agglomerati di baracche costruite di lamiere o di altro materiale di scarto nelle periferie urbane. 3. Ambiente, naturale o sociale. METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le caratteristiche dell’espansione urbana del XIX secolo in Europa e nel Terzo Mondo.  b   Spiega in cosa consiste l’ipertrofia urbana o sovraurbanizzazione che si è verificata nel Terzo Mondo indicandone cause e conseguenze.

PISTE DI LAVORO

LO STORICO RACCONTA 1 Scrivi un testo comparativo fra lo sviluppo urbano di Milano e quello di Roma a seguito del boom economico. Indica le caratteristiche dei processi descritti da Vidotto [►115] e da Foot [►116] mettendo in rilievo le cause e le soluzioni adottate.

2 Esamina il rapporto fra andamento demografico e urbanizzazione

che si registrò nella seconda metà del ’900 per ognuna delle realtà geografiche esaminate nei brani del percorso. Descrivi quindi in un testo di circa 40 righe gli elementi comuni e quelli specifici facendo riferimento ad esempi concreti e citando opportunamente le fonti.

UN NUOVO SOGGETTO SULLA SCENA POLITICA: LE DONNE E IL MOVIMENTO FEMMINISTA

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Il secondo dopoguerra segnò l’affermazione delle donne come nuovo soggetto politico. Mentre in Italia, come sottolinea la storica Perry Willson [►119], le donne votarono per la prima volta nel 1946, in alcuni paesi afroasiatici furono tra i principali attori del processo di decolonizzazione. È, ad esempio, il caso dell’Algeria, dove, come è evidenziato nell’analisi di Renata Pepicelli [►120], le donne parteciparono alla lotta di liberazione attribuendo un nuovo significato al velo che indossavano, o dell’India, dove la figura di Indira Gandhi – qui delineata da Sara Bacchiega [►121] – dominò la scena politica per quasi un ventennio. Anche nel mondo occidentale, superata una fase più propriamente emancipazionista nella quale le donne chiedevano soprattutto diritti civili e politici, negli anni ‘60 e ‘70, si sviluppò un nuovo movimento femminista, caratterizzato da contenuti più radicali rispetto al femminismo “storico” e da nuovi metodi

U4 IL MONDO DIVISO

di lotta e di organizzazione. Le caratteristiche del femminismo statunitense – capostipite degli analoghi movimenti nel resto del mondo – e i rapporti con gli altri fenomeni di contestazione sono analizzati nel brano di Juliet Mitchell [►122], che del movimento fu una delle maggiori teoriche. Nel documento successivo, sono invece le militanti del Black Panther Party [►123d], una delle organizzazioni afroamericane più radicali, a prendere parola sul loro concetto di emancipazione femminile. Gli sviluppi del movimento in Italia sono ricostruiti, infine, dalle sociologhe Anna Rita Calabrò e Laura Grasso [►124].



119 P. WILLSON IL GIORNO DELLE ITALIANE

P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 234-38.

In Italia, la concessione del diritto di voto alle donne fu il culmine di un processo lungo e pieno di ostacoli [►FS, 19]. Nonostante alcune aperture, solo formali, del regime fascista – il suffragio femminile alle elezioni amministrative concesso nel 1925 non ebbe mai applicazione – le donne italiane ottenneLe italiane votarono per la prima volta nel 1946. Si pone spesso la questione se il suffragio sia stato conquistato dalle donne o se sia stato semplicemente concesso. In realtà sono vere entrambe le affermazioni. L’interrogativo è dovuto al fatto che la legge sul suffragio fu approvata durante la guerra, in un momento in cui gran parte era impossibile condurre un dibattito pubblico e aperto […]. Il suffragio universale giunse quindi senza cerimonie e squilli di trombe e con poche discussioni. Il provvedimento fu approvato dal governo Bonomi (organo nominato composto di rappresentanti dei partiti della Resistenza) il 1° febbraio 1945. Ammise al voto tutte le donne […]. A causa di un’omissione, il diritto alle donne di essere elette fu sancito soltanto nel marzo del 1946, alla vigilia delle prime elezioni amministrative. Nella pratica, tuttavia, il principio era già stato applicato: in seno alla Consulta nazionale (nominata), l’assemblea provvisoria che operò in vece del parlamento fino alle elezioni politiche nazionali, tredici seggi erano occupati da donne. L’estensione del diritto di voto fu decisa quasi come se fosse ovvia, una questione che non meritava neppure di essere discussa. Il governo Bonomi approvò il provvedimento «all’unanimità, praticamente senza discussione». Di conseguenza, fu ignorato per anni degli storici come un «non evento». […] Furono soprattutto i mutamenti verificatisi durante la guerra a far sembrare inevitabile il suffragio femminile. Molti ascrissero il motivo del provvedimento (e questo parere viene spesso ribadito anche oggi) al ruolo svolto dalle donne nella Resistenza.

ro il diritto di voto solo nel 1945, a guerra ancora in corso. La svolta vera si ebbe però il 2 giugno 1946 quando, in occasione del referendum istituzionale e dell’elezione dei deputati all’Assemblea costituente [►14_2], esse votarono per la prima volta in una consultazione politica. Come ricostruito nel seguente brano dalla storica britannica Perry Willson, si trattò di un momento vissuto intensamente da tutte le donne italiane che, per la prima volta, si sentivano cittadine a pieno titolo.

[…] E di fatto era vero: le partigiane avevano svolto un ruolo estremamente importante. Nella Resistenza le donne avevano dimostrato il loro valore in forme di attivismo del tutto inedite. Molte si erano politicizzate attraverso tali esperienze, e avevano acquistato una nuova sicurezza di sé. Un aspetto generalmente taciuto del rapporto tra Resistenza e conquista del diritto di voto è l’idea che la legittimità della cittadinanza trovasse il suo fondamento nell’aver imbracciato le armi. Tuttavia per comprendere perché il voto, che in precedenza era stato così difficile da conquistare, fu ora ottenuto con grande facilità occorre prendere in considerazione altri fattori. Tra questi si annoverano il più ampio ruolo svolto dalle donne in tempo di guerra, comprese le non partigiane sul fronte interno, e il fatto che nella maggior parte delle altre democrazie parlamentari il suffragio femminile era ormai una realtà. Inoltre, sebbene se ne parli più raramente, la mobilitazione femminile di massa durante il Ventennio senza dubbio contribuì a consolidare l’idea che le donne avessero un posto nella sfera politica. […] Nel 1946 l’81 per cento delle elettrici (contro l’83 per cento degli elettori) partecipò alle consultazioni amministrative e l’89 per cento (89,2 per cento degli uomini) alle elezioni politiche. Nel 1953 l’affluenza femminile alle urne raggiunse il 94 per cento (93,5 per cento degli uomini). Questo importante successo fu in parte dovuto alle imponenti campagne dei partiti politici. Le prime tornate elettorali furono infatti momenti intensi per l’educazione politica delle donne. Furono bombardate di informazioni su come votare, chi votare, l’im-

portanza delle elezioni, eccetera. […] L’avvento del suffragio ebbe un’enorme importanza simbolica per le donne. Per molte fu un momento emozionante. La scrittrice Maria Bellonci, per esempio, ricordava che, il 2 giugno 1946, «di sera, in una cabina di legno povero e con in mano un lapis e due schede, mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadina». Un’altra donna, l’ex partigiana Zelinda Resca, raccontò: «Finalmente potevo votare. Era una rivincita, una rivincita come donne, che non avevamo mai potuto fare niente. […] Io sinceramente sono emozionata anche adesso quando vado a votare; allora figuriamoci! Credo che le mani tremavano». Il voto mobilitò le donne anche in nuove forme di attivismo politico, per esempio gli interventi nei comizi elettorali. Una donna toscana, Liana Cecchi, ricordava così la campagna elettorale in Sardegna nel 1952: «dove parlavi, con il megafono, su un tavolino, in questi paesi così freddi e abbandonati, pieni di silenzio […] c’era molta curiosità, venivano ad ascoltare, e a vedere, una donna che parlava, e era uno spettacolo».

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea e numera i fattori che avevano permesso alle donne di ottenere il voto già durante la guerra.  b  Spiega per iscritto cosa permise una larga partecipazione femminile al voto durante le prime consultazioni politiche del dopoguerra e quale fu il valore simbolico di questo cambiamento.

669

FARESTORIA Un nuovo soggetto sulla scena politica: le donne e il movimento femminista

120 R. PEPICELLI IL VELO ANTICOLONIALE DELLE ALGERINE



R. Pepicelli, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica, Carocci, Roma 2002, pp. 60-63.

Agli occhi degli occidentali, il velo con cui molte donne di religione islamica coprono la loro testa indica un simbolo di sottomissione all’uomo e di oppressione del sesso femminile. Secondo Renata Pepicelli, studiosa del femminismo islamico, durante la lotta per la decolonizzazione dell’Algeria [►13_6] esso Nel corso della prima parte del Novecento, non solo le donne dei movimenti islamisti ma anche quelle di alcuni movimenti anticoloniali hanno attribuito al velo un grande valore identitario. È l’Algeria, colonizzata dalla Francia dal 1830 al 1962, il paese dove forse ciò è stato più vero che altrove. Yeğenoğlu1 sostiene che il sistema coloniale ha spinto gli algerini a ritrovare la loro identità nelle tradizioni religiose. In quest’ottica, il velo indossato durante la lotta di liberazione non va quindi visto come la mera continuazione di vecchie abitudini ma come un vestito totalmente nuovo, il prodotto di un «tradizionalismo coloniale» […]. Un segno del profondo valore attribuito al velo da parte dei colonizzatori si può vedere nella messa in scena che i francesi prepararono il 13 maggio del 1958, quando fu organizzato un raduno davanti al palazzo del governatore in cui si celebrava la “fraternizzazione” tra i colonizzatori e i colonizzati che, nella rappresentazione, si tenevano gioiosamente sottobraccio. L’apice dello spettacolo era rappresentato dallo svelamento di un gruppo di donne algerine. Era una scena dall’alto valore simbolico: rappresentava il segno dell’auspicata caduta dell’ultimo baluardo, le donne/l’essenza dell’Algeria, di fronte all’offensiva francese. Nell’intento del regista, l’Algeria si offriva ai colonizzatori finalmente senza maschere né veli, dimostrandosi pronta ad aderire ai valori della cultura europea,

e quindi ad essere totalmente conquistata dai francesi. […] Quindi, se per i colonizzatori francesi togliere il velo alla donna algerina significava conquistare l’Algeria stessa, per gli algerini il velo diventava un emblema di resistenza anticoloniale. In un ribaltamento di simboli, esso divenne espressione dei valori e della dignità del mondo arabo e non già di inferiorità, come lo dipingevano i francesi. Rivisitato nei suoi significati, il velo venne indossato come mezzo di lotta, strumento di resistenza, segno identitario, atto politico di un popolo e di una cultura che resisteva al suo annullamento. […] Ci si vela per tradizione, per separazione rigida dei sessi, ma anche perché l’occupante vuole strappare il velo all’Algeria e di conseguenza le algerine lo vestono e lo svestono a seconda della necessità della battaglia contro i colonizzatori. […] Durante la guerra d’indipendenza le donne hanno usato i loro lunghi veli bianchi (haik) per nascondere le armi, ma li hanno anche saputi dismettere per indossare vestiti all’occidentale e, cariche di bombe, passare inosservate attraverso i controlli degli occupanti francesi. Intriso di una moltitudine di significati, assurto a simbolo tra i simboli del discorso anticoloniale, […] il velo nella sua accezione anticoloniale rischia però forse di annullare le donne che lo indossano, di imprigionarle in una maschera di cui diventa difficile sbarazzarsi. […] Non è che

121 S. BACCHIEGA INDIRA GANDHI, SPECCHIO DI UNA NAZIONE



S. Bacchiega, Indira Gandhi, specchio di una nazione, in G.P. Calchi Novati, Essere donna in Asia. Diritti, potere, impresa, Carocci, Roma 2010, pp. 72; 79-84.

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Nel 1966, due anni dopo la morte di Nehru, primo capo del governo dell’India indipendente, sua figlia Indira Gandhi (1917-1984) fu chiamata a rivestire lo stesso ruolo. Figura

U4 IL MONDO DIVISO

divenne, invece, un simbolo di liberazione nazionale rispetto al dominio francese. Durante la guerra d’Algeria, inoltre, le donne si impegnarono in prima linea, nascondendo sotto i loro lunghi veli le bombe che poi, in molte occasioni, fecero esplodere, facendo molte vittime fra la popolazione civile. Secondo Pepicelli, tuttavia, questo impegno femminile, a indipendenza ottenuta, non fu riconosciuto dal nuovo governo algerino: quel velo che le donne avevano scelto come simbolo di liberazione nazionale non accompagnò alcuna emancipazione politica nè culturale. la donna partecipa alla lotta solo in quanto invitata dall’uomo in nome di una strategia-donna, diventando donna-arsenale, strumento nelle mani dell’uomo? Si tratta di domande cruciali, come ha dimostrato la storia dell’Algeria indipendente. Cacciati gli occupanti, le rivendicazioni di uguaglianza di genere mosse dalle protagoniste della rivoluzione sono state rimosse e le donne sono state sacrificate in nome dell’unità nazionale. Nello Stato post-indipendente la donna algerina è una cittadina di rango inferiore, sottomessa all’uomo da un codice di legge patriarcale, mentre il suo corpo assurge a simbolo di questa o di quella ideologia. 1. Meyda Yeğenoğlu (nata nel 1959) è una sociologa turca, esperta di cultural studies.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto in cosa consiste il grande valore identitario attribuito al velo dalle donne algerine e quale contributo esso ha fornito durante la guerra d’indipendenza dalla Francia.  b  Sottolinea le informazioni che rendono rilevante, ai fini del tema trattato dal testo, il racconto della messa in scena del 13 maggio del 1958 davanti al palazzo del governatore, in cui si celebrava la “fraternizzazione” tra i colonizzatori e i colonizzati.  c  Evidenzia la domanda presente nella parte finale del brano e spiega quale risposta ne dà l’autrice.

carismatica e politica abilissima, ricoprì un ruolo di primissimo piano nella politica indiana fino al 1984, quando fu uccisa in un attentato. Secondo la studiosa Sara Bacchiega, i consensi che seppe concentrare intorno a sé – nonostante i tratti autoritari del suo modo di governare – furono dovuti soprattutto alla sua indubbia capacità di comprendere gli umori e i cambiamenti del suo paese.

Personalità complessa e affascinante, per molti tratti contraddittoria, Indira Gandhi per 17 anni, dal 1966 al 1984, ha dominato la vita politica del subcontinente indiano. Non è facile tracciare un ritratto del primo ministro. Ci sono, infatti, giudizi e considerazioni molto diversi sulla sua persona e sulla azione politica. Dopo il suo assassinio, V.S. Naipaul1 scrisse sul «New York Times» che «l’India è stata molto fortunata con la famiglia Nehru. Durante i loro governi, l’India è passata attraverso la rivoluzione industriale e la rivoluzione intellettuale. Gli indiani devono molto, più di quanto possano immaginare, alla stabilità che Indira Gandhi, dopo suo padre, ha creato». Al contrario, Ashok Mitra2 osservò come Indira Gandhi abbia gestito la politica indiana in modo «feudale e imperiale», con l’arrogante convinzione che solo loro, i Nehru, fossero capaci di governare l’India indipendente. […] Per provare a ricostruire la personalità e l’azione politica di questa figura così amata e, nello stesso tempo, così odiata dal popolo indiano, non si può prescindere dal contesto storico e sociale nel quale ha operato, quasi che lei ne fosse lo specchio. Indira Gandhi ha infatti un rapporto simbiotico con il suo paese, tanto che non è possibile capire l’India di quegli anni senza studiarne la personalità e il comportamento politico, e non è possibile conoscere Indira senza collocarla all’interno di quel «fluire della storia» di cui è stata soggetto e oggetto allo stesso tempo. […] Lo straordinario successo di Indira Gandhi nella politica indiana sembra essere il risultato di un insieme di fattori. Il forte desiderio per il potere e il suo approccio amorale3 alla politica furono infatti facilitati dai cambiamenti che avevano avuto luogo nello scenario politico indiano negli anni Sessanta. Quando Indira venne nominata primo ministro, l’India è da vent’anni uno stato indipendente. L’entusiasmo dei primi anni era venuto meno, si erano succeduti cambiamenti sia nelle strutture normative sia nell’organizzazione della società. L’introduzione della democrazia partecipativa e del suffragio universale comportò dei grandi cambiamenti in tutto il paese, in particolare nelle aree agricole più arretrate. […] Molti dei gruppi che occupavano posizioni marginali nella società diventarono elettoralmente rilevanti e, consci di questo potere, iniziarono a utilizzarlo per ricattare il sistema dei partiti.

Per esempio, i membri delle backward castes4 e i gruppi più poveri diventarono progressivamente più consapevoli della loro situazione e delle loro potenzialità e iniziarono a minacciare l’autorità delle classi dominanti. […] Questi cambiamenti incrinarono la vecchia rete di relazioni su cui poggiava il Congresso, il quale aveva tratto fino a quel momento parte della sua forza dall’appoggio dei grandi latifondisti. Parallelamente, si svilupparono gruppi politici autonomi guidati da imprenditori politici interessati esclusivamente al loro successo personale. Costruirono nuove coalizioni funzionali alla loro autopromozione, sovvertendo i partiti tradizionali e costruendo strategie con l’unico e fragile scopo di diventare ministri o membri dei gabinetti a tutti i livelli dell’Unione e degli stati. […] Il carattere e la composizione delle classi medie, nelle quali cominciarono a proliferare sentimenti di revivalismo etnico e religioso, avevano subito nell’ultimo decennio un cambiamento profondo. […] Venne affermandosi una nuova classe media formata da ricchi uomini d’affari, industriali, artigiani, manager e piccoli proprietari. Non più guidata da un idealismo politico e dallo zelo5 per le riforme, questa nuova classe era disposta a scendere a compromessi attuando politiche amorali pur di accrescere la propria ricchezza. […] Indira Gandhi comprese velocemente i cambiamenti che stavano avvenendo nella società indiana con la crescita di queste nuove forze sociali, che tendevano a seguire leader populisti, legati agli interessi locali e comunitari. Cambiò stile politico nella convinzione che solo garantendosi l’appoggio di queste forze avrebbe potuto costruirsi una base di potere autonoma e indipendente rispetto a quella dei vecchi dirigenti del Congresso. […] Abbandonato il metodo ideologico e morale, Indira incarnò la cultura politica amorale degli anni Sessanta: un’attività spregiudicata, che rivoluzionava le regole convenzionali del gioco politico, diventò tratto dominante del suo stile di governo. […] Indira si costruisce l’immagine di leader aggressivo, orientato ideologicamente a sinistra, facendo della lotta alla povertà e dell’attenzione per le caste basse i suoi cavalli di battaglia. […] L’immagine progressista di Indira viene rinforzata dall’in-

troduzione di programmi radicali e populistici come la nazionalizzazione delle banche, l’elargizione di crediti a vantaggio dei settori più poveri della società e la campagna contro i monopoli industriali ed economici. Con il nuovo slogan Garabi Hatao (“Aboliamo la povertà”), riuscì a conquistarsi l’entusiasmo delle masse […] e il risultato delle elezioni del 1971 ne fu una dimostrazione. […] Dopo la sconfitta alle elezioni del 1977, che seguirono il periodo dell’emergenza, si fa chiara la seconda strategia di Indira Gandhi: una politica spregiudicata e senza scrupoli. […] Dopo che i suoi vecchi compagni di partito l’avevano abbandonata, decise di dar vita, assieme al figlio minore, a una nuova formazione politica, il Congresso I, all’interno del quale non c’era spazio per forme di dissenso o organizzazioni autonome. [...] L’utilizzo strumentale dell’ideologia nazionalista e dei suoi vari simboli fu la terza strategia utilizzata da Indira per rafforzare il suo seguito. Di fronte alla crisi e allo smarrimento della società indiana di fine anni Settanta, società disillusa dalle riforme politiche, spaventata dalla modernità e dai suoi cambiamenti, Indira Gandhi decise di recuperare parte della retorica nazionalista militante, di quei valori e di quella simbologia che potevano rassicurare un elettorato smarrito e spaventato dalle trasformazioni sociali, politiche, economiche. […] Con il suo intuito politico, Indira fu capace di interpretare i cambiamenti politici, sociali e religiosi dell’India. […] La vita politica di Indira Gandhi racconta le grandi trasformazioni di un paese che cambia, che velocemente e in modo non organico tenta di avviare un processo di modernizzazione. In lei si rispecchiano tutte le paure e le attese della sua gente. Indira vive l’India, ha con lei un rapporto simbiotico. È al tempo stesso lo specchio che riflette e il soggetto che si specchia. […] Indira aveva la grandissima capacità

1. Vidiadhar Surajprasad Naipaul (nato nel 1932) è uno scrittore di origine indiana nato a Trinidad, naturalizzato britannico. 2. Ashok Mitra (nato nel 1928) è un economista e politico indiano di formazione marxista. 3. Privo di scrupoli morali. 4. Caste medio-basse. 5. Impegno.

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FARESTORIA Un nuovo soggetto sulla scena politica: le donne e il movimento femminista

di saper intercettare le aspettative e i desideri del suo popolo, di comprendere i grandi cambiamenti, di anticiparli, di farli suoi e di trasmetterli per difendere quel potere che tanto faticosamente aveva conquistato.

METODO DI STUDIO

 a Sottolinea con colori diversi i giudizi favorevoli e quelli contrari a Indira Gandhi.  b  Individua le parole chiave relative al contesto storico in cui Indira Gandhi ha operato e sottolinea il modo in cui esso ha influito sull’elaborazione della sua strategia politica.  c  Sintetizza per iscritto le strategie politiche portate avanti dalla leader indiana indicando gli elementi che le condizionarono.

122 J. MITCHELL IL FEMMINISMO STATUNITENSE



J. Mitchell, La condizione della donna. Il nuovo femminismo, Einaudi, Torino 1972, pp. 54-59.

In queste pagine, la studiosa e militante femminista britannica Juliet Mitchell (nata nel 1940), una delle protagoniste del movimento di liberazione della donna, illustra le caratteristiche

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Mi è molto difficile scrivere sul movimento americano. Al pari della stessa America, anch’esso sembra sfuggire all’analisi coerente. Il movimento si sente nell’aria dappertutto ma è poi difficile trovarlo in concreto da qualche parte. [...] La formazione di diversi gruppi con analisi politiche diverse è il come si sviluppano in America il movimento e le analisi dell’oppressione femminile. Ciò non accade in nessun altro paese, nemmeno nel vicino Canada e nemmeno, il fatto è interessante, nei movimenti studenteschi e per la pace (in Vietnam). Accade invece, seppure in modo un po’ diverso, nel movimento nero. Il Movimento Nero è stato probabilmente la maggior fonte di ispirazione per la crescita del Women’s Liberation1. Esso ha preso le mosse, con inizi relativamente moderati, dalla protesta per i diritti civili negli anni Sessanta e ad ogni scontro con la società razzista e ostile è diventato più estremista. Si è quindi trasformato da movimento di opposizione vasto e aperto in organizzazione sempre più ristretta e concentrata di quadri rivoluzionari. Nel processo di questa concentrazione rivoluzionaria ha formato un certo numero di gruppi militanti di cui il più famoso è quello delle Pantere Nere. Per il Womens’ Liberation è accaduto qualcosa di analogo: da una lotta egualitaria di opposizione su base allargata (tacciata oggi di riformismo [...]), esso si è mosso fino alla formazione di un certo numero di gruppi organizzativamente più ristretti e analiticamente e praticamente più rivoluzionari, e da qui a una posizione politica di femminismo radicale [...].

U4 IL MONDO DIVISO

e le linee di sviluppo del femminismo statunitense [►15_8 e LABORATORIO DI CITTADINANZA, p. 632], mettendone in luce le componenti principali e soffermandosi soprattutto sulle analogie con il Black Power, il movimento dei neri afroamericani, e delle sue ali più radicali (ad esempio, il Black Panther Party, ►15_7 e FS, 123d].

Come l’eredità centrale del Movimento nero si era spostata dai diritti civili, fino alla Pantere Nere, così all’incirca il Women’s Liberation Movement si è mosso dal riformismo (Now2), attraverso il liberazionismo, fino al femminismo radicale. Ogni tappa del movimento è stata in un certo senso un allontanamento progressivo dalle posizioni di partenza ma è tuttavia importante che nel Women’s Liberation tutte le posizioni continuino a coesistere. [...] La distinzione fra liberazioniste e femministe radicali non esiste in Europa (né in vaste zone dell’America) [...]. In breve, le liberazioniste considerano che l’oppressione della donna sia una soltanto (anche se la maggiore) fra le molte oppressioni sperimentate da persone diverse nelle società presocialiste, mentre le femministe radicali ribattono che si tratta della maggiore e primaria oppressione in tutte le società. [...] Se dobbiamo citare una fonte singola d’ispirazione per il movimento, questa è certo la pubblicazione nel 1963 del libro La mistica della femminilità di Betty Friedan e la conseguente fondazione del Now nel 1966. Di maggior interesse, comunque, è la più vasta fonte politica del movimento, che grosso modo sembra derivare da tre direzioni distinte. Una è stata l’insoddisfazione delle donne del ceto medio e spesso di mezza età che, nonostante la sicurezza di vivere in una società matriarcale (dominavano i figli col loro «mammismo», possedevano la maggior parte delle proprietà, avevano convinto i mariti a lavare i piatti e i pannolini dei neonati), si scoprivano tuttavia incapaci di ottenere impieghi a livello di professionismo o comunque di

innalzarsi nella scala professionale. Una seconda origine era lo scontento delle donne bianche militanti per il trattamento che era loro riservato nei movimenti per i diritti civili e nello SDS (Students for a Democratic Society3) in cui venivano considerate alla stregua di «dattilografe, cuoche ed oggetti sessuali». La terza era la controcultura, la «politica dell’esperienza» e la nuova sensibilizzazione politica che aveva prodotto così tanti gruppi diversi a metà degli anni Sessanta. Il Women’s Liberation in America differisce dai movimenti più tardi di altri paesi per l’assenza fra le sue componenti ed influenze di un movimento operaio e, all’inizio, di un’enfasi socialista sulla classe operaia, vista come la classe rivoluzionaria. Le donne socialiste del movimento erano quasi tutte studentesse, in un paese che appariva diviso secondo linee etniche più che di classe. Come negli altri paesi, anche qui il movimento fu essenzialmente bianco e, per così dire, borghese, il che provocò in esso un’ansia raddoppiata rispetto a quella dei paesi europei: mancavano infatti nel 1968 le donne nere e nel 1969 le operaie. L’assenza delle donne nere ha prodotto nel movimento una mutevole consapevolezza. L’importanza del Black Power

1. Movimento di liberazione delle donne. 2. Il National Organization of Women, l’Organizzazione nazionale delle donne. 3. Organizzazione studentesca nata alla metà degli anni ’60, facente riferimento politicamente alla sinistra radicale.

era così fondamentale per un’analisi della situazione femminile che di continuo si ricercò l’adesione e l’appoggio delle donne nere. Dopotutto l’autoriconoscimento dei neri come popolazione oppressa nella patria stessa del capitalismo imperialista portava a un riconoscimento simile per le donne. Entrambe le lotte si muovevano contro l’oppressione nel «Primo mondo»4. Ma una differenza cruciale fra di loro portò a ulteriori ridefinizioni. Mentre i neri americani sono massicciamente sfruttati economicamente e possono quindi permettersi di escludere la loro scarsa borghesia dalla lotta rivo-

luzionaria, l’oppressione femminile non coincide così semplicemente con i gruppi economicamente inferiori: tutte le donne, indipendentemente dalla loro classe, sono oppresse in quanto donne. Oggi tuttavia un’analisi unificata della onnipresente oppressione femminile da parte di entrambi i gruppi (Women’s Liberation e Black Power) sembra sul punto di superare la precedente situazione divisiva. Ci sono ora donne nere in gruppi propri e ce ne sono nei gruppi già esistenti del Women’s Liberation, e dalla classe operaia stanno arrivando adesioni nuove in numero sempre crescente man mano che

123d BLACK PANTHER PARTY, LE COMPAGNE DEL PARTITO E LA QUESTIONE DELL’EMANCIPAZIONE FEMMINILE

Il Black Panther Party, a c. di A. Martinelli e A. Cavalli, Einaudi, Torino 1971, pp. 254-64.

Pubblicata il 13 settembre 1969 sul periodico «The Black Panther», questa intervista collettiva di alcune militanti del Black Panther Party (Bpp o, come si diceva in Italia, “Pantere nere”) illustra la concezione dell’emancipazione femminile espressa All’interno del movimento1 è in atto da tempo un animato dibattito sulla strategia politica e organizzativa del movimento di liberazione delle donne. Raramente in questi dibattiti si tiene conto delle idee delle donne nere. Pertanto abbiamo discusso con sei donne iscritte al BPP su alcune delle questioni sollevate dal movimento di liberazione femminile e sulla loro personale esperienza all’interno del partito2. […] Nel partito c’era di solito una differenza di funzione tra uomini e donne, dato che le sorelle3 erano relegate a determinati compiti. Ciò era dovuto all’arretratezza e all’insufficienza della prospettiva politica tanto delle sorelle quanto dei fratelli. Sembrava del tutto naturale affidare alle sorelle i lavori d’ufficio, lavori da impiegate. Per dirla in breve, le sorelle erano quelle che si occupavano dell’elenco degli indirizzi e di altri lavoretti di questo genere. Era dato per scontato che le sorelle si limitassero a fare queste cose, perché le accettavano di buon grado e perché questo era il tipo di cose che avevano sempre fatto, il tipo di responsabilità che avevano sempre avuto; e lo sciovinismo maschile continuava a prevalere. […]

il movimento si diffonde nelle fabbriche. 4. Il gruppo dei paesi a capitalismo avanzato (il mondo occidentale), distinto dal blocco sovietico (Secondo Mondo) e dai paesi in via di sviluppo (Terzo Mondo). METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto perché l’autrice trova difficile analizzare in modo coerente il movimento americano.  b  Sottolinea le analogie rilevate dall’autrice fra il Movimento nero e il Women’s Liberation Movement.  c  Sintetizza in 3 righe il messaggio del brano.

da un gruppo afroamericano legato alla sinistra radicale e rivoluzionaria. Nato nel 1966 nel contesto del movimento per i diritti civili [►15_7] il Bpp sosteneva, contro il principio della non violenza sostenuto da Martin Luther King, la necessità di un’autodifesa armata dei neri. Il Bpp considerava fondamentale l’emancipazione delle donne contro lo “sciovinismo maschile” (cioè, il maschilismo), ma rifiutava ogni prospettiva separatista [►FS, 124] basata sulla creazione di gruppi esclusivamente femminili.

Negli ultimi quattro o cinque mesi abbiamo capito che le sorelle devono assumere un ruolo più responsabile, che devono estendere le loro responsabilità e non limitarsi ai lavori di dettaglio, alle cose che di solito si fanno fare alle donne. [...] È aumentato il numero degli articoli scritti da sorelle, che […] si occupano maggiormente degli aspetti politici della vita del partito, che prendono sempre più la parola nei dibattiti pubblici […]. Insomma abbiamo dimostrato che le posizioni non vanno assegnate in base al sesso, ma al grado di consapevolezza politica raggiunto. […] La coscienza politica e il livello politico dei membri del partito sono molto aumentati e abbiamo capito di muoverci verso una rivoluzione proletaria e che lo sciovinismo maschile in tutte le sue manifestazioni è borghese4, e quindi è proprio una delle cose contro le quali lottare. Ora ci siamo resi conto che, in una rivoluzione di popolo, l’emancipazione delle donne è d’importanza fondamentale. Abbiamo capito che il successo della rivoluzione dipende dalle donne. Per questa ragione sappiamo che è necessario che le donne si emancipano. […]

Siamo tutte Pantere, e non possiamo dividerci per lavorare noi come donne da una parte e i fratelli per loro conto da un’altra, e pensare poi di opporre un fronte unito contro il fascismo o contro il nemico, o contro qualsiasi altra forza esterna. All’interno del partito ci deve essere unità. Non possiamo permetterci di esserci divisi sulla base del sesso, come non possiamo permetterci di essere divisi sulla base dei principi o di qualsiasi altra cosa. […] Penso che sia molto importante nel contesto di questa lotta che gli uomini neri capiscano che la loro virilità5 non dipende dal fatto di mantenere subordinate le loro donne nere, perché questo è proprio

1. All’interno della sinistra radicale. 2. Il Black Panther Party. 3. Nel movimento afroamericano si utilizza l’espressione “fratelli e sorelle” come nei movimenti di stampo socialista o appartenenti alla sinistra radicale si parla di “compagni e compagne”. 4. In questo senso, proprio della borghesia come classe opposta a quella del proletario e, quindi, conservatore, non rivoluzionario. 5. L’essenza del loro essere uomini.

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FARESTORIA Un nuovo soggetto sulla scena politica: le donne e il movimento femminista

ciò che l’ideologia borghese ha tentato di inculcare nell’uomo nero, e perché è un aspetto del particolare tipo di oppressione che pesa sulle donne nere. Le donne nere, in quanto fanno parte della popolazione povera degli Stati Uniti, della classe dei lavoratori, sono più oppresse in quanto nere, sono superoppresse, e in quanto donne sono oppresse anche sessualmente, dagli uomini in generale e anche dagli uomini neri. Dunque, in questo contesto, negli Usa le donne nere sono oppresse in modo particolare, ed è molto importante che le donne nere e che gli uomini neri capiscano che la virilità dell’uomo nero non dipende dalla sottomissione della donna nera, ma che piuttosto la sua virilità dipende dalla sua forza, e che la sua forza gli viene

IN ITALIA

anche da un rapporto rivoluzionario. E un rapporto è più fecondo quando, in realtà, la donna è l’altra metà, e non la metà più debole. […] La contraddizione fra uomini e donne è una contraddizione che deve essere eliminata all’interno delle forze rivoluzionarie. […] È la lotta di classe che deve avere la priorità. [...] Infatti è sbagliata di per sé la strategia di formare organizzazioni autonome6 per la liberazione delle donne: ciò vorrebbe dire che queste organizzazioni considerano la liberazione della donna come prioritaria, mentre invece la priorità spetta alla lotta per una rivoluzione socialista. Se vogliono emanciparsi veramente, le donne non devono battersi come gruppo particolare, ma piuttosto partecipare su un piano di parità alle or-

124 A.R. CALABRÒ • L. GRASSO I MOVIMENTI FEMMINISTI

Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, a c. di A.R. Calabrò e L. Grasso, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 39-71.

Le pagine che riportiamo sono tratte da un ampio lavoro di ricerca sul movimento femminista a Milano e in area lombar-

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1965-70 A Milano in questi anni cominciano ad emergere in un àmbito femminile intellettualizzato le tensioni verso un’analisi critica della cultura patriarcale [...]. La differenza rispetto alle precedenti analisi emancipazioniste1 è che ora viene individuato un àmbito specifico, quello relativo alla sfera della sessualità, all’interno del quale si individuano non solo l’origine della discriminazione tra i sessi, ma anche i segni della complicità femminile – complicità di carattere sia culturale che psicologico – a tale discriminazione. L’ottica è quella della ricerca di «autonomia» da parte delle donne e di «emancipazione» dall’uomo. Questi contenuti vengono espressi in particolare all’interno di un gruppo di discussione – il Gruppo Demau (Demistificazione autoritarismo) – che rimarrà fino al 1970 un esempio isolato e numericamente esiguo di sforzo di analisi e concettualizzazione in direzione femminista. La matrice strutturale del femminismo come movimento collettivo va infatti ri-

U4 IL MONDO DIVISO

ganizzazioni esistenti nelle quali uomini e donne stanno lottando insieme per la stessa causa. La liberazione delle donne non deve essere concepita come una lotta separata né prioritaria, in quanto è parte integrante della lotta globale. 6. Solo femminili.

METODO DI STUDIO

 a  Rendi riconoscibili le parti di testo che contengono i seguenti argomenti e sintetizzale per iscritto: a. il problema dichiarato all’inizio del brano; b. le strategie utilizzate per superarlo; c. gli esiti.  b  Spiega in che modo si risolve, per le pantere nere, la contraddizione esistente fra uomini e donne.

da tra il 1965 e il 1984 a cura delle sociologhe Anna Rita Calabrò e Laura Grasso. In questo brano, Grasso offre una ricostruzione esauriente delle diverse fasi attraversate dal movimento femminista italiano e delle corrispondenti e mutevoli forme di aggregazione delle donne, dai primi nuclei formatisi a Milano dopo la metà degli anni ’60 al proliferare di collettivi femministi sull’onda della mobilitazione per l’aborto, fino alla «invisibilità» degli anni ’80.

cercata in quell’area di mobilitazione sociale che diede vita, alla fine degli anni sessanta, alla contestazione studentesca, alla nascita della nuova sinistra e alle lotte operaie dell’autunno caldo. [...] 1970-74 In particolare, quando intorno al 1970 arriveranno dagli Stati Uniti i documenti con l’esplicazione delle teorie femministe insieme al racconto della pratica dell’autocoscienza2, queste tematiche si incontreranno con una serie di disagi che si erano evidenziati nella pratica politica delle donne negli àmbiti della nuova sinistra. La militanza negli allora gruppi extra-parlamentari infatti, se da un lato rende possibile l’accesso delle donne al mercato politico, evidenzia anche come queste debbano comunque fare i conti con il proprio ruolo sessuato che ancora una volta le relega in territori periferici [...]. Inoltre appare sempre più evidente come proprio all’interno di quei settori [...] non venga in alcun modo preso in considerazione, né tantomeno modificato, il rapporto tra i

sessi, rimandando ad un ipotetico «dopo rivoluzione» un possibile quanto vago cambiamento di tale rapporto. In questo senso rimangono del tutto oscure le possibili modalità attraverso le quali, una volta attuata la trasformazione radicale della società, si sarebbe espressa la nuova identità femminile e maschile. [...] Il femminismo percepisce e radicalizza i significati più impliciti e dirompenti di quel più ampio processo di messa in discussione dei valori del patriarcato e del capitalismo in atto già agli inizi degli anni sessanta soprattutto negli Stati Uniti, processo che vide da parte di settori sociali emarginati fare proprio il tema del sepa-

1. Corrente di pensiero che considera le donne come un soggetto debole, da tutelare e da liberare da una condizione di inferiorità. 2. Si tratta di una pratica incentrata sull’analisi collettiva delle proprie esperienze di vita al fine di giungere a una coscienza di sé autonoma e libera dai condizionamenti maschili.

ratismo3 come leit motiv4 della propria azione politica (il Black Panther ad esempio). [...] In Italia questo fermento d’idee ed iniziative si traduce, quasi contemporanea­ mente agli altri Paesi, nella nascita di piccoli gruppi di donne all’interno dei quali si creano àmbiti di discussione e di confronto di esperienze. [...] 1974-75 Il biennio 1974-75 rappresenta un momento di grande crescita del movimento femminista sia come capacità di aggregazione che di elaborazione teorica. [...] In questa fase montante del femminismo ciò che caratterizza il movimento è la mobilitazione in atto per ottenere il diritto d’aborto. [...] Il carattere fortemente catalizzatore di tale lotta non esaurisce certo la pratica ed il dibattito femminista ma piuttosto lo arricchisce di tematiche quali la procreazione, la salute, il corpo, gli anticoncezionali, mettendo in moto, a nostro parere, un grande processo di coinvolgimento delle donne ai temi femministi. [...] 1976 È un anno estremamente emblematico nella storia del Movimento femminista

perché rappresenta il momento della sua maggiore espansione ed insieme l’inizio della sua parabola discendente. [...] L’avanzata delle sinistre storiche metterà in moto un processo di istituzionalizzazione dei conflitti [...] così che l’apparato statale finirà per assorbire e togliere conflittualità alle richieste avanzate. Crediamo debba essere questa la chiave interpretativa per comprendere perché tre avvenimenti legislativi quali la legge nazionale sui consultori (1975), la legge sull’aborto (1978) e per altri versi l’istituzione della Consulta femminile (1976) non costituiranno, come ci si sarebbe aspettato, un territorio la cui gestione sarebbe stata oggetto di contrattazione tra potere istituzionale e Movimento delle donne. [...] 1977-79 [...] In generale si può dire che, in àmbiti diversi e con diverse modalità, vengono ricercati i segni della nuova identità femminile. In altre parole ciò che sottende questa sorta di inversione di tendenza nel femminismo è l’esigenza che le donne manifestano di esprimere e verificare, nell’àmbito di specifici settori della cultura o rispetto ai propri interessi professionali, quanto per le donne e nelle donne è

cambiato dopo gli anni passati nel femminismo. Ciò significa che i percorsi delle donne si diversificano e le donne si avviano ad intraprendere esperienze diverse difficilmente confrontabili tra loro. 3. Tendenza di taluni gruppi sociali oppressi o subordinati (neri, donne, ecc.) a concepire l’emancipazione come radicale separazione e ostilità nei confronti dei gruppi contrapposti (bianchi, uomini, ecc.). Il Black Panther Party, uno dei gruppi afroamericani statunitensi più radicali, rifiutava tuttavia il separatismo femminile [►FS, 123d]. 4. Tema ricorrente.

METODO DI STUDIO

 a  Sintetizza per ogni blocco temporale indicato i contenuti principali.  b  Individua le parole chiave e le pratiche peculiari del movimento femminista e realizza un glossario con le relative definizioni.  c  Spiega per iscritto quali sono i bisogni della donna per cui il movimento femminista cerca una risposta e quali sono state le strade individuate, facendo riferimento al contesto storico descritto.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di circa 60 righe che esamini i cambiamenti intervenuti nelle rivendicazioni femminili del secondo dopoguerra e che metta in luce le realtà geografiche esaminate e le trasformazioni del contesto storico che hanno influenzato la condizione della donna.

Prima di procedere con la scrittura, realizza una tabella comparativa basata sulle informazioni contenute nei testi e utilizzala come scaletta per il tuo elaborato. Quindi scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato.

IL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO Il conflitto arabo-israeliano costituisce tuttora uno dei più gravi fattori di tensione internazionale. La svolta storica per l’emergere di questo conflitto si registrò nel 1947-48 con la nascita dello Stato d’Israele, in virtù della Risoluzione dell’Onu sulla Palestina [►125d], e con la prima guerra mossa al nuovo Stato dai paesi arabi confinanti, che si presentarono come protettori dei palestinesi. Fu così che, come scrive lo storico James L. Gelvin [►126], un conflitto tra sionisti e palestinesi si generalizzò in un «conflitto arabo-israeliano». Ed è uno storico israeliano Benny Morris [►127] ad analizzare una delle più tragiche conseguenze di questa guerra: l’esodo forzato di una parte della popolazione araba palestinese. I brani successivi sono dedicati alle due guerre che videro Israele contrapposto agli Stati vicini: la cosid-

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FARESTORIA Il conflitto arabo-israeliano

detta guerra dei sei giorni del 1967, ricostruita nei suoi aspetti militari e nelle sue conseguenze di lungo periodo dallo storico Massimo Campanini [►128], e la guerra dello Yom Kippur, rievocata attraverso le memorie di Golda Meir [►129d], allora alla guida del governo israeliano. Alle conseguenze della guerra del Kippur è dedicato anche il brano della storica del Medio Oriente Marcella Emiliani [►130].



125d LA RISOLUZIONE DELL’ONU SULLA PALESTINA

G.P. Calchi Novati, La decolonizzazione, Loescher, Torino 1983, pp. 103-5.

Con la seconda guerra mondiale e con l’esodo di centinaia di migliaia di ebrei europei in fuga dalle persecuzioni naziste, il progetto sionista, maturato alla fine dell’800, di un nuovo Stato ebraico da costruire in Palestina conobbe una forte accelerazione. La sorte della Palestina, dal 1922 sottoposta a mandato britannico, fu oggetto di un complesso

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Parte I. Costituzione e Governo futuro della Palestina A. Fine del mandato, spartizione, indipendenza 1. Il mandato1 sulla Palestina terminerà appena possibile, ma in ogni caso non oltre il 1° agosto 1948. 2. Le forze armate della potenza mandataria verranno progressivamente ritirate dalla Palestina e il ritiro verrà completato al più presto possibile, ma in ogni caso non oltre il 1° agosto 1948. La potenza mandataria avvertirà la Commissione [dell’Onu], con tutto l’anticipo possibile, della sua intenzione di terminare il mandato e di evacuare tutta la zona. La potenza mandataria si adoprerà con ogni mezzo per assicurare che una zona situata nel territorio dello Stato ebraico, comprendente un porto e un retroterra atti a fornire la possibilità di un’immigrazione sostanziale, venga evacuata al più presto possibile e in ogni caso non oltre il 1° febbraio 1948. 3. Gli Stati indipendenti arabo ed ebraico e lo speciale regime internazionale per la città di Gerusalemme, previsti nella III parte del presente piano, sorgeranno in Palestina due mesi dopo che sia terminata l’evacuazione delle forze armate della potenza mandataria, ma in ogni caso non oltre il 1° ottobre 1948. I confini dello Stato arabo, dello Stato ebraico e della città di Gerusalemme saranno quelli menzionati nella II e III parte. 4. Il periodo di tempo tra l’adozione da parte dell’Assemblea generale della sua raccomandazione sulla questione della Palestina e la creazione degli Stati indipendenti arabo ed ebraico rappresenterà un periodo transitorio.

U4 IL MONDO DIVISO

negoziato a tre: gli Stati arabi, le organizzazioni ebraiche e la Gran Bretagna (ostile al progetto sionista) non riuscirono tuttavia a trovare un accordo. Infine, dopo la decisione di Londra di rinunciare al mandato, la questione venne affidata all’Onu: l’Assemblea generale adottò il 29 novembre 1947, con una stretta maggioranza, una Risoluzione che divideva la Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo-palestinese [►13_4]. Essa, tuttavia, non venne mai completamente applicata a causa dello scoppio del primo conflitto arabo-israeliano [►FS, 126].

[...] D. Unione economica e Trasporti 1. Il Consiglio di governo provvisorio di ogni Stato sottoscriverà un impegno relativo all’Unione economica e al transito. Questo impegno sarà progettato dalla Commissione prevista nella sez. B, paragrafo 1, servendosi quanto più possibile del consiglio e della cooperazione delle organizzazioni e dei gruppi rappresentanti di ciascuno degli Stati proposti. Conterrà disposizioni per costituire l’Unione economica della Palestina e provvederà ad altre questioni di comune interesse. Se, entro il 1° aprile 1948, i consigli provvisori di governo non avranno aderito all’impegno, esso sarà reso esecutivo dalla Commissione. [...] 2. Gli obiettivi dell’Unione economica della Palestina saranno: a) un’unione doganale; b) un sistema monetario comune, che preveda un unico cambio; c) l’uso, nel comune interesse, su una base non discriminatoria, di ferrovie, strade interstatali, servizi postali, telefonici e telegrafici, porti e aeroporti importanti per il commercio e gli scambi internazionali; d) un comune sviluppo economico specialmente per quanto riguarda l’irrigazione, le riforme fondiarie e la conservazione del suolo; e) l’accesso per ambedue gli Stati e per la città di Gerusalemme, su una base non discriminatoria, alle sorgenti d’acqua e d’energia. [...] Parte III. Città di Gerusalemme A. Regime speciale La città di Gerusalemme sarà considerata corpus separatum sotto uno speciale re-

gime internazionale e sarà amministrata dalle Nazioni Unite. Il Consiglio di amministrazione fiduciaria sarà ritenuto responsabile, quale autorità amministrante in nome delle Nazioni Unite. [...] C. Statuto della città La città di Gerusalemme sarà smilitarizzata, sarà dichiarata e mantenuta la sua neutralità e non saranno permesse entro i suoi confini formazioni, esercitazioni o attività paramilitari. [...] Rappresentanti degli Stati arabo ed ebraico saranno accreditati presso il governatore della Città e incaricati di proteggere gli interessi dei loro Stati e dei loro concittadini nei confronti dell’Amministrazione internazionale della Città. L’arabo e l’ebraico saranno le lingue ufficiali della Città. Questo non impedirà l’adozione di una o più lingue addizionali, secondo la necessità. 1. Della Gran Bretagna [►10_3].

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi cosa viene stabilito nella Risoluzione (in modo diretto e indiretto) in merito ai seguenti temi: a. i confini israeliani e palestinesi; b. la realtà politica ed economica palestinese; c. la condizione di Gerusalemme.  b  Sintetizza il documento rispondendo alle 5W del giornalismo anglosassone (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?).



126 J.L. GELVIN LA GUERRA DEL 1948

J.L Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Einaudi, Torino 2007, pp. 164-66; 172-74.

La guerra del 1948, il primo dei conflitti arabo-israeliani, rappresentò il punto d’avvio dell’intricata questione israelo-paleLa guerra per la Palestina del 1948, che gli israeliani chiamano guerra d’Indipendenza e i palestinesi nakbah1, si compose, in realtà, di due conflitti: una guerra civile tra Yishuv2 e comunità palestinese che durò dal dicembre 1947 al maggio 1948, e una guerra tra il neonato Stato di Israele e i suoi vicini, iniziata nel maggio 1948 e conclusasi con vari accordi armistiziali nei primi mesi del 1949. La guerra ebbe due effetti immediati. Primo: la creazione dello Stato di Israele all’interno dei confini comunemente riconosciuti. In condizioni normali, si potrebbe dire che, con la proclamazione dell’indipendenza di Israele, il progetto sionista raggiunse quello che ne era lo scopo dichiarato e che, pertanto, lo Yishuv poteva concentrarsi sui compiti più concreti e immediati di uno Stato normale, dal timbrare passaporti a emettere francobolli. Le cose, però, andarono diversamente. Gli Stati arabi circostanti, infatti, che avevano invaso la Palestina, ufficialmente, per difendere il popolo palestinese, si rifiutarono di riconoscere la sovranità israeliana e di dare sanzione ufficiale alle conseguenze della guerra firmando trattati di pace col nemico. Israele rimase in condizione di belligeranza con l’Egitto sino al 1979 e con la Giordania sino al 1994. Continua a esserlo con Siria e Iraq. L’indipendenza di Israele ebbe un costo assai elevato per i palestinesi. Durante la guerra, circa i tre quarti dei palestinesi residenti nei territori sui quali Israele proclamò la sua sovranità diventarono dei profughi cui era proibito far ritorno nelle loro case nello Stato ebraico. Si trattò, per dirla con l’ex ministro israeliano Ehud Barak, della «dispersione e dell’esilio di un’intera società, accompagnati da migliaia di morti e della totale distruzione di centinaia di villaggi». […] La vittoria militare dello Yishuv sugli Stati arabi circostanti e lo spostamento dei palestinesi residenti all’interno dei confini di Israele trasformarono sostanzialmente il conflitto. Prima del 1948, due comunità di statura uguale (ancorché caratterizzate da una diversa dedizione alla causa) s’erano impegnate in una lotta diretta per il dominio della Palestina. Nel maggio 1948, una di queste due comunità s’era proclamata Sta-

stinese. Come spiega in questo brano lo storico statunitense James L. Gelvin (nato nel 1951), essa non solo segnò la nascita dello Stato d’Israele, ma fu anche all’origine del problema dei profughi [►FS, 127] e, successivamente, dello status di Gerusalemme.

to sovrano, mentre l’altra era stata travolta da un cataclisma. La comunità palestinese s’era dispera e non aveva un territorio proprio. Lo Yishuv aveva incorporato circa l’80 per cento della Palestina nel suo nuovo Stato, ed Egitto e Giordania ne detenevano il resto. Nel frattempo, la comunità internazionale volse la sua attenzione a quella che riteneva la questione primaria: porre fine alla condizione di belligeranza tra Israele e i suoi vicini. Al massimo, la comunità palestinese poteva sperare che le sue rivendicazioni fossero presentate da terzi nei consessi internazionali e prese in considerazione nell’ambito di una «sistemazione generale» o di «una pace complessiva». Il conflitto tra sionisti e palestinesi diventò, così, la «controversia arabo-israeliana». E tale rimase per oltre quarant’anni, finché, nel 1993, israeliani e palestinesi s’incontrarono di nuovo direttamente, con l’intento, però, questa volta, di trovare un terreno comune per risolvere un conflitto che, dopotutto, era strettamente loro. […] Alla comunità internazionale non restava che cercare una composizione qualsiasi del conflitto – preferibilmente mediante trattati di pace – tra lo Stato di Israele recentemente proclamato e i suoi avversari. Cosa che s’avverò impossibile. Le Nazioni Unite organizzarono dei colloqui di pace a Rodi3, che si arenarono su due questioni: il destino di Gerusalemme e quello dei palestinesi che avevano abbandonato le loro case durante il conflitto. Gli Stati arabi ne richiedevano il rimpatrio. Nacque, così, il «diritto al ritorno». Gli israeliani ne proposero il reinsediamento. L’opposizione israeliana al rimpatrio era giustificata in base al rifiuto della corrente principale del movimento sionista di riconoscere ai palestinesi una nazionalità specifica. Secondo i sionisti, infatti, i palestinesi erano puramente e semplicemente degli arabi che, in quanto tali, potevano tranquillamente essere «rimpatriati» in uno dei tanti Stati arabi, dalla Mauritania all’Iraq. […] Alla fine il mediatore delle Nazioni Unite, Ralph Bunche, uscì dall’impasse di Rodi adottando la ricetta utilizzata per la sospensione delle ostilità dalla fine della Seconda guerra mondiale: invece di negoziare trattati di pace tra Israele e i suoi

vicini, le Nazioni Unite contribuirono al raggiungimento di accordi armistiziali. Accordi che confermarono, informalmente, i confini dello Stato di Israele. La striscia di Gaza, ossia la zona occupata dall’esercito egiziano durante la guerra, rimase sotto il controllo egiziano. I giordani arrivarono ad annettersi la Cisgiordania, dichiarando che l’annessione non sarebbe stata pregiudizievole per la «sistemazione finale» della questione della Palestina. […] I residenti in Cisgiordania ricevettero il passaporto giordano, utilizzarono valuta giordana, furono sottoposti alla legge giordana; i palestinesi residenti nella Striscia di Gaza diventarono dei «senza Stato» nel senso sostanziale dell’espressione. Non si pervenne ad alcuna soluzione formale della questione Gerusalemme, ma un compromesso di fatto tra Israele e Giordania comportò la divisione della città in una «città nuova» sotto il controllo israeliano, e in una «città vecchia» sotto controllo giordano. […] Il problema che polarizzò l’attenzione della comunità internazionale diventò, pertanto, trasformare, secondo la definizione, gli accordi armistiziali in veri e propri accordi di pace; mentre i protagonisti del conflitto diventarono quelli che, sempre secondo la definizione, potevano trattare la questione. 1. In arabo, “disastro”, “catastrofe”. 2. La comunità ebraica dei sionisti emigrati in Palestina a partire dalla fine dell’800. Per esteso, l’autorità che coordinava l’immigrazione ebraica, nucleo del futuro governo di Israele. 3. Città della Grecia sull’isola omonima.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea e numera le tappe che trasformarono il conflitto tra sionisti e palestinesi nella «controversia arabo-israeliana».  b  Individua e sottolinea le occasioni in cui si è discusso del destino di Gerusalemme e di quello dei palestinesi che avevano abbandonato le loro case a causa del conflitto, quindi evidenzia con colori diversi i protagonisti, le soluzioni che sono state/ non sono state trovate e gli elmenti determinanti in quest’ultimo processo.

677

FARESTORIA Il conflitto arabo-israeliano



127 B. MORRIS L’ESODO PALESTINESE

B. Morris, Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, Milano 2005, pp. 511-13.

In un libro pubblicato per la prima volta nel 1987 e subito accolto da vivaci polemiche, lo storico israeliano Benny Morris (nato nel 1948) analizzò le responsabilità delle forze armate ebraiche nell’esodo di circa 700 mila palestinesi dai territori del nuovo Stato. Partendo da una cospicua base

678

La prima guerra arabo-israeliana, quella del 1948, fu sferrata dai palestinesi arabi, i quali respinsero la risoluzione delle Nazioni Unite per la spartizione e si impegnarono a impedire la nascita di Israele con la forza. Fu quella guerra, e non un disegno ebraico o arabo, a fare sorgere il problema dei profughi palestinesi. Ma il trasferimento degli arabi dalla Palestina o dalle zone della Palestina che avrebbero costituito lo Stato di Israele era parte integrante dell’ideologia sionista e della prassi del sionismo, fin dall’inizio della sua attività. Lo sfratto graduale dei proprietari terrieri, anche se in numero relativamente ridotto, nel corso dei primi cinquant’anni con acquisti di terreni e di insediamenti da parte sionista derivava naturalmente dalla spinta di base dell’ideologia, e in un certo senso vi alludeva. Questa mirava a trasformare una terra popolata da arabi in uno Stato con una maggioranza assoluta di popolazione ebraica. E il concetto di «un trasferimento» – volontario e concordato se possibile, altrimenti coatto –, periodicamente ribadito, durante quei decenni dai leader sionisti preparò cuori e menti all’epilogo finale del 1948 [...], quando circa 700.000 arabi vennero allontanati dalle loro abitazioni (anche se la maggioranza rimase in Palestina). Ma prima della guerra non esisteva alcun piano sionista di espellere «gli arabi» dalla Palestina o dalle zone dell’emergente Stato di Israele [...]. E nemmeno il concetto pre-bellico del «trasferimento» venne mai trasformato, nel corso del conflitto, in una politica concordata e sistematica di espulsioni. Di conseguenza, nei primi quattro mesi di guerra, tra la fine di novembre 1947 e la fine di marzo 1948, non ci fu alcun preparativo per espulsioni di massa e non si verificarono casi di espulsioni o di distruzione di villaggi; per cui, nel corso dei dieci mesi successivi, […] nella maggior parte dei casi le comunità arabe vennero allontanate come provvedimento inevitabile, in alcuni villaggi (musulmani oltre che cristiani e drusi) e le loro popolazioni vennero lasciate in pace. Fu così che, alla fine

U4 IL MONDO DIVISO

documentaria raccolta in archivi di diversi paesi, Morris dimostrò l’inesistenza di un piano preordinato di espulsione. Al tempo stesso confermò che, sebbene nelle fasi iniziali del conflitto l’allontanamento dei palestinesi dalle loro case fosse spesso spontaneo, successivamente alcuni reparti dell’esercito israe­liano non mancarono di abbandonarsi a violenze contro i civili con lo scopo dichiarato di spingerli a lasciare le loro terre.

della guerra, Israele si trovò con un’importante minoranza araba di 150.000 persone […]. Contemporaneamente, soprattutto come conseguenza delle ostilità arabe della sensazione di assedio, fragilità e isolamento da parte dell’Yishuv1, fin dall’inizio di aprile del 1948 il «trasferimento» era nell’aria e l’allontanamento degli arabi era profondamente desiderato a livello locale e nazionale dalla maggioranza dell’Yishuv [...]. Nella politica israeliana non ci fu niente di ambiguo, dall’estate del 1948, verso coloro che erano stati sfrattati ed erano diventati profughi e verso coloro che sarebbero stati fatti sgomberare nel corso delle operazioni successive. La linea di condotta, applicata in generale con modi risoluti e spesso con brutalità, era quella di impedire a qualunque costo un ritorno dei profughi. E se, in un modo o nell’altro, questi riuscivano a infiltrarsi e a rientrare, venivano di regola rastrellati ed espulsi [...]. In questo senso si può tranquillamente dire che tutti i 700.000 circa diventati profughi erano stati allontanati con la forza o «espulsi». Tuttavia vale anche la pena di ricordare che una gran parte di coloro che divennero profughi fuggirono dalle loro cittadine e dai loro villaggi non dietro minaccia diretta israeliana né perché costretti. Decine di migliaia [...] lasciarono le città nei primi mesi del conflitto in seguito al ritiro dell’amministrazione britannica, al caos che la guerra comportò e per la prospettiva di dover vivere sotto l’autorità ebraica. E nei mesi seguenti fuggirono a centinaia di migliaia, non per ordine né perché costretti dagli ebrei, anche se, effettivamente, per la maggior parte cercarono di mettersi al riparo mentre le truppe sioniste conquistavano una cittadina dopo l’altra e un distretto dopo l’altro. [...] Se gli attacchi ebraici scatenarono in modo diretto o indiretto la maggior parte dell’esodo fino al giugno del 1948, una piccola ma importante proporzione di esso fu dovuta a ordini diretti di espulsione e a manovre di guerra psicologica («la propaganda dei sussurri») miranti a intimidire la gente, in-

ducendola a fuggire. Parecchie decine di villaggi ricevettero dall’Haganah2 l’ordine o il «consiglio» di sgomberare nel periodo fra l’aprile e il giugno. Le espulsioni di solito avvenivano da zone considerate di interesse strategico vitale [...]. Ma in generale [...] la maggior parte degli arabi si diede alla fuga prima e durante la battaglia, prima che le truppe israeliane raggiungessero le loro case [...]. In aprile-maggio e ancora in ottobre-novembre, il «fattore stragi» ebbe una parte di primo piano nella fuga da determinate zone. Gli abitanti dei villaggi e quelli delle città, spinti dal terrore che gli ebrei, se avessero vinto, avrebbero fatto loro quello che, in una situazione inversa, avrebbero molto probabilmente fatto i combattenti arabi vincitori [...] agli ebrei, fuggirono. Le vere e proprie atrocità commesse dalle forze ebraiche [...] accrebbero di molto questi timori, soprattutto quando i media arabi ne parlarono in tono drammatico e con insistenza per settimane. A parte una ventina circa di casi di massacro, le truppe israeliane spesso uccidevano a casaccio qualche prigioniero di guerra, qualche contadino al lavoro nei campi e qualche abitante di villaggio rimasto indietro. Episodi del genere non potevano che fare aumentare l’esodo. 1. ► FS, 126, nota 2. 2. La Haganah (in ebraico, “difesa”) era l’organizzazione paramilitare ebraica, nucleo del futuro esercito israeliano, operante in Palestina negli anni del mandato britannico. METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi le cause del problema dei profughi palestinesi e le condizioni che spinsero queste persone a lasciare le proprie case.  b  Spiega in cosa consiste il concetto di “trasferimento”, quando fu attuato e quale obiettivo perseguiva.  c  Trascrivi le parole scritte fra virgolette e spiega qual è il loro significato facendo riferimento al contesto descritto.  d  Spiega perché il testo da cui è tratto questo brano suscitò vivaci polemiche alla sua pubblicazione.

128 M. CAMPANINI LA GUERRA DEI SEI GIORNI E LE SUE CONSEGUENZE



M. Campanini, Storia del Medio Oriente contemporaneo, il Mulino, Bologna 20064, pp. 149-56.

Il 1967 costituì un anno fondamentale per la storia del Medio Oriente. Secondo lo storico del Medio Oriente Massimo CamIl 1967 deve essere scelto come spartiacque fondamentale della storia contemporanea del Medio Oriente. Ne capiremo subito le ragioni, ma intanto è necessario descrivere la circostanza che lo ha reso tale, ovvero appunto la guerra dei Sei giorni. La guerra consistette in un attacco preventivo di Israele che il 5 giugno 1967 distrusse a terra in primo luogo l’aviazione egiziana, la più potente nel mondo arabo, e scatenò una successiva devastante offensiva terrestre in tre direzioni: contro l’Egitto, contro la Siria e contro la Giordania. La situazione internazionale era diventata infatti incandescente nella primavera del ’67. La guerriglia palestinese aveva intensificato i suoi attacchi, cui Israe­le aveva risposto con dure rappresaglie. […] Lo stesso Nasser1, in maggio, aveva primo chiuso lo stretto di Tiran2 alla navigazione israeliana, dando l’impressione di voler strangolare economicamente il nemico sionista, e quindi aveva richiesto all’Onu di ritirare dal Sinai le truppe che vi stazionavano dal 1956, dando l’impressione di essere pronto all’attacco via terra […]. In realtà, è ormai generalmente riconosciuto che Nasser non voleva la guerra, o per lo meno non in quelle circostanze e in quel momento. […] Israele viveva invece un clima di isteria provocato dal timore dell’accerchiamento e di un nuovo olocausto. Ciò persuase la maggioranza del governo e soprattutto il ministro della Difesa, il «falco» Moshe Dayan, a scatenare per primi l’offensiva […]. Annientata l’aviazione israeliana con un blitz di rara efficacia, la susseguente campagna terrestre fu estremamente facile. L’esercito israeliano arrivò in pochi giorni al canale di Suez sul fronte occidentale, occupando tutto il Sinai egiziano e Gaza; a nord conquistò le colline siriane del Golan, arrivando a tiro di cannone da Damasco; ad est si impadronì della Cis­ giordania e soprattutto di Gerusalemme, attaccando il tentennante re giordano Huissein […]. La sospensione delle ostilità il 10 giugno vedeva gli arabi annientati, prostrati da una sconfitta politico-militare

panini (nato nel 1954), infatti, la vittoria israeliana contro Egitto e Siria significò la sconfitta simbolica del nazionalismo arabo, laico e socialisteggiante, personificato dal presidente egiziano Nasser [►13_4 e 13_5]. Ciò aprì la strada a una nuova affermazione dell’islamismo politico in tutto il mondo arabo, di cui l’Arabia Saudita si propose come nuova guida.

di proporzioni inattese, e Israele acquisire una notevole estensione di terre arabe, che ne avevano moltiplicato il territorio. Gli Stati Uniti avallarono3 la guerra di Israele […]. Lo schieramento incondizionato degli Stati Uniti a favore di Israele cominciò proprio con e dopo il 1967. […] Del resto, dall’altra parte della barricata della guerra fredda, l’Unione Sovietica non mosse un dito per aiutare concretamente gli arabi. La crisi del nasserismo sul piano interno e internazionale fu la prima conseguenza macroscopica del disastro. Il maresciallo ‘Amer, capo dell’esercito, si suicidò e lo stesso Nasser perse fiducia nei suoi mezzi e nei suoi obiettivi. […] Per la prima volta […], dopo molti anni, si videro al Cairo grandi manifestazioni popolari contro il regime, segno che qualcosa si era incrinato tra l’opinione pubblica e il carismatico ra’īs. Sul piano esterno, Nasser era consapevole che solo una nuova guerra avrebbe restituito all’Egitto i territori perduti e la dignità; ma era altrettanto consapevole del fatto che l’Egitto non era momentaneamente in grado di affrontarla. […] La debolezza dell’Egitto ringalluzzì i suoi avversari, come l’Arabia Saudita, il cui re Faysal si atteggiò ad erede dell’egemonia egiziana sul mondo arabo. La crisi dell’intellettualità araba (e islamica) fu il secondo grave retaggio della guerra dei Sei giorni. […] In primo luogo, la sconfitta costrinse il mondo arabo a rie­ saminare la propria identità e il proprio rapporto con l’«altro», cioè l’Occidente e Israele; in secondo luogo, dimostrò il totale fallimento del progetto nazionalista e socialista arabo, incarnato soprattutto da Nasser; in terzo luogo, orientò in senso maggiormente islamico i rapporti tra religione e stato; infine aprì la strada ad elementi «controrivoluzionari» che trasformarono completamente le direttive sociali ed economiche. L’incancrenirsi della questione palestinese fu probabilmente l’effetto più duraturo e pericoloso della disfatta degli arabi. Il problema dei rifugiati divenne più dram-

matico che mai. Con la perdita della Cisgiordania e di Gaza, ormai i palestinesi non avevano più alcun luogo dove vivere nell’antica patria, ed emigrarono in massa, soprattutto verso la Giordania. […] La guerra dei Sei Giorni ha quindi sancito l’irreversibilità dello status quo in Palestina o, se si vuole, nei territori israelo-palestinese. […] Israele si convinse di poter liquidare il problema palestinese attraverso una indiscriminata occupazione della terra e attraverso l’espulsione o la subordinazione dei palestinesi. […] Un aspetto geopolitico e strategico interessante di questa svolta [del 1967, NdR] consiste nella fine dell’egemonia dell’Egitto sul mondo arabo. Questo vuoto di potere e di autorità consentì ad altre potenze di farsi avanti nei decenni successivi: in primo luogo l’Arabia Saudita di Faysal, tradizionale nemica dell’Egitto di Nasser, e in tempi lunghi l’Iraq di Saddam Hussein4. Entrambe queste volontà egemoniche dovevano promuovere sconvolgimenti e trasformazioni di portata epocale […]. È forse eccessivo attribuire alla sola causa della sconfitta nasseriana e araba nella guerra dei Sei giorni il precipitare di eventi che al volgere del XXI secolo sembrano compromettere l’intera stabilità mondiale. Ma ogni albero ha molte radici, e l’abdicazione dell’Egitto al suo ruolo di guida del mondo arabo e nel movimento dei non-allineati doveva appunto scardinare un quadro di stabilità geopolitica peraltro meno solido di quanto apparisse. Anche l’islamismo degli anni Settanta,

1. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1918-1970) [►13_5]. 2. Gli Stretti di Tiran sono degli stretti passaggi di mare formati dall’isola di Tiran nel Golfo di Aqaba, nel punto in cui la distanza tra la penisola egiziana del Sinai e la penisola arabica si riduce a circa 20 km. 3. Sostennero. 4. Leader di un regime di stampo dittatoriale in Iraq dal 1979 al 2003 [►19_4].

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FARESTORIA Il conflitto arabo-israeliano

in specie nelle sue versioni più estremiste, può essere considerato un ulteriore frutto avvelenato di quel conflitto, nella misura in cui rappresentò una reazione estrema al fallimento degli ideali laicisti di Nasser e di tutto il mondo arabo-islamico negli anni Cinquanta e Sessanta. Caduti i miti del liberalismo, del socialismo e del nazionalismo arabo, molti

KIPPUR

sentirono che l’autentica alternativa era l’Islam e molti decisero di vivere questa METODO DI STUDIO

 a  Cerchia la data in cui scoppiò la guerra dei sei giorni ed evidenzia i paesi contendenti.  b  Sottolinea con colori diversi gli esiti del conflitto e le sue conseguenze. Quindi realizza uno schema sul quaderno che renda evidenti i dati individuati in questo esercizio e nel precedente (punti a e b).  c  Evidenzia l’ultima frase del brano e spiegane per iscritto il significato.

129d GOLDA MEIR LA SORPRESA DELLO YOM

G. Meir, La mia vita, Mondadori, Milano 1976, pp. 386-91.

Il 6 ottobre del 1973, approfittando della festività ebraica dello Yom Kippur, Egitto, Siria e Giordania lanciarono un improvviso – e inizialmente vittorioso – attacco contro le linee israeliane [►13_7]. Riorganizzatosi, Israele riuscì a comunque respingere l’aggressione, anche se, su sollecitazione dei

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Di tutti gli argomenti che ho affrontato in questo libro, nessuno è arduo, per me, come quello della guerra dell’ottobre 1973, la cosiddetta guerra dello Yom Kippur. [...] Un’esperienza che per poco non fu disastrosa, un incubo che mai dimenticherò. [...] Il conflitto ebbe inizio il 6 ottobre, ma se ora ci ripenso, il mio pensiero torna al peggio, quando ci giunsero informazioni relative al rafforzamento dei contingenti siriani ed egiziani lungo le frontiere. I nostri servizi di informazione ritennero assai improbabile lo scoppio di una guerra, ma comunque decidemmo di prendere seriamente la faccenda. Mi recai di persona al quartier generale, dove [...] mi informarono minuziosamente sull’entità e la preparazione delle nostre forze armate, sì da convincermi che l’esercito fosse pronto per ogni evenienza, compresa una guerra su vasta scala. [...] Il giovedì1 mi recai come al solito a Tel Aviv [...]: lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, avrebbe avuto inizio il venerdì sera, e per gran parte degli israeliani ci sarebbe stato un lungo ponte. Ritengo che ormai, grazie in parte alla guerra, anche i non ebrei che mai prima hanno udito parlare dello Yom Kippur, sanno che si tratta della giornata più solenne e sacra di tutte quelle che compongono il calendario ebraico. [...] Gli ebrei praticanti si astengono completamente dal cibo, dalle bevande e dalle attività lavorative, e trascorrono lo Yom Kippur [...]

U4 IL MONDO DIVISO

alternativa in modo radicale, addirittura violento.

suoi alleati occidentali, pressati dal rialzo del prezzo del petrolio [►16_1], dovette accettare un armistizio. Alla guida del governo israeliano c’era allora l’anziana Golda Meir (18981978) [►13_4 e  Personaggi, Golda Meir, una donna alla guida di Israele], emigrata in Palestina dalla Russia già nel 1924. In questo brano, Meir ricorda l’ansia e l’incertezza di quel momento drammatico, confessando la profondità del trauma subìto allora.

alla sinagoga, pregando e chiedendo perdono per i peccati che possono aver commesso nel corso dell’anno. [...] In Israele, l’intero paese in pratica si ferma: i giornali non escono, non ci sono trasmissioni radio né televisive, i trasporti pubblici, le scuole, i negozi, i ristoranti, i caffè cessano di funzionare e gli uffici chiudono per ventiquattro ore. [...] Venerdì 5 ottobre ricevemmo un rapporto che mi diede da pensare: le famiglie dei consiglieri militari sovietici in Siria stavano facendo i bagagli per lasciare il paese in tutta fretta. Questo [...] non mi piacque affatto. Perché tanta fretta? [...] Ma, siccome nessun altro di quanti mi stavano attorno sembrava darvi troppa importanza, cercai di non lasciarmi andare all’ossessione. [...] Come mai continuavo a essere tanto preoccupata dall’eventuale scoppio di ­ una guerra quando il capo di Stato Maggiore, due ex capi di Stato Maggiore [...] e il capo del servizio informazioni erano certi del contrario? [...] Perché continuavo a sentirmi a disagio? Stavo forse prendendo un abbaglio? Non ero in grado di fornire risposta alle mie stesse domande. Oggi so che cosa avrei dovuto fare: [...] quel venerdì mattina avrei dovuto dar retta agli avvertimenti che mi venivano dal cuore e ordinare la mobilitazione. [...] So che avrei dovuto farlo, e questa terribile certezza mi perseguiterà per il resto della mia vita. Non sarò mai più quella che sono stata prima della guerra dello Yom Kippur.

Allora, però, rimasi in ufficio a riflettere e a rodermi fino a non poterne più; così mi alzai e me ne andai a casa. [...] Restai sveglia per ore, ma alla fine riuscii a chiudere per qualche istante gli occhi. Poi, verso le quattro del mattino, il telefono sul comodino squillò. All’altro capo della linea c’era il mio segretario per le questioni militari il quale mi comunicava che, da informazioni testé giunte, risultava che siriani ed egiziani avrebbero attaccato congiuntamente Israele «nel tardo pomeriggio». Ormai non c’erano più dubbi possibili: la fonte dell’informazione era incontrovertibile. 1. 4 ottobre 1973.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia il nome e la data del conflitto descritto. Quindi sottolinea le informazioni essenziali che permettono di inquadrarlo.  b  Sottolinea le informazioni che permettono di comprendere cosa sia lo Yom Kippur e cosa comporta in Israele.  c  Sottolinea con colori diversi i segnali che lasciavano presagire un possibile attacco contro Israele e i motivi per cui il capo del governo israeliano non ordinò la mobilitazione generale dell’esercito.  d  Individua le emozioni che l’autrice prova e trascrivile sul quaderno accanto agli eventi.  e  Spiega chi è l’autrice di questo documento e quale ruolo ha avuto nella storia di Israele [►  Personaggi, Golda Meir, una donna alla guida di Israele]. Quindi specifica che tipo di fonte è questa e per quale motivo è stata scritta.

130 M. EMILIANI LA GUERRA DELLO YOM KIPPUR: LA FINE DEL MITO DELL’INVINCIBILITÀ ISRAELIANA



M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 204-12.

La guerra dello Yom Kippur, nonostante l’insuccesso, rappresentò comunque per gli arabi un parziale riscatto dopo la I retroscena dell’attacco congiunto siro-egiziano contro Israele del 6 ottobre 1973 devono ancora essere chiariti. Damasco e Il Cairo1 si sono contese a lungo il merito dell’iniziativa che comunque, rispetto ai precedenti episodi del conflitto arabo-israeliano, non mirava a distruggere lo Stato sionista, ma a rettificare l’assetto del Medio Oriente post-1967 col recupero di parte dei Territori. […] Gli Stati arabi produttori di petrolio diedero il loro assenso, ma soprattutto fornirono all’Egitto e alla Siria ingenti aiuti economici e militari. […] L’avanzata dei due eserciti fu rapida. Quello egiziano riuscì a travolgere la linea Bar-Lev2 e a penetrare in profondità nella penisola per poi consolidarsi su un fronte lungo tredici chilometri all’altezza del passo di Mitla3, quasi non volesse avanzare. Divenne insomma evidente nel giro di venti ore che, nonostante una acquisita efficienza, le truppe egiziane non erano determinate a proseguire e, infatti, Sadat4 ritenne che l’attraversamento del Canale di Suez fosse sufficiente a stimolare l’attenzione della diplomazia internazionale, e di quella americana in particolare, come si era augurato. […] Ugualmente spedita fu la conquista delle Alture del Golan5 per quanto consentito dalla conformazione del terreno, ma le truppe siriane non si fermarono certo ad aspettare che l’esercito israeliano reagisse. Per Israele l’attacco congiunto, perlomeno nei primi giorni, si risolse in un disastro. Lo Yom Kippur è una delle principali feste ebraiche e nonostante i servizi segreti e il primo ministro Golda Meir (avvisata direttamente da re Hussein6) sapessero di un possibile attacco, mai il paese si sarebbe aspettato un’offensiva proprio nel giorno dell’Espiazione. Fu il momento scelto dal nemico a cogliere di sorpresa Israele, non l’attacco in sé per sé. […] La vera sorpresa della guerra dello Yom Kippur fu in realtà l’incapacità di Israele di rispondere prontamente all’attacco siro-egiziano: le riserve non erano state convocate, per questo la loro mobilitazione richiese ben tre giorni […]. Finalmente l’8 ottobre gli israeliani passarono al contrattacco nel Golan meridionale, dove già il 10 ottobre riu-

sconfitta del 1967 [►FS, 128]. Secondo la ricostruzione della storica Marcella Emiliani, infatti, anche se alla fine le forze armate israeliane riuscirono a riorganizzarsi e a respingere l’attacco congiunto di Siria ed Egitto [►13_7], per la prima volta gli eserciti arabi riuscirono a infliggere gravi perdite a Israele, smentendo il mito della sua invincibilità.

scirono a fermare l’offensiva. Nel frattempo l’aviazione con la stella di David si spinse a bombardare gli aeroporti siriani, un’operazione che investì il centro di Damasco dove furono colpiti il quartier generale delle forze armate, i depositi di carburante di Homs e di Aleppo […]. L’offensiva di terra delle Idf7 comunque faticò a ricacciare le truppe di Hafez al-Assad8 al di là del confine del 1967 […]. Altrettanto faticosa fu la controffensiva nella penisola del Sinai. […] Lo scontro decisivo avvenne il 14 ottobre quando, nonostante la ripresa dell’offensiva da parte egiziana, Israele finalmente riuscì a sconfiggere il nemico con un attacco congiunto dell’aviazione e della fanteria corazzata. […] La battaglia decisiva sulla sponda occidentale del Canale [di Suez, NdR] si ebbe il 19 ottobre e fu vinta dagli israeliani. Lo stesso giorno Sadat decise di accettare il cessate il fuoco che il presidente sovietico Kosygin gli aveva già proposto […] il 16 ottobre. […] Nella notte fra il 19 e il 20 ottobre erano scesi in campo direttamente anche gli Stati Uniti con il segretario di Stato Henry Kissinger, volato a Mosca per negoziare l’armistizio direttamente con il segretario generale del Pcus (Partito comunista dell’Unione Sovietica) Leonid Brežnev. […] Le perdite umane e militari furono ingenti su tutti i fronti, ma dal punto di vista strettamente militare era la prima volta che le Idf non erano riuscite a costringere le truppe arabe alla fuga. […] La guerra dello Yom Kippur fu inoltre la prima in cui gli Stati Uniti si schierarono militarmente al fianco di Israele con un massiccio ponte aereo iniziato il 13 ottobre, frutto sia di un analogo ponte aereo a favore dei paesi arabi in guerra che Mosca aveva avviato fin dal 10 ottobre sia della paura che Israele potesse far ricorso alle armi atomiche per riuscire ad avere la meglio su dei nemici che per la prima volta si erano fatti concretamente minacciosi […] L’impegno degli Stati Uniti verso Israele aveva così subito una svolta decisiva con l’amministrazione Nixon e questo per due motivi: gli Usa confidavano sulla superiorità militare israeliana per dissuadere gli Stati arabi ad avventurarsi in

altre guerre, sostanzialmente perché ritenevano che Israele potesse rappresentare un elemento determinante per la stabilità regionale; in secondo luogo chi meglio di Israele avrebbe potuto contenere l’espansionismo sovietico in Medio Oriente? Le forniture di armi sofisticate e l’assistenza militare americana a Gerusalemme passarono così dai 77 milioni di dollari del 1968 ai 693 milioni del 1975. […] Rispetto alla guerra del 1967, la guerra dello Yom Kippur lasciò sostanzialmente le cose immutate dal punto di vista territoriale, ma per la prima volta nella loro storia gli arabi potevano dire di aver inflitto pesantissime perdite ad Israele, smentendo così il mito dell’invincibilità delle Idf. Avevano inoltre costretto Gerusalemme a venire a patti da una posizione di forze ed entrambe le superpotenze a lavorare assieme per tutelare gli interessi degli Stati arabi. Questo è il motivo per cui il 6 ottobre è divenuto giorno della festa nazionale in Egitto e in Siria: l’onore delle armi arabe era stato finalmente riscattato. 1. La Siria e l’Egitto. 2. Linea fortificata israeliana lungo la sponda orientale del Canale di Suez, al confine con l’Egitto. 3. Valico situato nella parte occidentale del Sinai. 4. Il presidente egiziano Anwar Sadat (19181981), successore di Nasser [►13_7]. 5. Altopiano montuoso tra Israele, Libano, Siria e Giordania. 6. Re Hussein di Giordania (1935-1999). 7. Israel defence forces, le forze armate israeliane. 8. Hafez al-Assad (1930-2000), presidente siriano. METODO DI STUDIO

 a   Cerchia con colori diversi i nomi degli Stati coinvolti e sottolinea le azioni che ognuno di essi compie mantenendo gli stessi colori. Trascrivi quindi schematicamente questi dati in una tabella i cui indicatori siano i nomi degli Stati che hai precedentemente cerchiato.  b   Sottolinea con colori diversi i risultati militari e i significati geopolitici degli esiti del conflitto.

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FARESTORIA Il conflitto arabo-israeliano

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti disponendoli in ordine cronologico e logico. Utilizza lo schema da te realizzato come scaletta per scrivere un testo espositivo di almeno 30 righe sulla nascita e sullo sviluppo del conflitto arabo-israeliano, mettendo in rilievo i punti di vista che emergono nei diversi brani e citando opportunamente i passi che ritieni più significativi. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. LO STORICO RACCONTA 2 Metti a confronto la testimonianza di Meir [►129d] e il racconto storiografico di Emiliani [►130] ed evidenzia i dati comuni e quelli che esaminano punti di vista diversi, numerando i punti da te individuati. Descrivi quindi in un brano di circa 10 righe quali tipologie di informazioni puoi ricavare da una fonte diretta e quali da un racconto storiografico, indicando i numeri di riferimento. Per svolgere correttamente il tuo compito ricorda di riflettere sul ruolo politico della Meir e sulle finalità per cui ha scritto il brano che hai analizzato.

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 3 Individua gli atteggiamenti che gli Stati arabi ebbero nei confronti della questione israelo-palestinese servendoti delle informazioni dirette (e indirette) contenute nei brani del percorso storiografico e trascrivi sinteticamente le informazioni raccolte sul tuo quaderno, indicando fra parentesi il nome dell’autore del brano da cui hai tratto le informazioni. Infine scrivi un testo di massimo 40 righe in cui metterai a confronto i dati individuati con le seguenti posizioni: a. Gli Stati arabi che parteciparono al lungo conflitto mediorientale non erano interessati affatto alla formazione di uno Stato palestinese, ma perseguivano, in varia misura, una politica di espansione territoriale. b. L’invasione d’Israele nel 1948 e le successive fasi del conflitto che coinvolsero gli Stati della Lega araba avevano lo scopo di liberare la Palestina e di formare uno Stato autonomo affidato all’autorità palestinese.

TRA CONTESTAZIONE E RINNOVAMENTO: IL MOVIMENTO STUDENTESCO E I NUOVI ORIENTAMENTI CATTOLICI

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Negli anni ’60 – e in particolare nella seconda metà – in tutto l’Occidente industrializzato (e in parte anche nell’Europa orientale) si svilupparono dei movimenti di contestazione animati essenzialmente dai giovani. Nelle pagine che aprono questa sezione, il giornalista statunitense Mark Kurlansky [►131] mette in rilievo i caratteri fondamentali di questo fenomeno che in Europa ebbe il suo apice nel 1968. Nati principalmente nelle scuole e nelle università, i movimenti giovanili si fecero portavoce di una critica radicale alla società contemporanea, alle sue gerarchie, alle sue tradizioni consolidate, ai suoi ruoli prestabiliti: uno dei libri che meglio ne interpretarono lo spirito fu L’uomo a una dimensione, nel quale Herbert Marcuse [►132d] denunciò il carattere subdolamente autoritario e falsamente democratico delle società industriali avanzate. I mutamenti politico-culturali degli anni ’60 investirono anche i grandi sistemi e le istituzioni religiose, a partire dalla Chiesa cattolica, che nel Concilio Vaticano II [►133d] fu impegnata a ridefinire il proprio rapporto con il mondo moderno e con i processi di secolarizzazione. Gli sviluppi di questo complicato rapporto, dall’inizio degli anni ‘60 fino agli anni più recenti, sono qui ricostruiti dallo storico Daniele Menozzi [►134]. Una critica radicale alla moderna società capitalistica su scala globale – che coniugava alcune tematiche della contestazione studentesca con le tendenze modernizzatrici nate in seno alla Chiesa cattolica – fu quella elaborata dalla “teologia della liberazione”, una corrente del dissenso cattolico sviluppatasi soprattutto in America Latina negli anni ’70: i suoi tratti principali sono delineati nel brano di uno dei suoi maggiori esponenti, il teologo francescano Leonardo Boff [►135d].

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SVOLTA

131 M. KURLANSKY 1968: L’EPICENTRO DI UNA

M. Kurlansky, 1968. L’anno che ha fatto saltare il mondo, Mondadori, Milano 2004, pp. 5-7; 408-9.

Il giornalista statunitense Mark Kurlansky (nato nel 1948), in un volume del 2004, ha ripercorso cronologicamente i fatti che, in tutto il mondo, confluirono in quel grande evento Non c’è mai stato, e probabilmente non ci sarà più, un anno come il 1968. In un’epoca in cui nazioni e culture erano ancora separate e molto diverse l’una dall’altra – allora Polonia, Francia, Stati Uniti e Messico erano molto più differenti fra loro di oggi – si assistette in tutto il mondo a uno spontaneo infiammarsi di spiriti ribelli. Di anni di rivoluzioni ce n’erano stati altri [...]. Ma soltanto nel 1968 ci si ribellò su problemi tanto diversi, avendo in comune unicamente la voglia di ribellarsi, le idee su come farlo, un senso di estraneità per l’ordine costituito e una profonda avversione per ogni forma di autoritarismo. Dove c’era il comunismo ci si ribellò contro il comunismo, dove c’era il capitalismo contro il capitalismo. Furono contestate la maggior parte delle istituzioni, dei leader e dei partiti politici. Non si trattò di qualcosa di pianificato o di organizzato. Le rivolte erano guidate attraverso assemblee convocate in fretta; alcune delle decisioni più importanti furono prese d’impulso, sul momento. I movimenti erano antiautoritari e quindi senza leader o con leader che rifiutavano di esserlo. La chiarezza ideologica era rara, e un largo accordo c’era solo su pochissime questioni. [...] Benché la ribellione fosse dappertutto, raramente le forze che vi parteciparono si unirono e, quando ciò avvenne – come negli Stati Uniti con i movimenti femminista, per i diritti civili e contro la guerra1, e in Francia e in Italia con i movimenti studentesco e operaio2 – si trattò di un’alleanza di convenienza, temporanea, che presto si sciolse. Quattro furono i fattori storici che si fusero dando vita al 1968: l’esempio offerto dal movimento per i diritti civili negli Stati Uniti [...]; una generazione che sentiva così fortemente la sua diversità ed estraneità da rifiutare ogni forma di autorità; una guerra che suscitava in tutto il mondo una tale universale avversione da offrire una causa a ogni ribelle che ne

collettivo che è passato alla storia come «il Sessantotto». Nel brano scelto, Kurlansky evidenzia i quattro fattori che diedero vita a questo momento di rottura: il movimento statunitense per i diritti civili, la contestazione alla guerra in Vietnam; lo spirito antiautoritario; la funzione della televisione che, trasmettendo immagini provenienti da ogni parte del mondo, favoriva la diffusione del messaggio rivoluzionario.

cercasse una3; e, infine, il fatto che tutto ciò avvenisse in un momento in cui la televisione giungeva alla maggiore età, ma era ancora abbastanza nuova da non esser controllata, distillata, impacchettata come oggi. [...] La guerra americana in Vietnam [...] era la guerra di una nazione giunta a un grado di potenza globale senza precedenti. In un’epoca in cui le colonie si sforzavano di rimodellarsi come nazioni e la «lotta anticapitalista» aveva colpito le sensibilità idealistiche in tutto il mondo, ecco un paese debole e fragile battersi per l’indipendenza mentre un’entità di nuovo tipo, una cosiddetta «superpotenza», sganciava sul suo piccolo territorio più bombe convenzionali di tutte quelle cadute sull’Asia e sull’Europa nella Seconda guerra mondiale. [...] Se all’interno dei movimenti attivi negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e in Messico le divisioni in fazioni erano all’ordine del giorno, la potenza e il prestigio degli americani e il carattere brutale e palesemente ingiusto della guerra che conducevano in Vietnam facevano sì che tutti fossero d’accordo nell’opporsi al confitto. [...] Quando si voleva protestare si sapeva come farlo grazie al movimento americano per i diritti civili, alle sue marce e ai

suoi sit-in: la televisione aveva mostrato ciò che era successo nel Mississippi4, e non si vedeva l’ora di agire in prima persona per la libertà. [...] Il 1968 fu un momento di emozionante modernismo, fenomeno che affascina sempre i giovani e sconcerta gli anziani; eppure, visto retrospettivamente, fu anche un momento di innocenza quasi d’altri tempi. [...] Con stupore ed entusiasmo si scoprì che a Praga, a Parigi, a Roma, in Messico, a New York, si stavano facendo le stesse cose. Grazie a nuovi strumenti quali i satelliti per le telecomunicazioni e i videotape, la televisione stava rendendo ognuno consapevole di quanto stavano facendo gli altri. E questo era elettrizzante perché, per la prima volta nell’esperienza umana, eventi importanti e remoti erano vissuti in diretta. [...] Il 1968 fu l’epicentro di una svolta, di un cambiamento fondamentale; segnò la nascita del nostro mondo postmoderno governato dai media. [...] Il 1968 fu un anno terribile del quale, tuttavia, molti sentono nostalgia. Nonostante le migliaia di caduti in Vietnam, il milione di morti per fame in Biafra, gli idealismi schiacciati in Polonia e in Cecoslovacchia5, il massacro in Messico6, le manganellate e le violenze subite ovun-

1. ►12_9-10, 15_7-8, PERSONAGGI, p. 626]. 2. ►20_1. 3. La guerra del Vietnam. 4. Nel marzo 1964, in una piccola città del Mississippi, tre attivisti antisegregazionisti furono uccisi a colpi di pistola da alcuni membri del Ku Klux Klan locale, con la complicità dello sceriffo della contea. Negli anni seguenti, nello Stato del Mississippi si sviluppò il movimento per i diritti civili, di cui il principale leader era Martin Luther King [►12_9, PERSONAGGI, p. 626]. Fu nel Mississippi che, nel marzo 1968, King lanciò la Poor People’s Campaign, che chiedeva diritti civili e sociali e un miglioramento

delle condizioni di vita per gli statunitensi poveri di tutte le etnie. 5. ►12_10. 6. Nell’ottobre 1968 si tennero in Messico i giochi olimpici. Pochi giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi, il 2 ottobre, a piazza delle Tre Culture (Tlatelolco, Città del Messico), l’esercito represse nel sangue una manifestazione di studenti che protestavano contro il governo: carri blindati, veicoli da combattimento ed elicotteri spararono sui manifestanti. I morti furono 30-40 secondo le fonti governative, dieci volte tanto per le fonti internazionali più accreditate.

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FARESTORIA Tra contestazione e rinnovamento: il movimento studentesco e i nuovi orientamenti cattolici

que dai contestatori, l’assassinio dei due americani che avevano dato più speranza al mondo7, nonostante tutto ciò, per molti fu un anno di grandi possibilità. 7. Martin Luther King e Robert Kennedy [►12_9].



METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea e numera i fattori che, secondo Kurlansky, diedero vita al 1968 inteso come momento di rottura.  b Per ognuno dei fattori sottolineati nell’esercizio precedente, individua da tre a cinque parole chiave e argomenta la tua scelta per iscritto.  c  Spiega se gli eventi rivoluzionari descritti facevano parte di un piano organizzato e quali sono gli elementi che fanno propendere per la tesi proposta dall’autore.

132d HERBERT MARCUSE L’UOMO A UNA DIMENSIONE

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, pp. 1-29.

L’uomo a una dimensione, da cui è tratto il brano seguente, è considerato il testo ispiratore della “generazione del ’68” anche se, in realtà, era conosciuto solo dai militanti più colti e politicizzati. Scritto nel 1964 dal filosofo di origine tedesca Herbert Marcuse (1898-1979) [►15_7], emigrato negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo, descrive la società industriale avanzata come un sistema totalizzante

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Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. [...] L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono privati della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principî e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo. Sotto questo aspetto, il fatto che la capacità di soddisfare i bisogni in misura crescente sia assicurata da un sistema autoritario o da uno non autoritario sembra fare poca differenza. [...] L’apparato impone le sue esigenze economiche e politiche, in vista della difesa e dell’espansione, sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione

U4 IL MONDO DIVISO

capace di rendere vana ogni forma di opposizione e di indebolire ogni capacità critica grazie alla sua straordinaria forza di integrazione. All’interno di un organismo sociale apparentemente aperto e tollerante, e attraverso forme sofisticate di controllo, l’individuo viene assoggettato a una condizione di sostanziale non libertà e ridotto a semplice ingranaggio di un universo standardizzato e uniforme. In questa situazione gli unici potenziali antagonisti restano i soggetti non integrati, ossia i gruppi marginali, i giovani, gli esclusi.

dei bisogni da parte di interessi costitui­ ti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un «pluralismo» di partiti, di giornali, di «poteri controbilanciantisi», ecc. [...] È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. [...] La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni. Tali bisogni hanno un contenuto e una funzione sociali che sono determinati da potenze esterne, sulle quali l’individuo non ha alcun controllo; lo sviluppo e la soddisfazione di essi hanno carattere eteronomo. [...] Il tratto distintivo della società industriale avanzata è il modo come riesce a soffocare efficacemente quei bisogni che chiedono di essere liberati – liberati an-

che da ciò che è tollerabile e remunerativo e confortevole – nel mentre alimenta e assolve la potenza distruttiva e la funzione repressiva della società opulenta. [...] Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. Non è l’ambito delle scelte aperte all’individuo il fattore decisivo nel determinare il grado della libertà umana, ma che cosa può essere scelto e che cosa è scelto dall’individuo. [...] La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. La libera scelta tra un’ampia varietà di beni e di servizi non significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali su una vita di fatica e di paura – se, cioè, alimentano l’alienazione. [...] Il cosiddetto livellamento delle distinzioni di classe rivela qui la sua funzione ideologica. Se il lavoratore ed il suo capo assistono al medesimo programma televisivo e visitano gli stessi luoghi di vacanza, se la dattilografa si trucca e si veste in modo altrettanto attraente della figlia del padrone, se il negro possiede una Cadillac, se tutti leggono lo stesso giornale, ne deriva che questa assimilazione non indica tanto la scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione. [...]

Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto.



METODO DI STUDIO

 a  Spiega in che cosa si manifesta, secondo Marcuse, la «non-libertà» della civiltà industriale e qual è il significato del termine «totalitario».  b  Sottolinea con colori diversi i «falsi» bisogni che caratterizzano la società contemporanea e in che modo vengono diffusi collettivamente.  c  Descrivi per iscritto il processo alla base dell’omologazione dei consumi e dell’apparente livellamento delle distinzioni sociali.

133d DAL DISCORSO D’APERTURA DEL CONCILIO VATICANO II

Discorso di apertura di Giovanni XXIII al Concilio Vaticano II, citato in Atlante del XX secolo. I documenti essenziali, 19461968, a c. di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 264-66.

Il papato di Giovanni XXIII (1958-1963) si svolse nel pieno del processo di crescente secolarizzazione che caratterizzava la società di quegli anni, che aveva investito in pieno anche il mondo cattolico. Il nuovo pontefice vi rispose rilanciando l’impegno della Chiesa nella difesa degli umili e il dialogo con «tutti gli uomini di buona volontà», inclusi 7. 1. Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, è evidente come non mai che la verità del Signore rimane in eterno. Vediamo infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte opinioni degli uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole. 2. Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo1 preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando. Non perché manchino dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare; ma perché tutte quante contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, soprattutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nei progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita. Essi sono sempre più consapevoli che la dignità della persona umana e la sua naturale perfezione è questione di grande importanza e difficilissima da realizzare.

i non credenti e i fedeli di altre religioni. L’atto più importante del suo pontificato fu la convocazione del Concilio Vaticano II [►15_9], che si aprì l’11 ottobre del 1962. Nel seguente brano è riportato il discorso inaugurale pronunciato dal pontefice. Nel corso dei tre anni della sua durata, il Concilio ridefinì la riflessione cattolica sui temi della povertà, della pace, della discriminazione razziale, del dialogo con le altre religioni.

Quel che conta soprattutto è che essi hanno imparato con l’esperienza che la violenza esterna esercitata sugli altri, la potenza delle armi, il predominio politico non bastano assolutamente a risolvere per il meglio i problemi gravissimi che li tormentano. 3. Così stando le cose, la Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati. All’umanità travagliata da tante difficoltà essa dice, come già Pietro a quel povero che gli aveva chiesto l’elemosina: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». In altri termini, la Chiesa offre agli uomini dei nostri tempi non ricchezze caduche2, né promette una felicità soltanto terrena; ma dispensa i beni della grazia soprannaturale, i quali, elevando gli uomini alla dignità di figli di Dio, sono di così valida difesa ed aiuto a rendere più umana la loro vita; apre le sorgenti della sua fecondissima dottrina, con la quale gli uomini, illuminati dalla luce di Cristo, riescono a comprendere a fondo che cosa essi realmente sono, di quale dignità sono insigniti, a quale meta devono tendere; infine, per mezzo dei suoi figli manifesta ovunque la grandezza della carità cristiana, di cui null’altro è più valido per estirpare

i semi delle discordie, nulla più efficace per favorire la concordia, la giusta pace e l’unione fraterna di tutti. Promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana […] 8. 2. Purtroppo tutta la comunità dei cristiani non ha ancora pienamente e perfettamente raggiunto questa visibile unità nella verità. La Chiesa Cattolica ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre Celeste nell’imminenza del suo sacrificio […]. Se ben consideriamo, questa stessa unità, che Cristo impetrò per la sua Chiesa, sembra quasi rifulgere di un triplice raggio di luce soprannaturale e salvifica, a cui corrispondono: l’unità dei cattolici tra di loro, che deve essere mantenuta fermissima e brillare come esempio; poi, l’unità che consiste nelle pie preghiere e nelle ardenti speranze con cui i cristiani separati da questa Sede Apostolica aspirano ad essere uniti con noi; infine, l’unità basata sulla stima e il rispetto verso la Chiesa Cattolica che nutrono coloro che seguono le diverse forme di religione non ancora cristiane. [...]

1. La Chiesa. 2. Temporanee, destinate a finire.

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FARESTORIA Tra contestazione e rinnovamento: il movimento studentesco e i nuovi orientamenti cattolici

Venerabili Fratelli, 4. Questo si propone il Concilio Ecumenico Vaticano II, il quale, mentre raccoglie insieme le migliori energie della Chiesa e si sforza con zelo di far accogliere dagli uomini più favorevolmente l’annunzio della salvezza, quasi prepara e consolida la via per realizzare quell’unità del genere umano, che è come il necessario fonda-

mento, perché la Città terrena si organizzi a somiglianza della Città celeste «il cui METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi gli errori che, nel contesto storico descritto, la Chiesa individua nella società e le soluzioni che propone.  b  Spiega per iscritto in che modo la Chiesa promuove l’unità nella famiglia cristiana e umana e perché.  c  Sintetizza il documento rispondendo alle 5W del giornalismo anglosassone (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?).

134 D. MENOZZI CHIESA CATTOLICA E SECOLARIZZAZIONE



D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 3-9.

La perdita di rilevanza della dimensione religiosa nella società contemporanea (il processo comunemente chiamato secolarizzazione) è da alcuni decenni al centro della riflessione cattolica. Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la posizione della Chiesa nei riguardi della secolarizzazione cominciò a mutare [►15_9]: al tradizionale giudizio

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Dall’età napoleonica fino al concilio Vaticano II l’atteggiamento cattolico, sia pure con accenti e sfumature diversi, si era caratterizzato per una valutazione fortemente negativa della secolarizzazione. [...] Tuttavia, tra gli anni ’60 e ’70 del nostro secolo, la polemica cattolica si stemperava. Alcuni approfonditi studi comportavano un affinamento e una revisione di categorie interpretative, articolando in secolarizzazione, secolarità e secolarismo i diversi aspetti di un fenomeno prima rappresentato in maniera indistinta. Allo stesso tempo il concilio Vaticano II, pur non affrontando direttamente il tema, manifestava un’apertura verso il «secolo», che si traduceva nel riconoscimento di una pur relativa autonomia del mondo e della storia. Poi sull’onda dell’aggiornamento post-conciliare, le teologie della secolarizzazione, inizialmente sviluppatesi in ambito protestante, giungevano anche a influenzare, nonostante persistenti riserve critiche, la riflessione cattolica. Nella prima metà degli anni ’70 la cultura cattolica manifestava così nuove prospettive e ben presto un intervento del magistero pontificio sembrava legittimare questo mutamento. In effetti Paolo VI, che ancora in un discorso del 1971 al Segretariato per i non credenti, pur riconoscendo la legittimità di una certa indipendenza del tempo-

U4 IL MONDO DIVISO

re è la verità, la cui legge è la carità, la cui grandezza è l’eternità».

negativo subentrò un atteggiamento più articolato, sostenuto anche da papa Paolo VI (1963-1978), e la polemica si stemperò. A partire dagli anni ’80, tuttavia, la questione tornò nuovamente di attualità, con l’ascesa al ponteficato di Giovanni Paolo II (1978-2005), che espresse un giudizio più critico nei confronti della secolarizzazione. Daniele Menozzi (nato nel 1947), studioso di storia della Chiesa, ricostruisce questi cambiamenti, mettendo in luce i diversi punti di vista emersi, e tuttora presenti, all’interno del mondo cattolico.

rale, scorgeva nella secolarizzazione un pericolo da evitare, nell’enciclica Evangelii nuntiandi (1975) assumeva una diversa posizione. Riprendeva infatti riprendeva infatti la distinzione tra «secolarismo» – definito come una concezione del mondo che si propone di negare o combattere ogni riferimento alla dimensione religiosa – e la «secolarizzazione». Questa veniva presentata come «lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa o in ogni evento dell’universo, le leggi che li reggono con una certa autonomia, nell’intima convinzione che il Creatore vi ha posto queste leggi». [...] Nonostante cautele, limiti e ambiguità, egli prendeva le distanze da quella linea che nella secolarizzazione aveva scorto solo usurpazione dei beni della chiesa, attacco illecito ai suoi diritti [...]. La posizione cattolica si era infatti basata sul presupposto che con la secolarizzazione il divenire storico dell’umanità, perdendo il suo riferimento centrale alla chiesa, si risolvesse in una progressiva deriva, al termine della quale si apriva il baratro del disastro sociale. [...] La nuova valutazione della secolarizzazione sembrava implicare l’abbandono di questo insieme di convinzioni, per lasciare posto a una prospettiva di accettazione della secolarità come con-

dizione costitutiva dell’uomo contemporaneo. [...] Indubbiamente anche dopo l’intervento di Paolo VI, permaneva in ambito cattolico una visione catastrofica della secolarizzazione; ma essa appariva il retaggio di ambienti conservatori, di fatto minoritari. [...] Tuttavia verso la metà degli anni ’80 la questione ritornava nuovamente di attualità nel mondo cattolico. La distinzione montiniana e i suoi contenuti venivano infatti riproposti in alcuni interventi che si concentrano nel 1985. [...] Ne sono chiara testimonianza almeno due aspetti. In primo luogo Giovanni Paolo II [...] pur non rinunciando a tenere distinti «secolarismo» e «secolarizzazione» [...], fornisce della seconda espressione una valutazione costantemente negativa. Essa appare come la grande sfida lanciata dal mondo moderno alla chiesa non solo in quanto determina diminuzione della pratica religiosa, riduzione delle vocazioni, perdita dei valori etici del cattolicesimo nella vita individuale e familiare; ma soprattutto perché tende a portare a una organizzazione della vita collettiva che prescinde dai valori cristiani, riducendo o annullando la rilevanza sociale della chiesa. E a questa tendenza il papa contrappone l’esigenza di una «nuova evangelizzazione» che riporti a un’Europa cristiana in cui la

società riceve dalla chiesa i suoi valori fondamentali. [...] In secondo luogo in questo stesso periodo si comincia a delineare anche nella cultura cattolica – pur variegata nei suoi orientamenti – un ripensamento verso la secolarizzazione. [...] Al fondo dei pur variegati giudizi sulla secolarizzazione, che sono in questi ultimi anni emersi nel magistero pontificio e in diversi settori del mondo cattolico, sta comunque la comune convinzione che all’agire politico e sociale dell’uomo non può essere concessa compiuta autonomia dalla religione cristiana: lasciato a se

stesso nella costruzione della città terrena l’uomo non può che imboccare la via di una crisi che porta alla distruzione o alla dissoluzione della società civile. Questo tema è stato ribadito con forza, in una serie di recenti interventi, dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, J. Ratzinger1. In polemica con quelle correnti teologiche contemporanee che presentano nell’abbandono dell’ideale di un ordine sociale cristiano la via di una purificazione della chiesa, egli ha sostenuto che solo la traduzione sul piano legislativo dei valori di cui essa è depositaria può permettere all’Europa una ripresa da

135d LEONARDO BOFF LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE



L. Boff, La teologia, la Chiesa, i poveri. Una prospettiva di liberazione, Einaudi, Torino 1987, pp. 91-111.

I problemi dei paesi poveri e il ruolo della Chiesa all’interno delle società arretrate sono al centro della riflessione del teologo francescano Leonardo Boff (nato nel 1938), brasiliano, Esiste una stretta connessione tra il fenomeno delle comunità ecclesiali di base e la teologia della liberazione. Nel contesto latinoamericano l’uno non può essere pensato disgiunto dall’altro. Le comunità ecclesiali e la teologia della liberazione sono due momenti di un medesimo processo di mobilitazione del popolo e di un processo che muove dal popolo. Le comunità ecclesiali rappresentano la prassi della liberazione popolare, e la teologia della liberazione la teoria di questa prassi. [...] 1. Comunità ecclesiali di base: popolo povero e credente che si organizza muovendo dalla fede La vasta rete di comunità di base [...] rappresenta l’espressione religiosa della mobilitazione popolare che, in tutta l’America Latina, e in modi diversi, ha preso corpo negli anni ’60. L’inserimento, sempre più profondo, del continente nel sistema capitalistico sovranazionale ha prodotto contraddizioni sociali immediatamente percepite ed elaborate dagli strati popolari, marginalizzati a fronte dei benefici dello sviluppo. Con l’avvento dei regimi militari e la conseguente re-

quella deriva morale cui è pervenuta la modernità. 1. Joseph Alois Ratzinger (nato nel 1927), eletto papa nell’aprile 2005 col nome di Benedetto XVI, ha rinunciato al pontificato nel febbraio 2013 [►21_8]. METODO DI STUDIO

 a   Individua e rendi riconoscibili con un segno al margine del testo le diverse posizioni assunte dalla Chiesa sulla secolarizzazione.  b   Esponi per iscritto le posizioni dei pontefici citati rispetto alla secolarizzazione e quando possibile riporta le relative argomentazioni.

esponente fra i maggiori di quella teologia della liberazione [►15_9] che, dopo aver suscitato accese discussioni nel mondo cattolico per la sua lettura del messaggio evangelico in chiave politico-sociale, è stata condannata dalla Chiesa. Lo stesso Boff fu sospeso dal sacerdozio e nel 1992 abbandonò l’ordine francescano. Nelle pagine seguenti, l’autore illustra i contenuti fondamentali di questa teologia e delle comunità ecclesiali di base che l’hanno espressa.

pressione (partiti, sindacati, associazioni operaie e contadine, eccetera), le comunità ecclesiali hanno assunto oltre al loro significato primario, quello religioso, un’importanza sociale considerevole. [...] Come si struttura e come funziona la comunità di base. La comunità ecclesiale di base è costituita da un gruppo di quindici o venti famiglie, o più, che si riuniscono attorno alla Parola di Dio per esprimere e alimentare la propria fede, per discutere alla luce della Parola i propri problemi, per aiutarsi reciprocamente. Innanzi tutto essa è una comunità: gruppi primari e vicini con relazioni immediate e partecipazione egualitaria. In secondo luogo, si tratta di una comunità ecclesiale: l’elemento religioso costituisce il principio strutturante; il Vangelo e il senso di appartenenza alla Chiesa favoriscono la formazione della comunità. Infine, la comunità ecclesiale possiede una caratteristica di base. I partecipanti, nella loro quasi totalità, appartengono alla base della società: sono operai, impiegati, sottoccupati, donne di servizio, contadini, piccoli proprietari, in una parola, le categorie popolari povere; appartengono inoltre alla base della Chiesa, poiché si tratta di laici,

semplici cristiani o membri di qualche associazione parrocchiale. [...] Il livello di coscienza della comunità prevede di solito tre tappe. Inizialmente i membri scoprono la Chiesa, o meglio, scoprono di essere Chiesa: organizzano le liturgie, si appropriano della parola, commentando i testi delle Scritture e formulando orazioni, inventano drammatizzazioni e celebrazioni. In un secondo momento, scoprono la vita, i problemi della casa, del lavoro, la povertà del gruppo; tutto ciò non è estraneo alla fede e al Vangelo. Per mezzo dell’ispirazione religiosa essi giungono ad una prassi di aiuto reciproco. In un terzo momento, scoprono la società e i suoi meccanismi di potere. Si rendono conto che la loro realtà di emarginati è prodotta da un determinato tipo di società elitaria, il cui potere è concentrato nelle mani di pochi. [...] 2. Significato sociale e politico delle comunità ecclesiali di base [...] Il carattere libertario della fede cristiana. Per comprendere gli aspetti sociali e politici delle comunità di base si rende necessario considerare, innanzi tutto, il carattere libertario rivestito dalla fede cri-

687

FARESTORIA Tra contestazione e rinnovamento: il movimento studentesco e i nuovi orientamenti cattolici

stiana nelle comunità. Sappiamo che la religione cristiana – nella storia dell’Occidente e, in particolare, nell’epoca della colonizzazione iberica del continente, e anche in periodi più recenti – è servita da strumento ideologico di legittimazione del potere dominante. Sociologi e filosofi […] hanno attribuito precisamente questa funzione alla religione: la funzione cioè di essere elemento di pacificazione delle classi dominate e di legittimazione delle classi dominanti. Nella comunità emerge una funzione di mobilitazione, contestazione e liberazione muovendo dalla religione. [...] La dimensione liberatrice della religione affiora quando il popolo si libera da un tipo di lettura dei fondamenti religiosi che occulta le contraddizioni della società. Si può leggere la Bibbia, per esempio, muovendo dall’ottica dei gruppi dominanti: tutto si mostra armonioso e i conflitti sono trasferiti ad una sfera astratta, tra il bene e il male, il peccato e la grazia, il diavolo e Dio. Le contraddizioni reali, tra oppressi e affamati da un lato, e le classi opulente e ben nutrite dall’altro, rimangono nascoste in questo tipo di lettura. Quando [...] il popolo comincia ad appro-

priarsi dell’esegesi dei testi sacri, e li interpreta muovendo dalla propria situazione sociale di emarginati, appare anche l’immagine di Dio come Dio dei poveri e degli schiavi [...]. 3. La teologia della liberazione: la teoria delle pratiche liberatrici Ogni prassi ha in sé una teoria corrispondente. A questo presupposto non si sottrae certo la teologia della liberazione, che vuole essere la teoria adeguata alle pratiche del popolo oppresso e credente, momento che chiarisce e anima il cammino di liberazione popolare, pervaso da un’ispirazione evangelica. [...] c) Contenuti fondamentali della teologia della liberazione. [...] Si enfatizza fortemente la caratteristica del Dio biblico, un Dio che aborrisce ogni ingiustizia e che ha una dichiarata predilezione per i deboli e gli oppressi. [...] Gesù Cristo è visto come liberatore totale, colui che fa propria la causa dei poveri e annuncia loro il privilegio di essere i primi nel Regno. [...] I poveri sono ben più di un tema tra gli altri del Vangelo; sono l’elemento sostanziale senza il quale non si può intendere il messaggio del Regno in quanto Buona-Novel-

la annunciata in particolar modo ai poveri. [...] d) Prospettive: una teologia per tutta la Chiesa. Questo tipo di teologia non pretende di rappresentare una riflessione parziale: [...] essa possiede dentro di sé un significato per la Chiesa tutta. [...] Le Chiese metropolitane (dei Paesi ricchi) devono trovare il modo di agire in forma liberatrice all’interno dei loro Paesi e nelle relazioni internazionali. [...] Occorre che si aprano a un dialogo franco e fraterno, imparando gli uni dagli altri. Ex peripheria lux et salus Ecclesiae!1. 1. Dalla periferia, luce e salvezza della Chiesa!

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia la descrizione della comunità di base, cerchia coloro che ne fanno parte e sottolinea le articolazioni del “livello di coscienza” della comunità.  b  Sintetizza per ogni punto le informazioni principali.  c  Spiega per iscritto in cosa consiste il taglio politico-sociale che l’autore dà al messaggio evangelico, facendo riferimento a parti specifiche del brano.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e schematizzane i contenuti evidenziando l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo espositivo di circa 30 righe sui movimenti di contestazione e di rinnovamento che attraversarono la seconda metà del ’900, mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale e citando opportunamente i passi che ritieni più significativi.

Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. 2 Scrivi un testo di circa 30 righe sulla contestazione giovanile specificando quali soggetti furono coinvolti, quali furono i luoghi della protesta e quali i riferimenti culturali e ideologici. Fai riferimento ai brani di Kurlansky [►131] e Marcuse [►132d] e ai loro cappelli introduttivi. Sottolinea al loro interno le informazioni utili alla tua esposizione e disponile a formare una scaletta su cui articolerai il tuo elaborato. Scegli un taglio e un titolo per il tuo scritto.

LA SOCIETÀ DEL BENESSERE E IL CONSUMISMO

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Il generale miglioramento del livello di vita rappresentò l’effetto più immediato dell’intenso e prolungato sviluppo economico vissuto dalle società industriali negli anni ’50 e ’60. L’espansione dei consumi ne costituì l’aspetto più evidente: la diffusione crescente dei beni secondari, cioè non immediatamente connessi al soddisfacimento dei bisogni primari (alimentazione, vestiario, abitazione), ma dotati di un alto valore simbolico, era il segnale inequivocabile di un mutamento radicale delle abitudini di consumo dell’Occidente industrializzato.

U4 IL MONDO DIVISO

Nel primo brano della sezione, lo studioso belga Herman Van der Wee [►136] analizza le cause e gli effetti dell’aumento dei consumi in relazione allo sviluppo delle economie industriali capitaliste. Già alla fine degli anni ’50 le conseguenze della rivoluzione del benessere e della nascita della “civiltà dei consumi” cominciarono a essere colte e analizzate dai più attenti osservatori della società. Tra le analisi più celebri e influenti, quella del sociologo canadese Marshall McLuhan [►137d], il primo e più autorevole studioso dei mass media, e quella del semiologo francese Roland Barthes [►138d] che, nel brano qui riportato, ironizza sui condizionamenti inconsapevoli che la pubblicità esercita sui consumatori. Lo storico italiano Stefano Cavazza [►139] prende invece in esame il ruolo rilevante assunto dall’impiego del tempo libero e dalle attività di svago. Anche in Italia, nonostante le molteplici resistenze, analizzate da Guido Crainz [►140], a partire dalla seconda metà degli anni ’50 una serie di trasformazioni sociali e culturali avviarono il paese sulla strada della «società dei consumi», modellata secondo l’esempio statunitense. Nell’ultimo brano della sezione, la storica Emanuela Scarpellini [►141] descrive la lenta e difficile diffusione in Italia di uno dei luoghisimbolo della società dei consumi: il supermercato.

136 H. VAN DER WEE L’IMPERATIVO DELLA DOMANDA



H. Van der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980). Una sintesi della storia economica del dopoguerra, Hoepli, Milano 1989, pp. 202-4.

Nel seguente brano, lo storico belga Herman Van der Wee (nato nel 1928) propone un’interpretazione della crescita delGli aumenti salariali del dopoguerra e la diffusione dei modelli di consumo americani in tutti i paesi industrializzati occidentali portarono ad una esplosione della domanda e ad una risposta dinamica da parte degli imprenditori nelle loro strategie di investimento. Immediatamente dopo la guerra, il principale motore della domanda fu il processo di ricostruzione e di ripresa. I paesi dovevano compensare la grossa carenza di consumo degli anni della guerra, ripristinare le riserve esaurite a livello pubblico e privato e sostituire le costruzioni ad uso industriale e civile nonché le attrezzature ed i macchinari obsoleti. Dopo il completamento del processo di ripresa, la molla principale della domanda divenne la creazione della moderna società dei consumi; per essere più precisi, si trattò piuttosto dell’ampliamento dell’economia dei consumi negli Stati Uniti e della sua creazione in Europa e in Giappone. L’aumento del benessere divenne un obiettivo centrale di tutti i programmi governativi. La moderna società dei consumi si basa sulla massificazione di tutti i tipi di beni durevoli di consumo; sulla rapida espansione delle industrie del tempo libero1 e della moda; sull’espansione e miglioramento dell’edilizia; sullo sviluppo delle

le economie industrializzate nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale, sottolineando l’enorme influenza della crescita dei consumi sullo sviluppo complessivo. Gli aumenti salariali concessi dopo la fine della guerra accrebbero il reddito a disposizione di larga parte delle popolazioni dei paesi capitalistici e l’economia si adattò utilizzando nuove tecniche di vendita e potenziando a sua volta il mercato di massa.

infrastrutture esistenti; sulla creazione di nuovi servizi pubblici accanto ad un forte aumento della domanda di servizi finanziari, trasporti individuali e turismo. La causa di tutto questo fu il continuo aumento dei redditi delle famiglie dopo la seconda guerra mondiale. Non appena venivano soddisfatte le necessità primarie, i redditi addizionali venivano utilizzati per rispondere alle esigenze di benessere. Naturalmente crebbe anche il risparmio, ma fu l’aumento della domanda di ricchezza a comportare l’incremento della produzione ed un’enorme espansione di capacità. […] I Governi furono attivi in questo processo non solo investendo essi stessi per soddisfare la rapida espansione della domanda dei servizi pubblici, ma anche incoraggiando gli investimenti nel settore privato tramite sovvenzioni ed altre misure. […] L’aumento di investimenti fu la molla della creazione di un nuovo impiego, nuovi redditi e nuova domanda di consumo. L’imperativo della domanda ebbe anche un importante effetto psicologico sul comportamento degli imprenditori. L’economia del benessere nel dopoguerra generò l’ascesa dei prezzi a lungo termine e diede il “la” a fluttuazioni cicliche nell’economia. Per gli imprenditori

occidentali si trattava di un’esperienza completamente nuova, in forte contrasto con la depressione e la riduzione dei prezzi del periodo tra le due guerre. […] Dopo la guerra, questo clima di insicurezza lasciò il posto ad una sensazione di certezza rispetto alla domanda ed alle prestazioni economiche. Le grosse aspettative di profitti divennero la regola. Il futuro macroeconomico2 sembrò andare a gonfie vele ed essere carico di promesse. Gli investimenti avevano carattere preventivo, cioè gli imprenditori volevano evitare di perdere le proprie quote di mercato ed apparivano troppo poco, piuttosto che troppo, interessati alle opportunità di investimenti. Volevano inoltre neutralizzare l’aumento dei costi salariali tramite il progresso tecnologico e l’aumento della produttività del lavoro. In questo clima positivo, cercavano mezzi per assicurare il futuro economico delle proprie imprese. Spesero somme enormi in pubblicità come strumento per manipolare i consumatori. Presero in consi-

1. ►FS, 139. 2. Riferito al sistema economico nel suo complesso.

689

FARESTORIA la Società del benessere e il consumismo

derazione fattori quali il crescente potere d’acquisto dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e il cambiamento dello stile di vita dovuto alla motorizzazione ed alla crescente mobilità, e tentarono di integrare tutto questo nelle loro politiche di mercato. Tramite la diversificazione, l’innovazione e la pubblicità crearono continuamente nuovi bisogni che generavano domanda di prodotti sempre più avanzati. La gestione dei modelli di consumo e la creazione di nuovi bisogni nei consumatori sono possibili solo tramite una grossa crescita delle imprese. La domanda di benessere stimolò prima l’espansione delle grosse imprese con tendenze oligopolistiche3. L’aumento dei consumi fu accompagnato dalla tendenza a concentrare gli acquisti di alcuni prodotti nei grossi centri commerciali, soprattutto in particolari momenti della settimana. In questi grandi magazzini, c’era una diversificazione delle attività, nonché una struttura di self-service a disposizione dei consumatori e così via. La domanda di benessere



stimolò allo stesso tempo anche gli investimenti delle piccole imprese. Nella vendita di beni durevoli di consumo, le garanzie e i servizi di assistenza sono fattori importanti, e questi servizi di manutenzione possono essere forniti in modo più efficiente da piccole unità autonome. Inoltre, la creatività nella moda – abbigliamento e calzature, ad esempio – viene generalmente realizzata in modo più flessibile da imprese piccole, sia a livello di produzione sia di distribuzione. […] Per queste ragioni, la domanda di benessere nelle economie di mercato occidentali nel dopoguerra non significò assolutamente la fine della piccola impresa. In questo senso, il contrasto con le economie a pianificazione centralizzata del Blocco Socialista colpisce molto. Nell’Europa dell’Est, la produzione di beni e servizi era centralizzata e la diversificazione avvenne più lentamente che nel mondo occidentale. Anche il potenziamento delle piccole imprese indipendenti in Occidente ebbe importanti effetti politici: aumentò infatti il numero dei lavoratori

137d MARSHALL H. MCLUHAN IL MEDIUM È IL MESSAGGIO

M.H. McLuhan, Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna, il Saggiatore, Milano 2002, pp. 9-17.

Il sociologo canadese Marshall Herbert McLuhan (19111981) dedicò la sua intera attività di ricerca ai mezzi di comunicazione di massa, di cui fu uno dei più importanti studiosi. Nel seguente brano, tratto dal volume Gli strumenti

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Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. Nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo crea­ tivo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi.

U4 IL MONDO DIVISO

indipendenti con reddito medio e, di conseguenza, rafforzò la loro posizione contrattuale nel determinare la politica economica del Governo. Anche l’evoluzione postbellica della distribuzione di reddito in favore delle classi medie benestanti deve essere vista in questa ottica. 3. L’oligopolio è una forma di mercato con pochi ma importanti venditori, ognuno dei quali sa che ogni sua decisione influirà sulle decisioni della concorrenza.

METODO DI STUDIO

 a Sottolinea e numera le cause principali dell’aumento della domanda che interessò i paesi occidentali nel secondo dopoguerra.  b  Sottolinea quelle che, secondo lo studioso belga, costituiscono le basi della moderna società dei consumi.  c  Spiega per iscritto in che modo l’«imperativo della domanda» condizionò il comportamento degli imprenditori e perché nell’Europa dell’Est la diversificazione dei beni si realizzò più lentamente che nei paesi occidentali.

del comunicare (1964), si trovano espresse alcune delle sue più celebri tesi interpretative: la riduzione del globo a un «villaggio», operata dai moderni strumenti di comunicazione; e l’affermazione che il medium, cioè il ‘mezzo’, è il messaggio, e che il mezzo tecnologico è più importante del contenuto trasmesso, perché è quello che determina le caratteristiche della comunicazione.

Che questo prossimo estendersi della comunicazione, cui mirano da tempo i tecnici pubblicitari con riguardo a particolari prodotti, debba o no considerarsi ciò che si dice «un bene» costituisce un problema aperto a un’ampia gamma di soluzioni. […] Nell’era della meccanica, oggi in declino, molte azioni potevano essere accolte senza preoccupazioni eccessive. La lentezza di ogni moto in genere garantiva che le rea­ zioni sarebbero seguite con ritardo considerevole. Oggi invece azione e reazione sono quasi contemporanee. […] L’uomo occidentale aveva derivato dalla tecnologia dell’alfabetismo la capacità di agire senza reagire. I vantaggi di questa autoframmentazione trovano un esempio significativo nel caso del chirurgo, che sarebbe ridotto all’impotenza se dovesse

partecipare emotivamente alle operazioni che esegue. Tutti, del resto, avevamo ormai finito per imparare l’arte di eseguire con totale distacco le operazioni sociali più pericolose. Ma questo distacco era segno di non partecipazione. Ora che – dopo l’avvento dell’energia elettrica – il nostro sistema nervoso centrale viene tecnologicamente esteso sino a coinvolgerci in tutta l’umanità e a incorporare tutta l’umanità in noi, siamo necessariamente implicati in profondità nelle conseguenze di ogni nostra azione. Non è praticamente più possibile mantenere l’atteggiamento tipicamente estraneo e superiore che aveva finito con il caratterizzare l’uomo occidentale di media cultura. [...] Dopo tremila anni di espansione in ogni settore e di crescente alienazione specializzata nelle innumerevoli estensioni

tecnologiche del corpo umano e delle sue funzioni, il nostro mondo, con drammatico rovesciamento di prospettive, si è ora improvvisamente contratto. L’elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio e, riunendo con repentina implosione tutte le funzioni sociali e politiche, ha intensificato in misura straordinaria la consapevolezza della responsabilità umana. [...] In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa al fine di controllarla, è forse sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio. Che in altre parole le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia. È vero per esempio che, in seguito all’automazione, la nuova organizzazione della società umana tende a eliminare posti di lavoro. E questa è la conseguenza negativa. In senso positivo però l’automazione stessa crea dei «ruoli» e ricostituisce così una profondità di partecipazione nel lavoro e nella società umana che la tecnologia meccanica precedente aveva distrutto. Molti erano inclini ad affermare che il significato o il messaggio della macchina non doveva risiedere nella macchina in se stessa ma nell’uso che se ne faceva. Nella misura in cui essa di fatto modificava i nostri rapporti con gli altri e con noi stessi, non aveva comunque importanza che producesse fiocchi d’avena o Cadil-



lac. La ristrutturazione del lavoro e della società umana era determinata dalla tecnica della frammentazione che è l’essenza della tecnologia della macchina. L’essenza della tecnologia dell’automazione è invece esattamente l’opposto. Essa è profondamente integrale e al tempo stesso decentratrice, proprio come la macchina era invece frammentaria, accentratrice e superficiale nel suo modellare i rapporti tra gli uomini. In questo contesto può risultare illuminante l’esempio della luce elettrica. Essa è informazione allo stato puro. È un medium, per così dire, senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche annuncio verbale o qualche nome. Questo fatto, comune a tutti i media, indica che il «contenuto» di un medium è sempre un altro medium. [...] Il «messaggio» di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani. La ferrovia non ha introdotto nella società né il movimento, né il trasporto, né la ruota, né la strada, ma ha accelerato e allargato le proporzioni di funzioni umane già esistenti creando città di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di svago. [...] L’aeroplano, dal canto suo, accelerando la velocità dei trasporti, tende a dissolvere le città, le organizzazioni politiche e le forme associative proposte dalla ferrovia, indipendentemente dall’uso che se ne può fare. Torniamo alla luce elettrica. Che la si usi per un’operazione al cervello o per una partita di calcio notturna non ha alcuna importanza. Si potrebbe sostenere che

138d ROLAND BARTHES SAPONIFICANTI E DETERSIVI

R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, pp. 28-30.

In questo breve scritto, tratto da un volume del 1957, il semiologo e critico francese Roland Barthes (1915-1980) inSi potrebbe contrapporre con profitto alla psicanalisi dei liquidi purificatori (acqua di varechina) quella delle polveri saponificanti (Lux, Persil) o detersive (Rai, Paic, Crio, Omo)1. I rapporti tra il rimedio e il male, tra questi prodotti e lo sporco, sono molto diversi nei due casi. Per esempio, l’acqua di varechina è sempre stata sentita come una specie di fuo-

queste attività sono in un certo senso il «contenuto» della luce elettrica, perché senza di essa non potrebbero esistere. Ma questo non fa che confermare la tesi secondo la quale «il medium è il messaggio», perché è il medium che controlla e plasma le proporzioni e la forma dell’associazione e dell’azione umana. I contenuti, invece, cioè le utilizzazioni, di questi media possono essere diversi, ma non hanno alcuna influenza sulle forme dell’associazione umana. [...] La luce elettrica non appare a prima vista un medium di comunicazione proprio perché non ha un «contenuto». [...] Il messaggio della luce elettrica è, come quello dell’energia elettrica nell’industria, totalmente radicale, permeante e decentrato. Luce ed energia infatti sono due cose diverse per gli usi che se ne fanno, ma nella società umana eliminano fattori di tempo e di spazio esattamente come la radio, il telegrafo, il telefono e la TV, creando una partecipazione in profondità.

METODO DI STUDIO

 a  Spiega per iscritto in che modo l’impiego tecnologico dell’elettricità ha determinato, nella storia dell’uomo, l’abolizione dei vincoli classici dello spazio e del tempo.  b  Sottolinea ciò che ha reso il globo poco più che un villaggio e le relative conseguenze.  c  Descrivi il significato dell’espressione «il medium è il messaggio» e spiega quali rischi l’automazione comporta per McLuhan.

dividua le specificità del messaggio pubblicitario e fornisce un esempio di analisi ironica e smitizzante di un sistema di comunicazione di cui tutti possiamo essere vittime e strumenti inconsapevoli.

co liquido la cui azione va attentamente controllata, altrimenti l’oggetto stesso resta colpito, «bruciato»; la leggenda implicita di questo genere di prodotti poggia sull’idea di una modificazione violenta, abrasiva, della materia: vi corrispondono effetti di ordine chimico o mutilante: il prodotto «uccide» lo sporco. Al contrario le polveri sono elementi separatori; la loro funzione

ideale è quella di liberare l’oggetto dalla sua imperfezione contingente: si «espelle» lo sporco, non lo si uccide più; nell’iconografia Omo, lo sporco è un minuscolo nemico gracile e nero che scappa a gambe

1. Sono tutti nomi di detersivi.

691

FARESTORIA la Società del benessere e il consumismo

levate dalla bella biancheria pura alla sola minaccia del giudizio di Omo. I clori e le ammoniache sono senza dubbio i delegati di una specie di fuoco totale, salutare, ma cieco; le polveri al contrario sono selettive, spingono, guidano lo sporco attraverso la trama dell’oggetto, hanno una funzione di polizia, non di guerra. Questa distinzione ha il suo corrispondente etnografico: il liquido chimico prolunga il gesto della lavandaia che batte i lenzuoli, mentre le polveri sostituiscono piuttosto quello della donna di casa che preme e strofina il bucato lungo l’asse inclinata. Ma nell’ordine stesso delle polveri bisogna ancora contrapporre alla pubblicità psicologica la pubblicità psicanalitica [...]. Per esempio, il «bianco» di Persil fonda il suo prestigio sull’evidenza di un risultato; si stimola la vanità delle apparenze sociali offrendo il confronto di due oggetti di cui uno è più bianco dell’altro. La pubblicità Omo indica sì l’effetto del prodotto (sotto una forma del resto superlativa), ma soprattutto scopre il processo della sua azione; essa impegna in tal modo il consumatore in una sorta di modo vissuto della sostanza, lo rende complice di una liberazione e non più soltanto beneficiario di un risultato; la materia viene dotata di stati-valore.



Omo ne utilizza due, molto nuovi nell’ordine dei detersivi: il «profondo» e lo «schiumoso». Dire che Omo pulisce in profondità [...], significa supporre che la biancheria è profonda, cosa finora impensata e che incontestabilmente equivale a magnificarla, a porla come oggetto lusingatorio per quegli oscuri impulsi di avviluppamento e di carezza propri di ogni corpo umano. Quanto alla schiuma, è nota la sua significazione di lusso; prima di tutto ha un’apparenza di inutilità; in secondo luogo la sua proliferazione abbondante, facile, quasi infinita, lascia supporre nella sostanza da cui esce un germe vigoroso, un’essenza sana e potente, una grande ricchezza di elementi attivi in un piccolo volume originario; infine seconda nel consumatore una immagine aerea della materia, un modo di contatto leggero e verticale insieme, perseguito come una felicità tanto nell’ordine gustativo ­(foies gras, entremets2, vini) quanto in quello dell’abbigliamento (mussole, tulli) e in quello dei saponi (la diva che fa il bagno). La schiuma può perfino essere segno di una certa spiritualità, nella misura in cui lo spirito è ritenuto capace di ricavare tutto da nulla, una grande superficie di effetti da un piccolo volume di cause (le creme hanno tutta un’altra psicanalisi di

139 S. CAVAZZA IL TEMPO LIBERO

S. Cavazza, Viva l’ozio. Il tempo libero nell’età contemporanea, in S. Cavazza,- E. Scarpellini (a c. di), Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2006, pp. 88-92.

Anche se non completamente nuovo, uno dei più rilevanti effetti delle rivoluzioni del benessere degli anni ’50 e ’60 fu la crescente disponibilità di tempo libero da impiegare per attività ricreative e gratificanti. La possibilità di utilizzare una parte significativa del proprio tempo per

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Stupisce sempre scoprire che qualcuno non abbia tempo libero da spendere o non possa usufruirne in forme gratificanti. Una tale situazione verrebbe percepita come una manifestazione di abuso, di un diritto non scritto (quello di andare in vacanza o di impiegare il proprio tempo libero) calpestato, oppure rientrerebbe nella sfera della scelta individuale di porre il lavoro al di sopra di tutto per raggiungere particolari obiettivi, una scelta in certa misura qualificabile come un comportamento eccentrico e «normale».

U4 IL MONDO DIVISO

ordine positivo: eliminano le rughe, il dolore, il bruciore, ecc.). L’importante è aver saputo mascherare la funzione abrasiva del detergente sotto l’immagine deliziosa di una sostanza profonda e aerea insieme, che può dominare l’ordine molecolare del tessuto senza intaccarlo. Euforia da cui non si deve del resto essere indotti a dimenticare che esiste un piano in cui Persil e Omo sono la stessa cosa: il piano del trust anglo-olandese Unilever3. 2. Pasticci di fegato d’oca o di anatra; dolci, creme e sorbetti, serviti tra il formaggio e la frutta. 3. Multinazionale anglo-olandese proprietaria di molti marchi di detersivi tra cui, appunto, Omo e Persil.

METODO DI STUDIO

 a Spiega per iscritto in che cosa consiste la contrapposizione psicanalitica tra «liquidi purificatori» e «polveri saponificanti».  b  Sottolinea le informazioni che permettono di comprendere in che modo il «profondo» e lo «schiumoso» corrispondono, nell’interpretazione dell’autore, a stati-valore.  c  Evidenzia il meccanismo del messaggio pubblicitario che viene smascherato dall’autore.

attività completamente svincolate dal lavoro, per praticare uno sport, viaggiare in luoghi esotici o andare al cinema, costituisce infatti, per larga parte della popolazione, una novità legata allo sviluppo della società dei consumi. Nel brano che segue, lo storico Stefano Cavazza ripercorre l’emergere del fenomeno, mettendone in luce gli aspetti positivi ma sottolineandone anche i limiti (il diritto al tempo libero appartiene infatti soltanto alle popolazioni dei paesi industrializzati).

Tutto ciò non è che la conseguenza della diffusione capillare del benessere nei sistemi economico-sociali del secondo dopoguerra. Se volgiamo lo sguardo cento anni addietro, o anche solo al periodo prebellico, vedremo che le cose erano molto diverse. In verità già allora erano in atto dei cambiamenti, soprattutto in paesi come Gran Bretagna, Stati Uniti o Germania. […] Se ci spostiamo in paesi come l’Italia del periodo tra le due guerre mondiali, vedremo come il benessere restasse circoscritto a pochi gruppi sociali e come anche la spe-

ranza di miglioramento apparisse lontana per vasti settori della popolazione. Ad eccezione di una piccola minoranza, scarsità e parsimonia erano le parole d’ordine di ogni famiglia. Nel periodo tra le due guerre mondiali tuttavia molti osservatori avevano cominciato ad accorgersi dei cambiamenti in atto soprattutto nelle manifestazioni culturali della cultura del consumo, cambiamenti spesso identificati come il segno di un’influenza della cultura americana sul vecchio continente che non era sempre bene accetta.

A partire dal secondo dopoguerra, con tempi e modalità diversi da paese a paese, ma con un’evidente accelerazione negli anni sessanta, la diffusione del benessere ha modificato i nostri stili di vita in misura radicale. L’importanza del leisure1 nel nostro modo di vita risiede, prima di tutto, nel ruolo rilevante che l’impiego del tempo libero ha assunto nei processi di distinzione sociale. […] Impiegare il proprio tempo libero è diventato parte della propria personalità, segno distintivo di rilievo sociale, ma anche una pratica sociale non più circoscritta a cerchie ristrette di popolazione. Se la sua forma moderna di fenomeno di massa si è sviluppata in larga misura come reazione ai ritmi massacranti della fabbrica, il tempo libero ha assunto un rilievo sempre maggiore nella nostra vita, fino a diventare un fine dell’esistenza e a rivestire così non di rado un’importanza maggiore dello stesso lavoro. La diffusione del tempo libero appare dunque come parte del processo di sviluppo di una società dei consumi, un processo non predeterminato e la cui evoluzione futura dipenderà molto da come si faranno i conti con i limiti delle risorse ambientali e dal progresso tecnologico, oltreché dalla volontà politica di perseguire o meno politiche sociali redistributive. Volgendo lo sguardo indietro, possiamo dire che la storia dell’età contemporanea è stata finora caratterizzata, nei paesi ad economia sviluppata, da una notevole e costante crescita economica e da una pressione sociale per il riconoscimento e l’ampliamento della sfera dei diritti. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale si è registrata […] la completa inserzione dei diritti sociali nel novero dei diritti fondamentali. In questo processo di allargamento della sfera dei diritti, a

GLOBALE

partire dall’inizio degli anni sessanta, ma in verità già alla fine della seconda guerra mondiale, il “benessere” come fine dell’azione di governo è diventato un elemento essenziale dei processi di legittimazione politica. Benessere significa sia tutela da parte dello stato di una serie di diritti, ma anche possibilità di consumo per il singolo, significa possibilità di acquisire beni e usufruire di occasioni di svago acquistandole sul mercato. [...] Il tempo libero come una sfera del proprio tempo da dedicare ad attività ricreative costituisce infatti un prodotto della modernità industriale e una parte integrante del consumo. Se ne scorriamo le definizioni, vedremo che la categoria del tempo libero ha in genere tre caratteristiche comuni; è in stretta relazione con la definizione della sfera lavorativa, deve essere un tempo dedicato ad attività gratificanti, deve escludere (o rendere del tutto marginale) la remunerazione. […] La pratica del tempo libero si lega così anche a una scelta consapevole da parte del consumatore ed è strettamente connessa alla ricerca della felicità individuale. L’area geografica in cui il processo di affermazione del tempo libero ha avuto luogo è costituita da quell’insieme di paesi che siamo soliti definire come “mondo occidentale”, vale a dire l’area europea e nordamericana. In quest’area possiamo rinvenire una comune tendenza, nel corso degli ultimi due secoli, all’espansione delle attività di tempo libero in parallelo con il processo di limitazione dell’orario di lavoro. Sempre qui nel corso degli ultimi due secoli il tempo libero ha assunto di fatto il carattere di un diritto, già rivendicato alla fine dell’Ottocento come diritto all’ozio o alla ricreazione. […] Tener presente che stiamo parlando di una

140 G. CRAINZ FRA ANNI ’50 E VILLAGGIO

G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni tra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 2005 (I ed. 1996), pp. 75-78; 148-52.

Anche l’Italia fu lentamente coinvolta nelle trasformazioni sociali e culturali della «società dei consumi», ispirandosi al modello di riferimento rappresentato dagli Stati Uniti: la Nel giugno del 1958, in un articolo sulla «gioventù dalle ali scottate», Camilla Ce-

porzione del mondo ci serve per sfuggire al vecchio e sempre presente rischio di etnocentrismo2. Nello stesso tempo questa cautela ci aiuta ad essere anche consapevoli del fatto che […] l’evoluzione che stiamo ricostruendo non solo non era predeterminata, ma non è neanche irreversibile. Il percorso [...] descrive ciò che è avvenuto fino ad ora, ma non possiamo dare per scontato che non vi siano cambiamenti nelle tendenze in atto. La divaricazione che si sta verificando in questi ultimi anni tra un’Europa che continua a dedicare un largo spazio al tempo libero e gli Stati Uniti in cui il tempo per il leisure va diminuendo potrebbe indicare un mutamento di indirizzo e una progressiva differenziazione tra le due sponde dell’Atlantico rispetto alla diffusione del tempo libero come nota dominante della società industriale e postindustriale. 1. Ozio, tempo libero. 2. Tendenza a fondare le proprie analisi solo sulle categorie del proprio mondo (in questo caso quello occidentale).

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea le informazioni che permettono di ricostruire il rapporto fra il «tempo libero» e il benessere.  b   In quale momento e in quale area geografica gli uomini hanno potuto sperimentare il tempo libero? Sottolinea nel testo le risposte ed evidenzia le caratteristiche che Cavazza attribuisce a quest’ultimo e alla vita degli uomini che ne usufruiscono.  c    Spiega per iscritto che cosa si intende con l’espressione «diritto all’ozio» e perché, secondo Cavazza, la diffusione del tempo libero è un fenomeno potenzialmente reversibile.

diffusione del gioco del flipper (un biliardino elettrico) e dei jeans rappresentò una delle principali manifestazioni di questi mutamenti. Protagonisti furono i giovani, che spesso si percepivano come gruppo al di là della provenienza sociale. In Italia, come osserva lo storico Guido Crainz (nato nel 1947), queste trasformazioni furono accolte dalle resistenze degli ambienti più conservatori e di quelli cattolici.

derna1 dipinge così «quella che può essere definita la piccola America di Milano»:

1. Scrittrice e giornalista italiana (1911-1997).

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FARESTORIA la Società del benessere e il consumismo

i maschi portano tutti i pantaloni di tela blu e camiciotti a scacchi, scarpe da tennis e giubbotti da pallacanestro con la scritta dietro […]; hanno quasi tutti la motocicletta e da un anno circa hanno cominciato a organizzarsi in bande. […]

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Giorgio Bocca2, da parte sua, annota che Un flipper val più di un comizio mentre Luigi Locatelli3 segnala che «i flippers sono sotto accusa. Padri di famiglia, professori, maestri, capi d’organizzazioni filantropiche giovanili hanno inviato ai questori di numerose città petizioni e proteste contro i bigliardini elettrici americani». A Genova, come già a Padova, il questore aderisce all’appello e li proibisce, usando […] parole molto dure: «morbosa attrazione all’ozio, trascuratezza dei doveri individuali e familiari, conseguenze eticamente nocive per chi pratica il gioco, per la famiglia, per la società». Seguono analoghi decreti in altre città, e l’anno successivo il ministero dell’Interno estende il divieto a tutto il territorio nazionale. In alcune scuole viene proibito l’uso dei blue-jeans […]. Juke box, flippers, nuove abitudini e forme di presenza dei giovani sono al centro degli articoli che «Il Giorno»4 dedica quasi quotidianamente, a luglio e ad agosto, alle vacanze degli italiani. In La repubblica degli adolescenti del Circeo, Alfonso Madeo ci conduce in uno dei locali affollati solo da giovanissimi: «i ragazzi invitano le ragazze senza troppi complimenti – annota – magari con un fischio da un tavolo a un altro. […] Anche le differenze sociali sono annullate: i giovani vestono tutti alla medesima maniera, sono tutti squattrinati, hanno tutti gli stessi gusti». […] Fermiamoci, per ora, a questo sommario e incompleto elenco di titoli tratto dai giornali del 1958, e a ciò che esso ci suggerisce: il delinearsi dei giovani come mondo a sé, come realtà che si afferma distinguendosi dalle generazioni precedenti e – soprattutto – contribuendo a far arretrare sullo sfondo, a scolorire, le tradizionali distinzioni di ceto. Simonetta Piccone Stella5 […] ha sottolinea­ to come ciò avvenga all’interno di un più generale mutamento «nei modelli di vita, negli assetti demografici e del territorio»: all’interno cioè di una più generale crescita della cultura di massa, di «un più largo accesso al canale dell’istruzione», di una forte mobilità individuale. La scolarizzazione è senza dubbio un elemento essenziale. […] Fra il 1955 e il 1965, […] gli iscritti alle superiori passano da 600.000 a 1.200.000. […] Mentre si dispiegano questi colossali fer-

U4 IL MONDO DIVISO

menti e mutamenti di costume, nuovi attori vengono a intervenire sulle forme della socializzazione giovanile. La Piccone Stella si sofferma in particolare su istituzioni culturali non ancora «legittimate» ma pervasive (dalla televisione al cinema e naturalmente alla musica; dai fumetti alla cultura non scolastica ecc.), e segnala al tempo stesso il ruolo svolto dagli spostamenti, dai grandi e molteplici fenomeni di mobilità: permanenti o di breve durata che siano, connessi al lavoro o al tempo libero. […] Nel 1955 vanno al cinema ogni giorno, in media, 2.250.000 italiani: sono ancora più di 2 milioni nel 1961, saranno 360.000 nel 1984. Secondo un’inchiesta Doxa6, nel 1957 va al cinema una volta alla settimana il 60% dei giovani (contro il 26% degli adulti), e le indagini sociologiche confermano anche la qualità di questo dato: l’importanza reale cioè che il cinema continua ad avere soprattutto fra i giovani. Essa sembra accentuata, per un breve numero di anni, dalla comparsa della televisione: o meglio sembra accentuato il ruolo dei film di qualità. […] Queste osservazioni preliminari sono utili per una lettura di quegli anni meno «schiacciata» unilateralmente sul trionfale avvento della televisione. Si tengano ben presenti ma sullo sfondo le cose più note e il carattere di vero e proprio «evento» di alcune trasmissioni: da «Lascia o Raddoppia» a «Il Musichiere», dagli sceneggiati televisivi a «Carosello»7. […] La televisione sostituisce anche fisicamente nelle case la radio, mentre la diffusione delle radioline portatili, a transistors, si inserisce in una più ampia trasformazione del mezzo. Evoluzione e successi del mercato discografico contribuiscono in maniera decisiva al definirsi di un universo giovanile ed hanno anche implicazioni più generali: «i Beatles – ha osservato, con qualche forzatura, Gino Castaldo8 – aprono le porte ufficialmente al villaggio globale della comunicazione». […] Si afferma anche un’editoria di massa, annunciata dalle grandissime tirature di alcuni romanzi e definitivamente sancita, poi, dall’avvio della collana Oscar Mondadori. Gli Oscar sono i primi libri che si vendono in edicola, e sono pubblicizzati come «libri-transistors». Inaugura la serie Addio alle armi, di Ernest Hemingway: in copertina vi è Rock Hudson, interprete del fortunato film tratto dal libro. […] Anche un quadro così sommario suggerisce l’intrecciarsi di forme molteplici e non omogenee di rimescolamento, l’emergere di orizzonti culturali diversificati. In essi non mancano certo forme spurie e con-

traddizioni, ma l’aspetto più evidente e immediato è il loro confliggerei con i quadri mentali tradizionali. Non sono caduche9 (e non terminano col pontificato di Pio XII) le diffidenze e le ostilità del mondo cattolico nei confronti del cinema e della stessa televisione, in una difesa tanto violenta quanto anacronistica10 di codici morali arcaici. […] Nel luglio 1961, ad esempio, papa Roncalli11 si rivolge al presidente della Commissione Pontificia per il Cinema e la Rai-Tv mettendo […] pesantemente in guardia dal cinema, da cui vengono «incentivi alla scostumatezza e al vizio, ma talora sorgono vere e proprie insidie ai sacrosanti valori religiosi». […] Ancora due anni dopo, del resto, una Comunicazione dell’Episcopato12 italiano annotava testualmente che «salvo lodevoli eccezioni, la più impegnata produzione cinematografica italiana […] è andata costantemente verso un progressivo e sfrenato deterioramento morale». 2. Scrittore e giornalista italiano (1920-2011). 3. Giornalista italiano, nato nel 1927. 4. Quotidiano milanese nato nel 1956, che si poneva come alternativa più “moderna” al «Corriere della sera». 5. Sociologa italiana, nata nel 1935. 6. Istituto che si occupa di sondaggi d’opinione. 7. Lascia o Raddoppia fu un quiz che andò in onda dal 1955 al 1959, condotto dal popolare presentatore di origine statunitense Mike Bongiorno. Il quiz musicale Il Musichiere andò invece in onda dal 1957 al 1960. Carosello fu un intermezzo che andò in onda tutti i giorni dal 1957 al 1977: durava solo 10 minuti (dalle 20.50 alle 21) ed era composto da una serie di filmati (comici o teatrali) seguiti da messaggi pubblicitari. 8. Giornalista e critico musicale italiano, nato nel 1950. 9. Destinate a finire in fretta. 10. Propria di un altro periodo storico. 11. Giovanni XXIII [►15_9]. 12. Il complesso dei vescovi. METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le nuove abitudini dei giovani che vengono attaccate dai giornali e dai commentatori dell’epoca. Quindi spiega le motivazioni di questi attacchi.  b  Evidenzia i nuovi attori che condizionano le forme della socializzazione giovanile e sottolinea le modalità e/o gli strumenti di cui si servono.  c  Individua alcune parole chiave che permettano di cogliere le principali critiche che la Chiesa rivolge al mondo giovanile e ai suoi strumenti di socializzazione.

141 E. SCARPELLINI LA GRANDE DISTRIBUZIONE E I “SUPERMERCATI AMERICANI”



E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 223-29.

I supermercati, simbolo dell’American way of life e del benessere, si diffusero in Italia più lentamente che nel resto del Roma, giugno 1956. Il Dipartimento dell’agricoltura Usa e la National Association of Food Chains allestiscono un’esposizione all’Eur1 di un intero supermercato di mille metri quadrati, con tutte le più moderne attrezzature, scaffali, banconi, casse automatiche, e venti commesse che girano con i carrelli fra i 2500 articoli esposti (tutti offerti da imprese americane) per mostrare il funzionamento del metodo «self-service». In tredici giorni la «Supermarkets – U.S.A.» è visitata da 450.000 persone e vari gruppi di operatori commerciali, suscitando grande interesse anche nei media. […] Pratici esempi di come gli Stati Uniti siano in grado di assicurare beni di consumo in quantità e qualità superiori a chiunque altro, e con un implicito messaggio ideologico: i bisogni e i desideri della gente comune nella sfera della vita quotidiana sono altrettanto importanti per l’amministrazione Usa dei progetti per l’esplorazione spaziale o delle conquiste scientifiche2; inoltre la libertà di scelta fra prodotti diversi garantita dall’economia di mercato non è che il riflesso speculare della libertà di scelta garantita dalla democrazia. Libertà economica e libertà politica sono due facce di una stessa medaglia. E si intende che una vita realizzata è una vita piena di «cose», da acquisire individualmente, che danno soddisfazione e marcano la posizione sociale della famiglia in una società mobile. In questa costruzione il supermercato è un elemento importante. La sua spettacolare esposizione di ogni ben di Dio, tutto a portata di mano, tutto potenzialmente comprabile, è un po’ l’incarnazione dell’idea di un benessere e un’abbondanza senza limiti; inoltre costituisce un nuovo importante spazio di consumo che trasforma abitudini e routine quotidiane. Tradizionalmente si indica nel King Kullen di Long Island3, aperto nel 1930, il primo supermercato moderno [...]. In Europa si diffondono nel secondo dopoguerra, quando importanti catene di negozi alimentari (come le inglesi Tesco e Sainsbury o le tedesche Tengelmann e Edeka) adottano il sistema «americano», più efficiente e gradito dal pubblico.

mondo occidentale, a causa di un complesso meccanismo burocratico e delle resistenze da parte dei consumatori. In questo brano, Emanuela Scarpellini illustra i fattori che determinarono il loro successo: primo tra tutti, l’ideale di «democratizzazione dei consumi» che incarnavano.

In Italia le cose sono un po’ più complicate. […] Il censimento del 1971 ne [di supermercati, NdR] segnala la presenza di 607, due terzi dei quali al nord, che incidono per un modestissimo 3,7 per cento dei consumi alimentari commercializzati. Eppure la loro apparizione aveva causato un pandemonio. Torniamo indietro di qualche anno. Dopo l’esposizione a Roma […], la prima importante società di supermercati che si afferma in Italia è ancora opera di americani, anzi, di uno degli uomini più ricchi e in vista del suo paese, il milionario Nelson A. Rockefeller, magnate del petrolio della Standard Oil e potenziale candidato alla Casa Bianca. È una delle sue società di New York, […] ad aprire nel 1957 a Milano un’impresa con capitale misto, americano e italiano […]: la «Supermarkets Italiani Spa». L’impresa apre tra mille difficoltà: lunghe trafile burocratiche per ottenere le licenze di esercizio, fortissime resistenze dei piccoli commercianti, preoccupazioni di carattere politico. Ma le competenze gestionali del management statunitense e la buona accoglienza del pubblico ne determinano un rapido successo […]. Cosa rappresenta dunque il supermercato nella società italiana del tempo? [...] La prima impressione è quella di un ambiente efficiente e razionale. Il grande spazio unico è inframmezzato da scaffalature lunghe e regolari che presentano pile infinite di alimenti; gli arredi sono semplici e funzionali, i colori e le indicazioni che identificano i reparti integrati nell’ambiente. […] Se i lussuosi grandi magazzini sono stati avvicinati al modello del teatro, qui vediamo all’opera una forma diversa di spettacolarizzazione, basata sull’efficienza, la tecnologia, la modernità. Il supermercato per queste caratteristiche ricorda una fabbrica, è stato detto; ma una fabbrica addobbata a festa, aggiungiamo noi: il sobrio profilo generale contrasta volutamente con la vivacità dei colori e la varietà delle confezioni presenti, c’è una musica di sottofondo e regna un’atmosfera piacevole [...]. Notiamo che i clienti osservano attentamente la merce prima di com-

prarla; è probabile che non siano abituati a comprare tutto, o quasi, già confezionato e forse non conoscano molte marche (dopotutto la pubblicità è ancora limitata). Anzi, molti sembrano lì più per osservare lo spettacolo della merce che per comprare davvero. […] Da quanto abbiamo visto, e da quanto emerge da ricerche di mercato e dai rapporti stilati dai dirigenti dei primi supermercati, la reazione dei consumatori però è differenziata. Un’inchiesta dell’Ipsoa4 su 500 clienti spiega così le ragioni della scelta: 133 persone li preferiscono per i prezzi bassi, 116 per l’assortimento, 69 per la rapidità del servizio, 62 per la libertà di scelta, 47 per la qualità, 34 per l’igiene, 8 per i prezzi fissi e 35 per motivazioni varie. […] Ma c’è di più. All’interno del supermercato abbiamo notato persone giovani […] ma anche molti anziani [...]. Questo per via dei prezzi bassi, della possibilità di comprare piccole quantità di cibo (evitando ogni imbarazzo) e del gusto di frequentare un ambiente piacevole, ben tenuto, condizionato, quasi un nuovo posto di socializzazione. Abbiamo anche visto molti immigrati; per loro è più facile comprare qui: le stesse caratteristiche che non piacciono a una parte della classe media (che lamenta uniformità e omologazione nelle scelte, mancanza di rapporto umano, e manifesta timori di «declassamento») è invece un pregio agli occhi di un gruppo che fatica a integrarsi socialmente […]. È significativo che la Supermarkets Italiani (che già nel 1961 passa interamente in mani italiane, rilevata dai Caprotti5, e acquisisce in seguito il nome di Esselunga) sia ben consapevole di questo

1. Quartiere di Roma. 2. ► FS, 110-114. 3. Isola statunitense appartenente allo Stato di New York. 4. Istituto che faceva sondaggi d’opinione. 5. La famiglia dell’imprenditore Bernardo Caprotti (1925-2016), che già deteneva una parte delle azioni della Supermarkets Italiani Spa.

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FARESTORIA la Società del benessere e il consumismo

aspetto di «democratizzazione» dei consumi e utilizzi nel 1966 manifesti pubblicitari che mostrano sullo sfondo uno scontrino del supermercato e in primo piano un cappello (ogni volta diverso: da signora, da carabiniere ecc.), con la scritta: «La scelta è uguale per tutti».

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia il messaggio ideologico sotteso alla «Supermarkets - U.S.A.» e spiega in che modo e perché veniva proposto.  b  Individua almeno cinque parole chiave in grado di riassumere le caratteristiche e la funzione dei primi supermercati in Italia e argomenta la tua scelta per iscritto.  c   Spiega il significato e il perché dello slogan «La scelta è uguale per tutti».

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 12 LA SOCIETÀ DEL BENESSERE

Dopo i disagi e la povertà vissuti negli anni che seguirono il secondo conflitto mondiale, sempre più italiani scoprirono il significato della parola benessere e poterono fare propri nuovi stili di vita e nuovi consumi. Tra gli anni ’50 e ’60 i ceti medi divennero protagonisti di una grande trasformazione culturale. In primo luogo furono l’abbigliamento e la moda a rendere visibili questi cambiamenti col trionfo degli abiti confezionati non su misura, ma già finiti e disponibili in taglie standard. Non era solo il confezionamento il nuovo elemento: i nuovi

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Sotto il Monte (Bergamo) 1969 [foto Berengo Gardin]

U4 IL MONDO DIVISO

abiti confezionati mettevano in risalto le forme di coloro che li indossavano. E queste si adattavano a corpi che dovevano essere giovani, snelli, elastici, sportivi e asciutti. Così come gli abiti, attraverso la pubblicità si standardizzarono anche i comportamenti, poiché essa non mostrava soltanto i pregi intrinseci di una merce, ma suggeriva (e suggerisce ancora oggi) stili di vita affascinanti e di successo, raggiungibili unicamente attraverso l’utilizzo di specifici prodotti. Intere riviste erano dedicate alla casalinga e numerose erano le pubblicità di ambientazione domestica. Gli elettrodomestici (frigoriferi e lavatrici, radio e televisori) sembravano gli strumenti che avrebbero reso possibile modernizzare definitivamente la società italiana. Per quanto essi permettessero un

L’edicola (Roma) 1957 [foto Paolo Di Paolo]

affrancamento delle donne dai lavori più faticosi (come lavare panni), essi venivano proposti come oggetti funzionali al mantenimento di un ruolo femminile, quello dell’angelo del focolare, mascherato col ruolo di “regina” dell’ambiente domestico. Anche la vacanza non venne più consi-

Una pubblicità di un frigorifero della Zoppas degli anni ’60

derata un bene di lusso, ma divenne un diritto da reclamare come fenomeno di massa. Inizialmente si trattò di gite fuori porta che si svolgevano per lo più in giornata, portandosi il pranzo da casa; successivamente gli italiani si poterono permettere vacanze di più giorni, anche lontano dalla propria abitazione.

GUIDA ALLA LETTURA

 a   Leggi i riferimenti alle fonti contenuti nel cappello introduttivo e numerali. Quindi colloca i numeri corrispondenti sui particolari delle immagini.  b   Chi sono i protagonisti delle immagini? Che aspetto hanno? Quali sono gli oggetti propri del periodo che sono diventati simbolo del boom? Rispondi con riferimenti precisi alle fonti iconografiche proposte.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di circa 40 righe sulla società del benessere soffermandoti sulle sue origini, sui caratteri filoamericani e sulla scoperta del tempo libero. Prima di procedere con la scrittura seleziona i brani e le fonti più utili a costruire la tua argomentazione, quindi trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale che userai come guida per il tuo elaborato.

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Dopo aver letto i brani di McLuhan [►137d], Scarpellini [►141] e Barthes [►138d], scegli fra le seguenti posizioni, relative al ruolo dei mass media e della pubblicità nella società contemporanea, quella che ritieni maggiormente condivisibile e argomenta la tua risposta in un testo di massimo 20 righe citando opportunamente i testi: a. I mass media e il sistema pubblicitario esercitano, in maniera subdola, una forma raffinata di controllo della popolazione, imponendole bisogni e stili di vita eterodiretti dalle esigenze del mercato. b. Il potere straordinario della pubblicità non è quello di manipolare i desideri dei consumatori, ma quello di adattarvisi al fine di rendere i prodotti sempre più «rassicuranti» e appetibili.

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FARESTORIA la Società del benessere e il consumismo

COMPITO DI STORIA Scrivi un articolo di giornale sull’argomento proposto, facendo riferimento ai brani e ai documenti del percorso storiografico sulla società del benessere e dei consumi e al capitolo 15. Individua un titolo che renda esplicito il taglio e il tema che hai scelto per il tuo elaborato e rafforzalo attraverso l’utilizzo di alcune fra le fotografie e pubblicità presenti fra le fonti [►FONTE ICONOGRAFICA 12] e nel capitolo. Se lo ritieni opportuno, proponi anche un sommario che condensi in poche righe il contenuto dell’articolo e un catenaccio (testo in rilievo di una o due righe con la funzione di mettere in evidenza un elemento particolare dell’articolo. Si tratta quasi di un secondo titolo).

Argomento Il boom economico e le nuove forme di benessere Organizza il tuo elaborato seguendo le indicazioni operative fornite e prendendo spunto dalle domande proposte: a. Lettura e comprensione • Cerchia nei documenti indicati gli elementi che determinarono l’aumento dei consumi. • Individua e trascrivi sinteticamente le nuove forme di benessere e chi ne usufruiva. b. Individuazione e analisi dei passaggi significativi in relazione alle questioni chiave affrontate nell’elaborato Evidenzia nei brani selezionati: • gli elementi che permettono di ricavare il rapporto fra il boom economico, la crescita dei consumi e le nuove forme di benessere; • le informazioni che permettono di comprendere quanto le nuove forme di benessere abbiano cambiato la vita delle persone. c. Contestualizzazione storica • Quali condizioni di politica ed economia internazionale resero possibile l’avvento del boom economico? • Pensi che il modo in cui le persone vissero questi cambiamenti siano stati condizionati dall’esprerienza della povertà vissuta nel dopoguerra? • Le nuove abitudini e i nuovi segni del benessere sono esclusivi della realtà italiana? d. Interpretazione e problematizzazione • Il benessere che hai evidenziato porta con sé degli aspetti negativi? Permette alla gente comune di raggiungere un’effettiva felicità?

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Bambole in esposizione, Laterza (Taranto) 1960 ca. [foto di Paolo Di Paolo] Nati in un periodo di crescita economica, i bambini del baby boom diventarono presto protagonisti e, allo stesso tempo, destinatari di un nuovo mercato dei consumi voluttuari a loro specificamente indirizzato.

U4 IL MONDO DIVISO

STORIAeAMBIENTE DALLE CITTÀ ALLE METROPOLI: LE EMERGENZE AMBIENTALI DEL XX SECOLO

LA CRESCITA URBANA E DEMOGRAFICA NEL XX SECOLO Nel 1900 oltrepassavano il milione di residenti sedici città, situate soprattutto in Europa centrale, sulla costa atlantica del Nord America e lungo le fasce costiere delle colonie sotto il dominio europeo in Africa ed Asia. Un secolo dopo, nel 2000, circa 388 città avevano superato la soglia del milione di abitanti e sedici megalopoli avevano raggiunto i 10 milioni. Oggi alcune città – come New York e Città del Messico – ospitano, superando i 20 milioni di persone, una popolazione più numerosa di quella di intere nazioni (ad esempio di Norvegia o Svezia). Dai circa 225 milioni di abitanti del 1900 la popolazione urbana è salita ai 2,8 miliardi nel 1998, con una crescita di 13 volte. In termini generali un’urbanizzazione rapida si è verificata in Giappone, Europa occidentale e America nord-orientale nel corso del XIX secolo e nei primi decenni del XX; nei paesi dell’Unione Sovietica e dell’America Latina attorno alla metà del XX secolo e nel resto del mondo dopo il 1960. Nei paesi in via di sviluppo, caratterizzati da un ritmo di crescita della città accelerato, si stima che dal 1990 la popolazione urbana sia cresciuta in media di 3 milioni di abitanti a settimana. Urbanizzazione e incremento demografico sono state due caratteristiche distintive del XX secolo. Grazie ad un generale calo della mortalità, la popolazione mondiale, infatti, all’inizio del secolo ha toccato la cifra di 1 miliardo e 634 milioni di persone, nel 1950 quella di due miliardi e mezzo di persone, per raggiungere a fine secolo la soglia dei 7 miliardi. Nelle diverse aree la crescita della popolazione ha

megalopoli Con il termine “megalopoli” si indica una formazione urbana che ingloba diverse città, anche di dimensioni ragguardevoli, e decine di milioni di abitanti.

La sovrappopolazione Conseguenze della sovrappopolazione: strade densamente affollate in India e in Giappone.

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STORIA E AMBIENTE DALLE CITTÀ ALLE METROPOLI: LE EMERGENZE AMBIENTALI DEL XX SECOLO

seguito ritmi diversi. Dopo il 1950 la popolazione asiatica è raddoppiata, quella latino-americana triplicata, quella africana è quadruplicata, mentre in Europa e Nord America è cresciuta molto più lentamente.

do le fondamenta degli edifici e la rete fognaria urbana. [...] Nel 1960, Città del Messico fu costretta a “requisire” le acque di superficie all’esterno della valle del Messico, causando l’abbassamento del livello delle acque del più grande lago messicano d’acqua dolce. [J.R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, Torino 2002, p. 373]

LE CONSEGUENZE AMBIENTALI La concentrazione di popolazione, consumi e attività produttive nelle aree urbane, rafforzatasi nella seconda metà del XX secolo, ha generato una forte pressione sull’ambiente. Le città, infatti, consumano ingenti quantità di acqua, energia, materiali; diffondono beni e servizi; ma producono anche rifiuti e inquinanti. La gestione di questi complessi flussi richiede interventi amministrativi e ingegneristici impegnativi, come ad esempio per l’approvvigionamento idrico. Lo storico John R. McNeill ci racconta le difficoltà di Città del Messico negli anni ’90 del ’900 nell’affrontare questo problema:

700

Nel 1990, il consumo d’acqua di Città del Messico era superiore di 30-35 volte a quello del 1900. Già stava sprofondando lentamente nel 1900 in seguito al drenaggio delle sue acque profonde; e tra il 1940 e il 1985 la città sprofondò (in maniera non uniforme) anche di 7 metri, danneggian-

U4 IL MONDO DIVISO

Per poter assicurare l’approvvigionamento idrico ai centri urbani spesso furono necessari lavori ingegneristici, per modificare il corso dei bacini o dei flussi d’acqua circostanti, permettendone lo sfruttamento, spesso a detrimento della popolazione delle campagne. Le città necessitano anche di cemento, mattoni, derrate alimentari, carburante, ecc. Per questo le città hanno avuto un ruolo importante nell’organizzare ed accelerare le trasformazioni dell’ambiente circostante. Nel corso del XX secolo si è allargata l’impronta ecologica delle città, ossia lo spazio di cui queste hanno bisogno per sopravvivere, rifornirsi di materie prime, smaltire i loro rifiuti. Negli anni ’80, ad esempio, il legname di Delhi arrivava da foreste distanti anche 700 chilometri; a partire dagli anni ’60 la maggior parte del-

Città del Messico Nella foto, una nube di gas inquinanti invade l’aria su Città del Messico.

le città consumava il petrolio che arrivava dal Golfo Persico. L’urbanizzazione non ha modificato solo il volto delle città, ma anche l’assetto produttivo del mondo rurale, che in parte ha dovuto riconvertire le sue attività per soddisfare le esigenze della popolazione urbana. Si configurarono in modo diverso anche i flussi delle materie prime a livello mondiale. In sostanza, l’aumento della popolazione e della sua concentrazione in grandi agglomerati urbani, coinvolgendo, nel XX secolo, l’intero pianeta, non hanno fatto altro che rendere globali i problemi di inquinamento ambientale che avevano caratterizzato lo sviluppo della città industriale nell’Europa dell’800, come mette in evidenza lo storico Federico Paolini: Nella prima metà del Novecento i fumi emessi dalle ciminiere industriali e dai camini delle abitazioni affliggevano tanto Londra, Berlino e Pittsburgh come Osaka e Città del Messico; i fiumi che attraversavano i centri abitati risultavano contaminati dalle acque reflue sia in Europa che in India o in America Latina; la crescente produzione di rifiuti solidi causava gravi problemi di smaltimento tanto a Calcutta quanto a New York dove, ancora durante lo scorcio iniziale del Novecento, i rifiuti venivano scaricati alla foce del fiume Hudson. [F. Paolini, Breve storia dell’ambiente nel Novecento, Carocci, Roma 2009, p. 42]

CITTÀ E AMBIENTE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Nella seconda metà del ’900 il quadro è apparso ambivalente: le città dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti e del Giappone hanno registrato importanti progressi nel miglioramento delle condizioni ambientali e dei problemi sanitari, ma la rapida urbanizzazione e industrializzazione dell’America Latina, dei paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’Africa, della Cina e dell’Asia meridionale hanno causato il ripresentarsi dei medesimi problemi ambientali, destinati a perdurare. La rapidità dello sviluppo urbano, la crescita economica troppo limitata, la scarsa pianificazione urbana hanno fatto sì che le città dei paesi in via di sviluppo faticassero a garantire ai propri residenti l’approvvigionamento idrico, e un adeguato ed efficiente sistema fognario e di smaltimento dei rifiuti. Le infrastrutture urbane si rivelarono incapaci di stare al passo con la crescita demografica. Inoltre le ragioni dello sviluppo economico prevalsero sulle preoccupazioni di carattere ambientale, unite alle difficoltà nell’applicare provvedimenti di legge e regolamentazioni. Secondo alcune stime nel 1990 la popolazione urbana nei

▲  Corso

d’acqua a Kibera (Nairobi) [Kenya, Africa] Inquinamento dei corsi d’acqua per l’inadeguato smaltimento dei rifiuti nel quartiere di Kibera a Nairobi.

►  Inquinamento

delle acque La acque di scarico che confluiscono nei corsi d’acqua ne danneggiano gravemente la flora e la fauna.

701

STORIA E AMBIENTE Dalle città alle metropoli: le emergenze ambientali del XX secolo

paesi in via di sviluppo che viveva senza acqua corrente, sistemi fognari e servizi igienici adeguati era pari a circa 800 milioni di abitanti. Lo storico Stephen Mosley ci fornisce un quadro dei gravi problemi che affliggono ancora oggi queste città: Dal momento che le deiezioni umane ingombravano le strade o venivano gettate direttamente negli stessi corsi d’acqua da cui si attingeva l’acqua potabile, “malattie da sporcizia” potenzialmente mortali come la febbre tifoide e i disturbi gastro-intestinali erano ancora molto diffuse nelle città dei paesi in via di sviluppo. Le acque di scarico non trattate rilasciate dalle industrie in rapida crescita aumentavano la gravità dell’inquinamento dei corsi d’acqua. Anche gli inadeguati sistemi di smaltimento dei rifiuti costituivano (e costituiscono tuttora) una delle principali minacce per la salute della popolazione. A Freetown (Sierra Leone), ad esempio, solamente la metà circa dei rifiuti solidi prodotti dalla città è raccolta e trattata dall’amministrazione locale; il resto viene gettato nei vicoli e a i bordi delle strade, negli specchi d’acqua o nei canali di scolo dell’acqua piovana. [S. Mosley, Storia globale dell’ambiente, il Mulino, Bologna 2013, pp. 156-57]

702

Nelle città dei paesi in via di sviluppo non mancavano colline e montagne di spazzatura, con mucchi maleodoranti di immondizia, elettrodomestici arrugginiti, calcinacci. All’inizio degli anni ’90 nella città dell’India occidentale Surat, che contava circa 2,2 milioni di abitanti, non si riusciva a raccogliere e smaltire circa un quinto dei rifiuti. Si creò così un habitat ideale per la moltiplicazione dei topi, da cui si diffuse un’epidemia di peste bubbonica, che fortunatamente causò un limitato numero di decessi. Ancora oggi, la mancanza dei servizi sanitari, ancorché elementari, e la scarsa igiene nei quartieri più degradati delle grandi città dei paesi in via di sviluppo, provocano circa 1,6 milioni di morti l’anno. In molte città africane, asiatiche e latino-americane, inoltre, gli abitanti dei quartieri più poveri, soprattutto donne e bambini, lavorano spesso in discariche di immondizia nocive, recuperando dai rifiuti materiali come vetro, plastiche e metalli da vendere o riusare per creare nuovi prodotti. Le città dei paesi in via di sviluppo sono dunque luoghi di disuguaglianze non solo economiche e sociali, ma anche ambientali. Nella maggior parte di queste città, infatti, i quartieri più densamente popolati sono quelli insalubri, abitati dalle persone più povere, mentre le classi alte vivono in sobborghi periferici, in aree spesso sorvegliate dalla vigilanza privata che tendono a presentarsi come nuclei separati (come Alphaville a San Paolo, in Brasile).

U4 IL MONDO DIVISO

CAMBIAMENTI CLIMATICI E INQUINAMENTO ATMOSFERICO La crescita urbano-industriale del XX secolo ha contribuito in modo sostanziale al cambiamento climatico globale. Le città, infatti, producono più emissioni (il rilascio di sostanze chimiche inquinanti nell’aria) delle zone non urbane, con un’alta presenza di gas serra (anidride carbonica, protossido d’azoto e ozono), prodotti da abitazioni, edifici commerciali, industrie e mezzi di trasporto. Già con l’emergere in Europa e Nord America della città industriale nel XIX secolo sorse il problema dello smog e dell’inquinamento dell’aria, contro cui a Londra e Chicago, ad esempio, si mobilitarono alcuni gruppi di pressione già fra la fine dell’800 e l’inizio del ’900. Raramente però le leggi per il controllo delle emissioni di fumo furono applicate in modo efficace. L’opinione pubblica, del resto, si mobilitò solo tardivamente in questa direzione, timorosa che le misure restrittive finissero per limitare la crescita economica. Solo dopo alcuni casi particolarmente gravi (in Belgio nel 1930, in Pennsylvania nel 1948, a Londra nel 1952) furono introdotte legislazioni più rigide, come il Clean Air Act britannico del 1956, che stabilì limiti severi per le emissioni di fumo domestiche e industriali nelle aree urbane. Fu infine la diffusione di forme di energia più pulite rispetto al carbone, come gas, elettricità e petrolio, a migliorare la qualità dell’aria delle città occidentali nella seconda metà del ’900. Nel frattempo a contribuire all’incremento delle emissioni di anidride carbonica fu anche la diffusione della motorizzazione di massa. Le prime preoccupazioni per gli effetti sulla salute umana dell’inquinamento provocato dalle auto sorsero negli anni ’40 del ’900 a Los Angeles, quando i suoi residenti cominciarono a lamentare bruciori agli occhi e disturbi respiratori. Negli anni ’60 numerosi casi di inquinamento da smog fotochimico (che si realizza quando la luce solare reagisce con gli inquinanti emessi dai tubi di scappamento delle auto) si verificarono ad Atene, provocando anche l’incremento del tasso di mortalità. Sul finire del XX secolo in tutto il mondo si contavano circa 600 milioni di automobili, con un forte aumento della circolazione delle auto nei paesi in via di sviluppo, tanto che Città del Messico, Bangkok, Buenos Aires, Mumbai risultano ora fra le città più inquinate per le emissioni prodotte dai veicoli.

gas serra Sono quei gas, prodotti dall’inquinamento industriale, che contribuiscono a creare l’effetto serra: il bilancio tra l’energia proveniente dal Sole che entra nell’atmosfera e quella che ne esce viene squilibrato, provocando l’elevazione della temperatura globale, lo scioglimento delle calotte polari e l’innalzamento del livello degli oceani.

In Unione Sovietica e in Cina, dove l’urbanizzazione corrispose ad un’industrializzazione impetuosa, l’inquinamento da fumi di carbone (consumato per alimentare le industrie) è rimasto un problema importante per tutto il XX secolo. Lo sforzo profuso per la crescita economica, unito al controllo monopolistico statale sulle industrie pesanti, causò una scarsa attenzione verso le tecnologie di riduzione dell’inquinamento o verso la legislazione per la tutela dell’ambiente. In Cina, dove si bruciano oltre 2 miliardi di tonnellate di carbone l’anno, si contavano nel 1998 nove delle dieci città più inquinate al mondo. Racconta ancora lo storico Stephen Mosley:

Un altro caso emblematico è quello di Città del Messico, dove nel corso del ’900 la popolazione è cresciuta di sessanta volte, arrivando ad oltre 20 milioni di abitanti. Il diffondersi dei fenomeni dell’industrializzazione e della motorizzazione, uni-

Gli abitanti di Lanzhou [città di un distretto nord-occidentale della Cina] respiravano un’aria i cui livelli medi d’inquinamento erano oltre 100 volte superiori a quelli raccomandati dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità). Gli urbanisti cinesi cercarono – senza successo – di risolvere i problemi d’inquinamento di Lanzhou, situata in un angusto fondovalle fluviale, facendo esplodere le cime delle colline circostanti per consentire ai fumi di disperdersi. [S. Mosley, Storia globale dell’ambiente, cit., p. 158] ▼  Una

strada di Daging (Cina) in un giorno di smog Le conseguenze dell’elevata densità di inquinamento atmosferico nell’area asiatica limitano la normale e quotidiana viabilità.

▲  Il

traffico stradale in Cina I gas di scarico degli autoveicoli a diretto contatto con le vie respiratorie possono causare gravi disturbi all’apparato.

703

STORIA E AMBIENTE Dalle città alle metropoli: le emergenze ambientali del XX secolo

to alle caratteristiche naturali come il clima caldo e soleggiato e la collocazione della città in una conca profonda posta ad oltre 2000 metri di altitudine (dove l’ossigeno si fa più rarefatto), ha prodotto forse il più grave problema d’inquinamento atmosferico urbano del pianeta. I livelli di biossido di zolfo, di piombo e di polveri sottili, infatti, per decenni risultarono costantemente oltre i limiti fissati dalle normative messicane ed internazionali. Lo storico John R. McNeill ci racconta le pesanti conseguenze della contaminazione dell’aria: A causa dell’inquinamento dell’aria, gli abitanti di Città del Messico, al pari del resto della popolazione di qualsiasi metropoli, respiravano a fatica, tossicchiavano e morivano anche. Di tanto in tanto le scuole venivano chiuse per l’allarme ozono. I genitori più solleciti dotavano i propri figlioli di mascherine protettive e li tenevano al chiuso nelle ore di maggior inquinamento. La vegetazione delle montagne circostanti ne pativa, alterando l’equilibrio idrico della città. Gli anelli degli abeti di un boschetto a sud-ovest della città rivelavano una crescita decisamente ridotta a partire dagli anni Sessanta, e nel 1993 l’inquinamento aveva fatto morire un terzo degli abeti. Nel 1985, in un momento di particolare inquinamento, alcuni uccelli precipitarono al suolo mentre stavano sorvolando la piazza principale della città. [J.R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole, cit., p. 98]

Per ridurre l’inquinamento dell’aria vennero adottati diversi provvedimenti, come incentivi alle industrie che si trasferivano fuori dalla città, commercializzazione di benzina a basso contenuto di piombo, obblighi di controlli ai veicoli, restrizioni della circolazione automobilistica, riforestazione. Nonostante i miglioramenti non si è ancora arrivati ad una soluzione definitiva del problema. Si è calcolato che nel mondo, nel 2015, oltre 9 milioni di persone, di cui la maggioranza nei paesi in via di sviluppo, sono vittime di disturbi respiratori e malattie associate all’inquinamento atmosferico.

IL CONSUMO DEL SUOLO

704

Nella seconda metà del ’900 è emerso anche un nuovo problema ambientale: il consumo del suolo. La crescita della motorizzazione privata, infatti, ha favorito un’espansione urbana incontrollata, visto che non era più necessario vivere in zone centrali o in prossimità dei collegamenti garantiti dai mezzi di trasporto. Negli Stati Uniti la costruzione di sobborghi, dominati da villette unifamiliari e caratterizzati da una bassa densità di popolazione, divenne una tendenza diffusa dopo il 1945. In Europa, invece, le prime conurba-

U4 IL MONDO DIVISO

zioni (aree edificate nate dall’espansione di abitati diversi, che finivano per saldarsi in un insediamento senza più interruzioni o confini) nacquero nelle grandi aree industriali, come le Midlands in Inghilterra o la Ruhr in Germania. Anche in Giappone troviamo un’estesa conurbazione fra le città di Osaka, Kobe, Kyoto e Nara. Nei pae­si in via di sviluppo, come illustra il caso della città indiana di Delhi – la cui superficie nel 1990 era 13 volte quella del 1900 –, l’espansione spesso ha coinvolto centinaia di villaggi rurali e di appezzamenti. In ogni caso lo sviluppo dei sobborghi e l’estendersi degli agglomerati urbani, che sia stato ordinato e curato o sia stato frutto di un’urbanizzazione selvaggia e incontrollata, è avvenuto a spese delle zone coltivate, delle aree agricole. Il caso italiano non fa eccezione. A partire dagli anni ’70, infatti, la popolazione delle grandi città (Milano, Torino, Napoli, in parte anche Roma) ha cominciato a calare, mentre cresceva quella delle aree che gravitavano intorno ad esse. Da un lato i centri storici delle grandi città perdevano abitanti, dall’altro le aree metropolitane si espandevano, venendo a formare un sistema reticolare, caratterizzato da un’elevata densità di popolazione, da centri vicini e numerosi, in una sorta di continuum i cui tratti non sono né pienamente urbani né rurali. Quella di Milano è oggi l’area metropolitana italiana di maggiori dimensioni (comprende 670 comuni appartenenti non solo alla provincia di Milano, ma anche a quelle di Lodi, Pavia, Varese, Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova, Lecco e Novara), tanto che il geografo Eugenio Turri ha coniato l’espressione “megalopoli padana” per indicare quest’area con il suo esteso agglomerato di costruzioni. Oltre all’espansione a macchia d’olio delle città, anche il fenomeno dell’abusivismo edilizio e dell’urbanizzazione di tratti di coste hanno rivelato la tendenza a cementificare in modo disordinato e incontrollato. L’urbanizzazione si è fatta sempre più pervasiva e risulta sganciata dagli andamenti demografici ed economici, incurante delle motivazioni ambientali della preservazione del suolo, spesso animata solo da logiche contingenti, come quella di far incamerare tasse ai Comuni. Si stima che negli ultimi quindici anni siano stati persi più di tre milioni di ettari coltivati, mentre il consumo del suolo (pur rallentando fra il 2008 e il 2013) continua a riguardare in media circa 35 ettari di territorio al giorno, l’equivalente di quasi 35 campi di calcio.

abusivismo edilizio Realizzazione di immobili al di fuori dei piani urbanistici, tramite la sottrazione alle regole della pianificazione pubblica.

▲  La

Regione della Ruhr Nella foto una veduta panoramica dell’estesa zona industriale della Ruhr, in Germania.

▼  Milano

Veduta aerea dell’area metropolitana di Milano. Il reticolo urbano si espande assorbendo le aree rurali.

705

STORIA E AMBIENTE Dalle città alle metropoli: le emergenze ambientali del XX secolo

LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE LABORATORIO DI SCRITTURA STORICA  1  Illustra in una presentazione in PowerPoint l’impatto ambientale dell’urbanizzazione nel XX secolo. Per ciascun punto della scaletta realizza 2 o 3 slide: nella prima presenterai il problema, nelle altre lo illustrerai con uno studio di caso tratto dal testo. Ricordati di dare un titolo al PowerPoint e di corredare le slide di immagini, anche reperite in Rete.

● ● ● ● ●

L’incremento demografico nel corso del XX secolo L’impronta ecologica delle città I problemi ambientali delle città dei paesi in via di sviluppo L’inquinamento ambientale e i cambiamenti climatici Lo sviluppo dei sobborghi e della conurbazione e il consumo del sottosuolo

LA SITUAZIONE AMBIENTALE DELLA MIA CITTÀ  2  Facendo tesoro dei concetti sui quali hai lavorato nell’esercizio precedente, completa la tabella sottostante in cui sintetizzi la situazione della tua città in relazione a ciascuno dei parametri indicati. Rispondi poi al quesito: “Ci sono elementi di comunanza tra la situazione ambientale generale descritta nella scheda e la tua città?”.

Città (nome): .................................................................................... Numero di abitanti (indicare le variazioni rilevate dagli ultimi due censimenti, in modo da evidenziare la tendenza) Aspetto urbano Eventuali aree urbane abbandonate e/o riqualificate Approvvigionamento idrico Smaltimento dei rifiuti solidi Motorizzazione di massa Inquinamento atmosferico urbano Presenza di una zona industriale Diffusione e incidenza delle malattie associate all’inquinamento Presenza di ospedali Sobborghi/conurbazione

706

Abusivismo edilizio

U4 IL MONDO DIVISO

Situazione reale

Misure prese dall’amministrazione locale per fronteggiare il problema

ITALIAN SMART CITIES  3  Sai cos’è una smart city, o città intelligente? È un insieme di strategie di pianificazione urbanistica tese al miglioramento e all’innovazione delle prestazioni dei servizi pubblici grazie all’impiego diffuso delle nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica, al fine di migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni. L’Anci, l’Associazione nazionale comuni italiani, ha promosso e realizzato Italian Smart Cities, la piattaforma nazionale che raccoglie le esperienze progettuali implementate dalle città italiane nell’ottica smart. All’interno della piattaforma le città raccontano le proprie iniziative innovative, i bisogni a cui rispondono, i costi sostenuti, gli impatti avuti sulla qualità della vita delle persone e le condizioni di replicabilità in altri contesti urbani.

Vai sul sito “italiansmartcity.it”; nella barra di navigazione clicca su “comuni” e scopri se la tua città, o la città capoluogo su cui gravita il tuo centro abitato, è contemplata tra le 158 smart cities italiane. Se sì, clicca su “progetti” ed esplora la tipologia di progetti che sono stati già realizzati, o che sono in corso d’opera. Costruisci sul tuo quaderno una tabella simile a quella che ti proponiamo e implementala di tutte le voci necessarie a raccontare le iniziative della tua smart city. La mia smart city (nome): ........................................... Ambiente Trasporti e mobilità urbana Smaltimento rifiuti Energia Qualità della vita Pianificazione Cittadini (strumenti atti a favorire la partecipazione) Altro

707

STORIA E AMBIENTE Dalle città alle metropoli: le emergenze ambientali del XX secolo

DALL’EUROPA DEI 6 ALL’EUROPA DEI 28 Paesi membri Cee dal 1957 ISLANDA Paesi membri Cee dal 1973

Paesi membri Unione europea dal 2004 Paesi membri Unione europea dal 2007

Paesi membri Cee dal 1981

Paesi che hanno fatto domanda d’ingresso

Paesi membri Cee dal 1986

Germania Est fino al 1990. Entra nella Ue in seguito all’unificazione

Paesi membri Unione europea dal 1995

Paese membro Ue dal 2013

FINLANDIA

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Helsinki Stoccolma

IRLANDA Dublino

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LITUANIA BIELORUSSIA

Berlino BELGIO

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Tallinn ESTONIA

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GERMANIA

POLONIA

Bruxelles Praga

LUSSEMBURGO Parigi FRANCIA

PORTOGALLO Lisbona

SPAGNA Madrid

REP. CECA Vienna

SVIZZERA

SLOVACCHIA Bratislava Budapest

UCRAINA

AUSTRIA MOLDAVIA Lubiana UNGHERIA SLOVENIA ROMANIA Zagabria CROAZIA Bucarest BOSNIA ERZ. SERBIA BULGARIA ITALIA Sofia MACEDONIA Roma

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Ankara

Nero

TURCHIA

GRECIA Atene ALBANIA MALTA

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UNITÀ 5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Nicosia CIPRO

CHIAVI DI LETTURA

Le ragioni di un crollo Fra il 1989 e il 1991, l’Unione Sovietica, in quanto entità politica, si dissolse. L’Urss si era dimostrata incapace di reggere il confronto con l’Occidente sul piano del benessere e dei consumi, così come il sistema ideologico comunista aveva fallito nella missione di porsi quale alternativa alle ingiustizie delle società capitalistiche. A tutto ciò si erano aggiunte le rivendicazioni nazionali delle popolazioni soggette all’Urss. Ma nessuno di questi fattori sarebbe stato sufficiente se il sistema non fosse stato messo in crisi dall’interno, quando Michail Gorbačëv cercò di introdurre limitati elementi di riforma e di apertura politica, dichiarando di non voler più ricorrere a interventi militari e pratiche repressive. Il sistema comunista, che si reggeva proprio su quelle pratiche, non resse e, come tutti i sistemi chiusi e autoritari, si rivelò politicamente irriformabile.

La diffusione del fondamentalismo

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Il crollo del comunismo sovietico e degli equilibri internazionali nati dalla seconda guerra mondiale avrebbe dovuto inaugurare un’epoca di pace e cooperazione all’insegna dei valori dell’Occidente democratico. Questi scenari si rivelarono subito illusori: la diffusione del fondamentalismo, alimentato dalla rivoluzione khomeinista in Iran (1979), conferì una nuova dimensione globale e nuovi motivi di scontro ideologico e religioso ai contrasti fra i paesi occidentali e il mondo islamico (e all’interno dello stesso mondo islamico). Si allontanarono le speranze

di una soluzione politica dell’annosa questione palestinese e aprirono nuovi scenari di conflitto nell’area mediorientale, dove si concentrava il 60% della produzione mondiale di petrolio.

L’Unione europea Negli ultimi anni del ’900 il percorso dell’Europa verso una più stretta integrazione fece alcuni importanti progressi, coronati dalla nascita dell’Unione europea (1992) e dall’adozione di una moneta unica. Ma la spinta unitaria si arrestò di fronte alle difficoltà di un passaggio, per nulla scontato, dalla dimensione economica a quella politica. E l’ingresso nell’Unione dei paesi dell’Europa orientale, se da un lato significò il superamento della divisione in due del continente, dall’altro rese più problematico l’amalgama fra storie e culture diverse.

L’Italia, dalla Prima alla Seconda Repubblica

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Nei primi anni ’90 del ’900, anche il sistema politico che aveva retto l’Italia per quasi mezzo secolo entrò definitivamente in crisi: i vecchi partiti si trasformarono o addirittura si dissolsero, per lasciare spazio a un nuovo schema tendenzialmente bipolare, gravitante intorno a un’area di centro-destra e una di centro-sinistra. Per sottolineare l’importanza di questo passaggio, viene comunemente usata l’espressione “Seconda Repubblica”. Molti contestano questa formula, dal momento che, nonostante alcune modifiche, la Costituzione italiana è rimasta sostanzialmente la stessa. Ciò non toglie che dalla metà degli anni ’90 le forme organizzative e la natura stessa dei partiti siano mutate a vantaggio di un’accentuata personalizzazione della lotta politica.

GLI EVENTI 1973 Guerra del Kippur e crisi petrolifera

1968 Movimento studentesco in Italia

1969 Autunno “caldo” e lotte operaie in Italia

1974 Referendum sul divorzio in Italia

1978 Pace fra Egitto e Israele

1979 Rivoluzione iraniana

1978 Le Brigate rosse rapiscono e uccidono Moro

1985 Gorbacˇëv segretario del Pcus

1983-87 Governo Craxi in Italia

1989 Cade il Muro di Berlino

1991 Prima guerra del Golfo. Fine dell’Urss

1992 Trattato di Maastricht: nasce l’Unione europea

1992 Tangentopoli

2000 Putin presidente della Russia

1994 Berlusconi vince le elezioni in Italia

1996 Vittoria dell’Ulivo e governo Prodi in Italia

2002 Entrata in vigore dell’euro

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CAP16 ANNI DI CAMBIAMENTO



16_1 LA FINE DELL’“ETÀ DELL’ORO”: LA CRISI PETROLIFERA

All’inizio degli anni ’70, si interruppe il ciclo espansivo dell’economia mondiale che aveva contraddistinto l’intero dopoguerra. Non si trattò di una “normale” pausa nel processo di sviluppo, ma di una svolta dalle conseguenze traumatiche, non solo sul piano economico. La svolta fu segnata soprattutto da due eventi. Il primo, nell’agosto 1971, fu la scelta degli Stati Uniti di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, convertibilità che costituiva il pilastro del sistema monetario internazionale disegnato dagli accordi di Bretton Woods del 1944 e basato su rapporti di cambio fissi fra le monete dei paesi aderenti [►12_1]. Tale decisione era il segno più evidente delle difficoltà dell’economia americana che, appesantita dagli enormi costi della guerra in Vietnam e da un crescente passivo della bilancia commerciale, non era più in grado di garantire con le sue riserve auree il cambio di una grande massa di dollari circolante nel mondo o custodita nelle Banche centrali europee e asiatiche. Ma era anche l’inizio di una lunga fase di instabilità e di disordine monetario internazionale, con continue oscillazioni nei prezzi delle materie prime e nei cambi fra le monete e con una generale tendenza all’inflazione.

L’instabilità monetaria

Ancora più gravida di conseguenze fu la decisione presa dai principali paesi produttori di petrolio nel novembre 1973, in seguito alla guerra arabo-israeliana [►13_7], di quadruplicare il prezzo della materia prima. Questo improvviso aumento fu l’inizio di una progressiva ascesa delle quotazioni del greggio che si sarebbe protratta per l’intero decennio: alla fine degli anni ’70, anche a causa della rivoluzione iraniana del 1979 [►19_3] il prezzo del petrolio era dieci volte più alto di quello del ’73. Lo shock petrolifero colpì in varia misura tutti i paesi industrializzati, in partico-

L’aumento del prezzo del petrolio

710

In bici durante una “domenica a piedi” dicembre 1973 La crisi del petrolio provocò l’adozione, da parte dei governi europei, di una serie di drastiche misure. In Italia, fra i provvedimenti presi per abbattere i consumi di combustibile, venne varato anche il divieto per le automobili di circolare nei giorni festivi (le “domeniche a piedi”): le strade dei centri cittadini si trasformarono così in piste ciclabili.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

E

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Parole della storia Ecologia Storia, società, cittadinanza Il disarmo Storia e Geografia Le terre del petrolio Focus La crisi dello Stato sociale • Il governo dell’economia mondiale Lezioni attive Neoliberismo, comunismo e mercato Audiosintesi

► Leggi anche: ►     Storia e Geografia Le terre del petrolio ►     Focus La crisi dello Stato sociale ► Parole della storia Monetarismo, p. 712

18_CONSUMO MONDIALE DI ENERGIA, 1800-1990

Totale (milioni di tonnellate di petrolio o equivalente) Indice (1900 = 100)

20_L’EVOLUZIONE DEL PREZZO DEL PETROLIO IN DOLLARI AL BARILE (1973-1994)

1800

1900

1990

400

1900

30.000

80 70

21

100

1580

60 50

19_FONTI DI ENERGIA NEL MONDO, 1973-93 (IN PERCENTUALE RISPETTO AL CONSUMO TOTALE)

40

1973

1980

1993

30

Carbone

28,0

29,0

27,5

20

Petrolio

47,2

43,4

40,0

10

Gas

21,0

18,9

22,9

3,8

8,7

9,6

Elettricità prodotta da impianti idroelettrici e atomici

0 1973 74

76

78

80

82

84

86

88

90

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94

lare quelli che dipendevano quasi completamente dalle importazioni per il loro fabbisogno energetico, come l’Italia e il Giappone (gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ne risentirono in misura minore in quanto disponevano di proprie risorse petrolifere); e fu il fattore scatenante di una crisi economica seria e profonda, anche se meno lunga e violenta di quella degli anni ’30. Ovunque, fra il ’74 e il ’75, la produzione industriale fece registrare un brusco calo, per poi riprendere a crescere a partire dal ’76, ma con ritmi più lenti rispetto al periodo precedente. Contrariamente a quanto era accaduto nelle crisi del passato, tutte caratterizzate dal calo dei prezzi, in questo caso la recessione produttiva si accompagnò a una generale crescita dell’inflazione, con tassi di aumento del costo della vita, nei paesi industrializzati, superiori al 10% e, talvolta, al 20% annuo. Questo fenomeno inedito – che è stato definito col termine “stagflazione”, ovvero “stagnazione più inflazione” – era dovuto in parte all’origine “esterna” dell’inflazione (l’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere), in parte alla maggiore rigidità dei salari che, in virtù dei meccanismi di copertura introdotti nei decenni precedenti, tendevano ad adeguarsi automaticamente alla crescita dei prezzi creando a loro volta nuove spinte inflazionistiche. Sul piano sociale la conseguenza più grave della crisi fu la crescita della disoccupazione, che si mantenne molto elevata per tutto il decennio: anche se, soprattutto in Europa occidentale, il problema era reso meno drammatico dalla presenza di numerosi “ammortizzatori sociali”: i sussidi di disoccupazione, le sovvenzioni statali alle industrie in crisi, la stessa preesistente condizione di benessere.

Inflazione e disoccupazione

Ma a subire gli effetti della crisi fu lo stesso modello del Welfare State, che, affermatosi in tutte le democrazie occidentali come strumento di stabilizzazione economica oltre che di perequazione sociale, cominciò allora a mostrare chiari segni di difficoltà. La crescita continua della spesa pubblica, non più sostenuta da un adeguato sviluppo produttivo, costrinse i governi a portare a livelli sempre più alti la pressione fiscale suscitando, in vasti settori dell’opinione pubblica e del mondo economico, un crescendo di critiche contro lo Stato assistenziale e contro l’intervento pubblico in economia e un parallelo ritorno in auge delle teorie liberiste e del monetarismo. L’avvento al potere dei conservatori in Gran Bretagna con Margaret Thatcher (1979) e l’elezione alla presidenza Usa del repubblicano Ronald Reagan (1980) – l’una e l’altro presentatisi agli elettori con la promessa di tagli delle spese e delle tasse – furono anche il prodotto di questo mutamento del clima politico e culturale.

La crisi del Welfare State

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C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

Giunta al termine di una lunga fase di sviluppo pressoché ininterrotto e di benessere crescente, la crisi petrolifera costituì per l’Occidente un trauma fortissimo sul piano psicologico prima ancora che economico: rivelò un’insospettata fragilità dei paesi più avanzati; contribuì a rendere instabile lo stesso quadro politico mondiale, preparando i grandi mutamenti che avrebbero segnato la fine del secolo XX; e fece sorgere una serie di interrogativi sul futuro della società industriale.

La fine di un’epoca

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi gli eventi che portarono alla crisi dell’economia mondiale negli anni ’70 ed evidenzia le relative conseguenze.  b  Evidenzia le cause che portarono gli Stati Uniti a sospendere nel 1971 la convertibilità del dollaro in oro.  c  Spiega per iscritto quali effetti ebbe lo “shock petrolifero” sull’economia occidentale e che cosa si intende per “stagflazione”.

LA CRISI ECONOMICA DEGLI ANNI ‘70

Gli Usa bloccano la convertibilità in oro del dollaro

Calo della produzione industriale

Disordine monetario internazionale CRISI ECONOMICA INTERNAZIONALE

Guerra arabo-israeliana (’73) e rivoluzione iraniana (’79)

I paesi produttori di petrolio ne quadruplicano il prezzo

Stagflazione Disoccupazione

Parole della storia

Monetarismo

I

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l monetarismo è una corrente di pensiero economico sviluppatasi a partire dagli anni ’60 del ’900 e legata soprattutto al nome dell’economista statunitense Milton Friedman e alla cosiddetta “scuola di Chicago”, la sede universitaria in cui Friedman insegnò. Alla base delle teorie monetariste c’è l’importanza attribuita alla quantità di moneta come elemento regolatore dell’attività economica. Secondo i monetaristi, è l’ammontare di moneta resa disponibile dalla Banca centrale a determinare, almeno nel lungo periodo, il livello dei prezzi e della produzione. Regolando il quantitativo di moneta in circolazione, soprattutto attraverso la manovra del tasso di sconto (il tasso di interesse richiesto dalla Banca centrale alle altre banche), le autorità pubbliche di uno Stato possono intervenire efficacemente sull’andamento generale dell’economia.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Infatti un’espansione della moneta determina un aumento della domanda complessiva, che a sua volta stimola un incremento della produzione e dei prezzi. Una riduzione, naturalmente, produce l’effetto opposto. Se infatti il governo e la Banca centrale limitano la quantità di moneta in circolazione, i datori di lavoro ne hanno di meno a disposizione per acquistare nuovi macchinari, per assumere nuovi lavoratori o per aumentare i salari: la produzione e i consumi ne soffrono, ma l’inflazione viene bloccata. L’equilibrio si ottiene con una politica che commisuri l’offerta di moneta al tasso di crescita dell’economia. Secondo i monetaristi l’intervento sulla moneta non è solo il più efficace, ma anche l’unico compatibile con politiche che riducano al minimo l’ingerenza dello Stato nell’economia e interferiscano il meno possibile col funzionamento del mercato. La concezione monetarista si contrappone dunque frontalmente alle teorie di John Maynard Keynes [►7_6] – che prevedono interventi mirati dello Stato

per ridurre la disoccupazione e per stimolare il ciclo produttivo – e alle politiche ad esse ispirate, largamente praticate da molti governi nel secondo dopoguerra. Il monetarismo si è perciò di fatto identificato con le posizioni neoliberiste, favorevoli a una maggiore libertà del mercato e dell’iniziativa privata. Negli anni ’70 e ’80, di fronte alla difficoltà di controllare una spesa pubblica in continua crescita, molti governi occidentali adottarono politiche monetariste; e una prospettiva analoga fu fatta propria dalle organizzazioni internazionali quali la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, che la imposero ai paesi beneficiari dei loro aiuti. Ne nacque un acceso dibattito, sia perché quelle politiche non furono coronate da un pieno successo (non sempre si riuscì a controllare la quantità di moneta in circolazione), sia per i costi sociali derivanti, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dalla riduzione dell’intervento dello Stato e delle spese per le politiche sociali.



16_2 I PROBLEMI DELL’AMBIENTE

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Il primo problema che la crisi petrolifera del ’73 rese evidente fu quello del carattere limitato, e dunque esauribile, delle risorse naturali del pianeta: un dato che contraddiceva, almeno in apparenza, la prospettiva ottimistica di una crescita illimitata – della produzione, dei consumi, della stessa popolazione – su cui si era fino ad allora fondata la filosofia ispiratrice della civiltà industriale. Questa prospettiva cominciò allora ad apparire a molti non solo irreale, ma anche dannosa, in quanto portava con sé la tendenza allo spreco energetico, alla dissipazione delle risorse naturali, alla modifica violenta dell’ambiente. Alla protesta ideologica contro la civiltà dei consumi si sovrappose, e in parte si sostituì, una critica più concreta animata dai movimenti ambientalisti (o verdi), attenta soprattutto alle tematiche dell’ecologia e fondata sulla denuncia delle minacce portate dall’azione degli uomini – in particolare dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione indiscriminata – all’equilibrio naturale del pianeta [►FS, 142d].

I limiti dello sviluppo

Il degrado dell’ambiente aveva radici lontane, legate ai primi passi della rivoluzione industriale; ma nel corso del XX secolo si era aggravato, soprattutto per il crescente utilizzo dei combustibili fossili, prima il carbone poi il petrolio. Se all’inizio del ’900 la principale responsabile dell’inquinamento dell’aria era ancora la combustione del carbone nelle industrie e nelle abitazioni, negli anni ’60 il traffico automobilistico aveva già cominciato a contenderle questo primato: nel 1990 sarebbe diventato la maggior fonte di inquinamento a livello mondiale. Più in generale, l’eccezionale sviluppo economico del pianeta lungo tutto il XX secolo comportò il consumo di una quantità straordinaria di energia: dieci volte più che nei mille anni precedenti, secondo i calcoli di alcuni studiosi. Se dunque si voleva continuare a sostenere la crescita economica senza compromettere irrimediabilmente le condizioni ambientali, già alla metà degli anni ’70 appariva necessario abbassare i consumi o utilizzare fonti di energia alternative ai combustibili fossili.

► Eventi L’incidente ˇ ernobyl’, nucleare di C p. 714 ► Fare Storia Sviluppo e ambiente, p. 813

Il degrado ambientale

All’indomani della crisi petrolifera, i governi si mossero in entrambe le direzioni, anche sulla base di esigenze economiche immediate: da un lato adottarono politiche di risparmio energetico, cercando di limitare la circolazione dei mezzi di trasporto privati e di contenere i consumi di elettricità, dall’altro promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di energia. Alcuni Stati (Usa, Francia, Germania federale, Giappone) puntarono sullo sviluppo delle centrali nucleari, in grado di fornire energia a costi sensibilmente inferiori a quelli delle centrali termoelettriche, ma contestate dagli ecologisti per i problemi legati allo smaltimento delle scorie e per i danni irreversibili che potevano provocare in caso di guasti o incidenti: come dimostrò, nel 1986, il caso della centrale nucleare di Černobyl’ in Ucraina. Altrove si riscoprì il carbone o si avviò lo sfruttamento dell’energia solare e di quella eolica: energie pulite e inesauribili, il cui impiego stentò però ad affermarsi soprattutto a causa delle difficoltà tecniche e degli elevati costi iniziali.

Risparmio energetico e fonti alternative

La centrale elettronucleare di Caorso (Piacenza) 1978 La costruzione della centrale di Caorso, la quarta in Italia, venne avviata nel 1970. La sua produzione venne interrotta nel 1990. Il piano di smantellamento avrà termine entro il 2025.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, l’emergenza ambientale sembrò per molti aspetti ridimensionarsi. La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi, se da un lato rallentò la spinta alla ricerca di fonti alternative, dall’altro fece apparire eccessivi gli allarmi lanciati negli anni della crisi, quando autorevoli studiosi formulavano previsioni cata-

Il superamento della crisi

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C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

strofiche sull’esaurimento delle risorse energetiche entro la fine del secolo. Una nuova fase di crescita produttiva e di euforia finanziaria riportò nel mondo dell’economia un clima di diffuso (e, come vedremo, incauto) ottimismo. Non per questo, però, venne meno l’attenzione per i problemi ecologici. E la ricerca di uno sviluppo sostenibile – capace cioè di conciliare crescita produttiva e tutela dell’ambiente – restò al centro non sviluppo sostenibile solo dei dibattiti scientifici, ma anche dell’attività dei governi Con l’espressione “sviluppo sostenibile” si indicano ► e delle organizzazioni internazionali [ FS, 143]. La Commissione sull’ambiente e le azioni e le politiche volte a conciliare lo sviluppo sullo sviluppo delle Nazioni Unite si espresse al riguardo col rapporto Brundtland economico con la tutela dell’ambiente. Il concetto di “sostenibilità” fa cioè riferimento a un limite da porre (dal nome della sua autrice, allora a capo del governo norvegese) del 1987, dove si allo sfruttamento delle risorse ambientali ai fini della affermava che lo sviluppo «deve rispondere ai bisogni del presente senza comprocrescita delle attività produttive, in modo da salvaguardare mettere la possibilità delle generazioni future di fare altrettanto» [►FS, 144d]. l’ecosistema.

Sviluppo sostenibile e politiche ambientaliste

EVENTI

ˇernobyl’ L’incidente nucleare di C

L

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a centrale nucleare di Černobyl’, nata agli inizi degli anni ’70, sorge in Ucraina, vicino al confine con la Bielorussia. Il 25 aprile 1986, il reattore 4 della centrale subì un normale intervento di manutenzione, che ne comportò lo spegnimento. Si decise, quindi, di approfittarne per testare la risposta del reat­tore in caso di improvvisa mancanza dell’alimentazione elettrica esterna: l’esperimento comportava la disattivazione totale (vietata dai manuali d’uso) dei dispositivi di sicurezza. Durante la prova, nel reattore 4 si ebbe però una reazione non prevista – forse dovuta a difetti di progettazione – che, sommata ad alcuni errori umani, ne provocò l’esplosione: era l’una e ventitré del 26 aprile e si era appena verificato il più grave incidente nucleare della storia. Il tetto dell’edificio, costruito in cemento armato, fu distrutto e uranio, cemento e grafite, altamente radioattivi, si diffusero ovunque. La grafite, inoltre, reagì con l’aria e si incendiò, provocando fiamme alte un chilometro. I pompieri tentarono di spegnere l’incendio con l’acqua che, a causa delle altissime temperature, si trasformò rapidamente in vapore radioattivo spandendosi nell’atmosfera. I gas più leggeri si alzarono in cielo e si diffusero in tutto l’emisfero settentrionale, dove ricaddero in seguito alle piogge. Nei pressi dell’incidente le radiazioni erano, in quelle prime ore, di un miliardo di volte superiori a quelle normali: solo pochi degli strumenti di rilevazione disponibili erano in grado di misurare radiazioni di questa por-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

tata e, per questo, non se ne valutò l’effettivo valore e si pensò che il reattore fosse ancora intatto. I pompieri, i tecnici e gli ingegneri operanti nel reattore 4 continuarono quindi a lavorare senza protezioni: l’esposizione alle radiazioni portò alla morte alcuni di essi poche settimane dopo. La mattina del 26 aprile giunse al governo sovietico – l’Ucraina era, infatti, allora una repubblica dell’Urss – la notizia di un incendio al reattore e di una generica “leggera fuga radioattiva”, ma la dirigenza sovietica decise di non diffondere subito l’informazione alla popolazione. La mattina di quel giorno, gli abitanti delle zone limitrofe alla centrale andarono tranquillamente a lavorare: solo nel pomeriggio, fu suggerito loro di rimanere in casa, di non bere latte e di assumere le introvabili pasticche di ioduro di potassio per limitare i danni sulla tiroide, l’organo più colpito dalla radioattività. L’incendio fu spento solo il 9 maggio e le emissioni di vapore radioattivo terminarono il giorno successivo. Furono 1057 i soccorritori d’emergenza che, senza protezioni, fermarono l’incendio e lavarono i giganteschi reattori, sottoponendosi ad altissime radiazioni. Per limitare i danni il reattore distrutto fu coperto con un “sarcofago”, un enorme contenitore di cemento. Per costruirlo e per sotterrare il materiale contaminato presente in un raggio di 30 chilometri dalla centrale, nei mesi successivi furono mandate a Černobyl’ circa 600 mila persone, in gran parte militari, da tutta l’Urss: i cosiddetti “liquidatori” la-

voravano alla centrale in turni di massimo un minuto e raccoglievano pezzi di macerie contaminate, gettandoli nella voragine aperta dall’esplosione del reattore 4. Il sarcofago fu ultimato nel novembre 1986, ma le crepe che nel tempo si sono formate lo rendono ancora insicuro. Dal 2006-7 è in costruzione un nuovo sarcofago, ma i lavori proseguono a rilento. L’area in un raggio di 30 chilometri dalla centrale (“zona di alienazione”) fu completamente evacuata a partire dal 27 aprile: tra le 90 mila e le 120 mila persone dovettero lasciare per sempre le proprie case senza poter portare nulla con loro. I 47 mila abitanti della città di Pryp’jat’ che, posta a 3 chilometri dalla centrale, fu la località più colpita dalle radiazioni, furono totalmente evacuati nel pomeriggio del 27, in sole tre ore: da allora Pryp’jat’ è una città fantasma, completamente disabitata. I trasferimenti continuaroLa ruota panoramica del Luna Park abbandonato di Pryp’jat’

Di fronte alla crescente attenzione per le questioni ecologiche, anche i governi avviarono politiche ambientaliste. Nel 1992, in una conferenza organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro, oltre 140 paesi si impegnarono a limitare l’inquinamento atmosferico e a perseguire uno sviluppo economico rispettoso dell’ambiente [►FS, 145d]. I risultati, tuttavia, furono inferiori alle aspettative. Così nel 1997, di fronte alle sempre più evidenti conseguenze del cambiamento climatico, un nuovo vertice internazionale sull’ambiente elaborò un nuovo documento, il Protocollo di Kyoto, che aveva lo scopo di obbligare gli Stati a ridurre le emissioni di anidride carbonica enMETODO DI STUDIO tro un quindicennio [►FS, 146]. Questo programma, che implicava alti costi  a Trascrivi sul tuo quaderno i titoli dei sottopaper l’ammodernamento degli impianti, non fu però condiviso né dalla massiragrafi ed esponine sinteticamente i contenuti. ma potenza industriale del mondo, gli Stati Uniti, né dalle potenze industriali  b  Sottolinea i principali fattori inquinanti emergenti, come la Cina e l’India. All’inizio del XXI secolo, una comune azione dell’ambiente dal ’700 a oggi.  c  Spiega per iscritto il concetto di “sviluppo internazionale per ridurre l’inquinamento e favorire uno “sviluppo sostenibisostenibile” e in cosa consiste il Protocollo di Kyoto. le” incontrava ancora forti difficoltà.

no fino al 1991, coinvolgendo tra le 200 e le 350 mila persone. La contaminazione fu diversa a seconda della zona, del meteo e della direzione dei venti: risparmiò gran parte dell’Ucraina, e colpì invece la Bielorussia, dove il 23% del territorio fu raggiunto dal 70% della caduta radioattiva totale. Le stime sul numero delle vittime del disastro sono molto difformi. Secondo i dati del rapporto del Černobyl’ Forum, un incontro internazionale promosso dall’Onu nel 2005, il bilancio delle vittime dell’incidente è di una sessantina di morti, ma delle 600 mila persone esposte ad alte radiazioni, altre 4000 sarebbero morte in seguito. La conclusione del rapporto affermava anche che nelle zone colpite la popolazione viveva, a quasi 20 anni dall’incidente, “normalmente”. Questo rapporto fu contestato dal Partito verde europeo – che ha parlato di una stima di 30-60 mila morti in tutto il mondo per le radiazioni – e dall’organizzazione ambientalista Greenpeace, che ha proposto la stima di 6 milioni di morti in 70 anni. Centinaia di migliaia di persone, inoltre, si sono ammalate, tra i “liquidatori” e nelle zone raggiunte dai materiali radioattivi, di tumore alla tiroide, che, tuttavia, ha

una mortalità molto bassa. Secondo l’Onu, inoltre, non si sono avuti aumenti apprezzabili nel numero di altri tumori e leucemie, di aborti spontanei e di malformazioni neonatali, che pure inizialmente si erano temuti. Molto forte è stato, invece, l’impatto sociale del disastro nucleare: malattie psichiatriche, povertà e disoccupazione, provocate dai trasferimenti e dalla paura di ammalarsi e morire per le radiazioni subìte. In Urss l’incidente mise in crisi tanto la fede nella scienza e nel progresso tecnologico – veri e propri capisaldi dell’ideologia sovietica – quanto la

già traballante fiducia nel governo, accusato di aver nascosto l’incidente. Nonostante il disastro, la centrale di Černo­ byl’ rimase in funzione fino al dicembre del 2000. Nel resto d’Europa, invece, ci si cominciò a interrogare sull’opportunità di continuare a produrre l’energia nucleare. In Italia, dove già esisteva un forte movimento antinucleare, aumentarono le voci contrarie: nel 1987, si tenne un referendum con cui la maggior parte degli italiani si espresse inequivocabilmente per porre fine alla produzione di energia nucleare.

Un’aula di una scuola di Pryp’jat’ Fondata nel 1970 per ospitare gli operai della ˇ ernobyl’, Pryp’jat’ era una vicina centrale di C città moderna e funzionale con ospedali, centri commerciali, due grandi alberghi, numerosi caffè, cinema, teatro e centri sportivi: i suoi standard erano molto alti rispetto alla media dell’allora Unione Sovietica. Evacuata rapidamente nei giorni successivi all’esplosione del reattore 4, oggi è una città fantasma totalmente disabitata e abbandonata, ma, grazie all’abbassamento dei livelli di radiazioni, è divenuta meta di tour organizzati.

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C16 ANNI DI CAMBIAMENTO



16_3 CRISI DELLE IDEOLOGIE E TERRORISMO

Le trasformazioni economiche e sociali degli anni ’70 si accompagnarono, nelle società industriali dell’Occidente, a un mutamento profondo delle ideologie e della cultura politica. Si può affermare, schematizzando, che negli anni ’60 e nei primi anni ’70 la cultura di sinistra era stata (soprattutto per le generazioni più giovani) la cultura egemone: sia nella versione riformista, che accettava la “società del benessere” e cercava di guidarla verso traguardi di maggiore giustizia sociale; sia nella versione rivoluzionaria, che rifiutava quella società e contestava il riformismo gradualista. Entrambe le versioni, tuttavia, si basavano sul presupposto di un’illimitata capacità espansiva del sistema economico e sulla possibilità di controllare i processi sociali con gli strumenti della politica. A partire dagli anni dello “shock petrolifero”, queste e altre certezze cominciarono a venir meno. La crisi energetica metteva in discussione la prospettiva di uno sviluppo industriale continuo. Le trasformazioni economiche e le nuove tecnologie ridimensionavano il peso numerico e politico della classe operaia.

I mutamenti culturali

Intanto nei paesi comunisti era ormai evidente l’incapacità del modello collettivistico di offrire soluzioni adeguate ai problemi della società contemporanea. L’Unione Sovietica vedeva appannarsi la sua immagine, già macchiata dai fatti di Praga del ’68 [►12_10], sia per le continue denunce da parte degli esuli e dei dissidenti, sia per gli insuccessi in campo economico. Alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale cominciarono a prendere le distanze dall’Urss. Ulteriori delusioni per i militanti di sinistra vennero dagli altri Stati comunisti, come la Cina, Cuba, il Vietnam e la Cambogia, che, considerati all’inizio esempi alternativi all’Unione Sovietica, avevano mostrato ben presto il loro carattere dispotico.

Il declino dei regimi comunisti

Si parlò allora di “grande riflusso”, per indicare la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione politica e sociale: ciò che veniva messo in discussione non era solo la validità di questo o quel programma, ma la stessa capacità delle ideologie – in particolare quelle di sinistra – di interpretare la realtà e porsi come veicoli di trasformazione sociale. La generale caduta della tensione politica finì col lasciare isolate (ma proprio per questo col rendere più esasperate e incontrollabili) le componenti estremiste e violente dei movimenti di contestazione giovanile attivi alla fine degli anni ’60.

Il “grande riflusso”

Si assisté così, in alcuni paesi dell’Europa occidentale, a una drammatica esplosione di terrorismo politico attuato da piccoli gruppi clandestini fortemente militarizzati: le Brigate rosse in Italia [►20_3], la Raf, ossia “Frazione dell’Armata rossa”, attiva in Germania, il gruppo di Action directe in Francia. Queste formazioni agivano per lo più sulla base di parole d’ordine ispirate a una versione estremizzata del marxismo-leninismo e colpivano con gesti “esemplari” (attentati dinamitardi, omicidi, ferimenti, sequestri) quei personaggi o quelle istituzioni che ai loro occhi più si identificavano col sistema da abbattere. Un terrorismo molto diverso da quello – prevalentemente individualistico – degli anarchici di fine ’800, e invece ispirato nel modello organizzativo – e in qualche caso anche collegato – ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo (soprattutto a quello palestinese) o a quelli nati dalle lotte delle minoranze etniche nella stessa Europa (come l’Ira in Irlanda del Nord o i separatisti baschi dell’Eta in Spagna), privo però della base di consenso di cui quei movimenti si giovavano. Poco seguiti dalle masse lavoratrici in nome delle quali affermavano di agire, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 i gruppi terroristici italiani e tedeschi furono sconfitti prima politicamente, nel fallito tentativo di mobilitare la classe operaia, poi sul piano dell’azione repressiva, con l’arresto di buona parte dei loro componenti.

I gruppi terroristici

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Il terrorismo internazionale

Ma il terrorismo come fenomeno internazionale – spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri Stati – non scomparve e si espresse attraverso una serie di azioni sanguinose. La più grave e clamorosa ebbe luogo il 13 maggio

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

► Leggi anche: ► Personaggi Giovanni Paolo II: il papa polacco, p. 878

1981, quando papa Giovanni Paolo II [►21_8] fu gravemente ferito in piazza San Pietro da un terrorista turco, Ali Ağca, affiliato a un gruppo nazionalista di estrema destra, ma sospettato anche di legami con i servizi segreti dell’Europa dell’Est: un episodio oscuro, forse legato alle logiche della guerra fredda. Ma anche un preannuncio di quel terrorismo di matrice fondamentalista islamica che avrebbe insanguinato il mondo nei decenni successivi.

L’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro a Roma 13 maggio 1981

METODO DI STUDIO

 a  Trascrivi sul quaderno i titoli dei sottoparagrafi e le relative parole evidenziate in grassetto. Quindi, spiega il loro significato nel contesto esaminato.  b  Sottolinea le cause della perdita di consenso da parte dell’Urss.  c  Cerchia con colori diversi le tipologie di terrorismo, e sottolinea i relativi scopi e strumenti utilizzati mantenendo gli stessi colori.



16_4 GLI STATI UNITI: DA NIXON A REAGAN

► Leggi anche: ► Personaggi Reagan e Gorbacˇëv, p. 722

Negli anni ’70, gli Stati Uniti attraversarono una delle fasi più difficili della loro storia, a causa dell’instabilità del dollaro, della fallimentare guerra in Vietnam e dei problemi politici interni. Il repubblicano Richard Nixon, eletto per la secon- Manifesto per la campagna elettorale da volta alla presidenza Usa nel 1972, pose fine all’impegno militare in Vietnam di Reagan [►12_10], ma fu travolto nel 1974 da uno scandalo legato alla campagna eletto- Il programma politico che portò Ronald Reagan a vincere le elezioni presidenziali statunitensi fu rale: il caso Watergate, così chiamato dal nome dell’albergo di Washington dove semplice quanto efficace: rilancio del capitalismo del libero mercato, minimi interventi dello Stato in alcuni collaboratori del presidente avevano condotto un’operazione di spionag- eeconomia, un forte sistema di difesa nazionale.«Lo gio ai danni del Partito democratico. Messo sotto accusa da un’efficace campa- Stato non è la soluzione ai nostri problemi, lo Stato è il problema»: queste le parole pronunciate dal gna di stampa, Nixon fu costretto a dimettersi. neopresidente il 20 gennaio 1980, nel discorso di

Il caso Watergate

insediamento alla Casa Bianca.

Il democratico Jimmy Carter, diventato capo dello Stato La presidenza nel ’76, dopo due anni di presidenza del vice di Nixon, il Carter repubblicano Gerald Ford, cercò di promuovere una politica fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo. Questa linea – opposta a quella, tutta improntata al realismo, praticata da Nixon e dal segretario di Stato Henry Kissinger – fu però portata avanti in modo incerto e velleitario: se da un lato contribuì a rendere tesi i rapporti con l’Urss (che vedeva nelle campagne in favore del diritto al dissenso un’intromissione nei suoi affari interni), dall’altro fu criticata perché lasciava spazio all’affermazione di regimi ostili agli Stati Uniti in Africa, in America Latina e in Medio Oriente, in particolare in Iran. Furono proprio le vicende drammatiche della rivoluzione iraniana – culminate nel sequestro di un gruppo di diplomatici e funzionari americani [►19_3] – a dare il colpo definitivo alla popolarità del presidente. Nelle elezioni del 1980, Carter fu nettamente sconfitto da Ronald Reagan, anziano ex attore, esponente dell’ala destra del Partito repubblicano. Reagan si presentò con un programma liberista, basato sulla riduzione delle tasse e della spesa pubblica; promise di adottare in

La vittoria di Reagan

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C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

politica estera una linea più dura nei confronti dell’Urss (da lui definita “l’impero del male”) e di tutti i nemici degli Stati Uniti, incarnando l’orgoglio nazionalista e il desiderio di rivincita di larghi strati dell’opinione pubblica americana. Il successo della presidenza Reagan, che fu confermato con ampio margine nelle elezioni dell’84, si dovette anche al buon andamento dell’economia che, fra l’83 e l’86, riprese a marciare a pieno ritmo grazie soprattutto allo sviluppo dei settori di punta, in particolare quelli legati all’elettronica e alle produzioni militari. La crescita economica degli anni ’80 non fu priva di ombre: alcuni settori industriali – quelli tecnologicamente più “maturi”, legati cioè alle precedenti fasi dello sviluppo industriale, come la siderurgia e la meccanica – conobbero un netto declino e numerose imprese entrarono in crisi perché private di qualsiasi sussidio pubblico. Le disuguaglianze sociali – e le stesse fratture fra i gruppi etnici nelle grandi metropoli – si accentuarono in seguito al taglio delle spese per l’assistenza e per le pensioni. In compenso, però, l’inflazione fu contenuta, la disoccupazione in parte riassorbita, il dollaro tornò a essere la moneta forte dell’economia mondiale nonostante il permanere di un vistoso deficit nel bilancio dello Stato, dovuto alla continua crescita della spesa militare.

La ripresa economica

Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì del resto un elemento essenziale nella strategia di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Stati Uniti sia per mantenere una posizione di forza nel confronto con l’Unione Sovietica, sia per far sentire la presenza americana in tutti i punti caldi del pianeta. Sotto il primo aspetto, va ricordato l’appoggio di Reagan all’Iniziativa di difesa strategica (Sdi), un avveniristico quanto costoso progetto mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale capace di neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica: un progetto criticato sia per la sua problematica realizzabilità, sia perché rischiava di mettere in moto una nuova spirale di spese militari in entrambe le superpotenze. Nel contempo gli Stati Uniti intensificarono la fornitura di armi e materiali ai gruppi armati che combattevano contro i regimi filocomunisti sia in America Latina, come in Nicaragua [►16_9], sia in Afghanistan [►16_5]; e intervennero con azioni punitive contro i paesi accusati di favorire il terrorismo internazionale: clamoroso fu l’attacco aereo lanciato nel marzo-aprile

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Le iniziative internazionali

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Un F-14 Tomcat dell’aviazione militare statunitense decolla da una portaerei al largo delle coste della Libia 15 aprile 1986 Fra le azioni più clamorose del presidente Reagan in politica estera vi fu senz’altro il blitz del 1986 contro la Libia: in risposta a un attentato compiuto il 5 aprile dello stesso anno dai servizi segreti libici in una discoteca di Berlino (molto frequentata da militari americani), in cui morirono 3 persone, gli Usa bombardarono la Libia nella notte tra il 14 e il 15 dello stesso mese, provocando la morte di una ventina di persone. Per ritorsione Gheddafi ordinò il lancio di due missili contro una stazione radio Usa a Lampedusa in territorio italiano, mancando però l’obiettivo. Il 21 dicembre 1988 un aereo passeggeri della compagnia americana Pan Am esplose in volo nei pressi della cittadina scozzese di Lockerbie, provocando la morte di 270 persone. La responsabilità dell’attentato fu attribuita a un agente dei servizi segreti libici dalla sentenza di un tribunale britannico.

1986 contro la Libia di Gheddafi, in risposta a un attentato in cui erano rimasti vittima alcuni militari americani a Berlino. La linea interventista e ostentatamente aggressiva seguita da Reagan – e, dopo la fine del suo secondo mandato nel 1988, dal suo vicepresidente e successore, George Bush – non impedì però l’avvio di un fruttuoso dialogo con l’avversario di sempre: l’Unione Sovietica, dove, a metà degli anni ’80, si stava profilando una nuova e decisiva svolta politica.



METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea con colori diversi i nomi dei presidenti degli Usa e cerchia le parole chiave che si riferiscono alle rispettive azioni politiche mantenendo i colori scelti.  b  Realizza sul tuo quaderno una tabella con i nomi dei presidenti degli Stati Uniti. Quindi inserisci nelle relative colonne le informazioni che riguardano i cambiamenti politici avvenuti sotto i diversi presidenti e gli eventi che hanno contraddistinto i relativi mandati, indicando fra parentesi, per ogni evento, la data di riferimento.  c  Sottolinea sul testo le risposte alle seguenti domande: a. Cosa fu il “caso Watergate”? b. In che cosa consisteva la politica internazionale di Carter? c. Su quali elementi Ronald Reagan costruì la sua popolarità? d. Quale linea strategica seguì Reagan in politica estera?

16_5 L’UNIONE SOVIETICA: DA BREŽNEV

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A GORBACˇËV

► Personaggi Reagan e Gorbacˇëv, p. 722

Tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’80, gli anni del potere incontrastato del segretario del Pcus Leonid Brežnev [►12_10], l’Unione Sovietica vide accentuarsi il declino economico e politico in atto ormai da tempo: un settore agricolo inefficiente, incapace di sopperire al fabbisogno alimentare del paese, costretto per questo a importare ingenti quantitativi di cereali dall’Occidente; un apparato industriale mastodontico e invecchiato, orientato principalmente a obiettivi militari e inadeguato a tenere il passo con la domanda di beni di consumo; una burocrazia invasiva e soffocante, che tentava di controllare ogni aspetto della vita sociale e non consentiva alcun reale spazio di dibattito. Si inasprì, in questo periodo, l’attività repressiva nei confronti degli intellettuali dissidenti, molti dei quali furono confinati in luoghi sperduti o condannati a pene detentive o addirittura internati in cliniche psichiatriche. Alcuni, fra cui il celebre scrittore Aleksandr Solženicyn [►8_7], riuscirono a emigrare in Occidente da dove alimentarono una serrata polemica contro il regime comunista.

Stagnazione e repressione

Nel 1975 l’Urss partecipò, assieme ad altri 35 paesi, alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) e ne sottoscrisse gli accordi finali che garantivano, fra l’altro, il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà politiche fondamentali. Il mancato rispetto di questi accordi avrebbe costituito negli anni successivi un ulteriore motivo di protesta da parte dei dissidenti e un serio ostacolo al dialogo dell’Urss con l’Occidente.

La conferenza di Helsinki

Eppure, proprio in questi anni, l’Urss riuscì a profittare della relativa debolezza degli Stati Uniti per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti e per ampliare la sua sfera di influenza in tutti i continenti: dall’America (Nicaragua) all’Africa (Etiopia, Angola, Mozambico), al Medio Oriente, nonostante lo scacco subìto col passaggio dell’Egitto nel campo filo-occidentale [►19_2]. Col risultato di riacutizzare le tensioni internazionali, in quella che allora fu chiamata “seconda guerra fredda” e che culminò, alla fine degli anni ’70, nella decisione sovietica di installare nuovi missili a media gittata (gli SS 20) puntati verso l’Europa: decisione a cui i membri europei della Nato risposero con lo spiegamento di armi analoghe (gli euromissili) nel loro territorio.

La “seconda guerra fredda”

Un intervento militare pagato a caro prezzo fu quello attuato dall’Urss in Afghanistan, paese situato in posizione strategica nel cuore dell’Asia musulmana fra l’Iran, il Pakistan e la stessa Unione Sovietica, fino ad allora schierato su posizioni di non allineamento. Per imporre nel paese un governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono in Afghanistan, alla fine del 1979, un forte contingente di truppe che si dovette scontrare, per quasi dieci anni, contro l’accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici (sostenuti, oltre che dal Pakistan e dall’Iran, dagli stessi Stati Uniti, che si trovarono così ad armare e a finanziare i propri futu-

L’invasione dell’Afghanistan

719

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

Carri armati sovietici in Afghanistan 1979

ri nemici). Per l’Urss fu un’esperienza amara che – per il suo altissimo costo in vite umane, per le sue ripercussioni psicologiche, e anche per le sue conseguenze di lungo periodo – è stata paragonata all’intervento americano in Vietnam. La svolta, per l’Unione Sovietica e per l’intero mondo comunista, arrivò, inaspettata, a metà degli anni ’80. Nel 1985, dopo la morte di Brežnev (1982) e dopo un breve interregno che vide salire alla guida del partito e dello Stato gli anziani Yuri Andropov e Konstantin Černenko – entrambi deceduti per malattia poco dopo la loro ascesa al vertice –, la segreteria del Pcus fu assunta da Michail Gorbačëv. Più giovane (54 anni) e più dinamico dei suoi predecessori, rappresentante di una generazione che non era stata direttamente coinvolta nello stalinismo, Gorbačëv si mostrò subito deciso a introdurre una serie di radicali novità nella politica sovietica, sia sul piano interno sia su quello internazionale [►FS, 148d].

Gorbacˇëv

In politica economica il nuovo segretario legò il suo nome alla parola d’ordine della perestrojka (ossia “riforma”), proponendo una serie di interventi volti a introdurre nel sistema socialista elementi di economia di mercato. Sul terreno delle istituzioni Gorbačëv si fece promotore, nel 1988, di una nuova Costituzione che, senza intaccare

Riforme e trasparenza

21_LA STRUTTURA DEGLI INVESTIMENTI NEI PIANI QUINQUENNALI IN UNIONE SOVIETICA DAL 1961 AL 1990 (IN PERCENTUALI)

1961-65

1966-70

1971-75

1976-80

1981-85

1986-90

31,7

29,9

30,1

30,7

31,4

31,6

4,8

5,2

4,4

4,3

4,3

4,6

15,2

16,7

19,8

20,0

18,5

17,1

Edilizia industriale

2,6

3,3

3,7

3,9

3,6

4,0

Edilizia abitativa

22,7

17,7

15,8

14,2

15,1

16,4

Trasporti e comunicazioni

10,0

9,5

10,7

11,8

12,4

10,9

Commercio, sanità, istruzione e servizi

13,0

17,7

15,5

15,1

14,7

15,4

Industria di beni capitali e intermedi* Industria di beni di consumo**

720

Agricoltura

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Gli investimenti nella produzione dei beni di consumo restano sostanzialmente stabili, nonostante il modesto aumento della fine degli anni ’60. Questo squilibrio accompagnerà l’Unione Sovietica fino alla sua dissoluzione. * Comprende l’industria militare. ** Essenzialmente tessili, abbigliamento, calzature.

il sistema del partito unico, lasciava spazio a un limitato pluralismo, distinguendo più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito. Le elezioni del Congresso dei soviet tenutesi nel marzo ’89 inaugurarono un sistema di candidature plurime – ma sempre su lista unica – e consentirono l’ingresso nel massimo organo rappresentativo di alcuni esponenti del dissenso, fra i quali il fisico Andrej Sacharov, già perseguitato nel periodo brezneviano. Nel maggio ’90 il Congresso elesse a larghissima maggioranza Gorbačëv presidente dell’Urss. Ancora più importante delle singole riforme – che per lo più si dimostrarono inadeguate e furono regolarmente scavalcate dall’incalzare della crisi dell’intero sistema – fu l’avvio di un processo di liberalizzazione interna condotto all’insegna della glasnost’ (“pubblicità”, “trasparenza”, in senso più ampio “libertà d’espressione”): un processo che consentì lo sviluppo di un dibattito politico-culturale impensabile fino a pochi anni prima. Le riforme economiche e la liberalizzazione interna giovarono indubbiamente all’immagine dell’Urss e del suo nuovo leader, ma evidenziarono e acutizzarono alcune contraddizioni che erano rimaste fino ad allora nascoste nella stagnazione dell’età di Brežnev. I tentativi di riforma dell’economia, innestandosi su una realtà METODO DI STUDIO poco preparata ad accoglierli, perché ormai non più abituata alla logica della com a  Sottolinea con colori diversi le informazioni petizione e dell’efficienza, finirono per suscitare non pochi malumori e per accenrelative alla situazione interna dell’Urss negli anni ’70.  b  Sottolinea con colori diversi i nomi dei segretuare il dissesto di un sistema ormai irrigidito e privo di qualsiasi capacità di adattari del Pcus e cerchia le parole chiave che si riferitamento. L’apertura di nuovi spazi di dibattito politico mise in moto tensioni non scono alle rispettive azioni politiche, mantenendo facilmente controllabili, anche per l’emergere di movimenti autonomisti e indii colori scelti.  c  Spiega per iscritto che cosa si intende con le pendentisti fra le popolazioni non russe già inglobate a forza nell’Urss. Come veseguenti espressioni: a. “seconda guerra fredda”; b. dremo più avanti [►17_4], queste contraddizioni sarebbero esplose nel giro di poperestrojka; c. glasnost’. chi anni, determinando il fallimento del progetto riformista di Gorbačëv [►FS, 152].

Le difficoltà della svolta



16_6 IL DIALOGO USA-URSS

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Conseguenza – e insieme presupposto – delle aperture riformiste di Gorbačëv fu il rilancio del dialogo con l’Occidente, rimasto pressoché congelato negli anni della “seconda guerra fredda”: un rilancio imposto anche dall’incapacità del sistema sovietico di rispondere alla sfida globale lanciata da Reagan e dalla necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori risorse ai consumi individuali. La disponibilità di Gorbačëv al negoziato trovò un interlocutore interessato in un Reagan desideroso di concludere in bellezza il suo secondo mandato presidenziale e di dimostrare al mondo che l’ostentazione di forza di cui era stato

I negoziati sul disarmo

►     Storia, società, cittadinanza Il disarmo ►   Personaggi Reagan e Gorbacˇëv, p. 722

USA E URSS NEGLI ANNI ‘80

GORBACˇËV

REAGAN

Taglio alla spesa pubblica

Liberismo economico

Spese militari

Perestrojka (“riforma”)

Nuova Costituzione

Glasnost’ (“trasparenza”)

Aumento delle disuguaglianze sociali

Ripresa economica e rafforzamento del dollaro

Politica di potenza

Elementi di economia di mercato

Pluralismo politico

Liberalizzazione interna

721

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

LE TAPPE DEL DISARMO

1985

Ginevra Reagan e Gorbacˇëv avviano il dialogo Usa-Urss

1986

Reykjavik

1987

Washington

Riduzione degli armamenti missilistici in Europa

1990

Parigi

I paesi della Nato e del Patto di Varsavia firmano un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali

PERSONAGGI

Reagan e Gorbacˇëv

P

722

robabilmente Michail Gorbačëv, quando, all’inizio degli anni ’60, militava nell’Unione comunista della gioventù e muoveva i primi passi della sua carriera all’interno del Partito comunista sovietico (Pcus), non aveva mai visto in televisione Ronald Reagan, celebre volto di Hollywood impegnato a pubblicizzare una nota marca di detersivi. Quasi trent’anni dopo, questi due uomini, così diversi per storia personale ed esperienze politiche, diventarono i principali protagonisti della fine della “guerra fredda”. Ronald Reagan era nato a Tampico (Illinois) nel 1911, figlio di un modesto commerciante di calzature, irlandese e cattolico, e di una casalinga protestante. Oltre a essere cattolico, Jack Reagan era anche sostenitore del Partito democratico, in una zona dell’America a maggioranza repubblicana. La partecipazione alla campagna elettorale di Roosevelt gli consentì, nonostante le ripercussioni della crisi del ’29, di far terminare gli studi al figlio Ronald, che nel 1932 prese la laurea in Economia. Ronald rimase affascinato dal carisma del presidente Roosevelt e dalla sua capacità di comunicatore. Grazie alle sue qualità oratorie e a un bel timbro di voce, venne assunto da un’emittente radiofonica come commentatore delle partite di baseball dei Chicago Cubs: nel 1937 in California, al se-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

guito della squadra, sostenne alcuni provini e iniziò così la sua carriera di attore. Nel giro di pochi anni comparve in svariati film, certo non memorabili, ma divenne ugualmente molto popolare tra il pubblico americano. Negli anni in cui il giovane Reagan completava i suoi studi, dall’altra parte del mondo, in un villaggio della Russia meridionale, il 2 marzo 1931 veniva alla luce in una famiglia di contadini il suo futuro interlocutore politico, Michail Gorbačëv. Negli anni ’30 sia il nonno che il padre ebbero diversi problemi con l’apparato repressivo staliniano: vittime entrambi di accuse politiche che in seguito si rivelarono infondate, vennero più volte arrestati e additati come “nemici del popolo”, subendo l’ostracismo della comunità locale. Dopo la guerra il giovane Michail cominciò a lavorare insieme al padre come assistente alla trebbiatrice in una fattoria collettiva. Nel 1948 i due Gorbačëv ottennero un raccolto formidabile, grazie al quale si guadagnarono entrambi pubblici riconoscimenti, riabilitando così la reputazione della famiglia: nell’occasione, Michail venne insignito del Vessillo Rosso dell’Ordine del Lavoro, onorificenza della quale rimase orgoglioso anche negli anni successivi. I riconoscimenti sul lavoro, l’alta media scolastica e l’impegno nel Komsomol (l’Unione comunista della gioventù)

facilitarono la sua ammissione alla facoltà di Legge della prestigiosa Università di Stato di Mosca, che riservava alcuni posti ai più meritevoli tra i figli degli operai e dei contadini. Qui conobbe Raisa Titarenko, la sua futura moglie, e trascorse anni importantissimi per la sua formazione culturale. Dopo essersi laureato nel 1955, tornò nella sua città natale, cominciando la carriera politica nel Komsomol e nell’organizzazione generale del Pcus. Nella West Coast americana, intanto, Ronald Reagan, quando non indossava sul set i panni del cowboy, ricopriva il suo primo importante ruolo politico quale presidente del sindacato degli attori: esplosa la “guerra fredda”, la paura del pericolo comunista investì di sospetti il mondo della cultura e dello spettacolo [►12_7], e Reagan si dimostrò da subito un convinto anticomunista. Nel 1948 aveva partecipato attivamente alla campagna elettorale dei democratici a sostegno di Truman, ma nel 1952 fu tra coloro che sostennero il repubblicano Eisenhower. Le sue apparizioni sul grande schermo si fecero sempre più rare e più intenso diventò il suo impegno politico. Dopo la presidenza Kennedy, anche su consiglio della seconda moglie Nancy, Reagan consumò la definitiva frattura con il Partito democratico. Negli anni ’60 iniziò la sua ascesa politica tra le file dei repubblicani: nel 1966 fu scelto come candidato a governatore della California e vinse le elezioni con

protagonista – soprattutto in materia di armamenti – non portava necessariamente allo scontro, ma al contrario poteva costituire la miglior base per una nuova trattativa globale con l’Urss. Due successivi incontri fra Reagan e Gorbačëv (a Ginevra nel novembre ’85 e a Reykjavik nell’ottobre ’86), pur non raggiungendo risultati conclusivi, segnarono la fine di una lunga stagione di incomunicabilità e inaugurarono un clima più disteso nei rapporti Usa-Urss. Un terzo vertice (a Washington nel dicembre ’87) portò a uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti missilistici in Europa: un’intesa che, al di là della sua limitata portata pratica, ebbe un alto valore simbolico, perché per la prima volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari.

Gli incontri Reagan-Gorbacˇëv

Reagan e Gorbacˇëv a Reykjavik, capitale dell’Islanda nell’ottobre 1986 Reagan e Gorbacˇëv si incontrarono ripetutamente per giungere a una riduzione degli arsenali missilistici delle due superpotenze.

larga maggioranza, ricoprendo la carica per due mandati. La crescente popolarità presso l’elettorato conservatore gli permise di sconfiggere, nelle elezioni del novembre 1980, il democratico Carter e diventare il 40° presidente degli Stati Uniti. Intanto in Urss, in quello che Reagan definiva “l’impero del male”, anche Michail Gorbačëv proseguiva la sua ascesa politica, fino a diventare, nel 1985, segretario del Pcus, dimostrandosi un convinto riformatore e avviando un processo di democratizzazione e di liberalizzazione politico-culturale ed economica. In quello stesso anno Reagan era appena stato rieletto presidente, dopo un primo mandato caratterizzato da una spregiudicata politica economica e da un massiccio programma di riarmo che, nelle intenzioni del loro fautore, dovevano porre gli Usa in una posizione di forza in vista di una futura trattativa con l’Urss. Le difficoltà dell’Unione Sovietica, alle prese con un sistema economico ormai al collasso, convinsero infatti Gorbačëv a ridurre le spese militari e a migliorare le relazioni internazionali dell’Urss con l’Occidente. Reagan e Gorbačëv si strinsero la mano per la prima volta a Ginevra nel 1985. Quei due uomini così distanti per formazione ed esperienze, arrivati alla politica percorrendo strade tanto diverse, si sedettero ancora intorno a un tavolo negli anni successivi: a Reykjavik nel 1986, a Washington nel 1987 e a Mosca nel 1988. La “guerra fredda” si avviava alla

conclusione e gli Stati Uniti ne uscivano vincitori: nel 1989 la caduta del Muro di Berlino sancì la fine del blocco comunista [►17_2]. La politica riformatrice di Michail Gorbačëv lo aveva reso popolare, soprattutto all’estero: il leader sovietico si dimostrò tuttavia debole e incerto nel gestire alcuni problemi interni, in particolare quelli relativi all’emergere di aspirazioni nazionali e separatiste in tutto il territorio sovietico. Nel 1991, vittima di un tentativo di colpo di Stato delle forze con-

servatrici, tornò libero per la resistenza popolare e la difesa delle istituzioni guidata dal presidente della Repubblica russa Eltsin. Ma l’Urss era ormai allo sbando e pochi giorni dopo la sua dissoluzione Gorbačëv si dimise: era il 25 dicembre 1991. Ronald Reagan e Michail Gorbac ˇëv durante il loro primo summit a Ginevra 19 novembre 1985 [Ronald Reagan Presidential Library, National Archives and Records Administration, Simi Valley, California]

723

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

Nell’aprile 1988 l’Urss si impegnò a ritirare le sue truppe dall’Afghanistan: nel gennaio 1989 gli ultimi soldati lasciarono il paese. Nel clima determinato dai rivolgimenti politici dell’Europa orientale, nuovi incontri al vertice fra Gorbačëv e il nuovo presidente Usa Bush consentirono di porre le basi per ulteriori accordi sulla riduzione degli armamenti strategici. La rinnovata collaborazione fra le due superpotenze fece nascere molte speranze sulla prospettiva di un nuovo ordine internazionale basato non soltanto sull’“equilibrio del terrore”. Questo nuovo ordine ebbe un inizio di attuazione METODO DI STUDIO quando a Parigi, nel novembre 1990, nell’ambito di una riunione della Conferenza  a  Sottolinea per ogni sottoparagrafo le inforsulla sicurezza e la cooperazione in Europa [►16_5], i paesi della Nato e del Patto mazioni principali (soggetti storici descritti, intenti politici, eventi significativi, ecc.). di Varsavia firmarono un trattato di non aggressione e di riduzione degli arma b  Spiega per iscritto che cosa spinse Gorbacˇëv menti convenzionali. A questo punto era però la stessa idea di un ordine internae Reagan ad avviare dei negoziati sul disarmo, che zionale basato sul condominio fra Usa e Urss a entrare in crisi per l’improvviso cosa fu deciso nel vertice Usa-Urss a Washington nell’87 e nella Conferenza di Parigi del 1990. collasso di uno dei due partner, l’Unione Sovietica [►17_4].

La ricerca di un nuovo ordine internazionale



16_7 MUTAMENTI POLITICI IN EUROPA OCCIDENTALE

Negli anni ’60 e ’70, i paesi dell’Europa occidentale conobbero importanti mutamenti politici. Se in Francia i gruppi legati a De Gaulle mantennero la guida del governo anche dopo l’uscita di scena del generale (che si ritirò nel ’69 e morì l’anno seguente), in Germania occidentale, in Gran Bretagna e, come abbiamo visto, in Italia [►14_7], questa fase coincise con l’entrata al governo dei socialisti, da soli o in coalizione con altri partiti.

I socialisti al governo

Nella Repubblica federale tedesca si aprì una nuova fase politica quando, nel 1966, il partito di maggioranza, l’Unione cristiano-democratica [►12_8], non trovando un accordo con i liberali, diede vita a una grande coalizione con i socialdemocratici guidati dall’ex sindaco di Berlino Ovest Willy Brandt. Nel 1969, i socialdemocratici ruppero la grande coalizione e formarono un governo assieme ai liberali. La stagione dei governi socialdemocratico-liberali – che si sarebbe prolungata per un quindicennio – si caratterizzò soprattutto per una nuova linea di politica estera, volta alla normalizzazione nei rapporti fra la Germania federale e i paesi del blocco comunista, compresa la Germania Est: la cosiddetta Ostpolitik (“politica orientale”). Veniva così riproposta implicitamente, pur senza mettere in discussione la fedeltà all’Alleanza atlantica, la prospettiva di una futura riunificazione fra le due Germanie attraverso un graduale superamento dei blocchi. Furono dunque instaurati rapporti diplomatici coi paesi comunisti, vennero riconosciuti – per mezzo di trattati con la Polonia e con l’Urss – i confini fissati dopo la seconda guerra mondiale e fu avviato il primo scambio ufficiale di contatti con i tedeschi dell’Est.

La Germania federale: grande coalizione e Ostpolitik

Più breve e travagliata fu l’esperienza di governo dei laburisti britannici, tornati al potere con Harold Wilson nel 1964. Trovatosi a gestire una congiuntura economica difficile e costretto quindi ad attuare un’impopolare politica di austerità, il governo Wilson dovette anche fronteggiare il ria­cutizzarsi della mai risolta questione irlandese. Nell’Ulster [►2_4 e 4_12], la minoranza cattolica, la parte più povera della popolazione, diede vita, alla fine degli anni ’60, a una serie di violente agitazioni, in cui la rivendicazione dell’unità irlandese si mescolava alla protesta sociale. Le difficoltà economiche e politiche, insieme all’abbandono di quasi tutto ciò che restava dell’Impero (Malta, Singapore, Aden), ebbero però l’effetto di attenuare la diffidenza della classe dirigente e dell’opinione pubblica nei confronti della 724

La Gran Bretagna e l’adesione alla Cee

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Falò di protesta a Londonderry 1989 [Ulster (Irlanda del Nord)] Negli anni ’60 e ’70 la città di Londonderry fu uno dei principali centri della protesta della minoranza cattolica contro gli inglesi in Irlanda del Nord. Qui, il 30 gennaio 1972, un reparto di paracadutisti britannici sparò su una folla di dimostranti facendo tredici vittime in quella che è ricordata come “la domenica di sangue” (bloody sunday). Da allora, ogni anno i cattolici organizzano un falò per ricordare le vittime dell’occupazione britannica.

Comunità europea. Nel ’67 il governo Wilson, sotto la pressione degli ambienti imprenditoriali, aprì un difficile negoziato che si concluse solo nel gennaio 1973 (dopo che i conservatori erano tornati al potere), con l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee, insieme a Irlanda e Danimarca. Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973 furono, per l’Europa occidentale, anni di serie difficoltà economiche. Tutti i paesi della Cee (con la parziale eccezione della Gran Bretagna che cominciava a sfruttare i giacimenti appena scoperti nel Mare del Nord) furono colpiti dal rincaro del petrolio. E tutti dovettero affrontare i problemi legati al declino di alcuni settori industriali (il minerario e soprattutto il siderurgico) un tempo centrali nell’economia europea. Ne risultarono inasprite le tensioni sociali e accentuate le tentazioni protezionistiche. La crisi mise in difficoltà soprattutto le socialdemocrazie dell’Europa settentrionale. Negli anni ’80, anche nei paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia), i partiti socialisti videro minacciato o interrotto un dominio che durava da oltre un trentennio. In Germania federale l’era dei governi socialdemocratici, guidati prima da Willy Brandt poi da Helmut Schmidt, si concluse nel 1983, con la rottura dell’alleanza coi liberali e con l’ascesa al governo del cristiano-democratico Helmut Kohl, futuro protagonista della riunificazione tedesca.

Le difficoltà dei governi socialisti

La partita più importante si giocò in Gran Bretagna, dove i laburisti furono nettamente sconfitti dai conservatori nelle elezioni del 1979. Il governo di Margaret Thatcher, presentatosi su una piattaforma di intransigente liberismo, lanciò un duro attacco contro il potere dei sindacati, mise in discussione i fondamenti e la stessa filosofia del Welfare State (senza però toccarne le prestazioni fondamentali in materia di pensioni e di assistenza medica) e privatizzò settori chiave dell’industria pubblica, dalle ferrovie ai trasporti locali, dall’elettricità alle telecomunicazioni. Questa linea fu premiata dagli elettori, che per due volte confermarono la maggioranza ai conservatori, sia nell’83 – grazie anche alla vittoria nella guerra delle Falkland [►16_9] – sia nelle successive elezioni dell’87. Nel 1990, però, dopo ben undici anni di ininterrotta presenza al governo, la “lady di ferro” (così venne chiamata Margaret Thatcher) entrò in contrasto col suo stesso partito, che non approvava alcune impopolari misure fiscali decise dal primo ministro e non condivideva la sua ostinata resistenza ai progetti di integrazione europea: dovette così lasciare la guida dell’esecutivo a un altro conservatore, John Major.

Il governo Thatcher in Gran Bretagna

Mentre perdevano terreno nelle tradizionali roccheforti dell’Europa del Nord, i partiti socialisti si affermavano nell’area mediterranea. In Francia l’Unione delle sinistre, che già aveva sfiorato il successo nel ’74, si impose nelle elezioni dell’81, portando alla presidenza il socialista François Mitterrand. Partita fra grandi entusiasmi, con ambiziosi programmi di nazionalizzazioni, riforme sociali e aumenti salariali, l’esperienza dell’Unione delle sinistre finì in parte col deludere le attese dei suoi METODO DI STUDIO sostenitori. Le difficoltà dell’economia indussero i socialisti ad accantonare i  a   Cerchia le date presenti nel testo e segna a progetti di riforma più ambiziosi e ad adottare una serie di misure restrittive: margine del paragrafo gli eventi corrispondenti. il che contribuì a provocare la rottura con un Partito comunista schierato su  b   Esponi sinteticamente per iscritto i seguenti posizioni di intransigenza (ma in forte calo elettorale). La rottura non impedì argomenti: a. la Ostpolitik; b. la linea politica di Margaret Thatcher; c. la politica francese al tempo a Mitterrand di ottenere nell’88 il suo secondo mandato presidenziale, né al di Mitterrand. Partito socialista di governare per oltre un decennio.

La vittoria di Mitterrand in Francia



16_8 LE NUOVE DEMOCRAZIE NELL’EUROPA MERIDIONALE

All’inizio degli anni ’80, governi a guida socialista si affermarono anche nelle nuove democrazie dell’Europa meridionale, dove Portogallo, Grecia e Spagna, nel corso del decennio precedente, avevano affrontato rapidi e quasi simultanei processi di fuoriuscita da regimi autoritari.

725

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

In Portogallo, il regime sopravvisse per pochi anni alla morte, nel 1970, del dittatore Salazar [►6_8]: con un incruento colpo di Stato, nel 1974 il potere fu assunto da un gruppo di ufficiali di sinistra appoggiati dal Partito comunista, che contestavano la costosa guerra coloniale contro i movimenti indipendentisti dell’Angola e del Mozambico [►13_9]. Dopo una difficile transizione durata due anni, i militari cedettero il posto ai civili e il paese fu restituito a un normale regime parlamentare e pluripartitico. Fu varata una Costituzione democratica e, nel ’76, si tennero le elezioni, vinte dai socialisti di Mario Soares, che da allora si alternarono al governo con i gruppi moderati di centro-destra.

La fine del salazarismo in Portogallo

Molto diversa fu la vicenda della Grecia. Qui erano stati i militari di destra, nel 1967, a rovesciare con un colpo di Stato il regime liberale vigente dalla fine della guerra, attuando poi una durissima repressione ai danni dell’opposizione democratica. A porre fine alla dittatura dei colonnelli fu, nel 1974, l’esito disastroso di un colpo di mano mirante a ottenere l’annessione alla Grecia dell’isola di Cipro, da sempre divisa fra una comunità greca e una turca. La Turchia, militarmente più forte, reagì occupando una parte dell’isola (che da allora sarebbe rimasta politicamente divisa in due). Travolti dall’insuccesso, i militari dovettero lasciare il potere ai partiti democratici: la Nuova democrazia di Konstantinos Karamanlis, espressione della destra moderata, e il Partito separatismo basco socialista di Andreas Papandreu, che da allora si alternarono per molti anni al I baschi sono una popolazione con propri caratteri etnici e linguistici che abita l’estremità nord-occidentale della governo. Sempre nel 1974 un referendum popolare aveva sancito la fine della regione dei Pirenei, a cavallo tra Spagna e Francia: monarchia, peraltro già estromessa di fatto dalla dittatura dei colonnelli. area in parte coincidente con l’antico Regno di Navarra,

La caduta dei colonnelli in Grecia

La monarchia svolse invece un ruolo importante nella tranIl ritorno sizione alla democrazia in Spagna. Il re Juan Carlos di alla democrazia Borbone, insediato nel 1975 dopo la morte del generale in Spagna Franco su un trono vacante dal 1931, come erede designato del dittatore, seppe guidare verso la democrazia un paese che, fin dagli anni ’60, aveva conosciuto un rapido sviluppo economico e che non si riconosceva più nelle strutture del regime clericale e autoritario. Il re chiamò alla guida del

indipendente fino all’inizio del XVI secolo. Le aspirazioni autonomiste del popolo basco, represse dalla dittatura franchista, furono in parte riconosciute dalla Spagna democratica, ma questo non bastò a fermare la protesta dei gruppi indipendentisti più radicali riuniti nell’Eta (Euskadi Ta Askatasuna, in lingua basca “paese basco e libertà”), autori di una lunga serie di attentati terroristici protrattisi fino al 2011, quando il movimento annunciò la fine della lotta armata.

726

L’incoronazione di Juan Carlos di Borbone 22 novembre 1975 Il re è in piedi a sinistra, di profilo, e indossa la divisa, al centro la regina Sofia.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

governo Adolfo Suárez, un giovane uomo politico cresciuto nelle file del franchismo ma convinto della necessità di un radicale rinnovamento. Furono legalizzati i partiti e i sindacati liberi e fu approvata per referendum, nel ’78, una costituzione democratica. Nonostante l’intensificarsi delle azioni terroristiche dei separatisti baschi, la democrazia spagnola si consolidò rapidamente e sopportò senza scosse il cambio di potere verificatosi nell’82 con la vittoria elettorale dei socialisti di Felipe González.



METODO DI STUDIO

 a  Per ciascuno Stato trattato evidenzia gli orientamenti politici (economici e sociali) e cerchia i nomi dei personaggi di rilievo.  b  Cerchia le date presenti nel testo e segna a margine del paragrafo gli eventi corrispondenti.

16_9 L’AMERICA LATINA E LA FINE DELLE DITTATURE

A partire dall’inizio degli anni ’80, la democrazia rappresentativa, per lungo tempo quasi cancellata nel Sud e nel Centro America, ricominciò a guadagnare posizioni, grazie anche al complessivo fallimento delle dittature militari e dei regimi populisti [►13_11]. La prima dittatura a cadere, a causa di un gravissimo scacco militare, fu quella instaurata in Argentina dai generali. Nel 1982, anche per distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni, il governo procedette all’occupazione delle isole Malvine (o Falkland), situate a qualche centinaio di chilometri dalla costa atlantica e tenute da secoli dalla Gran Bretagna. Ma il governo britannico, allora retto da Margaret Thatcher [►16_7], reagì inviando navi, aerei e truppe. Dopo poche settimane di combattimenti, gli argentini furono ricacciati dall’arcipelago, la cui esigua popolazione (poche migliaia di abitanti) era peraltro rimasta fedele alla Corona britannica. Investiti da un’ondata di impopolarità, i generali furono costretti a farsi da parte e a convocare, nel 1983, libere elezioni che furono vinte dal radicale Raúl Alfonsín.

L’Argentina e la guerra delle Falkland

In questo stesso periodo, anche negli altri paesi sudamericani, si assisté al rientro più o meno spontaneo dei militari nelle caserme e al conseguente ritorno a una sia pur precaria vita democratica. In Brasile, dove già negli anni ’70 i militari avevano allentato le maglie della dittatura, le prime libere elezioni presidenziali si tennero nel 1985. Fra il 1984 e il 1985 si ebbero libere consultazioni in Perù, Uruguay e Bolivia. Nel 1988, in Cile, il regime di Pinochet – già costretto dalle pressioni internazionali ad aprire alcuni spazi di limitato pluralismo – fu sconfitto in un referendum indetto dallo stesso dittatore; e le elezioni presidenziali del dicembre ’89 videro la vittoria del candidato delle opposizioni, il democristiano Patricio Aylwin. Nel 1989 fu rovesciata anche la dittatura del generale Stroessner, al potere in Paraguay da quasi mezzo secolo.

La fine delle dittature militari

Il consolidamento della democrazia trovava però ancora numerosi e gravissimi ostacoli, anche di natura economica. In Argentina le conseguenze di un’inflazione inarrestabile logorarono l’esperimento di Alfonsín e determinarono, nelle elezioni del 1989, la sconfitta dei radicali e l’affermazione del candidato peronista Carlos Meném. Anche in Brasile l’inflazione fece da sfondo a una seria crisi istituzionale, che vide il presidente Fernando Collor de Mello, eletto nel 1989, messo sotto accusa per corruzione e costretto a dimettersi alla fine del ’92. In Perù, dove un movimento di guerriglia di ispirazione maoista (Sendero luminoso) si era reso protagonista di una serie di azioni sanguinose, fu lo stesso presidente Alberto Fujimori a farsi promotore, sempre nel ’92, di un colpo di Stato incruento, sospendendo la costituzione ed esautorando il Parlamento. In Colombia la minaccia più grave era costituita dall’attività dei grandi trafficanti di droga, che esportavano sui mercati statunitensi ed europei la cocaina ricavata dalle foglie della coca, prodotta oltre che in Colombia, anche in Perù e in Bolivia. Grazie agli enormi profitti realizzati, e al fatto che la coltivazione della coca rappresentava la principale risorsa di intere regioni poverissime, i narcotrafficanti potevano condizionare, con la corruzione e con la violenza, l’operato dei poteri locali e degli stessi governi di molti paesi: non solo la Colombia e altri Stati del Sud e del Centro America, ma anche il Messico, dove grandi cartelli criminali gestivano il passaggio della droga verso gli Stati Uniti.

I fattori di destabilizzazione

727

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

Ancora più complessa e travagliata, dal punto di vista politico, era la situazione dei piccoli Stati dell’America centrale, dove la fine delle ultime dittature personali (Somoza in Nicaragua nel ’79, Duvalier a Haiti nell’86) non si tradusse in una stabile affermazione della democrazia; e dove fragili regimi formalmente liberal-democratici (come quelli di Honduras, Salvador, Guatemala, Santo Domingo) erano perennemente soggetti al rischio di scivolare nella dittatura militare e nel contempo dovevano subire gli attacchi della guerriglia di estrema sinistra. Un ulteriore fattore di tensione nell’area centroamericana fu costituito, negli anni ’80, dagli avvenimenti del Nicaragua, dove un gruppo rivoluzionario di sinistra, il movimento sandinista (chiamato così da Sandino, eroe nazionale e protagonista della lotta anti-imperialista negli anni ’20 del ’900), prese il potere nel 1979. Gli Stati Uniti, che avevano a lungo appoggiato Somoza, non intervennero per impedirne la caduta. Ma quando il nuovo regime accentuò i suoi tratti “socialisti” in politica interna e internazionale, si creò una forte tensione, sfociata, durante la presidenza Reagan, nell’appoggio degli Usa ai movimenti armati antisandinisti (i contras). So- Seguaci del Fronte di liberazione sandinista Nicaragua il Fronte di liberazione sandinista guidò l’insurrezione armata lo nel 1989 si giunse a una tregua, in seguito alla quale i In contro il regime del presidente Somoza. Nel luglio 1979, Somoza lasciò contras sospesero la guerriglia in cambio della promessa del il potere e a Managua si stabilì una “giunta di ricostruzione nazionale”, controllata dai sandinisti. governo di convocare libere elezioni: elezioni che si tennero nel febbraio ’90 e furono vinte dal fronte delle opposizioni antisandiniste. La sconfitta dei sandinisti in Nicaragua accentuava l’isolamento di Cuba, dove il regime di Fidel Castro era messo in seria difficoltà dal collasso dell’Urss, che lo privava del suo principale tutore e partner economico.

La rivoluzione sandinista in Nicaragua

Mentre il quadro politico dell’America Latina degli anni ’80, nonostante le difficoltà e le contraddizioni, fu caratterizzato da una generale tendenza alla stabilizzazione democratica, il quadro economico si presentava più complesso e contraddittorio. Quasi tutti i paesi latino-americani furono in questo periodo travagliati dall’inflazione, con tassi di aumento dei prezzi a volte vertiginosi, e dovetMETODO DI STUDIO tero contemporaneamente far fronte a un pesantissimo ca a   Cerchia gli Stati coinvolti nell’occupazione delle Falkland e sottolinea con rico di debiti con l’estero: debiti contratti per finanziare amcolori diversi le motivazioni e gli esiti degli eventi.  b   Esponi sinteticamente per iscritto i seguenti argomenti: a. la caduta delle biziosi programmi di sviluppo e cresciuti negli anni al punto dittature latino-americane alla fine degli anni ’80; b. le forze sociali e politiche che da assorbire spesso, con l’onere dei soli interessi, l’intero si scontrarono nei paesi centro e sudamericani; c. i sandinisti e i contras. valore delle esportazioni.

Inflazione e crisi finanziaria

16_10 NUOVI CONFLITTI NELL’ASIA COMUNISTA Nell’età della decolonizzazione, la vittoriosa guerriglia dei popoli dell’Indocina, prima per l’indipendenza dalla Francia poi contro la presenza americana nel Sud-Est asiatico, aveva rappresentato un punto di riferimento, quasi un mito positivo, per i rivoluzionari di tutto il mondo e per buona parte della sinistra occidentale. Tanto più amara fu la delusione dell’opinione pubblica progressista di fronte alle vicende che seguirono la presa del potere da parte dei comunisti in Vietnam, Cambogia e Laos [►12_10].

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La dittatura comunista in Vietnam

Dopo la conquista, nel 1975, di Saigon, ribattezzata “città Ho Chi-minh”, i nordvietnamiti ignorarono tutte le promesse di autodeterminazione e di riconciliazione fra le due metà del paese, attuando una politica di annessione del Sud da parte

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Una stanza di detenzione e tortura nella prigione di sicurezza di Tuol Sleng (S-21), in Cambogia [Museo del Genocidio di Tuol Sleng, Phnom Penh, Cambogia] Il regime comunista dei khmer rossi fu responsabile di spaventosi eccidi. La prigione di Tuol Sleng, oggi trasformata in un museo inserito dall’Unesco nell’Elenco delle Memorie del mondo, faceva parte di un vasto sistema di prigioni in cui intellettuali e oppositori venivano incarcerati, torturati, obbligati a confessare crimini mai commessi e infine barbaramente uccisi. È stato stimato che, fra il 1975 e il 1979, nella sola Tuol Sleng furono detenute circa 17 mila persone e di queste solo 12 sopravvissero alle torture subite in carcere.

del Nord e di sistematica emarginazione, non solo dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della guerriglia contro l’occupazione americana. L’economia fu interamente collettivizzata. Nella primavera del 1978, la numerosa comunità di origine cinese – formata in gran parte da commercianti – fu improvvisamente espropriata dei suoi averi. Centinaia di migliaia di persone abbandonarono il paese, per lo più su piccole imbarcazioni, e molti persero la vita durante la fuga. Ancora più tragiche furono le vicende della vicina Cambogia, dove i guerriglieri comunisti, i khmer rossi, sotto la guida del loro capo, Pol Pot, misero in atto, fra il ’76 e il ’78, uno dei più radicali e sanguinari esperimenti di rivoluzione sociale mai tentati nella storia. Nell’intento di cancellare ogni traccia della vecchia società e di costruirne una nuova partendo da zero, i comunisti cambogiani consumarono uno spaventoso massacro, non solo eliminando fisicamente coloro che avevano servito sotto il regime precedente, ma provocando anche la morte per fame e per stenti di circa un milione e mezzo di comuni cittadini (su una popolazione di nemmeno sette milioni), costretti da un giorno all’altro a evacuare le città e a trasferirsi nelle campagne in omaggio all’utopia di uno spietato comunismo agrario. Il denaro fu abolito. Templi buddisti, biblioteche e istituzioni di ogni genere furono materialmente distrutti in quanto testimonianza di un passato da cancellare.

La Cambogia di Pol Pot

Geloso della propria indipendenza, e appoggiato dalla Cina, il regime di Pol Pot costituiva però un ostacolo per i piani del Vietnam, che intendeva ridurre l’intera Indocina sotto la sua influenza (e lo stava già facendo col Laos). Nel dicembre 1978, 200 mila soldati vietnamiti, assieme a gruppi di esuli cambogiani, invadevano il paese e vi installavano un governo “amico” rovesciando quello dei ­khmer rossi, i quali, col sostegno della Cina, avrebbero continuato per parecchi anni a dar vita a un’ostinata guerriglia. Poche settimane dopo (febbraio ’79), i cinesi effettuarono METODO DI STUDIO una spedizione punitiva nel Vietnam del Nord, infliggendo notevoli danni al  a  Sottolinea le caratteristiche politiche del Viepae­se, senza però raggiungere lo scopo di costringere il governo vietnamita a ritnam e della Cambogia. tirare le truppe di occupazione dalla Cambogia.  b  Riassumi oralmente il progetto economico e Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell’Onu, le forze vietnamite cominciaculturale di Pol Pot in Cambogia.  c  Spiega per iscritto perché Cina, Vietnam e rono a ritirarsi. E solo nel ’91 si giunse a un accordo fra tutte le fazioni in lotta, Cambogia, pur se governati da regimi comunisti, che avrebbe portato, due anni dopo, alla restaurazione della monarchia e alla entrarono in conflitto tra loro. convocazione di libere elezioni.

L’invasione vietnamita della Cambogia e l’intervento cinese

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C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

16_11 LA CINA DOPO MAO Dopo la morte di Mao Zedong, nel 1976, si aprì nella Cina comunista un processo di revisione interna – ideologica, economica e politica – simile per alcuni aspetti a quello avviato in Urss dopo la morte di Stalin, ma con esiti assai più radicali. Artefice principale della “demaoizzazione” fu Deng Xiaoping, anziano esponente del gruppo dirigente storico del comunismo cinese, emarginato ai tempi della rivoluzione culturale. Riabilitato e reinserito nei vertici del partito per iniziativa del primo ministro Chou En-lai [►12_11], Deng emerse progressivamente come il vero leader del paese e condusse la lotta contro gli ultimi eredi politici della rivoluzione culturale (la cosiddetta banda dei quattro, guidata dalla vedova di Mao, Jiang Qing), prima di assumere ufficialmente, nel 1981, la guida del partito e dello Stato.

L’ascesa di Deng Xiaoping e la “demaoizzazione”

Nel giro di pochi anni, Deng Xiaoping capovolse la linea rigorosamente collettivista ed egualitaria di Mao Zedong, la cui figura peraltro non fu mai messa in discussione, e promosse una serie di profonde modifiche nella gestione dell’economia: furono reintrodotte le differenze salariali e aumentati gli incentivi per i lavoratori; la direzione delle aziende fu ricondotta a criteri di efficienza; fu incoraggiata l’importazione di tecnologia dai paesi più sviluppati; i contadini ebbero la possibilità di coltivare i propri fondi e di venderne i prodotti sul mercato libero; in generale, furono introdotti nel sistema elementi di economia di mercato. Una trasformazione profonda, che provocò notevoli mutamenti nella stratificazione sociale, nella mentalità e nel costume: come nell’Urss ai tempi della Nep [►5_7], si formarono nuovi strati privilegiati di manager, piccoli imprenditori agricoli, tecnici e commercianti, mentre si affermavano, soprattutto fra le generazioni più giovani, modelli di vita di tipo “consumistico”.

Le riforme economiche

Proprio il contrasto fra una modernizzazione economica per molti aspetti traumatica (e non priva di costi sociali, in termini di disoccupazione e di migrazioni interne) e il mantenimento della struttura burocratico-autoritaria del potere fu all’origine, alla fine degli anni ’80, di un vasto e spontaneo fenomeno di contestazione. Protagonisti della protesta – cui certo non era estranea l’eco dei processi riformatori in atto nell’Urss di Gorbačëv – furono gli studenti dell’Università di Pechino, che diedero vita, nella primavera dell’89, a una serie di imponenti e pacifiche manifestazioni di piazza per chiedere più libertà e più democrazia. Dopo qualche vano tentativo di dialogo, il gruppo dirigente comunista, preoccupato anche per l’estendersi delle manifestazioni ad altre città della Cina, rispose con una brutale repressione militare e con l’epurazione dei vertici del partito. Nel giugno 1989, l’intervento dell’esercito contro i manifestanti riuniti in Piazza

Contestazione e repressione

730

Uno studente contro i carri armati in piazza Tienanmen, Pechino giugno 1989 Questa famosa fotografia, che ritrae uno studente solo e inerme di fronte ai carri armati, è diventata il simbolo tanto dello “spirito di Tienanmen” quanto di quel mondo globale che l’ha riprodotta in milioni di copie su giornali, libri, su Internet, in tv.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Tienanmen, la più grande piazza della capitale, si risolse in un massacro, che suscitò reazioni sdegnate in tutto il mondo democratico. La protesta, però, influì solo marginalmente nei rapporti commerciali fra la Cina e l’Occidente: troppo forte era l’interesse dei paesi industrializzati nei confronti di un mercato potenzialmente enorme e di un’economia che, già nel decennio ’80-90, conobbe una fase di intenso sviluppo. Il regime cinese sarebbe riuscito così a sopravvivere al grande ciclone che avrebbe investito l’intero mondo comunista alla fine degli anni ’80. E il paese più popoloso del mondo sarebbe diventato il teatro di un inedito esperimento di rilancio dell’economia di mercato all’interno di un regime autoritario che continuava a proclamarsi comunista e in cui il partito unico deteneva il monopolio del potere politico.

Autoritarismo e mercato

METODO DI STUDIO

 a Cerchia il nome del fautore delle riforme economiche in Cina negli anni ’80 e sottolinea con colori diversi le misure adottate e i cambiamenti subentrati nella società.  b Spiega per iscritto contro chi e per quali ragioni protestarono gli studenti a piazza Tienanmen nel 1989, come fu accolta la loro protesta dal governo cinese e quali furono le ripercussioni internazionali agli eventi che ne seguirono.

16_12 IL GIAPPONE: SUCCESSI ECONOMICI E DEBOLEZZA POLITICA Fra i numerosi “miracoli economici” del secondo dopoguerra, quello del Giappone – protagonista già negli ultimi decenni dell’800 di un’esperienza di modernizzazione unica nel suo genere – fu certamente il più straordinario [►12_6]. Paese da sempre povero di materie prime e con una densità di abitanti fra le maggiori del mondo – nel 1980 la popolazione sfiorava i 120 milioni, su una superficie di poco superiore a quella dell’Italia –, uscito dalla guerra in condizioni disastrose, il Giappone era diventato, già negli anni ’60, la terza potenza economica del mondo dopo Usa e Urss. All’inizio degli anni ’80, il suo prodotto nazionale superava quello sovietico (facendo di quella giapponese la seconda economia mondiale), la sua industria conquistava i mercati di tutto il mondo e la sua potenza finanziaria preoccupava gli stessi Stati Uniti.

Uno sviluppo eccezionale

La crisi petrolifera del 1973 colpì il Giappone più di altri paesi industriali e provocò la prima brusca caduta della produzione. La crisi fu superata abbastanza rapidamente e negli anni ’80 il tasso di sviluppo, pur molto rallentato rispetto al ventennio precedente, fu sempre circa il doppio di quello medio dei paesi occidentali. Ma sul piano politico la tradizionale stabilità del paese fu messa a dura prova, a partire dalla fine degli anni ’80, da una serie di scandali finanziari che investirono il Partito liberal-democratico e lo portarono a perdere, nelle elezioni del 1992, la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento.

Gli effetti della crisi petrolifera

Alle incognite derivanti dalla mutata situazione politica si aggiungevano quelle derivanti dall’anomala posizione internazionale del paese, saldamente inserito nella sfera di influenza degli Usa e protetto dal loro “ombrello” nucleare, ma privo – anche per le disposizioni contenute nella costituzioMETODO DI STUDIO ne imposta dai vincitori [►12_6] – di una adeguata forza militare propria. Il  a   Evidenzia le caratteristiche che rendevano il Giappone degli anni ’80 una potenza mondiale. Giappone, che fino ad allora aveva potuto concentrare le sue risorse sulla ricerca  b   Sottolinea la forza politica che ha governato scientifica e sullo sviluppo industriale, vedeva crescere le pressioni da parte dei il Giappone tra gli anni ’80 e gli anni ’90. suoi alleati per un maggior contributo alle spese per la propria difesa e per le at c    Quale impegno viene richiesto al Giappone dalla comunità internazionale? Sottolinea la risposta tività delle Nazioni Unite: premessa per l’assunzione di nuove responsabilità in nel testo. una comunità internazionale non più bloccata dalla competizione bipolare.

Forza economica e debolezza militare

731

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

SINTESI ricerca puntò su uno sviluppo economico “sostenibile” anche in termini ambientali.

16_1 LA FINE DELL’“ETÀ DELL’ORO”: LA CRISI PETROLIFERA L’aumento del prezzo del petrolio nel ’73 (che si inseriva in una fase di instabilità monetaria internazionale inaugurata nel ’71 dalla decisione degli Usa di sospendere la convertibilità del dollaro) generò una crisi economica internazionale di vaste proporzioni. La condizione di particolare debolezza degli apparati industriali dei paesi dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dalle importazioni di petrolio, fu accentuata dalla crescita del costo del lavoro che si era verificata nel corso degli anni precedenti. A differenza delle crisi del passato, la stagnazione economica si sommava a un elevato tasso di inflazione (stagflazione).

16_3 CRISI DELLE IDEOLOGIE E TERRORISMO Mutamenti politici, economici e culturali segnarono gli anni ’70 e ’80 del XX secolo. Mentre in Occidente la crisi petrolifera innescava una crisi che avrebbe spinto i governi ad adottare politiche di riduzione della spesa sociale, l’Urss e i paesi comunisti mostravano tutti i limiti dei loro sistemi economici e inasprivano la repressione del dissenso. Nei paesi occidentali si manifestò così, già nei tardi anni ’70, una crisi delle ideologie di sinistra, sia riformiste sia rivoluzionarie, e la tendenza all’abbandono dell’impegno politico per un ritorno al privato o ai valori tradizionali (il cosiddetto “grande riflusso”). Nello stesso periodo esplose il fenomeno del terrorismo politico.

16_2 I PROBLEMI DELL’AMBIENTE

732

La crisi petrolifera pose le società industrializzate di fronte al problema del carattere limitato ed esauribile delle risorse naturali del pianeta. Si diffusero i movimenti ambientalisti (o verdi), attenti alle tematiche dell’ecologia, mentre i governi adottarono politiche di risparmio energetico e promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di energia: non solo il nucleare, ma anche energie pulite come quella solare e quella eolica. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, l’emergenza ambientale sembrò ridimensionarsi e la

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

ed economico degli Stati Uniti nei confronti dell’Urss e in generale sullo scacchiere internazionale. Tale politica determinò, sul piano interno, una crescita economica, ma anche l’accentuarsi delle disuguaglianze sociali e la crisi di alcuni settori industriali.

16_4 GLI STATI UNITI: DA NIXON A REAGAN Dopo un periodo di incertezza politica ed economica, gli Stati Uniti inaugurarono, con la presidenza di Reagan (1980-88) – e poi con il suo successore Bush –, un nuovo corso basato sulla scelta liberista in economia e sul taglio delle spese sociali; furono, invece, aumentate le spese militari e le iniziative in politica estera tese a far valere il peso militare, politico

16_5 L’UNIONE SOVIETICA: DA BREŽNEV A GORBACˇËV Negli ultimi anni dell’età di Brežnev, l’Urss vide accentuarsi, sul piano interno, il suo declino economico e politico, mentre, in politica estera, accentuò la sua aggressività per allargare la sua sfera di influenza in tutti i continenti in competizione con gli Usa, dando avvio a quella che fu definita una “seconda guerra fredda”. Particolarmente costoso, anche da un punto di vista umano, fu il fallimentare intervento militare in Afghanistan iniziato nel ’79. Con l’avvento di Gorbačëv (1985) fu avviata una radicale svolta sia in politica estera sia in politica interna, con aperture alla economia di mercato e al pluralismo e maggior libertà di informazione. Ma i tentativi di riformare l’economia in una società ormai lontana dalle logiche del mercato ne accentuarono il dissesto, mentre l’apertura del dibattito politico mise in moto nuove tensioni e fece emergere movimenti autonomisti e indipendentisti. Tali contraddizioni sarebbero presto esplose determinando il fallimento del progetto riformista di Gorbačëv.

16_6 IL DIALOGO USA-URSS In seguito a una serie di incontri fra i leader sovietici e statunitensi, si instaurò, dopo l’85, un nuovo clima di distensione internazionale che consentì alcuni accordi fra le superpotenze sulla limitazione degli armamenti e influì positivamente anche sulle prospettive di soluzione dei conflitti locali. Le basi di quello che doveva essere il nuovo ordine internazionale furono gettate a Parigi, nel novembre 1990, con un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali sottoscritto dai paesi di entrambi i blocchi.

16_7 MUTAMENTI POLITICI IN EUROPA OCCIDENTALE In Germania Ovest a fine anni ’60 si inaugurò la stagione dei governi socialdemocratico-liberali che si sarebbe prolungata per un quindicennio e si caratterizzò per una nuova e coraggiosa linea di politica estera, volta alla normalizzazione dei rapporti con i paesi del blocco comunista e soprattutto con la Germania Est (Ostpolitik). In Gran Bretagna, entrata nel ’73 nella Cee dopo lunghe trattative condotte dai governi laburisti, a fine anni ’70 salirono al potere i conservatori: il nuovo primo ministro Thatcher inaugurò una politica economica liberista intransigente, mettendo in discussione i fondamenti e la stessa filosofia del Welfare State

e privatizzando settori importanti dell’industria pubblica. In Francia, l’Unione delle sinistre, che già aveva sfiorato il successo nel ’74, si impose nelle elezioni dell’81, portando alla presidenza il socialista François Mitterrand.

16_8 LE NUOVE DEMOCRAZIE NELL’EUROPA MERIDIONALE A metà anni ’70, Portogallo, Grecia e Spagna furono protagonisti di rapidi e quasi simultanei processi di fuoriuscita da regimi autoritari. In Portogallo, dopo la morte del dittatore Salazar (1970), un incruento colpo di Stato, nel 1974, portò al potere un gruppo di ufficiali di sinistra, che dopo due anni restituirono il paese a un regime parlamentare e pluripartitico. In Grecia, nel 1974, la dittatura dei colonnelli fu travolta dall’insuccesso militare contro la Turchia a Cipro: fu ristabilita la normale dialettica partitica, mentre un referendum popolare sanciva la fine della monarchia. In Spagna, invece, fu il re Juan

Carlos di Borbone, insediatosi nel 1975 dopo la morte del generale Franco, a guidare il paese verso la democrazia: furono legalizzati i partiti e approvata una costituzione democratica.

16_9 L’AMERICA LATINA E LA FINE DELLE DITTATURE A partire dall’inizio degli anni ’80 in America Latina la caduta delle dittature diede di nuovo spazio alle democrazie. In Argentina la dittatura dei generali cadde dopo l’occupazione argentina delle isole Malvine (o Falkland, 1982), liberate in poche settimane dalle truppe britanniche. Anche in Brasile, Perù, Uruguay e Bolivia si ebbero, fra il 1984 e il 1985, libere consultazioni. Nel 1988 fu sconfitto da un referendum il dittatore cileno Pinochet. Ovunque però il consolidamento della democrazia trovò gravissimi ostacoli economici: i maggiori problemi erano l’inflazione e gli ingentissimi debiti con l’estero.

16_10 NUOVI CONFLITTI NELL’ASIA COMUNISTA Il Sud-Est asiatico, dopo la partenza degli americani, vide l’esplodere di conflitti fra i paesi comunisti. Nel ’78, la Cambogia, teatro del sanguinario regime di Pol Pot e dei khmer rossi, fu invasa dal Vietnam che vi installò un governo “amico”, nell’intento di estendere il proprio controllo a tutta l’Indocina. Solo nel 1988, con la mediazione dell’Onu, le forze vietnamite cominciarono a ritirarsi dalla Cambogia, e nel ’91 si giunse a un accordo fra tutte le fazioni in lotta, che avrebbe portato, due anni dopo, alla restaurazione della monarchia e alla convocazione di libere elezioni.

16_11 LA CINA DOPO MAO In Cina l’ascesa di Deng Xiaoping portò a un processo di riforme interne e liberalizzazione economica

che diede buoni risultati in termini di sviluppo produttivo, ma non si accompagnò alla democratizzazione. Il contrasto fra modernizzazione economica e struttura burocratico-autoritaria del potere fu all’origine, alla fine degli anni ’80, di un movimento di contestazione animato dagli studenti dell’Università di Pechino e brutalmente represso militarmente, fino al culmine del massacro di Piazza Tienanmen nel giugno 1989.

16_12 IL GIAPPONE: SUCCESSI ECONOMICI E DEBOLEZZA POLITICA Il Giappone, già protagonista nel secondo dopoguerra di un “miracolo economico”, subì gli effetti della crisi petrolifera che provocò una caduta della produzione. Già negli anni ’80 il tasso di sviluppo era tornato a crescere e il paese si affermava come la seconda potenza industriale e finanziaria del mondo. La ridotta spesa militare imposta nel dopoguerra dagli Usa, se da un lato aveva consentito maggiori investimenti produttivi, dall’altro non permetteva al Giappone di assumere un ruolo in campo internazionale adeguato alla sua forza economica.

733

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Associa i nomi dei personaggi storici alle relative caratteristiche o azioni politiche.

a. Richard Nixon b. Ronald Reagan c. Michail Gorbacˇëv d. Leonid Brežnev

1. Fu segretario del Pcus e adottò la cosiddetta perestrojka. 2. Ex attore, esponente dell’ala destra del Partito repubblicano, si presentò con un programma economico fortemente liberista. 3. Fu segretario del Pcus e durante il suo governo si inasprì l’attività repressiva nei confronti degli intellettuali dissidenti. 4. Nel 1990 fu eletto con ampio margine presidente dell’Urss. 5. Pose fine all’impegno militare in Vietnam. 6. Avviò un processo di liberalizzazione interna ispirato ai princìpi della glasnost’. 7. Definì l’Urss “l’impero del male” e attuò una politica di crescita delle spese militari e dell’intervento armato americano. 8. Fu travolto nel 1974 dal Watergate, uno scandalo legato alla campagna elettorale.

2 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

a. Gli “euromissili” furono costruiti da molti paesi della Nato durante la “seconda guerra fredda”. ................................................................................................................................................................................. b. Le aperture riformiste di Gorbacˇëv furono mal viste dal presidente degli Stati Uniti Reagan. ................................................................................................................................................................................. c. In Gran Bretagna, Margaret Thatcher guidò un governo conservatore che adottò una linea statalista. ................................................................................................................................................................................. d. All’inizio degli anni ’80, in Portogallo, in Grecia, e in Spagna si insediarono governi a guida socialista. ................................................................................................................................................................................. e. La perestrojka fu il programma politico dell’opposizione anticomunista in Unione Sovietica. ................................................................................................................................................................................. f. Il regime dei colonnelli in Grecia si concluse in seguito al fallimento del tentativo di annessione dell’isola di Cipro. ................................................................................................................................................................................. g. Pur sconfitti nella guerra delle Falkland, i militari argentini aumentarono il loro consenso popolare. ................................................................................................................................................................................. h. Dopo il massacro di piazza Tienanmen, la Cina chiuse per sempre i suoi mercati e la sua produzione agli investitori stranieri. .................................................................................................................................................................................

V

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V

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V

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V

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3 Completa lo schema sulla Cina dopo la morte di Mao inserendo le espressioni di seguito fornite.

a. il mantenimento di una struttura burocratico-autoritaria del potere; b. modernizzazione economica; c. fenomeni di contestazione; d. repressione militare ed epurazione degli elementi riformisti dai vertici del partito; e. la reintroduzione di elementi di libero mercato; f. affermazione di nuovi ceti privilegiati; g. problemi sociali; h. massacro di Piazza Tienanmen; i. diffusione di modelli di tipo “consumistico”. Economia e società in Cina sotto la guida politica di Deng Xiaoping

.........

portò

b

portò

......... fine anni ’80

causarono .........

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a

.........

c

.........

Per esempio ..........

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

4 Associa le parole o le espressioni di seguito fornite alle relative definizioni.

a. Il “grande riflusso” b. Perestrojka c. Glasnost’ d. Ostpolitik

1. Nuova linea di politica estera portata avanti dai socialdemocratici nella Germania federale e incentrata sull’Est. 2. Politica riformatrice adottata da Gorbacˇëv in campo economico che introdusse nel sistema socialista elementi di economia di mercato. 3. Attività riformatrice adottata da Gorbacˇëv fondata sulla trasparenza e sulla libertà d’espressione che consentì lo sviluppo di un dibattito politico e culturale nel paese. 4. Momento di crisi delle ideologie di sinistra e fine di una stagione caratterizzata da un diffuso impegno politico.

5 Completa la cronologia relativa ad alcuni fra gli eventi principali della storia mondiale dal 1973 al 1989.

America

Europa occidentale

1973

Shock .............................................. Shock .............................................. ....................................................... .......................................................

1974

In Portogallo ..................................... In Grecia ..................................... ......

1975

Alla morte di Franco ........................... .......................................................

Europa orientale

Shock .............................................. .......................................................

Vittoria in Vietnam ............................. .......................................................

1976

Pol Pot ............................................. In Cina .............................................

1979

I sandinisti ........................................ Margaret Thatcher .............................. ....................................................... .......................................................

1980

Elezione di ........................................

1981 1982

In Afghanistan ................................... ....................................................... Sindacato indipendente in Polonia

Papa Giovanni Paolo II ........................ ....................................................... Guerra delle Falkland .......................... .......................................................

1985 1988

Asia

Michail Gorbacˇëv ............................... ....................................................... Negli Usa ......................................... .......................................................

1989

Caduta del Muro di Berlino In Cina ............................................. .......................................................

COMPETENZE IN AZIONE 6 Inserisci nei due insiemi alla pagina seguente i termini elencati distinguendo quelli che si riferiscono alle cause e quelli

che si riferiscono agli effetti della fine dell’“età dell’oro”. Quindi, realizza sul quaderno una didascalia a commento di non meno di 8 righe utilizzando i termini in oggetto e argomentando le relazioni esistenti fra di loro.

1. Interruzione della convertibilità del dollaro in oro 2. Disoccupazione 3. Aumento del prezzo del petrolio 4. Stagflazione 5. Instabilità monetaria 6. Shock petrolifero 7. Crisi del Welfare State

735

C16 ANNI DI CAMBIAMENTO

LA FINE DELL’“ETÀ DELL’ORO” CAUSE

EFFETTI

7 Leggi le frasi seguenti. Ognuna di esse si lega ad un’altra attraverso un nesso di causa o effetto. Scopri la relazione

che le unisce formando, sul quaderno, 5 coppie di frasi e commenta poi il legame in un testo di 3 righe per ognuna.

a. Aprile 1988: l’Urss si impegna a ritirare le sue truppe dall’Afghanistan. b. Riprendono forza le teorie liberiste e il monetarismo. c. Nei paesi occidentali dilaga lo “shock petrolifero”. d. In alcuni paesi dell’Europa occidentale esplode il terrorismo politico. e. Incontro di Ginevra: novembre 1985. f. I costi del Welfare crescono e anche le critiche verso lo Stato assistenziale. g. La crisi delle ideologie, soprattutto quella comunista, porta a una generale diminuzione della tensione politica. h. La prospettiva di uno sviluppo industriale continuo è in crisi. i. Gennaio 1989: le ultime truppe sovietiche lasciano l’Afghanistan. l. Incontro di Reykjavik: ottobre 1986. 8 Rispondi ai quesiti sul quaderno, impiegando il numero di righe indicato tra parentesi.

736

a. Cosa successe in Vietnam dopo la conquista di Saigon? (6 righe) b. Cosa contraddistinse la salita al potere di Pol Pot e il suo governo in Cambogia? (6 righe) c. Come cambiò la Cina con l’avvento al potere di Deng Xiaoping? (10 righe) d. In cosa consisteva l’anomala posizione internazionale del Giappone? (8 righe)

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

E

A

XTR

CAP17 LA CADUTA DEI COMUNISMI IN EUROPA

17_1 UN IMPERO IN CRISI

► Leggi anche:

Nell’ultimo decennio del ’900, l’equilibrio internazionale basato sul bipolarismo Usa-Urss si ruppe definitivamente, a causa del cedimento repentino di uno dei pilastri su cui si fondava. Abbiamo visto come, già a partire dagli anni ’70, l’immagine dell’Unione Sovietica – e in generale del sistema comunista come alternativa globale al capitalismo – avesse subìto un inesorabile declino [►16_3]. Eppure, in Occidente pochi immaginavano che il declino potesse in tempi brevi trasformarsi in crisi irreversibile [►FS, 149]. Se la crisi si verificò, ciò fu dovuto in primo luogo alla sconfitta dell’Urss nella competizione con l’Occidente sul terreno dello sviluppo, del benessere economico e della stessa giustizia sociale: insomma, nel raggiungimento di quegli obiettivi che avrebbero dovuto giustificare la privazione delle libertà politiche e dei diritti civili. A fronte di questo insuccesso, l’impegno politico-militare della leadership sovietica (la presenza in Africa, i missili puntati contro l’Europa, infine la disastrosa spedizione in Afghanistan) si rivelava sempre più chiaramente come la manifestazione di un nuovo e aggressivo im­perialismo. Ma il fattore che più di ogni altro rese la crisi irreversibile fu l’oggettiva impossibilità di riformare un sistema che si era fino ad allora tenuto in piedi grazie al suo carattere “chiuso” e soprattutto al potere deterrente dell’apparato repressivo e della forza militare. Nel momento in cui il riformismo di Gorbačëv [►16_5] aprì le prime brecce nel sistema, cercando di introdurvi dosi controllate di pluralismo e rinunciando all’uso della forza nei confronti dei paesi satelliti, l’intera costruzione crollò. E crollarono nel contempo gli equilibri internazionali nati dalla seconda guerra mondiale.

Il collasso dell’Urss

E

O

N LI N

Il Libro F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo Storia, società, cittadinanza Il disarmo Storia e Geografia Berlino e il suo Muro Focus Il dissenso nei paesi dell’Est Audiosintesi

► Personaggi Giovanni Paolo II: il papa polacco, p. 878 ► Fare Storia Il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda, p. 821

Lech Wałe˛sa parla ai portuali di Danzica 1980

Gli effetti del nuovo atteggiamento dell’Urss si fecero sentire in tutta l’Europa orientale. Ma a profittarne per prima, e in misura più rilevante, fu la Polonia, che quei mutamenti aveva in parte anticipato. Già fra il 1980 e il 1981 era infatti nato e si era sviluppato con grande rapidità un sindacato indipendente a forte base operaia, e di dichiarata ispirazione cattolica, chiamato Solidarność (“solidarietà”), guidato da un leader diventato subito popolarissimo, Lech Wałęsa. Paese compattamente cattolico, la Polonia era sempre stata, fra le “democrazie popolari” dell’Est, la più refrattaria all’imposizione del modello comunista. E il clero aveva svolto, pur fra molte difficoltà, una funzione di salvaguardia dell’identità nazionale e di riferimento per le correnti di opposizione. Questa funzione risultò rafforzata con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1978, del polacco Karol Wojtyła col nome di Giovanni

La Polonia e la nascita di Solidarnos´c´

737

C17 LA CADUTA DEI COMUNISMI IN EUROPA

Paolo II: si spiega così anche l’iniziale tolleranza manifestata dalle autorità comuniste nei confronti del sindacato indipendente e degli imponenti scioperi da esso organizzati nelle principali aree industriali, in particolare nei cantieri di Danzica. La tolleranza aveva tuttavia dei limiti invalicabili. Nell’estate del 1981 un generale, Wojciech Jaruzelski, assunse la guida del governo e del Poup, il Partito operaio polacco (l’equivalente del Partito comunista). Di fronte al ruolo politico crescente di Solidarnosc, nel dicembre dello stesso anno, anche per prevenire la concreta minaccia di un intervento dell’Urss, Jaruzelski assunse i pieni poteri (si parlò di “autogolpe”) e mise fuori legge Solidarnosc, i cui maggiori dirigenti furono arrestati. In seguito, tuttavia, lo stesso Jaruzelski allentò le misure repressive e cercò di riallacciare il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente, che continuava a operare in semiclandestinità e il cui ruolo fu ulteriormente rafforzato da due successive visite del papa in Polonia (1983 e 1987). Dopo la svolta di Gorbačëv in Unione Sovietica, il dialogo si intensificò, fino all’apertura, all’inizio dell’89, di un tavolo ufficiale di negoziato. Ne uscì, in aprile, un accordo su una riforma costituzionale che prevedeva lo svolgimento di libere elezioni, le prime in un paese comunista. Le elezioni si tennero nel giugno dell’89 e videro la schiacciante vittoria di Solidarnosc, aprendo la strada alla nascita di un governo di coalizione (con i comunisti agli Interni e alla Difesa) presieduto da un uomo vicino al sindacato indipendente, l’economista cattolico Tadeusz Mazowiecki. Jaruzelski restò alla presidenza della Repubblica, da cui si dimise un anno dopo, quando ormai il fragile compromesso dell’89 era stato travolto dalla generale ondata di democratizzazione che aveva investito l’Europa dell’Est.

Dal golpe alle elezioni libere

Gli avvenimenti polacchi diedero avvio a una reazione a catena che, nel giro di pochi mesi, fra il 1989 e il 1990, avrebbe messo in crisi l’intero sistema delle “democrazie popolari”. Il primo paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme fu l’Ungheria dove, all’inizio dell’89, era stato deposto il vecMETODO DI STUDIO chio Kádár [►12_7], protagonista della repressione del ’56, ma anche del succes a  Sottolinea i fattori che trasformarono il declino del blocco sovietico in un vero e proprio collasso. sivo trentennio di relativo benessere e di timida liberalizzazione. Sempre nell’89,  b  Spiega per iscritto cosa era Solidarnos´´c e quai nuovi dirigenti comunisti, decisi a spingere il processo riformatore fino alle ultile ruolo ebbe nella politica polacca negli anni e ’80. me conseguenze, riabilitarono solennemente i protagonisti della rivolta del ’56,  c Evidenzia l’esito delle elezioni politiche del legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni per l’anno successivo. Ma la de1989 in Polonia.  d  Sottolinea le decisioni prese dai nuovi diricisione più importante e più gravida di conseguenze fu la rimozione, decisa in genti comunisti e, fra queste, evidenzia quella che agosto, dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l’Auera destinata ad avere maggiori effetti sull’intera stria: per la prima volta si apriva una breccia nella “cortina di ferro” che da quasi Europa e sui suoi abitanti. mezzo secolo impediva la libera circolazione delle persone fra le due Europe.

Le riforme in Ungheria



17_2 IL CROLLO DEL MURO DI BERLINO E LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA

Naturalmente non furono solo gli ungheresi a profittare dell’opportunità offerta dall’apertura dei loro confini. A partire dall’estate dell’89, decine di migliaia di cittadini della Germania comunista (la Ddr) abbandonarono il loro paese per raggiungere la Repubblica federale attraverso l’Ungheria e l’Austria. La fuga in massa, accompagnata da imponenti manifestazioni nelle principali città tedesco-orientali, mise in crisi il regime comunista, costringendo alle dimissioni il segretario del partito Erich Honecker. I nuovi dirigenti, con l’avallo di Gorbačëv, avviarono un processo di riforme interne e quindi liberalizzarono la concessione dei visti d’uscita dal paese e dei permessi di espatrio.

La crisi della Germania comunista

Anche in questo caso il processo, una volta messo in moto, si rivelò incontrollabile. La sera del 9 novembre 1989, dopo che un portavoce del governo tedesco-orientale aveva annunciato il ripristino della libera circolazione fra le due metà di Berlino, divise 738

La caduta del Muro

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

► Leggi anche: ►     Storia e Geografia Berlino e il suo Muro ► Eventi 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, p. 740

La folla entusiasta riunita alla Porta di Brandeburgo 9 novembre 1989, Berlino

a partire dal 1961 da un muro di separazione [►12_9], un numero crescente di berlinesi si riversò nei varchi aperti, li oltrepassò e infine, in un’atmosfera di festa e di riconciliazione, cominciò a smantellare materialmente il muro (che di lì a poco sarebbe stato quasi completamente abbattuto) e a portarne i pezzi a casa come ricordo [►FS, 150d]. Il crollo del muro, che coincise con l’apertura dei confini fra le due Germanie, rappresentò simbolicamente la fine della guerra fredda e della divisione in due dell’Europa ed ebbe come immediata conseguenza il rilancio della questione dell’unità tedesca, fino ad allora impossibile da affrontare per l’opposizione dell’Urss. Ancora una volta gli eventi si consumarono in tempi più rapidi del previsto. Nel marzo 1990 si tennero libere elezioni nella Germania dell’Est: risultarono puniti non solo gli ex comunisti, ma anche i socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra, che si erano mostrati esitanti di fronte alla prospettiva di un’immediata unificazione nel segno dell’economia di mercato e della democrazia liberale. La vittoria andò così ai cristiano-democratici che, in pieno accordo con i loro compagni di partito allora al governo nella Germania Ovest, accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statale, la Ddr, ormai privata di ogni legittimità e svuotata di qualsiasi funzione storica.

Le elezioni in Germania Est

In questa situazione si inserì con grande efficacia l’azione del governo guidato da Helmut Kohl [►16_7], che riuscì a preparare in pochi mesi un’operazione tecnicamente e politicamente complessa come la riunificazione del paese e a fare accettare anche all’Urss la nuova realtà di una Germania unita e integrata nell’Alleanza atlantica. In maggio i due governi tedeschi firmarono un trattato per l’unificazione economica e monetaria. Il 3 ottobre 1990, dopo che il leader sovietico Gorbačëv aveva dato il suo assenso all’operazione e dopo che la Polonia era stata tranquillizzata da una solenne dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi circa l’inviolabilità delle frontiere uscite dal secondo conflitto mondiale, entrò in vigore il trattato di unificazione politica, accettato dalle ex potenze occupanti, compresa l’Urss. Si trattava in realtà di un assorbimento dell’ormai dissolta Repubblica democratica nelle strutture istituzionali della Repubblica federale.

La riunificazione

739

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

METODO DI STUDIO

Non fu varata una nuova Costituzione e non vi fu bisogno di una nuova moneta: ai tedeschi orientali fu consentito di convertire la loro valuta in marchi a un tasso di cambio molto favorevole. Fu una decisione costosa per la Repubblica federale, come faticosa sarebbe stata l’integrazione delle aree orientali e delle loro industrie tecnologicamente arretrate nella ben più dinamica economia dell’Ovest [►FS, 151]. L’operazione comunque riuscì: nei due decenni successivi alla riunificazione, il divario fra le due parti del paese si sarebbe progressivamente ridotto. Dopo oltre un quarantennio di divisione, la Germania tornava a essere uno Stato unitario, il più forte economicamente e politicamente dell’intero continente europeo.

 a  Cerchia la data del crollo del Muro di Berlino e sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze dirette di questo evento.  b Individua e trascrivi in un elenco puntato sul quaderno i passaggi che portarono alla riunificazione della Germania.  c  Cerchia la data in cui fu siglato il trattato di unificazione politica della Germania e sottolineane i risvolti economici e politici sulla nuova entità statale.

EVENTI

9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino

E

740

retto nel 1961 dal governo della Germania orientale (Ddr), per contenere l’imponente flusso di esuli che abbandonavano il paese in cerca di migliori condizioni di vita, il Muro, lungo 165 chilometri, tagliava internamente la città e circondava esternamente Berlino Ovest, la parte occidentale che costituiva un’enclave (cioè un territorio situato entro i confini di uno Stato di cui non fa parte) nel settore orientale. Sette varchi stradali e una stazione ferroviaria consentivano il transito da una zona all’altra; tre vie di comunicazione mantenevano collegata Berlino Ovest con il resto della Repubblica federale. Struttura complessa e più volte perfezionata, il Muro era composto da due barriere, una rivolta ad Est e una a Ovest, ed era dotato di un imponente apparato di sicurezza (filo spinato, torrette di guardia, sentinelle). Fra il 1961 e il 1989 aveva diviso senza alcun riguardo Berlino e la vita dei suoi abitanti, recidendo legami affettivi, familiari, lavorativi. Circa 200 persone erano morte nel disperato tentativo di oltrepassarlo. Per descrivere gli eventi del 9 novembre1989, occorre tener presente un intreccio straordinario di fattori, locali e mondiali, di emozioni collettive e decisioni politiche, di contingenze e processi di lungo corso. Dobbiamo tornare indietro di qualche mese, quando, il 23 agosto 1989, l’Ungheria, accettando le riforme, aprì anche la frontiera con l’Austria, innescando un effetto domino non previsto. I tedeschi orientali si riversarono nel paese per raggiungere l’Austria e poi la Repubblica federale (Brd). A settembre, quando furono aperte le frontiere anche per chi era privo di visto, in migliaia lasciarono i campi profughi dove erano provvisoriamente ospitati in attesa dell’espatrio. Alla fine del mese, circa 25 mila tedeschi orientali riuscirono a raggiungere così la Germania occidentale, mentre altri affollavano le ambasciate della Brd di Pra-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

ga, Varsavia e Budapest, invocando il diritto d’asilo. Sotto la spinta di chi abbandonava il paese si rafforzò la protesta di chi sceglieva di restare e lottare contro la Sed (il Partito socialista unificato, di fatto il Partito comunista che governava la Ddr). Fra settembre e ottobre vennero fondati diversi movimenti per i diritti civili (Neues Forum, “Nuovo Forum”; Demokratie Jetzt, “Democrazia ora”; Demokratischer Aufbruch, “Risveglio democratico”). I manifestanti, raccolti attorno allo slogan «Wir sind das Volk», «Noi siamo il popolo», chiedevano riforme che accordassero libertà e pluralismo nell’informazione, libertà di movimento ed elezioni trasparenti con voto segreto. Le prime manifestazioni furono quelle di Lipsia: da settembre, ogni lunedì, i cortei partivano dalla chiesa lutera-

na di San Nicola per sfilare pacificamente nel centro della città. La protesta si diffuse anche a Halle, Dresda, Rostock. Nel paese c’era un fermento nuovo, di cui si accorse anche Gorbačëv, in visita a Berlino Est per il quarantennale della fondazione della Ddr, il 7 ottobre. Il leader, che aveva impresso un corso riformatore all’Urss (poco apprezzato dalla dirigenza tedesco-orientale), fu accolto entusiasticamente dalle piazze, che gridavano «Gorby, libertà! Gorby, resta qui!». Gorbačëv trovò Honecker, segretario generale della Sed, del tutto inadeguato a fronteggiare gli eventi, e lo ammonì con una formula ormai celebre: «Chi arriva tardi, la storia lo punisce». Lunedì 9 ottobre, a Lipsia, erano in 70 mila a scendere in piazza. La polizia era schierata, ma alla fine il governo rinunciò all’uso della forza. Una svolta, determinata dal carattere pacifico delle manifestazioni, ma soprattutto dalla politica di Gorbačëv, che imponeva di non intromettersi nelle vicende interne dei paesi

La rivoluzione pacifica: cade il Muro di Berlino novembre 1989



17_3 LA FINE DELLE “DEMOCRAZIE POPOLARI”

L’abbattimento della cortina di ferro provocò la caduta, quasi in contemporanea, La caduta dei regimi di tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale. In Cecoslovacchia, nel novemcomunisti bre 1989, una serie di imponenti manifestazioni popolari, che videro tornare sulla scena Dubček e gli altri protagonisti della “primavera di Praga” [►12_10], costrinse alle dimissioni il gruppo dirigente comunista legato alla “normalizzazione” del dopo ’68. In dicembre il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore Václav Havel, un democratico già perseguitato dal

del Patto di Varsavia, negando la possibilità di un intervento militare a sostegno di quei regimi. Fra le proteste e l’esodo di massa, senza la protezione dell’Urss, Honecker, al potere dal 1971, fu costretto a dimettersi. Il successore, Egon Krenz, annunciò un piano di riforme, ma la credibilità del partito era sempre più scarsa ed era troppo tardi per arginare la crisi. Il 4 novembre a Berlino i manifestanti raggiunsero il mezzo milione. Uno degli striscioni più eloquenti diceva solo «1789-1989», con riferimento al bicentenario della Rivoluzione francese. «Il governo dà un dito e il popolo chiede la mano, il governo dà la mano e il popolo chiede il braccio»: così Tocqueville, due secoli prima, aveva descritto una situazione rivoluzionaria, molto simile a quella che la Ddr stava vivendo in quell’autunno. Il governo fu costretto a permettere i viaggi in Cecoslovacchia senza bisogno del passaporto. Fra il 3 e il 5 novembre in 10 mila ne approfittarono per raggiungere da qui la Brd. Il Muro, che poteva essere aggirato, aveva ormai perso la sua funzione originaria di contenimento per la popolazione dell’Est.

Il potere era sempre più allo sbando. La sera del 9 novembre, in conferenza stampa, fu chiesto da un giornalista al portavoce del governo, Günter Schabowski, quando sarebbe divenuta effettiva l’apertura dei varchi di confine, annunciata quella stessa mattina. Schabowski, che non conosceva i dettagli della disposizione, dichiarò che i varchi sarebbero stati aperti immediatamente. La conferenza stampa era trasmessa in diretta: la notizia si diffuse velocemente. Le autorità non avevano immaginato l’impulso emotivo, la corsa di migliaia di berlinesi, che scesero in strada, si avvicinarono al confine increduli, lo oltrepassarono. Le guardie di frontiera erano sorprese, non avevano ordini precisi. Inizialmente timbrarono il passaporto di chi usciva dalla Ddr, un timbro che significava un’uscita definitiva, finché il flusso di persone non aumentò tanto che i passaporti non vennero più timbrati né controllati. In poche ore più di 5000 berlinesi attraversarono il confine, alcuni per la prima volta, molti solo per dare un’occhiata e poi tornare a casa. Anche i berlinesi dell’Ovest scesero in stra-

► Leggi anche: ►     Focus Il dissenso nei paesi dell’Est

da, si mossero in direzione inversa, loro che a Berlino Est potevano andare massimo dieci volte l’anno, a prezzo di interminabili controlli. Quello che avvenne fu un incontro collettivo. Le cabine telefoniche a ridosso del confine si affollarono, tutti avevano qualcuno da contattare dall’altra parte della città, le bottiglie di spumante passavano di mano in mano, mentre davanti alla Porta di Brandeburgo, dalla parte Ovest, in molti cominciavano a scalare il Muro e arrampicarvisi. Il Muro cadde così, senza che nessuno l’avesse decretato con chiarezza, in una notte di festa, in cui i tedeschi divennero il popolo più felice della Terra, come disse Walter Momper, borgomastro di Berlino Ovest. «Il muro non c’è più», questo il titolo dei giornali il giorno seguente: era stato spazzato via da una “rivoluzione pacifica”, come fu definita dagli stessi tedeschi. Non si poteva più tornare indietro. In un insolito clima di trasgressione di massa, che regnò anche nel week­end seguente, i berlinesi suonavano il clacson all’impazzata, ballavano per le strade, prendevano la metro senza biglietto, abbracciavano gli sconosciuti. Berlino sembrava tornare ad essere quella metropoli, crocevia fra Est e Ovest, che era stata prima del nazismo. Fra le rovine del Muro, smantellato prima spontaneamente dai cittadini tedesco-orientali, poi sistematicamente dalle stesse guardie di confine, rimase travolto anche il governo, e poi la stessa Ddr. In poche settimane un nuovo slogan fu scandito nelle piazze: da «Wir sind das Volk» si passò a «Wir sind ein Volk», «Noi siamo un popolo». Il crollo del Muro aveva innescato una reazione inaspettata, che culminò nella riunificazione della Germania, aggiungendo un altro tassello al quadro di un’Europa e di un mondo che fra l’89 e il ’91 mutarono davvero significativamente. Un poliziotto della Ddr controlla il transito di rientro verso Berlino Est dopo l’apertura del Muro 14 novembre 1989 [foto del Dipartimento della Difesa Usa]

741

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

L’insurrezione scoppia a Bucarest 22 dicembre 1989 [foto di David Turnley]

regime comunista. Il passaggio di potere si realizzò senza spargimento di sangue, tanto che si parlò di “rivoluzione di velluto”. Così come complessivamente pacifico fu il processo di democratizzazione nella maggior parte delle ex democrazie popolari: oltre che in Polonia, dove le elezioni presidenziali del 1990 portarono alla guida dello Stato lo storico leader di Solidarnosc Lech Wałęsa [►17_1], i regimi comunisti caddero in Ungheria, in Bulgaria e, poco più tardi, in Albania, ultima roccaforte dell’ortodossia marxista-leninista in Europa. Fece eccezione in questo quadro la Romania, dove la dittatura personale di Nicolae Ceauşescu fu travolta, nel dicembre ’89, da un’insurrezione popolare. Dopo un sanguinoso tentativo di repressione, Ceauşescu fu catturato e messo a morte insieme con la moglie il 25 dicembre. Un caso ancora diverso fu, come vedremo, quello della Jugoslavia, dove, già dal 1980 (data della morte di Tito), si era aperta una grave crisi economica e istituzionale e si erano fatti più difficili i rapporti fra i diversi gruppi etnici [►17_5]. Passata l’euforia per la libertà riconquistata, i paesi ex satelliti dell’Urss dovettero affrontare i problemi legati alla riconversione dell’apparato produttivo in funzione del mercato, con la chiusura di molte imprese di Stato e la conseguente crescita della disoccupazione. Con la caduta dei vecchi regimi vennero inoltre a mancare quelle certezze che, per decenni, avevano garantito stabilità e sicurezza sociale, pur nel quadro di economie arretrate e stagnanti. Sul piano politico, il ritorno alla democrazia portò con sé l’immediata proliferazione di forze politiche, vecchie e più spesso nuove, come il Forum democratico in Ungheria e il Forum civico in Cecoslovacchia. I gruppi dirigenti di formazione comunista, che quasi ovunque avevano gestito la fuoriuscita dal vecchio sistema, furono per lo più sconfitti nelle METODO DI STUDIO prime elezioni libere, ma in alcuni casi (Polonia, Romania, Ungheria) ritornaro a  Sottolinea con colori diversi le modalità che no successivamente al potere sotto nuove denominazioni (da cui scomparve decretarono la fine delle “democrazie popolari” e ovunque l’aggettivo “comunista”, spesso rimpiazzato da “socialdemocratico”). Lo cerchia i nomi degli Stati corrispondenti mantestesso Wałęsa fu sconfitto, nelle elezioni presidenziali del 1995 in Polonia, dall’ex nendo gli stessi colori.  b  Sintetizza per iscritto i problemi economici ministro Aleksander Kwaśniewski. Le istituzioni democratiche non furono coe politici che i paesi ex satelliti dell’Urss dovettero munque rimesse in discussione, nonostante le asprezze e le turbolenze che affrontare. spesso caratterizzarono la lotta politica. 742

Una difficile transizione

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI



17_4 LA DISSOLUZIONE DELL’URSS

Nel giro di nemmeno due anni, l’Unione Sovietica aveva perso il suo “impero esterno”, ossia quella cintura protettiva di paesi satelliti che Stalin aveva imposto all’Europa orientale dopo la vittoria in guerra. Negli anni successivi presero vigore anche le spinte centrifughe interne all’Unione, che subì, come vedremo fra poco, una progressiva disgregazione. Nel 1990 la stessa Repubblica russa – la più grande e la più popolosa dell’Unione, guida e centro motore dell’intero sistema sovietico – rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse alla propria presidenza il riformista radicale Boris Eltsin, confermato, nel giugno dell’anno seguente, da un’elezione popolare a suffragio diretto.

L’ascesa di Eltsin

La crisi dell’Urss si acutizzò fra il ’90 e il ’91, in concomitanza con l’aggravarsi della situazione economica. Gorbačëv cercò di mediare fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell’ala intransigente del partito, alternando concessioni e interventi repressivi e proponendo un nuovo patto federativo che allargasse gli spazi di autonomia delle Repubbliche sovietiche. Questo fragile equilibrio, però, si ruppe nell’agosto 1991, quando un gruppo di esponenti di primo piano della dirigenza sovietica (fra questi il primo ministro, i ministri dell’Interno e della Difesa, il vicepresidente dell’Urss e il capo dei servizi segreti) tentò la carta del colpo di Stato per bloccare il processo di rinnovamento. I congiurati, che contavano di sfruttare il malcontento diffuso nel paese a causa delle difficoltà economiche, sequestrarono lo stesso Gorbačëv nella sua casa di vacanza in Crimea, forse sperando di strappargli un’adesione al progetto di restaurazione del vecchio regime. Ma i calcoli si rivelarono errati e il colpo, organizzato senza adeguata preparazione, fallì clamorosamente di fronte a un’inattesa protesta popolare e al mancato sostegno delle forze armate: a Mosca, fra il 19 e il 20 agosto, una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti di fronte alla scelta fra una sanguinosa repressione e un’ingloriosa ritirata. Decisivo fu, in questa occasione, il ruolo del presidente della Repubblica

Il colpo di Stato del 1991

Il drammatico confronto fra Gorbacˇëv e Eltsin al Parlamento russo nei giorni successivi al tentato golpe dell’agosto ’91

743

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

russa Boris Eltsin che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e aver imposto la liberazione di Gorbačëv, si propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso presidente sovietico. Il fallimento del golpe di agosto da un lato valse a spazzare via quanto restava del potere comunista (il Pcus, un tempo onnipotente, vide sospese le sue attività e requisiti i suoi averi), dall’altro accelerò ulteriormente la crisi dell’autorità centrale, aggravata dal mancato decollo della riforma economica e dalla difficile circolazione delle merci all’interno di un’Unione in cui frattanto si facevano sempre più forti le istanze separatiste. L’Urss, infatti, era un impero plurinazionale, anzi la più grande compagine multietnica mai apparsa sulla faccia della Terra. Abbiamo già visto come le riforme di Gorbačëv avessero prodotto una serie di spinte centrifughe, aprendo spazi, oltre che alla manifestazione del dissenso politico, anche alle rivendicazioni nazionali dei territori non russi dell’ex Impero zarista [►16_5]. Le prime a muoversi, rivendicando la piena indipendenza, erano state le repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania), inglobate nell’Urss nel 1939 in seguito al patto Molotov-Ribbentrop [►11_1]. Ma movimenti analoghi si svilupparono anche nelle repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e in quelle musulmane dell’Asia centrale (Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan). Fra il 1990 e il 1991 tutte queste repubbliche, più la Moldavia (strappata dall’Urss alla Romania dopo il secondo conflitto mondiale), proclamarono unilateralmente la loro indipendenza; e lo stesso fecero l’Ucraina e la Bielorussia, pur legate alla Russia da antichi vincoli storico-culturali oltre che da stretti rapporti di interdipendenza economica.

I movimenti indipendentisti

Gorbačëv tentò di bloccare questo processo rilanciando l’idea di un nuovo trattato di unione che assicurasse almeno l’esistenza dell’Urss come entità militare e come soggetto di politica internazionale. La sua iniziativa fu però scavalcata da quella dei presidenti delle tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), che si accordarono sull’ipotesi di una comunità di Stati sovrani ottenendo il consenso delle altre repubbliche ex sovietiche. Il 21 dicembre 1991, ad Alma Atar, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di undici repubbliche (sulle quindici già

La fine dell’Urss

LA FINE DELL’URSS

Sconfitta nella competizione con gli Usa sul terreno dello sviluppo economico

Apertura delle frontiere e crollo del Muro di Berlino

Deriva autoritaria dei regimi comunisti diversi dal modello sovietico

Movimenti riformatori e democratizzazione dei paesi dell’Est DISSOLUZIONE DELL’URSS Indipendenza delle Repubbliche baltiche, caucasiche e asiatiche

Spinte indipendentiste interne e instabilità politica

Allargamento dell’Alleanza atlantica a Est

744

Difficoltà di attuazione del progetto riformista di Gorbacˇëv e crisi economica

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

IRAN

IRAQ

AFGHANISTAN SVEZIA FINLANDIA

40_LA DISSOLUZIONE DELL’URSS, 1990-91 Tallinn

Russia indipendenti nel 1990-91 indipendenza dichiarata nel 1991 MAR GLACIALE confini dell’Unione Sovietica ARTICO fino al 1991 città capitali conflitti etnici violenti

Riga

ESTONIA LETTONIA

LITUANIA Vilnius RUSSIA Minsk BIELORUSSIA POLONIA Kiev MOLDAVIA UCRAINA Chisinau

UNIONE SOVIETICA

SVEZIA

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FINLANDIA MAR NERO Tallinn Riga

R U S S I A TURCHIA

ESTONIA

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LETTONIA

LITUANIA Vilnius RUSSIA Minsk BIELORUSSIA POLONIA Kiev MOLDAVIA UCRAINA Chisinau

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Lago d’Aral UZ BE K

T’bilisi Yerevan

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Alma Ata KIRGHIZISTAN

MAR Tashkent IS CASPIOTU TA RK N ME Baku TAGIKISTAN NIS ARMENIA TANDushanbe Ashgabat AZERBAIGIAN IRAQ

IRAN

C I N A

AFGHANISTAN

facenti parte dell’Urss) diedero vita a una Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e sancirono la scomparsa dell’URussia nione Sovietica. Il 25 dicembre Gorbačëv trasse le logiche indipendenti nel 1990-91 conseguenze da quanto era accaduto e annunciò in un diindipendenza dichiarata nel 1991 televisivo le sue dimissioni. Il giorno stesso, la banscorso confini dell’Unione Sovietica diera sovietica fu ammainata dal Cremlino di Mosca, sede fino al 1991 città capitali del governo, e sostituita da quella russa.

Russia indipendenti nel 1990-91 indipendenza dichiarata nel 1991 confini dell’Unione Sovietica fino al 1991 città capitali conflitti etnici violenti

METODO DI STUDIO

 a  Delinea per iscritto il ruolo politico di Gorbacˇëv nel processo di riforma dell’Urss, prima e dopo il suo rapimento, mettendo in rilievo le azioni di Eltsin.  b  Cerchia con colori diversi i nomi degli Stati in cui si manifestarono le spinte indipendentiste in Urss e sottolinea le caratteristiche di tali spinte mantenenUNIONE SOVIETICA do i colori scelti.  c  Illustra in una mappa quali furono gli esiti dello smembramento dell’Unione Sovietica.

conflitti etnici violenti



Mosca

17_5 CONFLITTI ETNICI E GUERRA IN JUGOSLAVIA

► Leggi anche: ► Parole della storia Pulizia etnica, p. 746

La fine del sistema di potere sovietico non portò all’Europa orientale solo libertà e democrazia [►FS, 155]. Quasi ovunque, nei primi anni ’90, si fecero sentire le difficoltà provocate dal passaggio all’economia di mercato (disoccupazione, fenomeni speculativi e crescita dei prezzi) e si accentuò l’instabilità dovuta alla frammentazione politica. Contestualmente emersero, con forza insospettata, vecchi e nuovi nazionalismi rimasti a lungo soffocati e ora pronti a scontrarsi fra loro. Nei territori dell’ex Unione Sovietica nacquero, o risorsero, movimenti indipendentisti (come quello dei ceceni, di cui parleremo più avanti [►17_6]) e si accesero conflitti per il possesso di territori contesi (per esempio fra Armenia e Azerbaigian nel 1988 e fra Russia e Georgia venti anni dopo [►24_4]). Anche nelle ex “democrazie popolari” si manifestarono irredentismi e contrasti a sfondo etnico, che ebbero esiti dirompenti in due fra gli Stati nati alla fine

Il risorgere dei nazionalismi

745

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

della prima guerra mondiale dalla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico: la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. In Cecoslovacchia, le aspirazioni separatiste della minoranza slovacca portarono nel 1992 a una sorta di separazione consensuale e alla creazione di due repubbliche: una ceca, comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale, e una slovacca, guidata dai gruppi ex comunisti. Drammatico e cruento fu invece il processo di disgregazione della Jugoslavia, dove la crisi del regime a partito unico fece saltare gli equilibri fra le nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito delle prime elezioni libere, che si tennero nel 1990, accentuò le spinte centrifughe già operanti all’interno dello Stato federativo: mentre infatti le repubbliche di Slovenia e Croazia, le più sviluppate economicamente e le più vicine al Centro-Europa per tradizioni e per collocazione geografica, davano la vittoria ai partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neocomunismo nazionalista di Slobodan Milošević, deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita. Nel 1991, prima la Slovenia poi la Croazia proclamarono la propria indipendenza, facendola sancire da plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica di Macedonia, che occupava la parte meridionale, e più arretrata, della Jugoslavia. Il governo federale jugoslavo, controllato dalla componente serba, accettò il fatto compiuto dell’indipendenza slovena e macedone, ma reagì duramente all’analoga iniziativa della Repubblica croata (che ospitava nei suoi confini consistenti minoranze serbe) mobilitando forze armate e milizie irregolari. I due contrapposti nazionalismi, serbo e croato, alimentarono una guerra che non risparmiò le popolazioni civili. Sistematico fu il ricorso a operazioni di “pulizia etnica”, ossia a persecuzioni e violenze rivolte contro le minoranze per costringerle ad abbandonare le aree contese [►FS, 153].

I conflitti etnici in Jugoslavia

A partire dalla primavera del 1992 il centro del conflitto si spostò nella Bosnia, una delle ex repubbliche jugoslave, che in marzo si era anch’essa dichiarata indipendente. La Bosnia era abitata da una popolazione mista, composta da musulmani (la componente più numerosa), croati cattolici e serbi ortodossi: la secessione, voluta dai musulmani, provocò la reazione della componente serba, attivamente appoggiata dal regime di Milošević. Una guerra nella guerra, costellata di massacri, deportazioni e altri orrori che l’Europa non aveva più conosciuto dai tempi del secondo conflitto mondiale: fra i tanti episodi di violenza, il più terribile fu quello di Srebrenica, in Bosnia, dove circa 8000 civili musulmani furono sterminati dalle milizie serbe nell’inerzia dei reparti dell’Onu inviati lì per imporre una tregua. La stessa capitale bosniaca, Sarajevo, fu sottoposta dai serbi a un lunghissimo assedio [►FS, 154d]. Fallite le iniziative della Comunità

La guerra in Bosnia

Parole della storia

Pulizia etnica

D

746

i “pulizia etnica” si cominciò a parlare in Europa a proposito dei conflitti interetnici seguiti alla dissoluzione della Jugoslavia e protrattisi per tutti gli anni ’90 del secolo scorso. L’espressione serve a designare una pratica di persecuzione o di violenza fisica compiuta da una popolazione ai danni di un’altra per terrorizzarla e costringerla ad abbandonare un territorio conteso. In questo senso, quindi, “pulire” un’area geografica significa renderla forzatamente

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

omogenea, “liberandola” da tutti gli appartenenti alle etnie minoritarie. In Jugoslavia, per esempio, il leader serbo Slobodan Miloševic´ tentò di allontanare in questo modo gli albanesi che risiedevano nel Kosovo (e lo stesso fecero, in quegli anni, i serbi contro i croati e i croati contro i serbi nelle aree miste da essi controllate). L’espressione è stata utilizzata anche a proposito degli scontri tra hutu e tutsi in Ruanda. Ma può essere usata anche in riferimento a moltissimi episodi del passato, che videro intere popolazioni costrette ad abbandonare le loro terre. E oggi viene

utilizzata dai mass media per denunciare casi di politiche discriminatorie contro minoranze etniche indesiderate all’interno di una nazione. In questo senso la “pulizia etnica” si distingue dal genocidio propriamente detto [►PAROLE DELLA STORIA, p. 406]: in quest’ultimo, infatti, il fine che ci si propone è l’annientamento fisico di un popolo, mentre la pulizia etnica ha come obiettivo il suo allontanamento, indipendentemente dai mezzi usati per ottenerlo. Ciò non esclude, tuttavia, che un’accezione più ampia del termine “genocidio” possa comprendere anche episodi di pulizia etnica.

Rinvenimento di una fossa comune con le vittime dei massacri di Srebrenica, in Bosnia 1996 La violenza del conflitto nell’ex Jugoslavia non risparmiò eccidi e deportazioni di civili, donne, bambini e anziani inclusi: drammatiche furono le immagini trasmesse in tutto il mondo dei cecchini appostati sui palazzi di Sarajevo, che colpivano i passanti nelle strade, o delle bombe gettate tra i civili in fila per l’acqua e il pane nella piazza del mercato. Destò una forte impressione, nel luglio 1995, l’attacco sferrato alla città di Srebrenica dalle truppe serbo-bosniache, responsabili del massacro pianificato di 7-8000 musulmani inermi. La Corte dell’Aja lo definì genocidio, ma nessuna responsabilità fu imputata alla Serbia, che non fu obbligata a risarcire le vittime.

europea e dell’Onu – che impose l’embargo alla Serbia –, per porre fine al conflitto fu necessario l’impegno diretto degli Stati Uniti, che agirono in quanto membri dell’Alleanza atlantica. Fra maggio e settembre del 1995 la Nato attuò una serie di attacchi aerei (cui parteciparono anche piloti italiani) contro le posizioni dei serbi di Bosnia; il “cessate il fuoco” fu proclamato in ottobre, grazie soprattutto agli sforzi della diplomazia statunitense. Preceduto da trattative dirette fra i governanti della Serbia, della Croazia e della Bosnia musulmana, l’accordo di pace fu siglato in novembre a Dayton, negli Stati Uniti: esso prevedeva il mantenimento di uno Stato bosniaco, diviso però in una repubblica serba e in una federazione croato-musulmana. Anche la guerra con la Croazia si chiudeva intanto con la sconfitta della Serbia: nell’estate del ’95 l’esercito croato lanciò un’offensiva nelle zone contese ed espulse con la forza circa 200 mila serbi che vi abitavano.

Gli accordi di Dayton

La situazione nell’ex Jugoslavia, ridotta ormai a una federazione che riuniva solo Serbia e Montenegro, era resa ancor più precaria dalle tensioni politiche interne ai singoli Stati. In Serbia, fra il ’96 e il ’97, ebbe inizio una lunga stagione di agitazioni contro lo strapotere del presidente Milošević e degli ex comunisti del Partito socialista serbo. Anche in Croazia, dove si era affermato un governo autoritario di matrice nazionalista e anticomunista, il processo di democratizzazione si avviò solo dopo la morte, nel 1999, del presidente Franjo Tudjman e l’elezione del progressista Stipe Mesić.

Nuove tensioni politiche nella ex Jugoslavia

Bersaglieri della Brigata Garibaldi in Kosovo estate 1999 La spedizione della Nato in Kosovo vide i bersaglieri italiani impegnati in operazioni di soccorso, sorveglianza e controllo del territorio.

Nel 1998, un altro focolaio di tensione si sviluppò nel Kosovo, una regione autonoma all’interno della Serbia, abitata da una popolazione albanese, dove si era sviluppato un movimento di guerriglia indipendentista. Ancora una volta la repressione serba provocò l’intervento militare dei paesi della Nato, fra cui l’Italia. Per oltre due mesi, fra marzo e giugno del 1999, il territorio della Serbia fu sistematicamente bombardato. L’intervento, giustificato con l’esigenza di proteggere i diritti della popolazione del Kosovo (si parlò a questo proposito di “ingerenza umanitaria”), fu apertamente criticato dalla Russia, tradizionale alleata dei serbi, e suscitò forti discussioni nell’opinione pubblica dei paesi occidentali. Ma alla fine lo scopo fu raggiunto: ai primi di giugno, Milošević ritirò le sue truppe dal Kosovo.

La crisi del Kosovo

747

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

LA DISGREGAZIONE DELLA JUGOSLAVIA

1990

1991

Croazia, Slovenia La Serbia e Macedonia elegge si proclamano Miloševic´, Repubbliche fautore indipendenti dell’egemonia tramite plebisciti dei serbi in una Jugoslavia unita

Guerra tra Serbia e Croazia

1992

Intervento della Serbia in Bosnia, che si era dichiarata indipendente e dove era presente una componente serba ortodossa

1995

Intervento della Nato e bombardamenti aerei statunitensi contro la Serbia

L’accordo di Dayton sancisce la divisione dello Stato bosniaco in una Repubblica serba e una federazione croatomusulmana

1998-99

2000

Lotta per l’indipendenza del Kosovo, intervento della Nato e sconfitta della Serbia

Dopo aver perso le elezioni, Miloševic´ viene arrestato e processato all’Aja per crimini contro l’umanità; morirà in carcere

Indebolito dalla sconfitta, il presidente serbo, oggetto di una pesante contestazione in patria, resistette per poco più di un anno. Nel settembre 2000 fu sconfitto nelle elezioni presidenziali e fu costretto ad abbandonare il potere. Milošević venne successivamente arrestato, consegnato al Tribunale internazionale dell’Aja e processato per crimini contro l’umanità: sarebbe morto in carcere nel 2006, prima della conclusione del processo. In quello stesso anno lo Stato serbo dovette subire una nuova amputazione, in seguito alla dichiarazione di indipendenza della Repubblica del Montenegro, proclamata in maggio sulla base di un referendum. Nel 2008, anche l’indipendenza del Kosovo fu riconosciuta dai principali Stati occidentali. La Serbia pagava così a caro prezzo il tentativo di conservare con la forza la sua posizione egemonica nell’area jugoslava: un’area ora occupata da una pluralità di piccoli Stati indipendenti, per lo più instabili all’interno e divisi tra loro da conflitti etnico-territoriali irrisolti.

La fine di Miloševic´

Vicende agitate furono vissute in questo periodo anche dalla vicina Albania. Il passaggio alla democrazia si accompagnò in una prima fase a METODO DI STUDIO una grave crisi economica, provocata dal fallimento di una  a  Sottolinea con colori diversi le cause dei conserie di società finanziarie che, cresciute all’improvviso, aveflitti etnici in Jugoslavia. vano raccolto i risparmi di molti albanesi. Ne seguì un caotico moto di ribellione,  b  Cerchia con coloridiversi i nomi degli Stati dove la protesta economica si mescolava con quella politica nei confronti di una che componevano la Jugoslavia e sottolineane le caratteristiche più rilevanti mantenendo i colori classe dirigente accusata di connivenza coi responsabili delle società fallite. Nel scelti. Evidenzia quindi quelle che portarono allo gennaio del 1997 si assisté al collasso quasi totale delle strutture statali che si acscoppio del conflitto. compagnò a un imponente flusso migratorio, soprattutto verso l’Italia. Ne seguì  c  Numera sul testo e trascrivi sul quaderno i passaggi che portarono alla sconfitta della Serbia e una fase di semi-anarchia, interrotta dall’intervento dell’Onu che, in marzo, inviò al processo di Miloševic´. nel paese un contingente di pace (in cui la parte più importante fu assunta dall’I d  Spiega oralmente cosa si intende per “pulizia talia) col compito di favorire il ritorno all’ordine e alla normalità politica. Da allora etnica“ e in quale contesto fu attuata. fu avviato gradualmente un percorso di ripresa economica e di stabilizzazione, che  e Evidenzia l’esito delle crisi in Cecoslovacchia e in Albania. consentì il consolidamento dello Stato e l’avvicendamento al potere di forze moderate e progressiste.

Crisi e stabilizzazione in Albania



17_6 LA RUSSIA POSTCOMUNISTA

Dopo la fine dell’impero sovietico, la Russia di Eltsin cercò di accreditarsi come l’erede del ruolo di grande potenza già svolto dall’Urss. In questo suo tentativo venne appoggiata dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale che le riconobbero il diritto di occupare il seggio dell’Unione Sovietica in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Questa aspi748

L’eredità dell’Urss

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

razione – non più sostenuta dalla forza dell’ideologia comunista – era però contraddetta dall’oggettiva debolezza della Russia, che non riusciva nemmeno a imporre la sua egemonia sulle altre Repubbliche ex sovietiche, spesso in lotta fra loro e lacerate da conflitti interni. La stessa Repubblica russa, che era ordinata anch’essa in forma di federazione e comprendeva nei suoi confini etnie e culture diverse, era minacciata da movimenti separatisti e stentava a trovare uno stabile equilibrio istituzionale. A tutto questo si aggiungeva l’emergere di forti opposizioni al nuovo corso, che si esprimevano ora nella richiesta di maggior democrazia, ora nella nostalgia del regime comunista, ora nel tradizionalismo antioccidentale, e spesso antisemita, ora in una curiosa miscela fra queste tendenze. Il fronte degli avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel Congresso del popolo, il Parlamento russo, eletto secondo la Costituzione voluta da Gorbačëv nel 1988 [►16_5]. Il conflitto esplose nel settembre-ottobre 1993 quando Eltsin, non riuscendo a superare l’ostruzionismo della maggioranza, sciolse l’assemblea elettiva e indisse nuove elezioni. Il Parlamento rispose destituendo il presidente, che reagì decretando lo stato di emergenza e facendo occupare il Parlamento da reparti speciali delle forze armate. Ristabilito l’ordine a prezzo di largo spargimento di sangue, Eltsin varò, in dicembre, una nuova Costituzione che rafforzava i poteri del presidente.

I conflitti interni

Alla fine del 1994, per consolidare la sua posizione e per non lasciare spazio ai movimenti nazionalisti, Eltsin decise un intervento militare in Cecenia, una repubblica musulmana situata nella regione del Caucaso, che aveva proclamato l’indipendenza dalla Federazione russa di cui faceva parte. Fortemente contrastata dalla resistenza degli indipendentisti, l’operazione si trasformò in un lungo e logorante conflitto, costellato di cruente azioni di guerriglia e di crudeli rappresaglie sulla popolazione civile. L’esito disastroso dell’intervento era il risultato non solo della scarsa efficienza della macchina militare russa, ma, più in generale, di una profonda crisi dell’intero apparato statale e di una crescente disgregazione della società civile, cui i governanti non riuscivano a trovare risposte efficaci.

L’intervento in Cecenia

Un musulmano in preghiera durante la battaglia nella capitale cecena Groznyj gennaio 1994 [foto di Mikhail Evstafiev]

Alle turbolenze politiche si sommava frattanto una drammatica crisi economica e sociale. All’origine della crisi, il tentativo di Eltsin – sostenuto e incoraggiato dai governi occidentali – di accelerare il processo di transizione verso il capitalismo e l’economia di mercato. Un processo che però non riusciva a decollare anche per l’assenza di un vero ceto imprenditoriale, e in genere di un tessuto sociale adatto a sostenere il cambiamento. Il passaggio ai privati di grandi concentrazioni industriali e finanziarie (spesso gestite da ex funzionari del periodo sovietico trasformatisi in imprenditori) e la nascita di un capitalismo dai tratti fortemente speculativi finirono coll’avvantaggiare solo gruppi ristretti, spesso legati alla malavita, mentre le condizioni di vita della maggioranza della popolazione peggioravano sensibilmente, sia a causa dell’inflazione, sia perché lo Stato non disponeva di un efficiente apparato fiscale e non era quindi in grado di pagare puntualmente gli stipendi ai dipendenti pubblici. La crisi giunse al suo culmine nell’estate del 1998,

La crisi economica

749

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

Le strade di Mosca dopo il crollo dell’Unione Sovietica Il passaggio a una libera economia di mercato si rivelò lungo e pesante per i russi. I beni di consumo iniziarono a scarseggiare e una forte crisi economica colpì il paese, lasciando la maggioranza delle famiglie in condizioni di povertà.

travolgendo il rublo, che fu svalutato del 60% rispetto alle altre valute, e costringendo il governo a una dichiarazione di insolvenza sul debito della Russia con l’estero. Fu un duro colpo alla popolarità di Eltsin, sempre più incline a esercitare il suo potere in forme autoritarie: ben quattro governi si avvicendarono fra il ’98 e il ’99, per volontà del presidente. Nell’agosto del 1999, Eltsin scelse come primo ministro uno sconosciuto dirigente dei servizi segreti, Vladimir Putin, e lo indicò come suo successore alla presidenza della Repubblica. Grazie al suo piglio giovanile ed efficientistico, e soprattutto alla spietata energia con cui affrontò la ribellione cecena, il nuovo premier guadagnò una notevole popolarità. Eltsin, da tempo malato, si dimise alla fine dell’anno e, nelle elezioni presidenziali del marzo 2000, Putin si impose con largo margine. La sua presidenza si sarebbe caratterizzata per il tentativo di restituire efficienza alla macchina dello Stato e di ridare slancio all’economia che, pur frenata dai problemi ormai cronici (corruzione diffusa, incertezza delle norme, disordine del sistema bancario), cominciò a manifestare segni evidenti di stabilizzazione finanziaria e di ripresa produttiva, grazie anche all’aumento dei prezzi delle materie prime di cui la Russia era esportatrice (soprattutto gas e petrolio).

L’ascesa di Putin

Al recupero di efficienza del sistema economico e della macchina statale faceva però riscontro un crescente autoritarismo, a malapena mascherato dal formale rispetto delle regole democratiche: arresti di oppositori, scomparsa in circostanze mai chiarite di giornalisti e dissidenti politici, dubbi sulla regolarità delle elezioni, uso eccessivo della forza nella lotta contro gli indipendentisti ceceni: una guerriglia, quella cecena, legata al fondamentalismo islamico e responsabile di atti di terrorismo che colpirono anche il territorio russo, compresa la capitale Mosca, e costarono moltissime vittime, soprattutto fra i civili. Nonostante l’involuzione autoritaria e personalistica, il regime di Putin godeva nel paese di una crescente popolarità, testimoniata dal successo del partito governativo “Russia Unita” nelle elezioni per la Camera del dicembre 2007 e dall’ascesa alla presidenza, nel marzo 2008, di Dmitrij Medvedev, uno stretto collaboratore di Putin (mentre lo stesso Putin assumeva la guida del governo).

Un nuovo autoritarismo

Sul fronte della politica estera si assisteva frattanto a una ripresa di iniziativa della diplomazia russa, in due direzioni diverse e spesso contraddittorie. Da un lato il tentativo di presentarsi all’Occidente come interlocutore affidabile (oltre che prezioso fornitore di gas e petrolio), e anche come alleato nella lotta contro l’integralismo islamico che minacciava la stessa Russia. Dall’altro, l’ambizione di raccogliere l’eredità dell’Urss in 750

Coesistenza e competizione

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

quanto unica potenza capace di controbilanciare e limitare l’egemonia degli Stati Uniti. Da qui una serie di contrasti con l’Occidente sui temi più diversi: l’allargamento dell’Alleanza atlantica (e dell’Unione europea) ai paesi dell’Europa dell’Est, l’appoggio russo alla Serbia nelle guerre jugoslave e agli Stati arabi sulla questione palestinese, le “ingerenze” occidentali sul tema del rispetto dei diritti umani in Russia. Il dialogo con gli Stati Uniti non fu interrotto, ma era ugualmente evidente il ritorno a formule e modalità di azione tipiche degli anni della guerra fredda. METODO DI STUDIO

A preoccupare i dirigenti russi era soprattutto l’ingresso nella Nato degli ex satelliti dell’Urss: nel 1997 Ungheria, Polonia e Repubblica ceca; nel 2004 Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, cui si aggiunsero le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) che fino al 1990-91 avevano fatto parte dell’Urss. L’Alleanza atlantica si estendeva così fino ai confini della Russia, vanificando l’obiettivo strategico conseguito da Stalin e dai suoi successori dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale, con la costruzione di una rete difensiva “esterna”, capace di impedire qualsiasi attacco da Occidente.

L’allargamento a Est della Nato



 a  Sottolinea, con colori diversi, le informazioni principali relative ai seguenti aspetti della Russia postcomunista: a. il ruolo di Eltsin e le sue scelte politiche; b. il fronte degli oppositori e lo scontro con Eltsin; c. le cause e modalità della crisi economica.  b  Spiega per iscritto in quale contesto si inserisce l’intervento russo in Cecenia e cosa comportò.  c  Realizza un grafico a stella sulla Russia di Putin i cui raggi indichino i seguenti aspetti: a. politica interna; b. segnali di autoritarismo; c. politica estera.

17_7 GLI STATI UNITI: LA DIFFICILE GESTIONE DI UNA VITTORIA

La scomparsa dell’Unione Sovietica e le difficoltà della Russia postcomunista proiettarono gli Stati Uniti nel ruolo di unica superpotenza mondiale [►FS, 155]. Un ruolo non previsto e forse non desiderato, che accresceva le responsabilità internazionali degli Usa in un momento in cui l’economia americana, e quella dell’intero Occidente industrializzato, mostravano qualche segno di difficoltà. Anche per questo, la storica vittoria ottenuta nel confronto con l’Urss – cui si era aggiunta nel ’91 quella nella prima guerra contro l’Iraq [►19_4] – non si tradusse in un rafforzamento della presidenza di George Bush [►16_4], che subì, al contrario, un calo di popolarità, dovuto essenzialmente ai problemi economico-sociali lasciati aperti dalle precedenti amministrazioni repubblicane: crescita della disoccupazione, servizi sociali insufficienti, aumento delle distanze fra ricchi e poveri. Il deficit del bilancio statale costrinse inoltre il presidente ad aumentare la pressione fiscale, invertendo il corso inaugurato da Reagan e smentendo le promesse formulate in campagna elettorale.

Le difficoltà economiche

Bill Clinton tra la folla di un raduno preelettorale a Los Angeles 2 novembre 2000 [U.S. National Archives] Il bacino di elettori cui attinse Bill Clinton durante i suoi mandati fu amplissimo, eterogeneo e di estrazione prevalentemente popolare. Alle elezioni presidenziali del 1996, Clinton ricevette il 72% dei voti degli ispanici, più del 60% di quelli asiatici e riscosse un forte sostegno da parte dell’elettorato femminile e di quello afroamericano.

Nelle elezioni del novembre 1992, Bush fu seccamente sconfitto dal candidato democratico Bill Clinton: un politico poco più che quarantenne, privo di esperienza internazionale, ma abile nello sfruttare le debolezze dell’avversario e nell’interpretare il diffuso desiderio di cambiamento. Il nuovo presidente cercò di imprimere alla politica estera americana un segno “progressista”, in linea con la tradizione del suo partito, e di rilanciare l’immagine degli Stati Uniti non solo come garanti degli equilibri mondiali, ma anche come difensori della democrazia in ogni parte del pianeta. Questa vocazione interventista si scontrava però con la riluttanza dell’opinione pubblica americana ad accettare gli oneri e i sacrifici derivanti da un impegno militare troppo esteso. I maggiori successi diplomatici della presidenza Clinton (l’accordo israelo-palestinese del ’93 [►19_5] e la pacificazione imposta in Bosnia) produssero così risultati precari.

La presidenza Clinton

751

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

Nel 1996, alla fine del suo primo mandato, Clinton poteva comunque vantare un bilancio non del tutto negativo in campo internazionale. Ma soprattutto poteva giovarsi – e questo fu il fattore principale della sua trionfale rielezione – del netto miglioramento della situazione economica. A partire dal ’96 il sistema americano, alleggerito (sia pure a costi sociali pesanti) dalla cura liberista degli anni di Reagan e Bush, riacquistò flessibilità e competitività e si sviluppò con un tasso annuo superiore al 4%, rafforzando il suo primato, sia nei settori produttivi della “nuova economia” (quelli legati al boom dell’informatica: ►21_1), sia nei mercati finanziari, dove la moltiplicazione degli strumenti per far circolare il denaro creò nuove occasioni di arricchimento (e anche di speculazione). Nel ’97 la disoccupazione scese, secondo i dati ufficiali, sotto il 5%, mentre il deficit di bilancio si riduceva. Clinton, dal canto suo, riuscì a presentarsi come il garante di questo corso positivo, accantonando alcuni suoi originari progetti di riforme sociali (in particolare nel settore della sanità) e spostando così verso il centro l’asse della sua politica.

La ripresa economica

Fra il ’98 e il ’99 la posizione del presidente fu minacciata dall’emergere di accuse relative alla sua vita privata (affari poco chiari precedenti alla sua elezione, comportamenti sessuali scorretti con una giovane collaboratrice), ma anche ai metodi usati nella raccolta di fondi per la campagna elettorale. Queste accuse, per lo più non provate o prive di rilievo penale, rischiarono di incrinare l’immagine pubblica e il prestigio internazionale di Clinton, ma non ne scalfirono seriamente la popolarità interna. Una popolarità fondata sulle personali capacità comunicative del presidente e più ancora sui continui e spettacolari successi dell’economia statunitense.

La popolarità di Clinton

Nel novembre 2000, scaduto il secondo mandato di Clinton, le elezioni presidenziali si risolsero però in un incredibile “pareggio” fra il democratico Al Gore, vicepresidente con Clinon, e il candidato repubblicano George W. Bush, figlio del predecessore di Clinton: il risultato finale, a lungo contestato, vide Bush prevalere per poche centinaia di voti ottenuti nel decisivo Stato della Florida (di cui era governatore il fratello). I primi atti della nuova presidenza si ispirarono a una linea tendenzialmente conservatrice in METODO DI STUDIO politica interna (ulteriori tagli alle tasse, contenimento della spesa pubblica) e  a  Sottolinea, con colori diversi, le caratteristiorientata, in politica estera, a una più esclusiva tutela degli interessi nazionali, che economiche, politiche e sociali degli Stati Uniti anche a scapito dell’impegno diretto degli Stati Uniti nelle zone calde del globo. sotto la presidenza di George Bush, Bill Clinton e La strategia “neoisolazionista” di Bush junior non poté comunque attuarsi apGeorge W. Bush. Quindi argomenta per iscritto le similitudini e le differenze. pieno: il traumatico attentato alle Twin Towers di New York dell’11 settembre  b  Spiega perché Bush senior perse popolarità 2001 avrebbe infatti costretto gli Stati Uniti a un impegno su scala mondiale, in dopo la vittoria nel confronto con l’Urss. nome della lotta contro il terrorismo [►23_1].

752

L’elezione di George W. Bush

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

SINTESI

17_1 UN IMPERO IN CRISI Il declino dell’Urss, manifestatosi già negli anni ’70, conobbe una brusca accelerazione nel decennio successivo. Decisivo nel determinare la crisi fu il fallimento del tentativo di Gorbačëv di avviare un processo di parziale liberalizzazione, aprendo limitati spazi di pluralismo nel sistema sovietico e nei rapporti con i paesi satelliti. La Polonia aveva anticipato questi mutamenti già all’inizio degli anni ’80, con la nascita del sindacato indipendente Solidarnosc. Dopo l’avvento di Gorbačëv, si mise in moto un processo che portò, nell’89, alle prime elezioni libere in un regime di “democrazia popolare”. Dalla Polonia si innescò una reazione a catena che avrebbe messo in crisi, in pochi mesi, tutte le democrazie popolari, a partire dall’Ungheria, in cui, sempre nell’89, i nuovi dirigenti comunisti legalizzarono i partiti e rimossero i controlli polizieschi ai confini con l’Austria. Si apriva la prima breccia nella cortina di ferro.

17_2 IL CROLLO DEL MURO DI BERLINO E LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA La fuga in massa dei tedeschi dell’Est attraverso l’Ungheria e l’Austria provocò nella Ddr un cambio nei vertici del partito e l’avvio di un processo riformatore che divenne presto incontrollabile, fino allo smantellamento pacifico

del Muro che divideva in due Berlino, nella notte del 9 novembre ’89. La vittoria nelle prime elezioni libere della Germania Est (marzo ’90) dei cristiano-democratici accelerò la riunificazione delle due Germanie (ottobre ’90), sotto la guida del cancelliere tedescooccidentale Helmut Kohl.

17_3 LA FINE DELLE “DEMOCRAZIE POPOLARI” La caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale avvenne nella maggior parte dei casi in forma pacifica, con l’eccezione della Romania, in cui il dittatore Ceauşescu tentò di reprimere l’insurrezione popolare del dicembre ’89, ma fu catturato e giustiziato. Un caso diverso fu quello jugoslavo, dove già alla morte di Tito, nell’80, si era aperta una grave crisi economica e istituzionale che si innestava nei contrasti etnici. Nelle ex democrazie popolari, la riconversione dell’apparato produttivo in funzione del mercato e il ritorno alla democrazia non furono facili ma non furono messe in discussione le nuove istituzioni democratiche.

17_4 LA DISSOLUZIONE DELL’URSS All’inizio degli anni ’90 si disgregò anche l’Urss, sotto la spinta delle rivendicazioni nazionaliste, che cominciarono nelle repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania) per poi estendersi in tutta

l’Unione. Anche la repubblica russa rivendicò la propria autonomia ed elesse alla presidenza il riformista Boris Eltsin (1990). Mentre si aggravava la situazione economica, nell’agosto 1991 una parte della dirigenza sovietica tentò il colpo di Stato per bloccare il processo di rinnovamento. Il fallimento del golpe – grazie anche all’intervento di Eltsin – accelerò ulteriormente la crisi dell’autorità centrale. Dopo le tre repubbliche baltiche, anche Georgia, Armenia, Azerbaigian, Moldavia, Ucraina, Bielorussia e le Repubbliche asiatiche proclamarono unilateralmente la loro secessione dall’Unione Sovietica, finché il 21 dicembre 1991 11 delle 15 repubbliche che costituivano l’Urss diedero vita alla Comunità degli Stati indipendenti (Csi). Le dimissioni di Gorbačëv (25 dicembre) sancirono la fine dell’Unione Sovietica.

17_5 CONFLITTI ETNICI E GUERRA IN JUGOSLAVIA Mentre in Cecoslovacchia, nel 1992 si crearono, con un processo pacifico, due repubbliche distinte, una ceca e una slovacca, il processo di disgregazione della Jugoslavia fu drammatico e cruento. Fra il ’90 e il ’91, Slovenia, Croazia e Macedonia proclamarono la propria indipendenza. Il governo federale, controllato dalla componente serba, reagì alla secessione della Croazia (abitata da consistenti minoranze serbe). Ne nacque una guerra che dal 1992 si spostò in Bosnia, dichiaratasi in marzo anch’essa indipendente. La guerra si risolse in una serie di massacri, fino all’intervento militare della Nato del 1995,

che costrinse la Serbia a riconoscere l’indipendenza della Bosnia. Fra il ’98 e il ’99 esplose la crisi del Kosovo, dove la repressione attuata dai serbi nei confronti della popolazione albanese venne bloccata ancora una volta dall’intervento militare della Nato.

17_6 LA RUSSIA POSTCOMUNISTA La Federazione russa, sotto la guida di Eltsin, cercò di ereditare il ruolo internazionale dell’Urss, ma si trovò in condizioni di serio dissesto economico e di cronica instabilità politica, aggravata dal conflitto con i separatisti della Cecenia. Una stabilizzazione fu avviata a partire dal 2000, con la presidenza Putin, caratterizzata da un crescente autoritarismo nei confronti di oppositori e dissidenti e dalla dura repressione della guerriglia indipendentista dei ceceni. Pur presentandosi come interlocutore dell’Occidente, Putin entrò con esso in contrasto su vari fronti (appoggio alla Serbia e agli Stati arabi, diritti umani, allargamento della Nato).

17_7 GLI STATI UNITI: LA DIFFICILE GESTIONE DI UNA VITTORIA Negli Stati Uniti, rimasti dopo il crollo dell’Urss a svolgere il ruolo di unica superpotenza mondiale, le difficoltà economiche provocarono, nel ’92, la sconfitta del presidente repubblicano Bush e l’elezione

753

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

Gorizia Lubiana SLOVENIA Trieste giugno 1991 Rijeka (Fiume)

del democratico Clinton. Il nuovo presidente volle rilanciare gli Usa come garanti della democrazia nel mondo: di qui il ruolo statunitense

nell’accordo israelo-palestinese del ’93 e la pacificazione imposta in Bosnia. Grazie soprattutto alla favorevole congiuntura economica,

Clinton fu rieletto nel ’96. Le presidenziali del 2000 furono vinte di strettissima misura dal repubblicano George W. Bush, fautore di una linea

tendenzialmente conservatrice in politica interna (tagli alle tasse, contenimento della spesa pubblica) e “neoisolazionista” in politica estera.

ITALIA

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Completa il seguente testo sulla

disgregazione della Jugoslavia facendo riferimento alla carta geostorica e inserendo le parole opportune:

AUSTRIA UNGHERIA Gorizia Lubiana SLOVENIA Trieste giugno 1991 Rijeka (Fiume)

Zagabria CROAZIA giugno 1991

giugno 1991

1992: Repubblica federale di Jugoslavia data di indipendenza

VOJVODINA ROMANIA Novi Sad Belgrado

BOSNIA-ERZEGOVINA marzo 1992 Sarajevo

MONTENEGRO giugno 2006 Podgorica

ITALIA

Priština KO S OV O febbraio 2008

BU LG AR IA

SERBIA

Skopje REPUBBLICA DI MACEDONIA settembre 1991

MAR ADRIATICO

ALBANIA

GRECIA

754

Prima dell’avvio del processo di disgregazione, la Jugoslavia era formata dalle sei repubbliche di ................................................, ....................... ........................., ................................................, ................................................, ................................................ e Montenegro. Fra il ’90 e il ’91, ................................................, ................................................ e Macedonia proclamarono la propria ..................................... 1992: Repubblica federale di Jugoslavia ............ La guerra che ne seguì, si spostò in ................................................ nel 1992, quando questa si dichiarò a sua volta ............................. giugno 1991 data di indipendenza .................... La guerra si risolse in una serie di massacri, fino all’intervento militare della ................................................ del 1995, che costrinse la Serbia a riconoscere l’indipendenza della ................................................. La Nato intervenne militarmente fra il ’98 e il ’99 anche in Kosovo, per bloccare la repressione attuata dai ................................................ nei confronti delle aspirazioni indipendentiste della popolazione albanese. Nel 2006 anche il ................................................ si rese indipendente, così come il ................................................ nel 2008.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Zagab CROA giugno

BOSN

2 Seleziona, fra quelli indicati di seguito, i quattro eventi che si verificarono in Germania in occasione della caduta del

Muro e della riunificazione. Quindi numerali in ordine cronologico.

a. Si affermò il sindacato Solidarnosc. b. Cittadini della parte est del paese attraversarono il confine tra Austria e Ungheria per raggiungere la Germania federale. c. Un’insurrezione popolare fece cadere la dittatura personale di Nicolae Ceaus‚escu. d. I cittadini della capitale iniziarono a smantellare il muro quando fu annunciato il ritorno alla libera circolazione in città. e. Le quattro ex potenze occupanti accettarono il trattato di unificazione politica. f. Fu varata una nuova costituzione e fu coniato il marco, una nuova moneta. g. Il regime comunista fu costretto a dimettersi. h. I cittadini della capitale iniziarono a smantellare il muro quando fu possibile varcare il confine fra Austria e Ungheria. 3 Colloca correttamente i seguenti elementi negli insiemi. Quindi esponi sinteticamente sul quaderno il loro ruolo nella

storia dei relativi contesti nazionali.

a. Riformismo di Gorbacˇëv b. Solidarnosc c. Karol Wojtyła d. Wojciek Jaruzelski e. Tadeusz Mazowiecki

f. Elezioni libere in Germania Est g. Trattato per la riunificazione economica e monetaria tedesca h. Boris Eltsin i. Vladimir Putin

POLONIA

RUSSIA

GERMANIA

4 Abbina correttamente i personaggi storici elencati nella colonna di sinistra ai fatti o categorie storiche presenti in

quella di destra e argomenta sul quaderno la tua scelta.

1. Eltsin 2. Putin 3. George Bush 4. George W. Bush

a. 11 settembre 2001 b. Guerra in Cecenia c. Autoritarismo d. Vittoria contro Iraq

COMPETENZE IN AZIONE 5 Sul tuo quaderno di storia scrivi un testo informativo (max 20 righe) dal titolo La dissoluzione dell’Urss. A tal fine

utilizza le informazioni contenute nella carta geostorica di p. 745 indicando con un numero gli elementi della carta che ritieni fondamentali e citandoli fra parentesi quando vi fai riferimento all’interno del testo.

6 Argomenta per iscritto le relazioni esistenti fra i seguenti soggetti/eventi e la crisi jugoslava.

a. Scomparsa dell’Urss e crisi del regime a partito unico b. Elezioni del 1990

755

C17 LA caduta dei comunismi in Europa

c. Slobodan Miloševic´ d. “Pulizia etnica” e. Popolazione bosniaca multietnica f. Srebrenica g. Bombardamento Nato del 1995 7 Rispondi sul quaderno alle seguenti domande. Analizzerai così il ruolo assunto dalla Russia nel nuovo scenario politico

mondiale.

a. Vi sono continuità, sul piano ideologico e politico, tra la Russia postcomunista e l’Unione Sovietica? b. Quali Stati hanno contestato il ruolo egemonico assunto dalla Russia nell’Europa orientale? Per quali ragioni? c. Quali materie prime rendono la Russia fondamentale nel contesto internazionale? Con quali conseguenze? d. Riassumi i motivi di contrasto tra la Russia di Putin e le potenze occidentali. e. La nuova Russia costituisce, a tuo avviso, una potenza regionale o globale? Per quali ragioni?

COMPITI DI REALTÀ 8 Realizzare un percorso turistico per un’agenzia viaggi online.

Tema storico da affrontare: Il Muro di Berlino.

Contesto di lavoro

Lavori per un’agenzia di viaggi online che ha al suo interno un settore per gli appassionati di storia. I tuoi superiori hanno ricevuto diverse richieste dall’estero per un soggiorno a Berlino focalizzato sui caratteri ormai scomparsi della Ddr e sugli eventi legati alla caduta del muro.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un percorso turistico che permetta ai partecipanti di visitare alcuni fra i luoghi significativi del passato di Berlino durante la guerra fredda. Per realizzare questo compito dovete: ● scegliere la durata approssimativa del viaggio e tarare i contenuti proposti in base al numero di giorni. ● individuare i luoghi più adatti in relazione al tema affrontato. Fate una prima selezione basandovi sui contenuti del manuale (nel capitolo o nei Fare Storia) e una successiva ricerca su Internet. Ricordate di operare una selezione coerente con il numero dei giorni individuato. ● ricercare online cosa visitare (es. musei come il Ddr Museum, luoghi della città come Il memoriale del Muro, ecc.). ● realizzare per ogni luogo una scheda con le informazioni principali in grado di attrarre i turisti. La scheda (circa 5 righe) si aprirà con una finestra pop up e sarà dotata di almeno una immagine significativa. ● selezionare – cercandola eventualmente su Internet – una pianta di Berlino su cui poter indicare i luoghi che faranno parte del percorso e indicare per ognuno di essi l’orario d’apertura o della visita prevista. ● scrivere un breve testo storico (max 20 righe) che riassuma in modo accattivante le vicende legate alla costruzione e alla distruzione del muro, il contesto storico e l’importanza dei luoghi che avete scelto. ● scrivere un testo introduttivo che descriva il pacchetto di viaggio rivolgendosi ai potenziali clienti e arricchirlo di immagini significative (possono essere immagini selezionate precedentemente) e una pianta che mostri l’itinerario. ● realizzare un banner pubblicitario con immagini e testo da inserire in siti di viaggi “amici”.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato ai responsabili dell’agenzia viaggi del settore storico e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più la descrizione del percorso attraverso slide.

Tempo a disposizione

756

1 ora per individuare sul manuale e su Internet i luoghi dell’itinerario; 1 ora per cercare sul manuale e in Rete le immagini e le relative informazioni e verificare i risultati ottenuti; 1 ora per individuare i musei e i beni storici da poter visitare; 4 ore per la realizzazione del prodotto multimediale; 1 ora per impostare e provare la relazione. P.S. Il percorso potrà essere realizzato anche in una lingua straniera, coinvolgendo i relativi docenti di L2.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

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Atlante Un’Europa a geometria variabile Audiosintesi

CAP18 L’UNIONE EUROPEA



18_1 IL PROGETTO EUROPEO FRA UTOPIA

► Leggi anche:

E REALISMO

► Parole della storia Europeismo, p. 758

La fine della seconda guerra mondiale aveva lasciato dietro di sé una terribile eredità di morte e distruzione e aveva definitivamente privato l’Europa del suo ruolo di centro della politica mondiale. Da questa situazione oggettiva era nata una nuova spinta alla creazione di una comunità integrata su scala continentale che superasse le logiche dello Stato nazionale e allontanasse per sempre la minaccia di una nuova guerra fratricida. Questa prospettiva, fatta propria, come abbiamo visto, da importanti statisti di diversi paesi europei [►12_8], non riuscì però ad affermarsi nella sua forma più piena e coerente: quella federalista, fondata cioè su una federazione politica che portasse in tempi brevi agli Stati Uniti d’Europa [►FS, 158d]. Inoltre, apparve presto evidente che, in un’Europa divisa in due dalla cortina di ferro, il progetto unitario non poteva che riguardare la sola metà occidentale del continente, essendo quella orientale sotto il controllo dell’Urss.

L’idea federalista

Prevalse così un approccio meno ambizioso e più concreto, ben esemplificato dall’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (la Ceca) nel 1951 e poi della Comunità economica europea nel 1957 [►12_8]: un approccio che fu detto “funzionalista” e che, pur senza accantonare del tutto la prospettiva federale, privilegiava la messa in comune di funzioni e compiti specifici, soprattutto in campo economico, trasferendone la gestione dalle autorità nazionali a quelle comunitarie. Dunque un’integrazione graduale e settoriale, che partiva dalle convenienze più che dai fondamenti ideali, ma che avrebbe dovuto portare con sé anche le premesse di una integrazione politica. Le due logiche – quella funzionalista e quella federalista – erano in realtà molto diverse. Il passaggio dalla prima alla seconda

L’approccio “funzionalista”

C. Mancioli, «All’unità d’Europa i giovani dicono “Sì”», manifesto di propaganda a favore dell’unione degli Stati europei 1952 [Raccolta Salce, palazzo Giacomelli, Treviso]

757

C18 L’UNIONE EUROPEA

si sarebbe dunque rivelato problematico. E il cammino verso una più stretta unità sarebbe stato segnato da un’alternanza di passi avanti e battute d’arresto. Ma l’approccio empirico e gradualistico adottato negli anni ’50 dagli statisti europei consentì di mantenere in vita la prospettiva comunitaria e di costruire, attorno ai sei Stati firmatari degli accordi sulla Ceca e dei trattati di Roma del 1957 [►12_8 e FS, 157d], il nucleo forte di un’entità sovranazionale capace di sopravvivere alle sue stesse contraddizioni.

METODO DI STUDIO

 a  Individua da tre a cinque parole o espressioni chiave che illustrino le principali caratteristiche della concezione federalista e dell’approccio funzionalista rispetto all’integrazione europea. Quindi argomenta per iscritto le tue scelte.  b  Cosa consentì all’Europa di sopravvivere alle sue stesse contraddizioni? Sottolinea nel testo la risposta.

18_2 L’ALLARGAMENTO DELLA CEE



Fra il 1973 e il 1986, la Comunità economica europea nata nel 1957 [►FS, 157d] allargò considerevolmente i suoi confini e raddoppiò il numero dei suoi membri, da sei a dodici: prima grazie all’adesione di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, poi in seguito

I nuovi ingressi

Parole della storia

Europeismo

L’

758

europeismo è un movimento politico e di idee che tende a promuovere l’avvicinamento tra gli Stati nazionali europei, fino alla costruzione di un’Europa politicamente unita. Esso si richiama alle fondamentali affinità culturali e storiche che legano tra loro i popoli d’Europa e al sentimento di appartenenza a una storia comune. Richiami a una civiltà europea intesa come unità culturale erano già presenti in epoca prerinascimentale, soprattutto in riferimento alla tradizione cristiana medievale. L’idea si ripresentò nel ’700 (con Voltaire e Kant) e nell’800 (con Mazzini), intesa non più soltanto nei suoi aspetti culturali ma declinata anche come concreta opzione politica. Il tema, però, rimase a lungo patrimonio di ristrette élite intellettuali. Nuovi spazi per un discorso europeista sembrarono aprirsi dopo la fine della prima guerra mondiale: le tragiche conseguenze cui aveva condotto il nazionalismo dei diversi Stati e la crisi del tradizionale equilibrio fra le potenze confermavano le ragioni di chi poneva l’obiettivo di un superamento delle divisioni politiche interne all’Europa. Negli anni ’20 del ’900, un politico austriaco, Richard Coudenhove-Kalergi, fondò l’Unione paneuropea, finalizzata alla promozione dell’unione politica fra gli Stati del continente (ad esclusione dell’Unione Sovietica e della Gran Bretagna); furono anche elaborate alcune proposte federaliste, come il progetto

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

del ministro francese Aristide Briand di istituire gli Stati Uniti d’Europa. L’ascesa al potere dei nazisti in Germania, le tensioni e i conflitti degli anni ’30 e poi la seconda guerra mondiale dimostrarono che i tempi non erano ancora maturi. Nel 1941, proprio nel pieno della guerra, furono due antifascisti italiani – l’economista liberale Ernesto Rossi e l’ex militante comunista Altiero Spinelli [►FS, 158d], entrambi sottoposti al confino nell’isola di Ventotene – a rilanciare il progetto europeista, nella sua versione più radicale, in un documento (il Manifesto per un’Europa libera e unita) che ebbe all’inizio una circolazione limitata e clandestina. Rossi e Spinelli non si limitavano ad auspicare una più stretta unione fra gli Stati europei, ma criticavano alla radice l’idea stessa di Stato nazionale, considerandola principale responsabile delle guerre che avevano sconvolto il continente; e puntavano direttamente all’obiettivo degli “Stati Uniti d’Europa”. Quello indicato nel Manifesto era dunque un percorso rivoluzionario che richiedeva la partecipazione simultanea dei popoli di diversi paesi europei. La guerra ebbe invece come risultato la divisione politica dell’Europa tra Est e Ovest e, con l’emergere delle superpotenze Usa e Urss, il ridimensionamento del continente nello scenario mondiale. Fu in questo contesto che l’idea di un’Europa unita – rilanciata durante la guerra da varie forze antifasciste – divenne un tema all’ordine del giorno del dibattito politico e culturale. Essa fu sostenuta da politici di diverso

orientamento: socialisti come il francese Léon Blum e il belga Paul-Henri Spaak, cattolici come il tedesco Konrad Adenauer, il francese Robert Schuman e l’italiano Alcide De Gasperi, conservatori come Winston Churchill. Importante fu poi l’azione di alcuni gruppi europeisti, il principale dei quali fu il Movimento federalista europeo, ispirato al Manifesto di Ventotene e guidato dallo stesso Spinelli. Se l’idea di un avvicinamento tra le nazioni del continente fu largamente condivisa, profonde divergenze si registrarono – e continuano a registrarsi – sulle forme che avrebbe dovuto assumere il processo d’integrazione: al modello federalista si contrapponeva quello funzionalista, che puntava al superamento della sovranità statale assoluta attraverso accordi settoriali [►18_1]. Il percorso seguito a partire dalla costituzione della Ceca e, soprattutto, della Cee [►12_8 e FS, 157d] fu seguito dalla scelta di far precedere l’integrazione economica a quella politica, nel tentativo di aggirare le forti resistenze degli Stati nazionali. La prospettiva federalista, non fu mai del tutto abbandonata: fu anzi implicitamente rilanciata dalle riforme che avrebbero portato, negli anni ’80 e ’90, alla nascita dell’Unione europea [►18_3 e 18_5]. Ma nel nuovo secolo aumentarono anche le resistenze al processo di integrazione e ripresero vigore le spinte nazionaliste, alimentate dalla crisi economica scoppiata nel 20072008 [►24_1]. Gruppi e partiti populisti ed esplicitamente antieuropeisti avrebbero allora conosciuto nuove e inattese fortune.

all’ingresso dei paesi mediterranei – Grecia, Portogallo e Spagna – che si erano liberati da regimi autoritari [►16_8]. L’ingresso dei nuovi membri fu senza dubbio un passo avanti sulla strada dell’unità di un’Europa occidentale i cui confini tendevano sempre più a coincidere con quelli dell’area dei paesi democratici e degli aderenti all’Alleanza atlantica. Nell’immediato, però, l’allargamento suscitava nuovi problemi nella gestione delle politiche comunitarie e faceva risaltare le distanze economiche e culturali che separavano le diverse zone. Tutto questo rendeva più lento il cammino verso quella graduale integrazione politica che costituiva il vero obiettivo della costruzione europea. Il cammino tuttavia non si arrestò, anzi superò alcune tappe importanti. Nel 1974, in un vertice tenutosi a Parigi, si decise che i capi di governo dei paesi membri si sarebbero incontrati non occasionalmente, ma a scadenze regolari, dando vita di fatto a un nuovo organismo, il Consiglio europeo, che avrebbe da allora avuto la responsabilità di tracciare le linee-guida del processo di integrazione (mentre alla Commissione europea restavano affidati i compiti operativi, come l’attuazione dei singoli provvedimenti e la gestione delle risorse finanziarie). Contemporaneamente si stabilì che il Parlamento europeo, anziché essere composto, come era stato sin allora, da rappresentanze dei Parlamenti nazionali, sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini, con scadenza quinquennale, in base alle leggi elettorali vigenti nei singoli paesi. I poteri del Parlamento, con sede a Strasburgo e a Bruxelles, non mutarono significativamente, ma l’elezione popolare e la stessa organizzazione per correnti politiche (socialisti, popolari, liberali, ambientalisti, ecc.), anziché per gruppi nazionali, conferirono all’organismo un maggiore peso, avvicinandolo ai cittadini.

Il Parlamento europeo (esterno e interno), Strasburgo [© Photo European Parliament/Architecture Studio Europe] Il Parlamento europeo ha una delle sue sedi a Strasburgo, in Francia (l’altra è a Bruxelles). Dal 1999 è ospitato in una struttura realizzata appositamente.

I progressi dell’integrazione

Le prime elezioni per il Parlamento europeo si tennero nel 1979. In quello stesso anno, al fine di rilanciare il processo di integrazione economica in parte compromesso dalla crisi METODO DI STUDIO petrolifera, e di proteggere le economie nazionali dall’insta a  Sottolinea i paesi che entrarono nella Cee dal 1973 ed evidenzia le conseguenze di queste adesioni. bilità valutaria, entrò in funzione il Sistema monetario eu b  Spiega quali sono le funzioni del Consiglio europeo e che cosa era il Sistema ropeo (Sme): un sistema di cambi fissi (o oscillanti entro monetario europeo. margini prestabiliti) fra le monete dei paesi membri, cui  c  Da chi viene eletto il Parlamento europeo? Sottolinea nel testo la risposta. aderirono tutti i membri della Cee, salvo la Gran Bretagna.

Lo Sme

759

C18 L’UNIONE EUROPEA



18_3 LA CREAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA

I grandi mutamenti degli equilibri di potenza e degli assetti economici mondiali maturati alla fine del secolo XX posero l’Europa occidentale di fronte a nuove e difficili sfide. Fu anche per rispondere a queste sfide che i dodici paesi membri della Comunità europea (sarebbero diventati quindici nel 1995, in seguito all’adesione di Austria, Svezia e Finlandia) decisero di dare nuovo impulso al processo di integrazione. Il primo passo importante in questo senso era stata, nel 1985, la firma degli accordi di Schengen (in Lussemburgo) che impegnavano gli Stati membri ad abolire entro dieci anni i controlli alle frontiere sul transito delle persone. Nel febbraio 1986, a Lussemburgo, fu sottoscritto l’Atto unico europeo, così chiamato perché affrontava in un unico testo gli aspetti riguardanti l’economia e quelli relativi al rafforzamento della cooperazione politica. Si stabiliva fra l’altro che entro il 1992 sarebbero state rimosse le residue barriere alla circolazione delle merci e dei capitali e si introduceva il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo dei ministri, le cui decisioni sin allora potevano essere bloccate dal veto di ogni singolo Stato.

L’Atto unico europeo

Le direttive dell’Atto unico divennero esecutive con la firma, nel febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht, di un nuovo trattato che istituiva l’Unione europea. Il trattato sanciva la completa unificazione dei mercati dall’inizio dell’anno successivo e allargava l’area di competenza delle istituzioni europee a campi nuovi, fra cui la ricerca e l’istruzione, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori. Si prevedeva inoltre una politica estera e di sicurezza comune (Pesc), che però non riuscì a esercitare un ruolo incisivo, anche perché qualsiasi decisione doveva essere approvata all’unanimità dagli Stati membri [►FS, 159d e 160].

Il trattato di Maastricht

La decisione più significativa, fra quelle assunte a Maastricht, fu però l’impegno a realizzare entro il 1999 il progetto di una moneta comune (cui sarebbe stato dato il nome di euro) e di una Banca centrale europea [►FS, 160]. Si stabiliva, infine, come condizione per l’adesione all’Unione monetaria, l’adeguamento a una serie di parametri comuni (criteri di convergenza) che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità

La moneta unica

760

La firma del trattato di Maastricht il 7 febbraio 1992

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

finanziaria dell’Unione: tassi di inflazione contenuti, cambi stabili per un periodo di almeno due anni prima dell’entrata in vigore della moneta unica, deficit statale annuo non superiore al 3% del prodotto interno lordo e debito pubblico non superiore al 60%.



METODO DI STUDIO

 a  Cerchia con colori diversi i nomi dei trattati citati nel testo, sottolinea i contenuti e cerchia le date di riferimento mantenendo i colori scelti.

18_4 L’EURO E LE POLITICHE DI AUSTERITÀ

All’inizio il cammino si rivelò irto di difficoltà, sia perché non era facile coordinare le decisioni dei singoli governi nazionali, sia perché la libertà di circolazione dei capitali favoriva le operazioni speculative contro le valute deboli: nel 1993 Gran Bretagna e Italia furono costrette a svalutare le loro monete e lo stesso sistema di cambi fissi attuato con lo Sme venne messo a dura prova. Inoltre gli sforzi dei governi per adeguarsi ai parametri di Maastricht mediante tagli alla spesa pubblica, soprattutto nei settori in cui questa tendeva naturalmente a espandersi – assistenza sanitaria, pensioni, trasferimenti agli enti locali – provocarono proteste diffuse, testimoniate, fra l’altro, dall’esito tutt’altro che trionfale dei refedeficit pubblico rendum sull’Unione tenuti in alcuni paesi: i “sì” prevalsero di stretta misura sia in Il deficit pubblico indica il saldo negativo tra le entrate Francia (settembre 1992) sia in Danimarca (maggio 1993). Le politiche restrittive (il prodotto interno lordo, ossia la somma dei beni e dei aggravavano infatti la crisi dei sistemi di Welfare [►16_1] e rendevano difficile l’uservizi prodotti) e le uscite (la spesa pubblica) dello Stato durante un anno. so della spesa pubblica per creare nuovi posti di lavoro. Per tutti gli anni ’90, la disoccupazione si mantenne su livelli molto elevati: nel 1997 la media nei paesi dell’Unione arrivava all’11,3%.

I tagli alla spesa pubblica

In realtà, la cura di austerità finanziaria imposta dal trattato di Maastricht non fece che mettere a nudo alcuni caratteri distorsivi che da tempo affliggevano le economie del vecchio continente e le rendevano poco competitive nel confronto con le più dinamiche realtà del Nord America o dell’Oriente: l’eccesso di spesa pubblica, che distoglieva risorse dagli investimenti produttivi; la difficile sostenibilità finanziaria, sui tempi lunghi, dei sistemi di sicurezza sociale (che per altri versi costituivano un vanto per la civiltà europea); la rigidità del mercato del lavoro, orientato più alla tutela dei “garantiti” che alla creazione di nuove opportunità per giovani e disoccupati. Da questo punto di vista, i tanto discussi parametri europei ebbero effetti salutari sulle politiche economiche di quei paesi (come l’Italia) che sembravano più lontani dagli obiettivi fissati.

I problemi delle economie europee

Nel maggio 1998, a sei anni dalla firma del trattato di Maastricht, venne ufficialmente inaugurata l’Unione monetaria europea (Ume) con la partecipazione di undici Stati: restarono fuori la Grecia, che non aveva raggiunto i parametri (sarebbe stata ammessa solo nel 2001), e la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svezia, che rinviarono l’adesione per loro scelta. Contem-

Il varo dell’euro

Il quartier generale della Banca centrale europea a Francoforte [foto di Eric Chan]

761

C18 L’UNIONE EUROPEA

◄  Il

ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi mostra il primo euro dicembre 1998 Come ministro del Tesoro del governo Prodi (1996-98) e del Bilancio per il governo D’Alema (1998-99), Ciampi ha dato un contributo determinante al raggiungimento dei parametri previsti dal trattato di Maastricht, permettendo così la partecipazione dell’Italia alla moneta unica europea, sin dalla sua creazione.

◄  L’euro,

la moneta unica dell’Unione europea L’euro è entrato in vigore il 1° gennaio del 2002 quando sono stati fissati i tassi di cambio con le valute nazionali ed è entrata in vigore la legislazione in merito.

poraneamente venne istituita la Banca centrale europea (Bce), che assorbiva alcune delle funzioni principali prima spettanti alle banche centrali dei singoli Stati membri, come METODO DI STUDIO l’emissione di moneta e il controllo del tasso di interesse; e si fissò al 1° genna a  Sottolinea gli effetti delle politiche restrittive io 1999 l’entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica, destinata imposte dal trattato di Maastricht. tre anni dopo (1° gennaio 2002) a sostituire interamente le valute nazionali. L’av b  Evidenzia i problemi delle politiche economiche degli Stati europei, emersi in seguito dell’applivio della circolazione dell’euro rappresentò il segno più tangibile dei progressi cazione delle direttive di Maastricht. raggiunti nel processo di integrazione europea: l’uso di una moneta valida al di  c  Spiega per iscritto in cosa consiste l’Unione molà delle frontiere nazionali, infatti, contribuì a rafforzare il senso di appartenenza netaria europea e quali conseguenze ha comportato la sua istituzione. a un grande spazio comune continentale [►FS, 160].



18_5 LA SCENA POLITICA EUROPEA TRA XX E XXI SECOLO

Il dibattito sui modi e sui tempi di realizzazione del progetto europeo finì inevitabilmente col dominare la scena politica dei singoli paesi e col condizionare le scelte di governi e forze politiche. In un primo tempo, parve che a fare le spese delle difficoltà inerenti al processo di integrazione fossero soprattutto i partiti di matrice socialista, costretti a confrontarsi con problemi e rimedi poco congeniali ai loro orientamenti di fondo. In Germania la coalizione fra cristiano-democratici e liberali guidata da Helmut Kohl prevalse (per la quarta volta consecutiva) nelle elezioni dell’ottobre ’94. In Francia, scaduto il secondo mandato di Mitterrand, la coalizione di centro-destra (già vincitrice nelle politiche del ’93) portò alla presidenza della Repubblica, nel ’95, il gaullista Jacques Chirac. In Spagna, nel marzo ’96, i socialisti di González, al potere da quindici anni, furono sconfitti tasso di interesse dai conservatori di José María Aznar.

La prevalenza dei moderati

762

Successivamente la tendenza si invertì: le forze di ispirazioI successi ne progressista si affermarono in Italia (aprile ’96), in Frandei socialisti cia (maggio ’97) e in Gran Bretagna, dove, sempre nel maggio ’97, i laburisti di Tony Blair prevalsero con largo margine sui conservatori, al

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

È la remunerazione richiesta per un prestito, misurata in percentuale sull’importo della somma prestata, in riferimento a un periodo di tempo dato. I tassi di interesse correnti sono determinati dal livello del “tasso di sconto”, quello che le banche centrali applicano nei prestiti alle altre banche.

Vertice del G8 a Heiligendamm (Germania) giugno 2007 Da destra in senso orario: la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente degli Stati Uniti George Bush, il primo ministro inglese Tony Blair, il presidente del Consiglio italiano Romano Prodi, il presidente della Commissione europea José Manuel Durão Barroso, il primo ministro giapponese Shinichiro Abe, il primo ministro canadese Stephen Harper, il presidente francese Nicolas Sarkozy e il presidente russo Vladimir Putin.

potere da diciotto anni: un successo favorito dalla grande popolarità di Blair, abile, come Clinton negli Stati Uniti, nel conquistare l’elettorato moderato conciliando la vocazione sociale del suo partito con il rilancio delle logiche del mercato. La sconfitta dei moderati in Francia costituì invece un’autentica sorpresa: la vittoria delle sinistre, presentatesi con un programma che prevedeva fra l’altro la riduzione dell’orario di lavoro a trentacinque ore settimanali, suonò come implicita protesta contro un’applicazione giudicata troppo rigida delle regole stabilite a Maastricht. La conferma del mutamento di tendenza veniva, nel settembre ’98, dalla Germania, dove la netta vittoria dei socialdemocratici di Gerhard Schröder sulla coalizione fra cristiano-democratici e liberali pose fine alla lunga stagione politica del cancelliere Kohl, il principale artefice della riunificazione tedesca. Nel decennio successivo, conservatori e progressisti continuarono ad alternarsi alla guida dei governi europei. In Francia le elezioni parlamentari del 2002 videro il ritorno al potere dei gaullisti, che nel 2007 portarono alla presidenza Nicolas Sarkozy, poi sconfitto nel 2012 dal socialista François Hollande. In Spagna, le elezioni del 2004 riconsegnarono il governo ai socialisti, guidati da José Luis Rodríguez Zapatero, promotore di radicali riforme laiche nel campo dei diritti civili. Zapatero sarebbe stato confermato nel 2008, ma, anche in seguito alla crisi economica che aveva colpito il paese, perse le elezioni anticipate del 2011 e cedette la guida del governo al leader dei popolari Mariano Rajoy. In Germania, nel 2005, il sostanziale equilibrio fra i due partiti principali portò a un accordo programmatico sulle misure necessarie per il rilancio dell’economia e alla nascita di un governo di grande METODO DI STUDIO coalizione presieduto dalla cristiano-democratica Angela Merkel che si sareb a   Spiega perché in un primo momento i partiti be affermata nuovamente nel 2009, questa volta in coalizione con i liberali. In socialisti europei hanno avuto scarso successo elettoGran Bretagna, l’esperienza governativa di Tony Blair, logorato anche dalla rale e quali sono stati, invece, i fattori che ne hanno scelta di schierare la Gran Bretagna a fianco degli Usa nell’impopolare guerra permesso l’affermazione successiva.  b   Sottolinea con colori diversi i nomi dei politiall’Iraq [►17_6 e 7], si concluse nel 2007, dopo dieci anni e senza una sconfitta ci conservatori e dei progressisti che si sono alternati elettorale, con le dimissioni di Blair che lasciò la carica al suo collega di partito al governo nei diversi Stati europei. Gordon Brown.

Nuovi avvicendamenti

763

C18 L’UNIONE EUROPEA

18_6 L’ALLARGAMENTO DELL’UNIONE TRA PROGRESSI



E RESISTENZE

All’inizio del nuovo secolo, lo slancio che aveva portato i governi europei allo storico traguardo dell’euro parve esaurirsi. E il cammino verso l’integrazione politica tornò a farsi più lento. Nel contempo però, a riprova di una persistente vitalità del progetto unitario, o quanto meno della sua capacità di fungere da polo di attrazione per i paesi vicini, si accelerava il processo di allargamento che, nel giro di pochi anni, avrebbe portato l’Unione a coincidere di fatto con l’Europa geografica (Russia esclusa), cancellando definitivamente, almeno sul piano dell’organizzazione politica, la grande frattura creatasi mezzo secolo prima con l’inizio della guerra fredda.

L’Ue all’alba del nuovo millennio

Richieste di associazione furono avanzate nel corso degli anni ’90 da tutti gli Stati dell’Europa ex comunista e anche da alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo, tra cui la Turchia. Con dodici di questi paesi (Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Romania, Slovacchia, Slovenia, oltre a Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, questi ultimi tre già membri della Nato) i negoziati per l’adesione ebbero inizio nel

Le nuove adesioni

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41_L’UNIONE EUROPEA 2016

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paesi aderenti all’Ue dal 1993 paesi aderenti all’Ue dal 1995 U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI paesi aderenti all’Ue dal 2004 paesi aderenti all’Ue dal 2007 paesi aderenti all’Ue dal 2013

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Con gli allargamenti del 2004 e del 2007, entrarono a far parte dell’Unione europea molti dei paesiGRAN già retti da regimi comunisti e BRETAGNA inclusi nell’area di influenza dell’Urss. PA Restavano fuori, oltre all’Albania, BA gli Stati nati dalla disgregazione BE dell’ex Jugoslavia (Serbia, Croazia, LG Bosnia, Montenegro, Repubblica di IO Macedonia), con l’eccezione della LU SS Slovenia, ammessa già nel 2004; la EM Croazia invece, è entrata nella Ue BU RG nel 2013. Con Albania, Macedonia, Serbia e Montenegro sono in corso negoziati per l’ammissione. F R A N C I A Più complessa la trattativa con un altro candidato-membro, la Turchia, paese compattamente islamico, geograficamente fuori dall’Europa (salvo che per un piccolo lembo del suo territorio).

CIPRO

paesi aderenti all’Ue dal 1993 paesi aderenti all’Ue dal 1995 paesi aderenti all’Ue dal 2004 paesi aderenti all’Ue dal 2007 paesi aderenti all’Ue dal 2013 paesi dell’area euro

luglio 1997 e, dopo una lunga valutazione dei requisiti, fu deciso dal maggio 2004 l’ingresso di dieci Stati; Bulgaria e Romania, in un primo momento escluse, furono ammesse nel gennaio del 2007, portando così a 27 il numero degli Stati membri. Con l’ammissione della Croazia nel 2013 il numero salì a 28 [►FS, 161]. Questo allargamento, realizzato in tempi piuttosto rapidi, riaccese il dibattito sul ruolo delle istituzioni comunitarie e sulla loro capacità di offrire all’Europa una guida forte anche dal punto di vista politico. Nel 2000, proprio allo scopo di riformare l’Unione e di potenziarne l’azione rispetto a quella dei governi nazionali, i paesi membri decisero di dar vita a una “Convenzione” composta da parlamentari e rappresentanti dei governi, con il compito di redigere una Carta costituzionale della Ue. La Convenzione si riunì a Nizza e nel 2001, dopo sedici mesi di lavoro, presentò un progetto di Costituzione che sarebbe stato approvato nel giugno 2003: il documento conteneva un elenco dei princìpi generali alla base dell’Unione e uno schema di riforma delle istituzioni comunitarie. Nelle intenzioni degli europeisti, l’approvazione di una Costituzione europea avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso una più stretta integrazione politica del continente.

La Convenzione europea

Il traguardo tuttavia appariva ancora lontano. Se per un verso l’ingresso dei nuovi membri dava corpo per la prima volta all’ideale di un’Europa capace di superare antiche e recenti divisioni ideologiche e politiche e di accogliere nuove energie e nuove aspirazioni al benessere, per altro verso il progetto comunitario appariva a molti calato dall’alto e non riusciva a trovare un adeguato consenso popolare: ne fu testimonianza il basso livello di partecipazione alle elezioni europee del giugno 2004 registrato in molti paesi. Ma il colpo più duro per le aspirazioni degli europeisti venne un anno dopo, quando, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 2005, gli elettori della Francia e dell’Olanda, entrambi paesi fondatori della Comunità europea, chiamati a decidere mediante referendum sulla ratifica della Costituzione, si pronunciarono per il “no” con margini piuttosto netti (57% in Francia, 63% in Olanda). Giocarono nell’esito del voto la protesta contro i vincoli di politica economica imposti dall’appartenenza all’Unione e il timore di un’eccessiva liberalizzazione del mercato del lavoro, che avrebbe favorito l’afflusso nei paesi più ricchi di manodopera a basso costo destinata a far concorrenza ai lavoratori locali.

Le difficoltà del processo di integrazione

Nell’ottobre del 2007, un tentativo di rilanciare il processo di integrazione venne da un vertice europeo tenuto a Lisbona. In questo vertice i capi di Stato e di governo dei paesi membri si accordarono sul testo di un nuovo trattato di riforma, che correggeva in

Il nuovo trattato

La cerimonia per la firma del trattato di Lisbona 13 dicembre 2007 Durante una solenne cerimonia nel Monastero di San Geronimo a Lisbona, i 27 capi di Stato e di governo appongono la loro firma al trattato che pone fine a sei lunghi anni di dibattiti e incontri sulla riforma istituzionale dell’Unione europea.

765

C18 L’UNIONE EUROPEA

parte, limitandone le ambizioni, la Convenzione di Nizza, ma allargava le competenze delle autorità europee in materia di energia e di sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità. I progressi compiuti sul piano istituzionale non bastarono però a restituire slancio al processo di unificazione: anche perché, proprio a partire dal 2007, l’Europa intera fu colpita dalla crisi economica più grave e più lunga mai verificatasi dopo il secondo conflitto mondiale [►24_1 e 24_5]. La crisi non solo contribuì a rallentare il cammino verso l’unità europea, ma diede spazio e visibilità alle forze avverse all’integrazione, invertendo la direzione di una marcia che era fino ad allora rimasta costante pur nella lentezza del suo procedere. Le difficoltà finanziarie di alcuni fra i paesi più deboli, soprattutto nell’area mediterranea, misero in allarme le più forti economie dei paesi del Nord, timorosi di doversi accollare gli oneri di eventuali insolvenze. Si cominciò così a parlare di una possibile uscita dall’Ue dei membri inadempienti, come la Grecia e la stessa Italia, gravati da un pesantissimo debito pubblico. Questo esito fu allora scongiurato. Ma, come vedremo [►24_6], ad abbandonare il progetto europeo in seguito all’esito di un referendum sarebbe stato, nell’estate 2016, un paese “forte” come la Gran Bretagna, da sempre gelosa della sua peculiarità atlantica e insulare e insofferente dei limiti imposti dalle regole dell’Unione alle sue scelte economiche e di politica estera. Con la fuoruscita della Gran Bretagna (la Brexit), la costruzione europea subiva la sua prima defezione.

Le spinte centrifughe

Manifestanti antiBrexit protestano a Londra contro il referendum del 23 giugno 2016 che avrebbe deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea, con colori diversi, le informazioni principali relative ai seguenti aspetti dell’Unione europea: a. il numero degli Stati aderenti nel 2004 e nel 2007; b. lo scopo della Convenzione del 2001; c. gli esiti dei referendum sulla Costituzione e le relative motivazioni; d. la data e i contenuti del trattato di Lisbona; e. le manifestazioni di scontento emerse negli Stati europei.  b  Evidenzia le difficoltà del processo di integrazione europea sorte in questi anni.  c  Spiega cosa s’intende con l’espressione Brexit.

22_I TRATTATI FONDATIVI DELL’UNIONE EUROPEA

Luogo

Data

Esiti

1957

Istituzione della Comunità economica europea (Cee): libera circolazione di uomini e capitali e coordinamento delle politiche economiche nelle aree depresse.

Parigi

1974

Istituzione del Consiglio europeo col compito di tracciare le linee-guida del processo di integrazione; il Parlamento europeo diventa elettivo.

Schengen

1985

Libero transito e libera circolazione delle persone all’interno degli Stati membri.

Lussemburgo

1986

Atto unico europeo: rimozione delle residue barriere alla circolazione delle merci e dei capitali e introduzione del voto a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo dei ministri.

Maastricht

1992

Nascita dell’Unione europea: unificazione dei mercati, ampliamento delle competenze delle istituzioni europee (ricerca e istruzione, sanità e tutela dei consumatori); adozione della moneta unica (euro) e istituzione della Banca centrale europea.

Nizza

2001-2003

Convenzione europea: carta costituzionale della Ue con un elenco dei princìpi generali dell’Unione e uno schema di riforma delle istituzioni comunitarie.

Lisbona

2007

Nuovo trattato di riforma: allargamento delle competenze delle autorità europee in materia di energia e di sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità.

766

Roma

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

LABORATORIO DI CITTADINANZA LA CITTADINANZA EUROPEA

U

na delle più importanti novità introdotte dal trattato di Maastricht del 1992 è l’istituzione della cittadinanza europea, in base alla quale è considerato “cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”. Quindi, acquisendo la cittadinanza di un paese dell’Unione europea si acquista, automaticamente, anche la cittadinanza comunitaria. Per rendere quest’ultima più tangibile, si decise di modificare l’aspetto del passaporto, che materialmente e simbolicamente rappresenta l’appartenenza a una comunità nazionale. Il nuovo passaporto, comune a tutti i cittadini dell’Unione europea, reca impresso sulla copertina non solo il nome dello Stato di appartenenza, ma anche il titolo “Unione europea”. Già il trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità economica europea, aveva riconosciuto per i cittadini dei paesi membri la libertà di spostarsi, lavorare e risiedere in ogni parte del territorio comunitario. Le norme sulla circolazione delle persone, legate soprattutto all’esigenza di assicurare mobilità alla forza-lavoro, distinguevano però tra i lavoratori subordinati, cui era assicurata la libertà di spostarsi da un paese all’altro per esercitare il proprio lavoro, e quel-

li che svolgevano attività autonoma (cui era riconosciuto anche il “diritto di stabilimento”, ossia la possibilità di stabilirsi in altri Stati). Il trattato di Maastricht, oltre a rafforzare la possibilità, per i cittadini europei, di circolare liberamente tra gli Stati membri, di stabilirvisi e risiedervi, ha introdotto nuovi diritti. Il più importante è il riconoscimento del diritto di votare ed essere eletti nelle elezioni comunali e in quelle per il Parlamento europeo nello Stato di residenza. Inoltre, viene riconosciuto a ogni cittadino europeo il diritto di presentare petizioni all’Europarlamento su questioni che lo riguardino direttamente, per potersi tutelare soprattutto in caso di cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie. Grazie a queste disposizioni, temi complessi e fondamentali come la cittadinanza, i diritti degli individui e i rapporti dei singoli con le istituzioni sono entrati pienamente a far parte delle materie regolate dal diritto comunitario. Grazie agli accordi di Schengen e al trattato di Maast­richt [►18_3] è diventato possibile, per un cittadino europeo, spostarsi all’interno dell’Unione come se si muovesse entro i confini del suo Stato, cioè senza dover subire controlli, chiedere autorizzazioni o mostrare documenti.

La cittadinanza europea e il riconoscimento dei relativi diritti rispecchiano, più in generale, l’importanza che sin dall’inizio l’Unione europea ha assegnato al principio dello Stato di diritto e alla promozione dei diritti umani come propri valori fondanti. Infatti, un requisito fondamentale per far parte dell’Unione è l’abolizione della pena di morte. Nel 2000 il Parlamento europeo ha quindi approvato una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, composta di 54 articoli, che riassume tutti i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini europei e di tutte le persone che vivono sul territorio dell’Unione. Tra l’altro, la Carta dichiara l’inviolabilità della dignità umana e il diritto all’integrità della persona, la garanzia della libertà di pensiero,

I rappresentanti dei paesi dell’Unione europea in occasione della firma della Costituzione nel 2004 Il 29 ottobre 2004 a Roma in Campidoglio i capi di Stato e di governo dei 25 Paesi allora membri della Ue firmarono il Trattato che adottava la Costituzione europea: un progetto di revisione dei trattati fondatori dell’Unione europea, che però non fu mai attuato in seguito al risultato negativo dei referendum tenuti in Francia e in Olanda.

767

C18 L’UNIONE EUROPEA

coscienza o religione, di espressione e informazione, di riunione e associazione. Essa afferma anche l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, i diritti fondamentali dei lavoratori, il diritto a un giudice imparziale e alla presunzione di innocenza. All’impegno dimostrato verso il tema dei diritti individuali e della cittadinanza, tuttavia, non è corrisposto, secondo molti osservatori, un analogo sforzo per garantire una maggiore rappresentatività democratica delle istituzioni comunitarie. I tentativi effettuati in questa direzione, infatti, hanno generalmente prodotto risultati inferiori alle attese. Anche la mancata approvazione del progetto di una Costituzione europea, elaborato nel 2001-2003 dalla Convenzione di Nizza [►18_6], non solo ha comportato una battuta d’arresto del processo di integrazione politica ma ha reso anche evidenti i notevoli ostacoli incontrati da una riforma delle istituzioni.

Le strutture dell’Unione appaiono quindi, a larga parte dell’opinione pubblica europea, solo parzialmente in grado di garantire ai cittadini una piena rappresentanza democratica: il Parlamento europeo, l’unico organo comunitario elettivo, è infatti dotato di poteri limitati. Alle debolezze istituzionali si somma poi la scarsa informazione relativa ai lavori dell’Europarlamento e degli altri organi comunitari, sia da parte dei mass media, sia nell’ambito dei dibattiti politici interni alle diverse nazioni.

Manifesto della Festa dell’Europa: “Conosci i tuoi diritti, fai valere i tuoi diritti” 9 maggio 2011

LABORATORIO DI SCRITTURA DI CITTADINANZA 1 Realizza una presentazione PowerPoint (Ppt) dal titolo La cittadinanza europea, il cui scopo è quello di illustrare i

diritti ulteriori derivanti dalla cittadinanza europea rispetto a quelli garantiti a livello nazionale.

Puoi servirti della scaletta che ti proponiamo e, per ciascun punto, integrare le tue conoscenze ricercando sul sito dell’Ue gli ulteriori approfondimenti che ti segnaliamo.

● Il concetto di cittadinanza europea. ● I diritti dei cittadini europei: la libertà di circolazione e soggiorno. Approfondimento: articoli 8 e 8A del trattato di Maastricht + articolo 16 della Costituzione italiana.

● I diritti dei cittadini europei: i diritti dei lavoratori dell’Ue. Approfondimento: i vantaggi derivanti dal mutuo riconoscimento dei diplomi e i servizi offerti della rete Eures.

● I diritti dei cittadini europei: i diritti politici. Approfondimento: articoli 8B, 8C, 8D del trattato. I VALORI E L’IDENTITÀ EUROPEI 2 Il documento che ti proponiamo è un estratto dal Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Leggilo e

rispondi alle domande. I popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui princìpi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

768

a. Quali sono i valori fondamentali tutelati dalla Carta?

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

L’Unione contribuisce al mantenimento di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento. [dal Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 2000]

b. A tuo giudizio, i valori europei sono incompatibili con le identità nazionali?

3 Osserva attentamente

il grafico e rispondi alle domande.

a. Quali sono i paesi dell’Ue

in cui il sentimento di appartenenza nazionale è particolarmente forte?

b. Quali sono quelli in cui il

sentimento europeo è maggiormente sviluppato?

c. Prova a spiegare perché.

Di quale nazionalità lei si sente? Lussemburgo Italia Francia Spagna Germania Belgio Danimarca Portogallo Paesi Bassi Irlanda Austria Grecia Svezia Finlandia Regno Unito

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(Nazionalità) et europeo/a (%)

Europeo/a et (nazionalità) (%)

(Nazionalità) soltanto (%)

% «non so» non riportato - Sondaggio: Eurobarometro (Commissione europea 2014)

QUANTO CI SENTIAMO EUROPEI? 4 L’Unione europea, a detta di alcuni, sembra soffrire di una sorta di “deficit democratico” dovuto all’eccessivo tecnocraticismo della

Commissione di Bruxelles che, da un lato, sfugge al controllo dei cittadini, dall’altro si mostra poco sensibile e vicina ai problemi degli stessi.

Proviamo a fare un sondaggio per misurare il nostro sentimento di appartenenza all’Unione europea. Somministra il questionario Quanto ci sentiamo europei? all’interno della tua scuola o della tua famiglia o della tua cerchia di amici. Il sondaggio serve a capire quanto ci sentiamo realmente cittadini europei. Al termine della somministrazione, tabula i dati ed esprimi una tua valutazione sui risultati. Quanto ci sentiamo europei Domanda 1. Ti capita di pensare a te stesso come cittadino europeo: □ molto spesso

□ mai

□ spesso

□ senza opinione

□ non molto spesso Domanda 2. Rispetto all’Unione europea hai un atteggiamento: □ euroscettico (europessimista)

□ senza opinione

□ euro-ottimista Giustifica la tua risposta, qualsiasi essa sia: ................................................................................. Domanda 3. Quali tra i seguenti elementi ti fanno sentire cittadino europeo? Indicane almeno due. □ l’euro

□ la storia

□ la bandiera europea

□ la cultura

□ il Parlamento europeo

□ i valori della democrazia e della libertà

□ l’inno europeo

□ l’Agenzia spaziale europea

□ l’Erasmus

769

C18 L’UNIONE EUROPEA

SINTESI

18_1 IL PROGETTO EUROPEO FRA UTOPIA E REALISMO Dopo la fine della seconda guerra mondiale negli Stati europei, privati del loro ruolo di centro della politica internazionale si cominciò a prendere in considerazione l’idea di una comunità integrata che superasse le logiche dello Stato nazionale. La difficoltà di attuare un progetto federalista aprì la strada all’opzione “funzionalista”, che privilegiava la messa in comune di funzioni e compiti specifici, soprattutto in campo economico, ma che avrebbe dovuto portare con sé anche le premesse di una integrazione politica.

18_2 L’ALLARGAMENTO DELLA CEE

770

Fra il 1973 e il 1986, la Comunità economica europea raddoppiò il numero dei suoi membri, da sei a dodici, grazie all’adesione di Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Grecia, Portogallo e Spagna. Nel 1974, in un vertice tenutosi a Parigi, fu istituito un nuovo organismo, il Consiglio europeo, col compito di tracciare le linee-guida del processo di integrazione; si stabilì anche che il Parlamento europeo sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini, con scadenza quinquennale, in base alle leggi elettorali vigenti nei singoli paesi. Nel 1979, al fine di rilanciare il processo di integrazione economica e di proteggere le economie nazionali dall’instabilità

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

valutaria, entrò in funzione il Sistema monetario europeo (Sme): un sistema di cambi fissi fra le monete dei paesi membri, cui però non aderì la Gran Bretagna.

18_3 LA CREAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA Il primo passo importante nel processo di integrazione fu, nel 1985, la firma degli accordi di Schengen, che impegnavano gli Stati membri ad abolire entro dieci anni i controlli alle frontiere sul transito delle persone. Dopo la firma nel 1986 dell’Atto unico europeo, un passo decisivo nel processo di integrazione europea fu la stipula del trattato di Maastricht (1992). La decisione più significativa e più visibile, fra quelle assunte a Maastricht, fu l’impegno a realizzare entro il 1999 il progetto di una moneta comune (cui sarebbe stato dato il nome di euro) e di una Banca centrale europea. Si stabiliva, infine, come condizione per l’adesione all’Unione monetaria, l’adeguamento a una serie di parametri comuni che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità finanziaria dell’Unione.

I conseguenti effetti negativi sul piano sociale provocarono tra i cittadini reazioni di protesta e disaffezione nei confronti delle istituzioni comunitarie. Nel 1998 vennero ufficialmente istituite l’Unione monetaria europea (Ume) e la Banca centrale europea (Bce). A partire dal gennaio 2002 l’euro sostituì le monete nazionali (tranne che in Gran Bretagna, Danimarca e Svezia).

18_5 LA SCENA POLITICA EUROPEA TRA XX E XXI SECOLO Il dibattito sull’Unione europea (e sui vincoli che essa poneva alle politiche nazionali) si intrecciò con le vicende dei singoli paesi, che videro in questi anni una regolare alternanza tra forze moderate e forze di orientamento progressista. Negli anni ’90, in Germania, Francia e Spagna, le difficoltà relative al processo di integrazione penalizzarono inizialmente i partiti di ispirazione socialista. Successivamente, però, furono le coalizioni di sinistra a ottenere una serie di successi elettorali.

18_4 L’EURO E LE POLITICHE DI AUSTERITÀ

18_6 L’ALLARGAMENTO DELL’UNIONE TRA PROGRESSI E RESISTENZE

Per garantire il rispetto dei parametri di Maastricht, i paesi Ue furono costretti ad adottare politiche di tagli alla spesa pubblica e di austerità.

All’inizio del nuovo secolo, l’Unione accolse le richieste di adesione di quasi tutti i paesi ex comunisti dell’Europa orientale. Fu così cancellata

la frattura creatasi con la guerra fredda. Nel 2007 il numero degli Stati membri arrivò a ventisette, e nel 2013 a ventotto. Segnò invece il passo il processo di integrazione politica, soprattutto dopo la bocciatura, nel 2005, da parte dell’elettorato francese e olandese, del progetto di Costituzione europea elaborato, fra il 2001 e il 2003, da un’apposita Convenzione. Nel 2007, in occasione del vertice europeo di Lisbona, fu approvato un trattato di riforma che allargava le competenze dell’Unione in materia di energia e di sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità. La crisi economica del 2007-2008 introdusse nuovi elementi di contrasto all’interno dell’Unione, dando spazio alle forze avverse all’integrazione. Queste forze ebbero il sopravvento in Gran Bretagna, provocandone l’uscita dall’Ue in seguito all’esito di un referendum nel giugno 2016 (Brexit).

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Abbina i nomi dei seguenti trattati alle relative definizioni.

a. Atto unico europeo b. Trattato di Schengen c. Trattato di Maastricht

1. Vi viene istituita l’Unione europea e sancita la completa unificazione dei mercati. 2. Conteneva sia gli aspetti riguardanti l’economia sia quelli relativi al rafforzamento della cooperazione politica. 3. Vi fu preso l’impegno a coniare entro il 1999 una moneta comune e di istituire una Banca centrale europea. 4. Vi si definiva l’abolizione dei controlli alle frontiere sul transito delle persone. 5. Vi si stabiliva una serie di parametri comuni come condizione per l’adesione all’Unione monetaria.

2 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate. Focalizzerai in questo modo la tua attenzione su alcuni aspetti

iniziali dell’integrazione europea.

a. Gli sforzi richiesti alle popolazioni per adeguare l’economia nazionale ai parametri di Maastricht riguardavano soprattutto tagli alla spesa pubblica. ................................................................................................................................................................................. b. Fra il 1992 e il 1993 si tennero alcuni referendum sull’Unione in cui i sì prevalsero di larga misura (es: in Francia e in Danimarca). ................................................................................................................................................................................. c. I sistemi di Welfare si dimostrarono capaci di fronteggiare i tagli che furono necessari generando nuovi posti di lavoro. ................................................................................................................................................................................. d. L’Unione monetaria europea (Ume) fu inaugurata con la partecipazione di undici Stati. ................................................................................................................................................................................. e. L’uso di una moneta unica favorì l’economia europea, ma non l’adesione al sentimento di comunità. ................................................................................................................................................................................. f. Con la nascita dell’Europa unita furono soprattutto i partiti di matrice socialista a essere penalizzati. ................................................................................................................................................................................. g. I problemi legati alla nascita dell’Europa unita dipendevano soprattutto dalle specificità nazionali. ................................................................................................................................................................................. h. L’immigrazione, soprattutto quella dall’Europa orientale e dal Nord Africa, era stata disincentivata grazie agli accordi di Schengen. ................................................................................................................................................................................. i. La Brexit è stata una scelta motivata dal pesantissimo debito pubblico della Gran Bretagna. .................................................................................................................................................................................

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3 Seleziona, fra quelli proposti di seguito, gli Stati che sono entrati a far parte dell’Unione europea dal 2004.

a. Turchia; b. Bulgaria; c. Romania; d. Italia; e. Lettonia; f. Repubblica Ceca; g. Ungheria; h. Estonia; i. Cipro; l. Malta; m. Polonia; n. Lituania; o. Francia; p. Slovenia; q. Finlandia; r. Slovacchia 4 Sottolinea nei testi che seguono i concetti sbagliati (2 nel primo, 1 nel secondo e nel terzo brano) e riscrivi gli

elaborati sul tuo quaderno nella versione corretta. Chiarirai in questo modo alcune tappe del processo di integrazione europea.

a. L’ingresso dei nuovi membri nel 2004 sembrava dare corpo all’ideale di un’Europa basata su di un passato politico comune. L’adeguato consenso popolare era testimoniato dall’alto livello di partecipazione alle elezioni europee del giugno 2004. b. Nel 2005, gli elettori della Francia e dell’Olanda, entrambi paesi fondatori della Comunità europea, chiamati a decidere mediante referendum sulla ratifica della Costituzione, si pronunciarono per il sì. c. Nel 2007 si tenne a Lisbona un vertice europeo in cui i capi di Stato e di governo dei paesi membri decisero di allargare le competenze delle autorità europee per quel che riguarda il commercio e la libera circolazione degli individui.

771

C18 L’UNIONE EUROPEA

5 Completa la carta geostorica

dell’Unione europea assegnando un diverso colore agli Stati aderenti nei periodi seguenti: 1992: paesi aderenti al trattato di Maastricht 1995: aderenti all’Europa “dei quindici” 2004: allargamento all’Europa orientale 2016: referendum sulla Brexit

Indica inoltre con due simboli a tua scelta: i paesi aderenti all’Ue al 2007 gli Stati dell’area euro

COMPETENZE IN AZIONE 6 Scrivi un testo di massimo 20 righe sulle tappe principali della nascita dell’Unione europea facendo riferimento agli

eventi elencati di seguito. Scegli un titolo per il tuo elaborato e corredalo di almeno due fra immagini/carte geostoriche/ grafici presenti nel capitolo (ricordati di numerarli e di citarli fra parentesi quando vi fai riferimento).

a. I primi tentativi di integrazione europea e gli ostacoli incontrati b. Il trattato di Maastricht c. L’unione monetaria d. La Convenzione europea e. Le resistenze nazionaliste 7 Disponi in ordine cronologico i seguenti trattati che hanno definito il percorso di integrazione europea e utilizzali come

scaletta per la realizzazione di un testo di massimo 15 righe che ne argomenti i contenuti. Scegli il taglio e il titolo per il tuo elaborato.

772

a. Trattato di Maastricht b. Trattato di Lisbona c. Atto unico Europeo d. Convenzione europea e. Trattato di Schengen

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

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Focus Le armi di distruzione di massa Audiosisntesi

CAP19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE



19_1 UN’AREA CONTESA

► Leggi anche: ► Parole della storia Fondamentalismo, p. 774

Dopo la fine della guerra fredda, i principali focolai di tensione del sistema internazionale si manifestarono in Medio Oriente, ovvero in quella vasta area abitata da popolazioni di religione musulmana che andava dal Nord Africa al Golfo Persico. Nella seconda metà del ’900, la centralità di questa area fu accentuata dall’insorgere di nuovi motivi di scontro. Il jihad primo fattore era costituito dal crescente interesse del Per i musulmani il termine jihad significa “lotta, sforzo, combattimento (sul cammino di Dio)”. mondo industrializzato per la risorsa-petrolio, le cui riAlcuni danno a questa parola il senso morale della faticosa conquista personale della fede, altri la serve erano concentrate per la maggior parte (oltre il 60% intendono in senso militare, ossia come obbligo di diffondere il messaggio di Allah, di convertire gli secondo calcoli del 2005) proprio nella regione medioinfedeli. L’integralismo ha radicalizzato il significato militare e offensivo del jihad: tutto ciò che si frappone tra Allah e gli uomini deve essere distrutto. rientale: un interesse che si accrebbe esponenzialmente dopo la “guerra del Kippur” del 1973 e la conseguente crisi petrolifera [►13_7 e 16_1]. Il secondo fattore fu l’agManifestazione di gravarsi e il cronicizzarsi, nonostante i ricorrenti tentatiintegralisti islamici a Casablanca vi di soluzione pacifica, del conflitto arabo-israeliano (Marocco) per la Palestina, manifestatosi già all’indomani della 12 marzo 2000 [foto di Jacques Langevin] prima guerra mondiale e poi esploso in una lunga seIn Marocco, l’ascesa quenza di scontri e di vere e proprie guerre. al trono del re

Nuovi fattori di tensione

Il terzo fattore – il più inquietante e Il fondamentalismo il più imprevisto – fu infine la rinascita, in forme nuove e aggressive, del fondamentalismo islamico: quella corrente che, sulla base di una interpretazione rigida delle norme del Corano, mirava a una “reislamizzazione” della società e chiamava i musulmani alla jihad (guerra santa) contro gli infedeli e gli eretici. Si trattava di un fenomeno complesso, esteso al di là dell’area mediorientale e radicato soprattutto negli strati più poveri delle società islamiche. Vi confluivano movimenti eterogenei negli obiettivi e nelle modalità d’azione, e tuttavia accomunati dall’opposizione agli orientamenti laici e dal rifiuto della cultura occidentale. La divisione fra tradizionalismo religioso e nazionalismo laico era presente nei paesi arabi fin dagli anni fra le due guerre mondiali. A partire dagli anni ’50, i movimenti nazionalisti, per lo più guidati dai militari

Mohammed VI nel 1999 lasciò sperare la parte progressista e moderata del paese in una apertura alle trasformazioni in senso democratico. Alcune riforme proposte e sostenute dal governo marocchino in quegli anni si scontrarono però con la dura opposizione dei conservatori e degli integralisti islamici. Nel 2000, un’imponente manifestazione organizzata a Casablanca dai fondamentalisti islamici riuscì a far cadere un disegno di riforma, il “Piano per l’integrazione delle donne nello sviluppo”, denunciando il progetto come filo-occidentale e antimusulmano.

773

C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

(come nell’Egitto di Nasser), si erano imposti quasi ovunque sull’onda delle lotte contro il dominio europeo e avevano represso, o comunque tenuto sotto controllo, l’attività dei gruppi religiosi tradizionalisti, come i Fratelli musulmani [►10_3 e 13_5]. Furono gli insuccessi dei regimi laici, spesso autoritari e corrotti, ad aprire spazi ai movimenti più radicali e ad agevolarne la diffusione. A partire dagli ultimi decenni del ’900, il rilancio dell’islam fondamentalista si accompagnò al riacutizzarsi delle antiche divisioni religiose interne al mondo musulmano, a cominciare da quella fra sunniti e sciiti, che risaliva addirittura al VII secolo e alle dispute, dottrinarie e di potere, scoppiate dopo la morte di Maometto fra i discendenti e aspiranti eredi del profeta. I sunniti sono assai più numerosi su scala mondiale (circa un miliardo e trecento milioni contro duecentotrenta milioni di sciiti nel 2015). Gli sciiti sono largamente maggioritari in Iran, prevalenti in Siria e in Iraq e presenti in Libano e nello Yemen. Come vedremo più avanti, anche le fratture religiose avrebbero contribuito ad accrescere le tensioni, soprattutto fra due delle potenze economiche e militari dell’area – da un lato l’Iran, dall’altro l’Arabia Saudita, massimo produttore di petrolio e custode dei luoghi santi dell’islam –, intrecciandosi spesso con contrasti strategici e concreti scontri di interesse.

I FATTORI DI TENSIONE IN MEDIO ORIENTE

Guerra del Kippur e crisi petrolifera (1973)

Interessi occidentali per l’approvvigionamento di petrolio

Radicalizzazione dei nazionalismi

Ripresa del conflitto arabo-israeliano

Fallimento dei regimi laici

Diffusione del fondamentalismo islamico

Sunniti e sciiti

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia i nomi dei paesi facenti parte dell’area geografica che viene definita come “mondo islamico”.  b  Sottolinea le cause di tensione fra Medio Oriente e Occidente.  c  Spiega quali sono state le cause del risveglio del fondamentalismo islamico e quali le conseguenze.  d  Trascrivi sul quaderno le parole evidenziate in grassetto nell’ultimo sottoparagrafo. Quindi, descrivine sinteticamente i contenuti rispondendo alle 5W (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?).

Parole della storia

Fondamentalismo

S

774

i definisce “fondamentalismo” l’atteggiamento di chi si batte per un ritorno ai “fondamenti” della religione: dunque per una interpretazione letterale dei testi sacri posti alla base della propria confessione (si tratti della Bibbia, del Vangelo o del Corano) e per un’applicazione integrale dei precetti in essi contenuti, che dovrebbero informare di sé anche le leggi dello Stato, e dunque la politica, la cultura, la vita sociale e l’economia (in questo senso si parla anche di “integralismo”, un termine che però ha un significato più vago e un campo di applicazione più ampio). I movimenti fondamentalisti si considerano i legittimi detentori delle verità religiose originarie, inquinate dai processi di modernizzazione e si inseriscono nelle fasi di crisi offrendo una soluzione semplice e immediata: il ritorno, appunto, alle antiche tradizioni e alle certezze del credo religioso. Essi costituiscono pertanto organizzazioni e comunità chiuse, in cui non credenti

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

e dissidenti sono considerati nemici da combattere. Se l’atteggiamento fondamentalista è antico quanto le religioni, il termine “fondamentalismo” si è imposto soprattutto nel XX secolo. I primi a usarlo furono quei gruppi di protestanti conservatori americani che si riconoscevano nei Fundamentals, una raccolta di testi ricavata dalla Bibbia che doveva costituire la base per il rinnovamento spirituale della società. In ambito islamico, le origini del fondamentalismo contemporaneo vanno fatte risalire al movimento dei Fratelli musulmani, nato in Egitto alla fine degli anni ’20 del ’900 per iniziativa di un insegnante, Hasan al-Banna, con lo scopo di reagire all’occidentalizzazione della società in nome di una totale adesione ai precetti coranici. Ma la diffusione del fenomeno su vasta scala risale alla fine degli anni ’70, in coincidenza con la rivoluzione khomeinista in Iran [►19_3] e con la resistenza dei combattenti afghani all’occupazione sovietica. Il carattere militante e aggressivo di un certo islamismo radicale – manifestatosi in forma emblematica soprattutto con gli attentati dell’11 settembre 2001

alle Torri Gemelle di New York [►23_1] – ha fatto sì che il fondamentalismo islamico venisse avvertito in Occidente (e in molti degli stessi paesi musulmani) come una minaccia permanente e come l’emergenza prioritaria del nostro tempo. Ciò non deve tuttavia far dimenticare che il fondamentalismo in quanto tale non è un carattere esclusivo dell’islamismo. Esiste un fondamentalismo evangelico, forte soprattutto negli Stati Uniti, legato alla destra conservatrice e impegnato nella battaglia contro le teorie evoluzioniste e contro la pratica dell’aborto. Esiste un fondamentalismo cattolico, che si batte contro le innovazioni del Concilio Vaticano II [►13_8]. Esistono gruppi fondamentalisti ebraici, diffusi sia in Israele sia negli Stati Uniti. Esiste un fondamentalismo induista, che in India si è spesso scontrato con la minoranza musulmana. Si tratta, in ognuno di questi casi, di fenomeni minoritari e non necessariamente violenti, che però testimoniano la presenza di vaste aree di disagio e di reazione tradizionalista, che i processi di modernizzazione hanno allargato e acuito.



19_2 LA PACE FRA EGITTO E ISRAELE

Per quanto riguarda il conflitto arabo-israeliano, nuove e promettenti prospettive di soluzione sembrarono aprirsi nella seconda metà degli anni ’70, soprattutto per iniziativa del presidente egiziano Anwar Sadat. All’indomani della “guerra del Kippur” [►13_7], che si era conclusa senza vinti né vincitori ma aveva ancora una volta messo a nudo la debolezza militare degli Stati arabi, Sadat si convinse della necessità di far uscire il suo paese da un perenne stato di guerra e di trovare una soluzione pacifica al conflitto con Israele. La premessa della svolta fu il riavvicinamento agli Stati Uniti: nel 1974-75, Sadat attuò un clamoroso rovesciamento di alleanze, espellendo i tecnici sovietici dall’Egitto, congelando i rapporti con l’Urss e imprimendo alla sua politica un orientamento filo-occidentale.

La svolta di Sadat

Nel novembre 1977 il presidente egiziano si recò in visita a Gerusalemme e formulò personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Il governo israeliano, allora guidato dal leader della destra nazionalista, Menachem Begin, accolse la prosciiti/sunniti posta. Si aprirono così negoziati diretti fra le due parti, con l’attiva mediazione Sciiti e sunniti sono i fedeli delle due principali componenti dottrinali dell’islam. Gli sciiti attribuiscono il compito di del presidente americano Carter. Nel settembre 1978, Begin e Sadat si incontraguidare la comunità islamica ai discendenti di Maometto; rono a Camp David, residenza estiva dei presidenti degli Stati Uniti, e sottoi sunniti invece sostengono il principio elettivo. Il nome scrissero un accordo che prevedeva un trattato di pace fra i due paesi e che sa“sciiti” deriva dal termine shia, che indicava i seguaci di Alì (cugino e genero di Maometto e suo primo successore); rebbe stato firmato alla Casa Bianca nel marzo 1979. In cambio, l’Egitto ottenne “sunniti” invece da sunna, l’insieme dei racconti relativi la restituzione della penisola del Sinai, occupata da Israele nella “guerra dei sei alla vita di Maometto tramandati attraverso la tradizione orale. La massima autorità sciita è l’imam, guida religiosa, giorni” del ’67 [►13_7].

Gli accordi di Camp David

Si trattava di una svolta storica, che rompeva per la prima Una svolta volta l’isolamento di Israele dai suoi vicini arabi e sembrava incompiuta porre le premesse per una soluzione generale basata sulla formula “pace in cambio di territori”. Ma le cose andarono diversamente: la

ma anche morale e politica, della comunità, mentre il titolo di ayatollah viene conferito ai più dotti e autorevoli fra i membri del clero. Le guide religiose dei sunniti sono gli ulema, teologi ed esperti di diritto, fra i quali non sussistono differenze gerarchiche, mentre gli imam, sono preposti ai rituali e alla preghiera.

Sadat, Carter e Begin si stringono le mani 17 settembre 1978 Dopo 12 giorni di trattative, il 17 settembre 1978, il presidente egiziano Sadat (a sinistra) e il primo ministro israeliano Begin (a destra) firmano a Camp David, alla presenza del mediatore, il presidente Usa Carter, accordi che stabiliscono la fine dello stato di guerra fra Egitto e Israele.

775

C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

scelta di Sadat fu condannata dalla maggioranza degli Stati arabi e il presidente egiziano, nell’ottobre 1981, fu ucciso al Cairo in un attentato organizzato da un gruppo fondamentalista islamico. Due anni prima il fondamentalismo si era insediato alla guida dell’Iran, uno dei più grandi e popolosi Stati del Medio Oriente.



METODO DI STUDIO

 a  Spiega chi era Anwar Sadat, quali i suoi obiettivi e quali strategie utilizzò per raggiungerli.  b Sottolinea le decisioni prese a Camp David ed evidenzia le conseguenze sugli Stati arabi, su Israele e sullo stesso Sadat.

19_3 LA RIVOLUZIONE IRANIANA

Alla fine del secolo XX, quando la crisi dei regimi comunisti sembrava aprire nuove prospettive di pace e offrire nuove possibilità di espansione alle istituzioni liberali e all’economia di mercato, le democrazie occidentali, ma anche i regimi postcomunisti, si trovarono a fronteggiare una nuova sfida globale: quella dell’islam radicale e fondamentalista. Il rilancio del fondamentalismo prese le mosse da due eventi verificatisi entrambi nel 1979: l’intervento sovietico in Afghanistan [►16_5], che provocò per reazione una mobilitazione internazionale di combattenti islamici, appoggiata dagli Stati Uniti ma destinata a rivolgersi contro l’Occidente; e la rivoluzione scoppiata in Iran, che, dopo aver deposto lo scià, portò al potere l’ala più intransigente del clero musulmano di osservanza sciita.

Il risveglio del fondamentalismo

Governato con metodi autoritari dallo scià (imperatore) Reza Pahlavi, dopo la fine dell’esperimento riformatore del primo ministro Mossadeq [►13_8], l’Iran era stato fino ad allora un pilastro fondamentale della presenza occidentale in Medio Oriente e un importante fornitore di petrolio. A partire dagli anni ’60 lo scià aveva avviato una politica di modernizzazione accelerata, e per molti aspetti traumatica, che mirava a trasformare il paese ◄  Un ritratto dello scià Reza Pahlavi buttato nella spazzatura in una grande potenza militare, senza però ri1979 uscire ad assicurare significativi progressi Nel febbraio 1979, l’ayatollah nella condizione di vita delle masse. Questa Khomeini, che dal suo esilio parigino aveva guidato la rivoluzione contro politica suscitò una crescente opposizione lo scià Reza Pahlavi, rientra in patria acclamato dalla folla. Il 1° aprile sia da parte dei gruppi di sinistra che agivano dello stesso anno, sbarazzatosi degli per lo più in clandestinità, sia da parte del cleoppositori, Khomeini proclama la Repubblica islamica. ro islamico tradizionalista che assunse, nel 1978, la guida di un vasto movimento di protesta popolare.

Il regime dello scià

Lo scià tentò di fermare la rivolta prima con san­ guinose repressioni, poi chiamando al governo esponenti dell’opposizione moderata. Ma, nel gennaio 1979, abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. Sempre in gennaio, rientrava nella capitale Teheran l’ayatollah Ruhollah Khomeini, massima autorità spirituale dei musulmani sciiti, che aveva ispirato dal suo esilio di Parigi l’opposizione religiosa al regime dello scià. Le componenti laiche e di sinistra, che avevano partecipato alla rivoluzione e avevano espresso i primi governi del dopo scià, furono subito emarginate. In Iran si instaurò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata a un vago riformismo sociale basato sui dettami del Corano e guidata di fat776

La Repubblica islamica

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

►  Manifestazioni

di benvenuto accolgono Ruhollah Khomeini a Teheran 1979

to dal clero sciita, anche dopo la morte, nel 1989, della “guida suprema” Khomeini. Rigidamente tradizionalista e oscurantista in materia di costumi e di controllo sulla vita privata, e violentemente antioccidentale, il nuovo regime entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti, accusati di aver sostenuto lo scià e di avergli offerto ospitalità dopo la sua fuga. Nel Golfo Persico, l’area nella quale passava il 30% della produzione petrolifera mondiale, si affermava così un regime ostile agli Stati Uniti. Per oltre un anno (dal novembre ’79 al gennaio ’81) il personale dell’ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno appoggio delle autorità. Gli ostaggi furono liberati solo dopo una lunga trattativa e dopo il fallimento, nell’aprile ’80, di una azione di forza ordinata dal presidente statunitense Carter. Isolato internazionalmente e gravemente dissestato nell’economia, l’Iran fu attaccato, nel settembre 1980, dal vicino Iraq, che, appoggiato in questa circostanza dagli Stati Uniti, cercò di profittare della situazione per impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi. La guerra si protrasse con fasi alterne per ben otto anni e si risolse in una spaventosa quanto inutile carneficina (circa un milione di morti): il cessate il fuoco stabilito, grazie alla mediazione dell’Onu, nel luglio 1988 trovò infatti i contendenti sulle stesse posizioni dell’inizio del conflitto. Ma intanto le vicende della rivoluzione e della guerra avevano dato un forte contributo alla destabilizzazione dell’intera area mediorientale, approfondendo sia la frattura con l’Occidente sia le divisioni interne al mondo islamico.

La guerra con l’Iraq



METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea i movimenti di opposizione al regime dello scià iraniano Pahlavi.  b  Trascrivi sul quaderno le relative parole evidenziate in grassetto nel sottoparagrafo dedicato alla Repubblica islamica. Quindi, descrivine sinteticamente i contenuti seguendo lo schema delle 5W (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?) e aggiungendo la voce “Contro chi?”.  c  Spiega per iscritto quali furono le cause e gli esiti della guerra tra Iraq e Iran.

19_4 LA GUERRA DEL GOLFO

Nell’agosto del 1990 Saddam Hussein, il dittatore dell’Iraq, già protagonista della guerra di aggressione contro l’Iran (e per questo armato e rifornito sia dall’Urss sia da molti paesi occidentali), invase il piccolo e confinante Emirato del Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, tradizionalmente filo-occidentale, e ne proclamò l’annessione alla Repubblica irachena.

L’invasione del Kuwait

L’invasione del Kuwait – che traeva pretesto da antiche rivendicazioni territoriali e mirava in realtà al controllo dell’intera penisola arabica, con le risorse petrolifere – fu subito condannata dalle Nazioni Unite che, con voto pressoché unanime, decretarono l’embargo nei confronti dell’aggressore. Contemporaneamente, gli Stati Uniti inviavano in Arabia Saudita un corpo di spedizione che sarebbe giunto a contare oltre 400 mila uomini: ciò al doppio scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di costringere Saddam Hussein al ritiro. Alla spedizione si unirono anche alcuni Stati europei (Gran Bretagna, Francia e, in misura assai più limitata, l’Italia) e una parte dei paesi arabi fra cui Egitto, Arabia Saudita e Siria, mentre l’Iran manteneva una prudente neutralità. Decisivo fu l’atteggiamento dell’Unione Sovietica, che in analoghe occasioni si era schierata a fianco del nazionalismo arabo: Gorbačëv, alle prese con la crisi interna che di lì a poco avrebbe portato alla dissoluzione dell’Urss e bisognoso dell’appoggio occidentale, non si oppose all’intervento armato (pur cercando di svolgere opera di mediazione) e consentì così alla forza multinazionale di agire sotto la copertura delle Nazioni Unite.

La risposta della comunità internazionale

Il dittatore iracheno cercò allora di stabilire un collegamento fra l’occupazione del Kuwait e il problema dei territori palestinesi occupati da Israele, presentandosi come vendicatore delle masse arabe oppresse e banditore di una guerra santa contro l’Occidente. L’appello, pur venendo da un paese in passato tutt’altro che sensibile ai richiami del fondamentalismo religioso, trovò notevole eco fra le masse di molti paesi arabi, in particolare fra i palestinesi dell’Olp, il cui leader, Arafat, si schierò a fianco dell’Iraq.

La strategia di Saddam

777

C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

42_LA PRIMA GUERRA DEL GOLFO

Ankara

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La carta politica del Medio Oriente nell’anno della prima guerra del Golfo: si noti il ridotto sbocco al mare dell’Iraq, uno dei motivi della guerra contro l’Iran e dell’invasione del Kuwait.

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BAHREIN A R A B I A S AU D I TA

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Alla fine di novembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvava a stragrande maggioranza – e col voto favorevole dell’Urss – una risoluzione che imponeva all’Iraq di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio 1991, autorizzando in caso contrario l’impiego della forza. Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio la forza multinazionale scatenò un violento attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispose lanciando missili con testate esplosive sulle città dell’Arabia Saudita e di Israele (che pure era rimasto estraneo al conflitto) e minacciando il ricorso alle armi chimiche. Alla fine di febbraio, dopo quaranta giorni di bombardamenti, scattò l’offensiva di terra contro le forze irachene in Kuwait. Inferiore quanto a tecnologia bellica e privo della copertura aerea indispensabile in una guerra nel deserto, l’esercito iracheno cedette di schianto abbandonando precipitosamente il Kuwait occupato, non prima, però, di averne incendiato gli impianti petroliferi, con conseguenze gravissime sull’economia e sugli equilibri ecologici della regione.

L’attacco all’Iraq

778

La vittoria degli Stati Uniti

Ottenuto lo scopo principale, e ufficiale, dell’intervento (la liberazione del Kuwait), il presidente George Bush decise di arrestare l’offensiva della forza multinazionale per evitare il rischio di complicazioni diplomatiche o di un coinvol-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Aerei americani in volo sui pozzi di petrolio incendiati dagli iracheni in Kuwait 1991 [foto U.S. Air Force]

Durante il loro ritiro dal Kuwait, gli iracheni fecero saltare in aria, incendiandoli, 640 pozzi di petrolio: su un totale di 940 ne danneggiarono 732. Ci vollero quasi 10 mesi per domare le fiamme e spegnere gli incendi.

gimento degli Usa in un conflitto di lunga durata. Saddam Hussein, contro tutte le previsioni, sopravvisse politicamente alla sconfitta, nonostante i tentativi di ribellione delle minoranze sciita e curda. Ma gli Stati Uniti risultavano ugualmente vincitori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio militare, ancora appannato dalla vicenda del Vietnam, e a imporsi come supreMETODO DI STUDIO mi garanti degli equilibri mondiali. Contando su questo prestigio – accresciuto  a  Sottolinea le cause della guerra del Golfo, dal contemporaneo collasso dell’Urss – gli Stati Uniti cercarono di profittare delcerchia le date e i nomi degli Stati partecipanti ed la situazione favorevole creatasi in seguito alla sconfitta irachena (e al conseevidenziane gli episodi principali. guente indebolimento del fronte arabo radicale) per rilanciare il processo di  b  Evidenzia gli esiti della guerra del Golfo. pace in tutta l’area mediorientale.



19_5 LA QUESTIONE PALESTINESE

Gli accordi di Camp David del 1978 [►19_2] prevedevano ulteriori negoziati per un regolamento globale nella regione e per la soluzione del problema palestinese. Ma questi negoziati non furono avviati. L’ostacolo principale venne in un primo tempo dagli Stati arabi e dall’Olp, che denunciarono il “tradimento” dell’Egitto e rifiu­ tarono ogni trattativa col “nemico storico”. Successivamente, a partire dalla metà degli anni ’80, gli  Stati arabi “moderati” (in particolare Giordania e Arabia Saudita) e la stessa dirigenza del­

Lo scontro per i territori contesi

779

C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

l’Olp assunsero una posizione più morbida e, sfidando la condanna del cosiddetto “fronte del rifiuto” (Siria, Iraq, Libia e l’ala radicale delle organizzazioni palestinesi), si dissero disposti a trattare con Israele e a riconoscerne l’esistenza in cambio del suo ritiro dai territori occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), dove sarebbe dovuto sorgere uno Stato palestinese. A questo punto, però, furono i dirigenti dello Stato ebraico – che aveva frattanto avviato una parziale “colonizzazione” dei territori occupati – a rifiutare la trattativa con l’Olp di Arafat, considerata un’organizzazione terroristica. La tensione si accrebbe ulteriormente quando, a partire dalla fine del 1987, i palestinesi dei territori occupati diedero vita a una lunga e diffusa rivolta – detta intifada, in arabo “risveglio” – contro gli occupanti, che reagirono con una dura repressione. L’intensità e la durata della protesta (nata spontaneamente, ma poi organizzata dagli uomini dell’Olp) e il suo indiscutibile carattere popolare giovarono alla causa del movimento palestinese, assai più di quanto non avessero fatto in precedenza le azioni terroristiche (che peraltro non cessarono mai del tutto), e resero più difficile la posizione dei governi israeliani.

L’intifada

I riflessi dell’irrisolto nodo palestinese si erano intanto fatti sentire pesantemente anche in Libano, un piccolo Stato pluriconfessionale e plurietnico rimasto fino ad allora ai margini del conflitto arabo-israeliano, dove l’Olp aveva trasferito le sue basi dopo il “settembre nero” del 1970 [►13_7]. Il trapianto delle organizzazioni di guerriglia non tardò a far saltare il fragile equilibrio su cui si reggeva la convivenza fra le diverse comunità libanesi (cristiani, musulmani sunniti, sciiti, drusi). Dal 1975 il Libano entrava in uno stato di cronica e sanguinosa guerra civile, in cui tutte le fazioni si fronteggiavano con le loro milizie armate e si combattevano a colpi di attentati e di massacri ai danni soprattutto della popolazione civile. La situazione si aggravò ulteriormente dopo che l’esercito israeliano, nell’estate 1982, invase il paese spingendosi fino a Beirut per cacciarne, dopo sanguinosi combattimenti, le basi dell’Olp. Il successivo invio a Beirut di una forza multinazionale di pace da parte di Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna consentì l’evacuazione dei combattenti dell’Olp (il cui centro dirigente fu trasferito a Tunisi), ma non servì a riportare la calma nel paese. La forza multinazionale fu ritirata nel 1984, dopo una serie di attentati contro i contingenti americano e francese. E il Libano rimase da allora lacerato da lotte intestine, che avrebbero poi fornito alla vicina Siria il pretesto per intervenire militarmente nel paese e imporvi una sorta di protettorato.

La guerra civile in Libano

Nell’ottobre 1991, grazie soprattutto agli sforzi del presidente americano Bush, fu convocata a Madrid la prima sessione di una conferenza di pace sul Medio Oriente, in cui rappresentanti del governo israeliano incontrarono delegazioni dei paesi confinanti (che ancora, con l’eccezione dell’Egitto, non riconoscevano lo Stato ebraico) ed esponenti palestinesi dei territori occupati. Un’ulteriore spinta al processo di pace venne, nel giugno 1992, dalla vittoria del Partito laburista nelle elezioni politiche israeliane dopo quasi un ventennio di egemonia del Fronte nazionalista (il Likud). Il primo ministro, Itzhak Rabin, bloccò i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati e si mostrò più propenso dei suoi predecessori a concessioni territoriali in cambio della pace con i paesi confinanti.

La conferenza di Madrid

Una nuova svolta storica si profilò nel 1993, quando Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres presero la sofferta decisione di rimuovere il principale ostacolo che si opponeva al progresso dei negoziati e di trattare direttamente con l’Olp, profittando della disponibilità di un Arafat indebolito per l’appoggio fornito a Saddam Hussein durante la guerra del Golfo e isolato all’interno dello stesso mondo arabo. Un lungo negoziato segreto portò a un primo accordo che fu firmato a Oslo in agosto e prevedeva, oltre al reciproco riconoscimento, un avvio graduale dell’autogoverno palestinese nell’amministrazione dei territori occupati. Il 13 settembre 1993 l’accordo fu solennemente sottoscritto a Washington da Rabin e Arafat, sotto gli auspici del presidente americano Bill Clinton. Nel 1994 l’autonomia amministrativa dei territori si concretizzò nella creazione di un organismo elettivo internazionalmente riconosciuto, l’Autorità nazionale palestinese (Anp).

780

Gli accordi di Washington

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

L’accordo fra Rabin e Arafat, 1993 Washington, 13 settembre 1993: alla presenza del presidente statunitense Clinton, una stretta di mano suggella lo storico accordo di pace fra palestinesi e israeliani firmato da Rabin e Arafat.

Sul negoziato gravava però il peso di numerose questioni aperte: le forme, i tempi e l’ulteriore estensione dell’autogoverno che i palestinesi consideravano come la prima tappa per uno Stato indipendente; il destino degli insediamenti ebraici nei territori occupati; la sorte di Gerusalemme, proclamata da Israele “capitale eterna e indivisibile”; l’atteggiamento ostile della Siria e dell’Iran; l’opposizione di buona parte dell’Olp e della destra nazionalista israeliana; infine la minaccia dei movimenti integralisti islamici.

Le questioni aperte

L’attività terroristica di questi gruppi si intensificò col frequente ricorso ad attentati suicidi che fecero numerosissime vittime tra le forze armate e la popolazione civile di Israele. I continui attacchi suscitarono nella società israeliana un diffuso senso di insicurezza, tradottosi anche nella crescita di gruppi estremistici a sfondo nazionalistico e religioso (in questo clima maturò la strage di palestinesi, compiuta nel febbraio ’94 da un colono israeliano, nella moschea di Hebron in Cisgiordania). Questa nuova spirale di violenza e di fanatismo ebbe il suo culmine nell’uccisione del premier Rabin, avvenuta a Tel Aviv il 4 novembre 1995 per mano di un giovane estremista israeliano. Privato della sua guida più autorevole, il Partito laburista fu sconfitto nelle elezioni politiche del maggio 1996 da una coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu (leader del partito nazionalista, il Likud) e formata da quei partiti che si erano opposti alle trattative con l’Olp.

Gli attentati terroristici

La vittoria della destra segnò una battuta d’arresto nel processo di pace, ma non ne interruppe il cammino. Nell’ottobre 1998, ancora una volta sotto la pressione americana, Netanyahu e Arafat firmarono negli Stati Uniti un nuovo accordo che fissava i tempi del ritiro israeliano dai territori occupati in cambio di un più forte impegno da parte dell’autorità palestinese nella repressione del terrorismo. Il dialogo, sempre difficile, fra le due parti fu poi favorito, nel maggio 1999, dalla vittoria nelle elezioni politiche israeliane di una coalizione di centro-sinistra guidata dal laburista Ehud Barak. Nell’estate del 2000 il presidente americano Clinton, desideroso di concludere il suo mandato con uno storico successo diplomatico, convocò le parti per una nuova tornata di colloqui di pace a Camp David, lo stesso luogo in cui nel ’78 era stato negoziato il primo accordo fra Egitto e Israele. Questa volta gli israeliani si mostrarono

Il fallimento dei negoziati

781

C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

Comizio elettorale di Hamas a Ramallah Cisgiordania marzo 2007 [foto di Hoheit] Le bandiere verdi di Hamas sventolano durante un comizio elettorale nella città di Ramallah e i ritratti di Ahmed Yasin (a sinistra) e al-Aziz Rantissi (a destra), due dei fondatori del movimento, uccisi da raid israeliani nel 2004, giganteggiano dallo striscione sul palco.

disposti a trattare anche su problemi fino ad allora mai affrontati. L’accordo per una pace globale e definitiva fu però ancora una volta mancato, soprattutto per i contrasti relativi alla sovranità sui luoghi santi di Gerusalemme e al destino dei profughi palestinesi che chiedevano di poter tornare nelle terre abbandonate mezzo secolo prima. E da una pace mancata per poco si sarebbe passati in brevissimo tempo a una nuova situazione di scontro generalizzato. METODO DI STUDIO A innescare lo scontro, alla fine di settembre del 2000, fu una visita compiuta dal generale Ariel Sharon, leader della destra israeliana, alla spianata delle Moschee di Gerusalemme: una provocazione agli occhi dei palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. La “seconda intifada” fu assai più cruenta della prima [►13_7], sia per la violenza delle manifestazioni sia per la durezza della repressione. Il conflitto divenne cronico e coinvolse non solo Gaza e la Cisgiordania, dove il problema era rappresentato dalla presenza di insediamenti ebraici all’interno dei territori controllati dall’Autorità nazionale palestinese, ma le stesse città israeliane, dove ripresero gli attentati, spesso suicidi, condotti contro i civili da organizzazioni estremistiche come Hamas (in arabo “entusiasmo, zelo religioso”): un movimento islamista che, affiancando la pratica del terrorismo alle attività sociali e assistenziali, si era rapidamente radicato negli strati più poveri della società palestinese.

La seconda intifada



 a Cerchia con colori diversi i nomi dei personaggi politici descritti e sottolineane le caratteristiche principali. Trascrivi sul tuo quaderno i nomi sottolineati, quindi descrivine sinteticamente l’identità, l’appartenenza nazionale e le principali azioni politiche.  b Spiega cosa significa intifada, chi la attuò e se può rientrare nel novero delle azioni terroristiche.  c  Cerchia i nomi dei trattati e delle guerre citati con le relative date e sottolineane le parole chiave. Quindi trascrivili sul quaderno e illustrane i contenuti facendo riferimento alle parole chiave individuate.  d  Spiega cosa è Hamas e quale ruolo ha avuto nel rapporto fra palestinesi e israeliani.  e  Descrivi gli esiti dei negoziati avvenuti fra il 1998 e il 2000.

19_6 LA DIFFUSIONE DELL’INTEGRALISMO ISLAMICO

Il successo di Hamas era solo una delle facce della generale diffusione in tutto il mondo islamico delle correnti radicali e fondamentaliste, cui faceva riscontro il calo dei consensi ai regimi nazionalisti laici, come quello iracheno, sconfitto nella guerra del Golfo. Abbiamo visto come il radicalismo islamista avesse ricevuto un notevole impulso prima dalla rivoluzione khomeinista in Iran [►19_3] e poi dalla vittoriosa resistenza all’occu-

782

I talebani in Afghanistan

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

pazione sovietica in Afghanistan [►16_5]. Proprio in Afghanistan, alcuni gruppi fonda­ mentalisti detti talebani (“studenti” delle scuole coraniche) approfittarono della si­ tuazione di caos creata dal ritiro sovietico e, fra il 1995 e il 1996, assunsero il controllo di buona parte del paese, imponendo un regime di intollerante oscurantismo, soprat­ tutto nei confronti delle libertà femminili (alle donne era fra l’altro impedito di fre­ quentare le scuole). Già all’inizio del decen­ nio, correnti islamiste radicali avevano ottenuto un clamoroso, an­ che se effimero, successo in Algeria, dove, nel gennaio 1992, gli integralisti del Fis (Fronte islamico di salvezza) vinsero le ele­ zioni, approfittando del diffuso disagio eco­ nomico che aveva fatto perdere consensi ai gruppi dirigenti di matrice laica e militare. Il governo annullò le votazioni e la reazione del Fis fu violentissima: una strategia del terrore a base di massacri indiscriminati fra la popolazione civile che, tra il ’92 e il ’98, provocarono oltre centomila morti e furono fermati solo a prezzo di una repressione cruenta.

I massacri in Algeria

Esecuzione pubblica di una donna afghana 16 novembre 1999 [foto RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan)] Il 16 novembre 1999 Zarmeena, una donna afghana madre di sette figli, viene assassinata dai talebani davanti a migliaia di spettatori nello Stadio Ghazi a Kabul, in Afghanistan, con l’accusa di aver ucciso suo marito mentre dormiva. L’immagine è un fotogramma del video girato di nascosto dall’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane e mostra l’esatto momento in cui Zarmeena, completamente avvolta nel burqa blu, viene uccisa. È la prima esecuzione pubblica di una donna a Kabul durante il regime talebano.

Un caso a sé era quello della Turchia, paese membro della Nato dove erano an­ cora vigenti istituzioni rappresentative di tipo occidentale e dove l’ordinamento laico era stato fino ad allora garantito dai militari. Anche qui si ebbe una generale ripresa delle pratiche religiose tradizionali e dei vecchi simboli di appartenenza, a cominciare dall’u­ so del velo da parte delle donne, già bandito ai tempi di Atatürk. Le elezioni del 2002 videro così la vittoria del partito di ispirazione islamico-moderata Giustizia e Sviluppo, guidato da Recep Tayyip Erdoğan, che governò il paese con metodi sempre più autoritari (ne fece le spese soprattutto la mino­ ranza curda [►10_3], i cui tentativi separatisti furono sanguinosamente repressi), vanificando di fatto il tentativo, oggetto di lunghi negoziati, di far entrare la Turchia nell’Unione europea.

Laici e religiosi in Turchia

Intanto, manifestazioni violente ed estreme del fondamentalismo islamico si re­ gistravano anche in Somalia, in Sudan, in Pakistan, nell’Africa subsahariana e cominciavano a coinvolgere lo stesso Occidente attraverso le numerose comuni­ tà di immigrati, profilandosi come una emergenza internazionale. La diffusione del fondamentali­ smo, con la sua carica aggressiva nei confronti delle altre religioni, e più ancora delle società laiche e secolarizzate, suscitò non poche preoccupazioni in Occidente: tanto da suggerire ai pessimisti lo ­scenario di un mondo futuro tutto percorso dalle guerre di religione o diviso da nuovi e catastrofici scontri tra le diverse culture. A metà degli anni ’90 alcuni osservatori, preoccu­ METODO DI STUDIO pati della crescente tensione che animava le relazioni tra paesi occidentali e  a  Cerchia con colori diversi i nomi delle correnti mondo islamico, cominciarono apertamente a sostenere l’ineluttabilità di uno islamiche radicali e i paesi in cui si sono sviluppate e “scontro di civiltà”, in un mondo segnato non più dalle tradizionali contrappo­ sottolineane le caratteristiche principali mantenendo i colori scelti. sizioni ­ideologiche, ma da conflitti a base identitaria e culturale. Con l’attenta­  b  Spiega oralmente perché dalla metà degli to terroristico alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 [►23_1], anni ’90 alcuni osservatori hanno iniziato a parlare l’idea dello scontro di civiltà sarebbe uscita dall’ambito ristretto del dibattito teo­ dell’ineluttabilità di uno “scontro di civiltà”. rico, per diventare oggetto di discussione e di confronto politico.

Lo “scontro di civiltà”

783

C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

SINTESI

19_1 UN’AREA CONTESA I principali fattori di tensione nel mondo arabo-islamico furono, negli ultimi decenni del ’900, dettati dalla competizione per il petrolio, dalla ripresa del conflitto arabo-israeliano per la Palestina, e dalla rinascita, in forme nuove e aggressive, del fondamentalismo islamico, quale elemento fondante dell’identità collettiva. Questa corrente, sulla base di una interpretazione rigida delle norme del Corano, mirava a una “reislamizzazione” della società e chiamava i musulmani alla jihad (guerra santa) contro gli infedeli e, soprattutto, l’Occidente. Il rilancio dell’islam fondamentalista si accompagnò al riacutizzarsi delle antiche divisioni religiose interne al mondo musulmano, a cominciare da quella fra sunniti e sciiti.

sottoscritto l’anno successivo): l’Egitto ottenne la restituzione della penisola del Sinai, ma la maggioranza degli Stati arabi condannò la scelta di Sadat, che nell’ottobre 1981 fu ucciso al Cairo in un attentato organizzato da un gruppo fondamentalista islamico.

19_3 LA RIVOLUZIONE IRANIANA In Iran, nel 1979, una rivoluzione rovesciò la monarchia e instaurò una repubblica di stampo teocratico e fondamentalista guidata dall’ayatollah Khomeini. Violentemente antioccidentale, il nuovo regime entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti e tenne sequestrato per più di un anno il personale dell’Ambasciata americana a Teheran. Nel 1980 l’Iran, in grave dissesto economico, fu attaccato dall’Iraq, che, con l’appoggio degli Usa, cercò di impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi: la guerra durò otto anni e si risolse in un’inutile carneficina.

19_2 LA PACE FRA EGITTO E ISRAELE

784

Dopo la guerra del Kippur, il presidente egiziano Anwar Sadat si impegnò a trovare una soluzione pacifica al conflitto con Israele, grazie anche alla mediazione degli Stati Uniti. Nel settembre 1978, Menachem Begin (alla guida del governo israeliano) e Sadat si incontrarono a Camp David e sottoscrissero un accordo che prevedeva un trattato di pace fra i due paesi (che sarebbe stato

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

19_4 LA GUERRA DEL GOLFO L’invasione del Kuwait nel 1990 da parte dell’Iraq di Saddam Hussein – che mirava al controllo della penisola arabica – provocò la condanna immediata della Nato e, nel

’91, l’intervento militare di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, che agiva sotto la bandiera dell’Onu. La campagna fu rapida e vittoriosa, ma il regime di Saddam rimase in piedi.

19_5 LA QUESTIONE PALESTINESE Dopo l’attentato a Sadat, il processo di pace fra Israele e i palestinesi subì un rallentamento, anche a causa dello scoppio della guerra civile in Libano, dove l’Olp aveva spostato le sue basi operative. Nel 1987 i palestinesi diedero vita a una lunga rivolta (“intifada”) nei territori occupati da Israele. Il dialogo riprese nel 1993, quando a Oslo il primo ministro israeliano Rabin e il leader palestinese Arafat firmarono un accordo che prevedeva la graduale restituzione dei territori di Gaza e della Cisgiordania e la nascita dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), sancita ufficialmente a Washington. L’intesa fu tuttavia minacciata sia dalla recrudescenza del terrorismo palestinese, sia dall’azione dei gruppi estremisti in Israele, dopo l’attentato che nel 1995 costò la vita a Rabin. Nel 2000, dopo un fallito tentativo di giungere a un accordo generale a Camp David, gli scontri e gli attentati ripresero con rinnovata violenza. La “seconda intifada” coinvolse anche le città israeliane, teatro di numerosissimi attentati condotti da organizzazioni estremistiche come Hamas.

19_6 LA DIFFUSIONE DELL’INTEGRALISMO ISLAMICO Alla fine del ’900 aumentò la diffusione delle correnti fondamentaliste nell’intero mondo islamico, sia sunnita sia sciita. Questa tendenza – rafforzata dalla rivoluzione iraniana del ’79 – ebbe nuovo impulso in occasione dell’intervento occidentale contro l’Iraq (1991). Nel ’96-97, le tendenze fondamentaliste trovarono una base in Afghanistan sotto il regime dei talebani che approfittarono della situazione di anarchia creatasi dopo il ritiro dei sovietici per assumere il controllo del paese e imporvi un regime rigidamente oscurantista. In Algeria la reazione dei gruppi fondamentalisti all’annullamento delle elezioni del ’92 provocò una serie di spaventosi massacri. In Turchia, paese di tradizione laica, nel 2002 si affermò il partito di ispirazione islamico-moderata guidato da Erdoğan. Il suo governo fu caratterizzato da politiche autoritarie e repressive nei confronti delle minoranze. Intanto, manifestazioni violente del fondamentalismo islamico si registravano anche in Somalia, in Sudan, in Pakistan, nell’Africa subsahariana e cominciavano a coinvolgere lo stesso Occidente, profilandosi come una emergenza internazionale. La diffusione del radicalismo islamista suscitò pertanto molte preoccupazioni, tanto che alla metà degli anni ’90 fu evocata la prospettiva di uno “scontro di civiltà”.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Colloca in ordine cronologico i seguenti eventi relativi alla rivoluzione khomeinista in Iran.

a. Lo scià, abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. b. In Iran si instaurò una Repubblica islamica di stampo teocratico, ostile agli Stati Uniti. c. L’ayatollah Ruhollah Khomeini, sciita, rientrò dall’esilio a Parigi. d. Reza Pahlavi portò avanti una politica di modernizzazione accelerata. e. L’Iraq attaccò l’Iran. f. Il clero sciita tradizionalista si oppose alla politica vigente ispirando un vasto movimento di protesta popolare. 2 Colloca sulla linea del tempo i seguenti eventi della guerra del Golfo, mettendoli in relazione alle date fornite. 1990

gennaio 1991

febbraio 1991

1991

....................

....................

....................

....................

a. La forza multinazionale scatena un violento attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e Kuwait. b. L’esercito irakeno incendia gli impianti petroliferi del Kuwait prima della ritirata. c. Saddam Hussein invade il Kuwait. d. Le forze multinazionali scatenano l’offensiva di terra contro l’Iraq. e. L’esercito iracheno abbandona precipitosamente il Kuwait occupato. f. Saddam Hussein lancia missili sulle città di Arabia Saudita e Israele. g. L’Onu approva una risoluzione che impone all’Iraq il ritiro delle proprie truppe. h. Gli Stati Uniti inviano in Arabia Saudita un corpo di spedizione. 3 Inserisci nei due insiemi i seguenti termini distinguendo quelli che fanno riferimento a realtà o azioni israeliane e quelli

di parte palestinese e colloca quelli che riguardano entrambi nello spazio in comune. Quindi argomenta per iscritto le tue scelte. a. Arafat; b. Itzhak Rabin; c. accordi di Oslo; d. Hamas; e. Benjamin Netanyahu; f. attentati suicidi; g. Ariel Sharon; h. Gerusalemme; i. profughi; l. seconda intifada.

Israele

Palestina

4 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

a. In Afghanistan, il regime dei talebani era improntato a un intollerante oscurantismo. ................................................................................................................................................................................. b. In Turchia, Erdog˘an prese il potere grazie a un colpo di Stato realizzato dall’esercito. .................................................................................................................................................................................

V

F

V

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C19 IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

c. Il regime turco di Erdog˘an adottò metodi sempre più autoritari soprattutto nei confronti della minoranza curda. ................................................................................................................................................................................. d. Alla fine del ’900 aumentò la diffusione della corrente fondamentalista sciita che divenne totalitaria nell’intero mondo islamico. ................................................................................................................................................................................. e. Il fondamentalismo islamico mirava a una “reislamizzazione” della società sulla base di una interpretazione rigida delle norme del Corano. ................................................................................................................................................................................. f. Nel 1978, a Camp David, Menachem Begin e Sadat sottoscrissero un accordo che prevedeva un trattato di pace fra i due paesi. ................................................................................................................................................................................. g. Con gli accordi di Camp David del 1978 l’Egitto perse la penisola del Sinai. .................................................................................................................................................................................

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COMPETENZE IN AZIONE 5 Sul tuo quaderno di storia scrivi un testo espositivo (max 20 righe) dal titolo L’integralismo islamico. A tal fine

seleziona almeno 3 immagini che ritieni più significative presenti nell’intero capitolo e utilizzane i contenuti come scaletta per approntare il tuo elaborato.

6 Indica, sulla carta del Medio Oriente,

gli Stati, i territori e le città di seguito elencate. Quindi realizza una didascalia a commento di circa 10 righe in cui spiegherai il ruolo dei territori e degli Stati indicati negli eventi descritti dal capitolo. Ricordati di indicare anche le date per gli eventi più importanti.

MAR CASPIO

Stati: Siria, Turchia, Libano, Kuwait, Iraq, Iran Territori: Sinai, Cisgiordania, striscia di Gaza Città: Gerusalemme, Gaza, Beirut, Teheran

GO LF

OP

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SIC

AR M O

SS

RO

7 Scrivi un testo espositivo in merito alla questione israelo-palestinese sviluppando i punti di seguito elencati

nell’ordine che ritieni più idoneo:

786

a. Le prospettive degli anni ’70 b. Il ruolo dell’Olp c. La mediazione internazionale d. Gli attentati terroristici e. Dalla prima alla seconda intifada

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

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CAP20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

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N LI N

Storia, società, cittadinanza L’Italia dei mass media Focus Una svolta storica: la legge sul divorzio • Il caso Moro Audiosintesi

20_1 CONTESTAZIONE E RIFORME

► Leggi anche:

La fine degli anni ’60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale che ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia [►FS, 162]. La mobilitazione degli studenti universitari, iniziata nel ’67 e cresciuta nei primi mesi del ’68, portò all’occupazione di numerose facoltà universitarie, a grandi manifestazioni di piazza e a frequenti scontri con le forze dell’ordine. La contestazione giovanile, pur riprendendo temi e obiettivi già presenti negli altri movimenti studenteschi dei paesi occidentali, come l’anti-imperialismo e la protesta contro la guerra del Vietnam, l’antiautoritarismo e l’avversione alla civiltà dei consumi [►15_7], si caratterizzò in Italia per una più accentuata connotazione marxista e rivoluzionaria. Cresciuto nella lotta contro l’autoritarismo accademico e contro il principio stesso della selezione scolastica, il movimento studentesco assunse una posizione sempre più ostile nei confronti del sistema capitalistico e della “cultura borghese” in generale. La critica alla società borghese divenne rifiuto della prassi politica tradizionale (compresa quella dei partiti della sinistra “storica”), esaltazione della democrazia di base e della pratica assembleare, dell’egualitarismo e della spontaneità. La ricerca, spesso velleitaria, di un nuovo modo di far politica si accompagnò, per

Il movimento studentesco

► Fare Storia Le trasformazioni dell’Italia, p. 838

◄  Maggio

1968: l’occupazione dell’Università Statale di Milano [Berengo Gardin/Contrasto]

▼► Gli

studenti manifestano nelle strade inneggiando a Che Guevara 1968, Milano

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C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

molti giovani nati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, a una vera e propria rivoluzione dei comportamenti che, innestandosi sui mutamenti già provocati dal boom economico, coinvolgeva i rapporti personali, il ruolo della famiglia e le relazioni fra i sessi. Promosso all’inizio da una minoranza di estrazione borghese e allargatosi poi, col coinvolgimento degli studenti medi, a strati sociali più ampi, il movimento studentesco, a partire dall’autunno ’68, individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia. La ricerca di uno stabile collegamento col proletariato derivava in parte dall’influenza di gruppi intellettuali da tempo schierati su posizioni operaiste, ma più in generale era dovuta alla presenza di una forte tradizione marxista che aveva caratterizzato per tutto il dopoguerra la cultura della sinistra italiana.

L’operaismo

L’operaismo fu anche il tratto distintivo di alcuni fra i nuovi gruppi politici (tutti destinati a vita più o meno breve) che nacquero fra il ’68 e il ’70 sull’onda del movimento studentesco e che, per sottolineare il distacco dai partiti tradizionali rappresentati in Parlamento, furono chiamati “extraparlamentari”: Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia. Caratteristiche ideologiche e organizzative diverse (più simili a quelle di un partito, con strutture di comando fortemente autoritarie) ebbe invece l’Unione dei marxisti-leninisti, che si ispirava all’esperienza della Cina di Mao e della rivoluzione culturale. Legata alle lotte del ’68 – e più specificamente alla contestazione nei confronti del Pci – fu infine la nascita del Manifesto, gruppo costituitosi nel ’69 attorno all’omonima rivista per iniziativa di alcuni dissidenti espulsi dal Partito comunista.

I gruppi “extraparlamentari”

La riscoperta della centralità operaia da parte del movimento degli studenti coincise con un’intensa stagione di lotte dei lavoratori dell’industria, iniziata nei primi mesi del ’69, in vista di una serie di rinnovi contrattuali, e culminata, alla fine di quell’anno, nel cosiddetto autunno caldo. Avviatesi in modo spontaneo in alcune grandi fabbriche del Nord, le lotte ebbero come principale protagonista la figura dell’operaio massa, ossia del lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato, sul quale più gravavano i disagi dell’inserimento nel contesto urbano e l’insufficienza dei servizi sociali. Anche per l’influenza della contestazione giovanile, questi conflitti aziendali si caratterizzarono per l’adozione dell’assemblea come momento decisionale, per l’elevato grado di partecipazione e per la radicalità delle richieste: a essere messe in discussione erano le disparità salariali tra gli operai con diverse qualifiche e l’organizzazione stessa del lavoro in fabbrica. Per quanto colte di sorpresa dal movimento e contestate dalle sue frange più radicali, le tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil) riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e a pilotarle verso la firma di una serie di contratti nazionali che assicurarono ai lavoratori dell’industria cospicui vantaggi salariali (la crescita media delle retribuzioni fu di circa il 18%).

L’“autunno caldo”

L’impegno comune nelle lotte del­ l’autunno caldo servì anche a riavvicinare le tre confederazioni sindacali, che avviarono un processo di parziale unificazione (sfociato, nel 1972, nella costituzione di una Federazione unitaria, ma destinato a interrompersi alla fine del decennio) e rinnovarono profondamente le lo-

Il nuovo ruolo dei sindacati

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Da sinistra, Michelangelo Notarianni, Luigi Pintor e Rossana Rossanda nella sede del quotidiano «il manifesto», fondato insieme a Lucio Magri nell’aprile 1971

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

operaismo Si chiama “operaismo” quella tendenza del pensiero marxista-rivoluzionario che vede nella classe operaia delle società industrializzate l’unico centro motore dei processi di trasformazione e affida ad essa, e solo ad essa, senza la mediazione di sindacati e partiti, il compito di distruggere i meccanismi del sistema capitalistico. contratto nazionale Il contratto nazionale, più precisamente il Contratto collettivo nazionale di lavoro, nasce per disciplinare i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro ed è il frutto della trattativa tra i sindacati e le associazioni imprenditoriali. Si definisce “collettivo” perché si estende a tutti i lavoratori del settore interessato dal contratto e “nazionale” perché vale per tutte le aziende che si trovano nel territorio italiano.

ro strutture organizzative, con la creazione di nuove e più dirette forme di rappresentanza, i consigli di fabbrica. Cominciò allora una fase – che si sarebbe protratta per almeno un decennio – in cui i sindacati assunsero un peso crescente nella vita del paese, trattando direttamente col governo anche questioni non strettamente attinenti ai rapporti di lavoro (fisco, pensioni, sanità, tariffe pubbliche) e invadendo non IL ’68-69 IN ITALIA di rado il campo d’azione dei partiti. Il nuovo peso delle organizzazioni sindacali fu favorito, e in qualche modo sancito, dall’approvazione da parte del Parlamento, nella primavera del 1970, dello Statuto dei lavoratori: una serie di norAGITAZIONI DEL ‘68-69 me che garantivano le libertà sindacali e i diritti dei salariati all’interno delle aziende. Nel complesso, però, le lotte degli studenti e degli operai trovarono pochi sbocchi politici in un sistema che rivelò nell’occasione la sua rigidità e il suo scarso dinamismo. Fallito il tentativo del Partito socialista di rafforzarsi grazie all’attività di governo – e di contendere così al Pci la posizione di primo partito della sinistra – la Dc continuò a occupare il centro dell’arco politico e il Pci consolidò il suo ruolo di maggior partito di opposizione, cui era però preclusa, per la sua vicinanza all’Unione Sovietica, ogni possibilità di accedere al governo.

Un sistema bloccato

Le elezioni del maggio 1968 non modificarono nella sostanza i rapporti di forza tra i partiti. E, di fronte alla contestazione, la classe dirigente si mosse con molte incertezze, senza riuscire a esprimere un coerente disegno riformatore. Nel campo dell’istruzione, l’unico intervento di rilievo fu la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie, non accompagnato, come sarebbe stato necessario, da una riforma della scuola superiore e della stessa università. Eppure, proprio in questo periodo che vide un netto calo di popolarità dei governi di centro-sinistra, furono varate alcune riforme importanti, destinate a incidere profondamente nelle istituzioni e nella società. Oltre allo Statuto dei lavoratori, nel 1970 furono approvati, come già previsto dalla Costituzione, i provvedimenti relativi all’istituzione delle regioni e nel giugno dello stesso anno si tennero le prime elezioni regionali. In dicembre, con l’appoggio delle sinistre e dei partiti laici, e nonostante l’opposizione della Dc, fu approvata in Parlamento la legge Fortuna-Baslini che introduceva in Italia l’istituto del divorzio.

Le regioni e il divorzio



Movimento studentesco

Lotte operaie

Connotazione marxista e operaista

Autunno caldo

Rifiuto della prassi politica tradizionale e della cultura borghese

Contro le disparità salariali e per una nuova organizzazione del lavoro di fabbrica

Nascita di gruppi extraparlamentari

Rafforzamento dei sindacati

Aumenti salariali

METODO DI STUDIO

 a Spiega per iscritto su quali posizioni politiche e ideologiche era schierato il movimento studentesco italiano e che cosa lo legava alla tradizione operaia.  b Cerchia i nomi dei gruppi “extraparlamentari” e sottolineane le caratteristiche principali.  c  Spiega per iscritto che ruolo svolsero i sindacati durante l’“autunno caldo” e che cos’è lo Statuto dei lavoratori.  d Evidenzia gli eventi politici che si verificarono nel 1968 e nel 1970 e sottolineane con colori diversi le caratteristiche principali.

20_2 VIOLENZA POLITICA E CRISI ECONOMICA

Il 12 dicembre 1969, in pieno “autunno caldo”, una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. Un evento traumatico e inatteso che aprì per l’Italia una lunga stagione di violenze e di attentati dalla dinamica spesso oscura. L’opinione pubblica e la stampa di sinistra individuarono nell’estrema destra fascista la matrice politica della strage (matrice poi

La strage di piazza Fontana

789

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confermata in sede giudiziaria) e denunciarono le responsabilità dei servizi di sicurezza nel deviare le indagini verso un’improbabile “pista anarchica”. Si parlò allora di una “strategia della tensione” messa in atto dalla destra eversiva per incrinare le basi dello Stato democratico e favorire soluzioni autoritarie. La conferma di una minaccia alle istituzioni venne, nell’estate 1970, dalla rivolta di Reggio Calabria: una violenta sommossa popolare che traeva spunto dalla mancata designazione della città come capoluogo dell’appena istituita regione e che si protrasse per più di sei mesi, coinvolgendo all’inizio diverse forze politiche, per poi essere egemonizzata da esponenti del Movimento sociale.

La rivolta di Reggio Calabria

L’impotenza dimostrata, in questa come in altre occasioni, dai poteri pubblici rifletteva anche profonde divisioni all’interno dello schieramento di governo. Da una parte Dc e Psdi tendevano a farsi interpreti di un’opinione pubblica moderata (la cosiddetta “maggioranza silenziosa”), spaventata dalle agitazioni operaie e studentesche, spostando verso destra l’asse politico della maggioranza; dall’altra, il Psi mirava apertamente al coinvolgimento del Pci nelle responsabilità di governo. Dopo le elezioni politiche anticipate del maggio 1972, si tentò il ritorno a una formula centrista (Dc, Psdi e Pli), con il governo guidato da Giulio Andreotti. Ma l’esperimento ebbe breve durata. Intanto, la crisi petrolifera del 1973 [►16_1] provocava, in Italia come altrove, un calo della produzione industriale e l’avvio di un processo inflazionistico, aggravando una situazione economica già compromessa dalla persistente conflittualità sociale e dall’aumento della spesa pubblica.

I contrasti nella maggioranza

L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura a piazza Fontana, a Milano, dopo l’attentato 12 dicembre 1969

A tutto questo si aggiungeva un crescente disagio morale, provocato da una serie di scandali in cui furono coinvolti numerosi imprenditori (del settore pubblico come di quello privato) ed esponenti delle forze di governo: questi ultimi messi sotto accusa per aver riscosso in modo illecito somme di denaro (tangenti) destinate a sovvenzionare i rispettivi partiti. La rapida adozione, nell’aprile 1974, di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti non bastò a bloccare il flusso illegale di risorse verso il mondo della politica.

Gli scandali finanziari

Mentre cresceva la sfiducia nella classe politica, ­cittadini sul terreno dei diritti civili. Quando, nel 1974, la nuova legge sul divorzio, approvata nel  ’70, fu sottoposta a referendum abrogativo per iniziativa di gruppi cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi, si assisté a una grande mobilitazione appoggiata dalle forze laiche, in particolare dal piccolo Partito radicale di Marco Pannella. Il netto successo dei divorzisti – i no all’abrogazione della legge furono quasi il 60% – mostrò chiaramente che la società italiana era cambiata e che il peso della Chiesa come guida della vita privata dell’individuo era fortemente ridimensionato.

Le battaglie per i diritti civili: il divorzio

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Il nuovo diritto di famiglia e la legge sull’aborto

Questi mutamenti trovarono ulteriore riscontro in due leggi del 1975: la riforma del diritto di famiglia, che sanciva la parità giuridica fra i

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si accentuava l’impegno dei Partito radicale Alla fine del XIX secolo, si chiamarono “radicali” quei partiti di matrice democratica che si collocavano a sinistra dei liberali e ne criticavano il moderatismo. Forti soprattutto in Francia, in Italia e in Spagna, i radicali si ridussero dopo la metà del ’900 a una presenza marginale o cambiarono denominazione. Un nuovo Partito radicale (Pr) nacque in Italia nel 1956 da una scissione del Partito liberale italiano. Negli anni ’60 e ’70, il partito, sotto la guida di Marco Pannella, accentuò i suoi tratti libertari, distinguendosi per le forme originali delle sue lotte (dai digiuni agli atti di “disobbedienza civile”) e concentrandosi su obiettivi specifici, come l’introduzione del divorzio e la legalizzazione dell’aborto. Si presentarono dunque, più che come un partito tradizionale, come un gruppo d’opinione collegato ai movimenti collettivi (pacifisti, ecologisti, femministi ecc.) e promotore di specifiche campagne sui temi dei diritti civili, della giustizia, della pace, della lotta contro la fame nel mondo.

▼ Stretta di mano tra il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer (a sinistra) e il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro (a destra) 3 maggio 1977

▲ Il leader del Partito radicale Marco Pannella durante la campagna per il referendum sul divorzio del 1974 Il referendum del 1974, il primo referendum abrogativo in Italia, venne promosso dalla Democrazia cristiana di Amintore Fanfani per abrogare la legge Fortuna-Baslini entrata in vigore nel 1970 che aveva introdotto il divorzio. Con una percentuale molto alta (il 59,26%), gli italiani votarono contro l’abrogazione della legge. I radicali promossero una intensa campagna contro l’abrogazione della legge, condotta anche con digiuni.

coniugi; e l’abbassamento della maggiore età (cui era legato il diritto di voto) da ventuno a diciotto anni. Tre anni più tardi (giugno ’78), dopo un lungo e acceso dibattito che vide ancora una volta la Dc opporsi alle sinistre e ai partiti laici, il Parlamento approvò una nuova legge sull’aborto, che legalizzava e disciplinava l’interruzione volontaria della gravidanza. A cogliere i frutti politici di questa stagione fu soprattutto il Pci, che nel ’68 aveva preso per la prima volta le distanze dall’Urss, condannando l’intervento sovietico in Cecoslovacchia [►12_10]. Nel 1973, il segretario Enrico Berlinguer, traendo spunto dall’esito tragico dell’esperimento di Unidad popular in Cile [►13_11], sostenne la necessità di giungere a un “compromesso storico”, ossia a un accordo di lungo periodo tra le forze comuniste, socialiste e cattoliche (compresa dunque la Dc), come unica via per scongiurare i rischi di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell’azione riformatrice. In seguito il Pci stabilì contatti con i comunisti francesi e spagnoli per avviare una politica comune in Europa occidentale, con connotati diversi da quelli del comunismo sovietico: si parlò allora di eurocomunismo.

Berlinguer e il “compromesso storico”

Il carattere moderato e rassicurante della proposta di Berlinguer, unito alla persistente “diversità” che derivava dalle origini rivoluzionarie del partito e dal legame con l’Urss (ciò che fino ad allora aveva rappresentato METODO DI STUDIO un limite alla sua espansione), fecero del Pci, in questa fase,  a  Sottolinea nel paragrafo le informazioni riil principale luogo di incontro delle istanze di trasformazione della società itaguardanti la strage di piazza Fontana secondo lo scheliana. Lo si vide nelle elezioni regionali e locali del giugno 1975 (le prime cui ma delle 5W (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?). parteciparono i diciottenni) e poi nelle politiche del 1976, dove il Pci toccò il suo  b  Spiega che cosa si intende per “strategia della tensione”, che cosa fu il “compromesso storico” e massimo storico (34,4%), avvicinandosi alle percentuali della Dc (38,7%), menchi ne fu promotore. tre il Psi restava sotto il 10%. La sconfitta portò alla crisi del gruppo dirigente  c  Sottolinea i principali risultati ottenuti dalle socialista e all’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi, leader della corrente autolotte per i diritti civili. nomista che faceva capo a Pietro Nenni.

I successi del Pci e la fine del centro-sinistra

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20_3 TERRORISMO E “SOLIDARIETÀ NAZIONALE”

L’esito delle elezioni del giugno 1976 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Visto che i socialisti non erano disponibili a una riedizione del centro-sinistra, l’unica soluzione praticabile era il coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti, che ottenne l’astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti, esclusi il Msi e i radicali. Cominciava così la breve stagione dei governi di “solidarietà nazionale”, basati cioè su maggioranze allargate anche al Pci: una risposta unitaria della classe politica a una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal dilagare del fenomeno terrorista, ora anche di sinistra.

Il Pci nella maggioranza

Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, quello nero (di destra) e quello rosso (di sinistra), erano diversi anche nel modo di operare [►FS, 163]. Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di piazza Fontana, vi furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia nel maggio ’74 durante una manifestazione sindacale e, tre mesi dopo, l’attentato al treno Italicus, sulla linea ferroviaria tra Firenze e Bologna. Il 2 agosto del 1980, quando si pensava che la stagione delle stragi si fosse chiusa, si consumò l’attentato più sanguinoso, quello alla stazione di Bologna, che provocò più di 80 morti. La convinzione di larga parte dell’opinione

Il terrorismo di destra

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Strage alla stazione di Bologna 1980 Una veduta della sala d’attesa completamente distrutta dall’esplosione.

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pubblica, che attribuì le stragi a esponenti della destra eversiva con la complicità di elementi dei servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non sempre trovò conferma nelle sentenze della magistratura. Restava la responsabilità del potere politico per non aver saputo dirigere e controllare l’azione dei servizi di sicurezza. L’immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica (emersa con gli scandali per le tangenti), la presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di Stato (che alimentava in alcuni settori la giustificazione di una risposta preventiva e violenta) furono tra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra. In realtà, il principio della “lotta armata” come strumento per conquistare il potere era da tempo un elemento portante di tutte le ideologie rivoluzionarie che il movimento del ’68 aveva contribuito a mitizzare e a divulgare. Ma allora per la prima volta – anche per la suggestione dei modelli della guerriglia latino-americana e del terrorismo palestinese – si formarono nuclei organizzati pronti a passare dalle parole ai fatti. Per i terroristi – in gran parte giovani provenienti dalle file del movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari e dagli stessi partiti della sinistra storica – l’azione armata si presentava come un atto esemplare, come un messaggio destinato essenzialmente alla classe operaia, al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema capitalistico e dello Stato borghese.

Il terrorismo di sinistra

Ai primi isolati attentati incendiari contro fabbriche o sedi di partito, seguirono, fra il ’72 e il ’75, sequestri di dirigenti industriali e di magistrati. Nel 1976, con l’uccisione del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta, si giunse all’assassinio programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate rosse, il primo e il più organizzato gruppo terrorista di sinistra. A esso si affiancarono, fra il ’75 e il ’76, i Nuclei armati proletari, Prima linea e altre formazioni minori.

Gli attentati

Negli stessi anni in cui doveva fronteggiare il terrorismo di sinistra, il governo si confrontò con la crisi economica. Nel 1975 il prodotto interno si ridusse del 3,6%. A partire dall’anno successivo si ebbe una limitata ripresa, ma il tasso di inflazione rimase molto elevato, oscillando fra il 17 e il 19% (tra i più alti dei paesi industrializzati). L’inflazione era dovuta all’aumento del prezzo del petrolio, ma anche alla dilatazione dei consumi e della spesa pubblica. I suoi effetti, inoltre, furono amplificati dal nuovo meccanismo di scala mobile introdotto nel gennaio ’75 grazie a un accordo fra sindacati e Confindustria, meccanismo che assicurava ai salari (soprattutto a quelli più bassi) un rapido adeguamento al costo della vita. Se la questione della spesa pubblica e quella del costo del lavoro erano destinate a restare, anche negli anni successivi, i principali nodi dell’economia italiana, il problema socialmente più drammatico era quello della disoccupazione, soprattutto giovanile. Lo sviluppo della scolarizzazione accresceva le aspirazioni dei giovani, che però faticavano a trovare sbocchi lavorativi adeguati al titolo di studio.

Crisi e inflazione

Nei primi mesi del 1977, un nuovo movimento di studenti universitari e medi diede luogo a occupazioni di università e a violenti scontri di piazza, che videro per la prima volta l’uso di armi da fuoco da parte dei dimostranti. Protagonisti degli scontri furono i gruppi di Autonomia operaia, che raccoglievano in forme estremizzate l’eredità dell’operaismo sessantottesco. Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale, soprattutto il Pci e i sindacati, considerati troppo moderati e inclini al compromesso: clamorosa fu l’aggressione di un gruppo di autonomi a un comizio del segretario della Cgil Luciano Lama, avvenuta in febbraio all’Università di Roma. L’esaurirsi del movimento spinse non pochi giovani verso la militanza nelle organizzazioni terroristiche che, intanto, continuavano a pianificare ed eseguire attentati (circa 800 nel solo 1979).

Il movimento del ’77

Nel 1978 le Brigate rosse, consapevoli di disporre di una più diffusa rete di consensi, misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo – il giorno stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo, un monocolore democristiano sempre presieduto da Andreotti, ma questa volta sostenuto anche dal voto favorevole del Pci

Il sequestro e l’assassinio di Moro

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Roma, 16 marzo 1970: via Fani dopo il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta

– un commando brigatista rapì Aldo Moro, presidente della Dc e principale artefice della politica di “solidarietà nazionale”, uccidendo i cinque uomini della sua scorta. A quella giornata, vissuta dal paese con sorpresa e sgomento, seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche di fronte alla sofferta decisione del governo di non trattare con i terroristi per il rilascio di Moro: decisione appoggiata dal Pci e dalla maggioranza della Dc, ma contrastata, per motivi politici e umanitari, dal Psi, da una parte del mondo cattolico e da altri gruppi minori della sinistra. Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato nel bagagliaio di un’auto in una strada del centro di Roma. Questo delitto evidenziò come nessun altro la gravità del fenomeno terroristico, ma contemporaneamente avviò una progressiva presa di distanza dall’area eversiva da parte di quanti avevano coltivato fino ad allora ambigue solidarietà [►FS, 164 e 165d].

Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse nella prima foto scattata e diffusa dai suoi sequestratori il 19 marzo 1978

Nel difficile clima politico creatosi dopo l’assassinio di Moro, il governo cercò di avviare il risanamento dell’economia, aiutato in questo dall’atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di austerità, e da una relativa moderazione delle richieste sindacali. Nel ’78 l’inflazione scese di qualche punto. La situazione finanziaria diede segni di miglioramento, grazie all’adozione di nuove imposte. Ma, sul fronte delle riforme, la difficoltà di conciliare tutti gli interessi rappresentati nella coalizione portò a risultati discutibili. La legge del ’78 sull’equo canone, che aveva lo scopo di regolare il livello degli affitti, avrebbe prodotto risultati disastrosi, creando un doppio mercato degli alloggi, soprattutto nelle grandi città. La riforma sanitaria varata nello stesso anno – che sanciva la gratuità delle cure per tutti e riordinava la medicina pubblica, affidandone la gestione ad appositi organismi (le Usl, Unità sanitarie locali) dipendenti dalle regioni – si sarebbe rivelata, nell’applicazione concreta, fonte di inefficienza e di sprechi.

Austerità e riforme

Nel complesso la politica di solidarietà nazionale non produsse risultati adeguati all’ampiezza delle forze impegnate e alle attese dell’opinione pubblica di sinistra. In questi anni continuarono a verificarsi, soprattutto negli enti locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di cattiva gestione o di vera e propria corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel giugno 1978, il capo dello Stato, il democristiano Giovanni Leone (eletto nel ’71 da una maggioranza di centro-destra), accusato ingiustamente di connivenze con gruppi affaristici. Al suo posto fu eletto, col voto di tutti i partiti dell’arco costituzionale, il socialista Sandro Pertini,

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La fine della “solidarietà nazionale”

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

arco costituzionale Espressione usata nel dibattito politico italiano a partire dai primi anni ’70 per indicare l’insieme delle forze che, pur essendo schierate su fronti diversi, avevano condiviso gli atti fondativi della Repubblica, in particolare la scrittura della Costituzione: un arco che quindi comprendeva anche il Partito comunista, ma escludeva la destra neofascista. In termini politici questo richiamo si traduceva in un’apertura di parte della Dc e dei partiti laici al dialogo col Pci sui temi istituzionali, senza che questo implicasse necessariamente una partecipazione dei comunisti al governo.

23_IL TERRORISMO POLITICO IN ITALIA

Terrorismo di destra CONNOTAZIONE IDEOLOGICA

Neofascismo

Marxismo, operaismo e ideologie rivoluzionarie

FINALITÀ

Incrinare le basi dello Stato democratico e favorire soluzioni autoritarie

Mobilitare la classe operaia, al fine di rovesciare il sistema capitalistico e lo Stato borghese.

MODALITÀ D’AZIONE

Attentati dinamitardi luoghi pubblici (piazza Fontana, piazza della Loggia, treno Italicus, stazione di Bologna)

Lotta armata e sequestri (rapimento e uccisione di Aldo Moro)

ottantaduenne, figura di indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi in breve tempo una vastissima popolarità. Si andava frattanto esaurendo l’esperienza della “solidarietà nazionale”. Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista – centrato sul recupero della tradizione riformista in aperta polemica col Pci – creava le condizioni per una ripresa dell’alleanza fra il Psi e i partiti di centro. Nel gennaio ’79 il Pci, in contrasto con gli altri partiti anche su problemi di politica estera ed economica, abbandonò la maggioranza.



Terrorismo di sinistra

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea nel testo il significato dell’espressione “solidarietà nazionale” riferita ai governi dell’Italia dopo il ’76.  b  Cerchia e numera le azioni sanguinarie condotte dal terrorismo di destra dagli anni ’70 fino agli anni ’80. Quindi sottolineane i caratteri distintivi.  c  Quali furono i principali obiettivi del terrorismo di sinistra? Evidenzia la risposta e riportala per iscritto.  d Spiega per iscritto in quale contesto economico e sociale si diffuse il fenomeno della lotta armata e quali erano i suoi obiettivi.  e  Sottolinea con colori diversi le informazioni principali relative ai seguenti temi: a. il movimento del ’77; b. l’omicidio Moro e le conseguenze sul clima politico italiano; c. le cause della fine della politica di “solidarietà nazionale”.

20_4 POLITICA, ECONOMIA E SOCIETÀ

► Leggi anche:

NEGLI ANNI ’80

► Parole della storia Mafia, p. 583

I risultati delle elezioni del ’79, e quelli delle successive consultazioni del giugno ’83, fecero registrare alcuni significativi mutamenti nel panorama politico. Il Pci registrò una forte perdita di consensi. La Dc, stabile nel ’79, subì una netta sconfitta nelle elezioni dell’83. Il Psi, nonostante il dinamismo di Craxi e del nuovo gruppo dirigente, raccolse risultati deludenti, comunque non adeguati all’aspirazione a diventare il centro propulsore del sistema politico. Chiusa la parentesi della solidarietà nazionale, l’unica strada praticabile fu il ritorno alla coalizione di centro-sinistra (Dc, Psi, Pri, Psdi), allargata, a partire dall’81, anche al Partito liberale, in una nuova formula di governo definita “pentapartito”.

Il pentapartito

Ma la novità più importante si ebbe al vertice dell’esecutivo: per la prima volta dopo il 1945, la Dc cedette la guida del governo, affidata nell’81-82 al segretario repubblicano Giovanni Spadolini e, dopo le elezioni dell’83, al leader del Psi Bettino Craxi. Fra i primi atti significativi del governo a guida socialista, va ricordata la firma, nel febbraio 1984, di un nuovo concordato con la Santa Sede, che ritoccava gli accordi del ’29 [►9_1] lasciandone cadere le clausole più anacronistiche. In generale, l’esperienza di Craxi capo del governo, durata fino al 1987, si sarebbe caratterizzata per il tentativo di potenziare il ruolo del presidente del Consiglio e di affermare una più incisiva presenza dell’Italia nella politica internazionale. Significativo a questo proposito il confronto con gli Stati Uniti avvenuto il 10 ottobre 1985, all’aeroporto militare di Sigonella, in Sicilia, sede di una base aerea Usa, quando il governo italiano rifiutò di consegnare alle autorità statunitensi i quattro palestinesi responsabili del sequestro, in acque egiziane, della motonave passeggeri Achille Lauro e dell’uccisione di un cittadino americano di origine ebraica. L’episodio evidenziò una significativa divergenza fra l’Italia e gli Stati Uniti in materia di politica mediorientale, senza tuttavia mettere in discussione la fedeltà dell’Italia all’Alleanza atlantica.

Il governo Craxi

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All’inizio degli anni ’80 si registrò un altro profondo mutamento degli assetti politico-sociali, anch’esso legato al progressivo esaurirsi della spinta a sinistra alla fine degli anni ’70. Nell’autunno 1980 i sindacati subirono la loro prima grave sconfitta, dopo l’“autunno caldo” del ’69, nella vertenza apertasi con la Fiat sul problema della riduzione della manodopera. Mentre il Pci appoggiò gli operai in sciopero, l’azienda torinese riuscì a imporre le proprie scelte di razionalizzazione produttiva, e l’allontanamento dei responsabili di violenze in fabbrica, con l’imprevisto aiuto di una mobilitazione di piazza dei quadri aziendali intermedi, la cosiddetta “marcia dei quarantamila” (ottobre 1980) che sfilarono in corteo a Torino chiedendo il ritorno all’ordine. Da quell’episodio ebbe inizio un progressivo ridimensionamento del ruolo del sindacato, che di lì a pochi anni avrebbe registrato una nuova sconfitta. Il contrasto riguardava il costo del lavoro, in particolare il meccanismo di “scala mobile” introdotto nel ’75 da un accordo fra sindacati e Confindustria [►20_3], che adeguava automaticamente i salari al costo della vita alimentando così l’inflazione. Nel 1984, il governo Craxi varò un decreto legge che modificava il meccanismo in senso sfavorevole ai lavoratori. Quando il decreto fu convertito in legge dopo una lunga battaglia parlamentare, i comunisti promossero un referendum abrogativo, che si tenne nel giugno ’85, ma ne uscirono sconfitti, seppur di misura.

Il ridimensionamento dei sindacati

Restava irrisolta la questione del controllo della spesa pubblica e delle forme dell’intervento statale, ampliatosi notevolmente, negli anni ’70, nei settori della sanità, della previdenza e dell’istruzione, ma ancora caratterizzato da inefficienza e costi elevati. Anche in Italia, come in tutto il mondo occidentale, gli anni ’80 videro svilupparsi una polemica che, partendo dalla denuncia degli eccessi di “assistenzialismo”, giungeva a mettere in discussione alcune strutture portanti del Welfare State (come la gratuità delle cure mediche o la semigratuità dell’istruzione). Queste difficoltà vennero in parte compensate da una ripresa dell’economia che, a partire dall’84, superò la fase recessiva grazie all’aumento delle esportazioni e al profondo rinnovamento tecnologico di alcuni settori industriali sia privati (a cominciare da quello automobilistico) sia pubblici (come il siderurgico). Queste trasformazioni, tuttavia, ebbero notevoli contraccolpi sociali: la diminui­ ta necessità di manodopera, infatti, faceva aumentare la disoccupazione e la spesa dello Stato per la Cassa integrazione guadagni, cioè per l’erogazione di un salario provvisorio ai lavoratori che perdevano il loro impiego.

Spesa pubblica e ripresa produttiva

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L’economia sommersa e il terziario

Nel complesso il sistema economico italiano manifestò nel decennio ’80-90 – anche nei momenti di crisi più acuta – una vitalità notevole, al di là di quanto non apparisse dai

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La “marcia dei quarantamila” quadri intermedi Fiat autunno 1980 Il 14 ottobre 1980, a Torino, il Coordinamento dei capi e dei quadri intermedi della Fiat organizzò una grande manifestazione per chiedere la fine dello sciopero che era stato indetto dai sindacati contro il licenziamento di oltre 14 mila dipendenti. Successivamente i convenuti si incolonnarono lentamente dando origine a un corteo che si diresse verso le vie del centro cittadino. Il corteo si ingrossò strada facendo e, quando arrivò nel cuore della città, in piazza Castello, era numericamente considerevole. Con precisione non si è mai saputo quante persone fossero: la questura stimò 20 mila partecipanti, ma alla storia passò la cifra fornita dai telegiornali che parlarono di 40 mila persone. Il 15 ottobre i sindacati accettarono la cassa integrazione per 23 mila lavoratori.

decreto legge Nell’ordinamento costituzionale italiano, il decreto legge è un provvedimento legislativo emanato dal governo che ha efficacia immediata ma, per essere convertito in legge, deve essere approvato dal Parlamento entro sessanta giorni. In caso contrario il decreto decade.

L’economia sommersa: un laboratorio per la produzione di calze [Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Roma]

dati ufficiali sull’andamento della produzione e del reddito. Il fenomeno si spiegava soprattutto con la crescita della cosiddetta “economia sommersa”: ossia quella miriade di piccole imprese disseminate nella provincia italiana e caratterizzate – grazie agli intensi turni lavorativi, all’assenza di controlli sindacali, alla mobilità della manodopera, all’elevata evasione fiscale, ma talora anche all’innovazione tecnologica – da alta produttività, da bassi costi e da una notevole capacità di adattamento alle esigenze del mercato. Un’espansione molto articolata, dal punto di vista della varietà delle forme di impiego, caratterizzò soprattutto il settore terziario, ormai al primo posto anche in Italia per numero di addetti (54,2%, rispetto al 33,7 dell’industria e all’11,7 dell’agricoltura nel 1985). Lo sviluppo del terziario, il dinamismo di alcuni settori produttivi e la rinnovata competitività dei prodotti italiani sui mercati internazionali erano indubbiamente sintomi di vitalità del tessuto sociale. Essi furono però accompagnati da gravi fattori degenerativi. Il fenomeno della corruzione politica rivelò un nuovo inquietante volto all’inizio degli anni ’80 con lo scandalo della Loggia P2: una specie di branca segreta della Massoneria, ben inserita nel mondo politico, nella burocrazia e nei vertici militari e sospettata di perseguire – oltre a scopi di lucro e di carriera per i suoi associati – anche il fine di una ristrutturazione autoritaria dello Stato. Lo scioglimento della Loggia, decretato nell’81 dal governo Spadolini, non cancellò l’immagine di una connessione, sia pur indiretta, fra alcuni settori della classe politica e la malavita comune. Il dilagare delle organizzazioni criminali – la mafia in Sicilia, la camorra nel Napoletano, la ’ndrangheta in Calabria – anche al di là delle tradizionali aree di insediamento, si configurava sempre più come aperta sfida ai poteri dello Stato [►FS, 170]. L’episodio più drammatico in questo senso fu, nel settembre 1982, l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, già protagonista della lotta al terrorismo, inviato come prefetto a Palermo per coordinare il contrasto alla mafia.

Corruzione e criminalità

La sconfitta del terrorismo di sinistra

Esiti più positivi ebbe la lotta contro il terrorismo di sinistra. La svolta in questo senso si delineò nel 1980, quando alcuni terroristi arrestati decisero di abiurare la lotta armata e di denunciare i compagni in libertà. Il numero dei pentiti 797

C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

– così furono impropriamente chiamati coloro che ac­ cettavano di collaborare con la giustizia – andò da allora sempre aumentando, grazie anche a una legge dell’80 che concedeva forti sconti di pena come compenso per il contributo fornito dagli imputati allo svolgimento delle indagini. Il numero degli attentati, ancora molto alto nell’81, calò rapidamente negli anni successivi e i principali gruppi clandestini, sempre più isolati, cessarono praticamente di esistere.



METODO DI STUDIO

 a  Indica per iscritto il significato del termine pentapartito e le sigle dei partiti che ne facevano parte.  b Sottolinea le caratteristiche e le scelte politiche del governo Craxi.  c  Sottolinea le parole chiave relative alla Loggia P2 e utilizzale per costrui­ re una frase che ne sintetizzi la definizione.  d  Realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) relative alla realtà economica, politica e sociale degli anni ’80 in Italia (indicane almeno 2 per ogni sottoparagrafo) e attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole più importanti. Quindi realizza una didascalia usando la nuvola da te realizzata come scaletta e mettendo in rilievo gli aspetti che afferiscono alle parole chiave che hai scritto con il font di dimensioni maggiori.

20_5 LA CRISI DEL SISTEMA POLITICO

La fine della lunga emergenza terroristica non servì a restituire credibilità e popolarità a un ceto politico che appariva bloccato in un equilibrio instabile eppure immutabile: quello fondato sull’alleanza fra Dc e Psi, o meglio sugli accordi fra le correnti delle formazioni maggiori, che agivano spesso come forze politiche autonome. Tutto questo alimentava un senso diffuso di sfiducia nei confronti dei partiti, veri detentori del potere nell’Italia repubblicana, approfondiva il distacco fra classe politica e società civile e faceva crescere la polemica contro le disfunzioni del sistema. L’accordo che, nel luglio ’85, consentì l’elezione alla presidenza della Repubblica del democristiano Francesco Cossiga non evitò il riproporsi dei contrasti fra Psi e Dc, quest’ultima decisa a rivendicare, in quanto partito di maggioranza relativa, la guida del governo.

La sfiducia nei partiti

Si giunse così, nella primavera del 1987, alla crisi del governo Craxi. Le elezioni che si tennero in giugno segnarono una discreta affermazione del Psi e un nuovo calo dei comunisti, cui fece riscontro una lieve ripresa della Dc. Ma la maggiore novità fu l’apparizione di nuovi gruppi, estranei ai partiti tradizionali: il movimento dei Verdi, nato nel 1986 su una piattaforma ambientalista [►16_2], e le Leghe regionali, presenti soprattutto in Veneto e in Lombardia e poi riunite nella Lega Nord sotto la guida di Umberto Bossi. Queste ultime, impostando la loro propaganda sulla polemica contro il centralismo statale e la pressione fiscale e sulla rivendicazione di una identità separata per le regioni del Nord – ma facendo anche leva su pregiudizi antimeridionalisti e sulle preoccupazioni suscitate dal fenomeno

Le nuove forze politiche

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Manifestazione della Lega Nord a Pontida giugno 2011 La Lega Nord organizza i suoi raduni annuali a Pontida, nella provincia di Bergamo, dove nel 1167 sarebbe stato stretto uno storico patto fra alcuni Comuni dell’area padana riunitisi nella Lega lombarda per contrastare il tentativo dell’imperatore Federico I Barbarossa di affermare il proprio potere nell’Italia settentrionale.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

immigratorio – avrebbero ottenuto notevoli successi nelle consultazioni amministrative dell’anno successivo. Dopo le elezioni del 1987, la maggioranza di pentapartito si ricostituì faticosamente, consentendo la formazione di nuovi governi a guida democristiana. Ma né quello formato nell’88 dallo stesso segretario della Dc, Ciriaco De Mita – che aveva tentato di avviare un processo di rinnovamento interno, ma aveva incontrato forti opposizioni ed era stato costretto a lasciare la guida del partito e del governo – né quello costituito nell’89 dall’esperto Giulio Andreotti, fondato su un difficile equilibrio fra i socialisti e l’ala più moderata della Dc, riuscirono a condurre in porto quelle significative riforme politiche che ormai erano reclamate da gran parte dell’opinione pubblica. Al di là della tradizionale denuncia del malcostume, era METODO DI STUDIO il sistema nel suo insieme a essere messo sotto accusa. Le radici della crisi furo a  Sottolinea le caratteristiche delle prime Leno individuate nel meccanismo elettorale proporzionale, nella debolezza ghe regionali ed evidenzia il periodo in cui appardell’esecutivo, nell’impossibile alternanza al governo di schieramenti contrapvero.  b  Sottolinea i fattori che determinarono la crisi posti. Sarebbero stati tuttavia elementi esterni al sistema – il mutamento del quadella “Prima Repubblica”. Quindi riassumili sintedro internazionale, le sollecitazioni indotte da nuove forze politiche, unitamente ticamente per iscritto. a una serie di clamorose iniziative giudiziarie – ad accelerare una crisi da tempo  c Cerchia i settori politici e sociali da cui proveniva la richiesta di riforme istituzionali e sottolinea latente e alla quale i partiti di governo, in primo luogo Dc e Psi, non avevano sagli elementi messi in discussione. puto porre rimedio.

Le mancate riforme



20_6 UNA DIFFICILE TRANSIZIONE

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Nel linguaggio corrente è ormai consuetudine indicare con l’espressione “Seconda Repubblica” l’assetto politico-istituzionale determinatosi in Italia nella prima metà degli anni ’90 con il crollo dei vecchi partiti, la nuova legge elettorale maggioritaria e il profondo rinnovamento della classe politica, in direzione di un sistema tendenzialmente bipolare [►FS, 167]. La nascita del nuovo sistema fu però il risultato di una serie di passaggi imprevisti e a volte traumatici che si consumarono nel giro di due anni o poco più. Una accelerazione dovuta in parte all’incombere delle scadenze legate all’ingresso dell’Italia nell’Unione europea [►18_2 e 18_3], che imponevano una più attenta gestione della finanza pubblica, in parte ad alcuni eventi che mettevano in luce la debolezza della classe politica ed evidenziavano la necessità di meccanismi istituzionali più efficienti e più vicini alle esigenze dei cittadini.

Verso la “Seconda Repubblica”

► Parole della storia Proporzionale/ Maggioritario, p. 803

Segnali negativi venivano anche dall’economia: a partire dal 1990 la crescita del decennio precedente si interruppe. Molte imprese italiane, a cominciare dalle maggiori come Fiat e Olivetti, perdevano competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate (in termini di oneri previdenziali e di inadeguatezza delle infrastrutture) dall’inefficienza della pubblica amministrazione. Il tutto mentre l’inflazione restava ben al di sopra della media europea e il deficit del bilancio statale non accennava a ridursi, anche per il peso degli interessi sul debito: il che costringeva lo Stato a continue emissioni di titoli pubblica amministrazione che attiravano il risparmio, distogliendolo dagli impieghi produttivi.

La stasi economica

Sul piano della vita politica, la prima importante novità fu la Dal Pci al Pds trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico della sinistra (Pds). La clamorosa decisione – annunciata alla fine del 1989 dal segretario Achille Occhetto e tradotta in atto, dopo lunghe polemiche interne, in un congresso tenutosi a Rimini nel febbraio ’91 [►FS, 166d] – avrebbe dovuto “sbloccare” la principale forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. Ma questo progetto si scontrò con le diffidenze reciproche che permanevano fra il Psi,

Con l’espressione “pubblica amministrazione” si intende sia la cosiddetta “funzione pubblica” o “funzione amministrativa” – ovvero l’attività esercitata dallo Stato volta a dare concreta attuazione alle norme giuridiche decise da governo e Parlamento in nome degli interessi della collettività –, sia l’insieme dei soggetti che esercitano tale funzione (dirigenti, funzionari e impiegati pubblici), ovvero l’“apparato amministrativo” o “burocratico” dello Stato. Al vertice della pubblica amministrazione è il governo, il quale risponde di fronte al Parlamento delle attività compiute dagli apparati pubblici.

799

C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

ancora al governo, e il nuovo Pds, indebolito dalla scissione dell’ala più legata all’eredità del vecchio Pci, che diede vita al partito di Rifondazione comunista. Sull’opposto versante politico si consolidavano, nel Settentrione, le posizioni della Lega Nord, che intensificava la sua polemica contro lo Stato accentratore, il fisco e l’intero sistema dei partiti. In generale, la proliferazione di piccoli movimenti, spesso concentrati su problemi specifici, esasperava la frammentazione dello schieramento parlamentare e rendeva più difficile la governabilità. Anche per questo le forze politiche cominciarono a prendere in considerazione l’ipotesi di una nuova legge elettorale capace di dare maggiore stabilità all’esecutivo. A tenere aperto il problema contribuì, nel giugno 1991, lo schiacciante successo di un referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale promosso da un comitato composto da esponenti di diversi partiti e presieduto dal democristiano Mario Segni: un risultato importante non tanto per il suo contenuto specifico (la riduzione a una del numero delle preferenze), quanto per il suo significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Un’altra inattesa sollecitazione in direzione delle riforme giungeva addirittura dal vertice dello Stato: il presidente della Repubblica Francesco Cossiga si rese

Il dibattito sulle riforme istituzionali

La nascita del Partito democratico della sinistra 1991 [© Grazia Neri] Il nuovo simbolo del Partito democratico della sinistra, presentato dal segretario Achille Occhetto, fu individuato in una quercia alla cui base c’è il vecchio simbolo del Pci, l’emblema della falce e del martello, a sottolineare l’importanza delle radici e della storia del partito.

EVENTI

Tangentopoli

I

800

l 17 febbraio 1992, a Milano, un politico del Psi venne arrestato mentre intascava una tangente del 10% dall’impresa detentrice dell’appalto delle pulizie presso la casa di riposo di cui era direttore, il Pio Albergo Trivulzio. Il dirigente socialista si chiamava Mario Chiesa, e il suo fermo avrebbe svelato di lì a poco un intreccio affaristico vastissimo, definito “Tangentopoli”, che avrebbe contribuito alla fine della Prima Repubblica e alla scomparsa del sistema politico che l’aveva caratterizzata. Dopo l’arresto, Chiesa, che aveva riscosso illegalmente il denaro per conto del suo partito, non accettò di fare da capro espiatorio e svelò ai magistrati l’intreccio esistente tra politica e imprenditoria, che stava alla base della corruzione dilagante. Era costume diffuso tra gli imprenditori pagare i politici per ottenere appalti pubblici, facendo poi gravare questa “spesa aggiuntiva” sui costi complessivi del lavoro. Dal canto loro, i politici si servivano del denaro per accrescere ulteriormente il loro potere, ottenendo in-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

carichi di maggior prestigio all’interno delle amministrazioni o dei vari enti. Forti di queste posizioni, potevano accrescere la loro influenza nella gestione di appalti e concessioni di vario tipo, alimentando all’infinito il rapporto illecito con il mondo delle imprese. Il risultato era un intreccio complesso tra uomini politici e imprese, in cui è difficile stabilire con esattezza su quale dei due settori gravassero le maggiori responsabilità. Attraverso il sistema delle tangenti, le imprese corruttrici si assicuravano l’eliminazione di ogni scomodo concorrente e, grazie alle coperture di cui godevano, potevano far lievitare i costi dell’appalto a danno delle casse pubbliche. L’inchiesta, denominata “Mani pulite”, partì da Milano ed ebbe un effetto a catena su tutta l’Italia. In quella circostanza emerse che il sistema politico italiano era stato sistematicamente finanziato dal meccanismo delle tangenti, violando apertamente la legge sul finanziamento pubblico dei partiti [►20_2]. Benché ricevessero soldi dallo Stato, i parti-

ti avevano ottenuto fondi illeciti di finanziamento dai più importanti gruppi economici del paese, spesso occultandoli in conti bancari segreti o aperti all’estero. Questo fenomeno, per quanto non fosse del tutto sconosciuto agli italiani, legato com’era anche alla pratica clientelare, nelle successive consultazioni politiche e amministrative spinse larghe fasce dell’elettorato verso quei soggetti politici considerati a vario titolo estranei al sistema, come la Lega e il Msi. All’inchiesta di “Mani pulite” fece infatti seguito una grande campagna in favore della legalità nella vita pubblica, che finì per avere i suoi punti di riferimento nei magistrati del pool di Milano (il procuratore capo Borrelli, il procuratore aggiunto D’Ambrosio, i sostituti Colombo, Davigo e Di Pietro), diventati subito popolarissimi. Molti politici di primo piano, come Bettino Craxi, Gianni De Michelis, Claudio Martelli, Arnaldo Forlani, e altri ancora, si videro raggiunti da avvisi di garanzia, assurti nel frattempo agli occhi dell’opinione pubblica a sicure prove di colpevolezza. Né mancarono, a causa dell’attivismo frenetico di alcune procure, clamorosi errori giudizia-

protagonista di una serie di accese polemiche con le forze politiche e dichiarò apertamente la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui egli stesso era il più alto rappresentante. Le elezioni dell’aprile 1992 registrarono alcune clamorose novità. Venivano seccamente sconfitti la Dc (che passava dal 34,3% al 29,7% dei voti alla Camera) e il Pds (che con il 16,1% perdeva più del 10% rispetto al Pci, in parte a vantaggio di Rifondazione comunista), mentre il Psi subiva una leggera flessione; crescevano, invece, le forze politiche nuove, come i Verdi e soprattutto la Lega Nord di Umberto Bossi che, con l’8,6% dei voti, ottenuti quasi tutti nelle regioni settentrionali, si affermava come quarta forza politica nazionale. La coalizione di governo conservava una maggioranza parlamentare ridottissima, pur restando, al momento, priva di alternative. All’indomani delle elezioni, in drammatica coincidenza con un nuovo e più terribile attentato della mafia (quello in cui, come vedremo fra poco, trovò la morte il magistrato Giovanni Falcone), il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, presidente della Camera, parlamentare dai tempi della Costituente: una figura che per il suo rigore morale era chiamata a rappresentare la tradizione positiva di una classe politica ormai largamente screditata.

Le elezioni del 1992 e la presidenza Scalfaro

Da alcuni mesi, infatti, un nuovo gravissimo scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L’inchiesta “Mani pulite”, avviata dalla magistratura milanese, svelava un diffuso sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei singoli uomini politici che fu denominato “Tangentopoli”. Destinatari principali erano i partiti della maggioranza, in primo luogo la Dc e il Psi (ma non mancarono casi di coinvolgimento del Pci-Pds e dei partiti minori). Fenomeno non nuovo, materia di precedenti scandali ma tacitamente ammesso e tollerato, il sistema delle tangenti rivelava una penetrazione capillare che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava della loro

“Tangentopoli”

ri destinati a chiarirsi soltanto anni dopo, quando la reputazione pubblica degli interessati era stata ormai distrutta. La stessa custodia cautelare fu a volte indebitamente adoperata come strumento di pressione per ottenere le confessioni degli imputati. D’altronde, la denuncia dello scarso garantismo della prassi giudiziaria lanciata da una classe dirigente fino ad allora sorda ai problemi della giustizia non poteva che apparire strumentale. L’intreccio tra politica e imprenditoria era un dato reale, diffuso a troppi livelli. Si poteva giustificarlo come una necessità per finanziare la politica, anche quando finiva per rafforzare il potere dei gruppi che controllavano i partiti e, in molti casi, l’arricchimento per-

sonale dei singoli? Si potevano violare sistematicamente le leggi, salvo poi chiederne il rispetto al comune cittadino? Si tratta di do-

mande su cui a tutt’oggi poggia il giudizio politico e morale degli italiani sulla classe politica della Prima Repubblica.

Il segretario del Psi, Bettino Craxi, depone in tribunale 1993 Nelle inchieste giudiziarie ribattezzate dalla stampa “Mani pulite” vennero coinvolti alcuni protagonisti della Prima Repubblica. Tra i più noti, Bettino Craxi, segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio. Nel 1994 il leader socialista fuggì in Tunisia, ad Hammamet, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 2000.

801

C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

incapacità di rinnovarsi. Fra il 1992 e il 1993, numerosi esponenti politici di primo piano, a cominciare dal segretario del Psi Bettino Craxi furono raggiunti da avvisi di garanzia (ossia da notifiche dell’avvio di indagini emesse dai magistrati inquirenti) e costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Un anno dopo Giulio Andreotti, più volte presidente del Consiglio, fu accusato da alcuni pentiti di collusioni con la mafia: accuse destinate poi a cadere nel processo, in parte perché giudicate infondate, in parte per l’intervenuta prescrizione del reato. Il susseguirsi delle iniziative giudiziarie contro la classe politica si inseriva in una situazione resa drammatica dalla recrudescenza dell’offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio 1992, mentre erano in corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato al tritolo lungo l’autostrada fra l’aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, la moglie e tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti furono uccisi da un’autobomba in piena Palermo [►FS, 170]. Falcone e Borsellino erano figure notissime, da tempo in prima fila nella lotta alla mafia: la loro morte scosse l’opinione pubblica e stimolò un potenziamento dell’azione di magistratura e polizia, che avrebbe portato, nel gennaio 1993, all’arresto del “capo dei capi” dell’organizzazione mafiosa, Salvatore Riina.

Le stragi di mafia

Il nuovo governo presieduto dal socialista Giuliano Amato, entrato in carica alla fine di giugno del ’92 e sostenuto dai partiti della vecchia maggioranza, si trovò dunque ad affrontare un compito difficilissimo. Alla crisi dei partiti e all’allarme per il dilagare della criminalità organizzata si aggiungevano i problemi suscitati dalla crisi produttiva e dalla crescita del debito pubblico, che rischiavano di compromettere gli impegni presi dall’Italia a Maastricht nel febbraio dello stesso anno. Il governo affrontò subito il problema finanziario prima con interventi fiscali (compreso un prelievo sui conti correnti bancari), poi con una manovra più organica volta a contenere le spese. Tali

Il governo Amato

VERSO LA SECONDA REPUBBLICA

Insofferenza dell’opinione pubblica verso i vecchi partiti

Stagnazione economica

Crescita della spesa e del debito pubblico FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA

Nuova legge elettorale maggioritaria

Collusioni tra politica e criminalità organizzata

802

Tangentopoli e crisi della vecchia classe politica

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Nascita di nuove forze politiche e rinnovamento di sigle e programmi

I magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

interventi, insieme alla privatizzazione di alcune grandi imprese pubbliche, si rendevano tanto più necessari dopo che, in settembre, una ondata di vendite sui mercati valutari aveva investito la lira, deprezzandola di oltre il 20% e costringendo l’Italia a uscire dal Sistema monetario europeo [►18_1]. Restava aperto il problema della legge elettorale. L’introduzione di un sistema maggioritario uninominale sembrava a molti la via più rapida per la riforma e la moralizzazione della politica: il voto a favore di singole personalità avrebbe ridotto al minimo l’ingerenza dei partiti e dei loro apparati. I difensori del sistema proporzionale vigente, con il voto di lista che tutelava al massimo il potere organizzativo dei partiti, si limitavano invece a suggerire una serie di correttivi. Il disaccordo tra le forze politiche spianò ancora una volta la strada a una soluzione imposta da un referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 i cittadini approvarono a larghissima maggioranza il quesito che, attraverso la soppressione di alcune parti della legge

Il referendum del 1993

Parole della storia

Proporzionale/ Maggioritario

A

partire dalle elezioni per l’Assemblea costituente e fino agli anni ’90 del ’900, gli italiani hanno eletto i loro rappresentanti politici in Parlamento con un sistema proporzionale plurinominale basato sullo scrutinio di lista: nei collegi elettorali venivano presentate liste di partiti, ciascuna contrassegnata da un simbolo e composta da un numero di candidati pari ai seggi in palio; gli elettori esprimevano la loro opzione per una lista ed eventualmente per uno o più candidati (voto di preferenza). Ad ogni partito veniva assegnato un numero di seggi proporzionale ai voti raccolti. Il sistema proporzionale assicura un’esatta raffigurazione delle scelte dell’elettorato, ma spesso indebolisce la stabilità del governo. Viene infatti incoraggiata e moltiplicata la frammentazione politica, garantendo rappresentanti in Parlamento anche a piccoli gruppi o partiti con basse percentuali di voti. Perciò difficilmente in un sistema proporzionale un partito conquista la maggioranza assoluta: per formare un governo è dunque necessaria una coalizione di partiti, dove ogni forza tende a sottolineare le differenze rispetto agli alleati per accrescere il proprio consenso, indebolendo l’attività del governo. Inoltre, in un regime parlamentare privo di altre cariche direttamente elette dal popolo (come il capo dello Stato o il capo del governo), questo sistema elettorale contribuisce ad assegnare ai partiti un ruolo determinante nelle decisioni politico-istituzionali, a scapito degli elettori: con il voto nell’urna viene infatti

indicato soltanto il partito preferito, mentre la formazione del governo, e di conseguenza, l’elaborazione del programma e la scelta dei ministri sono il risultato di trattative tra le forze politiche dopo le elezioni. Per questo, in alcuni casi, il metodo proporzionale viene corretto con l’introduzione di un premio di maggioranza, ovvero di una quota supplementare di seggi, allo scopo di favorire la stabilità. In altri casi (come quello della Repubblica federale tedesca dopo la seconda guerra mondiale) lo stesso obiettivo viene perseguito attraverso una soglia di sbarramento (in Germania è del 5%): chi non la supera è escluso dalla rappresentanza parlamentare. Con il sistema maggioritario uninominale, invece, il territorio è diviso in un numero di collegi pari ai rappresentanti da eleggere (dunque molto più piccoli rispetto a quelli del sistema proporzionale, e tali da favorire un contatto più diretto tra eletto ed elettori), dove si affrontano i candidati, uno per ciascun partito o coalizione di partiti (da cui “uninominale”): chi ottiene il maggior numero di voti (anche se non necessariamente la maggioranza assoluta) ha diritto al seggio. Esistono molte versioni del sistema uninominale: le più note sono l’inglese e la francese. Nel primo caso la votazione avviene in un unico turno: è così possibile conquistare il seggio anche con una maggioranza relativa molto bassa. Nel secondo caso, invece, qualora nessun candidato si sia aggiudicata la maggioranza assoluta al primo turno, viene svolto un secondo turno elettorale (detto ballottaggio) tra i candidati più votati, consentendo agli elettori dei candidati esclusi di votare per l’esponente politicamente più vicino tra

quelli rimasti in gara. Il sistema uninominale, come tutti i sistemi maggioritari, non assicura la corrispondenza proporzionale tra voti e seggi: generalmente chi ottiene la maggioranza relativa di voti conquista un numero di seggi superiore a quanti gliene spetterebbero in proporzione. Viene così garantita una semplificazione del panorama politico, che tende a evolvere verso il bipolarismo. Esistono anche sistemi “misti”, che combinano meccanismi e princìpi ispiratori differenti. In Italia, nel 1993, dopo il referendum che aveva segnato la fine del proporzionalismo, fu approvata una legge che prevedeva un turno unico su collegi uninominali per i tre quarti dei seggi e assegnava il restante quarto con metodo proporzionale. Nel 2005, la maggioranza di centro-destra varò una nuova riforma che reintroduceva il criterio proporzionale con liste bloccate (ossia decise dai partiti senza voto di preferenza), correggendolo con un premio di maggioranza per la coalizione vincente (su base nazionale alla Camera, regionale al Senato) e con una clausola di sbarramento fissata al 4%. Nel 2013 una sentenza della Corte costituzionale dichiarò illegittime alcune parti della legge. Nel 2017, dopo lunghe trattative, è stata approvata una legge che assegnava un terzo dei seggi con metodo proporzionale e il restante terzo in collegi uninominali: una legge che rappresentava un compromesso fra le istanze delle forze politiche di centrodestra e di centro-sinistra, ma non era in grado di garantire un esito chiaro ai fini della formazione di una maggioranza. Il tema della riforma elettorale tornava così al centro del dibattito politico.

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C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

vigente, introduceva il sistema maggioritario uninominale al Senato. Il successo del referendum suonava come una secca sconfitta per il sistema dei partiti. All’indomani dei referendum, Amato rassegnò le dimissioni. Il presidente della Repubblica chiamò allora a formare il nuovo governo il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, che formò il governo muovendosi al di fuori delle logiche partitiche. Il nuovo esecutiMETODO DI STUDIO vo, composto in parte da tecnici e in parte da politici, si impegnava a favorire il  a  Spiega cosa si intende per Seconda Repubblica e quali eventi ne determinarono l’inizio. varo di una riforma elettorale che recepisse il principio maggioritario indicato  b Sottolinea, per ogni sottoparagrafo, le infordal referendum e prometteva di proseguire l’opera di risanamento delle finanze mazioni principali. pubbliche. Le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, approvate ai primi  c  Formula le domande cui le seguenti espressioni forniscono una risposta: a. Giuliano Amato; b. di agosto, estendevano a entrambe le Camere il sistema maggioritario uninoFalcone e Borsellino; c. sistema maggioritario uninominale, ma prevedevano una quota di seggi, pari al 25%, da assegnare con il siminale; d. governo Ciampi. stema proporzionale. Si trattava, comunque, di un passaggio decisivo: di fatto  d  Inventa una nuova espressione per esprimere segnava la fine della “Repubblica dei partiti” che proprio su quel sistema si era il concetto di “tangentopoli”. retta per quasi mezzo secolo.

Il governo Ciampi e la nuova legge elettorale



20_7 LA “RIVOLUZIONE MAGGIORITARIA”

Col varo del nuovo sistema elettorale si fecero più forti le pressioni per un ricorso anticipato alle urne che, nelle aspettative di larga parte dell’opinione pubblica, avrebbe liberato il Parlamento dalla vecchia classe dirigente compromessa con gli scandali di Tangentopoli e posto le basi per un nuovo patto fra cittadini e potere politico. In questa prospettiva i partiti della vecchia maggioranza cercarono di rinnovarsi, cambiando, in qualche caso, il simbolo e il nome del partito. Il Psi, uscito di scena Craxi, che espatriò in Tunisia temendo l’arresto, si diede nuovi dirigenti, senza però riuscire a rilanciare la sua immagine. La Dc decise di tornare alle origini e alla denominazione del primo partito cattolico – quello fondato da Sturzo nel 1919 [►6_2] – assumendo, nel gennaio 1994, il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Ma una consistente minoranza ostile alle correnti di sinistra abbandonò il Ppi e diede vita a una nuova formazione, il Centro cristiano democratico (Ccd). Anche a destra si registrarono significativi mutamenti. Il segretario del Msi Gianfranco Fini, sospinto dai buoni risultati raggiunti nelle elezioni comunali e dalla necessità di ottenere una definitiva legittimazione che lo inserisse nel gioco politico, avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale: un processo che si sarebbe concluso nel congresso di fondazione di Fiuggi (gennaio 1995), con una netta rottura di continuità col passato neofascista.

La trasformazione dei partiti

Ma l’elemento di maggior novità nello scenario italiano fu l’ingresso in politica dell’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi. Proprietario delle tre maggiori reti televisive private e del Milan, la società di calcio più forte del momento, industriale impegnato in molti altri settori, dall’edilizia alle assicurazioni, dalla finanza alla pubblicità, Berlusconi annunciò nel gennaio 1994 la sua “discesa in campo” con il dichiarato obiettivo di arginare un eventuale successo delle sinistre e di ricompattare uno schieramento moderato ormai disperso [►FS, 168d].

La “discesa in campo” di Berlusconi

Nel giro di pochi mesi, Berlusconi riuscì non solo a fondare un proprio partito, Forza Italia, che si presentava con un programma di

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Le elezioni del 1994

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Gianfranco Fini alla conferenza programmatica di Alleanza nazionale Verona, 1998 Il simbolo scelto da Alleanza nazionale conserva al suo interno la fiamma tricolore del vecchio Msi, ma inserita in un contesto rinnovato in cui è il nome del nuovo partito a essere messo più in evidenza.

ispirazione liberale, ma anche a mettere assieme una doppia alleanza elettorale: con la Lega Nord nell’Italia settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-sud (Polo del buon governo). Confluirono in questo schieramento anche i radicali di Pannella e il Ccd. Sul fronte opposto il Pds coagulò intorno a sé (nel cartello dei Progressisti) tutte le forze di sinistra da Rifondazione comunista ai Socialisti, ai Verdi. Più isolati e più deboli apparivano il Ppi e il gruppo di Mario Segni (Patto per l’Italia), che si collocavano al centro. Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi, che ottennero, grazie al nuovo meccanismo uninominale, la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, mancandola di poco al Senato. La neonata Forza Italia si affermò come primo partito col 21% dei voti, seguìta dal Pds (20,3%), dal Msi-Alleanza nazionale (13,5%), dal Ppi (11,1%) e dalla Lega Nord (8,4%). Nella distribuzione geografica dei collegi, i progressisti prevalsero in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, ma anche in Abruzzo, Campania e Calabria; nelle altre regioni settentrionali e meridionali il successo del centro-destra fu incontrastato. Le ragioni della vittoria di Berlusconi erano ascrivibili non solo al sostegno delle sue reti televisive, ma soprattutto alla capacità di proporsi – con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici – come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di “Tangentopoli” [►FS, 169]. Dalle elezioni usciva così un quadro politico radicalmente trasformato: quasi scomparsi il Psi e i partiti laici minori, drasticamente ridimensionato il Partito popolare erede della Dc, rientrata in gioco l’ex estrema destra con la nascita di Alleanza nazionale, si delineava un confronto fra due schieramenti contrapposti destinati, come è tipico di un sistema politico bipolare, ad alternarsi al governo: un centro-destra guidato da Berlusconi e un centro-sinistra gravitante intorno al Pds. Ma la nascita di una “normale” democrazia dell’alternanza simile a quella dei principali paesi europei si rivelò subito difficile. Troppo aspra era in primo luogo la contrapposizione fra i due schieramenti principali, che si delegittimavano a vicenda: mentre Berlusconi bollava i suoi avversari come eredi del comunismo, la sinistra accusava Berlusconi di attentare ai fondamenti antifascisti della Repubblica (anche per la sua alleanza con Fini) e denunciava il conflitto di interessi del presidente del Consiglio, che era anche un grande imprenditore e il proprietario delle maggiori reti televisive private.

L’avvio del bipolarismo

Silvio Berlusconi ospite del programma Porta a porta di Bruno Vespa [© Paolo Tre/ Contrasto] La costruzione dell’immagine del leader politico ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella strategia dei consensi. Berlusconi si è avvalso con grande capacità del mezzo televisivo – sia sulle reti di sua proprietà che su quelle pubbliche – per veicolare l’immagine dell’uomo nuovo, affabile, di successo, diverso dai politici della Prima Repubblica.

All’esasperata conflittualità fra i due poli si aggiungeva l’eterogeneità delle coalizioni che si erano costituite in gran fretta, in vista della prova elettorale. Nel maggio 1994 Berlusconi formò il nuovo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale, del Ccd e altri esponenti di centro. Ma l’alleanza si rivelò subito fragile, e non solo per i contrasti sui provvedimenti da adottare in una situazione finanziaria sempre difficile. Era soprattutto la Lega – che, grazie alla concentrazione del suo elettorato nelle popolose regioni del Nord, aveva ottenuto un altissimo numero di seggi nei collegi uninominali – a manifestare insofferenza nei confronti di possibili misure di austerità e a voler riprendere la sua libertà d’azione, scontrandosi con le altre componenti della nuova maggioranza.

La fragilità delle coalizioni

In novembre, Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della magistratura milanese (il primo di una lunga serie) per una vicenda di tangenti da cui poi sarebbe uscito prosciolto. Un mese dopo, a poco più di sette mesi dal suo insediamento, il governo fu costretto a dimettersi per il ritiro della fiducia da parte della Lega. Nel gennaio 1995, Lamberto Dini, ministro del Tesoro nel ministero uscente, formò un esecutivo di tecnici con l’obiettivo, ormai obbligato, di contenere la spesa pubblica (in

Il governo Dini

conflitto di interessi È la situazione che si crea quando il titolare di una carica si trova nella condizione di prendere decisioni su materie che lo riguardano personalmente: in questo caso i suoi interessi possono entrare in conflitto con i suoi doveri istituzionali e con l’imparzialità richiesta dalla posizione che occupa.

805

C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

agosto fu varata una riforma delle pensioni, destinata però ad avere effetti solo nel lungo periodo) e di portare in tempi brevi il paese a nuove elezioni. I tempi però si prolungarono; e il governo Dini, nato grazie al voto favorevole del Pds, del Ppi e della Lega e all’astensione di Forza Italia, Alleanza nazionale e Ccd, divenne sempre più espressione del centro-sinistra, mentre il centro-destra passava a una netta opposizione reclamando l’immediato ritorno alle urne. Nell’imminenza delle nuove elezioni – Dini si dimise nel dicembre ’95 – i due schieramenti principali si riorganizzarono, con alcune significative varianti rispetto a due anni prima. La novità più significativa fu la nascita, già nel febbraio del 1995, dell’Ulivo, un nuovo contenitore politico di centro-sinistra che raccoglieva il Pds, il Ppi e altri gruppi minori attorno alla candidatura di Romano Prodi, economista di area cattolica ed ex presidente dell’Iri. L’Ulivo avrebbe poi stipulato un accordo elettorale con Rifondazione comunista. Sull’altro fronte, il Polo delle libertà riuniva Forza Italia, Alleanza nazionale e altri gruppi minori. La Lega decideva invece di correre da sola. I due schieramenti erano guidati, rispettivamente, da Berlusconi e da Prodi come leader e presidenti del Consiglio designati, col loro nome indicato sulle schede accanto ai simboli elettorali. METODO DI STUDIO L’unità a sinistra e la divisione del centro-destra furono decisive nel determinare  a  Evidenzia una frase in grado di sintetizzare i l’esito del confronto: nelle elezioni del 21 aprile 1996, l’Ulivo si impose di misucambiamenti avvenuti nei partiti politici nel periodo ra, ottenendo la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera, descritto e sottolinea, con colori diversi, quelli che riguardarono i partiti di sinistra e quelli che riguardadove diventava determinante l’appoggio di Rifondazione. Sempre di stretta mino i partiti di destra. sura, il Pds (alla cui guida, dopo la sconfitta del ’94, Massimo D’Alema aveva  b  Cerchia il nome dell’esponente politico che sostituito Occhetto) scavalcava Forza Italia affermandosi come primo partito, ha caratterizzato maggiormente il ventennio a partire dal 1994 e il nome del suo partito. Quindi mentre guadagnavano consensi Alleanza nazionale e Rifondazione comunista. trascrivilo sul quaderno ed elenca le vicende Clamoroso fu il successo della Lega che, smentendo le previsioni, superò il 10% principali che lo riguardano. nazionale e il 30% nel Nord-Est. Forte di questo risultato, Umberto Bossi avreb c  Sottolinea e numera i fattori che hanno reso problematica l’esistenza in Italia di una “norbe cercato di compattare le file del movimento, spostandolo su posizioni apertamale” democrazia dell’alternanza. mente separatiste: a tal fine promosse una serie di manifestazioni culminate, in  d Spiega per iscritto il legame tra le seguenti settembre, in una “dichiarazione di indipendenza della Padania”. espressioni: a. Ulivo; b. Prodi; c. elezioni del 1996.

Prodi, l’Ulivo e le elezioni del 1996



20_8 IL CENTRO-SINISTRA E LA SCELTA EUROPEA

► Leggi anche: ► Eventi Tangentopoli, p. 800

Il nuovo governo presieduto da Romano Prodi, entrato in carica nel maggio 1996, schierava nelle sue file esponenti politici e tecnici di peso: Walter Veltroni vicepresidente del Consiglio, Giorgio Napolitano ministro degli Interni, Lamberto Dini ministro degli Esteri, Carlo Azeglio Ciampi ministro delle Finanze. Al ministero dei Lavori pubblici andava l’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro, il più popolare dei magistrati impegnati nell’inchiesta “Mani pulite”. Al governo Prodi spettava il compito di equilibrare la necessaria politica di rigore con la tutela dei ceti meno protetti, e di rilanciare l’economia e l’occupazione, con tutte le difficoltà derivanti da una maggioranza eterogenea che si estendeva dal centro all’estrema sinistra.

Il governo Prodi

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Il primo governo Prodi 1997 [Camera dei deputati, Ufficio del Cerimoniale] Da sinistra, Lamberto Dini, ministro degli Esteri; Walter Veltroni, vicepresidente del Consiglio; Romano Prodi; Giorgio Napolitano, ministro degli Interni; Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro; Livia Turco, ministro per la famiglia e la solidarietà sociale.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Il primo obiettivo, perseguito con particolare determinazione dal ministro Ciampi, fu quello di ridurre il deficit del bilancio statale entro il 3% del prodotto interno lordo, il più importante dei parametri fissati a Maastricht per l’ammissione nel sistema della moneta unica europea [►18_2 e 18_3]. Una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentirono all’Italia di rientrare nel Sistema monetario europeo alla fine del ’96, di attestarsi, alla fine del ’97, al di sotto dell’obiettivo del 3% e di ottenere, nel maggio ’98, l’ingresso nell’Unione monetaria europea, cui sarebbe seguita l’introduzione, a partire dal 1° gennaio 2002, dell’euro in sostituzione della lira.

L’ingresso nell’Unione monetaria

Per rendere stabili i risultati raggiunti, occorreva però agire con energia sul fronte del Welfare: la spesa previdenziale, in continua crescita nonostante le misure adottate dal governo Dini, caricava sulle generazioni future il costo di un numero elevato di pensionati che avevano avuto, a partire dagli anni ’70, la possibilità di uscire anticipatamente dal mondo del lavoro. I correttivi da introdurre avrebbero portato, gradualmente, a calcolare le nuove pensioni non più in base all’ultima retribuizione (sistema retributivo), ma in base ai contributi versati nella vita lavorativa (sistema contributivo). I tentativi di intervento del governo, solo parzialmente attuati, provocavano però le resistenze dei sindacati e la risoluta opposizione di Rifondazione comunista, il cui apporto era invece indispensabile al governo per ottenere la maggioranza alla Camera. Problemi non meno delicati erano quelli legati all’amministrazione della giustizia. Le inchieste giudiziarie sul sistema delle tangenti, che avevano avviato il crollo del sistema politico della Prima Repubblica, pur essendosi tradotte in un numero rilevante di processi, erano ben lungi dall’essere concluse, mentre rimaneva aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e una parte della classe politica, che criticava il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Berlusconi.

I problemi aperti

Nell’ottobre 1998, dopo un ennesimo contrasto sulla politica economica, Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi, che fu costretto a dimettersi. Si formò rapidamente un nuovo governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D’Alema, leader dei Democratici di sinistra (Ds) – questa la nuova denominazione assunta nel ’98 dal Pds – sostenuto dall’Ulivo, da alcuni gruppi minori di centro e da una parte dei parlamentari di Rifondazione, in dissenso con la scelta di far cadere il governo Prodi. Il cambio alla presidenza del Consiglio senza un’investitura elettorale apparve, però, come una ripresa delle consuetudini del vecchio sistema dei partiti e perciò fu duramente contestato dal Polo, ma anche da una parte del centro-sinistra. E l’ascesa alla guida del governo di D’Alema, leader del maggior partito della coalizione e primo ex comunista a diventare presidente del Consiglio, non riuscì a spegnere le micro-conflittualità interne alla maggioranza dove ogni raggruppamento, indipendentemente dalle dimensioni, cercava di far pesare il suo contributo determinante.

Il governo D’Alema

24_SPESA PENSIONISTICA IN PERCENTUALE SUL PIL, 1980-2011 16,85

[fonte: Istat, Italia in cifre 2013]

16,66 15,03 12,73

14,30

14,34

1990

1995

2000

12,12 10,84 1980

1985

2005

2010 2011

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C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

Il presidente Carlo Azeglio Ciampi e l’Altare della Patria a Roma con le frecce tricolore per le celebrazioni della festa della Repubblica

Il cerimoniale della festa della Repubblica italiana si svolge a Roma, con la deposizione di una corona d’alloro al Milite Ignoto

all’Altare della Patria da parte del presidente della Repubblica e una parata militare lungo i Fori Imperiali.

In due occasioni, tuttavia, si manifestò un largo consenso tra le forze politiche: nell’elezione, a larga maggioranza e al primo scrutinio, di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica (maggio 1999) e nel sostegno alla partecipazione italiana alle operazioni militari contro la Serbia per il Kosovo [►17_5], in piena sintonia con gli Stati Uniti e con gli alleati della Nato. In politica interna, il governo D’Alema non resse alla prova delle elezioni regionali dell’aprile 2000. Dopo il successo del centro-destra, che conquistò otto regioni su quindici, D’Alema si dimise e al suo posto fu chiamato ancora una volta Giuliano Amato alla testa di un altro governo di centro-sinistra. La principale realizzazione di quest’ultima fase della legislatura fu l’approvazione (nel marzo 2001 in Parlamento e nell’ottobre successivo con un referendum confermativo) di una legge costituzionale che introduceva alcune importanti modifiche all’ordinamento italiano in materia di poteri degli enti locali (oggetto del Titolo quinto della Costituzione): furono ampliati i poteri legislativi delle regioni in materia di sanità, istruzione, lavori pubblici, agricoltura, turismo, e riconosciute maggiori autonomie ai comuni, alle province e alle aree metropolitane (le grandi città con i piccoli centri ad esse collegati). La riforma mirava a togliere spazio alle rivendicazioni federaliste della Lega (che peraltro si oppose in nome di un federaliMETODO DI STUDIO smo più spinto); ma fu criticata sia per la macchinosità di alcune formulazioni sia in  a   Sottolinea con colori diversi le scelte di poquanto frutto di una iniziativa unilaterale della maggioranza. litica economica che l’Italia attuò per poter entrare nell’Unione monetaria europea e i relativi esiti. Fra il 1996 e il 2001 il centro-sinistra aveva guidato l’Italia verso la nuova dimensio b   Sottolinea le cause della caduta del governo ne europea, ma il paese sembrava mantenere molte caratteristiche legate alle speciProdi nell’ottobre 1998 ed evidenzia il nome del fiche tradizioni della sua vita pubblica e del suo ordinamento istituzionale: in primo nuovo primo ministro.  c   Sottolinea i contenuti della legge costituzioluogo la debolezza dell’esecutivo e la breve durata dei governi. E tuttavia l’insieme nale approvata nel marzo 2001 e poi confermata delle novità introdotte nel sistema politico a partire dai primi anni ’90 confermava il con un referendum pochi mesi dopo. carattere epocale dei mutamenti vissuti dal paese alla fine del XX secolo.

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Il ritorno di Amato e la riforma federalista

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

SINTESI

20_1 CONTESTAZIONE E RIFORME Nel ’68 esplose anche in Italia la contestazione studentesca, con caratteri di particolare radicalità. Nacquero, fra il ’68 e il ’70, i gruppi extraparlamentari di estrema sinistra. Il ’69 fu segnato da intense agitazioni operaie (l’“autunno caldo”), che videro fra i protagonisti i lavoratori immigrati al Nord. Le lotte si conclusero con forti aumenti salariali e con un rafforzamento delle confederazioni sindacali. Al crescere della conflittualità politica e sociale la classe dirigente non seppe rispondere in modo adeguato. Nel 1970 furono approvati tuttavia alcuni importanti provvedimenti: Statuto dei lavoratori, istituzione delle regioni, divorzio.

20_2 VIOLENZA POLITICA E CRISI ECONOMICA Dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, si aprì per l’Italia una lunga stagione di violenze e di attentati, riconducibili alla destra eversiva e finalizzati a incrinare le basi dello Stato democratico e a favorire soluzioni autoritarie. L’impotenza dimostrata dai poteri pubblici rifletteva profonde divisioni all’interno dello schieramento di governo. Fra il 1972 e il 1973 si ebbero le prime manifestazioni del terrorismo di sinistra, che, negli anni successivi, si sarebbe reso protagonista di una serie di azioni sanguinose. Intanto la situazione economica ritornava preoccupante per gli

effetti della crisi petrolifera. Gli equilibri politici cominciarono a modificarsi dopo il successo del referendum sul divorzio (1974) che confermò i profondi cambiamenti della società in contrasto con le posizioni della Chiesa e della Dc. La nuova politica del “compromesso storico”, annunciata dal segretario del Pci Berlinguer (1973), favorì i successi elettorali dei comunisti (’75-76).

nazionale”, si ebbero per la prima volta governi a guida non democristiana, con il repubblicano Spadolini e poi con il socialista Craxi. Tra i problemi maggiori affrontati dall’esecutivo, quelli dell’espansione abnorme della spesa pubblica e del dilagare della malavita organizzata, mentre il terrorismo, dopo la legge sui “pentiti”, risultava sostanzialmente sconfitto.

20_3 TERRORISMO E “SOLIDARIETÀ NAZIONALE”

20_5 LA CRISI DEL SISTEMA POLITICO

Per affrontare i problemi suscitati dalla crisi economica e dal terrorismo di destra e di sinistra, nel 1978 fu formato un governo di “solidarietà nazionale”, a guida Dc con l’appoggio di tutte le maggiori forze politiche, compreso il Pci. Proprio allora le Brigate rosse (il più importante gruppo terrorista di sinistra) compirono la loro azione più clamorosa: il rapimento e l’assassinio di Moro. Nonostante alcune leggi di contenuto sociale – equo canone e riforma sanitaria – il programma riformatore del governo di “solidarietà nazionale” non riuscì a realizzarsi, mentre si accentuarono i contrasti tra le forze politiche, che già si erano divise sull’atteggiamento da tenere durante il sequestro Moro.

I contrasti interni alla maggioranza portarono, nell’87, alla crisi del governo Craxi e a nuove elezioni anticipate, che segnarono un progresso del Psi e un calo del Pci, e soprattutto l’emergere di nuove forze politiche: gli ambientalisti (i Verdi) e le leghe regionali (presenti soprattutto in Veneto e in Lombardia). Dopo le elezioni la coalizione si ricostituiva, dando vita a nuovi governi a guida democristiana. Si accentuava frattanto nell’opinione pubblica la critica alle disfunzioni del sistema politico e l’attesa delle riforme istituzionali.

20_6 UNA DIFFICILE TRANSIZIONE

20_4 POLITICA, ECONOMIA E SOCIETÀ NEGLI ANNI ’80 Negli anni ’80, esauritasi l’esperienza della “solidarietà

I primi anni ’90 videro aggravarsi i fattori di crisi, sia sul terreno dell’economia (rallentamento della produzione, aumento del debito pubblico), sia su quello della convivenza civile (ripresa dell’offensiva mafiosa, dilagare della corruzione). Sul piano

politico, le maggiori novità furono la trasformazione del Pci in Partito democratico della sinistra e l’emergere di nuovi movimenti estranei al sistema dei partiti (Verdi, Lega Nord). Dopo le elezioni dell’aprile 1992, che segnavano la sconfitta dei partiti tradizionali e il forte incremento della Lega Nord), delegittimati dalle inchieste della magistratura (Tangentopoli), il governo presieduto da Giuliano Amato ottenne alcuni successi nell’affrontare l’emergenza economica. Il referendum dell’aprile 1993 impose il passaggio al sistema maggioritario uninominale, confermato dalle nuove leggi elettorali. Dopo le dimissioni di Amato (aprile) il governo Ciampi affrontò la difficile situazione economica e finanziaria del paese, mentre le forze politiche si preparavano a un nuovo confronto elettorale.

20_7 LA “RIVOLUZIONE MAGGIORITARIA” Le elezioni del marzo ’94, tenutesi col nuovo sistema maggioritario uninominale, si svolsero in un quadro politico trasformato: mentre il Psi non riusciva a recuperare la sua immagine dopo le inchieste giudiziarie di Milano, la Dc assumeva il nome di Partito popolare italiano e il Msi avviava la sua trasformazione in Alleanza nazionale, per segnare una rottura col passato neofascista. Nasceva, soprattutto, una nuova forza politica, Forza Italia, ad opera dell’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, che promosse un cartello elettorale con la Lega Nord nell’Italia settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-Sud (Polo del buon governo),

809

C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

vincendo le elezioni contro la coalizione di centro-sinistra (i Progressisti). Il governo Berlusconi cadde però dopo solo sette mesi per i contrasti con la Lega. Gli succedette un ministero di tecnici presieduto da Lamberto Dini e sostenuto da uno schieramento di centrosinistra. Le nuove elezioni anticipate (aprile ’96) furono vinte dalla coalizione di centrosinistra (l’Ulivo).

20_8 IL CENTROSINISTRA E LA SCELTA EUROPEA Il nuovo governo presieduto da Romano Prodi affrontò il grave problema del deficit di bilancio riuscendo a ridurlo nel corso

del 1997, fino a rientrare nei parametri indicati dal trattato di Maastricht per l’ingresso nel 1998 dell’Italia nell’Unione monetaria. Nel 1998 il governo Prodi cadde e fu sostituito da un nuovo centro-sinistra guidato da D’Alema. Nel 1999 l’Italia partecipò con gli altri paesi della Nato all’intervento militare in Kosovo. Nel 2000, al governo D’Alema ne succedette un altro di centro-

sinistra presieduto da Amato. Alla fine della legislatura la maggioranza approvò una legge costituzionale che ampliava i poteri degli enti locali.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ

1 Colloca correttamente negli insiemi gli eventi terroristici e i nomi dei principali gruppi eversivi forniti nell’elenco.

Strage di piazza Fontana ● Rapimento e uccisione di Aldo Moro ● Bombe in piazza della Loggia ● Nuclei armati proletari ● Attentato alla stazione di Bologna ● Brigate rosse ● Prima Linea TERRORISMO DI DESTRA ........................................................................ ........................................................................ ........................................................................

TERRORISMO DI SINISTRA ........................................................................ ........................................................................ ........................................................................

2 Metti in ordine cronologico i principali eventi accaduti negli anni ’90

a. Nasce la Seconda Repubblica b. Nuovo governo pentapartito di Giuliano Amato c. Nascita di Forza Italia fondata dall’imprenditore Silvio Berlusconi d. Stragi di mafia di Falcone e Borsellino e. Trasformazione del Pci in Pds f. Inchiesta “Mani pulite“ 3 Seleziona la frase opportuna per completare correttamente le affermazioni di seguito:

1. La “strategia della tensione” era finalizzata a... a. realizzare la trasformazione in senso socialista dello Stato. b. rafforzare le istituzioni laiche e democratiche del paese. c. promuovere una svolta autoritaria nella politica italiana.

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2. Il “compromesso storico” consisteva in un accordo di lungo periodo tra... a. la Democrazia cristiana e il Partito socialista. b. le forze comuniste, socialiste e cattoliche. c. i gruppi di sinistra extraparlamentari e il Pci.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

3. Il meccanismo della scala mobile prevedeva... a. il rapido adeguamento dei salari al costo della vita. b. il coinvolgimento dei sindacati nella politica finanziaria. c. l’istituzione di forme di rappresentanza sindacali di base. 4. I principali bersagli della contestazione del ’77 furono... a. i sindacati e i partiti della sinistra. b. il governo democristiano e la Chiesa. c. i partiti dell’estrema destra neofascista. 5. Con l’espressione “maggioranza silenziosa” si faceva riferimento a... a. l’elettorato del Partito comunista. b. l’opinione pubblica moderata. c. i militanti della sinistra extraparlamentare. 6. Il pentapartito era costituito da... a. la coalizione di centro-sinistra allargata al Pli. b. il Pci, il Psiup e gli altri partiti di opposizione. c. i cinque partiti che ottenevano il maggior numero di voti. 4 Ricostruisci l’ordine cronologico degli eventi elencati di seguito in ordine sparso, annotando anche le date.

a. Viene approvata in Parlamento la legge Fortuna-Baslini b. Il movimento studentesco c. Moro viene sequestrato e ucciso d. “Autunno caldo” e. Strage di piazza Fontana

.......................... .......................... .......................... .......................... .......................... ..........................

5 Abbina ciascun personaggio agli eventi che lo riguardano, scegliendo solo quelli compresi tra le elezioni politiche del

1994 e quelle del 1996.

Gianfranco Fini Silvio Berlusconi Romano Prodi

a. Rifondazione comunista nega la fiducia al governo e ne causa la caduta b. Carlo Azeglio Ciampi è eletto presidente della Repubblica c. Il Parlamento approva una legge costituzionale sui poteri degli enti locali d. Ulivo e. Forza Italia si afferma come primo partito f. Alleanza nazionale g. L’Italia dà il suo sostegno alle operazioni militari in Kosovo h. Polo delle libertà i. D’Alema forma un nuovo governo l. Forma un nuovo governo con Lega, Alleanza nazionale e altri m. L’Italia fa il suo ingresso nell’Unione monetaria europea n. L’Ulivo ottiene la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera o. Forza Italia

COMPETENZE IN AZIONE 6 Utilizza gli argomenti che hai selezionato nell’esercizio 5 come scaletta per scrivere un testo di 15 righe sul periodo

analizzato e scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato.

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C20 DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA

7 Esponi in poche righe (max 5 per ciascuno) i seguenti argomenti abbinando a ciascuno un’immagine tra quelle presenti

nel capitolo.

● Tangentopoli ● Il bipolarismo italiano

● I problemi dell’Italia degli anni ’90

COMPITI DI REALTÀ 8 Realizzare la sceneggiatura e il materiale per un documentario su Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Tema storico da affrontare: Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica.

Contesto di lavoro

Lavori per un canale che si occupa di storia e curi in particolar modo il settore destinato ai ragazzi della tua età. I tuoi capi ti hanno chiesto di preparare un documentario su Tangentopoli ricco di testimonianze e sequenze video d’epoca (o tratte da film sull’argomento), in grado di affascinare spettatori della tua età, senza tralasciare un approccio storico rigoroso.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un video su Tangentopoli e sulla fine della Prima Repubblica dal taglio avvincente ma che esprima un punto di vista storiograficamente rigoroso. Per realizzare questo compito dovete: ● inquadrare storicamente il tema schematizzando sul quaderno le notizie principali (date, luoghi, identità dei magistrati e degli inquisiti, ecc.). ● cercare fonti iconografiche, video e testuali originali dell’epoca presa in esame. Potete far riferimento ai materiali presenti nel capitolo e nel Fare Storia, e cercare riferimenti a film e altre fonti su Internet. ● abbinare le fonti e i video ai contenuti storici che avete individuato. ● scegliere il modello comunicativo che volete adottare. Per far questo potete cercare su Internet dei documentari storici delle maggiori emittenti televisive italiane e straniere che si occupano di storia contemporanea e realizzare uno schema sulla struttura del programma. Es. presenza/assenza di un conduttore; presenza/assenza di uno storico che illustri le immagini e i video e che esponga alcuni concetti chiave; presenza/assenza di attori che realizzano scene verosimili basate sulle fonti storiche a disposizione, ecc. ● realizzare una scaletta della vostra trasmissione. ● produrre i contenuti: se avete deciso che 1. ci sarà un conduttore: dovrete scrivere i testi; 2. ci saranno degli attori: dovrete selezionare le fonti più adatte a essere recitate e affidare i ruoli; 3. ci sarà uno storico: dovrete individuare il brano storiografico di riferimento e riscriverlo secondo la modalità comunicativa che vi sembrerà più efficace per il vostro prodotto; 4. saranno utilizzate alcune sequenze di film o documenti video d’epoca: dovrete produrre una breve introduzione, in cui renderete conto delle informazioni storiche che è possibile trarre dalla sequenza. realizzare un copione per tutti i partecipanti coerentemente con i contenuti che avrete scelto. ● realizzare concretamente il video-documentario con gli strumenti tecnologici a voi più congeniali. ● Se volete, potete anche introdurre una testimonianza delle persone che vi sono vicine: i vostri docenti, genitori, politici locali, ecc. Attraverso delle interviste mirate (dovrete prima scrivere le domande in base all’impostazione del vostro lavoro), potrete verificare l’impatto emotivo suscitato da questi eventi e metterlo a confronto con la vostra analisi. Queste interviste potranno essere filmate e montate all’interno del vostro documentario, oppure potete farle recitare da “attori” che ne interpreteranno le parti salienti.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti ai capi dell’emittente e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più la visione del video.

Tempo a disposizione

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mezz’ora per individuare sul manuale i contenuti e schematizzarli; 1 ora per cercare le fonti più idonee, sul manuale e in Rete; 2-3 ore per la visione di documentari da prendere da esempio e schematizzarne la struttura; 2-5 ore per la visione di 2-3 film (tenere in conto se decidete di inserire le sequenze di alcuni film); 6-8 ore per la realizzazione dei contenuti e la realizzazione del video; mezz’ora per impostare e provare la relazione.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

FARESTORIA SVILUPPO E AMBIENTE Da decenni, ormai, le società industrializzate si trovano di fronte all’emergere e all’aggravarsi di problemi ambientali, derivati da un modello di sviluppo che si è rivelato poco sostenibile nel lungo periodo. Le questioni ad esso connesse sono diverse: l‘esaurirsi delle risorse naturali; l’emissione di sostanze nocive nell’atmosfera; le cause e gli effetti del cambiamento climatico. Le prime denunce delle conseguenze dell’industrializzazione e, più in generale, dei danni arrecati al delicato equilibrio ambientale dallo sviluppo delle attività umane risalgono all’inizio degli anni ’70, con il rapporto del Club di Roma su I limiti dello sviluppo [►142d]. La consapevolezza dei rischi ambientali da allora è cresciuta e con essa una nuova cultura ecologista, che ha trovato espressione in partiti, associazioni e anche in movimenti internazionali, come mette in luce il brano di De Marchi, Pellizzoni e Ungaro [►143]. Questa nuova attenzione è testimoniata dal lavoro della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo [►144d], in cui per la prima volta è stato elaborato il concetto di sviluppo sostenibile, destinato a rapida diffusione a partire dalla fine degli anni ’80. Un altro appuntamento importante è stata la conferenza di Rio del 1992, durante la quale alcuni scienziati statunitensi hanno presentato uno studio intitolato Un pianeta da salvare [►145d], in cui si denuncia il legame fra degrado ambientale e povertà. Segue un brano dello storico tedesco Wolfgang Behringer [►146], che ci introduce al tema del riscaldamento globale. Chiude la sezione un testo dell’ambientalista indiana Vandana Shiva [►147d], che mette in luce, invece, il divario fra un’agricoltura ecologicamente sostenibile e l’agricoltura industriale, interrogandosi sui problemi alimentari del terzo millennio.



142d DONELLA H. MEADOWS • DENNIS L. MEADOWS • JØRGEN RANDERS• WILLIAM W. BEHRENS I LIMITI DELLO SVILUPPO

D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens, I limiti dello sviluppo [1972], Mondadori, Milano 1974, pp. 45; 58-62; 73-74.

Il Club di Roma (un gruppo internazionale di personalità del mondo scientifico ed economico riunitosi nel 1968 con lo scopo di affrontare i grandi problemi del futuro dell’umanità) commissionò a una équipe di studiosi del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (Mit) una ricerca volta a ricostruire – mediante l’impiego di elaboratori elettronici – un modello globale delle linee di tendenza composto da cinque Gli elementi necessari a sostenere la crescita della popolazione e lo sviluppo economico del mondo possono essere, a un primo esame, divisi in due categorie principali. La prima comprende i fattori materiali, che costituiscono la base di ogni attività fisiologica o industriale – alimenti, materie prime, combustibili fossili e nucleari, quei sistemi di una valutazione quantitativa, di cui è opportuno fare una stima giacché in definitiva è proprio la disponibilità di terra coltivabile, di ac-

fattori: la popolazione, la disponibilità di cibo, le riserve e i consumi di materie prime, lo sviluppo industriale, l’inquinamento. Il rapporto finale del gruppo di ricerca metteva in luce i pericoli rappresentati per l’umanità dall’esaurimento delle riserve naturali (timori poi rivelatisi eccessivi) e dal deterioramento dell’ambiente, conseguenze inevitabili di una crescita esponenziale della popolazione e dei consumi. Queste conclusioni, di cui riportiamo alcuni estratti, furono pubblicate nel 1972 alla vigilia della prima grande crisi petrolifera, suscitando un ampio dibattito in tutto il mondo industrializzato.

qua, di metalli, di foreste, a condizionare ogni possibile tipo di sviluppo futuro sulla Terra. La seconda categoria comprende quelli che possiamo definire fattori sociali: pace e stabilità, istruzione e occupazione, un progresso tecnologico costante non sono meno necessari, al nostro sviluppo, dei fattori naturali. Si tratta però di elementi che non si prestano a stime numeriche o a previsioni, per cui non entrano a fare parte del modello del mondo e non ven-

gono considerati in questo rapporto, a parte l’accenno relativo alle conseguenze sociali che può comportare per il tempo futuro il problema della disponibilità e della distribuzione delle ricchezze del nostro pianeta. Riconosciuto quindi che alimenti, risorse naturali e un ambiente non contaminato sono condizioni necessarie ma non sufficienti per lo sviluppo, e supponendo che le condizioni sociali siano le più favorevoli, occorre esaminare le possibilità di svi-

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FARESTORIA SVILUPPO E AMBIENTE

luppo alla luce della disponibilità dei vari fattori materiali. [...] Risorse naturali non rinnovabili [...] La crosta terrestre contiene abbondanti quantitativi di quelle materie prime che l’uomo ha imparato a estrarre e trasformare; ma per quanto abbondanti, le riserve non sono certamente inesauribili. Al ritmo di consumo attuale, prevedibilmente destinato a crescere, la grande maggioranza delle materie prime non rinnovabili di impiego più comune raggiungerà costi proibitivi nel giro di un centinaio di anni. [...] Un’ulteriore complicazione è rappresentata dal fatto che né le riserve né il consumo di materie prime sono uniformemente distribuiti sulla Terra. [...] La stessa sopravvivenza della base industriale dei paesi più progrediti, che sono i principali consumatori di materie prime, dipende dal mantenimento di una fitta rete di accordi internazionali con i paesi produttori. Accanto al problema economico – il futuro dei vari settori industriali man mano che le varie materie prime raggiungono costi intollerabili – si presenta l’imponderabile problema politico delle relazioni tra paesi produttori e consumatori, allorché le riserve rimarranno concentrate in aree geografiche sempre più ristrette. [...] Se la crescita della popolazione e del capitale industriale continueranno a produrre un sempre maggior numero di abitanti e una crescente domanda di risorse pro capite, il sistema verrà spinto verso i propri limiti naturali – in questo caso, il depauperamento delle risorse non rinnovabili della Terra. Metalli e combustibili, dopo essere stati estratti dalla terra, vengono variamente utilizzati e successivamente scaricati; in un certo senso, si può dire che essi non



vanno perduti, poiché gli atomi costituenti si ricombinano variamente e alla fine si disperdono, in forme non utilizzabili, nell’aria, nel suolo o nelle acque della Terra. Il sistema ecologico naturale è in grado di assorbire i prodotti di rifiuto dell’attività umana, che attraverso una serie di passaggi vengono convertiti in sostanze utili alle altre forme di vita, o comunque non nocive. Questo meccanismo naturale di assorbimento, peraltro, ha un certo livello di saturazione, superato il quale i rifiuti della civiltà industriale cominciano ad accumularsi in maniera visibile, fastidiosa, sovente nociva. Non c’è da meravigliarsi, allora, se si trova il mercurio nei pesci dell’oceano o il piombo nell’atmosfera delle città, se le periferie urbane sono circondate da montagne di rifiuti e le spiagge sono cosparse di chiazze di petrolio: l’inquinamento è un altro elemento del sistema mondiale che cresce con legge esponenziale. Inquinamento [...] Non è facile valutare esattamente il tasso di crescita della curva esponenziale relativa all’emissione totale di sostanze inquinanti, giacché questa è una complessa funzione della popolazione, dell’industrializzazione, di particolari sviluppi della tecnologia. [...] In ogni caso, anche se non conosciamo il limite superiore che la natura impone all’inquinamento, specialmente se dovuto all’azione simultanea di agenti diversi, sappiamo che un limite esiste. Esso è stato già superato in molte zone; la maniera più sicura di raggiungerlo a livello globale consiste nel lasciare che tanto la popolazione quanto l’azione inquinante di ciascun individuo continuino ad aumentare esponenzialmente. [...]

143 B. DE MARCHI • L. PELLIZZONI • D. UNGARO LA CULTURA AMBIENTALISTA

B. De Marchi, L. Pellizzoni, D. Ungaro, Il rischio ambientale, il Mulino, Bologna 2001, pp. 18-21.

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Bruna De Marchi, Luigi Pellizzoni e Daniele Ungaro sono tre sociologi italiani, che si sono occupati a lungo di questioni ambientali. Nel brano proposto ricostruiscono brevemente l’e-

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Un mondo finito Come si è visto, il problema della produzione di alimenti, quello del consumo di materie prime, quello della crescita dell’inquinamento e della sua neutralizzazione, comportano una serie di scelte molto difficili e impegnative: dovrebbe però essere ormai chiaro che tutte queste difficoltà scaturiscono da una sola, semplice circostanza: la Terra ha dimensioni finite. Quanto più una qualsiasi attività umana si approssima ai limiti naturali, oltre i quali la Terra non è più in grado di sostenerla, tanto più manifeste e gravi si fanno tali difficoltà. [...] Non è possibile anticipare esattamente quale limite verrà raggiunto per primo, e con quali conseguenze, giacché l’umanità potrebbe reagire in molte diverse maniere a una situazione del genere. È possibile, invece, studiare quali condizioni o quali modificazioni del sistema mondiale potrebbero portare la società a scontrarsi con i limiti che pongono un termine alle possibilità di sviluppo in un mondo finito, o a trovare un accomodamento all’interno di essi.

METODO DI STUDIO

 a   Rendi riconoscibili, attraverso dei titoli in corrispondenza del testo, le categorie degli elementi necessari a sostenere la crescita della popolazione e lo sviluppo economico del mondo e spiega in che termini vengono considerati in questo rapporto.  b   Individua per ogni parte del testo definita dai titoletti il problema descritto ed evidenzialo, quindi sottolineane le cause.  c   Sintetizza per iscritto in due righe il tema centrale del brano. Quindi spiega che tipo di documento è questo, chi l’ha scritto e per quale motivo. Infine indica se gli autori propongono una soluzione e quale.

mergere dei movimenti ambientalisti a partire dagli anni ’70, facendo riferimento alle indagini scientifiche che li hanno stimolati e influenzati. Uno dei risultati della nuova cultura ambientalista, diffusasi nei paesi industrializzati, è stato il formarsi di organismi e di enti che si occupano dell’ambiente, attraverso programmi e accordi internazionali.

La prima fase della storia che stiamo raccontando si chiude intorno al 1970. Nell’aprile di quell’anno si svolge negli Usa l’Earth Day, a tutt’oggi probabilmente la più ampia dimostrazione ambientalista. Iniziative di ogni genere si svolgono in tutto il paese. Particolare impressione desta la sfilata di 100.000 persone per le strade di New York. La manifestazione suggella un periodo di crescita imponente del movimento ambientale. Si apre ora una nuova fase, che si prolunga per una buona parte del decennio, dominata dalla questione dei limiti dello sviluppo. Se fino a questo momento i problemi centrali erano l’inquinamento e gli incidenti industriali, salgono adesso alla ribalta il sovrappopolamento e l’insostenibilità della crescita economica. Al Leitmotiv della modernizzazione si sostituisce quello della de-modernizzazione. Ciò è dovuto a una somma di fattori. C’è innanzitutto un cambiamento nel «clima» sociale. L’ascesa dei nuovi movimenti, negli anni precedenti, si è intersecata con i sintomi inequivocabili di una crisi dell’organizzazione industriale fordista e dei sistemi di sicurezza sociale che hanno garantito a quote sempre maggiori di cittadini – a condizioni sempre più favorevoli – benefici quali l’istruzione, la pensione, l’assistenza sanitaria. [...] Le due crisi scardinano gli equilibri sociali formatisi nel dopoguerra e si sommano alle spinte dei movimenti di protesta, dando luogo a un periodo di forte instabilità sociale. Nuove nubi avanzano frattanto sul fronte dell’ambiente. La crisi energetica del 1973, conseguente all’embargo petrolifero che i produttori arabi proclamano come rappresaglia per la guerra del Kippur, fa toccare con mano quanto diversi studiosi vanno dicendo da qualche tempo. Il best-seller The Population Bomb di Paul Ehrlich [1968] si concentra sul sovrappopolamento, che rischia secondo l’autore di rendere vana ogni politica ambientale. Ad esso fece eco Barry Commoner [1971], che in The Closing Circle sposta l’attenzione sulle disfunzioni dello sviluppo economico e tecnologico. Nel 1972 viene pubblicato uno studio promosso da un gruppo di esperti e industriali riuniti nel «Club di Roma» e svolto sotto la direzione di Dennis Meadow, del Massachussetts Institute of Tecnology. La tesi de I limiti dello sviluppo [Meadow

et al. 1972] è che l’inquinamento e il rapido esaurimento delle risorse energetiche rendono imminente quel disastro che un eccessivo ottimismo tecnologico rifiuta invece di prendere in considerazione. [...] La critica al mito della crescita illimitata prende negli stessi anni una direzione diversa, che sposta l’attenzione sulle sue contraddizioni interne. I limiti allo sviluppo, sostiene l’economista Fred Hirsch [1976], non sono solo fisici, sono anche sociali. Un’espansione indiscriminata dei consumi e dei servizi offerti dal welfare state non può essere sostenuta indefinitamente non solo perché le risorse a disposizione non sono sufficienti, ma perché molti beni, naturali (come una spiaggia) e sociali (come un titolo di studio), offrono benefici decrescenti al crescere del numero di persone che ne fruiscono. [...] Sul fronte scientifico e politico gli eventi evolvono intanto rapidamente. A importanti appuntamenti scientifici, come la conferenza sulla Biosfera del 1968, si aggiungono iniziative politiche di grande rilievo. Nel 1972, a Stoccolma, si svolge sotto l’egida delle Nazioni unite la prima conferenza mondiale sull’ambiente. [...] Essa riunisce per la prima volta rappresentanti di oltre cento paesi e quattrocento tra organizzazioni governative e non governative (Ong). Mette a confronto i paesi del nord e quelli del sud, sollecitando una mediazione tra esigenze di

tutela ambientale e esigenze di sviluppo. Sancisce il principio della responsabilità internazionale e la necessità di un approccio coordinato ai problemi globali. Porta all’istituzione nel 1973 di un Programma ambientale delle Nazioni unite (Unep), nel cui quadro viene attivata una rete di monitoraggio (Earthwatch), si promuovono interventi, come quelli previsti dal programma regionale per i Mari (1974), e vengono siglati accordi internazionali, come la Convenzione sulla protezione del Mediterraneo dall’inquinamento (1976). [...] Anche a livello regionale si registrano passi avanti. La Comunità europea avvia ufficialmente una propria politica ambientale nel 1973, con il primo di una serie di programmi d’azione che si susseguono fino a oggi. L’ambiente troverà poi uno spazio sia nella revisione del trattato istitutivo della comunità (Atto unico del 1987) che nel trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione europea (1992), e sarà oggetto nel corso degli anni di una rilevante produzione normativa. La crisi energetica orienta l’opinione pubblica e il movimento ambientalista verso il tema delle fonti alternative. In alcuni paesi, tra cui l’Italia, l’opposizione al nucleare offre un’importante occasione di crescita e saldatura del movimento (sono del 1976-77 le manifestazioni contro la centrale in costruzione di Montalto di Castro).

PALESTRA INVALSI

1 Completa i motivi che portano alla sostituzione del leitmotiv della modernizzazione con quello della de-modernizzazione: a. una crisi ......................................................................................................................................... b. una crisi ......................................................................................................................................... c.  la somma delle due crisi con .............................................................................................................. d. il risultato della somma dei tre punti precedenti: ................................................................................... e. sul fronte ambientale: ...................................................................................................................... 2 La critica al mito della crescita illimitata nella seconda metà degli anni ’70 considera che... [ ] a. I limiti dello sviluppo sono unicamente fisici (es. non bastano le spiagge esistenti per concedere a tutti di recarsi al mare). [ ] b. I limiti allo sviluppo non sono solo fisici, ma sono anche sociali. [ ] c. I limiti dello sviluppo sono esclusivamente sociali (es. se tutti avessero titoli di studio elevati non ci sarebbe sufficiente lavoro per le relative categorie).

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FARESTORIA SVILUPPO E AMBIENTE



144d LO SVILUPPO SOSTENIBILE

Il futuro di noi tutti. Rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo [1987], Bompiani, 1988 Milano, pp. 72-75.

Nel 1983, in seguito a una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fu istituita la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, che aveva l’obiettivo di elaborare un’“agenda globale per il cambiamento”. La Commissione era presieduta dalla norvegese Gro Harlem Brundtland, e nel

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La soddisfazione di bisogni e aspirazioni umane costituisce il principale obiettivo dello sviluppo. I bisogni essenziali di vaste masse nei paesi in via di sviluppo (cibo, abiti, alloggio, posti di lavoro) attualmente non vengono soddisfatti, senza considerare che al di là dei loro bisogni primari questi individui nutrono legittime aspirazioni a un miglioramento della qualità della vita. Un mondo in cui povertà e ineguaglianza siano endemici sarà sempre esposto a crisi ecologiche e d’altro genere. Uno sviluppo sostenibile esige che siano soddisfatti i bisogni primari di tutti e che sia estesa tutti la possibilità di dare realtà alle proprie aspirazioni a una vita migliore. Livelli di vita che trascendano il minimo basilare sono sostenibili soltanto a patto che gli standard di consumo siano ovunque tali da tener conto di una sostenibilità a lungo termine. Molti di noi però vivono al di sopra delle possibilità degli ecosistemi del mondo, e ciò vale per esempio per i modelli di consumo dell’energia. I bisogni che avvertiamo sono determinati socialmente e culturalmente, e uno sviluppo sostenibile richiede la promozione di valori che favoriscano standard di consumo entro i limiti delle possibilità ecologiche e ai quali tutti possano ragionevolmente aspirare. [...] Una crescita numerica può aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento del tenore di vita in zone in cui le privazioni siano diffuse. Sebbene il problema non sia soltanto quello dell’aumento della popolazione, ma anche quello della distribuzione delle risorse, uno sviluppo sostenibile può essere perseguito solo quando gli incrementi demografici siano in armonia con il mutevole potenziale produttivo dell’ecosistema. Una società può compromettere in vari modi la propria capacità di soddisfare in futuro i bisogni essenziali dei suoi membri, per esempio sfruttando eccessiva-

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1987 pubblicò un rapporto (il Rapporto Brundtland) in cui si fornivano informazioni chiare e approfondite sulle minacce che incombono sulla sopravvivenza del genere umano e dell’ambiente, dagli sconvolgimenti climatici all’esaurimento delle risorse naturali. Si sosteneva inoltre la possibilità di un altro modello di sviluppo, che non mettesse a rischio gli equilibri ambientali nel pianeta.

mente le risorse. Lo sviluppo tecnologico può dare soluzione ad alcuni problemi immediati ma aprirne di ancora maggiori. Ampi settori della popolazione possono essere emarginati da uno sviluppo male inteso. Agricoltura stanziale, deviazione di corsi d’acqua, estrazione di minerali, immissione di calore e gas nocivi nell’atmosfera, sfruttamento commerciale delle foreste e ingegneria genetica, ecco altrettanti esempi di intervento umano sui sistemi naturali durante il corso dello sviluppo. Fino a tempi recenti, tali interventi sono stati di dimensioni ridotte e hanno avuto un impatto limitato. Oggi sono assai più incisivi quanto a scala e impatto e rappresentano una grave minaccia per i cicli ecologici alla base della vita sul piano sia locale sia planetario. Occorre che questo non si verifichi più. Uno sviluppo sostenibile deve perlomeno non apportare danni ai sistemi naturali che costitui­ scono la base della vita sulla Terra, vale a dire l’atmosfera, le acque, il suolo e gli esseri viventi. [...] Per quanto riguarda le risorse non rinnovabili, come combustibili fossili e minerali, il loro uso riduce le riserve di cui le future generazioni potranno disporre. Ciò però non significa che tali risorse non vadano usate. In generale, il ritmo di diminuzione dovrebbe tener conto del limite critico di tali risorse, della disponibilità di tecnologie che permettano di ridurre tale diminuzione e delle probabilità che siano disponibili sostituti. Così, per esempio, il terreno non dovrebbe essere degradato al di là di ragionevoli possibilità di recupero. Nel caso di minerali e combustibili fossili, il ritmo di diminuzione e l’importanza da attribuire al riciclaggio e all’economia d’uso andrebbero calibrati in modo da assicurare che la risorsa non si esaurisca prima che siano disponibili sostituti accettabili. Lo sviluppo sostenibile esige che il ritmo di diminuzione delle risorse non rinnova-

bili precluda il meno possibile ogni opportunità futura. Lo sviluppo tende a semplificare gli ecosistemi e a ridurre la gamma di specie animali o vegetali in essi presenti. E le specie, una volta estinte, non sono rinnovabili. La perdita di specie può limitare grandemente le opzioni delle generazioni future, ragion per cui uno sviluppo sostenibile richiede la conservazione appunto di specie animali e vegetali. I cosiddetti “beni liberi” come aria e acqua sono anch’essi risorse. Le materie prime e l’energia dei processi di produzione vengono convertite solo parzialmente in prodotti utilizzabili, mentre il resto si riduce in rifiuti. Uno sviluppo sostenibile esige che gli impatti negativi per la qualità dell’aria, dell’acqua e di altri elementi naturali siano ridotti al minimo allo scopo di mantenere l’integrità generale dell’ecosistema. In sostanza, lo sviluppo sostenibile è un processo di cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, l’andamento degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i mutamenti istituzionali sono in reciproca armonia e incrementano il potenziale attuale e futuro di soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni umani.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea nel testo la definizione di sviluppo, cerchia i paesi in cui non viene perseguito e sottolineane le cause.  b Numera i vari modi in cui una società può compromettere la propria capacità di soddisfare in futuro i bisogni essenziali dei suoi membri e trascrivili sul quaderno descrivendoli sinteticamente.  c  Spiega per iscritto in cosa consiste lo sviluppo sostenibile, in cosa differisce dal semplice sviluppo e quali sono i suoi obiettivi.



145d LESTER R. BROWN • CHRISTOPHER FLAVIN • SANDRA POSTEL UN PIANETA DA SALVARE

L.R. Brown, Ch. Flavin, S. Postel, Un pianeta da salvare. Per un’economia globale compatibile con l’ambiente, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 20-26.

Le pagine che seguono sono tratte da un volume scritto da Lester R. Brown, Christopher Flavin e Sandra Postel in vista della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. Gli autori sono membri del Worldwatch Institute di Washington, l’istituto di Per un ecologista, l’economia è un ristretto sottoinsieme dell’ecosistema mondiale. Le attività economiche in espansione dell’umanità non possono essere separate dalle risorse e dai sistemi naturali dai quali, in ultima analisi, derivano e qualsiasi attività che pregiudichi l’ecosistema planetario non può continuare indefinitamente. Le società moderne, con tutta la loro sofisticazione tecnologica, ignorano la dipendenza dalla natura a loro rischio e pericolo. La salute del pianeta è, poi, la salute della sua popolazione e anche da questo punto di vista negli ultimi vent’anni sono emerse tendenze inquietanti. Nonostante l’incremento della produzione economica, i poveri nel mondo sono aumentati. Oggi, circa un miliardo e duecentomila persone vivono in assoluta povertà [...]. I poveri del mondo sono concentrati nelle popolazioni in rapida crescita dell’Africa sub-sahariana, dell’America latina, del Medio-oriente e dell’Asia meridionale. Nel 1991, circa 17 milioni di persone hanno fronteggiato la minaccia della carestia nel Corno d’Africa. In altre parti del continente, altri 13 milioni di persone corrono il medesimo pericolo. Nel Terzo Mondo, la crescita occupazionale è stata inferiore a quella demografica, lasciando decine di milioni di persone senza lavoro e centinaia di milioni sottooccupate. Un numero addirittura superiore di esseri umani non ha accesso ad acqua pulita, a un’assistenza sanitaria adeguata e a un’alimentazione completa e bilanciata. Il fallimento della comunità mondiale nell’arginare la marea crescente della povertà ha molte radici. Il rapido incremento demografico è una, un’altra è l’incapacità di molti governi di riformare i propri sistemi economici e politici. [...] Le problematiche un tempo separate dell’ambiente e dello sviluppo sono ora inestricabilmente connesse. Il degrado ambientale sta riducendo in povertà una

ricerca americano che ogni anno pubblica il rapporto mondiale sullo stato del pianeta. Il brano che riportiamo fornisce un quadro generale della progressiva riduzione delle risorse naturali nelle varie aree del mondo, mettendo in evidenza come problematiche ambientali e problematiche sociali, per esempio l’aumento dei tassi di povertà, siano strettamente connesse. La salute del pianeta e quella della sua popolazione sono indissolubilmente legate, e per difendere entrambe occorre rivedere l’attuale modello di sviluppo.

parte crescente dell’umanità e la stessa povertà diventa un agente di degrado ecologico nella misura in cui le persone, disperate, consumano le basi di risorse dalle quali dipendono. Piuttosto che di fronte alla scelta tra alleviare la povertà e invertire il decadimento ambientale, i leader del mondo si trovano oggi di fronte alla realtà che nessuno dei due scopi è raggiungibile senza perseguire anche l’altro. [...] Alla fine degli anni Ottanta, ad esempio, le foreste del mondo si stavano riducendo a un ritmo annuale di circa 17 milioni di ettari – contro gli 11 del 1980 – per l’aumentato bisogno di terra coltivabile e l’incremento della domanda di legna combustibile, legname e carta. Nazioni quali la Mauritania e l’Etiopia hanno perso quasi tutto il loro manto forestale; ad altre, come la Costa d’Avorio e la Thailandia, per la fine del decennio sarà rimasto ben poco. Egualmente preoccupante è la perdita di soprassuolo dovuta all’erosione causata dal vento e dall’acqua, con il relativo degrado dei terreni. Anche il disboscamento e il pascolo eccessivo, fenomeni entrambi diffusi in tutto il Terzo Mondo, hanno determinato un deterioramento su vasta scala dei terreni. Ogni anno, circa sei milioni di ettari di terra perdono la loro capacità produttiva, diventando incolti e sterili. L’inquinamento atmosferico è un problema persistente in centinaia di città e di aree rurali del mondo. Respirare l’aria di Bombay equivale oggi a fumare dieci sigarette al giorno. A Città del Messico, l’aria è considerata pericolosa per la vita e ai membri femminili del corpo diplomatico si consiglia di tornare a casa durante una gravidanza. A Bangkok, due milioni di automobili e l’uso di benzina di bassa qualità contenente piombo hanno trasformato l’aria della città in una miscela di 38 differenti sostanze chimiche. Nel 1990, un milione di abitanti è stato curato per disturbi dell’apparato respiratorio, l’avvelenamento da

piombo è epidemico nella popolazione infantile e, rispetto al resto della nazione, il cancro ai polmoni ha un’incidenza tre volte maggiore. In molte parti del mondo, l’inquinamento atmosferico e la pioggia acida stanno danneggiando raccolti e foreste. Numerose foreste europee si stanno deteriorando e alcune sono già morte. Nel Nordest degli Stati Uniti, il prezioso acero da zucchero cresce stentatamente e i silvicoltori ritengono che si stia gradualmente estinguendo. Estesi danni alle foreste correlati all’inquinamento atmosferico sono stati riscontrati anche in Cina, che ha recentemente portato via agli Stati Uniti il primato mondiale della combustione di carbone, gran parte del quale contiene elevate concentrazioni di zolfo che produce acido. Sebbene la qualità dell’acqua sia ampiamente migliorata negli Usa, l’Environmental Protection Agency1 rendeva noto nel 1988 che le falde freatiche di trentanove Stati contenevano pesticidi. Nel 1990, l’ente ha registrato circa 100 mila violazioni ai suoi standard idrici qualitativi. In Polonia, almeno la metà delle acque dei fiumi è troppo inquinata persino per poter essere utilizzata dall’industria. Nella Corea del sud, il fiume Naktong è rimasto vittima della precipitosa industrializzazione del paese: circa 343 fabbriche situate lungo le sue rive vi hanno scaricato illegalmente rifiuti tossici nel 1990. [...] Anche altri cambiamenti atmosferici procedono a un ritmo inquietante. Nel corso degli anni Ottanta, la quantità di carbonio rilasciata nell’atmosfera dalla combustione dei combustibili fossili ha toccato un

1. Agenzia per la protezione dell’ambiente, un’agenzia del governo federale statunitense che si occupa di protezione ambientale e salute umana.

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FARESTORIA SVILUPPO E AMBIENTE

nuovo picco, raggiungendo nel 1990 quasi i sei miliardi di tonnellate. Numerosi scienziati ritengono che la crescente concentrazione di questo e di altri gas serra, prodotti in gran parte dalle nazioni industrializzate, potrebbe portare nei prossimi decenni a un aumento estremamente rapido delle temperature medie mondiali. [...] Tutte queste modifiche nelle condizioni fisiche della Terra – a livello locale, regionale e mondiale – hanno un effetto devastante sulla biodiversità del pianeta. Sebbene nessuno conosca il numero esatto delle specie animali e vegetali scomparse durante gli anni Ottanta, biologi di spicco calcolano che nel prossimo ventennio potremmo perdere un quinto delle specie presenti sulla Terra. Quello che non possono calcolare è quanto a lungo possa continuare un tale ritmo di estinzione senza determinare un collasso degli ecosistemi. Le nostre economie sono impegnate in una forma mascherata di finanziamento del deficit: processi quali la deforestazione e l’eccessivo sfruttamento delle falde freatiche gonfiano la produzione attuale a spese della produttività a lungo termine. Settore dopo settore, violiamo i principi fondamentali della sostenibilità ambienta-

le. Affidandoci a un sistema di contabilità incompleto, un sistema che non misura la distruzione del capitale naturale associata agli aumenti della produzione economica, esauriamo i nostri beni produttivi, soddisfacendo oggi le nostre necessità a spese dei nostri figli. Per usare le parole dell’economista Herman Daly, «c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel trattare la Terra come se fosse un’impresa in liquidazione». [...] Per invertire questo modello, le industrie e i governi dovranno modificare le loro ottiche, concentrandosi meno sui risultati finanziari a breve termine e più sulla sostenibilità a lungo termine delle economie nelle quali investono. Se non cambieremo direzione scopriremo a un certo punto che le scialuppe di salvataggio si stanno rapidamente riempiendo e che per molti è troppo tardi per salirvi. I ricchi potranno raggrupparsi sui ponti superiori e proteggersi per un certo periodo, ma alla fine anche loro saranno minacciati. Lo sforzo necessario per creare una società sostenibile è più simile alla mobilitazione per una guerra di qualsiasi altra esperienza umana. Il tempo è la nostra risorsa più scarsa mentre ci prepariamo a una lotta

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 13 LOCANDINA PER LA CAMPAGNA DI TESSERAMENTO DI LEGAMBIENTE 2016

Legambiente è un’associazione senza fini di lucro nata nel 1980, sulla scia dei primi nuclei ecologisti e del movimento antinucleare che presero piede in Italia e all’estero nella seconda metà degli anni ’70. L’associazione ha una diffusione capillare sul territorio italiano grazie ad un costante lavoro di informazione, sensibilizzazione e coinvolgimento dei cittadini, e basa le sue posizioni in difesa dell’ambiente su dati scientifici. Il suo operato non è rivolto solo alle azioni di denuncia dei rischi e degli errati comportamenti ambientali, ma indica anche percorsi alternativi concreti e realizzabili attraverso campagne nazionali e locali.  Fondamentale è il lavoro con le scuole che partecipano a programmi di educazione ambientale, e con i giovani per cui vengono attivati diversi campi di volontariato. Poiché si tratta di un’associazione di volontari, ogni anno vengono portate avanti campagne di sensibilizzazione e di tesseramento che, con creatività, puntano l’attenzione sulle emergenze ambientali del paese. GUIDA ALLA LETTURA

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 a  Osserva con attenzione i colori della locandina e indica in che modo sono stati utilizzati (scritte, parti di immagini, ecc.). Quindi riporta sul quaderno, per ogni colore, le scritte o la descrizione delle parti delle immagini.  b Individua e scrivi i concetti a cui fanno riferimento i singoli colori utilizzati.  c Questa è una locandina della campagna di tesseramento del 2016. Secondo te, ci sono dei punti di forza dell’associazione che vengono richiamati per convincere le persone ad aderire? Ritieni che la locandina solleciti l’aspetto razionale o quello emotivo delle persone? Perché?

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

che si svolgerà in questo decennio e al di là di esso. Abbiamo a disposizione solo pochi, brevi anni per superare gli ostacoli politici, economici e sociali che si frappongono al reale progresso, per porre le basi di una società fondamentalmente migliore. Quando le tendenze del degrado ambientale e dell’approfondirsi della povertà, che si alimentano l’una con l’altra, si saranno consolidate, solo uno sforzo sovrumano potrà interrompere il circolo e invertirle. METODO DI STUDIO

 a  Spiega perché gli autori affermano che la salute del pianeta coincide con quella della sua popolazione e perché affermano che «l’economia è un ristretto sottoinsieme dell’ecosistema».  b Argomenta l’affermazione secondo cui i leader mondiali non possono perseguire l’obiettivo della riduzione della povertà senza invertire il decadimento ambientale. Indica quindi i segnali più evidenti della diffusione della povertà su scala mondiale.  c  Individua, sottolinea e numera le modifiche nelle condizioni fisiche della Terra – a livello locale, regionale e mondiale – descritte dagli autori ed evidenziane gli effetti.  d  Spiega l’analogia proposta da Daly tra la Terra e «un’impresa in liquidazione» e spiega perché, secondo te, la lotta per una società sostenibile è paragonata alla «mobilitazione per una guerra».



146 W. BEHRINGER I CAMBIAMENTI CLIMATICI

W. Behringer, Storia culturale del clima. Dall’era glaciale al riscaldamento globale [2010], Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp. 251-61.

Wolfgang Behringer (nato nel 1956) insegna storia culturale in Germania. In questo volume esamina come il clima della Terra sia parte integrante e motore inconsapevole dello sviluppo storico, politico e culturale dell’uomo. Non si può prescindere dalle condizioni climatiche nello studio delle civiltà, Con la nascita dell’elaborazione elettronica dei dati non solo nacquero le previsioni del tempo, ma si cominciò anche a formulare pronostici sull’evoluzione del clima. Dopo il primo atterraggio lunare, nel 1969, il satellite Nimbus III permise di misurare la temperatura in tutto il mondo. Ma solo nel 1970 si misero a punto i primi modelli climatici complessi a più variabili. Già nel 1971 alcuni scienziati di punta misero in guardia circa i rischi che sarebbero potuti derivare dal mutamento globale del clima e chiesero che si organizzassero forme di sostegno alla ricerca scientifica. Più o meno nello stesso periodo i carotaggi effettuati sui sedimenti e aree coperte dal ghiaccio cominciarono a rivelare, con precisione sempre maggiore, che in passato il nostro pianeta aveva conosciuto mutamenti climatici repentini. L’attenzione sull’argomento aumentò, tra il 1972 e il 1974, in seguito a una forte siccità e ad altre “anomalie”. [...] Intorno al 1977 tra gli scienziati c’era ormai un diffuso consenso sul fatto che il rischio maggiore fosse rappresentato dal Global Warming. [...] Sempre nel 1977 Stephen H. Schneider fondò «Climatic Change», la prima rivista specificatamente dedicata ai mutamenti climatici. [...] A partire dagli anni Ottanta i mass-media hanno iniziato a scioccare il pubblico con scenari apocalittici sempre nuovi. A volte le informazioni che vengono date a proposito del mutamento climatico in atto sono serie: ad esempio quelle riguardanti il ritrarsi dei ghiacciai in alta montagna e ai Poli, oppure i mutamenti che riguardano la flora e la fauna. I mass-media rafforzarono il proprio impegno alla fine degli anni Ottanta, dopo che alcune annate particolarmente aride, che avevano fatto registrare nuovi record di caldo, sembrarono aver svelato in maniera definitiva che qualcosa non andava. L’occasione per denunciare la situazione venne, in concreto, da alcuni periodi di siccità prolungati, ad esempio nelle isole

dei popoli, delle migrazioni, delle carestie, e persino dell’arte e della letteratura. Il clima non è un fattore statico: è sempre cambiato e con esso le forme con cui l’uomo si è adattato all’ambiente. Nel brano scelto Behringer spiega come siano emerse le prime preoccupazioni per il riscaldamento globale, come (nonostante non ci sia unanimità di vedute in seno alla comunità scientifica) parte della responsabilità sia stata attribuita alle attività dell’uomo, fino al varo di iniziative internazionali per la riduzione delle emissioni di CO2.

britanniche tra il 1988 e il 1992. In questo contesto un ruolo chiave ebbe Stephen H. Schneider, del National Centre for Atmospheric Research (un istituto del congresso statunitense), il quale affermò pubblicamente che il riscaldamento globale era cominciato. Da allora molti scienziati di fama hanno esposto nei loro manuali la dottrina dell’origine antropica1 del surriscaldamento. Sono pochi i casi di disputa scientifica condotta di fronte all’opinione pubblica: quella sulle cause del riscaldamento globale è una di esse. Naturalmente l’interesse pubblico sull’argomento, nonché l’aumento degli investimenti per lo studio del mutamento climatico, hanno portato a una dilatazione senza precedenti del lavoro scientifico. [...] Dai dati raccolti in tutto il mondo risultò che l’abbattimento di vaste aree forestali, la combustione delle fonti di energia fossili e lo sfruttamento sempre più intensivo dei terreni stavano aumentando, anno dopo anno, il contenuto di CO2 nell’atmosfera. Al fine di valutare tali risultati, nel 1988 fu organizzata, a Toronto, la Prima conferenza internazionale sul clima. In quella sede non ci si stancò di segnalare i pericoli connessi al Global Warming e all’aumento di CO2 e altri gas serra nell’atmosfera e nella Dichiarazione conclusiva dei lavori si chiesero misure adatte a contrastare tale tendenza. Sempre nel 1988, l’UNEP (United Nations Enviroment Programme) e la WMO (World Meteorological Organization) fondarono, su incarico dell’ONU, il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), con sede a Ginevra, al fine di riunire tutte le iniziative a favore della climatologia e della protezione ambientale sparse per il mondo. [...] Il primo rapporto dell’IPCC pose le basi per la «Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo», che si svolse nel 1992 – il cosiddetto «Summit della Terra» di Rio de Janeiro, cui presero parte

10.000 delegati da 178 Stati. Uno dei cinque documenti licenziati al termine della Conferenza fu la «Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici», che entrò in vigore il 21 marzo del 1994. Questa convenzione rappresenta una svolta nella politica sul clima, in quanto è il risultato di un accordo internazionale. I paesi che l’hanno sottoscritta hanno dichiarato la propria disponibilità a proteggere il sistema climatico della Terra a favore della generazione attuale e di quelle future, in modo da salvaguardare l’accesso alle risorse alimentari, permettere alle specie viventi di adattarsi in maniera naturale al mutamento climatico, consentire uno sviluppo economico capace di durare. A tale scopo i firmatari si sono impegnati a ridurre o limitare la produzione di gas serra, con l’obiettivo di stabilizzare i gas serra al livello del 1990 entro la fine del decennio. [...] In seguito, in occasione della terza Conferenza di aggiornamento, tenuta nel dicembre 1997 a Kyoto, fu compiuto il passo finora più grande verso una limitazione delle emissioni di gas serra sancita dal diritto internazionale. Nel protocollo di Kyoto gli Stati firmatari si sono impegnati a ridurre, entro il 20082012, le emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra del 5,2% rispetto al 1990. [...] Fu deciso che il Protocollo di Kyoto sarebbe entrati in vigore non appena lo avessero ratificato 55 Stati responsabili, complessivamente, della produzione del 55% di tutta l’anidride carbonica di origine umana (secondo i dati del 1990). Ma

1. Una minoranza di ricercatori è scettica sul ruolo avuto dall’uomo nel provocare il riscaldamento climatico. Le critiche espresse sono diverse, dalla difficoltà di stabilire una relazione di causa-effetto fra l’aumento di CO2 e il riscaldamento globale, all’influsso sul clima dei fattori naturali, fra cui la variazione dell’attività solare.

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FARESTORIA SVILUPPO E AMBIENTE

per arrivare alla ratifica ci volle più tempo del previsto2. [...] Le trattative internazionali in materia di protezione dell’ambiente offrono uno degli esempi più interessanti di processo decisionale gestito dalla società mondiale, che in tal modo arriva a pensare a se stessa come soggetto politico. Un accordo internazionale di tale portata può essere paragonato soltanto alle trattative che avvengono in seno alle Nazioni Unite, oppure al processo di integrazione dell’Unione Europea. Tuttavia, il fatto che gli Stati Uniti, il maggiore produttore di

CO2 del mondo, si siano rifiutati di firmare il documento di Kyoto, ha fatto sorgere qualche dubbio sull’utilità dell’accordo raggiunto. Inoltre ci sono altri stati, tra cui Cina, Australia, Arabia Saudita e il gruppo dei paesi in via di sviluppo che, per ragioni diverse, sono contrari a sottoscrivere una proroga del Protocollo oltre il 2012.

2. Il Protocollo di Kyoto entrò in vigore il 16 febbraio 2005, dopo essere stato sottoscritto da 141 Stati, che rappresentavano l’85% della popolazione mondiale.

147d VANDANA SHIVA IL CIBO NEL TERZO MILLENNIO



V. Shiva, Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio, Feltrinelli, Milano 2015, pp. 7-10.

Vandana Shiva, scienziata e ambientalista indiana (nata nel 1952) è una delle voci più autorevoli dell’ecologia mondiale. Si è a lungo battuta per cambiare pratiche e paradigmi nell’agricoltura e nell’alimentazione. Qui affronta la contrap-

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Stiamo vivendo una crisi profonda e sempre più diffusa del modo in cui produciamo, trattiamo e distribuiamo il cibo. Il benessere del pianeta, la salute delle popolazioni e la stabilità sociale sono gravemente minacciati da un’agricoltura industriale e globalizzata i cui unici moventi sono l’avidità e il profitto. Un modo di produzione alimentare inefficiente e non sostenibile sta spingendo il pianeta, il suo ecosistema e le sue diverse specie sull’orlo della distruzione. Il cibo, il cui scopo fondamentale è dare nutrimento e salute, rappresenta oggi il più grande problema sanitario mondiale: quasi un miliardo di persone soffre fame e malnutrizione, due miliardi sono quelli affetti da patologie quali obesità e diabete, mentre numerose altre malattie, tra cui il cancro, sono causate da veleni contenuti negli alimenti. Il cibo ha smesso di essere fonte di nutrimento per trasformarsi in merce, in qualcosa su cui speculare e da cui trarre profitto. Ciò è causa di un generale aumento dei prezzi nel settore alimentare e di una crescente instabilità sociale. Gli studiosi contano almeno cinquanta rivolte importanti, in molti paesi tra cui Tunisia, Sudafrica, Camerun, India. Il sistema alimentare presenta gravi disfunzioni in

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

METODO DI STUDIO

 a Individua e numera i passaggi che portarono alla possibilità di valutare i rischi dei cambiamenti climatici ed evidenzia gli esiti delle analisi compiute.  b Cerchia i nomi delle conferenze internazionali sul clima citate e individua per ognuna di esse alcune parole chiave in grado di sintetizzare i maggiori temi in discussione e di rilevare le eventuali differenze esistenti fra di esse. Quindi trascrivile sul quaderno assieme alle date di riferimento e argomenta per iscritto le tue scelte.  c  Evidenzia il significato dei trattati sull’ambiente dal punto di vista della politica internazionale.

posizione fra un’agricoltura ecologicamente sostenibile, quella dei piccoli contadini, e quella industriale, delle multinazionali, che usano pesticidi tossici, sfruttano il suolo oltre le sue capacità di rigenerazione, inquinano le falde acquifere e usano combustibili fossili, che influiscono sul cambiamento climatico. A scontrarsi non sono solo due modi di produrre il cibo, ma due diversi modelli di rapporto fra uomo e ambiente.

tutti gli ambiti fondamentali: sostenibilità, giustizia e pace. Oggi, ai fini della sopravvivenza umana, è indispensabile un’alternativa. Noi allora partiamo da una semplice domanda: chi nutre davvero il pianeta? Il cibo e l’agricoltura sono diventati il terreno su cui si combattono importanti guerre fra due paradigmi. [...] Il paradigma dominante è quello dell’industria e della meccanizzazione, che ha portato alla crisi i nostri sistemi alimentari e agricoli. Tale crisi non è accidentale, bensì è connaturata al principio stesso di questo sistema. Alla base di questo paradigma, infatti, c’è la Legge dello Sfruttamento, che considera il mondo alla stregua di una macchina, e la natura come materia inerte. Questo modello divide gli umani dalla natura, e ogni elemento della natura da tutto il resto: il seme dal suolo, il suolo dalla pianta, la pianta dal cibo, il cibo dai nostri corpi. Il paradigma industriale, inoltre, tratta tanto gli esseri umani quanto la natura come meri input di un sistema produttivo. La produttività della Terra e dei suoi abitanti è occultata da una sofisticata infrastruttura intellettuale che pone al centro dell’economia le costruzioni gemelle del capitale e della grande impresa.

Il paradigma dell’agricoltura industriale affonda le radici nella guerra: usa – letteralmente – le stesse sostanze chimiche in precedenza utilizzate per sterminare persone e distruggere la natura. Si fonda sul principio secondo cui insetti e piante sono nemici da sterminare con i veleni ed è continuamente alla ricerca di nuovi, e più micidiali, strumenti di violenza, tra cui pesticidi, erbicidi, piante geneticamente modificate per produrre pesticidi... [...] C’è però un nuovo paradigma emergente, che vuole mantenere la continuità con l’antico e saggio sistema di collaborazione con la natura e che si fonda sulla Legge della Restituzione. Secondo questa legge, tutti gli esseri viventi danno e ricevono in base a un principio di reciprocità. Questo paradigma ecologico dell’agricoltura si fonda sulla vita e sulle sue interrelazioni: è incentrato sulla Terra e sui piccoli coltivatori, in maggioranza donne. Riconosce il potenziale dei semi fertili e dei suoli fertili, al fine di sfamare l’umanità, e la varietà delle specie con cui tutti siamo in relazione in quanto cittadini della Terra. In base a questo paradigma, il ruolo della comunità umana è quello di co-creatrice e co-produttrice insieme alla Madre Ter-

ra. In questo paradigma, il sapere non è proprietà esclusiva, bensì si sviluppa con la pratica della coltivazione, che ci vede tutti partecipi del tessuto della vita. Nell’agricoltura ecologica gli scarti vegetali diventano cibo per gli animali e per gli organismi del suolo. Se si adotta la Legge della Restituzione, non c’è scarto, perché tutto viene riciclato. I sistemi alimentari ecologici sono per definizione locali, producono tutto il possibile, esportano il sovrappiù reale e importano quel che non può essere coltivato in

loco. La sostenibilità e la giustizia derivano in modo naturale dal ciclo della Legge della Restituzione e dal carattere locale della produzione alimentare. Le risorse della Terra essenziali alla conservazione della vita, quali la biodiversità e l’acqua, vengono gestite come “beni comuni” o come spazi condivisi dalle comunità. Il paradigma ecologico coltiva la compassione per tutti gli esseri, inclusi gli umani, e assicura che a nessuno manchi la sua quota di cibo. Oggi il paradigma industriale è in radicale

conflitto con il paradigma ecologico, e la Legge dello Sfruttamento è in feroce competizione con la Legge della Restituzione. METODO DI STUDIO

 a  Realizza una tabella sul paradigma dell’agricoltura industriale e sul nuovo paradigma emergente e compilala inserendo le informazioni presenti nel testo.  b  Scrivi una didascalia a commento della tabella che hai realizzato al punto A mettendo in rilievo lo sguardo che questi paradigmi hanno sul mondo e sul rapporto fra l’uomo e la natura.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo sulla nascita e sullo sviluppo del pensiero ecologico nel XX secolo di circa 30 righe, facendo riferimento ai documenti I limiti dello sviluppo [►142d] e Un pianeta da salvare [►145d]. Scegli un titolo e un taglio per il tuo elaborato e non dimenticare di trattare i seguenti argomenti: a. committenti, autori e destinatari dei due rapporti; b. eventuali riferimenti a leggi economiche; c. eventuali riferimenti ai problemi e alle politiche sociali; d. contesti geopolitici. IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 2 Facendo riferimento ai brani e ai documenti del percorso

storiografico seleziona, fra le affermazioni presenti di seguito, quella che trovi maggiormente condivisibile sul seguente tema: «Il collasso dell’ecosistema Terra». Argomenta la tua scelta in un testo di almeno 20 righe che faccia opportunamente riferimento ai brani e ai documenti esaminati: a. Le politiche ambientali «sostenibili» devono mirare direttamente a innalzare la qualità della vita di tutta la popolazione. b. A un problema globale si reagisce con soluzioni globali: la popolazione dei paesi arretrati deve drasticamente diminuire. c. È necessario invertire immediatamente la rotta dello sviluppo: ridurre i consumi di energia e materie prime nei paesi ricchi. d. L’attività umana sul pianeta obbedisce a leggi fisiche che le impongono un «limite»: oltre questo limite la specie è a rischio.

IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA Tra il 1989 e il 1991 la dissoluzione del blocco comunista segnò la fine dell’età del bipolarismo. Numerosi furono i fattori che decretarono prima il declino, poi il collasso, del sistema sovietico. Ad introdurci ai problemi dell’Urss è un brano in cui il segretario del Pcus Michail Gorbacˇëv [►148d] illustra il suo programma riformatore (la perestrojka). L’apertura democratica finirà però per accelerare la crisi del regime comunista, le cui cause sono esaminate dallo storico Bruno Bongiovanni [►149]. Uno storico statunitense, Robert Darnton [►150d], racconta la sua esperienza di testimone della caduta del Muro di Berlino nel 1989. Alle problematiche della successiva riunificazione tedesca, con l’annessione della Repubblica democratica alla Repubblica federale è dedicato il brano dello storico Charles S. Maier [►151]. Uno studioso di storia dell’Urss, Francesco Benvenuti, esamina la complessa transizione verso un’economia di mercato e nuove forme politiche affrontata dalla Russia postsovietica [►152]. Anche nell’ex Jugoslavia il crollo del comunismo ebbe conseguenze drammatiche: come ci illustra il brano di Mark Mazower [►153] sui conflitti etnici che infiammarono i Balcani e portarono alla fine della Federazione Jugoslava. Riportiamo poi alcune pagine tratte dal diario di una bambina Zlata Filipovic´ [►154d], che ci racconta l’assedio di Sarajevo e la quotidianità in guerra. Chiudono la sezione due brani che riflettono sulle conseguenze della caduta dei comunismi. Mentre il politologo Francis Fukuyama [►155] legge l’evento come il segno della vittoria definitiva della democrazia liberale, un altro politologo Charles Kupchan [►156] intravede le incertezze e la precarietà di un mondo unilaterale, mettendo in discussione l’idea di una nuova e stabile era americana.

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FARESTORIA IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA



ˇ ËV 148d MICHAIL GORBAC LE RIFORME IN URSS

M. Gorbacˇëv, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, in V. Vidotto (a c. di), Atlante del Ventesimo secolo. I documenti essenziali (1969-2000), Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 204-10.

Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1985, Michail Gorbacˇëv (nato nel 1931) tentò di riformare radicalmente il sistema sovietico, le sue strutture economiche, politiche e civili, pur rimanendo nel solco del socialismo. La sua Perestrojka è una parola dai molti significati. Ma se dobbiamo scegliere tra i suoi molti sinonimi quello che esprime nel modo più esatto la sua essenza, possiamo dire che la perestrojka è una rivoluzione. Un’accelerazione decisiva dello sviluppo socio-economico e culturale della società sovietica, che comporta cambiamenti radicali lungo la strada verso uno stato qualitativamente nuovo, è senza dubbio un compito rivoluzionario. [...] E non è soltanto una conseguenza, bensì un’estensione e uno sviluppo delle idee fondamentali della Rivoluzione. Noi dobbiamo impartire un nuovo dinamismo all’impulso storico della Rivoluzione d’Ottobre e portare avanti tutto ciò cui diede inizio nella nostra società. [...] L’esperienza storica ha dimostrato che la società socialista non è garantita contro l’emergenza e l’accumulazione di tendenze alla stagnazione e neppure contro le grosse crisi sociopolitiche. E sono appunto misure di carattere rivoluzionario quelle che si rendono necessarie per superare una situazione di crisi o di pre-crisi. La cosa più importante è che il socialismo è capace di cambiamenti rivoluzionari, perché è dinamico per sua stessa natura. Nella primavera del 1985 il Partito pose questo compito all’ordine del giorno. La gravità dei problemi già accumulatisi e di quelli emergenti e il ritardo con i quali venivano compresi e risolti rendevano necessario agire in modo rivoluzionario e

proclamare una revisione rivoluzionaria della società. La perestrojka è un processo rivoluzionario, poiché è un balzo in avanti nello sviluppo del socialismo, nella realizzazione delle sue caratteristiche essenziali. [...] Non si può scherzare con la perestrojka, come non si può scherzare con la rivoluzione. È necessario andare fino in fondo e fare progressi ogni giorno affinché le masse possano sentirne i risultati e il processo possa continuare ad acquisire slancio, materialmente e spiritualmente. Quando chiamiamo rivoluzionarie le nostre misure, intendiamo dire che sono ampie, radicali e senza compromessi, e che riguardano l’intera società dal vertice alla base. Influiscono su tutte le sfere della vita nel senso più completo. Non si tratta di riverniciare la nostra società o di medicarne le piaghe, bensì di portarla alla ripresa completa e al rinnovamento. La politica è senza dubbio la cosa più importante in ogni processo rivoluzionario. E questo è altrettanto vero per la perestrojka. Perciò attribuiamo la precedenza alle misure politiche, a un’ampia e autentica democratizzazione, alla lotta assoluta contro gli eccessi burocratici e le illegalità, e all’attivo coinvolgimento delle masse nella gestione degli affari del paese. Tutto ciò è legato direttamente alla questione fondamentale di ogni rivoluzione, la questione del potere. Non intendiamo cambiare il potere so-

149 B. BONGIOVANNI LE CAUSE DEL CROLLO DEL COMUNISMO

B. Bongiovanni, Storia della guerra fredda [2001], Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 140-47.

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Lo storico britannico Lawrence Stone (1919-1999), nel fondamentale saggio Le cause della rivoluzione inglese 15291642, pubblicato nel 1972, elaborò uno schema articolato in cui le cause dell’evento venivano suddivise in: prerequisiti di lungo periodo (strutturali), prerequisiti di breve periodo (le-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

azione di riforma era sintetizzata da due termini: glasnost (trasparenza) e perestrojka (riforma). La prima si riferiva all’apertura a una serie di libertà fino ad allora negate o represse (come quella di stampa); la seconda all’eliminazione degli ostacoli che intralciavano lo sviluppo sociale ed economico (come gli eccessi burocratici). Le iniziative di Gorbacˇëv si rivelarono però illusorie e poco efficaci di fronte alla complessità dei problemi dell’Urss, in cui si facevano più forti le spinte alla disgregazione. vietico, naturalmente, né abbandonarne i principi fondamentali; tuttavia riconosciamo la necessità di mutamenti che rafforzeranno il socialismo e lo renderanno più dinamico e politicamente significativo. Perciò abbiamo ogni ragione di presentare il nostro piano per la completa democratizzazione della società sovietica come un programma di cambiamenti del nostro sistema politico. [...] La perestrojka richiede dirigenti del Partito molto vicini all’ideale leninista del rivoluzionario bolscevico. La burocrazia, il cerimonialismo, gli atteggiamenti paternalistici e il carrierismo sono incompatibili con questo ideale. D’altra parte il coraggio, l’iniziativa, gli alti principi ideologici e la purezza morale, l’impulso continuo di discutere le cose con gli altri e la capacità di sostenere con fermezza i valori umani del socialismo meritano di essere onorati. La situazione rivoluzionaria richiede entusiasmo, dedizione e spirito di sacrificio. Questo vale particolarmente per i dirigenti. METODO DI STUDIO

 a Evidenzia la definizione di perestrojka scelta dall’autore e sottolinea le relative conseguenze.  b  Spiega quali sono le condizioni necessarie per lo sviluppo della perestrojka e perché.  c  Spiega e argomenta la seguente frase: «Non si tratta di riverniciare la nostra società o di medicarne le piaghe, bensì di portarla alla ripresa completa e al rinnovamento».

gati alle questioni politiche, alle dinamiche sociali e al contesto internazionale), fattori precipitanti (endogeni, cioè interni, ed esogeni, cioè esterni) e «detonatore», ossia l’evento scatenante che faceva precipitare gli eventi verso una conclusione. Lo storico Bruno Bongiovanni (nato nel 1947) ha applicato lo stesso modello e le stesse categorie per individuare i fattori che determinarono la caduta del comunismo in Europa orientale e nell’Urss, offrendoci un quadro esaustivo delle cause di questo avvenimento epocale.

Fu certo proprio la caduta dei comunismi, insieme alla mercantilizzazione «capitalistica» dell’economia cinese avviata dal governo politico autoritario-comunista, l’evento principale dell’ultima parte del XX secolo. [...] I prerequisiti di più lungo periodo vanno ricercati nella stagnazione economica già visibile nell’ultima fase dell’età di Chruščëv (1953-1964), un’età in cui lo sviluppo sostenuto dell’ancor giovane industrialismo di Stato sovietico cominciò a decrescere, allontanandosi dai traguardi ambiziosi che si era proposto e in particolare dal raggiungimento, e addirittura dal sorpasso, in termini quantitativi, degli standard della produzione americana. In modo quasi improvviso, sin dall’inizio dell’età di Brežnev (1964-1982), la stagnazione divenne un dato pressoché permanente: l’economia sovietica, e con essa l’immagine stessa del comunismo, parve cioè passare dalla giovinezza brutale e turbolenta di un passato ancora recente a una rapida vecchiaia [...]. Il fatto è che la produzione sovietica, con imprese e movimenti di uomini e di mezzi di ciclopiche dimensioni [...] si era trovata in gravissime difficoltà nel riconvertirsi e nel trasformarsi in macchina idonea alla distribuzione di beni di consumo di massa e alla riscossione del fondamentale (in un’economia massificata e moderna di pace) placet dei consumatori. [...] I prerequisiti di più breve periodo possono essere rintracciati invece proprio nel periodo successivo al 1975, l’anno della presa di Saigon, della sconfitta statunitense in Vietnam e dell’apogeo fisico-territoriale-militare del comunismo, un sistema di potere mondiale e imperiale ormai attestatosi senza soluzione di continuità – pur tenendo conto della secessione cinese e dell’autonomia jugoslava – in uno smisurato spazio bicontinentale, con propaggini nell’America centrale e in Africa. Va tenuto peraltro presente che nella fase «post-totalitaria», vale a dire successiva al 1954, vi è stato un processo di relativa e progressiva differenziazione tra i comunismi, ognuno dei quali, pur in condizioni di sovranità limitata (nell’Est europeo) ha acquisito o riacquisito, in maniera indipendente dalla volontà dello Stato-guida sovietico, caratteristiche e fisionomie «nazionali» specifiche. [...] Cominciarono qui invece l’arretramento e il declino, per una singolare coincidenza ravvicinatissimi all’apogeo. [...] Vi fu a questo punto un’ultimissima ripresa di un pericoloso e inquietante fantasma

di guerra fredda (1979-1985). [...] I sovietici, in questo periodo, cercarono con esiti fallimentari di surrogare in prima persona, e in forme dotatesi di diverse gradazioni neocolonialistiche, la decolonizzazione assente o già avvenuta (Yemen, Corno d’Africa, Africa portoghese, Afghanistan). L’esito catastrofico di questo appesantito «movimentismo» artificiale, privo in realtà di una strategia riconoscibile, fu la dimostrazione che il crepuscolo dell’URSS e della forma-comunismo d’impronta bolscevica era già iniziato. [...] I fattori precipitanti endogeni furono paradossalmente proprio i tentativi di ridare fiato e razionalità alla spinta produttiva, di rimuovere la demotivazione diffusa (connessa al declino in atto) e di promuovere il rinnovamento. La Perestrojka e la Glasnost, nell’età di Gorbačëv (1985-1991), posero sì fine alla pseudo-guerra fredda dei primi anni ’80 e aprirono una speranza di pace in Occidente e nel mondo intero, ma fallirono in modo clamoroso l’obiettivo di riformare l’evidentemente non riformabile sistema sovietico. Suscitarono infatti spinte contraddittorie in tutti i settori della società e al rinnovato gruppo dirigente del PCUS non fu più possibile tenere unito e sotto controllo il paese; ciò confermava il fatto che uno Stato assoluto, o totalitario, o piuttosto «post-totalitario», non può aprire uno spiraglio in direzione di concrete riforme politiche e sociali – e della libertà di fatto dei sudditi trasformati in cittadini – senza rischiare di venire travolto dalla liberazione di quelle forze, spesso tra loro inconciliabili, che si rivela incapace di ricondurre all’ordine. I fattori precipitanti esogeni furono invece le grandi trasformazioni economiche dislocatesi molecolarmente in tutto il mondo negli anni ’80 – e in particolare la cosiddetta rivoluzione informatica connessa al processo della crescente globalizzazione economica –; a tali trasformazioni l’appesantita e territorializzata struttura economica sovietica, dominata da pachidermiche aziende di Stato a bassa produttività, non seppe in alcun modo tener dietro. Era in atto, come poi si sarebbe più volte ripetuto, la transizione dal cosiddetto «fordismo» (espressione certo limitativa) a un nuovo ordine produttivo (spesso definito, con scarsa immaginazione sociologica, «post-fordismo»). [...] Il comunismo istituzionalizzato, privo ormai, oltre tutto, nello stesso Terzo Mondo, del precedente potere di fascinazione ideologico-politica, si trovò sempre più ai margini del mercato

globale. Nel lungo dopoguerra, alla competizione ideologico-militare, con gli USA e con l’Occidente, l’URSS aveva tutto sommato resistito, e anzi da essa aveva ricevuto un efficace stimolo per il proprio espansionismo e per una ridefinizione della propria incerta identità, sino a trarre vantaggio dalla seconda guerra fredda (la guerra fredda di movimento coesistente con il disgelo e la distensione); al contrario, alla competizione civile-economico-informatica attivata oggettivamente dal «salto di paradigma» strutturale degli anni ’80 – parallelo peraltro, negli anni 1981-1984, al ritrovato antagonismo strategico dell’amministrazione Reagan –, l’URSS non seppe e non poté rispondere con altrettanta efficacia; tanto meno lo poteva fare nell’età «pacifica» di Gorbačëv, nel corso della quale furono poste le basi per un’intesa cordiale con la seconda amministrazione Reagan (1985-1988) e con l’amministrazione Bush senior (1989-1992). Il detonatore [...] fu costituito senz’altro dall’esplodere, in tutto l’impero sovietico, a partire dalle manifestazioni del 1987 nelle regioni baltiche, dei nazionalismi [...]. Le rivoluzioni pacifiche del 1989 nell’Europa centro-orientale [...] portarono [...] alla fine di quei blocchi che alla guerra fredda erano stati consustanziali. L’URSS subì allora, con oltre settant’anni di ritardo, una sorta di Versailles «etno-nazionale» che demolì l’ultimo impero sopravvissuto alla prima guerra mondiale, un impero che, per ben due volte nel secolo (nel 1918-1921 e nel 1942-1945), aveva dimostrato straordinarie, e a priori impensabili, capacità di resurrezione. [...] Il referto di morte del comunismo e del suo apparente universalismo fu dunque notarilmente firmato, nell’agonia finale, da quello che nella cosiddetta «guerra civile europea» era sembrato essere il suo avversario principale, vale a dire il nazionalismo particolaristico, o meglio, entro i confini dell’URSS, la pletora dei nazionalismi grandi e piccoli emersi dopo secoli di dominazione imperiale autocratico-zarista e sovietico-comunista. METODO DI STUDIO

 a  Suddividi il brano in blocchi tematici contraddistinti dalle scritte in corsivo. Spiega quindi a cosa corrispondono in relazione alla caduta del comunismo e individua per ognuno di essi alcune parole chiave che ne sintetizzino i punti principali.  b Realizza e completa un grafico a stella al cui centro ci sia la scritta «la caduta del comunismo» e i cui raggi siano le frasi in corsivo. Realizza quindi una didascalia a commento.

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FARESTORIA IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA

150d ROBERT DARNTON LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO



R. Darnton, Diario berlinese. 1989-1990, Einaudi, Torino 1992, pp. 47-49.

Robert Darnton (nato nel 1939) è uno storico statunitense, noto per i suoi originali studi sulla cultura del ’700 e sulla Rivoluzione francese. Fra il 1989 e il 1990 soggiornava a Il giorno dopo, 10 novembre, quando i berlinesi di ambo le parti si sono svegliati chiedendosi se il primo grande flusso migratorio attraverso il Muro fosse stato sogno o realtà, il quotidiano di Berlino Ovest, «Volksblatt» è uscito con due titoli di testa, spalla a spalla: Il Muro è crollato e Bonn chiede la distruzione del Muro. Entrambi i titoli sono esatti. Il Muro c’è e non c’è. Il 9 novembre esso fendeva ancora il cuore di Berlino, come un’enorme cicatrice, il «grande spartiacque» della Guerra fredda. Il 10 novembre, era diventato una pista da ballo, una galleria artistica, una bacheca, uno schermo cinematografico, una videocassetta, un museo, nonché, come si è espressa la donna delle pulizie del mio ufficio, «nient’altro che un mucchio di pietre». La conquista del Muro, alla pari della presa della Bastiglia, ha letteralmente trasformato il mondo. Non sorprende dunque che il giorno dopo, nella Alexanderplatz, a Berlino Est, uno dei conquistatori del Muro sfilasse con un cartello con su scritto semplicemente «1789-1989». Quell’uomo aveva contribuito a smantellare il simbolo supremo del mondo postbellico così com’era venuto modellandosi nella mente di milioni e milioni di uomini. [...] L’abbattimento del Muro è iniziato il tardo pomeriggio di giovedì 9 novembre, immediatamente dopo che la prima ondata migratoria di berlinesi orientali, od Ossis, come sono chiamati dai berlinesi

TEDESCA

occidentali, si era riversata in occidente. Un Ossi, un giovane con uno zaino sulle spalle, è riuscito in qualche modo a issarsi sulla cima del Muro proprio di fronte alla Porta di Brandeburgo. Se ne stava lassù a bighellonare, agitando le braccia da una parte e dall’altra, un bersaglio perfetto per i proiettili delle guardie, che già in passato avevano abbattuto molti altri scalatori, come Peter Fechter, un operaio edile diciottenne, ferito e lasciato morire dissanguato a pochi metri dal Checkpoint Charlie il 17 agosto 1962. Ora, ventisette anni dopo, una nuova generazione di guardie di frontiera mirava e sparava a un nuovo bersaglio, ma solo con delle pompe idriche, e senza neanche troppa convinzione. Il conquistatore del Muro ha proseguito la sua passeggiata, bagnato, fradicio, fino a che l’ultima guardia non si è arresa. [...] Pochi minuti più tardi, centinaia di persone, sia Ossis che Wessis, erano in cima al Muro ad abbracciarsi, ballare, scambiarsi fiori, bere vino, aiutare nuovi «conquistatori», a scalfire il Muro. A mezzanotte, sotto una luna piena e i fasci di luce dei riflettori piazzati sulle torrette di controllo nella terra di nessuno, la vetta del Muro brulicava di un migliaio di persone, intente come una colonna di operose formiche a picconare, martellare, raschiare. In basso, i «conquistatori» lanciavano pietre contro la base del Muro oppure lo prendevano a picconate. A poco a poco, sono iniziati ad apparire larghi squarci, attraverso cui

151 C.S. MAIER LA DIFFICILE RIUNIFICAZIONE

C.S. Maier, Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania Est, il Mulino, Bologna 1999, pp. 453-54; 470-75.

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Lo storico statunitense Charles S. Maier (nato nel 1939) ha dedicato uno dei primi e più esaustivi studi alla cause della crisi e della dissoluzione della Repubblica democratica tedesca e alle prime fasi della riunificazione fra le due Germanie. All’euforia provocata dalla caduta del Muro di Berlino, seguì,

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

Berlino, dove seguì come testimone e cronista le vicende della dissoluzione della Repubblica democratica tedesca e della successiva riunificazione delle due Germanie. In questo passo ci racconta i giorni immediatamente successivi alla caduta del mMuro di Berlino, l’evento simbolo del crollo dei regimi comunisti e della fine della guerra fredda, restituendocene l’atmosfera di sorpresa e di euforia. filtravano flebili raggi di luce dell’est [...]. Su in cima, al centro della baraonda, con la Porta di Brandeburgo che campeggiava sullo sfondo, un Ossi dirigeva le operazioni di abbattimento con una falce in mano e un martello nell’altra. Sabato 11 novembre, pezzi di Muro avevano già preso a circolare in entrambi i settori di Berlino. La gente se li scambiava come ricordo di quello che nella coscienza collettiva aveva già assunto il significato di un evento storico: la fine della Guerra fredda. Su un marciapiede del Ku’damm1 un ambulante vendeva pezzi di Muro esposti su una bancarella: venti marchi per un pezzo del passato. A un certo punto, un berlinese orientale gli è passato accanto e ha scherzosamente iniziato a protestare: – Lei non può vendere questa roba. È il nostro Muro. Appartiene a noi. 1. La Kurfürstendamm, elegante strada di Berlino Ovest piena di negozi. METODO DI STUDIO

 a Evidenzia le date presenti nei brani e sottolinea i principali eventi descritti. Quindi rispondi alla seguente domanda facendo riferimenti precisi: come definiresti l’atteggiamento delle persone col passare delle ore?  b Chi era Peter Fechter? E perché viene citato nel brano? Sottolinea nel testo la risposta.  c  Descrivi le sensazioni ed emozioni provate dall’autore e dalle persone descritte e spiegane le ragioni.

infatti, una rapida riunificazione, ma emersero ben presto problemi e contrasti, oltre che profonde differenze sociali e culturali. Non fu un percorso facile, come evidenzia il brano scelto, che analizza le difficoltà economiche e sociali connesse al passaggio da un’economia socialista ad una capitalista. La situazione economica dei territori orientali, segnati inizialmente da un’alta disoccupazione, migliorò progressivamente, anche grazie alle successive riforme, ma ancora oggi non ha raggiunto il livello di quella delle regioni occidentali.

Uno dei souvenir dell’Est poteva essere forse un pezzo del Muro di Berlino. Anche se il Muro non andò in vendita ufficialmente fino al 21 gennaio 1990, gli imprenditori locali fiutarono in anticipo l’opportunità e misero mano agli scalpelli. Ne staccarono frammenti a martellate, aggiunsero degli aculei di filo spinato arrugginito, poi montarono ciascuna frastagliata miniatura su un supporto di legno verniciato e le vendettero ai turisti. [...] Ma il visitatore che fosse tornato a Berlino un anno dopo aver acquistato questo frammento confezionato non avvertiva più la speranza, l’appagamento o il tremore distante della storia del domani. Quello che invece si avvertiva nel periodo natalizio del 1990 era un acuto senso di disorientamento, che dai tedeschi orientali dovette essere vissuto molto più profondamente. La Germania non era più due nazioni, ma di certo non era ancora una. Un regime era scomparso, e con esso un sistema di valori collettivi inculcati – senza dubbio coltivati per obbligo, ma tuttavia accettati – era stato abbandonato, dichiarato irrilevante, cancellato. Quello che i membri dei partiti e gli intellettuali tedesco-orientali chiamavano «la nostra repubblica», distinguendola implicitamente dalla «loro repubblica», non esisteva più, ma le differenze tra Est e Ovest rimanevano. [...] La presenza preponderante della Germania Ovest, che originariamente sembrava portatrice di riscatto, rendeva difficile ai tedeschi orientali trovare una legittima soddisfazione per i successi del loro pae­ se. L’ingresso nella Repubblica federale in virtù dell’articolo 23, vale a dire senza il passaggio sacramentale di una convocazione costituzionale, era stato veloce e conveniente; tuttavia sul piano del civismo c’era un pedaggio da pagare. Con quanta rapidità il senso di euforia si era trasformato in vittimismo! [...] Nella primavera del 1991 si coglievano segni di malessere su entrambi i versanti. In Germania Est salivano i tassi di disoccupazione. Molti ex cittadini della RDT giudicavano arroganti ed egoisti i loro compatrioti occidentali [...]. I tedeschi dell’Est vedevano quelli dell’Ovest rilevare le proprietà della Treuhand1, penetrare nelle amministrazioni dei Länder; in pratica divenire i loro insegnanti di amministrazione e governo della cosa pubblica. Nel frattempo oltre un milione di lavoratori su quattro erano disoccupati

ed un altro milione e mezzo erano coinvolti nei programmi di lavori socialmente utili sussidiati dallo Stato. Nella seconda metà del 1990 la produzione industriale scese bruscamente, tanto che nel 1991 fu di un terzo inferiore al livello del 1989; alla metà del 1992 gli occupati nell’industria scesero al di sotto del milione, in confronto con i 3,2 milioni del 1989. Il prodotto nazionale dei Länder orientali diminuì di circa un terzo nel 1991 e di un ulteriore 10% abbondante nel 1992; la produttività era attestata al 32% del livello occidentale. Nonostante ciò, in virtù dei sussidi assistenziali e dei lavoratori socialmente utili nonché del rapido allineamento dei salari ai livelli occidentali, il reddito delle famiglie crebbe del 32%. [...] In definitiva chi pagò la dolorosa ristrutturazione della Germania Est? L’illusione iniziale fu che il processo di modernizzazione non avrebbe comportato costi aggiuntivi e che i nuovi Bundesländer avrebbero fatto un balzo in avanti senza massicci investimenti dall’occidente. [...] L’investimento della Treuhand costituì gradualmente una fonte di trasferimenti, ma in cambio dei fondi necessari alla ristrutturazione che gli acquirenti tedesco-occidentali e stranieri entrarono in possesso dei beni capitali tedesco-orientali. Entro il marzo del 1991 il governo federale approvò un programma urgente di investimenti che prevedeva l’investimento di dodici miliardi di dollari in infrastrutture per ciascuno dei successivi due anni, ai quali sarebbero stati aggiunti ulteriori cinque miliardi di dollari nel corso del 1991. Queste furono solo una piccola parte delle risorse trasferite a Est [...]. Nel momento in cui la perdita dei posti di lavoro cominciò a rallentare, nel 1993 e nel 1994, i livelli occupazionali nei Länder orientali (con esclusione del numero di occupati nel settore delle opere pubbliche e con contratti di formazione-lavoro) erano scesi al 54% della popolazione tra i 15 e i 65 anni, pari a 5,4 milioni di posti di lavoro, mentre la RDT aveva dato lavoro al 91-92% della popolazione in età di lavoro (circa 9,75 milioni di occupati). Nemmeno nei momenti più bui della Depressione, nei mesi precedenti la presa del potere da parte di Hitler, la disoccupazione aveva superato in Germania il tasso del 25-33%. La differenza fu che il problema dei senza lavoro degli anni Novanta fu alleggerito dalla creazione da parte pubblica di posti di lavoro artificiali

e ammortizzato dai pensionamenti. Nel 1992 il numero di occupati nelle attività agricole e forestali era precipitato da 976.000 a 282.000; gli operai dell’industria erano scesi da 8 a 3,7 milioni; nei Länder e nel settore privato gli addetti erano calati da 2,3 a 1,6 milioni. [...] In realtà l’angoscia dell’ex RDT (come molte delle difficoltà registrate negli altri paesi dell’Europa orientale) derivò dalla vulnerabilità sia della produzione socialista sia di quella capitalista. Le storture ereditate dalle economie pianificate furono amplificate dalle nuove difficoltà del capitalismo industriale occidentale alle prese con il processo che viene comunemente chiamato globalizzazione. [...] A prescindere dalla produttività e dall’efficienza dell’organizzazione industriale della RDT, essa doveva integrarsi ora in un’economia nazionale che impiegava un numero molto minore di lavoratori nell’industria e molto maggiore nei servizi. Il risultato per la ex RDT fu una lacerante deindustrializzazione ma forse anche il preludio ad una ricostruzione economica ancora in atto. [...] Alla metà degli anni Novanta la perdita di posti di lavoro in Europa orientale andava a inquadrarsi nel più vasto fenomeno della disoccupazione che affliggeva anche le economie capitaliste. Anche quando riprese la crescita continuarono i licenziamenti dei lavoratori a tutti i livelli della gerarchia occupazionale. La Germania Est in pratica stava recuperando il terreno perduto rispetto all’occidente comprimendo il cambiamento strutturale, che nelle economie capitaliste – non afflitte dalla sua penosa ridondanza – aveva richiesto una generazione, in una dolorosa transizione quinquennale. 1. Holding fiduciaria non governativa che amministrò il patrimonio industriale della Rdt a partire dal 1990, ristrutturandolo e privatizzandolo.

METODO DI STUDIO

 a Evidenzia le sensazioni e condizioni vissute dai berlinesi a fine 1990 e sottolineane le cause.  b  Cerchia la domanda centrale del brano e rispondi sinteticamente argomentando.  c  Spiega per iscritto perché «l’angoscia dell’ex Rdt derivò dalla vulnerabilità sia della produzione socialista sia di quella capitalista».

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FARESTORIA IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA

152 F. BENVENUTI LA TRANSIZIONE DELLA RUSSIA



F. Benvenuti, Russia oggi. Dalla caduta dell’Unione sovietica ai nostri giorni, Carocci, Roma 2013, pp. 47-58.

Lo storico dell’Europa orientale Francesco Benvenuti (nato nel 1949) ha dedicato un saggio alla Russia contemporanea, dalla caduta dell’Urss a oggi. Nel passo scelto offre un quadro esaustivo del complesso passaggio dall’economia socialista a

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Con la dissoluzione dell’URSS, la RSFSR prese il nome di Federazione russa (oppure, Russia tout court) e si lanciò in un processo rapido e confuso di demolizione delle strutture economiche sovietiche e di introduzione del mercato. Eltsin scoprì finalmente le proprie carte alla fine di ottobre 1991, quando annunciò un programma economico di liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione dell’economia e stabilizzazione finanziaria. Quest’ultimo obiettivo sarebbe stato conseguito attraverso la radicale contrazione della spesa pubblica per investimenti, sussidi alle imprese, assistenza sociale e servizi: erano i consigli e le condizioni avanzati dal Fondo monetario internazionale (FMI) per l’erogazione di crediti al governo russo. [...] Ai primi del 1992 i prezzi furono liberalizzati e lasciati fluttuare. Le merci tornarono a circolare ma a prezzi impossibili per gran parte dei cittadini. Lo shock psicologico e materiale loro inflitto fu profondo. La popolazione fu sottoposta ad una dura opera di rieducazione in favore di valori e modelli di comportamento ideologici e sociali assai diversi da quelli che avevano prevalso in URSS, basati sull’egualitarismo e la protezione statale. Il passaggio repentino ad un mercato senza le regole e senza le istituzioni che caratterizzano le moderne e avanzate società capitalistiche fu giustificato dal governo e da una parte dei media con l’obiettivo di spezzare nel tempo più breve possibile atteggiamenti mentali di massa sfavorevoli al mercato, base potenziale di una restaurazione comunista; e, paradossalmente, con quello di costruire rapidamente un “normale” ambiente economico e sociale di tipo occidentale. L’aspirazione di molti russi all’integrazione in un mondo da cui il regime sovietico aveva sostanzialmente isolato il loro paese per quasi tre quarti di secolo cominciò a realizzarsi nel mutare dei consumi, dei costumi culturali e di vita nella nuova società, nello stesso aspetto delle grandi città. D’altra parte,

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

quella capitalista, attraverso la contrazione della spesa pubblica e l’apertura al libero mercato. Queste scelte, e il modo in cui furono applicate, ebbero delle conseguenze sia sociali che politiche. Sul terreno sociale, si registrò un peggioramento delle condizioni, con la crescita della povertà per alcune categorie e il calo della durata della vita media. A livello politico,invece, ad una fase di instabilità seguì il varo di una nuova Costituzione, che affidò al presidente della Russia ampi poteri.

tuttavia, si creò un durevole campo di tensioni psicologiche, culturali e sociali tra la parte della società che si rivelò più pronta ad approfittare dei rivoluzionari cambiamenti e quella che avrebbe desiderato un processo di trasformazione meno rapido e spietato, reso più amaro dall’apparizione di nuove e profonde disuguaglianze sociali. Nei mesi successivi il rublo fu dichiarato convertibile e il commercio estero (finora monopolio statale) liberalizzato. Lo Stato sovvenzionò l’importazione su larga scala di prodotti tradizionalmente concupiti dai cittadini della vecchia URSS ma da questa non resi ad essi disponibili. Ancora una volta, si trattò di un’operazione in larga parte simbolica, ideologicamente e politicamente ispirata: si volle dare subito ai russi postsovietici un assaggio delle possibilità di consumo che il nuovo capitalismo avrebbe consentito. [...] L’inflazione procedette a passi da gigante per quasi tutto il decennio e cominciò a essere messa sotto controllo solo nell’ultimo scorcio di esso. Nonostante la drastica diminuzione della spesa statale e per i servizi pubblici (in particolare, istruzione e sanità), nel 1992 i prezzi crebbero di ventidue volte, i salari solo di dieci. L’anno successivo i prezzi decuplicarono ancora. [...] Il passaggio repentino ad un’economia basata sul primato della domanda sconvolse la produzione industriale, fino a quel momento retta dal principio del primato dell’offerta e della sua pianificazione autoritaria. Nel 1990-95 il PIL russo potrebbe essersi dimezzato e così la produzione industriale dal 1987 al 2000 (le statistiche disponibili sono sospettate di essere largamente incomplete e inaccurate). Non solo l’industria pesante e quella militare, pilastri del sistema industriale sovietico, si trovarono drasticamente a corto di commesse. Conobbe un tracollo anche la produzione dell’industria leggera, sconvolta dal crollo del sistema di rifornimenti e di distribuzione su scala

sovietica e insidiata dall’importazione dall’estero di beni di consumo di migliore qualità, sovvenzionata dallo Stato per motivi sia pratici che ideologici. Gli investimenti statali precipitarono e quelli privati non decollarono. Molti dei nuovi profitti, resi diffidenti dall’instabilità economica e politica del paese, presero le vie legali e illegali dell’esportazione dei capitali. Anche l’agricoltura subì una forte riduzione della produzione. [...] Il livello di vita di un terzo della popolazione si trovò ben presto ad oscillare attorno al minimo vitale. Si trattava di pensionati, donne sole con figli, operai non qualificati, impiegati di rango inferiore, insegnanti, studiosi e ricercatori (1.500.000 dei quali negli anni Novanta passò ad un altro lavoro). [...] La vita media della popolazione, in periodo sovietico già più bassa che in Occidente, subì un’ulteriore e significativa contrazione. Nel periodo 1986-2001 l’aspettativa di vita presso i maschi cadde da 65 a 57 anni nel 1994, per poi risalire a 59; presso le donne, essa passò da 75 a 71. Nel 2005 essa fu, rispettivamente, di 60 e 74 anni. I principali fattori responsabili erano le malattie cardiovascolari (dovute ad alcol, stress, tabacco e una dieta antiquata), gli incidenti stradali e il deterioramento dei servizi sanitari. Dopo il 1992 si registrarono un aumento della mortalità (più del 14% nel 2005: un fenomeno analogo aveva luogo in Ucraina e in Bulgaria), una caduta della natalità e un aumento della mortalità infantile. Nel complesso, dal 1989 al 2005 la popolazione diminuì da 147 a 142 milioni, grazie anche al contributo dell’emigrazione (3 milioni nel 19922001, di cui 400.000 scienziati e tecnici qualificati). Il saldo annuale tra immigrazioni ed emigrazioni era, ancora nel 2006, di 30.000 unità. [...] Sia il modo furioso e ideologicamente ispirato con cui i primi governi postsovietici smantellarono l’economia statale pianificata e i suoi controlli, sia quello economicamente abnorme con cui que-

gli stessi governi cercarono di attenuare le disastrose conseguenze di un tale corso economico sul livello di vita della popolazione e sulla produzione dettero vita ad un sistema economico dal funzionamento profondamente distorto, lontano tanto da quello sovietico (“socialista”), quanto dal moderno mercato capitalistico. Materie prime ed energia furono mantenute a prezzi artificiosamente bassi per non far lievitare ulteriormente i costi della produzione industriale. In tal modo, tuttavia, si crearono le condizioni per immense speculazioni semilegali, che lucravano sulla differenza tra i prezzi interni e quelli mondiali e che potevano essere realizzate grazie a compiacenti uffici statali. I profitti di illecite speculazioni e le nuove fortune rapidamente ammassate dagli improvvisati imprenditori alimentavano una rampante corruzione negli organi dell’amministrazione pubblica, ormai ridotta a una burocrazia impoverita e frustrata. [...] La traumatica trasformazione economica e sociale della Russia non mancò di riflettersi nella sua vicenda politica. Nei primi anni, il malcontento popolare si materializzò in manifestazioni di piazza di alcune delle categorie sociali maggiormente colpite e nella rumorosa e colorita mobilitazione di gruppi estremisti di ispirazione ultranazionalista, o comunista (spesso, le due cose insieme), anche se essa non

generò rilevanti episodi di violenza individuale o organizzata. [...] [Eltsin] nel giugno del 1993 nominò una commissione incaricata di redigere la prima Costituzione della Russia postsovietica, ispirata ad uno schema di sistema politico di tipo presidenziale. [...] La Costituzione fu approvata con più del 58% dei voti. Il testo si caratterizzava per una forte impronta presidenzialista, che eternizzava i vasti poteri successivamente cumulati dalle figure del presidente dell’URSS e del presidente della Russia, nel 1990-92. Le definizioni che gli scienziati della politica danno del sistema politico venutosi a creare su questa base oscillano tra semipresidenziale, presidenziale e superpresidenziale. Non solo il presidente russo1 può serenamente governare per decreto senza conferma parlamentare ma ha il potere di designare il capo del governo e di sciogliere la Camera dei rappresentanti (la Duma), se questa esprime per tre volte consecutive un voto di sfiducia verso il suo candidato. [...] Il presidente forma e destituisce i governi; su segnalazione del capo del governo nomina e destituisce i ministri e i vicepremier; può presiedere le sedute del gabinetto; ha diritto di iniziativa legislativa; è comandante in capo delle forze armate; indirizza la politica interna ed estera della Federazione; sospende gli atti di altri

153 M. MAZOWER LA GUERRA NELL’EX JUGOSLAVIA



M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo [1998], Garzanti, Milano 2005, pp. 381-85.

Lo storico britannico Mark Mazower (nato nel 1958) ha ricostruito le vicende dell’Europa nel ’900, concentrando la sua attenzione sui mutamenti sociali e sul rapporto fra vicende politiche e ideologie. Nel brano seguente analizza l’emergere Dopo il 1989, i commentatori occidentali restarono paralizzati dal risorgere del nazionalismo. Col riaffiorare di memorie nazionali e vecchi odi fu facile vedere in esso il ripetersi della storia e la fonte di futuri guai per l’Europa. [...] La caduta del comunismo evidenziò il potenziale disgregante del nazionalismo sotto molti aspetti. Primo, la liberazione dal comunismo fu spesso vista nel contesto delle rivendicazioni di indipendenza nazionale; ciò apparve con particolare

organi esecutivi federali sulla base di un giudizio di incostituzionalità, oppure se li ritiene in contrasto con altre leggi federali; proclama lo stato di emergenza; propone al Consiglio federale la candidatura per la massima carica della magistratura (il procuratore generale) e, sempre tramite il Consiglio, effettua le nomine dei giudici della Corte costituzionale e della Corte suprema; presenta alla Duma il candidato a presidente della Banca centrale. 1. La carica fu ricoperta da Eltsin fino al 1999; dal 2000 al 2008, per due mandati, da Vladimir Putin; dal 2008 al 2012 da Dmitrij Medvedev. Dal 2012 Putin è tornato a ricoprire questo ruolo, il cui mandato è passato da quattro a sei anni. Ricordiamo che il presidente è eletto dal voto diretto popolare. METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia le scelte di politica economica descritte e sintetizzale con dei titoletti sul tuo quaderno accanto alla data di riferimento. Sottolinea e trascrivi quindi le conseguenze che ne seguirono.  b  Spiega per iscritto in che modo gli abitanti della ex Unione Sovietica vissero la liberazione dei prezzi e perché la vita media della popolazione subì un’ulteriore e significativa contrazione rispetto al passato.  c  Descrivi in che modo la trasformazione economica e sociale della Russia influenzò le sue vicende politiche.

del nazionalismo e dei conflitti etnici dopo l’89, concentrandosi sulla disgregazione dell’ex Jugoslavia, dall’indipendenza di Slovenia e Croazia alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, alle pulizie etniche condotte dall’esercito serbo di Slobodan Miloševicˇ. Le guerre nei Balcani, che poi proseguirono con il conflitto in Kosovo e in Macedonia, misero l’Europa e gli Usa di fronte a nuovi contrasti e incertezze rispetto all’opportunità di un intervento internazionale e alle sue modalità.

evidenza con gli Stati baltici, ma è anche vero per gran parte dell’Europa orientale. Secondo, i vecchi meccanismi, già estremamente logori, utilizzati per appianare le dispute sulle minoranze all’interno del Patto di Varsavia furono inutilizzabili dopo il 1989. Terzo, la maggiore facilità di accesso all’Europa orientale per gli occidentali significò la possibilità di fare maggiore luce sulla xenofobia e sul razzismo diffusi nella regione. [...] Fu ovviamente la sanguinosa disintegra-

zione della Jugoslavia a lanciare il nazionalismo al centro della ribalta; fu anche l’unico caso in cui il fallimento del comunismo ebbe conseguenze devastanti (e mostrarono a che cosa fosse scampata la Russia). La defezione della Slovenia nel 1991, dopo pochi giorni di sporadici scontri con l’esercito federale, mostrò che era possibile realizzare la separazione in modo relativamente pacifico. Ma la Slovenia non ospitava alcuna minoranza serba, Croazia e Bosnia sì, e allorché que-

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FARESTORIA IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA

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ste cercarono di staccarsi dalla federazione, i serbi si opposero. Il leader comunista serbo Slobodan Milošević [...] epurò l’esercito di tutti gli oppositori, e i carri armati sgombrarono le strade di Belgrado dai manifestanti. A partire da quel momento l’opposizione esplicita in Serbia fu molto debole (nonostante un alto tasso di diserzione e di emigrazione), fino all’ingloriosa conclusione della guerra nel 1995. Nazionalismo, una fortissima carica assertiva e un ferreo controllo sui media da parte del regime ridussero al minimo l’opposizione dei serbi, anche quella contraria alla guerra. In Bosnia, i serbi combatterono chiaramente una guerra di conquista territoriale e di pulizia etnica [...]. La pulizia etnica fu il primo stadio del processo, una strategia di terrore mirante a cacciare i non serbi dalle loro case per far posto ai serbi e che funzionò brillantemente, creando centinaia di migliaia di profughi nell’arco di pochi mesi e oltre due milioni complessivamente. [...] Fino a quando le città – Sarajevo in primo luogo – resistettero ai bombardamenti, la schiacciante superiorità serba in termini di artiglieria non risultò decisiva: per vincere Belgrado avrebbe dovuto schierare le truppe di terra, con le forti perdite che ciò avrebbe comportato: non lo fece, preferendo creare una situazione di stallo. Il tempo tuttavia spostò gli equilibri delle forze a favore dei suoi nemici: con il sostegno americano, bosniaci e croati divennero più potenti, mentre il morale dei serbi prese a calare. [...] Così la sconfitta serba del 1995 fu una sconfitta dell’idea di apartheid in Europa. Ma fu anche una sconfitta per l’Occidente, che perse la prima seria sfida post-Guerra fredda ai valori liberali. Già fu un male l’aver preferito la realpolitik alla salvaguardia dei diritti e alla prevenzione del genocidio; peggio, anche tale politica si rivelò fallimentare. [...] Parlare di Occidente è un eufemismo dietro il quale si nasconde il dato di fatto che tutte le iniziative principali per sbloccare la situazione di stallo in Bosnia partirono dagli americani. A un osservatore neutrale sarebbe potuto sembrare che la Bosnia fosse un problema europeo, ma ciò non si sarebbe mai potuto dedurre dal comportamento degli stessi europei. La strategia politica dell’Unione europea venne completamente emarginata, e poco più fece l’UEO1. Britannici e francesi preferi-

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rono operare tramite le Nazioni Unite e la NATO, organismi nei quali condividevano il potere con gli americani e – nel primo caso – con i russi. Londra e Parigi si fecero vanto del proprio impegno inviando truppe, ma apparvero a lungo confusi su come utilizzarle. Entrambe amavano denunciare l’arroganza e l’ipocrisia americana, ma nessuna delle due era sufficientemente determinata per agire da sola. La Bosnia dimostrò come fosse arduo per gli europei, anche dopo la fine della Guerra fredda, gestire i propri conflitti senza Washington. [...] L’incapacità dell’Occidente di porre fine al conflitto e la sua manifesta riluttanza a imporre le norme di comportamento internazionale accrebbero il nervosismo nella regione. All’inizio degli anni ’90 ebbe inizio tra Grecia e Turchia una serie di escalation militare che portò i due paesi più vicino alla guerra di quanto lo fossero stati da decenni. Nel Kosovo sembrava che i serbi non sarebbero riusciti a reprimere ancora a lungo la maggioranza albanese, mentre in Macedonia le tensioni e la violenza etniche riversatesi dalla stessa Albania minacciava di destabilizzare un regime dall’equilibrio già oltremodo precario. [...] La migliore interpretazione della guerra in Jugoslavia è forse quella che la considera un prodotto del crollo del federalismo dopo il 1989. Fu questo l’unico caso in Europa il cui esito fu determinato dalla guerra. In Cecoslovacchia – la sola altra creazione federale di Versailles sopravvissuta – una «separazione consensuale»

garantì un divorzio pacifico e civile tra cechi e slovacchi. Le vere difficoltà nascono soprattutto nella sfera dell’ex Unione Sovietica, con le sue vaste minoranze russe alla periferia meridionale e occidentale del vecchio impero. Nella zona europea il conflitto – con la parziale e fugace eccezione della Moldavia e delle repubbliche baltiche nel 1991 – restò confinato al livello politico e non degenerò. [...] Dopo il 1989 tutti accettarono l’idea dell’intangibilità dei confini esistenti. Questo era stato il principio concordato a Helsinki nel 1975, al quale si rimase fedeli anche quando ciò significò accettare le ingiustizie dell’ordinamento postbellico. La Germania riconobbe finalmente i confini occidentali della Polonia e depose le proprie rivendicazioni sui vecchi territori orientali. Anche gli Stati baltici accettarono l’indipendenza entro i confini post­ bellici e non cercarono un ritorno allo status quo precedente al 1939. La stabilità era un bene troppo prezioso per poterlo mettere in pericolo, e buona parte della politica dell’Occidente – apparentemente amorale e contraddittoria – nei confronti della ex Jugoslavia va interpretata come un disperato tentativo di attenersi a tale principio.

1. L’Unione europea occidentale è un’alleanza politico-militare fondata nel 1954, comprendente Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Regno Unito, Italia, Repubblica federale di Germania, Grecia, Spagna e Portogallo. 

PALESTRA INVALSI

1 Trascrivi gli aspetti del potenziale disgregante del nazionalismo evidenziati dalla caduta del comunismo: a. ................................................................................................................................................... b. ................................................................................................................................................... c. .................................................................................................................................................... 2 Completa il testo che segue tenendo in considerazione quanto detto dall’autore. La guerra portata avanti in Bosnia dai serbi aveva come obiettivi la conquista XXXXXX e la pulizia YYYYYY. La strategia adoperata mirava a cacciare i non serbi dalle loro case per far posto ai MMMMMM e creò centinaia di migliaia di NNNNNN nell’arco di pochi mesi. Grazie all’intervento degli SSSSSS la situazione di stallo in Bosnia fu sbloccata. L’idea di apartheid in Europa fu così sconfitta nel 1995, ma questa data segnò anche, per gli occidentali, la sconfitta della prima seria sfida post guerra fredda ai valori ZZZZZZ. Che parola metteresti al posto di XXXXXX? E di NNNNNN? E di SSSSSS? E di ZZZZZZ? ....................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................... [ ] a. territoriale [ ] b. americani [ ] c. etnica [ ] d. liberali

[ ] e. genetica [ ] f. serbi [ ] g. profughi

154d ZLATA FILIPOVIC´ DIARIO DALLA SARAJEVO IN GUERRA



Z. Filipovic´, Diario di Zlata. Una bambina racconta Sarajevo [1993], Rizzoli, Milano 1994, pp. 43-44; 47-48; 70-71; 157.

Zlata ha undici anni quando la guerra arriva a Sarajevo. La sua vita cambia da un momento all’altro drasticamente; la sua quotidianità è scandita da esplosioni, bombardamenti, fughe Sabato 2 maggio 1992 Cara Mimmy, oggi è stato senza dubbio il giorno peggiore per Sarajevo. I combattimenti sono iniziati verso mezzogiorno. Mamma e io ci siamo precipitate in corridoio, mentre papà era nel suo ufficio, sotto il nostro appartamento. Attraverso l’interfono gli abbiamo detto di correre giù nell’atrio, dove ci saremmo incontrate con lui. [...] Siccome la situazione stava peggiorando, non siamo riusciti ad attraversare il muro per andare dai Baobar, così siamo corsi nella nostra cantina. Quella cantina è brutta, buia e ha un odore terribile. Mamma, che è terrorizzata dai topi, aveva due paure da tenere a bada. Siamo rimasti tutti e tre nello stesso angolo dell’altra volta, ascoltando l’esplosione delle granate, gli spari e il fragore sopra le nostre teste. Abbiamo sentito perfino degli aerei. A un certo punto ho capito che quell’orribile cantina era l’unico posto che poteva salvarci la vita, e così ha iniziato a sembrarmi addirittura calda e accogliente. Era l’unico modo che avevamo per difenderci da quei terribili bombardamenti. Poi abbiamo sentito un rumore di vetri infranti nella nostra strada. Orribile. Mi sono tappata le orecchie per non sentire. [...] Mercoledì 13 maggio 1992 Cara Mimmy, nonostante tutto, la vita continua. Il passato è crudele, ed è proprio per questo che dobbiamo dimenticarlo. Ma anche il presente è crudele, e questo non si può dimenticare. La guerra non è uno scherzo. La mia realtà attuale è fatta di cantine, paura, granate, fuoco. L’altro ieri sera sono scoppiati dei combattimenti feroci. Siccome avevamo paura di essere colpiti da una granata o da qualche proiettile, siamo corsi dai Bobar. Abbiamo passato tutta la notte, il giorno successivo e la notte scorsa nel-

nei rifugi, paura, elettricità e acqua razionate, pacchi umanitari e mercato nero. Alcuni parenti e amici partono, lasciando la città, altri muoiono. Zlata, come tante sue coetanee, confida tutto al suo diario, a cui dà il nome di Mimmy. Così come molti anni prima quello di Anna Frank, il Diario di Zlata contribuì ad accendere i riflettori su un drammatico conflitto. Ne furono vendute più di un milione di copie in 35 lingue diverse.

la cantina e nell’appartamento di Nedo. [...] Alla televisione abbiamo visto delle scene terribili: la città è ridotta in macerie e divorata dalle fiamme, adulti e bambini che venivano uccisi. È assolutamente incredibile. I telefoni non funzionano, così non abbiamo notizie dei nonni, di Melica e della situazione negli altri quartieri della città. [...] Venerdì 7 agosto 1992 Cara Mimmy, oggi si è scatenato l’inferno. Non saprei dirti quante granate siano cadute nei dintorni. Quando papà e Samra sono andati a ritirare il pacco di aiuti era tutto tranquillo, ma a un certo punto sono iniziati i bombardamenti. Un’esplosione violenta. Emina era a casa nostra. C’è stato uno scoppio terribile, i vetri sono andati in frantumi, hanno iniziato a cadere dei mattoni e si sono sollevate nuvole di polvere. Non sapevamo dove rifugiarci; eravamo convinte che la granata fosse caduta sul nostro tetto. [...] Quando ci siamo calmate un po’ ci hanno detto che era caduta una granata sul tetto della casa di Emina, proprio sopra il nostro appartamento. Siamo state davvero fortunate, perché il nostro tetto è a soli dieci metri dal suo. [...] Quando siamo tornati nel nostro appartamento, l’abbiamo trovato pieno di polvere e calcinacci, e in bagno c’era perfino un frammento di granata. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo iniziato a pulire. Io avevo una paura matta che ricominciassero i bombardamenti, ma per fortuna non è stato così. Un altro giorno terribile. Domenica 25 settembre 1993 Cara Mimmy, è tornata la corrente, ma è stata razionata. Un’idea davvero stupida, così come è stupida la nostra vita. Ogni cinquantasei ore ci concedono quattro ore di corrente. Dovresti vedere Mimmy, che casa di matti quando arriva la corrente! Pile

di panni sporchi che aspettano di entrare in lavatrice. Mucchi ancora più grandi di biancheria che aspettano di essere stirati. La polvere in attesa dell’aspirapolvere. Le cose da cucinare, il pane da infornare, e poi vorremmo guardare un po’ di televisione. I capelli da lavare e da asciugare con il fon. È incredibile. Cose da non credere. [...] Adesso abbiamo l’acqua un po’ più spesso. Per il pane ci sono altri problemi, anche se è tornata la corrente. Riceviamo 300 grammi per persona... ogni tre giorni! È davvero ridicolo!

METODO DI STUDIO

 a  Suddividi, con dei segni a margine del testo, la testimonianza di Zlata, in a. i bombardamenti; b. i razionamenti; c. i sentimenti provati.  b  Ripercorri la testimonianza di Zlata e descrivi per iscritto i suoni che caratterizzano i giorni da lei vissuti durante la guerra. Prima di procedere segna le parti del testo che ti forniscono informazioni a questo proposito.

829

FARESTORIA IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA

155 F. FUKUYAMA IL TRIONFO DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE



F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992, pp. 63-66.

Francis Fukuyama (nato nel 1952) è un politologo statunitense, noto soprattutto per il saggio, La fine della Storia, pubblicato nel 1992. Secondo Fukuyama, quella che entra in Con l’avvicinarsi della fine del millennio le crisi gemelle dell’autoritarismo e della pianificazione centralizzata socialista hanno lasciato sul ring, quale ideologia di validità potenzialmente universale, un solo contendente: la democrazia liberale, la dottrina della libertà individuale e della sovranità popolare. A duecento anni da quando per la prima volta animarono le rivoluzioni americana e francese, i principi gemelli della libertà e dell’eguaglianza si sono dimostrati non sempre durevoli ma sempre risorgenti. Per quanto strettamente collegati, liberalismo e democrazia sono due concetti distinti. Il liberalismo politico può essere definito semplicemente come il riconoscimento giuridico di certi diritti o libertà individuali. Dei diritti fondamentali si possono dare definizioni quanto mai varie, ma noi ci limiteremo a quella contenuta nella classica opera sulla democrazia di Lord Bryce1, che li limita a tre: diritti civili, cioè «l’esenzione dal controllo del cittadino per quanto riguarda la sua persona e la sua proprietà», diritti religiosi, cioè «l’esenzione dal controllo per quanto riguarda l’espressione di opinioni religiose e la pratica del culto», e quelli che lui chiama diritti politici. [...] La democrazia invece è il diritto universale ad avere una parte del potere politico, ovvero il diritto di tutti i cittadini di votare e di partecipare all’attività politica. Il diritto di partecipare alla gestione della cosa pubblica può essere considerato un altro



diritto liberale – in realtà il più importante – ed è per questa ragione che dal punto di vista storico il liberalismo viene collegato strettamente alla democrazia. [...] Non è che la crisi attuale dell’autoritarismo abbia necessariamente portato al sorgere di regimi democratici liberali, né è detto che le democrazie che ne sono risultate siano sicure. I paesi di nuova democrazia dell’Europa orientale si trovano di fronte a brusche trasformazioni delle loro economie. Analogamente le nuove democrazie dell’America Latina si trovano a dover fare i conti con la terribile situazione economica lasciata dal precedente malgoverno e la cui manifestazione più evidente è lo spaventoso debito pubblico. Molti dei paesi dell’Asia Orientale che hanno conosciuto un rapido sviluppo sono economicamente liberali, ma non hanno ancora accettato la sfida della liberalizzazione politica. La diffusione della rivoluzione liberale è stata direttamente proporzionale al livello complessivo dell’economia e dello sviluppo sociale dei vari paesi, per cui aree come il Medio Oriente sono rimaste escluse. [...] Ma le eventuali battute d’arresto e le delusioni che indubbiamente punteggeranno il processo di democratizzazione, oppure il fatto che non tutte le economie di mercato prospereranno, non devono farci perdere di vista il disegno più vasto che sta prendendo forma nella storia mondiale. Il numero visibile delle scelte che i paesi si trovano ad affrontare nel decide-

156 C.A. KUPCHAN L’ERA AMERICANA?

C.A. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventunesimo secolo [2002], Vita e pensiero, Milano 2003, pp. 51; 73-79.

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Il politologo Charles Kupchan (nato nel 1958), esperto di politica internazionale, già consigliere del presidente Obama, esamina in questo volume la tesi del trionfo della democrazia

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

crisi con la fine del bipolarismo Usa-Urss è la concezione hegeliana della storia, come processo evolutivo unico e coerente. Traendo argomenti sia dallo sviluppo economico che dai percorsi di emancipazione dei popoli, Fukuyama vede l’affermazione definitiva della democrazia liberale, uscita vincitrice sia dallo scontro con il fascismo sia da quello con il comunismo. La tesi suscitò un ampio dibattito e fu successivamente in parte rivista dall’autore. re come organizzarsi economicamente e politicamente è andato diminuendo col tempo. Tra tutti i tipi di regimi sorti nel corso della storia, dalle monarchia e dalle aristocrazie alle teocrazie ed alle dittature fasciste e comuniste di questo secolo, la sola forma di governo sopravvissuta intatta fino alla fine del secolo XX è la democrazia liberale. In altre parole, esce vittoriosa non tanto la prassi quanto l’idea liberale. Per larga parte del mondo questo significa che non esiste oggi un’ideologia con pretese di universalità che sia in grado di minacciare la democrazia liberale, così come non esiste un principio universale di legittimità diverso da quello della sovranità del popolo. Il monarchismo nelle sue varie forme è stato ampiamente sconfitto fin dagli inizi di questo secolo. Il fascismo e il comunismo, i principali rivali fino ad oggi della democrazia liberale, si sono screditati da soli. 1. Giurista e politico liberale britannico (18381922).

METODO DI STUDIO

 a Sottolinea con colori diversi la definizione di liberalismo e quella di democrazia.  b Spiega per iscritto perché l’autore nega che la crisi dell’autoritarismo abbia necessariamente portato al sorgere di regimi democratici liberali, e che le risultanti democrazie siano necessariamente sicure.

liberale e degli Usa, diffusasi dopo la fine della guerra fredda. Kupchan sostiene, invece, che l’ordine mondiale creatosi dopo l’89, con un predominio unilaterale statunitense, non è destinato a durare a lungo, ma piuttosto a lasciare il posto ad un periodo di instabilità internazionale, in cui la posizione dominante degli Usa sarà messa in crisi dall’ascesa di altri soggetti, dalla Cina all’Europa.

Durante la guerra fredda, il compito di formulare una grande strategia era certamente più facile di quanto non lo sia ora. La stessa esistenza dell’Unione Sovietica costringeva a rifletterci sopra. L’immediatezza della minaccia posta dal comunismo richiedeva con urgenza di sviluppare una visione strategica. E questa minaccia dava una definizione naturale della mappa americana del mondo. La principale linea di frattura del mondo giaceva lungo il confine tra le due Germanie. Le democrazie atlantiche erano a Occidente, il nemico a Oriente. Buona parte del mondo ricadde automaticamente entro uno di questi due blocchi. [...] Oggi non esiste un grande avversario o una minaccia incombente capace di fornire un punto di partenza già confezionato per la nuova mappa americana del mondo. Gli americani giustamente si preoccupano del terrorismo. Ma questa minaccia è sfuggente e vaga, per cui contribuisce più a offuscare che non a chiarire il panorama strategico. Responsabili degli atti terroristici sono gruppi criminali, non Stati [...] Siamo ora nel momento unipolare americano. Gli Stati Uniti spendono per la difesa più delle altre maggiori potenze messe insieme, e investono in ricerca e sviluppo nel settore militare più del resto del mondo. L’economia americana è più del doppio rispetto a quella del più diretto concorrente (il Giappone). Il valore di mercato di imprese come la Microsoft e la General Electric è maggiore dell’economia nazionale di molti paesi. [...] La stabilità relativa dell’era presente trae origine non solo dalle risorse a disposizione degli Stati Uniti, ma anche dalla volontà di usarle. Si sono presi la responsabilità di tenere sotto controllo virtualmente ogni angolo del globo. Le forze americane mantengono la non facile pace in Estremo Oriente, proteggendo la Corea del Sud dal regime del Nord, tenendo sotto controllo le tensioni tra la Cina e il Giappone e cercando di promuovere l’indipendenza de facto di Taiwan senza stuzzicare Pechino.

L’America mantiene ancora una presenza consistente di truppe in Europa per assicurare la stabilità sul Continente. Quando i Balcani furono in preda al conflitto etnico, negli anni Novanta, furono in ultima istanza gli Stati Uniti a venire in soccorso. Il contenimento dell’Iraq nel decennio scorso ricadde principalmente sulle spalle degli Stati Uniti. L’America guidò la carica contro i network terroristici e i loro sostenitori in Afghanistan nel 2001. [...] Anche quando non hanno agito apertamente, gli Stati Uniti hanno condotto e scritto le regole del gioco da dietro le quinte. La NATO, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale, l’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio sono tutte organizzazioni complesse, con molti membri e sofisticate regole decisionali. Ma gli Stati Uniti esercitano silenziosamente un’influenza dominante anche su di loro. L’amministrazione Clinton pensava che la NATO dovesse aumentare il numero dei membri. Pochi anni dopo, Washington fu sede di una cerimonia di benvenuto per la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica ceca. [...] Gli attacchi terroristici a New York e Washington, per quanto abbiano mostrato che la supremazia americana non le assicura in alcun modo l’invulnerabilità, furono in realtà un’ulteriore conferma della superiore influenza degli Stati Uniti. Al Qaeda ha diretto la sua ira contro l’America precisamente perché l’onnipresenza e la ricchezza americana ne fanno il logico capro espiatorio per ogni male del mondo islamico. In virtù della sua presenza militare in Arabia Saudita, l’America è l’infedele che calpesta il sacro suolo. È la diffusione depravante della cultura americana che impedisce ai valori e alla pratica dell’Islam di avere una presa maggiore. Così l’America è da biasimare anche per la condizione della Palestina e la straziante povertà che persiste in gran parte del mondo islamico. Il momento unipolare dell’America ne fa il primo obiettivo per la vendicativa ideologia che emerge da

questo mix di fanatismo religioso e disimpegno sociale. [...] L’unipolarismo è un dato di fatto, ma non durerà a lungo. [...] Mano a mano che le risorse dell’UE crescono e gli organi governativi a Bruxelles incrementano la loro autorità, l’influenza sarà distribuita più equamente tra le due sponde dell’Atlantico. Europa e America potranno condividere tradizioni democratiche. Ma più l’Europa diventa forte e integrata, più vorrà una voce in capitolo proporzionata alla sua nuova posizione. [...] Le nazioni dell’Estremo Oriente sono indietro di molti anni rispetto a questo storico processo di integrazione che ha portato pace e prosperità in Europa. Ciononostante, la regione ha un grande potenziale economico. Il Giappone già possiede una forza lavoro altamente istruita e specializzata, una base industriale e tecnologica avanzata, e una rete di mercato ben sviluppata. [...] Nel corso del decennio passato, la Cina godeva di un tasso di crescita economica pari a circa il 10% all’anno. Secondo le stime della Banca Mondiale, entro il 2020, «la Cina potrebbe essere il secondo maggiore esportatore e importatore del mondo. I suoi consumatori potrebbero avere un potere d’acquisto maggiore di quello di tutti gli europei. Il coinvolgimento della Cina nei mercati finanziari mondiali, come utente e fornitore di capitale, eguaglierà quello dei maggiori paesi industrializzati». A un certo punto, in questo nuovo secolo, l’Estremo Oriente, analogamente all’Europa, emergerà come contrappeso all’America.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea le differenze fra la situazione durante la guerra fredda e quella descritta dall’autore.  b  Spiega per iscritto in cosa consiste l’influenza dominante esercitata dagli Stati Uniti, su chi si estende e quali ne sono le conseguenze.  c  Evidenzia i motivi per cui l’unipolarismo, secondo l’autore, non è destinato a durare a lungo e quali saranno le conseguenze.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di massimo 20 righe dal titolo La ex Jugoslavia in guerra facendo riferimento al brano di Mazower [►153] e alla testimonianza di Filipovic´ [►154d]. Evidenzia i concetti che intendi

utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.

831

FARESTORIA IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA

2 Scrivi un testo di non più di 30 righe dal titolo Il crollo del muro di

Berlino fra speranze e difficoltà. Fai riferimento alla testimonianza di Darnton [►150d] e al brano di Maier [►151] per mettere in rilievo i sentimenti che la popolazione visse con la caduta del muro e i problemi che si dovettero poi affrontare. Prima di procedere con la scrittura, seleziona per ogni testo delle parole o frasi chiave. Utilizza queste ultime come guida per il tuo lavoro citando il brano da cui le hai estrapolate e arricchendo la trattazione con esempi diretti.

3 Leggi con attenzione il cappello introduttivo del percorso e

schematizzane i contenuti evidenziando l’idea centrale affrontata in questa sezione e il rapporto fra questa e i brani presentati. Utilizza il tuo schema come scaletta per realizzare un testo descrittivo di circa 30 righe sulle manifestazioni locali della crisi del comunismo mettendo in rilievo come le questioni affrontate dai diversi brani siano diramazioni di un unico tema centrale. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e ricordati di citare opportunamente i testi.

L’UNIONE EUROPEA Dal Trattato di Roma del 1957 all’avvio della circolazione dell’euro nel 2002, l’integrazione dell’Europa ha compiuto progressi notevoli. I successi raggiunti sono evidenti, ma anche i limiti di un processo ancora in corso. La sezione ripercorre le tappe fondamentali della costruzione europea e guarda agli sviluppi più recenti, fino all’allargamento dell’Unione negli anni 2000. Il percorso si apre con il preambolo e i primi articoli del Trattato di Roma [►157d], che istituiva la Comunità economica europea. Segue un brano di una delle personalità che diedero maggiore impulso all’idea di un’Europa unita, Altiero Spinelli [►158d] che a fine anni ’70 insisteva sulla necessità di una maggiore integrazione politica fra i diversi paesi. Il Trattato di Maastricht [►159d], i cui obiettivi sono qui illustrati in una nota del governo italiano, rappresentò nel 1992 una tappa cruciale, soprattutto, ma non solo, nel campo dell’integrazione economica. Sul significato di Maastricht e sui comparti assegnati alle diverse istituzioni europee riflette lo storico Mark Gilbert [►160], mentre Leonardo Rapone [►161] si concentra sulle tappe, le difficoltà e l’importanza dell’allargamento dell’Unione europea, realizzatosi negli anni 2000.



157d IL TRATTATO DI ROMA

Comunità economica europea e Euratom. Trattati e documenti annessi, Cedam, Padova 1957, pp. 5-7.

Dopo la formazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), Francia, Italia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo firmarono a Roma nel 1957 il trattato istitutivo della Comunità economica europea (Cee). Veniva così avviato un lento e progressivo processo di inte-

832

Sua Maestà il Re del Belgio, il Presidente della Repubblica federale di Germania, il Presidente della Repubblica francese, il Presidente della Repubblica italiana, Sua Altezza la Granduchessa del Lussemburgo, Sua Maestà la Regina dei Paesi Bassi, Determinati a porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli europei, Decisi ad assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e sociale dei loro paesi, eliminando le barriere che dividono l’Europa, Assegnando ai loro sforzi per scopo es-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

grazione delle economie degli Stati europei, con lo scopo di abbattere barriere doganali e ostacoli alla libera circolazione di merci e persone. Nel progetto dei fondatori, la Cee era il primo passo verso la realizzazione di un’unione politica europea, che avrebbe incontrato invece resistenze e difficoltà. In queste pagine sono riportati il preambolo e i primi articoli del trattato, che evidenziano i princìpi ispiratori e le finalità della Comunità economica europea.

senziale il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei loro popoli, Riconoscendo che l’eliminazione degli ostacoli esistenti impone un’azione concertata intesa a garantire la stabilità nella espansione, l’equilibrio negli scambi e la lealtà nella concorrenza, Solleciti di rafforzare l’unità delle loro economie e di assicurarne lo sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite, Desiderosi di contribuire, grazie a una

politica commerciale comune, alla soppressione progressiva delle restrizioni agli scambi internazionali, Nell’intento di confermare la solidarietà che lega l’Europa ai paesi d’oltremare e desiderando assicurare lo sviluppo della loro prosperità conformemente ai principî dello Statuto delle Nazioni Unite, Risoluti a rafforzare, mediante la costituzione di questo complesso di risorse, le difese della pace e della libertà e facendo appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale, perché si associno al loro sforzo,

Hanno deciso di creare una Comunità Economica Europea [...]. Princìpi Art. 1. Con il presente Trattato, le Alte Parti Contraenti istituiscono tra loro una Comunità economica europea. Art. 2. La Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’instaurazione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano. Art. 3. Ai fini enunciati all’articolo precedente, l’azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo previsto dal presente Trattato:

a) l’abolizione fra gli Stati membri dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all’entrata e all’uscita delle merci, come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente, b) l’istituzione di una tariffa doganale comune e di una politica commerciale comune nei confronti degli Stati terzi, c) l’eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone, dei servizi o dei capitali, d) l’instaurazione di una politica comune nel settore dell’agricoltura, e) l’instaurazione di una politica comune nel settore dei trasporti, f) la creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune, g) l’applicazione di procedure che permettano di coordinare le politiche economiche degli Stati membri e di ovviare agli squilibri nelle loro bilance dei pagamenti, h) il ravvicinamento delle legislazioni na-

158d ALTIERO SPINELLI PER L’UNIONE POLITICA EUROPEA



A. Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, il Mulino, Bologna 1979, pp. 197-211.

Altiero Spinelli (1907-1986) fu il più attivo e coerente assertore in Italia degli ideali europeisti e federalisti. Condannato dal regime fascista al confino, scrisse con Ernesto Rossi il Tutto ciò che è stato finora realizzato della visione dell’Europa è la Comunità europea. [...] La Comunità non ha mai superato, in realtà, il livello di un’unione doganale, avente come corollario un’organizzazione dei mercati agricoli, una legislazione antimonopolistica, una modesta azione sociale comune e, recentemente, anche regionale. [...] Tuttavia, al di là del suo contenuto reale e delle sue crisi, la sua esistenza stessa esprime con vigore un fatto nuovo nella storia dei nostri popoli; la costruzione della loro unità mediante limitazioni della sovranità, decise liberamente, ha cessato di essere un’utopia ed è diventata da 25 anni un compito politico reale ed attuale. [...] Dalla fine della guerra i paesi della Comunità hanno basato la loro sicurezza militare sull’Alleanza atlantica e la sicurezza del mercato mondiale sull’utilizzazione universale del dollaro come strumento della liquidità monetaria internazionale. L’Alle-

zionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune, i) la creazione di un fondo sociale europeo, allo scopo di migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori e di contribuire al miglioramento del loro tenore di vita, j) l’istituzione di una Banca europea per gli investimenti, destinata a facilitare l’espansione economica della Comunità mediante la creazione di nuove risorse, k) l’associazione dei paesi e territori d’oltremare, intesa ad incrementare gli scambi e proseguire in comune nello sforzo di sviluppo economico e sociale. METODO DI STUDIO

 a  Cerchia i nomi degli Stati aderenti.  b Sottolinea le motivazioni e gli obiettivi che

gli Stati aderenti affermano di voler perseguire.  c  Segna con colori diversi le iniziative di tipo economico e le questioni sociali affrontate dal documento. Quindi sottolineane alcuni esempi.

Manifesto di Ventotene (1941), un documento programmatico sul progetto di unione dell’Europa, che ebbe una vasta eco nel dopoguerra. Il brano qui riportato è tratto da una relazione presentata da Spinelli nel 1975 al congresso dell’Unione europea dei federalisti. Si evidenziano le debolezze della Cee e la necessità di costruire un’integrazione politica europea.

anza atlantica era ed è ancora una necessità imposta dall’equilibrio mondiale. [...] Se in Europa le politiche estera, militare, monetaria ed energetica continuano ad essere prerogative nazionali, se non viene compiuto nessuno sforzo per metterle in comune ed affidarle ad un’autorità comune, la sola politica possibile sarà che ciascuno Stato cerchi per conto proprio di sviluppare relazioni particolari con l’America [...]. Soltanto il ripristino dell’indipendenza potrebbe dare nuovamente agli europei quel senso della dignità e del rispetto di se stessi che consente alle alleanze di essere delle partnership tra uguali, all’interdipendenza economica di funzionare per il vantaggio reciproco. Ma per ripristinare tale indipendenza è necessario che la Comunità progredisca, senza eccessivi indugi, al di là delle sue strutture attuali, che non le consentono di avere una politica estera, una difesa comune, una moneta

propria ed una politica energetica comune. La Comunità non potrà sopravvivere a lungo se non compie questo balzo in avanti, e con lei scomparirà l’indipendenza stessa dei nostri popoli.[...] L’Europa politica può nascere soltanto da un patto politico che abbracci la maggior parte del popolo europeo. Ma il nostro appello deve rivolgersi in primo luogo alle forze che sono più impegnate nelle lotte di trasformazione della nostra società, poiché l’Europa nascerà [...] per trasformare molto più che per conservare.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea gli elementi di forte novità apportati nella storia dei popoli europei con la Comunità europea.  b Spiega quali sono secondo Spinelli le condizioni necessarie per la nascita dell’Europa politica.

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FARESTORIA L’UNIONE EUROPEA



159d IL TRATTATO DI MAASTRICHT

«Vita italiana», marzo-aprile 1992, pp. 16-18.

Il trattato di Maastricht, firmato nel 1992, rappresenta un decisivo passo avanti per l’unione economica e politica dell’Europa. Con questo documento è stato approvato un programma di riforme che prevede la realizzazione della moneta comune e della banca europea, l’avvio dell’integrazione della politica estera e di difesa, l’istituzione di una cittadinanza

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L’Unione si prefigge i seguenti obiettivi: – promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità delle disposizioni del presente Trattato; – affermare la sua identità sulla scena internazionale, segnatamente mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre ad una difesa comune; – rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione; – sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni [...]. Rispetto ai precedenti trattati istitutivi delle Comunità Europee e all’Atto Unico europeo che li completava, il Trattato di Maastricht si presenta con caratteristiche «sui generis» e con obiettivi di larga portata che trascendono le relazioni economico-commerciali, che finora avevano costituito la base della attività comunitaria. Esso estende infatti il campo di azione dell’Unione a settori finora riservati alla esclusiva competenza statale, simboleggianti l’espressione stessa della sovranità (quali la moneta, la politica estera, la difesa, la cooperazione in materia giudiziaria e di polizia), rafforza ed estende i settori classici della cooperazione comunitaria a nuove aree, introduce una serie di clausole evolutive che permetteranno a scadenze predeterminate un ulteriore impulso al processo di integrazione. L’appuntamento che i Dodici si erano dati a Maastricht era ineludibile: la Comunità doveva rafforzare la sua struttura e le sue istituzioni per far fronte alle nuove responsabilità alle quali è chiamata nella scena internazionale dal dissolversi

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

europea, lo sviluppo di una cooperazione negli affari interni e nell’amministrazione della giustizia. Tra gli obiettivi dell’Unione c’è anche il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. In questo documento, tratto da una pubblicazione della Presidenza del Consiglio italiana, sono illustrate le finalità del trattato e ne vengono evidenziati gli aspetti innovativi per la politica europea.

dell’Impero sovietico e della stessa Urss e prepararsi adeguatamente ad affrontare la prospettiva del suo allargamento verso i Paesi dell’Efta1 prima e quelli dell’Europa Orientale in un secondo momento. Un fallimento avrebbe avuto conseguenze negative incalcolabili: se al processo di disintegrazione politico, culturale ed anche territoriale dell’ex Impero sovietico non avesse corrisposto un processo di rafforzata integrazione volto a incanalare verso nuove forme di cooperazione i rapporti tra gli Stati eredi dei passati regimi, la stabilità stessa del nostro Continente sarebbe stata messa a repentaglio. La riorganizzazione di questo nuovo spazio europeo investirà dimensioni fondamentali come la sicurezza, la politica estera, l’economia, la cultura e l’ambiente. Si consideri innanzitutto l’Unione Economica e Monetaria. Nessuno avrebbe immaginato ancora qualche mese fa una simile rinuncia di sovranità da parte dei Dodici Stati membri. L’Unione monetaria in uno scorcio di millennio dominato dall’economia, avrà una straordinaria forza trainante. La creazione di una moneta unica e di una Banca unica imporrà all’Europa nuove responsabilità nei confronti dell’area del dollaro e dello yen. L’Unione Economica e Monetaria rappresenterà un esempio di coordinamento delle politiche economiche al quale potranno ispirarsi altri accordi di cooperazione regionale oppure internazionale. Vi è poi, come grossa novità, la politica estera e di sicurezza comune, che ingloberà a termine anche una politica comune di difesa. Essa rappresenta una elevazione della dimensione politica della Comunità introducendo nella logica comunitaria, sia pure con regole particolari, materie rimaste finora nel limbo della cooperazione intergovernativa. La logica dei trattati viene inoltre estesa a materie non o non sufficientemente comprese nell’ambito comunitario,

ma intrinsecamente collegate al tronco principale dell’integrazione: si pensi soprattutto alla cooperazione in materia di affari interni e di giustizia, alla lotta contro la droga, il terrorismo e la criminalità organizzata. Un terzo elemento di innovazione che avrà un effetto trainante nel processo di integrazione è rappresentato dalla creazione di una cittadinanza dell’Unione, con precisi diritti, tra i quali il diritto di voto anche se inizialmente previsto solo per le elezioni municipali e del Parlamento Europeo. Sul piano istituzionale il nuovo Trattato provvede a colmare il deficit democratico più volte lamentato da ampi settori dell’opinione pubblica europea, attribuendo al Parlamento Europeo un ruolo qualificante nel processo legislativo comunitario e accentuando la responsabilità della Commissione2 nei suoi confronti. Il miglioramento dell’assetto istituzionale comunitario si tradurrà inoltre in un più frequente ricorso al voto a maggioranza qualificata3 in Consiglio che agevolerà la presa di decisione da parte dei Dodici. La Comunità compie inoltre un salto di qualità di enorme portata rafforzando l’estensione delle competenze relative ad aree decisive per lo sviluppo dell’economia europea e per la qualità della vita dei cittadini degli Stati membri. Basti citare la politica sociale, la ricerca, l’ambiente, la protezione dei consumatori, la cultura e la sanità. Essa non vuole più essere una Comunità solo mercantile

1. L’Associazione europea di libero scambio, fondata nel 1959 come risposta alla Cee, comprendeva i paesi scandinavi, l’Austria, la Svizzera, la Gran Bretagna e la Danimarca. Successivamente molti di questi paesi avrebbero aderito alla Cee. 2. L’organo comunitario cui spettano i compiti esecutivi. 3. In precedenza era richiesta l’unanimità per gran parte delle deliberazioni.

ma un organismo a vocazione federale che si preoccupa del benessere dei propri cittadini e delle sue regioni più povere. Per questa ragione il nuovo Trattato dedica ampio spazio alla coesione economica e sociale prevedendo adeguati mezzi finanziari. Le decisioni prese a Maastricht avranno effetti immediati sulla vita politica dei singoli Stati membri ed imporranno scelte determinanti per tutta la prossima legislatura. L’Agenda tracciata con il nuovo Trattato riempie i programmi di

ogni governo europeo e sarà un punto di riferimento imprescindibile per quello italiano. Si pensi soltanto agli impegni in materia di convergenza economica e monetaria, alle scadenze relative al completamento del mercato interno, alle elezioni del nuovo Parlamento Europeo, alla messa in opera del mecca­nismo per il funzionamento della politica estera di sicurezza e difesa comune, alla progressiva comunitarizzazione degli affari interni e giudiziari che dovrebbe prefigurare entro il 1994

160 M. GILBERT IL SIGNIFICATO DI MAASTRICHT E LE ISTITUZIONI EUROPEE



M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 184-91.

Lo storico delle relazioni internazionali Mark Gilbert (nato nel 1961) si è occupato di storia dell’integrazione europea, guarDivenne presto chiaro agli occhi dell’opinione pubblica europea che Maastricht portava alla più larga cessione volontaria di sovranità nazionale della storia da parte di Stati nazione. Ogni Stato membro, a eccezione di Gran Bretagna e Danimarca, cedeva lo storico diritto di decidere la propria politica monetaria; ogni Stato, eccetto la Gran Bretagna, riconosceva che si sarebbe adeguato agli standard comunitari nel campo della politica sociale. Gli europei, abituati a lungo a considerarsi belgi, spagnoli, italiani o tedeschi, scoprirono di essere stati trasformati – a quanto pareva, dalla sera alla mattina – in cittadini dell’Unione europea (UE). Il trattato sull’Unione europea fu presentato come un dato di fatto dalla classe politica dei Dodici. [...] La diffusa convinzione che Maastricht fosse stato imposto ai popoli europei era in qualche modo ironica, poiché una delle principali preoccupazioni del trattato era di rendere le istituzioni dell’integrazione europea meno lontane dai cittadini. Il preambolo del trattato sottolineava il fatto che la decisione di istituire l’Unione europea avrebbe segnato una «nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni sarebbero state prese il più vicino possibile ai cittadini». [...] La principale novità del trattato di Maastricht era l’unione economica e moneta-

la creazione di una polizia europea denominata «Europol». METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea gli obiettivi che mirano a trasformare la comunità economica in soggetto politico.  b   Evidenzia ciò che rende, secondo gli autori, ineludibile l’incontro di Maastricht.  c    Spiega per iscritto quale importanza viene attribuita all’Unione monetaria, quale compito viene assegnato alle istituzioni politiche e quali prerogative della sovranità nazionale sono assunte dall’Unione dopo Maastricht.

dando al suo lungo percorso, nel contesto dei cambiamenti geopolitici ed economici. Nel brano scelto analizza le novità contenute nel trattato di Maastricht, con particolare attenzione ai compiti della Banca centrale europea. Guarda poi al funzionamento e alle prerogative di questa istituzione, come della Commissione e del Parlamento europeo.

ria. In sostanza, i contraenti concordavano di muoversi verso l’UEM in tre fasi. La fase 1 doveva iniziare il 1° luglio 1990. La fase 2 sarebbe partita il 1° gennaio 1994, secondo la decisione del summit di Roma dell’ottobre 1990. Nella seconda fase, si sarebbe dovuto creare un Istituto Monetario Europeo (IME). [...] Nella fase 3 dell’UEM, sarebbe stata fondata la Banca Centrale Europea (BCE). Il suo obiettivo primario sarebbe stato condurre la politica monetaria in modo da mantenere la stabilità dei prezzi. La sua indipendenza dall’interferenza politica doveva essere assoluta. [...] A differenza sia della Bundesbank che della Federal Reserve statunitense, la BCE non era soggetta al potere di una legislazione nazionale che potesse emendare i suoi poteri statuali. L’unico cenno alla responsabilità, contenuto nel protocollo, era la richiesta che la BCE pubblicasse rapporti trimestrali e fornisse una relazione annuale completa sulla sua attività agli altri organi dell’UE. Il presidente della BCE doveva presentare il rapporto annuale al Parlamento Europeo, che sarebbe poi stato discusso. Si trattava di una patina democratica davvero sottile. Il Parlamento Europeo non aveva il potere di emendare lo statuto della Banca o di censurare le istituzioni ei funzionari che la dirigevano. In breve, le nazioni della nuova Unione avevano affidato il delicato

compito di gestire la crescita economica a un ristretto gruppo di banchieri professionisti che, per formazione, cultura e convinzioni personali, erano fortemente predisposti a fare della stabilità monetaria un obiettivo primario. Era una strana abdicazione di responsabilità. Se la ricerca della stabilità monetaria della BCE avesse dovuto deprimere l’attività economica e condurre alla stagnazione, coloro che avrebbero dovuto prendersi la responsabilità della conseguente disoccupazione sarebbero stati proprio i politici europei. La BCE fu di gran lunga la più importante innovazione istituzionale del trattato di Maastricht. [...] Ciononostante, al Parlamento europeo vennero garantiti nuovi significativi poteri. Il Parlamento ottenne il diritto alla «co-decisione» (veto). Esso avrebbe avuto così l’ultima parola su tutta la legislazione concernente il libero movimento dei lavoratori, la fornitura dei servizi, la cultura, i programmi educativi (quali gli scambi fra studenti finanziati dalla Comunità), la tutela dei consumatori, le infrastrutture transeuropee, il complesso programma comunitario teso a stimolare la ricerca e lo sviluppo scientifici e, soprattutto, le misure che armonizzassero la legislazione nazionale per gli scopi del mercato unico. Il Parlamento ottenne anche il diritto di richiedere alla Commissione di sottoporre nuove proposte politiche (anche

835

FARESTORIA L’UNIONE EUROPEA

se il diritto di proporre esso stesso delle misure legislative) [...]. Al Parlamento venne dato il nuovo e importante potere di approvare, con voto di fiducia, la nuova Commissione, mentre la durata del mandato della Commissione fu estesa a cinque anni, allo scopo di farla coincidere con quella del mandato parlamentare. Nel complesso, rafforzando le istituzioni sopranazionali della Comunità, il trattato di Maastricht diede nuova autorità alla legislatura della Comunità, piuttosto che al suo esecutivo. [...] Crebbe il numero di ambiti nei quali si decidevano le politiche a livello comunitario. Alla Commissione venne dato il po-

tere di proporre politiche comuni in aree ben determinate per quanto concerneva l’istruzione, la cultura, l’ambiente, la salute, i trasporti e le telecomunicazioni. [...] Un’ultima caratteristica del trattato di Maastricht che merita un’approfondita discussione è l’inclusione della Giustizia e degli Affari interni come secondo pilastro. Il trattato sull’UE stabiliva che una cooperazione strettamente intergovernativa doveva procedere in un’ampia gamma di ambiti. I Dodici concordarono che la politica di asilo, le questioni relative ai confini e all’immigrazione, le frodi internazionali, la cooperazione giudiziaria sia in cause civili che penali, la cooperazione

delle dogane e la condivisione dei servizi segreti di polizia erano tutti ambiti di interesse comune e potevano essere oggetto, una volta ottenuta l’unanimità degli Stati membri, di un’azione unitaria da parte degli stessi Stati.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea gli obiettivi del trattato di Maastricht descritti e spiega che effetti ebbero sulle popolazioni nazionali.  b  Evidenzia le principali caratteristiche del trattato e sintetizzane per iscritto i contenuti.  c  Spiega cosa è la Bce, quali sono le sue funzioni e qual è il suo rapporto con il Parlamento europeo.

LEGGERE UNA FONTE ICONOGRAFICA 14 FRITZ BEHRENDT VIGNETTA PER LA «FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG», 9 GIUGNO 1979 Il giorno antecedente le prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, il quotidiano tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung» pubblicò questa vignetta, che raffigura le elezioni come la storica opportunità offerta ai cittadini delle nazioni facenti parti della Comunità europea di mettere fine ai conflitti di più o meno recente data. Un uomo e una donna stanno per esprimere il loro voto, applauditi e guardati con aria soddisfatta dai combattenti delle diverse battaglie (sotto elencate) che per secoli hanno alimentato l’astio tra i popoli europei. GUIDA ALLA LETTURA

 a   Cerchia coloro che stanno compiendo l’azione oggetto della vignetta e indica di che azione si tratta specificando gli elementi grafici che ti permettono di rispondere.  b   Evidenzia le scritte che compaiono e spiega a cosa fanno riferimento.  c   Spiega chi sono i personaggi disposti in un’unica schiera, cosa stanno facendo e perché.  d   Sintetizza per iscritto il messaggio della vignetta e spiega in quale occasione è stata realizzata.



161 L. RAPONE L’ALLARGAMENTO DELL’UE

L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Carocci, Roma 2015, pp. 142-46.

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Lo storico Leonardo Rapone (nato nel 1952) si è a lungo interessato del processo di integrazione europea, a cui ha dedi-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

cato il volume da cui abbiamo tratto il brano che segue. Nel passo scelto Rapone si concentra sull’allargamento dell’Unione europea, con le trattative e l’ingresso (nel 2004 e nel 2007) di nuovi Stati, in gran parte dall’Est Europa, analizzando sia le difficoltà di questo processo, sia la sua portata storica.

I negoziati per l’allargamento furono l’impegno più arduo a cui la Commissione guidata da Prodi dovette far fronte; la loro positiva conclusione fu pertanto il successo maggiore che essa e il suo presidente riuscirono a conseguire. La laboriosità dell’impresa dipese dalla numerosità dei paesi con cui i negoziati dovettero essere condotti simultaneamente e dalla complessità dell’adeguamento agli standard comunitari richiesto a ciascuno di loro. Nove anni dopo l’enunciazione dei “criteri di Copenaghen” cui aveva preso avvio il progetto del grande allargamento, il Consiglio europeo (di nuovo a Copenaghen, dicembre 2002), prendendo atto delle risultanze del lavoro della Commissione e delle indicazioni da questa formulate, nonché del via libera al Trattato di Nizza finalmente venuto dall’Irlanda, ammise all’adesione dieci Stati: Cipro, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Il relativo trattato venne firmato ad Atene nell’aprile 2003 ed entrò in vigore il 1° maggio 2004: da questa data l’Ue contò 25 membri, che divennero 27 il 1° gennaio 2007, per effetto del trattato di adesione firmato nell’aprile 2005 a Lussemburgo anche con la Bulgaria e la Romania, chiamate a sforzi supplementari per allinearsi agli standard europei. L’integrazione economica tra i Quindici e i paesi in attesa di adesione aveva però fatto notevoli progressi già prima del compimento formale dell’allargamento, grazie ad accordi di liberalizzazione del commercio che avevano permesso sin dagli ultimi anni Novanta una crescita significativa dell’interscambio di manufatti, con beneficio soprattutto, anche se non esclusivo, delle esportazioni dei paesi già membri dell’UE. [...] D’altra parte le economie dei paesi candidati, sin da quando erano stati messi in cantiere i negoziati di adesione, avevano beneficiato di consistenti programmi di aiuto da parte dell’UE, che nel caso degli Stati dell’ex blocco sovietico avevano contribuito alla risalita degli indici produttivi e del reddito nazionale dopo gli sconvolgimenti connessi alla transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato. Malgrado i progressi comunque, tutti gli indicatori economici dei dodici nuovi membri risultavano ancora al di sotto delle medie dell’UE, e anche i più avanzati tra loro, come Cipro e la Slove-

nia, presentavano indici inferiori a quelli della Grecia, il più arretrato dei Quindici. L’amalgama dell’UE a 27 risultava quindi segnato da persistenti, forti squilibri economico-sociali; a limitare la possibilità che ne derivassero massicci spostamenti migratori per effetto di uno dei principi basilari dell’integrazione, quello della libera circolazione delle persone, si previde che gli Stati già membri dell’UE per un periodo fino a sette anni avrebbero potuto imporre delle restrizioni all’accesso dei lavoratori provenienti dai nuovi aderenti. Si stabilì infine che tutti i nuovi Stati membri avrebbero adottato l’euro una volta allineatisi ai criteri finanziari e istituzionali dell’Unione economica e monetaria. Il primo a introdurre la moneta comune fu nel 2007 la Slovenia; seguirono Cipro e Malta (2008), la Slovacchia (2009), l’Estonia (2011), la Lettonia (2014) e la Lituania (2015). Diversi governi dei nuovi Stati dell’UE sottoposero l’adesione a referendum di ratifica. Ovunque l’adesione fu approvata, ma la partecipazione al voto fu scarsa, soprattutto in alcuni dei paesi più popolosi (in Ungheria, dove si toccò il livello più basso, restò al di sotto del 50%). In occasione delle elezioni del Parlamento europeo del 2004, le prime a cui parteciparono i nuovi elettorati, i votanti nei dieci paesi appena entrati nell’UE furono nel complesso solo poco più di un quarto del corpo elettorale, una frazione di gran lunga inferiore a quella, pari quasi alla metà degli elettori e di per sé certo non brillante, dei paesi di più vecchia adesione (ciò fece sì che quelle elezioni registrassero complessivamente una percentuale di votanti del 45,5%, rispetto al 49,5% del 1999; mentre per quanto riguarda la distribuzione dei consensi fu ancora più marcata rispetto al 1999 la prevalenza del Partito popolare, che ottenne il 37% dei seggi, mentre ai socialisti andò il 27%). Il fervore europeistico nell’Europa centro-orientale era in ribasso rispetto agli anni in cui l’accesso all’UE era stato visto come la controprova della parità di status tra le due metà del continente. Mentre era in corso il lungo negoziato di adesione quegli Stati avevano trovato anche altre vie, e meno impervie, per inserirsi pienamente nelle dinamiche internazionali, e l’UE non era più il solo punto di riferimento. Come aveva dimostrato la vicenda irachena la NATO (il cui allargamento a Bulgaria, Estonia,

Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia si completò nel 2004, alla vigilia del passaggio dell’UE da 15 a 25, mentre Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria facevano parte dell’alleanza già dal 1999) e il rapporto con gli USA potevano anzi essere una fonte di maggiori gratificazioni per il sentimento nazionale di quei paesi, i quali, da poco recuperata la piena sovranità dopo oltre un quarantennio di sudditanza all‘URSS, non avvertivano un particolare slancio verso l’esercizio di forme di sovranità condivisa o le cessioni di sovranità che implicava il processo di integrazione europea. Non a caso, negli anni successivi, a svolgere una funzione di freno nell’UE in nome delle prerogative nazionali sarebbero stati, accanto ai britannici, proprio alcuni leader politici centro-orientali. Malgrado questa opacità l’allargamento a Est fu una pagina di portata storica del processo di integrazione europea, una svolta nella storia d’Europa paragonabile per radicalità e significatività alla riconciliazione franco-tedesca che aveva innervato gli esordi dell’esperienza comunitaria. Non solo si sanava la frattura tra le due Europe provocata dalla guerra fredda, ma per la prima volta l’appartenenza dell’Occidente e dell’Oriente europeo a una medesima entità spirituale trovava riscontro in una comune organizzazione politica, basata su principi e comportamenti comuni. Nel corso dei secoli singole parti dell’Europa centro-orientale avevano ripetutamente percorso tratti di storia al fianco dell’Occidente, concorrendo in modo anche decisivo a forgiarne il destino; ma altrettanto ciclicamente erano poi riemerse le tendenze all’estraneazione e alla separazione. Ora invece si era stretto un legame istituzionale che ambiva a essere permanente e a dar vita a una effettiva comunità di destini. Il processo di integrazione si emancipava definitivamente dalle sue origini, legate alla divisione dell’Europa dopo il 1945 e alle dinamiche da questa suscitate nella metà occidentale del continente, e diveniva “europeo” nel senso proprio e pieno del termine; mentre nella parte centro-orientale, in cui la democrazia, anche prima del 1945, aveva messo solo deboli radici, e che era stata storicamente teatro di conflittualità interetniche e di comportamenti persecutori nei confronti delle minoranze, l’aggancio al resto dell’Europa si presentava come

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FARESTORIA L’UNIONE EUROPEA

completamento della svolta del 1989 e consolidamento di un corso storico libero dalle ipoteche del passato più o meno recente. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, però, non sempre le aspettative avrebbero trovato conferma negli sviluppi successivi. In particolare in Ungheria, con l’avvento del governo guidato dal conservatore nazionalista Viktor Orban (2010), si sarebbe delineata una

regressione verso forme di potere illiberali, con riduzione del pluralismo e dei diritti democratici, in spregio ai principi fondamentali dell’UE, senza però alcuna significativa reazione da parte delle istituzioni europee, malgrado la possibilità introdotta dal Trattato di Amsterdam di adottare apposite misure contro le violazioni della democrazia negli Stati membri.

METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea gli effetti economici dell’ingresso nell’Unione europea per i nuovi Stati membri. Quindi descrivi i risultati dell’«amalgama dell’UE a 27».  b  Evidenzia quello che, secondo l’autore è stato il valore dell’allargamento a Est dell’integrazione europea.  c  Sottolinea con colori diversi le regressioni politiche di alcuni nuovi Stati aderenti dopo il loro ingresso nell’Unione e la reazione delle istituzioni europee.

PISTE DI LAVORO

DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un brano di circa 20 righe che partendo dalle considerazioni di Spinelli [►158d] descriva i risultati raggiunti e le difficoltà incontrate dall’integrazione europea. Evidenzia nel documento i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.

2 Scrivi un testo di massimo 30 righe sul significato del trattato

di Maastricht come tappa della costruzione di una realtà comunitaria d’Europa. Prima di procedere con la scrittura rileggi con attenzione il testo del trattato [►159d] e le riflessioni di Gilbert [►160] e individua i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo discorso. Trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale. Rispondi quindi alla consegna con un testo di non più di 25 righe costruito sulla base della mappa da te realizzata.

LE TRASFORMAZIONI DELL’ITALIA Questa sezione è dedicata all’Italia di fine ’900 e alle trasformazioni politiche, economiche e sociali che ne segnarono il percorso. La sezione si apre con un brano di Vittorio Vidotto [►162] che ci aiuta a individuare i tratti distintivi di un periodo (quello che va dal 1968 al 1980) caratterizzato da una forte conflittualità. I sociologi Donatella Della Porta e Maurizio Rossi [►163] analizzano le origini e le motivazioni del fenomeno del terrorismo, di destra e di sinistra. Lo storico Agostino Giovagnoli [►164] ci riporta al 1978 e alla vicenda drammatica del rapimento di Aldo Moro, conclusasi con l’uccisione dello statista. Di seguito è riportato il testo dell’appello di papa Paolo VI [►165d] per la liberazione del presidente della Dc. I tre brani seguenti ci parlano invece dei grandi mutamenti politici avvenuti in Italia dopo la caduta del Muro di Berlino. Anche a questi mutamenti si riferisce Achille Occhetto [►166d], ultimo segretario del Pci, per spiegare la sua scelta di procedere a una profonda revisione ideologica e al cambio del nome del partito. Nel successivo brano, lo storico Alberto De Bernardi [►167] descrive le trasformazioni del sistema politico nei primi anni ’90. Protagonista indiscusso della nuova fase politica fu Silvio Berlusconi, di cui qui si riporta il famoso discorso con cui annunciava la sua «discesa in campo» [►168d]. I tratti caratteristici del “berlusconismo” sono quindi analizzati dallo storico Giovanni Orsina [►169]. Chiude la sezione un brano dello storico Salvatore Lupo [►170], che ricostruisce sinteticamente l’evoluzione del fenomeno mafioso, partendo dall’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino.

162 V. VIDOTTO GLI ANNI DELLA CONFLITTUALITÀ



V. Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 99-109.

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Vittorio Vidotto (nato nel 1941) analizza in questo brano le profonde trasformazioni che cambiarono l’Italia negli anni

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

’60. L’attenzione dell‘autore si concentra sugli aspetti sociali e culturali del periodo che si aprì con il ’68, il movimento degli studenti e poi l’antagonismo operaio, e si chiuse con l’inizio degli anni ’80. Fu un decennio cruciale, segnato dalla conflittualità, dall’intensa mobilitazione sociale, dagli scontri di piazza, e dalla diffusione del terrorismo di sinistra e di destra.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, contemporaneamente al definirsi di una nuova identità giovanile, cresciuta intorno all’aspirazione a comportamenti trasgressivi e alternativi – nell’abbigliamento, negli ascolti musicali, nelle scelte di vita – e sospinta dalla necessità di misurarsi con una società in trasformazione, nacquero forme inedite di coinvolgimento civile e politico. La partecipazione di tanti studenti all’opera di soccorso nella Firenze alluvionata dell’autunno 1966 segnò l’inizio di una stagione dell’impegno che non percorreva più solo le vie strette e tradizionali dell’iscrizione ai partiti e alle organizzazioni giovanili. La rivolta studentesca del 1967-1968 confermò quell’avvio. [...] L’Italia politicizzata accentuava il numero delle sue frammentate appartenenze, ma continuava a contrapporsi a un’Italia prepolitica, a bassa densità di partecipazione. Partecipare, esserci, divenne un valore. La delega, la rappresentanza un limite. Saltavano le regole e l’assemblearismo1 si impose come norma. [...] La mobilitazione giovanile era inserita in una dimensione conflittuale che era da un lato un dato costitutivo dell’adolescenza del «movimento» (il termine che ne riassumeva le varie espressioni); dall’altro era una specifica connotazione ideologica mutuata dall’incontrollata koinè marxista di quegli anni. Con il ’68 degli studenti e con l’autunno caldo del 1969 prese l’avvio un ciclo di protesta destinato a durare oltre un decennio. La battaglia di Valle Giulia del 1° marzo 1968 con la «riconquista» della facoltà di Architettura a Roma e la «marcia dei quarantamila» quadri intermedi della Fiat a Torino, il 14 ottobre 1980, contro il prepotere sindacale, sono le due date simbolo che aprono e chiudono il ciclo. A Valle Giulia gli studenti dei ceti medi scoprirono per la prima volta che la violenza era un gioco possibile, anche politicamente fruttuoso, che completava e arricchiva l’esistenza. A Torino, oltre dodici anni dopo, la marcia antisindacale (e il precipitoso accordo dei confederali con la Fiat il giorno successivo) decretò la fine del mito della conflittualità di fabbrica oscurando definitivamente l’utopia della centralità della classe operaia. Il carattere della conflittualità di quegli anni fu il suo radicalismo: aveva ben poco della conflittualità equilibrata propria di un ideale sistema democratico in

cui i contendenti possiedono eguale legittimità. Era tendenzialmente assoluta e ostile al compromesso. E presto trovò una sorta di spontaneo e naturale corollario nella violenza: di piazza contro le forze dell’ordine, fisica e verbale contro gli avversari. [...] Lo scontro fisico fra destra e sinistra divenne la regola, alimentato da una politica insipiente dell’ordine pubblico che contrastava senza reprimere, e lasciava che gli «opposti estremismi» si combattessero e tendenzialmente si eliminassero da soli. [...] Nessun paese europeo conobbe una stagione così insistita e prolungata di conflitti sindacali e non, una così ricca varietà di forme e di livelli di protesta. Nessun paese europeo conobbe un terrorismo politico, di destra e di sinistra, attivo per un periodo così lungo e con un costo in vite umane così elevato. [...] Nelle fasi iniziali la conflittualità e l’antagonismo furono avvertiti e adottati come fattori di accelerazione della mobilità e come garanzia di riconoscimento e ascesa sociale. La prima generazione nata nel dopoguerra voleva camminare sulle sue gambe, mentre percepiva lo scarto fra gli obiettivi e i valori proposti dalle forze politiche tradizionali e la loro faticosa e incompiuta realizzazione. [...] Un decennio più tardi, quando entrarono in campo movimenti già in partenza radicalmente alternativi e ammantati da un’esibita marginalità, quelli che potremmo chiamare i sopravvissuti e i late comers2 della conflittualità, la rottura con il mondo politico era interamente compiuta. La conflittualità non era più uno strumento, ma era l’identità stessa di quei movimenti. [...] Per le sue dimensioni e per la sua durata la conflittualità si configura quasi come un autonomo comportamento sociale, una sorta di prerogativa e di primato italiano, testimonianza forse di un’arretratezza specifica, ma certamente espressione della forza autopropulsiva delle componenti ideologiche e dell’assenza di una sistematica repressione: al di là della specifica impreparazione degli apparati di polizia, nessuna forza politica poteva impegnarsi coerentemente su questo terreno, quasi dovesse scontare le proprie insufficienze di fronte a una violenza che veniva sempre presentata con i contorni mistificati del disagio sociale. Anche questo è parte di una specifica

anomalia italiana, tuttavia non è forse lecito sottrarsi alle suggestioni di un’impossibile ricostruzione controfattuale3 per provarsi ad immaginare quali minori costi sociali e quali diversi esiti politici avrebbe comportato una legittima e ferma repressione. Agli inizi degli anni Ottanta si esaurì anche la conflittualità operaia che aveva celebrato i suoi fasti entro e fuori le mura della Fiat di Torino. Con la marcia dei quarantamila fu sconfitta definitivamente quella conflittualità interna che per un decennio aveva caratterizzato non solo la maggiore fabbrica italiana, ma il luogo simbolo della centralità operaia e la culla della nuova figura sociale dell’operaio-massa. Con quella sconfitta cadeva l’utopia e l’illusione della fabbrica come nucleo della trasformazione sociale; e ancor di più si chiudeva un processo di antagonismo sociale indifferenziato. 1. Il ricorso frequente ad assemblee, chiamate ad assumere decisioni. 2. Ultimi arrivati. 3. Si definisce “controfattuale” un’ipotesi contraria a un fatto realmente accaduto.

METODO DI STUDIO

 a  Cerchia gli eventi descritti e la relativa data e sottolineane il significato che emerge dall’analisi dall’autore.  b  Evidenzia i caratteri che, secondo l’autore, contraddistinguono il periodo che va dalla fine degli anni ’60 agli anni ’80 e sottolineane le caratteristiche principali.  c  Spiega in che modo si espresse e cosa caratterizzò la conflittualità di quegli anni facendo esempi precisi.

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FARESTORIA LE TRASFORMAZIONI DELL’ITALIA



163 D. DELLA PORTA • M. ROSSI I TERRORISMI

D. Della Porta, M. Rossi, I terrorismi in Italia tra il 1969 e il 1982, in G. Pasquino (a c. di), Il sistema politico italiano, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 418-45.

Lo Stato italiano, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, dovette affrontare l’emergenza del terrorismo politico. Gruppi clandestini di destra e di sinistra furono autori di una serie di stragi, attentati e omicidi, animati dall’obiettivo di sovver-

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Il terrorismo italiano è un fenomeno disomogeneo nel tempo, in entità e caratteristiche. Tra il 1969 e il 1974 esso assume il volto delle stragi della destra e i nomi di «eversione» o «strategia della tensione». Dal 1977 il ritmo intensissimo degli attentati del terrorismo diffuso accentua il panico prodotto dagli agguati delle Br1. Tra il 1980 e il 1982, rapine, conflitti a fuoco e omicidi per ritorsione compiuti dalle ultime propaggini di sopravvissuti alla crisi delle formazioni clandestine di sinistra, si confondono con le azioni dello stesso genere condotte dalle bande criminali che costituiscono i rigurgiti del terrorismo nero. [...] Un concetto, unico e ambiguo, viene utilizzato per definire fenomeni differenti, con il risultato di compattarli insieme, impedendone ogni spiegazione. [...] Se concentriamo [...] l’attenzione sul terrorismo nero, i dati sull’attività complessiva ci permettono di individuare due cicli differenti di attività: dal 1969 al 1974 e dal 1978 al 1982. La prima fase coincide con gli anni della «strategia della tensione» [...]. Sono gli anni delle stragi, quelli in cui il terrorismo di destra miete più vittime. Il terrorismo di destra viene in questo periodo [...] tollerato e in qualche modo favorito dalle frazioni più reazionarie del blocco al potere, in funzione di contenimento dei mutamenti prodotti dai movimenti di protesta sviluppatisi a partire dal 1968. [...] Nel 1974 le vittime delle bande armate neo-fasciste – se si comprendono le due stragi di Brescia e dell’Italicus2 – superano ancora in numero quelle del terrorismo rosso. La situazione si trasforma radicalmente negli anni successivi. Tra il 1975 e il 1979, mentre le organizzazioni clandestine dell’estrema sinistra divengono sempre più sanguinarie, si riduce il numero delle persone colpite nel corso delle azioni del terrorismo di destra [...]. Le vittime del neofascismo

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

tire il sistema politico e sociale della Repubblica: un attacco alle istituzioni pubbliche, da fronti opposti, alimentato da ideologie rivoluzionarie e miti politici. I sociologi Donatella Della Porta (nata nel 1956) e Maurizio Rossi (nato nel 1949) illustrano la diversa natura ed evoluzione delle organizzazioni terroristiche di destra e di sinistra. Sottolineano, inoltre, la complessità del terrorismo politico italiano, che va analizzato nelle sue articolazioni per comprenderne le motivazioni storiche e gli sviluppi.

aumentano invece nuovamente nel 1980: la bomba alla stazione di Bologna uccide 85 persone [...]. Nel biennio successivo, alla riduzione del numero delle vittime delle formazioni armate di sinistra si contrappone una recrudescenza dell’attività del terrorismo di destra. [...] L’evoluzione complessiva delle organizzazioni armate di sinistra segue invece un andamento differente. Di terrorismo di sinistra si comincia a parlare con una certa apprensione solo alla fine della prima metà del decennio. [...] Tra il 1975 e il 1976 [...] – cioè nello stesso biennio che aveva visto la scomparsa del terrorismo di destra – si assiste ad una forte crescita sia nel numero degli attentati compiuti dai gruppi armati di sinistra [...] che nel numero delle persone uccise intenzionalmente [...]. Se la sconfitta politica del terrorismo di sinistra sembra potersi datare al 1978, lo stillicidio di ferimenti e assassinii continua ancora per ben quattro anni. [...] L’analisi degli obiettivi dell’attività terroristica è indispensabile non solo per cogliere l’evoluzione del fenomeno, ma anche per comprendere la sua natura e, almeno in parte, le sue origini. [...] Si prenda in esame, per iniziare, il terrorismo nero. Guardando al tipo di bersagli colpiti emerge subito che il maggior numero di vittime si concentra nella categoria «passanti», comprendente gli inermi colpiti nelle stragi o per errore nel corso di attentati e agguati. [...] L’azione del terrorismo di destra rispecchia la sua ideologia e i suoi obiettivi. La violenza non deve essere orientata contro categorie specifiche ma diffusa contro passanti innocenti; essa serve a creare un panico diffuso e a fomentare una generica domanda d’ordine. [...] Passando all’analisi della strategia del terrorismo di sinistra, [...] i dati qui riportati sembrano dunque indicare l’esistenza di due diverse componenti che vengono abitualmente confuse insieme quando si parla del terrorismo di sini-

stra. La prima di queste due componenti è caratterizzata da una ideologia marxista-leninista di tipo tradizionale: la classe operaia è il soggetto rivoluzionario le cui simpatie occorre conquistare; il nemico è il sistema capitalistico impersonato da industriali e dirigenti d’azienda; lo Stato è lo strumento attraverso il quale la borghesia capitalista rafforza il suo potere; la Dc è il partito della borghesia. Il terrorismo diffuso riprende invece gran parte delle teorizzazioni dei nuovi movimenti sociali: l’oppressione sociale si esprime in termini di alienazione degli individui piuttosto che di sfruttamento economico, il dominio si afferma attraverso la manipolazione degli ambiti più privati dell’esistenza piuttosto che limitarsi alla sfera delle relazioni politiche. 1. Brigate rosse. 2. Nel maggio 1974 esplode una bomba a piazza della Loggia, a Brescia. Tre mesi più tardi c’è un attentato sul treno Italicus.

METODO DI STUDIO

 a  Evidenzia con colori diversi le categorie che l’autore rinviene nel terrorismo italiano e sottolineane le caratteristiche principali (anni di riferimento, obiettivi, strategie, riferimenti politici).  b  Dopo aver letto con attenzione il brano, spiega per iscritto perché, secondo l’autore, è difficile definire il concetto di terrorismo italiano. Quindi sintetizza l’analisi presentata.

164 A. GIOVAGNOLI RAPIMENTO E OMICIDIO DI ALDO MORO



A. Giovagnoli, Il caso Moro, il Mulino, Bologna 2005, pp. 25-26; 244-48; 259-60.

Lo storico Agostino Giovagnoli (nato nel 1952) si è a lungo dedicato alla storia dell’Italia repubblicana e ai rapporti fra Stato e Chiesa cattolica. Nel volume da cui sono tratti questi brani, ricostruisce la vicenda del rapimento e dell’omicidio del leader della Dc Aldo Moro, affrontandolo non Roma, via Fani, 16 marzo 1978, pochi minuti dopo le 9: una macchina blocca la vettura di Aldo Moro, almeno dieci terroristi uccidono quattro uomini della scorta – e il quinto morirà poco dopo in ospedale – e rapiscono il presidente della Democrazia cristiana. L’immagine di questa scena, riproposta infinite volte, è una delle più famose nella storia della Repubblica. [...] Da quel momento [...] comincia una [...] rilevante vicenda politica, intessuta delle reazioni, delle scelte, delle evoluzioni di partiti, leader, rappresentanti delle istituzioni, a vario titolo coinvolti in quel drammatico sequestro. Non era il primo atto terroristico che avveniva in Italia: negli ultimi anni, in particolare, se n’erano verificati 702 (nel 1975), 1.198 (nel 1976) e 2.128 (nel 1977), molti dei quali attribuibili a gruppi di «sinistra». Ma il 16 marzo 1978 rappresentò indubbiamente un salto di qualità. Fino a quel momento il fenomeno era stato sottovalutato (come mostrò anche l’inadeguatezza della scorta di Moro, priva persino di armi a portata di mano), ma il rapimento di un importante uomo politico non era del tutto inaspettato. Proprio il moltiplicarsi delle azioni terroristiche negli anni precedenti, molte delle quali condotte contro esponenti politici o sedi di partito, in primo luogo della DC, aveva infatti preparato il terreno a un innalzamento del livello di scontro. Uno dei primi interrogativi suscitati da quell’azione terroristica riguarda il motivo per cui le Brigate rosse scelsero proprio Moro, allora al culmine della sua parabola politica. Egli era, da tempo, tessitore del dialogo con il Partito comunista, regista della crisi di governo appena conclusa, probabile successore di Leone alla presidenza della Repubblica. Proprio pochi giorni prima del rapimento, il «Corriere della Sera» gli aveva dedicato un ritratto elogiativo definendolo il «nostro più autorevole e profondo statista». [...] Si è detto che Moro fu rapito perché in lui

tanto come un fatto criminale da indagare in maniera poliziesca, ma come una tragedia morale e politica, che segnò profondamente la vita dell’Italia repubblicana. Giovagnoli si concentra sulle motivazioni che spinsero le Brigate rosse a rapire Moro e sulla reazione del governo e dei diversi partiti, in particolare sulla divisione fra chi era più possibilista su una trattativa con i terroristi (come il Psi) e chi si opponeva, rivendicando una linea della fermezza che escludeva qualsiasi riconoscimento alle Br.

le Brigate rosse volevano colpire l’artefice della solidarietà nazionale e dell’avvicinamento fra DC e PCI. L’ottica delle BR, in realtà, era un po’ diversa: Moro non costituiva l’obiettivo specifico della «campagna di primavera» e il rapimento non fu realizzato per colpire il regista di quella fase politica. Il loro scopo era più generale e rientrava nella loro peculiare analisi di quella fase storica: colpire la DC, cardine in Italia dello Stato imperialista delle multinazionali (SIM)1, mentre il PCI rappresentava non tanto un nemico da attaccare quanto un concorrente da battere. Nell’ottica brigatista, infatti, il successo della loro azione avrebbe interrotto la «lunga marcia comunista verso le istituzioni», per affermare la prospettiva dello scontro rivoluzionario e porre le basi di un’egemonia delle BR a sinistra. Il sequestro Moro avrebbe acceso la scintilla della rivoluzione in Italia, che sarebbe spettato a loro guidare. [...] Alle BR, dunque, interessava Moro in quanto figura emblematica di trent’anni di «regime democristiano». [...] La sera del 5 maggio venne diffuso l’ultimo comunicato dei brigatisti, che ribadì la condanna a morte di Moro, parlò di una vicenda ormai giunta a conclusione, ricordò la risposta negativa alla richiesta di scambio di prigionieri e affermò che le BR uscivano militarmente vincitrici da quella vicenda. [...] Il comunicato registrava il «chiaro rifiuto della DC, del governo e dei complici che li sostengono» e dedicava un lungo passaggio all’«apparente» disponibilità del PSI. Le BR rigettavano l’ipotesi di una «trattativa tacita», sollecitata dai socialisti. Tuttavia, il messaggio si prestava a diverse interpretazioni. Si chiudeva, infatti, con il noto gerundio: «concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». I terroristi avevano già ucciso Moro o stavano per farlo? Si creò un clima di incertezza. [...] L’8 maggio «l’Unità» ribadì le ragioni della

fermezza, riportando un discorso di Berlinguer, in cui il segretario del PCI faceva emergere l’accordo sostanziale raggiunto nel vertice dei partiti della maggioranza. [...] Lo stesso giorno i brigatisti presero la decisione definitiva di uccidere Moro. [...] Il tragico esito dei cinquantaquattro giorni fra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 ha segnato la memoria del caso Moro. Negli anni successivi è sembrato davvero che il suo sangue sia ricaduto sulla Democrazia cristiana, provocandone il declino, e qualcuno ha visto nella dissoluzione del sistema politico all’inizio degli anni Novanta un effetto tardivo di quanto accaduto allora, mentre ruoli e comportamenti dei diversi protagonisti coinvolti in quella vicenda sono apparsi confusi. La ricostruzione degli eventi contrasta in parte con questa memoria. Le conoscenze acquisite finora indicano che Moro è morto perché le Brigate rosse avevano deciso di ucciderlo e perché non intervenne alcun elemento che riuscisse a fermarle. [...] Per quanto ci è dato sapere, Moro fu assassinato per gli stessi motivi per cui era stato rapito, vale a dire non per ciò che egli era veramente, per ciò che aveva fatto davvero e per una reale convenienza politica dei brigatisti a rapirlo o a ucciderlo, ma per il valore che questi attribuirono alla sua morte nella lotta contro lo Stato imperialista delle multinazionali, dentro una logica che confondeva il piano della realtà con quello dei simboli, anche se l’assassinio di Moro fu un evento tragicamente reale. [...] Costituisce un problema diverso dalla questione di chi ha ucciso Moro, l’interrogativo su come lo Stato italiano abbia assolto, in questa vicenda, il compito di proteggere un proprio cittadino. Il problema concerne in primo luogo quanto non era

1. Con Stato imperialista delle multinazionali le Br indicavano il dominio del grande capitale monopolistico multinazionale.

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FARESTORIA LE TRASFORMAZIONI DELL’ITALIA

stato fatto in precedenza per respingere, circoscrivere e sconfiggere il terrorismo. Per ciò che riguarda invece quei giorni è possibile, come si è visto, ricostruire le ragioni che ispirarono la linea della fermezza. Allo stato delle conoscenze che si avevano del fenomeno, sembrò che le trattative – nel senso inteso dalle Brigate rosse e cioè come implicito riconoscimento del-



la vittoria dei terroristi – avrebbero potuto aprire la strada a una più intensa spirale di violenza. Tali preoccupazioni apparvero in qualche modo [smentite] da quanto accadde in seguito: diversamente dalle previsioni di molti, compreso lo stesso Moro, dopo il suo assassinio non esplose una violenza generalizzata e, anzi, cominciò la parabola discendente delle BR.

165d APPELLO DI PAOLO VI ALLE BRIGATE ROSSE

[www.vatican.va/holy_father/paul_vi/letters] in V. Vidotto (a c. di), Atlante di storia del XX secolo. I documenti essenziali (1969-2000), Laterza, Roma-Bari 2011, p. 129.

Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo,

166d ACHILLE OCCHETTO LA SVOLTA DELLA BOLOGNINA

A. Occhetto, Il sentimento e la ragione. Un’intervista di Teresa Bartoli, in V. Vidotto (a c. di), Atlante del XX secolo. I documenti essenziali (1969-2000), Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 254-60.

La progressiva erosione del consenso elettorale del Pci, la scomparsa di un leader carismatico come Enrico Berlinguer (morto nel giugno 1984), i processi di riforma avviati in Urss, ma soprattutto la caduta del Muro di Berlino, spinsero il nuovo segretario del partito, Achille Occhetto (nato nel 1936), ad annunciare, a soli tre giorni dal 9 novembre 1989, una

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La situazione politica generale ha subìto una accelerazione di proporzioni incalcolabili.

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

 a  Individua e sottolinea le caratteristiche e peculiarità del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro.  b Evidenzia con colori diversi gli intenti reali e quelli solitamente attribuiti alle Brigate rosse in occasione del rapimento di Moro.  c  In cosa consistono i problemi interpretativi descritti nel testo? Rispondi per iscritto alla domanda descrivendo le motivazioni fornite da Giovagnoli.

Il pontefice Paolo VI, amico personale di Aldo Moro, intervenne negli ultimi giorni del rapimento, rivolgendo un accorato appello agli uomini delle Br, perché liberassero il prigioniero.

che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d’un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore. Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento d’un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell’odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa. Uomini delle



METODO DI STUDIO

Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova. Dal Vaticano, 21 aprile 19781 Paulus PP. VI 1. La lettera fu pubblicata sui giornali due giorni dopo. METODO DI STUDIO

 a   Spiega per iscritto chi è l’autore del documento, che tipo di documento è questo, a chi è rivolto e per quale motivo è stato scritto.  b   Sottolinea i motivi per cui, secondo l’autore, Aldo Moro doveva essere liberato e sottolinea le caratteristiche attribuite a quest’ultimo.

svolta nella politica del comunismo italiano. Il nuovo orientamento fu illustrato in un discorso tenuto in una sezione del Pci nel quartiere della Bolognina a Bologna e poi argomentato in un incontro nella direzione del partito (da cui è tratto il brano seguente). Pur riconoscendo il valore della tradizione del Pci e la sua originalità, Occhetto avvertiva la necessità di dar vita ad un nuovo soggetto. Nel febbraio 1991, nel XX congresso del Pci, sarebbe nato il Partito democratico della sinistra (Pds), ma una parte di coloro che si opponevano alla mozione Occhetto, più legata alle antiche radici, sarebbe confluita nel Partito della rifondazione comunista.

Non ci troviamo infatti solo dinnanzi a eventi che, come ho già avuto occasione di sottolineare, tendono a cambiare la

configurazione degli assetti mondiali così come sono scaturiti dalla Seconda guerra mondiale.

Si tratta anche, in questo caso, di qualcosa che chiama in causa la suddivisione del mondo decisa a Yalta, che non può non aprire una questione internazionale di proporzioni sconosciute nel dopoguerra, e che si riassume nell’esigenza di un nuovo governo del mondo che, a partire dal riconoscimento dell’autodeterminazione dei popoli, non potrà essere ingessato dentro i limiti del bipolarismo. [...] Ciò che sta avvenendo esige una accelerazione di proporzioni fino a poco tempo fa impensabili; una riflessione attenta ma non pigra sulla funzione e collocazione di tutta la sinistra, e quindi anche nostra. Si tratta infatti di prendere per tempo coscienza del fatto che ciò che è accaduto a Berlino si presenta come il catalizzatore, nello stesso tempo sconvolgente ed emblematico, di un processo che nel corso di questo ’89 ha messo in luce ciò che sapevamo, ma ha anche sgretolato un mondo, lo ha colpito non solo nell’immagine ma nella possibilità di presentarsi come una realtà che, sia pure attraverso vie autoritarie, poteva in qualche modo costituire una tappa, per quanto terribile, verso il socialismo. [...] La differenza e l’originalità del nostro tragitto ideale e politico sono davanti agli occhi di tutti. Non è questo in discussione,

né è possibile a nessuno ignorarla. Non occorre ricordarne le tappe, i momenti più significativi. Tuttavia siamo di fronte a un vero e proprio salto di qualità. Tale salto di qualità trova le sue ragioni più immediate in una gigantesca ricollocazione delle forze in campo. [...] Appare con sempre maggiore chiarezza che lo stalinismo (e poi la sua variante brezneviana) ha trasformato la grande vittoria politica e morale della Resistenza in una politica di potenza che alla luce dei fatti ha condotto a una dissipazione di quel patrimonio ideale, del suo più grande significato di lotta per la libertà. Emerge con altrettanta chiarezza che non solo il socialismo non è stato realizzato ma che in alcuni paesi non è stato nemmeno tentato. Si è realizzato così un collettivismo burocratico di Stato che ha finito per negare gli ideali del socialismo e per arrecare un danno inestimabile a tutte le forze che vogliono, come noi, mantenere aperta la via al rinnovamento della società. [...] In questa situazione sarebbe sempre meno plausibile, da parte nostra, restare in una posizione che alla fine impedirebbe di assolvere a qualunque rilevante funzione internazionale. [...] Dobbiamo capire in tempo che anche la nostra originale

167 A. DE BERNARDI DALLA PRIMA ALLA SECONDA REPUBBLICA



A. De Bernardi, Un paese in bilico. L’Italia degli ultimi trent’anni, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 108-14.

Lo storico Alberto De Bernardi (nato nel 1948) ha dedicato un suo recente saggio all’analisi dell’ultimo trentennio dell’Italia repubblicana. Nel brano seguente l’autore concentra la sua attenzione sul delicato passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, avvenuto agli inizi degli anni ’90, Nonostante la compagine di governo in quelle elezioni1 riesca a ottenere una risicata maggioranza, l’andamento del voto segnala che sull’onda di Tangentopoli, esplosa nel febbraio dello stesso anno, l’intreccio perverso tra crisi fiscale e smobilitazione dell’obbligazione politica da parte di masse crescenti di cittadini dopo la fine della guerra fredda ha cominciato a sgretolare gli architravi costitutivi del sistema politico. In quella tornata elettorale, infatti, non solo per la prima volta non c’è il Pci, sciolto l’anno precedente dal

identità nel nuovo quadro internazionale, o si ricolloca o è destinata a spegnersi. [...] Noi non dobbiamo rompere con modelli che da tempo non sono più i nostri. Ma esiste una verità oggettiva che non può non essere colta: che anche il meglio della nostra tradizione è stato vissuto dentro la logica dei blocchi. [...] A mio avviso si tratta di porre apertamente il problema. Si può così aprire la strada a una vera e propria costituente, un processo alla cui fine vi sia una cosa nuova e un nome nuovo. [...] C’è bisogno di un partito democratico, un partito del progresso, socialista e popolare che abbia come centro ideale la democrazia socialista, il socialismo e la libertà. Questo può essere il modo migliore per fare vivere il meglio della nostra tradizione. METODO DI STUDIO

 a  Spiega chi è l’autore del testo, che tipo di documento è questo, in quale occasione è stato realizzato e per quali motivi.  b  Spiega in cosa consiste il “problema” da esplicitare citato nella parte finale del brano.  c  Ritieni che la posizione espressa nel testo sia di rottura rispetto al passato? Perché? Argomenta la tua risposta con riferimenti precisi: numera le frasi dell’autore che intendi citare a sostegno della tua tesi e inserisci il relativo numero nel tuo elaborato.

quando all’eclissi dei partiti che avevano dominato il primo quarantennio di vita italiana (Dc, Psi e Pci) fece seguito la creazione di nuove forze politiche (Lega Nord, Pds, Rifondazione comunista, Alleanza nazionale, Forza Italia). Due furono le premesse del terremoto politico: la fine della guerra fredda, con la fine del Pci, e l’inchiesta della magistratura denominata Tangentopoli, che scoprì una fitta rete di corruzione e di rapporti illeciti fra la politica e il mondo dell’economia.

segretario Achille Occhetto dopo la caduta del muro di Berlino, e divisosi tra Pds, di ispirazione riformista, e Rifondazione comunista, di matrice massimalista; non solo Dc e Psi perdono consensi in maniera sostanziale, ma soprattutto giunge in parlamento la prima nutrita pattuglia di deputati della Lega Nord, partito etnosecessionista2, guidato da Umberto Bossi. Sono segnali di una complessa trasformazione politica che prende le mosse da una rivolta contro quello che Amato, alla fine degli anni Settanta, aveva chiamato il «go-

verno spartitorio» dei partiti, la cosiddetta «partitocrazia»; un attacco lanciato dallo

1. Le elezioni del 1992 videro un aumento dell’astensionismo e della volatilità (ossia la percentuale di elettori che cambia voto da un’elezione all’altra) e un calo dei voti per Dc, Psi, Pds e Rifondazione comunista (formazioni eredi del Pci). 2. Con il termine si indica come la Lega rivendicasse un’appartenenza etnica specifica, che in una prima fase la spinse a chiedere la secessione, cioè il distacco, dallo Stato italiano.

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FARESTORIA LE TRASFORMAZIONI DELL’ITALIA

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stesso Craxi, appena insediatosi alla segreteria socialista, per colpire la solidarietà nazionale tra Dc e Pci e che ora si rivolta contro l’apprendista stregone, che l’aveva evocato, sotto la forma dei movimenti referendari che tra il ’91 e il ’93 cambiano il sistema elettorale in direzione maggioritaria e uninominale. Emerge una presa di responsabilità diretta della società civile, che esprime una nuova domanda politica senza risposta adeguata, ma che ha al suo interno non pochi tratti populisti: il richiamo «antipolitico» al popolo e alla democrazia diretta se non «immediata», l’esaltazione della superiorità morale della società rispetto alla classe politica, l’indeterminatezza programmatica. Questi orientamenti diventano il baricentro di nuovi soggetti che ambiscono a entrare nel mercato politico, che nella drammaticità della crisi ’92-’94 si moltiplicano: dalla Rete di Leoluca Orlando ai movimenti referendari promossi da Mario Segni, fino al nuovo partito Forza Italia fondato da Silvio Berlusconi. In questo contesto un ruolo del tutto particolare gioca la Lega Nord, che declina queste spinte nella chiave della rivolta fiscale dei ceti produttivi settentrionali e nella secessione del Nord contro il Mezzogiorno, indicato come responsabile dell’esplosione della spesa pubblica e come «palla al piede» di un Settentrione dinamico e capace di una autonoma rigenerazione economica e sociale. [...] In effetti la forza di questa proposta risiede nell’agganciare al mito della Padania come «nazione» alternativa a quella unitaria sancita dalla Costituzione, la ribellione contro il fisco, che aveva conosciuto una improvvisa impennata per l’azione del governo Amato di superare l’anomalia del nostro paese che aveva il più alto debito pubblico d’Europa e la più bassa pressione fiscale. Tra il 1991 e il 1993 la percentuale del prelievo fiscale passa dal 40,5 al 44,0% del Pil, facendo entrare l’Italia nel ristretto novero dei paesi ad alta pressione fiscale, insieme con Francia e Germania, al fine di garantirle di rimanere agganciata all’Europa e percorrere il cammino che la Comunità aveva tracciato per giungere alla moneta unica. [...] L’allineamento della pressione fiscale ai modelli dell’Europa continentale non è sostenuto, però, da una riorganizzazione dello Stato sociale, tale da restituire ai cittadini in cambio dell’incremento delle tasse una riqualificazione dei servizi e una semplificazione degli adempimenti; al contrario,

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

il sistema fiscale assume sempre più l’aspetto di una giungla di norme ridondanti, astruse, capziose, che colpiscono i contribuenti onesti, mentre facilitano elusioni ed evasioni di ogni genere. Un fisco pesante e «nemico», dunque, si materializza per milioni di italiani, abituati per decenni al suo contrario, non solo favorendo l’aumento di comportamenti scorretti e illeciti, ma soprattutto aprendo una frattura sempre più larga tra gruppi sociali diversificati – piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti, ma anche lavoratori dipendenti – e lo Stato, che si riverbera in maniera negativa sul sistema politico, debole e diviso. [...] L’offerta politica dell’etnosecessionismo rimane comunque minoritaria sia su scala locale che nazionale fino a che non si integra con il progetto populista del movimento fondato da Silvio Berlusconi, che come la Lega cerca di accreditarsi come partito «antitasse» presso un’opinione pubblica sempre più disorientata ma che si propone di aggregare intorno ad una nuova leadership il vecchio blocco di forze politiche, economiche e sociali plasmato dal craxismo e dalla destra democristiana. Infatti Forza Italia è solo apparentemente un partito «istantaneo», in quanto è anche la nuova casa politica nella quale si ricollocano quelle forze economiche e sociali, quel ceto politico e quella rete di intellettuali che avevano prosperato nella stagione del pentapartito. [...] Il paradosso, se così lo possiamo definire, di combinare populismo e liberalismo, vecchio establishment del capitalismo italiano e nuove forze economiche, i vecchi notabili di pentapartito e l’antipolitica della società civile, trova la sua spiegazione nel fascino carismatico del leader del nuovo partito, che incarna nella sua biografia quell’elemento di novità e di estraneità alla politica tradizionale che lo colloca immediatamente in una posizione di vantaggio rispetto a tutti i suoi competitori, nella misura in cui le elezioni del ’94 si giocano sulla capacità di interpretare e di rappresentare l’ansia collettiva di cambiamento dopo il collasso del triennio precedente. Una aspettativa che supera le tradizionali discriminanti tra destra e sinistra, anche se il rassemblement3 di forze che si raccolgono intorno a Forza Italia si colloca in maniera molto più esplicita del pentapartito nello spazio politico della destra, anche per la presenza al suo interno del partito di Alleanza nazionale, in cui confluiscono le

forze neofasciste raccolte nel Msi, sciolto poi nel gennaio 1995. [...] Indubbiamente la forza dell’operazione politica messa in campo da Berlusconi è enfatizzata dalla disponibilità di un sistema mediatico estremamente potente da lui stesso creato, che non deve condividere con i suoi avversari, come accade per il servizio pubblico televisivo e radiofonico, e dal quale continua a essere diffusa e propagandata la tavola dei valori che anima il progetto politico del capo del Biscione. Ma ogni spiegazione del successo pressoché immediato di Berlusconi basata sul suo potere televisivo coglie solo una componente, e non decisiva, del fenomeno, che affonda invece le sue radici sulla capacità del leader di Forza Italia di strutturare intorno a un progetto politico, in parte ereditato dal passato, intorno a una visione ideologica composita e anche in questo caso di lunga durata il campo politico della destra, che in Italia non era mai esistito, perche riassorbito nel sistema dei partiti antifascisti. [...] Berlusconi, con il progetto del «nuovo miracolo economico», non solo riesce a incarnare la speranza di un ritorno al benessere dopo anni bui, ma anche a intercettare la volontà di una rottura radicale con il passato che si risolve nel rifiuto di massa del dominio oppressivo dello Stato sui cittadini. [...] Dopo la lunga transizione degli anni Ottanta, con queste elezioni, giunge definitivamente a conclusione la Prima Repubblica: scompaiono dal panorama elettorale tutti i partiti che l’avevano fondata e anche della società che li aveva espressi e in cui si era riconosciuta non restano che deboli tracce. 3. Raggruppamento, coalizione. METODO DI STUDIO

 a  Sottolinea i segnali della trasformazione politica seguita alla rivolta contro la «partitocrazia» e sottolinea la definizione di quest’ultima.  b  Descrivi il ruolo della società civile nella svolta elettorale dei primi anni ’90 e spiega in quali formazioni politiche si è instradata e con quali caratteristiche.  c  Individua alcune parole chiave in grado di sintetizzare l’offerta politica dell’etnosecessionismo e argomenta la tua scelta per iscritto indicando chi sono i portavoce di queste proposte.  d  Spiega in cosa consiste il paradosso di “combinare populismo e liberalismo” facendo dei riferimenti a situazioni precise e descrivendo le azioni, le motivazioni del successo e gli intenti politici di chi ha messo in atto questa formula.



168d SILVIO BERLUSCONI LA «DISCESA IN CAMPO»

Una storia italiana, Mondadori, Milano 2001, pp. 76-77.

Il 26 gennaio 1994, con un video-messaggio di nove minuti inviato a tutti i telegiornali, l’imprenditore ed editore Silvio Berlusconi (nato nel 1936) annunciò che sarebbe entrato in politiL’ Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare. [...] La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica. [...] Affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che al cartello delle sinistre si opponga un polo delle libertà che sia capace di attrarre a sé il meglio di un Paese pulito, ragionevole, moderno. Di questo polo delle libertà dovranno far parte tutte le forze che si richiamano ai principi fondamentali delle democrazie occidentali, a partire da quel mondo cat-

tolico che ha generosamente contribuito all’ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria. [...] Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate. Dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro più profondi convincimenti, i loro comportamenti sono rimasti gli stessi. Non credono nel mercato, non credono nell’iniziativa privata, non credono nel profitto, non credono nell’individuo. [...] Per questo siamo costretti a contrapporci a loro. Perché noi crediamo nell’individuo, nella famiglia, nell’impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell’efficienza, nel mercato libero e nella solidarietà, figlia della giustizia e della libertà. [...] Sogno, a occhi bene aperti, una società libera, di donne e di uomini, dove non ci sia la paura, dove al posto dell’invidia sociale e dell’odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l’amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita. Il movimento politico che vi propongo si chiama, non a caso, Forza Italia. Ciò che vogliamo farne è una libera organizza-

169 G. ORSINA UNA DEFINIZIONE DEL “BERLUSCONISMO”



G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013, pp. 125-33.

Lo storico Giovanni Orsina (nato nel 1967) rifiuta la tesi secondo cui nel berlusconismo ci sarebbe poca politica e il suo successo sarebbe dovuto alle disponibilità economiche e alla sovresposizione mediatica di Silvio Berlusconi. Per quanto «semplice nella comunicazione e anche semplicistiDescrivere un fenomeno complesso utilizzando una formula semplice è sempre un’operazione rischiosa. A questo punto però posso azzardarmi a dare una definizione dell’ideologia berlusconiana: si è trattato a mio avviso di un’emulsione1 di populismo e liberalismo (o, per lo meno, di un certo tipo di liberalismo). [...]

ca e che, per questo, aveva abbandonato ogni carica sociale nelle sue attività imprenditoriali. Il testo del discorso era molto semplice, basato su concetti immediatamente comprensibili e su un lessico popolare, che usava alcuni terminologie tipiche del linguaggio calcistico («Forza Italia», «scendere in campo»). zione di elettrici e di elettori di tipo totalmente nuovo: non l’ennesimo partito o l’ennesima fazione che nascono per dividere, ma una forza che nasce invece con l’obiettivo opposto; quello di unire, per dare finalmente all’Italia una maggioranza e un governo all’altezza delle esigenze più profondamente sentite dalla gente comune. [...] La storia d’Italia è ad una svolta. Da imprenditore, da cittadino e ora da cittadino che scende in campo, [...] vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano. METODO DI STUDIO

 a  Indica con un segno a margine del testo le frasi in cui Berlusconi parla: a. di sé stesso; b. dell’Italia; c. della sinistra; d. dei valori in cui crede; e. dei suoi interlocutori; f. dei suoi obiettivi politici. Realizza e completa quindi un grafico a stella che abbia per raggi questi 6 punti.  b Quale sogno vuole dare Berlusconi agli italiani? Sottolinea nel testo la risposta.  c  Secondo te, il discorso di Berlusconi intende sollecitare il lato emotivo o quello razionale degli italiani? Rispondi per iscritto facendo riferimenti precisi.

co nella sostanza», il berlusconismo avrebbe un’idea precisa dell’Italia e una linea di azione da proporre. Si tratterebbe di un fenomeno che ha le sue origini nella storia italiana di lungo periodo, ma allo stesso tempo sarebbe espressione di tendenze comuni negli ultimi anni a tutte le democrazie, incapaci di far fronte a società troppo complesse e instabili. Nel brano scelto Orsina dà una definizione del “berlusconismo”, soffermandosi sui suoi due tratti fondanti: populismo e liberalismo.

Il berlusconismo può essere rappresentato come un mostro a tre tentacoli. La

testa del nostro cefalopode2 è rappresentata dal mito della buona società civile3.

1. Miscela in cui i singoli componenti rimangono separati. 2. Mollusco come il polpo, la seppia, il calamaro.

3. La tendenza ad attribuire tutte le colpe alla classe politica, contrapponendola a una società civile che si presume virtuosa.

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E i tentacoli che derivano da questa testa sono l’ipopolitica4, lo “Stato amico” – che, si ricordi, è anche Stato minimo5 – e l’identificazione della nuova élite virtuosa6. Di questi quattro elementi i primi due presentano un grado elevato di commistione fra populismo e liberalismo, il terzo è più spiccatamente liberale, il quarto è più spiccatamente populista. La “santificazione” del popolo, considerato depositario di tutte le virtù, e l’attacco corrispettivo alle élite che lo avrebbero invece tradito sono tipici temi populisti. Nel nostro caso tuttavia il populismo si presenta emulsionato col liberalismo a motivo della concezione particolare che il Cavaliere7 ha del popolo (non dissimile  per altro da quella che ne aveva Guglielmo Giannini): non un’entità omogenea, priva di fratture interne, cementata da elementi comuni – culturali, storici, etnici – tali da tagliare seccamente fuori chiunque non li condivida, ma al contrario una somma di individui diversificata, pluralistica, cangiante, permeabile e aperta verso l’esterno. L’apologia berlusconiana dell’italianità può essere ricondotta pure a una forma, se non di nazionalismo, per lo meno di patriottismo. Di nuovo, però, si tratta di un orgoglio nazionale per tanti versi paradossale: l’enfasi su un’identità collettiva che si fonda certo su una storia e una tradizione comuni – storia e tradizione, per altro, ricche di riferimenti ai valori del cattolicesimo –, ma ancora di più sulla condivisione di una mentalità individualistica, scettica e ipopolitica. [...] Vari analisti, insistendo soprattutto sul­ l’importanza non soltanto materiale ma anche simbolica che Mediaset8 e il Berlusconi imprenditore televisivo hanno avuto nella vicenda del Berlusconi politico, hanno sostenuto la tesi secondo cui il popolo berlusconiano sarebbe fatto soprattutto di consumatori. Questa tesi a mio avviso, anche se tutt’altro infondata – è evidente che il sogno, o l’illusione, del benessere materiale ha rappresentato una parte integrante e fondamentale del berlusconismo –, è però unilaterale. In primo luogo perché oltre che ai consumatori il Cavaliere si è rivolto senz’altro pure ai produttori. A giudicare dai suoi discorsi, anzi, si è rivolto a questi molto più che a quelli – non per caso fra i produttori ha fatto il pieno di voti. [...] Il punto nodale dell’idea che Berlusconi ha avuto del paese non va cercato dun-

U5 LA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI

que, o per lo meno non va cercato soltanto, nel messaggio consumistico della televisione commerciale. Quanto piuttosto nel fatto che quell’idea, ambigua e instabile, è rimasta “sospesa” fra le nozioni di popolo e di società civile. Da un lato insomma l’Italia del Cavaliere si è proposta come una società civile compiutamente articolata, moderna e multiforme, composta di individui autonomi, maturi e socievoli, ipopolitica ma non antipolitica. Ossia disposta ad ammettere senz’altro la politica come espressione del dissenso e delle divergenze d’interesse che scaturiscono naturalmente dalla libertà, pure se ostile a una politica eccessiva, troppo ideologica e polarizzante, tale da introdurre divisioni “artificiali” e non negoziabili. Dall’altro quell’Italia si è presentata invece come un popolo che, per quanto non concepito in termini etnici o nazionali, è stato però reso unitario, omogeneo e semplice dalla sua bontà, dall’adesione universale a determinati valori umani fondamentali. [...] Emulsione di liberalismo e populismo, dunque, il berlusconismo. Ma, si diceva, liberalismo di un certo tipo. Più precisamente: un liberalismo di estrema destra. La destra e la sinistra liberali vengono in genere distinte sul terreno economico – la destra più favorevole alla libertà di mercato, la sinistra all’intervento dello Stato. [...] La destra liberale [...] attribuisce allo Stato e alla politica un ruolo marginale. [...] Oltre che in termini teorici il liberalismo berlusconiano è stato di destra anche in termini storici, visto che si è agganciato a tradizioni politiche che in epoca repubblicana si erano, o erano state, collocate da quella parte: quel poco di cultura liberale antigiacobina che c’era; tanto diffuso qualunquismo antistatalistico e antipolitico; l’orgogliosa fiducia nelle proprie capacità nutrita da alcuni settori della società civile soprattutto settentrionale. [...] In estrema sintesi: la proposta politica del Cavaliere non poteva nascere che dalla Lombardia. O forse potrebbe dirsi, con precisione ancora maggiore, dalla Brianza. Perché in Lombardia più che in qualsiasi altra regione d’Italia è tradizionalmente presente una società civile vivace, fattiva, intraprendente, organizzata, convinta che se ci fosse meno Stato potrebbe cavarsela non solo ugualmente bene, ma molto meglio. [...] Che l’Italia fosse pronta a sbrigarsela da sola

e desiderosa di ricette liberali, tuttavia, era in larga misura una finzione, o per lo meno un’esagerazione, dovuta almeno in parte pure alla prospettiva lombarda dalla quale si osservava il paese. Non solo: quella premessa si è venuta facendo sempre più fittizia man mano che ci si è allontanati dagli anni Ottanta e dal loro ottimismo, e si è entrati invece nell’atmosfera più cupa e tesa del Ventunesimo secolo – l’atmosfera dell’11 settembre e della crisi economica. Proprio a partire dai tardi anni Novanta non per caso il berlusconismo, seguendo il suo “popolo”, ha cominciato a mettere la sordina al liberalismo. Così facendo però non è riuscito affatto a risolvere le proprie contraddizioni interne. Perché i temi dello Stato amico e dello Stato minimo hanno rappresentato una parte non marginale e accessoria, ma essenziale e integrante della presenza pubblica del Cavaliere – fra l’altro, un punto fondamentale di confluenza fra la sua proposta politica e la sua stessa biografia. [...] Le componenti del berlusconismo che siamo venuti collocando sul versante populista, in conclusione, paiono poter essere ricondotte tutte entro i confini di un unico fenomeno: l’utopia dell’immediatezza. Immediatezza, innanzitutto, nell’accezione corrente del termine, come assenza di ritardo temporale: la convinzione che la società italiana sia già perfetta qui e ora, e che possa perciò senza ulteriori indugi essere sottoposta a un programma liberale dal quale scaturiranno esiti positivi pressoché istantanei. Ma ancora di più immediatezza nel senso di assenza di mediazione: il rifiuto della politica e di un ceto di politici professionisti in quanto creatori di un mondo specializzato diverso da, e alieno a, quello nel qua-

4. Una ridotta presenza della politica nella vita dei cittadini. 5. Uno Stato che si limiti a svolgere le funzioni essenziali. 6. Nel senso di “concreta”, vicina alle esigenze dei cittadini. 7. Berlusconi viene definito «il Cavaliere» perché nel 1977 fu insignito dal presidente della Repubblica Giovanni Leone dell’onorificenza di «cavaliere del lavoro». 8. Mediaset è la società di Berlusconi attiva nel campo televisivo e mediatico.

le gli “uomini qualunque” vivono quotidianamente, un mondo non necessario ma anzi parassitario; e la fiducia nelle capacità del popolo di gestire direttamente – in maniera non mediata, appunto – il proprio destino.



METODO DI STUDIO

 a Disegna la rappresentazione grafica che l’autore dà del berlusconismo, dando un titolo alle diverse parti del disegno. Quindi scrivi una didascalia a commento che ne spieghi il significato.  b  Cerchia i destinatari del messaggio berlusconiano e sottolinea le componenti e i valori su cui quest’ultimo si basa. Quindi sintetizza per iscritto i risultati di queste analisi.  c  Spiega cosa è l’utopia dell’immediatezza.

170 S. LUPO LA MAFIA

S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1996, pp. 256-72.

Lo storico Salvatore Lupo (nato nel 1951) si occupa da lungo tempo di storia del Mezzogiorno contemporaneo. In questo saggio indaga con completezza la vicenda più che secolare Nel corso di un terribile 1992 la mafia porta a segno quattro colpi micidiali, assassinando i suoi più grandi nemici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino1, ma anche due dei suoi più qualificati collegamenti con il potere ufficiale, Salvo Lima e Ignazio Salvo2. Segue una reazione statale che porta al dispiegamento dell’esercito in Sicilia e all’arresto di molti boss, latitanti da tempo immemorabile, tra cui lo stesso Totò Riina3, leader dei corleonesi [...]. In successione, arriva l’incriminazione di Giulio Andreotti4, forse il più eminente uomo politico dell’Italia repubblicana, chiamato in giudizio per associazione mafiosa, cioè per un fitto e continuativo scambio di favori originatosi dalla conversione all’andreottismo – risalente alla fine degli anni sessanta – della più importante corrente della Dc siciliana, quella degli ex fanfaniani staccatisi dallo stesso Fanfani e da Gioia, sotto la guida appunto di Lima. [...] Questo esito, clamoroso e imprevedibile, si combina con la débacle dei partiti di governo sotto il ciclone di Tangentopoli, inducendo molti italiani a chiedersi quale sia stato il rapporto della mafia con gli altri poteri che a livello occulto o palese hanno governato l’Italia dell’ultimo trentennio. E viene dall’interno di Cosa nostra alla metà degli anni novanta, per la prima volta, una risposta, una messe di informazioni che sul rapporto tra mafia e politica sembrano confermare quanto di peggio era stato ipotizzato dall’opinione pubblica. [...] Per comprendere cosa la mafia dia alla politica bisognerebbe forse guardare di più al modo in cui entrambe si rapportano all’imprenditoria «sporca», e garan-

della mafia siciliana, dalle origini ottocentesche agli esiti più recenti, degli anni ’90 del ’900. Nel brano scelto Lupo parte dagli eventi del 1992, quando la mafia uccise in due attentati distinti i magistrati Giovanni Falcone (23 maggio) e Paolo Borsellino (19 luglio), per ricostruire la natura di Cosa nostra e il complesso rapporto tra mafia e politica.

tiscono gli affari che si svolgono sul territorio (ad esempio le opere pubbliche) e le transazioni finanziarie. I mafiosi svolgono certo il ruolo di galoppini5 e capi-elettori, orientano le preferenze, partecipano alla parte esecutiva della macchina politica; è dubbio però che in una grande città o addirittura su scala regionale – diverso il caso di singoli paesi o quartieri infetti – ne possano rappresentare la parte nobile, il motore, i circuiti ideativi e decisionali. [...] Cosa nostra non è un partito, non ottiene il consenso per se stessa. Questo riporta la palla nel campo della politica, alle opinioni, agli scambi materiali e simbolici. [...] La mafia è un’organizzazione, collega tra loro i facinorosi in una struttura antica e consolidata, compattata dal rito del giuramento, capace di sopravvivere, di rinnovarsi e addirittura di rafforzarsi per oltre un secolo. Sin dalle sue origini essa determina una serie di proprie interne

gerarchie, autonome da quelle generali dell’economia e della politica, ma per tutta la prima parte della sua storia essa rimane un potere minore rispetto a quello di grandi proprietari e grandi notabili, che può funzionare solo se collegato ad essi attraverso una serie di reticoli clientelari. [...] Di più, direi che la mafia tradizionale – in età liberale o nel primo periodo repubblicano – non pensava per nulla a determinare il contenuto delle leggi, lasciando problemi di tal fatta non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, al giudizio del grande notabilato o magari alla capacità di contrattazione di qualche associazione proprietaria, di qualche lobby locale. Poi le cose sono cambiate, e molto più rapidamente all’esterno che all’interno di Cosa nostra, la quale come abbiamo visto ha mostrato segni di sorprendente stabilità attraverso il tempo. La grande proprietà

1. I due magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (entrambi nati a Palermo, il primo nel 1939, il secondo nel 1940) furono profondamente impegnati nella lotta alla criminalità organizzata. Giovanni Falcone fu assassinato dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci, assieme alla moglie e a tre agenti della scorta. La mafia colpì anche Paolo Borsellino, ucciso pochi mesi dopo, il 19 luglio 1992, assieme a cinque uomini della scorta. 2. Salvo Lima (nato nel 1928) fu un politico italiano, parlamentare della Dc, ritenuto uno dei principali referenti politici della mafia. Ignazio Salvo (nato nel 1931) fu un esponente della Dc affiliato alla mafia. Entrambi furono uccisi da Cosa nostra nel 1992, probabilmente perché avevano fallito nel ruolo di garanti dei rapporti fra mafia e mondo politico.

3. Salvatore Riina (1930-2017) fu dal 1982 capo di Cosa nostra (locuzione con cui si indica l’organizzazione criminale di tipo mafioso di origine siciliana). Dopo oltre vent’anni di latitanza fu arrestato nel 1993 e condannato a diversi ergastoli, per i numerosi ed efferati delitti di cui fu mandante. 4. Giulio Andreotti (1919-2013) fu fra i fondatori della Dc, deputato dal 1948, più volte ministro e sette volte presidente del Consiglio, poi senatore a vita. Alcuni esponenti mafiosi pentiti lo indicarono come referente politico di settori della mafia siciliana e per questo fu rinviato a giudizio [►20_6]. 5. Chi rende ad altri servizi o commissioni; in questo caso si dà da fare per procurare voti a una persona o ad un partito.

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scomparve come soggetto politico e sociale con tale repentinità da far venire il sospetto che sia stato il fascismo a tenerla artificiosamente in vita per vent’anni; il notabilato lasciò il passo alla macchina partito, a causa del proporzionale, dell’egemonia democristiana, e ancora della disgregazione della società paesana «tradizionale». Non per questo il sistema politico divenne impermeabile ai mafiosi, cui anzi restò più ampio spazio di pressione sulla politica stessa, perché questa ridistribuisse il crescente flusso di risorse che è chiamata a gestire, ovvero paralizzasse l’apparato amministrativo, poliziesco e giudiziario dello Stato; non parliamo dei comuni e della Regione, dove sarebbe molto ingenuo ipotizzare una distinzione fra politica e amministrazione. Nel momento in cui la società in generale cessa di essere rigidamente ordinata per censo e per auctoritas la mafia comincia a pensare che nessun coperchio possa so-

vrastare ciò che bolle nel suo pentolone; e alla fine l’organizzazione prova a trasportare il network al proprio interno, a subordinare a se stessa ogni interlocutore esterno, affarista o politico che sia. [...] Cosa nostra si è collegata in maniera assolutamente nuova alla grande politica e ai grandi affari, ovvero alla grande stagione (speriamo conclusa) dello Stato assistenziale e del governo «debole», disintegrato tra istituti ad hoc, leggi ad personam, lobby, fazioni, clientele e favori, Usl e regioni, tangenti per tutti, dell’affarismo rampante e dei poteri occulti. Per l­eggere tale sistema, che è il contesto in cui si è sviluppata la metastasi mafiosa, sarà necessaria una storia d’Italia, non bastando una storia della Sicilia. Peraltro sciogliere del tutto la mafia in questo suo contesto implicherebbe il medesimo errore degli antropologi che pensavano che essa fosse la società meridionale. Allo stesso modo chi immagina che la storia si svolga tutta tra Palazzo

Chigi e Montecitorio può ritenere che la mafia sia la politica. L’organizzazione oggi chiamata Cosa nostra, con diversi nomi, in diversi tempi e sotto diversi regimi, è attiva da moltissimi anni, è vecchia ma non teme la modernità: speriamo che questa formidabile continuità storica possa essere al più presto interrotta.

METODO DI STUDIO

 a  Trascrivi sul quaderno la concatenazione di eventi descritti nella parte iniziale del brano mettendo in rilievo i singoli episodi e collegandoli fra di loro con una freccia.  b  Descrivi per iscritto il rapporto fra politica e mafia.  c  Sottolinea le caratteristiche della mafia e della sua struttura. Quindi individua le parole chiave che a tuo modo di vedere esprimono a pieno i punti più rilevanti e argomenta la tua scelta.

PISTE DI LAVORO

parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e non dimenticare di affrontare i seguenti temi: • il contesto storico internazionale; • differenze fra il terrorismo di destra e di sinistra; • il significato e le conseguenze del sequestro Moro.

LO STORICO RACCONTA 2 Scrivi un testo di circa 30 righe sulle conflittualità emerse negli anni ’70 soffermandoti sulle diverse espressioni del terrorismo. Fai riferimento ai brani di Vidotto [►162], Della Porta e Rossi [►163] e di Giovagnoli [►164] e al documento scritto da papa Paolo VI [►165d]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra

IL CONFRONTO STORIOGRAFICO 3 Dopo aver letto i brani di De Bernardi [►167] e di Orsina [►169], sintetizza la loro posizione sull’affermazione del berlusconismo e sugli strumenti politici messi in campo dal suo leader e le motivazioni del suo successo. Confronta quindi le due posizioni e indica quella che ritieni maggiormente condivisibile facendo riferimento anche al brano di Berlusconi [►168d]. Argomenta il tuo punto di vista in un testo di non più di 25 righe.

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DAI DOCUMENTI ALLA STORIA 1 Scrivi un testo di circa 40 righe sulle profonde trasformazioni del sistema politico nei primi anni ’90 facendo riferimento ai documenti di Occhetto [►166d] e Berlusconi [►168d] e ai brani scritti da De Bernardi [►167] e Orsina [►169]. Individua i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo discorso. Trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale che utilizzerai come scaletta per il tuo elaborato.

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COMPITO DI STORIA Scrivi un articolo di giornale sull’argomento indicato di seguito, procedendo in questo modo: utilizza come punto di partenza la testimonianza del segretario del Partito comunista sovietico Michail Gorbacˇëv [►148d] e dall’analisi del suo ruolo compiuta da Bongiovanni [►149]. Quindi, aiutandoti con le parti del manuale che affrontano il crollo del comunismo e le sue ripercussioni [►CAPP16-17] e con i restanti brani del percorso storiografico sullo stesso tema, la testimonianza di Occhetto [►166d] e la riflessione storiografica di De Bernardi [►167], affronta un’analisi complessiva del fenomeno e scegli alcuni eventi significativi in grado di supportarla. Individua un titolo che renda esplicito il tema e il taglio che hai scelto per il tuo elaborato. Abbina al testo almeno quattro immagini tra quelle presenti nel Fare Storia e nel capitolo, e scrivi una breve didascalia informativo-descrittiva per ognuna di esse.

Argomento Il crollo del comunismo e le sue ripercussioni Organizza il tuo elaborato prendendo spunto dalle operazioni proposte dalla seguente scaletta: a. Lettura e comprensione • Seleziona i documenti, i brani e le immagini più utili al tuo ragionamento. • Confronta il documento di Gorbacˇëv e il brano di Bongiovanni mettendo in rilievo i punti di contatto e quelli divergenti. • Individua le date e gli eventi significativi che possono aiutare a ripercorrere il crollo del comunismo. • Individua un paio di contesti nazionali che, a tuo parere, sono particolarmente significativi del contesto descritto. b. Individuazione e analisi dei passaggi significativi in relazione alle questioni chiave affrontate nell’elaborato Evidenzia nel materiale selezionato: • ciò che rende significativo il rapporto fra l’analisi complessiva del fenomeno e quella dei contesti nazionali; • il rapporto fra le aspettative e gli obiettivi di Gorbacˇëv e gli eventi successivi. Realizza le didascalie a commento delle immagini in relazione al taglio che hai scelto per il tuo elaborato. c. Contestualizzazione storica • Chiediti se gli esiti della guerra fredda abbiano influenzato gli eventi descritti o se siano stati condizionati da tutti o alcuni di essi. d. Interpretazione e problematizzazione • Esistono dei nessi fra la crisi del comunismo, la fine della guerra fredda e l’affermarsi di incertezze e precarietà su scala globale? • Gli eventi che sono stati salutati come la fine di un periodo “nefasto“ (la guerra fredda) hanno avuto seguiti sempre felici? • Esistono differenze nazionali che marcano in modo forte le conseguenze della fine della guerra fredda? A cosa sono dovute?

Esodo di automobili della Germania dell’Est Lunga coda di automobili tedesco-orientali tra Cecoslovacchia e Germania occidentale, nel novembre del 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino. Le auto in coda sono quasi tutte “Trabant”, utilitarie prodotte per molti anni nella Germania dell’Est.

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STORIAeAMBIENTE FONTI DI ENERGIA TRADIZIONALI E ALTERNATIVE E COSTI AMBIENTALI

LA QUESTIONE AMBIENTALE

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A partire dagli anni ’70 del XX secolo, la cosiddetta “questione ambientale” ha rivestito un ruolo sempre più importante negli interessi dell’opinione pubblica mondiale [►16_2]: in quel periodo, infatti, mentre i rischi derivanti dalla produzione di energia nucleare destavano crescenti preoccupazioni, le riserve di carbone e petrolio iniziarono a mostrare il loro progressivo esaurimento e il loro uso intensivo cominciò a essere identificato come la causa del crescente inquinamento che degradava il pianeta. Due erano stati gli eventi che avevano fatto emergere questa nuova sensibilità ambientalista: la pubblicazione nel 1972, a firma del Massachusetts Institute of Technology, del Rapporto sui limiti dello sviluppo, che aveva illustrato come la continua crescita della popolazione, dell’industrializzazione e dell’inquinamento avrebbe potuto mettere in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana; e la crisi petrolifera del ’73 [►16_1], che aveva evidenziato la dipendenza dei paesi industrializzati dai giacimenti petroliferi. Nei decenni successivi si affermò quindi il pensiero ambientalista, secondo il quale il genere umano deve convivere con la natura senza distruggerla: per milioni di persone la salvaguardia dell’ambiente si fece sempre più importante. Per far fronte a questa nuova sensibilità dell’opinione pubblica, anche la politica cominciò a occuparsi dei problemi ambientali: da un lato, furono organizzati i primi vertici internazionali in cui confrontarsi sull’inquinamento e sulle misure da adottare per limitarlo [►16_2], dall’altro nacquero movimenti e partiti ecologisti, che furono definiti “verdi”. Questi partiti basarono la loro azione politica su quattro pilastri ideali: ecologia, giustizia sociale, democrazia partecipativa e pacifismo/non violenza. Il primo partito verde fu il neozelandese Values Party, nato

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nel 1972, ma negli anni ’80 organizzazioni di questo tipo si affermarono in tutto il mondo, compresi i paesi in via di sviluppo come l’India. Tra i partiti europei, il partito verde che ebbe un maggiore successo fu quello nato nel 1980 nella Germania federale, che si opponeva innanzitutto all’uso dell’energia nucleare che, dopo la firma del trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera (1963 [►12_9]) e del trattato di non proliferazione nucleare (1968), era invece sempre più impiegata a scopi civili. Eletti in Parlamento già nel 1983, tra il 1998 e il 2005, dopo la riunificazione tedesca, i Verdi entrarono nella coalizione di governo insieme al Partito socialdemocratico. In Italia, le Liste verdi già nate a livello locale si federarono nel 1986, per poi trasformarsi nella Federazione dei Verdi nel 1990 [►20_5]. Nonostante l’attività del movimento ambientalista e dei partiti verdi, però, molti problemi ambientali rimangono a oggi irrisolti: essi, infatti, sono strettamente legati alla produzione dell’energia necessaria alle attività umane, ancora in gran parte derivante dallo sfruttamento dei combustibili fossili.

IL PETROLIO E I SUOI COSTI AMBIENTALI Tutte le società umane hanno bisogno di energia, tanto per l’esistenza quotidiana (cucinare, riscaldarsi, illuminarsi, ecc.), quanto per le attività agricole, industriali, edili e per i trasporti. Ogni società è stata caratterizzata da un proprio “regime energetico”, cioè da una diversa modalità di procurarsi energia, di immagazzinarla, di utilizzarla. Se nel XX secolo, e ancora oggi, quasi tutte le società hanno come fornitori di energia regimi energetici complessi (in cui petrolio, centrali idroelettriche, fissione nucleare affiancano il carbone e le altre fonti di energia tradizionale come

Manifestazione contro il nucleare Il 12 e 13 giugno 2011 si è tenuto in Italia il referendum per abrogare le norme che consentivano la produzione di energia elettrica dalle centrali nucleari sul territorio nazionale. Il 95% degli italiani ha votato “Sì” per fermare il nucleare.

vento e acqua, forza umana e animale), sono i combustibili fossili – prima il carbone, poi il petrolio e il gas naturale (soprattutto il metano) – a rivestire la principale importanza. A partire dagli anni ’20-30 del XX secolo, infatti, il petrolio sostituì il carbone come principale fonte di energia, prima nei trasporti e poi, verso la fine degli anni ’50, anche nell’industria. Da allora, la disponibilità di petrolio a basso costo come fonte di energia ha sostenuto la continua crescita economica nel ’900. I primi a utilizzare, fin dal secondo decennio del ’900, il petrolio per la produzione di energia furono gli Stati Uniti, dove il primo pozzo petrolifero fu scavato già nel 1859 in Pennsylvania. Fino al 1930 gli Usa produssero più di due terzi del petrolio mondiale, anche se ai pozzi statunitensi si erano aggiunti, all’inizio del secolo, quelli del Mar Caspio, del Messico e, soprattutto, del Venezuela. Dopo il 1935, invece, quasi tutti i nuovi giacimenti furono scoperti in Medio Oriente. Tra il 1890 e il 1990 l’estrazione di petrolio è cresciuta di cir-

ca trecento volte, passando da meno di 10 milioni a più di 3 miliardi di tonnellate. Se da un lato l’utilizzo dei combustibili fossili ha garantito enormi prospettive di crescita economica, dall’altro ha comportato anche degli elevati costi ambientali, sia per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, sia per la trasformazione del paesaggio determinata da miniere, dighe, piloni e cavi dell’alta tensione e dalla presenza di stabilimenti per la conservazione, la raffinazione o la distribuzione del petrolio. Tanto l’estrazione del carbone prima quanto quella del petrolio poi sono state estremamente inquinanti. Ad esempio, l’estrazione del petrolio, in pochi anni, fece diventare delle grandi riserve di acqua come il grande Lago di Maracaibo (Venezuela), i laghi della zona di Baku (Azerbaijan) o il bacino del Niger (Nigeria) degli acquitrini oleosi tra i più inquinati del mondo. A ciò si devono aggiungere i danni provocati dal cosiddetto sversamento (o spillamento, dall’inglese oil spills) del petrolio in mare che, trasportato dalle correnti, danneggia 851

STORIA E AMBIENTE Fonti di energia tradizionali e alternative e costi ambientali

Fiume Shela, Bangladesh Il 9 dicembre 2014 la collisione tra una petroliera e una nave da carico ha causato lo sversamento del petrolio nel fiume Shela nella località di Sundarbans in Bangladesh.

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in modo persistente l’ecosistema marino. Infatti il greggio, pesando meno dell’acqua, prima crea sulla superficie del mare una pellicola impermeabile all’ossigeno, poi precipita sul fondale: ciò danneggia non solo la fauna e la flora che vivono sott’acqua, ma anche gli uccelli marini, avvelenandoli e penetrando nel loro piumaggio, che diventa così inadatto al volo, al nuoto e al mantenimento della temperatura corporea. La dispersione del petrolio in mare avviene principalmente in due modi: in seguito agli incidenti occorsi alle piattaforme petrolifere o alle navi petroliere, oppure a causa del lavaggio di queste ultime in acqua. Il primo disastro avvenne nel 1910, con l’esplosione accidentale di una torre di perforazione presso Lakeview Gusher, in California, che in nove mesi sversò oltre 1 milione e 200 mila tonnellate di petrolio in mare. Gravissimi anche gli incidenti occorsi a una pompa petrolifera nel Golfo del Messico (1979-80), che sparse in mare 500 mila tonnellate di petrolio, e alla petroliera Exxon Valdez (1989), incagliatasi per un errore umano su una scogliera in Alaska, che disperse quasi 40 mila tonnellate di petrolio, inquinando oltre 700 chilometri di costa. Uno dei più gravi incidenti di sempre si verificò di nuovo nel Golfo del Messico nell’aprile 2010, con l’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon, che si inabissò, fermandosi circa

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un miglio sotto la superficie del mare. Ciò provocò la rottura del montante della trivellazione che la collegava alla sorgente della trivellazione e il conseguente sversamento in mare di una quantità di petrolio compresa tra le 400 mila e il milione e 200 mila tonnellate: i danni ambientali furono incalcolabili.

Deepwater Horizon La piattaforma petrolifera semisommergibile Deppwater Horizon al largo del Golfo del Messico prima dell’esplosione del 2010.

Anche l’Italia è stata teatro di un importante incidente petrolifero: nel 1991 la superpetroliera Haven, ormeggiata nei pressi di Genova, si incendiò e affondò, disperdendo in mare quasi 150 mila tonnellate di greggio. I danni ambientali furono gravissimi, nonostante l’intelligente scelta di lasciar bruciare la maggior quantità possibile di petrolio. La combustione del petrolio per produrre energia – come già quella del carbone – provoca, inoltre, l’emissione nell’aria di anidride carbonica e di altre sostanze che causano il cosiddetto effetto serra. Esso è, in realtà, il fenomeno naturale che consente la vita sulla terra, che altrimenti sarebbe un pianeta freddissimo: come i vetri di una serra, infatti, l’atmosfera lascia entrare la luce del sole ma ne trattiene il calore grazie alla presenza dei cosiddetti “gas serra”. Più aumenta la loro concentrazione nell’atmosfera, più la temperatura si innalza, e viceversa. Le deforestazioni su larga scala e l’utilizzo intensivo di combustibili fossili – e in particolare del petrolio, da quando è utilizzato come fonte di energia non solo nell’industria, ma anche per i trasporti privati (automobili, aerei, ecc.) – hanno aumentato la concentrazione dei gas serra, provocando un innalzamento della temperatura terrestre. Si prevede che questo riscaldamento globale (global warming) produrrà grandi “disastri naturali”, tra cui la desertificazione, la siccità, l’estinzione di alcune specie animali e vegetali, lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari con un conseguente innalzamento del livello dei mari, la diffusione di malattie tropicali. Anche se tra il 1890 e il 1990 le temperature medie sono aumentate “solo” di 0,3-0,6 gradi, alcuni cambiamenti sono già evidenti, ad esempio nell’aumento della cadenza e dell’intensità dei cosiddetti “eccessi meteo‑ rologici e climatici” (periodi di siccità alternati ad alluvioni, estati troppo fredde o troppo calde, cicloni frequenti). A partire dall’inizio degli anni ’90, anche su impulso dei movimenti ecologisti, i governi e l’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) hanno cominciato a organizzare vertici internazionali che prospettassero delle soluzioni ai problemi ambientali. Nel 1992, la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite produsse i cosiddetti Accordi di Rio, che si proponevano di limitare l’emissione di gas serra. Dal 1994, i paesi contraenti si incontrano annualmente nella Conferenza delle Parti (Cop) per analizzare i progressi raggiunti. Questi incontri, nel 1997, condussero alla firma del Protocollo di Kyoto [►16_2], con il quale oltre 83 paesi (poi saliti a 191) e l’Unione europea si impegnarono ad adottare politiche di “sviluppo sostenibile” (miglioramento dell’efficienza energetica, promozione di forme di agricoltura sosteni-

bili, sviluppo di fonti di energia pulita) e a ridurre del 5% le emissioni di gas serra rispetto ai valori del 1990 entro il 2012. L’applicazione del Protocollo, però, incontrò molte difficoltà (tra cui la mancata ratifica degli Stati Uniti) e non raggiunse i risultati previsti: la nuova scadenza per la riduzione delle emissioni fu quindi fissata al 2020. Tuttavia le sue prospettive si sono molto ridimensionate a causa dell’esenzione dai vincoli alle emissioni per i grandi paesi emettitori in rapido sviluppo (Cina, India, Brasile) e delle rinunce di Giappone, Canada, Nuova Zelanda e Russia, che si sommavano a quella statunitense. I paesi che ancora aderiscono al Protocollo producono solo il 15% delle emissioni mondiali: il loro rispetto dell’accordo, quindi, non sarà sufficiente a limitare il riscaldamento globale.

UNA ALTERNATIVA POSSIBILE? L’ENERGIA NUCLEARE Il petrolio e, in generale, i combustibili fossili si sono formati in seguito alle trasformazioni subite dai residui animali o vegetali nel corso delle ere geologiche a partire dal Paleozoico. Poiché la loro formazione necessita di milioni di anni, le loro riserve non possono essere velocemente ricostituite e, ai ritmi attuali di utilizzo, si esauriranno probabilmente entro qualche decennio. Rispetto a quelle di carbone e petrolio, leggermente più abbondanti sembrano essere le riserve di gas naturale: la sua combustione, tra l’altro, non produce sostanze inquinanti ma, in quanto gassoso, ha maggiori difficoltà di trasporto e un contenuto energetico inferiore al petrolio. Per questi motivi, finora, la concorrenza del petrolio ha ridotto gli investimenti nel gas naturale. Oltre che dal progressivo esaurimento delle scorte, ulteriori preoccupazioni derivano dalla distribuzione geografica dei giacimenti petroliferi: dodici dei quindici più grandi campi petroliferi del mondo e due terzi delle riserve petrolifere totali, infatti, sono situati nei paesi che si affacciano sul Golfo Persico (Oman, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Kuwait, Iraq e Iran). Per questa ragione, i paesi industrializzati – i maggiori consumatori di petrolio – sono molto interessati ad assicurarsi la presenza di governi collaborativi in quest’area, attraverso pressioni diplomatiche, politiche ed economiche o veri e propri interventi militari. Spinti da queste preoccupazioni e dalle nuove regolamentazioni internazionali che cercavano di limitare l’uso e l’inquinamento prodotto dai combustibili fossili, nella seconda metà del ’900 i paesi industrializzati hanno cercato 853

STORIA E AMBIENTE Fonti di energia tradizionali e alternative e costi ambientali

di superare la dipendenza da essi. Una speranza sembrò rappresentata dall’uso per fini civili dell’energia nucleare, prodotta dalla fissione degli atomi di uranio: la prima centrale nucleare con questo fine nacque nel 1954 a Obninsk, nell’Unione Sovietica, e fu poi seguita da molte altre, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Proprio negli Usa, nel 1955, la cittadina di Arco (Idaho) divenne la prima al mondo a utilizzare solo energia atomica, grazie alla prima centrale nucleare sperimentale statunitense, la Borax III. La speranza di produrre energia a costi più bassi e senza emettere sostanze inquinanti determinò il successo dell’energia nucleare: nell’agosto 2016, gli Stati nuclea‑ rizzati erano 30, con 448 reattori nucleari attivi, di cui 100 negli Stati Uniti, 58 in Francia, 43 in Giappone, 36 in Russia, 35 in Cina.

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Centrale nucleare di Chooz Centrale nucleare francese situata nella città di Chooz nella regione di Champagne-Ardenne.

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Tuttavia, nel lungo periodo, la produzione di energia nucleare si rivelò poco conveniente economicamente, soprattutto in rapporto agli alti costi di costruzione delle centrali nucleari. Il nucleare, quindi, non sostituì l’energia prodotta dai combustibili fossili, ma si affiancò a essa, senza mai superare il 5-6% della produzione mondiale di energia. La produzione di energia nucleare ebbe, inoltre, drammatiche ripercussioni sull’ambiente. Chiudere le centrali nucleari pericolose o obsolete si rivelò, infatti, molto costoso, mentre gli incidenti e i guasti – per quanto poco frequenti – ebbero effetti disastrosi: Nel 1957 il nocciolo di uno dei reattori della centrale di Windscale, nell’Inghilterra nord-occidentale, si fuse e ci fu una notevole fuga di radioattività in buona parte della Gran Bretagna. Il numero di persone che morirono o contrassero il cancro di conseguenza non è noto [...]. Nello stesso anno ci fu un’esplosione di una discarica di scorie radioattive a Kyshytym, in Unione Sovietica [...]. Trenta comunità e 270 000 persone dovettero essere evacuate e circa 10 000

persone probabilmente morirono in seguito all’incidente. A Three Mile Island in Pennsylvania, nel 1979, uno dei reattori subì una parziale fusione del nocciolo e, benché sia stato evitato un disastro di immani proporzioni senza sostanziale fuga di materiale radioattivo, il lavoro necessario per mantenere la radioattività all’interno della centrale, che si stima sia costato oltre un miliardo di dollari, non era stato completato un decennio dopo e il reattore dovrà essere lasciato costantemente sepolto nel calcestruzzo. [C. Ponting, Storia verde del mondo, Sei, Torino 1992, pp. 413-14]

Il più disastroso di tutti gli incidenti fu però quello che ˇ ernobyl’ [►16_2], in Ucraina, nel 1986, si verificò a C che comportò la distruzione completa di uno dei reattori. I morti, nell’immediato, furono poche decine, ma le conseguenze sulla salute (soprattutto in termini di aumento dei tumori) furono terribili e ancora oggi incerte: secondo i dati ufficiali, infatti, fu emessa una quantità di radiazioni superiore centinaia di volte a quella delle bombe di Hiroshima e Nagasaki [►11_12], che raggiunse tutto l’emisfero settentrionale. L’incidente di Cˇ ernobyl’ scosse profondamente l’opinione pubblica mondiale, rendendo l’energia nucleare molto impopolare. In Italia, nel novembre 1987 si tenne un referendum in cui la popolazione si espresse a larghissima maggioranza (80,5%) contro il nucleare e negli anni seguenti furono chiuse le quattro centrali di Latina, del Garigliano, di Trino Vercellese e di Caorso.

Una nuova ondata di impopolarità investì l’utilizzo dell’energia nucleare dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima (Giappone) nel marzo 2011. Un fortissimo terremoto di magnitudo 8,9, con epicentro nel Pacifico, provocò infatti uno tsunami, le cui onde – alte più di dieci metri – danneggiarono quattro dei sei reattori della centrale di Fukushima, provocando diverse esplosioni. La contaminazione radioattiva fu vastissima, anche se è difficile valutarne l’impatto sulla salute umana. In seguito a questo disastro, la Germania e la Svizzera cancellarono il loro programma nucleare. In Italia, dove nel frattempo era stata approvata una legge per la costruzione di nuovi impianti nucleari, si tenne un nuovo referendum nel giugno 2011: il 94% dei votanti si espresse per l’abrogazione della recente normativa. La produzione di energia nucleare comporta inoltre il problema delle scorie nucleari, che restano radioattive e pericolosissime decine di migliaia di anni: al momento vengono seppellite nelle profondità della terra, nella speranza che nel futuro si capisca come smaltirle. Un’alternativa alla fissione nucleare potrebbe essere quella dei reattori nucleari per fusione. Con questo procedimento, invece di dividere i nuclei di atomi pesanti come quelli dell’uranio, si uniscono nuclei di atomi leggeri, come l’idrogeno, producendo energia. L’energia nucleare prodotta per fusione sarebbe priva dei rischi della fissione nucleare, ma la costruzione di impianti nucleari per fusione non si completerà prima di alcuni decenni. Interno della centrale ˇernobyl’ nucleare di C Nella nuova struttura di sicurezza della centrale ˇ ernobyl’, il nucleare di C cosiddetto “sarcofago” in costruzione dal 2010, vengono portate avanti ancora oggi le faticose opere di smantellamento del reattore colpito.

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STORIA E AMBIENTE Fonti di energia tradizionali e alternative e costi ambientali

LE ENERGIE ALTERNATIVE

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Parco eolico di Collarmele, in provincia dell’Aquila

CONSUMI MONDIALI DI ENERGIA Miliardi di tonnellate equivalenti petrolio 2030: 17,1 mld.tep

20 FER (Fonti energetiche rinnovabili) 18

2013: 13,9 mld.tep

Biomasse

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Idroelettrico

14

Nucleare Carbone

12

Gas

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Petrolio 8 6 4 2

2030

2025

2020

2015

2010

2005

2000

1995

1990

1985

1980

1975

1970

0 1965

L’alternativa è stata identificata nelle fonti di energia rinnovabile, che forniscono energia pulita e sono inesauribili. Esse sono principalmente cinque: l’energia eolica, cioè generata dalla forza del vento che fa ruotare le pale dei mulini; l’energia idroelettrica, prodotta dalle turbine azionate da getti d’acqua trattenuta in un bacino artificiale da una diga; l’energia solare, catturata dai pannelli solari, che trattengono l’energia termica, oppure dalle celle fotovoltaiche, che sfruttano le proprietà del silicio di produrre energia quando viene colpito da raggi; l’energia geotermica, che sfrutta il calore prodotto naturalmente dalla Terra; e, infine, l’energia prodotta dai rifiuti vegetali e animali, le cosiddette biomasse, che vengono bruciate negli inceneritori. Tra di esse, l’energia solare suscita molte aspettative: il Sole, infatti, manda sulla Terra energia pari a migliaia di volte quella che viene consumata da tutte le attività umane e, se si potesse sfruttare anche parzialmente, il problema energetico sarebbe risolto, Tuttavia, è l’idrogeno a essere considerato la risorsa energetica del futuro: esso è praticamente inesauribile e il suo utilizzo non produce residui inquinanti, ma allo stato attuale la sua produzione è molto difficile e richiede a sua volta energia. Ad oggi, comunque, queste fonti alternative producono ancora poca energia. L’installazione e la gestione degli impianti, inoltre, hanno costi molto alti e un forte impatto sull’ambiente: le celle fotovoltaiche sono molto costose e ancora poco efficienti; le pale dei mulini a vento, ad esempio, producono molto rumore, mentre la costruzione di dighe obbliga a evacuare villaggi e a sommergere campi. Nel secondo decennio del XXI secolo, comunque, il loro utilizzo per la produzione di energia si è notevolmente ampliato, soprattutto grazie all’impegno di Cina e Germania. Anche l’Italia ha compiuto importanti passi in questa direzione: a Priolo Gargallo (Siracusa), nel 2010 è stata inaugurata la Centrale solare termodinamica Archimede, progettata dal premio Nobel per la Fisica Carlo Rubbia. L’energia prodotta dall’impianto soddisfa il fabbisogno di circa 20 mila persone, permettendo ogni anno di risparmiare oltre duemila tonnellate di petrolio e di emettere oltre tremila tonnellate di anidride carbonica in meno. Nel 2015, tuttavia, l’incidenza del petrolio sui consumi energetici mondiali era ancora del 32,9%, quella del carbone del 29,2%, quella del gas naturale del 23,8%, quella del nucleare era scesa al 4,4%, mentre quella delle energie rinnovabili toccava, ormai, il 9,6%.

[fonte: http://www.assoelettrica.it]

inceneritore Impianto atto allo smaltimento (attraverso la riduzione in cenere) dei rifiuti solidi urbani.

LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE LABORATORIO DI SCRITTURA STORICA  1  Rileggi attentamente il Dossier Ambiente e redigi un testo divulgativo (max 15 righe di documento Word) dal titolo La questione ambientale tra fonti di energia tradizionali e fonti di energia alternative, adoperando la scaletta che ti proponiamo. Puoi corredare il testo di immagini, selezionandole dal tuo manuale o lanciando una ricerca in Rete.

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Una breve introduzione in cui presenti il problema della questione ambientale Il mondo della politica e la questione ambientale Il primato del petrolio, tra crescita economica e costi ambientali I gas serra e i rischi del riscaldamento globale Rischi e benefici dell’energia nucleare “Pro” e “contro” dell’impiego delle energie alternative Conclusioni

ˇERNOBYL’, 26 APRILE 1986: IL PIÙ GRANDE DISASTRO NUCLEARE DELLA STORIA C  2  Alle ore 1:23 del mattino del 26 aprile 1986, durante un test di sicurezza, esplode il reattore numero 4 della centrale ˇ ernobyl’, a 120 km da Kiev, in Ucraina (ex Urss). Lancia una ricerca in Rete sull’argomento, documentati e nucleare di C realizza un PowerPoint in cui illustrare con l’ausilio delle immagini:

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La dinamica dell’incidente Informazioni parziali e contraddittorie sull’entità della catastrofe I danni inferti alla salute delle persone e all’ambiente nell’ex Urss Il “sarcofago” a copertura del reattore n. 4 Breve storia di Pripyat, da città modello a città fantasma Il turismo nella “zona di alienazione” di Cˇ ernobyl’ Il disastro nucleare e la serie di videogames S.T.A.L.K.E.R

“NUCLEARE SÌ, NUCLEARE NO”  3  L’8 novembre 1987 si celebrò in Italia il cosiddetto referendum sul nucleare: l’80% degli italiani che si recarono alle urne (65% degli aventi diritto) votò per il «sì», abrogando una serie di norme e orientando le successive scelte dell’Italia in ambito energetico a sfavore del nucleare. I tre quesiti riguardavano norme relative alla localizzazione degli impianti, l’abrogazione del compenso ai comuni che ospitavano centrali nucleari o a carbone, e il divieto per l’Enel, allora azienda di Stato, di partecipare ai progetti nucleari anche all’estero. Il referendum abrogativo del 1987 ha di fatto sancito l’abbandono da parte dell’Italia del ricorso all’energia nucleare. E tu, cosa ne pensi del nucleare? Sei favorevole o contrario all’utilizzo di questa fonte energetica per scopi civili? A tuo giudizio, quale potrebbe essere una buona alternativa al nucleare? Discutine in classe con i compagni e l’insegnante e al termine del confronto redigi un breve resoconto della discussione, evidenziando i differenti orientamenti emersi.

BUFALE MEDIATICHE E DISINFORMAZIONE SCIENTIFICA  4  La quasi totalità della comunità scientifica concorda nel ritenere che il riscaldamento globale (global warming) rappresenti un problema allarmante per il nostro pianeta e all’unanimità gli scienziati attribuiscono l’aumento delle temperature alle attività umane. Talvolta però capita di leggere su vecchi e nuovi media dichiarazioni di scienziati che si dicono scettici sui cambiamenti climatici. Si tratta di notizie che in gergo giornalistico si chiamano “bufale mediatiche”. Lancia una ricerca su Internet e scopri quali sono le argomentazioni fasulle cui si appellano i cosiddetti “scettici del riscaldamento globale”, facendo leva sulla disinformazione scientifica da cui è affetta la maggior parte dell’opinione pubblica, e confutale con i dati reperiti in Rete. Ricordati di consultare siti affidabili.

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STORIA E AMBIENTE Fonti di energia tradizionali e alternative e costi ambientali

O c

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USA A a t l

AFGHANISTAN (19922001-)

n c o t i

MALI (2012-) NIGERIA (2009-)

I CONFLITTI CONTEMPORANEI Conflitti Conflitti di lunga durata

REPUBBLICA CENTRAFRICANA (2012-) CONGO (1996-1997 1998-2003)

Attentati rivendicati da gruppi jihadisti Presenza di reti terroristiche legate ad Al Qaeda o all’Isis

UNITÀ 6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

DARFUR (2003-) SUD SUDAN (2003-) RUANDA (1994)

YEMEN (2004-) SOMALIA (1991-)

O c e a n o

a d i I n

Nuove tecnologie e nuova economia Sul finire del XX secolo, si avviò un processo di innovazione tecnologica ed economica centrato sull’elettronica e le sue applicazioni: un processo paragonabile a quello vissuto dall’Occidente tra fine ’700 e inizio ’900, con la prima e la seconda rivoluzione industriale. Gli effetti delle innovazioni si fecero sentire anche in quei paesi extraeuropei che erano entrati tardi nell’era industriale o non vi erano entrati affatto. Quella creata dalla rivoluzione elettronica è una società con più tecnologia e più informazione, ma con meno fabbriche, meno operai, meno posti fissi.

della ricchezza: nuove potenze economiche – dalla Cina all’India, dal Brasile ai paesi del Sud-Est asiatico – si sono affermate nel giro di pochi anni, uscendo dalla spirale del sottosviluppo. La globalizzazione, però, non ha ridotto le disuguaglianze, al contrario le ha accentuate, favorendo nuove grandi concentrazioni di ricchezza.

Lo scontro tra islam e Occidente Con l’inizio del nuovo millennio la contrapposizione globale tra un Occidente riunificato nel segno della democrazia e dell’economia di mercato e una parte del mondo islamico, animata da un aggressivo spirito di rivalsa, si riacutizzò. La crescita dell’integralismo islamico e antioccidentale e l’offensiva terroristica scatenata dalle organizzazioni fondamentaliste culminarono nel terribile attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, e di nuovo negli attentati che, a partire dal 2004, colpirono alcune fra le maggiori città europee. Tuttavia, molti osservatori e leader occidentali sottolineano come il fondamentalismo sia una presenza minoritaria nello stesso mondo islamico.

L’Italia del nuovo millennio O o a n c e

Una società che è stata definita “postindustriale”: più aperta, ma anche più precaria, soprattutto in relazione al lavoro e alla sicurezza sociale. n

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o f i c c i P a

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CHIAVI DI LETTURA

Globalizzazione e disuguaglianze Sul piano dell’economia e della finanza, la crescente integrazione dei mercati mondiali – ciò che I N D O N E S I A comunemente intendiamo per “globalizzazione” – ha offerto nuove opportunità di sviluppo a paesi e aree geografiche che ne erano rimasti esclusi, contribuendo a importanti mutamenti nella distribuzione internazionale

All’inizio del nuovo millennio, l’Italia attraversò una fase difficile. Esauritosi lo slancio che aveva portato il paese al traguardo dell’Unione europea, si riproposero – aggravati dalla crisi mondiale del 2007-8 – i problemi che avevano contribuito al declino della Prima Repubblica: stasi demografica, produzione stagnante, debito pubblico in crescita, accentuazione dei contrasti politici e della frammentazione sociale, elevata disoccupazione, soprattutto giovanile. Il sistema politico bipolare nato alla fine del ’900 non riuscì ad assicurare un buon funzionamento delle istituzioni e fu esso stesso oggetto di divisioni e di continui assestamenti. Tutto questo non impedì all’Italia di svolgere un ruolo importante all’interno dell’Ue e di agganciare, sia pur con qualche ritardo, la ripresa economica europea a partire dal 2015.

GLI EVENTI 1991 Nascita del World Wide Web a Ginevra

1994 Nelson Mandela presidente del Sudafrica

2001 Attacco alle Torri Gemelle. Intervento Usa in Afghanistan

2001 Il Centrodestra vince le elezioni

2007-8 Crisi dei “derivati” negli Usa. Obama presidente degli Stati Uniti

2010-11 Rivolte nei paesi arabi. Caduta di Mubarak e morte di Gheddafi

2011 Dimissioni di Berlusconi e governo Monti

2012 Riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina

2014 Proclamazione dello Stato islamico

2013 Elezioni politiche: crescita del 2014 Movimento 5 Governo Renzi Stelle

2016 Trump presidente degli Stati Uniti La Gran Bretagna esce dall’Ue (Brexit)

2016 Governo Gentiloni

2018 Elezioni politiche

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CAP21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

21_1 LA RIVOLUZIONE INFORMATICA

Negli ultimi decenni del ’900, il mondo industrializzato fu investito da un’ondata di innovazioni tecnologiche paragonabile a quella che, un secolo prima, aveva dato corpo alla “seconda rivoluzione industriale”. Come alla fine dell’800, l’emergere di nuove tecnologie e di nuovi settori produttivi – il siderurgico, il chimico, l’elettrico – aveva mutato profondamente le strutture economiche e la stessa vita quotidiana nei paesi più sviluppati, così ora si assisteva al declino di interi settori industriali che avevano svolto un ruolo centrale per oltre un secolo, all’affermarsi di nuove produzioni, all’aprirsi di nuovi campi di attività. Il nucleo propulsore di questo processo di trasformazione stava nell’elettronica, cioè quella branca della fisica che studia il movimento degli elettroni e le sue applicazioni alla tecnologia: già nella prima metà del ’900 l’elettronica era stata alla base di alcune fondamentali scoperte nel campo dei sistemi di trasmissione delle informazioni a distanza, ovvero delle telecomunicazioni. Nella seconda metà del secolo, i progressi dell’elettronica si intrecciarono con lo sviluppo di una nuova disciplina: l’informatica, ossia la scienza applicata che si occupa della gestione e della trasmissione delle informazioni mediante procedure automatiche. Da qui nacque, negli anni ’70, una nuova branca della disciplina: la telematica, ossia l’applicazione delle tecniche dell’informatica al settore delle telecomunicazioni, resa possibile anche grazie all’adozione delle fibre ottiche in luogo dei vecchi fili di rame.

Le nuove tecnologie

Protagonista e simbolo di questa rivoluzione tecnologica fu l’elaboratore elettronico, in inglese computer. I computer sono macchine da calcolo elettroniche, capaci di riprodurre in qualche misura i meccanismi di funzionamento del cervello umano, di eseguire operazioni matematiche senza possibilità di errore in tempi infinitamente più brevi di quelli consentiti all’uomo; di immagazzinare nelle loro “memorie” una serie di dati da richiamare poi all’occorrenza; di reagire, se opportunamente programmati, a impulsi esterni e di comandare, in base a questi impulsi, l’attività di altre macchine. I primi calcolatori erano stati realizzati già durante la seconda guerra mondiale. Ma, basati sull’uso di componenti elettromeccaniche (i relè, comunemente impiegati nella telefonia), erano soggetti a usura, oltre che molto

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N LI N

Eventi La “battaglia di Seattle” Parole della storia Postfordismo Focus La musica digitale • Alle origini della rivoluzione biologica: il Dna Atlante L’economiamondo multipolare Audiosintesi

► Leggi anche: ► Personaggi Gli innovatori: Bill Gates e Steve Jobs, p. 862

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Il computer

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

I primi personal computer: l’interno del Commodore Pet 2001 [foto di Marcin Wichary, Museum of Computing, Swindon (Gran Bretagna)] Il Commodore Pet 2001, apparso sul mercato nel 1977, fu, insieme con il Macintosh della Apple, uno dei primi personal computer destinati al grande pubblico. Realizzato in un unico blocco, incorporava il monitor, la tastiera, un registratore a cassette, un alimentatore e l’unità di elaborazione centrale.

L’uso del tablet nel museo Ferdinandeum di Innsbruck (Austria) Alcuni musei oggi prevedono l’uso dei tablet durante la visita per rendere più interattiva e partecipativa la fruizione dei contenuti esposti.

ingombranti. La sostituzione del relè prima con la valvola termoionica e poi col transistor consentì, nel corso degli anni ’50, di ridurre enormemente le dimensioni dei computer e di aumentarne la potenza di calcolo, l’affidabilità e la complessità. Un ulteriore salto qualitativo fu compiuto nel decennio successivo con l’introduzione, da parte dell’americana Ibm (International Business Machines Corporation), del circuito integrato (chip): una piastrina di silicio sulla quale possono essere riprodotte, in forma miniaturizzata, le funzioni di un’intera rete di transistor. La svolta decisiva fu realizzata dalla società americana Intel che, all’inizio degli anni ’70, mise a punto il microprocessore, un circuito integrato di ridottissime dimensioni che agisce come “cervello” di un computer, segnando il passaggio dall’elettronica alla microelettronica. Nascevano così i computer della “terza generazione”: apparecchi che non solo vantavano, rispetto ai loro predecessori, dimensioni ancora più ridotte, velocità di calcolo ancora maggiore – oltre alla possibilità di collegare molti apparecchi periferici (“terminali”) a una sola memoria centrale –, ma avevano anche costi di produzione sensibilmente più bassi. E questo fu certo un fattore decisivo per far uscire il computer dall’ambito dei laboratori specializzati e degli istituti di ricerca, per farlo entrare nel mondo della produzione di massa e trasformarlo in uno strumento individuale di uso comune (personal computer, in sigla pc). Infine la digitalizzazione, a partire dagli anni ’80, del suono e delle immagini (cioè la loro trasposizione in un formato numerico), resa possibile dalla sempre maggiore velocità e capacità di memoria dei computer, consentì di unificare i linguaggi e di far circolare informazioni di diversa natura (testi, audio, foto, video) sugli stessi canali di comunicazione.

Il circuito integrato e il pc

Alla metà degli anni ’70, per iniziativa di alcuni giovani e geniali imprenditori, videro la luce alcune imprese che avrebbero dato un contributo fondamentale allo sviluppo del settore, come la Apple, creata da Steve Jobs, e la Microsoft, fondata da Bill Gates. Nata negli Stati Uniti (in particolare in California), la nuova industria trovò un terreno favorevole di diffusione in Asia (Giappone, Corea del Sud, Cina, Malesia) e invase con le sue tecnologie tutti i principali comparti produttivi. Oggi i prodotti della rivoluzione informatica non solo sono oggetti familiari per gran parte della popolazione, anche nelle aree meno sviluppate, ma sono incorporati in una gran quantità di apparecchi di uso corrente: automobili (la quantità di elettronica computerizMETODO DI STUDIO zata contenuta oggi in una normale autovettura è superiore a quella delle prime navi a   Evidenzia il settore trainante delle trasforcelle spaziali), elettrodomestici, impianti per il condizionamento termico e per la mazioni economiche a partire dagli ultimi decenni del XX secolo. riproduzione del suono, orologi e apparecchi fotografici, e soprattutto telefoni cellu b   Spiega oralmente in cosa consiste la rivolulari: un’altra innovazione chiave che, introdotta per la prima volta nel 1983, applicata zione digitale. su larga scala dall’inizio degli anni ’90 e poi diffusasi in tutto il mondo con straordina c   Sottolinea con colori diversi le caratteristiche dei ria rapidità, ha contribuito come poche altre a cambiare le forme della comunicaziocomputer di “terza generazione” e di quelli precedenti. ne e le relazioni interpersonali. Questo insieme di innovazioni ha profondamente  d   Cerchia le innovazioni tecnologiche che hanno profondamente trasformato il sistema delle comunicatrasformato il sistema delle comunicazioni di massa. Non solo sono aumentati i mezzioni di massa. zi con i quali poter trasmettere le informazioni, dal telefono cellulare alla tv digitale,

Il boom della tecnologia digitale

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

ma i diversi canali di trasmissione sono stati accorpati in un unico apparecchio di dimensioni ridotte: con i computer e, soprattutto, con i più recenti tablet e smartphone, è possibile infatti vedere film, ascoltare musica, fare telefonate o “navigare” su Internet.



21_2 LA RETE

Una delle più importanti novità collegate alla rivoluzione informatica fu lo sviluppo rapidissimo di Internet. Alla fine degli anni ’60, era stata istituita negli Stati Uniti, per iniziativa delle forze armate, una rete di connessione fra diversi computer (Arpanet), che costituiva un sistema di comunicazione capillare e sicuro, in grado di resistere anche a una guerra nucleare. Parallelamente fu realizzato un collegamento tra i grandi calcolatori di alcune università

Internet

PERSONAGGI

Gli innovatori: Bill Gates e Steve Jobs

I

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nnovatori di talento, abili manager, imprenditori di straordinario successo, Bill Gates (ma il suo nome di battesimo è William Henry III) e Steve Jobs furono soprattutto, a partire dalla metà degli anni ’70 del ’900, i protagonisti della “rivoluzione dei computer”. Gates e Jobs non parteciparono però alle stesse iniziative né mai collaborarono in un progetto comune. Misurato e razionale il primo, dotato di grande capacità immaginativa il secondo, incarnarono due modi diversi di intendere l’innovazione tecnologica, le strategie aziendali e il significato della rivoluzione informatica. Nacquero nello stesso anno, il 1955, in due località della costa occidentale degli Stati Uniti. Diversi però sono i contesti in cui crebbero. Gates nacque a Seattle, in una famiglia molto tradizionale e benestante. Jobs, invece, figlio naturale di un professore siriano e di una studentessa, fu dato in adozione alla nascita presso una famiglia di San Francisco. Nel periodo della giovinezza ciascuno di loro rispecchiò lo stereotipo dell’inventore geniale, refrattario alle regole dell’istruzione ricevuta e poco interessato a portare a compimento un ordinato percorso scolastico e universitario o a conseguire un titolo: Gates inseguì la passione per la matematica, osteggiata dai genitori, Jobs si avvicinò alle culture alternative e alle religioni orientali. Entrambi svilupparono molto precocemente forti interessi per l’elettronica e ottennero significativi risultati ancor prima di compiere vent’anni. Gates diede un contributo fondamentale allo sviluppo del software, grazie anche all’amicizia e alla stretta collaborazione con l’infor-

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matico Paul Allen. Riuscirono a sviluppare e ampliare le funzioni del basic, il primo linguaggio di programmazione, mettendone a punto una versione radicalmente nuova, più sofisticata e adattabile. Per poter sviluppare al meglio il loro software e sfruttarne commercialmente i risultati, Allen e Gates fondarono nel 1975 una propria società informatica, la Microsoft, nel New Mexico. Nel 1978 la Microsoft realizzò il suo primo, grande successo: il sistema operativo Ms-Dos, un software che consentiva al computer di funzionare, gestendo sia le sue componenti di base (come il processore e la memoria) sia i programmi destinati a operazioni specifiche. Grazie alla rapida diffusione dell’Ms‑Dos, i computer dei diversi produttori (a partire dall’Ibm) adottarono lo stesso sistema di funzionamento: diventava quindi possibile trasferire dati e informazioni dall’uno all’altro. All’inizio degli anni ’80 il sistema operativo della Microsoft divenne il linguaggio universale del mercato del computer. La società (da cui Allen si allontanò alla metà degli anni ’80 per problemi di salute) in seguito lanciò sul mercato anche programmi destinati a enorme successo, come Word ed Excel (dedicati rispettivamente alla scrittura e al calcolo) e sviluppò nuove versioni dell’Ms-Dos. Il contributo pionieristico di Jobs fu invece la creazione dell’hardware. Anche in questo caso, fu decisiva un’amicizia, quella con Steve Wozniak, con cui nel 1976 fondò un’azienda produttrice di computer, la Apple, a Cupertino, nella Silicon Valley, l’area della baia di San Francisco nella quale si sarebbero concentrate le più innovative aziende

produttrici di computer e programmi informatici. Il primo successo commerciale della nuova società fu, alla fine del decennio, l’Apple II, uno dei primi personal computer prodotti su larga scala: integrato con monitor e tastiera, si caratterizzava per il facile utilizzo. Nel 1984 la Apple lanciò un nuovo modello, il Macintosh, con cui introduceva una serie di innovazioni – come le icone, le finestre, il menu a tendina e il mouse – che cambiarono profondamente le modalità di utilizzo dei calcolatori e da quel momento avrebbero caratterizzato ogni personal computer. Quando la Microsoft, pochi anni dopo, adottò soluzioni analoghe per il proprio sistema, furono lanciate, da Apple, dure accuse di plagio, con strascichi legali ricomposti solo ad anni di distanza. Nonostante le novità, il Macintosh, pur con buoni risultati commerciali, non raggiunse le vendite sperate. Di fronte al peggiorare dei bilanci e ai sempre più duri scontri con il consiglio di amministrazione, Jobs lasciò, nell’autunno del 1985, l’azienda da lui creata. Si aprì una fase, durata oltre un decennio, di forte difficoltà della Apple, alle prese con debiti sempre più alti e con una capacità ormai ridotta di produrre innovazioni. Quel periodo coincise con il momento di maggior successo di Gates. All’inizio degli software/hardware Tradotto letteralmente, software significa “materiale leggero”. Il termine si usa in contrapposizione ad hardware (“materiale pesante”, “ferraglia”, ovvero i vari componenti di un elaboratore), per indicare la sequenza di istruzioni necessarie ad un calcolatore per funzionare. Questa sequenza deve essere comunicata all’elaboratore, il quale, in base ai comandi che la compongono, utilizza le differenti risorse di cui dispone (hardware), come il disco rigido, la stampante, ecc.

americane, che negli anni successivi coinvolse anche altri paesi. All’inizio degli server anni ’80 le forze armate statunitensi diedero vita a una propria rete separata, In una rete, il server è il computer o il programma mentre le reti civili, che collegavano soprattutto centri di ricerca e università, utilizzato per fornire ad altri computer (detti client) servizi vennero unificate. Nacque in questo modo Internet, che inizialmente offriva serapplicativi o informazioni, come per esempio l’accesso a vizi dedicati a particolari comunità di utenti. Una svolta decisiva si ebbe nel 1991, risorse condivise (file e cartelle, stampanti ecc.), l’accesso a banche dati, i servizi di posta elettronica, la connessione quando il Cern (Consiglio europeo per la ricerca nucleare) di Ginevra creò il prialla rete Internet. mo server World Wide Web (www) per permettere agli scienziati di scambiarsi informazioni composte da testi e immagini. Da allora cominciò la grande espansione della rete tra gli utenti privati: si diffuse l’uso della posta elettronica (e-mail), già sperimentata all’inizio degli anni ’70; nacquero i primi siti, si affermarono i grandi provider (ossia le società che organizzano l’accesso alla rete), cominciò a muovere i primi passi il commercio a distanza (e-commerce). Il successo di Internet fu immediato, soprattutto tra le generazioni più giovani e istruite.

anni ’90 la Microsoft lanciò un nuovo sistema operativo, Windows, che, sull’esempio del concorrente, introduceva le immagini grafiche, come le cartelle e il desktop. L’azienda era ormai divenuta il maggior produttore mondiale di software: i suoi programmi e sistemi operativi erano venduti in milioni di copie in ogni parte del mondo. La Microsoft seppe anche trarre profitto dalla diffusione di Internet, realizzando programmi per navigare in Rete. A partire dalla metà degli anni ’90, e ininterrottamente per un quindicennio, Gates fu indicato come l’uomo più ricco del mondo. Anche la sua parabola tuttavia conobbe, all’improvviso, una brusca fase discendente. Alla fine degli anni ’90 la Microsoft, accusata di avere assunto una po-

sizione monopolistica nel mercato americano, fu condannata a scorporare i diversi settori dell’azienda. La sua quotazione in Borsa crollò e i conti economici peggiorarono notevolmente. Sia per Jobs sia per Gates, però, le difficoltà incontrate non portarono a un’uscita di scena. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del secolo successivo, si aprì per loro una nuova fase. Nel 1996 la Apple, in grave crisi, richiamò Jobs, che rilanciò l’azienda proponendo innovativi prodotti elettronici: il dispositivo per ascoltare la musica digitale (l’iPod), il telefono cellulare con schermo multi-touch e funzioni di navigazione Internet e lettura di file multimediali (l’iPhone), il tablet (l’iPad), e successivamente anche uno

smart‑watch (l’AppleWatch). Attraverso una massiccia campagna pubblicitaria e di marketing e una crescente attenzione accordata al design e all’estetica dei prodotti, Jobs riportò in auge il marchio Apple. Al tempo stesso, plasmò di sé l’immagine dell’innovatore geniale e dell’imprenditore anticonformista: una mitizzazione abilmente costruita che coinvolse crescenti schiere di ammiratori, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, durante i quali affrontò una grave malattia, e anche dopo la morte, avvenuta nel 2011. Gates, invece, superata la bufera, abbandonò la guida della Microsoft: nel 2000 lasciò le cariche operative e mantenne solo quella di presidente (da cui si dimise nel 2008). Nello stesso anno costituì, insieme alla moglie Melinda, una fondazione umanitaria, impegnata a garantire assistenza sanitaria e prevenzione medica nei paesi africani. Da allora si dedicò a tempo pieno all’impegno filantropico, cui destinò anche una quota ragguardevole della sua ricchezza. Con la morte di Jobs e il ritiro di Gates si è chiusa, anche simbolicamente, una fase importante della storia dell’economia e della tecnologia. Sono state le aziende da loro fondate e condotte al successo a portare il computer nel mondo della produzione di massa, rendendolo un oggetto di uso quotidiano, presente in quasi ogni casa. Icone del capitalismo globale di fine secolo, tuttavia, Gates e Jobs sono stati spesso accusati di aver perseguito una strategia commerciale aggressiva e spregiudicata.

Steve Jobs (a sinistra) e Bill Gates durante un’intervista 2007 [foto di Joi Ito]

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La novità si diffuse con una rapidità impensabile per altri strumenti di informazione o altri generi di consumo: nel 1995, a solo quattro anni dalla sua nascita, la rete contava già 50 milioni di soggetti collegati [► _25]. Il numero dei “navigatori” da allora aumentò costantemente, prima nei paesi del Nord America e dell’Europa settentrionale poi nelle nazioni di nuova industrializzazione. Si è stimato che gli utenti della rete Internet nel mondo fossero circa due miliardi e mezzo nel 2012, tre miliardi e 700 milioni (più di metà della popolazione mondiale) nel 2017. Internet contribuì così a modificare i modi di espressione e gli orizzonti culturali di milioni di persone, grazie alla possibilità di collegarsi a fonti di informazione sparse su tutto il pianeta e alla maggiore facilità di confronto fra culture e opinioni diverse [►FS, 174].

Una diffusione capillare

All’inizio del terzo millennio, nuovi cambiamenti rivoluzionarono le forme di utilizzo di Internet e introdussero nuove possibilità di partecipazione, segnando il passaggio al cosiddetto Web 2.0. L’utente, che nei primi anni era per lo più un lettore di contenuti scritti da altri, fu messo in condizione di intervenire attivamente attraverso i blog, i forum, le chat,

I social network

25_IL DIGITALE NEL MONDO, GENNAIO 2018

POPOLAZIONE TOTALE

UTENTI INTERNET

UTENTI ATTIVI SU SOCIAL MEDIA

UTENTI MOBILE

UTENTI ATTIVI SU SOCIAL MEDIA DA MOBILE

7,593 MILIARDI

4,021 MILIARDI

3,196 MILIARDI

5,135 MILIARDI

2,958 MILIARDI

55%

53%

42%

68%

39%

Come si evince dal rapporto annuale Global Digital 2018 condotta dalla agenzia creativa We Are Social, il numero di utenti connessi a Internet ha superato, a gennaio 2018, i 4 miliardi di persone, più della metà della popolazione mondiale. Oltre 250 milioni di persone si sono connesse a Internet per la prima volta nel 2017: il continente che ha registrato il maggiore tasso di crescita di utenti Internet nel 2017 è l’Africa con un +20%, corrispondente però al 34% della popolazione, mentre il tasso di crescita in Europa è del 6%, corrispondente all’80% della popolazione (94% se si considera il solo Nord Europa). In Italia il 73% della popolazione è online (43 milioni di persone), con un tasso di crescita del 3%; 34 milioni gli utenti attivi sui social media. Il rapporto completo è disponibile sul sito https://wearesocial.com/it/.

864

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg Nato nel 1984, Mark E. Zuckerberg è uno dei protagonisti della rivoluzione informatica nel campo dei social network: insieme ad altri quattro compagni universitari ha infatti creato Facebook, il social network di cui dal 2013 è presidente e amministratore delegato.

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di partecipare alla realizzazione di progetti comuni (come nel caso dell’enciclopedia online Wikipedia) e di condividere fotografie, filmati e brani musicali. La nascita dei social network, ovvero siti aperti in cui ciascuno può creare personali reti di contatti, ha reso più facile scambiare messaggi, riflessioni e materiali multimediali. L’importanza di questa nuova forma di METODO DI STUDIO comunicazione è testimoniata dal successo ottenuto in breve tempo dal più dif a   Sottolinea e numera le tappe che hanno porfuso dei social network, Facebook, che nel 2017 contava circa due miliardi di tato dall’invenzione di Internet al Word Wide Web e ai social network così come li conosciamo. utenti; nonché dallo straordinario utilizzo di alcuni programmi software (le  b   Evidenzia i nomi dei social network descritti “applicazioni”) di messaggistica: fra questi WhatsApp, che, nato nel 2009, era e sottolineane le caratteristiche peculiari. utilizzato nel 2017 da un miliardo di persone in tutto il mondo.



21_3 ECONOMIA GLOBALE E FINANZA INTERNAZIONALE

Negli ultimi decenni del XX secolo, il mondo entrò in una fase di crescente integrazione economica e finanziaria, che oggi viene generalmente definita globalizzazione [►FS, 172]. L’integrazione non costituiva di per sé una novità. Le economie capitalistiche avanzate si erano mosse sempre su scala planetaria. E sulla stessa dimensione mondiale erano stati costruiti i grandi imperi delle potenze coloniali europee. A partire dalla fine del ’900, tuttavia, continenti e nazioni strinsero legami economici fitti e consistenti come mai in passato. Determinante fu innanzitutto il miglioramento dei sistemi di trasporto. I voli aerei più economici, la maggiore velocità dei trasporti su gomma e su rotaia, la costruzione di navi più grandi ed efficienti e l’uso dei container per il trasporto marittimo consentirono di trasferire grandi quantità di merci e di persone a costi notevolmente più bassi, in tempi più rapidi e in condizioni di sicurezza e comodità superiori rispetto a quanto fosse possibile anche nei decenni immediatamente precedenti. Un ulteriore fondamentale contributo all’integrazione economica internazionale venne dai progressi nei sistemi di comunicazione (in particolare Internet) e dall’uso di una lingua veicolare comune – l’inglese – che resero più veloce ed economica la circolazione delle idee e delle informazioni. Infine, come vedremo meglio più avanti, gli scambi commerciali furono facilitati dall’abbattimento di molte barriere create artificialmente dall’uomo, come i dazi doganali e le leggi che limitavano la circolazione delle merci [►21_4].

► Leggi anche: ► Fare Storia La globalizzazione e le trasformazioni dell’economia, p. 967

La globalizzazione economica

La Borsa di Milano Grazie ai progressi della rete telematica (pc, Internet, cellulari), le informazioni sugli andamenti azionari sono visualizzate in tempo reale da milioni di addetti ai lavori in tutto il mondo.

Come l’integrazione commerciale, anche la globalizzazione della finanza fu il risultato sia dei miglioramenti tecnologici che consentirono di far circolare informazioni da una parte all’altra del mondo in pochi istanti, sia delle scelte dei governi nazionali che, a partire dalla metà degli anni ’70, ridussero o cancellarono i vincoli ai movimenti dei capitali. Gli intermediari finanziari potevano ormai spostare le loro attività da una Borsa all’altra, attraverso nazioni, continenti e fusi orari, operando 24 ore su 24 [►FS, 176]. I mercati finanziari diventarono non solo strettamente connessi fra loro, ma sempre più svincolati dagli elementi materiali dell’economia. Oggi, infatti, solo una piccola percentuale dei capitali in movimento è destinata ad acquistare merci o a finanziare attività produttive, mentre la gran parte viene spostata per acquisire titoli finanziari che garantiscano alti rendimenti o per investire su titoli o monete nella speranza di rivenderli in un secondo tempo a un valore più alto. Nel grande

La mondializzazione della finanza

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I FATTORI DELLA GLOBALIZZAZIONE

Diffusione di pc, tablet, cellulari e smartphone

Innovazioni nel campo dell’elettronica e dell’informatica

Sistemi di trasporto più veloci ed economici

Rivoluzione delle telecomunicazioni su scala mondiale

GLOBALIZZAZIONE

Abbattimento delle barriere

Sviluppo della rete Internet

Commercio a distanza

Libertà di movimento dei capitali

mercato finanziario globale vengono scambiate non solo valute, azioni (rappresentative dei capitali investiti nelle imprese) e obbligazioni (titoli di debito che attribuiscono al possessore il diritto al rimborso del capitale prestato e al guadagno di un interesse) ma, in misura crescente, nuove tipologie di titoli “atipici”: così chiamati in quanto non previsti dalle leggi che regolano i mercati, ma creati dall’iniziativa dei privati e soggetti a controlli meno stretti. Questi titoli si basano sulla variazione nel futuro del prezzo di un bene materiale e finanziario, e quindi implicano un rischio elevato per l’investitore [►FS, 177d]. L’accelerata circolazione dei capitali offrì dunque nuove possibilità di investimento ai grandi finanzieri come ai piccoli risparmiatori. Al tempo METODO DI STUDIO stesso, però (com’era accaduto per il boom azionario americano alla fine degli an a   Evidenzia le caratteristiche della globalizza► ni ’20 [ 7_2]), consentì la formazione di ricchezze artificiali, non commisurate al zione. valore effettivo dei beni reali, innescando rischi fortissimi: lo si vide alla fine degli  b   Spiega oralmente in che modo e perché i anni ’90, con l’esplosione della bolla speculativa provocata dalla crescita abnormercati finanziari sono diventati sempre più lontani dalla vita reale. me dei valori azionari di imprese legate alla “nuova economia” (quella nata con lo  c   Sottolinea ciò che viene scambiato nel gransviluppo dei computer e delle comunicazioni in rete); e il fenomeno si sarebbe ride mercato finanziario globale. petuto su scala più ampia nel 2007-8, quando la crisi dei cosiddetti “derivati”  d   Spiega in un testo di massimo 10 righe e in cosa consiste la bolla speculativa degli anni ’90, co(strumenti finanziari il cui prezzo è legato al valore di altri titoli, spesso ad alto risa sono i derivati e perché sono stati citati in questo schio) mise in grave difficoltà il sistema bancario statunitense e mondiale, innecontesto. scando una crisi economica che sarebbe diventata presto mondiale [►24_1].

Le bolle speculative



21_4 IL GOVERNO DELL’ECONOMIA MONDIALE E LA TUTELA DELL’AMBIENTE

Nell’epoca della globalizzazione, i governi delle maggiori potenze occidentali si impegnarono non solo per la riduzione di vincoli e ostacoli agli scambi, ma anche per l’istituzione di regole condivise e di nuovi organismi sovranazionali. La prima iniziativa, nata già nel 1975 da un’idea del presidente francese Giscard d’Estaing mentre era ancora in atto la crisi petrolifera, si tradusse nella convocazione di una serie di vertici annuali fra i governi dei paesi più industrializzati: all’inizio erano solo cinque (Usa, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna), poi diventarono sette, con l’ammissione di Italia e Canada e infine otto – da cui la sigla G8, dove G sta per “gruppo” – con l’ingresso della Russia postcomunista. 866

G8 e Wto

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

► Leggi anche: ►   Eventi La “battaglia di Seattle” ► Parole della storia Debito estero, p. 893

La volontà di incentivare gli scambi fu poi all’origine dell’istituzione della Wto (World Trade Organization, “Organizzazione mondiale del commercio”), che sostituiva gli accordi stipulati alla fine della seconda guerra mondiale (Gatt) [►12_1]. Fondato nel 1995, dopo lunghi negoziati, con lo scopo di coordinare e favorire la liberalizzazione del commercio internazionale, l’organismo contava, nel 2016, 164 Stati membri (comprese Cina e Russia), che rappresentavano il 97% del commercio mondiale. Un segno evidente di quanto i processi di globalizzazione dell’economia coinvolgessero il pianeta in tutta la sua estensione. Il tentativo di coordinare l’azione dei governi nazionali sulle questioni di interesse comune non riguardò solo la dimensione economica. Gli sforzi per una comune azione internazionale volta a ridurre l’inquinamento e a favorire uno sviluppo sostenibile, avviati negli anni ’90 [►16_2], proseguirono nel nuovo millennio, grazie anche alla svolta impressa alla politica statunitense dalla presidenza Obama [►24_2]. Si tennero, sotto il patrocinio delle Nazioni Unite, incontri periodici che portarono, nel dicembre 2015, al varo dell’Accordo di Parigi, un documento con cui 196 paesi si impegnavano a combattere contro le conseguenze del riscaldamento globale e a limitare le emissioni di gas inquinanti. L’attuazione di queste misure incontrava però serie difficoltà, per l’assenza di procedure vincolanti e di tempi certi di applicazione, oltre che per le resistenze di alcune fra le maggiori potenze industriali.

Le politiche ambientaliste

Contro gli assetti economici internazionali e le forme assunte dalla globalizzazione, e contro la mancata attenzione al problema ambientale, prese sempre più forza un movimento di protesta, anch’esso diffuso su scala mondiale, che raccoglieva organizzazioni e gruppi di provenienza politica e culturale anche molto diversa e solo in parte riconducibili alla sinistra tradizionale [►FS, 177d]. Nato già agli inizi degli anni ’90, questo

Il movimento “no global”

43_GLI STATI MEMBRI DEL WTO, 2018

Nel 2018 rimangono esclusi dal Wto (in quanto non fanno parte né dei paesi membri né dei paesi osservatori) solo Corea del Nord, Eritrea, Guyana francese, Turkmenistan e Palestina. Sul sito ufficiale del Wto (www.wto.org) è possibile consultare la versione interattiva della carta, con informazioni, dati e notizie relative a tutti i paesi aderenti. paesi membri

paesi membri paesi osservatori

paesi osservatori

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Un poliziotto spruzza spray al peperoncino sui manifestanti anti-Wto, Seattle 30 novembre 1999

movimento, tuttavia, non trovò spazio sui media sino al dicembre 1999, quando nella città statunitense di Seattle, in occasione di una conferenza del Wto, furono organizzate le prime manifestazioni, a tratti violente, di protesta: per questo inizialmente fu denominato “popolo di Seattle” mentre, in seguito, divenne noto genericamente come movimento “no global” [►FS, 173d]. Privo di un’organizzazione unitaria, il movimento si espresse in grandi manifestazioni di piazza in cui METODO DI STUDIO emersero soprattutto le minoranze più radicali, come a Göteborg nel giugno  a   Evidenzia con colori diversi le informazioni 2001 e a Genova in occasione del vertice del G8 nel luglio successivo [►25_2]. I principali relative al G8 e al Wto e sottolinea gli “no global” chiedevano alle potenze industriali di cancellare il debito estero conelementi che li differenziano. tratto dai paesi in via di sviluppo [►22_5 e 22_7], di adottare nuove e più restrit b   Definisci per iscritto il concetto di “sviluppo sostenibile”. tive regole nel commercio internazionale, di limitare le attività delle multinazio c   Sottolinea con colori diversi le caratteristiche nali nelle regioni più povere del pianeta, di difendere le identità e i sistemi principali e gli obiettivi del movimento “no global”. produttivi locali e, più in generale, di impegnarsi per realizzare una distribuzione più equa delle ricchezze.



21_5 LE TRASFORMAZIONI NEL MONDO DEL LAVORO E DELL’INDUSTRIA

I processi di globalizzazione si accompagnarono anche ai profondi cambiamenti nel mondo del lavoro e in qualche misura contribuirono a determinarli. In particolare, a partire dagli anni ’80, diventarono sempre più frequenti gli spostamenti della produzione da una nazione all’altra. Il controllo informatico e la velocità delle comunicazioni consentirono a molte imprese – non solo le grandi multinazionali, ma anche le piccole e le piccolissime – di decentrare la produzione nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, soprattutto in Europa orientale, in Asia e in America Latina, riuscendo a mantenere elevata la qualità e ad abbassare i costi, grazie alla disponibilità di una manodopera disposta ad accettare 868

La delocalizzazione

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salari ridotti, orari più lunghi e dure condizioni di lavoro [►FS, 173d]. La cosiddetta “delocalizzazione” determinava così, assieme a nuove opportunità di lavoro e di guadagno, la propagazione di drammatiche forme di sfruttamento, anche minorile. Il fenomeno ebbe inoltre ripercussioni sui lavoratori dei paesi industrializzati, spesso costretti ad accettare un peggioramento delle proprie condizioni per evitare un trasferimento della produzione e quindi la perdita del lavoro. Si accentuava dunque, per i paesi dell’Europa occidentale e del Nord America, il rischio di perdere i privilegi di un benessere protetto solo da una superiorità tecnologica sempre più difficile da mantenere. La delocalizzazione, insieme alle conseguenze della rivoluzione elettronica, accelerò la transizione dei paesi occidentali verso un tipo di società che è stato definito “postindustriale”. In questi paesi il ruolo dominante delle attività industriali venne declinando a vantaggio del settore dei servizi. Il processo, in atto ormai da molti decenni [►15_2], si era definito, nei primi anni ’90, secondo una graduatoria che vedeva il terziario occupare il 67% della popolazione attiva nei maggiori paesi industriali, con un’oscillazione che andava dal 59% della Germania al 69% della Gran Bretagna, al 73% degli Stati Uniti e al 60% dell’Italia. Ridotta ormai l’agricoltura a un valore medio del 7% (ma del 3% negli Usa e del 2% in Gran Bretagna), l’industria manteneva percentuali di popolazione attiva superiori al 30% solo in Germania, Italia, Spagna e Giappone. Lo sviluppo dei servizi, se da un lato faceva crescere la ricchezza prodotta e la manodopera impiegata in attività come i trasporti, le assicurazioni, le banche, il commercio, il turismo, le telecomunicazioni, dall’altro dava anche spazio a innumerevoli impieghi sottopagati e precari, i cosiddetti macjobs (dal modo in cui venivano chiamati i lavori nelle catene dei fast-food americani McDonald’s). Ciò significava anche che il motore fondamentale delle attività economiche, la fabbrica, aveva perso quella centralità nel mondo della produzione e nelle relazioni sociali che era stata tipica della società industriale (sia capitalistica sia socialista).

La società postindustriale

Del resto anche l’organizzazione del lavoro in fabbrica era ormai cambiata: al modello produttivo fordista fondato sulla catena di montaggio e sulla grande fabbrica introdotto negli Stati Uniti da Henry Ford all’inizio del ’900 [►1_2] se ne era sostituito un altro, definito con il termine “postfordismo”, che era stato adottato fin dagli anni ’50 in Giappone dall’industria automobilistica Toyota. Il sistema “fordista”, rigidamente gerarchico, cedeva per il passo a una struttura più flessibile e leggera – organizzata in unità produttive più piccole e specializzate in singole fasi della lavorazione – in grado di rispondere più rapidamente, e a costi più ridotti, alle domande del mercato e di adattarsi più agevolmente alle innovazioni tecnologiche. Il lavoro senza autonomia della catena di montaggio era sostituito da una strutturazione per gruppi (composti da operai, ingegneri, manager), in cui le mansioni esecutive si univano a compiti di controllo, in modo da realizzare un prodotto finito in tempi più brevi, con meno difetti di produzione e più a misura della clientela [►FS, 171]. Date queste caratteristiche, il nuovo modello produttivo determinava il superamento della standardizzazione, sia sul versante della produzione sia su quello del consumo di massa, privilegiando invece l’offerta di una maggiore varietà dei prodotti. Si pensi alle innumerevoli varianti degli articoli di largo consumo, anche di beni durevoli (auto, elettrodomestici, apparecchi elettronici).

La riorganizzazione della fabbrica: il “postfordismo”

Operaie cinesi in una fabbrica della Seagate Technology Wuxi (Cina) 2008 [foto di Robert Scoble] La società americana Seagate Technology è leader nel mondo nella produzione di dischi rigidi e componenti elettroniche per la memorizzazione dei dati digitali. È stata la prima società a superare la soglia dei due miliardi di unità disco vendute e nel 2013 contava oltre 54 mila dipendenti in tutto il mondo.

Un altro elemento caratterizzante della nuova organizzazione del lavoro è la flessibilità, sia nel settore industriale sia in quello terziario: l’occupazione stabile, con contratti a tempo indeterminato, è oggi largamente sostituita da forme di assunzione temporanea, talvolta anche per periodi molto brevi; ai lavoratori, inoltre, è richiesta, più che l’esecuzione di mansioni fisse, la capacità di adattarsi a svolgere operazioni e procedure diversificate.

Lavoro flessibile e precariato

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

LA DELOCALIZZAZIONE

Sviluppo delle telecomunicazioni

Globalizzazione dell’economia

Disponibilità di manodopera a basso costo

Sviluppo del settore dei servizi

DELOCALIZZAZIONE dei processi produttivi in Europa dell’est, Asia e Africa

Diffusione di impieghi precari e sottopagati

Avvento della società POSTINDUSTRIALE

Riorganizzazione postfordista del lavoro in fabbrica

L’espressione “società postindustriale” non indica dunque un mondo senza industria, ma suggerisce che l’industria non è più l’asse portante delle attività produttive e delle relazioni umane e sociali. Ciò che connota la società postindustriale è invece il controllo dell’informazione, dei suoi linguaggi, delle sue procedure, dei suoi flussi. Produrre e vendere informazione definisce le nuove gerarchie di potere e di ricchezza, di dominio e di libertà. METODO DI STUDIO Nelle società postindustriali c’è inoltre meno spazio per le contrapposizioni di  a   Sottolinea con colori diversi i vantaggi e gli classe di tipo tradizionale. Il che non significa che siano venuti meno i motivi svantaggi della delocalizzazione.  b   Sottolinea gli elementi che permettono di di scontro. I conflitti si collocano però in ambiti diversi, meno condizionati dai definire “postindustriale” la società attuale, quindi sistemi di produzione: sono, per esempio, quelli che contrappongono le classi spiega per iscritto in cosa consiste e quali sono le di età, soprattutto i giovani agli adulti, col rafforzarsi simbolico e rituale delle sue caratteristiche principali.  c   Evidenzia con colori diversi gli elementi caidentità giovanili, o che vedono i settori meno garantiti contrapposti a quelli più ratterizzanti della nuova organizzazione del lavoro e tutelati dal sistema del Welfare. Altre aree conflittuali sono quelle in cui operano sottolineane le caratteristiche principali mantei movimenti delle donne, i movimenti ecologisti, i gruppi di tutela delle diversità nendo i colori scelti. etniche, linguistiche, religiose.

La società dell’informazione



21_6 MUTAMENTI DEMOGRAFICI E MIGRAZIONI

Il nuovo mondo globalizzato è attraversato non solo da ininterrotti flussi di merci e capitali, ma anche da imponenti spostamenti di popolazione: a partire dagli anni ’60 del ’900 la dimensione dei flussi migratori è andata infatti aumentando a un ritmo elevato. Neanche questo era un fenomeno nuovo: basti pensare che, tra la metà del XIX e i primi anni del XX secolo, si erano trasferiti nel continente americano circa 60 milioni di persone provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Nuove, però, erano le dimensioni del flusso e nuova la sua estensione planetaria. Nel 1990 si stimava la presenza di circa 154 milioni di persone emigrate da uno Stato all’altro, poi salite a 175 milioni nel 2000 e a 244 milioni nel 2015. Diversamente dalla grande ondata di un secolo prima, gli spostamenti interessavano in misura rilevante anche la forza lavoro qualificata, ovvero persone con un buon livello di scolarizzazione, alcune delle quali in possesso della laurea.

870

Le migrazioni

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

► Leggi anche: ► Parole della storia Multiculturalismo, p. 874 ► Fare Storia Migrazioni e nuovi modelli di società, p. 975

Gli spostamenti di popolazione hanno coinvolto tutti i continenti. Oltre ai flussi a lungo raggio verso le nazioni più ricche (dal Centro al Nord America, dalla riva sud a quella nord del Mediterraneo, dall’Europa orientale a quella occidentale, dal continente asiatico a quello europeo o americano) si sono registrati anche consistenti movimenti a corto raggio al di fuori dell’Occidente, per esempio all’interno dell’Africa o dell’Asia. La scelta delle destinazioni è condizionata da molti fattori, non solo geografici, economici e politici, ma anche culturali: la lingua, la religione, la presenza nel luogo di arrivo di comunità di connazionali già consolidate.

I flussi

Diverse anche le motivazioni che inducono grandi masse di uomini, donne e bambini ad abbandonare il loro paese con qualsiasi mezzo. Nella maggior parte dei casi, quelli che genericamente chiamiamo “migranti” sono spinti dalla fame o dalla ricerca di condizioni di vita migliori (si parla di “migranti economici”). Altro il caso di coloro che fuggono da guerre, stragi e persecuzioni politiche e religiose e che, in base alle regole stabilite dall’Onu, sono riconosciuti come “rifugiati”, con diritto all’assistenza da parte dei paesi ospitanti. Nella pratica, però, questa condizione si rivela difficile da accertare, in assenza di canali istituzionali per selezionare gli arrivi, e ancora più difficile da gestire, vista la carenza di strutture adeguate per l’accoglienza.

Migranti e rifugiati

In larga parte, le migrazioni verso l’Europa avvenivano (e avvengono) in forma clandestina: sia che seguissero un percorso via terra, la cosiddetta “rotta balcanica”, che dalla Turchia, attraverso la Grecia e i paesi dell’ex Jugoslavia, puntava verso il centro-Europa; sia che prevedessero, dopo lunghi viaggi verso le coste del Nord Africa, il passaggio del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna dirette soprattutto in Italia, Grecia, Spagna

L’immigrazione clandestina

44__FLUSSI MIGRATORI ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO

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Aree del mondo principali mete dei migranti Aree del mondo principali mete dei migranti

Principali flussi migratori mondiali

Aree del mondo principali mete dei migranti

Principali flussi migratori mondiali

Flussi migratori di personale altamente qualificato

Principali flussi migratori mondiali

Flussi migratori di personale altamente qualificato C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

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Flussi migratori di personale altamente qualificato

[►FS, 180d e181]. Anche in questo caso, destinazione finale erano i paesi del centro e del Nord Europa, dove esistevano forti comunità di immigrati. A organizzare i viaggi via mare erano quasi sempre gruppi criminali nordafricani che, in cambio di somme considerevoli, trasportavano grandi quantità di migranti, in condizioni generalmente disumane e di grande pericolo [►FS, 178 e 179d], come dimostrano le cifre relative alle persone decedute durante la traversata: secondo stime forzatamente approssimative, oltre 30 mila migranti, in buona parte mai identificati, morirono nel Mediterraneo fra il 2001 e il 2016, con un picco nel 2015-s16 dovuto anche all’intensificarsi dei conflitti armati nei paesi africani e nell’intero Medio Oriente [►24_8]. Il bilancio sarebbe ancora più grave senza gli interventi di soccorso in mare da parte delle marine militari, delle flotte commerciali e delle organizzazioni internazionali di volontariato. L’Italia, in particolare, svolge in questa attività un ruolo importante, anche per la sua posizione geografica che ne fa la meta privilegiata delle imbarcazioni provenienti dal Nord Africa, soprattutto dalla Libia, in preda al caos dopo la caduta del regime di Gheddafi [►24_7].

Il soccorso ai migranti

Il carattere incontrollabile, e in apparenza inarrestabile, del fenomeno migratorio costituisce per le economie e per le opinioni pubbliche dei paesi industrializzati un problema di non facile soluzione, che ha dato luogo a reazioni di diverso segno. Da un lato si è manifestata – soprattutto nella sinistra, nelle chiese cristiane e nella stessa cultura liberale – la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell’immigrazione: non solo in termini di afflusso di nuova forza-lavoro funzionale allo sviluppo economico (e pronta a svolgere mansioni poco appetibili per i giovani cresciuti nella società del benessere), ma anche in quanto apportatrice di nuovi valori, di nuove usanze, di nuove culture; da qui l’intensa attività delle organizzazioni di volontariato, cristiane e laiche, nel sopperire alle difficoltà dell’accoglienza. È in questo contesto che il multiculturalismo viene assunto come valore positivo, veicolando l’idea di una società multietnica, in cui le differenze culturali e religiose siano non solo

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Le reazioni alla società multietnica

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Un barcone di migranti nel Mar Mediterraneo [foto di Massimo Sestini/Eyevine]

La mostra “Libero” di Ai Weiwei a Palazzo Strozzi a Firenze 2016 Nel 2016 l’artista cinese Ai Weiwei ha affrontato il tema della tragedia delle morti dei migranti durante la fuga in mare con imbarcazioni spesso troppo fragili: in una mostra che ha fatto molto discutere, Weiwei ha esposto 22 gommoni rossi su 2 facciate del rinascimentale Palazzo Strozzi a Firenze. La serie di gommoni, che l’artista ha voluto rossi come il sangue, riprende la linea decorativa delle finestre a bifora dell’edificio e secondo Weiwei diventano il simbolo del “passaggio salvifico che rinnova un monumento dell’arte”.

ammesse come cosa normale (piuttosto che tollerate come eccezioni), ma anche adeguatamente protette e valorizzate, soprattutto in ambito scolastico [►FS, 182 e183]. Dall’altro lato, il fenomeno migratorio ha suscitato reazioni di ansia e di rigetto, con punte di xenofobia o addirittura di razzismo, dando corpo all’antica paura dell’Occidente di vedersi fisicamente sommerso da ondate di popoli più numerosi e demograficamente più vitali. E la minaccia, vera o presunta, portata agli equilibri dei paesi ospiti dall’innesto degli immigrati (soprattutto se dotati di forte coesione culturale, com’è il caso dei musulmani) ha accentuato, per reazione, la tendenza alla riscoperta, e alla difesa gelosa, delle identità nazionali o religiose, già alimentata dalla caduta dei grandi sistemi ideologici [►FS, 184d]. Il grande flusso migratorio si collegava direttamente ai profondi cambiamenti nello sviluppo demografico intervenuti nelle diverse aree del mondo. In Europa e nell’America del Nord, caratterizzate sin dall’inizio del ’900 da bassi tassi di mortalità e di natalità [►15_1], il tasso di fecondità – ossia il numero medio di figli per ogni donna – scese ulteriormente, attestandosi alla fine del secolo sotto quota 2, ossia sotto la soglia della “crescita zero” (l’Italia raggiunse nel 1997 l’ultimo posto in questa classifica con un tasso di 1,2). Il calo demografico creava non pochi problemi proprio in relazione al mantenimento dei livelli di benessere raggiunti dalle società sviluppate. La contrazione delle nascite, unita al prolungamento della vita media, aumentava la percentuale degli anziani sul totale della popolazione (in Italia nel 2015 gli ultrasessantacinquenni erano oltre il 20%) e dunque la quota dei pensionati rispetto a quella dei lavoratori attivi: il numero di questi ultimi, peraltro, si assottigliava anche per l’accorciamento della vita lavorativa media (nelle società con alto livello di istruzione si tende a ritardare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro). Tutto questo rendeva sempre meno sostenibili per la finanza pubblica i costi dei sistemi pensionistici e contribuiva ad aggravare quella crisi del modello di Welfare State che già aveva cominciato a manifestarsi nell’Europa degli anni ’70 [►16_1]. L’immigrazione rappresentava in questo senso un parziale riequilibrio, sia in termini assoluti (i nuovi arrivi bilanciavano in parte le minori

Nuovi equilibri demografici

873

C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

nascite), sia riguardo alla composizione generazionale: gli immigrati erano prevalentemente giovani e quindi contribuivano all’abbassamento dell’età media. Nelle aree povere del mondo il tasso di natalità – ovvero il numero dei nati in un anno ogni mille abitanti – rimaneva elevato (fino al 50 per mille in alcuni paesi africani), anche se cominciò a calare fin dagli anni ’70: più lentamente in Africa, più rapidamente in America Latina e in Asia. Questa tendenza diffusa era dovuta a fattori diversi. In qualche caso era aiutata da politiche demografiche attuate dai governi centrali e volte a incoraggiare con tutti i mezzi il controllo delle nascite: era questo il caso dei due paesi più popolosi del mondo, la Cina e l’India (rispettivamente 1388 e 1335 milioni nel 2017). Ma più spesso andava attribuita a fattori spontanei: la conquista di più elevati livelli di benessere, che immancabilmente portava con sé comportamenti demografici “moderni”; i processi, spesso tumultuosi, di urbanizzazione, che interessavano anche le aree più povere e portavano ad accalcarsi nelle grandi metropoli enormi masse di popolazione per lo più povera o poverissima, allontanandola dalle abitudini e dai comportamenti tipici delle società contadine. Nel 2016, le più estese aree metropolitane dei paesi asiatici (Shangai e Pechino in Cina, Mumbai e Delhi in India, Karachi in Pakistan) raggiungevano o superavano i 20 milioni di abitanti, affiancandosi a San Paolo del Brasile, Città del Messico e New York, mentre in Africa Il Cairo e Lagos si attestavano intorno ai 15 milioni.

Le aree povere

Nonostante il forte rallentamento della natalità (nel 1970-75 il tasso era di circa il 2%, mentre all’inizio del nuovo millennio scendeva all’1,2%), la popolazione mondiale continua ad aumentare, anche se a un ritmo meno rapido: dai 6 miliardi nel 2000 si è passati ai 7,5 nel 2017. Alcune stime parlano di oltre 9 miliardi nel 2050.

La crescita della popolazione mondiale

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le caratteristiche delle migrazioni del passato e di quelle attuali.  b   Sottolinea con colori diversi le cause e le modalità degli attuali flussi migratori.  c   Evidenzia gli elementi che hanno favorito la nascita delle società multietniche e sintetizzane le conseguenze per iscritto.  d  In un testo di circa 5 righe, esponi le cause della crisi del modello del Welfare occidentale e spiega il ruolo che hanno in questo contesto gli immigrati.

Parole della storia

Multiculturalismo

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uesto termine [►FS, 182 e 183], elaborato originariamente nell’ambito delle discipline antropologiche, indica il riconoscimento della pari dignità delle espressioni culturali di tutti i gruppi e comunità che convivono in una società. È un concetto che si fonda sull’idea che ciascun essere umano ha diritto a crescere dentro la propria cultura e la propria tradizione e non deve essere costretto ad assimilarsi a quelle della maggioranza. La parola “multiculturalismo” cominciò a circolare con insistenza negli Stati Uniti e in Canada durante gli anni ’70 del ’900, per poi diffondersi altrove nel decennio successivo. Inizialmente, il termine faceva riferimento soprattutto alla convivenza all’interno della società di etnie e culture diverse. Decisiva, al riguardo, era stata, negli Stati Uniti, la mobilitazione degli afroamericani per il

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riconoscimento dei diritti civili negli anni ’60. E altrettanto importante era stata la decisione del governo canadese di avviare, all’inizio degli anni ’70, una politica federale multiculturale per soddisfare le richieste delle minoranze, soprattutto di quella francofona. Ma presto si affermò anche un’accezione più ampia del concetto, che faceva riferimento a tutte le differenze presenti in una società. A ispirarla fu soprattutto l’esperienza dei movimenti collettivi degli anni ’60, in particolare del femminismo, che rivendicava il riconoscimento della differenza di “genere”. A quest’ultima si aggiunsero poi le differenze di orientamenti sessuali, di stili di vita, di credenze spirituali. Oggi il tema del multiculturalismo è al centro del dibattito pubblico nelle società occidentali, non solo in quelle profondamente trasformate dall’immigrazione, e costituisce il principio legittimante di tutte le politiche destinate a garantire pari opportunità e quote di

presenze (nelle università, in politica o negli uffici pubblici) a donne e minoranze culturali. La questione risulta strettamente intrecciata all’idea che lo Stato debba trattare con rispetto non solo il cittadino in quanto entità astratta, ma anche la persona col suo patrimonio di esperienze e di culture: ovvero che le istituzioni pubbliche debbano valorizzare anche ciò che rende diversi gli individui. Questa idea, però, pone a sua volta problemi nuovi, resi evidenti negli ultimi decenni soprattutto dalla crescita e dalla riscossa identitaria delle comunità islamiche immigrate in Occidente. Ci si chiede in particolare se l’ideale del rispetto per l’identità culturale di ogni singola comunità (comunitarismo) possa entrare in contrasto con i valori dello Stato di diritto e della stessa democrazia basata sull’uguaglianza dei cittadini, o quanto meno rendere più difficile il funzionamento di leggi e istituzioni che dovrebbero valere per tutti, al di là dei confini fra le comunità.



21_7 QUESTIONI DI GENERE

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Negli ultimi decenni del ’900, grazie anche alle battaglie femministe [►15_8], l’emancipazione giuridica delle donne nei paesi economicamente più avanzati fece significativi passi avanti, vincendo le resistenze che ancora la ostacolavano. Per esempio, il principio di pari responsabilità nei confronti dei figli e nell’amministrazione dei beni familiari divenne legge in Italia nel 1975, in Portogallo nel 1978, in Spagna nel 1981 e in Grecia nel 1983.

Donne e diritti civili

Sul terreno dell’emancipazione economica delle donne e della loro presenza nel mondo del lavoro, nonostante gli indubbi progressi, permanevano e permangono ancora, anche nelle società sviluppate, ritardi e disparità tra i sessi: negli incarichi più prestigiosi e meglio remunerati le donne costituiscono una minoranza, soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale, mentre in molte famiglie il carico del lavoro domestico continua a essere distribuito in modo ineguale ai danni della parte femminile. Le donne, inoltre, sono state maggiormente penalizzate dalle conseguenze della crisi economica iniziata nel 2007-8: la disoccupazione femminile è cresciuta più di quella maschile ed è riemerso con forza il modello di organizzazione della famiglia basato sulla divisione tra lavoro retribuito dell’uomo e quello domestico svolto dalla donna. Per questo molti governi nazionali hanno promosso apposite politiche “attive” di “pari opportunità”, per sostenere l’occupazione femminile e, in alcuni casi, per riservare alle donne posti di responsabilità in ambito politico, amministrativo o economico (le “quote rosa”).

Lavoro ed emancipazione economica

Assai più limitati furono invece i progressi nelle condizioni di vita della popolazione femminile in molti paesi dell’Asia e dell’Africa e, in parte, dell’America Latina. La forza delle tradizioni culturali e religiose – soprattutto, ma non solo, di matrice islamica – che spesso relegavano la donna a un ruolo subordinato all’uomo, e i ritardi nei processi di modernizzazione ostacolarono lo sviluppo di un’emancipazione simile a quella in atto nei paesi occidentali. Così ancora oggi molte donne asiatiche, africane, sudamericane non vanno a scuola, eseguono solo faticosi e monotoni lavori domestici, non godono di alcuna autonomia economica e rimangono tutta la vita sotto la tutela degli uomini, prima i padri e poi i mariti. In molti paesi, al di là della mancanza di un riconoscimento legale dell’uguaglianza tra i sessi, risulta poco diffusa l’idea di un diritto della donna all’autorealizzazione personale.

I ritardi dell’emancipazione nei paesi in via di sviluppo

► Laboratorio di cittadinanza Femminismo e diritti delle donne, p. 632

Campagna di Amnesty International contro la violenza sulle donne Nel dicembre 1999 l’Onu ha designato il 25 novembre “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”. I dati Istat che riguardano l’Italia sono inquietanti: una donna su tre, fra i 16 e i 70 anni, è stata colpita nella sua vita dalla violenza di un uomo. Le vittime più numerose sono le giovani tra i 16 e i 24 anni e nella maggioranza dei casi le violenze non sono denunciate. I maggiori responsabili delle aggressioni sono i partner delle vittime.

In anni recenti sono cresciute, a livello internazionale, l’attenzione e la sensibilità verso i numerosi episodi di violenza sulle donne. Nonostante i cambiamenti sociali, economici e culturali che, seppure con modalità e conseguenze diverse, hanno segnato larghe aree del mondo, continuano a essere numerosi i casi di violenza domestica, gli stupri, le mutilazioni e i cosiddetti “femminicidi” (gli omicidi di donne uccise per motivi relativi alla loro identità di genere). In molti paesi si sono intraprese specifiche iniziative dei governi e campagne di sensibilizzazione che hanno puntato il dito non solo sul persistere di retaggi culturali arcaici e dinamiche patriarcali e autoritarie nelle relazioni di genere, ma anche sulla rappresentazione della figura femminile alimentata dai mezzi di comunicazione e dalla pubblicità. Rientra in questo quadro la decisione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di designare il 25 novembre come “Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

La violenza di genere

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

Negli ultimi decenni del ’900 è cambiata anche la percezione generale dell’omosessualità. La cultura medica e psichiatrica abbandonò progressivamente l’idea che la relazione tra persone dello stesso sesso dovesse essere considerata una forma di perversione o di malattia, per considerarla invece come una delle molteplici varianti dell’affettività e della sessualità umana. Le leggi che punivano l’omosessualità vennero, già negli anni ’60, progressivamente abolite (per esempio in Gran Bretagna nel 1967 e in Germania nel 1969). In tempi più recenti, sono state disciplinate legislativamente le unioni omosessuali, in tema, per esempio, di previdenza e di successione ereditaria. Il passo successivo, ossia la completa equiparazione giuridica al matrimonio civile, compreso il diritto di adottare figli, è stato compiuto in molti paesi occidentali all’inizio del XXI secolo, nonostante l’opposizione della Chiesa cattolica e di quanti, anche fra i laici, difendevano l’idea tradizionale della famiglia. Fra il 2000 e il 2015, il matrimonio fra persone dello stesso sesso fu riconosciuto in numerosi Stati europei (fra i primi Olanda e Belgio, poi i paesi scandinavi e anche paesi a maggioranza cattolica come la Spagna e l’Irlanda), del Nord America (Stati Uniti e Canada) e della stessa America Latina, a cominciare dal Brasile. In altri paesi, come la Francia e l’Italia [►25_1], le unioni omosessuali sono state riconosciute e disciplinate, anche se non pienamente omologate al matrimonio.

L’omosessualità: diritti e discriminazioni

Per combattere pregiudizi e intolleranze ancora diffusi, diversi Stati dell’Occidente hanno approvato specifiche leggi contro l’“omofobia” (l’ostilità e la discriminazione nei confronti delle persone omosessuali). Più difficile rimane generalmente la condizione degli uomini e delle donne omosesMETODO DI STUDIO suali nelle altre aree del mondo, dove spesso restano in vigore dure norme re a   Sottolinea con colori diversi le discriminazioni, gli ostacoli e le conquiste delle donne. pressive e dove la larga diffusione di atteggiamenti di intolleranza sfocia in fre b   Spiega per iscritto cosa sono, per quale motiquenti episodi di discriminazione e di violenza. vo sono state introdotte e a cosa servono le politiche Il mutato atteggiamento nei confronti dell’omosessualità si iscrive in una rinnodi “pari opportunità”.  c   Spiega per iscritto cosa è l’omofobia e perché vata attenzione alle questioni di genere (in inglese gender): un termine con cui si diversi Stati dell’Occidente hanno approvato specififa riferimento all’identità sessuale come libera scelta di ruolo e di relazione con che leggi per contrastarla. gli altri e non come semplice dato biologico.

Il contrasto all’omofobia



21_8 LE RELIGIONI NEL MONDO CONTEMPORANEO

Se negli anni ’70 del ’900, i processi di secolarizzazione, alimentati dai cambiamenti della morale sessuale e dalla civiltà dei consumi, apparivano inarrestabili e generalizzati, nei decenni successivi si ebbe invece una significativa inversione di tendenza. A fronte di comportamenti individuali sempre meno rispondenti ai canoni tradizionali (come indicava l’aumento dei divorzi, dei legami extramatrimoniali e dell’utilizzo di metodi contraccettivi) si registrava una significativa ripresa della partecipazione alle credenze e alle pratiche religiose; una tendenza confermata dai dati statistici che, nel 2015, collocavano al primo posto le confessioni cristiane, con 2,4 miliardi di adepti; al secondo, con 1,7 miliardi, un islam in rapida espansione; a seguire, induisti e buddisti, rispettivamente con 982 milioni e 520 milioni di fedeli. Si può dunque affermare che quello religioso resta ancora il riferimento culturale fondamentale per buona parte dei popoli del pianeta: nelle stesse società industrializzate la ricerca del sacro e del trascendente si fa ancora fortemente sentire, anche se a volte, anziché rivolgersi alle religioni “istituzionali”, si esprime in movimenti minoritari, impropriamente definiti “sètte”.

La ricerca del sacro

La Chiesa di Roma, in particolare, largamente maggioritaria in Europa (52%, esclusa l’ex Unione Sovietica) e soprattutto in America Latina (quasi il 90%), ha guadagnato posizioni nelle tradizionali terre di missione, Africa e Asia, compensando così quella tendenza allo svuotamento del suo nucleo dogmatico e all’abbandono della pratica dei sacramenti (alla riduzione, insomma, della fede a una generica cornice, a un indefinito senso di appartenenza) che

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La Chiesa di Giovanni Paolo II

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► Leggi anche: ► Parole della storia Secolarizzazione, p. 18

si registrava in molti paesi europei pure classificati a maggioranza cattolica. Un ruolo importante nel rilancio planetario del cattolicesimo (e, indirettamente, anche nella crisi dei regimi comunisti) fu certamente svolto dal papa polacco Karol Wojtyła, salito al soglio pontificio nel 1978 col nome di Giovanni Paolo II. Il pontificato di Wojtyła, primo papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo, si caratterizzò da un lato per l’intransigente difesa dei dogmi e dei culti tradizionali, dall’altro per la grande apertura ai problemi sociali e al dialogo con le altre religioni e con gli stessi non credenti: il tutto sottolineato da un attivismo senza precedenti che portò il pontefice a intraprendere una lunga serie di viaggi pastorali in ogni parte del mondo e a esporsi, come mai era accaduto prima a un papa, all’attenzione dei mass media. A Giovanni Paolo II, morto nell’aprile del 2005 dopo una lunga malattia e beatificato nel 2011, succedette, col nome di Benedetto XVI, il cardinale tedesco Joseph Ratzinger. Grande teologo e intellettuale raffinato, il nuovo papa si mosse in sostanziale continuità col suo predecessore (di cui era stato stretto collaboratore): sia nella prosecuzione del dialogo interreligioso, sia nella salvaguardia della tradizione e dell’ortodossia dottrinaria, soprattutto riguardo agli interrogativi aperti dagli sviluppi della ricerca scientifica e della medicina. Negli anni del suo pontificato, però, scoppiarono all’interno della Chiesa di Roma alcuni gravi scandali, legati da un lato alla scarsa trasparenza della banca vaticana (Ior, Istituto per le opere di religione) e alla diffusione non autorizzata di documenti riservati; dall’altro, cosa ancora più grave, alla denuncia di numerosi casi di pedofilia tra le file del clero cattolico, soprattutto nel Nord America. In questo clima di crescente difficoltà per le istituzioni vaticane, nel febbraio 2013 Benedetto XVI comunicava la decisione di rinunciare al pontificato: un gesto senza precedenti nell’epoca moderna e contemporanea, motivato da Ratzinger con i problemi derivanti dall’età avanzata.

Benedetto XVI

Si venne così a creare una situazione inedita con la coesistenza tra Benedetto XVI, “papa emerito” (questo il titolo ufficiale adottato) privo di ogni ruolo attivo nell’organizzazione ecclesiastica, e il nuovo papa, il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, che assunse il nome di Francesco I. Sin da questa scelta – un evidente richiamo a Francesco d’Assisi, una delle figure più amate dai fedeli cattolici – il nuovo papa intese richiamare l’attenzione sulla necessità, per la Chiesa, di praticare e predicare la rinuncia ai privilegi e ai beni materiali. La fase iniziale del suo pontificato si caratterizzò infatti per la rinnovata attenzione ai settori più svantaggiati della società,

Francesco

Papa Francesco in visita a Lampedusa 8 luglio 2013 Papa Francesco si è schierato con grande impegno sui temi di maggiore attualità, come quelli di natura ambientale (la cura della Terra come “casa comune” degli uomini) e di natura sociale. La tutela degli immigrati, legata sia a umana solidarietà, sia alla convinzione che essi rappresentino comunque una risorsa per le società che li ospitano, è oggi un argomento di assoluta priorità anche per il mondo cattolico.

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

con una nuova sensibilità verso i problemi della povertà nel mondo globalizzato, ma anche per alcune significative aperture al mondo laico su temi attinenti ai comportamenti e alla sfera privata dei fedeli, come divorzio e omosessualità.

Fondamentalismo religioso e nuove chiese

Un altro aspetto del rilancio religioso di inizio millennio fu la crescita dei fondamentalismi, ossia delle interpretazioni rigide dei testi sacri e delle applicazioni integrali dei precetti della fede. Vedremo nel capitolo successivo come uno di

PERSONAGGI

Giovanni Paolo II: il papa polacco

È

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difficile sintetizzare l’azione di Giovanni Paolo II, protagonista di un pontificato così lungo e così ricco. Visitò oltre 300 parrocchie della diocesi di Roma; fece 146 viaggi in Italia e 104 nel mondo; produsse 14 encicliche e scrisse 5 libri; nominò 231 cardinali. Considerato a volte un rigido disciplinatore, altre volte un innovatore, ebbe comunque la fama di un papa dotato di un’incredibile energia, giovane, risoluto. Egli sembrò incoraggiare questa sua immagine, lasciandosi immortalare mentre sciava o nuotava, immagini popolari che contrastano con l’invalidità degli ultimi anni. Giovanni Paolo II era nato Karol Wojtyła a Wadowice, in Polonia, nel 1920. Il padre era un sottufficiale dell’esercito asburgico in pensione, la madre morì quando Lolek, come lo chiamavano in casa, era soltanto un bambino. Nel 1938 andò a studiare filosofia a Cracovia, l’antica capitale polacca. Ma l’università chiuse con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista: Wojtyła fu costretto a lavorare come operaio ma contemporaneamente si cimentava come attore in un teatro clandestino. In quegli stessi anni, maturò la sua vocazione. Nel 1946 fu ordinato sacerdote e fu inviato a completare la sua formazione a Roma, all’Università pontificia San Tommaso d’Aquino. Nel 1948 tornò in Polonia e cominciò la sua attività di ecclesiastico all’interno del regime comunista. Fu qui che maturò e mise alla prova le sue capacità di politico, negoziatore, leader. I suoi scontri con il potere, la sua attività pastorale e quella teo­logica – fu professore di Teologia morale dal 1953 – gli valsero una rapida carriera. Nel 1962 era vescovo di Cracovia. Partecipò al Concilio Vaticano II [►15_9], prendendo posizione ora col fronte riformista, ora con quello più conservatore. Cominciò così ad acquisire notorietà anche fuori dalla Polonia, compiendo numerosi viaggi all’estero. Nel 1976 venne scelto dal-

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la Santa Sede come predicatore degli esercizi per la quaresima in Vaticano, una nomina che prova la sua popolarità e il suo gradimento presso la curia. Fu eletto papa il 16 ottobre 1978. Prese il nome del suo predecessore, ma fin dai primi gesti dimostrò un’indole diversa, più disinvolta, più teatrale forse, incline all’improvvisazione e capace di conquistare i fedeli con la sua spontaneità. Non ebbe timore della folla neanche dopo l’attentato del 1981, quando un terrorista turco provò a ucciderlo in piazza S. Pietro e lo ferì gravemente, compromettendo per sempre la sua salute. Durante l’omelia che inaugurò il suo pontificato, disse più volte: “Non abbiate paura!”. Non era però un’esortazione generica a un’umanità sconfortata. I cattolici non dovevano temere di testimoniare il credo cristiano. Era un invito all’azione, all’apostolato della fede. L’attività di Giovanni Paolo II espresse questa missione dei cattolici a livello globale. Ciò che proponeva il papa polacco era una nuova evangelizzazione. Per Wojtyła in tutto il mondo era in atto una vera e propria scristianizzazione, una contestazione dei valori considerati fondamentali dalla Chiesa. Per proporre ai cattolici un percorso di lotta contro questo processo, promosse la canonizzazione (il processo con cui un beato diventa santo) e la beatificazione di personaggi che avevano testimoniato la propria fede in circostanze politiche avverse: martiri della Vandea durante la Rivoluzione francese, dell’insurrezione nazionale polacca, della guerra civile spagnola, della rivoluzione messicana, del totalitarismo nazista e dei regimi comunisti. Nonostante il suo giudizio critico sulla modernità, Giovanni Paolo II non rifiutò mai l’eredità del Concilio Vaticano II, ma sostenne che le sue innovazioni dovevano essere interpretate alla luce della tradizione. Per questa posizione molti cattolici progressisti parlarono di una vera e propria “restaurazione

pontificia”. In realtà Wojtyła non provò mai a bloccare il processo di aggiornamento del Concilio. Ciò che più gli premeva era una riaffermazione del primato papale su tutti gli altri organi dell’istituzione ecclesiastica. Non mancarono interventi in politica più diretti: dal finanziamento di movimenti di opposizione ai regimi comunisti alla condanna severissima della Teologia della liberazione [►15_9], il movimento di sacerdoti che si opponeva alle dittature sudamericane conciliando cattolicesimo e interpretazione marxista della società. Del resto, in tutto il suo papato Wojtyła rivendicò la vocazione sociale del cristianesimo e l’attenzione della Chiesa per i poveri e i diseredati. Per questo affermò spesso le radici cristiane dell’Europa, un’eredità che per lui andava recuperata per dare fondamento alla pace fra i popoli del vecchio continente. In una storica visita al Parlamento di Strasburgo, nel 1988, fece derivare dalla tradizione cristiana persino il rispetto per i diritti civili, sorvolando però sulla dura opposizione che in passato la Chiesa aveva esercitato al loro affermarsi. Accanto a ciò, Wojtyła sostenne che solo il magistero della Chiesa poteva integrare i diritti umani – sanciti dalla Dichiarazione Onu del 1948 – con alcuni princìpi ritenuti fondamentali per garantire la tutela della persona: il divieto dell’aborto, una più rigida morale sessuale, una legislazione in difesa della famiglia tradizionale. In molti altri aspetti, le sue innovazioni furono meno caute. In primo luogo, promosse l’unità di tutti i cristiani, portando avanti la campagna ecumenica di Paolo VI; incontrò perciò i vertici di altre comunità cristiane, dal patriarca di Costantinopoli, portavoce della comunità ortodossa, all’arcivescovo di Canterbury, capo della chiesa anglicana. Furono incontri spettacolari, soprattutto perché il papa non mancò di caricarli con la propria emotività, ammettendo le passate colpe dei cattolici e chiedendo perdono a nome della Chiesa per le antiche violenze. Questo stile personale di Wojtyła restò nella memoria collettiva più dei documenti prodotti negli in-

questi fondamentalismi, quello islamico, abbia assunto negli ultimi decenni forme aggressive e violente e mostrato inattese capacità di diffusione. Ma tendenze fondamentaliste si sono manifestate, seppure in forme meno bellicose, anche in altri culti religiosi: per esempio nelle nuove Chiese evangeliche nate negli Stati Uniti e in America Latina al seguito di carismatici predicatori.

contri ecumenici, e favorì ovviamente il riavvicinamento tra le diverse comunità cristiane del mondo. Il papa polacco arrivò a estendere questo genere di riunioni a religioni diverse dal cristianesimo, chiedendo perdono agli ebrei per le persecuzioni subìte o inaugurando le Giornate di preghiera per la pace ad Assisi nel 1986: un incontro in cui i rappresentanti di 32 chiese cristiane e 28 organizzazioni non cristiane pregarono insieme per chiedere a tutti i paesi in guerra di cessare le ostilità. Proprio sulla guerra, Wojtyła innovò profondamente la dottrina cattolica. Negò ogni legittimità alla categoria di guerra santa, così spesso utilizzata nella storia per autorizzare

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le tendenze religiose più recenti e le differenze rispetto agli inizi degli anni ’70.  b   Cerchia i nomi dei pontefici citati nel paragrafo ed evidenzia quelle che secondo te possono essere le parole chiave del relativo pontificato.  c   Evidenzia la definizione di fondamentalismo religioso e cerchia i nomi delle religioni in cui quest’ultimo si è manifestato.

conflitti di ogni tipo, e predicò invece il rifiuto del ricorso alla violenza. L’organizzazione del Giubileo del 2000 impegnò gli ultimi anni del suo pontificato. L’evento mobilitò masse enormi di pellegrini da tutto il mondo, come già le Giornate mondiali della gioventù, raduni di giovani cattolici, i cosiddetti “papaboys”, che si tennero a partire dal 1985. La sua capacità di instaurare un rapporto con folle così ampie impressionò il mondo, e il papa non rinunciò a presenziare a questi eventi neanche quando i segni della malattia e della vecchiaia furono sempre più evidenti. Perfino la sua morte fu un evento di eccezionale risonanza mediatica. Fino a po-

chi giorni prima, provò a parlare ai pellegrini arrivati a San Pietro, senza riuscirci. Morì il 2 aprile 2005. Per i suoi funerali arrivarono leader politici da tutto il mondo, ma anche centinaia di migliaia di pellegrini che interruppero più volte la cerimonia per gridare “santo subito”. È stato canonizzato ufficialmente nel 2014.

Giovanni Paolo II e gli altri leader religiosi pregano insieme per la pace nel mondo Assisi, 27 ottobre 1986 [© Roberto Koch/ Contrasto]

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE



21_9 MEDICINA E BIOETICA

Modello grafico tridimensionale della struttura molecolare del Dna

L’aumento della durata media della vita dell’uomo, che, all’inizio del terzo millennio, risultava più che raddoppiata rispetto a un secolo prima, si dovette innanzitutto ai continui progressi realizzati dalla scienza medica. Va però ricordato che lo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie biomediche, se ha complessivamente accresciuto la qualità, oltre che la durata, della vita, ha ulteriormente allargato il divario, anche in questo campo, fra il Nord e il Sud del mondo: uno squilibrio che potrebbe essere ridotto mediante l’estensione degli interventi sanitari di base e la diffusione di pratiche elementari di assistenza, ma anche facilitando il trasferimento dei risultati della ricerca verso i paesi poveri.

Progressi e squilibri

I maggiori progressi si sono avuti nel campo dei farmaci cardiovascolari e antitumorali e nello sviluppo delle tecnologie diagnostiche, in particolare nella diagnostica per immagini. I medici dispongono ora, oltre che dell’ecografia con ultrasuoni, priva degli effetti collaterali delle radiazioni, della tomografia assiale computerizzata (Tac) che, attraverso la sofisticata utilizzazione del computer, consente di ottenere una precisa elaborazione delle immagini radiologiche e di individuare la presenza di tumori e di lesioni interne. A queste due tecniche, già largamente diffuse, si sono aggiunte la risonanza magnetica nucleare (Rmn), che utilizza le emissioni provenienti dal corpo stesso dopo l’attivazione di un campo magnetico, e la tomografia a emissione di positroni (Pet), impiegata diffusamente nella diagnosi dei tumori.

Farmaci e diagnostica

Nel settore della medicina clinica un decisivo progresso si rea­lizzò con l’applicazione dell’ingegneria genetica. La scoperta decisiva in questo campo risaliva al 1953, quando due biologi, il britannico Harry Crick e lo statunitense James Watson, individuarono la struttura dell’acido desossiribonucleico (Dna), responsabile della trasmissione ereditaria dei caratteri genetici negli esseri viventi. Gli sviluppi della genetica, offrendo la possibilità di selezionare le specie vegetali e animali, consentirono di migliorare la produttività nell’agricoltura e nell’allevamento e aprirono nuovi orizzonti anche in campo farmacologico. Molti farmaci di origine animale o umana (insulina, interferone, proteine) sono ricostruiti ormai in laboratorio con il vantaggio di ottenere maggiore purezza e tollerabilità.

L’ingegneria genetica

Mentre sembrano arginate o arginabili alcune malattie degenerative (come quelle cardiovascolari), e mentre notevoli progressi si sono registrati nella cura dei tumori (grazie soprattutto all’uso di terapie chimiche), sono riemerse malattie infettive che si ritenevano per gran parte debellate. Malaria, tubercolosi, dissenteria sono di nuovo sull’agenda della sanità mondiale non solo per i paesi più poveri, ma anche per alcuni di quelli più sviluppati, caratterizzati dalla presenza di condizioni di vita gravemente disagiate in alcuni settori della loro

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Vecchie e nuove malattie

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

tecnologie biomediche L’insieme delle tecnologie (apparecchiature, strumenti, ecc.), dei prodotti e delle metodologie afferenti alla sanità e impiegati nell’intero ciclo, dalla diagnosi alla terapia alla riabilitazione del paziente. ingegneria genetica L’insieme delle conoscenze e delle tecniche che permettono di manipolare il patrimonio genetico degli organismi viventi per ottenere organismi geneticamente modificati (Ogm), microrganismi, piante, animali, con funzioni o caratteristiche prestabilite.

popolazione, soprattutto urbana. Così, sia negli Stati Uniti sia nell’ex Unione Sovietica, la tubercolosi ha avuto una preoccupante ripresa. Per questo oggettivo legame con una liberalizzazione dei costumi solo di recente conquistata, la sua comparsa e la sua diffusione relativamente rapida hanno provocato notevoli traumi nei paesi industrializzati: dove pure il male colpisce solo settori minoritari della popolazione (in particolare omosessuali e tossicodipendenti), e dove si sono ottenuti buoni risultati nella cura grazie all’uso di una combinazione di farmaci peraltro molto costosi. Gli allarmi maggiori, a partire soprattutto dagli anni ’80 del ’900, sono stati però suscitati dalla diffusione di quella che fu definita, forse con eccessiva enfasi, la peste del nostro tempo: l’Aids (Sindrome da immunodeficienza acquisita), che è provocata dal virus Hiv e che, abbattendo le difese immunitarie, espone l’organismo a ogni sorta di malattie, con conseguenze anche mortali. Il virus, che è stato isolato per la prima volta nel 1981 e ha come principale area di diffusione l’Africa subsahariana, si trasmette attraverso il sangue e si diffonde soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso i contatti sessuali. Nei paesi più ricchi, l’Aids è dunque diventata simile a una patologia cronica, seppur grave, mentre, nelle aree povere, soprattutto dell’Africa subsahariana, la malattia miete ancora molte vittime, nonostante si sia esteso l’accesso ai farmaci e siano state lanciate campagne di educazione e di prevenzione. Gli sviluppi recenti della medicina e della genetica hanno portato notevoli successi nella lotta contro le vecchie e le nuove malattie, ma hanno anche fatto emergere molte domande di ordine Due sorelle orfane a causa dell’Aids morale. È nata così una nuova disciplina, a metà fra scienza e filo- settembre 2000, Hwaiseni (Zambia) [© Louise Gubb/Corbis Saba] sofia, la bioetica, che affronta i problemi riguardanti la generazio- Secondo rapporti e studi recenti, nel 2009 i giovani dai 15 ai 24 anni per il 41% circa dei nuovi contagi di Aids tra gli adulti sopra i ne della vita in forme assistite dalla scienza (come la fecondazione incidevano 15 anni. Nuove stime parlano di 2 milioni di adolescenti sieropositivi, che in vitro o l’“utero in affitto”) o la possibilità di riprodurre la vita in vivono per la maggior parte nell’Africa subsahariana e sono soprattutto laboratorio. È il caso ad esempio della clonazione, ossia il proces- ragazze, spesso inconsapevoli della loro condizione di sieropositività. so che consente di “copiare” un organismo partendo da una singola cellula: nel 1997, in Gran Bretagna fu creata in laboratorio per la prima volta una pecora (alla quale fu dato il nome Dolly). Altri problemi di ordine morale sono sorti intorno alla possibilità di ricostruire la sequenza del genoma umano, ossia il patrimonio genetico dell’uomo: ciò permette di individuare quelle variazioni che sono responsabili di determinate malattie, ma lascia aperto anche il rischio di poter manipolare i geni. Un acceso dibattito si è infine concentrato sull’utilizzo di cellule staminali (cellule non “specializzate”, dotate della capacità di trasformarsi in diversi altri tipi di cellule) nella cura di gravi malattie neurologiche, cardiache e oncologiche, dove possono essere impiegate per generare tessuti e organi attivi.

Il dibattito sulla bioetica

Problemi così complessi hanno sollecitato le istituzioni a confrontarsi con una materia in larga parte nuova e a inserire i problemi della biologia nell’ambito di intervento delle leggi e della politica. Ma hanno anche diviso l’opinione pubblica, ponendola di fronte a interrogativi pressanti: fin dove spingere il desiderio di procreare; dove finisce il dovere di curare e dove il diritto del paziente a essere curato; come introdurre criteri di equità per equilibrare l’ampiezza delle tecniche curative METODO DI STUDIO disponibili con l’impossibilità di fatto per moltissimi malati di  a   Sottolinea i principali fattori che hanno consentito l’aumento della durata media della vita dell’uomo. accedervi. E ancora, se accanto al diritto alla vita si ponga anche  b   Spiega per iscritto il significato dei seguenti elementi specificando quale il diritto a morire: se cioè le sempre più sofisticate tecniche di incidenza hanno avuto nella vita dell’uomo: a. ingegneria genetica; b. Aids; c. mantenimento in vita non configurino forme di eccesso terabioetica. peutico, sfide alla pietà della morte.

Gli interrogativi morali

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

SINTESI

21_1 LA RIVOLUZIONE INFORMATICA Gli ultimi decenni del ’900 hanno segnato nuove trasformazioni nell’economia, che hanno avuto il loro centro propulsore nelle crescenti applicazioni dell’elettronica ai settori delle telecomunicazioni e dell’informatica. Alla metà degli anni ’70, per iniziativa di alcuni imprenditori di grande talento, sorsero aziende (Microsoft e Apple) destinate a dare un contributo decisivo al successo mondiale dei personal computer. L’industria informatica ha ormai invaso con le sue tecnologie tutti i principali comparti produttivi: dalle automobili ai telefoni cellulari, un’innovazione che ha contribuito a trasformare le forme della comunicazione e le relazioni sociali. La digitalizzazione ha inoltre consentito di unificare i linguaggi e di far circolare informazioni di diversa natura sugli stessi canali di comunicazione.

21_2 LA RETE

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Una delle più importanti novità dell’ultimo decennio del ’900 è stato lo sviluppo di Internet: la rete ha contribuito a modificare i modi di espressione e gli orizzonti culturali di milioni di persone. Alla rapidissima espansione della rete su scala planetaria sono legate altre innovazioni fondamentali come la posta elettronica e i social network.

21_3 ECONOMIA GLOBALE E FINANZA INTERNAZIONALE L’accresciuta velocità delle comunicazioni e la maggiore facilità di spostamento sono all’origine di una sempre maggiore integrazione economica e finanziaria a livello planetario, la cosiddetta “globalizzazione”. Al processo di mondializzazione della finanza ha contribuito anche la decisione degli Stati di ridurre o eliminare i vincoli alla circolazione dei capitali. L’integrazione dei mercati, in una economia sempre più incentrata sulla compravendita di titoli finanziari, ha permesso nuove possibilità di investimento a grandi e piccoli risparmiatori, ma anche la crescita fittizia di patrimoni che vanno incontro ai rischi delle oscillazioni del mercato.

21_4 IL GOVERNO DELL’ECONOMIA MONDIALE E LA TUTELA DELL’AMBIENTE A partire dagli anni ’70, gli Stati più industrializzati promossero vertici annuali per coordinare le loro politiche, soprattutto in materia economica. Al 1995 risale l’istituzione del Wto, organismo internazionale per la tutela e il coordinamento delle politiche commerciali, cui aderivano, nel 2016, 164 paesi. Anche riguardo all’emergenza ambientale le potenze hanno avviato una serie di vertici internazionali, volti a incentivare pratiche di sviluppo sostenibile, in grado di conciliare sviluppo economico e salvaguardia dell’ambiente: con gli accordi di Parigi del

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

2015, 196 paesi si impegnavano a combattere contro le conseguenze del riscaldamento globale e a limitare le emissioni di gas inquinanti. Contro gli effetti della globalizzazione si è sviluppato un moto di protesta mondiale (movimento “no global”), che manifesta in nome della difesa delle identità locali e di una più equa distribuzione delle ricchezze.

21_5 LE TRASFORMAZIONI NEL MONDO DEL LAVORO E DELL’INDUSTRIA Gli sviluppi dell’elettronica e dell’informatica hanno accelerato la transizione verso una società “postindustriale”, caratterizzata dalla delocalizzazione (decentramento della produzione in paesi con manodopera a basso costo), dalla prevalenza del terziario, dalla fine della centralità della fabbrica e del modello produttivo basato sulla catena di montaggio (postfordismo), dal ruolo crescente dell’informazione. Un’altra caratteristica della nuova organizzazione del lavoro è la flessibilità, sia nel settore industriale sia in quello terziario: l’occupazione stabile, con contratti a tempo indeterminato, è stata spesso sostituita da forme di assunzione temporanea.

21_6 MUTAMENTI DEMOGRAFICI E MIGRAZIONI Il nuovo mondo globalizzato del XXI secolo vede lo

spostamento non solo di merci e denaro, ma anche di uomini e popolazioni. Rispetto all’inizio del secolo precedente gli spostamenti interessano anche la forza-lavoro qualificata, mentre è rilevante il peso delle migrazioni clandestine. Lo sviluppo di una società multietnica ha dato luogo a reazioni di diverso segno. Da un lato si è manifestata la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell’immigrazione, dall’altro ci sono state reazioni di ansia e di ripulsa. Nell’ultimo trentennio del ’900 la popolazione mondiale ha continuato ad aumentare, ma il ritmo di crescita si sta riducendo. In Europa e negli Usa la “crescita zero” e il calo della popolazione attiva – parzialmente riequilibrato dall’immigrazione – hanno reso sempre più difficilmente sostenibili per la finanza pubblica i costi dei sistemi pensionistici e hanno contribuito ad accentuare la crisi del modello di Welfare State cominciata a fine anni ’70.

21_7 QUESTIONI DI GENERE Nonostante i progressi compiuti nel campo dei diritti civili e delle pari opportunità nel mondo del lavoro, permane, anche nei paesi più avanzati, una serie di ostacoli all’affermazione dei diritti delle donne. Negli anni recenti è cresciuta, a livello internazionale, l’attenzione verso i numerosi episodi di violenza sulle donne (violenza domestica, stupri, mutilazioni e “femminicidi”). Negli ultimi decenni del ’900 è cambiata anche la percezione generale dell’omosessualità, considerata ora una delle molteplici varianti dell’espressione

dell’affettività e della sessualità umana, mentre in molti paesi sono state disciplinate legislativamente le unioni omosessuali e in alcuni casi si è raggiunta la completa equiparazione giuridica al matrimonio civile.

21_8 LE RELIGIONI NEL MONDO CONTEMPORANEO All’inizio del XXI secolo la religione resta ancora

il riferimento culturale fondamentale per buona parte dei popoli del pianeta. Un ruolo importante nel rilancio planetario del cattolicesimo è stato svolto dal papa polacco Karol Wojtyła, salito al soglio pontificio nel 1978 col nome di Giovanni Paolo II. Un altro fenomeno caratteristico di questo periodo è l’espansione della religione musulmana al di là delle sue aree tradizionali di insediamento. Il rilancio dell’islam ha spesso preso le forme dell’integralismo, ossia di quella tendenza che si batte per un’applicazione integrale dei precetti religiosi e per la subordinazione del potere civile all’autorità spirituale.

21_9 MEDICINA E BIOETICA L’aumento della durata media della vita dell’uomo, che, all’inizio del terzo millennio, risultava più che raddoppiata rispetto a un secolo prima, è dovuto innanzitutto ai continui progressi realizzati dalla scienza medica e allo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie biomediche. Molto rilevanti, per esempio, i risultati ottenuti nella diagnostica per immagini

e nella cura delle malattie cardiovascolari e tumorali grazie all’applicazione dell’ingegneria genetica. A questi progressi, però, ha fatto riscontro negli ultimi decenni la comparsa di nuove malattie, come la sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids). Gli sviluppi della medicina e della genetica hanno aperto nuovi problemi nei rapporti fra scienza ed etica. I limiti degli interventi sulla natura e sulla vita costituiscono il campo di riflessione della “bioetica”.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ

1 Seleziona, fra quelle proposte di seguito, le innovazioni tecnologiche che concorsero al radicale cambiamento del

mondo industrializzato a partire dagli ultimi decenni del ’900.

a. Materie plastiche b. Personal computer c. Laser d. Chip e. Industria informatica

f. Fibre sintetiche g. Digitalizzazione h. Sonde spaziali i. Telefoni cellulari

2 Inserisci nei due insiemi a pagina seguente i termini elencati distinguendo quelli che sono collegabili alla

globalizzazione economica e quelli che afferiscono alla mondializzazione della finanza. Quindi, posizionali nei sottoinsiemi relativi alle cause e agli effetti dei due fenomeni (attenzione, alcune voci andranno inserite in entrambi gli insiemi). Infine, realizza una didascalia a commento di non meno di 8 righe utilizzando i termini in oggetto e argomentando le relazioni esistenti fra di loro.

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA

Cause

MONDIALIZZAZIONE DELLA FINANZA

Effetti

a. Cancellazione dei vincoli ai movimenti dei capitali b. Movimento “no global” c. Miglioramento dei sistemi di trasporto d. Crisi dei prodotti finanziari derivati e. Abolizione dei dazi doganali f. Bolla speculativa

Cause

Effetti

g. Uso dell’inglese h. Delocalizzazione i. Progressi nei sistemi di comunicazione l. Società postindustriale m. Wto

3 Rendi esplicite le relazioni esistenti fra i seguenti elementi trascrivendoli sul quaderno e collegandoli fra di loro con

una o più frecce. Spiega il significato delle frecce e argomenta le tue scelte: Rivoluzione elettronica ● World Wide Web ● e-mail ● siti ● provider ● blog ● social network ● chat

4 Associa i nomi dei seguenti cardinali a quelli assunti da pontefice e alle relative azioni o caratteristiche.

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a. Jorge Mario Bergoglio b. Karol Wojtyła c. Joseph Ratzinger

1. Per primo, è stato molto attento ai problemi sociali e al dialogo con le altre religioni 2. Francesco I 3. Attento alla difesa dell’ortodossia dottrinaria soprattutto nel campo della ricerca scientifica e della medicina 4. Cardinale tedesco: teologo e intellettuale 5. Benedetto XVI 6. Intransigente difensore dei dogmi e dei culti tradizionali 7. È diventato “papa emerito” dopo la rinuncia al pontificato 8. Giovanni Paolo II 9. Cardinale argentino 10. Cardinale polacco 11. Sostenitore della necessità, per la Chiesa, di praticare e predicare la rinuncia ai privilegi e ai beni materiali e di dedicarsi ai settori più svantaggiati della società e del mondo.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

COMPETENZE IN AZIONE

5 Rispondi alle seguenti domande per riflettere sul ruolo delle nuove tecnologie nelle trasformazioni della società

globalizzata:

a. Qual è il settore scientifico che caratterizza l’epoca attuale? b. In sintesi, qual è il modello di funzionamento di un computer? c. Come si sono evoluti i computer? d. Come sono cambiate la medicina e le comunicazioni nell’epoca dei computer? e. Tutto il mondo ha accesso alle nuove tecnologie in egual misura? 6 Scegli uno dei seguenti aspetti della società postindustriale e compila una scaletta in 4-5 punti che ti possa servire

per elaborare un testo espositivo di massimo 20 righe. Scegli infine il titolo del tuo elaborato.

a. Migrazioni e società multietniche b. Medicina e bioetica c. Religione e ricerca del sacro 7 Scrivi un testo sul ruolo della donna nella società e sulle discriminazioni di cui è vittima seguendo il procedimento

descritto di seguito. Scegli un titolo per il tuo elaborato.

a. Cerca su Internet il nome e la storia di una donna italiana di successo. Cerca informazioni circa il contesto economico sociale in cui è nata e vissuta, le scuole che ha potuto frequentare e quanto la sua determinazione ha inciso nei risultati raggiunti. Riassumi questa storia in circa 8 righe mettendo in rilievo gli aspetti che ti colpiscono di più. b. Cerca il nome e la storia di una donna italiana discriminata (es. licenziata perché incinta; picchiata o uccisa da colui che diceva di amarla; di successo ma pagata meno di un uomo; ecc.). Cerca informazioni circa il contesto economico e sociale in cui è nata e vissuta, le scuole che ha potuto frequentare e quanto la sua determinazione ha inciso nei risultati raggiunti. Riassumi questa storia in circa 8 righe mettendo in rilievo gli aspetti che ti colpiscono di più. c. Scrivi un testo a commento di queste due storie in cui analizzi, per quanto possibile, le cause che hanno portato a questi due diversi risultati. d. Immagina i contenuti di una legge sulle “pari opportunità” che aiuti la donna del punto b) a raggiungere la posizione della donna del punto a).

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C21 LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA GLOBALIZZAZIONE

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CAP22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

22_1 LE ECONOMIE EMERGENTI

I processi di globalizzazione ridisegnarono la geografia della ricchezza. La raffigurazione di un’economia internazionale rigidamente divisa tra Nord e Sud del pianeta – una formula geograficamente approssimativa che a lungo però aveva efficacemente descritto il dualismo tra nazioni industrializzate e resto del mondo – appariva in larga parte inadeguata. A partire dagli anni ’70, il quadro dei rapporti fra le aree prospere e industrializzate e quelle povere e arretrate fece registrare infatti profonde modifiche rispetto al periodo della decolonizzazione [►FS, 175]. Inizialmente furono i paesi produttori ed esportatori di petrolio – in primo luogo quelli del Medio Oriente, come l’Arabia Saudita, l’Iran, il Kuwait e gli altri emirati arabi – a guadagnare posizioni nella classifica mondiale della ricchezza, riuscendo in qualche caso a salire nelle parti più alte, grazie all’aumento negli anni ’70 [►16_1] dei prezzi della materia prima. La disponibilità di enormi capitali non si tradusse però nell’avvio di un autonomo processo di industrializzazione e di modernizzazione. Altri paesi in Asia, in America Latina e, in minor misura, in Africa, riuscirono non solo a risolvere i problemi alimentari più gravi, ma anche a mettere in moto un meccanismo di sviluppo, inserendosi nei mercati internazionali, integrando le loro economie con quelle dei paesi più avanzati, incrementando le esportazioni di prodotti industriali e attirando investimenti.

Le nuove gerarchie della ricchezza

I primi a imboccare questa strada furono alcuni Stati del Sud-Est asiatico (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong). Seguirono Cina, India, Brasile, Russia, Sudafrica (i cosiddetti Brics, dalle iniziali dei loro nomi), poi il Messico, la Colombia, e molti altri. Tra i maggiori protagonisti del mercato globale figurano oggi grandi imprese dell’Asia o dell’America Latina, attive anche in settori produttivi tecnologicamente avanzati, come l’elettronico o il farmaceutico. Al progressivo declino delle produzioni industriali tradizionali in Occidente, corrispose quindi l’industrializzazione di altre aree del resto del mondo.

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La nuova industrializzazione

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Storia e Geografia Il Pacifico Storia e Cinema The Millionaire di Boyle Focus Le tigri asiatiche Atlante L’economiamondo multipolare • I flussi migratori nel mondo multipolare Audiosintesi

► Leggi anche: ► Fare Storia Economie emergenti e crisi finanziaria, p. 983

Grattacieli e favelas a San Paolo in Brasile San Paolo è il più grande centro finanziario dell’America Latina e una delle città più industrializzate del Brasile. Nonostante ciò la città è segnata da profonde disuguaglianze sociali, che diventano evidenti nel contrasto fra i ricchi edifici dei quartieri centrali e le baraccopoli delle periferie, le favelas, dove vive la popolazione più povera tra degrado e criminalità.

Alla parziale redistribuzione della capacità industriale e della ricchezza globale corrispose una espansione dei consumi. Larghi strati delle popolazioni del Sud del mondo incrementarono il proprio benessere materiale e poterono sperimentare, grazie alle nuove disponibilità economiche e alle opportunità offerte dal mercato, abitudini e stili di consumo tipici delle nazioni occidentali, anche se filtrati da culture e tradizioni diverse. In qualche caso si crearono, quasi dal nulla, nuove immense fortune. Persistevano tuttavia, all’interno dei singoli paesi e su scala internazionale, enormi sacche di arretratezza e povertà.

L’espansione dei consumi



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le informazioni principali relative ai seguenti temi afferenti alle nuove gerarchie della ricchezza: a. cause dei mutamenti delle gerarchie dei paesi ricchi; b. elementi che hanno innescato i processi di crescita delle aree più povere del pianeta; c. settori produttivi coinvolti; d. paesi coinvolti; e. distribuzione della ricchezza fra la popolazione del Sud del mondo.

22_2 LA CINA POTENZA MONDIALE

Il caso più rilevante di decollo industriale e di successo economico tra quelli registrati a partire dagli ultimi decenni del XX secolo è sicuramente quello della Cina, il paese più popoloso del mondo (nel 2017 contava poco meno di un miliardo e 400 milioni di abitanti) [►FS, 186]. Tra la fine del ’900 e i primi anni del XXI secolo la Cina mantenne un ritmo di sviluppo elevatissimo: i tassi di crescita del Pil furono superiori al 10% annuo, per poi stabilizzarsi intorno al 7%, a un livello comunque notevolmente superiore a quello fatto registrare in quegli anni dai paesi occidentali. Questo straordinario percorso di crescita fece segnare una tappa significativa all’inizio del 2011, quando il prodotto interno lordo cinese superò per la prima volta quello giapponese, facendo della Repubblica popolare la seconda potenza economica del mondo dopo gli Stati Uniti.

Il boom economico

A dare la misura dello sviluppo non erano solo i dati quantitativi. Diversamente dalla Russia o dai paesi produttori di petrolio, la Cina fondava la sua crescita non tanto sullo sfruttamento delle risorse naturali, quanto sul dinamismo dei settori più moderni dell’economia e della finanza e sul crescente inserimento nel mercato globale. Inizialmente la Cina ricoprì un ruolo subalterno, specializzandosi nelle lavorazioni a basso costo e attirando, grazie ai bassi salari e agli scarsi vincoli per le imprese, grandi capitali dall’estero. A partire dall’inizio del nuovo secolo, il colosso cinese manifestò una crescente autonomia: aumentarono gli investimenti esteri delle aziende di Stato e dei fondi di investimento controllati dal governo (i “fondi sovrani”), che acquisirono partecipazioni azionarie in imprese e istituti finanziari stranieri (come l’Ibm o il colosso bancario statunitense Morgan Stanley); parallelamente si intensificavano gli acquisti all’estero di terreni agricoli o di giacimenti minerari per lo sfruttamento di materie prime e fonti energetiche, in particolare nel continente africano. Nel 2001 la Cina fu ammessa nella World Trade Organization (Wto) [►21_4], entrando a tutti gli effetti nel mercato globale, di cui accettava formalmente regole e istituzioni.

La presenza nei mercati internazionali

Procedeva intanto a ritmo serrato il cammino delle riforme che mutavano nel profondo gli equilibri economico-sociali del paese: dopo l’apertura ai capitali esteri, furono liberalizzati gli istituti bancari e finanziari, fu riordinato il sistema fiscale e fu riorganizzata l’industria di Stato. Con una revisione della costituzione venne inoltre garantita la tutela della proprietà privata, che in questo modo poté ulteriormente rafforzarsi.

Le riforme economiche

In quegli anni si ebbe anche un notevole sviluppo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Il governo di Pechino sostenne la crescita delle maggiori università cinesi, stimolò l’innovazione delle imprese nazionali e incentivò le multinazionali straniere a investire non solo in fabbriche ma anche in centri di ricerca, avviando così una trasformazione del paese da “fabbrica del mondo” (ossia primo produttore mondiale nell’industria manifatturiera) a superpotenza tecnico-scientifica. Alla fine del primo decennio del XXI secolo il volume di investimenti in ricerca della Cina superava quelli del Giappone e di ogni singolo paese dell’Unione europea, mentre il numero di brevetti tecnologici internazionali depositati era più alto di quello della Germania. Settori come quello aerospaziale o quello delle biotecnologie assunsero una

Lo sviluppo tecnologico

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C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

rilevanza crescente. Le olimpiadi di Pechino del 2008 furono utilizzate dal governo per dare al resto del mondo una dimostrazione del livello di sviluppo tecnologico raggiunto dal paese. Ai successi economici si accompagnarono importanti risultati in politica internazionale. Un obiettivo di indubbio prestigio fu raggiunto quando, alla fine di giugno del ’97, la Cina ristabilì la propria sovranità sull’antica colonia inglese di Hong Kong, uno dei centri più attivi dell’economia asiatica e della finanza internazionale, pur impegnandosi a rispettarne le peculiarità attraverso un regime di autonomia secondo la formula “uno Stato, due sistemi” (una formula che peraltro non bastò a evitare proteste popolari e tensioni fra la popolazione di Hong Kong e il governo centrale cinese). Nel ’99 fu la volta di Macao, ancora appartenente al Portogallo e ultima traccia della presenza coloniale europea sul continente asiatico.

Hong Kong e Macao

I successi politici ed economici conseguiti dalla Repubblica popolare non cancellavano però le contraddizioni della società cinese. Il processo di industrializzazione fu accompagnato da un’intensa urbanizzazione, che ridisegnò in profondità la geografia e la composizione sociale del paese, riducendo i residui della società preindustriale e nel contempo incrementando le disuguaglianze [►FS, 187]. Alle aree rurali più povere, in cui le condizioni di vita non sembravano aver fatto grandi passi in avanti, si affiancavano le grandi città pienamente inserite nei flussi globali, come Pechino e Shanghai. Anche all’interno dei maggiori centri urbani, il nuovo ceto medio – attivo nel settore industriale o nel terziario, legato alla burocrazia dello Stato e del partito unico o alle grandi imprese private – continuò a convivere con vaste schiere di lavoratori provenienti dalle campagne e costretti a impieghi mal pagati e scarsamente tutelati. Il persistere di forti correnti migratorie, soprattutto verso gli Stati Uniti e l’Europa, indicava chiaramente come non per tutti il boom dell’economia nazionale si fosse tradotto in maggiore benessere. In coincidenza con la crisi economica internazionale del 2008 [►24_1], scoppiarono scioperi e proteste, che coinvolsero soprattutto i settori industriali: il governo reagì da un lato con misure volte a migliorare parzialmente le condizioni degli operai più poveri e dei contadini, dall’altra con un rigido controllo sull’informazione e la repressione delle proteste più politiche, quelle che mettevano in discussione l’autorità del Partito comunista.

Squilibri sociali e contraddizioni

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L’affollata Nanjing Road a Shanghai, Cina agosto 2013 [foto di Mstyslav Chernov] Shanghai è il cuore economico e finanziario della Cina ed è anche, con i suoi 37 milioni di abitanti, l’area metropolitana più popolosa del mondo.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

Il boom economico cinese si svolse infatti nella piena continuità politica. Morto, nel ’97, il vecchio Deng Xiaoping [►16_11], i suoi eredi non deviarono dalla linea da lui tracciata, che consisteva nel lasciare ampio spazio all’iniziativa privata pur nel quadro di uno stretto controllo statale e all’interno di un regime autoritario e monopartitico [►FS, 186]. Qualche segno di allentamento nelle maglie strette del regime si registrò con l’avvento, nel 2013, del nuovo presidente della Repubblica, Xi Jinping, che si distinse dai suoi predecessori sia per una maggiore apertura alle riforme sul terreno delle libertà personali (nel 2015 fu definitivamente abolito il divieto per le coppie di mettere al mondo più di un figlio), sia per un più deciso impegno contro il dilagare della corruzione anche ai vertici dello Stato e del Partito unico, che restava comunque il vero detentore del potere politico.

La continuità politica

Le potenze occidentali guardarono con favore all’evoluzioI diritti umani ne della Cina, chiudendo un occhio sulla repressione del dissenso, sulle ricorrenti violazioni dei diritti umani, sulla larga applicazione della pena di morte (migliaia di esecuzioni ogni anno), nonché sulla dura dominazione imposta al Tibet, incluso a forza dal 1950 nella Repubblica popolare cinese. Questo paese di grandi tradizioni religiose, sede dei centri principali della cultura buddhista, non poté beneficiare se non in parte delle novità introdotte dal nuovo corso del regime comunista e continuò a essere privato di ogni autonomia in campo culturale e linguistico.



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le cause che hanno permesso alla Cina di diventare la seconda potenza mondiale e gli indicatori che ne testimoniano la crescita economica.  b   Spiega per iscritto quali conseguenze ha avuto sulla società cinese la crescita dell’economia.  c   Evidenzia le conseguenze della riconquista di Hong Kong e di Macao per la Cina.  d   Cerchia i comportamenti adottati in Cina sul tema dei diritti umani e spiega oralmente quale politica adottò la Cina nei confronti del Tibet.

22_3 IL GIAPPONE E LE “TIGRI ASIATICHE”

Negli anni a cavallo fra i due secoli, i paesi asiatici che per primi avevano intrapreso un percorso di industrializzazione e sviluppo economico – il Giappone innanzitutto [►12_6], poi, dalla metà degli anni ’80, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, detti, proprio in virtù della loro competitività sui mercati, “tigri asiatiche” – conobbero vicende diverse. Ma tutti dovettero misurarsi con le difficoltà derivanti da una grave crisi finanziaria scoppiata nel 1997-98. Originata da un eccesso di produzione e da un’incontrollata euforia speculativa, la crisi coinvolse tutto il Sud-Est asiatico e suscitò allarme anche nei paesi occidentali, legati ai paesi emergenti dell’Estremo Oriente da vincoli commerciali e finanziari. L’intervento delle autorità monetarie internazionali, che erogarono prestiti per fermare la caduta del valore delle monete nei paesi coinvolti, riuscì a tamponare, almeno nell’immediato, gli effetti della crisi.

La crisi del 1997-98

La Borsa di Tokyo [Double’s, Milano]

La ripresa più difficile fu quella del Giappone, che vide progressivamente venir meno i fattori all’origine di un “miracolo” in atto ormai da mezzo secolo [►12_6]. L’economia nipponica, che ancora nella seconda metà degli anni ’80 sembrava in grado di insidiare in prospettiva il primato degli Stati Uniti, entrò all’inizio del decennio successivo in una fase di declino, che si aggravò in seguito alla crisi del 1997-98, per dar luogo a una lunga stagnazione.

Il declino del Giappone

889

C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

Diverse furono le cause di questo declino. Le grandi imprese nipponiche, sull’onda della sempre più forte concorrenza dei vicini asiatici, incontrarono crescenti difficoltà a esportare nei mercati occidentali e si trovarono quindi con una capacità produttiva in eccesso. Inoltre, la crisi finanziaria colpì le banche, che dovettero ridurre i prestiti alle imprese, innescando una contrazione degli investimenti e un rallentamento delle innovazioni. Ad aggravare la situazione contribuirono anche le difficoltà politiche. Il declino del Partito liberal-democratico, di tendenza conservatrice, diede luogo a un periodo di instabilità, testimoniata dalla breve durata dei governi e aggravata dai frequenti scandali legati a fenomeni di corruzione. La maggiore novità di questi anni fu la vittoria, nel 2009, del Partito democratico del Giappone, di centro-sinistra, che interruppe per pochi anni la lunga egemonia dei liberal-democratici. Nel 2012 i conservatori tornarono al potere con il loro leader Shinzo Abe, che cercò di rilanciare l’economia con una politica di incentivi fiscali, e, pur mantenendo stretti i legami con l’Occidente, diede al suo governo una forte impronta nazionalista, proponendo la modifica o la reinterpretazione di quella norma della costituzione che negava all’Impero nipponico ogni possibilità di riarmo. A differenza del Giappone, le tigri asiatiche seppero uscire in pochi anni dalla recessione causata dalla crisi del 1997-98 e rilanciare la crescita grazie a un peculiare modello di governo dell’economia: un modello basato da un lato sull’incoraggiamento all’iniziativa privata, sull’apertura al mercato internazionale e sul controllo dei conti pubblici, dall’altro su un attivo intervento dello Stato per favorire gli investimenti e sostenere la capacità delle imprese di esportare [►FS, 185]. Nel nuovo secolo le quattro “tigri” figuravano tra i grandi protagonisti del mercato globale: Corea del Sud e Taiwan raggiunsero posizioni di primo piano in ambito industriale, soprattutto nel settore delle tecnologie informatiche (la prima anche nei settori automobilistico e cantieristico); Hong Kong e Singapore si affermarono invece come centri finanziari di importanza mondiale. L’esempio di questi paesi fu seguito, a partire dagli anni ’90 e soprattutto nel nuovo secolo,

La vitalità delle “tigri asiatiche”

890

Le torri gemelle Petronas a Kuala Lumpur in Malesia 1995-98 [foto di Dudva] Negli ultimi decenni la Malesia ha avuto uno straordinario sviluppo industriale e finanziario. È uno dei principali produttori di caucciù e di stagno e si è imposta sul mercato mondiale nei settori della componentistica elettronica e dell’automobile. Simbolo di questa straordinaria crescita sono le torri gemelle della compagnia petrolifera Petronas alte 452 metri e realizzate nella capitale Kuala Lumpur, uno dei maggiori centri commerciali del Sud-Est asiatico che, ospitando le sedi delle maggiori aziende internazionali dell’hightech, si propone come importante polo tecnologico.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

NUOVI EQUILIBRI ECONOMICI IN ASIA ORIENTALE

Sovrapproduzione e speculazione

Eccesso di produzione

Crisi delle banche e contrazione degli investimenti

Declino del Giappone

Crisi 1997-98

Sostegno all’ iniziativa privata

Crescita delle tigri asiatiche

Intervento statale per favorire gli investimenti

Apertura al mercato internazionale

Instabilità politica e corruzione

dalle altre economie dell’area. Malesia, Indonesia, Thailandia, Filippine (chiamate “tigri minori” o “piccole tigri”) e, in un momento successivo, Vietnam e Cambogia, seppero a loro volta avviare un rapido processo di industrializzazione. Anche in questo caso, il cambiamento fu reso possibile da un particolare compromesso tra sostegno all’iniziativa privata e intervento dello Stato. METODO DI STUDIO Nel caso del Sud-Est asiatico, quindi, il successo economico di alcuni pae­si riuscì ad  a   Spiega per iscritto quali effetti ebbe sull’economia del Giappone la crisi del 1997-98. avere un effetto positivo sullo sviluppo di quelli circostanti: le tigri infatti costituirono  b   Cerchia i nomi dei paesi che vengono chiaun modello da cui trarre ispirazione e, al tempo stesso, con le delocalizzazioni produtmati “tigri asiatiche” e sottolinea le strade da essi tive, stimolarono la crescita degli altri sistemi industriali. Grazie a questa positiva inteindividuate per fronteggiare la crisi del 1997-98. razione, l’area si confermò tra le più dinamiche dell’intera economia globale.



22_4 LO SVILUPPO DELL’INDIA

Anche l’India, all’inizio del nuovo millennio, divenne un protagonista della scena economica mondiale. Il secondo gigante demografico del mondo (nel 2017 contava un miliardo e 335 milioni di abitanti) fece registrare un ritmo di crescita inferiore a quello cinese ma comunque tra i più alti al mondo: il tasso annuo, dall’inizio del secolo, fu mediamente superiore al 6% (con un picco del 9,7% nel 2006). Nel 2012 l’India figurava al decimo posto nel mondo per prodotto interno lordo, appena sotto l’Italia; nel 2017 saliva al quinto, superando la Gran Bretagna. La rincorsa iniziò alla fine degli anni ’80, quando il governo di Rajiv Gandhi, leader del Partito del Congresso e figlio di Indira [►13_2], per porre rimedio alla stagnazione del settore industriale, smantellò progressivamente il sistema di pianificazione economica che era stato messo in piedi dopo la conquista dell’indipendenza e che prevedeva uno stretto controllo del governo centrale sull’apparato produttivo. Ai primi timidi tentativi di liberalizzazione seguì l’azione più sistematica dei governi succedutisi nell’ultimo decennio del ’900. Per rendere più competitivo il paese e rafforzare l’iniziativa privata, furono privatizzate numerose aziende pubbliche, liberalizzati gli scambi e incoraggiati gli investimenti stranieri. Numerose imprese private – sia nei settori tradizionali (siderurgico, meccanico, tessile), sia in quelli più avanzati legati alle tecnologie informatiche e alla farmaceutica – poterono svilupparsi e conquistare posizioni nel mercato internazionale. A differenza di quanto era accaduto nelle altre economie asiatiche, tuttavia, l’accelerazione dello sviluppo nella seconda metà degli anni ’90 fu dovuta solo in parte all’industria. Ancora più importante fu il settore terziario, che contribuì più di

I fattori della crescita

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C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

▼  Energia

solare in India Per ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas, petrolio e carbone, il governo indiano si è impegnato in un ambizioso programma per le energie rinnovabili, finanziando in particolare il settore dell’energia solare: sei compagnie statali hanno avviato un piano per realizzare entro il 2022 il più grande impianto solare nel deserto del Rajasthan.

▲  Il

premier indiano Narendra Modi festeggia la vittoria alle elezioni del 2014

tutti gli altri alla crescita. L’abbondante presenza di forza lavoro qualificata, le basse retribuzioni e la diffusa conoscenza dell’inglese (che, dai tempi della dominazione britannica, svolgeva in parte la funzione di lingua nazionale) indussero le multinazionali occidentali, soprattutto nordamericane e britanniche, a delocalizzare in India attività commerciali, informatiche, di assistenza alla clientela e di ricerca. Lo sviluppo economico si realizzò in presenza di vaste sacche di arretratezza e di notevoli tensioni politiche [►FS, 188]. All’inizio del nuovo secolo, la maggioranza della forza lavoro risultava ancora impiegata nell’agricoltura e circa mezzo miliardo di persone continuava a vivere in condizioni di povertà. Molto alto era anche il numero di analfabeti (il 24% fra gli uomini e il 46% fra le donne) mentre permanevano le divisioni di casta; e gravi discriminazioni di genere erano largamente diffuse nella società, come denunciarono, dall’estate 2013, alcune grandi manifestazioni di donne. Le tensioni erano prodotte soprattutto dagli attriti tra i diversi gruppi etnico-religiosi che da sempre dividevano il paese – in primo luogo fra la maggioranza induista e la minoranza islamica – e che diedero luogo a una serie di sanguinosi attentati di diversa matrice: una piaga peraltro non nuova nella storia dell’India indipendente: che restava comunque, almeno sotto il profilo dei numeri, la più grande democrazia esistente nel mondo.

Sviluppo e arretratezza

Alla fine del ’900, si interruppe la lunga stagione di dominio politico del Partito del congresso [►13_2]: le elezioni del 1998 portarono al potere una formazione di orientamento nazionalista e induista, il Partito del popolo (Bjp) di Atal Mehari Vajpayee. Nel 2004, il Partito del Congresso riconquistò la maggioranza, ma la perse nuovamente nelle elezioni del 2014, che riportarono al governo i nazionalisti guidati questa volta da METODO DI STUDIO Narendra Modi. Ne seguì una riacutizzazione delle tensioni con il Pakistan, che sfo a   Evidenzia i fattori che concorsero alla cresciciarono nel 2015 in brevi scontri armati nelle zone di confine: un conflitto antico ta economica dell’India.  b   Cerchia gli elementi di criticità sociali ed eco[►13_2], che destava però nuove preoccupazioni, sia perché si incrociava con le divinomiche ancora presenti in India. sioni religiose sia perché coinvolgeva due paesi entrambi dotati di armi nucleari.

I successi dei nazionalisti



22_5 L’AMERICA LATINA: DALLE CRISI ALLO SVILUPPO

892

Politiche liberiste e processi di integrazione

Negli anni ’90 del ’900 molti paesi dell’America Latina, usciti dall’esperienza delle dittature [►16_9] e ancora afflitti da gravi problemi economici, adottarono politiche liberiste orientate al risanamento delle finanze pubbliche e tentarono il rilancio dell’economia mediante l’apertura ai mercati internazionali. In questo stesso periodo

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

► Leggi anche: ► Parole della storia Debito estero, p. 893

prese l’avvio un importante processo di integrazione, che rafforzò i legami tra i paesi dell’America centro-meridionale e migliorò le loro relazioni con gli Stati Uniti. Nel 1991, Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay diedero vita a uno spazio commerciale comune, il Mercosur (Mercato comune del Sud), nel quale entrarono successivamente anche altri paesi. Nel 1992 il Messico firmò con Stati Uniti e Canada un accordo di libero scambio che fu chiamato Nafta (North American Free Trade Agreement). A partire dal 1998, i maggiori paesi del continente, Brasile e Argentina, dovettero però affrontare una nuova crisi, determinata dalla scelta di ridurre le misure di austerità, che negli anni precedenti avevano bloccato l’inflazione, dal ritorno a politiche di spesa facile e dalle difficoltà del sistema finanziario internazionale, rispetto al quale erano fortemente indebitati (e che era stato già colpito dall’insolvenza della Russia [►17_6]). Soprattutto l’Argentina, dove i peronisti avevano perso il potere nel 1999 a vantaggio dei radicali, entrò in una gravissima crisi finanziaria: la decisione di arrestare l’inflazione legando la moneta nazionale al dollaro provocò un calo delle esportazioni e rese impossibile il pagamento di un debito estero in continua crescita, portando di fatto il paese al fallimento. Il momento peggiore arrivò alla fine del 2001, quando i cittadini corsero agli sportelli bancari per cambiare in dollari la valuta argentina e il governo scelse di bloccare i conti correnti, provocando proteste, anche violente, in tutto il paese. Una parziale stabilizzazione si ebbe con le elezioni dell’aprile 2003, che videro il successo del peronista di sinistra Nestor Kirchner. Anche la situazione finanziaria andò gradualmente migliorando. Restava però vivo il trauma suscitato dalla bancarotta di un grande paese che non aveva saputo far fronte ai suoi impegni e aveva tradito la fiducia di quanti – Stati, istituzioni internazionali, banche e semplici risparmiatori argentini e stranieri – gli avevano concesso crediti, poi risultati in gran parte inesigibili.

Le crisi finanziarie

La stabilizzazione democratica

Al contrario di quanto era accaduto in precedenti periodi, la crisi economica latino-americana di inizio secolo non provocò il crollo delle istituzioni rappresentative e democratiche. In molti paesi si affermarono partiti e coalizioni di

Parole della storia

Debito estero

S

i intende per “debito estero” un debito pubblico a scadenza pluriennale contratto da uno Stato con creditori privati, governi ed enti pubblici di altri paesi e rimborsabile in valuta straniera, merci o servizi. Il debito estero di un paese si forma se il fabbisogno di fondi per finanziare la spesa privata in investimenti e la spesa pubblica è maggiore dei capitali disponibili all’interno dello Stato. Prendere a prestito fondi dalle economie più avanzate, o semplicemente piu ricche di capitali, è pratica normale per quegli Stati che debbano affrontare speciali emergenze (guerre, ricostruzioni, opere di modernizzazione) e in genere per ogni paese che intenda scommettere sulla propria crescita. In particolare, negli anni ’70 del ’900, i paesi in via di sviluppo acquisirono ingenti prestiti dall’estero al fine di avviare la propria industrializzazione. È dunque in quel periodo che si registrò un rilevante aumento del volume del debito. Già nel decennio successivo, per molti di questi paesi, il debito estero divenne un problema drammatico. Infatti, alla fine

degli anni ’70, la rivalutazione del dollaro, provocata dalla necessità di contrastare gli effetti del caro petrolio, determinò un brusco aumento dei tassi di interesse sui prestiti internazionali e una crescita dello stesso ammontare dei debiti. Molti paesi debitori entrarono allora in difficolta: è stato calcolato che tra 1978 e 1981 il peso reale degli interessi, al netto dell’inflazione, passò da un valore negativo (– 20%) a uno positivo (+ 20%). Questo incremento innescò una seria crisi economica nelle aree meno sviluppate del pianeta. Nel 1982 il Messico dichiarò una moratoria sul debito estero, ovvero una sospensione temporanea dei pagamenti, e successivamente molti altri Stati presentarono richieste di rinvio delle scadenze e appelli per una rinegoziazione. Il debito estero, infatti, si rivelò un peso insostenibile per le fragili economie di molti paesi, soprattutto dell’Africa e dell’America Latina. Intervenne allora il Fondo monetario internazionale come garante di nuovi accordi di rinegoziazione tra paesi debitori e paesi creditori. Questo coinvolgimento del principale organismo finanziario internazionale inaugurò una nuova politica dei prestiti, che vennero sempre più

vincolati a riforme economiche da realizzare nei paesi beneficiari. Lo scopo era quello di cercare di stabilizzare la situazione economica negli Stati debitori al fine sia di ridurre i rischi di insolvenza sia di promuovere l’espansione del mercato mondiale. Ma questa strategia, che provocò una severa compressione dei consumi in paesi già poveri, divenne oggetto di molte critiche. Alla fine degli anni ’80 il Fondo monetario internazionale cambiò approccio e divenne promotore di interventi di rilancio economico nei paesi in via di sviluppo, appoggiando l’avvio di una riduzione volontaria del debito su basi bilaterali. Da allora molti Stati si giovarono dell’annullamento di una parte del debito e di una serie di significativi condoni. Il che non impedì il prolungarsi dello stato di crisi in molti paesi e il verificarsi di casi di insolvenza, come quello di cui fu protagonista l’Argentina nel 2000-1. Nel giugno del 2005 i paesi del G8 (eccetto la Russia) in accordo con la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale decisero la cancellazione di 40 miliardi di dollari di debiti di 18 paesi poveri africani e americani.

893

C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

sinistra o di centro-sinistra: così accadde in Argentina, dove prima Kirchner e poi sua moglie Cristina governarono fino al 2015 quando i peronisti furono sconfitti dal liberale Mauricio Macri; così in Cile, dove i socialisti tennero a lungo la presidenza con Michelle Bachelet; così, soprattutto, in Brasile, dove dal 2003 al 2011 fu presidente della Repubblica il progressista Inácio Lula da Silva: ex operaio, ex sindacalista e leader del Partito dei lavoratori (Pt), che si era candidato con un programma basato sulla lotta alla povertà e alle disuguaglianze sociali. Il programma fu attuato con discreto successo, grazie anche al buon andamento delle esportazioni di materie prime (compreso il petrolio), e il Brasile entrò a far parte del gruppo delle nuove potenze economiche emergenti. Ma, scaduto il secondo mandato di Lula, l’intero gruppo dirigente del Pt fu travolto da un grave scandalo legato a finanziamenti illeciti al partito di governo da parte dell’azienda petrolifera di Stato; nel 2016 la presidente Dilma Rousseff, stretta collaboratrice di Lula, fu destituita da un voto del Senato. In Venezuela nel 1999 salì alla presidenza l’ex generale Hugo Chávez: il suo governo fu caratterizzato da un populismo a sfondo sociale, da una gestione autoritaria del potere e dalla forte contrapposizione con gli Stati Uniti, cui faceva riscontro la stretta amicizia con Cuba. Grazie alle sue ricche risorse petrolifere, il Venezuela di Chávez si propose come nuovo modello per i paesi latino-americani, in alternativa al regime comunista cubano ormai in declino. Governi populisti si affermarono anche in altri paesi, come la Bolivia, l’Ecuador e il Perù, mentre in Nicaragua, nel 2006, tornava al governo, con un programma più moderato, l’ex capo del movimento sandinista, Daniel Ortega [►16_9].

I governi populisti

I gruppi liberal-conservatori rimasero invece al potere in Colombia e in Messico (dove nel 2000 si era interrotto il dominio, durato settant’anni, del Partito rivoluzionario istituzionale [►10_9]). In entrambi i paesi i governi dovettero fronteggiare la doppia sfida dei movimenti di guerriglia sociale – come quello zapatista, attivo dall’inizio del secolo fra le popolazioni indie della poverissima regione messicana del Chiapas – e, soprattutto, delle potenti e ferocissime organizzazioni dei narcotrafficanti (narcos): veri Stati nello Stato, infiltrati da un lato negli apparati pubblici, mescolati dall’altro ai movimenti di guerriglia. Con una di queste organizzazioni, le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), il governo colombiano firmò nel 2016 un accordo di pace che doveva sancire, in cambio della rinuncia al traffico di droga e alla violenza, il rientro dei guerriglieri nella vita civile. In Messico – il paese più duramente colpito dalla violenza dei narcos, per la sua posizione di principale ponte verso i mercati statunitensi – le violenze proseguirono, toccando il picco di 2.200 morti nel 2016, nonostante l’arresto, in quello stesso anno, di Joaquín Guzmán, capo della più importante rete criminale.

La sfida del narcotraffico

Superate le difficoltà degli anni a cavallo fra i due secoli, quasi tutti i paesi dell’America Latina, conobbero una fase di intensa crescita economica. Il Brasile in primo luogo e, in maniera più graduale, anche l’Argentina, il Messico, la Colombia e altri paesi latino-americani avviarono una modernizzazione delle strutture produttive e si liberarono dalla dipendenza da un’economia agraria basata sul latifondo. Le basi della ripresa restavano tuttavia fragili. Rimaneva aperto in tutto il continente il problema delle disuguaglianze sociali che lo sviluppo economico non bastava a ridurre, il che alimentava in alcuni paesi forti movimenti di protesta [►FS, 190].

Sviluppo e protesta

Peraltro, gli stessi governi populisti continuavano a mostrarsi incapaci di assicurare ai loro cittadini una ordinata crescita economica e di dare stabilità alle istituzioni rappresentative. Lo si vide proprio in 894

La crisi venezuelana

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

Meeting dei capi di Stato latino-americani, Argentina 2006 [© Antonio Lacerda/epa/ Corbis] L’intesa dei capi di Stato latino-americani alla fine di un incontro sulla nazionalizzazione delle risorse naturali di gas e petrolio della Bolivia: da sinistra, il presidente argentino Néstor Kirchner, accanto il presidente boliviano Evo Morales, quello brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e quello venezuelano Hugo Chávez.

Venezuela, paese fra i più ricchi del continente e guida del fronte populista di sinistra, piombato in una crisi drammatica dopo la morte di Chávez nel 2013. Il suo successore Nicolás Maduro, che si ispirava al modello di Chávez senza averne il prestigio, non seppe far fronte alle conseguenze di un forte calo del prezzo del petrolio, sulle cui esportazioni si basava l’intera economia venezuelana. Ne seguì un catastrofico dissesto economico (inflazione alle stelle, scomparsa dei generi di prima necessità), cui il presidente reagì reprimendo con la violenza le manifestazioni di piazza e imponendo una riforma autoritaria della Costituzione.

I funerali di Fidel Castro a piazza della Rivoluzione a l’Havana, Cuba 29 novembre 2016

Si consumava frattanto il declino dell’esperienza castrista a Cuba, già punto di riferimento dei movimenti rivolzionari latino-americani. Nel 2008, Fidel Castro, vecchio e malato (sarebbe morto a fine 2016) cedette il potere al fratello Raúl, che introdusse alcune limitate riforme economiche e promosse, con la mediazione del papa una serie di iniziative commerciali e diplomatiche volte a normalizzare gradualmente i rapporti col nemico di sempre, gli Stati Uniti.

Il declino del castrismo

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia la descrizione dei processi economici e sociali comuni ai paesi dell’America Latina e indica almeno cinque parole chiave in grado di rappresentarne i diversi aspetti. Quindi argomenta la tua scelta per iscritto.  b   Compila una tabella nelle cui colonne inserirai i nomi dei paesi dell’America Latina trattati nel paragrafo e nelle righe i seguenti indicatori: dinamiche economiche, dinamiche politiche e dinamiche sociali.



22_6 IL NUOVO SUDAFRICA

► Leggi anche:

In una mappa aggiornata dell’economia globale all’inizio del XXI secolo trova posto, tra i pae­si capaci di intraprendere la strada dello sviluppo, anche il Sudafrica. Il paese si liberò, nei primi anni ’90, dell’odioso regime di apartheid [►13_9] e aprì una fase radicalmente nuova, fondata sull’integrale rinnovamento dello Stato e sulla fine delle discriminazioni che impedivano alla maggioranza nera di accedere al governo del paese. Il superamento dell’apartheid avvenne attraverso un percorso lungo e complesso. Alla fine degli anni ’80, il primo ministro Frederik de Klerk, fino ad allora esponente dell’ala conservatrice del Partito nazionalista al potere, cominciò a smantellare il regime di discriminazione razziale e aprì negoziati con Nelson Mandela, leader del movimento antisegregazionista African National Congress (Anc), liberato dal carcere nel febbraio 1990. Il negoziato, benché ostacolato dalla resistenza dei gruppi intransigenti di entrambe le parti e dai violenti contrasti tra l’Anc e la più numerosa fra le tribù nere, quella degli zulu, ricevette un forte impulso dall’esito favorevole di un referendum tra la comunità bianca, nel marzo 1992. Nel maggio 1994 si svolsero pacificamente le prime elezioni a suffragio universale, vinte dall’Anc, e Mandela divenne capo dello Stato, alla guida di un governo di coalizione. La collaborazione al governo fra gli antichi avversari durò poco. Ma il nuovo Sudafrica riuscì ugualmente a superare i difficili problemi di convivenza e a mantenere la sua unità e le sue istituzioni rappresentative, affermandosi inoltre,

► Personaggi Nelson Mandela e la lotta contro l’apartheid, p. 896

La fine dell’apartheid

Nelson Mandela e Frederik de Klerk, qui insieme il 10 maggio 1994 dopo la vittoria elettorale dell’Anc che portò Mandela alla presidenza

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C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

grazie anche al prestigio di Mandela, come principale potenza dell’Africa subsahariana e portavoce dei paesi in via di sviluppo. Un forte contributo al superamento delle lacerazioni del passato venne dall’istituzione, nel ’96, di una Commissione nazionale “per la verità e la riconciliazione”, dinanzi alla quale i responsabili di reati e di violenze commessi da tutte le parti in lotta fornirono, con la promessa di amnistia, ampie testimonianze sugli anni dell’apartheid.

PERSONAGGI

Nelson Mandela e la lotta contro l’apartheid

«O

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ltre alla vita, a un fisico robusto e a un antico legame con la casa reale Thembu, l’unica cosa che mio padre mi ha conferito alla nascita è stato un nome: Rolihlahla»: così comincia l’autobiografia di Nelson Rolihlahla Mandela, il più importante politico africano del XX secolo, eroe dell’emancipazione dei neri in Sudafrica. Chiamato spesso anche Madiba, dal nome del suo clan di origine, nacque il 18 luglio del 1918 e trascorse i suoi primi anni di vita in un piccolo villaggio del Transkei, una regione sudafricana affacciata sull’Oceano Indiano. Al momento della sua nascita, l’Unione sudafricana si era formata già da otto anni e da sei, nel 1912, era stato creato l’African National Congress (Anc), il movimento di liberazione dei neri sudafricani. Il primo giorno di scuola a Mandela fu attribuito un nuovo nome, secondo quella che era una consuetudine per gli studenti neri: gli insegnanti bianchi, infatti, non sapevano e non volevano pronunciare i nomi africani. Così fu chiamato Nelson. Aveva nove anni quando morì il padre e suo tutore divenne allora il sovrano del Thembuland, la regione sudafricana d’origine. Era destinato a fare carriera alla corte reale del popolo thembu, ma a 23 anni decise di lasciare tutto. Il suo primo atto di ribellione era così rivolto contro il sistema sociale del suo popolo e non contro il dominio politico dei bianchi. Rifiutò il matrimonio combinato, stabilito dal suo tutore, e fuggì a Johannesburg, dove conobbe Walter Sisulu, un giovane attivista dell’Anc, futuro compagno di lotta e prigionia. Assunto in uno studio legale, poté continuare a frequentare una delle migliori università della metropoli sudafricana: era l’unico studente nero di tutta la facoltà di Giurisprudenza. Ben presto arrivò per Mandela l’impegno politico. «Essere africani in Sudafrica – scriverà in seguito – significa essere politicizzati dal momento della nascita, che lo si voglia ammettere o no. Un bambino africano nasce in un ospedale per soli africani, viene portato a casa in un autobus per soli

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

africani; vive in un’area per soli africani e frequenta scuole per soli africani, se mai succede che frequenti una scuola». A partire dal 1948 le politiche segregazioniste del Sudafrica furono ulteriormente inasprite: cominciava l’apartheid, un progetto di divisione totale della società secondo classificazioni di origine razziale. Mentre altrove era in pieno sviluppo il processo di decolonizzazione, in Sudafrica questo sistema politico rappresentava il principale strumento dell’élite bianca per conservare il potere attraverso un’assoluta sottomissione delle minoranze. In quegli anni Mandela era un giovane avvocato e un pugile dilettante. Insieme ad un socio aveva aperto il primo studio legale del Sudafrica diretto da avvocati africani, il cui lavoro era dedicato in particolare alla dife-

sa dei diritti dei neri. Mandela partecipò alla fondazione della Youth League (Lega della gioventù), il movimento giovanile dell’Anc, divenendone ben presto un autorevole leader. Agli occhi di questi giovani, la linea della non violenza, adottata dall’Anc fin dalle sue origini, appariva ormai inadeguata ai nuovi tempi. Nel marzo del 1960, durante una dimostrazione pacifica nella città di Sharpeville, la polizia cominciò a sparare sui manifestanti uccidendo 67 persone. L’Anc decise Nelson Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu per le strade di Johannesburg febbraio 1990 L’espressione “nazione arcobaleno”, usata da Mandela, fu probabilmente coniata dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu (a sinistra nella foto), fermo oppositore del regime dell’apartheid, premio Nobel per la Pace nel 1984 e guida della “Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione”.

Nel 1999 a Mandela – che aveva deciso di non ricandidarsi – succedettero Thabo Mbeki, già vicepresidente e riconfermato presidente nel 2004, e poi, nel 2009, Jacob Zuma, entrambi esponenti dell’Anc, che poté sempre contare su consensi altissimi. Nonostante la continuità politica, il ritiro di Mandela aprì una fase molto complessa. Il suo carisma e la sua indiscussa popolarità – rimasti intatti anche dopo il suo ritiro, come apparve chiaro in occasione della

Dopo Mandela

allora di formare un gruppo armato clandestino, Umkhonto we Sizwe (“la lancia della nazione”), il cui comando fu affidato proprio a Nelson Mandela. I giornali parlavano di lui come di un fuggitivo imprendibile e lo chiamavano la “primula nera”. Nell’estate del 1962 era appena tornato in Sudafrica, dopo aver trascorso un periodo di addestramento militare nel deserto algerino: prossimo a raggiungere Johannesburg, fu fermato da un gruppo di poliziotti in borghese. Pur avendo con sé documenti falsi, fu immediatamente riconosciuto e tratto in arresto. Durante il processo, Mandela decise di difendersi da solo: l’accusa chiese la pena capitale, ma alla fine l’imputato fu condannato all’ergastolo. Aveva da poco compiuto 46 anni quando arrivò a Robben Island, un’isola nella baia di Città del Capo trasformata in un carcere di massima sicurezza. La sua cella era lunga un metro e ottanta e larga un metro e venti: una semplice stuoia stesa per terra doveva servire da letto, il resto dell’arredamento consisteva in un secchio di legno e nient’altro. Durante la sua detenzione, Mandela organizzò in carcere una scuola, permettendo così a molti prigionieri di istruirsi e in alcuni casi di arrivare anche alla laurea. Durante gli anni ’70 il movimento dei neri in Sudafrica riuscì a coinvolgere sempre più persone, soprattutto nei poverissimi sobborghi neri, vicini alle ricche città riservate ai bianchi. Scoppiarono violente rivolte, come nel 1976 a Soweto, il più grande quartiere abitato da neri della capitale. Dalla prigione di Robben Island, Nelson Mandela diventava sempre più celebre, ormai un simbolo vivente della lotta all’apartheid e al tempo stesso della crudele assurdità del regime razzista. Dopo 21 anni, nel 1985, Mandela poté riabbracciare nuovamente sua moglie: le autorità gli avevano concesso un incontro di ottanta minuti. Dalla seconda metà degli anni ’80, il regime dei bianchi in Sudafrica stava entrando in una fase di profonda crisi: era stato colpito dalle sanzioni e dall’isolamento internazionale e sembrava incapace di reprimere le continue rivolte interne. Il governo decise di aprire trattative con l’Anc e scelse proprio

Mandela come principale interlocutore. Il 2 febbraio 1990, il presidente dell’Unione sudafricana, Frederik de Klerk, annunciò la fine dell’apartheid e la liberazione di Mandela. Madiba aveva passato più di 27 anni in carcere isolato dal mondo. Finalmente uomo libero, il vecchio combattente cominciò una nuova battaglia verso la riconciliazione nazionale. Il giorno successivo alla sua scarcerazione, si ritrovò a Soweto di fronte a una folla sterminata e acclamante, e pronunciò parole rivoluzionarie: «Facciamo un appello a coloro che, per ignoranza, hanno collaborato con l’apartheid in passato affinché si uniscano alla nostra lotta per la liberazione. Nessun uomo o donna che abbia abbandonato l’apartheid verrà escluso dal nostro movimento per un Sudafrica non razzista, unito e democratico, fondato sul concetto di suffragio universale». Nel 1993 Mandela e de Klerk furono insigniti del premio Nobel per la Pace. Nel 1994 si tennero le prime elezioni libere, con la partecipazione anche della popolazione nera: il 62,5% dei voti andò all’Anc che riuscì ad ot-

tenere il controllo assoluto della nuova Assemblea costituente. Mandela fu eletto presidente della Repubblica ma restò in carica soltanto per un mandato. Nel 1999 decise di ritirarsi dalla politica attiva ma rimase un’autorevole voce critica in Sudafrica, impegnandosi in battaglie civili come quella contro l’Aids. Morì il 5 dicembre 2013. Il Sudafrica lo ha ricordato con dieci giorni di celebrazioni prima della sepoltura nel cimitero di Qunu, nei pressi del suo villaggio natale. Alla commemorazione ufficiale allo stadio di Johannesburg parteciparono i capi di Stato di tutto il mondo, a testimonianza del fatto che Mandela non era stato soltanto il padre indiscusso della sua nazione, ma rimaneva un simbolo mondiale nella lotta per i diritti civili e contro il razzismo. Festeggiamenti per la liberazione di Mandela 11 febbraio 1990, Londra [foto di Jon Kempster] Il giorno in cui Mandela fu scarcerato ci furono manifestazioni di giubilo in tutto il mondo. A Trafalgar Square, a Londra, migliaia di persone si recarono presso l’ambasciata del Sudafrica per festeggiare l’avvenimento.

897

C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

celebrazione dei funerali nel dicembre 2013 – avevano infatti costituito un fondamentale punto di riferimento nella fase della transizione. Venuto meno quel collante, l’Anc dovette fronteggiare una crescente conflittualità interna. I successori di Mandela riuscirono comunque a far compiere ulteriori passi avanti al nuovo Sudafrica e ne rafforzarono la posizione internazionale. Sul piano economico, fu garantita continuità alla crescita avviata negli anni ’90. Sfruttando la grande ricchezza di risorse naturali (diamanti, oro e altri metalli preziosi, ma anche carbone e petrolio) e la rapida integrazione nelle reti del mercato internazionale, il Sudafrica, con il miglior prodotto interno lordo pro capite di tutta l’Africa, riuscì nel XXI secolo a inserirsi nel gruppo dei grandi paesi in via di sviluppo, i Brics [►22_1]. Nonostante i successi in campo economico, la classe politica del dopo Mandela non riuscì a dar pienamente vita all’ideale di una nazione finalmente pacificata e capace di integrare tutte le sue componenti etniche. La società sudafricana continuò infatti a essere attraversata da profonde disuguaglianze (gran parte della popolazione nera versava ancora in condizioni di povertà) e da frequenti esplosioni di violenza, legata soprattutto alla diffusa criminalità: fra il 1994 e il 2004, circa 250 mila sudafricani bianchi decisero di lasciare il paese.

Squilibri e violenze



METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia nel testo cosa avvenne con le prime elezioni a suffragio universale in Sudafrica.  b   Spiega oralmente chi era Mandela e quale ruolo ha avuto in Sudafrica.  c   Sottolinea con colori diversi gli elementi che hanno concorso al processo di crescita avviato negli anni ’90 e quelli relativi agli squilibri e tensioni sociali esistenti.

22_7 LA GEOGRAFIA DELLA POVERTÀ: L’AFRICA SUBSAHARIANA

La globalizzazione e le grandi trasformazioni economiche di fine ’900 non produssero ovunque un incremento della ricchezza e del benessere. Se numerosi paesi del cosiddetto Terzo Mondo furono capaci, pur tra limiti e contraddizioni, di intraprendere un percorso di sviluppo, molti altri rimasero in drammatiche condizioni di povertà e arretratezza e, in alcuni casi, videro accrescersi le distanze dalle economie più sviluppate e peggiorare il livello di vita della popolazione. Anche nel nuovo contesto dell’economia globale, come per tutta la lunga fase inaugurata dalla rivoluzione industriale, il divario complessivo tra le aree ricche e quelle povere si allargò. All’inizio del nuovo millennio la situazione più critica era quella di alcune aree dell’Asia meridionale, e soprattutto dell’Africa subsahariana, dove il Pil annuo pro capite era oltre cento volte inferiore a quello dei paesi più sviluppati, gli indici di analfabetismo continuavano ad essere spesso superiori al 50% (con punte del 70% in Stati come il Niger e il Burkina Faso), i tassi di mortalità infantile erano al di sopra del 10% (mentre in Europa occidentale e nel Nord America oscillavano fra lo 0,2 e l’1%), e le aspettative di vita rimanevano intorno ai cinquant’anni (la media mondiale nel 2014 era di 68 anni per gli uomini e di 73 per le donne, con picchi sopra gli 80 nei paesi più ricchi). Alla povertà, alle epidemie e alle guerre intestine, tradizionali fattori di mortalità in questa area, si aggiunse, negli ultimi decenni, la diffusione di nuove e vecchie malattie, come l’Aids [►21_9], che colpì in particolare l’Africa nera, e il virus dell’ebola, che si credeva ormai sconfitto dalla medicina.

L’accentuarsi delle disuguaglianze

L’Africa subsahariana nel suo complesso non riuscì dunque a sfruttare le opportunità offerte dalle trasformazioni economiche di fine ’900: dal 1980 al 2005 il prodotto pro capite dell’area diminuì del 3,2%, mentre aumentò il numero delle persone costrette a vivere sotto la soglia della povertà: nel 2005, secondo le statistiche, erano il 73% della popolazione; di questi, il 50% viveva in condizioni di “povertà estrema”. I problemi erano aggravati dalla crescita demografica: la popolazione continuò ad aumentare con tassi elevatissimi, anche per l’assenza di politiche di controllo delle nascite, accrescendo così la pressione sulle già scarse risorse alimentari. Le tragedie legate alla scarsa alimentazione, che colpirono, negli anni ’90, paesi come la Somalia e 898

Povertà e sottoalimentazione

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► Leggi anche: ► Parole della storia Debito estero, p. 893 ► Laboratorio di cittadinanza Le emergenze umanitarie, p. 903

l’Etiopia o, all’inizio del decennio successivo, il Sudan, erano del resto la manifestazione più evidente delle condizioni drammatiche in cui versavano le aree più povere dall’Africa. La questione della fame nel mondo e quella del rapporto Nord-Sud furono al centro di una serie di analisi e campagne promosse da organismi internazionali – come le Nazioni Unite e l’Unione europea –, dai singoli Stati e dalle organizzazioni della società civile: Chiese cristiane, gruppi politici, organizzazioni non governative (Ong).

organizzazioni non governative Le organizzazioni non governative (Ong) sono organizzazioni indipendenti dagli Stati e dalle istituzioni internazionali, create e finanziate da privati attraverso donazioni e gestite per lo più da volontari. Non hanno fini di lucro e si dedicano principalmente ad attività umanitarie.

45_TASSO DI ALFABETIZZAZIONE, 2014 [da www.indexmundi. com]

97%

46_TASSO DI MORTALITÀ INFANTILE, 2014 Il tasso di mortalità infantile di un paese rappresenta il numero di decessi di bambini, al di sotto di un anno, per 1000 nati vivi in un dato anno. Viene spesso utilizzato come indicatore del livello di salute e dello sviluppo civile di un paese. [da www.indexmundi. com]

65-68 68-71 71-75 75-78 78-90 90-103 103-115 115-128

68-71 71-75

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899

65-68

Emergenza umanitaria nel Corno d’Africa: bambini in coda per la distribuzione di cibo a Mogadiscio, Somalia agosto 2011 [James Hooley/FCO]

Un altro problema che impegnò la comunità internazionale fu quello del debito: come abbiamo visto, molti paesi trovavano difficoltà a restituire i prestiti contratti negli anni passati con gli Stati più ricchi allo scopo di favorire lo sviluppo. Sebbene in termini assoluti si trattasse di cifre non alte (il debito estero di tutta l’Africa subsahariana rappresentava all’inizio del XXI secolo l’1% di tutto il debito emesso nel mondo), l’indebitamento rappresentava un peso insopportabile per i paesi più poveri. Nella seconda metà degli anni ’90 le numerose campagne per la riduzione o la cancellazione del debito portarono a risultati molto limitati, anche perché le risorse a disposizione dei governi locali andarono spesso ad alimentare la corruzione locale o l’incremento delle spese militari.

Il problema del debito estero

Anche quando, a partire dagli anni ’80, alcuni paesi africani si aprirono al mercato mondiale, le élite politiche nazionali non furono capaci di sfruttare questa opportunità per avviare efficaci politiche di sviluppo. L’afflusso di capitali esteri fu utilizzato per mettere in atto programmi di industrializzazione che però fallirono, in assenza di un solido mercato interno e di una forte imprenditoria locale, aggravando così i bilanci degli Stati col peso degli interessi sui debiti contratti. Ancora più gravi furono i problemi legati al tentativo di inserire il settore agricolo nel mercato internazionale: numerosi contadini furono convinti a cedere la propria terra alle grandi proprietà, spesso riconducibili a società straniere; la scelta di dare più spazio alle esportazioni ridusse la quantità di prodotti destinati al consumo interno; il basso prezzo imposto dalla concorrenza estera portò minori guadagni ai produttori locali. Moltissimi lavoratori agricoli abbandonarono di conseguenza le campagne per andare a vivere in enormi agglomerati urbani: oltre 15 milioni di persone abitavano nel 2015 l’area metropolitana di Lagos in Nigeria, più di 10 milioni quella di Kinshasa, capitale del Congo.

Il fallimento delle politiche di sviluppo

L’Africa centrale e meridionale vide i suoi mali aggravati anche da una esasperata conflittualità politica, causa di frequenti colpi di stato e di sanguinose guerre civili. In alcuni casi i conflitti trovarono una soluzione pacifica: la lunga lotta degli eritrei contro la dominazione etiopica [►13_9] si concluse nel 1991 con la conquista dell’indipendenza; nel 1994, grazie a una mediazione italiana, fu raggiunto un accordo fra le due opposte fazioni che dal 1981 si 900

L’instabilità politica

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combattevano in Mozambico. In molti altri casi, però, i conflitti divennero cronici e si trascinarono fino a mettere in crisi ogni autorità centrale.

animismo È così definita la credenza in esseri spirituali che animano ogni elemento naturale, sia esso organico o inorganico.

Sanguinosissimo fu il conflitto scoppiato nel piccolo e poverissimo Ruanda, dove, nel 1994, le milizie dell’etnia hutu si resero protagoniste di spaventosi massacri soprattutto ai danni dell’etnia tutsi, provocando la morte di un numero di persone stimato fra 800 mila e oltre un milione. La guerra in Ruanda provocò un gigantesco flusso di profughi verso i paesi confinanti, soprattutto in Zaire: caduta la dittatura più che trentennale del generale Mobutu [►13_9], nel 1997 questo paese riprese il vecchio nome di Repubblica del Congo, ma fu teatro di una sanguinosa guerra, che coinvolse anche gli Stati vicini e causò un altissimo numero di vittime e una nuova ondata di profughi.

Le guerre in Ruanda e in Congo

Dagli anni ’90, nei conflitti che laceravano gli Stati africani della fascia subsahariana, si inserì un nuovo protagonista: il fondamentalismo islamico [►19_1], presente in vaste aree del continente, dalla Nigeria al Mali, dal Kenya alla Somalia. Nella ex colonia italiana, dopo la caduta, nel 1991, della dittatura di Siad Barre, si scatenò una spietata guerra fra clan e bande rivali: inutile fu l’intervento, nel 1993-94, di un contingente dell’Onu, che dovette ritirarsi dopo aver subìto molte perdite. Da allora il paese restò senza un governo: ad approfittare di questa assenza di potere fu un movimento fondamentalista, le cosiddette “corti islamiche”, che riuscì nel 2006 ad assicurarsi il controllo di buona parte del territorio, ma fu poi sconfitto da un intervento militare della vicina Etiopia, paese in maggioranza cristiano. Dopo il ritiro del contingente etiopico, tuttavia, la Somalia si trovò di nuovo in una situazione di anarchia, mentre prendeva sempre più forza il fenomeno della pirateria sulle coste, che metteva a rischio la  sicurezza delle rotte turistiche e commerciali nell’Oceano Indiano.

Il fondamentalismo islamico

I contrasti politici e quelli etnico-religiosi fra maggioranza arabo-islamica e minoranze cristiane e animiste causarono fin dagli anni ’80 una guerra civile nel Sudan: alle carestie e agli scontri armati fra reparti governativi e movimenti di guerriglia, si aggiunsero le razzie operate da gruppi di predoni ai danni soprattutto della popolazione cristiana. Nel 2003 le violenze si concentrarono nella regione del Darfur, provocando una tragica emergenza umanitaria. Nel 2011 il Sudan meridionale si separò dal resto del paese, dando vita a un nuovo Stato, il Sud Sudan: gli scontri tribali proseguirono anche qui, aggravando il già pesante bilancio di vittime.

Il Sudan

Sempre legati a motivi etnico-religiosi furono i conflitti in Nigeria, lo Stato più popoloso dell’Africa: potenzialmente ricco, grazie alla disponibilità di risorse petrolifere, era diviso, oltre che dalle rivalità tribali, dai contrasti fra un Nord prevalentemente musulmano e un Sud a maggioranza cristiano. A partire dai primi anni 2000, il movi-

La Nigeria

Profughi tutsi durante la guerra civile in Ruanda 1994 Uno dei più sanguinosi conflitti armati tra etnie nel continente africano avvenne in Ruanda nella prima metà degli anni ’90 del ’900. Si stima che le violenze tra hutu e tutsi abbiano causato fino a un milione di vittime solo nel 1994, anno del cosiddetto “genocidio ruandese”.

901

C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

L’AFRICA

Sudafrica

Fine dell’apartheid e modernizzazione dello Stato

Ricchezza di risorse naturali

SVILUPPO ECONOMICO

Africa subsahariana

Inserimento nei mercati internazionali

Analfabetismo, malattie e fame

Alti tassi di natalità e mortalità

Debito estero, guerre civili e fondamentalismo

Permane una condizione di SOTTOSVILUPPO

mento fondamentalista islamico “Boko Haram” fu responsabile di numerosi e violenti attacchi, con stragi e rapimenti di massa, contro la comunità cristiana. Anche il Mali, parte dell’ex Africa occidentale francese, fu attraversato da una guerra civile, originata dal contrasto fra i nomadi tuareg e le altre etnie, di cui la classe politica era espressione. Nel 2012 un gruppo di militari si impadronì del potere. Ne scaturì un conflitto che portò i ribelli, alleati a gruppi del fondamentalismo islamico, a prendere il controllo della parte settentrionale del paese. All’inizio del 2013, la Francia intervenne con attacchi aerei per liberare le città cadute in mano ai ribelli.

Il Mali

I diversi conflitti che insanguinavano l’Africa traevano per lo più origine da vecchie e nuove rivalità tribali. Ma a volte nascondevano scontri relativi allo sfruttamento delle cospicue risorse naturali del continente, che a loro volta celavano anche contrasti fra le potenze occidentali. Queste ultime, soprattutto negli anni 2000, intensificarono i loro interventi nelle vicende interne africane, anche per fronteggiare l’espansione del fondamentalismo. I condizionamenti esterni erano però più l’effetto che la causa della crisi delle classi dirigenti africane, incapaci, a mezzo secolo dall’indipendenza, di costruire strutture statali moderne e durature.

Le cause dei conflitti

Ancora all’inizio del 2017, nella classifica mondiale del prodotto pro capite, le ultime venti posizioni erano occupate da Stati africani (ultima era la Somalia, dilaniata dalla guerra civile). Eppure, a dispetto di queste sfavorevoli condizioni, con l’inizio del nuovo millennio importanti segnali di crescita si registrarono anche in Africa, grazie soprattutto a una maggiore apertura ai mercati internazionali. Nel 2015 ben ventidue paesi del METODO DI STUDIO continente (contro nessuno dell’Europa e del Nord America) videro le loro eco a   Esponi sinteticamente in un intervento orale nomie crescere a tassi superiori al 5%. Un dato che si spiegava in parte con i bassi le condizioni dell’Africa subsahariana, utilizzando i livelli di partenza, ma che attestava le potenzialità di un continente vastissimo, titoli dei primi sottoparagrafi come scaletta. con una popolazione in continua crescita (poco più di 800 milioni di abitanti nel  b   Cerchia, per ogni paese dell’Africa subsahariana, le parole chiave che ne definiscono le condi2000, un miliardo e 250 mila nel 2017, nonostante il massiccio flusso migratorio zioni attuali e argomenta la tua scelta per iscritto. verso l’Europa) e attraversato da rapide trasformazioni sociali e culturali. Per  c   Spiega il titolo dell’ultimo sottoparagrafo e questo, economisti e demografi hanno indicato proprio nell’ascesa dell’Africa un rispondi per iscritto alla domanda da esso posta. possibile tratto caratterizzante dell’intero XXI secolo [►FS, 189].

902

Il secolo dell’Africa?

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

LABORATORIO DI CITTADINANZA LE EMERGENZE UMANITARIE

A

lla fine della seconda guerra mondiale, con la Carta delle Nazioni Unite (1945) e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) fu stabilito l’obbligo per ogni Stato sovrano di garantire i diritti fondamentali a tutte le persone presenti nel proprio territorio, senza distinzioni etniche, culturali o religiose. Di fronte a situazioni di emergenza umanitaria causate da eventi naturali o nel corso di un conflitto, ciascun paese ha dunque la responsabilità di assicurare la giusta e primaria assistenza ai civili e di rispettarne i diritti. Qualora gli Stati si dimostrassero inadempienti a questi obblighi, la politica internazionale prevede l’organizzazione di un intervento umanitario, ovvero un’azione congiunta per prestare soccorso alla popolazione civile. L’inadempienza può essere causata dalla mancanza di mezzi economici e strutturali del singolo paese, ma può essere anche la conseguenza di precisi scopi politici legati, per esempio, a strategie di guerra e di sterminio. In linea teorica, un intervento umanitario è neutrale, non schierato politicamente. Due sono le modalità in cui si configura: può essere un’azione di soccorso immediato che fornisca tempestivamente alimenti, vestiti, medicinali e acqua, oppure può avere obiettivi di più lunga durata, quali la gestione di profughi e di sfollati e la costruzione di infrastrutture o edifici di pubblica utilità (ospedali, acquedotti, ecc.). Sono interventi umanitari innanzitutto quelli condotti dalle Nazioni Unite [►12_1] – in maniera pacifica o mediante strumenti coercitivi – per portare aiuto alle popolazioni civili o per imporre ai governi locali una determinata politica di assistenza umanitaria e di rispetto dei diritti riconosciuti dalla comunità internazionale. Tre sono i livelli di intervento dell Onu: il primo riguarda l’accertamento che gli Stati stiano soddisfacendo o meno le necessità della popolazione civile; il secondo concerne l’aspetto normativo e impone nuovi obblighi agli Stati, come l’avvio di inchieste interne oppure l’apertura delle frontiere da parte dei paesi confinanti; infine, c’è la fase operativa con la messa in atto di misure concrete quali l’istituzione e il controllo di corridoi umanitari, la distribuzione dei soccorsi, il monitoraggio costante del rispetto dei diritti, la protezione militare dei civili. Nell’ambito degli interventi umanitari rien-

trano anche le azioni unilaterali o coordinate dei singoli Stati, effettuate con mezzi militari o solo con la minaccia del ricorso alle armi, autorizzato o meno dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nello stesso ambito si annoverano anche gli interventi effettuati da organizzazioni non governative (Ong) che portano assistenza sanitaria, alimentare e sociale, in autonomia o in accordo con gli Stati e gli organismi internazionali. Secondo i princìpi del diritto internazionale, la possibilità di intervenire per motivi umanitari è strettamente legata al consenso dell’autorità statale che governa il paese in questione, nel rispetto della regola fondamentale della non ingerenza negli affari interni dei singoli Stati. In una fase postbellica o in occasione di catastrofi naturali quali terremoti o carestie, l’accordo con i governi locali risulta di più facile attuazione, ma nelle regioni in cui è in corso un conflitto o vi è una situazione di anarchia diventa molto più difficile intervenire. Senza il beneplacito delle autorità locali o in assenza di un interlocutore politico, le Nazioni Unite e i singoli Stati possono rinunciare all’intervento oppure devono ricorrere a mezzi coercitivi per imporre il rispetto dei diritti nei confronti delle popolazioni civili. Il ricorso a una soluzione coercitiva, tuttavia, è previsto dal diritto internazionale soltanto

in presenza di una minaccia per la pace e la sicurezza. Infatti, in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza dell’Onu non può autorizzare interventi collettivi soltanto con scopi umanitari e di difesa dei diritti fondamentali dell’individuo. Questi interventi restano subordinati al mantenimento della pace, a meno che non si accerti che la stessa emergenza umanitaria rappresenti una minaccia alla sicurezza internazionale. Durante la guerra fredda tale principio ha bloccato gran parte degli interventi umanitari organizzati a livello internazionale: il veto incrociato delle maggiori potenze riguardo ad azioni coercitive e collettive ha reso impossibile il sostegno delle Nazioni Unite ai civili coinvolti nelle crisi degli anni ’70 e ’80. In quegli anni, dunque, si è piuttosto assistito ad azioni unilaterali o collettive frutto dell’iniziativa dei singoli Stati. Allo stesso tempo, però, di fronte all’impotenza della comunità internazionale, durante gli anni ’70 alcune organizzazioni non governative cominciarono ad agire in maniera Una scuola in un campo profughi per rifugiati del Darfur 2007, Djabal (Ciad) [Riccardo Venturi/Contrasto] In Darfur, durante i massacri e le violenze perpetrate dai guerriglieri sostenuti dalle forze armate sudanesi, il campo profughi di Djabal con il supporto dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhrc) ha ospitato migliaia di persone in fuga offrendo ai rifugiati istruzione oltre a cibo, acqua e servizi sanitari di base.

903

C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

indipendente dagli organismi istituzionali e senza tener conto del consenso dei paesi nei quali intendevano operare. La Ong Medici senza frontiere, per esempio, è nata nel 1971 per iniziativa di Bernard Kouchner, un medico francese arruolato nella Croce Rossa, con l’obiettivo di portare soccorso ai civili della regione del Biafra, nonostante il rifiuto opposto dal governo nigeriano. Il crollo del Muro di Berlino ha determinato un cambiamento nelle dinamiche inerenti all’intervento umanitario, innanzitutto per la cessazione della pratica sistematica del veto incrociato di Stati Uniti e Unione Sovietica e in conseguenza del legame sempre più stretto che si e creato tra emergenza umanitaria e minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Le risoluzioni dell’Onu

hanno autorizzato, nel corso degli anni ’90, interventi umanitari a favore della popolazione curda in Iraq, dei popoli della ex Jugoslavia coinvolti nella guerra civile delle popolazioni vittime delle guerre in Somalia, in Liberia e in Ruanda. In questi anni, in realtà, e stata sempre più evidente la tendenza a utilizzare i motivi umanitari per scopi politici. Emblematica in tal senso è la vicenda dell’azione in Kosovo contro le truppe serbe [►17_5], in cui le motivazioni legate all’esigenza di proteggere la popolazione albanese si legavano strettamente alla volontà di far cadere il regime autoritario del presidente Miloševic´. Distorsioni sul significato degli interventi umanitari si sono verificate a partire dalla guerra al terrorismo iniziata dopo gli atten-

tati dell’11 settembre 2001: le operazioni militari in Afghanistan e in Iraq sono state giustificate con la necessità di proteggere la popolazione mondiale dagli attacchi terroristici, ma non è mancato il ricorso alle motivazioni umanitarie, in difesa della libertà e dei diritti dei civili locali (per esempio, liberare le donne dall’obbligo del velo o consentire alle bambine di frequentare le scuole). L’intervento umanitario è quindi diventato parte di quella “responsabilità di proteggere” i cittadini da parte degli Stati e dell’Onu, riconosciuta durante il vertice mondiale del settembre 2005 a New York, che ha autorizzato l’utilizzo di strumenti rapidi e decisi, anche non pacifici, come nel caso dell’impiego di forze di pace nel Darfur, in Sudan, nel 2006 [►22_7].

LABORATORIO DI SCRITTURA DI CITTADINANZA

1 Leggi la scheda e sintetizzala in un testo (max 10 righe di documento Word), adoperando la scaletta che ti

proponiamo. Ricordati di attribuire un titolo al testo.

● Definizione e caratteristiche dell’intervento umanitario ● L’Onu e i tre livelli di intervento umanitario ● L’intervento umanitario nel diritto internazionale

● Tra veti incrociati: gli interventi dell’Onu durante la guerra fredda ● Gli interventi dell’Onu nel post guerra fredda ● Gli interventi umanitari nell’epoca della guerra al terrorismo

L’UNHCR

2 L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) è un’agenzia istituita dall’Assemblea generale

dell’Onu il 14 dicembre 1950 con l’obiettivo di salvare vite umane, proteggere i diritti di milioni di rifugiati, sfollati, apolidi, aiutandoli a costruire un futuro migliore. Opera in 127 paesi del mondo e si occupa di circa 60 milioni di persone. All’agenzia sono stati assegnati due premi Nobel per la Pace, il primo nel 1954, il secondo nel 1981.

L’Unhcr è presente anche in Italia, con sede a Roma, e dispone di una pagina ufficiale di Facebook (https://www.facebook.com/ UNHCRItalia) da cui è possibile seguire le sue attività, sostenerla con aiuti, postare sulla pagina. Con i compagni di classe, sotto la guida dell’insegnante, consulta la pagina Fb, leggi i comunicati e guarda i video relativi alle azioni umanitarie in cui l’agenzia è impegnata, posta nel “commento” tue/vostre riflessioni. MEDICI SENZA FRONTIERE (MSF)

3 Conosci Medici senza frontiere, l’Ong nata a Parigi nel 1971 con lo scopo di portare soccorso sanitario e assistenza

medica nelle zone del mondo in cui il diritto alla cura non è garantito?

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Al cuore dell’azione di Msf c’è l’impegno a essere «indipendenti, neutrali e imparziali», princìpi questi che sono valsi al movimento il premio Nobel per la Pace nel 1999 «per il lavoro umanitario pionieristico realizzato in vari continenti». Se vuoi saperne di più sulle azioni medico-umanitarie di Msf e su cosa nel concreto puoi fare tu per sostenere il movimento, vai sul suo sito ufficiale (www. medicisenzafrontiere.it), clicca su “Cosa facciamo”, “Lavora con noi”, “Sostienici”, leggi le pagine web dedicate e realizza un dépliant informativo volto alla pubblicizzazione dell’attività umanitaria di Msf presso la popolazione scolastica del tuo Istituto.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

SINTESI strati della popolazione, ma anche accentuazione delle diseguaglianze e ricorrenti violazioni dei diritti politici da parte del governo cinese.

22_1 LE ECONOMIE EMERGENTI I processi di globalizzazione hanno ridisegnato la geografia della ricchezza, modificando i rapporti tra aree prospere e industrializzate e aree povere e arretrate. Non solo i paesi produttori di petrolio hanno visto aumentare la loro ricchezza (anche se non sempre questo ha comportato un autonomo processo di industrializzazione), ma anche altre nazioni dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa hanno messo in moto un meccanismo di sviluppo, inserendosi nei mercati internazionali. In particolare alcuni grandi Stati come Cina, India, Brasile, Sudafrica hanno raggiunto negli ultimi decenni tassi di crescita molto elevati e una rapida industrializzazione. A una generale espansione dei consumi fa riscontro però la persistenza di grandi sacche di arretratezza e profonde disuguaglianze.

22_2 LA CINA POTENZA MONDIALE Il caso più rilevante di decollo economico fu quello cinese, con un tasso di crescita del Pil, negli ultimi decenni, superiore al 10% annuo. Nel 2011 la Cina diventò la seconda potenza mondiale dopo gli Usa. Alla crescente integrazione con i mercati internazionali (coronata dall’ingresso nel Wto nel 2001), in un quadro politico che continuava a unire autoritarismo e apertura all’iniziativa privata, si accompagnarono grandi mutamenti sociali: crescita della urbanizzazione e del benessere per alcuni

22_3 IL GIAPPONE E LE “TIGRI ASIATICHE” Sia il Giappone sia le “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong) dovettero affrontare la grave crisi finanziaria del 1997-98, originata da un eccesso di produzione e da un’incontrollata euforia speculativa. L’intervento delle autorità monetarie internazionali tamponò gli effetti immediati della crisi. La ripresa fu lenta, soprattutto per il Giappone, che entrò in una fase di lunga stagnazione, aggravata dalle difficoltà politiche. Le “tigri asiatiche”, invece, uscirono in pochi anni dalla recessione e rilanciarono la loro economia grazie al loro peculiare modello di governo, basato su un’integrazione tra iniziativa privata e intervento dello Stato a sostegno delle imprese. Questi paesi conquistarono posizioni di rilievo nel settore delle tecnologie informatiche (Corea del Sud e Taiwan) e come centri finanziari mondiali (Hong Kong e Singapore). A partire dagli anni ’90, l’esempio di questi paesi fu seguito dalle altre economie dell’area (Malesia, Indonesia, Thailandia, Filippine) e, in una fase successiva, dal Vietnam e dalla Cambogia.

22_4 LO SVILUPPO DELL’INDIA All’inizio del nuovo millennio, anche l’India divenne

protagonista della scena economica mondiale, con un ritmo di crescita, a partire dagli anni ’80, inferiore a quello cinese ma comunque elevato. Nel 2012 l’India figurava al decimo posto nel mondo per Pil. Grazie all’azione sistematica dei governi, succedutisi a partire dalla fine degli anni ’80, finalizzata a rafforzare l’iniziativa privata, numerose imprese – nei settori tradizionali e in quelli più avanzati legati alle tecnologie informatiche e alla farmaceutica – poterono svilupparsi e conquistare posizioni nel mercato internazionale. Permanevano comunque vaste sacche di arretratezza, forti tensioni politiche prodotte soprattutto dagli attriti tra i diversi gruppi etnico-religiosi e gravi discriminazioni di casta e genere.

22_5 L’AMERICA LATINA: DALLE CRISI ALLO SVILUPPO In America Latina, negli anni ’80, si assisté alla caduta delle dittature militari e al conseguente ritorno a una sia pur precaria vita democratica. Questo processo di democratizzazione, però, incontrò numerosi ostacoli di natura economica, politica e sociale. Quasi tutti i paesi furono travagliati dall’inflazione e da un pesantissimo carico di debiti con l’estero. Gli inizi degli anni ’90 segnarono l’avvio di una ripresa e la tendenza alla creazione di aree economicamente integrate (Nafta, Mercosur). Per i maggiori paesi del Sud America una nuova crisi si profilò a partire dal 1998: il Brasile riuscì a superare il momento difficile, mentre l’Argentina precipitò in una gravissima crisi finanziaria. Negli anni successivi, in alcuni paesi latino-americani

(Venezuela, Bolivia, Ecuador) si affermarono regimi populisti di sinistra. All’inizio del nuovo secolo, quasi tutti i paesi dell’America Latina, superate le difficoltà degli anni a cavallo fra i due secoli, conobbero una fase di intensa crescita economica. A favorire questa positiva tendenza fu un compromesso tra l’apertura ai flussi commerciali globali e l’integrazione continentale.

22_6 IL NUOVO SUDAFRICA Tra i paesi che hanno intrapreso, negli ultimi decenni, la strada dello sviluppo, c’è anche il Sudafrica, che si liberò, nei primi anni ’90, del regime di discriminazione razziale (apartheid) e portò poi con le prime elezioni a suffragio universale, nel maggio ’94, alla presidenza del paese il leader del movimento antisegregazionista (Anc), Nelson Mandela. Il nuovo Sudafrica – nel quale fu istituita una Commissione nazionale “per la verità e la riconciliazione” per far luce sulle violenze degli anni dell’apartheid – riuscì a superare i difficili problemi di convivenza e a mantenere la sua unità e le sue istituzioni rappresentative. Il ritiro, nel 1999, di Mandela aprì una fase politica molto complessa, in cui l’Anc dovette fronteggiare una crescente conflittualità interna. Sul piano economico, fu comunque garantita continuità allo sviluppo avviato negli anni ’90. Sfruttando la ricchezza di risorse naturali del paese e la rapida integrazione nei mercati internazionali, il Sudafrica riuscì nel XXI secolo a inserirsi nel gruppo di testa dei grandi paesi in via di sviluppo, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e, appunto, Sudafrica).

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C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

22_7 LA GEOGRAFIA DELLA POVERTÀ: L’AFRICA SUBSAHARIANA Nonostante i grandi mutamenti verificatisi in alcune aree del Terzo Mondo alla fine del ’900, il divario fra paesi ricchi e paesi poveri complessivamente si approfondì. La situazione

più critica riguardava alcune aree dell’Asia meridionale e soprattutto l’Africa subsahariana, dove in media il Pil annuo era largamente inferiore a quello dei paesi più sviluppati, gli indici di analfabetismo e i tassi di mortalità infantile restavano molto elevati, mentre fame, nuove epidemie e debito estero diventavano problemi sempre più pressanti. Anche se, a partire dagli anni ’80, i paesi africani si erano aperti al mercato mondiale delle merci

e dei capitali, le élite politiche nazionali non furono capaci di sfruttare questa opportunità per avviare efficaci politiche di sviluppo. Negli anni ’90 l’Africa nera vide i suoi mali aggravati da una lunga serie di colpi di Stato e di guerre civili che, in alcuni paesi, giunsero a distruggere ogni autorità centrale. Il Ruanda fu dilaniato da una crudelissima guerra, fra le etnie degli hutu e dei tutsi, che ebbe tragiche conseguenze anche in Congo. La Somalia, in particolare,

divenne teatro di una spietata guerra fra clan e bande rivali, che non venne arrestata nemmeno da una missione di pace dell’Onu. Nel Sudan le violenze della guerra civile si concentrarono nella regione del Darfur, provocando nel 2003 una tragica emergenza umanitaria. In Nigeria, a partire dai primi anni del 2000, il movimento fondamentalista islamico “Boko Haram” fu responsabile di numerosi e violenti attentati contro la comunità cristiana.

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ 1 Seleziona, fra quelle indicate di seguito, le caratteristiche della Cina a cavallo fra il ’900 e il 2000.

a. All’inizio degli anni ’90, la sua economia entrò in una fase di declino, aggravatasi in seguito alla crisi del 1997-98. b. Tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, i tassi di crescita del Pil sono stati superiori al 10% annuo. c. Il dissenso viene represso, i diritti umani sono negati e spesso si fa ricorso alla pena di morte. d. Nel nuovo secolo è diventata un centro finanziario di importanza mondiale. e. Nel 2011 è diventata la seconda potenza mondiale. f. Vi si è registrato il più rilevante caso di decollo industriale e di successo economico degli ultimi decenni del XX secolo. g. Il boom economico ha avuto inizio grazie allo spazio lasciato all’iniziativa privata, seppur sotto il controllo statale. h. Le lavorazioni a basso costo hanno attirato grandi capitali dall’estero, grazie ai salari molto contenuti e alle poche regole sul lavoro previste per le imprese. i Dal 2001 fa parte della World Trade Organization (Wto). l. Lo sviluppo è legato all’abbondante presenza di forza lavoro qualificata, alle basse retribuzioni e alla generale buona conoscenza dell’inglese. m. Il processo di industrializzazione ha portato l’aumento delle diseguaglianze interne. 2 Associa i nomi degli Stati agli eventi che vi si sono verificati dalla fine degli anni ’80.

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a. Giappone b. Tigri asiatiche c. India

1. Sviluppo in ambito industriale, soprattutto nel settore delle tecnologie informatiche 2. Crisi delle banche 3. Privatizzazione di molte aziende pubbliche 4. Rapido processo di sviluppo e aggressività sui mercati 5. Liberalizzazione degli scambi 6. Contrazione degli investimenti 7. Diffusa conoscenza della lingua inglese 8. Integrazione tra iniziativa privata e intervento dello Stato a sostegno delle imprese 9. Presenza di forza-lavoro qualificata 10. Crisi finanziaria del 1997-98 per eccesso di produzione e speculazioni 11. Sviluppo della finanza a livello mondiale 12. Basse retribuzioni 13. Instabilità politica interna

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

3 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

a. Il Mercosur nacque nel 1991 dal processo di integrazione tra i paesi dell’America centro-meridionale. ................................................................................................................................................................................. b. Brasile e Argentina vissero a partire dal 1998 una fase di crescita determinata dalla scelta di ridurre le misure di austerità e dal sistema finanziario internazionale. ................................................................................................................................................................................. c. In molti paesi del Sud America gli anni ’90 furono caratterizzati da politiche stataliste. ................................................................................................................................................................................. d. Negli anni ’90 in molti paesi del Sud America le disuguaglianze sociali aumentarono e nacquero forti movimenti di protesta. ................................................................................................................................................................................. e. In Argentina la crisi economica portò ad una stabilizzazione democratica. ................................................................................................................................................................................. f. Chávez consolidò il suo potere grazie a una forte amicizia con gli Stati Uniti e un deterioramento dei rapporti con Cuba. ................................................................................................................................................................................. g. All’inizio del nuovo millennio quasi tutti i paesi dell’America Latina conobbero una fase di intensa crescita economica. .................................................................................................................................................................................

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4 Completa il seguente testo inserendo le affermazioni corrette presenti nell’elenco sottostante.

Epidemie ● Mandela ● Africa subsahariana ● globalizzazione ● guerre ● povertà e arretratezza ● decrescita ● processo di crescita ● Asia meridionale ● conflittualità sociale ● malattie ● disuguaglianze ● altissimi ● crescita ● fame ● Sudafrica ● indebitamento ● bassissimi In molti paesi del “terzo mondo”, con la .................................... iniziò un percorso di .................................... mentre altri restarono in condizioni di grande ..................................... In ...................................., per esempio, finì il regime di apartheid e quando si svolsero le prime elezioni a suffragio universale, .................................... divenne il primo presidente nero. Con i suoi successori proseguì il .................................... avviato negli anni ’90 anche se la società sudafricana continuò ad essere caratterizzata da una forte .................................... e da profonde ...................................., soprattutto tra la popolazione bianca e quella nera. La situazione più critica, invece, riguardava alcune aree dell’...................................., dell’America Latina, e soprattutto l’...................................., dove i tassi di analfabetismo e la mortalità infantile rimanevano ..................................... Cause dell’elevato tasso di mortalità sono la ...................................., le ...................................., le .................................... intestine, e la diffusione di nuove e vecchie ...................................., come l’Aids e l’ebola. Anche l’.................................... rappresentava un peso insopportabile per i paesi più poveri.

COMPETENZE IN AZIONE 5 Usa le seguenti domande come scaletta per scrivere un testo di 15 righe al quale dovrai dare un titolo appropriato:

a. A cosa fu legata la crescita dell’economia di alcuni paesi dell’Asia, dell’America Latina e parzialmente anche dell’Africa a partire dagli anni ’80? b. In particolare, qual è la situazione della Cina, dal punto di vista economico, tra gli anni ’90 e i primi anni 2000? c. Rispetto al quadro economico, quale risultato raggiunse la Cina nel 2011? d. Come fu impostata, dopo la morte di Deng Xiaoping, la politica economica cinese? e. Che significato ebbe, per la Cina, l’ingresso nella World Trade Organization? f. Quali profondi cambiamenti sociali si realizzarono in Cina in conseguenza al grande sviluppo economico? g. Quale fu l’atteggiamento della comunità internazionale riguardo la questione del mancato rispetto, da parte della Cina, dei diritti umani? 6 Sul tuo quaderno di storia scrivi un testo di massimo 20 righe in cui metterai a confronto la realtà del Sudafrica e

quella delle regioni dell’Africa subsahariana sottolineando gli aspetti politici, economici e sociali. A tal fine utilizza le carte geostoriche presenti all’interno del capitolo che ritieni significative per la costruzione del tuo discorso. Numerale e citale all’interno del testo indicando il numero di riferimento fra parentesi.

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C22 SVILUPPO E DISUGUAGLIANZA

COMPITI DI REALTÀ

7 Realizzare un capitolo di un libro per bambini a tema storico.

Tema storico da affrontare: Nelson Mandela e la lotta contro l’apartheid.

Contesto di lavoro

Lavori per una casa editrice specializzata in libri per bambini e curi una collana sulla storia del mondo. I tuoi superiori hanno deciso di realizzare un libro che metta in rilievo la figura di Nelson Mandela e la sua lotta contro l’apartheid. Nel libro, pensato per bambini di 10-11 anni, grande spazio avranno le immagini, grafici e stralci di testimonianze, commentate con opportune didascalie esplicative.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare un capitolo che affronti la vita di Nelson Mandela e la sua lotta contro l’apartheid, mettendo in rilievo il valore universale della sua lotta, ma anche le specificità del contesto storico e geografico in cui questi si trovò a vivere e ad operare. Per realizzare questo compito ogni gruppo dovrà: ● individuare i concetti su cui focalizzare l’attenzione dei bambini e che diventeranno i paragrafi del capitolo. ● indicare i titoli dei paragrafi e realizzare una scaletta con i concetti da affrontare in essi (due o tre per paragrafo). ● selezionare sul manuale – nel capitolo e nei Fare Storia – le immagini (fonti e carte geostoriche) più adatte ai singoli paragrafi. ● ricercare online le immagini mancanti. ● realizzare per ogni immagine una didascalia esplicativa che descriva l’immagine e il suo significato e che contenga anche le informazioni che è possibile ricavare in relazione al tema in esame. ● scrivere il testo facendo attenzione a renderlo adatto a bambini di 10-11 anni seguendo alcune regole: 1. preferite frasi brevi e costruzioni paratattiche; 2. se utilizzate parole tecniche, proprie del linguaggio storico, fate in modo che la frase ne riveli il senso, oppure realizzate un box da inserire al lato del testo con la spiegazione del significato (in questo caso realizzerete la voce di un glossario); 3. fate riferimento alle immagini; 4. utilizzate domande che facciano, per esempio, riferimento alla vita dei bambini e al possibile collegamento con il tema affrontato.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato davanti al direttore della casa editrice e deve prevedere: una relazione introduttiva del metodo utilizzato e dei contenuti affrontati da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più la descrizione del percorso attraverso slide.

Tempo a disposizione

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1 ora per individuare sul manuale i concetti da affrontare e le immagini da utilizzare e realizzare le scalette di ogni paragrafo; 1 ora per cercare in Rete le immagini e le relative informazioni e confrontare i risultati ottenuti su diverse pagine web; 2 ore per la scrittura dei testi; 3 ore per la realizzazione del prodotto (puoi usare uno dei programmi in open source disponbili su Internet per la creazione di e-book o magazine online); 1 ora per impostare e provare la relazione.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

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CAP23 IL MONDO ISLAMICO E LO SCONTRO CON L’OCCIDENTE

23_1 L’ATTACCO ALL’OCCIDENTE

► Leggi anche:

La mattina dell’11 settembre 2001 due aerei di linea americani si schiantarono contro le Twin Towers (“Torri Gemelle”), gli edifici più alti di New York, sede di uffici e banche, a quell’ora affollatissimi, provocandone l’incendio e il crollo. Un altro aereo, anch’esso carico di passeggeri, si abbatté a Washington sul Pentagono, il ministero della Difesa americano. I tre apparecchi erano stati sequestrati da commandos suicidi e guidati sul bersaglio dagli stessi dirottatori, debitamente addestrati. Un quarto aereo, forse diretto verso la Casa Bianca, precipitò in Pennsylvania dopo una colluttazione fra i dirottatori e alcuni passeggeri. I kamikaze [►11_12] erano tutti provenienti da paesi arabi: di alcuni di loro si accertò l’appartenenza a un’organizzazione terroristica internazionale detta Al Qaeda (“la base”) [►FS, 199]. Quest’ultima, che aveva la sua principale base operativa nell’Afghanistan dei talebani, si ispirava all’integralismo islamico. A guidarla era un miliardario saudita, Osama bin Laden, da tempo assertore di una guerra santa da condurre in ogni luogo e con ogni mezzo contro i nemici dell’islam, e in particolare contro gli Stati Uniti, oggetto, già in

L’attentato alle Twin Towers

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Storia, società, cittadinanza La libertà di culto Audiosintesi

► Eventi L’11 settembre, gli Usa sotto attacco, p. 910 ► Fare Storia La sfida del terrorismo e i conflitti interni al mondo islamico, p. 998

L’attentato al World Trade Center di New York 11 settembre 2001 [foto di TheMachineStops] Alle 9.05 di martedì 11 settembre 2001 il Boeing dell’United Airlines 175 in volo da Boston a Los Angeles si schiantò contro la Torre Sud del World Trade Center. Venti minuti prima un altro Boeing dirottato si era abbattuto sulla Torre Nord, che si vede già avvolta dal fumo nella foto.

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C23 IL MONDO ISLAMICO E LO SCONTRO CON L’OCCIDENTE

passato, di attacchi terroristici di analoga matrice [►FS, 198d]: nel ’93 le stesse Twin Towers erano state colpite con auto imbottite di esplosivo a opera di gruppi dell’estremismo integralista ed era stata la stessa Al Qaeda a rivendicare altri due sanguinosi attentati nel ’98 contro le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. Quanto alla tecnica dei commandos suicidi, essa era stata ampiamente sperimentata, anche se in forme assai meno sofisticate, dagli estremisti palestinesi contro Israele. L’attentato dell’11 settembre – ripreso in diretta e trasmesso dalle televisioni e dai siti d’informazione di tutto il mondo – provocò migliaia di vittime civili (circa 3 mila, secondo stime attendibili) e destò ovunque enorme impressione. Gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, avevano subìto per la prima volta un attacco sul loro stesso territorio. E l’intero Occidente, oggetto delle minacce di bin Laden, scopriva la propria vulnerabilità di fronte all’offensiva di un nemico che risultava tanto più inafferrabile in quanto non si identificava con un singolo Stato, ma agiva all’interno di società aperte e multietniche [►FS, 205]. Un senso di paura e di incertezza si diffuse in tutto il mondo, colpendo non solo i settori più direttamente interessati dalla catastrofe (le compagnie

Il trauma

EVENTI

L’11 settembre, gli Usa sotto attacco

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a data dell’11 settembre 2001 viene convenzionalmente ricordata senza citare l’anno: è entrata nella storia semplicemente come l’11 settembre. Quel martedì, in meno di un’ora e mezza, quattro aerei di linea statunitensi furono dirottati da nuclei terroristici che li usarono come bombe contro obiettivi civili e militari a New York e Washington. Alle 8.45 un Boeing 767 dell’American Airlines in volo da Boston a Los Angeles, con a bordo 92 persone fra passeggeri, piloti e assistenti di volo, si schiantò contro la Torre Nord del World Trade Center, nella zona Sud di Manhattan, a New York. Venti minuti più tardi, mentre pompieri, ambulanze e polizia si dirigevano verso il centro finanziario più importante del mondo, fu colpita anche la Torre Sud, da un Boeing 767 della United Airlines in viaggio da Boston a Los Angeles, con a bordo 65 persone. Alle 9.45 un terzo aereo, nei pressi di Washington, si schiantò distruggendo un’ala del Pentagono, sede del ministero della Difesa degli Usa, centro nevralgico del loro potere militare. A bordo c’erano 64 persone. Un quarto d’ora più tardi, un quarto velivolo, diretto a San Francisco e con a bordo 45 persone, precipitò in un campo di granturco, nei pressi di Pittsburgh, in Pennsylvania. Probabilmente i dirottatori volevano colpire il Campidoglio, a Washington, sede del Congresso, ma fallirono in seguito alla reazione dei passeggeri e dell’equipaggio. Alle 10.00 a New York crollò la Torre Sud per danni strutturali, seguita, mezz’ora più tardi, dalla Torre Nord. Il World Trade Center, con le Torri Gemelle, i moderni grattacieli di centodieci piani dove lavoravano 55 mila persone, non esi-

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

steva più. Il complesso era stato inaugurato nel 1970, e già nel 1993 era stato nel mirino di un attentato terroristico, quando l’esplosione di una bomba aveva provocato la morte di sei persone e il ferimento di oltre mille. Dopo il crollo, al posto di uno dei simboli di New York, di uno degli elementi distintivi del suo skyline, rimasero due mozziconi, i piani inferiori ancora in piedi ma diventati un ammasso di pezzi di cemento armato, tubi aggrovigliati e acciaio. Il crollo sprigionò una gigantesca nuvola di fumo, dall’odore acre e dal colore quasi nero. I superstiti, che uscivano scappando dalle Torri, avevano addosso una fitta coltre di polvere. Inizialmente si parlò di circa 20 mila morti, ma il bilancio effettivo fu molto inferiore. Furono più di 2 mila le persone che morirono nell’attentato alle Torri Gemelle, alcune nell’impatto con gli aerei, altre perché rimasero imprigionate negli edifici in cui, prima del crollo, divampò il fuoco. Altre ancora, i cosiddetti jumpers (“saltatori”), morirono lanciandosi nel vuoto per sfuggire alle fiamme. Le vittime complessive dell’11 settembre furono 2977; tranne i 55 militari in servizio al Pentagono, erano tutte civili. Più di 400 persone morirono fra i soccorritori, soprattutto vigili del fuoco, accorsi sui luoghi degli attentati. Manhattan rimase isolata per lunghe ore, mentre a Washington venivano sgomberati tutti gli uffici di governo ed evacuata la Casa Bianca. Gli Usa presero le misure di sicurezza più radicali: il presidente George W. Bush, in visita in Florida, fu costretto a restare per ore in volo sull’Air Force One (l’aereo del presidente) seguendo una rotta segreta, prima di po-

ter atterrare nuovamente a Washington. Per tre giorni nessun aereo civile internazionale poté atterrare sul suolo statunitense, mentre la Borsa di New York rimase chiusa per una settimana. Le immagini delle Torri Gemelle colpite, trasmesse a ciclo continuo, fecero rapidamente il giro del mondo. Gli attentati furono condannati quasi unanimemente da una comunità internazionale sbigottita. Gli Stati Uniti, la potenza mondiale uscita vittoriosa dal confronto con l’Urss durante la guerra fredda, venivano colpiti nel cuore economico e militare con un attentato realizzato con strumenti tecnici tutt’altro che avanzati, che aveva messo in scacco il loro sistema di sicurezza. L’unico paragone possibile era quello con l’attacco giapponese del 1941 contro la base militare di Pearl Harbor, ma l’11 settembre gli Usa venivano colpiti per la prima volta sul loro territorio continentale. I diciannove dirottatori responsabili dell’attacco, affiliati alla rete terroristica Al Qaeda di Osama bin Laden, provenivano da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Libano, ed erano guidati dall’egiziano Mohamed Atta. L’ispiratore dell’attentato, il saudita Osama bin Laden, figlio di un ricco imprenditore edile che aveva stretti rapporti con la famiglia reale saudita, aveva assunto un ruolo importante sulla scena islamista agli inizi degli anni ’80, quando, trasferitosi in Afghanistan, cominciò a raccogliere uomini e risorse contro i sovietici che avevano invaso il paese, sostenendo la guerriglia islamica. Nel 1988 fondò Al Qaeda (“la base”), una rete dotata di basi fisse e mobili, armi, campi di addestramento e risorse finanziarie chiamata a unire le diverse cellule jihadiste (impegnate nella guerra santa) sparse in tutto il mondo, e reclutate spesso in Occidente, fra gli immigrati musulmani

aeree, che videro bruscamente calare il numero dei viaggiatori, e le società di assicurazione, costrette a far fronte a un’enorme massa di risarcimenti), ma l’intera economia occidentale, di cui le Twin Towers apparivano come il simbolo e il cuore pulsante. La prospettiva dello scontro di civiltà sembrava farsi improvvisamente più concreta [►FS, 197d]: anche perché l’opinione pubblica americana, ferita e spaventata, esigeva risposte all’altezza della sfida lanciata [►FS, 200d].



METODO DI STUDIO

 a   Cerchia il nome dell’organizzazione terroristica che ha dato vita all’attentato delle Twin Towers e del suo leader ed esponi oralmente le modalità dell’episodio.  b   Spiega per iscritto quali effetti ha avuto l’attentato dell’11 settembre 2001 sull’Occidente indicando almeno tre parole chiave.

23_2 LA GUERRA CONTRO IL TERRORISMO

La reazione americana all’attacco

L’amministrazione statunitense guidata da George Bush junior [►17_7], in carica da pochi mesi dopo un’elezione incerta e contestata, riuscì, dopo un primo momento di smarrimento, a riprendere il controllo della situazione, contando

di seconda generazione. Nel bagaglio ideologico di bin Laden assumeva un ruolo fondamentale la rigida divisione del mondo fra il “partito di Dio”, gli autentici credenti nell’islam, e il “partito di Satana”, che aveva il volto dell’Occidente, accusato di aver corrotto il mondo musulmano. Nella sua idea, islam e Occidente, portatori di visioni globali e antitetiche, erano destinati a scontrarsi su scala globale. Nelle sue intenzioni attaccare gli Usa significava combattere il paese portatore e diffusore di un modello di vita che contrastava i princìpi del Corano, dimostrarne la vulnerabilità, nella speranza di suscitare l’entusiasmo delle masse musulmane per mobilitarle contro i regimi dei paesi islamici compromessi con l’Occidente. Gli Usa erano già stati bersaglio degli attentati di Al Qaeda nel 1998, in Kenya e in Tanzania (che avevano provocato più di 200 vittime), e di un altro attacco nel 2000, quando era stata colpita una nave da guerra americana nel porto di Aden nello Yemen. La preparazione dell’attentato dell’11 settembre, invece, cominciò nel 1999. L’attacco dell’11 settembre fu immediatamente definito dal presidente George W. Bush un “atto di guerra”, al quale gli Usa risposero dichiarando guerra al terrorismo. Obiettivo diventavano i singoli terroristi identificabili e quegli Stati che fossero in qualche modo coinvolti, per aver fornito appoggio diretto (armi, denaro, documenti, protezione) o per aver tollerato la presenza di cellule terroristiche sul loro territorio. Così, nell’ottobre 2001 iniziò l’invasione dell’Afghanistan, dove era rifugiato Osama bin Laden, protetto dal regime dei talebani. Solo a distanza di dieci anni dagli attentati, il 1° maggio 2011, Osama bin Laden venne ucciso nel suo rifugio in una tranquil-

la cittadina del Pakistan, nell’ambito di un’operazione segreta delle forze armate statunitensi. Ormai l’uomo più ricercato del mondo era una figura sempre più sbiadita e non incarnava più una reale forza politica nel mondo musulmano. Con l’attentato dell’11 set-

tembre aveva, tuttavia, non solo organizzato un inaudito crimine contro l’umanità, ma anche cambiato il quadro geopolitico del mondo contemporaneo, lanciando una sfida agli Usa e all’Occidente dagli esiti difficilmente prevedibili.

Superstiti dell’attentato alle Twin Towers, New York 11 settembre 2001 [foto di Don Halasy] Il crollo delle Torri Gemelle generò migliaia di tonnellate di detriti e di polvere tossica; quest’ultima ricoprì l’intera area di Manhattan. Centinaia di persone si ammalarono a causa delle sostanze contaminanti respirate quella mattina e molte morirono alcuni mesi dopo l’attentato.

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C23 IL MONDO ISLAMICO e LO SCONTRO CON L’occidente

anche sulla compattezza patriottica del paese e della sua classe politica. Il presidente si preoccupò innanzitutto di predisporre le condizioni politiche per un’azione militare adeguata [►FS, 201], così come Bush padre aveva fatto dieci anni prima con la guerra del Golfo. L’obiettivo primario era questa volta l’Afghanistan, che ospitava il capo dei terroristi ed era diventato il riferimento di tutti i gruppi integralisti: paradossalmente gli stessi che gli statunitensi avevano armato e finanziato negli anni ’80 per la lotta contro l’invasione sovietica. Dopo essersi assicurata l’appoggio degli alleati della Nato e delle potenze ex avversarie (Russia e Cina), la diplomazia americana cercò anche quello degli Stati musulmani filo-occidentali, compresi quei paesi come Arabia Saudita e Pakistan, che, pur essendo formalmente alleati degli Usa, erano sospettati di intrattenere rapporti ambigui con i gruppi integralisti. L’obiettivo era quello di isolare i regimi più estremisti. L’operazione sostanzialmente riuscì. Gli Stati arabi, eccettuato l’Iraq, manifestarono comprensione, se non solidarietà, alla superpotenza. Persino l’Iran mantenne un atteggiamento di prudente neutralità. Il presumibile obiettivo di Osama bin Laden – sollevare le masse arabe contro i regimi moderati in nome della fede islamica e dell’antiamericanismo – fu sostanzialmente mancato: anche se il messaggio apocalittico del capo terrorista (che si atteggiava a nuovo profeta e si esprimeva periodicamente attraverso videocassette registrate) non mancò di fare proseliti fra le masse più radicalizzate del mondo musulmano.

La coalizione

Ottenuto l’appoggio internazionale, il 7 ottobre 2001, quattro settimane dopo l’attentato alle Torri Gemelle, ebbero inizio le operazioni militari contro l’Afghanistan, che videro coinvolti, oltre ai nordamericani, anche reparti britannici e – con compiti prevalentemente logistici – quelli di altri paesi della Nato, fra cui l’Italia. L’impegno

L’intervento in Afghanistan

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Una manifestazione in sostegno di bin Laden a Rawalpindi, in Pakistan 2001 I video con gli appelli di bin Laden al popolo islamico hanno fatto il giro del mondo attraverso le emittenti televisive ma soprattutto attraverso Internet, trovando numerosissimi proseliti pronti a rispondere. Un suo video dell’ottobre del 2001, in risposta all’attacco americano dell’Afghanistan, suscitò manifestazioni antiamericane in gran parte del mondo islamico: assalti a simboli della civiltà occidentale e attacchi suicidi in Palestina, in Iraq, nel sultanato dell’Oman, in Egitto, nelle Filippine, in Pakistan, nel Kashmir, in Indonesia e anche in Arabia Saudita.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

degli Stati Uniti e dei loro alleati si limitò, salvo circoscritte azioni dei reparti speciali, ai bombardamenti aerei. Il grosso dell’offensiva di terra fu affidato ai combattenti (i mujaheddin) delle fazioni afghane che da anni si battevano contro il regime integralista dei talebani. Dopo una stasi iniziale, l’offensiva fu rapida e vittoriosa: Kabul fu occupata il 13 novembre e il 7 dicembre cadde Kandahar, ultima roccaforte del regime, mentre il mullah Omar, capo spirituale dei talebani, e Osama bin Laden riuscivano a far perdere le loro tracce. Frattanto gli esponenti delle diverse fazioni vittoriose (divise fra loro in base a linee etniche e tribali oltre che politiche) si accordavano per la formazione di un nuovo governo, presieduto da Hamid Karzai. La cacciata dei talebani rappresentò certamente un successo per l’alleanza a guida americana. Ma assai più difficile si rivelò il consolidamento del nuovo regime. Negli anni successivi, i fondamentalisti, giovandosi delle basi di cui continuavano a disporre nel vicino Pakistan e dei proventi del commercio dell’oppio, ripresero il controllo di vaste zone del paese, dando vita a un’ostinata guerriglia e scatenando una campagna terroristica che fece molte vittime fra la popolazione civile. Un’offensiva a cui la coalizione antiterrorismo, che aveva mantenuto nel paese una forte presenza militare, trovava difficoltà a dare risposta, anche a causa del contemporaneo e pesante impegno militare degli Stati Uniti in Iraq.

Una vittoria incompleta

Infatti, dopo aver rovesciato il regime dei talebani, gli Stati Uniti avevano rivolto la loro attenzione all’Iraq di Saddam Hussein, accusato di fiancheggiare il terrorismo internazionale e di nascondere armi di distruzione di massa (chimiche e batteriologiche). Nel 1998 Saddam aveva espulso gli ispettori dell’Onu incaricati di vigilare sugli armamenti iracheni e aveva respinto tutti i successivi inviti a riaprire il paese alle ispezioni. Dopo un infruttuoso negoziato tra Onu e Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna cominciarono a preparare l’operazione militare. A questo punto, però, la comunità internazionale si divise: Francia, Germania, Russia, Cina e Stati arabi si mostrarono contrari all’uso immediato della forza e propensi a una soluzione diplomatica. Ma gli Stati Uniti e la Gran Bretagna erano decisi a risolvere in modo definitivo la questione irachena. Il 18 marzo 2003 lanciarono un ultimatum a Saddam Hussein, intimandogli di lasciare il paese entro 48 ore.

L’ultimatum all’Iraq

LO SCONTRO TRA ISLAM E OCCIDENTE

L’11 settembre 2001

Fondamentalismo islamico contro l’Occidente

Torri Gemelle Attentati aerei in Usa Pentagono Con l’appoggio della Nato Bush dichiara guerra a...

Sotto il regime dei talebani e base di Al Qaeda

Afghanistan (2001)

Iraq (2003)

Cacciata dei talebani e fuga di bin Laden

Cattura, processo ed esecuzione di Saddam Hussein (2006)

Sospetta detenzione di armi di distruzione di massa

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C23 IL MONDO ISLAMICO e LO SCONTRO CON L’occidente

Le truppe americane entrano a Baghdad, Iraq novembre 2003 [foto United States Air Force] Le truppe di terra americane impegnate nell’operazione chiamata “Iraq freedom” passano sotto l’arco delle “Mani della Vittoria” di Baghdad, costruito durante il regime di Saddam Hussein a memoria della guerra contro l’Iran. Baghdad venne pesantemente bombardata dalle forze aeree fra marzo e aprile 2003 e il 9 aprile le truppe anglo-americane la occuparono, mentre nei dintorni si moltiplicavano i saccheggi iniziati dopo la caduta del regime di Saddam.

Il 20 marzo i primi missili statunitensi colpirono Baghdad. Nei giorni seguenti le truppe anglo-americane cominciarono ad avanzare in Iraq dalla frontiera meridionale. Come nel 1991, la resistenza dell’esercito iracheno METODO DI STUDIO fu debole e male organizzata: il 9 aprile i marines americani conquistarono la  a   Sottolinea le informazioni principali relaticapitale e, pochi giorni dopo, anche le città principali del Nord del paese. Saddam ve alla reazione dell’amministrazione statunitense all’attentato dell’11 settembre. Hussein fuggì e il regime si sfaldò all’istante: bande senza controllo compirono  b   Cerchia i nomi degli Stati partecipanti alla saccheggi e razzie negli edifici pubblici, nei negozi e nei musei. Soltanto alcuni guerra in Afghanistan e in Iraq e sottolinea le date giorni dopo, con molta fatica, le forze di occupazione riuscirono a riportare un e gli eventi principali che caratterizzarono i conflitti. minimo di ordine nel paese.

L’intervento militare



23_3 LA MANCATA STABILIZZAZIONE

Nelle intenzioni della presidenza Usa e degli altri governi che inviarono contingenti militari in Iraq (fra gli altri Italia, Spagna e Polonia), l’abbattimento della dittatura doveva costituire la premessa per la rapida creazione di un regime democratico: condizione a sua volta per la diffusione della democrazia nel Medio Oriente e per la costruzione di un nuovo equilibrio più favorevole all’Occidente in un’area che restava cruciale per i rifornimenti petroliferi. Nella visione di alcuni collaboratori e consiglieri della presidenza Usa (i cosiddetti neo-con, ovvero neoconservatori), questo progetto si inquadrava in un’ambiziosa strategia che coniugava il disegno di esportazione della democrazia su scala planetaria – un disegno sino ad allora patrimonio della tradizione democratica, da Wilson a Roosevelt, più che di quella repubblicana – con un deciso rilancio della politica di potenza americana, anche a prescindere dal consenso della comunità internazionale e degli stessi alleati europei [►FS, 201].

I progetti americani

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Un difficile dopoguerra

In realtà il processo di stabilizzazione trovò ostacoli insormontabili non solo in Afghanistan, come abbiamo già visto, ma anche nell’Iraq liberato dalla dittatura di Saddam Hussein e posto all’inizio sotto il diretto controllo degli occupanti.

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► Leggi anche: ► Parole della storia Multiculturalismo p. 874

Nonostante l’arresto di molti fra i principali esponenti del vecchio regime e dello stesso Saddam Hussein, catturato nel dicembre 2003 e impiccato tre anni dopo, al termine di un discusso processo, i sostenitori del dittatore deposto e i gruppi integralisti arabi ispirati da Al Qaeda diedero inizio a un lungo stillicidio di sanguinosi attentati, per lo più suicidi, contro le truppe di occupazione e contro gli iracheni che collaboravano alla stabilizzazione. In uno di questi attentati, il 12 novembre 2003, morirono diciannove italiani (diciassette militari e due civili) nella città di Nassiriya. Nel corso del 2005, sembrò che la democrazia in Iraq potesse consolidarsi: in gennaio si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente, che fecero registrare un’ampia partecipazione popolare e videro l’affermazione della componente sciita (numericamente maggioritaria, ma fortemente discriminata sotto il regime di Saddam). In agosto fu varata una Costituzione federale successivamente approvata con referendum popolare. Nemmeno questi progressi servirono però a stabilizzare la situazione in Iraq, dilaniato da una guerra civile strisciante che mieteva ogni giorno decine di vittime fra la popolazione e metteva a rischio la stessa unità del paese. Agli attentati di matrice fondamentalista si aggiungeva infatti la protesta, spesso violenta, dei gruppi sunniti, dominanti al tempo di Saddam e ora scontenti per la nuova distribuzione del potere e delle stesse risorse petrolifere [►FS, 206].

Elezioni e guerra civile in Iraq

Il radicalismo islamista, intanto, aveva cominciato a colpire anche in Europa. L’11 marzo 2004 un attentato nella più grande stazione ferroviaria di Madrid provocò quasi duecento morti. L’attacco fu rivendicato dagli integralisti islamici, che volevano punire la Spagna per il suo impegno in Iraq a fianco degli Usa. Il 7 luglio 2005 il terrorismo fondamentalista colpì la rete dei trasporti urbani di Londra, con una serie di attentati suicidi simultanei che provocarono oltre cinquanta morti. Alcuni degli attentatori erano figli di immigrati e cittadini britannici, apparentemente integrati in una società che aveva sempre praticato il multiculturalismo. Il governo del Regno Unito non rinunciò all’alleanza con gli Stati Uniti, ma l’opinione pubblica era sempre meno convinta dell’opportunità di continuare l’impegno in Iraq.

Gli attentati in Europa

Attentato terroristico a Madrid 11 marzo 2004 L’11 marzo 2004, fra le 7.36 e le 7.40 del mattino, una serie di attacchi terroristici a opera di gruppi fondamentalisti islamici fece esplodere quattro treni regionali in quattro diverse stazioni ferroviarie di Madrid, causando 191 morti e 2057 feriti.

915

C23 IL MONDO ISLAMICO e LO SCONTRO CON L’occidente

Negli Stati Uniti, invece, la maggioranza dei cittadini continuava a sostenere la guerra: alle elezioni presidenziali del novembre 2004, Bush jr fu rieletto, con un margine abbastanza netto sul candidato democratico. Il prolungarsi del conflitto, tuttavia, suscitava critiche crescenti: le armi di distruzione di massa non erano state trovate, i legami fra Saddam Hussein e Al Qaeda non erano stati dimostrati, mentre il terrorismo fondamentalista aveva trovato in Iraq un nuovo terreno di azione. Inoltre, suscitarono sdegno le dure condizioni di prigionia delle centinaia di presunti affiliati ad Al Qaeda detenuti nel carcere militare statunitense di Guantánamo, sull’isola di Cuba, e le immagini delle torture e delle sevizie a cui alcuni militari statunitensi sottoponevano i prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, vicino a Baghdad.

Un bilancio deludente

Era evidente che il terrorismo fondamentalista di matrice sunnita aveva trovato nell’Iraq un nuovo terreno di azione; e che, d’altra parte, l’affermazione della componente sciita apriva nuovi spazi per l’espansione di un altro fondamentalismo: quello sciita che faceva capo all’Iran, dove, nell’aMETODO DI STUDIO gosto 2005, in una consultazione condizionata dalle pesanti ingerenze delle  a   Sottolinea con colori diversi le informazioni gerarchie religiose, era stato eletto presidente Mahmoud Ahmadinejad. relative ai progetti statunitensi in Iraq, agli ostacoli che Ahmadinejad aveva rilanciato il khomeinismo nella sua versione più intransi verificarono e agli esiti politici che ne seguirono. sigente: aveva rivolto pesanti minacce a Israele riproponendo formule antie b   Cerchia le date e i nomi delle città in cui si sono verificati attentati ascrivibili al radicalismo islabraiche assai diffuse nel mondo arabo-islamico; e aveva annunciato, a dispetto mista e sottolinea le corrispondenti parole chiave. della condanna della comunità internazionale e delle sanzioni votate dall’Onu  c   Spiega oralmente in che modo la popolazio(dicembre 2006), la sua intenzione di sviluppare un programma nucleare. ne americana reagì all’andamento della guerra in Iraq e al funzionamento delle carceri militari. Dopo due guerre costose e sanguinose, il conflitto fra il mondo islamico e l’Oc d    Spiega per iscritto chi è Ahmadinejad e quali cidente, con epicentro nell’area mediorientale, continuava a rappresentare il erano i suoi obiettivi. principale focolaio di tensione internazionale.

L’Iran e il fondamentalismo sciita

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Manifestazione contro gli abusi nella prigione di Guantánamo Washington, 4 gennaio 2007 [foto di Ben Schumin] Un gruppo di manifestanti, incappucciati e vestiti con le divise arancioni come quelle indossate dai detenuti di Guantánamo, protesta contro il governo Bush e la guerra in Iraq.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI



23_4 GLI SVILUPPI DELLA QUESTIONE PALESTINESE

Il clima creatosi nel mondo islamico con l’emergere delle correnti fondamentaliste, che miravano apertamente alla distruzione dello Stato di Israele, non era certo il più adatto per favorire una soluzione negoziata dell’ormai cronico conflitto in Palestina. Anzi, come abbiamo visto, le tensioni aumentarono dopo il fallimento dei colloqui di Camp David del 2000 promossi dal presidente americano Clinton e l’inizio della “seconda intifada” [►19_5]. Il nuovo governo israeliano, entrato in carica nel 2001 e guidato dal leader della destra Ariel Sharon, alzò ulteriormente il livello della risposta militare e della repressione nei territori occupati. Nel 2002 decise quindi di costruire un alto muro di cemento per separare Israele dai territori palestinesi: condannata aspramente da tutto il mondo arabo e da buona parte della comunità internazionale, la barriera difensiva contribuì comunque a far calare il numero degli attentati.

Nuove tensioni

Dopo la morte di Arafat (2004), divenne presidente dell’Anp il più moderato Abu Mazen, leader, come il suo predecessore, di al-Fatah, il principale partito dell’Olp [►13_7]. Nell’estate 2005, con una mossa a sorpresa, il governo di Sharon decise unilateralmente il ritiro dell’esercito e lo smantellamento delle colonie ebraiche nella striscia di Gaza. La decisione, attuata con grande risolutezza, fu aspramente contestata dalle organizzazioni dei coloni e dalla destra del Likud [►19_5]: tanto da indurre Sharon a spaccare il suo partito e a dar vita a una nuova formazione politica di centro. Il ritiro da Gaza non ebbe però gli effetti sperati, anche perché le possibilità di dialogo furono compromesse dalla vittoria di Hamas, che rifiutava di riconoscere Israele, alle elezioni palestinesi del gennaio 2006. Nel 2007, la lotta tra i due principali partiti palestinesi portò al completo controllo di Hamas sulla striscia di Gaza, non più occupata da Israele, e a quello di al-Fatah sulla Cisgiordania. Nel gennaio 2006 era uscito di scena anche Sharon, per le conseguenze di una gravissima malattia. Nel 2009 tornava alla guida del governo israeliano il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, fautore di una linea negoziale dura nei confronti dell’Olp.

Il ritiro da Gaza e la vittoria di Hamas

Tornava frattanto in primo piano il problema del Libano, sottoposto, dalla fine degli anni ’80, a una sorta di protettorato da parte della vicina Siria, che vi aveva inviato un contingente militare col pretesto di pacificare il paese dai conflitti etnico-religiosi che l’avevano sconvolto negli anni precedenti [►19_5]. Anche dopo aver ritirato le sue truppe, nel 2005, la Siria continuò a far sentire la sua influenza soprattutto attraverso il movimento integralista sciita Hezbollah (“Partito di Dio”), appoggiato e armato dall’Iran. Nell’estate del 2006 Israele reagì con un attacco su vasta scala ai continui lanci di missili sul suo territorio a opera di Hezbollah. Una tregua fu stabilita grazie all’arrivo di un contingente Onu (con la partecipazione determinante dell’Italia).

La crisi libanese

Bombardamento israeliano su una scuola a Beit Lahiya, Gaza 17 gennaio 2009 [dal rapporto Rain of fire dell’associazione “Human Rights Watch”] Per l’attacco sferrato contro Gaza tra dicembre 2008 e gennaio 2009, nella cosiddetta “Operazione piombo fuso”, i militari israeliani ricorsero, oltre che ai bombardamenti “classici”, ai raid e agli attacchi terrestri, anche alle bombe al fosforo bianco, una sostanza incendiaria che provoca ustioni chimiche profondissime, produce molto fumo e polvere che finisce pericolosamente nei polmoni di chi la respira.

Alla fine del 2008 il centro delle tensioni si spostò nella striscia di Gaza, dove gli integralisti di Hamas avevano ripreso e intensificato il lancio di razzi su alcuni centri abitati del Sud di Israele. La risposta delle forze armate israeliane fu violentissima e il bilancio di perdite umane fra i civili palestinesi molto elevato. Solo nel gennaio 2009, dopo tre settimane di combattimenti, si arrivò a una tregua, grazie alla mediazione dell’Egitto. Ma intanto il processo di pace, mai

L’intervento a Gaza

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C23 IL MONDO ISLAMICO e LO SCONTRO CON L’occidente

Intifada dei coltelli 2015 Nell’ottobre 2015 scoppiò una nuova rivolta palestinese che venne chiamata “intifada dei coltelli” perché gli obiettivi (militari e civili israeliani) venivano aggrediti con comuni coltelli da cucina.

ufficialmente interrotto, continuava a segnare il passo. La stessa soluzione da sempre indicata dalla comunità internazionale, e basata sulla convivenza dello Stato ebraico con un nuovo Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, si allontanava a causa del prevalere delle posizioni intransigenti in entrambi i campi: i rappresentanti dell’Anp chiedevano pregiudizialmente il blocco di nuovi insediamenti nei territori occupati, mentre gli israeliani ponevano come condizione preliminare per i negoziati il riconoscimento del loro Stato. Nel novembre 2012 la Palestina fu ammessa dall’Assemblea dell’Onu come Stato osservatore non membro, venendo così riconosciuta di METODO DI STUDIO fatto come Stato: decisione che fu fortemente criticata dai  a   Spiega per iscritto dove, quando e con quali governi israeliani, in quanto non implicava un riconoscimento dello Stato ebraiobiettivi fu costruito il muro di cemento citato e gli effetti che ne seguirono. co da parte palestinese. All’inizio del 2013, quindi, l’Anp cambiò il suo nome in  b   Cerchia le date presenti nel paragrafo e sinquello di Stato di Palestina, con capitale Gerusalemme Est. Non si fermarono tetizza gli eventi descritti collocandoli su una linea però gli scontri sporadici, gli attentati contro obiettivi militari e civili, gli omicidi del tempo. e i ferimenti isolati dovuti spesso a iniziative individuali (si parlò di “intifada dei  c   Sintetizza in una scaletta le tappe che hanno portato all’ammissione della Palestina all’Assemblea coltelli”), in un clima che non poteva non risentire della generale radicalizzaziodell’Onu come Stato osservatore non membro. ne di una parte del mondo islamico.

Lo Stato di Palestina

LA QUESTIONE PALESTINESE: NUOVI SVILUPPI

2004

2005

Sharon fa costruire una barriera tra Israele e i territori palestinesi

Abu Mazen, leader di al-Fatah, presidente dell’Anp

Israele si ritira dalla striscia di Gaza

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2001

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

2006

Alle elezioni palestinesi vince Hamas

Israele lancia una vasta offensiva contro Hezbollah

2008-09

2012-13

Nuovi scontri nella striscia di Gaza

Riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina

SINTESI

23_1 L’ATTACCO ALL’OCCIDENTE L’11 settembre 2001 il terrorismo integralista mise a segno un clamoroso attentato, due aerei di linea pilotati da dirottatori si schiantarono contro le Twin Towers a New York e contro il Pentagono a Washington. Un altro aereo dirottato precipitò in Pennsylvania. I dirottatori appartenevano all’organizzazione terroristica internazionale Al Qaeda con base operativa in Afghanistan. Alla guida di Al Qaeda era il miliardario saudita Osama bin Laden, fautore di una guerra contro i nemici dell’islam, in particolare contro gli Usa. L’attentato, che provocò migliaia di vittime civili e fu seguito in diretta in tutto il mondo, destò enorme impressione, instaurando soprattutto in Occidente un clima di paura e di incertezza.

23_2 LA GUERRA CONTRO IL TERRORISMO L’amministrazione Bush decise un’azione militare contro l’Afghanistan, assicurandosi una fitta rete di appoggi internazionali. L’oppressivo regime dei talebani fu spazzato via dai bombardamenti americani e dall’offensiva via terra condotta dai combattenti delle fazioni afghane avverse ai talebani (i mujaheddin). Negli anni successivi, però, i talebani avrebbero ripreso il controllo di vaste zone del paese e dato vita a un’ostinata guerriglia. Dopo l’Afghanistan, gli Stati Uniti volsero la loro attenzione all’Iraq di Saddam Hussein, accusato di nascondere armi di distruzione di massa. Dopo un infruttuoso negoziato tra Onu e Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna attaccarono l’Iraq nel marzo 2003. La resistenza dell’esercito iracheno fu rapidamente sconfitta. Saddam Hussein fuggì: fu poi catturato nel dicembre 2003, sottoposto a un discusso processo e impiccato tre anni dopo.

23_3 LA MANCATA STABILIZZAZIONE Il processo di stabilizzazione dell’area mediorientale trovò ostacoli insormontabili. In Iraq, paese sottoposto ad occupazione, i sostenitori del dittatore deposto e i gruppi integralisti arabi ispirati da Al Qaeda diedero inizio a una serie di attentati. Né le elezioni del 2005 né il varo successivo di una Costituzione federale servirono a stabilizzare la situazione nel paese, nel quale l’affermazione della componente sciita apriva nuovi spazi per l’espansione di un altro fondamentalismo, quello che faceva capo all’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. In Europa, la minaccia del terrorismo si concretizzava negli attentati di Madrid (11 marzo 2004) e Londra (7 luglio 2005). Dopo due guerre, il conflitto fra islam e Occidente rimaneva il principale focolaio di tensione internazionale.

23_4 GLI SVILUPPI DELLA QUESTIONE PALESTINESE Lo stato di tensione presente nel mondo islamico, per l’affermazione delle correnti fondamentaliste, acuì il conflitto israelo-palestinese. Nel 2002 il governo guidato dal leader della destra Ariel Sharon fece costruire un muro di separazione fra il territorio di Israele e le aree palestinesi. Nel 2005, però, lo stesso Sharon decise il ritiro unilaterale degli israeliani dalla striscia di Gaza. Dopo l’uscita di scena di Sharon e la morte di Arafat, la vittoria elettorale nel 2006 degli estremisti di Hamas a Gaza rese sempre più difficile una soluzione pacifica. Agli attentati e ai lanci di missili da Gaza e dal Libano (dove era attivo il movimento sciita Hezbollah), Israele reagì con durissime risposte militari. Nel 2012 la Palestina fu ammessa dall’Assemblea dell’Onu come Stato osservatore non membro e successivamente l’Anp cambiò il suo nome in quello di Stato di Palestina.

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C23 IL MONDO ISLAMICO e LO SCONTRO CON L’occidente

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ

1 Completa lo schema sull’attacco alle Twin Towers seguendo le indicazioni delle 5W: who, what, where, when, why (chi, cosa, dove, quando, perché). Spiega, infine, quale fu la reazione americana e internazionale all’attentato. CHI

Attacco alle Twin Towers

............che facevano parte di ............ cui capo era ...............

COSA

................................................

DOVE

................................................

QUANDO

................................................

PERCHÉ

................................................

Reazione americana e internazionale: .......................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... 2 Indica le affermazioni vere e correggi quelle errate.

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a. Dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, George Bush junior preparò l’America ad un’azione militare contro l’Afghanistan. ................................................................................................................................................................................. b. Durante la guerra in Afghanistan, tutte le fazioni si allearono contro le truppe Usa. ................................................................................................................................................................................. c. Al Qaeda (“la base”) era un partito democratico con la principale base operativa in Afghanistan. ................................................................................................................................................................................. d. Osama bin Laden era un afgano che propugnava una guerra santa da condurre contro i comunisti. ................................................................................................................................................................................. e. Durante l’offensiva in Afghanistan Osama bin Laden venne catturato, per essere processato. ................................................................................................................................................................................. f. L’impegno militare degli Stati Uniti in Iraq impedì una risposta efficace alla guerriglia talebana. ................................................................................................................................................................................. g. Saddam Hussein riuscì a fuggire in America Latina dove si dice viva ancora sotto falso nome. ................................................................................................................................................................................. h. Gli attentati verificatisi a Londra nel 2005 hanno determinato un brusco cambio di rotta della politica estera inglese. .................................................................................................................................................................................

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3 Completa il seguente testo inserendo le affermazioni più opportune.

Il conflitto arabo-israeliano divenne ............................................ con l’affermazione delle correnti fondamentaliste nel mondo islamico. Nel ............. ............................... venne costruito un muro di separazione fra ............................................ e le aree palestinesi, mentre nel 2005, Sharon decise ............................................ Nel 2006 però ............................................ vinsero le elezioni a Gaza e una possibile soluzione pacifica appariva ............................................. Israele, infatti, reagì ............................................ agli attentati e ai lanci di missili da Gaza e dal Libano. Nel 2012 la Palestina fu ammessa dall’Assemblea dell’Onu come ............................................ COMPETENZE IN AZIONE

4 Spiega, in un testo di 10 righe, in che modo la crescita del fondamentalismo islamico fu causa dell’attentato alle Twin

Towers.



....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................................................................

5 Spiega chi furono e cosa fecero i seguenti personaggi:

a. Mullah Omar b. Osama bin Laden c. Hamid Karzai d. Saddam Hussein

COMPITI DI REALTÀ

6 Realizzare la sceneggiatura e il materiale per una trasmissione radiofonica su Internet (podcast). Tema storico da affrontare: L’attentato dell’11 settembre e i cambiamenti nell’auto-percezione del mondo occidentale.

Contesto di lavoro

Lavori per un canale radiofonico culturale online che ha deciso di proporre una trasmissione basata sul rapporto tra storia e letteratura. I tuoi capi ti hanno chiesto di preparare una prova basata sull’attentato dell’11 settembre e sul clima psicologico che ne è seguito.

Cosa devi fare

Ogni gruppo ha il compito di preparare il materiale e la sceneggiatura di una trasmissione radiofonica dal taglio avvincente e fedele al metodo di indagine storica. Se possibile, per essere maggiormente efficaci, potreste realizzare il podcast. Per realizzare questo compito ogni gruppo deve: ● inquadrare storicamente il tema schematizzando sul quaderno le notizie principali (date e luoghi del contesto e dei personaggi storici principali, ecc.). ● cercare fonti dell’epoca da poter leggere o far ascoltare durante la trasmissione. Potete far riferimento ai materiali presenti nel capitolo e nel Fare Storia o cercare altri materiali su Internet. In caso di fonti e informazioni storiche, verificate che i siti consultati siano attendibili, incrociando i dati individuati. Sull’11 settembre è molto diffusa una letteratura complottista che potete citare (se lo ritenete opportuno), ma dopo attenta valutazione (secondo il metodo di analisi storica). ● cercare alcuni romanzi che parlano di questo evento, indicando il contesto in cui sono stati prodotti, l’autore, e selezionarle in base a criteri che siano coerenti col taglio che intendete dare alla vostra trasmissione. Selezionare i brani che vi sembrano maggiormente significativi. ● abbinare le fonti e i brani ai contenuti storici che avete individuato.

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C23 IL MONDO ISLAMICO e LO SCONTRO CON L’occidente

● scegliere il modello comunicativo che volete adottare.

Per far questo potete cercare su Internet degli esempi di podcast storici e/o letterari e realizzare uno schema sulla struttura del programma. Es. presenza/assenza di ospiti in studio; presenza/assenza di attori che leggano scene basate sulle fonti storiche a disposizione, ecc. Potete anche individuare delle canzoni che vi aiutino a passare da un nodo concettuale ad un altro. ● realizzare una scaletta della vostra trasmissione. ● produrre i contenuti in base all’impianto scelto: 1. se ci sarà un conduttore, dovrete scrivere i testi; 2. se ci saranno degli attori che leggono, dovrete selezionare le fonti e i brani più adatti e affidare i ruoli; 3. se ci sarà uno storico, dovrete individuare il brano storiografico di riferimento e riscriverlo secondo la modalità comunicativa che vi sembrerà più efficace per il vostro prodotto. realizzare un copione coerente con i contenuti scelti. ● ● realizzare concretamente un podcast con gli strumenti tecnologici a voi più congeniali. In alternativa, potete realizzare la sceneggiatura completa, indicando anche i tempi degli interventi e dei brani selezionati.

Presentazione del lavoro svolto

Il lavoro di ogni gruppo sarà presentato ai responsabili del canale e deve prevedere: una relazione introduttiva del lavoro svolto da esporre oralmente (durata massima: 5 minuti) più l’ascolto o la descrizione della trasmissione.

Tempo a disposizione

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1/2 ora per individuare sul manuale i contenuti e schematizzarli; 3 ore per cercare le fonti più idonee, sul manuale e in Rete (comprese testimonianze e opere letterarie); 2-3 ore per l’ascolto di podcast da prendere da esempio e schematizzarne la struttura; 3 ore per la realizzazione dei contenuti 2 ore per l’eventuale registrazione del podcast; 1/2 ora per impostare e provare la relazione.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

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CAP24 SCENARI DEL XXI SECOLO

24_1 CRISI FINANZIARIA, CRISI ECONOMICA

A partire dal 2007, l’economia globale dovette confrontarsi con una grave recessione: la crisi investì in primo luogo le economie industrializzate dell’Occidente e, come già altre volte in passato, fu innescata da uno squilibrio nel mercato finanziario. La causa scatenante fu l’esplosione della “bolla” dei mutui immobiliari negli Stati Uniti. Si trattava di prestiti ad alto tasso d’interesse per l’acquisto di abitazioni, concessi negli anni passati con molta larghezza anche a soggetti a basso reddito, e garantiti unicamente dallo stesso valore delle case. Le banche, per ridurre il rischio, avevano emesso nuovi e complessi titoli finanziari, i cosiddetti “derivati” [►21_3], il cui valore era collegato agli interessi sui mutui. In quel modo, il debito contratto da soggetti di dubbia affidabilità poteva essere venduto a società finanziarie e a piccoli risparmiatori, convinti che la restituzione dei prestiti, a tassi d’interesse in aumento, avrebbe assicurato loro un guadagno. Nati per redistribuire e diluire il rischio dalle sole banche a una schiera più vasta di investitori, i derivati erano in realtà titoli dal carattere altamente speculativo [►FS, 192].

Mutui immobiliari e “derivati”

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Atlante I conflitti contemporanei Audiosintesi

La notizia del crollo della Lehman Brothers sulla prima pagina del «Times» 16 settembre 2008 «Il crollo della Lehman scatena un’onda d’urto nel mondo»: così titolava il quotidiano britannico «The Times» il 16 settembre, il giorno dopo che la Lehman Brothers aveva avviato le pratiche per la procedura fallimentare. Fu la più grande bancarotta verificatasi nella storia e si ripercosse con gravi conseguenze su tutto il sistema economico mondiale.

Il meccanismo si bloccò nell’estate del 2007, quando i prezzi degli immobili cominciarono a scendere e i tassi di interesse sui mutui salirono. Di conseguenza, il valore delle proprietà diminuì mentre aumentarono le somme da restituire alle banche: molti di coloro che avevano acquistato una casa non furono quindi più in grado di pagare le somme dovute. La caduta del mercato immobiliare determinò il crollo del valore dei titoli collegati ai mutui, posseduti dagli istituti bancari, e la mancata restituzione dei prestiti mise in crisi le banche. Clamoroso fu, nel settembre 2008, il fallimento del colosso Lehman Brothers, fino a quel momento uno dei giganti della finanza mondiale. Per questo il 2008 viene spesso indicato come il punto di inizio di una crisi che in realtà si era già manifestata nel corso dell’anno precedente.

La bolla speculativa

La crisi si diffuse rapidamente al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Data la sempre più stretta integrazione tra i mercati, infatti, i prodotti derivati avevano avuto un’ampia circolazione: erano stati acquistati anche dalle banche europee e, in misura minore, da quelle asiatiche. Il crollo del valore di quei

La propagazione della crisi

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

titoli, fece nascere timori sulla solidità del sistema bancario e spinse molti risparmiatori a ritirare in fretta il proprio denaro dagli istituti in difficoltà, aggravandone la situazione: davanti agli sportelli delle banche si tornarono a vedere, come nei primi anni ’30, lunghe file di persone preoccupate di vedere evaporare i propri risparmi. L’ondata di sfiducia si trasferì alle principali borse. A Wall Street e poi nelle borse europee e asiatiche si moltiplicarono le vendite di titoli degli istituti finanziari e delle banche ritenute più esposte nelle attività speculative [►FS, 192]. La crisi non rimase circoscritta al settore finanziario e alla borsa ma, come era accaduto all’indomani del crollo di Wall Street nel 1929, si ripercosse immediatamente sull’economia reale, provocando un’ampia e diffusa recessione. Per fronteggiare le perdite, le banche ridussero i prestiti alle imprese, che quindi dovettero tagliare acquisti e investimenti: il peggioramento delle condizioni economiche generali comportò una riduzione dei consumi da parte delle famiglie, costringendo i produttori di beni e servizi a limitare la propria attività. Dal 2007 al 2009 il Pil diminuì di oltre il 2% negli Stati Uniti e di oltre il 4 % nella zona dell’Euro (l’Italia fu tra le nazioni più colpite, con una caduta del 5,2%). Anche l’economia giapponese subì una discesa consistente (circa il 5%). Parallelamente, si ridussero gli scambi tra le diverse economie. Per la prima volta dal 1982, il commercio mondiale si contrasse (–11%), con conseguenze rilevanti soprattutto per i paesi esportatori, come la Germania.

La recessione

Tra le maggiori potenze economiche, le uniche eccezioni di rilievo furono costituite da Cina e India, che anzi fecero registrare incrementi produttivi, anche se meno consistenti rispetto al recente passato. La presenza di una vasta area dell’economia globale capace di far registrare risultati positivi – insieme all’utilizzo di più efficaci strumenti di intervento e a un migliore coordinamento fra le politiche economiche nazionali – contribuì ad attutire le conseguenze della crisi, che restava comunque la più grave mai vissuta dal mondo industrializzato dopo la grande depressione degli anni ’30.

Le potenze emergenti

Le critiche al neoliberismo

La profondità e la durata del fenomeno recessivo suggerirono nuove diagnosi pessimistiche sulla efficacia del sistema economico “globalizzato”, sulla governabilità dei suoi strumenti e sulla stessa moralità dei suoi princìpi fondanti.

LA CRISI DEL 2007-8

Concessione di mutui ad alto rischio

Caduta del mercato immobiliare

Emissione di prodotti finanziari derivati

Aumento dei tassi di interesse

Scoppia la bolla speculativa

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Perdita di valore dei titoli azionari

Insolvenza dei debitori

CRISI delle banche

Crisi delle borse

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

Recessione economica

Limitazione dei prestiti alle imprese

Uomini politici, economisti, imprenditori e sindacalisti puntarono il dito contro l’eccessivo peso assunto dalla finanza, il carattere incontrollato del merMETODO DI STUDIO cato, le deregolamentazioni delle politiche neoliberiste  a   Spiega per iscritto in cosa consiste la bolla speculativa verificatasi negli Stati [►FS, 192 e 193d]. E l’intervento statale in sostegno delle Uniti nel 2007 e le sue conseguenze. situazioni più critiche, dopo essere stato a lungo bandito  b   Sottolinea le cause che provocarono la crisi in Europa. dalle pratiche di governo dell’Occidente o comunque  c  Spiega oralmente in che modo si giunse dalla crisi statunitense a quella europea e quindi alla fase di recessione. guardato con sospetto in quanto turbativa al buon funzio d   Continua la seguente frase: «In seguito alla recessione, sono state criticate namento del mercato, tornò a essere invocato e largamenle teorie... perché...». te praticato [►FS, 196].



24_2 GLI STATI UNITI E LA PRESIDENZA OBAMA

Furono per primi gli Stati Uniti, dopo lo shock dei fallimenti bancari, a intervenire con forza per fronteggiare l’aggravarsi della crisi. L’amministrazione Bush stanziò risorse imponenti a sostegno degli istituti in difficoltà, sconfessando di fatto il principio, professato dai repubblicani, della non ingerenza dello Stato nelle questioni economiche. Gli interventi messi in campo non bastarono però a tamponare le perdite e a consentire una rapida uscita dalla crisi. Il calo dei valori azionari colpiva i patrimoni dei risparmiatori che avevano investito in borsa, mentre si moltiplicava il numero di persone che dovevano lasciare la propria casa, non potendo pagare le rate dei mutui contratti per comprarla. Si registrava inoltre un significativo aumento della disoccupazione.

La crisi negli Usa

In questo drammatico contesto ebbe luogo una svolta storica nella guida politica della maggior potenza mondiale. Scaduto il secondo mandato di Bush junior, nelle elezioni del novembre 2008 il candidato repubblicano John McCain fu sconfitto nettamente dal quarantasettenne senatore democratico dell’Illinois Barack Obama, primo afroamericano ad accedere alla presidenza Usa: un politico sino ad allora poco conosciuto, ma capace di suscitare attorno alla sua campagna elettorale un clima di speranza e di entusiasmo – Yes we can, “sì, possiamo”, fu il suo slogan – simile a quello che, nel 1960, aveva accompagnato l’elezione di Kennedy.

L’elezione di Obama

Manifesto elettorale per le presidenziali statunitensi a favore di Barack Obama con lo slogan “Yes we can” 2008

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

Furono soprattutto gli interventi sull’economia a caratterizzare l’azione politica della nuova presidenza. Per fronteggiare la crisi e rendere possibile la ripresa, Obama varò, poche settimane dopo l’insediamento alla Casa Bianca, un ampio piano di investimenti statali per infrastrutture, educazione, sanità, energie rinnovabili, espansione delle tutele ai disoccupati e sgravi fiscali diretti al ceto medio. Le misure – rese possibili da un massiccio intervento della Banca centrale (la Federal reserve) che per aumentare la circolazione di moneta quasi azzerò i tassi di interesse – puntavano da un lato ad alleviare la situazione di settori sociali in sofferenza e, dall’altro, a offrire stimoli alla ripresa, favorendo un rilancio della domanda. Seguirono poi altri interventi, finalizzati a limitare la speculazione finanziaria e a sostenere i settori produttivi più in difficoltà, come quello dell’auto.

Le misure anticrisi

Manifestazione a sostegno della riforma sanitaria del presidente Barack Obama 28 giugno 2012 La riforma del sistema sanitario americano, fortemente voluta dal presidente Barack

LA POLITICA DI OBAMA

Obama e per questo soprannominata “Obamacare”, ottiene l’approvazione della Corte Suprema di Washington per ciò che riguarda le questioni tecnicogiuridiche. È il 28 giugno 2012 e fuori dalla sede della Corte Suprema si manifesta a favore della riforma.

Investimenti statali e sgravi fiscali

ECONOMIA

Aumento della circolazione monetaria

Crescita del Pil e diminuzione della disoccupazione (dal 2010)

Sostegno ai settori in difficoltà

RIFORME

Sanità

Ampliamento della copertura assicurativa

Diritti civili

Unioni tra persone dello stesso sesso

Ambiente

Riduzione delle emissioni di Co2 Ritiro da Iraq (2011) e Afghanistan

Dialogo col mondo islamico Accordo sul nucleare con l’Iran (2015)

POLITICA ESTERA

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Riapertura relazioni diplomatiche con Cuba (2015)

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

Visita ufficiale di Obama (2016)

Il Pil statunitense tornò a crescere, seppur lentamente, dal 2010. La disoccupazione calò dal 10% del 2010 al 7% del 2013. E la ripresa proseguì negli anni del secondo mandato di Obama, rieletto nel 2012. Sul piano delle misure sociali, la realizzazione più importante della presidenza Obama fu la riforma sanitaria varata nel 2010 dopo un duro confronto con l’opposizione repubblicana. Il provvedimento mirava a rendere obbligatoria e a finanziare, in parte a spese del bilancio pubblico, l’assistenza agli strati sociali più bassi che non riuscivano a sostenere i costi delle assicurazioni private. La legge, pur non prevedendo l’istituzione di un vero servizio sanitario nazionale, estendeva le coperture assicurative a 32 milioni di statunitensi che ne erano privi. La vocazione sociale della presidenza Obama si esercitò anche sul terreno dei diritti civili – nel 2015 una sentenza della Corte suprema rese legali i matrimoni fra persone dello stesso sesso in tutti gli Stati dell’Unione – e su quello delle battaglie ambientaliste, con l’appoggio costante alle iniziative internazionali volte a limitare le emissioni di anidride carbonica.

Le riforme

In politica estera, secondo quanto promesso in campagna elettorale, il nuovo presidente accelerò il ritiro dall’Iraq: nel dicembre del 2011 gli ultimi reparti statunitensi abbandonarono il paese. In Afghanistan, dove non cessava la guerriglia condotta dai talebani, Obama rafforzò inizialmente il contingente impegnato nella missione, per poi decidere, anche in questo caso, un graduale ritiro. In generale, il presidente adottò un approccio ai problemi internazionali molto diverso da quello del suo predecessore: un approccio fondato sulla disponibilità alla mediazione anche nei rapporti con gli avversari tradizionali e soprattutto al dialogo con il mondo islamico, pur nella costante riaffermazione dei valori fondanti della tradizione americana e occidentale. L’amministrazione Obama appoggiò il difficile accordo con l’Iran sul nucleare nel 2015 [►24_7]; e ristabilì nel 2014 le relazioni diplomatiche con Cuba: una svolta sancita nel 2016 da una storica visita nell’isola dopo cinquant’anni di contrapposizione frontale [►22_5].

La politica estera

Questo nuovo approccio diede grande popolarità a livello mondiale a Obama, che nel 2009 ricevette il premio Nobel per la pace. Ma non sempre il presidente Usa ottenne risultati rilevanti nel confronto con gli avversari più irriducibili degli Stati Uniti: dal regime comunista della Corea del Nord, che, per quanto isolato a livello internazionale, era riuscito a dotarsi di un arsenale atomico, al terrorismo fondamentalista che si stava scatenando in Medio Oriente e in Europa. Su questo terreno, il successo più significaMETODO DI STUDIO tivo della presidenza Obama fu l’uccisione di Osama bin Laden: il capo di Al  a   Realizza una didascalia a commento della mappa La politica di Obama. Qaeda, mandante principale degli attentati dell’11 settembre 2001, fu raggiunto  b   Evidenzia con colori diversi i successi e gli nel suo rifugio segreto in Pakistan ed eliminato da un commando delle forze speinsuccessi di Obama. ciali americane il 1° maggio del 2011.

Successi e insuccessi



24_3 DA OBAMA A TRUMP

Il secondo mandato presidenziale di Barack Obama si concludeva nel 2016 con un bilancio in chiaroscuro. Il presidente poteva rivendicare il merito di aver portato il paese fuori dalla recessione, di aver ridotto l’impegno degli Stati Uniti in interventi militari sfortunati e costosi, di aver tenuto ferma l’attenzione sui temi dei diritti civili e delle riforme interne. Ma in campo economico, la lenta ripresa avviata dal 2010 non riusciva a cancellare le conseguenze sociali della crisi: posti di lavoro perduti, soprattutto nei settori “tradizionali”, e già da tempo in difficoltà, dell’industria meccanica e siderurgica, mutui immobiliari diventati insostenibili, abbassamento del tenore di vita dei lavoratori salariati e di parte dei ceti medi.

Problemi irrisolti

La sconfitta dei democratici

A questi motivi di scontento, oltre che a un diffuso atteggiamento di protesta contro la classe politica, va ricondotto il risultato clamoroso delle elezioni presidenziali del novembre 2016, che videro una candidata democratica di grande esperienza

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

come Hillary Clinton, moglie dell’ex presidente e segretaria di Stato con Obama, soccombere, anche se di stretta misura, di fronte a un candidato estraneo alla politica tradizionale come il repubblicano Donald Trump, discusso imprenditore nel settore edilizio, miliardario, personaggio televisivo. Trump incarnava alcuni valori tradizionali della destra americana, individualista e nemica delle retoriche progressiste care ai democratici, proponendosi come interprete degli umori profondi dell’opinione pubblica e in particolare degli strati sociali più colpiti dalla crisi. Al tempo stesso prometteva di abbassare drasticamente le tasse e di lasciare maggiore libertà a imprenditori e operatori finanziari. In politica internazionale il nuovo presidente prometteva di privilegiare senza riserve gli interessi strategici ed economici del suo paese al di là di ogni scelta ideologica, adottando politiche isolazionistiche e protezionistiche e assumendo atteggiamenti platealmente aggressivi nei confronti dei vecchi e nuovi avversari degli Stati Uniti. Il tutto accompagnato da uno stile comunicativo irruente e privo di sfumature. Quello che si annunciava, dunque, non era un normale avvicendamento alla guida del paese, ma un radicale cambio di mentalità e di strategia al vertice della prima potenza mondiale.

Una svolta radicale

Fin dai primi mesi della sua presidenza, Trump si dedicò a un sistematico smantellamento di alcune misure caratterizzanti della precedente amministrazione, anche a costo di scontrarsi al Congresso con una parte del suo stesso partito: furono i repubblicani moderati a opporsi al tentativo, su cui il presidente si era molto impegnato, di cancellare per intero la riforma sanitaria voluta da Obama. Anche in tema di politiche migratorie, Trump adottò una linea dura: proibì temporaneamente l’ingresso negli Usa dei cittadini di sette paesi a forte presenza terroristica (fra cui Iran, Iraq e Siria); sospese i programmi di assistenza ai rifugiati; inasprì il contrasto all’immigrazione clandestina, annunciando di voler accelerare e completare la costruzione (già iniziata dai suoi predecessori) di un muro di oltre 1000 chilometri lungo il confine col Messico. Un gesto di rottura con la presidenza Obama fu poi la decisione di ritirare l’adesione degli Stati Uniti agli accordi di Parigi sul clima del 2015 [►21_4].

L’attacco alle riforme

La politica internazionale

Non meno clamorose, seppure a volte oscillanti, furono le prime mosse del nuovo presidente in politica estera. Trump sembrò all’inizio incline a privilegiare l’amicizia con la Russia, anche a scapito del rapporto con la Cina. Successivamente

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Donald Trump durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti d’America Il 9 novembre del 2016 Donald Trump diventò il nuovo presidente degli Stati Uniti sconfiggendo la candidata democratica Hillary Clinton. Il suo slogan elettorale, «Make America great again» («Fai di nuovo grande l’America»), stampato su cappellini, magliette e spille, era tratto dalla campagna del 1980 di Ronald Reagan [►p. 717].

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

I cittadini di Pyongyang ascoltano le dichiarazioni del leader nordcoreano Kim Jong Un trasmesse alla televisione Pyongyang, 22 settembre 2017

i rapporti fra le due potenze si fecero più tesi, a causa delle posizioni divergenti assunte sui problemi del Medio Oriente: dove la Russia appoggiava il regime siriano di Bashar al-Assad, suo storico alleato, accusato dagli Usa di crimini contro l’umanità [►24_7]. Anche sulla questione del nucleare iraniano, Trump capovolse l’impostazione di Obama, denunciando come ingiusto e inefficace l’accordo sottoscritto appena due anni prima dalle maggiori potenze mondiali [►24_7]. Così come avvenne per lo storico riavvicinamento a Cuba, avviato con Obama e di fatto bloccato dalla nuova amministrazione Usa. Un’altra iniziativa clamorosa di Trump fu l’annuncio (dicembre 2017) dello spostamento dell’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv alla capitale Gerusalemme: la decisione era puramente simbolica (Gerusalemme era di fatto capitale dal 1967), ma rappresentava una rottura con la linea fino ad allora tenuta dalla comunità internazionale, che legava la questione di Gerusalemme a una soluzione complessiva del problema palestinese: per questo l’Assemblea generale dell’Onu approvò a larghissima maggioranza una mozione che condannava l’iniziativa statunitense. Il più grave fattore di tensione con cui la presidenza Trump dovette confrontarsi fu però quello originato dall’armamento atomico della Corea del Nord: uno Stato comunista piccolo e marginale, quasi un residuo del tempo della guerra fredda (doveva infatti la sua nascita alla divisione del paese in due dopo la guerra del 1950-53 [►12_5]), governato da allora con pugno di ferro da una dittatura personale che si trasmetteva per via ereditaria. Salito al potere nel 2011 alla morte del padre Kim Il Jong, il giovane dittatore Kim Jong Un diede una forte accelerazione al programma di armamento nucleare già avviato da anni; e mise in atto una seMETODO DI STUDIO rie di esperimenti, anche con missili a lunga gittata, che suonavano come sfida  a   Sottolinea con colori diversi le cause e il sialle potenze vicine (Giappone e Corea del Sud) e agli stessi Stati Uniti. Alla fine gnificato della vittoria politica di Donald Trump. del 2017 il confronto si inasprì ulteriormente. Alle provocazioni di Kim, isolato e  b   Sottolinea e numera le azioni politiche di rottura che Trump mise in opera contro la linea sesanzionato dalla comunità internazionale e condannato anche dall’Urss e dalla guita dal suo predecessore. Cina (fino ad allora suo principale alleato), Trump rispose minacciando di di c  Indica almeno tre parole chiave per definire le struggere la Corea del Nord e fu ricambiato con analoghi avvertimenti. La tensioscelte operate da Trump in politica estera e argomenta oralmente la tua scelta facendo riferimenti ne così cresceva, risuscitando i fantasmi della catastrofe nucleare, che si credeprecisi. vano sopiti dopo la fine della guerra fredda.

La crisi coreana

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO



24_4 LA RUSSIA DI PUTIN

Le difficoltà causate dalla crisi finanziaria del 2007-8 coinvolsero in parte anche la Russia, che però riuscì a superarle in tempi brevi, grazie soprattutto all’afflusso di valuta estera garantito dalla disponibilità di materie prime e di fonti energetiche (petrolio e gas). Già nel 2009 l’economia russa tornò a far segnare buoni ritmi di crescita, che le consentirono di inserirsi stabilmente nel gruppo di punta dei paesi emergenti, i cosiddetti Brics [►22_1].

La crescita economica russa

Anche sul piano politico, questo periodo fu caratterizzato da una crescente stabilità. Al consolidamento del potere del presidente Vladimir Putin faceva però riscontro una pratica illiberale e autoritaria nei confronti delle opposizioni, che fu oggetto di numerose campagne di denuncia, dentro e fuori i confini della Russia. Nel 2008 le elezioni per la presidenza della Repubblica furono vinte a larga maggioranza da Dmitrij Medvedev, sostenuto da Putin, che, non potendo in base alla Costituzione vigente essere rieletto alla massima carica, assunse la presidenza del Consiglio. Alla guida del suo partito, “Russia Unita”, Putin continuò tuttavia a essere il protagonista assoluto della politica russa e nel 2012 fu rieletto presidente della Repubblica. In politica internazionale, la Russia cercò in ogni modo di far valere il suo ruolo da protagonista, soprattutto sullo scacchiere mediorientale [►24_8]; rafforzò i suoi legami con le altre potenze emergenti e rivendicò un’egemonia di fatto nei confronti dei paesi dell’ex Unione Sovietica. Nell’estate del 2008, la Russia fu addirittura impegnata in una breve guerra contro la Georgia, che si opponeva all’indipendenza della regione filorussa dell’Ossezia del Sud, appoggiata invece da Mosca.

Stabilità e autoritarismo

Assai più grave fu la crisi scoppiata nel 2013-14 in Ucraina, da tempo teatro di forti contrasti fra le correnti politiche vicine alla Russia e quelle che guardavano all’Occidente, in vista di un possibile ingresso nell’Unione europea. Quando (novembre 2013) il presidente filorusso Viktor Yanukovich rifiutò di firmare un trattato di associazione dell’Ucraina all’Ue, i gruppi filo-occidentali e i nazionalisti antirussi diedero vita a una serie di imponenti

La crisi ucraina

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I cittadini di Simferopol votano al referendum per l’annessione della Crimea alla Federazione russa 6 marzo 2014

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

manifestazioni che culminarono, in febbraio, in sanguinosi scontri con la polizia e nella fuga del presidente dalla capitale Kiev, dove si insediò un nuovo governo espressione delle correnti filo-occidentali. A questo punto, però, furono i filorussi a sollevarsi, trovando subito l’appoggio di Putin: dalla Russia partirono non solo aiuti umanitari, ma anche armi e “volontari” (in realtà veri militari). La penisola di Crimea, tradizionalmente russa per lingua e per storia, proclamò la sua indipendenza dall’Ucraina e la fece sancire, nel marzo 2014, da un referendum la cui validità non fu riconosciuta dalla comunità internazionale. Anche le regioni orientali abitate in maggioranza da russi scelsero la secessione e, col sostegno di Mosca, si opposero con le armi ai tentativi del governo ucraino di ristabilire la sua autorità. Ne scaturì un sanguinoso conflitto a sfondo etnico, che fece Il conflitto subito salire la tensione a livello internazionale: gli Stati e le sanzioni Uniti e i paesi dell’Unione europea appoggiarono infatti il governo di Kiev e decretarono pesanti sanzioni economiche contro la Russia, che tornava così a proporsi come antagonista storica dell’Occidente, oltre che come modello di “democrazia autoritaria” dalla forte impronta nazionalista.



METODO DI STUDIO

 a   Cerchia le parole chiave che ti sembrano più idonee per rappresentare la Russia sotto la guida di Vladimir Putin e argomenta per iscritto le tue scelte.  b   Sottolinea con colori diversi le cause e gli eventi salienti del conflitto di Crimea ed evidenzia le relative conseguenze geopolitiche.

24_5 L’EUROPA E LA CRISI DEL DEBITO

L’Europa, con la parziale eccezione della Germania, fu pesantemente colpita dalle conseguenze della crisi scoppiata negli Stati Uniti nel 2007-8 [►FS, 191 e 192]. La recessione che ne seguì ebbe effetti negativi non solo sull’andamento delle economie dei singoli Stati, ma anche sull’efficacia delle risposte delle autorità europee: e dunque sulla compattezza dell’Unione e sulle prospettive di un processo di unificazione che aveva già subìto numerose battute d’arresto [►18_6]. Le regole dell’Ue vincolavano i governi a non oltrepassare determinati livelli di spesa pubblica, rendendo quindi difficile la strada dello stimolo statale alla ripresa, percorsa invece dagli Stati Uniti; al tempo stesso, l’assenza di un forte governo comune dell’economia non consentiva di intervenire in maniera coordinata in un mercato europeo sempre più integrato. In particolare, i paesi che avevano aderito all’euro si trovarono privi dei tradizionali strumenti di politica monetaria, come la svalutazione o l’emissione di nuova moneta, ora di competenza della Banca centrale europea (l’organismo comune di gestione della moneta unica).

Le conseguenze della crisi

Oltre a ripercuotersi sull’economia reale, la crisi mise improvvisamente a nudo la pessima condizione dei bilanci pubblici di molti Stati europei, soprattutto dell’Europa meridionale. Con il calo delle entrate fiscali provocato dalla crisi, lo squilibrio tra le spese e le entrate si aggravò e nuovo debito si sommò a quello, spesso elevato, accumulato negli anni precedenti. Le banche e le società finanziarie si mostrarono più riluttanti ad acquistare i titoli di Stato dei paesi con il debito più alto, temendo che questi non fossero in grado di fare fronte agli impegni. Furono in particolare Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia a dover fronteggiare la situazione più difficile: per finanziare il proprio debito attraverso l’emissione di titoli di Stato, furono costretti a pagare interessi più alti, aggravando ulteriormente i propri squilibri di bilancio. Il divario (lo spread) tra il costo degli interessi sui titoli di Stato del paese finanziariamente più forte dell’Unione, la Germania, e quelli dell’Europa meridionale aumentò rapidamente e divenne un indicatore di grande importanza per dare la misura della crisi.

Il problema del debito pubblico

Il primo paese a soffrire le conseguenze della sfiducia degli investitori fu la Grecia, il cui governo aveva fornito addirittura dati falsi in sostegno alla richiesta di ammissione nell’area dell’euro [►FS, 194]. Fra il 2009 e il 2011, su indicazione delle istituzioni europee, vennero attuate misure drastiche per il contenimento della spesa (licenziamenti di dipendenti statali, tagli degli stipendi, riduzione dei servizi pubblici) che provocarono manifestazioni anche violente in tutto il paese. Nonostante questo, la Grecia non riuscì a raddrizzare i suoi conti in tempi brevi

La crisi greca

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

Scontri con la polizia durante un corteo in Grecia 2012 In Grecia, la crisi economica e le conseguenti severe misure di austerità messe in atto dal governo ebbero pesanti ripercussioni sociali: un tasso di disoccupazione particolarmente alto, un importante flusso migratorio verso l’estero e un rafforzamento dei movimenti estremisti che portarono a violenti scontri di piazza. Nella foto, un momento emblematico della tensione scoppiata nel paese: un uomo sventola, fiero e rassegnato insieme, la bandiera nazionale nel momento in cui la polizia sta disperdendo con lacrimogeni un corteo di protesta.

e i titoli del suo debito subirono una forte svalutazione. La prospettiva di un possibile fallimento (default) greco provocò reazioni a catena in tutta l’area dell’euro. Nel 2011, una ondata di vendite sui mercati valutari prese di mira anche gli altri paesi più deboli sul piano della finanza pubblica: prima l’Irlanda e il Portogallo, poi la Spagna e soprattutto l’Italia, che poggiava su basi economiche più solide, ma non riusciva a ridurre l’imponente massa del suo debito. Seri erano i rischi per la moneta unica, e per la stessa costruzione europea (che difficilmente avrebbe retto al fallimento e alla conseguente uscita dall’area dell’euro di alcuni fra i suoi membri più importanti). La situazione avrebbe richiesto un massiccio intervento della Banca centrale europea (paragonabile a quello attuato dalla Federal Reserve americana). Ma i paesi forti dell’Unione, in primo luogo la Germania della cancelliera Merkel, non intendevano assumersi l’onere di coprire senza adeguate garanzie gli errori dei paesi meno “virtuosi”, anche perché i loro governi avrebbero dovuto risponderne dinanzi ai propri elettori.

L’ondata speculativa

Gli Stati più esposti furono quindi costretti ad attuare politiche di austerità, basate su tagli della spesa e aumenti delle tasse, in aggiunta a quelli già varati negli anni ’90 [►18_4 e FS, 195]. Queste misure riuscirono a fronteggiare gli attacchi della speculazione finanziaria, anche con l’aiuto di una nuova strategia della Banca centrale europea che, all’inizio del 2015, si dichiarò disposta all’acquisto di grandi quantità di titoli dei paesi più indebitati (quantitative easing, “facilitazione quantitativa”), per immettere liquidità nel sistema produttivo e dare stimolo all’economia. Fu così scongiurata la minaccia di fallimenti a catena dei paesi in difficoltà e di un collasso dell’Unione default monetaria. Ma nemmeno queste misure bastarono a rilanciare in tempi brevi i Nel linguaggio dell’economia, si ha un “default” quando uno Stato dichiara la sua insolvenza, ossia la sua consumi, gli investimenti e l’occupazione.

Le misure di austerità

L’uscita dalla recessione fu lenta e graduale. Se la Francia e la Germania, come gli Stati Uniti, impiegarono quattro anni per recuperare i livelli persi, alla Gran Bretagna ne occorsero sei e nove alla Spagna. L’Italia, invece, pur tornata alla crescita, nel 2017 non aveva ancora raggiunto i livelli di dieci anni prima: un primato negativo condiviso solo con Grecia e Portogallo. Ancora più lento era il recupero dei posti di lavoro. Nel 2017, solo in alcuni paesi (tra i quali Gran Bretagna e Germania) il livello di disoccupazione era sceso intorno ai livelli di dieci anni prima, ma in molte economie europee quel traguardo non era ancora stato raggiunto. In Italia il tasso di disoccupazione nel giugno 2017 era dell’11,1%, contro il 6,5% del 2007. 932

Una lenta ripresa

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

incapacità di pagare gli interessi sui debiti contratti con altri Stati, con le banche o con i risparmiatori. In questi casi si parla di “fallimento” o di “bancarotta” di uno Stato.

METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea con colori diversi le cause e in cosa consistono le politiche di austerità adottate in questi anni. Quindi spiega oralemente cosa è lo spread.  b   Trascrivi sul tuo quaderno i titoli dei sottoparagrafi e utilizzali come scaletta per esporre sinteticamente le condizioni dell’Europa alle prese col problema del debito pubblico e le strategie adottate.



24_6 L’AVANZATA DEI POPULISMI

► Leggi anche: ► Parole della storia Populismo, p. 382

Un decennio di crisi aveva lasciato tracce profonde nell’esperienza dei popoli europei: sia nelle generazioni più anziane, cresciute nella società dei consumi e del Welfare, sia in quelle più giovani, colpite più delle altre dal calo delle opportunità di lavoro stabile e deluse nelle aspettative di ascesa sociale. Si aprirono così larghi spazi per quei movimenti che, partendo da una generica protesta contro le classi dirigenti al potere, facevano leva sul disagio suscitato dalla crisi – e più in generale dalle grandi trasformazioni di fine ’900 (la globalizzazione, le migrazioni di massa, i nuovi lavori) – per rilanciare i valori della tradizione contro i traumi della modernità, il primato della sovranità nazionale contro il cosmopolitismo delle organizzazioni sovranazionali (a cominciare dall’Unione europea), il protagonismo dei leader contro le mediazioni della democrazia rappresentativa.

L’area dello scontento

Per definire questa costellazione di forze, peraltro non sempre omologabili fra loro, si fece comunemente ricorso al termine “populismo”: un’etichetta che era stata usata in riferimento a esperienze diverse e che richiamava la contrapposizione fra una politica considerata oligarchica e corrotta e un popolo immaginato come corpo sano, depositario di ogni virtù. I movimenti populisti europei non mettevano apertamente in discussione le regole della democrazia, ma ne davano una versione assai poco liberale, ispirandosi spesso agli esempi dei regimi autoritari o semi-autoritari – dalla Russia di Putin alla Turchia di Erdoğan – che si andavano affermando in molti paesi (le cosiddette “democrature”, come vennero subito definite).

Il nuovo populismo

In Europa le tendenze nazionaliste e populiste trovarono ampio spazio – e divennero forza di governo – soprattutto nei paesi dell’Est che erano usciti da poco dall’esperienza dei regimi comunisti e, nonostante avessero a lungo premuto per entrare nell’Unione, si mostravano spesso riluttanti ad accettarne le regole. Tipico in questo senso il caso dell’Ungheria, dove dal 2010 si affermò il partito di destra Fidesz, guidato da Viktor Orbán, sulla base di un programma fortemente nazionalista, che prevedeva fra l’altro una riforma della Costituzione e una serie di misure limitative della libertà di stampa. Simili per molti aspetti furono le vicende della Polonia, dove nelle elezioni del 2015 i gruppi cattolico-tradizionalisti che facevano capo al partito “Diritto e giustizia” di Jaroslaw Kaczynski prevalsero sulle forze liberali che avevano governato il paese nel decennio precedente sotto la guida di Donald Tusk. Il nuovo governo entrò subito in contrasto con l’Unione europea a causa del varo di una legge illiberale che dava al potere esecutivo forti poteri di controllo sulla magistratura. Governi di stampo populista, o quanto meno critici nei confronti dell’Ue, si affermarono anche in Slovacchia e, dal 2017, nella Repubblica ceca. Furono questi quattro paesi, uniti nel cosiddetto “gruppo di Visegrád”, i primi a chiedere con forza controlli più severi alle frontiere interne ed esterne dell’Unione e a disattendere le disposizioni delle autorità europee che obbligavano ogni paese membro all’accoglienza di una determinata quota di migranti.

Il ritorno del nazionalismo nell’Europa dell’Est

L’arrivo, soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente, di grandi masse di profughi, pur non essendo un fenomeno nuovo [►21_6], rappresentò per l’Europa uno dei maggiori fattori di tensione politica: non solo per le sue evidenti implicazioni umanitarie e per le difficoltà pratiche che comportava, in termini di regolazione dei flussi e organizzazione dell’accoglienza, ma anche per le paure spesso irrazionali che suscitava in ampi strati della popolazione. Paura innanzitutto di una invasione sentita da molti come lesiva delle proprie posizioni economiche a vantaggio dei nuovi arrivati (che in realtà andavano spesso a coprire una reale domanda di lavoro). Paura di una minaccia portata ai propri valori e ai propri stili di vita da culture diverse e poco disposte a lasciarsi assimilare (come quella islamica). Paura, infine, di un afflusso incontrollato entro il quale si potessero inserire gruppi terroristici.

Il problema dei migranti

I movimenti antieuropeisti

Un clima di questo genere favoriva, anche in Europa occidentale, la crescita di movimenti e partiti populisti di destra, che contestavano le scelte politiche e 933

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gli stessi princìpi fondativi dell’Unione, si pronunciavano, se inclusi nella zona dell’euro, per l’uscita dalla moneta unica, chiedevano una maggiore tutela degli interessi e delle identità nazionali e si facevano sostenitori di una politica più dura nei confronti dell’immigrazione clandestina. Alcuni di questi movimenti raccolsero consensi rilevanti, pur senza mai avvicinarsi a prospettive di governo. Così il Front National di Marine Le Pen in Francia, o Alternative für Deutschland (Afd) in Germania e altre formazioni affini in Austria, in Belgio, in Olanda e nei paesi nordici. Così lo Ukip (Partito per l’indipendenza del Regno Unito) di Nigel Farage, che si batteva per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Altri movimenti critici nei confronti del progetto europeo – ma anche dei meccanismi della democrazia rappresentativa – si collocavano in una posizione “trasversale” rispetto agli schieramenti tradizionali (come il Movimento 5 Stelle in Italia [►25_4]) o si schieravano decisamente a sinistra: come gli spagnoli di Podemos (“Possiamo”) o i greci di Syriza (sigla di “Coalizione della sinistra radicale”). Nelle elezioni greche del gennaio 2015, Syriza sconfisse i vecchi partiti, responsabili del dissesto finanziario del paese. Il suo giovane leader, Alexis Tsipras, divenne primo ministro e cercò di rinegoziare con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale le condizioni del pagamento del debito greco, considerate troppo dure per la popolazione. Nel luglio dello stesso anno, per rafforzare la sua posizione, Tsipras convocò un referendum, in cui i greci votarono a maggioranza contro le proposte dei creditori, rifiutando nuovi tagli alla spesa. Ma il governo fu ugualmente costretto ad accettarli pur di allontanare il rischio di un’uscita forzata della Grecia dall’Unione.

La vittoria di Tsipras in Grecia

L’eventualità più temuta dagli europeisti – il distacco dall’Ue di uno dei suoi membri – si concretizzò però nel giugno del 2016, quando il premier conservatore britannico David Cameron, favorevole alla permanenza del Regno Unito nell’Unione, convocò un referendum per chiamare gli elettori a sostenere la sua posizione, ma fu sconfitto anche se di stretta misura dai fautori dell’uscita dall’Ue (la Brexit, dalla fusione fra le parole Britain ed exit). La Gran Bretagna non faceva parte del gruppo degli Stati fondatori e aveva sempre mantenuto ampi spazi di autonomia rispetto all’Ue (non era nemmeno entrata nell’area dell’euro). Ma restava, per popolazione, storia e importanza economica, uno dei membri di maggior peso. E la sua defezione rappresentò un grave trauma per una compagine che fino ad allora si era continuamente allargata rispetto al nucleo originario.

L’uscita della Gran Bretagna dalla UE

L’esito del referendum britannico segnò il punto più basso nella parabola dell’Unione, in una Europa spaventata dalle imprese del terrorismo islamista [►23_3 e 24_8]. Sembrò allora profilarsi una generale avanzata elettorale delle forze nazionaliste e populiste, che trassero incoraggiamento anche dalla vittoria di Trump nelle presidenziali americane [►24_3]. Le elezioni che si tennero nel 2017 in vari Stati europei mostrarono però che, nonostante le difficoltà dei partiti tradizionali, l’ondata populista accennava a esaurirsi, o quanto meno a ridurre la sua capacità espansiva. In Olanda, in marzo, il Partito della libertà di Geert Wilders, che aveva impostato la sua campagna sul contrasto all’immigrazione islamica, rimase in netta minoranza rispetto alle forze moderate, che formarono un governo di coalizione. Un risultato simile si ebbe in ottobre in Germania: la Cdu-Csu [►12_8] della cancelliera Merkel, che aveva tenuto ferma la sua politica di larga accoglienza ai migranti, perse consensi (e ancor più ne persero i socialdemocratici), ma mantenne con largo margine la sua posizione di primo partito, nonostante i progressi dei nazionalisti di Alternative für Deutschland. La formazione di un nuovo governo si rivelò comunque problematica, vista la riluttanza dei socialdemocratici a entrare in un nuovo governo di grande coalizione. Anche in Austria, dove pure si votò in ottobre, le elezioni segnarono la conferma del Partito popolare come prima forza politica e la contemporanea crescita dei nazionalisti del Fpö (Partito della libertà austriaco): in questo caso, però, i popolari, che fino ad allora avevano governato insieme ai socialisti, scelsero l’alleanza con la destra. In Gran Bretagna, dove dal 2010 erano al governo i conservatori guidati da David Cameron (che si

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I risultati elettorali del 2017

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era dimesso dopo il referendum sull’Ue), le elezioni che si svolsero in giugno, a un anno dalla Brexit, videro il successo di stretta misura della premier conservatrice Theresa May sull’esponente della sinistra laburista Jeremy Corbin, mentre i populisti dell’Ukip uscivano di scena dopo aver ottenuto il loro scopo, ossia l’uscita dalla Ue. Il risultato più clamoroso si registrò in Francia, nelle elezioni presidenziali che si tennero in maggio. I socialisti, che dal 2012 avevano tenuto la presidenza con François Hollande, furono seccamente sconfitti nel primo turno; le forze di estrema sinistra e i repubblicani moderati si divisero; e il ballottaggio vide il confronto tra la candidata dell’estrema destra, Marine Le Pen e il quarantenne leader di un nuovo movimento (En marche!, “In marcia!”), Emmanuel Macron: un brillante tecnocrate che si collocava al di fuori degli schieramenti tradizionali, con un programma di ispirazione liberale e convintamente europeista. La vittoria di Macron fu nettissima (66 contro 34%): un risultato che, se da un lato confermava il radicamento della destra populista, dall’altro sembrava segnarne i confini insuperabili.

La vittoria di Macron in Francia

Nell’autunno del 2017, un nuovo scenario di tensione si aprì in Spagna. Questa volta la crisi non riguardava gli equilibri politico-parlamentari (nel giugno 2016, dopo una lunga fase di stallo il leader del Partito popolare, Mariano Rajoy era riuscito a formare un governo di coalizione assieme ai socialisti) e nemmeno l’economia, che dal 2015 aveva dato forti segni di ripresa. Il problema nasceva invece dalle aspirazioni indipendentiste della Catalogna, la regione più ricca del Regno, già dotata di ampie autonomie sul piano politico, culturale e linguistico. Dopo il fallimento di un negoziato col governo centrale, il governo catalano indisse per il 1° ottobre un referendum sull’indipendenza, che si tenne in un clima molto teso, segnato da contestazioni e incidenti. Alla vittoria dei sì seguì la proclamazione della repubblica da parte del Parlamento catalano. Il governo Rajoy si oppose a queste iniziative, che violavano la costituzione spagnola, e la magistratura fece arrestare alcuni fra i capi dei separatisti. Anche l’Unione europea si schierò con decisione a favore dell’integrità della Spagna. Nel dicembre del 2017 si tennero le elezioni per il Parlamento catalano. Anche in questo caso i partiti indipendentisti vinsero, ma di stretta misura e senza raggiungere la maggioranza del voto popolare.

La Spagna e la questione catalana

Manifestazione a Barcellona per il referendum sull’indipendenza della Catalogna settembre 2017

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La Catalogna si trovò così spaccata in due. La Spagna vide minacciata la sua unità. E l’Unione europea, formata soprattutto da Stati nazionali di medie dimensioni, dovette confrontarsi con un problema che era già emerso in varie aree geografiche (in Gran Bretagna col nazionalismo scozzese, in Belgio con i contrasti fra valloni francofoni e fiamminghi, anche in Italia con la Lega Nord), ma che sembrava essersi stemperato nella comune appartenenza all’Unione: il problema dei micronazionalismi, delle “piccole patrie” che intendevano collegarsi direttamente all’Europa rompendo l’involucro delle formazioni statali preesistenti e introducendo così un nuovo fattore di instabilità.

Il problema dei micronazionalismi



METODO DI STUDIO

 a   Leggi con attenzione i primi sottoparagrafi e realizza una “nuvola di parole chiave” (tag clouds) selezionando quelle relative al populismo e attribuendo un font di dimensioni più grandi alle parole che ritieni indichino aspetti più importanti. Quindi argomenta per iscritto le tue scelte.  b   Cerchia i nomi dei paesi europei citati nel paragrafo e sottolinea gli eventi e gli orientamenti politici che li caratterizzarono.

24_7 LE “PRIMAVERE ARABE”

Mentre l’Europa e l’intero Occidente erano alle prese con la crisi economica, un nuovo imprevisto fattore di instabilità fu introdotto da un’ondata di sollevazioni e proteste che, nel corso del 2011, sconvolse buona parte del mondo arabo-islamico. Scoppiate per motivi diversi (richiesta di diritti di libertà, rivendicazioni sociali), le rivolte videro come protagonisti soprattutto i giovani. Tutto cominciò in Tunisia, uno dei paesi apparentemente più stabili del Nord Africa, quando, nel dicembre 2010, un giovane venditore ambulante si uccise dandosi fuoco per protestare contro le vessazioni della burocrazia statale e contro la corruzione del regime autoritario guidato, dal 1987, dal presidente Ben Ali. La protesta si diffuse in tutto il paese e costrinse Ben Ali, che aveva perso l’appoggio delle forze armate, a fuggire all’estero. Ma intanto il fuoco della rivolta si era propagato con straordinaria rapidità in altri paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, soprattutto in quelli governati da regimi autoritari di matrice militare e nazionalista.

La rivolta in Tunisia

Il più importante di questi paesi, l’Egitto, fu il primo a sentire gli effetti del contagio tunisino. Fra gennaio e febbraio del 2011, una serie di imponenti manifestazioni con epicentro nella piazza principale della capitale, piazza Tahrir, bloccò il paese fino a quando, dopo aver tentato invano di reprimere il moto con la forza, il presidente Hosni Mubarak, in carica dal 1981, fu prima costretto a cedere il potere a una giunta militare (febbraio 2011), poi arrestato e processato. In quello stesso mese di febbraio, la protesta popolare si estese alla Libia, da più di quarant’anni sotto la dittatura del colonnello Muhammar Gheddafi. Nelle settimane successive l’ondata di protesta coinvolse altri paesi arabi retti da regimi autoritari, come lo Yemen e la stessa Siria, governata con metodi dittatoriali da Bashar al-Assad. Si parlò allora di una “primavera araba”, di una ventata di rinnovamento paragonabile, anche per la vasta partecipazione di giovani, alle rivoluzioni europee dell’800 e capace di mutare gli equilibri politici dell’intera area [►FS, 207]. Gli sviluppi delle rivolte si rivelarono però contraddittori e i risultati spesso in contrasto con le speranze suscitate in Occidente.

► Leggi anche: ► Eventi Piazza Tahrir, p. 938 ► Fare Storia La sfida del terrorismo e i conflitti interni al mondo islamico, p. 998

Le insurrezioni in Egitto e in Libia

In Libia Gheddafi scatenò una cruenta repressione contro i ribelli, concentrati soprattutto nella zona orientale del paese (la Cirenaica). A questo punto, però, i paesi occidentali, che pure, a cominciare dall’Italia, avevano intrattenuto stretti rapporti con la Libia, decisero di intervenire per fermare la controffensiva del dittatore. L’intervento, voluto soprattutto da Francia e Gran Bretagna che se ne assunsero l’onere maggiore, non comportò l’impiego di truppe di terra: furono gli aerei della Nato a colpire l’apparato militare del 936

L’intervento in Libia e la morte di Gheddafi

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Abitanti di Tripoli festeggiano la morte di Gheddafi 20 ottobre 2011 [foto Magharebia]

regime. Il conflitto si prolungò per parecchi mesi e si concluse solo nell’ottobre 2011, quando il dittatore, ormai isolato, fu catturato e ucciso dai ribelli. Ma la dissoluzione del regime e del suo apparato militare lasciò il paese in preda a gruppi armati in conflitto fra loro, che impedirono la formazione e il consolidamento di un governo legittimo. L’uccisione, nel 2011, di due storici nemici dell’Occidente come Gheddafi e bin Laden [►24_2] non servì a portare stabilità nel mondo arabo. Le prime elezioni libere che si tennero alla fine del 2011 in Tunisia e in Egitto delusero le attese di chi aveva sperato in un’affermazione delle forze laiche e democratiche. Prevalsero i partiti islamici, eredi dei Fratelli musulmani [►13_5] e ostili ai regimi nazionalisti che li avevano a lungo perseguitati: partiti che avevano smussato le loro punte più radicali, ma non potevano certo considerarsi amici dell’Occidente e omogenei ai valori della democrazia liberale. L’affermazione di questi partiti fu peraltro fortemente contrastata. In Tunisia, l’uccisione nel 2012 di due esponenti delle forze di opposizione scatenò forti proteste contro il governo di ispirazione islamico-moderata, che fu costretto alle dimissioni. Nel 2014, le forze laiche prevalsero nelle elezioni legislative dell’ottobre 2014 e poi nelle presidenziali di dicembre, che videro la vittoria dell’anziano Caid Essebsi [►FS, 208].

Islamici e laici in Tunisia

Più agitate furono le vicende vissute dall’Egitto, dove nel giugno 2012 era stato eletto presidente Mohammed Morsi, esponente del partito Libertà e giustizia, espressione dei Fratelli musulmani. L’approvazione, a fine dicembre 2012, con un contestato referendum, di una costituzione a forte impronta islamista provocò una nuova violenta ondata di proteste. Nell’estate del 2013 un colpo di Stato restituì il potere ai militari, che destituirono Morsi e arrestarono i maggiori esponenti della Fratellanza musulmana. Questa volta furono gli islamici a scendere in piazza contro i militari, che repressero la protesta con ulteriore spargimento di sangue. Fu messo al bando il partito islamico e fu formato un esecutivo di transizione, guidato dal nuovo uomo forte, il generale Abdel Fattah al-Sisi. Nel 2014, dopo l’approvazione tramite referendum di una nuova costituzione che attribuiva ampi poteri ai militari, al-Sisi fu eletto presidente e diede vita a un regime autoritario, anche se aperto nei confronti dell’Occidente.

Integralisti e militari in Egitto

La guerra civile in Siria

In Siria, infine, il regime di Bashar al-Assad, espressione di un gruppo religioso minoritario di osservanza sciita (gli alawiti) e per questo sostenuto dall’Iran e dal movimento libanese Hezbollah [►23_4], attuò una feroce repressione delle

Verità per Giulio Regeni Giulio Regeni, un giovane ricercatore italiano scomparso al Cairo, in Egitto, alla fine di gennaio 2016, venne trovato morto agli inizi di febbraio e il suo corpo presentava segni evidenti di sevizie e tortura. L’uccisione di Giulio Regeni è stata oggetto di dibattito in Italia e motivo di tensioni diplomatiche tra Italia ed Egitto. Amnesty International ha promosso una campagna intitolata “Verità per Giulio Regeni” per cercare di far luce su quello che agli occhi di molti appare come un “omicidio di Stato” compiuto per i supposti legami che Regeni aveva con il movimento sindacale schierato contro il governo del generale al-Sisi.

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proteste popolari scoppiate dal 2011. Lo scontro con l’opposizione si trasformò in una sanguinosa guerra civile, alla quale parteciparono anche gruppi fondamentalisti vicini al terrorismo di matrice islamica [►FS, 209d]. La repressione del governo, accusato anche di avere usato armi chimiche, fu spietata: nel novembre 2017, secondo dati dell’Onu, si contavano 340 mila morti, di cui oltre 100 mila civili dall’inizio della guerra nel 2011. La comunità internazionale rimase divisa tra i sostenitori dei ribelli (i paesi occidentali e gli Stati arabi del Golfo) e gli alleati di Assad (Russia e Iran), e non riuscì a concordare interventi comuni per mettere fine ai massacri.

EVENTI

Piazza Tahrir

P

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iazza Tahrir (midan alTahrir, “piazza della Liberazione”) era già stata l’epicentro di due grandi sommovimenti politici: la rivolta del 1919 contro il protettorato britannico e quella dei liberi ufficiali di Nasser del 1952, quando le fu attribuito il nome attuale. Situata nel cuore caotico del Cairo, la piazza è enorme: al suo centro c’è una grande rotonda coperta di spazi verdi, dove si aprono gli accessi per la “fermata Sadat” della metropolitana, mentre intorno si ergono grandi edifici pubblici (vari ministeri, le due Camere del Parlamento, il Museo Egizio, la sede del partito di Mubarak). Si tratta, quindi, di un luogo strutturalmente destinato a essere punto di aggregazione per le manifestazioni politiche. Nel gennaio 2011, gli egiziani cominciarono a manifestare contro gli abusi delle forze dell’ordine e per i propri diritti: l’appuntamento era a piazza Tahrir per il 25 del mese, giorno della festa nazionale della polizia. L’iniziativa fu lanciata dai due principali gruppi giovanili di opposizione al governo, organizzati sul social network Facebook nelle pagine Movimento giovani 6 aprile e Siamo tutti Khaled Said: la prima era nata nell’aprile 2008, in sostegno a uno sciopero in un’industria tessile; la seconda nel giugno 2010, in memoria di Khaled Said, un giovane fermato, percosso e ucciso dalla polizia egiziana. In breve tempo, l’appuntamento del 25 gennaio si arricchì di aspettative e vi aderirono tanto gli intellettuali e le opposizioni (liberali, socialiste, socialdemocratiche) che da tempo contestavano Mubarak, quanto – anche senza svolgere alcun ruolo di leadership – i Fratelli musulmani, il gruppo di opposizione a carattere islamista meglio organizzato. Il 25 gennaio, al Cairo, manifestarono decine di migliaia di persone, che chiedevano la fine del regime autocratico di Mubarak. Il corteo si scontrò duramente con le forze dell’ordine: piazza Tahrir fu occupata dai manifestanti e, poi, sgomberata dalla polizia intorno a mez-

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zanotte. Immediatamente sui social network si diffuse l’invito a raggiungere la piazza per riconquistarla: midan al-Tahrir diventò così un simbolo di resistenza e unità contro il regime di Mubarak. Le manifestazioni, caratterizzate da una violenza crescente, si intensificarono nei giorni successivi: i morti si contarono a centinaia. Per il 28 gennaio, il cosiddetto “venerdì della collera”, furono organizzate manifestazioni in tutto l’Egitto. Il regime, che già aveva oscurato il social network Twitter, ordinò la chiusura delle moschee più grandi per impedire assembramenti e oscurò la rete Internet e quella telefonica. Nonostante ciò, migliaia di persone sfilarono al Cairo, dirigendosi verso piazza Tahrir per riconquistarla: gli scontri con la polizia furono violentissimi, ma i manifestanti decisero di occupare la piazza a oltranza. Come risposta, Mubarak ordinò di sostituire la polizia con l’esercito nella gestione dell’ordine pubblico. Piazza Tahrir, ormai occupata, diventò un punto stabile di concentramento e di organizzazione delle proteste e si consacrò come epicentro dell’insurrezione e di una nuova concezione dello spazio pubblico, in cui musulmani, cristiani e laici convivevano senza particolari frizioni. Superando le fratture tradizionali della società egiziana, la vita a midan al-Tahrir era caratterizzata dalla pacifica convivenza e dall’assenza di veri e propri leader. La tendopoli – situata negli spazi verdi della piazza – si attrezzò con dormitori, mense, servizi igienici, punti in cui curarsi, ricaricare i cellulari e navigare in Internet, una stazione radio e la redazione di un giornale: tutto era presidiato dai “Comitati popolari” addetti alla sicurezza, che controllavano i documenti e perquisivano quanti vi volevano accedere. A piazza Tahrir si affermò, così, un nuovo modo di fare politica, basato sull’autorganizzazione, sul confronto costruttivo, sul pluralismo e sul rispetto per le diversità. Il 1° febbraio al Cairo, un milione di perso-

ne sfilò contro Mubarak. Nelle ore successive, alcune bande armate organizzate dal governo (i baltagheya) iniziarono ad aggredire, nei dintorni di piazza Tahrir, gli oppositori al regime. Il 2 febbraio, i baltagheya, montando cavalli e cammelli, occuparono parte della piazza e si scontrarono duramente con i manifestanti antigovernativi: l’assalto – definito “la battaglia dei cammelli” – fu però respinto. Le manifestazioni proseguirono nei giorni successivi in tutto l’Egitto, mentre in piazza Tahrir affluivano continuamente nuove persone. L’11 febbraio, finalmente, Mubarak si dimise, lasciando il governo al Consiglio supremo delle forze armate: a piazza Tahrir iniziò una festa che durò tutta la notte. Il giorno successivo, i manifestanti iniziarono a ripulire la piazza: essa, tuttavia, nonostante gli inviti dell’esercito e del nuovo governo, non fu completamente abbandonata. Malgrado il carattere spesso spontaneo dell’insurrezione, essa era stata organizzata principalmente da giovani di età compresa tra i 20 e i 35 anni, in gran parte studenti universitari e liberi professionisti, provenienti dalla media borghesia. Tra di essi, moltissime erano le donne, che superarono sia la paura di essere molestate in strada (in Egitto le aggressioni sessuali erano piuttosto frequenti), sia l’ostilità di molti uomini, anche tra gli attivisti di piazza Tahrir. Gli appuntamenti e le informazioni sulle proteste viaggiarono velocemente su Facebook, Google e YouTube (e, in misura inferiore, Twitter) e attraverso gli sms, anche se probabilmente milioni di manifestanti furono raggiunti da mezzi più tradizionali. Con le dimissioni di Mubarak, la prima battaglia dei “ragazzi di piazza Tahrir” era stata vinta, ma già da marzo furono organizzate proteste contro il nuovo governo, accusato di procedere troppo lentamente lungo la strada delle riforme e dei processi contro gli uomini del passato regime. I Fratelli musulmani, che erano il gruppo più organizzato e godevano delle simpatie di una parte dell’esercito, diventarono, intanto, sempre più protagonisti. Il 9 marzo, l’esercito rimosse con la forza

Anche l’Arabia Saudita e la Turchia – le due maggiori potenze dell’islam sunnita, assieme all’Egitto – furono toccate dalle proteste politiche. La monarchia saudita, che, come gli emirati del Golfo Persico, cercava di conciliare una modernizzazione economica accelerata col mantenimento di una struttura di potere feudale, riuscì a tenere sotto controllo la situazione, alternando la repressione del dissenso a qualche misura di sostegno ai ceti più poveri e a qualche timido intervento liberalizzatore: fu abolito ad esempio il divieto per le donne di guidare l’auto o di assistere a manifestazioni sportive.

L’Arabia Saudita

le tende che ancora permanevano nella piazza, mettendo fine al presidio della rivoluzione: i tentativi di rioccuparla naufragarono in poco tempo. Il fronte di midan al-Tahrir, inoltre, iniziò a sgretolarsi dall’interno: islamici e opposizioni liberali, infatti, a volte si ritrovarono in piazza separatamente. In generale, però, le proteste continuarono e a luglio, sotto la pressione di centinaia di migliaia di manifestanti che avevano occupato nuovamente la piazza, fu varato un nuovo governo militare. Nel novembre e nel dicembre 2011 si tornò a protestare a piazza Tahrir: sempre più spesso gli islamisti manifestavano separatamente dalle altre opposizioni. Nel giugno 2012, a seguito della vittoria elet-

torale, fu nominato presidente il candidato dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi. Il nuovo governo, che aveva una chiara impronta islamista, scontentò presto le opposizioni liberali e parte dei ragazzi di piazza Tahrir: dall’ottobre 2012, essa diventò il centro dell’opposizione contro Morsi. Tra la fine di giugno e l’inizio del luglio 2013, centinaia di migliaia di persone manifestarono chiedendo le sue dimissioni: decine di donne che manifestavano con loro, nei dintorni di piazza Tahrir, subirono aggressioni e violenze sessuali, forse come “punizione” per la loro emancipazione. Il 3 luglio 2013, Morsi fu arrestato e fu instaurato un nuovo governo militare. Iniziò, così, un nuovo ciclo di prote-

ste con protagonisti i Fratelli musulmani, che identificarono nel cambio di governo un vero e proprio colpo di Stato. Nelle settimane e nei mesi successivi, furono loro a scontrarsi più violentemente con la polizia, lasciando a terra decine di morti. La concordia che regnava a piazza Tahrir nel gennaio 2011 era definitivamente tramontata: le antiche fratture della società egiziana, basate in gran parte sulla contrapposizione tra laicismo e integralismo religioso, erano riemerse con una forza tale da lasciare poco spazio al confronto e alla concordia. Proteste a Piazza Tahrir Il Cairo, 29 luglio 2011 [foto Ahmed Abd El-Fatah] 

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La Repubblica turca, che si reggeva su istituzioni democratico-rappresentative ed era membro dell’Alleanza atlantica, vide invece emergere il contrasto fra le aspirazioni di una società civile avanzata e vicina all’Europa, forte nei maggiori centri urbani, e una diffusa riscoperta dell’islam tradizionale, che si manifestava soprattutto nelle zone rurali e montane del paese, solo in parte toccate dalla rivoluzione di Atatürk. Questa tendenza fu incoraggiata dal governo di Tayyp Erdoğan, al potere dal 2002 alla guida di un partito islamico-moderato [►19_6]. Sotto Erdoğan, la Turchia fu protagonista di un intenso sviluppo economico che la inserì stabilmente nel gruppo delle potenze emergenti e ne accrebbe il peso politico nell’area mediorientale. Ma questo non bastò a far tacere la protesta dell’opinione pubblica laica e progressista contro la reintroduzione di costumi e pratiche religiose tradizionali e contro i metodi autoritari del primo ministro. Ne furono testimonianza le imponenti manifestazioni popolari che si tennero a Istanbul nell’estate 2013, nate come protesta contro la decisione di smantellare un parco pubblico per costruirvi un centro commerciale, ma indirizzate in realtà contro il governo e il suo scarso rispetto dei fondamenti laici dello Stato. Erdoğan riuscì tuttavia a mantenere la sua base di consenso, a farsi eleggere nel 2014 alla presidenza della Repubblica e poi a far approvare mediante referendum (maggio 2017) una riforma costituzionale che accresceva i poteri del capo dello Stato. In questi anni la Turchia fu scossa da una serie di sanguinosi attentati, riconducibili in parte ai gruppi fondamentalisti, in parte agli indipendentisti curdi. Nel luglio 2016, Erdoğan dovette fronteggiare un tentativo di colpo di Stato organizzato da una parte delle forze armate. Il tentativo fallì, ma la reazione fu ugualmente durissima: migliaia di militari, insegnanti, magistrati e impiegati dello Stato furono arrestati; e ancora maggiore fu il numero dei dipendenti pubblici destituiti dai loro incarichi.

La Turchia di Erdog˘an

Qualche segno di apertura si registrò in questo periodo nell’altro grande Stato islamico e non arabo del Medio Oriente, l’Iran. Qui, nel 2009, Mahmoud Ahmadinejad [►23_3], espressione del fondamentalismo sciita, fu confermato alla presidenza in un’elezione caratterizzata da pressioni e manipolazioni. La protesta, soprattutto giovanile, che seguì il contestato verdetto elettorale fu repressa sanguinosamente, ma rivelò l’esistenza di profonde fratture tra gli stessi leader religiosi che detenevano di fatto il controllo del paese. Ahmadinejad confermò comunque la sua linea antioccidentale, a partire dalla politica nucleare, nonostante le ripetute condanne delle Nazioni unite, che comminarono severe sanzioni all’Iran. Nelle

Radicali e moderati in Iran

26_NUMERO DI MORTI PER TERRORISMO. ANNI 2000-2014 35.000 30.000

Iraq Afghanistan Nigeria

Morti per terrorismo

25.000 20.000 15.000 10.000

Resto del mondo Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) Turchia e Israele

5.000 0 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016

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Il grafico è stato elaborato dall’Institute for Economics and Peace, un gruppo di ricerca internazionale che analizza annualmente lo stato dei conflitti nel mondo e attribuisce a ciascun paese o area geografica un “indice della pace” in base alla sua capacità di risolvere i contrasti senza ricorrere alla violenza. Nel 2016 cinque paesi – Iraq, Afghanistan, Siria, Nigeria e Pakistan, contano i tre quarti del totale dei decessi per terrorismo. Il primato è dell’Iraq, con 9765 morti, 2800 in più rispetto al 2015.

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

PROTESTE NEL MONDO ISLAMICO

Nel 2011 proteste “giovanili” contro i regimi autoritari in...

TUNISIA

EGITTO

LIBIA

SIRIA

ARABIA

TURCHIA

Fine del regime di Ben Ali

Fine del regime di Mubarak

Intervento occidentale contro la repressione di Gheddafi

Repressione di Assad nei confronti dei ribelli

Repressione del dissenso e limitata modernizzazione

Protesta delle forze laiche contro la reislamizzazione favorita da Erdog˘an

A un primo successo dei partiti islamici segue la vittoria dei progressisti nel 2014

Nuovo regime autoritario di stampo militare di al-Sisi (2014)

Morte del dittatore e guerra civile (2011)

Intervento di gruppi terroristici islamici Guerra civile

Dura repressione dopo il fallito colpo di Stato del 2016

successive elezioni del 2013 – e poi in quelle del 2017 – vinse invece il più moderato Hassan Rouhani, che promise qualche apertura in tema di diritti civili e, dopo una lunga trattativa, riuscì a concludere, nel luglio 2015, un accordo sul programma nucleare sottoscritto dalle maggiori potenze mondiali (i cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania): in cambio di un graduale ritiro delle sanzioni, l’Iran si impegnava a usare i suoi impianti nucleari solo per scopi civili e ad accettare controlli periodici da parte dell’Onu. Un accordo che sarebbe stato rimesso in discussione con l’arrivo alla presidenza di Donald Trump [►24_3]. Restavano intanto forti le tensioni negli altri punti caldi dell’area mediorientale. Per quanto riguarda il conflitto tra israeliani e palestinesi, i tentativi compiuti dalla comunità internazionale, soprattutto per iniziativa statunitense, di riavviare i negoziati per un nuovo processo di pace non approdarono a risultati significativi. E lunghe fasi di tregua continuarono ad alternarsi a sporadici episodi di violenza. In Iraq, il ritiro delle truppe statunitensi, conclusosi nel dicembre 2011, non fu seguito da una pacificazione. Il paese restò diviso tra gli sciiti, che controllavano il nuovo governo, e i sunniti, già etnia dominante con Saddam Hussein e ora sacrificati nella distribuzione del potere METODO DI STUDIO e delle risorse. A tutto questo si aggiungevano le aspirazioni dei curdi, che, forti  a   Sottolinea con colori diversi cause ed esiti del contributo fornito alla lotta contro il fondamentalismo, speravano di fare del della rivolta in Tunisia. territorio da loro controllato il nucleo di un nuovo Stato indipendente: un pro b   Cerchia i nomi dei paesi coinvolti dalla “prigetto cui si opponevano non solo il governo iracheno, ma anche la Turchia e gli mavera araba” e sottolinea le relative parole chiave. Argomenta per iscritto le tue scelte. altri Stati (Iran e Siria) che ospitavano minoranze curde entro i loro confini.

Questioni aperte



24_8 L’ISIS E I CONFLITTI NEL MONDO ISLAMICO

In questo contesto già difficile, a partire dal 2014 si affermò in Iraq una nuova formazione armata di estremisti sunniti che si presentava come nucleo di un nuovo Stato islamico (poi denominato Is o Isis, ovvero “Stato islamico di Iraq e Siria”, o in arabo Daesh, “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”) [►FS, 202]. L’Isis proclamava la sua intenzione di

Lo Stato islamico

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

imporre il dominio dell’islam ortodosso, restaurandone la suprema autorità politica e religiosa, il califfato, e combattendo senza quartiere contro tutti gli “infedeli”: dai cristiani ai musulmani sciiti e in genere a tutti coloro che non si piegavano alle rigide prescrizioni dei fondamentalisti. Le truppe dell’autoproclamato “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi – in cui confluivano spezzoni di Al Qaeda e di altri movimenti integralisti, ma anche sunniti iracheni insofferenti del predominio sciita o ex seguaci di Saddam Hussein – riuscirono a strappare alle forze regolari, divise e demotivate, il controllo di ampie zone dell’Iraq, impadronendosi di grandi quantità di armi e sfruttando le risorse petrolifere delle aree conquistate, per poi mettere radici anche nella Siria sconvolta dalla guerra civile. Successivamente, cellule del sedicente califfato si espandevano anche nel Nord Africa (in particolare nella Libia ancora contesa fra le fazioni in lotta) e nella stessa Africa subsahariana, proponendosi come riferimento per tutti i movimenti fondamentalisti e antioccidentali. Nelle milizie del califfato confluirono volontari provenienti prevalentemente dai paesi islamici, ma anche molti giovani cresciuti in Occidente (i cosiddetti foreign fighters, “combattenti stranieri”) [►FS, 203d e 204].

Palmira oggi e prima delle distruzioni operate dai miliziani dell’Isis

Nei territori da loro controllati, i miliziani dell’Isis instaurarono un regime di terrore, a base di stragi di civili, di conversioni forzate, di razzie di donne e bambini, di sequestri a scopo di ricatto, di decapitazioni in pubblico e altri macabri rituali, filmati e diffusi ovunque attraverso la Rete. Furono inoltre distrutti, con l’intento di cancellare dalla storia tutto ciò che non potesse essere ricondotto all’islam, monumenti, statue e interi siti archeologici di valore inestimabile, come i resti di età romana dell’antichissima città di Palmira, in Siria.

Un regime di terrore

Alle violenze praticate nei territori in guerra si affiancò l’attività di piccole cellule di terroristi, che colpivano con sanguinosi attentati sia i paesi musulmani (Yemen, Nigeria, Egitto, Tunisia, Turchia, Libano, oltre a Iraq e Siria), sia le metropoli europee dove era più facile per gli attentatori confondersi nelle comunità islamiche immigrate [►FS, 205]. Gli attentati in territorio europeo, per citare solo i più gravi di questa fase, si verificarono a Parigi, contro la redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” il 7 gennaio 2015, ancora nella capitale francese, in una affollatissima sala da concerto (il “Bataclan”) il 13 novembre 2015 (con oltre 130 morti), a Bruxelles il 22 marzo 2016, a Nizza il 14 luglio, a Berlino il 19 dicembre dello stesso anno, a Londra il 6 giugno e a Barcellona il 17 agosto 2017.

Gli attentati

Per bloccare la diffusione di questa utopia sanguinaria, si formò, nell’estate 2014, una coalizione che vedeva schierati, accanto agli Stati Uniti, al Regno Unito e alla Francia, anche molti Stati arabi moderati (Egitto, Giordania, Libano, Arabia Saudita, Emirati del Golfo), a cui l’anno successivo si aggiunsero la Turchia e la 942

La coalizione anti-Isis

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

Lucille Clerc, La satira non si spezza: tributo alla rivista francese «Charlie Hebdo» Nelle ore successive all’attentato contro la rivista francese «Charlie Hebdo», avvenuto a Parigi il 7 gennaio 2015, si diffuse su Internet una immagine che raffigura una matita (“ieri”) che nel giorno dell’attentato (“oggi”) viene spezzata ma che l’indomani si trasforma in due matite. L’immagine, pubblicata su Instagram, venne inizialmente attribuita al famoso street artist Banksy; il disegno è stato realizzato invece da un’illustratrice londinese, Lucille Clerc, subito dopo aver appreso dell’attacco terroristico.

Le macerie nella città siriana di Kobanê dopo gli scontri tra militanti Isis e gruppi armati curdi 12 marzo 2015 [Photo by Halil Fidan / Anadolu Agency / Getty Images] 

Russia, mentre numerosi altri paesi, fra cui l’Italia, fornirono armi, addestramento e soccorsi umanitari. Non era previsto l’impiego di truppe di terra, ma solo di raid aerei per colpire le basi dell’Isis e aiutare la resistenza dei curdi iracheni, investiti dall’offensiva fondamentalista. L’intervento aereo non ebbe in un primo tempo effetti risolutivi, anche per le divergenze emerse nella coalizione sulla strategia da adottare, soprattutto nei confronti del regime siriano di Assad, già sotto accusa da parte dell’Occidente per la sistematica violazione dei diritti umani, ma oggettivamente alleato nella lotta contro il califfato che occupava una parte del suo territorio. La Russia, da tempo alleata del regime siriano, indirizzò la sua azione non solo contro lo Stato islamico, ma anche contro altri gruppi che si opponevano ad Assad. La Turchia, a sua volta, cercava di colpire gli indipendentisti curdi, fra i principali protagonisti della resistenza all’Isis. Alla fine del 2016, il regime di Erdog˘an si avvicinò alla Russia e ai suoi alleati: l’Iran sciita e la Siria di Assad, che, grazie soprattutto all’appoggio militare russo, riuscì, dopo anni di guerra sanguinosissima, a riprendere il controllo di gran parte del suo territorio. Si creava così un asse sciita che dall’Iran, attraverso l’Iraq e la Siria, giungeva fino al Libano ed era sentito come una minaccia da Israele e dagli Stati sunniti della zona (Egitto, Giordania, Arabia Saudita). Questi contrasti non impedirono alla coalizione anti-Isis di ottenere significativi successi. Nel 2016 le forze del califfato cominciarono a ripiegare: in autunno avevano perso circa un terzo dei territori conquistati nelle prime offensive. Nel 2017 l’Isis dovette abbandonare le città conquistate, come Mosul e Raqqa, e la sua presenza si ridusse a pochi nuclei isolati.

I contrasti nella coalizione

Lo Stato islamico perse così la sua base territoriale. Ma i suoi combattenti non deposero le armi. Al contrario, si riorganizzarono in nuclei più piccoli disseminati in diversi paesi e fecero sentire la loro presenza col frequente ricorso a una nuova modalità di attentati: quella affidata a individui apparentemente isolati (ma spesso legati a reti clandestine), che agivano contro obiettivi politicamente non significativi e con mezzi rudimentali, come le armi da taglio o le auto, usate per investire passanti a caso. Una forma di terrore insidiosa quanto imprevedibile, che certo contribuì a diffondere un senso di angoscia e di precarietà sia in Europa sia nel mondo islamico.

Il terrorismo diffuso

METODO DI STUDIO

 a   Evidenzia la definizione di Isis e sottolineane le principali caratteristiche.  b   Spiega la relazione fra gli attentati verificatisi in Europa dal 2015 e l’Isis e quali sono state le strategie adottate per fronteggiare questa situazione.  c  Cerchia i nomi degli Stati aderenti alla coalizione anti-Isis e sottolinea, con colori diversi, le strategie adottate, i problemi incontrati e le conseguenze a livello internazionale.

943

C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

SINTESI

24_1 CRISI FINANZIARIA, CRISI ECONOMICA La crisi finanziaria innescata nell’estate del 2007 ebbe origine dall’esplosione negli Stati Uniti della “bolla” dei mutui immobiliari, prestiti ad alto tasso d’interesse concessi senza adeguate garanzie, a fronte dei quali le banche avevano emesso titoli “derivati” per diluire il rischio finanziario. Quando i prezzi degli immobili cominciarono a scendere e i tassi di interesse sui mutui salirono, molti acquirenti di case non furono più in grado di risarcire il prestito. Le banche persero ingenti capitali, e alcune fallirono, come il colosso statunitense Lehman Brothers (2008). La crisi si diffuse ovunque e, oltre che sul settore finanziario (banche e borse valori), si rifletté immediatamente sulla economia reale. Si contrasse il credito alle imprese da parte delle banche, con il calo di investimenti, produzione, redditi e consumi.

tassi di interesse. L’economia statunitense tornò a crescere, la disoccupazione scese e la ripresa proseguì negli anni del secondo mandato di Obama, rieletto nel 2012. La riforma sanitaria estese le coperture assicurative a 32 milioni di americani. In politica estera, Obama manifestò un approccio fondato sul dialogo con il mondo islamico: accelerò i tempi del disimpegno militare dall’Iraq, concluso nel 2011, e in Afghanistan avviò un ritiro graduale dal paese, mai pacificato. Molti consideravano i risultati ottenuti da Obama inferiori alle aspettative: evidenti erano ancora le conseguenze sociali della crisi, mentre in politica estera pesavano le incertezze manifestate nella lotta al terrorismo. A questi motivi di scontento, oltre che a un diffuso atteggiamento di protesta contro la classe politica, va ricondotto il risultato clamoroso delle elezioni presidenziali del novembre 2016, che videro la vittoria del repubblicano Donald Trump.

24_4 LA RUSSIA DI PUTIN

24_3 DA OBAMA A TRUMP 24_2 GLI STATI UNITI E LA PRESIDENZA OBAMA

944

Il democratico Barack Obama (eletto nel 2008), primo presidente afroamericano nella storia degli Usa, varò subito un ampio piano di investimenti statali in infrastrutture, sanità, educazione e sostenne i settori produttivi in difficoltà, mentre la Banca centrale abbassava i

sul clima del 2015; solo grazie all’opposizione di una parte del suo stesso partito, non riuscì a cancellare la riforma sanitaria voluta da Obama. In politica estera, respinse l’accordo sul necleare sottoscritto da Obama con l’Iran; nel dicembre 2017 annunciò lo spostamento dell’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv alla capitale Gerusalemme, suscitando la condanna delle Nazioni Unite. Il più grave fattore di tensione venne, però, dalla Corea del Nord, dove il dittatore Kim Jong Un stava accelerando il programma di armamento nucleare, mettendo in atto una serie di esperimenti, che suonavano come sfida alle potenze vicine e agli stessi Stati Uniti. Rievocando i toni della della guerra fredda, Trump minacciò di distruggere la Corea del Nord che rispose con analoghi avvertimenti.

Nelle elezioni presidenziali del novembre 2016, la candidata democratica Hillary Clinton fu sconfitta dal repubblicano Donald Trump, discusso imprenditore miliardario e personaggio televisivo, che sin da subito si collocò su una linea d’intervento opposta a quella del suo predecessore: inasprì i provvedimenti in materia di immigrazione e ritirò l’adesione degli Stati Uniti agli accordi di Parigi

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

La Russia arginò gli effetti della crisi globale grazie alla disponibilità di materie prime e di fonti energetiche, inserendosi stabilmente nel gruppo di punta dei paesi emergenti (Brics). Sul piano politico la Russia di Putin fu caratterizzata da una crescente stabilità ma anche da una pratica illiberale e autoritaria nei confronti delle opposizioni interne e delle spinte indipendentistiche nei territori delle ex repubbliche sovietiche. Nel 2013-14 scoppiò un conflitto con l’Ucraina, teatro di forti contrasti a sfondo etnico fra le componenti filorusse e quelle filo-occidentali.

24_5 L’EUROPA E LA CRISI DEL DEBITO L’Europa subì le conseguenze più profonde della crisi, piombando, con la parziale eccezione della Germania, in una prolungata recessione: a determinare questo stato contribuirono i vincoli Ue alla spesa pubblica e l’assenza di un governo comune dell’economia. La crisi aggravò ovunque il debito pubblico degli Stati europei, ma fu l’area mediterranea – Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – a fronteggiare la situazione più difficile. In particolare, la prospettiva di un possibile fallimento greco provocò reazioni a catena in tutta l’area dell’euro. Su impulso della Germania, questi paesi attuarono politiche di austerità che scongiurarono il fallimento, ma non aiutarono l’Europa a uscire dalla recessione. Segni evidenti di ripresa si manifestarono solo a partire dal 2015.

24_6 L’AVANZATA DEI POPULISMI In questo contesto di crisi presero forza i movimenti politici populisti, molto critici nei confronti delle politiche europee e favorevoli invece a un ritorno alle monete nazionali. Regimi populisti si affermarono nell’Europa dell’Est (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca), mentre l’arrivo di

grandi masse di profughi provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente assecondava il diffondersi di sentimenti nazionalisti, alimentati dalla paura di eventuali attacchi terroristici. A sostenere simili posizioni erano soprattutto partiti di destra, in Francia, ma anche movimenti decisamente a sinistra, come gli spagnoli di Podemos o i greci di Syriza, risultati vincitori alle elezioni del 2015. Nel giugno 2016 in Gran Bretagna, la maggioranza dei cittadini si espresse per l’uscita dalla Ue in un referendum indetto dal governo. Le elezioni che si tennero nel 2017 in vari Stati europei mostrarono però che, nonostante le difficoltà dei partiti tradizionali, l’ondata populista accennava a esaurirsi. In Francia le elezioni presidenziali del 2017 videro prevalere Emmanuel Macron, leader di un nuovo movimento (En marche!, “In marcia!”), con un programma di ispirazione liberale e convintamente europeista. Nell’autunno del 2017, un nuovo scenario di tensione si aprì in Catalogna, dove, a seguito di un referendum, venne proclamata una repubblica indipendente. Con il sostegno dell’Unione europea, il governo spagnolo si oppose a queste iniziative, che violavano la costituzione, facendo arrestare alcuni fra i capi dei separatisti.

24_7 LE “PRIMAVERE ARABE” Nel corso del 2011, un generale sommovimento politico sconvolse parte del mondo arabo-islamico. La protesta scoppiò in Tunisia, nel dicembre 2010, contro la corruzione del regime autoritario guidato da Ben Ali e da lì si diffuse in Egitto, dove a inizio 2011 imponenti manifestazioni di piazza provocarono la caduta del presidente Hosni Mubarak. Il successivo governo di Mohammed Morsi, leader del partito islamico dei Fratelli musulmani, fece approvare nel 2012 una Costituzione a forte impronta islamista, ma fu deposto per l’intervento dell’esercito. Il potere fu assunto dal generale Abdel Fattah al-Sisi, che nel 2014 fu eletto presidente. A febbraio 2011, era scoppiata la protesta anche in Libia contro la dittatura del colonnello Gheddafi, che scatenò una cruenta repressione nei confronti dei ribelli. Nell’ottobre 2011 il dittatore, contro il quale si erano schierati anche alcuni paesi occidentali, fu catturato e ucciso dai ribelli. Gli sviluppi più drammatici si ebbero però in Siria, dove il regime del dittatore Assad mise in

atto una feroce repressione dei moti popolari dando inizio a una sanguinosissima guerra civile. In Turchia, sotto il governo di Erdoğan, si ebbe un intenso sviluppo economico, ma la progressiva reintroduzione di costumi e pratiche religiose tradizionali in una società in gran parte occidentalizzata provocò un malcontento che sfociò anche in aperte manifestazioni di protesta. Nel luglio 2016, Erdoğan dovette fronteggiare un tentativo di colpo di Stato organizzato da una parte delle forze armate, che fallì e fu duramente represso. In Iran, dopo la stagione segnata dalla leadership di Mahmoud Ahmadinejad, espressione del fondamentalismo islamico. Nel 2013 fu eletto presidente il moderato Hassan Rouhani, che concesse aperture in tema di diritti civili e concluse, nel luglio 2015, un accordo con le maggiori potenze mondiali sul programma nucleare iraniano.

di matrice sunnita che si presentava sotto le insegne del cosiddetto Stato islamico (Is, Isis o Daesh). Imporre l’egemonia dell’islam radicale, restaurare il califfato, la suprema autorità politicoreligiosa del dissolto impero islamico, combattere contro tutti gli “infedeli”: questi gli obiettivi dell’autoproclamato “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. Nei territori controllati, i miliziani dell’Is instaurarono un regime di violenze e terrore. La strategia terroristica dell’Isis sfociò in sanguinosi attentati che colpirono sia i paesi musulmani, sia le metropoli europee. Nel 2014 si formò una coalizione anti-Isis che comprendeva gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e anche diversi Stati arabi. Anche la Russia, da tempo alleata del regime siriano, intervenne militarmente contro lo Stato islamico e le fazioni che si opponevano al regime di Assad. Tra il 2015 e il 2016, nonostante i contrasti interni, la coalizione internazionale costrinse le forze dell’Isis a ripiegare: nel 2017 la presenza del califfato si ridusse a pochi nuclei isolati.

24_8 L’ISIS E I CONFLITTI NEL MONDO ISLAMICO In uno scenario già compromesso si affermò nei territori tra l’Iraq e la Siria un’organizzazione armata

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C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

SVILUPPARE LE COMPETENZE CONOSCENZE E ABILITÀ

1 Abbina i nomi dei seguenti Stati alle relative caratteristiche ed eventi.

a. Stati Uniti d’America – presidenza Obama

1. Viene proibito temporaneamente l’ingresso negli Usa dei cittadini di sette paesi a forte presenza terroristica, sospesi i programmi di assistenza ai rifugiati ed è stato inasprito il contrasto all’immigrazione clandestina. 2. Nel 2008 si è verificata una forte crisi delle banche determinata dalla reazione a catena della caduta del mercato immobiliare, del crollo del valore dei titoli collegati ai mutui e della mancata restituzione dei prestiti. 3. Il presidente ha minacciato di distruggere la Corea del Nord. b. Russia 4. Lo sviluppo economico è mescolato all’autoritarismo politico e al protagonismo in campo internazionale soprattutto grazie alla disponibilità di materie prime e di fonti energetiche (petrolio e gas). 5. Negli ultimi anni è stato portato avanti un piano di investimenti statali per infrastrutture, educazione, sanità, energie rinnovabili, espansione delle tutele ai disoccupati e sgravi fiscali diretti al ceto medio, mentre sono stati favoriti i settori produttivi più in difficoltà. 6. Il presidente ha deciso di ritirare l’adesione degli Stati Uniti agli accordi di Parigi sul clima del 2015. c. Stati Uniti d’America – presidenza Trump 7. È stata protagonista nel 2008 di una breve guerra contro la Georgia e, nel 2013-14, di una crisi scoppiata in Ucraina. 8. Ha avuto contingenti militari in Iraq fino al 2011 e altri ancora presenti in Afghanistan. 2 Completa il seguente schema relativo alla recessione innescatasi nel 2007 inserendo le affermazioni date.

Basso ● mise in crisi ● non furono più in grado di pagare le somme dovute ● prestiti ad alto tasso d’interesse ● ridurre acquisti e investimenti ● salirono ● i paesi industrializzati dell’Occidente ● degli istituti finanziari più in difficoltà ● titoli collegati ai mutui ● entrò in una fase di recessione ● ridussero i consumi ● l’esplosione della “bolla” dei mutui immobiliari negli Stati Uniti ● cominciarono a scendere ● ritirarono in fretta il denaro dalle banche ● rallentarono ma non arrestarono del tutto la crescita ● ridussero i prestiti alle imprese ● dovettero limitare la propria attività

La recessione del 2007 Paesi principalmente colpiti: ....................................................................................................................................................................... Causa: .................................................................................................................................................................................................... Negli Stati Uniti Situazione precedente: Le banche concedevano ........................................................................... per l’acquisto di case anche a coloro che avevano un reddito ........................................................................... senza garanzie, se non il valore delle stesse abitazioni. Nell’estate del 2007: i prezzi degli immobili ........................................................................... e i tassi di interesse sui mutui ........................... ................................................. Molti di coloro che avevano acquistato una casa .......................................................................................... La caduta del mercato immobiliare determinò il crollo del valore dei ........................................................................... (derivati), posseduti dagli istituti bancari. La mancata restituzione dei prestiti ........................................................................... le banche. Al di fuori di Stati Uniti, Europa e Asia In seguito al crollo del valore dei derivati acquistati dalle banche europee e in parte da quelle asiatiche, molti risparmiatori ........................................ .................................... Nelle principali borse si moltiplicarono le vendite di titoli ............................................................................................

946

Per fronteggiare le perdite, le banche .......................................................................................................................................................... Le imprese dovettero ................................................................................................................................................................................ Le famiglie .............................................................................................................................................................................................. I produttori di beni e servizi ....................................................................................................................................................................... Nel Nord America e in Europa l’economia ..................................................................................................................................................... Le potenze emergenti ...............................................................................................................................................................................

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

3 Completa il seguente schema relativo alle politiche di austerità in Europa seguendo le indicazioni delle 5W+1H: who,

what, where, when, why, how (chi, cosa, dove, quando, perché, come). Spiega infine quali sono state le conseguenze delle soluzioni adottate. CHI

COSA

Le politiche di austerità in Europa

Furono adottate da ... .................................................

Consistevano in ........................ ................................................

DOVE

................................................

QUANDO

................................................

Furono adottate per fronteggiare la crisi che aveva avuto origine in ...................... e che aveva PERCHÉ

causato l’aumento dello ..................... in alcuni paesi e in particolare in ..................... dove si era rischiato il fallimento

Esse furono affiancate nell’anno ......................., dalla strategia COME

della .............................. che si dichiarò disposta all’acquisto di grandi quantità di titoli dei paesi più indebitati

CONSEGUENZE: .........................................................................................................................................................................................

4 Inserisci le parole fornite per completare il grafico a stella a pagina seguente relativo alle “primavere arabe”. Quindi

argomenta oralmente le tue scelte. Mahmoud Ahmadinejad ● timidi interventi liberalizzatori ● libere elezioni ● Hassan Rouhani ● partiti islamici ● un giovane venditore ambulante si diede fuoco ● indipendentisti curdi ● piazza Tahrir ● Hosni Mubarak ● Bashar al-Assad ● Mohammed Morsi ● linea antioccidentale ● nuova costituzione a carattere islamista ● regime militare autoritario ● Muhammar Gheddafi ● violenta repressione ● bombardamenti Nato ● programma nucleare ● guerra civile ● repressione ● sostegno ai più poveri ● sanguinosi attentati ● Tayyp Erdog˘ an ● Ben Ali ● tentativo di colpo di Stato ● vittoria della forze laiche e moderate

947

C24 SCENARI DEL XXI SECOLO

Tunisia

Iran

.................

.................

................

................

Libia

Egitto Primavere arabe

.................

................. ................

................

Turchia ................. ................

Siria ................. ................

Arabia Saudita ......................... .........................

COMPETENZE IN AZIONE

5 Che significato ha avuto l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti? Cerca in Rete uno o più articoli

di giornale pubblicati nei giorni successivi alla sua elezione (novembre 2008) e scrivi un testo di 20 righe. Quindi fai lo stesso per l’elezione di Donald Trump (novembre 2016).

6 Scrivi un articolo di giornale sui nuovi populismi facendo riferimento ad almeno due esperienze nazionali diverse.

Esprimi il tuo punto di vista sulle posizioni populiste rispetto all’Unione europea che hai preso in considerazione.

7 Scrivi un testo di massimo 20 righe in cui affronti la nascita dello Stato islamico e le sue conseguenze a livello

internazionale. Sviluppa i punti forniti e scegli un titolo per il tuo elaborato. Seleziona almeno due fra immagini/carte geostoriche/grafici presenti nel capitolo e utilizzali a corredo del testo. Ricordati di numerarli e di citarli fra parentesi quando vi fai riferimento.

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a. Localizzazione geografica dello Stato islamico b. Sue radici storiche c. Gli obiettivi militari e politici d. Le strategie adottate e. Le conseguenze e reazioni in Occidente

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

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CAP25 L’ITALIA NEL XXI SECOLO

25_1 LE TRASFORMAZIONI SOCIALI

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Focus La personalizzazione della politica Audiosintesi

► Leggi anche: ►   Focus La personalizzazione della politica

L’Italia si presentava agli appuntamenti del nuovo millennio con un sistema politico radicalmente rinnovato e una società attraversata da rapide trasformazioni. Con quasi 58 milioni di abitanti nel 2000 e oltre 60 nel 2011, affiancava Gran Bretagna e Francia nel gruppo dei paesi più popolosi dell’Unione europea dopo la Germania. Ma con un incremento demografico prossimo allo zero, con il più basso numero medio di figli per donna in età feconda (1,35 nel 2015) e una percentuale di popolazione sotto i 15 anni (13,8 % sempre nel 2015) inferiore a ogni Una coppia gay subito dopo la celebrazione delle nozze, altro paese dell’Europa occidentale, affidava il suo sviluppo Manchester 2013 [foto di Andreu Doz] demografico alla maggiore prolificità degli immigrati. I ma- In molti paesi occidentali gli omosessuali hanno conquistato importanti diritti, trimoni e le nascite avevano cominciato a diminuire dalla primo fra tutti quello di contrarre “unioni civili”, diritto che ne comporta altri fondamentali, come quello che riguarda la reversibilità della pensione, il diritto metà degli anni ’60; e verso la fine dei ’70 l’Italia era scesa, alla successione in caso di morte del partner, l’assistenza negli ospedali e carceri, gli assegni familiari. Ma ancora in molti Stati (in particolare in con meno di due figli per donna, al di sotto del tasso di ri- nelle Africa e nel Medio Oriente) restano tuttora proibiti e puniti per legge, anche produzione necessario a mantenere almeno la popolazione con la pena capitale, i rapporti fra persone dello stesso sesso. In Italia l’unione civile tra persone dello stesso sesso è stata riconosciuta con la legge 76 del costante. Il binomio matrimonio-figli non sembrava essere 20 maggio 2016, la cosiddetta legge Cirinnà, dal nome della senatrice del Partito democratico promotrice e prima firmataria della norma. più per molti il perno intorno a cui costruire il futuro.

I mutamenti demografici

Avevano favorito questa rottura del modello tradizionale il nuovo ruolo della donna, una sessualità svincolata dalla riproduzione, il controllo consapevole delle nascite e in genere una complessiva secolarizzazione dei costumi. La maggiore diffusione di questi fenomeni nelle regioni a più alto reddito e con migliori servizi sociali suggeriva che nella scala dei valori fosse ormai salita al primo posto la difesa di un livello di benessere – da raggiungere e da conservare per sé e per i figli – all’interno di una progettazione razionale e prudente della vita e della famiglia. Accanto a questa trasformazione di fondo, anche in Italia si diffondeva il fenomeno dei singles, ossia dei nuclei familiari indipendenti formati da un solo individuo (uomo o donna), mentre si sviluppavano le nuove famiglie “allargate”, nate dalla scomposizione e ricomposizione di nuclei familiari, in seguito a divorzi e secondi matrimoni. A tutto questo si aggiungevano le unioni civili, ossia le convivenze fra persone dello stesso sesso, regolate in Italia da una legge del 2016.

Nuovi modelli familiari

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C25 L’ITALIA NEL XXi secolo

Il benessere e gli stili di vita un tempo riservati alle élite economiche e culturali si erano intanto diffusi in strati sempre più ampi. Le seconde case per vacanze e week-end, la nuova disponibilità per il tempo libero, la capillare motorizzazione a due e a quattro ruote (nel 2016 si contavano 625 autovetture ogni 1000 abitanti), fino alla più recente esplosione dei telefoni cellulari, segnalavano modelli di consumo largamente omologati. Accanto a questa omologazione, che si sommava a quella indotta dalla pervasività del linguaggio e del mezzo televisivo, persistevano profonde differenze culturali e di reddito.

L’omologazione dei consumi

Nel confronto con altri paesi europei come Francia e Germania, l’Italia, pur in presenza di un’alta scolarizzazione (all’inizio del nuovo secolo il 90% dei ragazzi si iscriveva alle superiori e il 70% dei diplomati entrava all’università), registrava percentuali inferiori di laureati e di diplomati, confermando l’inefficienza di un sistema formativo che da decenni cercava invano di riformarsi. Il possesso del titolo di studio era anche correlato con il livello del reddito, in un paese in cui la ricchezza continuava a concentrarsi nelle mani di pochi. Il 10% delle famiglie più ricche, infatti, aveva quasi il 45% dell’intera ricchezza di tutte le famiglie italiane. In una società in cui la coscienza e la solidarietà di classe si erano largamente indebolite in seguito al tramonto delle ideologie del socialismo e del comunismo, in cui la scena appariva dominata dalla articolata configurazione dei ceti medi, le differenze sociali derivavano soprattutto dalle disuguaglianze di reddito. E così la difesa dello status raggiunto e dei privilegi dei gruppi più tutelati (un lavoro stabile, il diritto alla pensione) ostacolava la mobilità sociale, che invece trovava nuovi sbocchi nelle professioni nate dalle tecnologie avanzate e nelle pieghe di un mercato del lavoro sempre più articolato e frammentato. Anche in Italia, dunque, erano forti i segni delle trasformazioni legate all’affermarsi della società postindustriale.

Disuguaglianze e difesa dei privilegi

Contemporaneamente mutavano le forme della partecipazione politica. Gli italiani tendevano in misura sempre maggiore ad allontanarsi dai partiti e ad accentuare la loro diffidenza nei confronti della politica, considerata nel suo insieme come luogo di intrighi e fonte di guadagni illeciti; oppure erano portati a concentrare i loro consensi e le loro speranze su singole personalità più che su programmi e scelte collettive: fenomeni, questi, che erano entrambi alla base del successo elettorale di un personaggio come Berlusconi. Quando i cittadini si mobilitavano, lo facevano per lo più su questioni settoriali, legate non tanto alle grandi ideologie, quanto ai concreti disagi originati dai nuovi assetti della società. Alla militanza nei partiti si andava così sostituendo, soprattutto da parte dei giovani, una sempre più diffusa adesione alle organizzazioni del volontariato, in primo luogo quelle facenti capo alla Chiesa cattolica, impegnate in un’importante attività di supporto e di supplenza alle carenze dell’intervento statale, in materia di assistenza ai soggetti economicamente e socialmente svantaggiati e, in particolare, ai migranti.

Nuove forme di partecipazione

Nel 2017 il numero dei residenti stranieri in Italia superò i cinque milioni, senza contare gli irregolari: una presenza indispensabile per il funzionamento della macchina produttiva – soprattutto nelle piccole imprese – e per l’assistenza degli anziani, ma responsabile, in alcune frange, di episodi di piccola criminalità. Il rifiuto nei confronti del diverso emergeva in varie aree del paese e soprattutto nel Nord, denunciando non solo il crescere dei pregiudizi, spesso fomentati da alcune forze politiche, ma anche la difficoltà culturale a misurarsi con una realtà che diventava sempre più multietnica.

Le reazioni all’arrivo dei migranti

Lo scambio virtuoso tra politica e società appariva interrotto da tempo, mentre si manifestavano, in Italia e fuori, diagnosi pessimistiche incentrate sulla permanente diversità politico-culturale del nostro paese. In effetti, nel paragone con il resto dell’Europa occidentale, emergeva un deficit di etica pubblica che appariva arduo recuperare in tempi brevi [►FS, 210]: alla diffusa corruzione di ampi settori della politica, dell’amministrazione pubblica e della società, al persistere di forme di criminalità organizzata in grado di controllare interi territori [►FS, 211d] si

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Il deficit di etica pubblica

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

mobilità sociale L’insieme dei cambiamenti di classe e di condizione sociale delle figlie e dei figli rispetto ai genitori, nel passaggio da una generazione all’altra (mobilità intergenerazionale), o di quelli che avvengono nel corso della vita di un individuo (mobilità intragenerazionale).

aggiungeva quel diffuso disprezzo delle regole che caratterizzava molti comportamenti pubblici e privati e che nell’opinione comune era a volte giustificato come espressione di una vitale creatività. E la classe politica, che già stentava a definire i contorni delle nuove istituzioni, appariva spesso inadeguata a proporre una nuova “pedagogia nazionale” all’altezza degli obiettivi imposti dal confronto europeo [►FS, 213].



METODO DI STUDIO

 a   Spiega per iscritto perché nel nuovo millennio lo sviluppo demografico in Italia è affidato agli immigrati.  b   Evidenzia con colori diversi le caratteristiche della società italiana nel nuovo millennio.  c  Sottolinea gli elementi che definiscono il concetto di “deficit di etica pubblica”.

25_2 LA STAGIONE DEL CENTRO-DESTRA

Negli ultimi anni del ’900, lo schieramento a guida berlusconiana, pur essendosi imposto come protagonista della nuova stagione politica, aveva governato solo per pochi mesi (quelli del primo governo Berlusconi nel 1994). Nel primo decennio del nuovo secolo i rapporti di forza cambiarono e fu il centro-destra a guidare il paese, con un solo intervallo di due anni (2006-2008). Rimasta compatta all’opposizione e riconciliatasi con la Lega, l’alleanza di centro-destra si presentò rafforzata alla scadenza elettorale del 2001, contro un centro-sinistra che invece era uscito logorato dall’esperienza di governo e, dopo due cambi alla presidenza del Consiglio [►20_8], si mostrava ancora incerto sul candidato-leader da contrapporre a Berlusconi. Alla fine, la scelta cadde su Francesco Rutelli, sindaco di Roma e leader della Margherita (la nuova formazione in cui erano confluiti il Ppi e altri gruppi minori di ispirazione cattolica). La coalizione di centro-sinistra riproponeva in sostanza quella dell’Ulivo e si fondava sull’alleanza fra i Ds [►20_8] e la Margherita. La coalizione di centro-destra, ora denominata Casa delle libertà (Cdl), era composta, come nel ’94, da Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega Nord ed ex democristiani dell’ala moderata. Nelle elezioni del 13 maggio 2001, la vittoria della Casa delle libertà risultò nettissima. Nella quota proporzionale, i partiti dell’Ulivo ottenevano complessivamente il 35%, mentre quelli della Cdl sfioravano il 50%. Il risultato delle elezioni mostrava come la coalizione di centro-destra avesse messo solide radici nel paese, grazie soprattutto alla capacità di Berlusconi di convogliare gran parte del voto moderato, in contrapposizione alla vecchia politica e alle sue inefficienze, presentate come frutto del malgoverno delle sinistre. Si consolidavano inoltre, nonostante l’assenza di una riforma istituzionale, i mutamenti intervenuti nel sistema politico a partire dal 1993-94: dalle urne usciva infatti un premier dotato di un’investitura popolare, sebbene indiretta (fino al 2013 il suo nome era presente nel simbolo della coalizione) e solo formalmente designato dal presidente della Repubblica.

Le elezioni del 2001

Il nuovo governo formato in giugno da Berlusconi, con Fini vicepresidente e Bossi ministro delle Riforme, incontrò presto una serie di difficoltà. Fra il 20 e il 22 luglio 2001, in occasione del vertice del G8 a Genova [►21_4], gravi incidenti, con la morte di un manifestante, sollevarono forti critiche sull’operato delle forze di polizia, che avevano risposto alle violenze dei dimostranti con una reazione sproporzionata a manifestazione già finita. Successivamente, alcune misure varate dal Parlamento, come l’abolizione delle tasse sulle successioni (che sarebbero state reintrodotte pochi anni dopo) o l’attenuazione delle pene previste per il falso in bilancio, apparvero a parte dell’opinione pubblica troppo mirate a tutelare le posizioni del presidente del Consiglio, che figurava ancora imputato in alcuni procedimenti penali. I problemi giudiziari del presidente del Consiglio suscitarono tensioni e dibattiti, mentre il conflitto tra Berlusconi e la magistratura arrivava spesso ad assumere toni esasperati.

Il governo Berlusconi

A rendere ancora più tesi i rapporti fra i due schieramenti contribuì il progetto di modifica dello Statuto dei lavoratori presentato nel 2002 dal governo al fine di rendere più flessibile il mercato del lavoro: il progetto incontrò l’aspra opposizione della Cgil e dei partiti di sinistra, che diedero vita a una serie di imponenti dimostrazioni di piazza. Nel tentativo di inserirsi in questi conflitti, una nuova formazione terroristica che riprendeva la sigla delle Brigate rosse – e che aveva già colpito a morte nel maggio 1999, a Roma, il giurista del lavoro Massimo

I punti di contrasto

951

C25 L’ITALIA NEL XXi secolo

D’Antona – uccise a Bologna, nel marzo 2002, Marco Biagi, uno degli ispiratori della politica governativa nel settore del lavoro. Un altro fattore di tensione venne dalla politica estera: il governo Berlusconi diede un forte sostegno, anche militare, alle iniziative belliche americane in Afghanistan avviate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ottenendo il sostanziale appoggio del centro-sinistra. Ma questo consenso venne meno nella primavera del 2003, quando il governo decise la partecipazione italiana al nuovo intervento militare americano in Iraq, osteggiato dal centro-sinistra. E le polemiche si intensificarono quando (12 novembre 2003) 19 italiani morirono in un attentato nella città di Nassiriya [►23_3]. Ritornava intanto d’attualità, in seno alla maggioranza, il problema di una revisione costituzionale, richiesta con forza dalla Lega. Nel novembre del 2005 si giunse quindi a varare una riforma che attribuiva ulteriori competenze alle regioni, istituiva un Senato federale e ampliava i poteri del presidente del Consiglio. Ma la riforma, sottoposta al giudizio degli elettori, sarebbe stata bocciata da un referendum confermativo nel giugno 2006. Alla fine del 2005, nell’imminenza delle nuove elezioni, la maggioranza di centro-destra impose anche la riforma della legge elettorale, abolendo i collegi uninominali e reintroducendo un criterio proporzionale nella distribuzione dei seggi, bilanciato da un cospicuo premio di maggioranza per la coalizione che avesse raccolto il maggior numero di voti, indipendentemente dalla percentuale ottenuta.

Riforma costituzionale e legge elettorale

Dal momento che la nuova legge favoriva i piccoli partiti all’interno delle coalizioni penalizzando invece quelli che si presentavano da soli, gli schieramenti formatisi in vista delle elezioni dell’aprile 2006 confermarono la logica bipolare della competizione politica: nessuna formazione di qualche rilievo si collocò al di fuori dei due poli. Il centro-destra ripresentava l’alleanza del 1994 e del 2001 (Forza Italia, An, Udc e Lega, più qualche gruppo minore di centro e di estrema destra); la coalizione di centro-sinistra, denominata Unione e sempre imperniata sull’alleanza fra Ds e Margherita, si estendeva su tutto il restante arco dello schieramento politico. Il centro-sinistra vinse con uno scarto minimo. E Romano Prodi, scelto nuovamente come

Le elezioni del 2006 e il secondo governo Prodi

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Manifesti elettorali di Berlusconi e Prodi a Roma aprile 2006

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

candidato premier a seguito di elezioni primarie, formò il nuovo governo in maggio, dopo che il Parlamento aveva eletto alla presidenza della Repubblica Giorgio Napolitano, storico dirigente dell’ala riformista del Pci e poi dei Ds. Ma la frammentazione del centro-sinistra e la limitata maggioranza di cui il governo disponeva al Senato resero il cammino dell’esecutivo ancor più faticoso di quanto non fosse stato nel 1996-2001; e ostacolarono l’attuazione dei progetti di riduzione del deficit di bilancio e di rilancio dell’economia. Le divisioni interne alla maggioranza non si limitavano peraltro ai temi economici, ma investivano un ampio arco di questioni: dai temi della bioetica (dove forte era il conflitto fra le componenti cattoliche e laiche) a quelli dell’ambiente e delle opere pubbliche; più serio di tutti il contrasto sulla politica estera, che vedeva i gruppi riformisti e filo-occidentali contrapposti ai partiti di estrema sinistra, legati a loro volta ai gruppi della contestazione pacifista e no-global. La debolezza del governo fu evidenziata anche dalla nascita, nell’ottobre del 2007, del Partito democratico (Pd) – risultato della fusione dei Ds, della Margherita e di altre formazioni minori – che mirava a riunificare in un solo partito le componenti storiche del fronte progressista. Il suo leader Walter Veltroni, sindaco di Roma, aveva deciso di presentarsi nelle future consultazioni elettorali rifiutando il sistema delle alleanze dell’Unione: il governo che, visti i margini ristretti di cui disponeva in Parlamento, si reggeva anche su quelle alleanze, ne risultò indebolito. La scelta di Veltroni accelerò un processo analogo nel centro-destra con la nascita, promossa da Berlusconi nel novembre del 2007, del Popolo della libertà (Pdl) in cui convergevano Forza Italia e Alleanza elezioni primarie nazionale.

Le nuove aggregazioni: Pd e Pdl

Nel febbraio 2008, la defezione di un piccolo gruppo di centro (l’Udeur del ministro della Giustizia Clemente Mastella) portò alla crisi del governo Prodi e, in aprile, alle elezioni anticipate. Di nuovo scattò la regola dell’alternanza; e il successo del Pdl fu nettissimo. Berlusconi formò rapidamente il suo nuovo governo, promettendo ancora una volta il rilancio dell’economia produttiva attraverso il taglio delle tasse. Questi propositi trovavano però un ostacolo insormontabile nelle condizioni della finanza pubblica e nei vincoli imposti dall’Unione europea, che costrinsero il governo a energici tagli della spesa, soprattutto nei settori dell’istruzione e della sanità. L’obiettivo era quello di contenere il deficit e di cominciare ad abbattere l’enorme montagna di un debito pubblico che non cessava di crescere per il peso degli interessi. Ma intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della crisi economica mondiale [►CAP24_1 e FS, 214], che avrebbe finito col compromettere, assieme alle speranze di ripresa, anche le fortune politiche di Berlusconi e del centro-destra.

Il ritorno del centro-destra



Si chiamano “primarie” quelle consultazioni elettorali – in uso negli Stati Uniti da metà ’800 e recentemente introdotte anche in alcuni Stati europei, fra cui l’Italia – mediante le quali gli iscritti o gli elettori di un partito vanno alle urne per scegliere i candidati alle cariche pubbliche, locali o nazionali: i designati dovranno poi affrontare nelle elezioni “vere” i candidati dei partiti avversari.

METODO DI STUDIO

 a   Cerchia i nomi dei capi di governo citati, evidenzia con colori diversi le parole chiave relative agli orientamenti assunti e sottolinea gli eventi principali verificatisi nei rispettivi mandati. Quindi argomenta per iscritto le tue scelte.  b   Sottolinea le modifiche che furono apportate alla legge elettorale alla fine del 2005.  c  Spiega in quale contesto storico e politico si formarono il Pd e il Pdl.

25_3 CRISI ECONOMICA E INSTABILITÀ POLITICA

Se, all’inizio degli anni ’90 del ’900, il sistema politico della Prima Repubblica era stato distrutto dall’effetto combinato dei mutamenti del quadro internazionale, delle difficoltà della finanza pubblica, dei referendum elettorali e delle inchieste giudiziarie sulla corruzione, furono soprattutto le conseguenze della crisi economica a sconvolgere il sistema bipolare fondato sulla competizione tra le variegate coalizioni di centro-sinistra e il centro-destra a guida berlusconiana. Subito dopo le elezioni del 2008, il centro-destra fu costretto ad affrontare i primi contraccolpi degli scossoni finanziari che si stavano propagando da oltreoceano. Il dinamismo dell’economia produttiva, già scarso, si ridusse, soprattutto nel settore delle piccole e medie imprese. E il governo fu costretto ad accantonare i più ambiziosi progetti di rilancio economico [►FS, 213 e 214].

Le conseguenze della crisi

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C25 L’ITALIA NEL XXi secolo

Nonostante queste difficoltà, e nonostante le ricorrenti polemiche che investivano le vicende giudiziarie di Berlusconi e i suoi stessi comportamenti privati, la posizione dell’esecutivo restava apparentemente solida. Le elezioni amministrative ed europee del giugno 2009, e poi le regionali della primavera 2010, confermavano i consensi per il centro-destra e attestavano il disorientamento del Pd, che non riusciva a trovare un amalgama fra le diverse culture e tradizioni confluite in quello schieramento politico. Nemmeno l’elezione (ottobre 2009) alla segreteria del partito di Pierluigi Bersani, attraverso il meccanismo delle elezioni primarie (già sperimentato per la designazione di Veltroni nel 2007 e prima ancora per quella di Prodi a candidato primo ministro nel 2005), sembrava restituire slancio e unità alla principale forza politica del centro-sinistra.

La tenuta del centro-destra

▲  Le

27_ANDAMENTO DELLO SPREAD BTP-BUND DAL 2011 AL 2013 [fonte: www.lastampa.it] 500

Spread Btp-Bund

400

300

culle italiane sono sempre più vuote L’Istat (Istituto nazionale di statistica) ha stimato nel 2016 che in otto anni in Italia si è verificata una significativa diminuzione delle nascite di oltre 100 mila unità e l’inizio della fase del calo della natalità è coinciso con l’inizio della crisi economica.

200

100

0 1° dic 10 1° apr 11 1° ago 11 1° dic 11 1° apr 12 1° ago 12 1° dic 12 1° apr 13 1° ago 13 1° dic 13

954

28_DEBITO PUBBLICO IN PERCENTUALE SUL PIL, ANNI 2005-15

101,9

123,3

129,0

131,9

132,3

2005

2012

2013

2014

2015

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

[fonte: Istat, Italia in cifre 2016]

La debolezza dell’opposizione contribuiva così a rafforzare il governo e la maggioranza, che riuscivano a sopravvivere anche alla grave crisi interna provocata dalla rottura fra Berlusconi e l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini, cofondatore del Pdl e già leader di An, in disaccordo sui temi della giustizia e sulla stessa gestione del partito. Nell’estate del 2010, Fini e i suoi seguaci costituirono un nuovo gruppo (“Futuro e libertà”), mettendo a rischio la tenuta del centro-destra in Parlamento: in dicembre, una mozione di sfiducia contro il governo fu respinta per pochissimi voti. La maggioranza si salvava, ma era costretta a ricorrere, nei passaggi decisivi, ai voti di transfughi da altre formazioni. Prassi che non gettava luce positiva sulla classe dirigente, già screditata agli occhi di un’opinione pubblica sempre più tentata dalle suggestioni dell’antipolitica.

Lo strappo di Fini

Nonostante la larga maggioranza ottenuta dal centro-destra nelle elezioni del 2008, il paese continuava a soffrire di una instabilità politica resa via via più drammatica dall’aggravarsi della crisi economica e finanziaria. Tra i problemi irrisolti rimaneva in primo piano quello del debito pubblico che nel 2011 superò il milione e novecentomila euro (il 120% del Pil) [► _28]. Gli interventi varati dal governo allo scopo di arrestarne la crescita furono giudicati insufficienti dai mercati finanziari, che cominciarono a prendere di mira i titoli di Stato italiani, determinando un forte aumento dello spread con i titoli tedeschi [►24_5 e _27]. Maturava una sfiducia complessiva nei confronti del nostro “sistema paese”, considerato a rischio di insolvenza, con un tasso di crescita del Pil prossimo allo zero, che sarebbe diventato addirittura negativo nel 2012-13. In un’Italia in cui rimanevano inattaccabili i privilegi della classe politica, delle corporazioni e delle

Crisi e sfiducia

▼  Giorgio

Napolitano tiene un discorso al Teatro Donizetti di Bergamo nel corso delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia 2 febbraio 2011

▲  Il

corteo celebrativo dei ragazzi dell’Istituto Polo per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia a Calvizzano (Napoli) 24 marzo 2011 [foto Calvizzanoweb] Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia cadde in un momento difficile per il paese e in un’atmosfera ben diversa da quella, generalmente ottimistica, che aveva caratterizzato le ricorrenze del 1911 e del 1961. Partite in sordina, vissute all’inizio tiepidamente da gran parte delle forze politiche (e ostilmente dalla Lega), le celebrazioni registrarono ugualmente una vasta partecipazione popolare. Fu soprattutto l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a impegnarsi in prima persona nel sottolineare la positività del processo di unificazione nazionale e nel richiamare gli italiani a una maggior consapevolezza delle loro radici e della loro identità.

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C25 L’ITALIA NEL XXi secolo

forme di lavoro garantite e sindacalmente protette, sempre minori prospettive sembravano aprirsi ai giovani, anche a quelli dotati di titolo di studio superiore, se non quelle di un diffuso precariato o di una lunga disoccupazione.



METODO DI STUDIO

 a   Sottolinea gli effetti sull’Italia della crisi economica del 2007-8.  b   Spiega quando e perché si consumò la rottura fra Berlusconi e Fini.  c  Sottolinea i principali eventi che si verificarono nel 2011 e il relativo significato politico.

25_4 LA SUPPLENZA DEI TECNICI

Nell’autunno del 2011 la situazione della finanza pubblica italiana si aggravò ulteriormente, in seguito a una brusca impennata degli interessi sul debito pubblico. Di fronte a una maggioranza in via di sgretolamento e all’irresolutezza e alla scarsa credibilità internazionale di Berlusconi, il presidente della Repubblica Napolitano prese l’iniziativa di favorire la formazione di un governo di emergenza sostenuto da tutte le forze maggiori del Parlamento, dal Pdl al Pd. Dopo le dimissioni di Berlusconi (12 novembre) l’incarico di formare il nuovo governo fu affidato a Mario Monti, professore di economia, presidente dell’università Bocconi di Milano, già commissario europeo al mercato e alla concorrenza. Monti, che era stato nominato qualche giorno prima senatore a vita dal presidente della Repubblica, in breve tempo costituì un governo “tecnico”, formato da figure scelte in base alla competenza professionale.

Le dimissioni di Berlusconi e il governo Monti

Ottenuta la fiducia del Parlamento sulla base di un programma di sacrifici, Monti diede avvio a una serie di forti interventi correttivi: il primo e più importante fu la riforma del sistema pensionistico, che alzava progressivamente, fino a 67 anni, la soglia di età per il ritiro dal lavoro, tagliando la voce di spesa che più pesava sugli equilibri del bilancio pubblico. Seguirono misure di liberalizzazione nelle professioni e nei servizi, e inasprimenti fiscali come la reintroduzione dell’imposta sulla prima casa abolita da Berlusconi. Il tutto allo scopo di rilanciare la fiducia nell’affidabilità finanziaria dello Stato italiano, che confermava l’impegno – già assunto dal governo precedente – a contenere il deficit annuo di bilancio sotto la soglia del 3%.

Le politiche di austerità

956

Il presidente del Consiglio Mario Monti in Parlamento durante la discussione sulla manovra finanziaria 22 dicembre 2011 [© Paolo Tre/A3/ Contrasto]

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

La cura imposta dal nuovo governo si dimostrò efficace, almeno sul piano degli equilibri finanziari. Lo spread sui rendimenti dei titoli di Stato calò significativamente nel 2012 (e, in misura più rilevante, nel 2013) [►24_5 e _27], alleviando il peso degli interessi sul bilancio pubblico: non tanto, però, da ridurre la massa del debito, che invece cresceva inesorabilmente. Ma intanto si manifestavano, a destra come a sinistra, le richieste di interventi più energici in sostegno dell’occupazione, che continuava a calare, e di una crescita economica che tardava ad arrivare. E si moltiplicavano i segni di malumore nei confronti delle misure di austerità e di quella che appariva come una prolungata sospensione della normale attività politica in nome della gestione “tecnica” della crisi. D’altro canto, l’intera classe politica appariva condannata a una crescente Beppe Grillo e il simbolo del Movimento 5 Stelle impopolarità, a causa soprattutto di una serie di scandali da cui emergeva la diffusa propensione del ceto politico nazionale, e soprattutto regionale, all’uso disinvolto dei fondi pubblici accordati ai partiti, con molta generosità e scarsi controlli, dalla legge vigente. Malumori e proteste avevano trovato intanto un nuovo punto di aggregazione attorno al Movimento 5 Stelle che, fondato nel 2009 dal comico genovese Beppe Grillo, aveva visto progressivamente aumentare i propri consensi negli anni successivi [►FS, 212]. METODO DI STUDIO Il movimento contestava la classe dirigente in blocco, senza distinzioni fra de a   Spiega per iscritto le cause della nascita del governo Monti e indica le sue caratteristiche. stra e sinistra, e con essa le forme tradizionali della rappresentanza politica, che  b   Evidenzia le caratteristiche del Movimento intendeva sostituire con una consultazione permanente della base attraverso 5 Stelle. la rete Internet.

Il Movimento “5 Stelle”



25_5 UN NUOVO QUADRO POLITICO

Nel dicembre 2012, Berlusconi decise di togliere la fiducia al governo Monti, in vista delle elezioni politiche che si sarebbero tenute il 24-25 febbraio 2013. Il presidente del Consiglio rispose annunciando, poche settimane dopo, la nascita di un suo movimento, Scelta civica, che aveva lo scopo dichiarato di contendere al Pdl la rappresentanza dell’area centrista e moderata. I risultati delle elezioni, vanificarono però questo progetto. La coalizione di centro-sinistra, guidata dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani, riportò una vittoria di stretta misura (poco meno del 30% dei voti), superando di un soffio la coalizione di centro-destra: ottenne ugualmente una larga maggioranza alla Camera, in base al premio previsto dalla legge elettorale, ma non al Senato, dove il premio era assegnato regione per regione. Il partito di Berlusconi, che di lì a poco avrebbe riassunto il vecchio nome di Forza Italia, pur gravemente indebolito, riuscì comunque a confermarsi seconda forza politica. Subito dietro, con un risultato clamoroso per un movimento alla sua prima prova elettorale, si attestava il Movimento 5 Stelle (M5S) con il 25% dei voti, mentre Scelta civica si fermava all’8%.

Le elezioni del 2013

Quello uscito dalle elezioni era dunque un Parlamento difficilmente governabile, diviso com’era fra tre forze principali, una delle quali (i 5 Stelle) rifiutava a priori qualsiasi alleanza. Ciò fu evidente quando la nuova assemblea si trovò di fronte alla prima importante scadenza istituzionale: l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica, essendosi concluso il settennato di Giorgio Napolitano. L’anziano presidente, che si era dichiarato indisponibile a un secondo mandato, dovette aderire alla richiesta di tutti

La rielezione di Napolitano e il governo Letta

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C25 L’ITALIA NEL XXi secolo

i leader politici (salvo Grillo) di ricandidarsi, dopo che, nelle prime votazioni, le divisioni interne del Pd avevano bruciato alcuni fra i candidati più autorevoli. Rieletto a larghissima maggioranza nell’aprile 2013, Napolitano chiarì subito, nel suo discorso di insediamento, di voler restare in carica solo per il tempo necessario a varare le più urgenti riforme, anche istituzionali. Pochi giorni dopo la rielezione, il presidente diede a Enrico Letta, vicesegretario del Pd, l’incarico per la formazione di un nuovo governo “di larghe intese”, composto in parte da tecnici, in parte da rappresentanti dei due partiti maggiori, Pd e Pdl. Il nuovo governo si mosse sulla strada tracciata da Monti, confermando gli impegni al rigore assunti dall’Italia con le autorità europee e cercando al contempo di attenuarne l’impatto su un’economia rea­le che stentava a ripartire (solo alla fine del 2013 cominciarono a manifestarsi timidi segni di ripresa). Ma un serio ostacolo sul cammino dell’esecutivo si presentò in agosto, quando Silvio Berlusconi fu colpito da una sentenza della Corte di Cassazione che lo condannava in via definitiva a cinque anni di reclusione per evasione fiscale: condanna che, in base a una legge approvata l’anno precedente, lo rendeva ineleggibile e incandidabile, privandolo del seggio senatoriale. Il leader del centro-destra reagì accusando i suoi avversari di aver tramato per escluderlo dalla competizione politica, in accordo con i settori “politicizzati” della magistratura; e annunciò l’uscita del suo partito dalla maggioranza e dal governo. Ma un gruppo di parlamentari e tutti i ministri del Pdl contestarono questa decisione e crea­ rono un loro gruppo: il Nuovo Centro-destra, guidato dal vicepresidente del Consiglio Angelino Alfano, già segretario del Pdl.

La condanna di Berlusconi e la scissione del Pdl

Grazie al sostegno del Nuovo Centro-destra, il governo Letta rimaneva in carica, ma con un margine di maggioranza al Senato ancora molto precario. Diviso su molte questioni importanti (dalla politica del lavoro all’immigrazione), l’esecutivo stentò a varare una legge di bilancio per il 2014 che contemperasse i vincoli imposti dall’Europa con l’esigenza di allentare la pressione fiscale sulle imprese, dovendo per giunta rinunciare alla tassa 958

Un difficile equilibrio

U6 NUOVI SCENARI CONTEMPORANEI

Plico elettorale inviato