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Italian Pages 315 Year 2001
U N I V E R S I T À DE G L I S T U D I D I M I L A N O FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
PUBBLICAZIONI DELL’ISTITUTO DI DIRITTO PUBBLICO
46
PERCORSI E VICENDE ATTUALI DELLA RAPPRESENTANZA E DELLA RESPONSABILITÀ POLITICA ATTI DEL CONVEGNO Milano, 16-17 marzo 2000 A cura di NICOLÒ ZANON e FRANCESCA BIONDI Introduzione di GUSTAVO ZAGREBELSKY
MILANO
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DOTT.
A.
GIUFFRÈ
EDITORE
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2001
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
PUBBLICAZIONI DELL’ISTITUTO DI DIRITTO PUBBLICO
46
PERCORSI E VICENDE ATTUALI DELLA RAPPRESENTANZA E DELLA RESPONSABILITÀ POLITICA ATTI DEL CONVEGNO Milano, 16-17 marzo 2000 A cura di NICOLÒ ZANON e FRANCESCA BIONDI Introduzione di GUSTAVO ZAGREBELSKY
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INDICE pag. Introduzione, di GUSTAVO ZAGREBELSKY . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VII
RELAZIONI VITTORIO ANGIOLINI, La difficile convivenza tra responsabilita` politica e responsabilita` giuridica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3
LORENZA CARLASSARE, Problemi attuali della rappresentanza politica . . . . . . . . . .
21
ALFONSO DI GIOVINE, Fra direttismo e antipolitica: qualche spunto sul referendum in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
65
LEOPOLDO ELIA, Aspetti problematici del referendum e crisi della rappresentanza politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
103
MASSIMO LUCIANI, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
109
MAURO VOLPI, Crisi della rappresentanza politica e partecipazione popolare . . . .
119
NICOLO` ZANON, Il divieto di mandato imperativo e la rappresentanza nazionale: autopsia di due concetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
131
INTERVENTI GIUSEPPE COLAVITTI, La rappresentanza di interessi tra Vertretung e Representa¨tion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
145
SALVATORE CURRERI, Rappresentanza politica e mobilita` parlamentare . . . . . . . . .
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ANDREA DE PETRIS, La rappresentanza nell’era della tecnopolitica . . . . . . . . . . . .
205
PASQUALE PASQUINO, Intervento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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VI
INDICE
SPUNTI DI DIRITTO COMPARATO MARIA PAOLA VIVIANI SCHLEIN, Il rifiuto popolare al potenziamento della democrazia diretta in Svizzera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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GIOVANNI BOGNETTI, Osservazioni conclusive: « Bru¨der, nicht diese To¨ne... » . . .
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INTRODUZIONE
Nelle pagine di questo libro sono raccolte le riflessioni che alcuni studiosi del diritto costituzionale sono stati invitati da Nicolo` Zanon a svolgere sui temi, sempre tali e sempre nuovi, della rappresentanza e della responsabilita` politica nella democrazia contemporanea. Il lettore cogliera` facilmente i segni dell’urgenza che, nel nostro Paese, si sono imposti negli ultimi tempi e di altri, risalenti, ma riaffacciatisi con forza rinnovata. E apprezzera` certamente anche lo sforzo, complesso al limite della disperazione, da piu` parti compiuto di definire un quadro di teoria politico-costituzionale — un quadro che andrebbe integrato con le valenze teologicopolitiche dell’idea di rappresentanza — nel quale i problemi particolari possano essere affrontati con la consapevolezza dei loro significati sistematici, ideali e simbolici. La trama delle riflessioni di Vittorio Angiolini e` costruita dalla convinzione, facilmente ascrivibile alle categorie della « democrazia critica » in opposizione alla « democrazia dogmatica », che la politica, anche quando e` democratica e si esprime attraverso deliberazioni della maggioranza assunte in ottemperanza al principio del suffragio universale, e` esposta all’errore e sempre perfettibile. Da qui, l’esigenza di difendere gli istituti della responsabilita` politica e della responsabilita` giuridica, due forme di responsabilita` tra loro distinte perche´ corrispondenti a esigenze che non si confondono e devono coesistere. Il pericolo e` la pressione e l’erosione che puo` scaturire dalla cosiddetta responsabilita` politica diffusa, una volta che la si volesse porre sullo stesso piano delle altre, giuridicamente disciplinate. La responsa-
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VIII
INTRODUZIONE
bilita` politica diffusa apparentemente e` infatti un limite; realisticamente, invece, puo` essere la via di una legittimazione impropria: dei poteri politici per sollevarsi dall’onere di rispettare i limiti imposti dalla responsabilita` giuridicamente disciplinata; dei poteri non politici per perseguire una vocazione politica ed esorbitare cosı` dagli alvei che sono loro propri. Si intravedono i rischi delle tendenze « identitarie » e demagogiche o populiste delle democrazie del tempo presente, rischi che fanno da sfondo, nel saggio di Angiolini, alla rivalutazione delle regole e dei principi giuridico-costituzionali che, soli, consentono di calcolare il peso dei poteri pubblici, definirne i limiti e stabilirne le proporzioni. Nel saggio di Lorenza Carlassare, in un ampio quadro concettuale, troviamo evocati i principali problemi attuali della rappresentanza: l’allargamento del diritto elettorale e l’estensione dei diritti di cittadinanza come questione dell’epoca delle immigrazioni in Europa; la cosiddetta rappresentanza di genere e le quote elettorali, oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ha deciso una causa ma non ha chiuso il problema; il transfughismo come manifestazione attuale del trasformismo parlamentare; le riforme elettorali e il significato dell’astensionismo; il rapporto tra rappresentanza, decisione e alternanza politiche. Lo spirito del saggio inclina al pessimismo, cogliendosi nei problemi attuali un attenuarsi della democrazia in conseguenza del carattere sempre meno concreto e sempre piu` simbolico, fittizio e irrazionale del rapporto che lega rappresentanti e rappresentati, segnato dal declino dei partiti politici, causa ed effetto a un tempo dell’involuzione democratica denunciata. Una questione domina su tutto, con riferimento alle odierne tendenze alla personalizzazione del potere: se la monocrazia, cioe` l’accentramento del potere in un solo soggetto, sia pure elettivamente designato, sia compatibile con l’idea di rappresentanza. Una domanda che, ovviamente, ha un senso solo se posta nel contesto della discussione sulla democrazia pluralista del nostro tempo e che esige forse risposte che si allarghino alla considerazione dell’intero sistema costituzionale.
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INTRODUZIONE
IX
Con il consueto stile brillante e tagliente, Alfonso Di Giovine sottopone alla piu` distruttiva delle critiche, il sarcasmo, l’idea del sovrappiu` di democrazia che il referendum, come tale, conterrebbe rispetto agli istituti della democrazia rappresentativa: una vulgata che molto corso ha avuto anche nel nostro Paese e che ha portato a un attivismo referendario cui solo recentemente la reazione di rigetto resa manifesta dal massiccio astensionismo degli elettori sembra avere posto un freno. La retorica del popolo che decide « in prima persona », l’illusione della messa in disparte, per un momento, dei « direttori » della politica, il dubbio sull’effettivo effetto bipolare dell’appello al popolo, la problematica idoneita` del voto referendario a rappresentare fedelmente le preferenze dei votanti, sono i tasselli di un quadro realistico delle potenzialita` democratiche del referendum, in comparazione con la democrazia rappresentativa. Tutta l’argomentazione conduce a un risultato di particolare rilievo sul piano dello stretto diritto costituzionale: l’impossibilita` di attribuire ai verdetti referendari uno status particolare, un « plusvalore », un’eccedenza di forza democratica in grado di limitare giuridicamente la democrazia rappresentativa, i suoi organi e le sue decisioni. La conclusione, peraltro, non e` di chiusura. Anzi, il ricorso al referendum, spogliato dei suoi ridicoli eccessi, continua ad apparire una « tecnica decisionale dinamicizzante e fluidificante, che arricchisce le risorse pluraliste del sistema, senza comprometterne l’inesauribile dialogicita` e correggibilita` », senza contraddire cioe`, ma rafforzando, le istituzioni democratiche rappresentative. Viene da questa convinzione l’auspicio che, ridimensionato l’abuso, la storia del referendum nel nostro Paese non sia da considerare una « storia spezzata ». Nella medesima prospettiva del rafforzamento della democrazia, Andrea De Petris affronta il tema, per molti aspetti inquietante, della cosiddetta tecnopolitica. Ottimista prudente sulle possibilita` di integrazione delle tecniche informatiche nelle istituzioni rappresentative, non nasconde le difficolta` e i pericoli di atomizzazione, deresponsabilizzazione, privatizzazione della di-
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X
INTRODUZIONE
mensione politica che gia` molto tempo addietro indicava Carl Schmitt, circa l’espansione delle tecniche che consentono ai «singoli uomini» di far udire la propria voce e di farla valere come volonta` decidente, fuori di qualsiasi contesto pubblico di integrazione. In queste tecniche non si dovrebbe affatto vedere una democrazia particolarmente intensa. Esse costituiscono soltanto una riprova della privatizzazione dello Stato e della dimensione pubblica della vita. La pubblica opinione sarebbe distrutta, poiche´ l’opinione, per quanto concorde, di singoli privati non produce, come risultato, altro che una somma di opinioni private. In tal modo, quella che si determina non sarebbe la volonte´ ge´ne´rale, ma una volonte´ de tous. Che ci sia in queste affermazioni un pregiudizio contro l’individualismo politico e` forse vero. Ma che esse descrivano un rischio, lo e` altrettanto. Ritiene tuttavia De Petris — sulla base anche della riflessione che su questi temi e` in corso negli Stati Uniti e degli esperimenti concreti, anche europei, di coinvolgimento diretto e partecipato di cittadini nei cosiddetti Electronic Town Meetings — che esistano potenzialita` positive, da studiare e sfruttare in chiave democratica, per evitare, si potrebbe aggiungere, che lo sfruttamento avvenga comunque, ma in chiave non democratica, cioe` demagogica. Di particolare interesse, anche per i minori rischi che comporta, la proposta di sperimentazione delle possibilita` offerte dalla tecnologia informatica nella vita interna dei partiti, per promuoverne la democrazia e favorire la partecipazione. Scienza ed esperienza inducono Leopoldo Elia a parlare apertamente di crisi del parlamento e a considerarla un fenomeno di portata generale e difficilmente superabile, dovendosi ricondurla alle diffuse istanze di investitura diretta e personalizzazione della politica. Nel quadro tracciato, e` difficile nutrire speranze e intravedere prospettive costruttive. L’invito a considerare, nel futuro non solo immediato, la Conferenza Stato-Regioni l’equivalente italiano del Bundesrat o Camera delle Regioni e` un simbolo eloquente, perfino grottesco, dell’incapacita` o dell’impossibilita` di affrontare oggi i temi fondamentali della rappresentanza. Da
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INTRODUZIONE
XI
segnalare, infine, l’accenno alla possibilita` di aprire ai parlamentari, come singoli, la possibilita` di accesso alla Corte costituzionale, nel conflitto costituzionale tra poteri, quale strumento di equilibrio e difesa del proprio status anche di fronte all’eventualita`, generalmente considerata con favore negli interventi qui raccolti, di una disciplina regolamentare interna alle Camere, rivolta a contenere i fenomeni di transfughismo parlamentare che tanto negativamente hanno segnato la legislatura teste´ conclusasi. Nicolo` Zanon, nel tentativo di dare sostanza giuridica ai venerandi principi della rappresentanza nazionale e del divieto di mandato imperativo — nel tentativo cioe` di trarre da essi regole assistite da sanzioni — avanza l’idea di un’interpretazione a due facce dell’art. 67 della Costituzione: esclusa ogni gestione privatistica del mandato parlamentare, con conseguente nullita` di ogni patto o accordo ed eventuale responsabilita` penale connessa, diversamente si configurerebbe la questione dal punto di vista della tutela di interessi di indubbio rilievo costituzionale obbiettivo, come il rispetto degli indirizzi politici che provengono dal corpo elettorale. Da questo punto di vista, non sarebbe in contrasto col principio del libero mandato una regolamentazione di natura pubblicistica che bilanciasse l’autonomia del parlamentare con le esigenze di chiarezza, stabilita` e lealta` nel rapporto con l’elettorato, esigenze che ben potrebbero ritenersi far capo alla Costituzione. Il pensiero va, naturalmente, alla possibilita`, esplorata sul finire della legislatura passata, di una normativa regolamentare rivolta a scoraggiare, se non del tutto impedire, quella « mobilita` parlamentare » dettata da contingenti interessi, non sottoposti alla verifica elettorale, che Salvatore Curreri segnala come un punto di preoccupante contraddizione tra valutazioni della dottrina, realta` della politica e giudizio dell’opinione pubblica. Le sue considerazioni si collocano nel solco dell’impostazione di Zanon, ritenendosi ben possibile l’uso del regolamento parlamentare — evidentemente l’una Camera di concerto con l’altra, data la necessaria uniformita` dello status di parlamentare — per conformare il mandato a esigenze costituzionali obbiettive,
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INTRODUZIONE
non disponibili potestativamente dal parlamentare. Tanto l’esperienza spagnola, quanto le proposte maturate presso la Camera dei deputati nello scorcio finale della legislatura, rappresentano a suo avviso un contributo per la ripresa del tema nella prossima. Pasquale Pasquino, infine, racchiude in un breve intervento le considerazioni che da tempo va sviluppando circa l’esistenza di piu` versioni di rappresentanza e quindi di regime rappresentativo, non riducibili alla sola rappresentanza politica e alle sue procedure elettorali. In particolare, le democrazie del nostro tempo prevedono numerose sedi di decisione pubblica, estranee al circuito elezione-responsabilita` politiche, essenziali all’uso equilibrato, moderato e razionale del potere, e, in un senso piu` comprensivo di quello tradizionale, anch’esse rappresentative. Sopra tutti gli specifici problemi cui si e` fatto cenno, resta la questione fondamentale, malgrado tutto — malgrado, voglio dire, i tentativi, come quello che si trova nel ricco saggio di Giuseppe Colavitti, di dimostrarne il carattere astratto, soprattutto nella realta` pluralistica attuale — della distinzione tra rappresentanza di interessi e la rappresentanza propriamente politica o, nella terminologia ormai divenuta classica di Gerhard Leibholz, tra Repra¨sentation e Vertretung. Si puo`, credo, senz’altro convenire sull’impossibilita` odierna di « trattare gli interessi nelle aule parlamentari da intrusi ». Al di la` dell’insuperata difficolta` di distinguere categorialmente interessi e politica (a meno di ridurre la distinzione, ma impropriamente, a quella tra interessi di natura economica e materiale e interessi di natura ideale e immateriale), sta forse la circostanza che solo nelle societa` totalmente omogenee — anche questa un’astrazione — puo` dirsi esistere e puo` identificarsi una dimensione politica come quella che tocca la collettivita` nella sua totalita`, e una dimensione non politica, o antipolitica, come quella che tocca interessi frazionari. Nella societa` pluralistica del nostro tempo, inevitabilmente, le aspirazioni che mirano a realizzarsi nella sfera pubblica si presentano come interessi. E anche l’idea di considerare « politici » gli interessi che si prestano alla generalizzazione deve scontare l’ovvia osservazione
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INTRODUZIONE
XIII
che tali appariranno a chi li difende ma non a chi li osteggia. Per questo, l’impostazione generale di Colavitti e il suo rifiuto di considerare la rappresentanza politica come antitetica rispetto alla rappresentanza di interessi, appare conforme alle caratteristiche attuali delle democrazie pluraliste. Con tutto cio`, resta il fatto che difficilmente si accetterebbe l’idea del parlamento come mero luogo di confluenza di lobbies che trafficano tra di loro per suddividere le risorse pubbliche controllabili con gli strumenti della politica. Questa idea contraddice pur sempre un’idea e un’esigenza profonda che il diritto costituzionale ha al centro di se stesso, da quando tale centro e` rappresentato dallo Stato: l’esigenza della necessaria riduzione ad unita` della pluralita`. Il libero mandato parlamentare, svincolato dalle istruzioni particolari e legato alla rappresentanza nazionale, puo` certo di fatto corrompersi e contraddirsi al punto di essere fatto valere per difendere le prerogative dell’eletto quali garanzie personali in vista di interessi della persona o del gruppo di cui e` parte. Ma questa e` per l’appunto la degenerazione di un concetto che, alla sua origine, traduceva al contrario l’esigenza di superare i vincoli particolari in funzione dell’unita` politica. L’idea di « costringere » la rappresentanza parlamentare a dismettere gli interessi particolari e a concentrarsi su quelli generali, ripristinando la separazione tra legislazione e amministrazione e combattendo cosı` la piaga delle leggi-provvedimento, puo` forse avere un significato per allontanare, per quanto possibile, gli interessi concreti dalle aule parlamentari e dirottarli verso l’amministrazione, la cui discrezionalita` e` disciplinata dalla legge generale e astratta e posta sotto la garanzia del controllo giurisdizionale. Ma non ci si puo` illudere che in questo modo « coatto » i parlamenti possano ritornare a essere i luoghi dell’unita`, quando e` la struttura stessa delle societa` che li esprimono a impedirlo e nessuna riforma elettorale potrebbe mai scalfire, di per se stessa, questa realta`. E, pur tuttavia, l’esigenza di unita` e` primordiale e, preso atto della naturale propensione della rappresentazione a lasciare il posto alla rappresentanza, occorre andare oltre.
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XIV
INTRODUZIONE
In termini teorici, si potrebbe iniziare con l’osservare che e` solo con l’eta` aperta dalla dichiarazione di nullita` dei mandati che la rappresentanza nel diritto pubblico e` stata concepita come rapporto bilaterale tra rappresentati e rappresentanti. In quello che da Tocqueville in poi si denomina l’Antico Regime, e ancor prima, nelle societa` dei corpi feudali, federati attorno al principe, la rappresentanza, secondo un accenno di Massimo Luciani, era un movimento trilaterale, come e` nello schema di una rappresentazione teatrale: il rappresentante raccoglie le istanze del rappresentato per rappresentarle a un terzo, destinatario della rappresentazione. Era per l’appunto questo terzo, non il rappresentante, colui sul quale venivano incentrati i poteri di garanzia dell’unita`. Nell’immagine della rappresentazione teatrale, il rappresentato e` il dramma da rappresentare; il rappresentante, la compagnia di attori; il terzo, il pubblico che decreta il successo o il fiasco della rappresentazione. Oggi, tutto questo sembra essere andato perduto, stante il postulato del carattere unitario del corpo dei rappresentanti. La rappresentanza dell’unita` nazionale attribuita al Presidente della Repubblica e` una funzione, pur assai importante, essenzialmente simbolica. Altri « terzi » non sono previsti. Eppure questa necessita` del terzo e` ineliminabile. La rappresentanza politica solo bilaterale, nelle societa` composite, espone al duplice rischio ugualmente distruttivo del rappresentante frantumato dagli interessi settoriali e del rappresentante, oltre che in balia delle frammentazioni che derivano dagli interessi altrui che rappresenta, anche di quelli propri, sui quali i rappresentati, in forza del divieto di mandato imperativo, esercitano, per cosı` dire, la propria sovranita`. Nella rappresentanza democratica, il luogo dell’unita`, l’unico « terzo » che in definitiva e` ipotizzabile, sono i cittadini medesimi e lo strumento ch’essi hanno a disposizione e` quello elettorale, comprendente in se´ tanto l’investitura, per il futuro, del nuovo corpo dei rappresentanti (inevitabilmente pluralista), quanto lo scrutinio di responsabilita`, per il passato, circa il modo in cui essi hanno svolto le proprie funzioni rappresentative. Il lato dell’inve-
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INTRODUZIONE
XV
stitura e` quello delle divisioni; il lato della responsabilita`, deve essere quello dell’unita`, nel quale possa trovare luogo un giudizio non solo sulla coerenza o, come si dice, di « responsivita` » rispetto alle istanze diverse dei rappresentati, ma anche sulla capacita` di fusione delle diversita` in un quadro unitario di coerenza. In altre parole, nel momento in cui la responsabilita` si fa valere, il popolo rappresentato deve essere capace di chiamare a rispondere non solo di come gli interessi particolari sono stati rappresentati, ma anche di come la loro rappresentazione si e` combinata con una visione politica d’insieme che abbia preservato l’unita`. Senza un’aspirazione all’unita` dei rappresentati, senza una volonta` convergente allo stare comunque insieme, per quanto divisi pluralisticamente, nessuna « rappresentazione » nel senso di un’unita` politica dello Stato risulta possibile. In carenza di quest’ultima risorsa, che in definitiva e` nelle mani del corpo elettorale e delle sue organizzazioni politiche, e dunque dipende dalla loro capacita` di combinare la feconda differenziazione degli interessi con la necessaria comprensione dei vincoli di sistema, l’unita` della vita politica e` minacciata dalle istituzioni rappresentative. A meno che non si pensi all’istituzione di un « terzo », fuori di questo circuito, col rischio, questa volta, per la democrazia. Ed e` percio` che la domanda forse piu` preoccupata che si e` posta nell’incontro di studio di cui questo libro e` testimonianza e` stata: c’e` del nostro Paese, nel momento che viviamo, un popolo capace di istanze rappresentative di questa natura? Il che equivale al dubbio che Luciani enuncia per mezzo dell’espressione « crisi del rappresentato ». Dubbio che, a sua volta, solleva problemi certo non minori di quelli che di solito vengono posti con riguardo ai rappresentanti. GUSTAVO ZAGREBELSKY
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RELAZIONI
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VITTORIO ANGIOLINI
LA DIFFICILE CONVIVENZA TRA RESPONSABILITA` POLITICA E RESPONSABILITA` GIURIDICA
1. Il problema delle relazioni e delle reciproche interferenze tra il sindacato sulla responsabilita` politica e ed il sindacato giuridico, di indole civile, penale, amministrativa o anche costituzionale, e` un vecchio problema, alquanto trascurato. Certamente, molte delle questioni che si erano prospettate a tal proposito hanno ricevuto in dottrina e giurisprudenza delle risposte le quali, di massima e salvo l’approfondimento di specifici aspetti, sembrano soddisfacenti. In primo luogo, e` andato consolidandosi, sulle orme di E. Guicciardi, il riconoscimento che anche un qualunque potere politico non possa prescindere da una sia pur minima definizione legale dei connotati del potere medesimo; giacche´ un potere i cui contorni non fossero seppur minimamente definiti dal diritto non potrebbe, per cio` stesso, ambire ad effetti giuridicamente garantiti, ed anzi non potrebbe nemmeno ambire alla qualifica di potere giuridico in quanto tale. Su questa base, e quanto ovviamente ai limiti in diritto effettivamente apposti al potere politico, disposizioni come quella non limpida dell’art. 31 del t.u.l.c.d.s. o quella piu` puntuale dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, non sembrano piu` raffigurabili, per quanto possano esserlo stato, come ostacolo all’esperibilita` in linea di principio non solo, stanti gli artt. 24, 112 e 113 cost., dei rimedi giurisdizionali civili, penali e amministrativi, bensı` degli stessi rimedi di giustizia costituzionale.
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RAPPRESENTANZA E RESPONSABILITA` POLITICA
Inoltre, tutto cio` sembra piu` latamente connesso ad un mutamento di visuale, che e` andato radicandosi in dottrina e giurisprudenza, circa la peculiare posizione del potere politico stesso entro l’ordinamento giuridico ed il sistema costituzionale: sembra regressiva, se non proprio abbandonata, l’idea che la politicita` debba essere concepita come attributo naturale di un potere « sovrano », in quanto tale originario ed incondizionato, astrattamente imputabile allo stato. Le stesse esitazioni che ancora persistono quanto al sindacato sui cd. « interna corporis » del parlamento, secondo un’opinabilissimo orientamento della giurisprudenza costituzionale sul quale non e` questa la sede per approfondimenti, paiono comunque essere sorrette, o poter essere sorrette per quanto siano sorreggibili, su premesse differenti da quelle di un tempo: piu` che una garanzia di insindacabilita` del potere politico per se´ considerato, sembrerebbe assumere risalto la garanzia dell’« autonomia », « indipendenza » o « centralita` » del parlamento quale organo rappresentativo. Nel potere politico sembra, infatti, per lo piu` riassumersi un’esigenza propria del meccanismo rappresentativo, mosso dal voto liberamente espresso a suffragio universale. Il che, se e` cio` che giustifica la responsabilita` politica, e con essa giustifica in nome del principio democratico e del suffragio universale il principio per cui non puo` aversi potere politico il quale sia politicamente irresponsabile, nel contempo chiude gli spazi ad un’insindacabilita` giuridica dei limiti al potere politico che sia data per assioma. Non sembrano piu` trovar spazio, insomma, presidi del potere politico somiglianti all’« inviolabilita` » che poneva il monarca al di sopra o al di la` dell’ordine giuridico. 2. Il punto e`, tuttavia, che il riconoscimento in via di principio della sindacabilita` dei limiti giuridici al potere politico, nonche´ l’inserzione del potere medesimo e delle correlative responsabilita` politiche entro il contesto di un ordinamento improntato alla rappresentanza democratica ed al suffragio universale, nel
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VITTORIO ANGIOLINI
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mentre puo` avviare a soluzione taluni interrogativi, ne dischiude, ne riapre o ne lascia aperti altri diversi. Un interrogativo cruciale attiene alla stessa raffrontabilita` della responsabilita` politica con le responsabilita` giuridiche, ovvero con il sindacato giuridico su atti e comportamenti; ci si chiede, cioe`, se il sindacato e la responsabilita` che chiamiamo politici abbiano qualche tratto di unione, e quindi siano in una qualche misura comparabili, con cio` che chiamiamo sindacato e responsabilita` giuridici, oppure se le due cose siano alla radice differenti e non raffrontabili tra loro. Il che puo` essere importante sotto diversi profili. Un profilo, di importanza generalissima, e` proprio quello relativo alla sfera di applicazione, o come oggi si preferisce dire al campo di operativita`, giusto del principio per cui non ci puo` essere un potere politico senza responsabilita` politica. La questione e` stata riportata di recente all’attenzione anche da A. Pace, in un Convegno dedicato al Presidente della Repubblica. In quel Convegno, Pace, entrando in aperta polemica con G.U. Rescigno, e` parso sostenere che responsabilita` politica e responsabilita` giuridica appartengono ad un medesimo genere, o hanno comunque una comune radice; poiche´, sebbene anche per Pace come per la dottrina dominante il sindacato sulla responsabilita` politica si eserciti su parametri non giuridicamente prefissati, Egli contesta che possa esserci alcunche´, da porre sotto l’insegna della responsabilita`, che non sia collegato all’irrogazione di misure giuridicamente preordinate anche per l’effetto che ne deriva; cio` che Pace pare contestare, in buona sostanza, e` che possa avere rilevanza, come tale, quella che Rescigno classifica alla stregua di responsabilita` politica « diffusa », ossia la responsabilita` politica che avrebbe, quale unica misura negativa o sanzionatoria, la manifestazione di un apprezzamento negativo della « pubblica opinione ». L’interrogarsi al riguardo, in effetti, puo` avere specifica importanza per capire se il Presidente della Repubblica possa essere reputato politicamente responsabile e dunque possa aver titolo
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RAPPRESENTANZA E RESPONSABILITA` POLITICA
per esercitare poteri politici; giacche´, com’e` noto, la disciplina costituzionale delle procedure per l’elezione e l’eventuale rielezione o non rielezione del Presidente non sembrano lasciare soverchi spiragli all’affermazione di una responsabilita` politica che non sia quella « diffusa ». 3. Ma lo stabilire se il sindacato e la responsabilita` di tipo politico siano raffrontabili al sindacato ed alla responsabilita` di tipo giuridico puo` essere importante anche sotto altri profili, tra cui quello relativo alla sfera di applicazione, o al campo di operativita`, del principio stesso della sindacabilita` dei limiti giuridici al potere politico. Intanto, poiche´ del sindacato giuridico sui limiti del potere politico siamo ben lungi dall’aver tracciato dei confini nitidi e netti, i quali restano alquanto nebulosi e frastagliati, ci si puo` domandare se non debbano stare a se´, ed in una qualche misura rimanere immuni piu` di altri dal riscontro giuridico e giudiziario, gli atti ed i comportamenti adottati in vista di una responsabilita` politica. La Corte costituzionale, che per intuitive ragioni piu` spesso di altri giudici si e` dovuta impegnare su questo terreno, in piu` di un frangente ha ritenuto di poter sottoporre a sindacato poteri ed atti i quali avessero a che fare piu` o meno direttamente con la responsabilita` politica: cio` non solo quando al vaglio della Corte sono giunti atti destinati tipicamente a sanzionare una responsabilita` politica, come e` tra l’altro avvenuto nella vicenda inerente alla mozione di sfiducia individuale ed alla rimozione forzosa del Ministro Mancuso, bensı` anche quando al giudizio per conflitto di attribuzioni sono giunti atti, quali gli ordini del giorno votati da assemblee elettive, dei quali non fosse facile identificare un qualche effetto che non fosse quello di poter dar esca ad un giudizio sulla responsabilita` politica (v., ad es., la sent. n. 341 del 1996, su di un o.d.g. del consiglio regionale da cui non verrebbe, per gli stessi Giudici costituzionali, « un vincolo giuridico ‘‘esterno’’ »).
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In taluni frangenti, la stessa Corte costituzionale, o anche i giudici comuni, sono stati tuttavia piu` titubanti, non foss’altro facendosi scudo con la carenza dell’interesse al giudizio, nell’avventurarsi in un sindacato su atti forieri di effetti o di vincoli assunti come « puramente politici », ossia che fossero passibili di essere sanzionati essenzialmente e solo sul piano della responsabilita` politica. Ed una tale esitazione potrebbe essere comprensibile: se anzi si dovesse ragionare sulla premessa dell’irrimediabile diversita` ed estraneita` della responsabilita` politica rispetto al sindacato ed alla responsabilita` di stampo giuridico, ci si potrebbe addirittura spingere piu` in la`; l’estraneita` della responsabilita` politica al novero delle responsabilita` giuridiche potrebbe, coerentemente, indurre a (ri)mettere in dubbio persino che l’atto di irrogazione di sanzioni motivate politicamente debba essere sindacabile in diritto, ancorche´ suscettibile di effetti giuridicamente preveduti, come quello della rimozione dalla carica del responsabile. Questa non sarebbe del resto una novita`. Lo stesso Santi Romano e C. Mortati, quanto ai rapporti tra gli organi « supremi » dello Stato, ci avevano parlato di « doveri » non sanzionati giuridicamente: sebbene convenga aggiungere che una simile prospettiva, trasferita nel panorama di una costituzione rigida e corredata di giustizia costituzionale, ci puo` apparire oggi assai meno seducente. D’altro canto, a fianco degli interrogativi sull’estensione delle interferenze del diritto e della responsabilita` giuridica nella responsabilita` politica, ci sono quelli, che vanno insieme e possono apparire speculari, sul sovrapporsi della responsabilita` politica alla responsabilita` giuridica. Contro la sfiducia individuale che lo aveva colpito, il Ministro Mancuso, innanzi alla Corte costituzionale, aveva eccepito che sarebbe stata perpetrata « un’indebita intromissione (...) nell’attivita` dell’esecutivo, anche per l’ulteriore pretesa di voler dettare regole di buona amministrazione con un mezzo, quello della mozione di sfiducia, assolutamente non preordinato dal Costituente a tale scopo ». Con la sent. n. 7 del 1996, la Corte ha ribattuto
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che la sfiducia « comporta un giudizio soltanto politico », il quale potrebbe sottrarsi, nel giudizio costituzionale, « a qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico ». I Giudici costituzionali hanno quindi messo l’accento sull’intrinseca diversita` e sul quid proprium del giudizio di responsabilita` politica, il quale, a condurre la tesi a conseguenze estreme, potrebbe andare per proprio conto e sopravanzare, sovrammettendosi ad esso, qualsiasi giudizio di carattere giuridico o sulle responsabilita` giuridiche. Il che peraltro, mentre puo` essere convincente nel caso della sent. n. 7 del 1996 poiche´ il Ministro non era sicuramente vincolato a fare cio` che aveva fatto, potrebbe suscitare qualche perplessita` allorche´ si pretendesse di sanzionare politicamente atti o comportamenti giuridicamente dovuti, o la cui omissione potrebbe dar esca a responsabilita` giuridiche. La sanzione o la minaccia della responsabilita` politica potrebbe invero essere utilizzata per indurre chi e` o potrebbe essere chiamato a rispondere ad eludere vincoli giuridici. Tanto piu` che, per quanto sia autonomo e possa stare a se´, il giudizio sulla responsabilita` politica, nella forma detta da Rescigno « istituzionale », si avvale normalmente di misure con effetti propriamente giuridici, la cui applicazione con un criterio di pura politicita` potrebbe sovente andare a rischio di oscurare garanzie di diritto. Si pensi, ad esempio, ad un Ministro o ad un Governo che fossero chiamati a rispondere politicamente, con la minaccia o magari con la votazione della sfiducia, per le risultanze di poteri ed atti giuridicamente riservati all’esclusiva competenza di altri funzionari pubblici, in cui al Ministro o al Governo medesimi non fosse dato, sempre in diritto, di intromettersi. In un tale quadro, diventerebbe evidente che la sovrapposizione del giudizio politico a quello che giuridicamente e` dovuto potrebbe essere fonte, se non altro, di confusione e di squilibri. 4. Tutti questi interrogativi, da non liquidare con leggerezza poiche´ come si e` visto si prestano ad esemplificazioni concrete, sono rimasti lungamente in ombra; e cio` non solo per i ri-
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tardi di dottrina e giurisprudenza. Una qualche equivocita` od opacita` dei rapporti con il sindacato giuridico e con la responsabilita` civile, penale o amministrativa e` insita sin dall’origine nella nozione stessa di responsabilita` politica; la quale nozione di responsabilita` politica d’altronde, perlomeno in Italia, non ha avuto sempre fortuna. La dottrina dell’inizio di questo secolo si era mantenuta al riguardo scettica o diffidente e la fortuna della nozione di responsabilita` politica e`, dunque, abbastanza recente: V.E. Orlando rifiutava di impiegare questa nozione, in una con quella della rappresentanza politica; ed anche altri studiosi, come la stessa giurisprudenza, erano inclini a discorrere, prudentemente, di « responsabilita` ministeriale » o di « sindacato parlamentare », piuttosto che direttamente di una responsabilita` politica. In effetti, anche senza addentrarsi nel tema della rappresentanza politica, che non e` questa la sede per analizzare, sembra di poter ravvisare un robusto filo conduttore tra la rappresentanza medesima e la responsabilita` politica; nel senso che la responsabilita` politica, come concetto o categoria sistematica, si e` fatta largo nel diritto pubblico quando le dottrine della rappresentanza piu` risolutamente si sono sospinte a caldeggiare, ovvero a dare per scontata, l’esistenza di una societa` predisposta a partecipare politicamente in maniera stabile e permanente, nonche´ dotata all’uopo di strumenti acconci ed appositamente organizzati. Per Orlando, il discorrere di responsabilita` politica non sarebbe servito perche´ l’elezione dei parlamentari, oppure la designazione e la rimozione dei ministri e del Governo, potevano essere ricostruite nell’ottica della selezione dei « piu` capaci ». Il che non puo` per la verita` meravigliare, se si pone mente al contesto a cui Orlando intendeva riferirsi, il quale non era solo un contesto in cui la scena era dominata dal principio monarchico, ma in cui non si era ancora pervenuti neppure al suffragio universale maschile ed in cui ancora non si erano definitivamente affermati i partiti o altre forme organizzate di partecipazione politica come solo piu` tardi avrebbero avuto l’opportunita` di consolidarsi.
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In quel contesto, i criteri dell’elezione del parlamento, ovvero quelli della « responsabilita` ministeriale » o del « sindacato parlamentare », piu` che criteri politici nell’accezione che dopo avra` questo termine, ossia di una politica come forza produttiva di un’« unita` » o un di pluralismo articolati ed organizzati con una logica propria, era piuttosto il regno del potere precluso al diritto in nome della « sovranita` » statale; sicche´ non era neanche difficile trovare un posto al « sindacato parlamentare » o alla « responsabilita` ministeriale », quale complemento, sebbene di incerta credibilita`, di una responsabilita` giuridica che, nell’applicarsi a soggetti e poteri statali o pubblici, subiva fisiologicamente delle menomazioni; il « sindacato parlamentare » o la « responsabilita` ministeriale », non potendo essere d’impaccio all’affermazione di limiti giuridici al potere politico, che non c’erano se non vagamente, poteva valere da utile complemento alla responsabilita` giuridica. In seguito, la situazione e` cambiata non tanto perche´, almeno a parole, il fascismo non abbia esaltato l’insindacabilita` giuridica e l’« inviolabilita` » del sovrano, quanto perche´ il fascismo si e` sforzato di accreditare altresı`, e probabilmente a suo modo ha anche in parte contribuito a costruire, il progetto di una politica in grado di presentarsi, innanzi al diritto costituzionale, come un ordine compiuto ed autosufficiente al proprio sostentamento. Il P.N.F., partito unico saldato e confuso allo stato e` divenuto il simbolo, tragico ed anche caricaturale finche´ si vuole, di una « unita` » compatta della compagine politica; mentre il consenso presunto intorno alla figura del « duce » e l’idea corporativa sono state le vie per dare a questa « unita` » una parvenza articolata e plurale di specchio della societa`. I giuristi hanno reagito a questo stato di cose, naturalmente anche a prescindere da ogni adesione o da ogni collateralismo ideologico, accreditando questa attitudine della politica ad organizzarsi autonomamente con una propria autonoma razionalita`: lavori come quelli di V. Crisafulli sull’indirizzo politico e di C. Mortati sulla costituzione materiale sono venuti anche e proprio da questa svolta culturale.
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E questa e` stata anche l’immagine della politica che, lasciato alle spalle il fascismo, ha comunque permeato gli studi costituzionalistici nell’Italia repubblicana. La pluralita` dei partiti, elevati in guisa di sistema a protagonisti della fondazione e dell’attuazione della Costituzione, non ha portato a smentire ed ha anzi soltanto avallato, riallineandola per quel che si poteva ai principi della democrazia, una visione della politica come forza che fa da se´ e da se´ trova il proprio assetto ordinato. I ragionamenti sulla responsabilita` politica ne hanno fatalmente risentito: poiche´, nonostante l’aver predicato l’assoggettamento del potere politico ai limiti della costituzione rigida e della giustizia costituzionale, la dottrina italiana ha continuato a presumere che la democraticita` del sistema, prima e talvolta piu` che dalle regole e dai principi costituzionali, non potesse scaturire e trarre alimento che dai comportamenti degli attori della politica stessa e, primariamente, dai comportamenti dei partiti. E` in questa prospettiva che puo` spiegarsi il perche´ anche il principio per cui non puo` darsi potere politico senza responsabilita` politica, in cui pure si e` intravvista la sintesi della sovranita` popolare in un ordinamento costituzionale democratico reso compiuto dal suffragio universale, ha potuto essere ritenuto realizzabile nei modi a cui si e` accennato, ossia non solo mediante gli istituti della responsabilita` politica cd. « istituzionale », e dunque con l’applicazione di misure giuridicamente disciplinate e con effetti giuridici per chi sia tenuto a rispondere, bensı` anche soltanto con la responsabilita` politica cd. « diffusa », non sanzionata da altro che da un esercizio di fatto del « diritto di critica ». L’aver accordato tendenzialmente pari considerazione e rilievo tanto alla responsabilita` politica « istituzionale » quanto a quella « diffusa », tanto a censure politiche correlate a misure ed effetti giuridici quanto alle censure di fatto della « pubblica opinione », e` stato un segno evidente di quanto abbia pesato, nella dottrina costituzionale italiana, l’affidamento nelle virtu` della politica come azione che avrebbe in se´ le risorse per adeguarsi spontaneamente all’evolversi in fatto delle esigenze demo-
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cratiche. Come un atteggiamento speranzoso verso le risorse della politica e la loro utilizzazione virtuosa puo` spiegare sia l’inclinazione della dottrina, dei giudici e della stessa Corte costituzionale a moderare l’ingerenza del diritto negli accadimenti inerenti alla responsabilita` politica, sia l’inclinazione a tralasciare i problemi di sovrapposizione dei giudizi politici a quelli sulla responsabilita` giuridica e sull’osservanza del diritto; quasi che l’espressione di giudizi politici non potesse che essere, in qualunque frangente, che un indizio di vitalita` e salute, e magari di arricchimento, della democrazia. 5. La concezione della responsabilita` politica come alcunche´ di distinto, e di altro rispetto alla responsabilita` giuridica, sembra peraltro passibile attualmente di una revisione. Cio` non solo e non tanto per la crisi della politica e dei partiti, che abbiamo sotto gli occhi come fatto contingente e dipendente da singolari vicissitudini dell’Italia; che´, semmai, proprio questa crisi potrebbe segnalare la necessita` di essere persino piu` sensibili che in precedenza alle istanze provenienti dalla politica, la quale parrebbe da coltivare pazientemente, come una pianticella che stenti ad attecchire. In realta`, le ragioni di una rimeditazione sulla responsabilita` politica sono probabilmente piu` di lunga lena. L’elemento su cui meditare, perche´ parrebbe destinato a durare e potrebbe scavare un solco profondo tra noi ed il nostro passato anche recente, e` nella consapevolezza — la quale e` al fondo dell’opzione per la costituzione rigida e la giustizia costituzionale e che tuttavia non ci e` mai stata probabilmente tanto presente come ora nella storia dell’Italia unita — che la politica, anche quando e` democratica e si esprime attraverso deliberazioni della maggioranza assunte in ottemperanza al principio del suffragio universale, e` perfettibile ed esposta all’errore. L’appassimento del mito per cui nella politica si manifesterebbe una supposta « sovranita` » dello Stato sembra doversi altresı` accompagnare al definitivo tramonto del mito della « volonta` generale » a` la Rousseau, portandoci dritti alla (ri)-
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scoperta di posizioni individuali e collettive da garantire anche a fronte di deliberazioni a maggioranza ineccepibili dal punto di vista delle regole e dei principi della democrazia. Il che non solo mette l’accento sulla sindacabilita` dei limiti al potere politico e sulla responsabilita` giuridica di chi lo detiene, la` dove e naturalmente solo la` dove questi limiti siano veramente sanciti come intangibili e sia identificato in diritto un giudice, ma ci dovrebbe o potrebbe convincere altresı` e finalmente a ripensare i confini tra la responsabilita` politica e la medesima responsabilita` giuridica. Da un lato, pare da rimettere in discussione da capo, perfino sul versante piu` resistente dei cd. « interna corporis » del parlamento, che il principio di divisione dei poteri possa essere ancora invocato, come non di rado e` accaduto, per sostenere che il potere politico, in quanto distinto da altri, possa essere giusto in se´ e doversi giudicare da solo per rapporto alle regole ed ai principi di diritto a cui vada soggetto: sicche´, non stupisce quella giurisprudenza costituzionale a cui piu` indietro ci si e` richiamati, e la quale potrebbe essere da incoraggiare, che ha reputato sindacabili giuridicamente i limiti ad atti o comportamenti suscettibili (anche) di giudizi prettamente politici, o che e` intervenuta a recingere i contorni di sanzioni o misure, giuridicamente disciplinate in quanto tali, conseguenti alla responsabilita` politica. L’idea dei « doveri » costituzionali giuridicamente sguarniti di misure o sanzioni (ovvero, come si seguita a dire, insindacabili dall’« esterno ») sembra poter essere trattata per quello che e`, o rischia di diventare, e cioe` come uno dei tanti artifici retorici che i giuristi hanno messo a punto per fini consolatori. D’altro lato, e come in simmetria, potrebbe tornare in discussione anche il convincimento che la responsabilita` politica corra su binari propri e possa non incontrarsi, e doversi coordinare, con il sindacato giuridico e con le responsabilita` del diritto civile, penale o amministrativo. La recuperata consapevolezza dell’importanza delle garanzie giuridicamente dovute agli individui ed alle collettivita` puo` dover passare anche per una piu` puntuale de-
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marcazione del campo in cui possono esercitarsi i giudizi politici, per non portare inconvenienti ai giudizi in diritto ed alle correlative responsabilita`. Non foss’altro perche´ la (ri)scoperta delle garanzie individuali e collettive non coinvolge e sollecita soltanto il pieno esercizio del sindacato giudiziario e di quello della Corte costituzionale, bensı` coinvolge una rilettura degli stessi principi e delle regole costituzionali sulla pubblica amministrazione. C’e` ormai un filone cospicuo, sebbene bisognoso di specificazioni e rettifiche, di giurisprudenza costituzionale e dei giudici comuni il quale, spremendo il principio dell’« imparzialita` » dell’art. 97 cost., o quello del « buon andamento » che ne sarebbe per autorevole dottrina la proiezione sul versante organizzativo (G. Berti), ne ha ricavato vincoli frenanti, presentati come plausibili o addirittura doverosi appunto perche´ miranti al presidio di garanzie costituzionali, alla penetrazione della politica, e per essa dei partiti, nella sfera di scelte amministrative da orientare a criteri tecnici o al raggiungimento di obiettivi predefiniti. Nella sent. n. 313 del 1996, allorquando la questione delle relazioni tra amministrazione e politica le e` stata prospettata a tutto tondo, traendo spunto dalla cd. « privatizzazione » del pubblico impiego, la Corte costituzionale ha potuto cavarsela a mala pena con l’affermazione che la garanzia dell’« imparzialita` » non implica per i funzionari amministrativi (a differenza che per magistrati) garanzie di « stabilita` » od « inamovibilita` » e, quindi, e` ben compatibile con una « verifica dei risultati » in funzione dell’« efficienza »; gia` in quella stessa pronuncia, pero`, la Corte non ha potuto non dar atto, per non entrare in contrasto con il suo stesso indirizzo nell’interpretazione dell’art. 97 cost., del superamento della « formula » di « antico stampo, caratterizzata da una rigida gerarchia fra Ministro e dirigenti ». Il che, se nulla toglie alla possibilita` di sperimentare per le strutture di vertice dell’apparato statale diverse « formule » o vari modelli organizzativi, nulla toglie neppure alla circostanza che il legislatore possa scegliere una « formula » di piu` accentuata separazione tra i poteri politici di Governo o Ministri e le attivita` o i
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poteri di altri funzionari amministrativi; la quale separazione tra politica ed amministrazione, per qualche tratto, potrebbe risultare imposta dallo stesso art. 97 cost. Cio`, di per se´, e` sufficiente a rendere non peregrina l’ipotesi, che gia` si e` avanzata nel corso di queste rapide note, che la sfiducia sia data o minacciata al Governo o al Ministro per l’azione di altri funzionari, la quale ad essi non sia dato di inibire o conformare. Una tale ipotesi e` imbarazzante, perche´ lo stimarla praticabile non lascia adito che a due alternative: o si concede che Governo e Ministri possano essere tranquillamente resi responsabili politicamente e costretti alle dimissioni per il fatto altrui; oppure, tornando sui passi che parrebbero compiuti dalla giurisprudenza circa i principi di « imparzialita` » e di « buon andamento » dell’art. 97 cost., si concede che il potere di ingerirsi politicamente nell’azione amministrativa di altri funzionari non puo` essere in alcun modo sottratto al Governo e ai Ministri. L’ulteriore e terza strada che potrebbe scorgersi, per sfuggire a tale imbarazzante alternativa, pare solo quella di affermare che per fatto altrui non si puo` rispondere, neanche politicamente, e che, pertanto, neanche il giudizio sulla responsabilita` politica, al pari sebbene in guisa diversa dai giudizi sulla responsabilita` giuridica, puo` sfuggire ad un vincolo tassativo di diritto alla sua sfera di esplicazione. 6. Il ricondurre la responsabilita` politica a cio` che e` giuridicamente irregimentato, e percio` il ricondurla in un ambito piu` prossimo o contiguo alla responsabilita` giuridica, non equivale ne´ potrebbe essere preso come equivalente, del resto, di un impoverimento del ruolo che di fatto il potere politico ed i giudizi politici possono assolvere nell’inverare la democrazia: quello che potrebbe venir meno, a scanso di equivoci, non e` il principio, che e` centrale per la democrazia, per cui non c’e` potere politico senza responsabilita` politica. Quello che semmai potrebbe venir meno e` solo la pretesa, che e` stata rivendicata dalla dottrina giuridica, di contare sulle qualita` innate della politica per garantire l’effettivita` di tale principio democratico. In un ordinamento in cui la
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responsabilita` politica sia considerata tale solo a condizione che si manifesti in procedure ed atti scanditi giuridicamente, non c’e` o ci dovrebbe essere posto, se non come mero fenomeno giuridicamente irrilevante, per una responsabilita` politica cd. « diffusa », non consistente in altro che nelle pressioni esercitabili ed esercitate di fatto dalla « pubblica opinione »; o perlomeno, il che poi potrebbe essere lo stesso, una tale responsabilita` politica « diffusa » non potrebbe mai essere posta sul medesimo piano della responsabilita` cd. « istituzionale », fatta valere a mezzo di atti e procedure giuridicamente disciplinate. Chi ad esempio non abbia responsabilita` politica giuridicamente sanzionata o corredata di apposite misure, come sembra ragionevole presumere possa essere per il Presidente della Repubblica, non potrebbe appellarsi al consenso della « pubblica opinione » per rivendicare la politicita` del proprio potere; quel soggetto su cui non gravi una responsabilita` politica « istituzionale », piu` semplicemente, non potrebbe essere titolare di poteri politici e, qualora li esercitasse, costringerebbe solo il giurista a muovere alla ricerca, che potrebbe non essere eccessivamente faticosa nei riguardi del Presidente della Repubblica, di rimedi giuridici affinche´ non si debordi dalle competenze assegnate. Questo, se ne puo` convenire, potrebbe essere un passaggio duro da accettare; soprattutto perche´ esso, precludendo al giurista di rimettersi ai fatti politici quali sono, e di enfatizzare l’idoneita` della « liberta` di critica » e del sindacato della « pubblica opinione » a surrogare il difettoso funzionamento dei congegni della responsabilita` politica giuridicamente disciplinati, gli preclude di vagheggiare l’ideale, a cui questo secolo ci ha reso avvezzi, di una democrazia totale o, per riprendere il lessico di C. Schmitt, di una « democrazia identitaria », in cui, proprio grazie all’ingrossamento della responsabilita` politica di chi esercita il potere, si infranga o si assottigli fino a scomparire la barriera divisoria tra i governanti e i governati. Nel perseguire un tale obiettivo di rendere i detentori del potere politico tanto responsabili politicamente da non essere piu`
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distinguibili da coloro sui quali dovrebbero governare, il diritto costituzionale e` difatti impotente; nemmeno il principio di maggioranza ed il suffragio universale potrebbero essere bastevoli alla bisogna, perche´ essi stessi dividono irrimediabilmente, in politica, appunto tra la maggioranza che vince e la minoranza che perde. La « democrazia identitaria » non puo` che essere il frutto della « liberta` di critica » e della « pubblica opinione », le quali, non essendo apprezzabili giuridicamente se non come pure facolta`, e non come poteri da cui scaturiscano atti vincolanti, si possono prestare a teorizzazioni sulla loro illimitata potenza di fatto. Questo e` un tema enorme, su cui, per chiudere, vorrei avanzare soltanto un paio di osservazioni. La prima osservazione e` che, durante questo secolo, l’enfasi apposta sulla « liberta` di critica » e sulla « pubblica opinione » ha avuto notevole peso per l’evoluzione storica degli istituti democratici. E` una congettura non inverosimile che, quando in apertura del secolo Orlando od altri rifiutavano concetti come la rappresentanza o la responsabilita` politica, essi avessero proprio il timore, rivelatosi fortunatamente fondatissimo, che potessero propagarsi le dottrine, allora bollate come « ultrademocratiche », volte ad affermare un’elezione parlamentare o una nomina del governo improntata a criteri di discernimento politico di intenzioni, propositi e programmi, piuttosto che incentrata solamente sulle qualita` personali dei candidati. Sotto questo profilo, la « liberta` della critica », la quale ha consentito e consente alla societa` di organizzarsi per partecipare politicamente, e` stata e rimane risolutiva per la democrazia. Non bisogna dimenticare, pero`, che una cosa e` questa, altro e` il ravvisare nella « liberta` di critica » e nel formarsi della « pubblica opinione » strumenti di responsabilizzazione del titolare del potere politico, che rendendolo responsabile gli offrirebbero una sorta di base sostanziale di « legittimazione ». Il mettere accanto, e considerare omogenei, questa « liberta` della critica » ed i congegni giuridicamente tipizzati per la responsabilita` politica, come fonti di « legittimazione » del potere puo` essere o diventare
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estremamente pericoloso; anzitutto, perche´ gli esiti della « liberta` di critica », una volta confluiti nella « pubblica opinione », sono non di rado tanto complessi da apparire pressoche´ indecifrabili. Una elementare riprova ne e` che, in Italia, primariamente gli storici di quando in quando tornino a discettare, come fosse serio, sulla « legittimazione » che il « Duce » del fascismo avrebbe potuto mutuare dal consenso popolare; talora trascurando il dettaglio, non proprio minuscolo, che, per rapporto a quella fase della storia italiana, interrogarsi sulla forza e l’ampiezza del consenso non puo` avere in partenza nessunissimo significato, almeno dal punto di vista della responsabilita` politica di cui discorrono i costituzionalisti; poiche´, verso il regime mussoliniano, la sola via per manifestare aperto dissenso era di ribellarsi pagando personalmente prezzi altissimi, il pretendere di misurare il consenso al fascismo equivale ad imputare ai governati, in luogo delle liberta` politiche, il dovere di farsi eroi. La seconda osservazione e`, infine, che le trasformazioni a cui oggi stiamo assistendo non sono forse solo il prodotto dell’assetto giuridico-costituzionale che, a cominciare dalla costituzione rigida e dalla giustizia costituzionale, si e` reso effettivamente garante della contestabilita` della « volonta` generale », ossia dei limiti che la stessa deliberazione democratica, espressa a maggioranza con il suffragio universale, puo` incontrare innanzi alle liberta` individuali e collettive. Accanto alle trasformazioni del diritto, ci sono quelle della societa`, che creano difficolta` al farsi della politica perche´ concorrono ad indubbiare il valore assoluto che i moderni hanno attribuito, in nome del principio della liberta` dell’autodeterminazione individuale, proprio alla « liberta` della critica » ed alla « pubblica opinione ». L’avvento e l’incessante proliferare dei « mezzi di comunicazione di massa » con la loro forza pervasiva, per un verso, e, per l’altro, le conclusioni raggiunte dagli studi psicanalitici e di psicologia sociale sembrano volerci insegnare che non siamo tanto liberi quanto credevamo, che la frontiera tra l’autodeterminarsi e l’essere eterodiretti e` piu` problematica di quello che si era creduto. Il che ovviamente,
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non e` un buon motivo per screditare l’azione della politica e la democrazia; potrebbe essere un buon motivo, tuttavia, per accettare che questa politica e questa democrazia debbano piegarsi a regole e principi giuridici, proprio come tali capaci di imporsi e, ad un tempo, solo convenzionali e quindi sempre disponibili a migliorie o correzioni.
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PROBLEMI ATTUALI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA
SOMMARIO: 1. Nuove prospettazioni di problemi antichi. — 2. La rappresentanza politica e` giuridica? — 3. Essenzialita` del rapporto: rappresentanza « istituzionale », posizioni rappresentative (Capo dello Stato). — 4. Una « rappresentanza » conforme alla « democrazia » della Costituzione. — 5. L’unita` della rappresentanza nella dottrina conservatrice e la svalutazione del rapporto rappresentativo. — 6. Gli interessi e la loro composizione fuori dalle sedi della rappresentanza. — 7. Rappresentanza e responsabilita`: il « recall ». — 8. Il collegamento assicurato dai partiti. — 9. Sistema elettorale, efficacia della rappresentanza, democrazia. — 10. Crepe e limiti della « rappresentanza generale » (minoranze linguistiche, mobilita` dei parlamentari). — 11. Per una rappresentanza democratica del « popolo concreto ».
1.
Nuove prospettazioni di problemi antichi.
La rappresentanza politica e` da sempre un problema aperto che, mai risolto in modo soddisfacente, ritorna incalzante in alcuni passaggi della storia: basta pensare all’interesse per la rappresentanza manifestato dalla dottrina nel periodo fascista, quando si trattava di « spiegare » il nuovo assetto del sistema, interesse ben dimostrato dai numerosi studi comparsi in quegli anni. In altre fasi l’attenzione si attenua e il pensiero si assesta su alcuni risultati piu` o meno consolidati, su convincimenti diffusi e generalmente recepiti che non sembra rilevante rimettere in discussione. Oggi l’interesse ritorna: da un lato si avverte chiaramente che alcune scelte possono mettere in gioco la democrazia, dall’altro lato si manifestano prospettive, esigenze e situazioni nuove di fronte alle quali le concezioni consolidate appaiono inadeguate.
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Le questioni « attuali » in tema di rappresentanza politica, dunque, non sono necessariamente « nuove »: alcune infatti restano attuali benche´ antiche, altre tornano ad essere attuali ed altre ancora si manifestano in forme nuove. E` il modo in cui si presentano o il contesto generale in cui si collocano ad essere nuovo, ma spesso non e` che il riproporsi in forme ed apparenze diverse di questioni antiche, il riemergere evidente di nodi non risolti, di problemi accantonati e contraddizioni celate, delle difficolta`, insomma, della democrazia. Il fenomeno dell’immigrazione, ad esempio, riapre addirittura una questione che col suffragio universale sembrava definitivamente risolta: chi fa parte del « demo »? (1). Poiche´ negli ordinamenti attuali la democrazia e` essenzialmente « rappresentativa » e` in particolare necessario interrogarsi sul concetto di rappresentanza politica, sul tipo di rapporto che lega elettori ed eletti. Sono in causa questioni di fondo, una, in primo luogo, cui le altre si collegano: il concetto « liberale », basato sul carattere universale della rappresentanza che esclude rappresentanze di « parti » (gruppi etnici, ecc., interessi specifici di categorie economiche o geograficamente localizzati) e di conseguenza la rappresentanza di « genere », e` davvero regola insuperabile? O, almeno, fino a che punto? Gia` ora infatti si riscontrano — in particolare per la rappresentanza territoriale, ma anche per le minoranze linguistiche — norme ispirate ad un diverso ed opposto principio che sembra accolto in qualche decisione dalla stessa Corte costituzionale (2), pur dichiaratamente contraria, altre volte, a simili prospettive in nome appunto di un concetto di rappresentanza generale basato sull’indifferenza del sesso e di ogni altra condizione che si presenti « diversa » e di un’eguaglianza (1) Sulla questione, nella storia e nell’oggi, v. per tutti R. DAHL, La democrazia e i suoi critici (trad. it.) Roma, 1990. (2) Ad esempio, nella sent. n. 438 del 1993, la Corte costituzionale, a proposito della minoranza di lingua tedesca, aveva affermato che « giova all’interesse nazionale ed al principio stesso dell’unita` nazionale... che la minoranza possa esprimere la propria rappresentanza in condizioni di effettiva parita` ».
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astratta che tutti accomuna nella « cittadinanza », « elemento unificante le diversita` esistenti nel corpo sociale » (3). Ma anche quella di cittadinanza e` nozione in crisi: si vuole dar voce, e quindi rappresentanza, agli immigrati; e si estende il diritto di voto, nelle elezioni amministrative, ai non cittadini, purche´ europei. D’altra parte, anche da prospettive diverse si palesa un’incertezza di fondo, una contraddittorieta` addirittura nei termini stessi di configurazione della rappresentanza: le reazioni contro i cosiddetti « ribaltoni », ossia il formarsi di alleanze politiche diverse da quelle esistenti al momento delle elezioni o — cosa a mio avviso del tutto distinta — lo spostamento di alcuni parlamentari dal gruppo nel quale erano stati eletti ad altro e diverso gruppo, denota un’insofferenza nuova verso il principio, consacrato in Costituzione, della « liberta` del mandato parlamentare » dal quale — si afferma — tali comportamenti sarebbero legittimati. In realta` il margine di « liberta` » che quel principio consente non appare chiaro; come non e` chiaro cosa consegue al principio — connesso, ma fino a che punto? — per il quale l’eletto non rappresenta i suoi elettori ma la nazione tutta (e non parti di essa). Non si tratta certamente di problemi nuovi, come gia` sottolineavo, ma di problemi sui quali si e` affaticata da tempo la dottrina: basta riandare alle complesse pagine di (3) G. BRUNELLI, Elettorato attivo e passivo (e applicazione estesa dell’illegittimita` conseguenziale) in due recenti pronunce costituzionali, in Giur. Cost., 1995, 3272 ss. che commenta favorevolmente la sent. n. 422/1995 nella quale sono dichiarate illegittime tutte le « misure » volte al riequilibrio della rappresentanza politica e amministrativa — senza distinguere fra le diverse previsioni normative come sarebbe stato indispensabile: cfr. L CARLASSARE, La rappresentanza femminile: principi formali ed effettivita`, in Genere e democrazia, a cura di F. Bimbi e A. del Re, Torino (Rosemberg e Sellier) 1997, 83-86 — « irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica in un sistema fondato sulla democrazia pluralista ». Condivide su questo punto la decisione anche G. CINANNI, Leggi elettorali e azioni positive a favore delle donne, ivi, 3283 ss., pur criticandola quanto all’interpretazione del principio di eguaglianza, mentre e` decisamente critico U. DE SIERVO, La mano pesante della Corte sulle « quote » nelle liste elettorali, ivi, 3268 ss.
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Leibholz (4) per ritrovarli lungo l’arco di vari decenni ed osservare spostamenti non lievi nella loro prospettazione che ben denunciano il legame tra situazioni o concezioni politiche e posizione teoriche che ne riflettono i mutamenti. Se, in Italia, significativo e` il confronto fra gli scritti che vanno dall’Ottocento al primo Novecento e quelli del periodo fascista, quel legame gia` e` palese nel dibattito che accompagno` in Francia gli eventi della Rivoluzione (5). Oggi, in un momento di trasformazioni profonde (6), nella difficolta` di costruire il concetto di rappresentanza di nuovo si palesano le contraddizioni, le tensioni e i nodi che travagliano quell’insieme di situazioni, poteri, rapporti che con esso si vogliono sinteticamente esprimere. Gia` i pochi accenni alla giurisprudenza costituzionale ben dimostrano quanto contrastanti siano le istanze presenti nella realta` sociale e politica attuale che si ripercuotono sulla rappresentanza e come risultino contraddittorie le affermazioni e le soluzioni adottate nei diversi casi dalla stessa Corte. Va dunque innanzitutto chiarito il significato e il valore della formula dell’art. 67 Cost. per comprendere se, per rimediare a problemi e difficolta` crescenti, la disposizione vada modificata come qualcuno chiede oppure se la disposizione medesima consenta invece letture meno rigide compatibili con eventuali rimedi diretti a non recidere ogni « rapporto » degli eletti con gli elettori (4) E precisamente dalla fine degli anni venti: G. LEIBHOLZ, La rappresentazione nella democrazia, (trad. it.), Milano, 1989. (5) Interessanti in proposito le osservazioni di A. NEGRI, Alcune riflessioni sullo « Stato dei partiti », in Riv. trim. dir. pubbl., 1964, 107 ss. (6) Fra queste trasformazioni in atto, e non ancora concluse, e` da considerare con grande attenzione il progressivo rafforzamento delle autonomie territoriali a vari livelli, comunale, provinciale, e, soprattutto, regionale. A parte ogni altra questione che la ristrutturazione dei rapporti fra lo Stato e i diversi enti comporta, e` chiaro che i problemi aperti della rappresentanza si riproducono — anche se non sempre in termini identici — a livello locale (v. ad esempio, di recente, A. BARBERA, La « elezione diretta » dei Presidenti delle Giunte regionali: meglio la soluzione transitoria?, in Quaderni cost., 1999, 572 ss.) e cosı` in definitiva, considerando il sistema complessivo, ulteriormente si complicano.
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e a salvare una qualche forma di responsabilita`. Quel rapporto e la responsabilita` sono certamente due gravi questioni da rimeditare. 2.
La rappresentanza politica e` giuridica?
I problemi aperti sono dunque molteplici: da quelli teorici piu` squisitamente giuridici, talora raffinati, a quelli concreti e quotidiani che la realta` attuale ha messo in luce o fortemente esasperato. La rappresentanza politica e`, da sempre, in questione; indefinito e` lo stesso concetto che esprime, ritenuto, per diffusa opinione, irriducibile a figure della rappresentanza di diritto privato, se non, addirittura, ad una generale figura classificabile come rappresentanza giuridica. Opinione diffusa, questa, ma non unanime: e` sufficiente ricordare la posizione di Esposito per comprendere la serieta` delle argomentazioni di segno contrario (7). L’aggettivo « politica », per taluni starebbe a significare la differenza rispetto alla rappresentanza giuridica. Per chi riduce la rappresentanza politica — negandole ogni valore giuridico — « al semplice fenomeno politico-sociale della interpretazione delle aspirazioni e degli interessi del popolo da parte degli organi direttivi dello Stato, della aderenza della loro attivita` pubblica a quelle aspirazioni e a quegli interessi » essa finirebbe per esprimere un concetto, in definitiva, coincidente con quello, ambiguo, di rappresentativita`. Per altri invece la rappresentativita` cosı` intesa verrebbe a contrapporsi alla rappresentanza, collocata la prima nel campo politico, la seconda in quello giuridico (8). E, allora, posta (7) Sulla questione, anche in prospettiva storica, M. FRACANZANI, La rappresentanza politica: tra pubblico e privato, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Tomo CLIV (1995-1996), 197 ss. Per un indagine diretta a verificare se la rappresentanza politica si possa far rientrare nell’ambito di altre figure civilistiche e se sia accostabile alla rappresentanza degli interessi, A.A. ROMANO, La rappresentanza politica come legittimazione politica, in Archivio di diritto costituzionale, 1990, 62 ss. (8) V. GUELI, Il concetto giuridico della rappresentanza politica e la rappresentativita` degli organi di governo, ora in Scritti giuridici, Milano, 1976, 146-47.
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questa contrapposizione, la qualificazione della rappresentanza come « politica » esprimerebbe: a) il carattere del tutto indeterminabile a priori dell’ambito in cui dovrebbe svolgersi l’attivita` del rappresentante dato il carattere « libero e generale » del mandato rappresentativo; b) la genericita` dei fini cui e` diretta l’attivita` del rappresentante; c) la natura « politica » degli interessi che il rappresentante sarebbe chiamato a curare (che non sono tutti gli interessi) (9). Insomma, ancora controversa e` la risposta alla questione posta da Lavagna nel 1942 « se sia possibile la costruzione di un istituto costituzionale avente i caratteri fondamentali della rappresentanza e qualificabile... come rappresentanza di diritto costituzionale » — alla quale l’autore rispondeva negativamente. Infatti « pur potendosi, eventualmente, parlare di fenomeni di rappresentanza politica... si dovra` negare che ad essi corrispondano fenomeni di rappresentanza giuridica » (10). Cio` significa escludere un concetto giuridico di rappresentanza politica e, collocando l’una e l’altra « rappresentanza » in due sfere distinte, negare ad essa cittadinanza entro la sfera del diritto, escluderla come oggetto di studio dei giuristi? Oppure significa solo che essa presenta caratteri non coincidenti con quelli della rappresentanza giuridica di modello civilistico? Benche´ le conseguenze, nella prima e nella seconda ipotesi, siano assai diverse, e` in ogni caso dalla nozione di « rappresentanza » che bisogna partire. Dai significati ampi che il termine assume nell’uso comune, vengono sollecitazioni suggestive. In particolare, fra i diversi significati ricordati da Esposito (11), offre spunti di riflessione l’impiego del termine non solo per indicare una relazione fra persone: si dice infatti che una persona ne rappresenta un’altra, ma anche (9) Per le varie posizioni, si veda D. NOCILLA e R. CIAURRO, Rappresentanza politica, in Enc. Dir. XXXVIII, Milano, 1987, 543 ss. (10) C. LAVAGNA, Per una impostazione dommatica della rappresentanza (1942), ora in Problemi giuridici delle istituzioni, Milano, 1984, 99-100. (11) C. ESPOSITO, Lo Stato e la nazione italiana, in Archivio di dir. Pubbl., 1937, II, 462 ss.
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che una persona rappresenta un’idea, una corrente di idee. E, con riferimento al contenuto della rappresentanza, sembra da sottolineare il riferimento non solo all’agire « invece di un altro » e con effetto immediato per quest’ultimo, « ma in genere il sostituire altri, il prenderne il posto facendo presente cio` che in fatto e` assente ». I modi usati per esprimere l’essenza della rappresentanza talora nella sostanza coincidono o ben si integrano fra loro: ad esempio raffigurarla come « evocazione simbolica » (12) ha per premessa che una persona « rappresenti un’idea » o sia la « rappresentazione di una determinata realta` » (13); e che, percio` « sostituisca altri, ne prenda il posto » e sia, nei loro confronti, « responsabile ». Il che suggerisce forse la necessita` di considerare piu` significati insieme nella ricostruzione della rappresentanza politica; anche se non tutti contemporaneamente insieme, ma solo quelli reciprocamente implicati e fra loro non disgiungibili (14). Dunque lo stesso concetto di rappresentanza puo` variare, assumendo i significati conformi alle esigenze del momento storico, alle concezioni e alle ragioni pratiche di quel tempo, mentre gli altri restano temporaneamente in ombra, per riaffiorare, eventualmente, in un tempo futuro (15). E sembra pure suggestiva l’idea che in questo (12) Come ricorda N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Milano, 1991, 11, secondo H. FENICHEL PITKIN (The concept of Representation, Berkeley, 1967) cinque sono i significati della rappresentanza: conferimento di autorita`; responsabilita`; rappresentazione, specchio e riproduzione di una determinata realta`; evocazione simbolica; azione nell’interesse di un soggetto che non puo` o non vuole agire personalmente. (13) Vedi sopra, nota precedente. (14) Ad esempio, come osserva N. ZANON, Il libero mandato, cit., 11, nota 16, solo il secondo dei significati menzionati sopra alla nota 12, cioe` la « responsabilita` » e` rapportabile alla concezione giacobina della rappresentanza. Si veda anche la nota seguente. (15) Sulla « storicita` » del concetto di rappresentanza, A. PAPA, La rappresentanza, cit., 241, 243. Inoltre, sottolinea M. TROPER, Del concetto di rappresentanza politica, in Filosofia politica, 1988, 195 ss., ciascuna delle « teorie della rappresentanza », fra loro profondamente diverse, « puo` servire da fondamento ad un certo numero di istituzioni. ». Ed e` pertanto « naturale e legittimo che i costituzionalisti moderni cerchino
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caso l’aggettivo (politica) reagisca sul sostantivo (rappresentanza) e l’espressione composta vada intesa come realta` unitaria sicche´ la rappresentanza politica e quella civilistica anziche´ sottospecie l’una dell’altra, siano congeneri (16). Fondamentale e` comunque il rilievo che, pur nelle diverse posizioni e nella diversa accentuazione delle funzioni della rappresentanza politica, tutte le teorie e definizioni implicano una qualche relazione fra il rappresentante e il rappresentato. E` dunque da tener presente la duplice componente del concetto: la situazione e il rapporto (17). La tendenza ad enfatizzare la distanza della rappresentanza politica dalla rappresentanza giuridica, dal modello civilistico, esprime l’intento di eliminare il « rapporto », cioe` di esasperare il distacco dei rappresentanti rispetto ai rappresentati. La punta estrema di questo distacco si raggiunge con lo slittamento nel concetto di « rappresentativita` » che — se scisso dall’elezione e dal rapporto con i rappresentanti — e` fuori dalla democrazia. Il monarca oppure il Presidente di una Repubblica parlamentare puo` rappresentare l’unita`, la nazione (per la Costituzione italiana, art. 87, comma 1, il Capo dello Stato rappresenta « l’unita` nazionale ») ma non e` un « rappresentante politico »: qui il termine rappresentare sta per « raffigurare », « simboleggiare », ma non esprime un rapporto democratico. 3.
Essenzialita` del rapporto: rappresentanza « istituzionale », posizioni rappresentative (Capo dello Stato).
Vale certamente la pena soffermarsi sul rapporto rappresentativo. I primi e fondamentali interrogativi da affrontare riguarper ciascuna di queste istituzioni la teoria... o il concetto di rappresentanza sul quale essa e` fondata ». (16) Come conclude U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, in Pol. del dir., 1995, 534 ss. (17) D. NOCILLA e L. CIAURRO, cit., 545 ss.
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dano appunto tale rapporto, che, nella concezione « liberale » della rappresentanza, sembra scolorirsi fino a sparire. Ma, in tal caso, ammessa una siffatta configurazione, quali elementi consentono ancora il riferimento agli « elettori » delle decisioni assunte dai loro rappresentanti? Ed e` addirittura da chiedersi se un « rapporto » tanto sfumato e praticamente inesistente sia in grado di soddisfare le esigenze della democrazia. Vi e` anche un altro risvolto da considerare, cui ho appena accennato che riguarda le implicazioni di posizioni siffatte: dall’assoluta indipendenza dei « rappresentanti », portatori di un’autorita` propria, svalutandosi il rapporto e quindi il legame con gli elettori, la stessa elezione (che si riduce alla scelta — come si usa dire — dei migliori) si svaluta, sicche´, per sfumature, si passa alla scissione tra rappresentanza ed elezione, e in definitiva al concetto di rappresentativita` che dall’elezione e` indipendente (18). Anche il Presidente della Repubblica, in questo senso, infatti, puo` dirsi rappresentativo, ma di certo non puo` definirsi un « rappresentante politico », anzi, non deve essere considerato tale. In base ai principi del sistema parlamentare il Capo dello Stato ha da essere super partes quindi non puo` « rappresentare » chi lo ha eletto, non puo` essere in rapporto con una parte (nemmeno con la maggioranza) dei suoi elettori (i parlamentari) o del corpo sociale, proprio in quanto deve simboleggiare (in questo senso « rappresentare ») l’unita`. E` per questo che per la sua elezione il voto e` segreto: il Presidente della Repubblica non ha da essere ricollegato a nessun partito o gruppo, non deve essere « espressione » di alcuna parte, nemmeno dev’essere conosciuto quali membri del parlamento riunito abbiano votato per lui (19).
(18) Si veda D. NOCILLA e L. CIAURRO, Rappresentanza politica, cit., 358-560. D. NOCILLA, Brevi note in tema di rappresentanza e responsabilita` politica, in Scritti in onore di V. Crisafulli, II, Padova, 1985, 564. (19) Sull’elezione del Presidente della Repubblica, G.U. RESCIGNO, Art. 83, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna, 1978, 1 ss.
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Considerando la figura giuridica del Capo dello Stato come risulta dai principi della forma parlamentare di governo vigente in Italia e dalla normativa specifica che ne disciplina posizione, funzioni, responsabilita` e irresponsabilita`, e` ben evidente che, quando il rapporto rappresentativo si elimina, di rappresentanza politica non si puo` parlare. E si conferma il legame tra rappresentanza politica e responsabilita` (20): il Presidente della Repubblica, che non e` un rappresentante politico, e`, appunto, politicamente irresponsabile. Di lui sembra corretto dire che riveste una posizione rappresentativa (21). Illuminante per comprendere appieno la differenza fra rappresentanza e rappresentativita` e chiarire come solo la prima sia specificamente collegata alla democrazia, e` la riconsiderazione delle dottrine che ne tentavano una collocazione nell’ambito dello Stato fascista. Premesso che la concezione organica dello Stato « inserendosi nell’ordinamento giuridico di esso, e divenendone cosı` il principio costituzionale » esclude « in quanto risolve in unita` tutti gli elementi dell’ente politico » l’antitesi tra i due termini del rapporto politico: governanti e governati « membra diverse di uno stesso grande corpo, solo in posizione diversa nell’organizzazione giuridica dello Stato » (22). La rappresentanza come « rapporto » e` totalmente in ombra (poi sara` eliminata) rispetto al potere rappresentativo, esercitato dai soggetti investiti di potere pubblico come rappresentanti dello Stato (con il quale la comunita`, organizzata appunto come Stato, si identifica). Il carattere rappresentativo che spetta ai soggetti investiti dell’esercizio di potere pubblico nei confronti dello Stato « automaticamente coincide con il loro carattere rappresen(20) Legame negato da alcuni (in particolare da LEIBHOLZ, cit.) che, viceversa, deve sussistere, sia pure assumendo forme diverse (in proposito si veda, ad esempio, F. LANCHESTER, Rappresentanza, responsabilita` e tecniche di espressione del suffragio, Roma, 1990, 9 ss.). (21) In senso analogo C. MORTATI, Art. 67, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna, 1986, 179 ss. (22) Cfr. V. GUELI, Il concetto giuridico, cit., 149 ss.
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tativo nei confronti della nazione » nell’interesse della quale essi agiscono (23). Il fatto reale su cui « il diritto si fonda per presumere l’idoneita` del rappresentante a sostituirsi al rappresentato » e` il rapporto che lo collega ad una « istituzione sociale e cioe` (per la concezione organica della nazione), alla Nazione stessa in un suo determinato aspetto ». E` sempre la Nazione ad essere rappresentata, non le diverse istituzioni; in quest’ottica tutti gli organi sono rappresentativi: Re, Duce Capo del Governo, Senato, Camera dei Fasci, Gran Consiglio del fascismo (24) i quali agiscono nell’interesse dello Stato. Si parla ormai, piuttosto che di rappresentanza politica, di rappresentanza istituzionale. Importante e` soffermarsi su quest’ultimo concetto perche´, mi pare, essendo un discorso « estremo », mette alla prova le teorie sulla rappresentanza: poiche´ nella versione di Esposito questa prescinde sia dal mandato sia dall’elezione, sembra ridursi, come nota Paladin (25), ad una variante del tema della rappresentanza politica come finzione (o « se si preferisce — come realta` puramente giuridica »). Cosa significa questo, guardando al di la` delle parole, se non che e` il diritto che attribuisce la qualifica di « rappresentante » ad un organo o soggetto a prescindere da qualunque ragione di collegamento con chi ha da essere « rappresentato »? Com’e` noto, Esposito basa la sua affermazione sull’art. 41 dello Statuto albertino per il quale i deputati « rappresentano la nazione in generale e non le sole provincie in cui furono eletti »; e, d’altra parte, lo stesso Statuto, all’art. 2, definisce rappresentativo l’intero sistema di governo. Nemmeno il consenso dei rappresentati ha valore al(23) Potere rappresentativo « o di sostituzione e deviazione degli effetti giuridici dell’attivita` del rappresentante verso la sfera giuridica del rappresentato » che e` « l’effetto giuridico caratteristico della rappresentanza », uno dei suoi elementi costitutivi (l’altro e` il fatto reale, « volontario o non » a cui quell’effetto e` ricollegato): GUELI, Il concetto, cit., 148-151. (24) Op. ult. cit., 153-165. (25) L. PALADIN, Il problema della rappresentanza nello Stato fascista, in Studi in memoria di C. Esposito, II, Padova, 1972, 853.
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cuno; l’investitura e` puramente legale e non implica alcuna conformita` con le aspirazione o gli interessi dei rappresentati ne´ alcun dovere d’interpretarle o di assicurarne la soddisfazione. Si tratta, insomma di una sostituzione automatica e permanente dei rappresentanti ai rappresentati (26). In questa configurazione — mi sembra chiaro — sparisce anche ogni questione di responsabilita`. In tale sostituzione, che si risolve in una situazione, consiste la rappresentanza, giuridica e insieme politica. Sono queste le conseguenze cui si giunge eliminando ogni attenzione per il rapporto rappresentativo, come ben risulta del resto dalle considerazioni di illustre e antica dottrina (27) in definitiva attestata sul carattere « fittizio » della rappresentanza: particolarmente espressivo il rilievo di Siotto Pintor (28) per il quale « la proposizione che designa l’eletto come rappresentante dell’intiera nazione, non ha e non puo` avere che un senso negativo: significa cioe` che esso non rappresenta i propri elettori ». In realta` — come Paladin tende a sottolineare — gli studi di Esposito piu` che alle teorie della rappresentanza, portano contributi al dualismo fondamentale fra Stato-persona e Stato-nazione, contro l’idea chiaramente espressa nella proclamazione iniziale della Carta del Lavoro per cui « la Nazione italiana... si realizza integralmente nello stato fascista ». Dualismo che sara` poi alla base delle piu` democratiche costruzioni (29). La cosa piu` inquietante e` che il riferimento alla « rappresentanza istituzionale » non ha solo il valore di un richiamo storico, al passato, ma ad un concetto che ritorna: Andrea Manzella, su La Repubblica del 7 marzo scorso lo ripropone. In che senso ne (26) Si veda ancora L. PALADIN, Il problema della rappresentanza, cit., 853-854. (27) Da Rossi a Orlando: vedi L. PALADIN, Il problema, cit., 855 nota 14. (28) Le Riforme del Regime elettorale e la dottrina della Rappresentanza politica e dell’Elettorato nel secolo XX, Roma, 1912, 65-66. (29) Mi riferisco in particolare al pensiero di Crisafulli sul rapporto popolo / Stato (infra e nota 41), ripreso del resto dallo stesso L. PALADIN, Diritto Costituzionale, Padova, 1998, 269 ss.
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parla? Cosa intende esprimere con quel termine oggi, di diverso rispetto a situazioni inserite in un sistema tanto lontano (e non solo nel tempo) da quello della Costituzione del 1948? Forse l’uso dell’aggettivo « istituzionale » s’iscrive nella tendenza — che si rinviene in scritti recenti (30) che riprendono dottrine non nuove (31) — ad estendere in qualche modo la qualifica di rappresentanti ad organi diversi dalle assemblee elettive in particolare all’« esecutivo », in armonia con le tendenze dei politici a modificare la nostra forma di governo (32). Ma cosı` si scivola di nuovo nel pericoloso concetto di « rappresentativita` », buono per tutti, anche per i sovrani e si disperde il carattere democratico della rappresentanza politica (33). Di questa — va chiarito — da un lato non puo` parlarsi se l’investitura non avviene mediante elezioni (34), che sono pero` necessarie (30) Si veda ad esempio, A. PAPA, La rappresentanza politica, Napoli, 1998, in particolare 244 ss. (31) Si veda ad esempio G. LEIBHOLZ, La rappresentanza, cit., 133-135 per la qualifica anche del governo come « rappresentante », sia nel sistema di governo rappresentativo che nel sistema di governo parlamentare: « Il governo soprattutto e` uno dei rappresentanti che decidono in maniera autonoma negli Stati rappresentativi »; « Oltre che dal governo, entro l’ambito del sistema rappresentativo — nel processo di integrazione funzionale dello stato — la totalita` del popolo viene rappresentata in primo luogo dal parlamento ». Del resto, lo stesso autore (ivi, 131) usa il termine « rappresentante » anche a proposito del principe nella monarchia assoluta. Parlava gia` di rappresentanza « istituzionale » VACCHELLI, Concetto giuridico del diritto politico, Pisa, 1899, 30. (32) Come giustamente rileva M. FRACANZANI, La rappresentanza politica tra pubblico e privato, cit., 208, l’attuale tendenza « mira paradossalmente a fondare la legittimazione del potere sulla presunta rappresentanza e il consenso dei governati, unita alla massima indipendenza dei governanti ». Ed osserva (nota 11) che le recenti riforme elettorali orientate verso il maggioritario « sono state introdotte dichiaratamente proprio per garantire stabilita`, seppure a scapito della ‘‘somiglianza’’ con l’elettorato, criterio fondamentale del sistema proporzionale ». Sulle tendenze recenti, criticamente, fra gli altri, G. FERRARA, Sulla rappresentanza politica. Note di fine secolo, in Riv. dir. cost., 1998, 20 ss. (33) Si osserva — D. NOCILLA e L. CIAURRO, Rappresentanza politica, cit., 560 — che partendo dalla « teorizzazione dell’assoluta, totale indipendenza della rappresentanza politica dalla elezione » si finisce per qualificare « come rappresentativo ogni tipo di apparato statale » dalla dittatura alla monarchia assoluta al totalitarismo. (34) Diversamente, ad esempio, R. MORETTI, Art. 67, in CRISAFULLI e PALADIN, (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 406 ss., il quale esclude un « nesso d’implicazione necessario » fra rappresentanza ed elezione, anche se — ag-
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ma non sufficienti; di rappresentanza politica non puo` parlarsi infatti neppure rispetto ad un organo monocratico (anche se eletto): una sola persona puo` essere forse genericamente rappresentativa (in particolare nell’ottica delle teorie « dell’integrazione » (35), ma non mi sembra possa essere considerata un rappresentante politico. In presenza delle tendenze accennate, e` ancor piu` necessario riflettere sulla rappresentanza dato che « le istituzioni non sono l’applicazione di una dottrina », ma « al contrario le dottrine.., sono la conseguenza della scelta di questa o quella istituzione » (36), per non ritrovarsi poi, giunti al vertice dell’astrazione, a riavere rappresentanti senza rappresentati: lo scacco della democrazia. 4.
Una « rappresentanza » conforme alla « democrazia » della Costituzione.
La lontananza di alcune recenti « riproposizioni » dal modello democratico e` piu` evidente quando si consideri a quale concetto di democrazia si ispiri la Costituzione italiana. giunge poi — « la finalita` d’istituire un legame non fittizio fra cittadini ed organizzazione autoritaria » e` meglio raggiunto « quando sussiste un rapporto di derivazione elettorale fra il deputato e la collettivita` ». (35) Infatti, anche G. LEIBHOLZ, La rappresentanza, cit. si richiama continuamente a HELLER e, soprattutto a SMEND. (36) M. TROPER, Del concetto di rappresentanza politica, cit., 196-199, il quale ad esempio mettendo alla prova con l’aiuto della storia certe proposizioni, ritiene non vero « che la sovranita` nazionale implica il mandato rappresentativo dal momento che i costituenti del 1791, avendo proclamato il principio della sovranita` nazionale, vi hanno fatto riferimento quando hanno adottato in seguito il sistema del mandato rappresentativo » (come afferma CARRE´ DE MALBERG): si tratterebbe di una « dimostrazione del tutto inoperante ». L’autore spiega appunto con scelte legate alle contingenze certe prese di posizione teoriche: ad esempio, riandando al dibattito del 10 agosto 1791, collega le affermazioni contrastanti di Barnave « la qualita` di rappresentante non e` legata all’elezione » e di Robespierre « e` legata all’elezione » col diritto di veto che quest’ultimo — a differenza del primo — aveva l’obiettivo di rimettere in discussione. Il re infatti, non essendo eletto, non avrebbe potuto essere qualificato rappresentante e, dunque, « non puo` partecipare con il veto all’esercizio della sovranita`, cioe` all’espressione della volonta` generale ». Per l’illustre autore, in definitiva, « la teoria della rappresentanza assolve sempre la stessa funzione: giustificare l’esercizio della funzione legislativa ».
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Lo studio della rappresentanza politica esige infatti comunque un chiarimento preliminare sul concetto di democrazia che si assume. Non e` di certo indifferente e conduce a ben diverse conseguenze muovere dal concetto di democrazia maggioritaria o di democrazia pluralista (37), dal concetto di « democrazia d’investitura » o da quello di « democrazia permanente », accolto, si ritiene, nella Costituzione italiana (38). Quest’ultimo infatti s’impernia, in primo luogo, sulla continuita` democratica — « vale a dire sulla circostanza che le istituzioni di governo siano in permanenza espressione », diretta o indiretta, della sovranita` e volonta` popolare (democrazia permanente) » — ed esige una « continua ed effettiva rispondenza » dei risultati delle procedure democratiche « alla reale volonta` del popolo » (39). Volonta` che non ha dunque da essere rilevante solo al momento dell’investitura dei soggetti politici liberi poi di esercitare il potere cui il corpo elettorale li ha legittimati secondo criteri propri (40), di cui non dovranno dar conto se non alla fine del mandato, ossia al momento di una nuova investitura; ammesso che vi sia modo di chieder loro effettivamente conto! Infatti, quando il sistema elettorale e` conge-
(37) Sinteticamente L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., 262 ss. M. LUCIANI, Il voto e la democrazia, Roma, 1991, 10 ss., 21 ss., insiste particolarmente sull’impianto costituzionale « aperto e pluralistico » nel quale si e` manifestata una vera e propria conventio ad integrandum di tutte le forze politiche antifasciste nelle sedi della rappresentanza (se non in quelle del governo). (38) Espressione usata da C. LAVAGNA, Il sistema ellettorale nella Costituzione italiana, in Riv trim. dir. pubbl., 1952, 856. (39) C. LAVAGNA, ult. cit. (40) Come ricorda N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, in BALBO, BOBBIO, INGRAO, PASQUINO, RIDOLA, Rappresentanza e democrazia, Bari, 1988, 13, secondo FILMER (Patriarca, III, 14) il popolo « deve limitarsi ad eleggere e rimettersi ai suoi eletti che facciano a loro arbitrio ». Poiche´ non mi sembra possibile avvicinare al pensiero dell’autore seicentesco il « pensiero » della Costituzione repubblicana, nemmeno le idee di quello sul rapporto elettori/eletti sembrano, nel nostro contesto, in qualsiasi modo utilizzabili. Ben sottolinea G. FERRARA, Le forme di governo, in Quale riforma della Costituzione? (a cura di G. AZZARM), Torino, 1999, 22-23, « il regime parlamentare ha come cardine la rappresentanza politica, espressa unitariamente dal corpo elettorale e dal corpo elettorale conformata come plurale. Plurale perche´ esprime un’entita` da rappresentare che e` divisa e conflittuale, percio` articolata in parti diverse e contrapposte ».
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gnato in modo non solo da ridurre la scelta dell’elettore a due schieramenti, ma pure senza altra alternativa che votare per l’unico candidato deciso dallo schieramento, non sembra che l’elettore medesimo possa esprimere la sua insoddisfazione se non attraverso l’astensione dal voto. Quali altre alternative gli si offrono? Nella valutazione della maggiore o minore democraticita` di un sistema in rapporto al tipo di rappresentanza politica deve dunque rientrare anche la considerazione del sistema elettorale. In primo luogo per comprendere fino a che punto sia attribuita agli elettori una effettiva possibilita` di partecipazione attraverso proprie scelte fra offerte diversificate (di programmi, di persone) ma anche per altre sostanziali ragioni. Non e` di certo indifferente verificare quanta parte del corpo elettorale gli eletti, con i diversi tipi di sistemi elettorale, esprimono. Il rischio di una democrazia nella quale in definitiva e` determinante solo una ristretta parte del corpo elettorale, ossia di una democrazia sempre piu` verticistica, e` un rischio serio da non sottovalutare. E` importante tener fermo quello che Crisafulli — in base al dualismo tra apparato e corpo sociale — sostiene: « lo Stato moderno puo` dirsi realmente rappresentativo, in quanto esso sia organizzato in modo da dar vita ad un collegamento, stabile ed efficiente tra lo stato medesimo e la collettivita` popolare » (41). 5.
L’unita` della rappresentanza nella dottrina conservatrice e la svalutazione del rapporto rappresentativo.
La dottrina di fine ottocento gia` sottolineava la differenza della moderna rappresentanza da quella medioevale dove il rappresentante — del borgo o della corporazione — « non pensava menomamente che in forza di questa sua stessa funzione potesse diventare un rappresentante di tutto lo stato » (42). E qui normal(41) La sovranita` popolare, 449. (42) V. MICELI, Il concetto giuridico moderno della rappresentanza politica, Perugia, 1892, 15.
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mente viene collocato il punto di rottura rispetto alle esperienze del passato, la novita` decisiva che cambia natura e qualita` all’istituto (43). A parte la correttezza della rigidita` di tale contrapposizione (44), resta da interrogarsi sulle ragioni e sull’essenzialita` del passaggio, sulla indefettibilita` della rappresentanza del « tutto »: non sara` solo un inevitabile portato della tendenza ad assorbire la complessa realta` dietro l’unita` artificiale della personalita` dello Stato? (45) Non va dimenticato che l’organicismo domina la dottrina tedesca cui la nostra decisamente s’ispira: basta pensare a V.E. Orlando e all’influenza del suo pensiero. La domanda non e` del tutto retorica se si considera che la dottrina conservatrice, piu` ostile alle idee della Francia rivoluzionaria — da Filmer a Burke — e` contro ogni idea di « mandato » vincolante per gli eletti, per i quali si vuole, invece, la piu` ampia liberta`. Nel suo famoso discorso agli elettori di Bristol (1780) Burke si esprime chiaramente: « Parliament is not a congress of ambassadors from different and hostile interests...; but Parliament is an deliberative assembly of one nation, with one interest, that of the whole; where not local purposes, not local prejudices ought to guide, but the general good... » (46). E i critici del moderno Stato borghese leggono in chiave conservatrice (pur da altra prospettiva) gia` l’origine dell’unita` della rappresentanza e (43) Oltre a MICELI, cit., v. di recente F. CASSELLA, Profili costituzionali della rappresentanza, Napoli, 1997, 60 ss. 75 ss., 90 ss., 103, 107 ss. per una ricostruzione della rappresentanza nelle diverse epoche storiche. E per un’analisi critica e approfondita delle cause, origini e giustificazioni « dell’istituto che va sotto il nome di divieto di mandato imperativo » nella storia parlamentare e nella teoria costituzionale, N. ZANON, Il libero mandato, cit., 1-88. (44) Sulla quale si vedano, ad esempio, le perplessita` di A.A. ROMANO, La rappresentanza politica, cit., 58. (45) L. CARLASSARE, La « Dichiarazione dei diritti » del 1789 e il suo valore attuale, in Principi dell’89 e Costituzione democratica (a cura di L. CARLASSARE), Padova 1991, 14-15, 35-36. Su cio` in particolare A. NEGRI, Alle origini del formalismo giuridico, Padova, 1962, 330 ss. (46) Lo si veda in C.J. FRIEDRICH, Representation, in Encyclopedia Britannica, 1964, 163, s.
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della concezione per cui gli eletti rappresentano la « nazione » senza legame con gli elettori; e sottolineano, come nella Francia rivoluzionaria, l’idea del mandato imperativo cade nel momento stesso in cui la borghesia conquista il potere e, temendo che la diretta dipendenza dei rappresentanti dai rappresentati riproduca la scissione del tessuto sociale, vuole impedire che « un rapporto diretto e continuo divenga tramite di una volonta` contraddittoria da quella egemone borghese » (47). L’interesse generale, il bene comune puo` cosı` coincidere con quello della classe dominante che tende a gestire globalmente il potere (48). Se questa era la logica che ispirava l’unita` della rappresentanza, sarebbe da chiedersi che « senso » abbia oggi la sua riaffermazione e in quale logica attualmente si muova. Non e` semplice, infatti districare le complesse radici degli istituti collegati a democrazia e rappresentanza; una forte ambiguita` pervade le stesse idee portanti, spesso ispirate a logiche contraddittorie e differentemente usate. Com’e` troppo noto perche´ ci si debba soffermare, nell’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’89 la parola « Nazione », fu preferita a « popolo », proposta dal conte di Mirabeau, per esprimere il concetto che la rappresentanza « e` una e indivisibile », cioe` non puo` essere divisa fra gli ordini e gli stati in cui era divisa la societa` del tempo » (49): unita`, quindi, in ragione
(47) A. NEGRI, Rappresentanza, in Enciclopedia Feltrinelle-Fischer, Scienze Politiche, I (Stato e Politica), Milano, 1970, 398. (48) Come ricorda N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 20, la critica piu` radicale al « libero mandato » e` venuta dal movimento operaio d’ispirazione marxistica sulla scia delle rivendicazioni di una vera e propria rappresentanza — quindi con revoca del mandato da parte del mandante — fatte da Marx nel commento ai fatti della Comune di Parigi: « la rappresentanza senza vincolo di mandato che aveva eliminato il particolarismo dei corpi intermedi, in nome di un preteso interesse generale, in realta` aveva favorito, secondo l’interpretazione della sinistra rivoluzionaria la rappresentanza della classe che aveva sostituito il proprio potere a quello del monarca ». Per le contraddizioni non risolte del concetto di « popolo », G.U. RESCIGNO, La sovranita` popolare ieri e oggi, in Principi dell’89 e Costituzione democratica (a cura di L. CARLASSARE), Padova, 1991, 85 ss. (49) N. BOBBIO, La Rivoluzione francese e i diritti dell’uomo, 27-28.
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della distruzione di differenze e privilegi, in funzione dell’eguaglianza (50). Tale concezione, appunto della rappresentanza di tipo francese, la rappresentazione « astratta e atomistica della societa` che e` ad essa sottesa » (51) era l’obiettivo polemico della dottrina tedesca, e sara` dunque da una prospettiva opposta, quella di una visione organicistica (52), che anch’essa esigera` il libero mandato, sempre nell’ottica dell’unita`, dell’interesse del tutto che resta ancora oggi sottostante alla difesa di quella liberta`: il divieto di mandato imperativo viene infatti considerato elemento strutturale della democrazia rappresentativa in quanto condizione necessaria « per rendere possibile l’attivita` rappresentativa, intesa come agire per il popolo nella sua totalita` » (53). L’unita`, dunque, puo` essere vista da prospettive opposte: storicamente puo` intendersi anche come una conquista, un valore da realizzare contro la societa` a strati, a comparti chiusi, generatrice inevitabile di diseguaglianze. Chiedersi, oggi, se quell’esigenza di « liberazione » possa dirsi ancora sottostante all’idea di « unita` » e` contro la realta`: l’unita` appare semmai come un modo per occultare le differenze (54) dietro una finzione che consente il massimo (50) L. PALADIN, Il principio costituzionale di uguaglianza, Milano, 1962, 3. (51) G. DUSO, La rappresentanza politica e la sua struttura speculativa nel pensiero hegeliano, in Quaderni fiorentini, 1989, 53, 56, 60. (52) Come si vede il discorso e` pervaso da ambiguita`, la contraddittorieta` e` forte (supra, nota 42), com’e` evidente in particolare dalla constatazione che, semmai, anche piu` di recente e` proprio nell’ottica organicista, delle categorie, degli interessi che si pensa al « mandato » come ricorda N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 19. Anche a questo proposito e` utile la rilettura di F. RUFFINI, Guerra e riforme costituzionali, Torino, 1920, 53-72. (53) E.W. BOECKENFOERDE, Democrazia e rappresentanza, in Quaderni costituzionali, 1985, 247. (54) Su cio` M. PEDRAZZA GORLERO, L’eguaglianza fra liberta` e convivenza, in Principi dell’89 e Costituzione democratica, cit., 97 ss., in particolare 102 ss. N. ZANON, Il libero mandato, cit. 88, affermato che « l’immagine del rappresentante della nazione maschera la situazione reale », una situazione, conclude — citando G. ZAGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del dirintto, Torino, 1984, 155 — « in cui una sola frazione della societa` (la borghesia) opera uno scambio tra i propri interessi e quelli generali, ponendo se stessa come classe generale ».
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svincolo del potere dalle base sociale e la massima liberta` a chi lo gestisce, senza responsabilita` o vincoli. Da angolazioni diverse, anzi fra loro conflittuali, si giunge al medesimo risultato: scollegare i rappresentanti dai rappresentati. La contraddizione e` forse solo apparente: il fulcro del discorso e` sempre l’interesse (55), il carattere unitario che gli si vuole attribuire: e` a questo che gia` Burke si richiama (56). 6.
Gli interessi e la loro composizione fuori dalle sedi della rappresentanza.
Ma, allora, caduta ormai da tempo l’idea astratta dell’interesse nazionale come interesse oggettivo, neutralmente verificabile, cui la rappresentanza « generale » era collegata (57), chiarito che la questione e` quella della composizione degli interessi in conflitto, sarebbe il caso di riconsiderare la rappresentanza o almeno di chiarire meglio il senso e i limiti di alcuni suoi caratteri intesi forse, talora, in modo eccessivamente rigido. Inutile insistere su discorsi da tempo scontati, in particolare sulla critica all’idea astratta dell’interesse generale e il suo contrasto con la realta` che, viceversa, presenta interessi molteplici e in confitto. Il tentativo di farli sparire dentro l’astrazione dell’interesse generale, del bene comune, esasperando il carattere « generale » della rappresentanza — quindi la scissione fra i « rappresentanti » e gli interessi sociali che chiedono di emergere e di essere rappresentati — questa sı` e` una « finzione » (58). (55) Come si e` ora detto: supra e note 49-52. (56) Sulla questione del rapporto fra interessi e rappresentanza N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 17 ss., 22 ss. (57) Ma, si chiede N. BOBBIO, loc. ult. cit., « l’interesse generale puo` veramente essere rappresentato nel senso proprio della parola, nel suo senso tecnico giuridico? Questo e` il problema ». (58) Sempre valide, in proposito, le considerazioni di C. MORTATI, Art. 67, in Commentario, cit., 179 ss.; ID., Note introduttive ad uno studio sui partiti politici, in Scritti giur. in memoria di V.E. Oriando, II, Padova, 1957, 158 ss. Del resto, quando si contrappone la rappresentanza politica alla rappresentanza organica o degli inte-
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La necessita` di dare voce e accesso diretto a interessi diversi specificamente individuati si e` fatta sempre piu` evidente e pressante, anche se e` avvertita da sempre (59). Nella prassi non e` neppure possibile celarla, anzi trova soluzioni giuridiche ormai formalizzate: non e` forse frutto anche di quell’astrazione della « rappresentanza » la necessita` di trovare canali diversi, forme differenti di composizione di specifici e fondamentali interessi, fuori dalle sedi tradizionali della rappresentanza? Ecco, ad esempio, le trattative triangolari fra governo e parti sociali. In proposito si osserva che « la varieta` degli interessi presenti nelle societa` pluralistiche » e il loro « mutevole aggregarsi e disaggregarsi » incidono sul modo di essere delle democrazie pluraliste; e che, in questo quadro, « venendo progressivamente meno la possibilita` di individuare e curare l’interesse generale... si frantuma la stessa mediazione politica e conseguentemente la determinazione degli interessi assunti come pubblici » (60). Dove sta quindi l’interesse comune, l’interesse generale presupposto della « generale » rappresentanza? La risposta e` nelle inevitabili conseguenze. Si rileva infatti che gli atti di concertazione assoggettano il governo ad assicurare il piu` ampio consenso possibile « facendosi comunque carico di ulteriori forme di consultazione con altre soggettivita` », ossia con portatori di interesse diversi ressi, « non si vuol dire affatto che la rappresentanza politica non sia anch’essa una rappresentanza d’interessi », sottolinea N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 236, nota 34. La teoria delle « fictiones » per quanto riguarda la rappresentanza era gia` stata sviluppata dai glossatori: si veda G. LEIIBHOLZ, La rappresentazione, cit., 236, nota 34. (59) Basta ricordare, per tutti, l’importante studio, ampiamente documentato, di F. RUFFINI, Guerra e riforme, cit., 15, dove il sistema elettorale maggioritario e` fortemente combattuto anche tenendo conto della necessita` di rappresentare la varieta` della struttura sociale, la diversita` degli interessi e delle situazioni per dare « alla volonta` del popolo uno strumento per manifestarsi, piu` pieno, piu` esatto, piu` giusto, che non sia il sistema maggioritario; tale cioe` da consentire non solamente l’espressione delle opinioni individuali, ma delle collettive, rappresentate dai partiti, e una espressione veramente proporzionata alla loro forza ». (60) A. CAPOTOSTI, Concertazione e riforma dello Stato sociale nelle democrazie pluraliste, in Quaderni cost. dicembre 1999, 484.
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non « concertati ». E cio` « anche per evitare che la rilevante componente atipico-precaria del lavoro autonomo possa formare una sorta di coalizione di interessi ‘‘non rappresentati’’ cosı` forte da porre in crisi tutto il sistema della concertazione e della contrattazione » (61). E il Parlamento? Si esclude subito che l’organo rappresentativo sia espropriato delle due funzioni o che il Governo lo consideri « come semplice organo di ‘‘ratifica’’ », perche´ « e` evidente che in sede di approvazione le Camere non possono subire alcuna menomazione derivante da precedenti accordi raggiunti in sede extraparlamentare »; anche se non si puo` negare — si aggiunge — che questi accordi « abbiano un loro ‘‘plusvalore’’ politico che, in quanto tale, penetra nelle valutazioni che sono alla base dei processi legislativi » (62). Non sarebbe il caso di superare le finzioni e consentire che la composizione degli interessi avvenisse essenzialmente nella sede parlamentare dove « tutti » gli interessi dovrebbero essere rappresentati? Ma, a questo fine, sarebbe anche necessario assicurasse davvero, in qualche modo, la rappresentanza. 7.
Rappresentanza e responsabilita`: il « recall ».
Non di rado lo Stato rappresentativo viene distinto dalla democrazia in base alla presenza o all’assenza del vincolo di mandato. Se il mandato e` vincolato dovrebbe parlarsi di democrazia, non di rappresentanza. Ma, allora, lo Stato rappresentativo non sarebbe una democrazia? Quali caratteri dovrebbe avere una « rappresentanza democratica »? La domanda va posta perche´ le contraddizioni che si aprono con simili considerazioni ben dimostrano che qualcosa non torna in alcune affermazioni diffuse (in base alle quali si dovrebbe addirittura escludere a priori una rappresentanza democratica) che, pur considerate « sicure », non solo sono ribaltabili in linea teo(61) (62)
A. CAPOTOSTI, Concertazione, cit., 488. A. CAPOTOSTI, Concertazione, cit., 489.
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rica, ma, effettivamente e storicamente si presentano ribaltate. Liberta` del rappresentante e irresponsabilita` dello stesso al fine di garantire quella liberta`, predicate talora come connotati essenziali (63) della rappresentanza politica, in realta` non sono presenti in tutti i sistemi; in alcuni — non di secondaria importanza — liberta` e irresponsabilita` addirittura non fanno parte del concetto di rappresentanza politica benche´ si tratta di democrazie importanti e di vecchia data, la Svizzera, ad esempio, e gli Stati Uniti. Ed e` significativa l’attenzione dedicata (anche in Francia) nei primi decenni del ’900 ai loro strumenti di attivazione della responsabilita`, in particolare all’introduzione della revoca (recall) dei funzionari eletti da parte del popolo, considerata una « estensione importante della democrazia » (64). Anche in Italia, del resto, riflessioni e proposte non sono mancate; basterebbe lo studio di Biscaretti di Ruffia (65) a fornire adeguata testimonianza dei diversi modi in cui si e` manifestata la tendenze « a rendere il rapporto di scelta e di vaglio instauratosi fra gli elettori nel momento della votazione continuativo e duraturo anche durante l’intero periodo dell’esercizio del mandato parlamentare ». Non intendo con cio` suggerire l’introduzione del recall o di analoghi strumenti come rimedio ai moltissimi problemi venuti o tornati alla ribalta (66). Le soluzioni radicali e semplicistiche (63) E` qui sufficiente ricordare G. LEIBHOLZ, La rappresentanza, cit. (64) Ad esempio, nella Revue de droit public et de la science politique del 1920, 507 ss. e` pubblicato un articolo di J.W. GARNER, La revocation des agents publics par le peuple aux Etats Unis, dove si informa (p. 516) che in alcuni degli Stati membri della federazione americana e` stata adottata una soluzione radicale, per la quale tutti i funzionari, dell’esecutivo, del legislativo e del giudiziario, sono soggetti a revoca nelle medesime condizioni. (65) Nel documentato scritto di P. BISCARETTI DI RUFFIA, Su alcune recenti procedure e tendenze contrarie al principio dell’irresponsabilita` politica parlamentare, in Rass. dir. pubbl., 1947, 86 ss., si esaminano le diverse manifestazioni di quelle tendenze, gia` manifestatesi nei dibattiti della Francia settecentesca. (66) Fra gli altri pericoli collegati all’introduzione dei meccanismi esaminati, come in ogni tentativo « di superare la rappresentanza politica generale a favore di rappresentanze settoriali », puo` esservi anche quello che gli eletti finiscano per rappresentare le lobbies, piu` che i cittadini situati segnalato anche da A. BARBERA, Rappresentanza e istituti di democrazia diretta nell’eredita` della rivoluzione francese, in Politica del di-
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non sempre sono da preferire, ma la riflessione sulla responsabilita` non puo` essere accantonata e va condotta in modo libero da schemi « veri » soltanto perche´ acriticamente ripetuti. Non si puo` condurre una battaglia contro i tentativo di responsabilizzare in qualche forma gli eletti e di dare un qualche peso politico agli elettori in nome di un « astratto » concetto di rappresentanza politica smentito dalle concezioni delle piu` antiche democrazie. Il fatto che in pratica i meccanismi di attivazione della responsabilita` degli eletti siano scarsamente usati non ha importanza argomentativa: cio` che conta e` la loro esistenza che ben dimostra come non esista alcuna incompatibilita` fra rappresentanza e responsabilita` (67). Il recall, cioe` il meccanismo principalmente usato negli Stati Uniti attraverso il quale gli elettori possono rimuovere un funzionario pubblico dall’ufficio prima della scadenza del termine, e` basato sul principio che gli eletti sono agenti della volonta` popolare e, come tali, debbono essere soggetti al suo controllo. Se una percentuale determinata di elettorato (di norma il 25% di coloro che hanno partecipato alle ultime elezioni in quel distretto elettorale) non e` soddisfatta dell’azione di un eletto e firma una petizione per la sua rimozione, egli deve sottoporsi ad un’elezione generale per determinare l’opinione della maggioranza. Nella sua applicazione pratica il principio ha molte varianti sia per quanto riguarda le percentuali di elettori necessarie per la richiesta di revoca, sia per la contemporaneita` (preferita per ragioni di « economia ») o successione delle due votazioni: quella diretta a revocarlo e quella destinata ad eleggere il successore nella carica per il tempo restante del suo mandato.
ritto, 1989, 550. Sui limiti di una rappresentanza funzionale, di interessi, di categorie, di recente D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, Bari, 1996, 52 ss., ma, come si e` gia` ricordato, il problema e` antico: ad esempio gia` RUFFINI, Guerra e riforme, cit., ampiamente lo considerava. (67) Come predicava invece la dottrina tedesca (v. per tutti G. LEIBHOLZ, supra).
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In Svizzera, dove trova origine, la revoca era applicabile non solo ai singoli, ma all’intero corpo legislativo. Suggerito negli American Articles of Confederation e discusso nella Constitutional Convention del 1787, negli Stati Uniti trovo` la sua prima applicazione pratica nel 1903 a Los Angeles (Califomia) nello statuto metropolitano (city charter). Fu adottato poi da vari Stati: Oregon (1908), California (1911), Arizona, Idaho, Washington, Colorado, Nevada (1912), Michigam (1913), Louisiana, North Dakota e Kansas (1914). In realta` e` poco usata, ma — si sostiene — la sua efficacia va valutata non tanto sulla frequenza dell’impiego, quanto sulla influenza preventiva limitante che puo` esercitare (68)). Vale la pena qui sottolineare che il vero problema, e la battaglia, sorse quando il recall si volle estendere al potere giudiziario: con lo slogan « recall of judicial decisions » — soprattutto nel 1912, durante la presidenza Roosevelt — si tento` di servirsene per rimuovere i giudici che avessero dichiarato incostituzionale un atto del potere politico. Prevalse infine l’opinione contraria in base alla considerazione che il potere giudiziario dev’essere « indipendente dalle passioni popolari e dalle pressioni politiche » (69). Considerazione che, evidentemente, non vale per i parlamentari, i quali, viceversa, non dovrebbero essere « indipendenti » dal popolo che rappresentano. Cio` mi pare assai significativo ai fini della configurazione della rappresentanza politica e dei suoi caratteri: il fatto della previsione d’un meccanismo di attivazione della responsabilita` degli eletti da parte degli elettori sembra gia` da solo sufficiente a negare che la piena liberta` del mandato, e comunque, l’irresponsabilita` costituisca un carattere essenziale e qualificante del concetto « liberale » di rappresentanza e a smentire le dottrine che lo sostengono. (68) (69)
W. CROUCH, Recall, in Encylopaedia Britannica, vol. 19o, 1964, 10-11. Loc. ult. cit.
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Il collegamento assicurato dai partiti.
E` da chiedersi ancora, abbandonando il sistema nord americano, se in ordinamenti come il nostro l’idea dell’assoluta irresponsabilita` e liberta` dei parlamentari, da qualcuno astrattamente predicata, corrisponda alla realta`, corrisponda « al reale svolgimento dei fatti » (70) e se sia accettata dagli elettori. Sarebbero davvero tollerabili rappresentanti del tutto privi di responsabilita`? Con cio` incontriamo necessariamente un’altra tematica, strettamente intrecciata ormai nella prassi oltre che nella rappresentazione teorica al rapporto rappresentativo: quella relativa ai partiti. I partiti, appunto, svolgendo una funzione di collegamento fra elettori ed eletti sono stati l’elemento chiave per superare efficacemente la contraddizione della rappresentanza politica che il loro porsi come organizzazione della societa` e non piu` solo come aggregazioni di deputati interna al Parlamento ha in parte celato, in parte effettivamente risolto. Se il voto e` dato al partito prima che alle persone, cio` che garantisce l’elettore e` il vincolo alla liberta` del deputato costituito dal partito nel cui segno e` eletto. Infatti — com’e` per tutti pacifico (71) — la funzione di attivare una forma di responsabilita` dei parlamentari e di collegarli con il corpo elettorale e` stata svolta dai partiti, il cui « sistema » riguarda dunque non solo la forma di governo, ma la stessa forma dello stato, « l’insieme degli equilibri e dei poteri che determinano il nesso tra questo e la societa` ». Sistema che e` democratico (70) Il reale svolgimento dei fatti e` una cosa diversa dalle « affermazioni di principio » osserva N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 22-23, nel chiedersi se il principio del mandato libero che « ha resistito formalmente », abbia « resistito anche sostanzialmente », per concludere poi negativamente, considerando il sistema di rapporti dello « Stato dei partiti ». Come rilevava H. KELSEN, Intorno al valore e alla natura della democrazia, in Lineamenti di una teoria generale dello stato e altri scritti, Roma, 1932, 80-81, attraverso il funzionamento dei. partiti nel suffragio universale, si afferma l’imperativita` del mandato. (71) Anche per coloro che vedono negativamente il ruolo assunto dai partiti come, ad esempio G. LEIBHOLZ, La rappresentazione, cit., 138 ss., 161 ss., 167.
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« nella misura in cui assicura a se stesso la massima efficacia sia nel senso dell’intensita` della rappresentanza che in quello dell’unita` della mediazione » (72). La domanda posta nel paragrafo precedente — quando e` democratica la rappresentanza — potrebbe avere come risposta che lo e` quando le contraddizione sono risolte mediante lo « stato dei partiti », « quella forma democratica dello stato in cui il rapporto con la societa` civile e` determinato dal sistema dei partiti », il cui primo e fondamentale elemento costitutivo e` la pluralita` (73). Infatti — sottolineava Mortati (74) — il partito « appare mezzo necessario di azione della societa` che si fa Stato... non occultando in una fittizia e presunta volonta` comune il reale contrasto degli interessi, bensı` organizzando tali interessi e mostrando la loro suscettibilita` di porsi a base di sintesi politiche ». La questione della responsabilita` degli eletti — pur permanendo la norma sul divieto di mandato imperativo, comunque interpretata (75) — trova dunque soluzione nel legame dell’eletto
(72) Come mette in luce A. NEGRI, Alcune riflessioni sullo « Stato dei partiti », in Riv. trim. dir. pubbl., 1964, 106 ss., 110, 111, i partiti svolgono un duplice ruolo, di rappresentanza e di mediazione: ma il rapporto fra i due termini deve essere equilibrato perche´ « quando l’un termine sovrasta l’altro fino a distruggerlo il sistema dei partiti barcolla e talora viene meno ». (73) A. NEGRI, Alcune riflessioni, cit., 113; A.A. ROMANO, La rappresentanza politica, cit., in particolare 87-88 (per i riferimenti alla rappresenza dei « segmenti della societa` complessa »). (74) C. MORTATI, Note introduttive, cit., 138 ss. (75) Per R. MORETTI, Art. 67, cit., 406 ss., ad esempio, l’art. 67 — che oggi sta a difendere l’indipendenza del singolo eletto « dallo schiacciamento dei gruppi e delle organizzazioni di partito », — « non e` in se´ una norma precettiva », ma piuttosto « una regola di deontologia professionale « del parlamentare, che non deve farsi tramite di interessi particolaristici e contingenti, ma di interessi permanenti e generali della comunita` ». Convincente appare l’interpretazione di E. BETTINELLI, Elezioni politiche, in Digesto, vol. V Pubblicistico, Torino, 1991, § 2 per il quale la disposizione — da leggersi sistematicamente « insieme alle norme che affermano i diritti di liberta` di singoli e formazioni sociali e promuovono il pluralismo dei partiti — e` soprattutto volta, nell’attuale contesto costituzionale, ad esaltare il primato del Parlamento quale luogo della politica, intesa sı` come sforzo di sintesi e di composizione tra vari interessi (anche frazionari) » anche se non come « acritica registrazione » di istanze diverse delle molteplici categorie.
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col partito: e` affermazione da tutti condivisa che il mandato libero abbia « perso molto della sua efficacia col rafforzarsi progressivo della disciplina di partito » (76). Insomma, il ruolo dei partiti in rapporto alla rappresentanza politica e al suo corretto funzionamento, pur diversamente concepito, risulta sicuramente essenziale. Addirittura, secondo Bobbio, e` proprio l’intermediazione del partito fra elettori ed eletti che, semplificando il sistema della rappresentanza, lo ha reso di nuovo possibile, e, in definitiva ha reso « anacronistico » il dibattito sulla necessita` di affiancare alle istituzioni della rappresentanza politica (generale) istituzioni a rappresentanza di interessi particolari. Per la scarsa effettivita`, anzi per la « decadenza » del principio del mandato non vincolato e per « la pressione attraverso i partiti degli interessi frazionali », la differenza fra i due tipi di rappresentanza « considerata per secoli decisiva... e` diventata sempre piu` evanescente e meno visibile » (77). Se dunque, pur nella varieta` delle interpretazioni, il ruolo essenziale dei partiti nel funzionamento della rappresentanza non e` controverso (78), anche riguardo ad essi le situazioni nuove ripropongono in forme diverse un’altra fondamentale questione. Di (76) I partiti si sono interposti « per forza di cose » tra il corpo elettorale e il parlamento, « dando vita a due rapporti distinti, l’uno fra elettori e partito, l’altro tra partito ed eletti ». Di questi due rapporti il partito « e` il termine medio, il termine comune a entrambi », assume una posizione di centralita` e la sua intermediazione fra elettori ed eletti ha semplificato il sistema della rappresentanza « e semplificandolo lo ha reso di nuovo possibile » (N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 24). Su cio`, in particolare, SPADARO, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parlam. e di pol. cost., 1985, fasc. 67, 23 ss. Sulle diverse questioni qui accennate in particolare sul mandato imperativo di partito, la responsabilita` del parlamentare e sulle diverse posizioni della dottrina, in particolare tedesca, a partire dal primo ventennio del 1900 - diffusamente N. ZANON, Il libero mandato, cit., 89 ss. (77) N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, cit., 25-26. (78) Il ruolo fondamentale dei partiti e` pacifico e il discorso relativo non e` di certo nuovo: particolarmente interessante lo scritto di G. AMBROSINI, I partiti politici ed i gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Palermo, 1922, 11 ss. anche per la sottolineatura del ruolo dei gruppi e per le considerazioni sugli oppositori della rappresentanza proporzionale. Si veda anche A.A. ROMANO, La rappresentanza politica, cit., 53 ss., 83 ss., 87-88.
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nuovo c’e` il forte mutamento del sistema politico, non solo nell’assetto delle forze (rimasto piu` o meno costante per quasi un cinquantennio) per le vistose sostituzioni di quelle tradizionalmente « protagoniste » da parte di altre prima escluse o inesistenti, ma soprattutto per la radicale alterazione del rapporto fra cittadini e partiti, la trasformazione sostanziale di questi e la loro diminuita capacita` di incidere sulla rappresentanza, sulla « partecipazione » (dal punto di vista quantitativo e qualitativo) sul funzionamento, dunque della democrazia. Era ormai affermazione comune che vincoli e responsabilita` dei parlamentari nei sistemi attuali fossero configurabili solo (o essenzialmente) nei confronti dei partiti di appartenenza; e si enfatizzava tale realta` caratterizzata dalla preminenza dei partiti facendo ad essi riferimento espresso nella stessa qualificazione dello Stato come Stato dei partiti. Ora viceversa, ammesso che ancora si possa parlare di vincoli e di responsabilita`, e` evidente il loro carattere evanescente nei confronti dei partiti. E` venuto dunque a mancare totalmente l’elemento, da molti ritenuto essenziale (79), quasi l’altra faccia della rappresentanza, costituito dalla responsabilita`? Oppure questa si e` spostata altrove? E, soprattutto, indebolito il ruolo del partito, non e` venuto in tal modo ad attenuarsi, se non a smarrirsi, il collegamento fra rappresentanti e rappresentati che i partiti — con la loro ideologia, il loro programma, la loro identita` — hanno costantemente svolto? (80). (79) Elemento che altri, come si e` detto, presentano in modo opposto, ritenendo incompatibili rappresentanza e responsabilita`. Sull’indebolirsi della funzione dei partiti come momento della complessa problematico A. BARBERA, Rappresentanza, cit., 546 ss. (80) Persino in quella distorta forma di rappresentanza che andava sotto la formula di « rappresentanza istituzionale » nella quale « l’esigenza di rappresentare il popolo rimane in ogni caso inadempiuta » come rileva L. PALADIN, Il problema della rappresentanza nello stato fascista, cit., 880, il tramite essenziale di rappresentanza negli ordinamenti totalitari e in quello fascista in particolare — secondo la piu` avvertita dottrina condivisa da ESPOSITO — veniva individuato nel partito unico; anche se, nella realta` il peso del partito era ben diverso e minore: come osserva ancora PALADIN, cit., 883-886, il partito fascista, gia` nel primo decennio dall’instaurazione del regime,
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Anche qui la riflessione s’impone, s’impone la ricerca di soluzioni nuove che non inaridiscano totalmente le gia` precarie sorgenti che alimentano la democrazia. Tanto piu` che ai partiti l’Assemblea costituente dedico` significativa attenzione nella piena coscienza dell’insostituibile funzione di tramite tra societa` e istituzioni da essi svolto in primo luogo — ma non solo — nel momento elettorale. Il dibattito sulla « democraticita` » e` indicativo (81), come lo e` la formula alla fine adottata nel testo definitivo. Ma forse e` in un emendamento proposto — e poi ritirato — da Costantino Mortati che meglio si colgono tutti i nessi con la questione che ci occupa: « Tutti i cittadini hanno diritto di raggrupparsi liberamente in partiti ordinati in forma democratica, allo scopo di assicurare, con la organica espressione delle varie correnti della pubblica opinione ed il concorso di esse alla determinazione della politica nazionale, il regolare funzionamento delle istituzioni rappresentative » (82). Emendamento interessante anche perche´, se approvato, avrebbe aperto un dubbio ulteriore, una ulteriore questione: quella del sistema elettorale; o meglio in verita`, l’avrebbe chiusa. Infatti, l’esplicito richiamo al concorso delle « varie correnti » alla determinazione della politica nazionale per realizzare « lo scopo di assicurare... il regolare funzionamento delle istituzioni rappresentative » avrebbe inibito, io credo, una riforma in senso maggioritario della legislazione elettorale. Qui la democrazia si accompagna al pluralismo, alla varieta`, per addivenire ad una politica risultante dall’espressione di opinioni diverse. Non solo quindi la democrazia nei partiti, — con esclusioni di formazioni verticistiche espressive del volere di pochi « padroni » autoritariamente deciso — ma pluralita` di partiti perche´ siano rappresentate le opinioni di tutti. « viene privato — progressivamente — delle qualita` essenziali e necessarie per l’identificazione di un partito politico, sia pure a carattere pubblico e unico ». (81) Da ultimo v. M. CERMEL, La democrazia nei partiti, Padova, 1998, 47 ss. (82) Op. ult. cit., 65, nt. 62.
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Si e` molto insistito infatti, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla Costituzione repubblicana oltre che nella fase costituente, sulle trasformazioni radicali subite dalla rappresentanza politica a causa del consolidarsi dei partiti. Oggi il discorso non e` piu` formulabile negli stessi termini e, forse, tutte — o parte delle — considerazioni e conclusioni che se ne traevano risultano inattuali: restano le questioni, queste sı` non nuove, e richiedono nuove risposte. 9.
Sistema elettorale, efficacia della rappresentanza, democrazia.
Secondo un’opinione diffusa, una adeguata risposta ai problemi numerosi che negli anni recenti si ripropongono con particolare gravita` potrebbe essere trovata nel mutamento del sistema elettorale data la sua influenza sul sistema politico, sul funzionamento della forma di governo e sulla stessa forma di Stato. In questo Convegno il tema verra` approfondito da Massimo Luciani e dunque, mi limitero` a poche considerazioni generali relative soltanto ai rischi per la democrazia che mi pare possano profilarsi assecondando in modo troppo drastico alcune tendenze diffuse. Forse la situazione attuale impone la ricerca di soluzioni piu` idonee a privilegiare la decisione rispetto alla rappresentanza. Non intendo ora metterle in discussione: la mia vuol essere solo una constatazione, ovvia, che acquista senso in combinazione con altri numerosi elementi che, tutti insieme, sembrano condurre ad un inevitabile attenuarsi della democrazia. Sull’importanza delle norme che regolano il sistema elettorale e sulle ripercussioni sulla struttura e sulla vita dello stato e sulla concreta forma di governo — la cui disciplina costituzionale potrebbe risultare « in pratica elusa e deformata dalla realizzazione di particolari sistemi di elezione » (83) — e` inutile insistere. E` di(83)
C. LAVAGNA, Il sistema elettorale, cit., 849.
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scorso ormai scontato, ma il richiamo a Lavagna e` sempre utile per la forte sottolineatura della « continuita` democratica » contro ogni forma di democrazia apparente « con eventuali cristallizzazioni del potere in gruppi ed in e´lites, ancorche´ selezionati secondo procedure democratiche », e per le implicazioni che egli ne trae. Esaminando i « caratteri » degli ordinamenti democratici indicati dall’autore e` innanzitutto da chiedersi se negli ordinamenti attuali, in particolare il nostro, si riscontrino tali caratteri e se le diverse esigenze connesse all’efficacia della democrazia siano almeno tenute presenti e seriamente considerate nella ricerca di strade nuove, o se questa ricerca sempre piu` se ne allontani. Il cuore dei discorso, mi pare, in linea del resto con illustre precedente dottrina, e` che la disciplina formale delle attivita` dirette ad « inserire nella vita dello Stato tutte le esigenze che l’ordinamento ritiene degne di tutela » (84) deve avere come finalita` essenziale l’attuazione, nelle forme piu` ampie, del dibattito politico, affinche´ le diverse posizioni si influenzino, in modo da rendere piu` agevole il compromesso, il « compromesso sostanziale ». E, ancora, la stessa disciplina formale, deve assicurare la « fluidita` della maggioranza », evitando « l’azione in forma decisiva di maggioranze precostituite tendenti al consolidamento ed alla cristallizzazione contro ogni concetto di democrazia permanente ». L’affermazione di fondo e` dunque che le costituzioni « miste o transattive » siano senz’altro le piu` democratiche; e che la democrazia « si risolva, in sostanza in una giuridizzazione della politica e quindi nella massima realizzazione dello Stato di diritto » (85). Da questi caratteri, mi pare, il nostro ordinamento si sta sempre piu` allontanando; gia` l’adozione di un sistema elettorale maggioritario diventa un modo sempre piu` astratto di concepire la rappresentanza (86). I parlamentari eletti sono espressione poli(84) (85) (86)
C. LAVAGNA, Considerazione sui caratteri, cit., 20 ss. C. LAVAGNA, Considerazioni, cit., 23, nt. 17 e nt. 18. Si veda il rilievo di M. FRACANZANI, La rappresentanza politica, cit., 208 ss.
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tica della maggioranza vittoriosa e non delle minoranze sconfitte le quali, tuttavia, alla fine vengono anch’esse da quelli « rappresentate »: da coloro, insomma, contro i quali si erano espresse mediante il voto. Una volta eletti, poiche´ « rappresentano la Nazione », i vincitori acquistano il monopolio della rappresentanza. L’astrazione dalla corrispondenza (di idee, di interessi, di programmi, di orientamenti), appare ancora piu` forte se poi si consideri il numero degli astenuti, sempre elevato nella elezioni maggioritarie, e a questo si aggiunga il grande numero degli emarginati, in continua espansione essendo l’esclusione frutto inevitabile della logica del mercato. Ben si comprende come sia stato facile definire la rappresentanza politica come « finzione » (87). La preoccupazione si accresce perche´ le riforme elettorali si accompagnano ad altre novita` dirette a « facilitare », semplificando procedimenti e strutture, l’esercizio del potere: quelle, ad esempio, relative al modo d’investitura a fondamentali funzioni. Penso in particolare all’elezione diretta del vertice degli esecutivi a vari livelli, dal Comune alla Regione (che si vuole estendere all’esecutivo statale) con la quale tende a « staccare » un soggetto dal collegio che egli presiede e di cui fa parte, trasformandolo cosı` in un organo monocratico, e, in quanto eletto, in un rappresentante. Insomma un « capo ». Ma la cosı` detta rappresentativita` — che non attiene a qualifiche giuridiche e, non si identifica con la rappresentanza politica anche se con essa interferisce — « deforma o altera, anzitutto, la percezione della rappresentanza della pluralita` degli interessi e dei bisogni » e poi tenta di « erodere » la stessa democrazia rappresentativa sovrapponendo un principio di legittimazione politica diverso « ispirandosi, so-
(87) Inducono alla riflessione, seppure scritte in tempi e situazioni ormai tanto lontane, le considerazioni di F. RUFFINI, Guerra e riforme costituzionali, cit., 15 ss. a favore della rappresentanza proporzionale e contro le critiche dei fautori del maggioritario e di G. AMBROSINI, I partiti politici ed i gruppi parlamentari, cit., 21 ss.
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stanzialmente, ad alcuni concetti della cultura autoritaria europea degli anni quaranta » (88). L’introduzione di regole elettorali maggioritarie, insieme ad altre innovazioni che portano nella medesima direzione (concentrazione del potere, prevalenza di organi individuali su organi collegiali, personalizzazione del potere ecc.) riducendo la partecipazione del popolo a puro espediente formale, produce alla fine una democrazia apparente. Un risultato ben lontano dalla « democrazia permanente » di cui parlava Lavagna! (89). E` da chiedersi se sia possibile pensare che l’eventuale deficit di democraticita` causato da un’insufficiente rappresentativita` degli organi elettivi (e quindi dell’apparato statale) possa essere colmato attraverso gli istituti di democrazia diretta: il ricorso a referendum frequenti, ad appelli al popolo, e` sempre e comunque una crescita di democrazia o puo` essere talora uno schermo che serve a legittimare decisioni, scelte, interessi di gruppi ristretti, attrezzati e adeguatamente finanziati? Anche il rapporto fra rappresentanza politica e democrazia diretta deve essere riconsiderato sotto vari profili, positivi e negativi. Non e` dubbio che una richiesta referendaria puo` essere essenziale al fine di portare all’attenzione degli organi politici una questione, un’esigenza non considerata o trascurata. Ossia come integrazione della rappresentanza. La massiccia presentazione contemporanea di richieste referendarie, viceversa, finisce per sostituire il « programma » di cinquecentomila elettori, o meglio, (88) Come dice bene A.A. ROMANO, La rappresentanza politica come legittimazione politica, in Archivio di diritto costituzionale, 1990, 44-45. (89) Questa situazione non e` del resto un esito casuale, ma un risultato voluto per giungere all’alternanza, cioe` alla apparenza della scelta democratica: infatti la sostituzione al governo di due partiti e` concepibile soltanto se si tratta di partiti deideologizzati e orami sostanzialmente simili, dove la lotta « politica » e` semplice lotta di apparati per la conquista del potere, non per la realizzazione di programmi alternativi. Cosı` potrebbe meglio raggiungersi la « stabilita` », nell’ottica della eliminazione o neutralizzazione indolore del conflitto sociale: utile sempre e illuminante l’analisi che risale ad oltre un ventennio, di G. FERRARA, Democrazia e stato del capitalismo maturo. Sistemi elettorali e di governo, in Dem. e dir., 1979, in particolare 526 ss.
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del ristretto numero dei promotori (e degli interessi che li sostengono) alla maggioranza parlamentare costringendola a sostituire le questioni gia` messe in programma a quelle oggetto delle richieste di referendum. In pratica quel ristretto numero di persone finisce per sostituirsi alla rappresentanza politica ossia all’organo eletto, espressione del popolo nella sua diversificata composizione, nella fissazione dell’agenda politica (90). Ma forse, il rilievo fondamentale e` di fondo e investe la sostanza democratica del referendum, soprattutto se il suo uso e` massiccio e frequente: difficilmente si potra` considerare una via utile per correggere il difetto di democraticita` del sistema conseguente alle innovazioni appena accennate, perche´ in realta` esso va nella stessa direzione di quelle, ossia la democrazia apparente di una (anche esigua) maggioranza (91). Una risposta unitaria — la scelta e` tra il sı` e il no — che abbatte le differenze e toglie radicalmente voce alle diverse minoranze. Il trionfo della maggioranza, della risposta sicura, senza sfumature. 10.
Crepe e limiti della « rappresentanza generale » (minoranze linguistiche, mobilita` dei parlamentari).
Questioni antiche s’intrecciano a questioni nuove, o, forse, a questioni che vengono ora in evidenza in modo non piu` eludibile e impongono una riconsiderazione della rappresentanza politica rendendo assai difficile acquietarsi nella risposte generiche modulate alle dottrine del secolo scorso. Un esempio assai significativo riguarda la rappresentanza della minoranza ladina di cui la Corte costituzionale ha dovuto occuparsi piu` volte arrivando a decisioni contenenti affermazioni non (90) Alla quale si connette estrema importanza: v. per tutti R. DAHL, La democrazia e i suoi critici, gia` menzionato. (91) Che potrebbe essere facilmente guidata: L. CARI.ASSARE, Considerazioni su principio democratico e referendum abrogativo, in Il giudizio di ammissibilita` del referendum abrogativo (Atti del Seminario, Roma, Palazzo della Consulta, 5-6 luglio 1996) Milano, 1998, 135 ss. (in particolare 137-138).
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sempre armoniche tra loro ne´ con quelle di pronunzie su questioni diverse ma sempre relative alla rappresentanza. Dal complesso delle decisioni sul tema emergono infatti due concezioni contrapposte della rappresentanza. Una — tendente a collegare elettori ed eletti — e` espressa nella sent. n. 356/98 che dichiara costituzionalmente illegittima la legge n. 5/98 del Trentino-Alto Adige, in quanto la soglia elettorale da essa introdotta « rappresenta un ostacolo per l’accesso del gruppo linguistico ladino alla rappresentanza nel Consiglio regionale ». La scelta del sistema elettorale proporzionale da parte dello Statuto — si legge nella sentenza — risponde alla necessita` di rendere possibile « la rappresentanza delle minoranze linguistiche nelle istituzioni » (92), sicche´ il sistema elettorale proporzionale cui fa riferimento lo Statuto (art. 25) « non tollera l’introduzione di elementi che escludano, o rendano piu` difficoltosa, la rappresentanza dei gruppi linguistici che intendano proporsi nella competizione elettorale in quanto tali ». Gia` nella sent. n. 438/93 si affermava che il principio di tutela delle minoranze linguistiche « non puo` non estendere la propria efficacia anche nei confronti del diritto all’elezione politica » e che alle minoranze « e` costituzionalmente garantito il diritto di esprimere in condizioni di effettiva parita` la propria rappresentanza politica ». Quest’ultima frase va sottolineata: si parla infatti di una rappresentanza propria delle minoranze, ossia di una rappresentanza che non sarebbe generale, di tutti i cittadini del territorio interessato, ma di quella specifica minoranza. E non ha, ai nostri fini, rilievo, che la conclusione sia, poi, l’inammissibilita`, la cui motivazione e` in linea con quelle affermazioni (93). (92) Ed e` « strumento di garanzia » delle minoranze stesse, « giacche´ consente loro di potere esprimere una rappresentanza che puo` rispecchiare la consistenza e l’adesione al gruppo, sulla base di una libera e spontanea aggregazione dei suoi componenti »: sent. n. 356/1998. (93) L’inammissibilita` e` infatti motivata dalla considerazione che non essendovi « una soluzione obbligata ma una pluralita` di soluzioni » per eliminare l’« ipotetica illegittimita` », la Corte non potrebbe sostituirsi al legislatore « in una scelta a lui riservata ».
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L’altra tendenza, quella volta a privilegiare il carattere generale della rappresentanza politica, era invece emersa nelle sent. 233/94 e 261/95 sempre relative ai ladini; e, ancor piu` vivacemente, nella sent. 422/1995 che dichiara illegittime tutte le norme dirette al riequilibrio della rappresentanza fra i sessi: sia il sistema delle quote rigide per le elezioni politiche (94), sia le norme che garantivano la presenza in lista di entrambi i sessi nelle elezioni amministrative (95). La sentenza del ’98 rappresenta dunque una decisa svolta la cui importanza e` stata giustamente sottolineata: infatti la « valorizzazione in chiave politica della rappresentanza etnica », mette in gioco « il paradigma tradizionale della cittadinanza in una democrazia liberale » (96). Torna con forza, qui, l’interrogativo iniziale: se il modello « liberale » di rappresentanza, che pur esprime esigenze e valori che non e` possibile ignorare, debba essere integralmente salvato. Per metter in luce il carattere astratto di tale modello — di cui si e` del resto constatata la non effettivita` (97) — e rivelare la tensione fra interessi divergenti che si produrrebbe scollegando l’eletto dal proprio « gruppo », e` gia` sufficiente una precisa domanda. La domanda e` questa: quale autonomia potrebbe avere un rappresentante del gruppo linguistico ladino — chiamato in base alla legge a far parte del Consiglio provinciale di Bolzano, a prescindere dalla lista in cui si e` candidato, qualora il gruppo come tale non sia riuscito ad avere neppure un rappresentante — « quando gli (94) La legge n. 277/1993 relativamente alla quota proporzionale del 25% rimasta dopo la trasformazione in senso maggioritario del sistema elettorale per le elezioni politiche, disponeva che le liste (presentate per l’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale) fossero formate da candidati di entrambi i sessi in ordine alternato; e, dunque un sistema di quote rigide. V. supra, p. 22-23 e nota 3. (95) La legge n. 81/1993(Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e provinciale) stabiliva che nelle liste elettorali nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai due terzi (o ai tre quarti nei comuni con popolazione fino a quindicimila abitanti). V. supra, p. 22-23 e nota 3. (96) S. CECCANTI, Tra tutela delle minoranze e rischi etnicistici, in Giur. Cost., 1998, 2751 cui si rinvia per l’indicazione della letteratura sulla questione. (97) V. supra, § 8.
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interessi del gruppo linguistico di appartenenza entrassero in conflitto con quelli della forza politica che lo ha presentato candidato? » (98). Mi sono fermata alla giurisprudenza della nostra Corte: ma per mettere in luce le crepe ed i limiti del concetto di rappresentanza generale gia` basterebbe ricordare oltre agli Statuti regionali le norme di altri paesi diretti a garantire la rappresentanza di gruppi minoritari, a partire dalla legge elettorale tedesca dove la clausola di sbarramento del 5% non si applica « nei riguardi delle liste presentate da partiti di minoranza nazionali », fino alla piu` recente legislazione delle Nuova Zelanda che, abbandonato il sistema maggioritario, prevede l’esclusione dallo sbarramento del 5% per quei partiti che « rappresentano primariamente l’interesse dei maori », ai quali sono comunque riservati cinque seggi (99). Un’altra questione che si pone in modo allarmante e` quella gia` accennata della trasmigrazione dei parlamentari da un polo all’altro, la frammentazione in piccoli gruppi all’interno di ciascuno schieramento, la trasmigrazione — a livello di strutture parlamentari — da un gruppo all’altro. Il fenomeno e` tanto vistoso che lo stesso presidente della Camera, Luciano Violante, ha avanzato proposte dirette a limitarlo o scoraggiarlo. Del resto e` all’esame della Giunta per il regolamento della Camera dei deputati la proposta dell’on. Manzione diretta al medesimo scopo che pero`, secondo alcuni, porrebbe problemi di compatibilita` con l’art. 67 Cost. Ma tali problemi costituzionali si pongono davvero? In particolare, in quella proposta, si prevedono, oltre ai gruppi, le « componenti » (non meno di dieci deputati), con poteri, facolta` e dotazioni ridotte rispetto a quelle dei gruppi. La componente non potrebbe costituirsi in gruppo anche se nel corso della legislatura raggiungesse il numero di trenta iscritti, tranne nel caso in (98) T.E. FROSINI, Il diritto elettorale della minoranza linguistica ladina, in Giur. cost., 1998, 2758. (99) T.E. FROSINI, Il diritto, cit., 2760 e nota 17.
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cui la trasformazione derivasse dalla fusione con altra componente appartenente al medesimo schieramento elettorale. Si tratta pero` di rimedi che, forse, provocano altri inconvenienti (100), e di certo non e` facile individuare una soluzione. Di fronte al fenomeno della « mobilita` » dei parlamentari (che ha assunto aspetti allarmanti per una serie di ragioni — dalla crisi di rappresentativita` dei partiti collegata alla caduta della ideologie, al nuovo sistema elettorale maggioritario) s’intravvede il pericolo che, in assenza di forme adeguate di coordinamento e di disciplina, « il diritto del parlamentare di affrancarsi dal mandato che gli proviene dal corpo elettorale per mezzo dei partiti politici sia strumentalmente utilizzato ai fini di una concezione sostanzialmente retriva e reazionaria della rappresentanza parlamentare »; e che la liberta` del parlamentare « si traduca in una pericolosa visione individualistica della rappresentanza..., sganciata da ogni logica di appartenenza partitica » (101). Come dicevo all’inizio, le questioni aperte in tema di rappresentanza politica, non necessariamente sono questioni nuove: la mobilita` degli eletti e` anch’essa questione che ritorna; ed e` interessante riandare ai tentativi di ridurne la portata attraverso meccanismi sanzionatori e ai dibattiti vivaci che si aprirono in altre fasi storiche nel nostro e, soprattutto, in altri ordinamenti (102). Conferma ulteriore, mi sembra, della estrema difficolta` e complessita` delle problematiche che ruotano intorno alla rappresentanza politica e dunque, della necessita` di tentare, almeno, di
(100) Esaminando anche rimedi tentati in altri ordinamenti, si nota che in qualsiasi modo si obblighi il parlamentare a rimanere nel proprio gruppo, si alimenta il dissenso interno cfr. S. CURRERI, I gruppi parlamentari nella XIII legislatura, in Rass. Parlam., 1999, 299. (101) S. CURRERI, I gruppi, cit., 263 ss. si chiede appunto, se, oggi, come accadeva quando il sistema elettorale era proporzionale, « il rapporto tra partito politico, gruppo parlamentare e singoli rappresentanti possa configurarsi come un continuum basato sul predominio delle direttive politiche del primo » concludendo negativamente. (102) La questione e` ampiamente trattata da N. ZANON, Il libero mandato, cit., 110 ss.
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giungere a qualche parziale chiarimento ripensandola in conformita` alle questioni che il presente ci propone. 11.
Per una rappresentanza democratica del « popolo concreto ».
L’esigenza di adeguare (o tentare di adeguare) gli istituti giuridici alle mutazioni che si producono continuamente negli assetti sociali e politici e ne alterano profondamente il senso e la funzionalita`, in relazione alla rappresentanza politica si ripropone forse con intensita` particolare. Varie sono state le fasi che su di essa hanno significativamente inciso: non mi riferisco soltanto alla distinzione fra rappresentanza medievale e moderna su cui molti hanno insistito, ma alle trasformazioni di senso che hanno accompagnato eventi a noi certamente piu` vicini. Se, in Francia, il mandato nell’ancien re´gime corrispondeva ad un sistema fondato sulla distinzione fra ordini, ceti e comunita` territoriali, e se del tutto diversa — « essenzialmente individualistica, egalitaria e meccanica » — era la concezione della societa` in cui si affermano dopo la Rivoluzione le nuove idee sulla rappresentanza politica (103), non meno forte e` la trasformazione subita dalla rappresentanza politica a causa dell’avvento di sistemi autoritari (104) o a causa dell’affermarsi di una posizione dominante dei partiti. Non a caso sul mandato imperativo di partito tanto si e` scritto e dibattuto e per gli aspetti positivi e per gli aspetti negativi (105). Attualmente viviamo una nuova e diversa fase: il declino e/o la trasformazione dei partiti impone di ripensare la rappresentanza seguendo ed analizzando i riflessi determinati dal venir meno o dall’allentarsi del vincolo partitico. Tenendo conto dei mutamenti profondi della societa`, sempre piu` complessa e, al suo interno, fortemente articolata. (103) (104)
Cfr. N. ZANON, Il libero mandato, cit., 52, 54. Si veda supra, al § 3, la concezione della rappresentanza nel periodo fasci-
(105)
Di cui si e` detto, supra, § 6.
sta.
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E` opportuno ricordare i pochi punti fermi spesso trascurati: in primo luogo la non interdipendenza fra divieto di mandato imperativo e rappresentanza della nazione che ben risulta dall’interpretazione storica (106). Come sottolinea Crisafulli, attraverso la formula tralaticia dell’art. 67, si esprime « accanto al divieto del mandato imperativo, anche l’altro principio del carattere generale della moderna rappresentanza politica »; ma fra i due principi « non sussiste necessaria interdipendenza, quando per rappresentanza della Nazione si intenda rappresentanza del popolo, insieme dei cittadini viventi » (107). Da un lato i due principi non sono necessariamente congiunti come dimostra il fatto che il divieto del vincolo di mandato puo` aversi anche « in ordine a forme di rappresentanza tipicamente particolaristica e sezionale » (ad esempio per i membri del CNEL: art. 6, l. n. 33/1957). Dall’altro lato e` « incontestabile » che l’idea « del mandato elettorale — malgrado gli esorcismi di una nota quanto diffusa dottrina giuspubblicistica — oltre ad essere costantemente viva e presente nell’opinione comune e nelle ideologie politiche, riaffiora spesso, sotto formulazioni varie, anche in sede tecnico-giuridica: segno che c’e` in essa un fondo di verita`, da cui non riesce in fin dei conti possibile prescindere » (108). Si e` gia` sottolineato, del resto, il significato non certo rigido attribuito dalla dottrina all’art. 67 (109) che lascia aperti larghi spazi nella ricerca di soluzioni.
(106) Questa e` la conclusione cui giunge una approfondita ricerca, N. ZANON, Il libero mandato, cit., 323 che non pare senza conseguenze sull’interpretazione costituzionale ai fini della ricostruzione del significato attribuito all’art. 67 Cost. « ove i due principi appaiono ancora strettamente collegati ». (107) V. CRISAFULLI, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, ora in Stato, popolo, governo, Milano 1985, 156 nota 6. (108) V. CRISAFULLI, Aspetti, cit., 176 nota 5. (109) Per CRISAFULLI, ult. cit., 157-158, cio` che il divieto di vincolo di mandato, contenuto nell’art. 67, comporta e`, in definitiva, « esclusione nella sfera dell’ordinamento costituzionale, di qualsiasi effetto giuridico automatico dei particolari obblighi, eventualmente assunti dai candidati verso i rispettivi partiti ed altri analoghi raggruppamenti organizzati ».
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Di tante sottili teorizzazioni, resta l’essenza della questione, bene espressa da C. Friedrich (110): rappresentanza nel significato politico e` metodo per risolvere il problema di come consentire a un numero molto ampio di persone di partecipare alla formazione delle leggi e alla « governmental policy ». Respingere la posizione di Edward Burke (111) non significa pensare ad uno speciale mandato che trasformi gli eletti in mandatari di specifici interessi; vi e` gran differenza fra mandato speciale e indicazioni ampie come linee di politica generale da seguire. La ragione per cui i rappresentanti eletti di un partito possono dirsi rappresentanti del loro elettorato e` fondamentalmente il legame di ideali e pensieri che essi condividono. Un corpo eletto e` entrambe le cose: un’assemblea deliberante per l’intera nazione, con un solo interesse, quello del tutto, e una riunione di « ambasciatori » di interessi differenti e in contrasto, e dunque, conclude Friedrich: « Il dualismo nella rappresentanza politica non puo` essere eliminato ». Rappresentare il tutto nonche´ l’una o l’altra delle sue parti e` profondamente radicato nello schema della rappresentanza. Il riferimento, qui, e` al popolo concreto. Ed e` al popolo concreto (con i suoi interessi diversi, pensieri diversi, orientamenti (110) C.J. FRIEDRICH, Representation, in Encyclopaedia Britannica, (163 ss.) fra l’altro ricorda che Sir Thomas Smith, De Republica Anglorum (1553) usa il termine liberamente per descrivere le istituzioni parlamentari. Rappresentanza, dunque, e` il procedimento attraverso il quale le preferenze, gli orientamenti, i desideri dei cittadini, con il loro espresso consenso, si trasfondono nell’attivita` di governo esercitata per loro conto da un limitato numero di essi con effetti vincolanti per i rappresentati. Ma, sottolinea l’autore, anche a non seguire Rousseau, la rappresentanza dell’elettorato nelle modeme assemblee rappresentative pone molti problemi perche´ sia gli orientamenti degli eletti che gli orientamenti degli elettori sono soggetti a subire cambiamenti in seguito al mutare delle situazioni. (111) Posizione, quella di Brurke, che non e` in armonia con l’ideale democratico per cui la volonta` del popolo deve prevalere e, soprattutto non puo` essere una risposta alla domanda fondamentale su chi deve dire qual e` l’interesse generale in un certo tempo, ossia al vero problema, il conflitto fra i vari interessi e le loro relazioni in un piu` comprensivo interesse pubblico. Certamente non si puo` affermare che la maggioranza rappresenta la minoranza in ogni senso; maggioranza e minoranza insieme rappresentano il popolo come tutto e l’interesse generale: C.J. FRIEDRICH, loc. ult. cit.
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diversi) che si riferisce la Costituzione italiana come sottolinea in particolare Crisafulli (112) e come espressamente conferma la Corte costituzionale: penso in particolare alla sent. n. 468/91 e al commento di N. Zanon (113). In questa visione forse si potrebbe dire che l’idea di interesse generale puo` essere solo « di parte », come prospettata nei programmi politici proposti agli elettori. Mi piacerebbe allora concludere che la rappresentanza politica e`, in definitiva, una rappresentanza di idee, di progetti, visti nelle ottiche diverse e parziali che poi devono confrontarsi fra loro; e dunque il legame con gli elettori deve esse rivalutato; forse, di nuovo, attraverso i partiti. E ora, che i partiti sembrano senza idee e senza programmi?
(112) V. CRISAFULI, La sovranita` popolare, cit., in particolare 144. (113) Consiglio « nuovo » fa « nuova » la legge? Intorno alla discontinuita` dei Consigli regionali ed al principio costituzionale di rappresentativita`, in Giur. it., 1992, parte I, Sez. 1, 16-17 e nota.
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FRA DIRETTISMO E ANTIPOLITICA: QUALCHE SPUNTO SUL REFERENDUM IN ITALIA
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Antipolitica, direttismo, decisionismo. — 3. Sul processo decisionale referendario. — 4. Decisione referendaria e successiva attivita` legislativa. — 5. Spunti sulla legittimita` della campagna astensionista. — 6. I due volti dell’antipolitica. — 7. Osservazioni conclusive.
1.
Considerazioni introduttive.
Sotto un profilo l’Italia potrebbe essere considerata la California dell’Unione europea: quello della pratica referendaria, essendo risaputo che la California e` lo Stato americano nel quale piu` alta e` la febbre referendaria (1); non ci fosse la Svizzera, il nostro Paese sarebbe primatista mondiale in questa speciale classifica e certamente lo e` se la comparazione avviene fra stati nazionali (escludendo dunque i ventisei stati americani che praticano forme di democrazia diretta) ad esso paragonabili per territorio e popolazione. A rigore, i fautori dell’omologazione italiana agli standard istituzionali europei in forza di un ricorso al diritto comparato, in chiave di argumentum quoad auctoritatem, non esente da criti(1) Ultime notizie in proposito da parte di F. BALESTRI, Stati Uniti. Primarie e referendum, in Dir. pubbl. compar. ed europ., 2000, p. 646 ss.: il 7 marzo 2000, in concomitanza con le primarie, si sono svolti venti referendum; attualmente sono in gestazione quaranta referendum, programmati in coincidenza con le elezioni presidenziali. Per un quadro analitico della situazione cfr. C.B. HOLMAN, La democrazia diretta locale in California, in Amministrare, 1999, p. 259 ss.
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che (G. Lombardi), dovrebbero a ogni tornata referendaria menare scandalo (parlando magari — impropriamente, s’intende — di versione neoateniese della nostra democrazia) non minore di quello che viene orchestrato ad ogni crisi di governo. In questo caso pero` il fervore accusatorio col quale normalmente i nostri turisti costituzionali (2) compulsano e agitano i manuali di diritto costituzionale comparato si attenua fin quasi a scomparire e la vis polemica viene piuttosto indirizzata verso la Corte costituzionale, e cioe` — a voler usare un’espressione non ortodossa — verso l’authority del mercato referendario, in mancanza della quale rischierebbe di essere messo in discussione anche il primato svizzero e risulterebbe ancora piu` vistoso il deragliamento della pratica referendaria dai binari della legittimita` (3) e della ragionevolezza (4) costituzionale. (2) Sul concetto — non proprio scientifico — di « turismo costituzionale », cfr. A. DI GIOVINE, Turismo costituzionale: il caso delle primarie, in La Rinascita della sinistra del 19 marzo 1999. Vale la pena ricordare peraltro, per non fermarsi allo sberleffo, l’osservazione di un comparatista, il quale sottolinea, a proposito delle ascendenze del nostro codice civile, che l’Italia e` un paese che non rifiuta l’imitazione ed e` anzi ad essa incline; il ripetuto richiamo di un politologo alla categoria del novitismo (smania di essere nuovi e originali ad ogni costo); l’intuizione di uno storico, secondo il quale l’incubo di una modernita` da afferrare per tempo ha dato vita da noi, fin dagli ultimi decenni dell’’800, a un nazionalismo in cui l’ammirazione per gli stranieri, l’accanimento per l’ingresso nel novero dei doviziosi e la smania di omologazione con i grandi paesi del pianeta, si configurano paradossalmente come l’ingrediente principale: i riferimenti sono a R. SACCO, Il contratto in generale, in AA.VV., I cinquant’anni del codice civile, I, Giuffre`, Milano, 1993, pp. 207-208; G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, Milano, 2000, p. 18 (con citazione di suoi precedenti lavori); S. LANARO, L’Italia nuova. Identita` e sviluppo 1861-1988, Einaudi, Torino, 1988, p. 210 e 212, e, per il precedente accenno nel testo, a G. LOMBARDI, Premesse al corso di diritto pubblico comparato, Giuffre`, Milano, 1986, p. 102. (3) Mi riferisco ai cd. referendum manipolativi, che sostanzialmente stravolgono — a giudizio di molti — in propositivo il carattere abrogativo del referendum ex art. 75 Cost.: per un’ampia panoramica delle diverse opinioni in merito si veda R. BIN (a cura di), Elettori legislatori?, Giappichelli, Torino, 1999. (4) Mi riferisco alle raffiche referendarie in auge dal 1978; non manca chi pero` ne parla come di una « gamma coordinata di quesiti ... che configurano un vero e proprio programma politico articolato » in grado di conferire a « soggetti e forme della procedura referendaria ... capacita` politica autonoma » (A. MANZELLA, L’« enigma Italia » e la legge elettorale, in la Repubblica dell’8 marzo 2000, il quale individua nel referendum uno dei nuovi modi di rappresentanza politica: va da se´ che — per usare il
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Resta il fatto che l’aver richiamato la Svizzera e la California incanala il discorso su una pista interessante per il comparatista, mettendo in luce l’adattabilita` o compatibilita` del referendum con ogni forma di governo, dovendosi ovviamente aggiungere il semipresidenzialismo francese (5): caratteristica di camaleonticita` tanto piu` evidente se si pensa che i paesi richiamati (Italia compresa) sono paradigmatici della contrapposizione fra modello competitivo e modello consociativo di democrazia, fra sistemi a strutture partitiche forti e deboli, bipartitiche e multipartitiche, che si alternano o meno alla guida del governo. In Italia, poi, la suddetta caratteristica si ritrova anche sotto altri aspetti, considerando che nella storia quasi trentennale della nostra pratica di democrazia diretta il referendum, per un verso, ha inverato pressoche´ tutte le concettualizzazioni messe a punto dalla dottrina in ordine al ruolo da esso giocabile in un contesto rappresentativo (stimolo, controllo, garanzia delle minoranze o di forze rimaste in minoranza in Parlamento — referendum, quest’ultimo, in chiave di tempi supplementari della lotta politica (6) —; limite al potere della maggioranza, correttivo del parlamentarismo, arbitrale — in termini di « questione di fiducia extraparlamentare » (7) o di « esercitazioni partitiche extraparlamentari » (8), a seconda che gergo calcistico — chi vuole sempre trovarsi in zona goal e` a continuo rischio di fuorigioco). (5) In Francia — come e` noto — il referendum e` previsto non nella forma dell’initiative, ma (con qualche assonanza weimariana) in chiave proegemonica, come uno dei poteri del Presidente. Quelli indetti dopo l’intensa stagione gollista (per l’allargamento della CEE: 23 aprile 1972; per l’autodeterminazione della Nuova Caledonia: 6 novembre 1988; per la ratifica del Trattato di Maastricht: 20 settembre 1992; per la riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni: 24 settembre 2000) sono stati peraltro ben lontani dai referendum « de combat » del primo decennio della Vª Repubblica, sui quali vedi, nella dottrina italiana, le pagine di C. MURGIA, Referendum e sistema rappresentativo in Francia, Giuffre`, Milano, 1983 e di P. BERETTA, Referendum e regime parlamentare, Catania, 1979: dell’ultima consultazione vanno piuttosto sottolineati l’oltraggiosita` (trattandosi, appunto, di referendum proegemonico) dell’affluenza alle urne — 30,32% — e l’eseguita` della percentuale di adesione (18% del corpo elettorale). (6) L. VOLPE, Potere diretto e potere rappresentativo, Cacucci, Bari, 1992, p. 34. (7) M. FEDELE, Democrazia referendaria, Donzelli, Roma, 1994, p. 63. (8) L’espressione, riferita al plebiscito, e` di E. FRAENKEL, La componente partitica e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico (1958), Giappichelli, Torino, 1994, p. 63.
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uno dei due contendenti sia stato (scala mobile) o meno (divorzio) il governo —; di rottura (9), di contropotere, di supplenza; non disdegnando neppure quello di regime (10)), e ha avuto come promotori diversi soggetti politici (dalle minoranze intense ai partiti di massa) dando luogo quindi a « battaglie » sia antipartitiche che infrapartitiche. Per un altro verso, non ha risentito — sul piano della frequenza della pratica, genericamente favorita anche dall’abbondanza di riserve di legge in Costituzione e dalla sovrabbondanza di legislazione (11) — dei mutamenti sistemici che si verificavano nel contesto politico-istituzionale in cui era chiamato ad operare. Mi riferisco, in particolare, al passaggio da un contesto proporzionalistico con partiti forti a un contesto parzialmente maggioritario con partiti piu` leggeri e meno identitari; da un contesto di pluralismo polarizzato con partiti nei cui confronti vigeva la conventio ad excludendum a un contesto a tendenza bipolare nel quale nessun partito e` potenzialmente escluso dall’area di governo: « imperturbabilita` » del referendum, dunque, dalla quale si possono inferire in teoria valutazioni le piu` diverse, non escluse le piu` estreme che potrebbero considerare destituiti di sensibilita` indicativa gli elementi appena richiamati o nei confronti della specifica questione referendaria o, addirittura, del senso profondo di funzionamento del nostro sistema politico.
(9) ... talvolta inseriti nel « progetto pannelliano di umiliare il parlamento » (P. TRUPIA, Metafore animali in politica: veltri, leviatani e cavalli di razza, in W. EUCHNER-F. RIGOTTI-P. SCHIERA (a cura di), Il potere delle immagini. La metafora politica in prospettiva storica, il Mulino, Bologna, 1993) che ha peraltro trovato in sede rappresentativa, con l’elezione di una pornostar, il suo zenith piu` umiliante (per il protomartire dell’antipolitica, s’intende, avendo — cito ancora P. Trupia — il contropitone parlamento digerito il pitone pornodiva in tre sedute). (10) Tale potrebbe essere considerato il discusso referendum d’indirizzo che si tenne, previa approvazione di una legge costituzionale ad hoc, il 18 giugno 1989. (11) L’abbondanza di riserve di legge, originariamente concepita in funzione della centralita` del Parlamento, ha determinato — in connessione con la disciplina del primo comma dell’art. 75 Cost. — un modesto ma in certo senso paradossale effetto boomerang, ampliando il territorio referendario.
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2.
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Antipolitica, direttismo, decisionismo.
A sollevare la lunga onda referendaria che ha attraversato stagioni tanto diverse hanno concorso vari fattori: non si dice nulla di nuovo (ma probabilmente non si va molto lontano dal vero, almeno in un discorso che privilegi la dimensione istituzionale) suggerendo — con qualche schematismo ed approssimazione — che l’insufficienza del processo decisionale affidato ai titolari ordinari dell’indirizzo politico (12) e la crisi della rappresentanza, crudamente messa in luce dall’eccessiva autoreferenzialita` (con picchi vertiginosi nell’ultima crisi di governo) dei comportamenti degli attori politici, hanno contribuito a creare il diffuso fenomeno che si e` convenuto di chiamare « antipolitica » (13): alimentata da un imponente movimento di opinione sostenuto da elite mediatico-politiche, essa puo` essere considerata come la versione aggiornata del populismo, intrisa di stanchezza (o nausea) della politica, di avversione al politicantismo, alle cui oscure e inaffidabili mediazioni contrappone la limpidita` dell’appello al popolo, il sovrano che ha sempre ragione secondo i paradigmi della « democrazia romantica » (14). Ostile, o per lo meno estranea, ai codici della cultura civica democratica come al patrimonio teorico delle democrazie liberali contemporanee, che intendono proteg(12) Puo` essere attraente notare che per far fronte al deficit decisionale il sistema e` ricorso a strumenti che, in linea teorica, possono essere considerati antitetici, promuovendo cioe` a « normali » istituti strutturalmente « eccezionali » come il decreto legge (espressione del massimo di verticismo) e il referendum (che da` invece voce alla base): qualche ulteriore considerazione in proposito ho svolto in un articolo apparso in Diritto pubblico, 2000, p. 593 ss. (13) A. MASTROPAOLO, Antipolitica - all’origine della crisi italiana, l’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000; G. CANTARANO, L’antipolitica, Donzelli, Roma, 2000; utilizzo anche un’analisi inedita di Silvano Belligni. (14) M. DOGLIANI, Democrazia romantica?, in Sisifo, 1995, n. 29. In questo scritto si cerchera` di argomentare, invece, che secondo i canoni della « democrazia critica » (G. ZAGREBELSKY, Il « Crucifige! » e la democrazia, Einaudi, Torino, 1995, p. 100 ss.) non sono unti dal Signore ne´ i decisori eletti dal popolo (a tacer d’altro, lo « stile consumatorio » di molti — nell’accezione di A. PIZZORNO, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano, 1993, p. 312 — sdivinizzerebbe anche i tabernacoli) ne´ le decisioni prese dal popolo.
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gere la democrazia dai suoi eccessi attraverso un’articolata strumentazione giuridica e una faticosa opera di composizione fra valori e interessi divergenti (15), questa « sindrome culturale di massa » (S. Belligni) si offre come ideale terreno di coltura per l’affermarsi di pulsioni — in sintonia con « tendenze modellistiche immanenti alla vita costituzionale contemporanea » (L. Elia) — ispirate al direttismo e al decisionismo. Si tratta di elementi (omogeneizzati nel frullatore dei media, i cui codici di comunicazione sono ben predisposti alla logica di quelle culture, tanto da aspirare talvolta a sostituirsi ai tradizionali canali politici) la presenza dei quali ha una ricaduta sia sulla qualita` della democrazia rappresentativa che sull’intensita` dell’esperienza referendaria, senza peraltro offuscare la differenza tra i due universi procedurali. Quanto al sartoriano « direttismo » (una sorta di culto ingannatore del popolo in presa diretta — a livello catodico, in particolare — con il potere (16), che ha per obbiettivo principale quello di « by-passare i partiti, scavalcare la loro intermediazione inefficiente per arrivare a incidere direttamente sulla cosa pubblica » (17)), esso si caratterizza come tecnica istituzionale di riduzione in chiave binaria della complessita`: sia che si applichi alla (15) (16)
A. MASTROPAOLO, Antipolitica, cit., p. 31. ... di cui la sondocrazia e` una peculiare allarmante manifestazione (G. ZAGREBELSKY, Una riflessione sulla democrazia, in AA.VV., Costituzione democrazia antifascismo, Celid, Torino, 1994, p. 15 ss.) e la democrazia elettronica l’esito forse inevitabile. Ancora piu` peculiarmente allarmante e` la tendenza della cultura del direttismo (figlia, sia pure un po’ degenere, del mito della sovranita` popolare) a invadere campi che dovrebbero rimanere estranei, per la loro stessa natura, a quella cultura, come la giustizia (a chi non si accontenti di ricordare il graffito metropolitano « Di Pietro facci sognare », si suggerisce l’acuta analisi di A. GARAPON, I custodi dei diritti, Feltrinelli, Milano, 1997, cap. 3) e la medicina, incredibilmente uscita dagli ospedali ai tempi della « cura » (di destra, pare) del prof. Di Bella e dell’« operazione » (commerciale, pare) del prof. Marcelletti. (17) M. CALISE, Il partito personale, Laterza, Bari-Roma, 2000, p. 22, ripreso da E. MELCHIONDA, Il costo della politica, in Aprile, marzo 2000, p. 29 ss. Forte e` il nesso fra direttismo e populismo, se si pensa che « ovunque si usi il concetto politico di ‘‘popolo’’ come elemento di delegittimazione di altre categorie organizzative dello spazio
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democrazia rappresentativa — nella forma plebiscitaria dell’elezione del leader nazionale (o dell’aspirante di partito alla carica (18)) o in quella a base (piu`) programmatica dell’investitura immediata di una maggioranza con leader — che alla decisione referendaria, due sono i poli e/o i leader da scegliere come due sono i monosillabi che campeggiano nella scheda referendaria, sicche´ sempre due sono le aree in cui viene divisa l’arena politica. Meno conosciuto e`, peraltro, quanto si rivela in Svizzera a proposito degli effetti sul processo legislativo della sempre incombente spada di Damocle referendaria: si tratta di effetti ultraconsociativi (al di la` cioe` della formule magique), che hanno indotto ad affermare, a proposito della tendenza a coinvolgere nella decisione legislativa anche le opposizioni potenziali attivatrici di referendum, che « les re´fe´rendums les plus efficaces sont ceux qui n’ont pas eu lieu » (19); oppure a sostenere che « the existence of a popular initiative encourages the legislature to pass laws closer top the median voter preference », sicche´ la popular initiative puo` considerarsi « as a non-electoral constraint on Legislatures behaviour » (20). politico si puo` fondatamente parlare di ‘‘populismo’’ » (P. POMBENI, L’appello al popolo, in Ideazione, 2000, n. 2, p. 36). (18) Nell’ambito dell’agguerrito mimetismo istituzionale italiano (v. retro, nota 2), si va facendo strada l’idea, e in qualche caso la prassi, delle primarie, le quali intanto negli Usa cominciano a saldarsi con la democrazia elettronica: sul caso dell’Arizona cfr. gli articoli di G.E. RUSCONI (3 marzo 2000) e di G. PADULA (9 marzo 2000) in La Stampa, e di D. TEGA, in Dir. pubbl. compar. ed europ., 2000, pp. 648-650. (19) J.F. Aubert, citato da Y. Papadopoulos in un intervento nel volume di AA.VV., Pre´sent et ave´nir de la de´mocratie directe, Georg, Gene`ve, 1994, p. 20. Nell’ambito dei partiti di governo, va sottolineata l’affermazione del capogruppo socialista al Consiglio nazionale, secondo il quale il « partito socialista usa ... attualmente la minaccia referendaria quale tattica fondamentale della sua strategia parlamentare » per ottenere decisioni il piu` favorevoli possibile alle classi meno abbienti, sicche´ « il suo peso specifico va ben al di la` del quarto dell’elettorato che rappresenta » (F. CAVALLI, L’anomalia svizzera, in la rivista del manifesto, ottobre 2000, p. 34). (20) La citazione e` tratta da M. SETA¨LA¨, Referendums and Democratic Government, MacMillan, London, 1999, p. 83 e 85. Un fenomeno di segno in qualche misura analogo e` quello riguardante la possibilita` che il parlamento emani leggi « blindate » contro l’intervento referendario: se ne occupano vari autori nel volume citato retro in nota 3.
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Se quest’ultima osservazione induce a considerare una significativa convergenza — in termini di centripetismo e di valorizzazione dell’elettore mediano — tra l’una e l’altra forma di democrazia, differenze da sottolineare emergono invece se si riflette sull’elemento plebiscitario-leaderistico presente nella democrazia rappresentativa ispirata al direttismo, ma ravvisabile in quella referendaria solo a determinate condizioni: quando cioe`, come in Francia, ad attivare il referendum e` legittimato un soggetto istituzionale in grado di gestire e capitalizzare politicamente il voto referendario (21), e dunque di farsi protagonista — nel caso che l’esito del referendum sia favorevole al suo indirizzo politico — di una versione personalistica e cesaristica della democrazia rappresentativa (22). Quando invece, come in Italia, il referendum non e` previsto nella forma proegemonica alla francese, ma in chiave d’iniziativa popolare (o subsistemica: le cinque regioni di cui all’art. 75 Cost.) sembra approssimativo parlare — come spesso si fa — di effetto plebiscitario (23) (e difatti — secondo un’osservazione diffusa (24) — l’attivismo referendario, pur coronato da successo, ha finora dato luogo solo a visibilita` (25), non anche a sfondamenti elettorali (26)), anche (21) C. MEZZANOTTE-R. NANIA, Referendum e forma di governo in Italia, in Dem. e dir., 1981, n. 1-2, p. 68 e 73. (22) Una riprova a contrario si ha considerando l’esperienza svizzera, dove — nelle parole di J.F. AUBERT, Lec¸ons suisses, in Pouvoirs, n. 77 del 1996, p. 132 — si rileva « l’absence presque totale de l’e´le´ment ple´biscitaire. En tout cas du coˆte´ des autorite´s. Derrie`re les questions qu’elles posent, n’y a pas de nom particulier, pas de chef d’Etat, pas de Premier ministre, il n’y a qu’une majorite´ parlementaire et un colle`ge gouvernemental ». (23) Lo notavano gia` C. MEZZANOTTE-R. NANIA, Referendum, cit., p. 68, nota 26. (24) V., ad esempio, con particolare acutezza, G. COTTURRI, Vicende della democrazia diretta nel sistema politico italiano, paper presentato in occasione del dibattito su « Referendum e democrazia diretta » (Roma, 14 febbraio 1997), pp. 4-5. (25) L’aver dato luogo solo a modeste pattuglie parlamentari costituisce un paradossale effetto proporzionalizzante (anzi, polverizzante) della rappresentanza prodotto da un istituto ipermaggioritario come il referendum. (26) Troppo ottimistico appare comunque — anche alla luce di recenti tornate elettorali in Europa — sostenere, per esorcizzare il rischio plebiscitario, che « i demagoghi di destra e di sinistra non hanno alcuna chance nelle elezioni » (E.G. MAHREN-
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perche´ a vincere sono il piu` delle volte aggregazioni trasversali (27), intraducibili sul piano politico-parlamentare: sicche´ , al massimo, ad essere « plebiscitata », nel caso di un esito schiacciante, sara` la measure (si pensi all’esito del referendum del 1993 sul sistema elettorale, ma l’omologo — sia pure di segno opposto — del 2000 non ne ha ripetuto gli exploit sistemici), non i men (28). Dal direttismo al decisionismo il passo non e` lungo: anche perche´ in questa sede si assume la parola « decisionismo » nell’accezione triviale resa di uso comune dal linguaggio politico-giornalistico, dietro la quale — tanto per intendersi — non campeggiano le figure di Schmitt (decisionismo politico) o di Luhmann
HOLZ, Referendum e democrazia, in M. LUCIANI-M. VOLPI (a cura di), Referendum, Laterza, Bari-Roma, 1992, p. 25): se e` concessa una chiosa, si potrebbe magari osservare che in un assetto capitalistico, essendo abissale (come dimostra l’esperienza storica) la differenza di allarme che i demagoghi di sinistra incutono ai « pilastri della societa` » immortalati nelle tele di George Grosz rispetto ai demagoghi di destra, sono questi ultimi ad avere molte piu` chances di successo. (27) Il trasversalismo — sorta di versione popolare del trasformismo e, a suo modo, garanzia contro la « deriva plebiscitaria » — e` strutturalmente piu` limitato laddove, come nella Francia gollista, il referendum puo` assumere la valenza di fiducia (o sfiducia) extraparlamentare al suo promotore. Qualcosa di simile (nel senso che dietro la competizione referendaria s’intravvedevano chiaramente le figure di due leader: Berlinguer — intorno al quale si prospetto` una sorta di personalizzazione postuma — e Craxi, che aveva condizionato la sua permanenza al governo alla sconfitta del referendum promosso dai comunisti) e` capitato in Italia con il referendum sulla scala mobile: dallo scontro fra maggioranza e opposizione chi ne uscı` con le ossa rotte fu il movimento operaio. (28) Ovviamente l’osservazione del testo regge se si muove dalla nozione di plebiscitarismo come estremizzazione personalistica e cesaristica della democrazia (rappresentativa o diretta): non si nega che un quesito referendario scelto con accortezza puo` attivare — come effetto-alone — un anomalo « plebiscito » pro o contro soggetti istituzionali o politici, assumendo quindi valenze antiistituzionali (referendum sulla magistratura) o antisistemiche (referendum sui partiti), per raffigurare le quali puo` essere ritenuto efficace ricorrere alla forza evocativa del termine « plebiscito ». Del resto proprio i referendum richiamati sembrano convincere del fatto che maggiore e` l’effetto alone che si crea intorno a un quesito, tanto piu` il voto — relegata in secondo piano la valutazione sulla normativa stampata sulla scheda referendaria — puo` assumere valenze strategico-identitarie, o, se si vuole, « plebiscitarie » (cosı`, ad esempio, a proposito dei referendum sulla giustizia giusta, A. CAPUTO, La resistibile ascesa del modello referendario, in Questione Giustizia, 2000, p. 206).
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(decisionismo amministrativo), ma solo — per noi italiani — il talvolta mitizzato stile di governo di Craxi. In effetti, il direttismo e` valutato positivamente dai suoi estimatori oltre che come valore in se´ (in quanto restituisce lo scettro al principe: ma la « verita` » e` un’altra (29)), in quanto gli si accredita la virtu` di produrre decisioni con maggiore rapidita` (oltre che — nel caso di democrazia rappresentativa di tipo immediato — con piu` preciso addebito di responsabilita`) di quanto non siano in grado di fare le forme mediate di democrazia: si potrebbe affermare che il decisionismo e` ritenuto il pregio maggiore del direttismo. 3.
Sul processo decisionale referendario.
E` dunque ponendo al centro dell’attenzione la qualita` del processo e dell’esito decisionale che deve proseguire l’analisi, ponendo a confronto le decisioni prese in sede rappresentativa (anche nelle forme della democrazia immediata) e in sede di democrazia diretta. Si puo` cominciare osservando che a migliaia d’anni di distanza il lascito dell’etimo greco (governo del popolo) non cessa di esercitare il suo fascino seduttivo sui teorici piu` sofisticati (penso a Kelsen che ancora verso la meta` del ’900 parlava della democrazia rappresentativa come di una democrazia « minore » (30)) come sulle masse a disposizione dei demagoghi, le (29) Per quel che riguarda la democrazia d’investitura, la « verita` » — troppo vera per essere resa di pubblico dominio — viene svelata a p. 111 di G.E. RUSCONI, Scambio, minaccia, decisione, il Mulino, 1984: l’elezione diretta « e` indicata come fonte privilegiata di legittimita` di governo non perche´ essa mette in contatto piu` immediato e autentico cittadini e governanti. Al contrario ‘‘libera’’ chi governa dalla fastidiosa vicinanza dei governati; lo pone in posizione di ‘‘vero arbitro sovrano e decisivo’’ ». Un pedissequo epigono di questa tesi — elaborata da Rusconi con riferimento al Gruppo di Milano diretto da Miglio — e` A. DI GIOVINE, Istituzioni senza politica, in Nuvole, maggio-agosto 1996: naturalmente nulla impedisce di ritenere il popolo francese nel periodo gollista piu` dotato di scettro del popolo italiano nel corrispondente periodo. (30) H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello stato (1945), Comunita`, Mi-
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quali — a giudicare da certe rancorose frustrazioni politiche — appaiono ancora in buona parte impermeabili all’osservazione di buon senso — riferita agli Stati Uniti di fine millennio, ma valida anche per altre (meno) grandi realta` contemporanee — secondo cui cio` « che i filosofi greci hanno detto su Atene, una citta`-Stato con una popolazione di trentamila persone, tre quarti delle quali schiave, non e` molto pertinente con l’analisi della democrazia in una nazione di 180 milioni di persone » (31). Questo non toglie che la grande maggioranza del mondo degli studi si sia da tempo accomiatata dall’antichita` (32) e cerca di far convivere democrazia e modernita` attraverso un’opera di deflazione dell’idea democratica (33) (governo con il consenso del popolo, geometricamente rappresentabile dalla figura della piramide e non piu` da quella del cerchio) fondata sui concetti chiave di rappresentanza, rappresentativita` e — piu` di recente — responsivita` (termine emergente dalla riflessione sulla democrazia rappresentativa che — nella accezione di policy responsiveness — vuole indicare la disponibilita` ricettiva (o, tout court, la ricettivita`) degli eletti nei confronti delle preferenze degli elet-
lano, 1963, p. 294: in questo ordine di idee si colloca la teoria dell’adattamento di cui parla D. ZOLO, Il principato democratico, Feltrinelli, Milano, 1992, pp. 102-104 (individuando un filone culturale che muoverebbe da Montesquieu per arrivare fino a Dahl), ma anche la preoccupazione nei confronti dell’idea « che la ‘‘vera’’ democrazia sia solo quella diretta e che quella rappresentativa sia semplicemente un suo succedaneo: una realta` che si contrappone ad un ideale, tuttora non attinto » (M. LUCIANI, Referendum e forma di governo, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, quaderno n. 7, Giappichelli, Torino, 1997, p. 94). (31) E.E. SCHATTSCHNEIDER, Il popolo semi-sovrano (1960), Ecig, Genova, 1998, p. 178 nota 1. (32) Cfr. H. MAIER, La democrazia come indicatore di movimento della storia (XIX secolo), in AA.VV., Democrazia, Marsilio, Padova, 1993, p. 98; a M. BOVERO, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Bari-Roma, 2000, pp. 23-24, si deve la piu` recente utilizzazione delle metafore geometriche subito dopo evocate nel testo. (33) G. LAVAU, Democrazia, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, p. 28; per un’interpretazione piu` risentita cfr. M.I. FINLEY, La democrazia degli antichi e dei moderni, Mondadori, Milano, 1992, che a p. 11 parla di svalutazione radicale del concetto di democrazia da parte delle teorie oggi dominanti.
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tori) (34). Mentre i primi sono ovviamente estranei alla tematica referendaria (35), il terzo — che implica la maggior rispondenza possibile delle decisioni pubbliche alle preferenze dei cittadini (36) — la investe in pieno: verificare il grado di rispondenza delle decisioni referendarie alle preferenze dei cittadini appare infatti un esercizio indispensabile per accertarne il loro tasso di democraticita` (37). Un punto da porre subito in evidenza e` che la riflessione sul rapporto fra decisioni pubbliche e preferenze dei cittadini — as-
(34) Per una sobria messa a punto dell’argomento cfr. H. EULAU-P.D. KARPS, Le componenti della responsivita`, in D. FISICHELLA (a cura di), La rappresentanza politica, Giuffre`, Milano, 1983. (35) ... se si eccettua, nel referendum a iniziativa popolare, la possibile costruzione in chiave rappresentativa del rapporto fra promotori e corpo elettorale, che si inserisce nella ben nota problematica della imprescindibilita` della mediazione rappresentativa anche nella democrazia diretta (su cui cfr., fra gli scritti non di carattere giuridico, A. SCALONE, Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Angeli, Milano, 1996, che richiama, oltre alle posizioni di G. Leibholz e di C. Schmitt, anche (pp. 65-67) le penetranti riflessioni di E. Kaufmann in argomento). (36) Ormai il concetto di responsiveness (generalmente tradotto « responsivita` ») e` entrato a pieno titolo nelle piu` accreditate definizioni di democrazia: per G. SARTORI, Democrazia. Cosa e`, Rizzoli, Milano, 1993, p. 108 essa va definita come il « meccanismo che genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale attribuisce potere al popolo, e specificamente impone la responsivita` degli eletti nei confronti dei loro elettori » (in termini simili si era gia` espresso in Riv. it. sc. pol., 1977, p. 350). (37) Ricordo che per un altro illustre studioso (Dahl) la responsiveness e` la categoria analitica che definisce la democrazia: la sintesi del suo pensiero proposta da V. MURA, Categorie della politica, Giappichelli, Torino, 1997, p. 377 e da R. D’ALIMONTE, Sulla teoria della democrazia competitiva, in Riv. it. sc. pol., 1977, p. 6, appaiono particolarmente illuminanti ai fini del discorso svolto nel testo. Il primo pone in evidenza che per Dahl tanto maggiore e` la democrazia quanto minore e` lo scarto fra le preferenze liberamente manifestate dai cittadini e le decisioni pubbliche; da un’angolazione appena diversa, D’Alimonte riassume il pensiero del politologo americano nel senso che un sistema politico e` democratico nella misura in cui le decisioni collettive sono quelle maggiormente preferite da tutti i suoi membri, e, nella pagina successiva, propone lui stesso, sulla scia di Dahl, una definizione di democrazia: « un sistema politico e` democratico nella misura in cui e` minima la distanza fra le scelte politiche e le preferenze dei suoi membri ». Non molto diversamente si esprime R. DE MUCCI, Micropolitica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999, affermando, a p. 309, che « il rendimento democratico del sistema politico e` dato dalla misura in cui le scelte collettive rispecchiano il piu` fedelmente possibile le preferenze dei cittadini uti singuli » (corsivi nel testo).
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sumendo come congenita a una societa` pluralistica la molteplicita` delle seconde — sembra presupporre come naturale il government by discussion, l’unico potenzialmente in grado di contemperare punti di vista ed esigenze distanti, di tener conto dell’intensita` delle preferenze, di non marginalizzare a priori le differenze, di giungere insomma a decisioni (totalmente) sgradite al minor numero possibile di consociati: luogo ideale per tale tipo di government appare — se preservata da degenerazioni oligarchicomanipolatorie — l’assemblea, sia essa di popolo (l’irripetibile condizione della democrazia ateniese (38), capace ancora di ispirare rievocazioni arse dalla nostalgia (39)) o di suoi rappresentanti, caratterizzata dalla contestualita` interattiva del dibattito deliberativo (40) e dalla isegoria (uguale diritto a prendere la parola).
(38) L’improponibilita` di qualsiasi « ritorno ad Atene » della democrazia contemporanea e` vigorosamente argomentata da E.E. Scattschneider, il quale imputa molti elementi della cd. crisi della democrazia a un deficit di realismo e di adeguamento alla contemporaneita` della teoria (Il popolo, cit., p. 182 e 185): posto che la « democrazia fu pensata per la gente, non la gente per la democrazia » (ivi, p. 183), bisogna prendere atto che nella moderna democrazia il popolo e` un sovrano il cui vocabolario e` limitato a due parole (« si », « no ») e puo` parlare solo quando e` chiamato (Party Government (1942), Greenwood Press, Westport, 1977, p. 52) ed elaborare di conseguenza una teoria che tenga conto di questo fatto. A mio avviso questa impostazione da` a una visione critica della democrazia un fondamento di carattere ancora piu` strutturale di quello proposto da G. ZAGREBELSKY, Il « Crucifige! », cit., p. 108, in quanto i « limiti » del popolo non vanno imputati — come sembrerebbe dalle pagine di Zagrebelsky — alle debolezze dei singoli (ignoranza, imbecillita`, manipolabilita` ...) che si riverberano inevitabilmente sul tutto, ma al contesto — strutturale, appunto — in cui esso e` chiamato ad operare: sicche´ — per riprendere l’esempio (p. 185) e la metafora (p. 186) di E.E. SCHATTSCHNEIDER, Il popolo, cit. — anche a un popolo di 180 milioni di Aristotele si attaglia la considerazione secondo la quale cio` che « 180 milioni di persone possono fare spontaneamente, di propria iniziativa, non e` molto di piu` di quanto una locomotiva puo` fare senza binari ». (39) Si puo` in proposito citare di nuovo M.I. FINLEY, La democrazia (v. retro, nota 33); come opportuno antidoto si leggano le equilibrate considerazioni di D. MUSTI, Demokratı´a. Origini di un’idea, Laterza, Bari-Roma, pp. XVII-XVIII. (40) G. SARTORI, Una repubblica di aria fritta, in Micromega, 1995, n. 1, p. 48 e — con riferimento all’esperienza ateniese — F. INGRAVALLE, Introduzione a AA.VV., Morire per la liberta`, La Rosa, Torino, 1996, pp. XXVII-XXVIII.
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Non sono queste le caratteristiche delle procedure decisionali referendarie contemporanee, fondate sulla dicotomizzazione delle alternative come presupposto per la scelta di una da parte di milioni di elettori atomisticamente (41) operanti in cabine elettorali sparse in un vasto territorio: se a cio` si collega il dato — non da oggi riconosciuto (42) — del grande potere esercitato nella procedura referendaria da chi pone le domande (delimitazione del campo decisionale e conseguente possibile attribuzione dell’imprinting della volonta` popolare, anche casualmente (43), a una delle tante possibili discipline di una certa materia), assume rilievo valutare, come si fara` tra poco, quanto esso sia o possa essere esercitato in maniera ricettiva delle preferenze degli elettori. Prima pero` vale la pena di ritornare, a proposito del codice binario che conforma la procedura referendaria, sull’osservazione precedente che accomuna, sotto il profilo della riduzione della complessita`, democrazia rappresentativa di tipo immediato e democrazia referendaria, per osservare che la dicotomizzazione delle alternative (e poi la scelta secca di una) che ne deriva appare sorretta da una piu` fragile razionalita` se riferita non ai decisori (che poi decideranno comunque in un’assemblea), ma alle decisioni. Se in un caso possono essere messe in campo le ragioni (41) E` tornato di attualita`, per ragioni editoriali, citare in proposito le (in parte datate) considerazioni che Arturo Labriola svolgeva piu` di un secolo fa in tema di referendum: tre suoi articoli apparsi sulla Critica sociale del 1897 sono stati infatti ripubblicati in A. LABRIOLA, Contro il referendum, Datanews, Roma 1988 (a p. 57 il riferimento all’atomizzazione del corpo elettorale). (42) Mi limito a ricordare le posizioni di C. Schmitt (che parla di grande potere che risiede nella formulazione della domanda) e di E.W. Bo¨ckenfo¨rde (che parla di formidabile potere di porre le domande). (43) Il caso dei referendum sulle leggi elettorali italiane e` paradigmatico: il 18 aprile 1993 si e` proposto al corpo elettorale l’unico sistema che era possibile ricavare per sottrazione (attraverso il ritaglio abrogativo, cioe`) dalla vecchia legge elettorale per il Senato al fine di renderla a tendenza maggioritaria; lo stesso avvenne l’11 giugno 1995, giorno in cui per un soffio fallı` il tentativo di equiparare Roma ad Angrogna, nei confronti della legge 25 marzo 1993, n. 81, sulle elezioni negli enti locali; il 21 maggio 2000 si e` proposto agli elettori uno dei pochissimi sistemi che era possibile ricavare per sottrazione dalla vigente legge elettorale per la Camera, al fine di accentuarne il carattere maggioritario.
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della governabilita`, dell’alternanza, della trasparenza del rapporto fra eletti ed elettori, della fluidita` del processo decisionale ed altre ancora; nel secondo, un ipotetico balancing test avrebbe buone ragioni per concludere che il prezzo dell’impoverimento della discussione (e poi della decisione) pubblica, nel caso di problemi che ammettono molte soluzioni, puo` apparire non di rado alto da pagare. Nullo, veramente, tale prezzo e` solo in rare circostanze: identificabili — per gli italiani — non tanto nei casi (a prezzo ragionevole, verrebbe da dire, tenuto conto del contesto), cari all’epica laica, del 1974 (divorzio) e del 1981 (aborto), ma in quello del 1946 (44), nel quale la scelta non era fra un « sı` » e un « no », ma fra due « sı` », radicalmente esclusivi l’uno dell’altro e che non lasciavano spazio a diverse possibili opzioni, o, se si vuole, a soluzioni intermedie (45). Non basta. Se il carattere naturalmente (non artificialmente, cioe`) binario della risposta assicurava la strutturale genuinita` del voto (favorita, per di piu`, dalla semplicita` e dalla rilevanza del quesito, in grado di propiziare la — sempre relativa, ma comunque elevata — consapevolezza del voto (46)), la « perfezione » di quel referendum (44) Non ci si discosta in proposito dalla dottrina di gran lunga maggioritaria (sulla quale vedi pero` la pungente osservazione di G.M. SALERNO, Referendum, in Enc. dir., XXXIX, Giuffre`, Milano, 1988, p. 202) che definisce « referendum » la consultazione popolare del 2 giugno 1946. (45) N. BOBBIO, Le ragioni di un dissenso, in Micromega, 1987, n. 4, p. 26, che, con un pizzico di pedanteria, osserva che « non esiste una monarchia repubblicana o una repubblica monarchica ». (46) Al di la` di un certo limite, del resto, i dubbi circa la competenza, emotivita` e manipolabilita` — la propaganda allora non ando` certo per il sottile — del corpo elettorale dovrebbero investire ogni forma di democrazia: non e` un caso che si sia potuto affermare, da parte di un filosofo, che « la democrazia, sin dalle origini, e` un metodo manipolatorio del linguaggio atto a produrre consenso convenzionalmente quantificabile » (C. SINI, Manipolazione e informazione, in V. CHIOETTO (a cura di), Manipolazione, Anabasi, Milano, 1993, p. 48). I dubbi cui si accenna nella prima riga di questa nota si trovano spesso affrontati dalla dottrina anglosassone (v., fra i piu` recenti, T.E. CRONIN, Direct Democracy, Harvard University Press, 1998, cap. IV e I. BUDGE, The New Challenge of Direct Demo-
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va anche ricollegata al fatto che non residuava in capo al promotore altro potere che quello ineliminabile dell’indizione, il quesito non potendo essere che uno. Assumere come punto di riferimento il referendum fondativo del nostro sistema puo` aprire la strada — negli ovvi limiti di un paragone fra entita` accomunate solo dalla decisione popolare — per valutare, in base ai parametri che ne fanno un « modello », il grado di rispondenza delle successive (e di carattere legislativo) decisioni referendarie alle preferenze dei cittadini, e, dunque, il loro tasso di democraticita`: posto che, nella prospettiva prescelta, l’« ottima » decisione referendaria si attinge attraverso la combinazione dei due fattori decisivi (gli altri — semplicita` e rilevanza
cracy, Polity Press, Cambridge-Oxford, 1996, p. 21), sempre meticolosa nel ricostruire il repertorio degli argomenti pro e contro la democrazia diretta (un esempio nelle prime pagine di D. BUTLER-A. RANNEY (ed.), Referendums, American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington, 1978): essi, peraltro, non mi sembrano intaccare il significato della metafora di E.E. SCHATTSCHNEIDER, Il popolo, cit., p. 185, secondo cui il corpo degli elettori-consumatori e` piu` adatto a scegliere che non a costruire un frigorifero, ben diverse essendo — come tante volte ha sottolineato anche G. Sartori — le risorse di razionalita` e competenza necessarie per svolgere l’una o l’altra attivita`. Il che non toglie, ovviamente, che — come ha notato un altro studioso americano (R.D. PARKER, Here, The People Rule, Harvard University Press, 1994, pp. 101 e 127-8) nel suo « manifesto populista » — una delle fondamentali questioni costituzionali del nostro tempo riguardi le politiche e gli investimenti pubblici in campo scolastico, in grado di assicurare la « basic education necessary for effective political participation »: anche se non richiamate da Parker, la mente va alle considerazioni di cinquanta anni fa di G.A. ALMOND, The American People and Foreign Policy, Harcourt Brace, New York, 1950, pp. 139, 228, 233, in tema di « attentive public », quale precondizione indispensabile per il buon funzionamento del processo democratico. D’altro canto non bisogna neppure mitizzare — lo suggerisce anche il libro di Parker appena citato — la competenza dei rappresentanti del popolo: per non scadere nella seriosita` e nella lungaggine, basti rievocare l’impagabile beffa organizzata da una malvagia rivista americana (Spy) ai danni di alcuni membri del Congresso (eletti, come si sa, con il sistema uninominale-maggioritario che — ad avviso di molti — assicura la migliore selezione del personale politico) cui veniva chiesto per telefono che cosa bisognasse fare, a loro giudizio, « per fermare lo sterminio razziale in atto a Freedonia ». Ignari di geografia, di politica estera e — imperdonabilmente — di cinema (furono i fratelli Marx ad ambientare in quell’immaginaria citta`-stato Duck Soup (1933)), molti parlamentari fornirono con impeccabile aplomb — recitando il solito bla-bla a base di ONU e di buoni uffici del governo USA — la loro illuminata ricetta (la notizia e` riportata in La Stampa del 13 gennaio 1993).
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del quesito, consapevolezza del voto —, pur importanti, non hanno lo stesso peso strutturale) costituiti dal minimo esercizio possibile di potere da parte dei promotori (o dall’esercizio di tale potere nella maniera piu` ricettiva possibile delle preferenze degli elettori) e dalla presenza di un quesito a risposta veramente binaria. Alla luce del solo secondo fattore la partita della responsivita` della decisione referendaria sembra irrimediabilmente perduta: sul piano teorico, tranne che in rarissimi casi, non potendosi che concludere nel senso che la decisione referendaria — irrilevante e`, sotto questo profilo, l’entita` della maggioranza — rappresenta non la volonta` popolare su una certa materia, ma una volonta`, strettamente correlata all’unica alternativa su cui il corpo elettorale ha potuto esprimersi. Cionondimeno, si puo` graduare l’intensita` di corrispondenza di tale volonta` alle effettive preferenze del corpo elettorale, facendo entrare nella valutazione anche il grado di adesione alle preferenze dei cittadini dell’alternativa (del quesito, cioe`) che il promotore ha posto al corpo elettorale. Ne dovrebbe conseguire che se il promotore ha dall’ordinamento la possibilita` di scegliere tra referendum abrogativo e referendum propositivo, in linea di massima e` quest’ultimo ad attribuirgli maggiori possibilita` di aderire alle preferenze degli elettori, sia perche´ puo` tenerne conto nel redigere il testo da sottoporre al voto, sia perche´ puo` ragionevolmente ipotizzarsi come meno frequente il caso in cui la preferita delle discipline o delle parti di discipline di una certa materia, presumibilmente di rilievo, sia il vuoto (relativo, certo) di disciplina conseguente all’abrogazione: rimane peraltro da considerare se e in quale misura questa — certo, approssimativa — valutazione (che indurrebbe a ritenere preferibile, per il profilo qui in esame, il referendum propositivo) possa essere ridimensionata alla luce di un altro elemento pure importante, come si e` visto, per valutare il tasso di responsivita`-democraticita` di una decisione referendaria, e cioe` del grado di consapevolezza della risposta, forse piu` alto — in linea di massima — se riguarda la
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sorte da riservare a una legge, o a una sua parte, gia` in vigore (di cui sono noti, anche se ovviamente controversi, gli effetti prodotti) che alla proposta di una legge nuova. Per quel che riguarda invece la semplicita` e la rilevanza del quesito, sembrano da considerare variabili irrilevanti rispetto alla dicotomia referendum propositivo-referendum abrogativo. Piu` in basso nella scala di ricettivita` della domanda nei confronti delle preferenze degli elettori si trova il referendum abrogativo-manipolativo, di cui frequente uso si e` fatto nella (sola) esperienza italiana. Questo tipo di referendum, infatti, se non si differenzia dagli altri sotto il profilo dell’artificialita` del dilemma posto agli elettori (indotti — fatte salve le differenze appena rilevate fra abrogativo e propositivo — a pronunciare il loro monosillabo su una delle tante possibili discipline di una certa materia), se ne diversifica per essere a rime obbligate non solo per gli elettori, ma anche per i promotori, impossibilitati a tener conto delle preferenze degli elettori nel proporre la domanda, costretti come sono a proporre l’unico o uno dei pochissimi testi consentiti dalla tecnica del ritaglio (47): in linea teorica non e` ovviamente da escludere, peraltro, che quella disposizione sarebbe stata, anche in situazione di liberta` di scelta dei promotori, la preferita da parte del corpo elettorale. 4.
Decisione referendaria e successiva attivita` legislativa.
Provando a tirare le fila delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, si potrebbe azzardare una conclusione nel senso che il responso referendario — sfrondato dal pathos naturalmente insito nella qualita` del decisore — non assicura di per se´ una particolare responsivita`-democraticita`, tanto piu` se preso a stretta maggioranza, ma certifica solo — senza l’ombra del dubbio inerente a ogni decisione presa in sede rappresentativa (48) (47) (48)
V. retro, nota 43. Il dubbio puo` essere eliminato sul piano legale (si pensi all’art. 138 Cost.,
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— la disponibilita` positiva degli elettori (49) verso una determinata proposta sottoposta loro un certo giorno da quei peculiari e intermittenti rappresentanti che sono (o possono essere considerati) i promotori: sembra quindi che da tali elementi di criticita` delle decisioni assunte tramite referendum rispetto al parametrovalore della responsivita` dovrebbe conseguire l’estrema difficolta` — non solo sul piano formale ma anche, in certi casi, politico (50) — di attribuire al verdetto popolare un particolare status, in grado di limitare un organo (il parlamento) e un’attivita` (la produzione legislativa) strutturalmente perenni e inesauribili. Se non bastassero le solide argomentazioni di carattere giuridico che militano a favore dell’incapacita` del referendum di vincolare, in positivo e/o in negativo, il legislatore (51), potrebbero che impedisce il referendum nei confronti di un testo di legge costituzionale approvato dai due terzi dei rappresentanti), non sul piano sostanziale. (49) ... sulla base delle considerazioni svolte nel paragrafo 3, eventualmente accreditabile, al di la` degli evidenti problemi di verificabilita` empirica, di maggiore (referendum propositivo) o minore (referendum abrogativo-manipolativo) credibilita`. (50) E` corretto pertanto ipotizzare a contrario un eventuale « plusvalore politico non gia` del referendum in quanto istituto, bensı` dei singoli referendum », come fa M. LUCIANI, Referendum, cit., p. 97 (corsivi nel testo). (51) Vedile efficacemente espresse da A. GIORGIS, Alcune riflessioni sul possibile oggetto dei referendum parziali: disposizioni, norme esplicite, norme implicite?, in corso di pubblicazione in un volume collettaneo a cura di Gustavo Zagrebelsky e Franco Modugno, Giappichelli, 2001; per una diversa posizione si segnalano i lavori di A. MANGIA, Referendum manipolativo e vincolo al legislatore, in Diritto pubblico, 1995 e Referendum, Cedam, Padova, 1999. Le argomentazioni cui si accenna nel testo dovrebbero apparire particolarmente solide nel caso — specialita` italiana — di referendum abrogativo-manipolativo, normalmente piuttosto difficile da interpretare: ad esempio, la pretesa fatta valere dopo il 18 aprile 1993, a dispetto dei molteplici interrogativi (messi in luce da M. LUCIANI, Referendum, cit., pp. 102-103) che quel responso faceva nascere, di imporre al parlamento una legge sotto dettatura (una sorta di conversione in legge della normativa di risulta, che allungava intollerabilmente la sequenza di costrizioni (v. retro, nota 43) di cui quel tipo di referendum e` materiato), puo` essere letta — se non si accede alla tesi di Mezzanotte del « subitaneo lampeggiare del potere costituente che, seppure per un istante, aveva liberato la sua terribile forza » — sia in chiave di distorsione populista degli equilibri di sistema, che in chiave di distorsione oligarchica, nel senso dei pochi — che ci si riferisca ai promotori rispetto ai parlamentari, o ai sottoscrittori rispetto al corpo elettorale — che riescono a imporsi ai molti. Nella prospettiva dialogica della decisione referendaria (L. VOLPE, Potere, cit., p. 44) qui accolta appare coerente prendere atto che
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essere richiamati a sostegno alcuni principi fondanti la democrazia liberale, tesi a desacralizzare e relativizzare la decisione giuridica (anche popolare): jus quia jussum non quia justum e` un broccardo che potrebbe essere firmato da Kelsen o da Bobbio. Considerato finalmente inattingibile il justum, e abbandonata — a favore di una concezione individualistica della societa` — ogni ipostatizzazione organicistica del popolo (52), la democrazia liberale, assume come suo valore la perfettibilita` (o comunque la modificabilita`) di ogni decisione (53), anche rimettendo in gioco quella del popolo (54): sosteneva qualche anno fa uno studioso americano che la differenza fra l’interpretazione liberale e quella populista del voto sta nel fatto che « nella seconda le opinioni della maggioranza sono necessariamente giuste e devono essere rispettate, poiche´ la volonta` del popolo e` la liberta` del popolo. Nell’interpretazione liberale, questa magica identificazione non sussiste. L’esito del voto e` semplicemente una decisione senza alcuna particolare qualita` morale » (55). piu` il referendum abrogativo si fa manipolativo piu` il suo risultato scema in senso orientativo-consultivo nei confronti del legislatore (a questa indicazione sembra accedere anche A. BARBERA, Perche´ e` ammissibile il referendum elettorale, in R. BIN (a cura di), Elettori, cit., p. 25). (52) « In eta` moderna ... il popolo ... non e` piu` un dato naturalmente organizzato, ma una costruzione artificiale ... Il soggetto attivo della democrazia moderna non e` il popolo nel suo insieme ne´ come parte di un tutto, ma i singoli cittadini che godono del diritto di voto. La democrazia moderna presuppone pertanto una concezione individualistica della societa`: la volonta` popolare non e` la volonta` del popolo come un tutto, ma la volonta` dei singoli cittadini, e la maggioranza non e` l’espressione di un soggetto collettivo, ma la somma numerica di tanti soggetti individuali presi ... uti singuli. » (E. GREBLE, Democrazia, il Mulino, Bologna, 2000, pp. 25-26, il quale a p. 77 aggiunge: a differenza « della volonta` di tutti, che e` una sommatoria di volonta` particolari, la volonta` generale e` assoluta, pura, immutabile e inalterabile »). (53) E del resto si e` ricordato di recente che « les lois grecques anciennes commencent toutes par la clause e´doxe` te` boule` kai to de´mo, ‘‘il a semble´ bon au conseil et au peuple’’. ‘‘Il a semble´ bon’’, e non pas ‘‘il est bon’’. C’est ce qui a semble´ bon a` ce moment-la` »: C. CASTORIADIS, Pour un individu autonome (1997), in Manie`re de voir, 2000, juillet-aoˆut, p. 14 (corsivi nel testo). (54) G. ZAGREBELSKY, Il « Crucifige! », cit., p. 107. (55) W.H. RIKER, Liberalismo contro populismo (1982), Comunita`, Milano, 1996, p. 18; corsivi nel testo.
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Ricondurre la decisione referendaria ad un ruolo non sopraffattorio degli equilibri di una democrazia liberale, favorisce, certo, la sua emancipazione da ideologici (e non in sintonia con la costituzione e con i canoni di una « democrazia critica » (56)) plusvalori, ma impedisce anche che intorno ad essa si addensino grumi di disvalore riconducibili alla diffidenza che il « costituzionalismo negativo » (57) induce a provare per ogni potere fuori controllo: si avvalora in tal modo una visione del referendum come tecnica decisionale in paritaria concorrenza con altre — in chiave dinamicizzante (58), cioe`, e non totalizzante — che arricchisce le risorse pluralistiche del sistema, senza comprometterne l’inesauribile dialogicita` e correggibilita` (59). Cio` porta a ritenere che mentre mutevole in funzione dell’intensita` — quantitativa (60) e qualitativa (61) — della sua pratica potra` essere l’im-
(56) Di questo concetto chiave del gia` citato libro di G. ZAGREBELSKY, Il « Crucifige! », mi pare interessante riportare l’applicazione che l’autore fa con riferimento al nostro referendum (pp. 111-112): la « democrazia critica e` incompatibile con l’esistenza di atti politici giuridicamente immodificabili. La questione, al momento attuale, ha a che vedere con la tendenza ad attribuire ... al referendum il valore di un Diktat al quale ci si deve solo inchinare, senza poterlo discutere ed eventualmente contrastare ... Nella democrazia critica, neppure la decisione popolare diretta puo` essere presa come la parola che chiude definitivamente la questione. E questo dovrebbe apparire particolarmente evidente la` dove ... il referendum e` previsto soltanto con effetti abrogativi », da ricostruire dunque « come uno strumento tipico di democrazia critica. Il non averlo visto in questa luce e` la dimostrazione del fatto che le concezioni critiche della democrazia spesso sono costrette a indietreggiare di fronte alla democrazia acritica, cioe` come dogma o come forza, la quale si ripresenta continuamente armata dell’idea che la sovranita` del popolo, come onnipotenza definitiva, sia il suo massimo attributo democratico ». (57) Espressione con la quale s’intende denotare la tradizione di pensiero del costituzionalismo garantista: un’efficace sintesi in G. IERACI, Costituzionalismo negativo e costituzionalismo positivo. Le basi istituzionali della democrazia, in Quaderni di scienza politica, 2000, p. 149 ss. (58) M. LUCIANI, Referendum, cit., p. 100. (59) E` questa una delle idee di fondo che sostiene il bel volume di L. VOLPE, Potere, cit., al quale si rifanno le ultime righe del testo: da questa prospettiva (che valorizza il « processo circolare della democrazia pluralista »: A. CARIOLA, Il potere referendario in una democrazia incompiuta, in R. BIN (a cura di), Elettori, cit., p. 62) dovrebbe apparire meno « dilaniante » l’eventualita` che la legge si discosti dall’esito referendario. (60) Anche per il referendum — come per il decreto legge, il decreto legislativo,
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patto sulla forma di Stato (intesa come complesso di rapporti fra governanti e governati), sulla forma di governo (62) (intesa come distribuzione della funzione d’indirizzo politico fra i vari organi costituzionali, corpo elettorale compreso (63)) e sui generali equilibri politico-sistemici, il fatto che in una democrazia, che in futuro potrebbe essere definita « mista » (64), come quella italiana, il corpo elettorale possa essere non solo fonte (elezioni) ma anche titolare dell’indirizzo politico (65) — ogni atto normativo, e dunque anche il referendum, essendone espressione — non dovrebbe avere influenza sul rispetto dei dati costituzionali (mandato libero, inesauribilita` della funzione legislativa, perennita` della rap-
lo scioglimento anticipato, il potere di esternazione ... — il rigonfiamento quantitativo puo` determinare deformazioni degli equilibri sistemici. (61) Puo` ricordarsi che e` stata la qualita`, ritenuta all’epoca esplosiva, di certi referendum a determinare negli anni settanta l’utilizzo da parte della classe politica dello scioglimento anticipato per farne slittare l’indizione. Non si e` invece verificato nella prassi italiana l’effetto, autorevolmente ipotizzato (citazioni in G.M. SALERNO, Referendum, cit., p. 267), di voto di sfiducia diretto nei confronti del governo: per come fu concepito e vissuto, avrebbe potuto inverare questa ipotesi, a risultato invertito, il referendum sulla scala mobile (v. retro, nota 27). (62) Sui rapporti tra referendum, forma di stato e forma di governo cfr., oltre al noto saggio di Mezzanotte e Nania, cit. retro in nota 21, A. CARIOLA, Referendum abrogativo e giudizio costituzionale, Giuffre`, Milano, 1994, pp. 35-69; M. LUCIANI, Referendum, cit., in particolare p. 96, a giudizio — forse bisognoso di qualche precisazione — del quale la regolazione del referendum « attiene piu` (corsivo suo) alla sfera della forma di governo che a quella della forma di stato ». (63) All’inizio del paragrafo accuratamente dedicato al referendum nella forma di governo, G.M. SALERNO, op. ult. cit., p. 266, propone un’ambiziosa definizione di quest’ultima, cortocircuitando il pensiero di Mortati con quello di Elia: « modalita` di determinazione e di esercizio dell’indirizzo politico generale nel dinamico svolgersi del rapporto intercorrente tra gli organi di indirizzo e le forze politiche e partitiche » (forse, mi sembra, l’aggettivo « generale » e` di troppo). (64) Ferma restando la correttezza, sul piano formale, della posizione di C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, Cedam, Padova, 1976, p. 836 (che parla della nostra come di una democrazia di tipo misto), sara` il tempo a poter dire se la dimensione referendaria entrera` a far parte — a somiglianza di quella partitica — di una diffusa valutazione da parte della dottrina nel ricostruire il sistema politico-costituzionale italiano (ne adombra la possibilita` A. CARIOLA, Referendum, cit., p. 69; una riflessione in chiave teorico-comparatistica puo` leggersi in L. VOLPE, Potere, cit., p. 166 ss.). (65) Per un approccio diverso cfr. A. PIZZORUSSO, Indirizzo politico e referendum, in AA.VV., Indirizzo politico e costituzione, Giuffre`, Milano, 1998, p. 87 ss.
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presentanza parlamentare) e degli assunti teorici — d’impronta individualistica (66) e destituiti di ogni « magicita` » (67) — su cui si fonda una democrazia liberale come la nostra: volendo evitare il profilarsi di quelle che G. Floridia ha definito una deriva inedita e assai rischiosa nei rapporti fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa (in Giur. cost., 1995, p. 116), dovrebbe essere questa la cultura pubblica che un’egemonia culturale diversa da quella oggi insediata potrebbe diffondere, anche al fine di tentare di contenere possibili frustrazioni e risentimenti nel corpo elettorale, qualora la sua « volonta` » venga modificata — come pure e` accaduto — dal processo decisionale successivo al verdetto referendario. 5.
Spunti sulle legittimita` della campagna astensionista.
Chi guardi all’ultimo quarto del secolo scorso deve prendere atto del rilievo che il referendum — al di la` delle pur discrete prestazioni abrogative (68) — si e` guadagnato nel nostro paese, divenuto, forse inaspettatamente, « la culla della democrazia diretta antipartito » (69): allo zenit della sua parabola (tornata del 18 aprile 1993, cui partecipo` il 77% del corpo elettorale, il 63% del quale — a fronte, dunque, di un 37% fra astenuti e « no » — si pronuncio` a favore della manipolazione di una legge materialmente costituzionale quale quella che disciplinava l’elezione del Senato), esso e` stato in grado di saldare le ragioni della democrazia diretta con quelle della democrazia maggioritaria, operando una sorta di sublimazione della democrazia binaria, nel senso che l’agguerrito e potentemente sorretto movimento refe(66) V. retro nota 52. (67) V. retro, sub nota 55. (68) Si sono finora svolti 53 referendum ex art. 75 Cost., in 13 diverse tornate: di essi hanno raggiunto il quorum 36 e hanno avuto effetto abrogativo 19. (69) M. CALISE, Il partito mediale, in S. BENTIVEGNA (a cura di), Comunicare politica nel sistema dei media, Costa e Nolan, Genova, 1996, p. 222.
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rendario ha fatto leva su uno strumento binario di democrazia diretta (70) per binarizzare la democrazia rappresentativa (71). Dopo l’appannamento di appeal registratosi nel 1995 (l’11 giugno si verifico` un’affluenza del 58%, la piu` bassa fra quelle che hanno superato il quorum), l’indice di gradimento s’inabissa al 30% nella tornata referendaria del 15 giugno 1997, sfiora il quorum il 18 aprile 1999 e di nuovo s’inabissa nell’ultima tornata del 21 maggio 2000, quando si presentarono alle urne il 33% degli aventi diritto: una vera e propria « normalizzazione » referendaria, come e` stato suggerito da A. Di Virgilio nel Quaderno n. 42 dell’Osservatorio elettorale. E` naturale quindi che il problema del quorum di partecipazione stabilito in Costituzione diventi centrale nella campagna per la tornata del 18 aprile 1999, all’indomani del risultato (che, con i numeri di poi, va considerato una « vittoria inutile », a causa della scorretta gestione delle liste elettorali), e nella campagna per la tornata del 21 maggio 2000. Rinviando, per quel che riguarda il tema della revisione del penultimo comma dell’art. 75 Cost., a quanto scritto altrove (72), a me pare che a coloro che si sono battuti contro la legittimita` della campagna astensionista sfugga qualche dato essenziale intorno alla configurazione del nostro referendum abrogativo. Per delinearla, un itinerario argomentativo potrebbe iniziare considerando che a monte dell’art. 75 Cost. c’e` una decisione del tutto discrezionale dei costituenti, nel senso che il referendum, non facendo parte — come invece le elezioni — della natura di un assetto democratico (73), poteva anche non essere tirato fuori dal repertorio del diritto costituzionale, a somiglianza di quanto facevano i piu` o meno coevi costituenti francese (caso (70) Non tutti gli istituti di democrazia diretta hanno carattere binario: si pensi all’iniziativa legislativa popolare ex art. 71 Cost. e alla petizione popolare (art. 50 Cost.). (71) M. CALISE, Dopo la partitocrazia, Einaudi, Torino, 1994, p. 65. (72) A. DI GIOVINE, Referendum e Corte costituzionale, in Diritto pubblico, 2000, p. 602 ss. (73) M. LUCIANI, Referendum, cit., p. 96.
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della revisione costituzionale a parte) e tedesco (con l’eccezione di referendum di ristrutturazione territoriale ex art. 29 del Grundgesetz). Essendo stato rimesso alla libera iniziativa popolare (attualmente, di poco piu` di un centesimo del corpo elettorale), la sua attivazione — a differenza, ancora una volta, delle elezioni — non assume alcun carattere di naturalita`-necessarieta`: il referendum appartiene a quel genere di istituti (come il decreto-legge, lo scioglimento anticipato ...) che potrebbero anche non essere mai attivati senza che ne risenta la tenuta del sistema, e la cui attivazione smodata, anzi, puo` esserne considerata sintomo di malessere. Proseguendo su questa strada, il significato del quorum di partecipazione puo` essere cosı` ricostruito: il legislatore (costituzionale e ordinario) come ha ritenuto che la libera iniziativa dei cittadini, in quanto tale (correttamente) non sottoposta a controllo (74), per ottenere il timbro della Repubblica superi il vaglio di legalita`-legittimita` dei due massimi organi giurisdizionali dell’ordinamento, cosı` ha ritenuto che per ottenere il marchio di validita` superi il vaglio di opportunita` del corpo elettorale, anche in chiave di controbilanciamento dell’enorme potere — lo si e` visto prima — che l’ordinamento attribuisce a un’infima parte — i promotori sostenuti da 500.000 firme — del corpo elettorale e in vista del nessun rilievo che (inevitabilmente, ma un po’ schizofrenicamente) potrebbe essere dato all’eventuale enorme minoranza — fino al 49,9% — che ha votato per il monosillabo rimasto soccombente. Magari spaccando un po’ il capello, potrebbe distinguersi, nell’ambito del comportamento (fattualmente unitario) dell’elettore, un giudizio pubblico sul referendum (75) (in(74) Ne hanno approfittato i malvagi redattori di Cuore, facendo stampare sulla Gazzetta Ufficiale richieste di referendum per l’abrogazione del reato di furto, del rosso dei semafori ... (75) E` il referendum sul referendum di cui ha parlato L. LA SPINA nell’editoriale apparso in La Stampa del 22 maggio 2000.
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teso come offerta immessa nel mercato politico e, come tale, sottoposta al suo gradimento in ordine all’opportunita` di attivarlo e che siano certi e non altri i promotori) che si concretizza nel partecipare o meno alla votazione, e un giudizio segreto sul merito dei quesiti referendari, che — una volta operata in senso positivo la prima scelta — si concretizza nel contrassegnare uno dei due monosillabi che campeggiano sulla scheda referendaria. In questa prospettiva, anche nell’ambito della campagna di convinzione si puo` distinguere — in linea teorica, beninteso — quanto afferisce all’opportunita` d’indire un certo referendum (e alla credibilita` dei promotori) e quanto afferisce al merito dei quesiti stampati sulla scheda, sicche´ non si vede come possa essere messa in dubbio la legittimita` di una delle due dimensioni della campagna referendaria: in particolare non sembra contestabile che, come in ogni rapporto rappresentativo, — e tale puo` essere considerato, sia pure nella sua peculiarita`, quello che s’instaura fra promotori, sorretti da poco piu` di un centesimo degli elettori, e complessivo corpo elettorale — e` corretto che abbia un peso il giudizio sulle qualita` personali e sulla credibilita` politica dei promotori accanto a quello sull’indirizzo politico di cui sono portatori. Si potrebbe semmai aggiungere — come omaggio al dio delle polemiche — per un verso, che la partecipazione al voto referendario del Presidente della Repubblica, da ultimo inopinatamente sollecitata (76), non ha valore di esempio istituzionale (come nel caso delle elezioni, insostituibile motore della democrazia), ma piuttosto quello di pubblica testimonianza — autorevole, certo, ma priva (per la stessa natura del voto referendario) di esemplarita` — del suo personale giudizio sull’opportunita` di tenere un certo referendum; per un altro, che l’afferma(76) Ci si riferisce all’intervento — sotto la forma un po’ pretestuosa della lettera aperta a Ciampi — di A. BARBERA, Referendum, illegittimo l’invito all’astensionismo, in La Stampa del 12 maggio 2000, nel quale si suggeriva al Presidente perfino la fascia oraria (di buon mattino, si lasciava intendere) in cui andare a votare.
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zione secondo cui « la qualita` della democrazia subisce un disastroso restringimento » (G. Pasquino) nel caso di mancato raggiungimento del quorum, distorce arbitrariamente la logica dimercato nella quale la Costituzione — per una volta liberalista ante litteram — ha immesso l’istituto referendario. Va da se´ che questa ricostruzione attribuisce all’astensione un valore tendenzialmente neutro rispetto alle questioni oggetto del referendum; ritengo cioe` che anche chi non fosse d’accordo con le considerazioni prima svolte in tema di (mancanza di) vincolo da parte del parlamento nei confronti dei verdetti popolari, potrebbe consentire sul fatto che il legislatore, in caso di mancato quorum, sia libero di disciplinare una certa materia anche nel senso voluto dai promotori, essendo stato, in ogni caso, messo in crisi molto piu` il « carisma referendario » (nel duplice senso prima suggerito) che le proposte di merito. Del resto la differenza fra le due situazioni appare confermata dalla diversa disciplina in tema di riproponibilita` del referendum, anche se non e` solo un paradosso polemico — almeno dal punto di vista di chi volesse dar credito a quel vincolo e ritenesse poco ragionevole quella differenza di disciplina — l’ipotesi secondo cui al Parlamento, dopo l’esito del referendum del 18 aprile 1999, sarebbe stata vietata « ogni possibile riforma dei sistemi elettoriali che si ispiri ai principi non accolti dal corpo elettorale » (77), posto che l’astensione su un referendum manipolativo potrebbe essere letta come atteggiamento di doppia disapprovazione, sia della legge di partenza che di quella di risulta. Per concludere il ragionamento, un ultimo rilievo mi preme svolgere. Fra le tante obbiezioni che possono muoversi alle precedenti argomentazioni, una mi sembra a priori destituita di fondamento: quella che volesse mettere in luce la circostanza che, di fatto, sull’esito referendario pesano in egual misura l’astensione cosciente dal generico astensionismo, impedendo a coloro che (77) G. AZZARITI, Intervento, in Pol. dir., 1999, p. 280, ora anche in G. AZZARITI, Forme e soggetti della democrazia pluralista, Giappichelli, Torino, 2000.
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votano — come si suole aggiungere (78) — di decidere. Una risposta e`: c’est la re`gle; quando si utilizza uno strumento di tecnica decisionale non sopraffina come il referendum, accettare la finzione istituzionale dell’opinione popolare e` d’obbligo, e se e` pacifico che in ogni meccanismo maggioritario valga la regola secondo cui il 50,1% impedisce al 49,9% di decidere secondo la propria volonta`, dev’essere altrettanto pacifico che in un meccanismo maggioritario a doppia mandata, come quello previsto dal penultimo comma dell’art. 75 Cost., quella regola valga due volte: la prima per decidere l’an; la seconda, per decidere (eventualmente) il quomodo. Ci puo` essere poi un’altra risposta, accettabile pero` solo da coloro che ritengono che il referendum sia strutturalmente un istituto da attivare con misura, anche se non e` giocoforza considerarlo un’eccezione nell’ambito di un certo sistema costituzionale (79): divenendo difficile, dato il crescente astensionismo fisiologico (80) (mediamente superiore, secondo ricerche di poli(78) Non si aggiunge invece, da parte dei sostenitori di questa tesi, che anche i votanti non sono un sol uomo ma sono mossi dalle piu` svariate ragioni, tanto piu` in presenza di una raffica di referendum (lo sottolineano, ad esempio, nell’editoriale, la rivista del manifesto, giugno 2000, e — con riferimento al referendum francese del 1969 — H. ROUSSILLON, Contre le re´ferendum!, in Pouvoirs, 1996, p. 184). (79) Vi possono cioe` essere istituti « compresenti » (mi sto riferendo all’argomentazione di A. CARIOLA, Il potere, cit., p. 61) a una forma di governo, ma il cui uso esasperato — come si e` osservato poco fa — e` indice di cattiva salute del sistema. Si pensi a un uso troppo frequente del potere di veto legislativo da parte del presidente americano o del potere di scioglimento anticipato da parte del presidente francese o, ancora, dell’istituto della sfiducia costruttiva in Germania e in Spagna: ovviamente bisogna essere consapevoli che — come in ogni argomentazione che poggia su dati quantitativi — vi puo` essere un (piu` o meno largo) margine di opinabilita` nel considerare « troppo frequente » il verificarsi di un certo fenomeno. (80) ... cui peraltro potrebbero non essere estranee — ferme restando le motivazioni piu` comunemente addotte (da ultimo, L. SCIOLLA, Coesione sociale, cultura civica, societa` complessa, in il Mulino, 2000, p. 5) e talvolta contestate (nel piu` recente dibattito sui media si possono segnalare l’articolo di M. Barbagli in La Stampa del 29 dicembre 1999 e l’editoriale di J.M. Colombani in Le Monde del 26 settembre 2000) — le « semplificazioni brutali del principio maggioritario e di quello plebiscitario » (A. MASTROPAOLO, Presentazione a P. HIRST, Dallo statalismo al pluralismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 14), che non lasciano all’elettore altra scelta che l’astensione per segnalare l’insoddisfazione nei confronti dell’offerta politica.
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tica comparata (81), nelle consultazioni referendarie rispetto a quelle elettorali, forse perche´ manca — si puo` ipotizzare — il capillare incentivo che solo la presenza di migliaia di candidati puo` assicurare), superare il quorum, a causa della tenaglia di astensionismo (acre miscela d’indifferenza dei soddisfatti con il rancore degli esclusi) e astensione, si raggiunge — per vie molto traverse e un po’ brutali, certo — l’auspicato carattere (relativamente) eccezionale del referendum, avendo ragionevoli probabilita` di superare il vaglio di opportunita` riservato al corpo elettorale, solo questioni — e promotori — di sicuro appeal popolare (82) (non, dunque, i problemi degli incarichi extragiudiziari dei magistrati, proposti, o sostenuti, dai soliti « professionisti »), in grado quindi — volendo utilizzare la tripartizione proposta da A. Tuzzi, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale del dicembre 1999 — di smuovere gli ignavi, di ammansire gli iracondi, di sollecitare anche gli anziani, nonche´ — aggiungo — i cittadini di fresco elettorato. 6.
I due volti dell’antipolitica.
Se nei primi paragrafi si e` accennato alle non epidermiche ragioni che hanno contribuito a far guadagnare al referendum, nonostante i suoi limiti strutturali, un certo rilievo nella conformazione dei rapporti fra governanti e governati e nella distribuzione del potere d’indirizzo politico fra il complesso degli organi rappresentativi e il « sovrano » a caccia dello scettro, facendone un elemento di forte impatto (a giudizio di uno storico — Pombeni, gia` cit. in nota 17 — di carattere piu` distruttivo che costruttivo) sugli equilibri politico-istituzionali, appare ora opportuno tentare (81) D. BUTLER-A. RANNEY (ed.), Referendums Around the World, The AEI Press, Washington, D.C., 1994, pp. 16-17; chiara anche la tabella di p. 313 di R. DE MUCCI, Micropolitica, cit. (82) Su un altro piano si pone la constatazione che uno dei nostri referendum di maggior successo — quello in materiaelettorale del 1993 — costituisce una vistosa irregolarita` comparatistica: i dati possono leggersi in F. HAMON, Le choix d’un syste`me e´lectoral par la voie re´fe´rendaire, in Rev. franc. droit cost., 1997.
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d’individuare qualche ragione dello smarrimento di appeal che esso denuncia, certificato dal fatto che — come si e` visto — nelle ultime tre tornate esso ha mancato clamorosamente il quorum o lo ha raggiunto (solo virtualmente, pero`) per un soffio. Alcune dovrebbero apparire piuttosto evidenti: la nostra storia referendaria sembra, per vari aspetti, dare ragione a quanti, soprattutto fuori d’Italia, hanno messo in evidenza i processi di monopolizzazione che possono crearsi intorno alla pratica referendaria sequestrata da un ceto di professionisti (83), e le conseguenze, in termini di esclusione economica e culturale che l’eccesso di democrazia diretta puo` determinare: valgono cioe` anche per l’Italia le osservazioni di quanti rilevano che piu` il referendum e` utilizzato in dosi massicce, piu` determina esclusioni sul piano economico, non tutti potendo disporre del denaro necessario per attivare l’industria referendaria; piu` i quesiti referendari sono esigenti nei confronti dei cittadini, piu` possono avere effetti discriminatori — sul piano della formulazione della domanda, come su quello della decisione della risposta — nei confronti degli elettori meno culturalmente attrezzati (84). Tali fenomeni hanno creato un clima di diffidenza e di saturazione (85) nel pubblico attento — conscio degli aspetti di dis(83) D.B. MAGLEBY, I problematici sviluppi della recente esperienza statunitense, in M. CACIAGLI-P.V. ULERI (a cura di), Democrazia e referendum, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 90 e 98. (84) Per il primo ordine di considerazioni cfr., fra i tanti, J.F. AUBERT, Lec¸ons, cit., p. 133; Y. PAPADOPOULOS, Le point sur la de´mocratie directe, in AA.VV., Pre´sent et avenir, cit., p. 26, cui adde la critica radicale e senza appello di M. ENCKELL, La de´mocratie mise a` mort par ses institutions meˆme. L’exemple de la Suisse, in Au-dela` de la de´mocratie, Atelier de cre´ation libertaire, Lyon, 1990, e le istruttive informazioni sul costo dei referendum in California che possono leggersi nell’articolo di Holman cit. retro in nota 1. Per il secondo ordine di considerazioni si rinvia, fra gli altri, a W. LINDER, De´mocratie directe - La panace´e?, p. 84 di Prese´nt et avenir, cit.; L. MOREL, La pratique dans les de´mocraties libe´rales, p. 36 del numero appena citato in nota 77 di Pouvoirs; L. CARLASSARE, Gli elettori e i loro rappresentanti, in R. BIN (a cura di), Elettori, cit., p. 68 (con riferimento alle competenze necessarie per proporre quesiti che superino il vaglio della Consulta); V. ANGIOLINI, ivi, p. 14 (che s’immedesima nel frastornato elettore« buon selvaggio » chiamato a rispondere a quesiti improbi). (85) Si veda l’osservazione di R. CALVANO, in Giur. cost., 1999, p. 116, che parla
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sennata strumentalita` che hanno afflitto parte della nostra esperienza referendaria — e in quello meno preparato, naturalmente incline a esaurire in fretta la propria disponibilita` verso la cosa pubblica, tanto piu` quando assume il volto scostante della « cultura » estranea alla propria esperienza (86), o quello, usurato dalla comune noia, degli imprenditori del referendum: diventa plausibile in tal modo che senso di esclusione e voglia di « punizione » possano precipitare in una larga disponibilita` verso la (legittima, come si e` visto) propaganda astensionista. Si puo` proseguire con l’osservare che il successo del referendum in Italia e` stato edificato in buona parte su un terreno infido: quello della contestazione della classe politica(nte), del rifiuto di un sistema rappresentato come paralizzante la societa` e paralizzato al suo interno (87), della nausea delle autoreferenziali alchimie della politica di palazzo (88), del leaderismo da guru di alcuni suoi promotori; sugli umori dell’antipolitica, insomma. Nel momento in cui con questa miscela si tende a deistituzionalizzare la politica in chiave populista (come capita, in particolare, promuovendo referendum a ripetizione (89)), esigendo una grande mobilitazione da parte del corpo elettorale, i calcoli fondati sull’antipolitica possono rivelarsi mal fatti (90): e` questa, mi sembra, la sia pur modesta conclusione che puo` ricavarsi dal didi « crescente disaffezione popolare dell’istituto referendario » a causa della « grande bouffe referendaria dell’ultimo decennio ». (86) L’esperienza universitaria, ad esempio, sconsiglia di chiedere agli studenti (se non in rari casi) nel giorno di loro massima preparazione costituzionalistica — quello in cui sostengono l’esame — la disciplina delle elezioni del CSM. (87) Sull’importanza, al fine di determinare la sindrome pubblica della crisi o addirittura dello sfascio, del ruolo che hanno avuto « le narrazioni e rappresentazioni della democrazia italiana », ha scritto pagine eccellenti A. MASTROPAOLO, Antipolitica, cit., passim. (88) Si puo` osservare che una certa dose di autoreferenzialita` della classe politica si riversi anche nell’istituto referendario: puo` essere questa, ad esempio, una non secondaria ragione per spiegare il fatto che, nell’ultima tornata, la materia elettorale sia stata ben piu` dibattuta di altre che riguardavano direttamente tanti lavoratori. (89) G. ZAGREBELSKY, Il « Crucifige! », cit., p. 117. (90) A. MASTROPAOLO, op. ult. cit., p. 138.
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battito svoltosi dopo il 21 maggio 2000, che ha visto contrapporsi coloro che ritengono che in quella data si sia celebrata « la fine di un inganno straordinario » (91) a coloro che hanno parlato di « trionfo dell’antipolitica » (92) e di « diserzione di massa » (93). A me sembra che se si vuole ricorrere alla categoria dell’antipolitica, occorre farlo con la consapevolezza che essa — fermo restando che non e` concime adatto per far crescere la pianta di una forte democrazia rappresentativa, precondizione essenziale perche´ possa affermarsi una « sana » democrazia referendaria (94) — si puo` presentare con due volti, quello dell’euforia e quello dell’apatia, sicche´ spetta all’abilita` delle forze politiche che su di essa fondano le proprie fortune attivare l’una o l’altra dimensione a seconda delle convenienze. E` imperdonabile pertanto, visto che la disciplina costituzionale, prevedendo il quorum di partecipazione, impone una certa dose di « euforia » del corpo elettorale, commettere clamorosi errori di marketing politico — ridimensionati, per il solo risvolto quantitativo, dalla Consulta, anche mettendo a rischio la propria legittimazione —, non estranei, probabilmente, al di la` delle convenienze in materia elettorale, alla decisione berlusconiana di far mancare il proprio appoggio. Il successo del 1993 (su una materia politico-istituzionale) non doveva illudere dei professionisti del « gentismo » che potesse essere ripetuto in campo politico-sociale (su materie strettamente attinenti agli interessi di molti elettori); sarebbe dovuto apparire veramente azzardato tentare di saldare la democrazia diretta non solo alla democrazia binaria, ma addirittura (91) N. DELLA CHIESA, Gli antipolitici, in L’Italia democratica, maggio 2000. (92) G. VALENTINI, Trionfa la sfiducia, in la Repubblica del 22 maggio 2000. (93) Cosı`, con inevitabile richiamo all’8 settembre e al furbo (nulla piu`) film che per antonomasia lo ha rappresentato, G. ARE, Senza le riforme il Paese torna indietro, in Il Sole-24 ore del 18 giugno 2000. (94) Fra i tanti elementi di rappresentativita` che conformano la democrazia diretta, il piu` invasivo e totalizzante e` forse quello (ben messo in luce da L. VOLPE, Potere, cit., p. 164; pp. 409-411; pp. 428-430) appena accennato nel testo: la democrazia referendaria per dispiegarsi correttamente (in chiave fiancheggiatrice o contestativa) deve radicarsi su un solido e condiviso humus di democrazia rappresentativa.
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ai nuovi paradigmi della postdemocrazia (95), per arrivare al cuore della forma di stato sociale, smantellandone, con una procedura decisionale coinvolgente oltre 40 milioni di elettori, alcune garanzie che l’hanno finora caratterizzato: le rivoluzioni liberiste e` molto piu` « ragionevole » farle in petits comite´s, gia` troppo grande apparendo la dimensione dell’assemblea parlamentare. Resta poi affidato alle inclinazioni e alle opzioni di ciascuno aderire o meno all’opinione di chi — quorum ego — ritiene che quando una delle suddette dimensioni (che si pongono rispettivamente al di la` — l’euforia — e al di qua — l’apatia — della matura partecipazione di un pubblico attento) prevale, come e` paradigmaticamente capitato nei due « plebisciti » (di segno opposto, ma ugualmente « drogati ») del 1993 e del 2000, si da` luogo a verdetti che non dovrebbero indurre all’entusiasmo, in quanto, nella loro smisuratezza, appaiono comunque espressione di passivita` e non di protagonismo del corpo elettorale, sulla cui pelle si ha l’impressione che si sia giocata l’ennesima partita tra le forze che tengono il banco, tanto che qualcuno ha perfino creduto di poter allungare la lista delle italiche « rivoluzioni passive ». 7.
Osservazioni conclusive.
Avviandomi alla fine di queste riflessioni, mi sembra corretto sostenere che cio` cui non ci si dovrebbe rassegnare e` che il referendum venga dal corpo sociale identificato con gli aspetti piu` caricaturali (raffiche, magari sparate a salve, quesiti chilometrici ...) di questi anni e con le caricature appassite di certi loro promotori: una volta decongestionati del « sovraccarico di oppositivita` idealtipica » (96) i primi, e messi amorevolmente a riposo i se(95) Si vedano i proposito le osservazioni di A. MASTROPAOLO, Democrazia e postdemocrazia, in Ragion pratica, n. 7 del 1997, p. 40 ss. (96) L. VOLPE, Potere, cit., p. 26.
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condi (anche facendo ricorso alla creativita` (97) di cui si ritengono maestri: ad esempio utilizzandoli come guest star tra le mani di Amleto che recita il leggendario To be ...), non si vede perche´ si dovrebbe considerare quella referendaria una storia spezzata (98), rinunciando alle positive risorse della democrazia diretta in termini di canale aperto all’articolazione pluralistica della societa` o propizio — qualora se ne diano le condizioni — allo svelenimento dei rapporti politici (99); o in funzione della contestatory democracy tanto cara a certi filoni del repubblicanesimo (100) e particolarmente necessaria in sistemi che hanno la tendenza ad accomodarsi, al di la` della schiuma di superficie, in una sorta di « monopartitismo competitivo », anticamera della neutralizzazione sistemica del principio democratico; o ancora in chiave di contributo all’affermazione di una cultura politica delle soluzioni concrete (101) e non solo fondata su tattiche di schieramento, incentrata su decisioni e non solo su rinvii, su un voto di convinzione e non di scambio e dunque su una competizione (97) Un esempio in A. CHIMENTI, Storia dei referendum, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 176. (98) ... tanto piu` che l’ordinamento si e` di recente arricchito di nuove potenzialita` referendarie: penso alla legge 3 agosto 1999 n. 265, che consente (ma non impone, come avrebbe voluto — in nome dell’autonomia locale? — E. ROTELLI, Il referendum deliberativo locale in Italia, in Amministrare, 1999, p. 308) l’ampliamento della tipologia referendaria a livello locale, e alla legge di revisione costituzionale 22 novembre 1999 n. 1, che prevede la possibilita` di sottoporre a referendum, prima della promulgazione, lo statuto regionale. (99) Agli esempi, anche stranieri, portati da A. CARIOLA, Referendum abrogativo, cit., p. 51, aggiungerei il referendum istituzionale del giugno 1946, anch’esso istruttivo per capire come talvolta l’irriducibilita` delle logiche decisionali della classe politica puo` essere bypassata solo dal voto popolare: la stessa decisione presa dal corpo elettorale verrebbe considerata dai soccombenti intollerabile prevaricazione se presa all’interno dell’assetto partitico. (100) Cfr. P. PETTIT, Repubblicanesimo, Feltrinelli, Milano, 2000, che a p. 327 propone « l’ideale di una democrazia basata non su un presunto consenso dei cittadini, ma piuttosto sulla possibilita` da parte del popolo di contestare qualsiasi provvedimento governativo »: il collegamento da me proposto nel testo fra referendum e contestatory democracy, troverebbe peraltro l’esplicita diffidenza di P. PETTIT (v. p. 17 dell’opera citata). (101) G. COTTURRI, op. cit., in nota 24, p. 2.
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poco o per nulla afflitta dalla categoria, di recente enucleata (102), della legittimita` illegale ...: non e`, insomma, un destino ineluttabile per il referendum (a meno di non confonderlo con il direttismo, che ne e` la versione maniacale) essere espressione di antipolitica, visto che ci sono stati — quello sul divorzio, quello sulla scala mobile e altri ancora — e potranno esserci in futuro, superato il collasso da doping, referendum espressione di forte e alta (passione) politica (103). Del resto anche chi ritiene di doversi contrapporre frontalmente al manicheismo e al semplicismo della tecnica decisionale referendaria (104) (che non prova neppure a misurarsi con la sublime utopia dell’aver ragione in due (105), preferendo tagliare i nodi piuttosto che scioglierli (106)), non dovrebbe comunque sottovalutare la funzione legittimante ma anche mobilitante (e dunque pure di possibile freno nei confronti dei governanti) che puo` giocare nei complessivi equilibri del sistema — per quel tanto che non sono fondati su puri rapporti di forza — il fatto che aleggi, fra gli altri, il mito politico (107) di una incontaminata espressione della volonta` popolare: « sono io che decido, e non
(102) V. il secondo capitolo del libro di D. UNGARO, La transizione italiana, Armando, Roma, 1997. (103) La lettura dei quotidiani italiani del 29 agosto 2000, pero`, affievolisce le speranze anche se lascia intatte le aspettative; la proposta in un’assise mondiale di scienziati da parte di un ministro « verde » d’indire un referendum d’indirizzo (previa legge costituzionale, s’intende) sulla clonazione sembra il primo passo verso il referendum definitivo: quello sull’esistenza di Dio, con la memoria che correrebbe al memorabile duetto La Pira-Togliatti del 22 dicembre 1947. (104) Cfr., ad esempio, H. ROUSSILLON, op. e loc. cit. in nota 78. (105) Ricorda R. MADERA, L’animale visionario, il Saggiatore, Milano, 1999, p. 150, che « Ernst Bernhard ... si interrogava negli ultimi giorni della sua vita, su questo straordinario tema e problema: come e` possibile avere ragione in due? Come e` possibile che il mio avere ragione non neghi il tuo avere ragione? ». (106) Mi rifaccio liberamente alla metafora suggerita — in chiave autobiograficamente dolorosa e storicamente angosciante — da A. SOFRI, Il nodo e il chiodo, Sellerio, Palermo, 1995. (107) ... nell’accezione, volendo, soreliana: rinvio il lettore interessato alle pagine che possono leggersi in Les re´flexions sur la violence (1908), ora in G. SOREL, Scritti politici, Utet, Torino, 1963, p. 208 ss.
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loro », pensano i semplici, riproducendo — a distanza di secoli, e sotto altra forma — l’aspirazione al « giudice a Berlino ». D’altra parte, quella nella sovranita` popolare dovrebbe apparire comunque una credenza politicamente fertile (e neppure, in qualche misura, storicamente infondata, sicche´ puo` essere ritenuta meno esposta di altre alla forza demolitrice di certo pensiero contemporaneo (108)) nel senso che anche quanti volessero adeguarsi ad una disincantata visione (che ne fa l’ultimo mito — in ordine di tempo — di legittimazione del potere (109)), non puo` negare che, maneggiata con la cautela che la grande tradizione del costituzionalismo negativo (110) ci ha insegnato per attenuare il rischio che la democrazia sia solo la figlia stupida della matematica (111), essa si e` mostrata piu` idonea degli altri miti che l’hanno preceduta (grazia di Dio, privilegio di nascita ...) ad allontanare le ipoteche dell’assolutismo e del monolitismo, aprendo la stagione del pluralismo dei poteri e della liberta` degli individui: e` questa — andando in contrario avviso di Einaudi (112) — la sua « virtu` maggiore », rispetto a quelle che in passato furono sue « concorrenti »; una virtu` che non dovrebbe poter essere misconosciuta neppure da chi non rinuncia a ritenere che ogni fondamento ultimo del potere consista in una finzione, mettendo la sordina sul fatto che, tra le varie « finzioni », quella della sovranita` popolare per lo meno si sostanzia di pratiche giuridiche concrete e verificabili. (108) Penso, ad esempio, ad un’irriconciliata affermazione di F. NIETZSCHE, L’Anticristo (1889), Adelphi, Milano, 2000, p. 27, secondo il quale per il cristianesimo « e` in se´ completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma e` estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta ». (109) L. EINAUDI, Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1964, p. 413. Di recente anche P. POMBENI, L’appello, cit., p. 37, ha ritenuto di poter affermare che « il riferimento al ‘‘popolo’’ come sorgente di legittimazione e` un riferimento di tipo ‘‘simbolico’’ non meno del riferimento alla ‘‘grazia di Dio’’ ». (110) V. retro, sub nota 57. (111) Questo antico refrain della cultura antidemocratica e` stato di recente ripreso da S. VASSALLI, La democrazia? Questione di matematica, in Corriere della sera del 10-1-1999. (112) Mi riferisco alla stessa pagina citata nella terzultima nota.
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Su un altro piano, infine, attinente alla sociologia politica, andrebbe considerato il fatto che il referendum, utilizzato con equilibrio (politico, sociale, istituzionale), puo` essere valutato come un istituto che, nel momento in cui radicalizza in superficie la platea sociale, la integra in profondita` (113) — in virtu` della particolare legittimazione che l’ordinary people accredita alle sue decisioni (114) —, portando acqua ai valori della democrazia e delle sue procedure: senza raggiungere le vette della teologia, appare un buon catechismo di base (115) per una religione civile in grado di radicare principi — la cui « distanza dal reale non ne attenua la forza come fattore o stimolo di storia » (116) — molecolarmente diffusi.
(113) A giudizio pero` di J.F. AUBERT, op. cit. in nota 22, p. 134, « parmi toutes les institutions qui fondent une communaute´ politique, le re´fe´rendum est l’une de celles dont l’effet inte´grateur est le plus faible ». (114) Cosı` due studiosi americani come Austin Ranney e Geoffrey Walker: cfr. Pouvoirs, 1996, n. 77, p. 10 e 12. (115) Chi volesse essere a tutti i costi acre, potrebbe esser tentato di dire che il secondo sta alla prima come la cultura degli spot (regina delle campagne referendarie) sta a quella del teatro elisabettiano e shakespeariano, di cui e` stata suggerita la contestualita` cronologica, politica e culturale con la nascita della rappresentanza borghese (G. GALLI, I partiti politici, Utet, Torino, 1974, p. 232). (116) D. MUSTI, Demokratı´a, cit., p. XXV; resta peraltro difficile prendere partito nel dibattito fra coloro che ritengono che il de´calage tra la fiducia nella democrazia ideale e la diffusa insoddisfazione per la democrazia reale sia un dato fisiologico e coloro che vi scorgono — anche in considerazione del suo carattere crescente — un indicatore critico: per una recente messa a punto, orientata nel secondo senso, cfr. S. BELLIGNI, L’inverno del nostro scontento. Il cittadino democratico tra protesta e uscita, in Nuvole, 2000, n. 17.
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ASPETTI PROBLEMATICI DEL REFERENDUM E CRISI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA
1. Nel panorama degli Stati unitari da almeno cinquanta milioni di abitanti (e, quindi, eccetto l’esperienza svizzera), il nostro istituto referendario si mostra, effettivamente, come un unicum. La singolarita` del nostro referendum consiste innanzitutto nella possibilita` offerta ad una quota modesta del corpo elettorale di far convocare l’intero corpo degli elettori. Cio` determina una situazione di assoluta liberta` dell’elettore, in quanto il non-obbligo di partecipare alla consultazione referendaria si collega alla modalita` stessa della iniziativa. Gli eventuali effetti positivi del referendum incidono, pero`, sull’intero ordinamento giuridico, e possono incidere anche in modo profondo, toccando aspetti rilevanti del modo di vivere del cittadino: divorzio, aborto, legge elettorale, statuto dei lavoratori, etc. Vi e` dunque una sproporzione, un divario, che in altri ordinamenti non si verifica, tra il non-obbligo, conseguenza dalla modalita` di iniziativa, e gli effetti prodotti. Il non obbligo di partecipare alla votazione di un referendum abrogativo (il giudizio di opportunita` e` rimesso ad ogni elettore) puo` dirsi ormai pacifico (v. ora accettabili distinzioni in A. DI GIOVANE, Fra direttismo e antipolitica: qualche spunto sul referendum in Italia, in Studi in onore di Pototsching, Milano, pagg. 2225, Giuffre`, 2001, e ora in questo volume). Malgrado che la convocazione per la votazione referendaria sia indetta con decreto del Capo dello Stato, resta fermo che la iniziativa di partenza e`
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assolutamente privata, in quanto assunta da un gruppo di cittadini, che molte volte rappresentano la dimensione collegiale di veri e propri « impresari di referendum ». Percio` il cittadino elettore « sente » di essere convocato da Marco Pannella (o dal Prof. Gabrio Lombardi) e percio` esercita senza condizionamenti il diritto di scelta tra voto e non voto; sentendo anche di essere in una situazione diversa dalle elezioni, non surrogabile « motore » della democrazia. 2. Indubbiamente, l’istituto referendario esprime il livello di democrazia piu` vicino al tipo di democrazia diretta vigente alle origini. Non solo. L’esperienza mostra una elevata compatibilita` dell’istituto referendario con le varie forme di governo. Cio` significa che (pur dovendosi studiare il referendum in relazione ai diversi modelli, per capire come l’uno incida sull’altro) piu` che un istituto di una forma di governo democratica, esso e` un istituto della democrazia stessa; che, in qualche modo, attiene piu` alla forma di Stato-democratico che non alla forma di governo, su cui per altro incide, e su cui ha influenza (ma vedi diversa opinione di M. Luciani, in M. LUCIANI - M. VOLPI (a cura di), Referendum, Laterza, Bari-Roma, p. 96). 3. Quanto al giudizio di ammissibilita`, puo` leggersi, nella giurisprudenza costituzionale, non solo il tentativo di circondare gli interventi referendari di una sorta di « razionalita` democratica », in termini di chiarezza e coerenza; ma anche il tentativo di conciliare, almeno nel risultato, l’istituto referendario e il governo parlamentare (cfr. Carre´ de Malberg), dosando l’incidenza dell’uno sull’altro. In un concetto coerente di democrazia, cio` che puo` fare il rappresentante, a fortiori puo` fare il rappresentato, e questo e` un elemento valido a favore del referendum. L’intervento popolare puo`, pero`, per la sua estemporaneita`, costituire ostacolo alla realizzazione del programma di governo. Sicche´, il popolo contraddice se stesso: si auto-corregge o rende vana la deliberazione
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che precedentemente ha fatto, sul piano elettorale, scegliendo un governo, un programma, un premier, etc. Tutti problemi, questi, indubbiamente apertissimi. 4. Quanto alla rappresentanza politica, direi che la crisi e` evidente. Questa crisi dei Parlamenti e` preoccupante, perche´ le loro attribuzioni vengono — come dire — « smantellate » da piu` parti, non solo dall’esterno, da fenomeni molto noti come il diritto comunitario europeo e dai referendum, ma anche dall’interno dell’organizzazione costituzionale per l’uso massiccio della delegazione legislativa, la difficolta` di affrontare in sede parlamentare « temi forti » con una legislazione organica, le continue rielaborazioni di leggi anche recentissime e la conseguente difficolta` di evitare errori da incoerenza legislativa. Si pensi, ad esempio, all’election day. E` una legge (n. 120 del 1999) che, per far svolgere le elezioni amministrative in un unico giorno dell’anno, cade appunto — secondo me — in una contraddizione, perche´ prevede un periodo troppo lungo di gestione straordinaria affidata al commissario governativo, o al vice-sindaco scelto dal delegante, mentre lo spirito della legge (n. 81 del 1993) sull’elezione diretta del sindaco voleva che questi svolgesse il mandato per tutto il quinquennio, per l’intero periodo della « consiliatura ». Si pensi, ancora, alla c.d. legge Simeone, in materia di liberta` personale. Anche questa e` una legge recente, ma le sempre piu` pressanti esigenze di sicurezza dei cittadini hanno portato le stesse forze politiche, che avevano patrocinato questa legge, a sostenere ora che e` gia` necessario cambiarla. Dunque, il work in progress e` un problema affrontato, forse, con un po’ troppo di disinvoltura. Certo, si possono correggere e rivedere le leggi, ma tutto questo poi comporta problemi piu` seri di coordinamento legislativo. Quanto al bicameralismo, il rapporto Stato-Regioni potra` essere risolto, dando alla Conferenza unificata poteri ancora maggiori, facendone una specie di « surrogato » del Bundesrat al di fuori del Parlamento. Almeno per la prossima legislatura e` molto
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difficile che la situazione possa cambiare. Quindi, si deve partire dal presupposto che ci sara` un bicameralismo perfetto, anche nella quattordicesima legislatura; il che implica delle conseguenze molto gravi sulla legge elettorale: possiamo avere leggi elettorali in cui ci sia uno scorporo integrale dei voti utilizzati per ottenere i seggi al Senato e invece non ci sia analogo scorporo alla Camera, in conseguenza del referendum. Corriamo, cioe`, il rischio di una biforcazione, perche´ il nostro bicameralismo — chiamiamolo piu` paritario che perfetto — si e` fin’ora basato sulla omogeneizzazione delle due maggioranze (salva l’eccezione del 1994 superata con mezzi discutibili, ma corretta in qualche modo per ristabilire l’omogeneita`). La crisi dei Parlamenti tradizionali sembra difficilmente evitabile, perche´ la democrazia immediata si esprime soprattutto nel bisogno di investitura diretta del Primo ministro, o comunque del vertice dell’Esecutivo, e gia` questo riduce il Parlamento rispetto alla concezione di Bagehot, secondo il quale la Camera dei Comuni serviva soprattutto per scegliere il governo. Questa parabola oramai e` scontata. E non credo che il proporzionalismo, o tentativi di proporzionalismo, possano reggere a lungo di fronte alla spinta per l’investitura diretta del vertice dell’Esecutivo. L’investitura diretta del vertice dell’Esecutivo non e` di per se´ un fattore di crisi del Parlamento, se all’investitura diretta si accompagni la scelta della maggioranza parlamentare, non disgiunta da quella (come in Israele), e magari con norme c.d. anti-ribaltone o dalla sfiducia costruttiva. Semmai, il pericolo si annida nell’attuale impostazione di alcune forze politiche, le quali vorrebbero un investitura diretta del Premier con a fianco la proporzionale, prospettiva che — per me — ha un sinistro suono weimariamo. 5. Indubbiamente, la crisi dei Parlamenti non e` una novita`. Pero`, questo fenomeno di crescente difficolta` si sta dilatando: il grado d’intensita` ha naturalmente il suo peso. E i segni incrementali sono tanti.
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Anche la Corte costituzionale, per esempio, attraverso il giudizio sui conflitti di attribuzione, e nella specie nel giudizio sulla insindacabilita` dei parlamentari, interviene in modo anche molto penetrante. Beneficamente — dico io — almeno nella maggior parte dei casi, ma il sintomo e` ugualmente significativo di una situazione di crisi del Parlamento, che non riesce a reagire, con un buon funzionamento delle giunte delle elezioni e delle assemblee, a questi abusi compiuti dai suoi membri. Insomma, vi e` la sensazione di un grande travaglio per conciliare una democrazia rappresentativa agibile con tutti questi fenomeni, che ho richiamato, che ci stanno intorno e che non riusciamo a controllare. Vi e` la sensazione che molti di essi stiano per diventare irreversibili. Ed in cio`, la considerazione dei costituzionalisti puo` fornire — speriamo che fornisca — un contributo, non dico a fugare il pessimismo, perche´ temo che una visione, un giudizio abbastanza pessimistico sia nelle cose, pero` almeno ci aiuti a non perdere la fiducia, che ora il fallimento della Bicamerale, ora altre vicende hanno fatto venir meno nella capacita` di raddrizzare un poco questo nostro « para-sistema », come avrebbe detto Massimo Severo Giannini. 6. Un fenomeno che da noi ha ormai assunto proporzioni patologiche e` la frammentazione del gruppo misto in articolazioni interne, correlate ai vecchi gruppi parlamentari di partito che non raggiungono piu` le venti unita` prescritte dal regolamento e che, quindi, sopravvivono in questo modo sotto l’egida del gruppo misto. In proposito e` interessante notare come ci sia una situazione un po’ contraddittoria, perche´ da una parte si vorrebbero introdurre meccanismi capaci di opporsi ai passaggi dei parlamentari tra i gruppi, dall’altra pero` si valorizzano queste componenti interne del gruppo misto, facendo parlare gli esponenti di queste come gli altri rappresentanti di gruppo. Sarebbe interessante approfondire la possibilita`, suggerita da Nicolo` Zanon, di aprire il conflitto di attribuzioni anche al sin-
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golo parlamentare, concepito come potere dello Stato capace di confliggere con la Camera di appartenenza. E quindi verificare in sede di conflitto di attribuzioni il modo in cui e` stato esercitato il potere regolamentare. In definitiva, rimettere alla Corte — anche se non c’e` nella nostra Costituzione la espressa possibilita` di controlli, come in quella spagnola o in quella francese — la verifica della legittimita` costituzionale dei regolamenti parlamentari. 7. Vanno poi inquadrate nella crisi della rappresentanza anche le crisi dei consigli. Le recenti leggi sul sindaco e sul presidente della Regione hanno creato una situazione alquanto singolare. Il sindaco puo` scegliere gli assessori tra gli estranei al consiglio, ed anche il vice-sindaco puo` essere scelto al di fuori del consiglio comunale. Inoltre, si ha la sensazione che l’esecutivo solo conti davvero, a discapito del consiglio. Sicche´ oggi e` divenuto difficile trovare candidati disposti a competere per la carica di consigliere comunale, provinciale, regionale. Per concludere, tenendo presente questa distinzione di crisi tra i livelli di rappresentanza, c’e` un dato comune di difficolta`: i Consigli e il Parlamento erano Parlamento e Consigli di partiti, o di proiezioni di partiti, come i gruppi parlamentari. Alla crisi dei partiti e dei gruppi corrisponde anche la crisi delle Camere e dei Consigli.
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IL PARADIGMA DELLA RAPPRESENTANZA DI FRONTE ALLA CRISI DEL RAPPRESENTATO
SOMMARIO: 1. La rappresentanza politica nella falsa alternativa con la democrazia diretta. — 2. Rappresentanza politica e rappresentanza giuridica. — 3. Rappresentanza e neutralizzazione. — 4. Crisi della rappresentanza o crisi del rappresentato.
1.
La rappresentanza politica nella falsa alternativa con la democrazia diretta.
E` frequente che la critica alla rappresentanza politica sia articolata attraverso la contrapposizione del diverso paradigma della democrazia diretta. Questa contrapposizione non convince. Cerchero` di argomentarlo anche anticipando qualche riflessione che sviluppo in uno studio sul referendum abrogativo di prossima pubblicazione. Il rendimento democratico della rappresentanza potrebbe essere discusso con questo argomento oppositivo solo a condizione di evocare un paradigma che fosse allo stesso tempo coerente nelle sue linee distintive e fattualmente praticabile. Cosı` pero` non e`, visto che non si comprende bene quale sia quella democrazia diretta che si dovrebbe preferire alla democrazia rappresentativa. I classici del costituzionalismo avevano ben chiara la nozione di democrazia diretta e ne individuavano il tratto distintivo nella compresenza fisica dei cittadini in occasione delle deliberazioni sulla cosa pubblica. A questo proposito, basta riandare a quanto scriveva Benjamin Constant analizzando le differenze tra liberta`
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degli antichi e liberta` dei moderni, o alle riflessioni di Rousseau sulla forma di governo fondata sulla sovranita` popolare. Nella loro, corretta, prospettiva, l’alternativa tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa era addirittura polare. Tanto polare, che quei termini, anzi, si rivelavano inidonei a descriverla. La contrapposizione vera, infatti, correva tra « democrazia » (senza aggettivazioni) e « governo rappresentativo », poiche´ solo dove c’era decisione popolare diretta c’era democrazia, e dove c’era rappresentanza non c’era democrazia. Rileggere il famoso intervento di Sieye`s alla Costituente, il 7 settembre del 1789, puo` essere, in questa chiave, molto istruttivo. Dell’originario nitore delle categorie e delle distinzioni molto, oggi, si e` perduto, e l’imprecisa terminologia corrente che ha sostituito quella classica non fa che registrare puntualmente l’accaduto. Quando si parla di « democrazia rappresentativa » si evoca una contradictio in adiecto, mentre quando si fa riferimento alla « democrazia diretta » si commette una duplice violenza concettuale. La prima si commette perche´ si definiscono come « istituti di democrazia diretta » certi strumenti giuridici che con la democrazia diretta non hanno nulla da spartire, visto che, specie nelle societa` complesse, ogni forma di governo ed ogni tecnica di decisione politica comportano la mediazione (anche in entrata, con l’iniziativa che provoca la decisione popolare, e in uscita, con la sua interpretazione). La seconda e` ancora piu` grave e lo e` tanto da esser paradossale: vengono qualificate come « dirette », o quanto meno come « immediate », certe forme di democrazia (fondate su sistemi elettorali maggioritari e sul principio schumpeteriano della scelta dei governanti) che sono semplici manifestazioni del paradigma della rappresentanza, ma vengono ammantate delle qualita` della democrazia diretta per procurar loro piu` chiara legittimazione e piu` saldo consenso. In realta`, questo non e` il tempo della (vera) democrazia diretta, bensı` il tempo della rappresentanza (della democrazia rappresentativa, dobbiamo rassegnarci a dire). Lo e`, pero`, non a mo’ di ripiego, quasi come una seconda scelta resa necessaria dall’im-
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praticabilita` di alternative piu` soddisfacenti, ma lo e` per la sua specifica qualita`. Questa affermazione deve essere adeguatamente dimostrata, poiche´ la palese crisi della rappresentanza, che tutti lamentano (constatando l’elevato astensionismo elettorale tipico delle democrazie mature; la perdita di fiducia nella classe politica; il malfunzionamento non solo dei meccanismi di responsabilita`, ma anche di quelli di responsivita`; la fuga dalle forme di attivita` politica piu` consone alla rappresentanza per rifugiarsi in inedite e distanti forme di partecipazione, etc.), parrebbe renderla errata e inattuale. 2.
Rappresentanza politica e rappresentanza giuridica.
Dal punto di vista dogmatico, la storia della rappresentanza politica coincide con quella degli sforzi per la sua emancipazione e differenziazione dalla rappresentanza giuridica. Si avvertı` presto, infatti, che il senso in cui affermiamo che il mandatario « rappresenta » il mandante nell’acquisto di un qualsivoglia bene e` assai diverso da quello evocato da previsioni come l’art. 67 della Costituzione, ove si dispone che ciascun parlamentare rappresenta la nazione. Non e` meno vero, pero`, che — come gia` Kelsen aveva perfettamente chiarito — entrambe le forme di rappresentanza hanno in comune l’essere finzioni, e quindi il funzionare come meccanismi in virtu` dei quali qualcuno che e` presente « sta per » qualcun altro che e` assente e per questi agisce e decide. Anche nella rappresentanza politica, per quanto emancipata da quella giuridica, permane dunque — e non puo` non permanere — una reliquia di questa. Si tratta, nondimeno, di finzioni che, nonostante gli ulteriori aspetti comuni (sui quali mi soffermero` in seguito), sono radicalmente diverse. I due tipi di rappresentanza si distinguono, infatti, perche´ la rappresentanza giuridica, mantenendosi tutta nella sfera della privatezza, non consente di trasmettere, da un luogo all’altro, da un soggetto all’altro, identita` culturali, valori, idee, convincimenti morali. Essa e` semplicemente una tecnica di commercio giuridico
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impiegata per facilitare gli scambi, perfettamente adiafora rispetto ai contenuti (anzi: inadeguata a far valere un contenuto purchessia). Tutt’altro che una mera tecnica, invece, e` la rappresentanza politica, ed e` per questo che le e` connaturato il divieto di mandato imperativo, laddove il mandato caratterizza pienamente la rappresentanza giuridica e la stessa rappresentanza degli interessi. Accede, infatti, alla rappresentanza politica una generalita` (rinvenibile anche lessicalmente nel suo riferirsi alle cose della po´lis) che e` sconosciuta alle altre due forme di rappresentanza, le quali sono in grado di afferrare solo il particulare di un certo affare o di un determinato interesse economico-sociale. Sempre per questa ragione e` immanente alla rappresentanza politica un elemento di rappresentazione simbolica, un’aspirazione a « rendere presente » il rappresentato, sia pure attraverso il filtro della fictio, nella globalita` del suo essere pubblico. Mentre la rappresentanza giuridica, insomma, e` una fictio iuris in senso proprio (un mezzo, ripeto, per facilitare gli scambi ed il commercio giuridico tra piu` soggetti di diritto), la rappresentanza politica e` quel che Vaihinger chiamava finzione etica, e cioe` un « ideale », una « costruzione concettuale in se´ contraddittoria e in contraddizione anche con la realta` », che tuttavia possiede un eccezionale valore. Un valore che e` dato dalla capacita` di orientamento di comportamenti umani e di intere visioni del mondo. Qui sta l’essenza della rappresentanza politica, ed e` proprio la negazione di tale capacita` che porta Hegel a preferire la rappresentanza degli interessi, legandosi ad una visione corporativa della societa` che contesta il carattere specificamente politico (generale) del legame sociale. Concordo, invece, con lo Schmitt di Cattolicesimo romano e forma politica, quando ammoniva: « Al ‘‘politico’’ inerisce l’idea, dato che non c’e` politica senza autorita`, ne´ c’e` autorita` senza un ethos della convinzione » e « la rappresentanza conferisce una particolare dignita` alla persona del rappresentante, poiche´ chi rappresenta un alto valore non puo` essere privo di valore ». E`
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per sua stessa essenza allora, che la rappresentanza politica e` carica di valore, in quanto e` di questo che si predica il rappresentato, trasmettendo il proprio pregio anche al rappresentante. Tutto questo, pero`, puo` essere messo in discussione da due fenomeni familiari alla contemporaneita`: la neutralizzazione della politica e la crisi del rappresentato. 3.
Rappresentanza e neutralizzazione.
Negli anni Novanta in Italia, ma gia` molto prima in altre democrazie mature, la riduzione degli spazi a disposizione della politica e` stata compresa da tutti. Le difficolta` di una mediazione politica del conflitto sociale hanno suggerito il ricorso a meccanismi autoregolativi della societa` civile, anche per il tramite di apposite istituzioni pubbliche capaci di essere (piu` che un luogo di decisione autoritativa) la sede di quell’autoregolazione (e` il caso delle autorita` indipendenti). Dell’arretramento della politica, ovviamente, non poteva non risentire il meccanismo della rappresentanza, e infatti il Parlamento ha cominciato a conoscere ostacoli sempre maggiori nel mantenersi come il naturale centro della mediazione tra i soggetti sociali. Nel generale processo di ridefinizione dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata (tra Stato e mercato), le istituzioni rappresentative hanno subı`to le conseguenze piu` rilevanti. Lungi dall’ostacolare il processo di neutralizzazione, il Parlamento lo ha assecondato, anche perche´, oltre a un danno da subire, aveva un vantaggio da incassare. Piu` si neutralizza, infatti, meno si e` responsabili delle mediazioni, e questo, per una rappresentanza sfiancata da imponenti spinte di delegittimazione, non era vantaggio da trascurare. La neutralizzazione, del resto, e` fenomeno risalente nel tempo (ricordare le acute riflessioni di Carl Schmitt e` quasi superfluo), e la sua « istituzionalizzazione » (con le autorita` indipendenti, la valorizzazione delle burocrazie sovranazionali, la creazione di autorita` internazionali « tecniche », etc.) non e` che il punto estremo di un percorso che parte da lontano.
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La spinta verso la neutralizzazione, peraltro, incorpora una seria contraddizione. Per un verso, essa viene naturalmente favorita dai « vincitori », e cioe` dalle forze politico-sociali che dominano un concreto periodo storico. Neutralizzare, infatti, significa disinnescare il conflitto politico e facilitare il mantenimento dello status quo, sicche´ si tratta di una scelta che puo` ragionevolmente essere praticata dalla classe politica espressa da chi ha vinto. Nondimeno, proprio quella classe politica ha anche un interesse esattamente speculare, poiche´ il mantenimento del tono politico del conflitto da` senso e pregio alla sua stessa esistenza. A prescindere dagli interessi soggettivi della classe politica, poi, vi sono quelli oggettivi delle democrazie pluralistiche nel loro complesso, che da un lato esigono la freddezza delle passioni e la neutralizzazione, e dall’altro non possono non pretendere il mantenimento di un pathos politico e di ethos pubblico, se vogliono mantenere basi di consenso piu` salde di quelle garantite dalla weberiana legittimazione « tecnica » (razionale). Questa contraddizione non puo` essere sciolta, poiche´ non si puo` — logicamente e storicamente — far prevalere interamente uno dei due bisogni sull’altro. Si tratta, semmai, di governarla e di amministrarla sapientemente, perche´ — come mi e` accaduto di osservare in altra occasione — le democrazie pluralistiche possono morire sia per entropia e implosione (quando la temperatura del conflitto politico e` troppo bassa), sia per surriscaldamento ed esplosione (quando la temperatura e` troppo elevata). 4.
Crisi della rappresentanza o crisi del rappresentato.
La crisi della rappresentanza, dunque, non puo` essere negata. Tuttavia, la sua radice non sta dove comunemente la si individua, e cioe` nello smarrimento e nella perdita di una presunta eta` dell’oro. Chi parla di crisi della rappresentanza, in genere, assume quale termine di raffronto un modello di Parlamento e di parlamentarismo che e` lontanissimo e — comunque — trova solo minimi riscontri nella storia costituzionale. Certo, il Parlamento non
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sa essere l’unico centro dell’attivita` politica ne´ il monopolista dell’indirizzo politico, ma questo era possibile solo nelle lontane atmosfere dello Stato monoclasse, che non puo` costituire un credibile modello di raffronto per democrazie pluralistiche del tutto imparagonabili. Tali democrazie pluralistiche hanno bisogno proprio di una sede nella quale si possa articolare il confronto tra i soggetti del pluralismo, sicche´ il Parlamento non puo` piu` essere il monopolista della elaborazione delle politiche, ma semmai la sede in cui la discussione sulle politiche si matura, in funzione di legittimazione dell’intera forma di governo e di massimizzazione del consenso dell’una o dell’altra parte politica. La questione della crisi, allora, si deve spostare sul diverso piano dell’analisi della capacita` del Parlamento di assolvere queste funzioni, poiche´ le altre che si vagheggiano sono, ormai, inattuali. Tutta la teoria della rappresentanza, comunque, e` fonte di problemi e di delicati interrogativi. In astratto, di una simile teoria non vi sarebbe stato affatto bisogno, per spiegare il rapporto che si instaura tra elettori ed eletti. Sarebbe stato sufficiente, infatti, ricostruire la fattispecie elettorale come un’ipotesi di preposizione a un ufficio, nella quale si ha un soggetto (il corpo elettorale) che decide l’identita` del titolare di una pubblica funzione (l’eletto). Nulla piu` e nulla meno di quanto accade nei procedimenti di nomina di un pubblico funzionario, che — del resto — non ignorano le ipotesi di meccanismi elettivi di selezione. La ricostruzione dell’elezione in termini di preposizione all’ufficio, tuttavia, incontrava vari ostacoli. In un primo momento, il ricorso all’istituto della rappresentanza si rivelava piu` in armonia con la struttura triadica della forma di governo, nella quale al corpo elettorale e al Parlamento si contrapponeva il sovrano, davanti al quale (cosı` come davanti al terzo nel mandato di diritto privato) il corpo elettorale doveva essere rappresentato. Piu` avanti, fu il principio democratico a richiedere che i cittadini decidessero non solo sulle persone, ma sulle cose, sicche´ la semplice preposizione non pote´ essere sufficiente, in quanto l’as-
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senza di una sfera di competenza funzionale assegnata al preposto (chiamato a compiere tutte le scelte politiche necessarie) determinava la sottrazione ai cittadini di qualunque possibilita` di decisione diretta. In queste condizioni, la rappresentanza serviva a recuperare un senso alla volonta` del rappresentato, qualificando l’eletto non gia` come un semplice funzionario « preposto », ma come un soggetto che « sta per » colui che all’ufficio lo ha destinato. La stessa terminologia (rappresentanza; mandato) suggeriva l’imitazione del modello privatistico, nel quale la volonta` del mandatario non e` nemmeno concepita come autenticamente « sua », ma e` semplicemente espressione della volonta` del mandante, per come definita e delimitata dal negozio di mandato. Come nel diritto privato, insomma, si suggeriva l’idea della rappresentanza come rappresentanza di volonta`. Alla piena trasposizione del modello privatistico nel dominio dei rapporti di diritto pubblico (politico) ostavano, pero`, almeno due difficolta`. La prima era l’indeterminabilita` dell’oggetto del mandato. Trattandosi di mandato « politico », infatti, esso si estendeva a qualunque interesse della comunita`, sicche´ sarebbe stato lo stesso mandante a trovarsi nell’impossibilita` di definire (addirittura a priori) la propria volonta` e di imporla, quindi, al mandatario. La seconda era l’elevato numero dei mandanti, che annullava la possibilita` di valorizzare — e addirittura di ricostruire — le singole volonta` individuali. In queste condizioni, il modello privatistico (« giuridico ») della rappresentanza non poteva reggere, e occorreva elaborarne uno interamente originale (« politico »). Nella prima fase di vita delle istituzioni rappresentative, peraltro, la penalizzazione della volonta` del rappresentato che si determinava con il passaggio dal modello giuridico a quello politico della rappresentanza era temperata dalla sociologica coincidenza (nello Stato monoclasse, ripeto) fra rappresentante e rappresentato: il primo ben poteva essere concepito come il « piu` idoneo » ad assolvere la funzione, piu` che come l’esecutore della volonta`
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del secondo, ma (almeno « alla grossa ») gli interessi di quest’ultimo non avrebbero comunque subı`to un pregiudizio, grazie all’identica appartenenza di classe. Con l’avvento dello Stato pluriclasse le cose si sa, cambiano. Le analisi di questo passaggio (da Leibholz a Laski, etc.) sono note, e non vanno certo ripetute qui. Quel che conta e` rilevare che, nella nuova situazione, una qualche considerazione della volonta` del rappresentato e` assicurata dalla presenza, in Parlamento, dei partiti organizzati, la cui mediazione riempie di contenuto il mandato rappresentativo, altrimenti « vuoto ». Il modello tiene sino a che si verifica, piu` ancora della crisi dei partiti (che, contrariamente a quanto si pensa, viene dopo) la crisi del rappresentato: la perdita delle identita` collettive e (addirittura) individuali; lo smarrimento del senso del legame sociale; la volatilita` dei ruoli sociali, tutto rende problematica la stessa identificazione del soggetto da rappresentare. Il difficile, insomma, e` comprendere « chi » e « cosa » viene rappresentato, una volta che lo si rappresenta, perche´ la stessa identita` del de´mos e` labile. La vera radice della crisi della rappresentanza va cercata piu` coˆte´ rappresentato che coˆte´ rappresentante. Proprio questa crisi, tuttavia, rafforza — paradossalmente — la necessita` della rappresentanza, poiche´, nello sfaldamento del rappresentato, la sede parlamentare diventa il luogo in cui si tenta, in qualche modo, di ridurre ad unita` i dispersi brandelli di un pluralismo troppo disarticolato. Perduta la pretesa di rappresentare nella sua interezza una societa` troppo complessa, la rappresentanza puo` almeno servire a darle una forma politica. Che il sistema delle istituzioni debba dotarsi di un tronco rappresentativo, dunque, e` vero oggi quanto (e piu` di) ieri. La necessita` di innestare, su quel tronco, dei rami « partecipativi » (referendum, iniziativa popolare, etc.) e` indiscutibile, ma non per questo la necessita` storica della rappresentanza e il suo peculiare contenuto di valore vengono meno.
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CRISI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA E PARTECIPAZIONE POPOLARE
Vorrei cominciare il mio intervento con una riflessione sullo Stato liberale che e` stata suscitata dalla relazione di LUCIANI e da alcune considerazioni critiche di BOGNETTI. BOGNETTI ha contestato la qualificazione dello Stato liberale come « Stato monoclasse », secondo la terminologia che e` stata introdotta in Italia da GIANNINI. Ora, e` senz’altro vero che dal punto di vista sociale e politico lo Stato liberale e` tutt’altro che omogeneo e privo di conflitti sia interni alla borghesia sia tra questa e l’aristocrazia da un lato e le nuove classi popolari dall’altro. Ma e` altrettanto indiscutibile che quella forma di Stato, almeno nel periodo del suo apogeo, e` caratterizzata dall’egemonia della borghesia non solo sul terreno economico-sociale, ma anche su quello istituzionale che qui ci interessa. La rappresentanza parlamentare conosce certamente conflitti di varia natura, ma, grazie soprattutto al suffragio ristretto, si basa su una forte identita`, piu` sociale che politica, tra rappresentati e rappresentanti, i quali sono in netta maggioranza espressione di diversi interessi settoriali della borghesia che non pregiudicano l’« interesse generale » della classe egemone. Non bisogna poi dimenticare che nell’Ottocento i partiti politici hanno una natura elitaria ed esercitano prevalentemente una influenza di opinione, per giunta mutevole e soggetta a cambiamenti frequenti, che non incide piu` di tanto sulla forte omogeneita` dell’organo parlamentare. Non a caso all’inizio del secolo
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scorso la forma di governo parlamentare viene teorizzata come necessariamente « dualistica », in quanto il contrappeso alla egemonia borghese sul Parlamento viene ricercato non tanto al suo interno, nel rapporto dialettico tra maggioranza ed opposizione, ma all’esterno, nel forte ruolo riconosciuto ad un Capo dello Stato, che e` una delle due teste del potere esecutivo. Certo, all’inizio dello scorso secolo lo Stato liberale conosce una parziale mutazione, che e` dovuta all’estendersi del suffragio ed al progressivo affermarsi dei partiti di massa, ma e` questa proprio la fase della crisi o, se si preferisce, del declino, dello Stato liberale, alla quale si risponde in due diversi modi: con l’instaurazione di forme di dominio autoritarie o all’opposto con la costruzione di uno Stato democratico, che ha uno dei suoi perni nel pieno riconoscimento della natura pluralistica della rappresentanza. Non e` un caso che la prima ipotesi si realizzi proprio in Italia e in Germania. BOGNETTI insiste sul ruolo distruttivo giocato dai partiti « antisistema » della sinistra, ma, pur senza sottovalutare questo fattore, credo che questo sia piu` un effetto che una causa e che le radici profonde dello sbocco autoritario alla crisi vadano ricercate altrove: nella struttura debole e distorta di uno Stato liberale nato da una rivoluzione « passiva » o dall’alto, fondato su un forte intreccio tra borghesia e aristocrazia parassitaria e su un ruolo importante, quando non determinante (come in Germania nella fase bismarckiana), dello Stato. Cio` fa sı` che questi Stati nel momento della crisi, conseguente, non dimentichiamolo, alla prima guerra mondiale, manifestino una debole capacita` di integrazione delle forze popolari e che alla natura rivoluzionaria e certamente « antisistema » di una parte di queste faccia da pendant la propensione eversiva di una parte della borghesia, disposta a sacrificare i principi liberali in nome della salvaguardia dei propri interessi. Con questa osservazione generale mi ricollego all’impostazione seguita da LUCIANI nella sua relazione con la quale sostanzialmente concordo: nello Stato liberale la rappresentanza politica si fonda su una forte identita` sociale tra rappresentati e rap-
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presentanti, mentre nello Stato democratico-pluralistico essa poggia soprattutto sulla mediazione politica garantita dai partiti di massa. Qui si colloca la domanda posta a noi tutti da ZAGREBELSKY: la ragione profonda della crisi della rappresentanza politica va ricercata prevalentemente sul terreno sociale, vale a dire dal lato del rappresentato, e quindi nella perdita delle identita` non solo collettive, ma anche individuali, determinata dallo sviluppo socio-economico delle democrazie consolidate, oppure sul terreno politico-istituzionale, dal lato del rappresentante, e quindi nella incapacita` dei partiti di rappresentare adeguatamente la societa` e nella conseguente difficolta` delle assemblee parlamentari di selezionare le domande sociali e di adottare decisioni? Personalmente ritengo che la causa determinante sia soprattutto la prima, anche se la crisi dei partiti di massa che ne consegue diventa a sua volta un fattore di moltiplicazione della crisi e assume, in paesi come il nostro, caratteristiche specifiche. Quale risposta si puo`, allora, dare ad una crisi che affonda le sue radici prima di tutto sul terreno sociale? Credo che vada seriamente valutata la prospettiva indicata di recente da MANZELLA che individua la soluzione nel moltiplicarsi dei canali della rappresentanza, unico modo di tenere dietro alla complessita` sociale e di rilanciare la partecipazione dei cittadini. E tuttavia l’investitura delle assemblee elettive non puo` costituire « uno » dei canali, ma rimane il momento fondamentale in un sistema democratico, in virtu` non di un principio, non piu` sostenibile, di « centralita` » rispetto agli altri organi costituzionali, intesa come sovranita` o superiorita` del Parlamento, ma in quanto luogo fondamentale di ricomposizione politica che esprime al suo interno il pluralismo. Occorre poi chiedersi se gli altri strumenti individuati da MANZELLA rientrino a pieno titolo nel concetto di rappresentanza politica o non siano qualcosa d’altro, vale a dire forme di democrazia partecipativa, cosa che non toglie nulla alla loro importanza. La rivalutazione del Parlamento come organo di indirizzo e di controllo richiede nel nostro paese due condizioni fondamentali.
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La prima, e anche su questo concordo con LUCIANI, e` quella del rilancio del ruolo dei partiti, che resta fondamentale in un sistema democratico e senza del quale si determina un vuoto politico che, come alcune esperienze concrete dimostrano, viene ad essere colmato da altri soggetti (dalle lobbies al partito-azienda) sicuramente meno democratici e portatori di interessi settoriali. A questo proposito va sottolineato che la crisi dei partiti nei paesi democratici e` tutt’altro che uniforme. Nessuno puo` negare che essi continuino a giocare un ruolo fondamentale nel Regno Unito, come dimostra il fatto che alle elezioni politiche nei collegi uninominali vi e` una quota significativa di elettori che non conosce la persona del candidato ma vota sulla base della sua appartenenza partitica. Una considerazione analoga vale per la Germania, dove il sistema dei partiti e` riuscito ad assorbire, grazie alla sua vitalita` e in particolare alla reattivita` della CDU, uno scandalo di proporzioni enormi, che ha coinvolto il massimo artefice della politica tedesca per sedici anni, colui che tra l’altro ha realizzato l’unificazione del paese e ha dato un impulso decisivo allo sviluppo dell’Unione Europea. In Italia la crisi e` stata, invece, di tipo distruttivo anche per le particolari caratteristiche del sistema partitico e per la profondita` dei fenomeni degenerativi rappresentati dall’occupazione del potere, dalla lottizzazione e dalla corruzione. Assume, quindi, ancora piu` importanza la questione di « quali partiti » siano in grado di riproporsi come canali di espressione dei cittadini, con quali forme e con quali modalita`. Certo, come ha sottolineato BOGNETTI, non possono essere riproposti i partiti del passato, frutto di una fase storica e di un sistema politico ormai superati. Qui vi e` un vasto campo di ricerca, solo in parte esplorata, sulla necessita` di costruire partiti che sappiano riallacciare il rapporto, in gran parte interrotto, con la societa` attraverso forme nuove di adesione e di militanza, nonche´ di investitura dei gruppi dirigenti e di scelta delle candidature. E nel contesto italiano appare non piu` rinviabile l’approvazione di una legge quadro che stabilisca la normativa di principio atta a garantire la democraticita` interna
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dei partiti e ad agevolare il corretto svolgimento di funzioni di natura pubblicistica. Vorrei, tuttavia, precisare, anche alla luce di recenti competizioni elettorali, che non credo affatto che il partito di massa sia tutto da buttare. Ho la sensazione che il gran parlare che si e` fatto del totale superamento del partito di massa abbia fatto perdere di vista la necessita` che un partito, se vuole competere per la conquista del Governo e farsi portavoce dei movimenti profondi presenti nell’elettorato, deve mantenere un forte radicamento territoriale e sociale e quindi il modello del partito « leggero », di opinione ed elettorale, non si addice al nostro contesto perche´ non risolve il problema del distacco tra partiti e societa`. D’altra parte non e` un caso che un partito come Forza Italia, sulla cui originaria anomalia penso che non possano esservi dubbi, abbia avviato un’opera di costruzione organizzativa e di insediamento territoriale, che gli ha permesso di ottenere risultati sempre piu` soddisfacenti anche alle elezioni amministrative. Insomma il rinnovamento dei partiti deve mirare a rafforzare o a ricreare legami con la societa`, se non vuole correre il rischio di risolversi in pura autodissoluzione e in totale appiattimento sulle istituzioni. La seconda condizione che puo` assecondare il rilancio delle assemblee elettive consiste nell’adozione di una normativa tale da garantire una maggiore sintonia tra elettori ed eletti. Certo, in Italia si e` fatta molta demagogia sui cosiddetti « ribaltoni » e sulla « legittimita` » di governi basati su alleanze costruite in Parlamento. In questa ottica si e` arrivati a sostenere che il Governo metterebbe in causa la propria esistenza in occasione di ogni consultazione popolare, europea, amministrativa o financo referendaria, in base ad una concezione schizofrenica, che da un lato proclama come esigenza primaria quella della « stabilita` » dell’esecutivo, mentre dall’altro immagina un Presidente del Consiglio « con la valigia » pronto a lasciare in ogni momento Palazzo Chigi. Questa concezione non trova nessun riscontro nelle democrazie maggioritarie e bipolari, nelle quali quello che conta e` il risultato delle elezioni politiche e, se il Governo cade eccezional-
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mente nel corso della legislatura, cio` si verifica perche´ cambiano le alleanze parlamentari o viene meno la fiducia del partito di maggioranza nei confronti del Primo ministro. Cio` detto, e` pero` evidente la patologia di una situazione come quella italiana nella quale l’avvicendarsi dei governi nel corso della legislatura e` la regola e circa un quinto dei deputati ha cambiato gruppo parlamentare, il che contribuisce notevolmente ad accentuare lo scollamento tra organo rappresentativo e cittadini e la disaffezione elettorale di questi ultimi. Credo, tuttavia, che la questione non possa essere risolta tanto a livello costituzionale, finche´ sussiste il principio del divieto del mandato imperativo, e aggiungo anzi che quel principio mantiene un nucleo di validita` essenziale nell’esigenza che in un sistema pluralistico la rappresentanza si proponga di perseguire la composizione degli interessi settoriali e di parte in vista del perseguimento del « bene comune » dell’intera collettivita`. Occorre, quindi, porre mano alla normativa subcostituzionale con disposizioni tali da scoraggiare i cambiamenti di maggioranza e di collocazione parlamentare. Penso prima di tutto alla legge elettorale e alla previsione, che mi pare centrale, di un premio di maggioranza in seggi alla coalizione vincente. E` poi fondamentale la legislazione sul finanziamento pubblico dei partiti, che deve essere collegata ad un minimo di consistenza numerica e alla collocazione politica degli eletti al momento delle elezioni, in modo da scoraggiare operazioni trasformistiche e scissionistiche nel corso della legislatura. Infine vanno modificati i regolamenti parlamentari, nel senso sia di riconoscere e sostanziare in apposite norme la presenza delle coalizioni sia di rendere piu` difficile il cambio di gruppo e di superare quel vero e proprio monstrum che e` diventato il gruppo misto. Del resto e` emerso dal dibattito come misure specifiche in tal senso siano state adottate senza destare scandalo in vari altri ordinamenti democratici. In definitiva una rinnovata credibilita` della istituzione parlamentare puo` derivare dall’effetto congiunto di un rilancio del
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ruolo di partiti riformati e di un legame piu` trasparente e responsabile del rapporto tra eletti ed elettori. Occorre chiedersi a questo punto quali possano essere gli altri canali della rappresentanza politica o, se si preferisce, della democrazia partecipativa, come ha fatto LORENZA CARLASSARE nella sua relazione. Puo` essere tale l’elezione diretta del vertice del potere esecutivo, sia esso il Primo ministro o il Presidente della Repubblica? Personalmente ritengo che una certa personalizzazione della politica e della competizione elettorale sia inevitabile e derivi dall’esigenza di individuare con chiarezza la responsabilita` delle decisioni e delle modalita` con cui viene gestito il potere. Aggiungo anche che ho qualche dubbio sulla valutazione proposta dalla CARLASSARE secondo cui l’elezione popolare del vertice dell’esecutivo non rientrerebbe nel circuito della rappresentanza politica, in quanto non sarebbe espressione del pluralismo, come avviene per l’organo parlamentare, ma della sola maggioranza. Qui bisognerebbe distinguere tra Primo ministro eletto, che e` necessariamente portatore di un indirizzo di maggioranza, e Presidente eletto, che e` quasi sempre, nei paesi in cui cio` e` previsto (oltre che nei sistemi parlamentari anche nella grande maggioranza di quelli semipresidenziali), il rappresentante dell’intera Nazione, mentre in Francia, quando e` il capo effettivo del Governo, e nei sistemi presidenziali assume la natura di « Giano bifronte », esercitando ora funzioni di parte ora funzioni di rappresentanza dell’intera Nazione. Inoltre si puo` sostenere che anche nell’elezione del vertice dell’esecutivo il principio pluralistico ha modo di manifestarsi nel corso della campagna elettorale e in occasione del voto popolare e dopo l’elezione il titolare della carica deve tentare di avere un consenso adeguato e non puo` non tener conto affatto dell’opinione di quelli che non lo hanno votato. Ma il problema non e` se il titolare dell’organo monocratico sia o meno espressione del principio della rappresentanza politica, cosa della quale personalmente sono convinto, ma piuttosto che l’elezione diretta della persona posta al vertice dell’esecutivo
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non risolve la crisi della rappresentanza politica, almeno per quel che riguarda il rapporto tra elettori e organo parlamentare, ma puo` agire al massimo sul versante della stabilita` e della individuazione della responsabilita` di governo. Se si pretende di riconoscergli una valenza rappresentativa alternativa o superiore rispetto a quella (in crisi) del Parlamento, vi e` il rischio, che e` particolarmente evidente nel contesto italiano, di semplificare eccessivamente la complessita` e dell’affermarsi di un processo di delega ancora piu` forte che puo` portare ad un’ulteriore dissociazione tra rappresentati e rappresentanti. Accennavo prima all’ampiezza del fenomeno del trasformismo dei singoli parlamentari nell’attuale legislatura: avra` o no un qualche significato il fatto che almeno il 90% dei deputati che hanno cambiato gruppo parlamentare fossero stati eletti nei collegi uninominali e quindi non si sentissero vincolati a nessuna disciplina di partito o di coalizione e ritenessero di poter liberamente interpretare il consenso sulla propria persona manifestato dal corpo elettorale? E quanto all’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale, di recente introdotta dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, siamo proprio sicuri che produrra` solo effetti benefici? Recentemente ho scritto un articolo per la rivista edita dal Consiglio regionale dell’Umbria, che prendeva in esame tutte le riforme gia` varate o in discussione che riguardano le Regioni: ebbene, un funzionario regionale ha ritenuto di poter modificare il titolo che avevo proposto sostituendolo con il seguente: « la Regione del Presidente ». Badate bene: « del Presidente » e non « dei cittadini » o « di tutti » (se si voleva usare una dizione di memoria capitiniana). Questo piccolo e banale episodio la dice lunga su come gli addetti ai lavori intendano la riforma regionalista: l’elemento personale diventa l’aspetto centrale e, se e` cosı`, c’e` da aspettarsi che la rappresentanza politica ne esca non arricchita ma impoverita in quanto eccessivamente semplificata. Se si va, poi, a guardare i contenuti della campagna in corso per l’elezione delle Regioni, si rimane colpiti dalla sua poverta` quanto a indicazioni programmatiche e a capacita` propositiva. L’offerta
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proposta agli elettori si basa o sull’immagine personale del candidato-Presidente, e anche di quella dei singoli componenti delle liste provinciali, dove la personalizzazione deriva dal voto di preferenza, che costituisce ormai una anomalia quasi solo italiana, oppure sulla cosiddetta « scelta di campo », anch’essa personalizzata e ridotta alla preferenza per il leader dell’opposizione o per il Presidente del Consiglio in carica. La mia opinione e` che l’indicazione della persona puo` rafforzare la rappresentanza politica solo quando e` saldamente collegata, e non dissociata, all’elezione dell’organo parlamentare e alla scelta del programma, del partito o della coalizione. In caso contrario il problema viene solo spostato senza essere risolto e anzi puo` essere addirittura aggravato nel senso che il processo decisionale diventa sempre piu` questione di pochi e l’organo parlamentare viene sempre piu` ridotto ad un convitato di pietra. Un altro canale che puo` rafforzare la partecipazione dei cittadini e` rappresentato dal ricorso al referendum. Non intendo qui affrontare la querelle sulla natura del referendum abrogativo come istituto di democrazia diretta o di democrazia partecipativa. Personalmente propendo per la seconda tesi, se non altro perche´ sono tali e tanti i meccanismi di mediazione politica che accompagnano il referendum, dalla fase dell’iniziativa a quella del voto a quella dell’intervento parlamentare successivo all’esito abrogativo, che continuare a presentare il referendum come una decisione politica diretta del corpo elettorale adottata liberamente e al di fuori di ogni condizionamento del sistema politico mi sembra quantomeno ingenuo e non corrispondente alla realta`. Comunque lo si voglia considerare, il referendum puo` validamente contribuire a superare la crisi della rappresentanza politica, ma solo a due condizioni: che esso venga utilizzato come risposta all’esigenza, tipica di una societa` complessa, di fare politica, e di adottare le relative decisioni, per temi specifici e, conseguentemente, che non venga proposto come arma di propaganda di un programma politico generale alternativo a quello espresso dal raccordo Governo-maggioranza parlamentare. Sotto il primo
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punto di vista il problema non e` solo quello della moltiplicazione incontrollata delle richieste referendarie, la cui natura patologica e` gia` stata sottolineata dalla CARLASSARE, ma e` anche quello della qualita` e della disparita` delle domande. Non siamo piu` in presenza di referendum che riguardano grandi temi di impegno civile e che pongono questioni chiare al sentimento popolare, sulle quali e` possibile solo una risposta di tipo binario; le ultime ondate referendarie hanno riguardato oggetti tecnici, di particolare complessita` e notevolmente disparati, talvolta di interesse limitato per la grande maggioranza del corpo elettorale, sui quali e` possibile una pluralita` di risposte. Sotto il secondo profilo, e` ovvio che, quando viene usato per proporre un programma politico generale o per incidere sugli equilibri politico-parlamentari, il referendum diviene strumento concorrenziale rispetto all’organo rappresentativo e contribuisce ad indebolirlo. Con cio` non voglio affatto dire che il referendum non debba esprimere un conflitto nei confronti del Parlamento, perche´ e` del tutto normale che il corpo elettorale possa contestare per questa via singole decisioni adottate dall’organo rappresentativo o dal Governo, ma e` evidente che il referendum cambia natura quando da strumento specifico e su singole issues diventa arma di lotta politica generale e di destabilizzazione della maggioranza. Occorrerebbe riflettere sul fatto che la conseguenza che l’uso distorto del referendum comporta e` l’estendersi della disaffezione popolare dalle elezioni politiche ed amministrative a quelle referendarie, perche´ queste ultime vengono percepite come qualitativamente non diverse dalle altre, come un fastidioso e inutile prolungamento e quindi sono colpite dallo stesso discredito. Anzi il discredito e` ancora piu` forte per la maggiore complessita` dei quesiti e dei problemi che vengono sottoposti al voto popolare. In particolare quelli che non si prestano ad una risposta di tipo binario lasciano una grandissima liberta` di manovra e di apprezzamento prima ai promotori, poi al Parlamento chiamato ad interpretare la volonta` espressa dall’elettorato e ad intervenire in materia, che contribuisce a frustrare le aspettative di una parte
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dell’elettorato. Paradossalmente il referendum si ribella agli apprendisti stregoni che vorrebbero usarlo come strumento alternativo e di contestazione del sistema politico-istituzionale nel suo insieme e viene ad essere esso stesso travolto, in misura addirittura superiore, dalla sfiducia popolare che colpisce quest’ultimo. Cio` non significa pronunciare inappellabilmente la « fine » del referendum, ma solo auspicare che termini l’uso che ne e` stato fatto proprio per garantire una rivitalizzazione dell’istituto che lo renda appetibile agli occhi del corpo elettorale. Del resto in sede scientifica non mancano da tempo proposte di riforma, volte da un lato a ricondurre il referendum abrogativo entro confini piu` consoni all’istituto e dall’altro a proporre nuove ipotesi di referendum o di iniziativa popolare. Possono poi essere individuati altri canali di rappresentanza. Uno di questi, e anzi forse il principale in questa fase storica, e` quello legato al rafforzamento delle autonomie territoriali. Qui la questione della qualita` della rappresentanza politica si pone a un duplice livello: a livello periferico nel rapporto tra collettivita` territoriale e organo che la rappresenta, e nel cuore stesso del Parlamento nazionale, sempre che si creda alla prospettiva della creazione di un Senato rappresentativo delle autonomie, e in particolare delle Regioni, anziche´ continuare ad attribuire l’etichetta di « federale » ad una riforma costituzionale che non contiene questo aspetto essenziale. Manifesto, invece, qualche perplessita` sulla proposta di prevedere o rafforzare una rappresentanza degli interessi sociali e professionali. Qui siamo a mio parere fuori dal terreno della rappresentanza politica e piu` vicini a quello della rappresentanza giuridica. Nel merito la proposta puo` attrarre perche´ intende tener dietro alla complessita` sociale e dargli una espressione rappresentativa. Ma ho qualche dubbio che questa possa funzionare efficacemente, tanto piu` quanto piu` fosse effettivamente rappresentativa di una societa` fortemente segmentata e il funzionamento di organi come il CNEL, anche dopo la sua riforma, rafforza i miei dubbi. Inoltre, anche se si affiancasse all’assemblea
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elettiva una di tipo « neocorporativo », sarebbe comunque la prima a dover selezionare le domande sociali e adottare le grandi decisioni di indirizzo. Forse puo` essere piu` utile immaginare che organi « neocorporativi » siano istituiti a livello periferico, sulla base delle scelte autonome compiute dalla varie Regioni, che tengano conto dello specifico contesto sociale ed economico del proprio territorio. Mi chiedo, infine, se pensare al rilancio delle forme partecipative nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle universita` (soprattutto nel momento in cui viene riconosciuta la loro autonomia), nei servizi (a vantaggio degli utenti) sia solo lo sfogo illusorio di chi come me crede che il sistema democratico possa essere arricchito da una presenza piu` costante dei cittadini nelle loro diverse configurazioni sociali o possa essere oggetto di una ripresa di riflessione e di dibattito, anche alla luce di un bilancio delle esperienze, non certo esaltanti, compiute nel passato. Vorrei chiudere il mio intervento sottolineando che il problema di un rilancio della rappresentanza politica, e cioe` di un aspetto centrale per la qualita` di una democrazia pluralistica, e` un problema serio e complesso per il quale non esiste la bacchetta magica e anzi e` opportuno diffidare delle proposte che immaginano scorciatoie e semplificazioni drastiche.
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IL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO E LA RAPPRESENTANZA NAZIONALE: AUTOPSIA DI DUE CONCETTI E` da spiegare il perche´ ci si possa addirittura riferire all’« autopsia » di due concetti come la rappresentanza nazionale e il divieto di mandato: ebbene, questi due concetti, da molti punti di vista, sembrano aver perso molta della loro vitalita`. Per meglio comprendere cio` che qui si intende, e` necessario fare un passo indietro, e riassumere qual e` il significato che questi due concetti hanno assunto in una rielaborazione storico-teorica ormai secolare. Esiste un significato giuridico di questi due concetti, per lo meno quello che qui si ritiene sia il loro significato giuridico, e su di esso ci si concentrera`. 1. Il primo concetto e` quello della rappresentanza nazionale, previsto nella prima parte dell’articolo 67 Cost.: il parlamentare non deve agire solo come il rappresentante di un determinato collegio o circoscrizione elettorale, cioe` di una parte sola del territorio; naturalmente non gli e` vietato tenere nel debito conto le esigenze e gli interessi dei suoi elettori, ma il senso del principio e` che egli dovra` agire, in primo luogo, in vista del soddisfacimento di quelli che egli stesso ritiene essere gli interessi generali, i quali dovranno, o dovrebbero, in caso di contrasto, prevalere su quelli localistici e particolari. In questo caso, la Costituzione, in modo particolarmente esigente, pone al parlamentare una richiesta di fornire prestazioni di
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unita` politica, tanto piu` importanti in situazioni di accentuato pluralismo e di accentuata frammentazione. Naturalmente questo comporta la difficolta` di immaginare sanzioni per un’attivita` che, eventualmente, non sia ispirata alla cura degli interessi generali, difficolta` che deriva non solo dal problema — per altro non di poco momento — di identificare se esistano, e quali siano gli interessi generali, ma prima ancora, logicamente, di identificare chi decide quali siano questi interessi. Pur con queste difficolta`, il tenore esigente della disposizione costituzionale, e la prestazione che essa richiede al parlamentare, fa pensare che l’attivita` messa in opera dal parlamentare stesso, di per se´, non sia affatto assistita da una presunzione di legittimita`, nemmeno se svolta nelle forme tipiche, ma che al contrario sia un’attivita` da ritenere conforme a Costituzione solo in quanto attivita` di rappresentanza generale: « rappresenta la Nazione », da questo punto di vista, significa « deve rappresentare la Nazione ». La norma costituzionale ha qui veramente un significato deontologico, costrittivo, e non e` soltanto una norma ricognitiva di una situazione in cui il parlamentare si trova per il solo fatto di essere stato eletto; cio` significa, in termini piu` semplici, che l’esercizio del mandato in forma libera da condizionamenti particolari dovrebbe essere un dovere valutabile giuridicamente. Naturalmente, questo non dovrebbe significare che se nell’esercizio del mandato il parlamentare si faccia carico anche di interessi particolari, incrementando il proprio collegamento fiduciario con frazioni del corpo elettorale, con lobbies, con gruppi di pressione, si avrebbe per cio` solo una violazione del principio della rappresentanza nazionale, con esposizione del parlamentare a conseguenze negative, magari anche di carattere penale. Cio` rivelerebbe un approccio non solo rigido e del tutto irrealistico alla questione, ma sarebbe probabilmente anche il frutto di una prospettiva giuridicamente contestabile. E tuttavia, la presenza di un dovere valutabile giuridicamente nella prima parte dell’art. 67 Cost. potrebbe forse significare che sono riconducibili sotto « l’ombrello » costituzionale tutte quelle norme, fors’anche del diritto elettorale, che
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fanno gravare un pregiudizio negativo su ogni presa di contatto individuale tra candidato o eletto, da una parte, ed elettore, dall’altra: si pensi alle norme che sanzionano tuttora le elargizioni pre-elettorali, o il cosiddetto voto di scambio. Sono norme naturalmente nate in altri contesti storico-sociali e forse inadatte a descrivere e a disciplinare le situazioni attuali, ma hanno un’importanza significativa. Sicche´, se l’elezione risulta o appare viziata da forme di malcostume, di condizionamento, o addirittura di corruzione, si puo` immaginare che ben difficilmente la funzione sara` svolta alla luce del principio della rappresentanza di interessi generali. E` ben vero che quelle ora citate sono norme che attengono al diritto elettorale e non allo status del parlamentare vero e proprio, e che da questo punto di vista si potrebbe anche contestarne la riconducibilita` a una norma costituzionale che invece riguarda lo status di colui che e` gia` stato eletto: ma non sembra una forzatura eccessiva riportarle sotto « l’ombrello » dell’articolo 67, prima parte, Cost. Si puo` pensare, inoltre, alle cause di ineleggibilita` e alle garanzie di obiettivita` e di disinteresse nell’esercizio del mandato le quali — se poste al servizio di esigenze che, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, devono essere rispettate non solo al momento dell’elezione ma altresı` durante tutto il periodo di durata della carica elettiva — non riguardano solo il diritto elettorale ma direttamente incidono sulla costruzione dello status di parlamentare. Per non parlare naturalmente del mercimonio di atti parlamentari in cambio di denaro, ipotesi nella quale, come e` ben noto, l’atto parlamentare tipico coperto da immunita` dovrebbe essere considerabile separatamente dalla ricezione, per se´ o per un terzo, di denaro o altra utilita`, cio` che integra il reato di corruzione. Se questo e`, o era, il significato del principio della rappresentanza nazionale di cui all’articolo 67, prima parte, Cost., sembra che questo principio non possa essere invocato, come talvolta si e` fatto e si fa, per ritenere « coperta » da una sorta di presunzione
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di legittimita` tutta quanta l’attivita` del parlamentare; al contrario mostra quanto severa ed esigente sia la Costituzione nei confronti dell’eletto. Perche´, allora, al cospetto di questo significato giuridico del concetto di rappresentanza della Nazione, ragionare di un’« autopsia » di tale concetto? Naturalmente, non c’e` una sola ragione ma diversi motivi contribuiscono ad indebolire questo principio. Il concetto nasce e prospera all’interno di un contesto di significato, o di senso, nel quale esistevano anche altri elementi che oggi sono scomparsi oppure risultano fortemente inariditi; si tratta cioe` di elementi che completavano, attribuendogli una dimensione complessiva, il concetto giuridico della rappresentanza politica della Nazione in senso tradizionale. Alcune di queste assenze, o di queste scomparse, sono ben note e sono state ampiamente evocate: i partiti come portatori di una visione di parte dell’interesse generale, nel senso di Mortati, e quindi come strutture nelle quali si era, in qualche modo, costretti a ragionare in generale, non esistono davvero piu`. Non e` piu` soltanto opportuno trattare di una « crisi » dei partiti: di crisi dei partiti si parla da trent’anni, ma la crisi e` uno stato temporaneo di passaggio, e a un certo punto deve sfociare in qualche cosa d’altro. Oggi, semplicemente, non esistono piu` partiti politici strutturati, coesi e disciplinati, sostenitori di visioni e di programmi politici; sono scomparsi insieme alle loro proiezioni parlamentari, per lasciare spazio ad entita`, diciamo cosı`, molto piu` leggere, anche se naturalmente potrebbe essere difficile dare una definizione di queste entita`. Qualcuno pensa che il sistema elettorale maggioritario a collegio uninominale risulti il meno compatibile sia con quel tipo di modello di partito che ormai e` peraltro scomparso, sia con il concetto di rappresentanza nazionale, di cui si e` parlato all’inizio. Anzi, il legame del parlamentare con il Collegio e il territorio sembrerebbe nutrire la filosofia che ispira un sistema elettorale di questo genere, forse in contrasto, come qualcuno ha sostenuto,
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proprio con il presupposto della rappresentanza nazionale. Naturalmente questa e` una posizione molto radicale, perche´ in realta` il passaggio tendenziale ad un sistema maggioritario a Collegi uninominali, non e` ragionevolmente il motivo principale della fine, o della crisi del concetto di rappresentanza nazionale; non si puo` in effetti dimenticare, gia` dal punto di vista storico, che l’idea di svincolare il deputato dal suo Collegio, dai suoi elettori, nasce in Inghilterra e convive con il sistema elettorale all’inglese: l’idea di non vincolare il parlamentare al suo Collegio e` gia` ben presente a Burke che ne tratta nel famoso « Discorso agli elettori di Bristol » del 1774. Ma, a parte le considerazioni storiche, in termini giuridici si potrebbe tranquillamente osservare che il dovere (se e` tale) del parlamentare di emanciparsi da legami particolari, non viene affatto meno in presenza di un sistema uninominale maggioritario, perche´ l’articolo 67 Cost. configura, da questo punto di vista, un dovere giuridico che prescinde dal sistema elettorale che si adotta e che contribuisce alla preposizione del parlamentare alla carica. Inoltre, in termini di scienza politica o di esame del comportamento concreto dei parlamentari, bisognerebbe pur sempre distinguere tra decisioni che attengono a questioni di carattere generale nelle quali l’interesse del Collegio e` semplicemente inesistente, e questioni nelle quali effettivamente gli interessi del Collegio sono coinvolti, ma addirittura possono essere in contrasto con i pretesi interessi generali. Bisognerebbe, ma non e` facile, poter fare analiticamente queste distinzioni tra casi e casi. Quindi, non e` tanto, e solo, il sistema elettorale a mettere in crisi il principio della rappresentanza nazionale. Forse, questo concetto tradizionale entra in crisi non solo e non tanto a causa di un certo tipo di sistema elettorale, ma a causa di una certa tendenza al localismo, che pare molto accentuata nel panorama della nostra classe politico-parlamentare. Sembra che a causa di una serie di ritardi culturali, e forse anche per una mancanza di esperienza — all’interno della quale anche chi scrive si colloca interamente — il localismo sia da noi il modo in cui, concretamente, viene de-
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clinato il federalismo. Inevitabilmente, il localismo applicato alle istituzioni rappresentative non puo` che accentuare la perdita di significato del concetto di rappresentanza generale. Anche nelle ricostruzioni piu` consapevoli, sembra che la rappresentanza della Nazione, una ed indivisibile, rischi di diventare, al piu`, un obiettivo polemico, e quindi di essere considerata una forza di resistenza costituzionale all’innovazione, percio` da scalzare nei modi opportuni. C’e` in verita` da riconoscere che la rappresentanza del territorio e` il concetto di rappresentanza piu` vicino alla logica del federalismo, ma, con i concetti che il nostro diritto costituzionale e pubblico ereditano dalla Rivoluzione francese quel concetto di rappresentanza, del territorio ha poco a che vedere. D’altra parte, se il federalismo e` il nostro destino, bisogna anche essere consapevoli delle sue implicazioni culturali, perche´ non tutto e` conciliabile con tutto. Ancora, l’idea della rappresentanza della Nazione si accompagna ad un’epoca nella quale le decisioni politicamente determinanti appartenevano alle istituzioni nazionali, cui erano rimesse in gran parte, o totalmente, le scelte di fondo e l’individuazione di un destino politico per tutti i rappresentati. I Parlamenti nazionali, quindi, erano luoghi istituzionali centrali, da questo punto di vista: ma la progressiva erosione delle sovranita` nazionali, alla quale abbiamo assistito, e` anche progressiva erosione delle capacita` decisionali dei Parlamenti nazionali. E poiche´ rappresentanza della Nazione e` anche capacita` di decidere per la Nazione, se la seconda manca, o si attenua, la prima perde gran parte del suo senso. D’altra parte, qui verrebbe fatto di chiedersi allora, di converso, qual e` la situazione giuridica dei parlamentari europei: si potrebbe ripetere banalmente, in un’ipotetica Costituzione europea, che essi « non rappresentano il proprio Paese ma l’intera Europa », per applicare meccanicamente lo stesso concetto? Sembrerebbe di no, giacche´ lo stesso trattato UE ragiona, all’attuale articolo 189, di « rappresentanti dei Popoli degli Stati riuniti nella Comunita` », e quindi sembra introdurre anche qui un inevitabile
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vincolo territoriale nella logica rappresentativa. Forse, l’accentuazione delle competenze del Parlamento europeo comportera` che presto o tardi anche il nodo del tipo di rappresentanza in sede comunitaria verra` affrontato: ed e` opportuno che su questo aspetto i costituzionalisti riflettano a fondo, portando un poco di sensibilita` costituzionale nel diritto comunitario. C’e` infine un motivo culturale, forse di carattere piu` generale: un tempo, la rappresentanza poteva essere rappresentanza generale semplicemente perche´ esisteva, o si pensava esistesse, un orizzonte generale di senso comune, dove comuni principi valevano, o si pensava valessero, per tutti. Ma si devono considerare oggi le fratture che si stanno introducendo nel corpo sociale, per esempio a seguito dell’immigrazione, con i conseguenti problemi posti da una societa` che tende a essere multietnica, multireligiosa e culturalmente disomogenea, ove esistono e pretendono riconoscimento culture che pero` sono poco disponibili all’integrazione. Questa e` l’altra faccia del ragionamento che ha svolto, nel suo intervento, Lorenza Carlassare: e` certo giusto che anche questi « pezzi » di societa` che si aggiungono chiedano e abbiano rappresentanza, ma si dev’essere consapevoli che il loro modo di essere rappresentati sara` poco disponibile ad essere riassorbito in sintesi unitarie, cio` che invece e` richiesto in modo molto forte dalla logica della rappresentanza nazionale. 2. Anche il divieto di mandato imperativo e` da considerarsi concetto meno vitale di quanto non si creda abitualmente. Anche in tal caso e` necessario pero` partire dall’analisi di quello che sembra essere il significato giuridico del divieto di mandato. La seconda parte dell’articolo 67 Cost. sembra suscettibile di produrre conseguenze giuridiche distinte, a seconda della natura, privata o pubblica, della disciplina che si propone di influire sulla conformazione del rapporto politico-rappresentativo tra elettori o partiti da una parte, ed eletti dall’altra. Sembra cioe` necessario distinguere gli effetti dell’articolo 67, seconda parte, Cost., a se-
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conda che esso si applichi a mandati o istruzioni di natura in senso lato privata da una parte, ovvero a normative di carattere generale, cioe` a una regolamentazione di tipo pubblicistico della materia, dall’altra. Applicato a istruzioni « private », l’articolo 67 Cost. comporta l’effetto che gli accordi appunto privati, intercorsi fra elettori o partiti ed eletti (e quindi i mandati in ipotesi conferiti, le istruzioni date dagli eletti agli elettori, o associati che siano, dai partiti o dai gruppi parlamentari di appartenenza) non conoscano garanzia giuridica e azionabilita` e non implichino ne´ diritti da far valere in capo ai mandanti ne´ obblighi in capo ai parlamentari, cosiddetti mandatari. I singoli, le associazioni di elettori, i partiti, i gruppi, pur potendo dare in fatto una caratterizzazione particolare al rapporto rappresentativo, quindi cercando di vincolare il rappresentante a volonta` o a direttive, non potrebbero pero` pretendere che tale caratterizzazione sia assistita da garanzie giuridiche. Esiste cioe` quello che si potrebbe definire un potere privato di conformazione del rapporto di rappresentanza politica, ma tale potere e` privo di garanzie ed azionabilita` in sede giudiziaria: per esempio, si ammette che in via di fatto si possano stipulare patti ed accordi, impartire istruzioni, far valere vincoli di fedelta`, ma si dovra` riconoscere che patti, accordi, istruzioni e vincoli di questo genere non sono assistiti da alcuna garanzia giuridica. Si diceva un tempo: « come se si trattasse di obbligazioni naturali, la loro osservanza e` rimessa alla coscienza del singolo parlamentare », il quale — come ha detto la Corte Costituzionale in una sentenza ormai risalente — e` libero di votare, se vuole, secondo gli indirizzi del suo partito (ovvero: e` libero di osservare gli accordi o i patti con i suoi elettori, e` libero di ubbidire alle loro istruzioni, ecc.) ma e` anche libero di sottrarsene senza dover subire per questo conseguenze giuridiche negative di alcun genere. Se si applica invece a qualsiasi modalita` pubblicistica di disciplina, quali leggi o anche norme di regolamento parlamentare, il divieto di mandato, scritto nella seconda parte dell’articolo 67,
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dovrebbe comportare, per comune consenso, l’esclusione della validita` di qualunque norma che appunto intenda dar forma vincolata — di qualunque tipo sia questo vincolo — al rapporto rappresentativo. Cosı`, ad esempio, si dice abitualmente che una legge che preveda la possibilita` di revocare i parlamentari in carica sarebbe incostituzionale; allo stesso modo, per fare un esempio di attualita`, una legge o anche una norma di regolamento parlamentare che preveda la decadenza dal mandato per il parlamentare transfuga, che abbandona il gruppo espressione del partito cui deve l’elezione per aderire ad un diverso gruppo, sarebbe allo stesso modo in contrasto con l’articolo 67, seconda parte. In questa ipotesi, ovviamente, non esiste la possibilita` di distinguere tra aspetti di fatto e aspetti giuridici, perche´ si dovrebbe avere soltanto riguardo al contenuto della regolamentazione contenuta nella norma, per verificarne la conformita` al disposto dell’articolo 67, seconda parte. Allora, se questo e` il significato giuridico di cio` che comunemente si designa con l’espressione « divieto » di mandato, il risultato e` che si ha una forte distinzione, quanto a considerazione giuridica e a trattamento, tra accordi e direttive di natura privata, degli elettori o del partito da un lato, e modalita` di regolazione pubblicistica attraverso fonti del diritto, che in via generale prevedano vincoli alla liberta` dell’attivita` rappresentativa, dall’altra. Infatti, mentre accordi e direttive private circa l’esercizio del mandato si vedono riconosciuta quanto meno una praticabilita` in via di fatto, discipline legislative o di regolamento parlamentare, tendenti a vincolare il rappresentante, dovrebbero immediatamente considerarsi viziate da illegittimita` costituzionale, salvo il problema di come far eventualmente valere il vizio per i regolamenti parlamentari. Si potrebbe pero` non acquietarsi di questa soluzione e provare a rovesciare la prospettiva, in vista ad esempio della soluzione del problema pratico che oggi pare ad alcuni preminente, cioe` trovare un limite di carattere giuridico agli eccessi del trasformismo parlamentare.
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E quindi, perche´ non provare a sostenere la piena conformita` a Costituzione di una legge ordinaria, o di una norma di regolamento parlamentare, che imponga vincoli alla sfrenata liberta` di manovra del parlamentare singolo, in particolare prevedendo (nell’ipotesi piu` radicale, che puo` trovare temperamenti o condizionamenti) la decadenza dal mandato per il parlamentare che abbandona, in corso di legislatura, il partito nelle cui fila e` stato eletto per aderire ad altro partito o gruppo (magari in una situazione politicamente difficile, e in presenza di maggioranze risicate)? A sostegno della tesi si dovrebbe dire che l’articolo 67, seconda parte, si limita a sottrarre la configurazione del rapporto rappresentativo alla sola disponibilita` dei privati, ma non impedisce affatto la sua sottoponibilita` a modalita` pubblicistiche di disciplina. Se si vuole trovare un aggancio positivistico a questa soluzione, si potrebbe dire che una legge, o una norma di regolamento parlamentare, non potrebbe considerarsi equivalente a un mandato di cui invece testualmente parla l’articolo 67. Con un veloce riferimento, questa idea e` stata accennata da Vezio Crisafulli in una nota del suo scritto « Aspetti problematici del regime parlamentare vigente oggi in Italia »; ma ha trovato, per esempio, uno sviluppo anche in alcuni dibattiti tedeschi degli anni ’70. La tesi in parola muoverebbe dall’idea per cui, se la decisione circa la conformazione del rapporto rappresentativo non puo` essere lasciata all’arbitrio dei privati, nessun dubbio di costituzionalita` potrebbe invece sussistere se la stessa decisione venga assunta, in via preventiva e generale, dal legislatore o da una Camera nel suo regolamento. Anche se la legge, o la norma di regolamento, introducesse un limite oggettivo alla liberta` di movimento politico del parlamentare, la presenza e l’intervento della norma legislativa o di regolamento parlamentare salvaguarderebbe l’idea per cui il rapporto rappresentativo e` un rapporto di tipo politico-pubblico e quindi da disciplinare con norme di carattere generale, anche per l’esigenza di rispettare il principio di eguaglianza.
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E` possibile anticipare alcune delle critiche che si possono muovere a questa ricostruzione: la configurazione del rapporto rappresentativo fra elettori ed eletti, proprio in quanto rapporto politico, dovrebbe essere lasciato alla libera disponibilita` delle parti, come conseguenza della garanzia che va assicurata al libero svolgimento del pluralismo politico e sociale, il quale verrebbe eccessivamente irrigidito da interventi normativi di carattere pubblico. Si puo` tuttavia ribattere osservando come la totale abdicazione da parte di fonti pubblicistiche in questo settore, e quindi la totale privatizzazione del rapporto di rappresentanza politica, il suo abbandono al « costume », o al « malcostume » della classe politica, non sia affatto richiesto dall’articolo 67 della Costituzione. In tutti i manuali di diritto costituzionale, nella parte dedicata al cosiddetto divieto di mandato, si dice che in fin dei conti « divieto di mandato » non significa e non puo` significare « liberta` di frodare i propri elettori e il proprio partito ». Certo, pensando alle proposte che attualmente sono sul terreno (il cd. « decalogo » dell’onorevole Violante, o la proposta di negare il finanziamento a quei gruppi parlamentari che accolgano nelle proprie file transfughi) si pone il problema di assicurare che, se adottate con norma di regolamento parlamentare, queste o consimili discipline siano presenti in entrambi i rami del Parlamento, perche´ altrimenti si avrebbe una violazione dell’eguale status che la nostra Costituzione assicura a deputati e senatori. Ora, anche a ritenere l’ammissibilita` di un intervento di una fonte pubblicistica in questa materia, e ad entrare nel merito delle diverse soluzioni, restano sullo sfondo problemi assai seri e di difficile o impossibile soluzione. Ad esempio, nel caso del cd. tradimento compiuto da parte del parlamentare transfuga: chi tradisce chi? In certe circostanze e` dubbio se sia stato il parlamentare, eletto in un gruppo, a « tradire » la piattaforma politica — se ancora esiste — sulla cui base e` stato eletto, o se invece il « tradimento » — chiamiamolo cosı` per semplicita` — sia effettuato dallo stesso gruppo parlamentare, nel qual caso il dissenso o la
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ribellione del singolo sarebbe, al contrario, testimonianza di fedelta` nei confronti delle « promesse » fatte al corpo elettorale. Non e` sempre facile effettuare una valutazione rigida e giuridica su questo genere di problemi. D’altra parte, potrebbero esserci situazioni di equilibri parlamentari all’interno delle quali le maggioranze e i rapporti di forza risultino estremamente risicati, per cui il passaggio anche di pochi parlamentari da un gruppo all’altro potrebbe addirittura mettere in discussione l’esistenza della maggioranza politica uscita dalle elezioni. In Germania, negli anni ’70, in un dibattito sull’opportunita` di inserire nella legge elettorale una norma che prevedesse la decadenza dal mandato per il parlamentare transfuga, il problema si pose concretamente; qualche giurista reagı` in modo radicale, configurando addirittura la possibilita` che in simili ipotesi si dovesse arrivare allo scioglimento anticipato del Bundestag, perche´ in simili ipotesi, si sosteneva, era addirittura violato il risultato delle elezioni, e messo in causa il principio della sovranita` popolare (talvolta, in termini giornalistici e largamente approssimativi, questo tema e` stato agitato anche nelle polemiche politiche italiane). Si potrebbe poi pensare a valorizzare giuridicamente le distinzione fra parlamentari eletti nei Collegi uninominali e parlamentari eletti con il sistema proporzionale: non tanto perche´, di fatto, questi ultimi dovrebbe avere un legame piu` forte con il loro partito, ma attribuendo un reale rilievo giuridico al diverso sistema di preposizione alla carica e, per esempio, valutare o sanzionare piu` gravemente il transfughismo del parlamentare eletto in liste di partito e meno gravemente il transfughismo del parlamentare eletto nell’uninominale. Ma anche questa soluzione urterebbe nuovamente contro l’imprescindibile uguaglianza di status di tutti i parlamentari, sia pure eletti con sistemi elettorali differenti, richiesta dall’art. 67 Cost.
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LA RAPPRESENTANZA DI INTERESSI TRA VERTRETUNG E REPRA¨SENTATION
SOMMARIO: 1. Premessa metodologica: la relazione tra teorie della rappresentanza e dimensione delle liberta` associative. — 2. Il costituzionalismo liberale: la borghesia conquista l’egemonia e riscrive i caratteri dell’obbligazione politica. — 3. L’egemonia borghese impone la concezione della rappresentanza come figura dell’unita`; rappresentanza e sovranita`. — 4. La rappresentanza come figura` dell’unita`; l’ostilita` nei confronti delle formazioni sociali; interessi rappresentabili ed interessi non rappresentabili. — 5. La concezione borghese della rappresentanza postula l’idea dell’interesse generale; « l’invenzione » dell’interesse generale. — 6. Interesse generale come figura dell’unita` statuale; interessi parziali come figura del pluralismo sociale; la dottrina si interroga sulla capacita` della teoria della rappresentanza liberal-borghese a spiegare i primi fenomeni pluralistici. — 7. L’impatto del pluralismo sulla rappresentanza di stampo liberal-borghese; l’omogeneita` sociale come risposta alla crisi della statualita` generata dall’autoorganizzazione degli interessi. — 8. L’impatto del pluralismo sulla rappresentanza di stampo liberalborghese; il tentativo leibholziano di rispondere alla crisi della statualita` generata dall’autoorganizzazione degli interessi. — 9. Critica della concezione « classica » della rappresentanza politica; rappresentanza parlamentare e rappresentanza di interessi superindividuali organizzati come forme di rappresentanza politica.
1.
Premessa metodologica: la relazione tra teorie della rappresentanza e dimensione delle liberta` associative.
Chi si accosta al complesso tema del rapporto tra rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi nell’ambizioso tentativo di « (...) arrivare ad una concezione piu` completa e sistematica del processo politico nel suo insieme (...) » (1) avverte imme(1) G. A. ALMOND, A Comparative Study of Interest Groups and the Political Process, in American Political Science Review, n. 52, 1958, 271.
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diatamente che sotto le eleganti vesti del dibattito teorico si celano questioni connesse all’assetto costituzionale dell’organizzazione del potere politico, al gubernaculum di una determinata comunita` presa in considerazione. Qualunque sia, comunque, la prospettiva scientifica assunta e la metodologia analitica utilizzata, la complessita` e la densita` del quadro risultano evidenti. E cio` per ragioni molteplici. Innanzi tutto per il rapporto, ontologicamente problematico, tra interesse generale e interessi parziali, e quindi per la difficolta` di costruire modelli efficienti di comprensione delle relazioni reciproche che, in ogni ordinamento giuridico, si instaurano tra gli interessi parziali. Il numero e la varieta` degli interessi presenti nella societa` sono infatti, in via di principio, illimitati. Di certo non puo` affermarsi una graduazione gerarchica, o comunque una relazione di supremazia/dipendenza tra interessi che sia applicabile indistintamente a tutte le epoche o a tutti i sistemi presi in considerazione. Un filo conduttore puo` forse essere colto in una sorta di pretesa egemonica che lo Stato nazionale presenta probabilmente nel suo patrimonio genetico, una pretesa che raggiunge il suo culmine teorico probabilmente nella teoria roussoiana della statualita` (2), ma che in verita` solo di rado si e` tradotta in una formula politica pienamente coerente con la premessa fideistica dell’annichilimento degli interessi parziali ad opera (ed in funzione) dell’interesse generale. Eppure, perfino nelle societa` politicamente e forzatamente omogenee, persino nei sistemi a rappresentanza politica chiusa, la « vocazione alla parzialita` » della rappresentanza riemerge e si afferma come presupposto e condizione dell’appartenenza alla comunita` generale. E le spiegazioni che tendono a qualificare il fenomeno come sostanzialmente distorsivo rispetto alla « purezza » del sistema parlamentare e della concezione dominante della rappre(2) Per questa interpretazione dell’opera di Rousseau, vedi E. FRAENKEL, Il pluralismo come elemento strutturale dello Stato liberal-democratico, in V. ATRIPALDI (a cura di), Il pluralismo come innovazione. Stato, societa` e Costituzione in Ernst Fraenkel, Giappichelli, Torino, 1996, 23.
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sentanza politica, oltre ad apparire viziate da eccessiva astrattezza, appaiono insufficienti. La prospettiva metodologica qui seguita si basa sulla valutazione, nelle democrazie contemporanee, dell’impatto inevitabile dell’assetto costituzionale del pluralismo sugli elementi caratterizzanti i modelli rappresentativi, e, piu` specificamente, della relazione esistente tra le virtualita` proprie della configurazione delle liberta` associative e il modo di intendere e praticare le forme della rappresentanza politica. La riflessione sulle formazioni sociali tra premesse individualistiche e rilievo giuspubblicistico dell’autorganizzazione dei gruppi (3), e conseguentemente tra il polo della garanzia e quello della integrazione-partecipazione, la considerazione delle virtualita` insite nella configurazione costituzionale delle associazioni e negli sviluppi della legislazione ordinaria, con particolare riguardo alla cura di interessi pubblici (4), conducono a considerare la relazione tra teorie della rappresentanza ed estensione dell’area del diritto di associazione (5), rilevando un’insufficienza di tali teorie alla piena comprensione dei processi di formazione delle deci-
(3) Tra i fenomeni piu` interessanti quello degli enti pubblici associativi, cioe` della costituzione in enti pubblici di comunita` di cittadini organizzati attorno ad un determinato interesse superindividuale (sul tema vedi soprattutto G. ROSSI, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto tra gruppi sociali e pubblico potere, E. Jovene ed., Napoli, 1979). (4) « (...) l’istituzionalizzazione di un interesse — cioe` la sua qualificazione di interesse pubblico operata dalla legge — non esclude che esso possa continuare ad essere perseguito da formazioni sociali spontanee (...) » (A. PUBUSA, L’attivita` amministrativa in trasformazione. Studi sulla Legge 241/90, Giappichelli, Torino, 1993, 104-105). A proposito del fatto che, anche argomentando ex art. 18 Cost., nulla vieti alle formazioni sociali private di perseguire funzioni pubbliche e proteggere interessi pubblici, vedasi G. PERONE, Partecipazione del sindacato alle funzioni pubbliche, Cedam, Padova, 1972, e S. PANUNZIO, Sulla partecipazione del sindacato alle funzioni pubbliche, in Diritto e societa`, 1974, 55 e ssg. (5) La difesa del principio rappresentativo condiziona nell’eta` liberale l’estensione del diritto di associazione, e l’atteggiamento dei pubblici poteri nei confronti di quelle associazioni considerate in grado di influire sui meccanismi della rappresentanza politica (cfr. P. RIDOLA, Democrazia pluralistica e liberta` associative, Giuffre`, Milano, 1987, 146).
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sioni pubbliche e la loro strumentalita` ad un preciso disegno politico-culturale di egemonia. Ad avviso di chi scrive, infatti, non sempre gli osservatori specializzati hanno rilevato il collegamento tra « (...) la diffusa e ormai quasi convenzionale registrazione dello sfaldarsi progressivo dell’immagine monolitica di uno Stato quale unico ed esclusivo titolare della legittimazione a governare e amministrare (...) » (6) e la ricostruzione teorica, a seguito dell’analisi delle forme storicamente inveratesi, del modello astratto di rappresentanza politica, o, meglio dei modelli di rappresentanza politica che le democrazie pluralistiche contemporanee realizzano. L’ipotesi teorica fondamentale, attraverso il riconoscimento di un’immanente « vocazione alla parzialita` » della rappresentanza, si basera` sull’idea di un avvicinamento della rappresentanza di interessi al concetto di rappresentanza politica, vista come categoria generale comprensiva di sviluppi e di percorsi che, negli Stati sociali democratici, non si esauriscono nel circuito esclusivo della rappresentanza parlamentare, ma « (...) testimoniano che, mai completamente e definitivamente ingabbiata entro i confini dello Stato, la politica continua a svolgersi secondo forme non statali (...) » (7), e finiscono per aumentare il novero dei soggetti che « (...) agiscono politicamente, vale a dire che collaborano direttamente e indirettamente alla formazione delle decisioni collettive » (8).
(6) L. ORNAGHI, Atrofia di un’idea. Brevi note sull’« inattualita` » odierna della rappresentanza politica, in Riv. dir. cost., 1998, 3 e ssg., 7. (7) L. ORNAGHI (a cura di), Il concetto di « interesse », Giuffre`, Milano, 1984, 15. (8) N. BOBBIO, Rappresentanza ed interessi, in G. PASQUINO (a cura di), Rappresentanza e democrazia, Laterza, Roma-Bari, 1988, 6.
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2.
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Il costituzionalismo liberale: la borghesia conquista l’egemonia e riscrive i caratteri dell’obbigazione politica.
L’atteggiamento intellettuale per cui « (...) la linea di separazione tra la cospirazione e la rappresentanza legittima di un interesse parziale continua ad essere sfumata (...) » (9) ruota attorno alla teoria borghese della rappresentanza parlamentare. Qui origina infatti l’idea, ancor oggi presente nella dottrina giuspubblicistica, in forza della quale gli interessi sarebbero una sorta di « intrusi » nelle aule parlamentari. Walther Bagehot riteneva che il Parlamento dovesse esprimere continuativamente e con efficacia gli orientamenti dell’opinione pubblica, intesa come categoria unitaria, e che cio` fosse possibile solo « (...) attraverso l’avvicendarsi in Parlamento di molti membri che non rappresentino alcun interesse particolare, che non siano impegnati a sostenere le idee di una specifica classe, che non siano essi stessi palesemente segnati dalle caratteristiche di uno status particolare, ma siano al contrario in grado di formulare un giudizio su cio` che e` bene per il paese, in modo altrettanto libero e imparziale degli uomini colti » (10). Tale forma di rappresentanza parlamentare abbisognava di un prototipo di rappresentante che era una vera e propria categoria dello spirito; un soggetto dotato di una particolare virtu` politica, di un impegno patriottico volto unicamente a soddisfare le esigenze della comunita`: un modello astratto, un’icona di parlamentare, che aveva il suo necessario corrispondente in un modello altrettanto astratto di elettore borghese. E` probabile che non esistettero mai, nella realta`, ne´ l’uno ne´ l’altro. Non e` un caso che « l’apostolo dell’anti-pluralismo » (11), Jean Jacques Rousseau, sia co(9) C. S. MAIER, « Vincoli fittizi (...) della ricchezza e del diritto »: teoria e pratica della rappresentanza degli interessi, in S. BERGER (a cura di), L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, il Mulino, Bologna, 1983, 52. (10) W. BAGEHOT, Parlamentary Reform, in Essays on Parliamentary Reform, London, 1883, 125. (11) Cosı` lo definisce E. FRAENKEL, op. cit., 20.
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stretto ad indirizzare ad un’improbabile figura epico-eroica il proprio anelito al legislatore ideale, riscoprendo, nell’Emilio, Licurgo e gli Spartiati. In ogni caso, cio` che qui conta sottolineare e` che tale configurazione dell’idea rappresentativa non fu politicamente neutra. Si trattava in buona sostanza di affermare l’egemonia del Terzo Stato, rispetto all’aristocrazia parassitaria ed improduttiva, ormai d’ostacolo allo sviluppo mercantilistico, e rispetto alle classi popolari, considerate incapaci di discernere il proprio stesso interesse (12). Un Terzo Stato che, costruendo attorno al diritto di proprieta` l’archetipo delle situazioni soggettive giuridicamente rilevanti, poneva le premesse per un’elevazione dello status di proprietario a presupposto giuridico della cittadinanza politicamente attiva. Ecco cosa scrive Walter Bagehot a proposito della proprieta`: « (...) In verita` la proprieta` e` una prova alquanto imperfetta dell’intelligenza; ma e` sempre una prova. Se e` frutto di un’eredita`, essa garantisce una buona istruzione; se e` stata conquistata, e` prova di abilita`. In ogni caso essa e` in qualche modo una garanzia » (13). La riduzione del pluralismo entro le forme di una societa` politica limitata, la destrutturazione di un’obbligazione politica fondata prima sull’appartenenza ai corpi collettivi e poi sulla confluenza di questi ad un organismo superiore, la trasformazione del principio associativo da cardine dell’autoorganizzazione dei gruppi sociali a mera proiezione di un diritto indivi(12) A proposito dell’esclusione dell’aristocrazia dal godimento dei diritti politici, vedi, nel paragrafo successivo, la ricostruzione del pensiero dell’abate Sieyes. A proposito invece delle masse popolari, era frequente la considerazione dell’incapacita` di queste di discernere il proprio stesso interesse. A conclusione del capitolo XI del libro I della sua monumentale opera, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, A. SMITH sosterra` che dei tre ordini che compongono la societa`, coloro che vivono di rendita (i proprietari, per lo piu` terrieri), coloro che vivono di profitto (gli imprenditori) e coloro che vivono di salario (i lavoratori), questi ultimi sono incapaci di cogliere il collegamento tra il loro interesse di gruppo e l’interesse generale. (13) W. BAGEHOT, op. cit., 40.
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duale di liberta` sono le conseguenze dell’affermazione dell’individualismo liberal borghese. E l’individuo borghese, il borghese cittadino e` il protagonista della stagione del costituzionalismo rivoluzionario francese, che dopo aver « (...) spazzato via qualsiasi riferimento al mondo pluralistico e differenziato dell’antico regime » (14) configura una comunita` sovrana di eguali, a presidio della quale pone la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789. E` la conquista del potere da parte del Terzo stato, e` il conseguimento dell’egemonia da parte della borghesia l’evento propriamente rivoluzionario che trasforma i caratteri tradizionali della sovranita` e della rappresentanza, sovrapponendoli e confondendoli al fine di imputare direttamente ai rappresentanti la responsabilita` del gubernaculum della Nazione. Ed e` ancora l’egemonia borghese che pretende la ridefinizione della posizione dei corpi collettivi nell’ordinamento generale (15).
(14) M. FIORAVANTI, Il principio di eguaglianza nella storia del costituzionalismo moderno, in Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900, Il Mulino, anno II, n. 4, ottobre 1999, 609 e ssg., 614. (15) L’egemonia cui si fa riferimento e` intesa nel senso propriamente gramsciano del termine. Antonio Gramsci sviluppo` il concetto di egemonia in antitesi a quello di « dominio ». Il dominio corrisponde ad una fase rudimentale e bruta, propria delle societa` arretrate in cui una parte sociale domina il resto della societa`. L’egemonia e` invece una compiuta capacita` di direzione che realizza un complesso sistema di relazioni e mediazioni tra la classe egemone e le altre classi, e presuppone indefettibilmente una particolare leadership culturale, e poi etico morale, del gruppo dominante. In questo senso la lettura gramsciana, che non a caso usa il concetto di egemonia proprio con riferimento al potere borghese ottocentesco in Francia ed in Italia, risente dell’influenza dell’approccio in chiave etico politica della visione della storia di Benedetto Croce. L’egemonia e` allora, innanzi tutto, un fenomeno culturale; Gramsci prende atto del contributo di Lenin, che ha integrato l’economicismo e il determinismo marxiano con la consapevolezza del valore essenziale della lotta culturale, secondo l’intima correlazione di teoria ed azione che informa la filosofia della prassi. In definitiva l’egemonia gramsciana non e` un semplice dominio, o, meglio, e` un dominio che discende dall’affermazione di una superiore capacita` di interpretazione della storia e di soluzione dei problemi sociali. Allorche´ le classi dirigenti perdono l’egemonia culturale, ideale e morale, cessano di essere tali e si limitano ad esercitare un mero dominio, comunque destinato a declinare (cfr. A. TORTORELLA, Egemonia, in Antonio Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, ed. l’Unita`, Roma 1987, 92-93).
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L’egemonia borghese impone la concezione della rappresentanza come figura dell’unita`; rappresentanza e sovranita`.
Un passaggio storico a mio avviso emblematico della mutazione di significato della rappresentanza da metodo di espressione del pluralismo di fronte al titolare della sovranita` a metodo di imputazione e di esercizio diretto della sovranita` statuale e` la trasformazione degli Stati Generali in Assemblea Nazionale. In tale momento muta radicalmente anche la stessa posizione dell’assemblea rappresentativa nell’ordinamento; essa non e` piu` l’istituzione nella quale la Nazione, o meglio i corpi collettivi che la costituscono, si pongono di fronte alla Corona governante, o in chiave di manifestazione e proposizione di istanze, o in chiave di prestazione del consenso alle politiche regie, o, piu` spesso, in entrambi i significati. L’Assemblea diviene allora la sede stessa del potere sovrano, e si sposta percio` dall’area ideale dei governati a quella dei governanti (16). Cio` che qui conta sottolineare e` che viene prima, storicamente e logicamente, l’egemonia borghese, cui seguono la sistematizzazione e la teorizzazione, compiute e raffinate, della nuova concezione della rappresentanza, e non viceversa (17). In questo processo, che fu autenticamente rivoluzionario, giacche´ stravolse l’assetto del potere statuale come definito in Francia dalla stagione plurisecolare della monarchia nazionale, un ruolo di primo piano venne svolto da Emmanuel Joseph Sieyes, che nel 1789 venne eletto agli Stati Generali in (16) Il richiamo alla sovranita` va inteso con riferimento alla cd. sovranita` interna, cioe` alla supremazia politica e al potere di governo in un dato ordinamento (cfr. C. MORTATI, Commento all’art. 1, in Commentario della Costituzione, diretto da G. Branca, Bologna-Roma, 1974, 21). (17) In questo senso N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Giuffre`, Milano, 1991, 68 e ssg.. Colgono nella nozione di rappresentanza il duplice profilo della situazione di potere nei confronti dei rappresentati e della sussistenza di un rapporto tra rappresentanti e rappresentati D. NOCILLA, L. CIAURRO, Rappresentanza politica, voce dell’Enc. dir., XXXVIII, Giuffre`, Milano, 1985. Ripercorre con estrema efficacia il dibattito sulla mutazione di senso della nozione di rappresentanza F. BERTOLINI, Rappresentanza parlamentare e attivita` di governo, Editoriale scientifica, Napoli, 1997, 41 e ssg..
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rappresentanza del Terzo Stato di Parigi. Infatti il lucido pensiero dell’abate Sieyes a proposito dell’oggetto della funzione rappresentativa spicca, tra i contributi alla sistematizzazione teorica della nuova forma della rappresentanza, proprio per la rigida coerenza con le premesse ideologiche sottese all’egemonia borghese. Riflettendo infatti su quali siano lo scopo e l’oggetto di un’assemblea rappresentativa, egli osserva che l’assemblea esprime la volonta` della Nazione; essa si riunisce e produce attivita` giuridicamente rilevanti proprio per esercitare la sovranita` (18). Ecco in quale senso la nozione di rappresentanza si immedesima progressivamente con la nozione di sovranita`. Il parlamento non si porrebbe diversamente dalla Nazione stessa, qualora questa potesse effettivamente riunirsi in un unico luogo. « Che cosa e` la volonta` di una nazione? Essa e` il risultato delle volonta` individuali, cosı` come la nazione e` l’unione degli individui » (19). L’Assemblea Nazionale si occupa allora di tutto cio` che attiene alla Nazione; parafrasando Sieyes, essa si propone la sicurezza comune, la liberta` comune, in una parola la cosa pubblica. Quasi a contemperare lo sganciamento della rappresentanza dalla pluralita` e dagli interessi parziali presenti nel corpo sociale, i teorici dell’egemonia borghese recuperano il concetto di interesse, ma non possono non interpretarlo come interesse generale. Cio` fornisce loro la legittimazione all’esercizio della sovranita`, come sopra accennato. Non ci si puo` infatti limitare a dire che i deputati eletti reggono il gubernaculum della Nazione, senza aggiungere che fanno questo nell’interesse generale della Nazione stessa. Se, oltre a governare, i rappresentanti della Nazione debbono anche, nonostante tutto, rappresentare qualcosa, non potranno che rappresentare l’interesse generale, non essendo infatti ammissibile lasciare la deci(18) Sulla crisi dell’idea della sovranita` statuale, assediata prima dalla frammentazione particolaristica dei fenomeni pluralistici, poi dall’erosione « dall’alto » a favore di soggetti sovranazionali, vedi le belle pagine di M. LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Rivista di diritto costituzionale, 1996, 124 e ssg.. (19) E. J. SIEYES, Qu’est-ce que c’est le Tiers e´tat? (capitolo VI), (trad. it.: Che cosa e` il Terzo Stato, Editori Riuniti, Roma, 1972, 118).
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sione a soggetti che rappresentino interessi particolari. I fini particolari possono e debbono essere convenientemente isolati. Il cittadino dovra` pertanto tollerare i « (...) limiti legali che la societa` gli prescrivera` in nome di quell’interesse comune al quale il suo interesse particolare e` cosı` utilmente unito ». Gli affari comuni sono dunque l’oggetto dell’assemblea, e la volonta` comune non puo` che esprimere l’interesse pubblico. Il concetto di interesse pubblico, le cui origini filosofiche precedono questa elaborazione teorica, pur tuttavia acquista in questo momento storico il collegamento, che non perdera` fino a giorni nostri, con la volonta` generale, e quindi con la forma giuridica della sua manifestazione, la legge. E` qui che si stabilisce il connubio secolare tra la legge e la nozione di interesse pubblico; e` qui che tale categoria si collega saldamente con il diritto positivo, per cui si afferma, e si continuera` ad affermare, senza tema di tautologie, che l’interesse e` pubblico quando la legge lo definisce tale (20). 4.
La rappresentanza come figura` dell’unita`; l’ostilita` nei confronti delle formazioni sociali; interessi rappresentabili ed interessi non rappresentabili.
Dice Sieyes: « Nel cuore umano vi sono tre diversi interessi: quello in forza del quale i cittadini si riuniscono, e che da` le dimensioni dell’interesse comune; quello in forza del quale l’individuo si associa solo con i suoi simili, e cioe` l’interesse di corpo; quello in forza del quale ciascuno si isola, e cioe` l’interesse personale » (21). Modernamente diremmo che l’ordinamento e` solcato da interessi giuridicamente rilevanti che possono assumere le vesti dell’interesse individuale, dell’interesse collettivo, dell’interesse pubblico. (20) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, vol. I, II ed. Giuffre`, Milano, 1988, 113 e ssg.. Sottolinea la necessita` di « svelare » al di sotto del concetto di interesse pubblico generale, i veri interessi pubblici specifici che la legge intende tutelare A. PIZZORUSSO, Interesse pubblico e interessi pubblici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 457 e ssg.. (21) E. J. SIEYES, op. cit., 119.
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Nell’enucleare il rapporto tra gli interessi e l’assemblea rappresentativa, Sieyes, posto che l’unico interesse che questa dovrebbe curare e` l’interesse generale, ritiene che la rappresentanza di un interesse individuale all’interno di un’assemblea non sia di grande ostacolo al perseguimento di quello generale, giacche´ nell’ambito di un’assemblea, l’interesse individuale puo` essere facilmente isolato ed emarginato. E` piuttosto la rappresentanza degli interessi superindividuali organizzati che mina nelle sue radici l’assetto conquistato dal regime liberal-borghese. Sieyes vede con grande preoccupazione « l’interesse di corpo », che potrebbe unire diversi membri di un’assemblea. Ecco perche´ « l’ordine sociale esige con tanto rigore che i semplici cittadini non possano unirsi in corporazioni » (22). Degenerazione fatale e` quella dello Stato che invece di avversare le corporazioni le conferisce dignita` di istituzioni pubbliche, chiamandole sotto forma di « ordini » a far parte della rappresentanza nazionale. In realta` « gli attributi per cui i cittadini si differenziano tra loro sono al di la` della qualita` di cittadino (...) essi non snaturano l’eguaglianza nella qualita` di cittadino (civisme) » che sola conduce alla rappresentabilita`, intesa, ormai, come partecipazione all’esercizio della sovranita`. Le posizioni particolari possono essere tutelate dalla legge, ma essa non puo` essere la fonte della differenziazione, istituendo nuovi corpi sociali, o disponendo arbitrarie discriminazioni tra quelli esistenti: « la legge non accorda nulla, ma protegge cio` che gia` esiste fintanto che non viene a nuocere all’interesse comune » (23). In ogni caso, gli interessi comuni ai cittadini sono i soli a giustificare una trattazione comune, e quindi « (...) i soli a causa ed in nome dei quali essi possano rivendicare dei diritti politici, cioe` una (22) E. J. SIEYES, op. cit., 120. Corollario di questo principio l’auspicio espresso dal Sieyes che anche i membri dell’esecutivo, per forza di cose portati a fare corpo a se´, per tutta la durata del loro mandato rinuncino ad essere eletti in assemblee rappresentative. Anche l’assemblea in quanto tale deve astenersi dallo sviluppare uno spirito di corpo e dal diventare dunque un’aristocrazia; di qui le regole sul ricambio annuale di 1/3 dei membri, e sull’ineleggibilita` immediata di membri uscenti delle Camere. (23) E. J. SIEYES, op. cit., 121.
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partecipazione attiva alla formazione della legge sociale, ed i soli quindi che imprimano nel cittadino la qualita` della rappresentabilita` » (24). L’interesse collettivo, o comunque un interesse superindividuale che accomuni taluni cittadini non puo` e non deve essere rappresentato. Dira` poco piu` tardi Blackstone che « every member, although chosen by a particular district, when elected and returned, serves for the whole realm » (25). La valenza politica di conservazione dell’egemonia cosı` conquistata e` palese in Sieyes allorquando questi ribadisce espressamente che l’interesse di corpo non debba influire sulla legislazione. Cio` vale a maggior ragione — dice Sieyes — per i corpi e gli ordini privilegiati; « una classe privilegiata », cioe` che tenda ad autoescludersi dal diritto comune, « e` nociva per il solo fatto che esista ». Lo Stato deve pertanto collocarla al di fuori del circuito rappresentaivo. Ma la difesa della classe borghese, l’unica di fatto che puo` essere rappresentata, non si ferma qui. Chi appartiene ad un ordine privilegiato potrebbe in astratto essere rappresentato nella sua qualita` di cittadino, ma avendo ormai il privilegio annichilito tale suo attributo, egli sta ormai al di fuori della cittadinanza, ed e` da considerarsi un nemico dei diritti comuni. Finche´ durano i privilegi, i privilegiati non possono essere ne´ elettori ne´ eleggibili. Ecco perche´ basta il Terzo Stato a rappresentare la nazione e a « realizzare tutto cio` che possiamo sperare da una Assemblea nazionale; esso solo puo`, da solo, procurare tutti i benefici che ci si ripromette di ottenere dagli Stati generali » (26). Gli altri due Stati debbono essere neutralizzati, e ci si deve adoperare perche´ non sorgano piu` in futuro simili condizioni di privilegio. La rappresentanza come figura dell’unita` politica attorno alla borghesia egemone esclude le altre componenti sociali addirittura dalla titolarita` dei diritti politici. Poche altre volte nella storia un (intellettuale organico al) regime teorizzera` con tale franchezza (24) (25) (26)
E. J. SIEYES, op. cit., 122. Cfr. B. ACCARINO, Rappresentanza, il Mulino, Bologna, 1999, 96. E. J. SIEYES, op. cit., 371.
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per le componenti sociali subordinate a quella dominante l’esclusione dal godimento dei diritti politici (27). Quasi accortosi della estrema faziosita` di tali posizioni, lo stesso Sieyes, che pure fu uomo di potere, sembra volerne ridurne la portata; le consegna alla liberta` intellettuale del filosofo, sottraendole alla responsabilita` dell’uomo di Stato, la cui condotta deve invece necessariamente attenersi a prudenza e gradualita`; il filosofo ben puo` prodursi in questi liberi slanci, e in questo modo segnare la strada ai politici. Ricercando i caratteri politici-ideologici della teoria liberalborghese della rappresentanza politica, si puo` osservare che puo` forse apparire parziale interpretare la speculazione filosofica e di teoria politica sull’individualismo e sulla cittadinanza borghese come la copertura intellettuale di un epocale processo di acquisizione dell’egemonia (28), ma e` certo che la stessa collocazione di una marcata linea di divisione tra lo Staatsrecht e il Sozialrecht immanente a tali concezioni contribuı` ad allontanare le altre componenti della societa` dalla partecipazione politica o perfino dalla aspirazione alla cittadinanza. Del resto e` stato gia` acutamente osservato che tali ricostruzioni fossero volte piu` alla « legittimazione del potere politico che a spiegare i meccanismi reali di formazione del consenso » (29), anche a costo di sacrificare la capacita` di comprensione dei fenomeni sociali e giuridici sull’altare del « figurino » ideale, e di segnare pertanto un progressivo marcato distacco tra le ricostruzioni teoriche e « ... la realta` del persistere o addirittura del formarsi di ordinamenti espressioni di gruppi sociali, irriducibili rispetto a quello statale... » (30). (27) E. J. SIEYES, op. cit., 126-127. (28) Cfr. G. FERRARA, Sulla rappresentanza politica. Note di fine secolo, in Riv. dir. cost., 1998, 20 e ssg., 55, che definisce « (...) la rappresentanza politica come espressione del potere finanziario dello Stato e dell’egemonia all’interno della convivenza statale(...) ». (29) P. RIDOLA, op. ult. cit., 22. (30) F. MODUGNO, Legge - Ordinamento giuridico - Pluralita` degli ordinamenti, Giuffre`, Milano, 1985, 190 e ssg.
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La concezione borghese della rappresentanza postula l’idea dell’interesse generale; « l’invenzione » dell’interesse generale.
Si e` visto come l’emersione della nozione di interesse generale come unico interesse legittimamente rappresentabile nell’Assemblea Nazionale, con conseguente esclusione della possibilita` di rappresentare interessi parziali, sia da ritenersi intimamamente collegata al mutamento di senso della nozione di rappresentanza da metodo di espressione del pluralismo a fonte di legittimazione della titolarita` del potere sovrano. A questo punto una riflessione ed un approfondimento sul concetto di interesse appaiono necessari (31). La nozione di interesse generale non appare infatti ex abrupto nelle teorizzazioni della stagione rivoluzionaria francese, ma affonda le sue radici in tempi ben piu` risalenti, pur tra le ambiguita` derivate dall’ambivalenza semantica, conservata fino ad oggi, tra interesse in senso giuridico e politico e interesse in senso economico, come frutto del denaro (32). Uno dei passaggi piu` delicati di tale lungo e complesso processo culturale e` stato il secolare tentativo di trasfigurare l’interesse del governante nel superiore concetto di interesse pubblico o di interesse dello Stato, in chiave di contemperamento degli eccessi dispotici dei principi regnanti. Se Fabio Albergati (1538-1606) gia` riferiva ai magistrati romani l’impegno a tenere alcune condotte solo « si commodo rei (31) Per una ricostruzione, sotto una prospettiva giuridica, del concetto di interesse, vedi soprattutto l’antologia a cura di L. ORNAGHI, op. ult. cit.. Per una ricostruzione filosofica del concetto di interesse vedi invece J. GRUNTZEL, Die Idee der Gemeinschaft, Dresden-Leipzig, 1916, che definiva l’interesse come « rapporto oggettivo » di un individuo con una cosa, la quale cosa acquistava percio` un particolare valore. Per un’analisi di stampo economico, vedi F. OPPENHEIMER, Theorie der reinen und politi¨konomie, Jena, 1923, che ritiene l’interesse « attribuzione di un valore » (o dischen O svalore) determinato ad un oggetto da parte di un soggetto o di una pluralita` di soggetti. (32) Ornaghi rintraccia nella prima meta` del cinquecento i primi riferimenti al termine interesse in senso politico (nel Tractado de Republica di Alonso de Castrillo, 1521). Il primo a riferire l’interesse ad un soggetto collettivo e` il Guicciardini dei Ricordi, che ne parla a proposito delle comunita` cittadine.
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publicae fieri potest » (33), Machiavelli e Guicciardini non evitano di riconoscere come fosse per lo piu` il materiale interesse del principe a dettare le regole del potere politico e guidare i movimenti dello Stato (34). La distinzione tra i due concetti e` chiara gia` nell’opera del cardinale Giovan Battista De Luca (16141683), che pone una vera e propria relazione di alterita` tra interesse dello Stato e interesse del principe: ne Il principe cristiano pratico, egli distingue cosı` la « buona politica de’ Principi » da « la mala fede de´ Tiranni »; la prima persegue il bene pubblico, la seconda solo l’interesse e l’utile dei governanti. A mio avviso la storia dell’evoluzione del concetto di interesse pubblico e` proprio la storia di questa relazione dialettica: lo sforzo di trasfigurare l’interesse del Principe nell’interesse dello Stato si scontra con quello opposto di smascherare dietro la fictio dello Stato gli interessi materiali dei governanti. E` difficile pensare che il Re Sole, autore del piu` noto aforisma sull’identita` tra Stato e Monarca, avesse in mente la distinzione tra interesse dello Stato e interesse della Corona allorquando affermava che gli interessi particolari non avrebbero dovuto intralciare « (...) la grandezza, il (33) F. ALBERGATI, La republica regia, libro II, capitolo XVI, « che per interesse di stato pare lecita ogni attione ». (34) A proposito di Niccolo` Machiavelli mi sia consentito un piccolo inciso che da` conto della straordinaria lungimiranza del pensatore fiorentino, sulla cui vicenda umana ed intellettuale, vedi, tra gli altri, le belle pagine di M. VIROLI, Il sorriso di Niccolo`. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma-Bari, 1998. Se Machiavelli e` universalmente riconosciuto come attento interprete e fine teorico di categorie che resteranno nella politologia successiva, pochi hanno colto come egli avesse gia` prefigurato finissime ricostruzioni prettamente giuspubblicistiche, poi sviluppate successivamente da altri autori. Nel Discorso sopra le cose fiorentine dopo la morte di Lorenzo, Machiavelli elabora a beneficio del cardinal Giulio de’ Medici (anche il rapporto tra intellettuali e detentori del potere politico e` un terreno di indagine assai interessante per la comprensione delle vicende italiane del XVI secolo) un articolato progetto di riforma istituzionale per superare la crisi della Firenze medicea, progetto basato su una vera e propria funzione di integrazione, in chiave stabilizzante, svolta dalla Costituzione. Alla Costituzione, cioe`, Machiavelli affida il compito di comporre il pluralismo cetuale in un’architettura unitaria fondata sulla condivisione di valori civici, assegnando il giusto ruolo a ciascuna componente della collettivita` cittadina. Fatte le debite differenziazioni, il lettore potra` apprezzare la vicinanza a categorie proprie del costituzionalismo europeo contemporaneo (cfr. M. VIROLI, op. cit., 198 e ssg.).
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bene e la potenza dello Stato(...) » (Luigi XIV, Re´flexions sur le me´tier de Roi). In realta`, decisiva ai fini della definitiva oggettivizzazione dell’interesse dell’unita` politico-statale fu l’elaborazione della nozione di « bene-essere », contributo del mercantilismo europeo. In Francia la dottrina mercantilista individua infatti nel perseguimento del bene-essere il punto di convergenza fra l’interesse di potenza del sovrano e quello di ricchezza dei ceti borghesi, la cui prosperita` era legata allo sviluppo dei traffici (35). E` stato acutamente osservato che giocarono un ruolo importante nel processo di invenzione della categoria dell’interesse generale due diverse tendenze; quella naturale per ciascun individuo a presentare come comune il tornaconto personale o di gruppo; quella delle classi dirigenti di trarre « (...) maggiori vantaggi e governare molti uomini con maggiore facilita` e sicurezza (...) » (Mandeville). Ai costituzionalisti e agli economisti del Settecento sarebbe spettato il compito di cercare di dimostrare che la sintesi politico-statuale potesse raccogliere gli interessi parziali in un momento unitario, secondo la lezione del Leviatano (36). Cio` che qui conta sottolineare e` che l’enucleazione della categoria di interesse generale fu un elemento del piu` vasto processo di giustificazione filosofica dell’acquisizione borghese dell’egemonia: la pretesa coincidenza tra interesse della classe dirigente e interesse generale forniva una spiegazione argomentativamente sostenibile della egemonia medesima. La mutazione di senso della nozione di rappresentanza, come la si e` cercata di descrivere nei paragrafi precedenti, e l’« inven(35) L’analisi dei fisiocratici si concentro` sul rapporto tra interesse del sovrano e i molteplici interessi della nazione; Quesnay affermo` che e` proprio dell’autorita` sovrana alzarsi al di sopra delle « iniziative ingiuste degli interessi particolari »; per Turgot « ogni uomo conosce il suo proprio interesse meglio di un altro uomo cui quello e` del tutto indifferente »; per Le Mercier de la Rivie`re « l’interesse della Nazione si trasforma nell’interesse del sovrano » (i passi riportati sono citati nella introduzione a L. ORNAGHI, op. cit., 35-36). (36) Cfr. T. HOBBES, Leviatano, (trad. it.), Laterza, Roma-Bari, 1974.
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zione » del concetto di interesse generale sono insomma due aspetti della medesima vicenda storica, e non due diverse vicende. L’espansione delle procedure elettive ha che fare con questa vicenda: quando « rappresentare » prende a significare oltre che « stare per » anche « agire per », e quindi esercitare la sovranita`, la rappresentanza stessa si pone l’obiettivo di unificare e omogeneizzare gli interessi economico-sociali in un solo ed esclusivo interesse generale (37). Viene colto sempre piu` chiaramente che le assemblee elettive non sono la sommatoria di interessi parziali, bensı` « assemblee deliberative di un’unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero » (Edmund Burke). Lo strumento rappresentativo-elettivo si pone insomma come mezzo per ottenere l’identificazione tra la legittimita` a rappresentare e la legittimita` a governare: esso coinvolge nella vita pubblica potenzialmente tutti gli interessi e li unifica in un esclusivo interesse politico generale. Affermera` Rousseau: « Solo la volonta` generale puo` dirigere le forze dello Stato in direzione del bene comune; se l’opposizione degli interessi privati ha reso necessaria l’istituzione della societa`, e` l’accordo tra questi che l’ha resa possibile. E` cio` che vi e` di comune tra questi differenti interessi che forma il vincolo sociale; se non vi fossero alcuni punti sui quali gli interessi si accordano, nessuna societa` potrebbe sorgere. E` sulla base di questo interesse comune che la societa` deve essere governata » (38). Il pensiero di Jean Jacques Rousseau merita forse un approfondimento, giacche´ esprime forse piu` chiaramente di altri il collegamento tra rappresentanza politica, volonta` generale e sovranita`. Nel Contratto sociale (Du contract social, Libro II, capitolo I, dal titolo « La sovranita` e` inalienabile ») egli afferma che solo la volonta` generale puo` dirigere le forze dello Stato secondo il bene comune. La sovranita` (37) Cfr. H. FENICHEL PITKIN, I due volti della rappresentanza, in D. FISICHELLA (a cura di), La rappresentanza politica, Giuffre`, Milano, 1983, 213 e ssg.. (38) J.J. ROUSSEAU, Du contract social, libro II, capitolo primo, in L. ORNAGHI, op. cit., 274.
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e` allora « l’esercizio della volonta` generale », e non puo` essere mai alienata, perche´ il corpo sovrano non puo` essere rappresentato che da se stesso, essendo un ente collettivo: si puo` trasmettere il potere, ma non la volonta`; « come la natura da` ad ogni uomo un potere assoluto sulle proprie membra, cosı` il patto sociale da` al corpo politico un potere assoluto sui propri membri: questo potere, diretto dalla volonta` generale, e` la sovranita` ». Nel capitolo II, che tratta dell’indivisibilita` della sovranita`, Rousseau esprime con estrema chiarezza l’intento di unificazione e di riduzione della complessita` che la concezione da lui propugnata sottende: la volonta` o e` generale, o non e`; o e` di tutto il corpo del popolo, o e` di una sua parte, o di un individuo, ma solo nel primo caso la volonta` dichiarata e` un atto di sovranita` e fa legge; nel secondo e` solo una volonta` particolare (da questa fortissima istanza verso l’unita` della volonta` generale, Rousseau fa discendere anche l’ostilita` nei confronti della teoria della separazione dei poteri; la sovranita`, per Rousseau, non e` divisibile in potere legislativo e potere esecutivo). Ed ecco l’uso della categoria dell’interesse generale come veicolo di esclusione della rappresentanza degli interessi organizzati: Rousseau afferma l’irriducibile alterita` tra la volonta` generale e la volonta` di tutti; mentre la prima ha di mira l’interesse comune, la seconda e` solo la somma di interessi privati particolari. Se si creano delle associazioni tra votanti — prosegue Roussau — la volonta` di ciascuna, generale rispetto ai suoi membri, e` solo parziale rispetto alla volonta` generale dello Stato. « Come la volonta` particolare non puo` rappresentare la volonta` generale, cosı` la volonta` generale cambia natura se assume un obiettivo particolare » (capitolo IV, « I limiti del potere sovrano »). Per aversi la vera espressione della volonta` generale, che e` sempre « retta dalla pubblica utilita` », e` necessario allora che non vi siano societa` parziali, ma che ogni cittadino decida con la propria testa, ed esista solo lo Stato (capitolo III, dall’emblematico titolo « Puo` errare la volonta` generale? »). La teoria della volonta` generale di Rousseau conduce alla riduzione della struttura dell’obbligazione politica alla dialettica cittadino
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individuo-Stato; il cittadino e` solo di fronte allo Stato, che e` dotato di un formidabile potere di coazione. Infatti — sostiene Rousseau — se lo Stato e` una persona morale che risulta dall’unione dei suoi membri, e il cui scopo principale e` la propria conservazione, e` necessario che esso disponga di un potere di coazione; « come la natura da` ad ogni uomo un potere assoluto sulle proprie membra, cosı` il patto sociale da` al corpo politico un potere assoluto sui propri membri: questo potere, diretto dalla volonta` generale, e` la sovranita` ». L’operazione di giustificazione del potere diviene cosı` granitica. Un atto di sovranita` e` una convenzione tra il corpo sovrano e ciascuno dei suoi membri: « convenzione legittima, perche´ ha alla base il patto sociale; giusta, perche´ e` comune a tutti; utile, perche´ non puo` aver altro oggetto che il bene generale; solida, perche´ ha come garanti la forza pubblica e il potere supremo » (capitolo IV, « I limiti del potere sovrano »). Il collegamento, dunque, tra la nozione di interesse generale e la sovranita` si afferma nell’ambito del consolidamento della forma di Stato liberal-borghese, e segnera` per secoli la collocazione della categoria concettuale dell’interesse pubblico nell’alveo del momento dell’Autorita`, della preposizione di un ente o di un organismo comunque pubblico alla cura dello stesso (39). (39) E la dottrina piu` attenta non manca di rilevare il « carattere piu` sfacciatamente autoritativo » del concetto di interesse pubblico, e di lamentare l’eccessiva astrattezza di una nozione che svincola l’interesse dal suo significato originario di tensione di un individuo verso un bene atto a soddisfare un bisogno. Puo` apparire significativo riportare alcuni passi di un recente (e assai divertente!) saggio di Franco Ledda, maestro purtroppo di recente scomparso: « l’interesse pubblico (ndr) non lo si e` ricollegato al bene che il soggetto agogna (quello — dicevano purtroppo importantissimi giuristi — sta solo ‘‘sullo sfondo’’) ma ad un altro bene (come la correttezza dell’esercizio del potere pubblico, che il soggetto talvolta e anzi il piu` delle volte non avverte e sarebbe forse disposto a cedere per quattro soldi) (...)(...). Si raggiunge cosı` il livello massimo dell’astrazione (di quella che non serve, perche´ le astrazioni vere, intese come operazioni consapevoli, sono per noi degli strumenti quasi indispensabili), ma si giunge ad una nettissima separazione del mondo del diritto da quello dei fatti reali: il ricorrente cui giunge la notizia del rigetto del suo ricorso deve esultare perche´ il suo interesse alla ‘‘legittimita`’’ e` stato soddisfatto dal sindacato del giudice amministrativo (...) » (F. LEDDA, Alla ricerca della lingua perduta del diritto. (Divertimento un poco amaro), in Diritto pubblico, n. 1, 1999, 1 e ssg., 7).
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Solo allorquando il diritto tornera` a riflettere sulla societa`, e sui fenomeni giuridici dell’autorganizzazione degli interessi sociali potra` farsi strada a fatica l’idea che il fatto che l’interesse pubblico sia perseguito solo da soggetti pubblici non sia elemento ontologicamente e indissolubilmente connesso all’idea stessa di Stato rappresentativo, ma una scelta organizzatoria con precise matrici ideologiche, probabilmente messa in crisi dall’avvento del pluralismo politico e istituzionale sul quadro delle forme di Stato sociali e democratiche (40). Solo in quella diversa stagione del costituzionalismo l’interesse pubblico iniziera` a sganciarsi dal momento dell’Autorita` per avvicinarsi timidamente al momento della Liberta`. 6.
Interesse generale come figura dell’unita` statuale; interessi parziali come figura del pluralismo sociale; la dottrina si interroga sulla capacita` della teoria della rappresentanza liberal-borghese a spiegare i primi fenomeni pluralistici.
La compattezza del quadro teorico cosı` descritto inizia ad entrare in crisi allorquando, a partire dalla seconda meta` del XIX secolo, la base sociale e di consenso della forma di Stato borghese riceve le sollecitazioni delle masse popolari, e comincia, progressivamente, ad allargarsi. Si sviluppa allora un dibattito di grandissimo interesse tra i sostenitori dell’impostazione tradizionale e coloro che mostrano segni di insoddisfazione verso concezioni che non colgono la immanente « politicita` » del concetto di interesse e le sue straordinarie attitudini a produrre fenomeni di aggregazione e di autoorganizzazione, che non possono restare indifferenti al mondo del diritto. Lorenz von Stein colse infatti nell’interesse il « principio della societa` » in diretta contrapposizione (40) Per un’analisi della partecipazione al procedimento amministrativo come luogo di emersione degli interessi organizzati, mi sia consentito rinviare a G. COLAVITTI, Assetto pluralistico e rilevanza giuridica degli interessi organizzati, tesi di dottorato, Roma, 2000 (in corso di pubblicazione).
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con il « principio dello Stato » (41). Robert von Mohl concentro` invece l’analisi sulle « cerchie di vita sociali » che si formano attorno agli interessi e osservo` che « quantanche lo Stato e le consociazioni di interessi non siano confliggenti riguardo ai contenuti (...) purtuttavia essi hanno essenzialmente un diverso fondamento e un diverso orientamento » (42). L’interesse generale resta per von Mohl lo strumento piu` adatto per costruire la « fictio » della personalita` giuridica dello Stato. Mano a mano pero` che si complica il tessuto pluralistico della societa`, gli interessi economico-sociali, esclusi per definizione dal circuito rappresentativo statuale, cercano nuove forme di rappresentanza. I gruppi sociali smentiscono ormai l’effettivita` del principio in base al quale la legittimazione a rappresentare coincide con la legittimazione a governare. L’unita` dell’interesse politico statale e` sempre piu` apertamente contraddetta dalla pluralita` degli interessi politici esistenti nella societa`. Nel dibattito dottrinale provocato dalla poderosa opera di Otto von Gierke, ad interrogarsi circa le origini giuridiche del principio comunitario (43), si affrontano i sostenitori della « politicita` » delle corporazioni economico-sociali e quelli dell’esclusiva « politicita` » dello Stato: se Hauriou auspica « un decentramento piu` grande e la rappresentanza degli interessi speciali all’interno delle assemblee politiche », Esmein ritiene che il principio della sovranita` nazionale escluda per forza di cose la rappresentanza degli interessi, giacche´, come precisa Leroy-Beaulieu « l’interesse collettivo non e` la semplice (41) Sul pensiero di L. von Stein, vedi L. VON STEIN, Opere scelte, Giuffre`, Milano, 1986. (42) R. VON MOHL, Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, I, sez. I, capitolo secondo, in L. ORNAGHI, op. cit., 459. (43) O. VON GIERKE, Das deutsche Genossenschaftrecht, I, Berlin, 1868; Das Wesen der menschlichen Verba¨nde, Leipzig, 1902. Per una ricostruzione efficacissima di alcuni esiti della ponderosa riflessione gierkiana sui fenomeni di autoorganizzazione dei gruppi sociali, e per una disamina delle implicazioni di tale riflessione sul terreno dell’assetto pluralistico ed in particolare sul terreno dell’elaborazione dei diritti di liberta` d’associazione, vedi P. RIDOLA, Democrazia pluralistica e liberta` associative, Giuffre`, Milano, 1988, 9 e ssg..
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giustapposizione degli interessi individuali, concepiti dal punto di vista angusto di ciascuno, ma e` piuttosto una specie di fusione di tali interessi; or, fondere e giustapporre sono due cose tutt’affatto diverse » (44). Kelsen scrisse che era irrinunciabile un centro di « decisione finale sul contrasto di interessi tra i gruppi corporativi » e Ostrogorskij, a proposito della forma di Stato corporativa, che « organizzando la rappresentanza politica sulla base di simili raggruppamenti altro non si fara` che organizzare gli egoismi dentro lo Stato ». Qualche anno dopo Carl Schmitt, in aspra polemica nei confronti del pluralismo sociale e politico, reo di avere creato un Verba¨ndestaat weimariano paralizzato, nella sua capacita` di decisione a qualsiasi livello, da veti incrociati e antagonismi irriducibili, predichera` la necessita` di una svolta teorica e pratica che, nel suo inveramento storico, finira` per sostituire alla Repra¨sentation il principio identitario, il Fu¨hrerprinzip (45). Georg Jellinek ribadisce quanche decennio prima a proposito dell’interesse generale: « qualunque diritto pubblico esiste nell’interesse generale, che e` identico all’interesse dello Stato. L’interesse generale non e` pero` identico con la somma degli interessi degli individui, quantunque molto spesso si risolva in un interesse individuale. L’interesse generale (...) abbraccia le generazioni future: esso si (44) L. ORNAGHI, Introduzione, in L. ORNAGHI, op. cit., 52. (45) Nello stadio finale dello Stato nazionalsocialista perde qualsiasi senso l’elaborazione di una teoria del sistema rappresentativo; il potere normativo viene direttamente ricondotto alla volonta` del Fu¨hrer, secondo il principio di identita`, e quindi non e` neanche necessaria una delibera formale del Governo, perdendo dunque valore anche la distinzione tra atti normativi primari e atti secondari. Si arrivo` a cio` secondo un progressivo smantellamento della forma di Stato e della forma di governo weimariana. Il 24 marzo 1933 il Reichstag approvo` la « Legge per eliminare i mali del popolo e del Reich », che conferiva al Governo un generale potere normativo primario, anche in deroga alla Costituzione, purche´ non fossero aboliti Reichstag e Reichsrat, e fatte salve le prerogative del Presidente del Reich. La legge fu prorogata oltre l’originaria vigenza (che avrebbe dovuto terminare il 1o aprile 1937) per ben due volte, di cui l’ultima con atto di Hitler e non del Parlamento (il « Fu¨hrerbehelf » del 10 maggio 1943). Per una esauriente analisi del regime nazionalsocialista sotto i profili giuridici, politici e filosofici, vedi F. NUEMANN, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, Oxford University Press, New York, 1942 (trad. it.: Behemoth. Struttura e pratica del Nazionalsocialismo, Mondadori, Milano, 1999, II ed.).
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estende al piu` lontano avvenire (...) L’interesse generale e` piuttosto un interesse composto, risultante dal contrasto tra gli interessi degli individui sulla base delle idee dominanti in un determinato periodo di tempo e delle condizioni dello Stato; un interesse che puo` presentarsi magari come estraneo all’interesse individuale e come contraddittorio di esso, e che spesso deve presentarsi come tale ». Alla fine del secolo scorso la riflessione sull’interesse ritorna centrale nelle analisi sulle aggregazioni politiche; se ne occupano studiosi della statura di Bentley, Ratzenhofer, Weber, Ostermann, Durkheim, Pareto. Viene alla luce sempre piu` chiaramente il ruolo dell’interesse all’interno di ogni aggregazione politica, e viene sottolineata l’attitudine degli interessi superindividuali a realizzare forme organizzative relativamente stabili, con orizzonti temporali di riferimento anche di medio e di lungo periodo (46). Infatti, « l’organizzazione permanente potenzia le capacita` di qualunque gruppo per uno sforzo sostenuto, prolungando il periodo di tempo lungo il quale si possono calcolare i suoi interessi e consentendo un seguito piu` costante per un dato problema » (47). La dimensione della stabilita` degli interessi perseguiti e` da molti riconosciuta come un indice significativo della « politicita` », giacche´ conduce tali organizzazioni a uscire dalla logica della rivendicazione momentanea per « fare i conti » con gli altri interessi pre(46) Lo spostamento nel tempo degli orizzonti temporali di riferimento e` indicato da attenti osservatori come momento di svolta nell’acquisizione della consapevolezza di una identita` collettiva da parte di un gruppo sociale. Riprendendo le evocative immagini di Henri Desplaces, « La metafisica della storia ci mostra presso i popoli due interessi che si fronteggiano: l’interesse temporaneo e l’interesse permanente ». Il primo ispira propositi seducenti e perversi di godimento immediato di vantaggi; il secondo « e` quello della formica » e ha a che fare con « la grandezza dei popoli ». Parafrasando Tito Livio, Desplaces attribuiva a Roma questa intuizione, « quando si comportava non in vista del presente ma come se essa gia` avesse coscienza del suo avvenire ». Ma forse tutto cio`, pur non filosoficamente elaborato, era gia` istintivamente noto alla civilta` contadina; l’agricolore che piantava il seme dell’ulivo era ben conscio che non avrebbe mai visto i frutti, ma che questi sarebbero stati goduti dai propri figli, o dai figli dei propri figli. (47) P. SCHMITTER, Organizzazione degli interessi e rendimento politico, in G. PA` complesse, Bologna, Il Mulino, 1983, 9 e ssg., 25. SQUINO (a cura di), Le societa
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senti nella societa`. Le organizzazioni vengono allora a collocarsi nel quadro pluralistico stabilendo relazioni giuridicamente significative con le altre organizzazioni di interesse e con le istituzioni pubbliche, ed acquisendo cosı` una dimensione propriamente politica. Infatti la tendenza delle corporazioni a globalizzare i loro interessi e a differirne nel tempo la soddisfazione emergeva nettamente in quella fase storica come segno della loro crescente politicizzazione. Jhering sottolineava non a caso che « il diritto e` l’accorta politica della forza: non la miope politica dell’interesse momentaneo, bensı` la politica lungimirante che vede nel futuro e medita sullo scopo ultimo ». La politica vera e` insomma per Jhering « la visione dell’interesse lontano » (48). Allorquando il tessuto pluralistico si arrichisce di organizzazioni complesse in grado di interpretare e promuovere interessi superindividuali, la liberta` d’associazione subisce una mutazione di senso che la colloca, partendo dalle premesse di mera variante organizzatoria dell’agire individuale, nella posizione di fattore decisivo di organizzazione del pluralismo. 7.
L’impatto del pluralismo sulla rappresentanza di stampo liberal-borghese; l’omogeneita` sociale come risposta alla crisi della statualita` generata dall’autoorganizzazione degli interessi.
Mano a mano che la borghesia vedra` insidiato il primato politico dall’ingresso delle masse popolari nella societa` politicamente attiva, le costruzioni ideali dello Stato liberal-borghese, ed in particolare la concezione ad esso immanente della rappresentanza, entrano in una problematica fase di crisi, che costringe ad un ripensamento dei fondamenti stessi di tali categorie concettuali. La rottura cioe` dell’unita` politica statuale, o in altre parole, il prepotente impatto del pluralismo prima politico, poi anche istituzionale, sul quadro costituzionale tradizionale recano in se´ (48) R. VON JHERING, Lo scopo nel diritto, (trad. it.; prima edizione: Das Zweck im Recht, Go¨ttingen, 1884), Torino, 1972, 392.
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gli elementi per la crisi della rappresentanza politica come figura dell’unita` politico-ideale della Nazione. Non e` un caso che gli studiosi colgano l’intima coessenzialita` della struttura del sistema rappresentativo all’omogeneita` della base da rappresentare, e cioe` alla sua unita` interna, e pongano con decisione la questione della omogeneita` sociale al centro del dibattito in materia di sistemi rappresentativi e di effettivita` dei regimi democratici. La disomogeneita` del tessuto sociale, e quindi dell’oggetto della rappresentanza, e` percepita insomma come fattore che ostacola un dispiegamento dei congegni rappresentativi stessi coerente con le premesse che ne sono alla base, secondo l’impostazione che ho cercato di descrivere nei paragrafi precedenti. Proprio nella omogeneita` sociale ripone le sue speranze di ricomporre ad unita` il conflitto sociale uno dei lettori piu` attenti della crisi weimariana, Herman Heller, per il quale « (...) l’omogeneita` sociale e` uno stato sociopsicologico, nel quale i contrasti sempre presenti e i conflitti di interesse sembrano tenuti insieme da una coscienza e da un sentimento del noi, dall’attualizzarsi di una volonta` comunitaria (...) » (49). La crisi della rappresentanza come crisi dell’oggetto di essa, e cioe` del rappresentato, piu` che come crisi del rappresentante, resta uno dei nodi problematici piu` attuali del dibattito, come ha avuto modo di ribadire anche nel corso di questo convegno Massimo Luciani. Il concetto di omogeneita` sociale e` infatti non a caso al centro della riflessione mortatiana sugli equilibri della forma di Stato e della forma di governo; anzi, l’intera opera mortatiana puo` essere letta come uno sforzo quarantennale di comprensione delle conseguenze della frantumazione dell’omogeneita` borghese nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale democratico (50). (49) H. HELLER, Gesammelte Schriften, A. W. Sijthoff ed., Leiten, 1971, vol. II, 428. Per una visione d’insieme dell’opera dell’autore tedesco vedi H. HELLER, La sovranita` e altri scritti di dottrina del diritto e dello Stato, Giuffre`, Milano, 1987. (50) Cfr. P. RIDOLA, Democrazia e rappresentanza nel pensiero di Costantino Mortati, in M. GALIZIA, P. GROSSI (a cura di), Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Giuffre`, Milano, 1990, 259 e ssg..
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RAPPRESENTANZA E RESPONSABILITA` POLITICA
Concludendo la propria analisi delle forme di Stato, Mortati osserva infatti che la stabilita` della democrazia postula l’esistenza di un insieme di strutture politico-sociali che ne consentano il funzionamento (51). In realta`, secondo il Maestro calabrese, e` proprio l’effettivita` di un regime autenticamente democratico che presuppone una sostanziale omogeneita` sociale; al venir meno di questa, anche in relazione alla progressiva estensione del suffragio, si deve, ad esempio, la crisi irreversibile dello Stato liberale (52). Il metodo dialettico sul quale infatti si fonda lo Stato democratico, cioe` il libero confronto tra idee e programmi politici, deve essere accettato da tutti i gruppi sociali, se si vogliono evitare fortissime tensioni. La rilevanza della condizione di una sufficiente omogeneita` sociale sarebbe inoltre — secondo Mortati — contributo antico nella storia del pensiero politico; gia` Platone considerava irrealizzabile la democrazia perche´ non riteneva possibile ottenere la necessaria unita` del corpo sociale — e tuttavia invitava i suoi concittadini ateniesi ad un’omogeneita` spiccatamente ideale, fatta di amor di patria e tensione morale, di o