Paura e desiderio. Cose (mai) viste. 1974-2001 9788845246722, 8845246728

"Eppure non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specch

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Paura e desiderio. Cose (mai) viste. 1974-2001
 9788845246722, 8845246728

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enrico ghezzi

paura e desiderio cose (mai) viste 1974 — 2001

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Non è il tempo a mancarci. Siamo noi che manchiamo al tempo.

Que valent désormais ces actions et ces émodons dont je vois les échanges, et la monotone diversité? Je n’ai plus envie de vivre, car ce n’est plus que ressembler. Je sais 1’avenir par coeur. Paul Valéry Eppure non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città.

enrico gfaezzi, aapolide toscano” (vive a Roma dopo esser passato per Lovere Bolzano Genova), nato tra Europa 51 e Johnny Guitar. Comincia a far combaciare il suo tempo con quello del cinema seguendo bambino la mamma a cineforum pieni di Dreyer e di Bergman e di Kazan e di De Sica, poi a Genova tra liceo e università si dibatte con due o tre film al giorno nell'abbraccio del cinema americano e delle nouvelles vagues europee. Nel 1974 fonda la rivista II Falcone Maltese (con Teo Mora e Marco Giusti tra gli altri). Scrive su Filmcritica. Nel 1975 si laurea in filosofia mo­ rale con Cinema Moralia, tesi che cerca di conciliare due amori contrapposti, il cine­ ma e la filosofia ”critica” francofortese. Scrive per II piccolo Hans e per altre riviste. Pubblica un libretto su Stanley Kubrick, e cura diverse altre monografie dedicate a registi. Nel 1978 vince il concorso di programmista-regista per la Terza Rete Rai a Genova, dove realizza programmi radiofonici e televisivi (per una radio privata ave­ va già condotto una rubrica quotidiana, Sentieri Selvaggi). Si trasferisce a Roma per amore, e li si occupa per sette anni della programmazione cinematografica di Raitre, curando cicli di film come Schegge di futuro, Lo specchio scuro, Femmina Folle e, nel 1985 per i novantanni del cinema, La Magnifica Ossessione, quaranta ore non­ stop, una delle più lunghe maratone TV mai realizzate. Nel 1987 scrive e dirige il cortometraggio Gelosi e Tranquilli, e dal 1987 si occupa del palinsesto della Raitre di Angelo Guglielmi, per la quale idea e realizza i programmi Fuoriorario, Schegge, Blob. Nel 1994 cura per Bompiani un numero della rivista Panta dedicato al cine­ ma. Collabora al Manifesto e al Corriere della Sera. Dirige dal 1991 il Festival di Taormina. Ha con Nennella due bambine, Martina e Aura.

Stand by di Mario Schifano

Alla memoria (dello scrivere di cinema)

"Il modo più semplice per comprendere il significato delle tragedie è di partire dal paradosso.” Friedrich Hdlderlin

Un ragazzo - o un uomo - con una camicia bianca, che si avvicina dentro un de­ serto - o una prateria molto deserta e molto stinta - con una sella in mano. Ar­ riva a piedi verso di noi e ci si accorge che è un attore, Paul Newman. Una voce fuoricampo gli chiede chi è, gli fa alzare le mani.. Lui guarda in alto, si & schermo dal gran sole che non gli permette di vedere bene.. In questo momento (se non ricorro agli appunti) non ricordo più come procede nei dettagli la scena, e neanche come si conclude. Eppure è quella la prima scena che ho in mente del cinema di Penn, la prima im­ magine (del suo primo film). Qualcosa che si avvicina e colpisce fin dall’inizio, una persona isolata che si staglia nel nulla del deserto, un profilo confuso che di­ venta nitido, e poi (solo per memoria che manca) la nitidezza che toma a smar­ rirsi nella confusione e nell’incertezza che sovraintendono a un seguito di imma­ gini in se stesse implacabilmente fisse e definite (il cinema). Breve angoscia del non ricordare; se poi avessi perso anche gli appunti.. Nean­ che son sicuro più della camicia bianca di Billy/Newman, così importante per la sua “innocenza”., (forse è grigia? e poi., un giubbetto nero..?).. Probabilmente, non è ammissibile. Oggi, con poca spesa, qualsiasi medio appas­ sionato o studioso di cinema può facilmente vedere e rivedere gran parte dei film che gli interessano, magari dopo averli “carpiti” alla televisione; bastano un vi­ deoregistratore e delle cassette, dimenticata la difficoltà di accesso alle costose moviole. Prescindendo un attimo dai film introvabili o distrutti, perduti o occul­ tati o censurati, la conservazione e diffusione dei testi fìlmici (cioè dei film, sia pure nella transustanziazione elettronica, tutt’altro che “indifferente”..) è ormai democratizzata, massiccia, massiva. Forse non dovrebbe più essere possibile di­ menticare come va a finire un film, o una scena. Ma altri, e non meno impor­ tanti, sono i fatti implicati dalla nuova situazione di consumo, distribuzione e órcolazione dei film. Altre le cose da non dimenticare. Come lo statuto non scritto e ferreo della critica cinematografica, che comincia a bucherellarsi mostrando il vuoto “giuridico” di una posizione che non si capisce perché abbia “luogo”, spede nelle sue forme più “alte” e “nobili”. Tolte infatti le emanazioni più dirette (e comprensibili) dell’apparato di produ­ zione, doè l’insieme di pubblidtà-informazione che va dai fogli promozionali a Variety passando per le gazzette, la critica cinematografica ha sempre aspirato 7

paura e desiderio

alla dignità di quella letteraria, o di quella d’arte. Disperatamente accusando rispetto alle altre “critiche” - la mancanza di una sicurezza (almeno., relativa, cioè questioni filologiche a parte) dei testi cui fare riferimento. In realtà, fon­ dando proprio su tale insicurezza la giustificazione della propria esistenza. Nel caos apparente della produzione, stabilire i testi e qualche differenza tra di essi, fissare giudizi che comunichino la distribuzione in essi dei valori (d’uso, di scam­ bio, d’acquisto). Non è un caso né una vergogna che periodicamente riemerga (e non solo per la critica militante sui quotidiani e periodici) la questione delle stel­ lette e delle “palline” nei giudizi: non è spreco assurdo di parole, ma quasi il pro­ blema centrale della critica.. La trivialità e volgarità della critica cinematografica deriva in gran parte dallo sforzo che fa per definire e nobilitare la qualità della propria mediazione, per raggiungere un’improbabile aristocraticità. Mentre la critica letteraria si esercita sui testi ad essa omogenei e in genere facilmente di­ sponibili (nel tempo e nello spazio) ma magari leggibili con qualche difficoltà o incertezza (oh, l’ambiguità del linguaggio e dei testi..), quella cinematografica si trova a mediare verso testi in sé fruibili immediatamente da un vasto pubblico ma non sempre raggiungibili nello spazio e nel tempo. La raffinatezza della critica letteraria può inventare o scoprire l’ambiguità anche nel testo più trasparente; il critico cinematografico, angustiato da parecchie incertezze (di carattere pretta­ mente storiografico e conoscitivo: quante cose ci sono in un film., quanti ag­ ganci.. quante persone ci lavorano., da dove vengono., dove vanno), è portato più facilmente a distruggere l’ambiguità (che in realtà è propria di ogni imma­ gine cinematografica) cercando di dissolvere le incertezze stesse. Il tentativo mimetico nei confronti di altre critiche (e magari nei confronti della loro normatività) approda quindi a un grottesco, quando si pensa all’impossibi­ lità materiale di “vedere tutti i film”, o comunque di studiarli. E i complessi del critico cinematografico non sono senza motivo. Egli, in linea di massima, ha una scarsa conoscenza dei testi cui si riferisce; e non si intende qui paragonare nu­ meri e percentuali, o dire che è più diffìcile affermare fai vu tous les films che fai lu tous les livres\ solo ricordare che, del testo fìlmico, avrà sempre una memoria più che una conoscenza. Oppure, volendo “imparare” a fondo un testo, dovrà vederlo e rivederlo (e quindi sì impiegare parecchio tempo e limitare il numero degli oggetti, dei testi..), o addirittura sezionarlo alla moviola alterandone il tempo di visione e dilatando ancor più il dispendio temporale. Senza contare che (dò che più conta) il film fermato o rallentato in moviola svela i suoi meccanismi ma muore nel suo “tempo di film”, muore come oggetto reale di lettura e di stu­ dio, resta un corpo freddo da tavolo anatomico, reperto solo allucinatoriamente “scientifico”, in realtà puramente immaginario e inesistente. Anche indizi più leggeri, minori, testimoniano delle piccole e materiali impossibilità “critiche” sul dnema: come l’inquietante e sconcertante presenza (ricordava Raymond Bellour) nelle sale oscure di strani individui (spesso giovani; comunque, i critid più “cosdenziosi”) che stilano appunti al buio, aiutandosi con penne magicamente luminose, fiammiferi, accendini, o attendendo ima scena a “luce piena” per due righe fulminee. Pena la perdita dell’oggetto e, forse, di un senso, la critica del ci­ nema si eserdta programmaticamente nell’ombra strappando improbabili lud. 8

Alla memoria (dello scrivere di cinema)

Eroica» parrebbe, insieme illuminista per definizione e romantica. Patetica quasi, nel tentativo di sfuggire alla “velocità del tempo”, cioè alla mimesi della tempo­ ralità che il cinema (momie du changement secondo Bazin) compie in ogni film; cioè a quello che alla severità adomiana dei Mìnima moralìa pareva il peccato originale del cinema, il “non dar respiro”, il non concedere spazio alla “rifles­ sione critica” dello spettatore aggredendolo sensorialmente (ma poi lo stesso Adorno dedica metà della sua ricerca e della sua “critica” alla musica, non più criticabile e non meno inafferrabile e aggressiva del cinema; e una qualsiasi pas­ seggiata o una corsa in macchina o un amplesso amoroso hanno gli stessi carat­ teri del “film secondo Adorno”). In realtà, solo di recente e in rarissimi casi la critica del cinema e dei film ha ac­ cettato l’umiltà baziniana rendendosi conto del nodo di problemi che anche solo l’individuazione di un testo chiamato film comporta. Più generalmente, le aporie affascinanti o disperanti si ricompongono presto in una pratica quotidiana, ma­ gari in una professione che spesso si permette di irridere l’acriticità della malattia cinefilitica, cioè della passione che cerca di cristallizzare gli oggetti perduti o che sa benissimo di averli “persi” per sempre ma cerca ogni momento di abbracciarli da fantasma a fantasma. E la critica come istituzione si costituisce trionfalmente sfruttando il corpo presunto (il testo), Soggetto supposto. O meglio, più banal­ mente, fino a oggi era la critica a autorizzarsi da sola, esercitandosi, a prescindere dai testi, in quanto solo essa, in fondo, era garante dei testi stessi. Inutilmente il Godard che scriveva sui Cahiers du Cinéma lamentava che potesse recensire film su quotidiani e periodici un “critico” che magari non aveva visto un film di Dre­ yer, o di Murnau, Lang, Ophuls.. La tracotanza di casta e le miserie politico-eco­ nomiche avevano e hanno il conforto di alcune specificità cinematografiche. Avere dubbi su questo punto vuol dire prestar fede alla parte più meschina e sor­ passata dell’armamentario “di classe” della critica, la sacralità del suo supposto “sapere”, dal quale consegue un immaginario “potere”. Proprio la facilità e diffu­ sione dell’ignoranza (ignobile o sana che sia) nel campo della critica cinematogra­ fica, ancor oggi, dovrebbe far riflettere sulla “qualità” della cosiddetta “cultura” cinematografica, anche e proprio nelle sue vette “colte”. Nella forma aristocra­ tica del privilegio, o in quella di massa (lievemente più democratica) in vigore oggi, il “critico” come l’appassionato di cinema è colui che può permettersi eco­ nomicamente (perché lo pagano - pagano il suo servizio, a collettività o privati o perché si paga da solo) di dedicare gran parte del suo tempo alla visione dei film e a diversi tipi di lavoro e attività intorno a essi. Il suo affannoso inseguire le no­ vità attraverso i festival, e i classici più o meno rari nelle cineteche, lo classificava poi, a seconda dei tipi e degli impegni, tra gli intellettuali, i gazzettieri, i cinefili, gli “sfaccendati”, ma soprattutto lo definiva tautologicamente come persona che poteva o (per autentica passione) voleva permetterselo. Vita da privilegiati, o bo­ hème di stenti, quel dispendio di tempo e d’altro risultava comunque in linea di massima un investimento sul piano della possibilità di definirsi “critico”. H solo “poter vedere” agevolmente le anteprime, le ghiottonerie, le rarità, le retrospet­ tive, si costituiva in un “sapere” che a sua volta reclamava ulteriore potere (e pos­ sibilità di lavoro). Il solo superare le disfunzioni della distribuzione dei testi (di

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gran lunga più macchinosa nel caso dei film), o meglio l’aderire al mercato per colmarne i buchi e suturare le censure, autorizzava al giudizio critico. La polve* rizzazione e la diffusione attuale del “discorso critico” sul cinema corrispondono in effetti abbastanza precisamente alla relativa dimensione di massa (almeno in Europa) che la partecipazione ai momenti di distribuzione privilegiata dei testi ha assunto negli ultimi quindici anni, come anche il miglioramento del livello di informazione cinematografica media (basta citare le collane di libri spedaliz­ zate). Il terrorismo di chi “può andare ai festival” non è più suffidente a conser­ vare la casta; e la diffusione dei dati, delle informazioni, della pubblicistica stessa, provocano uri corto circuito, per cui oggi il “critico” medio ha bisogno dello stesso “sussidio medio” che si offre al pubblico, in aggiunta alla possibilità ancora mantenuta di accedere più facilmente alle fonti intemazionali di informa­ zioni. L’ignoranza critica (nel senso del “non aver visto quel film”) non è più così frequente, il ricambio generazionale e le nuove situazioni l’hanno resa quasi in­ tollerabile, eliminando gli scompensi un tempo legati alla diversità delle forma­ zioni culturali e dei destini “individuali”. Insomma, è presumibilmente meno normale che chi scrive di cinema su un giornale (altrove) non abbia visto i film di Fritz Lang e gli altri “film che contano”. Lo “specifico” del suo lavoro e del suo “potere” è però contemporaneamente sempre meno legato a quel fatto arcaico di vedere o meno i film; o almeno è sicuramente slegato dalle questioni testuali, mentre si attacca ai dati dell’apparato produttivo, agli elementi industrialculturali del prodotto, al divismo e agli altri fatti pre e post-filmici, o alla prima delle grandi figure retoriche che hanno negli ultimi venticinque anni mutato il pano­ rama critico, Vautore. Il testo, più che mai, è così per la critica un feticcio. Soprattutto oggi che non è chiamata a garantirlo e a testimoniarlo, perché il testo (amputato o confezionato in mille modi) è ormai offerto - tra televisioni e cineclub - alla visione paritetica di molti; divengono simili per molti le condizioni della visione e i mezzi stessi di lettura. La critica non ha più oggetti riservati, rarità recintate, obiettivi selezio­ nati. Meno economicamente e aristocraticamente determinata, la casta svela la sua infondatezza, e astrae sempre più e ancor più dalla conoscenza dei testi (ieri non verificabile da un gusto e da una pratica di massa, e quindi presunta e insindaca­ bile; oggi scontata e di massa, in certa misura, quindi indifferente, non specifica, già data e garantita in parte dal pubblico stesso anzi dai pubblici), magari a fa­ vore di dubbie concretezze categoriali (l’autore, l’industria culturale, le case di produzione). Ma sì, monsieur Godard, non stupiamoci, in fondo, se chi non ha visto L'ultima risata può essere chiamato ugualmente “critico cinematografico.” Anche oggi, in un altro modo, può e forse deve essere possibile. Ipotizzando per assurdo una circolazione equanime e ideale dei film, un utopico mercato perfetto che offra a tutti le stesse merci e le stesse possibilità, su cosa si fonderebbe l’autorità e la possibilità dell’esercizio e del giudizio critico? Quali strumenti e quale “lavoro” autorizzerebbero una “parola critica”? Di nuovo, le aporie cui si faceva riferimento sopra: i limiti di tempo, la moviola, gli appunti, lo studio.. Di nuovo, se vogliamo, la questione del testo. Ma appunto, oggi, il te­ sto è lì, inafferrabile e presente per tutti allo stesso modo; la televisione per 10

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prima si è proposta oggettivamente come un tavolo universale di montaggio, in cui il film in pezzi, l’opera frammentata, non è più il triste oggetto privilegiato dello studioso, ma l’oggetto di desiderio e il corpo del piacere di qualsiasi spetta­ tore. Tutti (estendendo iperbolicamente) possono registrarsi qualsiasi testo, pos­ sederlo, farlo a pezzi, bloccarlo, scorrerlo e sfogliarlo come un libro; tutti pos­ sono distruggerlo, giocarci, dissolverne gioiosamente o tragicamente le ambi­ guità, come faceva “la critica”. La critica infatti sopravvive come corporazione, istituzione, luogo rituale di potere, gruppo di persone o insieme di pratiche, ma anche non mantiene più alcuno spazio categoriale, disperdendosi in vari tipi di operazioni e organizzazioni culturali o perpetuandosi come vischioso residuo economico. La tradizione di un film, del tutto eterogenea (nei materiali) rispetto a esso, è as­ sai più smaccatamente “a memoria” e “infedele” di quella di un avvenimento sto­ rico o di una situazione storica. Perché l’avvenimento assume come sostanziale il suo essere nel tempo quindi transeunte e irriproducibile. Mentre il testo di un film riproduce il tempo, e in certa misura se ne appropria e in fondo rimane sem­ pre un testo, costituito e più o meno esistente, pur essendo a sua volta parte dell’irriproducibilità del trascorrere storico. Riflettere su questa contraddizione e agire tra i due margini della scissione è pro­ babilmente il sogno e il compito della critica cinematografica, ma anche - di fatto - il suo luogo obbligato, e a non accorgersene si rischia di veder fantasmi luminosi mentre si sta ciechi in una grotta. Da poco tempo la critica (cinemato­ grafica) ha cominciato a lavorare su questo, a far luce sul suo luogo e su quello del testo, a produrre un altro testo sapendo che esiste un testo, supporto mate­ riale più o meno costituito e preciso, ma che i bordi di esso, i contorni sempre in movimento e incerti eppure decisivi per definirne la forma, sono affidati al rosic­ chio del suo lavoro da castoro, alla memoria delle sue letture e visioni, alla let­ tura (o visione) delle sue memorie. Il che sembra uno statuto, in realtà è solo il “decidere di scrivere”, romanzi saggi o altro, senza giustificazioni, portandosene la colpa ma assumendo rischi per i propri denti. Per quanto riguarda il cinema, la figura ancora oggi più usata per su­ perare l’implosione nella memoria e per ricondurre i dati della lettura e della vi­ sione ad alcune formalizzazioni unitarie, è l'autore. Dopo la fase in cui la critica ha genericamente dissodato il campo, il globo un po’ opaco o puramente mitolo­ gico offerto dalla produzione, istituendo differenze, scoprendo reclamando o ac­ cettando dei nomi, dei corpi, dei referenti dietro e prima del film (parallelamente al noto processo di “nominalizzazione” della merce, cominciarono ad ap­ parire nomi nei titoli di testa e sui giornali, David Wark Griffith diventò regista e il suo nome apparve dietro il marchio della casa di produzione, la ragazza della Biograph si trasformò in Mary Pickford}, il corpo del regista si è sempre più in­ grandito, è divenuto in alcuni casi (per la critica) la struttura capace di colmare i buchi (anche di “memoria”) di un gruppo di film, di dar loro un senso. La sicu­ rezza di un corpo, che si rischiava di perdere correndo dietro a un testo sempre un po’ oggetto perduto per sua natura, veniva e viene acquisita fantasmatizzando un corpo reale fuori dal film. Le polemiche ormai nutrite negli ultimi anni verso 11

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le specifiche “teorie” autoristiche o verso le degenerazioni di esse non sfuggono a questo bisogno del corpo, e infatti non a caso la teoria corrente più avanzata cerca “corpi” più adeguati e realistici, rinvenendoli per esempio nella macchina hollywoodiana. Ora, anche rispetto a questo, sembrerebbe che i nuovi modi di circolazione e ri­ produzione dei testi, dall’ingoiamento nel mosaico o palinsesto televisivo alle possibilità di “lettura” personale col videotape, debbano sfondare la questione del corpo extra-filmico, avendo portato ben vicino il corpo filmico testuale a ogni fruitore. Il dominio dell’apparenza televisivo-spettacolare, dove la presenza o la realtà dei corpi si fa sempre più problematica e inessenziale di fronte alla mi­ riade delle informazioni e degli oggetti proposti, sembra assoluto. Ma proprio in questo nuovo universo testuale, dove i testi appaiono (mercato permettendo) più disponibili ed esposti, meno duratici e forse più “passivi”, si dislocano in modo nuovo rapporti tra soggetti e oggetti. Soggetti. Oggetti. “Soggettini” e “oggettini” forse, di scarsa intensità e rilevanza rispetto al loro enunciato categoriale (la dia­ lettica soggetto/oggetto evoca come minimo il fantasma di Hegel), ma interpreti di nuovi giochi (giochini) e portatori di nuove (piccole) differenze. Per esempio, è come minimo “curioso” il fatto che i testi filmici più recenti e imponenti, raffi­ natissimi sul piano industriale della produzione, macchine perfette nel dispiega­ mento dei mezzi, risultino poi film “incerti”, film i cui margini vengono già pro­ dotti slabbrati e mutevoli, come testi mai chiusi e non del tutto definiti, aperti a successivi interventi e manipolazioni. Proprio sul piano dove è massimo il controllo produttivo e il dispiegamento dei capitali, si avverte una libertà “nuova” nei confronti dei testi, un accettare che essi vengano continuamente rielaborati, un ammetterne memorie sempre di­ verse. H corrispettivo basso di tale pratica, in tutti gli altri film “medi” (salvo bat­ taglie - di avanguardia e retroguardia - ancora una volta “d’autore”), è il pro­ gressivo perdere di rilievo dei nessi narrativi elementari, delle forme di collega­ mento tra un piano e un altro della narrazione e del discorso. Al frequente e in­ gannevole splendore fotografico corrisponde un degradarsi continuo proprio delle cerniere narrative che costituivano fino a un decennio fa i bordi precisi dei film. Anche i migliori film di oggi (i più accurati, si intende) si mostrano sovente trasandati sotto questo punto di vista; non c’è dubbio che un medio prodotto hollywoodiano degli anni quaranta o cinquanta, smontato alla moviola, svela maggior sapienza compositiva dei film del perfezionista e cinémane Spielberg. Il film, nel momento in cui diventa più facile e abituale (tra sforzi universitari e ini­ ziative individuali) custodirne i testi e si fanno appelli per conservarne i colori e le piccole possibili aure, paradossalmente si spoglia da solo, si “teatralizza” (non solo per la folla massenziente) come un happening, si propone come testo da ri­ cordare anche a pezzi, per immagini “forti”, per singoli exploit e “cose marabiliose”. Non si intende qui esaltare questa nuova situazione, che è senza dubbio inserita in un processo di ulteriore individualizzazione e personalizzazione del “consumo” e insieme della merce, per cui a vendersi sarà il rapporto stesso tra consumatore e merce (si arriverà alle “scatole di montaggio”, spezzoni di film da montare a piacimento?..), e l’interscambio stesso delle merci, la loro possibilità

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Alla memoria (dello scrivere di cinema)

combinatoria. Solo, far notare come il discorso della “memoria’’ rimanga in qual­ che modo centro complicato e dialettizzato a oltranza, anche nella nuova collo­ cazione dei testi e degli oggetti. Qui, occorre far planare rapidamente la digressione di discorso all’istanza sogget­ tiva di chi scrive. Il piccolo teatrino teorico-descrittivo, magari caricaturale per la brevità, deve riproporre a questo punto per ragioni di copione la figura dell’au­ tore. I nomi, del resto, impazzano ancora. Un regista giovane e geniale, sicura­ mente inventivo e capace di comprendere il funzionamento della macchina ci­ nema, come Lucas, decide di non esser più tanto “regista” in senso classico, fa gi­ rare i nuovi pezzi della sua “creatura” (la saga delle guerre stellari) ad altri regi­ sti. Resu un nome, il nome di un autore, del mutamento generale della produ­ zione del testo/spetucolo cinematografico. Anche se il rinvio a Lucas come corpo del soggetto che produce un nuovo cinema sarebbe ridicolo e insignificante. Lucas non è una struttura soggettiva che aiuti nel dar senso a un’opera; lo è non più di un Corman, per esempio, il produttore geniale che i cascami di una “teoria degli autori” interiorizzau e gazzettizzata si ostinano a vedere dietro le decine di giovani registi americani che hanno debuttato nella sua banda con produzioni a bassissimo costo non certo apprendendone stili o tematiche ma semplicemente sfruttando la possibilità di girare e l’obbligo di farlo in economia.. (1979: prima parte di un libro scritto e non pubblicato - about Arthur Penn - mai più riletto né corretto.) [Filmcritica, 354,1985]

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Brani di un grande film

Si sa, e si capisce, di essere di fronte a uno scempio operato dalla produzione: ta­ gli (per venti minuti, pare), montaggio arbitrario.. Basta pensare che il film do­ veva aprirsi con il funerale di Pat Garrett.. È quindi difficile intavolare un di­ scorso critico che non può che essere ambiguo (e frammentario, spezzato come l’oggetto) da parte di chi si trova, nel mezzo di una discreta decadenza di Peckin­ pah (attestata da Cane di paglia e da Getaway, ma non dal perfetto e isolato Ju­ nior Bonner, L'ultimo buscadero), ad incontrare brani di un film bellissimo. Un film che era senza paura ed è stato squartato, e che ciononostante si fa ricordare per se stesso, non solo per le musiche di Dylan. Peckinpah anzi non ha paura di questo nome, di questa musica, l’ha voluta e l’accetta, l’incorpora nel film. Un esempio: il meraviglioso pezzo di Dylan Knocking on Heaven's Door è parte di una breve scena di grande suggestione (forse troppo accentuata dalla fotografia) col vecchio sceriffo (Slim Pickens) che va a morire sul fiume "bussando alla porta del cielo”.. La commozione fino ad allora rattenuta ha libero sfogo, senza paura, con l’audacia di un nuovo melodramma. Anche se in fondo per il resto del film la musica è più normalmente inserita per accentuare il solito aspetto di ballata peckinpahiana (ma del resto ancora non sappiamo cosa sia rimasto delle inten­ zioni del regista) o addirittura come banale accompagnamento alle lunghe caval­ cate. E così come trovare la chiave per un film che voleva essere splendido e forse perfetto, quando abbiamo solo una struttura alterata che ci impone, acriti­ camente, di abbandonarci alla forza e alla suggestione di singole sequenze? Di cavalcare insomma lungo il film? Pure si scorgono elementi importanti: come il gesto violento la caduta e la morte raramente ripresi in ralenti (se mai in ralenti limitato, rispetto ai vezzi dei precedenti Peckinpah), e quindi restituiti al resto del film, privilegiati - al massimo - da qualche accordo di chitarra. In realtà, tutto il film è come al rallentatore, la violenza vi corre liquida dall’inizio alla fine, e tutto dovrebbe essere essenziale, ogni scena e ogni particolare giustificati. Ma ciò capita solo quando compare in campo il Kid, perfettamente reso da Kri­ stofferson e da Peckinpah come una forza naturale apparentemente inconscia (anzi come vera "parte di natura”) che si giustifica da sé, conducendo una vita as­ solutamente libera (da Dylan: "Billy ti vogliono uccidere perché non gli piace che tu sia così libero”) e priva di complessi, istintivamente giusto e persino armo­ niosamente inserito (?) in una comunità che lo accetta e gli fa da madre-padre. 14

Brani di un grande film

Per questo quindi le parti dedicate al Kid sembrano aver sofferto meno, necessa­ rie come sono tutte e nessuna (dalla caccia al tacchino alla scena d'amore prima della morte), naturali e gratuite. Ovvio però che non sia così con Pat Garrett (co­ munque uno straordinario Coburn, che riesce a essere ora Lee Marvin ora Henry Fonda), il vero centro problematico del film (dato che Billy problemi non ne ha); in un interessante rovesciamento di quella che era stata la posizione di Penn in Left Handed Gun (Billy Kid-Furia selvaggia), dove un significativo Paul Newman (privato da un omicidio della prima figura di padre da lui incontrata) si portava a spasso un bel po' di complessi e frustrazioni - motivato solo da questo nelle sue imprese - facendosi infine uccidere da Pat Garrett, secondo e mai accettato pa­ dre putativo. Qui, l’unico segno simile che rintracciamo è quello imposto dall’i­ conografia tradizionale: vestito di nero-scuro Garrett, di bianco-chiaro, o nudo, il Kid. Ma il tutto a servizio di impostazioni ben diverse, essendo in Penn stereo­ tipata al massimo la prima apparizione della figura nera simbolo di fatalità1, e os­ sessivo il bianco di Billy , il bianco della follia e dei sogni americani: in Peckin­ pah invece il nero di Garrett è come le contraddizioni dalle quali egli tenta di uscire eliminando il bianco-innocenza-natura di Billy. È Pat infatti l’insicuro, l'incerto fino alla fine, quello che beve di più, quello che va a letto con tre donne, quello che persa la libertà vuol farla perdere all’altro. Si sente pervertire internamente (tanto da non rispettare più l’amicizia), incattivito nell’incapacità di ribellarsi a una decadenza che è sua e di tutto un mondo (“Le cose sono cam­ biate, ma io no", dice Billy. “Questo paese sta invecchiando e io voglio invec­ chiare con lui. Ma il Kid non accetterà mai di invecchiare,” dice Garrett): con­ scio di essere al soldo dei proprietari terrieri per un tornaconto suo che è in fondo proprio “economico”, giustificare cioè di fronte al suo passato una nuova vita possibilmente calma e agiata, allontanando o uccidendo il giovane alter ego. Billy quindi come la parte incosciente di G.? Perché è lui ossessionato dal gio­ vane amico noncurante e non viceversa, la distruzione-rimozione di Billy (Budd?!) che persegue è in realtà un’autodistruzione (fin troppo chiaro: Billy è inquadrato integro anche nella morte, sereno dopo l’amore, mentre per Garrett c'è lo specchio spezzato dalla pallottola), cercata attraverso i luoghi che videro prima l'amicizia. Pat ha coscienza, cattiva coscienza, per questo è più triste e cupo ma anche più forte dell'incoscienza di Billy. Vede, vediamo che un’epoca finisce, i grossi proprietarii dominano e la terra è sempre più cintata (solo un lampeggiare in noi di richiami splendidi da Man Without a Star, L'uomo senza paura di Vidor): ma proprio quest’aspetto è molto in sottordine nel film (i tagli?) e perciò appunto rimane come un inserto abbozzato e pamphlettistico (vedi la riunione col governatore Robards, che in realtà serve solo a far vedere come di fronte ai “superiori” Garrett non si adegui completamente, ritrovando un attimo la fierezza di un tempo). E non possiamo non preferire la vita quasi animale di Billy, la sua allegra-disperata banda di hippies che vivacchiano nei pressi del por­ ticato e della fontana di Fort Summer. Vita ai margini, superata, “messicana” e non USA, ma i ragazzini alla fine tirano i sassi allo sceriffo vincitore.. Ha vinto ma a che serve, in un crepuscolo totale (come Ryan alla fine nel Mucchio selvaggio)? Questo ci dicono Peddnpah malinconico sempre, e Dylan testimone interno ed 15

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esterno (il suo personaggio Alias è il più moderno del film, molto più di quanto non lo fosse l'analogo personaggio del giornalista in Penn; e quindi il più ambi­ guo e in fondo il meno inserito, segno chiaro della contraddizione tra elegia, cro­ naca, parabola), e tutte le sequenze riuscite, come l'inizio col tiro al piccione (ri­ cordate il Sergente York?), la cattura di Billy alla casa, la caccia al tacchino, l'ap­ parizione a Garrett di una barca sul fiume, la morte dello sceriffo Baker e tutta la sequenza con Jack Elam, o l’incanto dell'ultima sera con la calma del Kid fuori a giocare coi bambini e poi l’amore e la morte. Con un montaggio saltabeccante però, ora perfetto ora d’effetto, in un susseguirsi sfilacciato di scene; il buono ci dà così solo il rimpianto di ciò che poteva essere, o breve felicità, pensando poi ai sogni perduti. - Sparso qua e là un cast eccezionale in blocco. - Una plaisanterie: Kristofferson, cantautore californiano, e Dylan menestrello di tutta l’Ame­ rica più che newyorkese, in un dialogo ammiccante confessano di non essere mai stati in California, loro sogno inappagato. - Per chiudere: in una fotografia di­ scontinua (molto bella ma troppo inglese, “non è Ballard" dice il Giusti), Pat Garrett si riincontra una prima volta con Billy the Kid e questi non lo uccide (“è un amico", dice), si incontra una seconda volta e lo arresta dopo avergli ucciso due compagni - intanto Dylan, obbligato da James Coburn, in una lercia canteen elenca ad alta voce il contenuto dello scatolame in vendita - marijuana dice l’hippy Kris Kristofferson fuggendo dalla prigione prima della sua impiccagione - Pat Garrett lo incontra una terza volta e lo uccide nella pausa di una notte d’a­ more con Rita Coolidge. - Poi finisce una triste notte oscillando sulla poltrona nella veranda e al mattino se ne va, con i sassi rabbiosi dei ragazzini.

[1/ Falcone Maltese, 0, 1974]

1 Se secondario, anche quest'aspetto è comunque presente in Peckinpah. Garrett che trasforma in morituri tutti gli uomini che incontra, anche e soprattutto i vecchi amid.. H vecchio sceriffo Baker si sta costruendo una barca, quando arriva Garrett nel suo paese. Una barca per cosa? Nel Nuovo Mes­ sico forse serve a poco, ma Baker dovrà partire per un lungo viaggio, il suo Caronte (Pat) è arrivato..

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Il fantasma della libertà (come meta-titolo di tutti i film di Bufiuel, dall’occhio tagliato alla testa dello struzzo; oltre il cinema)

“Liberaassociazionedidivertimentiepisodiincuiilgranderegistametteallaberlinai nostricostumi, lenostretradizioni, l’ordinecostituito.” In queste due righe tratte dalla rubrica informativa di Paese sera sta il riassunto di molte recensioni lette sui quotidiani. A questa posizione è legato il malcelato sentimento di una delusione, dopo l’acme, la supposta “perfezione” del Fascino discreto della borghesia. L’ac­ cusa sottintesa è in genere di “facilità”, “meccanicità”, “isterilimento”. Un’accusa da ribaltare, se ciò che nel Fantasma della libertà non viene del tutto apprezzato è proprio quanto si discosta e si modifica rispetto al film precedente. Dire che il film è “uno sberleffo continuo”, che “mette alla berlina”, eccetera, è una tautolo­ gia critica, come che i film di Laurei e Hardy fanno ridere. E ovvio che in questa direzione il lavoro di Bufiuel sia ormai “facile” e “meccanico”. Gli aggettivi ten­ tano in realtà di esorcizzare un film che li sfugge. Li supera. Stupido è anche sot­ tolineare l’aspetto onirico del film, dato che esso è ancora una volta un sogno per intero, nel flusso ininterrotto degli altri sogni bufiueliani. uMe gusta abandonarme a la imaginación cuando estoy en reposo. No precisamente para encontrar temas de futuras peltculas, sino para ballar asociaciones irreales”1 Nei suoi film, Bufiuel ha abolito il risveglio (dal sogno come dalla fiaba, dalla “fiction”..); non solo nel senso della continuità tra le diverse opere di qualsiasi maestro che produce conti­ nuum testuale nel quale le pause e gli intervalli significanti, o gli spazi per la ri­ flessione, non coincidono per forza con gli spazi tra i margini dei singoli testi (vedi Lang, Mann, Hawks, Ford, Renoir, Truffaut..); ma più precisamente se­ condo la via aperta da genii del comico e dell’onirico come i Fratelli Marx e Lau­ rei e Hardy. Una volta per tutte Bufiuel ha svelato e irriso il meccanismo sognorisveglio estremizzandolo ed infinitizzandolo nel Fascino discreto, in cui non era l’ennesimo “risveglio” ma ancora il gruppo sulla strada a concludere il film. Nei Marx, in Laurei e Hardy, il risveglio è addirittura del tutto rimosso, e non si af­ faccia come ipotesi neppure in presenza delle gag e situazioni più inverosimili: il sogno è prodotto in modo innocente e caotico, è solo modificato dai diversi regi­ sti: la sua identificazione con “tutto il film” (nonostante la comunque rara pre­ senza - spesso parodistica - di aspetti di “genere”, e la tenue traccia di un intrec­ cio drammatico che diviene subito - anche nei film più consapevoli e articolati come I figli del deserto - canovaccio per un incubo) è tanto immediata da fame sparire ogni dialettica che non sia puramente interna2, si fa dimenticare. Più de-

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cifrabile è sempre apparso in Bufiuel l’onirico-ironico, per la presenza continua ed abbondante di segni, per la frequente iscrizione di sogni-oggetti nel testofilm. Visti oggi, i suoi primissimi “lavori” - Un chien andalou, (1929); L'àge d'or, (1930) - mostrano fin troppo la poetica che li genera, e i materiali surrealisti di cui sono formati. La decifrabilità del loro onirismo e surrealismo li fissa ora per sempre in stereotipi da ricordare (vedi nel “cane andaluso” lo straordinario “oc­ chio tagliato” divenuto oggi citazione-feticcio). In questo caso, il sogno era così evidentemente sogno che i film potevano apparire come documenti realistici su un mondo onirico3. Conosco poco del periodo messicano. Ma Estasi per un de­ litto (1950) attesta una dialetticità tra dettaglio (e fotografia) realistico e inserto surreale. Tra i classici del muto Bufiuel aveva del resto amato più di tutti, oltre ad Entracte, Le tre luci di Lang; più che la composizione langhiana dello spazio, lo aveva impressionato la “fotografia” del film, la sua capacità di rendere miste­ rioso e surreale l’oggetto4. Le “ricchezze” dei suoi film sembrano perciò facil­ mente enumerabili, piccoli forzieri le contengono; è difficile trovare sottigliezze, alla cinefilia del Godard critico il suo cinema a ragione appare “rozzo”. Bufiuel pare insomma “fuori del cinema”, non abbastanza innamorato forse. A partire da Nazarin (1958), direi che l’onirico bufiueliano copre nuovamente tutto il testo dei suoi film, non più basati (da tempo) su materiali surrealistici. (Oggi, 1975, x l’ortodossia surrealista del “cadavere squisito” e della scrittura automatica tenta di porsi come unica struttura fondamentale del Fantasma della libertà, ma si can­ cella da sola.) Forse Bufiuel mi sembra “entrare nel cinema” davvero solo con Viridiana (1961) e L'angelo sterminatore (1962), perché distrugge di colpo la dicoto­ mia sogno-realtà, conservata nelle opere giovanili dalla forte caratterizzazione del sogno e in seguito dalla compresenza - messa in opera solo dal montaggio, N. B. - dei due elementi. La creazione di questo nuovo “terzo” territorio è in fondo ri-scoperta e ri-generazione del cinema. In realtà, la distruzione della dico­ tomia si attua mediante una riaffermazione del “sogno-sognato”, non evidenzian­ done le differenze dal reale (o dal “pensato”), ma seguendo le sue strutture auto­ nome. Bella di giorno (1966), quest’altro film meraviglioso, è già una chiave, an­ che se viene a sua volta aperto dai film posteriori. È sordo, Bufiuel; ma i bambini cattivi e sospettosi non possono credere che (come si dice) solo per sordità egli si sia sempre limitato nell’impiego della musica arrivando (“oh, curioso!”) ad climinarla del tutto negli ultimi cinque film, da Bella di giorno in poi. Comunque, il sordo ha firmato tutti i commenti sonori (rumori, brani musicali eseguiti nella fiction, eccetera). E un dato realistico, a suo modo, la scoperta di una dimen­ sione onirica tramite la soppressione di un’altra dimensione mai tacciata di mate­ rialità, quella musicale: i nostri sogni non hanno accompagnamento musicale, e questa negazione ci restituisce più intatta la loro struttura. (Secondo cerchio nel­ l’acqua.) Spostandosi dal film-sogno a “il cinema”, gli ultimi Bufiuel, come tutti i film senza musica, smascherano i falsi “ruoli” della stessa. La musica, portata in principio al cinema al tempo delle prime proiezioni (pianoforte o orchestrina in sala, o disco..) per coprire il fastidioso rumore della macchina, è poi rimasta uno dei pilastri per lo sviluppo del fenomeno cinematografico. Nonostante la sua pura accessorietà, dimostrata dai film che non ne fanno uso, essa è forse oggi il 18

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principale supporto “ideologico” dello spettacolo filmico, la “dimensione ag­ giunta” che sostituisce e costituisce la profondità. Assai più che gli schemi della narrazione o gli stereotipi descrittivi o iconici, e in maniera molto più sottile (dato che la sua proprietà deve essere quella di “scomparire”; e provate a chie­ dere a una persona anche “colta”, subito dopo la proiezione di un film, una de­ scrizione della musica che ha appena ascoltata..) la musica è il fattore unificante che appiana con la sua presenza (oggettiva)-assenza (soggettiva) tutte le contrad­ dizioni, che restaura una falsa unità e una falsa soggettività. “Essa (sotto il regno del capitalismo avanzato) si raccomanda come il mezzo privilegiato che permette di praticare l’irrazionale razionalmente” (Adorno-Eisler). Diverso il discorso per i testi fìlmici che integrano la musica (i musical, certi film-ballata moderni..) e non sono integrati da essa. Quanto sia precisa la coscienza che di tale struttura ha ora Bufiuel è mostrato in Bella di giorno dalla presentazione certo un po’ iro­ nica dell’onirismo esageratamente denotato che era anche stato il suo. Gli incubi di Catherine Deneuve, costruiti su facili e tipici codici surrealisti o psicoanalitici, si staccano dal resto del film per la loro univocità, per il loro piatto apparente “realismo” (c’è impressione di realismo di fronte a simboli così evidenti nella loro oggettivazione, mentre le sequenze apparentemente “reali” sono molto più “sognate”). La sospensione del giudizio sulla realtà-irrealtà è qui ancora in parte soggettiva, si effettua da parte della Deneuve, ma Bufiuel, nel costruire il vero sogno-film, ha già seguito strutture oniriche come il rapporto di identificazione “casualità—causalità” (vedi p. es. la sedia a rotelle che entra nell’inquadratura in una situazione normale - vicino all’ospedale - e che viene subito caricata dello sguardo di Catherine e del marito-Sorel, per ritrovarsi più tardi portatrice della paralisi dello stesso Sorel; qui la struttura si identifica col meccanismo narrativo). Anche la scatola cinese di cui non si vede il contenuto è, prima delle sue varie connotazioni (contenitore di segni-sogni erotici, cifra del cinema futuro di Bu­ fiuel, spazio che costringe il desiderio, segno vuoto del “gusto” come scelta mo­ rale), sublimazione degli incubi e dei meccanismi di frustrazione ricorrenti nei sogni, e frustrazione che solo nei sogni si accetta (lo spettatore dovrebbe subito cogliere il carattere onirico del film, messo in guardia da tali trasgressioni che non accetterebbe in altre pellicole), come le parole di Piccoli coperte dal rumore dell’aereo nel Fascino, come la spiegazione rimandata e poi negata del “ritrova­ mento” della bambina nel Fantasma, come il movimento di macchina che in Tri­ stana sposta l’obiettivo da una porta all’altra lungo il corridoio promettendo movimento feticcio che ci ridarebbe i segreti dello spazio scenico e non - e per­ mettendo la vista di zio e nipote a letto insieme, ma la porta viene chiusa. La so­ luzione geniale di “doppiare” il sogno mediante l’inserzione di sogni chiara­ mente delimitati è quella che instaura l’ambiguità fondamentale negli ultimi testi bufìueliani. Il chiaro “apparire” del sogno spinge a considerare il testo - in cui è inserito - come un “vero” racconto organico, terreno stabile, una costruzione di immagini chiarificata nelle sue implicazioni proprio dagli inserti onirici. Questo “errore” è causato anche dalla fotografia a colori abbastanza naturalista, comun­ que priva di ogni effetto o distorsione e mai tesa a valersi del chiaroscuro o dello spazio in direzione espressionista, che accomuna questi ultimi film obbligandoli 19

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ad “enunciare” chiaramente la demarcazione tra i due piani della realtà (.. cioè del sogno). Ancora nella Via lattea (1969) si mantiene il sogno-oggetto aperta­ mente “detto” (“.. sognavo che fucilavano il papa”), ma ormai il terreno falsa­ mente “reale* si è avvicinato ad esso, i materiali sono gli stessi e la tessitura ugualmente denotativa, il sogno è connotato solo dalla “dichiarazione*, è una se­ quenza come le altre. Il salto nella fantasy avviene definitivamente, confessato, lungo tutta “la via lattea*, e solo l’emergere dei materiali religiosi e filosofici e narrativi-picareschi (al solito “separati* dalla loro struttura per ordinarli in una falsa unità di discorso) ha impedito la “scoperta” della Via lattea come grande co­ mica onirica. Il ritorno della “differenza” in Tristana (1970). Sembra riproporre non tento il rapporto Sogno-sogno, ma piuttosto ritornare alla dicotomia sognorealtà. Splendidamente fotografato, narrato classicamente, Tristana, il film più “riposato” di Bufiuel, è anche il suo più “cinema”, quello che meno ha scorag­ giato esegesi sicure. L’incubo di Tristana, la testa-batacchio di Don Lope all’in­ terno della campana, è in effetti fortemente differenziato dal resto, e ricorre dopo la sua manifestazione - come riferimento chiave fino all’ultima sequenza. Indicativo è tuttavia il modo in cui nasce l’incubo; la sequenza all’interno della torre campanaria - che si conclude sulla decisiva campana - è fino a quel mo­ mento perfettamente omogenea alle altre sequenze, le piccole trasgressioni eroti­ che che mette in scena (la gamba scoperte, la giarrettiera, i toccamenti da parte dei due ragazzi) rientrano nei “discorsi” del film, pare. Il verosimile è mantenuto fino all’attimo dell’apparizione chiave, la sequenza è leggibile come manifesta­ zione del fello a Tristana, che non a caso si aggira e sale all’interno di una torre. Il risveglio dall’incubo è in realtà un “riingresso” dal sogno nel Film-Sogno, isti­ tuito nei suoi materiali e nel suo erotismo proprio dalla sequenza onirica. L’u­ nica differenza, l’unico momento in cui si avverte, è nella testa-batacchio beffar­ damente evidenziata come “segno”. Ma l’importanza strutturale dell’inserto oni­ rico, sempre delimitato per quanto affine al resto, ha lasciato di contro emergere la storia morbosa di Tristana come se fosse un racconto innocente e sicuro, il “reale” della situazione; mentre se mai - dovendo precisare - il reale, il “vero” della storia è tutto detto in quella breve sequenza. La mania etico-estetica di Tri­ stana (la sua necessità di scegliere, di placare con un giudizio sempre uguale la schizofrenia), i pallini aristocratici illuministici con Don Lope, tutti gli altri og­ getti e materiali del film, sono messi in scena all’interno di strutture oniriche, già in essi in parte prefigurate e costituite. Il confronto tra un’etica (sia pure quella morente e inconseguente di Don Lope) e un’estetica (Tristana) è spesso la base dei sogni e delle allucinazioni, solo lì anzi il confronto si può giocare libera­ mente: nella logica astratta dell’onirico i termini possono scambiarsi il posto. H ruolo ossessivo tenuto da oggetti “banali” (vedi qui le pantofole..). La facilità con cui le contraddizioni più evidenti vengono esposte senza il minimo tentativo di comporle, eppure restano accettabili (i mutamenti di Don Lope). La stessa capar­ bietà dell’odio di Tristana e la brevità del suo amore, l’amputazione così cruda­ mente mostrate, il battere della stampella lugubre nel corridoio. L’incomprensi­ bilità di Franco Nero. La presenza costante dei marmi e delle statue, della fissità di morte che sembra cogliere i borghesi nella loro socialità (quando si riuniscono 20

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al caffè, nel matrimonio, o “preti!” a casa di Don Lope a prendere il cioccolato). Figure mitiche del terrore infantile, come il cane rabbioso che però non si vede: non si vede neanche la sua uccisione, molte cose non si vedono in questo film che privilegia sempre i particolari (non certo nel senso del dettaglio fotografico) della storia, non si vede mai Tristana fare l’amore, non si vedono i momenti chiave della narrazione (perché Tristana toma a Toledo, come, perché Tristana si innamora di Nero, “quando” Don Lope diventa amico dei preti), anche se si vede la polizia caricare dimostranti, Tristana mostrarsi nuda al sordomuto, Tri­ stana baciata da Don Lope, Tristana ucciderlo. Tutto ciò è molto strano per una storia “classica e bene cesellata”, infinite sono le cose strane, e proprio questo af­ follamento di oggetti e di materiali (erotismo, arte, politica, eccetera) è tipico del sogno, la possibilità di leggere tutto come metafora - a posteriori - perché nulla appare essenziale se non le cose meno importanti, i particolari, le assenze (il non­ mostrato, la continua presenza del fuori-campo in questo film). La chiusura del film ancora una volta non è risveglio dal sogno, ma semplice interruzione di esso mediante una riproposta dell’incubo che (è la dimostrazione finale) non va da solo ma è subito seguito dalla riproposta di dò che in quel momento sarebbe il suo “fuori-campo onirico”, il ritorno in rapidissima successione di immagini già viste nel film - riguardanti l’itinerario di Tristana - che chiaramente compongono ora loro un incubo rovesdando le impressioni sommarie, e che, chiudendosi su una in­ quadratura dello zio che bada la nipote, lungi dal “concludere” rilanciano il filmsogno come struttura aperta a spirale sempre nello stesso punto e momento immo­ bile (niente storia per Bufiuel?), perché il continuum onirico è infinito. (Né dimen­ tichiamo la musica che non c’è; suonato Chopin da Catherine Deneuve in una scena straordinaria, con inquadrature che dividono il suo corpo, ora il volto sopra il pianoforte, ora l’unica gamba sotto). La via seguita è certo arbitraria oltre che appena abbozzata; né mi interessava accennare a tutte le sovradeterminazioni cul­ turali dell’opera di Bufiuel, alle tematiche già note, alle interpretazioni possibili (infinite; non per l’ambiguità dell’opera o per la “confusa ideologia” dell’uomo Bufiuel, come dicono; ma per l’ostinazione con cui Bufiuel produce una realtà oni­ rica che cancellando il rapporto immediato sogno-realtà respinge il gioco borghese o freudiano dell’interpretazione, non rendendolo impossibile, semplicemente ren­ dendolo troppo possibile, infinitizzandolo. Vedi ad es., per gli ultimi film “ci­ nema” di Bufiuel, come essi siano oggetti predestinati e preferiti per la critica strut­ turale, aggiungendo alla normale polisemicità di ogni opera quella che deriva da una struttura precisa e univoca come quella del sogno, leggibile tuttavia - per rien­ trare nella “produzione di senso” - solo come polisemia). La assunzione dell’onirico mi è parsa essere la struttura generante del cinema bufiueliano, il materiale primo, l’attività di base che lo rende possibile. Il Fascino e il Fantasma lo confermano, con il loro “sabotaggio” dei precedenti materiali. Essi mettono in scena la “sparizione dei materiali bufìueliani”, il definitivo sciogli­ mento di essi nella struttura, ormai deliberatamente in primo piano. Così Bufiuel decide di rifare, nel Fascino, L'angelo sterminatore, e ne viene fuori una precisa inchiesta sui sogni dei borghesi, il giudizio principale che vi si enuncia è questo: i sogni della borghesia sono tristi e lugubri. La presenza continua e ironica di so­ 21

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gni-dtati fa sì che a essere citata sia infine l’intera struttura onirica, per cui il film diventa meta-onirico e si pone come legittima “chiave” per i film precedenti (cfr. appunto Tristana), H rinvio del pasto-rito figura il rinvio dello scioglimento appa­ gante, della manifestazione del contenuto della scatola cinese aperta. La sostitu­ zione dei desideri è (in rapporto al film come in rapporto a tutta l’opera; dall’erotico-sessuale di Bella di giorno e in parte di Tristana, all’eròtico - .. culinario del Fa­ scino) letteralmente la sostituzione di un sogno con un altro, tralasciando (io) di nuovo l’affiorare dei temi consueti, ormai solo materiali di cui si sostanzia il so­ gnare. La struttura in piena luce non ha più l’ambiguità narrativa della struttura abbastanza simile (ma non confessa) di Bella di giorno; è anzi divenuta il principio di intelligibilità del film, perché nel Fascino anche il “racconto” è ormai chiara­ mente sabotato. L’occultamento del “soggetto reale” (l’autore-Bufiuel; noi stessi in quanto investiti di soggettività dalla proiezione) si compiva nei film precedenti per la presenza evidente di soggetti plausibili e definiti, Séverine-Belle de jour, Tri­ stana, i due pellegrini della Via lattea: veri protagonisti della narrazione, i quali, apparendo come “produttori di sogni”, contribuivano anche ad occultare (si è vi­ sto) il Sogno che li metteva in scena. Nel Fascino si può ugualmente rintracciare un “sognatore principale” (Fernando Rey), ma i sogni sono anche di tutti gli altri per­ sonaggi, la narrazione è frantumata non perché segue tutti questi personaggi (cfr. invece l’onnipresenza di Belle de jour, salvo che in una sequenza o in brevi inqua­ drature) ma perché è prodotta da tutti loro. I titoli stessi segnano il passaggio; dai nomi rinvianti a un preciso soggetto-oggetto (Nazarin, Simon del deserto, Viridiana, Tristana, Bella di giorno), all’astratta definizione di una struttura: non per caso il ri­ chiamo, 1’antidpo, è neWAngelo sterminatore dove il titolo designa un’assenza e una “Parola”, non un oggetto o una situazione^. E infine, nel Fantasma il soggetto e la narrazione scompaiono, come ogni forma di risveglio; sembra sparire anche il sogno, mai oggettivato in citazioni, inesi­ stente come “materiale tra gli altri.” Quest’ultimo denudamento ha finalmente fatto intravedere “il comico” (già presente peraltro in tutto l’ultimo Bufiuel e do­ minante nella Via lattea e nel Fascino), quasi fosse l’unico e “inferiore” materiale rimasto, portato dalla scomparsa degli altri. Anche il ritorno dell’elemento sa­ ettano (Michel Lonsdale-Belmance-Dolmancé che si fa frustare sotto gli occhi dei preti è un personaggio da Philosophic dans le boudoir) pare occasionale, non più legato a Sade-Piccoli. Ma neanche il comico può definire e comprendere il film; non è una Via lattea resa più fruibile comicamente dall’evidenza dei suoi mecca­ nismi appositi, dall’insistenza nel mettere in scena i più tipici catalizzatori della risata (il rovesciamento delle situazioni normali, l’assurdo accolto e presentato come normale, eccetera). Il comico è ciò che cola nella struttura vuota (film), e che poi ne cola via, perché essa è sempre aperta come un nastro di Moebius. A ben vedere, il comico stesso è sabotato, o almeno è sabotato il “personaggio” co­ mico. Agli attori è impedito di fare i comici, si limitano a sfilare attraverso le si­ tuazioni; e nessuno di essi giunge ad essere personaggio, non ne ha mai il tempo. Adriana Asti che suona il piano nuda è inquadrate come Tristana-Catherine De­ neuve che lo suonava vestita e senza una gamba. Il racconto in Tristana progre­ diva per quella “gamba mancante”, l’amputazione inquadrate era il cinema che 22

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accoglieva il segno e le sue significazioni; le due gambe nude della sorella del commissario sono la “mancanza del segno”, sono la nudità di una struttura che (in questo caso) di norma possiede due gambe, sono il corpo nudo di una donna accostato ad un pianoforte (Bufiuel è tornato puro surrealista?). Anche i frati provengono da altri film, ormai giocano solo a carte ed evitano di discutere di teologia. Potrebbero farlo, come tutto il film “potrebbe”, potrebbe essere “altro” o altro ancora. Ora solo di sfuggita è il caso di rendersi conto che nuovamente, nel Fantasma, Bufiuel ha evitato qualsiasi elemento che non fosse onirico; aboliti i soggetti (tanto che è difficile reperirli anche all’interno delle singole sezioni e sequenze, essendo i falsi soggetti solo delle cerniere, subito disposti a volte an* che nell’ambito delle “loro” sequenze, che quindi chiaramente non è “loro”: cfr. la sequenza in cui soggetto è prima la bambinaia, poi il “corruttore”, poi i barn* bini, poi la coppia borghese Brialy-Vitti, poi il marito, eccetera, oppure quella della locanda hoffmanniana), unico narratore-sognatore resta l’autore (anche se è indicativo che molti confessino la difficoltà di definirlo, venute a mancare le pos­ sibilità di identificazione con uno o più soggetti privilegiati dalla narrazione), benché allontanato e “non iscritto” nell’opera. L’oggettività del “sognato” è quella che equipara frati animali poliziotti assassini carristi a caccia di volpi e bambine presenti-assenti, in un’unica necessità, in una costruzione dove tutto ciò che appare è ancora una volta “importante”, sia una vecchia dal corpo giovane e splendido, sia una volpe nascosta in un albergo per sfuggire ai carristi. U cadavre exquis del surrealismo viene riscritto “automaticamente”, fuori da ogni linearità. La banalità che una lettura banalizzante sembra leggere nella semplice sostitu­ zione del “rito della nutrizione” dei film precedenti con un “rito della defeca­ zione” sullo stesso tavolo-ara, si rovescia nella dimostrazione di un’incapacità (“educata” certo e non casuale) di vedere le “differenze”, di vedere le strutture, di vedere le differenze tra strutture, - in questo caso quindi - di vedere il film. Automatico è stato il fraintendimento da parte di chi nelle opere precedenti ve­ deva i sogni e non “il Sogno”: svaniti i sogni, non si vede più nulla, se non ap­ punto una serie di giochetti beffardi e facili sui tic dell’insicurezza borghese. Il carattere prima di tutto onirico dell’astrazione per cui nutrizione—defecazione è sfuggito, come è sfuggito che erano anche i sogni ad essere mangiati o defecati. La naturalezza continua a non insospettire nessuno. Già Poe.. Qui può radicarsi l’ambiguità di Bufiuel. - La naturalezza che permette al suo Sogno-Film di im­ porsi come “reale” non è sostanzialmente diversa da quella dei Film-Sogno dei Marx, per esempio, ed è ciò che permette al Fantasma della libertà di essere un “oggetto per intellettuali” che riesce però a divertire un po’ chiunque. Ma non era il caso di fare la storia del sognare bufiueliano per arrivare ai Marx, dato che Bufiuel sembra non accontentarsi (!) di dare una realtà ai fantasmi dello schermo facendoli agire muovere e parlare come in un sogno (cioè riconoscendoli come fantasmi), e che nel Fantasma si sforza di uscire dal cerchio entro cui può fare duecento film uguali bellissimi (A night in Tristana, A night on the Milky Way, A night in Vindiana,.: ma in genere Bufiuel non usa “la notte” che è invece la spia onirica di quasi tutti i titoli marxiani6), e che questo sforzo può compiersi solo rigorosamente all’interno del cerchio. Un primo risultato lo ottiene con i 23

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passaggi tra sezione e sezione; il meccanismo narrativo di passaggio è invisibile» non c'è: il palliativo dei passaggi-cerniera è una falsa pista, perché vi sono dei ri­ torni indietro e persino un passaggio “vuoto”, dichiarato come pura successione temporale causale: “.. mesi dopo la condanna dell’assassino-poeta, la bambina fu ritrovata.” La semplice giustapposizione, procedimento raro al cinema (che può servirsi di dissolvenze su personaggi o dettagli-chiave, di sovrimpressioni, del montaggio alternato, eccetera), esclude la presenza del meccanismo, non gli la­ scia spazio-tempo. Pure, per questa assenza totale, il meccanismo viene immedia­ tamente recepito come presente, è l’unico elemento strutturale del film che (con­ trapponendosi solo “in assenza" alla naturalezza del detto) colpisce lo spettatore. Così un'assenza diviene una presenza e l'abusata parola di Brecht (“Perché il pubblico non sia soprattutto invitato a immergersi nella favola o nel racconto come in un fiume per lasciarsi portare in qua e in là secondo la corrente, bisogna che gli avvenimenti si leghino gli uni agli altri in modo tale che questi legami re­ stino facilmente visibili") è realizzata-superata, grazie a questo legame che è fuori dello spettacolo perché., non esiste, molto più che nelle miriadi di spettacoli (al teatro o al cinema) in cui il meccanismo è “mostrato”, in genere col risultato di divenire esso stesso spettacolo (.. ricupero riformista della “parola"..). Del resto tutto il film è defecato, è una materia resa indifferenziata da un’operazione che l’ha trasformata da dbo-borghese (Tristana) in escremento. Difficile-impossibile trovare in questa “differenza" i centri logico-onirici del film, se non alle sue estremità (inizio-fine), cioè dove finisce o nasce il linguaggio. Cercare il centro di quest’opera totalmente decentrata e frantumata equivale a cercare la bambina presente-assente, potremmo fingere-convincerci in qualsiasi momento di averla trovata. La chiave è insomma contemporaneamente nella “stanchezza della sim­ metria" di cui parla all’inizio Brialy, e nell'imposizione di una simmetria totale sogno-realtà mediante la bambina (che sostituisce i sogni-oggetti che doppiavano “il Sogno" negli altri film, riportando la dialettica all’interno di un unico mondosogno-film devastato: per cui in fondo “la bambina" è “marxiana" come un as­ surdo dialogo dei Marx). Ma è innegabile che questo film è pure un fucile che spara a caso (ma mirando) nella folla. Bufiuel ha ottenuto la licenza di sparare (tanto non uccide nessuno, lo sa bene). Settantacinque anni, forte di un certo successo commerciale e coccolato dal produttore, egli ha raggiunto il massimo per l’artista borghese: la libertà di fare ciò che vuole. Di questa libertà si avvale in modo completo, fa un film contro tutti i principi di non-contraddizione met­ tendo uno dopo l’altro i suoi sogni irridenti che rinunciano ad elementari nessi logici. Il Fantasma della libertà è il definitivo sfruttamento oltre che la negazione della sua libertà, e le uniche legittime porzioni di “senso" che il film si ritaglia sono fuori di esso, sono forse nel titolo e nell’urlo-slogan che apre e chiude il te­ sto. In questo cinema-fantasma così puntualmente costituito dal sogno, la libertà si è progressivamente svelata a se stessa come fantasma più che come menzogna. Liberata fino all’arbitrio, questa libertà fonda il film solo in negativo, come op­ posto ai milioni di altri film-rette che potrebbero passare per lo stesso film-punto (punto che è a sua volta una retta vista in sezione). Nessun codice può sorreggere nell’analisi, che del resto tendeva fin dall’inizio a questo marasma finale. L’uscita

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Il fantasma della libertà..

di Bufiuel dal cinema è perfetta e repentina come tutte le cose preparate: vani­ fica i codici fotografici e quelli psicanalitici, quelli narrativi e quelli surrealistici, pone la bambina-film di fronte a noi facendoci poi credere di averla smarrita e obbligandoci a cercarla negli altri film possibili per ritrovarla solo dove era all’i­ nizio, di-fronte-a-noi. Il film si mostra così nudo come unico codice di se stesso, atto individualista spinto al nihilismo. L’urlo beffardo dei lealisti spagnoli (fra cui il monaco Bufiuel) contro i fucilatoti repubblicani francesi dice “Vivan las cadenas!” (“Viva le catene”), ed è parafrasato dalla didascalia UÀ bas la liberté - Ab­ basso la libertà”, configurandosi come l’unico possibile anti-illuministico slogan di una disperata utopia. Operata la distruzione dei materiali mediante un itinera­ rio esemplare, partendo da essa Bufiuel tenta di liberarsi anche dell’ultimo mate­ riale, il cinema il linguaggio il sogno e la libertà di servirsene all’infinito. Il rico­ noscimento lucido dell’unica fantasmica libertà ideologizzata lasciata all’artista, quella di agire a livello del linguaggio, si lega - grazie alla reiterata identifica­ zione con la libertà di sognare e/o con quella di ridere - alla consapevolezza del­ l’insufficienza o della facilità di tale posizione7; la libertà come ideologia, come ideologia dell’arte del cinema, è solamente la libertà di fronte al nulla, la libertà data e obbligatoria per cui si è costretti a scegliere un angolo o un punto di ri­ presa rispetto agli infiniti possibili, opponendo uno stile al nulla. Se queste “ca­ tene” invocate possono essere anche gli stili e le strutture che combattono l’in­ differenziato, per evitare che a un “commissario di polizia della struttura” si ag­ giunga quello della sovrastruttura (se un film - come diceva Godard - è parago­ nabile a un commando, può essere una BR, ma anche un’operazione di polizia..) e che conducano insieme la repressione di una manifestazione dello zoo (di ani­ mali? loro o dei giovani gridano Vivan las cadenas? È il solo momento del film in cui la m.d.p. non “mostra” un referente preciso e bene a fuoco, delinea solo un rapido movimento che si conclude su un incubo tranquillo, il collo e la testa sno­ data di uno struzzo, soggetto “privo di parola” e quindi “oltre il linguaggio”: è l’ultima inquadratura del film-testo), Bufiuel ci nega tracce del suo stile e non concede anticipi al futuro, forse sperando di sortirne (dallo zoo). Le previsioni del testo-film mi hanno dato l’impressione di un’assenza totale di codici stilistici e non (salvo forse la negazione - costante nell’ultimo Bufiuel - del primo piano8 in favore di piani d’assieme) o di costanti di qualsiasi tipo, ogni ipotesi di lavoro mi si contraddiceva dopo poche sequenze e la vanità dello scrivere di cinema mi si confermava. Tuttora aspetto di vederlo in moviola per sapere (?) se lo struzzo ha concluso il cancellamento dello stile, se questo cancellamento è “esclusivamente” un incubo onirico a sua volta, o se sto denunciando la scomparsa di una bambina che mi sta di fronte.

[Il Falcone Maltese, 5,1975]

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paura e desiderio 1 Da: Manuel Alcala, Bufiuel, cine e ideologia, Madrid, Cuadernos para el Dialogo, 1973. 2 È in fondo la stessa differenza che passa tra i primi e gli ultimi film di Bufiuel; vedremo tuttavia come Bufiuel tenterà di superare la pura identificazione - una volta raggiuntala - resosi conto che essa non intacca il normale rapporto tra spettatore soggetto (investito) e opera filmica sui Marx: cfr. I fratelli Marx nelle strutture del sogfto, Filmcritica, 238/240. 5 Tutto il periodo messicano sarà ancora sotto il segno della fotografia, con frequenti primi piani e angolature non di rado “espressioniste". Vedi p. es. Los Olvidados, in cui non vi sono sogni dichia­ rati, ma si raggiunge spesso un’atmosfera (non una struttura) onirica mediante l'uso di inquadrature privilegiate, come nel finale (il rotolare del corpo del ragazzo sul mucchio di immondizie, con ripresa dal basso che rielabora i materiali realistici - la spazzatura, il carretto - in un quadro “strano” in cui il carro lugubre si staglia contro il delo) o in occasione dell’uccisione del ragazzo. 4 Naturalmente, il “sonoro” assume così un'importanza molto maggiore; vedi i tintinnii di campanelli o campanacd in Belle de four, in corrispondenza dei passaggi tra “sogno” e “realtà-sogno”; o Brahms che nel Fantasma sostituisce lo Chopin di Tristana, come sempre più chiaro “oggetto-feticcio” della coscienza borghese della musica. La noia del commissario per l’assordante accompagnamento musi­ cale che uova entrando nel ristorante non è quello di un sordo, è la protesta di Bufiuel contro l'affo­ gamento dei film d’oggi nella musica stereofonica. * La via lattea è un titolo-passaggio, elimina il soggetto ed ha l'astrattezza di una definizione astratta, riferendosi però ancora ad un “oggetto” presente. 6 Si parla sempre di titoli. La notte come contenente realistico dell’onirico è anzi spesso presente in tutta l’opera di Bufiuel, dal Cane andaluso a Vindiana alla Via lattea agli ultimi film, salvo che nel diurno Bella di., giorno in cui l’incubo borghese si arresta (o nasce) sempre alle soglie dell’oscurità. H “night” dd Marx era invece la prima ed unica indicazione dell'aprirsi al momento del titolo di uno “spazio-tempo onirico” che si sarebbe chiuso al momento della fine. 7 Liberandosi tutto, il Fantasma della libertà si squaderna di fronte ai critici come una donna sifilitica. La libertà di interpretazione del punto è infinita, ed anche lo strutturalista deve negarsi un poco, per­ ché per un punto passano infinite strutture ugualmente rigorose. È chiaro che la libertà del critico è un “fantasma del fantasma”. 8 L’allontanamento dal primo piano corrisponde con precisione alla “soppressione del soggetto”, ed è una delle strutture che concorrono a tale soppressione.

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Voglio la testa di Garcia (mi è caduto un cerotto, e si è rotto)

Oltre ad essere la storia di una morte, quella del Kid, Pat Garrett & BiUy the Kid doveva già essere, prima degli interventi della produzione, la storia di un’uccisione-morte raccontata da un morto (Pat Garrett sarebbe stato ucciso nella prima sequenza dagli allevatori che si erano serviti di lui per sbarazzarsi del Kid). In que­ sto nuovo bellissimo film di Peckinpah Punico soggetto narrante che si rinviene è la testa di un morto, specie di Graal del capitale posto come oggetto di ricerca dal ricco messicano patriarca-paleocapitalista-dio-padre. L’ossessione di morte era in qualche modo presente già nei primi Peckinpah, è anzi nel Mucchio selvaggio. L’in­ tervento della morte è strutturale a tratti proprio come in Voglio la testa di Garcia. Ma, all’interno di una continuità tematica, con le ultime due opere è giunto per Peckinpah il momento della rottura col suo cinema precedente, della distruzione delle apparenze di quel cinema per ritrovarne la forma vera. La morte, esorcizzata in Getaway! (trionfo del ralenti) da un finale stupito e libero su una strada che porta al Messico, toma trionfante e finalmente immotivata, e se dopo la mitraglia­ trice del Mucchio selvaggio restava un uomo a pensare e a pensarla, in Voglio la te­ sta di Garcia non resta nulla oltre il foro della canna della pistola. Che la distru­ zione presieda al film vuol dire che essa distrugge anche i materiali tematici e nar­ rativi dell’opera di Peckinpah, distrugge anche la morte estremizzandola e cioè proprio mettendone in rilievo l’aspetto distruttivo e ossessivo. Certo per questo il film non ha avuto successo critico, né commerciale: la morte è accettata solo se è ricomposta al suo posto nella bara (Visconti), se è una morte-“fantasma dell’opera” (anche in senso feuilletonistico..), e non se l’opera è il fantasma della morte (vedi anche il parziale rifiuto - da parte della critica - dell’ultimo Corman, venuto a mancare l’oggetto sicuro costituito dal rapporto con Poe). L’apparente contrasto insanabile tra vita e morte, eros e thanatos, tenerezza e violenza, che sembra dividere il film in due serie eterogenee di frammenti, ha origine invece dalla sequenza iniziale in cui i due elementi sono meravigliosa­ mente giustapposti. Dal delirio di abbandono dei piedi a mollo della ragazza sul bordo dello stagno-laghetto con le anatre (e anzi sulle anatre comincia a muo­ versi la prima immagine del film, già segno di un cinema moderno ormai quanto quello bufiueliano dello struzzo), dalla dolcezza dei colori e dei riverberi sull’ac­ qua, non smossa e anzi integrata dal ventre incinto, si passa alla prima scena in interno, col messicano-padre che fa torturare la figlia per sapere chi l’ha messa

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incinta: Alfredo Garda. In seguito, messa la taglia su Garcia, e dopo una ricerca attraverso Mexico City filmata in modo molto classico, entra in scena l’apparente protagonista di questo “nero”: Warren Oates (Bennie). Dal momento in cui ap­ pare, questo personaggio sembra assumere su di sé la responsabilità del film, ne diviene il soggetto più plausibile e più caratterizzato. Bogartiano e bostoniano (Il tesoro della Sierra Madre), Bennie si viene a trovare al centro di trame tipiche del genere: la ricerca del tesoro, la caccia all’uomo, il cacciatore che è strumento per altri (lo stesso in Pat Garrett & Billy the Kid, film di confine che già più volte scon­ finava in Messico..), la speranza di riscatto nel legame con la donna, il tentativo da parte del cacdatore di sottrarsi al controllo di quelli che stanno più in alto e la vo­ lontà di capire i loro fini oscuri e i moventi. E importante analizzare il soggetto del film perché, si vede, esso accumula situazioni e rapporti tipici; ma intanto l’eroe della vicenda è - fino all’ultima sequenza - del tutto ignaro dei moventi della ri­ cerca, e impossibilitato a chiarirseli: è un eroe che entra per caso nella sua storia, un eroe inconsapevole che porta gli occhiali scuri anche di notte, peggio di un cieco. L’eroe puramente e delirantemente cinematografico, come chiarirà infine l’ultima inquadratura; falso eroe che costruisce il suo destino filmico, egli è il falso soggetto posto dal regista per dare al film un grado accettabile di leggibilità. In realtà, la sua unità psicologica, il suo problematizzarsi ed evolversi durante il rac­ conto, non riescono ad unificare ciò che è troppo unito e che il film (non tanto a livello di oggetti inquadrati, dove anzi si avrebbe il momento sublimato dell’ab­ braccio nella tomba, quanto nell’articolarsi di sequenze sempre diverse nel tono) continua a dare beffardamente come separato: la vita e la morte. Che la ricerca si definisca presto per Oates come “ricerca di un morto" e che per riuscire essa debba coincidere con una profanazione, agisce da un lato sulla struttura di genere del film, arricchendola ed alterandola; d’altra parte è di nuovo una cifra del film in­ tero come profanazione di un genere e della sua logica. Così, mentre l’insegui­ mento della testa del morto si configura come “ricerca del Graal”, con ostacoli che sorgono dall’ombra (i due hippies) unicamente per adempiere alla loro funzione ir­ razionale di ostacoli e di draghi, resta però la struttura del “cacciatore cacciato", la necessità di fuggire, la sparatoria peckinpahiana che cita se stessa. E se la “ricerca del santo Graal" avviene solo in mancanza di esso, come avvicinamento ingenuo e utopico ad esso, e il racconto finisce una volta trovato l’oggetto, qui è evidente che l’aspetto “graal" finisce - come struttura che arricchisce le determinazioni di ge­ nere - nella tomba, Oates come Lancillotto vede il Graal e ne rimane stordito-uc­ ciso. L’inquadratura della sua mano che (dopo l’aggressione subita ad opera dei due che lo seguivano) emerge dalla terra smossa del sepolcro è un’inquadratura da horror: Oates è già morto, è il morto che esce dalla tomba; ma neanche dopo, una volta recuperata la testa, egli si ferma, poiché il Graal non gli basta, vuole risalire al Dio che lo ha posto; e quindi, con questa nuova ricerca mitica e gratuita, il film ritorna più profondamente e definitivamente ad accettarne la struttura assurda (da Graal), l’accumulazione di eventi semplici ma misteriosi. Alessandro Cappabianca, nel numero 238/240 di Filmcritica, metteva in luce il sistematico sabotaggio che Peckinpah effettuava in Pat Garrett & Billy the Kid appiattendo ed unificando col teleobbiettivo oggetti predisposti a diversi livelli 28

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di profondità di campo. Forse un po’ meno frequente è qui l’uso del tele, ma si* mile l’atteggiamento nei confronti dei materiali fotografati, ricchi come nei film precedenti e di più, dato che il gusto di Peckinpah per le situazioni barocche (di recente si è rivisto in TV un suo telefilm western, quello con la partite a biliardo giocate da cavallo) è estremizzato secondo la logica di tutto il film, a partire ov­ viamente dal soggetto. Pure, anche di fronte ai materiali più invitanti, Peckinpah conserva qui certe qualità “televisive” del suo stile, e in più le conferma con ri­ gore inusuale: la macchina da presa si muove poco e solo per figure classiche della retorica narrativa (la panoramica di 180 gradi sull’automobile che si avvi­ cina e che passa per la strada), è poco incline a valorizzare o a esplorare sceno­ grafie spesso bellissime (la hall dell’albergo a Città del Messico) o a giocare sugli elementi di folklore pure presenti e presentati senza paura. Rifiutando la descri­ zione rapsodica Peckinpah utilizza la bellezza mitica e accesa del folklore e del paesaggio messicano, e dei loro colori, chiarendo subito però anche che tipo di voyeur sia egli, di quale tipo di imperialismo (obbligato..) cinematografico egli sia portavoce. Così, nella prima sequenza nel cimitero, il cambio delle inquadra­ ture produce anche colori diversi e luce diversa, oltre che un quadro mutato: non si ha la lente e nascoste e più pericolosa forse appropriazione del movi­ mento di macchina avvolgente.., la luce mutate sembra provenire da un’altra ora del giorno, confessa in parte il lavoro. Ma non è verso una sovranità del montag­ gio che si muove Peckinpah, semplicemente ora l’inquadratura è più piena, acco­ glie già in sé liricità, se mai è prolungate nel tempo rispetto ai film precedenti (come già in Pat Garrett & Billy the Kid), e così un film che seguendo il soggetto potrebbe essere frenetico alla Corman o alla Fuller (in cui il lirismo si afferma con il movimento di macchina, in La vendetta del gangster) si sostanzia di pause e di vuoti (fuoricampo qui proprio spaziale, di intervallo tra una inquadratura e l’altra). Più che montaggio, è una selezione che Peckinpah opera a partire dalla gran quantità di materiale girato, la fuga impotente di fronte all’assolutezza di una definitiva inquadratura, di fronte alla morte che è delle cose conchiuse, si è sempre esplicate in Peckinpah con l’adozione, durante le riprese, di parecchi di­ versi punti di viste: un modo di rimandare la scelta che da una parte portava al manierismo di Getaway! (dove - come del resto nel perfetto L'ultimo buscadero venivano all’interno di una scena mantenuti e mescolati i diversi angoli di ri­ presa), dall’altra ripropone il dramma della decisione, negli ultimi due film p. es., in cui reste la frammentarietà del procedimento non più occultate dal tenta­ tivo di ricomporre i cocci di un’ipotetica “immagine totale” ma ribadite da una selezione più ristrette di inquadrature arbitrarie che sono cocci ma non hanno bi­ sogno di tutti gli altri pezzi per dare l’idea dell’insieme. Oates lascia cadere la chiave inglese che gli serviva per sostituire la ruota e accenna a muoversi felice verso Isela Vega che gli ha proposto di passare la notte all’aperto; nessun movi­ mento di macchina - che sarebbe naturale - taglio e nuova inquadratura.., ma non più il lampeggiare barocco-barocco cui eravamo abituati in opere prece­ denti. Il rifiuto della modernità del piano-sequenza è qui modernissimo ed estre­ mistico proprio in quanto ci propone una frammentazione in quadri all’interno di una struttura narrativa che accoglie per parte sua procedimenti quasi godar-

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diani (il montaggio alternato di elementi che fanno parte della stessa sequenza temporale, le macchine che escono dalla hacienda e l’aereo che parte per Mexico City, o - dopo la notte al cimitero - la fontanella in primo piano su uno sfondo sfocato, inquadrata separatamente e prima di un taglio che porterà Warren Oa­ tes a bere É in un’altra inquadratura). Permane inoltre, altro esorcismo verso la morte, l’impiego del ralenti. Da sempre presente, in Peckinpah, il ralenti ha prima di tutto nel suo cinema un ruolo banale e immediato, rende “visibili” at­ timi altrimenti troppo rapidi e trascurati, fa cogliere movimenti che altrimenti andrebbero perduti (così la sbandata dei due inseguitori e la terra sollevata dalle ruote delle loro auto) (cit. ancora Cappabianca: è l’universo del discorso peckinpahiano a portare in se stesso la tendenza asintotica del movimento alla stasi, e quindi la necessità del ralenti nelle sequenze di sparatorie, uccisioni etc. altri­ menti “troppo” rapide). Non è solo questo, il ralenti di Peckinpah si è fatto ora più dialettico, inserito in un narrare meno zeppo di inquadrature; che esso sia dedicato essenzialmente ai momenti di morte o di pericolo-minaccia è ormai una figura retorica (qui, vedi la morte dell’hippie) peckinpahiana, però ora caricata di nuove valenze. Non solo mediante esso la violenza non è ridotta a balletto (che è un movimento coordinato e finalizzato, e non fissato in attimi rappresi e separati, mentre il ralenti cambia in Peckinpah il tempo di movimento senza per questo coordinarlo, e anzi lo isola): il ralenti chiarisce qui la sua funzione di “messa in primo piano”, l’alterazione del tempo agisce profondamente sullo spa­ zio, una sparatoria con una decina di morti (il triplice confronto Bennie/due cattivi/famiglia Garcia) non viene resa con una sola - o due - inquadratura rallen­ tata, ogni ucciso ha invece la sua, e così non si ha il compiacimento di rendere più visibile una cosa, ma un doppio aspetto di attrazione-repulsione: la sparato­ ria si frammenta seguendo l’itinerario a zigzag della morte, proprio per questo diviene quasi invisibile, perché poi alle singole uccisioni non è dedicato un tempo spropositato: il ralenti non segue tutto il morire di un corpo, e presto passa ad un altro, il tempo è dilatato ma di poco, in realtà il rallentamento inten­ sifica il ritmo e rende più frenetica e assurda (quanto distante da altre sparatorie che abbiamo apprezzato, quelle fredde e geometriche dei western di Hawks, di Sturges) la sparatoria, dato che il tempo (durata) totale della sequenza è molto inferiore rispetto a quella che sarebbe la durata di una sequenza che fosse la somma di tutte le morti riprese integralmente anche se a velocità normale. Que­ sta duplicità che è doppia anche rispetto ai film precedenti di Peckinpah, dilata­ zione del tempo che però anche lo restringe mediante un montaggio interno1, non limitandosi più a cambiare la velocità di una sequenza (Il mucchio selvaggio)*, quindi momento parossistico che si inserisce in una situazione più calma (meno inquadrature e più lunghe), non più momento catartico o elegiaco o barocco che si apre in mezzo ad una narrazione più nervosa. Anche il ralenti però va nella stessa direzione che estremizza tutto Peckinpah; portare tutto ad uno stato disso­ ciato che è come un continuo confronto di “piani ravvicinati” su oggetti e mo­ menti che divengono appunto tutti “semplici e misteriosi”, giustapposti come nella “cerca del Graal”, dove la scenografia non esiste o esiste scopertamente (il cimitero, l’albergo dai colori particolari) come le immagini che sono le solite bel­

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lissime di Peckinpah ma qui molto più belle perché portate al limite e mantenute (vedi lo splendore figurativo della sparatoria con i due della macchina verde, con quell’alzarsi in punta di piedi di Bennie dietro il retro dell’auto, sparando in modo quasi impossibile; o la sequenza centrale e centro mitico e unico di film che fosse totalmente ingenuo e riposato e vecchio, quella dei due amanti sotto l’albero in mezzo al prato a confessarsi i reciproci sogni) e infine fatte vedere e non nascoste. Dal bacio all’assassinio un’unica traiettoria di immagini, solo un tempo diverso ma qui - abbiamo visto - già meno ingenuo e meno sicuro di riuscire a esorcizzare la morte che è comunque nel tempo e nelle immagini, tenere o violente che siano, ri­ flesse nell’acqua (l’inizio) o in vetri e specchi frantumati (sparatoria nell’albergo). Di nuovo quindi la morte (non solo in queste dissonanze e nei passaggi da colori pastello a colori violenti, il blu del cielo e il rosso della macchina, gli occhiali neri e la pelle di Isela Vega, l’azzurro e il bianco accecante del ghiaccio secco) (una ventina di morti uccisi) e soprattutto la distruzione di ogni struttura che non sia ri­ flessa. L’unità iniziale, fortissima e mitica, che permetta poi l’apparente arbitrio della scissione. L’unità di Eros e di Thanatos nella pistola - fallo che infine sus­ sulta, l’unità unica e archetipale della struttura in cui l’eroe appare dopo (e in sé poteva anche questa essere una determinazione linguistica di genere, tanto più che Oates è anche quello che ha a disposizione gli specchi del film, in cui guardarsi, in cui essere guardato - dalla m.d.p. nell’albergo - in cui sparare come Garrett..) e quindi l’eroe, unico, oltre all’autore, è chiaramente questa testa-Graal ma anche fallo che ha provocato (la ragazza incinta) tutta la storia ma che anche la chiude definitivamente come fallo-pistola, senza più finale crepuscolare alla Mucchio sel­ vaggio Cable Hogue Cane di paglia L'ultimo buscadero Getaway! Pat Garrett & Billy the Kid e anche gli altri prima. Il fidlo la pistola (rivolta sul pubblico come in Zardoz Zed spara su di noi all’ini­ zio e infine spara di nuovo a noi e a se stesso per distruggere il cristallo-cinema ma ricostruendo poi ironicamente - con Boorman - un cinema e una narrazione) la testa. Testa misteriosa nel volto visto solo in fotografia (volto quindi mai pro­ fanato dal film, mentre il film storia di una profanazione è anche una profana­ zione e dissotterramento e svelamento dell’unica logica e verità del “nero”, un eroe - positivo o negativo - che uccida o che muoia, al limite la morte che qui uccide e muore..), protetta dal bellissimo ghiaccio fresco o secco, testa che non è solo Soggetto mitico totale del film distrutto da un altro oggetto mitico totale (la pistola) ma è anche (una) nuova figura che resterà della mitologia del cinema, è il nuovo falcone maltese è il tesoro di vera cruz (di Siegei, lontano padrino di Pec­ kinpah) è il winchester-73 macchina da presa del film di Mann. Così come la pistola (non a caso inquadrata di fronte, nel foro, e non di profilo, come silhouette; se no sarebbe solo un oggetto mitico pistola e così invece è mitico-mitico della distruzione) distrugge tutte le immagini barocche, distrugge cose ben costruite come la coppia omosessuale (modifiche al genere) del duo dei vilain intelligenti Robert Webber e il vecchio grande Gig Young (morte anche per lui, splendida, e aveva detto di Garcia “meglio morto” e non era solo una battuta di genere), come l’immagine di Isela Vega (c’era già in un altro film “messicano” che girato da Fuller - del quale era il soggetto - sarebbe stato un ca­ 31

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polavoro, La rossa ombra di Riata di Barry Shear) che canta o di Warren Oates che suona il piano o dell’hippie che mormora la sua nenia triste (composta da Peckinpah) alla chitarra (e ancora una volta Peckinpah non ha paura della mu­ sica che usa mirabilmente, come non teme il folklore o i colori degli altipiani e della pellicola..). Distrugge la sicurezza e si avvicina - in modo antitetico - a Corman (autore/genere di mezzo cinema americano di oggi e complice in tutto il cinema USA che conta oggi, fino a Chinatown..), la pistola che distruggendo oc­ culta e chiarifica, occulta il film e chiarisce il processo di occultamento e di can­ cellazione che è stato l’anima del cinema americano. Lo chiarisce mostrando l’occultamento e l’uccisore all’opera, sparandosi smaschera il senso che già era nell’automobile in Psycho di Hitchcock inghiottita dallo stagno - poi ripresa da Chabrol in Stéphane.. - o nella lavagna cancellata del Sipario strappato, il senso che era nel Cicero-Mason di Mankiewicz che consiglia al tedesco di usare combi­ nazioni più fantasiose (potremmo dirlo al tedesco-Visconti.., mentre a Corman non interessa scoprire la combinazione per trovare magari poche noccioline, in­ teressante è in lui semplicemente l'atto della ricerca di una combinazione, se il suo cinema è - da verificare - un testo-vocabolario, è inutile scoprire la banalità delle metafore, che coprono solo se stesse). H foro poi, che lo si inquadri, ridà alla pistola anche il suo carattere di fallo pro­ creatore, che rimanda all’inizio ma è un oltre, è come se una zoomata si fosse conclusa (sullo stesso oggetto). Il porsi come definitivo e conclusivo mi affascina in questo film, il voler essere “ultimo” che forse dipende solo dall’essere cronolo­ gicamente l’ultimo, ma non è solo questo: perché mi piacciono., ultimamente, tutti i film che sembrano essere gli ultimi per sempre dei loro autori, impedire un futuro e dire tutto su un passato (Il fantasma della libertà, Lancillotto e Ginevra, Chinatown, 2001, Zardoz-; non come Aldrich che sembra poter continuare all’in­ finito o come Fleischer che riesce ad andare oltre 2022, ed è il loro pregio/limite). Tentazione metafisica del definitivo e dell’assoluto, che però sarà rotta per forza dal prossimo film di P. o di chiunque (come è successo dopo II sepolcro in­ diano o Johnny Guitar o II dominatore di Chicago o L'Atalante o Sentieri selvaggi o Europa 51 o Arsenale o II sipario strappato: e tutti i film di Corman - anche i brutti - sembrano “ultimi” o “primi”, e Bergman addirittura ha voluto conti­ nuare dopo Persona..). Qui questa fine, questa pistola-testa che distrugge il suo passato-testa-cinema e il suo pistola-cinema per restare pistola-dnema/astrazione-del-cinema-pistola, mostra già il futuro-vuoto-presente nel suo foro. La zoomata, se sembra concludersi, si conclude su un vuoto che è possibilità di altro cinema o di cinema-altro, è come l’impressionante fine di Wavelength di Snow, dopo 45 minuti di zoom attraverso una stanza, una fine sulla fotografia delle onde del mare, che ripartono, potrebbero, (se non è coscienza di Peckinpah è forse - questa - coscienza riflessa dal e del cinema di Peckinpah.) [Il Falcone Maltese, 6,1975]

1 Got, mone resa più visibile, ma anche nascosta!

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Note su Chinatown (“la giovane era più una bambina che una vecchia”)

Chinatown appare come un ultimo grande film hollywoodiano. Fatto da un euro­ peo, Polanski, mitteleuropeo come tanti altri grandi di Hollywood, da Lang a Sirk a Siodmak a Wilder a Curtiz. Grande hollywoodiano per la coscienza spet­ tacolare che dimostra, per Fuso dei mezzi a disposizione, attori compresi etc. Hollywoodiano perché non è un film “su Hollywood” (se mai è sull’America, perché è un film di genere che non si riduce a strizzare l’occhio al genere e per­ ché è il primo film che supera il genere nostalgico rétro (Bogdanovich, Pollack, Roy Hill) pur adottandone alarne convenzioni: è insomma sì un film in costume, che rifiuta però di soffermarsi pesantemente sull’operazione. In questo è meno ovviamente decifrabile di un Paper Moon o di una Stangata, perché la nostalgia è qui data già per scontata e citata in partenza dalla grafica dei titoli di testa (e dalla musica1) o dalle sequenze di interni (che colori alla Von Stemberg) con Faye Dunaway. H genere “rétro” è qui un lontano sfondo, come il west in Duello al sole di King Vidor; non ci si accorge quasi, non fosse per le macchine, che gli abiti di Nicholson e della Dunaway sono abiti tipo anni trenta: e non ci se ne ac­ corge perché sono abiti oggi normali non solo nei film di genere ma anche nelle sfilate di moda, e anche le automobili quasi sembrano assimilabili all’oggi. Se in una direzione il massimo dell’ironia sul “rétro” è il film molto divertente di Wil­ der Prima pagina, con citazioni divertite come l’inseguimento della polizia realiz­ zato accelerando visibilmente le immagini delle auto in corsa, o la battuta su Ben Hecht, Polanski usa l’armamentario “rétro” come se fosse l’unico, in un certo senso, per fare un film “contemporaneo”, cioè che sia definibile tale nel con­ fronto con film che partono da scenografie e materiali simili, e non contempora­ neo solo perché la vicenda si svolge nel 1975 (vedi l’interessante e simpatico Airport) o nel 2345. Quanto al “poliziesco” solo Moravia può scandalizzarsi per le “licenze sottoculturali” di Polanski, essendo abituato probabilmente a conside­ rarlo un autore-feticcio del “cinema d’autore”. Non è un caso se questo è (con Rosemary's Baby) il migliore Polanski, non è un caso che parta da un bellissimo soggetto di Robert Towne (prima non ha sceneggiato solo L'ultima corvée, è un cormaniano anche lui - La tomba di Ligeia - e Corman gli sta ora facendo girare un film; interessante come Polanski abbia dato i due grandi risultati americani il disastro Che? è infatti un ritorno in Europa, e il più interessante Macbeth una produzione Playboy - a contatto prima con il grande William Castle, produttore 33

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di Rosemary's ma sospettato ingiustamente - prima di aver visto Chinatown - di esserne anche fautore, poi con gente del clan Corman - Towne, Nicholson, il fotografo Alonzo - cioè con ambienti cinematografici abbastanza decentrati ri­ spetto a una Hollywood in declino totale). P. è “entrato” definitivamente, nuovo “corpo”, nell’tfwpwtf del cinema americano, certamente cedendo ancora alla “fa­ scinazione” (v. l’articolo di Teo Mora) egli si è dedicato ad approfondire il “can­ cellamento dei segni”, magari per smascherarli un giorno meglio di quanto avesse fatto agli esordi in Europa; pur mantenendo alcuni aspetti di “autore” che sono però divenuti ormai materiali puri e semplici. L’acqua, per esempio, è chia­ ramente l’elemento chiave del film, eppure proprio il fatto che già fosse impor­ tantissima in precedenti suoi film (Il coltello nell'acqua, Cui de sac, neve in Per fa­ vore non mordermi sul collo e in uno dei cortometraggi, il mare nel sogno di Ro­ semary, e in Due uomini e un armadio, etc.) e che qui vi si alluda poi spessissimo fin dall’inizio (Seabiscuit, i pesci, il laghetto, Noè, e ancora molti altri segni) la fa sembrare un troppo facile gioco registico e di sceneggiatura. È un filo di segni che rimandano l’uno all’altro facilmente e che per questo sono insignificanti (con essi P. comincia a giocare col “poliziesco”), se non come unico segno ma­ croscopico, cioè prova decisiva (l’acqua salata nei polmoni del morto) dell’assas­ sinio: eppure, a causa del fascino che ha per lo spettatore questo “giocare”, pro­ prio l’aspetto di indizio è l’ultimo ad imporsi, insieme a quello ovvio (che ap­ punto rimanda agli altri film) di “filo conduttore” e di elemento di unità narra­ tiva. Ma, qui è la genialità, l’acqua, la stessa acqua, lo stesso segno, non è solo un segno (e invadente) nel film, ma è anche “segno del film”. H segno apparente coincide col segno più vero (ancora il principio della Lettera rubata di Poe), lo stesso elemento è determinante ad ogni livello della fruizione e dello spettacolo, l’acqua sotterranea è la stessa acqua che scorre in superficie. L’acqua che c’è, ma che gli speculatori fanno mancare centellinandola o gettandola in mare di notte, è l’aspetto misterioso e incognito di ogni trama poliziesca o del “nero”, il primo getto d’acqua che quasi investe Nicholson sulle rocce in riva al mare mentre spia “l’uomo delle acque” è anche la prima irruzione nel film dell’incertezza e dell’o­ scuro. Come in ogni poliziesco degno di questo nome, la logica e la chiave del­ l’intrigo, l’acqua, viene concessa solo a piccole dosi, viene fatta scorrere di notte e di nascosto, dispersa nel mare e nel deserto. L’acqua, dolce e salata (torbida), non sarebbe solo il fluido metafora del fluido oscuro della narrazione o l’ele­ mento femminile e mestruale che rimanda alla morbosa Faye Dunaway, ma an­ che la libertà del fluire del liquido, eppure questa libertà è compressa dalle di­ ghe, convogliata e deviata dal capitale per estendere una città. Così l’altro “uomo delle acque” Noah Cross-John Huston non è solo Noè che sopravvive alle acque, ma anche No-a(h)cross, “non-attraverso”, “non-attraversare”, è lo sco­ glio invalicabile anche dall’acqua (che viene imbrigliata come la forza di un au­ tore). E la storia di Chinatown è anche la storia di una città moderna, Los Ange­ les, del suo espandersi. Il rapporto di Chinatown col film svela in modo più evidente l’articolarsi della stessa struttura che è nel “sistema delle acque”. “Chinatown”, il quartiere cinese, è sempre citato, alluso, bisbigliato in sottofondo ai dialoghi, la servitù cinese si

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aggira in casa di Faye Dunaway, sappiamo che Nicholson - come il tenente che dirige le indagini - era stato poliziotto a Chinatown prima di mettersi in proprio (private eye), etc. Questi attori (l’investigatore privato e il poliziotto) si trovano alla fine sullo stesso palcoscenico di un tempo, il quartiere cinese, luogo mitico del “nero”, dove sono possibili tutte le corruzioni ed ogni delitto. “Forget it, Jake, it's Chinatown” (lascia perdere, dimentica, Jake-Giacobbe.., c’è anche il gioco sui nomi mitici biblici, Noè.. - è Chinatown) è l’ultima frase dei dialoghi, e già dà un primo senso “diverso” (e non banale) che è l’allargamento di Chinatown per­ ché la mafia non è solo nel quartiere cinese, e la storia si conclude nel quartiere cinese perché esso è “la verità” della città tutta. Come però indica chiaramente un’altra frase, quella di Nicholson a letto con Faye Dunaway, quando accenna appena al suo passato, una storia a Chinatown, il suo tentativo - fallito - di lot­ tare contro il destino tragico di una donna: il film è questa stessa storia riper­ corsa puntualmente, Chinatown perché racconta una storia che si “era” svolta a Chinatown, e Chinatown perché di nuovo la città e il luogo racconto poliziescotragedia sono Chinatown. Il nome è il luogo e viceversa, la struttura-storia ricrea il luogo intorno a sé anche se cambia apparentemente ubicazione. Anche se me­ taforizzando le metafore si può partire all’infinito per la tangente, il cinema che ripercorre se stesso (Polanski e il cinema americano) è in questo film, nell’ambi­ guità dei suoi piani, così come l’incesto appartiene alla catena dei segni biblici nel film ed è ancora una volta uno dei segni del film, è il capitale (Noah Cross) che crea i suoi tabù e che li infrange, che sulle acque incerte costruisce una città, è il padre-cinema-capitale che genera i “suoi” e poi se ne riappropria, il capitale che (Marx) “eredita i padri e figli”, il cinema che lascia giocare con l’acqua i suoi figli ma poi li fa scomparire nel buio all’ultima inquadratura. [Il Falcone Maltese, 6, 1975]

1 Musica non particolarmente buona di Jerry Goldsmith, ma hollywoodiana nell’uso del motivo con­ duttore e nell’ampiezza della partitura, non d epoca.

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“Gli eroi soliti appena arrivati a Oxford si sperdono nel labirinto botanico all’inglese (lo stesso degli Insospettabili di Mankiewicz). Stanlio, guadagnata fortunosamente 1’uscita, torna da Ollio ancora bloccato all’interno, por­ tando sottobraccio la freccia indicatrice trovate all’ingresso, trionfante dice: ’Seguiamo questa! Non potremo sbagliare!”’1 Alfred Goulding, Noi siamo le colonne (A Chump at Oxford)

Da História do Brasil un manifesto. In História do Brasil il nascere ancora del ci­ nema. Le doglie, l’unanimità negativa della critica. E giustamente il padre, Ro­ cha l’autore, rinnega il figlio e vorrebbe forse divorarlo prima di esserne divo­ rato. Il figlio, dice, gli è sfuggito di mano, non è veramente “suo” e come lo vo­ leva.. Una “storia del Brasile” quale si potrebbe fare per la televisione, un commento parlato molto schematico e (in più) ideologicamente molto marcato, da manualetto di sinistra. Noi l’abbiamo visto a Pesaro, il film: dopo una settimana di pro­ iezioni che, oltre a farci scoprire i film di Poggioli (e Camerini) e il seno di Clara Calamai scoperto dall’eliblasettiano Nazzari della Cena delle beffe, ci avevano prodotto un’immagine abbastanza ampia del Cinema Novo brasiliano. E stato quindi facile accorgersi che elemento importante del film sono sequenze tratte dai film dello stesso Cinema Novo (Barravento, O assalto ao trem pagador, O desafio, Deus e o diablo na terra do sol, A falecida, Vidas secas, Ganga Zumba, O bravo guerreiro, etc.)2, mai dichiarate o confessate come tali, ma semplicemente propo­ ste - alternate con altre di provenienza “documentaristica” - come “corpo auto­ nomo” di un film nuovo; legate al sonoro filo conduttore per contatti eterogenei, ora illustrazioni del parlato, ora del tutto svincolate da esso. Non ci sono, infatti, punti di contatto. Vi è solo giustapposizione tra sonoro e filmato, essi non si sal­ dano mai se non nell’unità tecnica e artificiosa del film in quanto realtà audio-vi­ siva. Né il montaggio interviene - come ci si potrebbe aspettare - in modo intel­ lettualistico e più o meno sovrano, poiché esso si produce solo in principio nel­ l’unica scelta - radicale - che è quella di usare il materiale al di là (e insieme prima) delle sue determinazioni storiche ideologiche culturali. Cioè, appunto, le sequenze da film di fiction si alternano senza rottura, e senza che il fatto sia di­ chiarato, alle altre, alle fotografìe, ai manifesti, eccetera. La voce del commentatore, che appunto spiega, commenta, introduce le imma­ gini, non esiste. Il sonoro, che ovviamente riflette le opinioni degli autori, è apertamente offerto come momento di pura “ideologia” (come storia). Lo scarto tra parlato e filmato è enorme, il proposito di Godard (“il sonoro deve criticare le immagini”) è estremizzato e rovesciato, se fosse possibile sarebbero le immagini a criticare le parole (Rocha, Filmcritica 256)3 “Il montaggio del film si basa sul rapporto dialettico tra immagine e sonoro. Le immagini costituiscono i docu­

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menti, mentre il testo è la critica storica dei dati raccolti nelle immagini. Questa conflittualità tra immagine e sonoro è alternata a momenti di sintesi in cui video e audio si fondono.” “Dall’inizio alla fine si spiega attraverso il testo e si dimo­ stra con le immagini come dall’arrivo dei portoghesi nel Seicento fino ad oggi la politica colonialista abbia creato una classe dominante che con il fascismo op­ prime una società di schiavi e di proletari.” In queste parole Rocha sembra addirittura regredire rispetto a Godard, d’altra parte è il film che fugge in avanti. Non so quanto giunga a “dire” sulla situazione brasiliana História do Brasil, si può anzi avere l’impressione che le speranze di Rocha (v. sopra) siano azzardate. E il suo resta un tentativo didattico, appunto alla.. Rossellini-Godard (è un caso, ma l’inizio di História rammenta con forza quello di La mia droga si chiama Julie in cui Truffaut omaggiava insieme Rossel­ lini e Renoir: la cartina, il tracciato del viaggio per mare, la sequenza “storica”..). Tuttavia, si potrà forse delineare meglio il situarsi del film nel campo delle “dif­ ferenze” (il “politico”), analizzando il modo in cui ne distrugge alcune fonda­ mentali. Non è tanto importante (infatti) in se stesso l’uso del Cinema Novo in quanto tale, del resto non comunicato, e che potrebbe se sottolineato ridursi a una più o meno cosciente o devastatoria “pratica citazionale”, quanto l’uso del cinema nel cinema abolendo però la differenza tra “film” e “documento filmato”, tra “opera filmica” e “film dentro l’opera filmica”. Nel far ciò, História do Brasil, è la distruzione di vari miti. H mito del “documentario”, il mito della Storia come “ciò che prescinde dal mito, altro dal mito”, infine i miti artistico-soggettivistici dell’opera e dell’autore, compresa la possibilità che História do Brasil sia História do Brasil. Quel che è sempre stata la storia (anche la più organica) come disciplina, lavoro (di montaggio) sulle immagini (reperto) del tempo, lo è in modo irridente libero e definitivo História do Brasil. “Il film non è idealista perché non vuole essere un’immagine al di là di quella che è la materia storica.” (Rocha, cit.). Questa frase, che nella sua ambiguità po­ trebbe essere letta come riaffermazione di un positivismo storico teso a una sto­ ria “realistica” e “oggettiva”, propone al contrario, come “materia storica”, delle immagini cinematografiche, per la maggior parte girate (i film di fiction) senza l’intenzione o l’ambizione di “fare storia”. Nella mancanza di informazioni supplementari (didascalie, sonoro che sottolinei la diversa origine delle sequenze, eccetera), la continuità data e inevitabile del “film” equipara tutto a livello di storia e fiction insieme. (Una notazione impor­ tante qui. Se ogni spettatore alla lunga - e già in partenza, data l’improbabile esi­ stenza di un cinema “del Seicento” - si può accorgere dell’incorporazione di “film di fiction” nel tessuto della História, è anche vero che solo la nostra condi­ zione di “acculturati al Cinema Novo” ci ha permesso di scoprire gran parte delle sequenze incorporate. Ciò carica il “senso” della nostra personale visione di valenze mitico-dnefilitiche, ci fa leggere il film certo anche come “História do ci­ nema Novo”. Lo stesso sarebbe per il pubblico brasiliano. Per gli altri, e insieme anche per noi, senso del film è proprio il suo status ambiguo, la sua indetermina­ tezza a livello delle immagini, la provenienza “misteriosa” di esse. E importante che ciò possa perdersi nel caso di un ampliamento dei titoli di testa con una lista

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delle “sequenze prese in prestito”, e magari la copia vista a Pesaro era carente in questo solo perché appena stampata o per altri motivi incidentali. In questo il film - non importa proprio se volontariamente o no - distrugge anche se stesso come ipotesi di cinema di “formazione politica”, distrugge i miti dell’immagine realistica e di quella “critica”. Il senso, che pure si produce dallo schermo, può mutare radicalmente di segno per un titolo in più o in meno. L’immagine non in* forma mai su se stessa da se stessa, è sempre “autoritaria”, sempre “finta”, non sarà mai “storia”. L’immagine più a fuoco è per definizione indefinita. In questa contraddizione si pone História do Brasil, rinunciando, col parlato, a intervenire sulle immagini e sequenze singole nel senso di una loro determinazione. Disinte­ ressandosi delle immagini, il parlato radicalmente le critica, le lascia cioè a ogni critica, aperte. Lasciamo quindi il titolo, e tagliamo comunque gli altri titoli di testa, inesistenti o meno; il film, mentre il suo parlato articolerà senza maschere un discorso fortemente “ideologico”, comunicherà primariamente la sua “indiffe­ renza”, la comune origine macchinale meccanica di tutte le sue immagini pro­ dotte da una tecnica riproduttiva incosciente come il coito, il suo farsi, come la storia, senza un soggetto che non sia da inventare ipotizzare “fingere”. Pure, le immagini, il loro subliminale, agiranno a loro volta; nell’ignoranza su di esse, nell’indeterminatezza, lo spettatore percepirà ugualmente delle “differenze” di linea di inquadratura di volti e di corpi riprodotti: cercherà di distinguere “i buoni e i cattivi”, dovrà per forza costruire un suo “discorso” per quanto insicuro e ambiguo, colmare da sé la “differenza” tra filmato e parlato, riempire il “vuoto” ideologico (- dell’ideologia del sonoro)). Invece di cedere per l’ennesima volta alla ideologia della riproduzione, Rocha e i suoi collaboratori la denunciano in qualche modo utilizzando dei suoi “già pro­ dotti”. Se nell’orrendo Faccia di spia Ferrara sceglie di oggettivare i misfatti della CIA girando sequenze di fiction ben dichiarate come tali anche per l’utilizzazione di attori italiani non mitici ma certo riconoscibili e forse anche “mitici” come fi­ gure di un ben noto (anche all’estero.. Wertmiiller e C. hanno successo..) odioso cinema italiano, cadendo così in un grottesco in cui il naturalismo più trito rimanda però - irrealisticamente! Iperrealisticamente! - alle recenti po­ chade eroticonepotisticoincestuosomeridionalemigrantistiche in un impasto avvi­ lente di spettacolo e denuncia castrantisi a vicenda, qui si seleziona nel campo (quantitativamente esteso - almeno - come la vita reale) del “girato” senza as­ surde distinzioni tra “documentario” e “fiction”4 in quanto esso è comunque “documento” di un passato, di un “esser stato”, che solo nel momento in cui ve­ niva riprodotto poteva essere identificato come “realtà” storica o cronachistica o invece come “realtà della fiction”, ma che ora è per forza le due cose insieme, dato che esse si distinguono solo nel prodursi della situazione, nel suo esser vis­ suta, di certo non dopo, al cinema, dove anzi la somiglianza e coincidenza del continuum strutturale di vita e finzione filmica impediscono la separazione for­ zando a una passiva omologazione. A posteriori, guardando al procedere rigoro­ samente cronologico del film, sembra naturale e “semplicemente” logico (ragio­ nando ancora secondo la dicotomia documento/fiction) che all’inizio, volendo inserire comunque dei filmati, Rocha usi brani fiction, data la ovvia non disponi­ 38

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bilità di “documenti autentici”. Ma già nel giro di pochi minuti, il perdurare del vuoto, della mancanza di informazioni sull’immagine, l’assenza di un sonoro del­ l'immagine, producono malaise, spiazzamento decentramento, si comincia a ca­ pire perché (non più di una ventina di anni fa, traditur) in un paese dell’entroterra ligure la gran massa della popolazione riunita in chiesa (o locale adiacente) per vedere un film su Garibaldi non avesse il minimo dubbio sul fatto che l’inter­ prete di Garibaldi (evidentemente attore poco noto o poco mitico, incapace di avere la meglio sul mito di Garibaldi) fosse Garibaldi stesso, comincio a capire perché io, pur disincantato e cosciente e avendo a disposizione dati e informa­ zioni, vedendo i muti western Biograph di Griffith, abbia costante l’impressione di assistere a un documentario., d’epoca. Proprio l’uso “muto” del sonoro (che fin qui il nostro discorso sembrava rimuovere) è elemento fondante della diver­ sità del film. C’è la “colonna parlata”, ma le immagini (salvo forse qualche brano di “cronaca” nel finale) sono private del loro sonoro originale; mediante questa semplice operazione di soppressione, la sequenza di fiction viene “distornata”, toma documento e entra nella science-fiction. La musica, fin oltre la metà del film, è anch’essa assente; nulla assolve cioè alla sua funzione di “sfondo psicolo­ gico” dell’opera. Sopprimendo il sonoro, che potrebbe sembrare una delle con­ correnti essenziali all’impressione di realtà al cinema, l’immagine acquisisce in­ vece un vero sopra-valore di realtà, di realtà “prima del cinema”, di cinema prima (e dopo) il cinema (pensiamo, pur tenendo conto della “novità”, alla “paura” provocata dal treno negli spettatori di Lumière, che svanisce per noi ne­ gli innumerevoli treni sonori e persino pallottole scagliate dallo schermo sulla platea, perché l’elemento “realistico” in più - il sonoro - ravvicinandosi di più a un’idea di cinema-totale-vita, ci costringe immediatamente a marcare e percepire l’invalicabile “differenza”). La voce-ideologia che costruisce il suo discorso sul Brasile è completamente staccata dall’immagine, l’effetto è ribadito per esempio dall’apparire, negli spezzoni fiction, delle didascalie originali di versioni sottoti­ tolate. La dialettica suono-immagine che Rocha propone verbalmente manca in realtà del tutto, ciò che egli mette in scena è invece la “frattura”, la rottura entro la quale non siamo obbligati a tessere trame dialettiche. Anche se non confessate, le se­ quenze fiction lasciano quindi trasparire il loro status di “materiale espropriato”, il parlato è una violenza su di esse, critica totale ad esse neWassenza di critica pro­ dotta dalla secchezza della contrapposizione sonoro-filmato (è come se fosse il so­ noro di un ipotetico documentario politico sulla “Storia del Brasile” sovrapposto alle immagini di un altro film). In questo scivolamento senza mediazioni, senza che la lama penetri nel ghiaccio, è lo “spazio nuovo” del film. Si paragoni all’ot­ timo film di montaggio sull’America dagli anni venti ai quaranta trasmesso di re­ cente in TV, Fratello puoi darmi un soldino? di Philippe Mora, dove il distomamento o non opera o è attivo a un livello più banale e immediato; dove se mai si ha opera di bricolage nel montare un film documento basato in egual misura su documenti filmati e su spezzoni fiction: gli spezzoni fiction sono infatti in esso chiaramente usati per il valore mitico emblematico e spettacolare dei gesti e dei volti che contengono - James Cagney, il crollo della Borsa, le rapine.. - il sonoro 39

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originale è spesso mantenuto e anzi proprio sulla coincidenza tra sonoro fiction e sonoro “storico” si giocano a volte i suoi migliori effetti (Cagney che ascolta alla radio - in Furia umana?, ma tutto è affidato al ricordo.. - il discorso di Roosevelt che abbiamo visto e sentito cominciare un attimo prima in una ripresa documenta­ ristica). Inoltre, il lavoro di Mora è diretto proprio a sfruttare le possibilità dell’amalgama audio-visivo, lo fa benissimo ed il suo - nella perfetta commistione di mito e storia nell’unità del capitale e in quella dello spettacolo - è veramente il mi­ glior film del “revival” e “sui film revivalistici”, uno dei pochi non rétro. In Rocha, si è visto, non c’è amalgama. Per un altro paragone, vedi più avanti, dopo un’altra “soluzione” di continuità, il discorso sulla falsa, ma affascinante, História do Brasil del cinéphile.. Solo molto avanti, entrando nella contemporaneità, la musica fa irruzione (mito dell’oggi e della presenza “psicologica” della cronaca: musica brasiliana da Villa Lobos a Jobim, Vinidus de Moraes e Zè Keti..) e i documenti di cronaca sembrano intensificarsi5 rispetto a quelli di fiction. La musica indubbiamente, pur sempre asincrona rispetto all’immagine, accentua la contemporaneità, è “da essa”. Ma or­ mai lo spazio indeterminato del film è fondato, tutto rientra in esso, la stessa rigo­ rosa cronologicità si rivela una struttura fallace, puro schema verbale, minata come era in principio dall’uso liberissimo dei filmati. Il film è tutto contemporaneo, la storia, demitizzata in quanto mostrata come mito, si comprime nel tempo della proiezione (nella diversità grande dei procedimenti è lo stesso effetto di “presenza a distanza”, cioè di “permanenza della struttura storica”, che si ha in Straub, Jancsó, e anche nell’irrigoroso Rossellini televisivo e ultimo. Il film non ha durata, nell’ultima parte, aggiungendo sequenza a sequenza se­ condo l’accavallarsi della cronaca politica e dei problemi del momento in Brasile e per l’intellettuale emigrato in una sfilacciatura quasi afasica, corre verso una fine che è assurda (la storia non finisce) o meglio verso la coscienza dell’assurdità della fine. Il film può parere troppo lungo (a chi, come l’intervistatore su Film­ critica, vede il film come un “documentario” che avrebbe diviso in due parti..) e invece finisce “troppo presto..” (manca il futuro; ecco la risposta di Rocha che chiaramente delinea un work in progress sulla storia del suo paese6: “No, il film resterà invariato come durata, ma entro due o tre anni conto di aggiungere un nuovo capitolo dedicato alla storia del Brasile degli ultimissimi anni”). Il finale per accumulazione ribadisce la contestazione aperta al mito del montag­ gio che il film, volente o nolente l’autore, significa. H film è ovviamente co­ struito, il suo corpo non è casuale, ma la sua forza è di poter essere letto come casuale e di provocare a una lettura che nell’indifferenziato ritrovi delle diffe­ renze. Questa possibilità deriva dall’accettazione (rischiosa) di un “vuoto di mon­ taggio”; la giustapposizione dei diversi spezzoni e la sovrapposizione del parlato parallelamente alla distruzione del sonoro originale, ne tengono il luogo. Non è il caso qui di riesumare l’antica querelle del montaggio. A prescindere dal con­ cetto astratto di montaggio che (nello stesso Ejzenàtejn) viene ad assumere l’a­ spetto di una struttura generale della pratica artistica, e in genere di pensiero, nell’organizzazione dei materiali, il montaggio, nelle sue applicazioni rivendicate al cinema come prassi materialistica, ha spesso mostrato la sua meccanica deriva40

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zione - attraverso il filtro nobilitante e importante del maestro sovietico - dall’e­ conomia politica cinematografica americana (del resto giustamente ammirata da Ejzenstejn), legata all’ideologia del “tempo è denaro”. E non sempre è stato messo in luce quello che d’altra parte è il più profondo senso (l’unico fecondo) del montaggio: l’opposizione disperata a una situazione (quella cinematografica) in cui il materiale, nella proiezione, si monta e si lega comunque da sé, nella con­ tinuità del tempo fìlmico, legando tutti gli opposti e ogni dissonanza in una più o meno terribile e compiuta armonia. Spesso, il montaggio stesso è apparso mero artifìcio sovrastrutturale immediatamente reinglobato (definitone il valore limi­ tato di trasgressione) nel “parlare del capitale”. In effetti molti (forse tutti per­ denti) sono i modi e i tentativi di lavorare criticamente sull’immagine o di conse­ gnare un’immagine critica. Rocha, pure un ammiratore di EjzenStejn, vanifica il montaggio persino in quello che, volendo sostituire un’altra etichetta a quella di “documentario”, verrebbe chiamato (quasi in una determinazione di genere, più precisa quindi della precedente) un “film di montaggio”. Si è cercato di mostrare quale è stata la sua linea di lavoro. Il dato di essa è un film che, alle metafore della Corazzata Potemkin (non si parla qui del macchiettistico e risibile, orrendo “leone di pietra” - pur sacro e abusato esempio - punto in cui la metafora scade a un livello puramente meccanico che anticipa - con non maggiore ironia e con minore coscienza, per ovvi motivi storici, della “morte dell’arte” - le odierne pa­ rodie della metafora nei caroselli), ai nessi sicuri e magnifici del suo montaggio, sostituisce il vuoto provocatorio di una non-arte diventata “non” attraverso le sconfitte nella storia. Si è già rammentato il famoso desiderio di Goebbels per una Potémkin nazista, si sa dell’edizione manomessa e montata in modo diverso che fu proiettata mi pare nella Danimarca occupata dai nazisti. Allontanandosi dal rischio di oggetti che, sicuri nella sovranità del loro montaggio (figura del­ l’ambiguità metaforica - il montaggio - che si dissolve nel suo gratificarsi), pos­ sono essere desiderati c invidiati da tutti, Rocha oppone un’opera devastata che (ricordiamo Ford che filmava in modo che il montaggio logico potesse essere uno e solo quello che voleva lui, quale che fosse poi il montatore) non dà illu­ sioni, montando diversamente le immagini di História do Brasil non si otterrà nulla di diverso, esse manterrebbero la loro “insignificanza” apparente che na­ sconde i significati nei volti e nei corpi; parallelamente, qualsiasi commento par­ lato potrebbe sovrapporsi a quelle stesse immagini, dal più disgustosamente fa­ scista a quello parlato o mitragliato dal guerrigliero. Il corpo è disponibile per tutti, se vogliamo violentabile da tutti, magari verrà disprezzato come prostituta. Proprio per questo, in negativo, nell’abolizione del nesso, História do Brasil si avvicina all’ideale sempre sognato del film-cristallo metapolitico e assurdamente ancora “artistico” (quello di-cui tende Bresson), non manipolabile perché troppo indifeso, aperto a tutto e quindi impenetrabile. Come Rossellini. La vulnerabilità del film, la sua mancanza di illusioni, la sua distruzione di tutte le illusioni sul ci­ nema, lo rende un “nuovo cinema” inappetibile per tutti (forse per questo ab­ biamo sentito borbottare a Pesaro, nei ranghi di una certa sinistra molto uffi­ ciale, “un film poco utile..”, e speriamo invece che sia utilizzato proprio per la sua forza “altra”. Intanto, l’ha acquistato la Rai..). 41

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In più, la nozione di “cinema d’autore” è mangiata e digerita in História do Bra­ sil. I film degli autori del Cinema Novo, dello stesso Rocha, vengono “ingoiati”, espropriati e riportati al “cinema”. I film e gli autori vengono incorporati nel “ci­ nema-storia”, non sono più oggetti intoccabili e finiti, su di essi si può lavorare e speriamo anche giocare. História do Brasil è anche un documentario-fiction su di essi come aspetti del mito della storia, i loro soggetti apparenti (gli dèi-cineasti) si dissolvono perché non esistono in essi. E i film cambiano veramente, nella sto­ ria. Già Cancer era un film senza definizioni, da esso proveniva la stessa affasci­ nante sensazione dell’indeterminato proliferare del discorso, né documentario né cronaca né fiction il continuo affabulare gesticolare divertirsi o struggersi di saudade dei “marginali” capitanati da Carvana. Qui la fine, che giunge inattesa dopo lo sfilacciarsi delle ultime sequenze, ma che si era attesa come “logica” con­ seguenza mezz’ora prima, ridice l’unico possibile polo del film. H nome e il mito, la storia dentro al mito, il mito della riproduzione. Dal film A falecida di Hirszman, ecco la sequenza di folla pigiata in uno stadio, il tifo scatenato, solo le tri­ bune inquadrate, il campo non c’era nel film, era “fuoricampo”, e una scritta, di definizione cronologica, diceva “quando Pelé si chiamava ancora Ademir”. Ademir fu il Pelé degli anni Trenta o Cinquanta (non ricordo), Pelé ha dovuto bat­ tere i suoi record. Cambiano i nomi restano il mito il cinema la storia. (Finisce l’inserto da A falecida sulla folla.) Sul campo, ora la perla nera impazza, con tutta la verità e menzogna del mito che si produce nella cronaca. Dopo il mito del Ci­ nema Novo, si presenta in campo il mito più universale, vero e insieme folclori­ stico, della “cultura” brasiliana, il più riconoscibile fisiognomicamente, senza nomi: Pelé, il calcio, la danza sul prato7. È sempre fantascienza.

[Il Falcone Maltese, 8,1976]

1 La citazione può essere imprecisa, si basa sul ricordo lontano e sulla tradizione orale. 2 Spero di dimenticarne o aggiungerne qualcuno. ’ Nella lunga intervista, in due parti, pubblicata su Filmcritica, 256-257, 1975, Rocha definisce con notevole chiarezza le sue posizioni. Tra le altre cose, si veda il limpido e motivato giudizio negativo su Littin (La tierra premefida}, sul quale non si può che essere d’accordo. 4 Già Bazin era stato chiarissimo - e fondamentale - su questo punto. - Sempre per un’apologià della “confessione”, si può rammentare lo straordinario “falso documentario” militante presentato anni fa proprio a Pesaro, in cui si mostravano alcune sequenze di “tortura” ai danni di compagni argentini, come “rubate” da una candid camera: la falsificazione come coscienza. Oppure, diversamente, si veda appunto come qui Rocha giunga ad estrarre dai film di fiction anche le sequenze prettamente docu­ mentaristiche (lavoro dei campi). Ancora. Anche nel campo del film di montaggio più banale, perché non metaforizzare la metafora del montaggio? Perché non utilizzare un vilain che spara (o perfino John Wayne) e subito dopo Kennedy ferito a morte? Perché (per le scene di tortura) non le frustate sadiche di qualche film biblico..? ’ Vedi appunto lo stesso nel film di Mora. Avvicinandosi alla “sua” fine cronologica, il procedere fìl­ mico accoglie la cronaca, già resa però immagine-spettacolo da ciò che precede. 6 In un’intervista del 1962, Godard parlava già di un film “di tre o quattro giorni” sulla Francia. 7 U finale, più critico, è affine proprio a quello di A grande cidade (1966), dove Calunga, dopo la au­ todistruzione godardiana dei due amanti, si mette a danzare una samba muta, rabbiosa ma “bella”, chiusa in un cerchio ma “libera”, inquadrata dall’alto.

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Barry Lyndon. Sul Settecento “Nessuno aveva mai definito poeta un landscape-gardener” Edgar Allan Poe

“Accenno al fatto (che solo gli ignoranti contestano) che nella natura non esiste alcuna scenografia che un pittore di genio non possa produrre.” Edgar Allan Poe “Il pericolo sta in ciò che, per cercar di rappresentare il normale, si finisce col rappresentare il nulla, e con lo scrivere il romanzo della società anziché il romanzo dell’uomo.” Robert Louis Stevenson “(Proprio volendo: ‘Quanto alla scienza, non è oggi che posso dire quale mi sembra essere la struttura delle sue relazioni con la verità come causa, perché tocca al nostro progresso di quest’anno il contribuirvi.* Volendo an­ cora, qualche ‘cosa’ sul Nome-del-Padre..)” Jacques Lacan

Temo (anche se la paura non è Punico sentimento o reazione che mi provoca Barry Lyndon) che, perlomeno da noi, il film più “allontanato” (altri direbbe: ri­ mosso) di questa stagione sarà proprio l’ultimo di Kubrick (non volevo ripetere il nome, il titolo del film, e la frase è divenuta assolutamente ambigua). Temo in­ fatti (anche se..) che il film più esplosivo degli ultimi due anni sia fatto scivolare via con cautela e senza insulti, anzi vezzeggiato come una mina sull’acqua. Da noi poi: non è “nazionale”, non è “popolare”, è un “film in costume”. Nessuno lo attacca frontalmente, anche se il giudizio soggiacente in quasi tutte le recensioni è l’accusa di essere “un libro di illustrazioni costato 12 milioni di dol­ lari” (Newsweek). La commistione, il distomamento all’opera nell’opera, è cosa che infastidisce nell’epoca che favorisce la massima divisione disponendo dei mezzi più perfezionati e “totali” (appunto il cinema, la televisione mondovi­ sione) per integrare poi .tutto nello “spettacolo”. Il cinema, ancora una volta e perbacco, è il cinema. Il cinema deve essere quindi il campo di un vago ma ben circoscritto “fare cinema”. La nudità non è ammessa (sia Straub o Kubrick). Non c’è morale, il libro illustrato e la stampa fotografica sono (o sono stati) uno dei più giganteschi affari della pomposa “civiltà dell’immagine”, eppure è “immo­ rale” spendere tanto per farne un libro illustrato al cinema. Sembra l’ora della ri­ vincita, dopo l’impotenza di fronte a 2001 che rompeva comode divisioni “falsifi­ cando” Lumière fino a fame Méliès, “realizzando” Méliès fino a farne Lumière. E proprio le reazioni a Barry Lyndon confermano che l’accettazione di 2001 sul­ l’onda del successo di pubblico (dopo le prime stroncature) fu dovuta alle com­ ponenti “di genere”, cioè a quel che nel genere (la fantascienza) al cinema non s’era mai visto prima; trucchi e modelli incredibilmente “perfetti”. Lo stesso “realismo” (non uso il termine insensato, ma lo cito) di 2001: Odissea nello spazio sulla terra non va più bene, per il rozzo “naturalismo” critico. Perché ricostruire anche sulla terra “modellini perfetti” della vita che è stata? La chiarezza di ghiac­

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ciò di Kubrick (che pure aveva definito 2001 “un documentario”, quindi un film molto più “inventato” rispetto a un film di “anticipazione”) non ha aiutato nella risposta e, percorrendo quindi con assoluta precisione ma ad occhi bendati il percorso stabilito dal regista, si è parlato del ritmo lento che già gli era dispia­ ciuto in 2001. In questo ritmo lento, in questi “modellini settecenteschi”, si pon­ gono al massimo, cristallizzati nella maschera della morte (la perfezione geome­ trica e coloristica dell’immagine kubrickiana, che giunge in Barry Lyndon alla utopia della riproduzione perfetta della luce del passato, ha in sé inscritta nasco­ stamente - come il teschio distorto negli Ambasciatori di Hans Holbein - l’im­ magine della morte), il problema della Storia e il problema delle “storie” (di­ ciamo: della Storia e della Fiction), cioè quasi tutti i problemi, mediati dal grande problema del “medium” per eccellenza, il cinema che sempre più chiede di essere l’organo (o il contrario di esso, comunque la sua immagine) di nuove fi­ losofìe. (È evidente perché non ci occuperemo qui della ricerca fondamentale che si svolge nel film, a partire dalla didascalia iniziale, da parte di Redmond Barry: la ricerca del nome e del titolo, attraverso nomi falsi e falsi titoli, per ritrovare il Nome-del-Padre che ci è - e gli è quindi - celato nella prima inquadratura, in cui il padre muore in un rituale senza nomi. La questione è fondamentale, sì, in questo similmente al primo film nouvellevague che superi la nouvellevague, Adele H.; ma è problema di Barry Lyndon e di noi tutti, problema infine risolto nelle due parole in cui per sempre Ryan O’Neil trova “un nome e un titolo” (di film): Barry Lyndon, in realtà due cognomi uniti che -tagliano il “nome”. Un nome trovato che è invece un nome “inutile” e di pura Finzione, poiché la firma valida, che vediamo più volte, è quella di Lady Lyndon. La madre poi aiuta pre­ murosa il figlio mutilato a salire e scomparire nella carrozza; ma insomma ba­ sta..) Per questo, il punto di partenza (il “cinema” della situazione) sta proprio nel “li­ bro di illustrazioni”, non a caso forma di espressione tipicamente settecentesca. La cura maniacale (con cui è stato realizzato tutto il film) con cui Kubrick co­ struisce la maggior parte delle sue inquadrature a partire da quadri di autori del Settecento inglese, da Gainsborough a Hogarth, non è un vezzo figurativo, né compiacimento culturale di inserire, in un film sul Settecento, riferimenti foto­ grafici a quadri d’epoca (vedi, in questa direzione, le banalità del Giordano Bruno di Montaldo, e certe debolezze viscontiane). Né è imputabile solo al deli­ rio di “autenticità” (in campo e fuori campo) che accomuna Kubrick a un altro grande realista visionario, Stroheim. Semplicemente, la Storia comincia dai qua­ dri, e la “storia” stessa del film è “prodotta dai” quadri (Ryan O’Neal ha lo stesso volto di un “marito libertino” di Hogarth, e Marisa Berenson è identica alla mo­ glie di Gainsborough in un quadro esposto alla Tate Gallery). Kubrick prende ironicamente sul serio l’utopia di un cinema che voglia essere “storico”, e quella del cinema “in costume”, portandole alle estreme conseguenze. È partito quindi dal “cinema” dell’epoca, o meglio da ciò che prima di tutto di quell’epoca può “interessare” al cinema: le immagini. Da ciò possono partire a scelta le accuse di estetismo barocco o di volgare realismo, mentre Kubrick ha operato scoperta­ 44

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mente e “realisticamente” la prima fondamentale mossa di ogni “discorso” sul reale, cioè dichiarare (o tacere) attraverso quale mediazione si definisce il reale come tale. E indicativa la spiegazione di Moravia sulTEsprexro: “Kubrick poteva scegliere tra due strade: quella realistica cioè degli ambienti come erano real­ mente; oppure quella degli ambienti come il Settecento, attraverso la sua arte, ci fa capire che avrebbe voluto che fossero. Ha scelto quest’ultima strada e ne è ve­ nuta fuori una galleria di dipinti di autori inglesi dell’epoca., cioè di pittori che hanno espresso il sogno di razionalità, di ordine, di grazia, di nitore, di sensibi­ lità e di compostezza di un secolo demoniaco, sudicio, cinico, empio, insensibile e turbolento.” Lo storicismo di fondo che, incapace di comprendere la “fin­ zione” hegeliana, giace in fondo alla presunzione intellettuale anche dei meno “storicisti”, porta come sempre l’intellettuale a considerare se stesso come “ul­ timo” e quindi primo a poter essere “cosciente” di fronte a un passato di inco­ scienza. “Loro” erano “idealisti”; esprimevano - inconsapevolmente - “sogni”. Mentre se mai il sogno di questi pittori era ancora quello della riproduzione as­ soluta e perfetta e baroccamente “totale”, che porterà Turner alla follia - che ci sembra astratta - degli ultimi quadri di incredibili nebbie. Ma, si sa, lo statuto dell’arte va tenuto ben distinto, essa va mantenuta come “facoltà umana”, e per­ fino l’avanguardia (nonostante Warhol), viene utilizzata per tale ideologia. Ep­ pure, nonostante la dequalificazione ecologica, la campagna senese di oggi sem­ bra ancora “dipinta” (quindi, se volete: “sognata”). E se il volto del soldato è scontento, e perfino la sua andatura dinoccolata e stanca, l’effetto figurativo che il pittore ri-produce, che la m.d.p. ri-produce, non è per questo meno suggestivo e “bello”. Non è certo Kubrick che ignora le brutture fasciste del “bello” e ma­ gari il viceversa (si pensi ad Arancia meccanica, geniale metafora di tutti gli spet­ tacoli e “quindi” anche apologo sulla violenza); c’è anche qui lo schifo e la brut­ tura e il saccheggio; chissà com’era disgustosamente unto il bicchiere sporco che provoca la lotta tra Barry e un altro militare.., solo, non ne è mostrato, con detta­ glio, l’interno sozzo, e lo stesso dicasi per la casa che brucia.. Tali censure, del re­ sto, provengono proprio dalla Storia e dalla Pittura (nonostante il realismo acido di Hogarth); il Pittore vede da distante, non interviene, il rosso è bello: in qual­ che modo, rammenta la figura tradizionale dello Storico, che ricostruirà e analiz­ zerà fatti e realtà non subito, ma tra due anni, trentanni, due secoli, qualifican­ dosi proprio per la capacità di andare al di là del particolare “insignificante”. Prima e ironica appassionata dichiarazione, quindi: non esisteva il cinema, come reperto storico-figurativo abbiamo la pinacoteca (e la sequenza della pinacoteca, con l’arte e il capitale, è infiltri del tutto inventata rispetto al romanzo di Thacke­ ray cui si appoggia la sceneggiatura di Kubrick). Ma il film è sul Settecento, sulla Storia perciò, o meglio su un’epoca storica; quindi esattamente un film di quadri e soprattutto un film “sui” quadri. Cioè un film sulla luce, sul tempo atmosferico, sulla composizione dello spazio, sul cinema. Anzi, per portarsi sul piano della pittura d’epoca Kubrick e il cinema hanno dovuto aspettare le avanzatissime lenti Zeiss portato della tecnica aerospaziale, le famose lenti con le quali si sono potute girare le numerose sequenze a lume di candela; la tecnica cinematogra­ fica, avanzata per quanto riguarda la definizione dell’immagine, non era ancora

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in grado di riprodurre “quelle” luci, quelle candele. E il Settecento, è l’epoca dei Lumi (Lumières, in francese). L’epoca in cui si forma o si sforma il mondo mo­ derno, del Rococò e dell’Enciclopedia; in cui appare infine il Romantico, in cui si fanno decisive “scoperte” scientifiche, in cui Kant lavora su Hume. Dopo averlo fatto balenare praticamente in ogni suo film (dal castello di Orizzonti di gloria alla casa di Peter Sellers in Lolita, dalla stanza Luigi XVI di 2001 alle favole swiftiane II dottor Stranamore e Arancia meccanica) come momento storico in­ sieme di “luce” e di “morte”, “momento storico” per eccellenza e già inizio di contemporaneità, Kubrick affronta il Settecento globalmente, riproducendo un’intera vicenda e tutto il suo cinema all’interno dell’appartamento rococò in cui moriva e rinasceva David Bowman (così, Barry Lyndon naturalmente spiega, in quanto lo contiene e lo ri-produce, tutto il precedente cinema kubrickiano, come già faceva 2001, come - più metaforicamente - lo stesso Arancia mecca­ nica). Per il suo stesso ironico e fervido intellettualismo da scacchista, è una sfida misurarsi con l’età dell’illuminismo, la sfida di fare sull’età storica della “ra­ gione” lo stesso cinema già fatto per l’avventura “storica” aU’intemo della ra­ gione nello spazio astorico di 2001. Tuttavia, se in 2001 lo spiazzamento che faceva la forza del film nasceva dall’ipo­ tesi nera in uno spazio totalmente inventato ma plausibile, qui il rischio è che, nonostante l’inconsueto rigore della ricostruzione, lo spazio ricostruito risulti, al massimo, puro scrupolo naturalistico. A evitare ciò, Kubrick ha scelto il romanzo di Thackeray; il discorso sul Settecento si forma infatti come invenzione e messa in scena di un regista del Novecento che ha fatto un film sul 2001 e parte qui da un romanzo che si vuole “settecentesco” ma è scritto in pieno Ottocento. E sul piano della Fiction che si produce quindi lo spiazzamento in Barry Lyndon. Il ro­ manzo inglese del Settecento, nell’insieme la forma più alta e compiuta e “se­ riale” nella storia della narrativa, viene qui due volte disossato: prima dall’inter­ vento di Thackeray, geniale moralista che vorrebbe tornare all’innocenza cinica dei suoi predecessori (Defoe, Fielding, Smollett, Sterne ecc..) ma non riesce a di­ menticare una sussiegosa istanza critica, poi da quello di Kubrick, che taglia e ag­ giunge, dispone simmetricamente morti e duelli, e soprattutto riduce tutti i per­ sonaggi a figure tipiche e non caratteristiche, a cominciare da lui, il Barry Lyndon che nel romanzo è un “rogue” irlandese spaccone e nerboruto, nero di capelli e trasudante vitalità, mentre nel film si riduce al “nome” irlandese del gentile e spaesato Ryan O’Neal. Come accenna ironicamente e acutamente Arbasino, Ku­ brick “si è evidentemente preparato sulla Storia della Letteratura”. Di qui lo sconcerto di tanta critica - anglosassone e non - non avvezza al cocktail Gain­ sborough-Todorov. Di qui la delusione dei cinephiles, indispettiti per il modo in cui il film addita e frustra le varie possibilità spettacolari, per la mancanza di dialoghi sublimi o al­ meno intelligenti, per la secchezza ripetuta e intransigente dei procedimenti di ripresa. Quello che era forse il più costante dato kubrickiano in una galleria di opere diverse, l’interesse puramente scientifico e strutturale verso la narrazione (già Rapina a mano armata, salutato come sintomo di rinnovamento del “nero”, era stato girato da Kubrick solo per interesse verso la struttura temporale del ro­ 46

Burry Lyndon. Sul Settecento

manzo di Lionel White)» è stato sempre trascurato» nascosto dai caratteri di “ge­ nere”, ed ora che si mostra (in un genere astratto perché fisico, decorativo e mu­ sicale^ come il “film in costume”) viene respinto o ancora non visto. Se tutti i film di Kubrick sono “realistici” nel riprodurre i modi di un’esperienza mentale (spesso un incubo), 2001 e Barry Lyndon riproducono l’esperienza men­ tale primaria del pensiero, ora cartesiana e spinoziana ora hegeliana, ora dell’in­ telletto che pensa se stesso, ora della “ragione storica”. Ed è proprio per questi due film che il termine tecnico di Fiction riacquista il carattere di una “finzione totale”, audiovisiva e narrativa. In Barry Lyndon in particolare, Storia e Fiction si confrontano all’interno di un'unica grande Finzione. Il parossismo realistico della pinacoteca è tale che - come si diceva prima - si dichiara quale massimo di artificio, “modellino” appunto. Il gusto per il meccanismo come modello visibile di intellettualità, tipico di Kubrick, si oggettiva nella costruzione intégrale di enormi “finzioni” (si ricordi la grande centrifuga fatta costruire per le sequenze con assenza di gravità in 2001, si pensi agli abiti che - in questo film in costume - non sono “costumi” appiccicati addosso all’attore ma veri e propri abiti indos­ sati sopra a biancheria d’epoca., per ottenere lo stesso tipo di moviménto dei corpi, la stessa rigidità un po’ meccanica). In assenza di povertà, il rigore straubiano di Barry Lyndon può parere immorale o calvinista al nostro mondo catto­ lico; perché ciò che in Straub viene attenuato - e quindi certo reso accettabile e “riconosciuto” - dalla modestia dell’esperimento, in Kubrick si rovescia nella fi­ gura blasfema del Demiurgo. Ottenuti i miliardi, Kubrick non si accontenta certo del fiducioso idealismo della finzione cabarettistica o teatrale della Storia (come tanto giovane cinema tedesco di oggi, a parte il grande visionario Her­ zog), vuole una “finzione realistica” di essa. Se idealista è anche Kubrick, la sua è l’utopia dell’idealismo totale hegeliano “realizzato”. Il passaggio dalla potenza all’atto, per quanto travagliato, è immancabile; dal tape-à-1’oeil intellectuel di cui Godard accusava il primo Kubrick (ma Godard non poteva “comprendere” Ku­ brick, anche se amiamo i suoi film; non può comprenderlo ancora oggi, quando fa il suo meraviglioso Numéro deux tutto ancora teneramente “dentro” alla dia­ lettica e in realtà ancora così inconsapevolmente succube del cinema, visibil­ mente contento - e noi con lui - di mostrare le gioie visuali dei due schermi..), al quasi trompe-l’oeil di 2001, alla realizzazione ultima che assomiglia veramente al sogno del landscape-gardener (architetto ideatore e costruttore di paesaggi-giar­ dino) di Poe (peace on earth). È in questa forma massima di “costruzione” (della Storia e della storia) che si manifesta non solo l’irrealismo (e quasi il nullismo che precipita verso la didascalia finale: “Fu durante il regno di Giorgio m che i suddetti personaggi vissero e disputarono; belli o brutti, ricchi o poveri, buoni o cattivi, ora sono tutti uguali.”) ma soprattutto il principale effetto di spiazza­ mento del film, all'opera anche in altre costruzioni kubrickiane; all'incapacità del protagonista di controllare e determinare programmaticamente la propria vita e il proprio meccanico procedere (stessa incapacità di David Bowman; del presidente e dell’umanità tutta in Stranamore; di Kirk Douglas in Orizzonti di gloria; di Sterling Hayden in Rapina a mano armata; del governo a controllare e determinare Alex in Arancia meccanica) si contrappone con violenza la capacità 47

paura e desiderio

di controllo del regista. L’incapacità o la meschinità o la generosa impotenza dei personaggi sulla scena, che decretano la fine del soggetto, urta con la scandalosa presenza del soggetto fuori-campo che “mette in scena” e mette a morte, permet­ tendosi di costruire meccanismi-bomba, di trattare la Storia e il Mondo contem­ poraneamente come Realtà Scena e Finzione, per cui alla fine - al momento della didascalia - è vero che “sono tutti uguali”, perché il film è finito e non c’è più nulla. Perché anche per Kubrick il cinema è tragicamente tutto, quindi trage­ dia che contiene l’epopea del nulla; il tutto in Barry Lyndon sublimato nella mas­ sima “inutilità”. Ma non c’è tempo per occuparci del tipo di follia kubrickiana. Resta che il film “funziona” come spietata “illustrazione” della Storia, e del Capi­ tale con i suoi personaggi costretti negli abiti e nelle “inquadrature”-quadro, con i lunghi sguardi che emergono dalla freddezza totale per comunicare l’angoscia di quella che potè o potrà essere un’illusione d’amore o di felicità (tale il volto di Barry a tavola, guardato sadicamente dal ridicolo capitano Quin e ignorato dalla ragazza; tale lo sguardo di Lady Lyndon al tavolo - ancora! - da gioco, rivolto a un freddo e cinico Barry) subito rientrata e dimenticata nella memoria della Sto­ ria, o dispersa nell’esecuzione del Rito (Barry insulta Quin e lo sfida a duello), con le rare e improvvise irruzioni della camera a mano a rompere un equilibrio che - attraverso numerosi e diversi duelli, lotte e affrontamenti ora belluini ora quasi astratti e scacchistici - si ricompone nel duello finale tutto inventato, duello che unisce infatti l’odio (di Bullingdon) all’indifferenza (di Barry), la vio­ lenza (della tensione) alla geometria (della messa in scena), l’illuminismo al Ro­ manticismo. E la stessa storia narrata dall’altro protagonista massimo del film (oltre al Quadro), la Musica (che oltre a unire temporalmente e lateralmente come una carrellata laterale - i diversi tableaux, trascorrendo un medesimo brano senza interruzioni attraverso più sequenze, riproduce il lento passaggio dal classicismo al romanticismo lungo le diverse esecuzioni della Sarabanda di Haendel e mediante l’inserimento - in una sequela di brani settecenteschi - di un Trio di Schubert già romantico e ripetuto, distorto, sentimentalizzato e addirittura chopinizzato all’ultimissima inquadratura), per il quale potrebbe valere il di­ scorso già fatto sulla Pittura. Pittura e Musica sono cioè materiali di un meccani­ smo (robot) nel quale, come altro materiale, compaiono alcuni personaggi tratti da materiale narrativo selezionato che già compiva una mediazione sul Sette­ cento. Ripeto: il film funziona, come “macchina storica”, quanto e più di pochi film di Oshima Losey (Mr. Klein) Resnais Jancsó Lang Pakula Welles. Funziona “attraverso” la scommessa della superficie (è stato notato come già 2001 producesse il massimo di profondità annullandola nella superficie nichilista del nero), più volte falsamente (sono quasi sempre zoom) forata dagli ormai tipi­ cissimi movimenti della m.d.p. di Kubrick, in un’illusione di progresso e di dia­ lettica che confronta diversi piani diverse sezioni nello spazio della Storia, men­ tre invece è proprio solo “leggere” un quadro ma ancor più dargli artificialmente e disperatamente un centro “ottico” sul quale ci si possa basare. E questo tra l’al­ tro il momento in cui si scopre l’ansia dello stesso Kubrick di non bastare a se stesso come soggetto; perdersi nello spazio di 2001 può essere infatti liberatorio e vertiginoso, al contrario c’è paura di spaesarsi doppiamente in una Storia già

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Barry Lyndon. Sul Settecento

abbastanza estranea e matrigna: così domina ossessiva la visione frontale, visione piana e possessiva che suggerisce l’angoscia del suo contrario, dell’insicurezza. Non è comunque l’assenza di movimento; anzi questi movimenti quasi sempre rattrappiti sono il segno di un lavoro sul “movimento”, che al cinema (come sanno Kubrick e Oshima, Jancsó e Resnais, Pakula e Welles, Herzog e Lang e Godard..) è il supporto primo di ogni discorso sulla Storia (come di ogni discorso “erotico”; lo sa certo anche Bertolucci, qualificando però solo “liricamente” il movimento). Infine, lo si sarà capito nell’accenno al landscape gardener, è la questione del sog­ getto che si pone, mascherata nell’inveramento dell’Illuminismo all’interno del­ l’estetica romantica. “Colui che costruisce paesaggi”, immagine di un Dio, esula per esempio dalla Teoria Estetica di Adorno che liquida correttamente le dot­ trine pre-romantiche del “bello naturale”: eppure Kubrick è l’unico dei “grandi cineasti dal grande pubblico” ad avere qualcosa di beckettiano, e a lavorare così materialisticamente sui “materiali” (e la confessione del materiale è condizione dell’arte “progressiva”, per Adorno..). La flagranza dei materiali ripropone qui proprio la domanda sul Soggetto, il “paesaggio” ci chiede chi è il suo costruttore. Forse questa domanda sull’inesistente e sull’inesistenza fa paura, ha spinto a bearsi del Quadro e della Musica, o a rifiutarli in quanto “beanti” (è il limite del­ l’oscillazione mortifera del pendolo). Forse abbiamo (hanno) appunto paura di questo scomparire dei personaggi, degli uomini; ma contro questo rischio può parlare solo chi scriva e inventi storie di uomini e cose come Stevenson o che ab­ bia uno Stevenson nel suo paese, cioè solo il magnifico Stevenson stesso. Intanto, a noi basta, come al piccolo Bryan (che morirà bianco come un feto), che “non vengano spente le luci”, le belle candele, i lumi (grazie Zeiss). “Noi” (e non può che essere doloroso questo soggetto) vorremmo, retoricamente, che il “gelido capolavoro” facesse agire sia pur freddi entusiasmi di sfida. Barry Lyndon infatti, per quanto parziale e minima “sezione”, per quanto iscritto nel Capitale, per quanto apparentemente depotenziato e statico di fronte ad al­ tre “ricerche”, è cinema del futuro e per il futuro (quindi per oggi che leggiamo), come 2001. È un film che deve esser fatto “bruciare” e non fatto sistemare o ac­ caparrare dalle accademie; è - senza vergogna - “cultura” che può anche battere quella delle sedi deputate, delle fatiscenti università dove nessuno si stupirebbe incontrando domani, per le scale, dei fantasmi. In ogni caso, Barry Lyndon non ha necessità di chiamarsi Settecento.

[Filmcritica, 268, 1976]

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Méliès e i dolciumi (e la superficie)

“Come ad esempio quelli che in teatro mangiano dolciumi, fanno ciò so* prattutto quando gli attori recitano male!" Aristotele

Lo studio di Méliès non può che generare la noia. La pratica perversa del pren­ dere appunti nel semi-buio della proiezione si raddoppia nella discussione entu­ siastica della “scoperta”, si raffredda infine nell'esercizio di scrittura critica dove l’entusiasmo (che era solo manifestazione di gioia da parte del metodo per l’ap­ parire di nuovi oggetti da mangiare) infetti scompare o resta solo nello scheletro ansimante del testo. Credo che sia possibile e giusto mangiare dolciumi - ma an­ che cose salate come le noccioline - “durante” i film di Méliès, non perché gli at­ tori recitino male: piuttosto perché non ci sono attori, o meglio perché essi non contano affetto. Per Aristotele, il manifestarsi tra gli spettatori di un’attività in­ fantile bulimica voleva dire che qualcosa non funzionava a dovere nel meccani­ smo della tragedia destinato a istituire la massima profondità sociale. Di fronte a Méliès, essa sarebbe solo naturale complemento e chiosa di uno spettacolo in cui si ha una minima finzione di profondità rispetto a un’assoluta e dominante “su­ perficialità” (già nel profilmico). Lo spazio meliesiano è infatti, con rare eccezioni, quello teatrale compresso dalla scena. Méliès (dispensatore di dolciumi ai ragazzini, nel film dedicatogli pieno d’amore da Franju) si appropria (quasi scientificamente, inventando infetti il primo vero studio-teatro di posa) del cinema come riproduzione prolungamento ed estensione dello spazio teatrale, al contrario (schematizzando) di Lumière che proietta dentro un teatro le immagini di un nuovo spazio. Se Lumière non crede all’avvenire del cinema è proprio perché gli pare qualcosa di incommensurabile con le strutture spettacolari dell’epoca, semplicemente un “fenomeno”, un mo­ stro da mostrare in teatro; Méliès invece vede subito bene il cinema nelle sue possibilità strumentali (un mezzo per produrre i mostri teatrali..) e in qualche modo “evolutive” (sia pure solo nei confronti del teatro illusionistico): per que­ sto la sua opera risulta oggi straordinariamente compatta e “coerente”, prodotta e attraversata chiaramente da un “progetto”. Méliès mago teatrale viveva già un teatro basato sul “fuoricampo”, nel suo caso il “trucco”. Il cinema gli permette di assolutizzare e estremizzare l’illusionismo tea­ trale, allargandogli enormemente le possibilità del trucco fuoricampo, una volta apertogli lo spazio infinito del fuoricampo filmico. Se si vuole e si può chiamare “moderno” questo cinema, è perché proprio risulta dominato e prodotto dal “mago-regista” (dal suo lavoro) fuoricampo - che poi spesso entra in campo

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Méliès e i dolciumi (e la superfìcie)

come attore. In questo senso, definendolo “teatrale” ci si riferisce a un teatro che era già un po’ cinema, un teatro in cui non tanto importava l’assoluto del rappre­ sentato quanto il lavoro “dietro” le quinte, “sotto” il palcoscenico, “attraverso” i paraventi e i doppi fondi; e il pubblico stava nel gioco, tra sapere e non sapere del trucco. D principale “oggetto” su cui Méliès esercita il gioco dell’apparire-scomparire è l’uomo, il corpo umano; sempre costretto, sul palcoscenico, a schermare o velare nei modi più diversi l’attimo della sparizione di esso, Méliès può ora - grazie al­ l’uso di un fuoricampo più definitivo e meno precario dell’interno di un armadio o del doppiofondo di un cilindro - permettersi di “mostrare” in piena luce tale momento, di far vedere la sua “invisibilità”, di eliminare ogni aggeggio visibile (segno di possibilità di trucco) per dedicarsi alla pura meccanicità del gioco delle mutazioni, delle sparizioni, degli sdoppiamenti, delle riproduzioni. L’elenco degli esempi può essere lunghissimo, data la costanza del “trucco” sui corpi; estremi e tipici, il corpo dei seleniti che si dissolve come un petardo in nu­ voletta scoppiettante (Le voyage dans la lune), e la testa dello stesso Méliès (Le Mélomane) a più riprese spiccata dal busto, messa a indicare una nota su un aereo rigo musicale, riproducentesi poi al suo posto nel corpo, spiccata di nuovo dalle mani del suo stesso corpo, spinta in alto a indicare un’altra nota, ecc. Questo è l’interesse dominante di Méliès: la produzione e lo scatenamento dei fantasmi mediante la manipolazione ludica del corpo da parte del trucage fil­ mico. Il riferimento carrolliano è qui più legittimo che altrove, perché l’uso meliesiano del corpo non apre scissure in profondità dietro la superficie del “teatro”. Anzi, l’onnipresenza dei fondali scenici (anche se quasi sempre ironicamente stilizzati), di per sé antinaturalistica, risulta puramente naturalistica nei confronti dello spa­ zio teatrale (estremizzando il rovesciamento critico proposto da Godard per Mé­ liès e Lumière, potremmo parlare di “documentario”..). Perciò, lo spiazzamento provocato dai trucchi, dalle sparizioni, dai crudeli mutamenti del corpo soprat­ tutto, è solo di superficie e subito dimenticato, superato dal trucco che segue. La finzione è dichiarata senza pudore, i trucchi più inquietanti vengono usati in un ambito di burlesque, tra ammiccamenti sorridenti o irridenti (la luna che ride e fa la smorfia con il razzo conficcato nell’occhio può essere presa a “segno” tipico di Méliès, come lui stesso che saltellando allegramente si stacca il capo). Tanto sono forti e connotati nel senso di una certa tradizione (sia pure subalterna) di spettacolo, i materiali meliesiani, che il salto di qualità quasi non viene avvertito dallo spettatore, che non reagisce al “cinema” ma allo “spettacolo”, anche se esso è prodotto in modo cinematografico e grazie al nuovo mezzo tocca traguardi più saporiti. In tale ambito, le cose più strane fanno sorridere, spesso fanno magnificamente ridere. Furono molto più folgoranti le casuali e “banali” inquadrature dei Lu­ mière. Il treno riprodotto meccanicamente che dalla profondità di una fotografia in movimento si avvicinava al primo piano, provocava una reazione “vera” di paura in spettatori ben consci di essere di fronte a uno spettacolo e che la cosa non stava realmente accadendo, ma colpiti da questa inserzione inusuale di al­ 51

paura e desiderio

cuni elementi di realtà del tutto fuori dalle tradizionali strutture spettacolistiche. Più tardi, la massa incolta di un pubblico russo (ma ancor oggi tribù di abori­ geni) ebbe paura a vedere sullo schermo dettagli naturalistici del corpo (una mano, un volto), pensando a decapitazioni e squartamenti, dato che all’occhio, abituato bene o male ad abbracciare un campo visivo in qualche modo sempre “totale”, si presentava visivamente (e quindi sotto il segno della totalità naturali­ stica e riconoscibile) solo una porzione di esso. Dal magico Méliès, invece, proprio la magicità e sacralità dell’immagine veniva desacralizzata (modernamente?), contando solo il meccanismo ludico comples­ sivo. Al gioco meliesiano sul corpo non si crede (per questo resta gioco); al ci­ nema, la “magia” si rivela solo burla, buffoneria, sfrenatezza di invenzioni: l’illu­ sionismo non ha più un successo che non sia meramente spettacolare, resta solo un materiale, dentro a un mezzo che realizza e supera ogni illusionismo. Ecco, si smonta. H cinema di Méliès è solo godimento, quando c’è. Non descrivi­ bile in quanto tale, ma solo come insieme di meccanismi ripetitivi, manifesta­ zione di libertà (puramente) meccanica, in cui degli uomini e dei corpi ci si può sbarazzare con un tocco di bacchetta magica o con una spinta. E la superficie re­ sta preponderante, il soggetto primo; anche quando (spessissimo; cfr. comunque tutto L’auberge du bon repos) buchi si aprono, e i corpi sbucano fuori dai pozzi, dai cieli (Le voyage dans la lune), dai muri, è solo la superficie ad essere forata, non lo spazio ad essere attraversato o dimensionato. La facilità del “far tutto” col trucco del montaggio filmico smorza rapidamente, trascorrendo rapida la pelli­ cola, anche il vago stupore che genererebbe in teatro un simile “apparire dai fori”, quasi un comunicare col “dietro lo specchio”, quasi la presenza di un conti­ nuo “doppio fondo” da cui nascono gli uomini sulla scena: ma al cinema questo “effetto” fondamentale è dato in partenza, tutto “appare dal nulla”, ed è inquie­ tante il volto di Bene che in dissolvenza si mostra e poi scompare sul video in quattro diversi modi, più che tutti i trucages meliesiani. I dolciumi cioè restano essenziali. Il godimento non si può spiegare a se stesso, non si spiega se è più bello o divertente stare sulla giostra o guardarla girare. Quanto alla storia, Méliès, per motivazioni di cui le più razionali son quelle cro­ nologiche, è inchiodato nel ruolo castrante e fallace status di padre. In realtà, il suo è un cinema “sconfitto”, e non solo per la cattiveria della Storia. La sua fragi­ lità, l’incapacità (derivante dal disinteresse) di narrare, la dequalificazione delle sue scatenate e pur innocenti follie di fronte a quelle provate nella guerra, la pro­ babile scarsità di dolciumi dopo la guerra stessa, l’utopia progressista e scientifica di un cinema come “macchina” che può produrre tutto dal fuoricampo, non suf­ ficientemente attrezzata però per combattere (anche al suo interno) l’altra utopia della “riproduzione” totale (in cui quindi anche il costo - economicamente - si vede oggettivato nelle immagini e non tanto “sprecato” nel fuoricampo), spie­ gano la sconfitta. Padre di cosa, quindi, se non, genericamente, di qualsiasi étonnez-moi filmico? E difficile pensare a un cinema contemporaneamente cosi avanzato e così arre­ trato (forse, con riferimenti diversi, Bergman..). Filmico ma solo nelle porzioni minime di uno spazio teatrale codificato. Manipolante scientificamente tutti gli 52

Méliès e i dolciumi (e la superfìcie)

elementi dello spettacolo in rigorosa costruzione e progettazione, ma attestato non “dopo” (oltre) la narrazione (cioè dopo aver ingoiato il mito), bensì “prima” di essa, nella pellicola che protegge dalle profondità mitiche. Se lo studio di Méliès può generare la noia, è perché esso non ci può mostrare adeguatamente il geniale e fantastico “studio” (i teatri di posa, le macchine..) di Méliès. Ma ai bambini, oggi, dobbiamo dare Méliès (e il lecca-lecca), già allora più avanti, nella commistione animata di uomini e corpi e cose, della maggior parte del naturalistico “cinema di animazione”. Magari a colori, colorato o rico­ lorato a mano (come faceva o avrebbe fatto lo stesso Méliès); lasciando pure delle copie “originali”, “per il lavoro paziente dei filologi”, e anche per i piaceri (giustamente) perversi di chi vuole l’aura rétro. (Questo purtroppo non è Méliès, anche se avrebbe potuto esserlo; è Deleuze che contrappone Carroll e Artaud): “Un albero, una colonna, un fiore, un bastone spuntano attraverso il corpo.”

[Filmcritica, 271, 1977]

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Il trucco e il corpo (appunti da Lon Chaney e Tod Browning)

Il circo è evidentemente l’immagine spettacolare del mondo da cui partono sia Tod Browning - che nel circo lavorò giovanissimo - che Lon Chaney, per il quale “il cinema è l’estensione della pantomima’’. (Ancora più banalmente) il circolo è la figura dentro la quale resta chiuso non solo il circo ma anche Browning, fino ad oggi ritenuto uno dei “piccoli maestri” dell’horror; e lo stesso Chaney, figura mitica per fans collezionisti di fotografie, feticcio dell’appassionato ebete. La figura del circolo del circo è senza dubbio la più chiusa, la più formalizzata e oppressiva; necessariamente “equa”, spietata e assoluta, perché dentro di essa da sempre si mette in scena ciò che di più violento e impressionante si possa: (non tanto il domatore con le belve quanto) la forza e le abilità del corpo umano in tutte le sue forme, in tutte le sue contorsioni tra il riso e il pianto. E non solo del corpo umano, ma del corpo. In un certo senso, il circo è il gulag degli eccessi e dei prodigi del corpo. (Perciò, naturalmente il circo mette in scena spesso la libe­ razione dsX^enfermement, dalle manette, fino agli exploit di Houdini.) Il cinema, magnifico gulag totale del mondo, mondo del mondo, apparente­ mente più “libero” perché si mostra nelle forme della libertà (cioè “è informe”), surroga, sostituisce il circo come forma teatrale, lo estremizza, lo distrugge. Nel loro amore per l’eccesso circense, Browning e Chaney mostrano come avviene tale distruzione. (Curioso notare l’amicizia e il sodalizio tra Chaney-Browning e il grande tycoon Thalberg, produttore anche dei circo-eversori Marx.) Non interessa ora discorrere dell’apparire (abbastanza frequente) del circo nel ci­ nema di Chaney e di Browning, ma del loro rapporto con il trucco, il mistero, l’abilità e la truffa. Entrambi, all’interno del cinema presto organizzato in star-system si distinguono per discrezione e riservatezza; il “maestro del mistero” e l’uomo dai mille volti non indugiano in pose pagliaccescamente strane, e al di fuori dei film abbiamo di essi foto di scena in cui compaiono due professionisti freddamente intenti al loro lavoro, Chaney non si mostra quasi mai in pubblico, non invia fotografie ai nu­ merosissimi fans, vuole che il suo volto resti nascosto, affida la sua immagine solo alle prestazioni di attore impressionate nella pellicola. Entrambi, mentre si impegnano essenzialmente nel campo del “melodrama” (nel senso teatralamericano del termine) più contorto, dal poliziesco misterioso all’in­

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Il trucco e il corpo..

trigo esotico, rifiutano ogni sensazionalismo. Perciò occorre un lavoro tecnica* mente accuratissimo perché i trucchi siano perfetti e non sgangheratamente esi­ biti fino allo svelamento finale. Lo sforzo si esercita quindi - all’interno di uno “studio” - verso un’integrazione del trucco nel film, che non deve essere un “film di trucchi’’ (quali per esempio sono tutti i film di Harryhausen, fino al pia­ cevole sperpero dei due ultimi Sinbad di Hessler e Wanamaker). Così, quando Browning1 sostiene la necessità di una “verosimiglianza” del fantastico, del biz­ zarro, dell'éfrange, verosimiglianza sia visiva che logica (del racconto), chiarisce la portata illuministica del suo modo di fare cinema dell’oscuro, come Chaney ri­ tiene di aver trovato in anni di osservazioni e esperienze una vera “grammatica” del corpo e dei suoi gesti, del volto e delle sue espressioni, e forse di aver fon­ dato una scienza del trucco (su cui scrive un articolo per l’Enciclopedia Britan­ nica). Infatti, le luci del cinema hanno liberato il circo delle meraviglie dalle sue linee obbligatoriamente teatrali, ma la sfrenata possibilità di ampliare il dominio del trucco (non solo in Méliès capostipite), per quanto inebriante e “mirabile”, mina alla base la credibilità di esso, cioè ne dissolve una delle componenti essenziali, l’effetto di “presenza”, di performance, di happening; dato che la “forza di ve­ rità” (cfr. Bazin) è puramente tecnica e attiene all’operazione del filmare e del proiettare che è o viene creduto sempre “vero”, non a ciò che viene (troppo facil­ mente..) filmato. E l’assurdo, ciò che si discosta dalla quotidianità, il “fantastico”, hanno bisogno per essere tali di un collegamento col verosimile, di una “possibilità di verità” che il cinema, assicurandola a tutto, in gran parte riduce di forza. È certo possi­ bile il film totalmente “astratto” o “concettuale” (vedi alcune realizzazioni elet­ troniche o a disegni animati, e non p. es. gli straordinari film di Snow che cer­ cano proprio di “comunicare” il farsi di una performance fisico-tecnica), total­ mente “altro” rispetto al mondo (o al cinema); ma oggi per esempio la maggior parte dei film espressionisti tedeschi - degli anni dieci e venti - che hanno a che fare con Vétrange o cercano di fondarne un’immagine - risultano risibili proprio nei trucchi e quindi nel loro scontro-confronto con la “realtà”. L’illuminismo di Browning e di Chaney consiste nel rafforzare, tramite la perfe­ zione dei trucchi e della performance, la credibiltà del filmato - una volta accet­ tata la finzione base di Hollywood (non si beve in scena) e il generale irrealismo del lavoro in studio.

La catastrofe, il cinema e l’anima(le)

Ma se sul set non si beve né si fa l’amore, tuttavia si muore (col permesso di Ba­ zin; solo che non si vede, o meglio si vede ma non si distingue: si pensi ai morti sul set del kolossal di Curtiz L'arca di Noè) e, con Chaney, si assiste allo spetta­ colo del corpo che si autocostringe, si amputa, si trascina sul terreno, nel modo più verosimile e masochistico. Non è travestimento, né fregolismo applicato al­ l’orrore e al bizzarro; non ci si traveste da ragno, e la battuta “non schiacciare 55

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quel ragno, potrebbe essere Lon Chaney!” sintetizza bene e paradossalmente la questione. Molti grandi attori hanno affrontato la prova delle molte parti diverse in un solo film (per restare a oggi, da Alec Guinness a Peter Sellers), ma in ge­ nere essa è la dimostrazione della versatilità virtuosistica dell’interprete, sempre legata al gioco del travestimento sotto il quale bisogna riuscire infine a ritrovare lui, l’attore, Chaney non è l’attore determinato che passa da un ruolo all’altro, o quello che finisce per riassumere l’incarnazione del ruolo (John Wayne); Chaney appunto ha (ha voluto avere) come unico volto suo i mille volti che è stato sullo schermo; Chaney si definisce proprio in questa capacità di modificarsi, è questa capacità di cambiare la propria forma: non si limita a indossare gli abiti o i tic o la psicologia di un personaggio, ma ne prende il corpo più che prestarglielo (come avviene nel rapporto classico tra attore e ruolo). Ecco, Chaney è probabilmente l’unico attore (con l’eccezione di Keaton, Laurei e Hardy, e in scala ridotta forse il Sellers di Stranamoré) che al cinema abbia reci­ tato con tutto il corpo, facendo del suo corpo uno spettacolo (come quello di Mae West o di Marilyn), costruendo le storie con esso. Ciò, nonostante l’utilizza­ zione “specializzata” e in qualche modo limitata subito fattane da Hollywood; che sembrerebbe confermare il vieto sociologismo del “mostro” come riassunto di tutti “gli altri”, visto che Chaney ha interpretato (non solo nei dieci film con Browning regista), spesso mescolati tra loro tutti i ruoli di escluso: dal senza gambe al senza braccia allo storpio, dal cinese al contadino populista russo, dal clown al cattivo e al “brutto” di ogni genere. Ma non sono tanto i personaggi ad essere unificabili in una classe di omogenei, quanto Chaney (che in una tale classe sarebbe illogicamente compreso) a dar loro un collegamento, riducendoli alle diverse forme del suo corpo; il moralismo è, se mai, un altro: chi tocca il pro­ prio corpo, chi letteralmente si fa a pezzi, chi non si rende riconoscibile nell’inte­ grità di un corpo sano, è destinato a perire e a scomparire anche quando è il pro­ tagonista. (Naturalmente fa piacere notare la somiglianza di alcune delle immagini browninghiane di Chaney - in West of Zanzibar per esempio - col volto e col cranio di Bufiuel che si taglia l’occhio in Un chien andalou. E Chaney “cinese” uccide Chaney “gangster” in Outside the Law.) Uno dei segreti del successo nella collaborazione Borowning-Chaney (Borowning è solo uno stupido e automatico errore nel battere a macchina; talmente in­ sensato quindi che lo lascio) è ancora una volta nella perfetta integrazione di Chaney nel racconto visivo, racconto - si è già detto - di tipo melodrammatico horror (o “fantastico?”). Utilizzato in effetti da altri registi come entità aliena, come oggettivazione razzistica dell’orrido e del temibile, o decorativamente (cioè come la maggior parte degli attori tipici dell’horror), Chaney è invece la struttura principale dei film di Browning, il cui cinema del resto tende nell’in­ sieme e non occasionalmente a oggettivare paure e pulsioni diverse. Per questo i film di Browning hanno una forma rara nella storia del cinema fantastico o del­ l’orrore. Ricreata per quanto possibile, con l’esercizio della tecnica e del lavoro, la chiusura della forma circo-lare - proprio nell’accettazione di fondo del lavoro

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Il trucco e il corpo-

necessario per quel “verosimile”2 - dentro di essa o nei confronti di essa non per­ mette un facile e immediato rapporto di opposizione. Non la solita dicotomia normalità/follia, non lo schema tipico in cui il fantasti­ che si sprigiona o si insinua da una falla nel tessuto di una realtà quotidiana con­ solidata, non la tranquillità del ménàge sconvolta da un erotismo delirante; in­ somma, non le formule narrative che oggi possiamo considerare abituali per il fantastico cinematografico e non. E neanche, parallelamente, l’apparire violento di uno stile in opposizione al genere e agli oggetti, l’opposizione di una tecnica agh oggetti e agli schemi narrativi che cerca di sublimare. Quindi, al di là di co­ modi meccanismi di esclusione-inclusione, abbiamo proprio come struttura nar­ rativa dei film (The Unholy Three, West of Zanzibar, Road to Mandalay, The Un­ known, etc.) il semplice mutare di un corpo, la modifica continua e pur trauma­ tica (un trauma continuo) delle sue forme. Quasi una definizione della catastrofe secondo René Thom3. Il movimento è quindi interno al film e solo ad esso, e dif­ ficilmente può essere riprodotto e raccontato facendo ricorso ai normali moduli narrativi delle storie di anormalità, follia, etc. (Di qui un’impressione di staticità, in alcuni film di Browning senza Chaney, come per esempio The Show, dove però alla fine la staticità si riscatta in una fis­ sità da psicodramma simile a quella che apparirà spesso - a intermittenza - nei film di Henry King.) L’ironia intesa come elemento interno e corrosivo non ha posto in questo qua­ dro, mentre è tipica degli altri principali corpus di opere nel campo del cinema horror (Fisher, Corman). Il trucco non serve mai principalmente all’ironia del­ l’attore, come avviene con un Vincent Price. Il trucco è il film e l’oggetto di esso. L’ironia (nell’ultimo film di Browning, senza Chaney morto da anni: Miracles for Sale, 1939) si ha solo verso il trucco troppo esibito e poco verosimile, verso il puro illusionismo da prestigiatore (cui noi pure crediamo..). Per il resto, non c’è un’ironica mina interna perché tutta la struttura è già minata, incentrata sulla realtà della catastrofe. Tutto è immediatamente sublimato nel lavoro, che nella calma di una regia “come le altre” giunge alla sublimazione crudelissima di una realtà come quella di Freaks che, a raccontarla o a vederne delle fotografie, par­ rebbe intollerabile. O forse un’ironia totale, “prima” dei film o fuori di essi c’è, un’ironia più del ci­ nema che di Browning. Non è infatti definitiva come sembra la vittoria illumini­ stica e la manipolazione dei misteri del cinema da parte di Browning e Chaney. La loro riuscita istituisce anzi un’ambiguità totale che quasi irride le ambizioni di verosimiglianza dell’uno e l’illusione dell’altro di aver trovato un repertorio di espressioni facciali e del corpo in cui a un segno corrisponda precisamente un si­ gnificato. (Il senso è escluso da una teoria delle catastrofi?) In effetti, una volta restaurata la credibilità, il cinema resta qualcosa in cui tutto è troppo credibile, in cui ancora e sempre non si riesce dall’immagine a distin­ guere il morto vero da quello falso (per non parlar del vivo). Allora, perché Lon Chaney non potrebbe davvero essere un ragno? Alla fine di Freaks, dopo un lungo racconto-parata di veri “mostri”, i più “veri” (senza bisogno di Chaney), si ha il trucco preparato già anni prima da Browning con Chaney: quello della

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donna trasformata in gallina. La stessa Badanova lì diventa Chaney, è veramente la donna-gallina, o meglio, dopo tale sequela di abnormità per un attimo di fronte a questa creatura “impossibile” abbiamo la sensazione del normale, del “naturale”: non d era stata presentata come “natura” quella di prima? Uno di quei brevi attimi suffidenti a illustrare per sempre e ancora la vera ambiguità del cinema. Chiara in un cinema come quello di Browning e Chaney che la combatte per raf­ forzarla, un cinema che assembla ogni tipo di trucchi per far sentire come noi stessi siamo truccati da esso. Un cinema nel quale un corpo è senza bracda e poi le riacquista, in cui dei piedi laudano coltelli, in cui un acrobata diventa uno storpio vendicativo e poi un santo, in cui un uomo nasconde le bracda di giorno per poter (oltre che rubare di notte) desiderare senza che se ne accorga e lo tema la bella che, in parte da lui istigata, ha paura di essere toccata dagli uomini, in cui una falsa donna-gallina è meno incredibile di un uomo-torso che si accende la si­ garetta. E questo meccano è bellissimo, ed è un gioco che fa paura, questo smontarsi-rimontarsi del corpo, questa esibizione di ferite nel corpo dei desideri, questa stessa ambiguità dell’irriconoscibile se non nella piaga; paura di non poter essere distinti, di diventare galline o di esserlo già. {Filmcritica, 276,1977]

1 Vedi le interviste raccolte insieme con altri materiali nell'accuratissimo volume edito dalla Cappella Underground di Trieste (a cura di Stuart Rosenthal, Lorenzo Codelli, Giuseppe Lippi, Rosella Pi­ sciotta) in occasione della rassegna triestina, “FANTAMERICA 1", Tod Browning Lon Chaney, in cui si trovano anche le filmografie più accurate di Browning e Chaney. 2 Anche nel film che ha fórse il "plot** più delirante e illogico, The Devii Doli, post-Chaney, tramite la cura avanzatissima del trucco della proporzionalità Browning riesce a dare consistenza visiva (di “realtà”) a situazioni che rientrano comunque nella sua casistica di modifiche di corpi, forme e di­ mensioni (qui c'è addirittura il siero che rimpicciolisce i corpi), insieme con un Lionel Barrymore travestentesi. O si noti, in un film pre-Chaney, White Tiger, come anche una realtà prevalentemente psi­ chica - a parte l'uso nascosto sorto l'automa scacchista.. - venga portata, tramite il thriller, a rappre­ sentarsi in un seguito di catastrofi che condensano molto bene (e svelano) il procedimento melodram­ matico classico verso l’agnizione. 5 Cfr. Thorn, Modèles mathématiques de la morphogenèse, 10/18, Paris, 1974.

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Per quanto tempo ancora (la durata del cinema e dei film) “La durata è la continuazione indefinita delTesistere. - Spiegazione: Dico indefinita, perché non può mai essere determinata attraverso la stessa na­ tura della cosa esistente, e neanche dalla causa efficiente, la quale pone, sì, necessariamente, resistere della cosa, ma non lo toglie.” Baruch Spinoza, Etica (Torino, 1959, p. 68)

Ottantanni di cinema ormai (1895-1977). L'inizio è quindi vicino e storicamente memorizzabile, lo svolgersi dotato di una precisa cronologia. Da cui, un’inevita­ bile “modernità”, oltre a una particolare storicità; e soprattutto, pas d’entretien infini', diversamente dal flusso letterario, testo illimitato che possiamo ipotizzare senza margini temporali poiché è ipotizzabile sempre un parlante (risalendo p. es. anche oltre la scrittura, alla tradizione orale) o un soggetto come macchina che produce il discorso, per il cinema non si configura un “prima” del cinema. Finché la macchina non è data, non è ipotizzabile l’uomo con la macchina da presa, né la m.d.p. che operi da sola la riproduzione meccanica ipoteticamente “infallibile”. (Si parla qui del cinema come apparato esistente, non delle moda­ lità di un’eventuale “funzione-cinema”.) Tanto è situato cronologicamente e storicamente, il cinema, da esser stato quasi “previsto” da Hegel nelTEr/e/zo/. A proposito della “dissoluzione della forma d’arte romantica”, Hegel sembra veramente delineare il cinema, se non altro come cadavere dell’arte che muore: “.. Dobbiamo ora determinare il punto in cui il romantico, che in sé è già il principio della dissoluzione dell’ideale classico, la­ scia ora in effetti chiaramente comparire questa dissoluzione come dissoluzione. E da esaminare, prima di tutto, la completa accidentalità e esteriorità della mate­ ria, che l’attività artistica coglie e configura. Nella plastica dell’arte classica l’intemo soggettivo è riferito all’esterno in modo tale che questo è la forma propria dell’interno e non è emancipato. Nel romantico, invece, dove l’intimità si ritira in sé, l’intero contenuto del mondo esterno acquista la libertà di muoversi per sé e di conservarsi nella propria peculiarità e particolarità. A sua volta, quando l’in­ timità soggettiva dell’animo diviene il momento essenziale per la rappresenta­ zione, è parimenti accidentale in quale contenuto determinato della forma esterna e del mondo spirituale venga a vivere l’animo. L’interno romantico si può quindi mostrare in tutte le circostanze, può dibattersi in mille e mille condi­ zioni, situazioni, rapporti, dissensi e complicazioni, conflitti e soddisfazioni, poi­ ché quel che viene cercato e deve valere è solo la sua configurazione soggettiva in lui stesso, l’estrinsecazione ed il modo di assimilare dell’animo, e non un con­ tenuto oggettivo valido in sé e per sé. Perciò nelle rappresentazioni dell’arte ro­ mantica tutto trova posto, ogni sfera e fenomeno della vita, il massimo ed il mi­ nimo, l’eccelso e l’umile, l’etico, il non etico e il male..” (tr. Merker, Torino, pp. 59

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664-667, e vedi poi da 667 a 682 il romantico che si decompone finché l’arte di­ venta tutta ritrattistica, e le pagine specifiche sulla pittura). Il soggettivo estre­ mizzato e infine deceduto e mantenuto come finzione della m.d.p. (ma nulla e nessuno può occupare realmente il “luogo” della macchina da presa), tramutan­ dosi in oggettività assoluta si è convertito quasi immediatamente in spettacolo, in un exploit che si mostra. E oggi di questo spettacolo si vaticina, si teme, si in­ voca la morte, come è sempre avvenuto a ogni sensibile diminuzione nel numero degli spettatori, come avvenne in USA coll’avvento massiccio della televisione. H mito della morte del cinema è legato, non solo psicologicamente, proprio alla ri­ gorosa determinazione cronologica della “nascita” e alla separatezza del cinema (insieme con la fotografia) da ciò che lo precede; se qualcosa (di nuovo) si è pro­ dotto è stato prodotto, dovrà avere almeno (se non un fine) una fine. Altri inizi del resto (il parlato sonoro, il 3D rapidamente rientrato) hanno successivamente rimandato a una “conclusione”. In realtà questo è solo un millenarismo di tipo “tecnico”, prodotto dalle contrad­ dizioni tra sviluppo tecnologico e capitale; le varie novità sono un seguito di transizioni attraverso le quali l’apparato di produzione viene reso oggettiva­ mente sempre meno sicuro e sempre più superfluo, per cui lo stesso apparato cerca di mascherarsi come “indispensabile” e di riaffermare il (mondo del) ci­ nema come “separazione”. Così, il cinema USA assunse molto presto la forma del monopolio (cfr. Cinéma et Monopoles di Mercillon, Parigi 1953), ed è noto come il progresso tecnico sia stato e sia tuttora (dall’introduzione del sonoro e del co­ lore alla diffusione di macchine poco costose) spesso frenato ad arte (interessante il caso minimo e ovvio della “durata” del film-pellicola intesa come resistenza al deterioramento, che non è affatto aumentata negli ultimi decenni). È però sem­ pre più difficile, per l’apparato cresciuto intorno al vuoto assoluto dentro alla m.d.p., mantenere la sua maschera di indispensabilità e di totalità (della riprodu­ zione e non solo); nella società spettacolistica che è tutto l’esistente ingoiato come spettacolo, il cinema non può pretendere di gestire totalmente lo spetta­ colo stesso. Il cinema che dall’inizio ha monopolizzato “il cinema”, il cinemaspettacolo, è proprio quello di cui oggi, in Italia e in Europa, si teme la “fine”. Ed è probabile che esso, come spettacolo di massa, si stia attenuando; l’industria produce meno film, e a beneficio di produzioni a basso costo o di superprodu­ zioni scompare (sul piano dei costi almeno) tutta quella fascia “media” che ha sempre formato il corpo delle varie cinematografie: il cinema di cui oggi più si parla nel mondo è il “nuovo cinema tedesco”, cinema mediamente “povero” - da un paese ricco -, e con pochi spettatori. Ma questo cinema che scompare è per l’appunto il cinema-teatro, il cinema che da sempre viene proiettato nei teatri (chiamati: “cinema”); cinema che per diventare “mito” ha ancora bisogno del rito, necessita di uno schermo grande e di una proiezione con inizio e fine. Solo scomparendo come apparato esterno e rito, esso può riuscire a persistere, anzi a eternarsi, di nuovo come mito (ora un piccolo mito oggettivato), grazie al suo es­ sere “parlato” e “scritto”, grazie alla sua “ritrasmissione” generale attraverso il canale televisivo; negli USA anzi, dove la TV ha già svolto (e continua) un’azione di riproposta martellante e ossessiva dei film passati, tale azione ha già avuto un

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effetto positivo di ritorno sul cinema stesso, cui viene portato un pubblico nuovo magari giovanile ma in ogni caso già “revivalistico”, cioè motivato da una vaga ma forte “cultura” acquisita per via TV (vedi Scorsese e il suo successo, come quello di Lucas, Spielberg..). Certo, ciò che scompare così è la dimensione gene­ rale di massa dello spettacolo cinematografico; continuano gli exploit eccezionali di pochi film e si operano nuovi colossali sforzi produttivi, ma si può ipotizzare una situazione tipo quella di un altro grande ex-spettacolo di massa, l’opera li­ rica, ancora seguito da appassionati (molti in assoluto, pochi relativamente) ca­ paci di formare grandi platee, eppure inevitabilmente “sovvenzionato” ed econo­ micamente “passivo”, tenuto in vita come parte di una cultura e non (vivente) come la cultura. A parte questo millenarismo non tutto ingiustificato, ce n’è uno più interno e co­ stitutivo, costitutivo del fare e vedere cinema e interno a tutta la storia del ci­ nema. Deriva dal modo in cui il cinema ha a che fare col tempo, da come “du­ rano” i film. “Momie du changement* chiama il cinema Bazin differenziandolo dalla fotografia. E appunto se la fotografia resta inevitabilmente archeologia, se­ gno tombale del già trascorso, il film proiettato imbalsama il tempo, lo riproduce comunque nel presente. Se la musica è nel tempo del tempo sul tempo, il film “mangia” il tempo e ne riproduce la linearità, è obbligato al tempo ma anche ob­ bliga ad esso e lo costringe a “prodursi” in un luogo preciso (dove avviene la pro­ iezione; nella sala, sullo schermo). Ancor più, il cinema si appropria del tempo espropriandocene; non solo perché le persone e le cose dneriprese restano da quel momento per sempre (in quel momento) a disposizione del cinema che a sua volta potrà farle “rivivere” (cfr. Valéry, Bazin, e il Morel di Casares), ma per­ ché ogni film per essere visto ha bisogno della presenza (sia pur sonnecchiarne e “lontana”) di tutto il corpo (testa culo piedi) in un luogo preciso quindi (senza il senso dell’appartenenza allo stesso spazio del rappresentato, che era nel “vec­ chio” teatro-teatro) di uno spettatore che sia disposto a “guardar trascorrere il tempo”. Sembra la normale condizione di qualsiasi attività, ma nel buio della sala si consuma invece un “lavoro” di tipo particolare; spesso quando se ne esce il sole è già tramontato, la notte è cambiata, il tempo è per forza passato, come in fabbrica. Due ore perse (perché il film “era brutto”, o perché ci sarebbe stato “al­ tro da fare”, etc.) al cinema sono definitivamente “perse”, passate senza che null’altro accadesse. (Certo resta il dubbio se vai la pena che qualcos’altro accada, ma non è rara l’esperienza di uscire dal cinema abbattuti e tristi anche dopo il film più esilarante e che più ci ha esilarato; e l’entusiasmo dei cinéphiles più sca­ tenati e totali - migliaia di ore nei cinema - all’uscita da una proiezione è solo la maschera obbligata di chi ormai vuole e deve vivere quella “perdita”.) Nessun ar­ zigogolato flashback, in fondo, impressiona come il puro e semplice fatto che il film meccanicamente “avanza” (“le cinema marche19, Truffaut) e dà un tempo alla nostra percezione. E anche questo suo essere orientato inevitabilmente “in avanti” nella condanna all’obbiettivazione, che ne fa un’inesauribile macchina di catastrofi. Nel cinema, a ogni film e a ogni momento, ci si mostra il più noto e (trivialmente) affermato dei modelli temporali: quello dello scorrere fluviale (in genere verso morte nel mare). Le possibilità del cinema in questo senso sono let­

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teralmente “infinite” e vertiginose: ipotesi di film senza limiti di tempo, o il so­ gno cronachistico di tutti i folli “realisti”: l’intera vita di un uomo “registrata”, o il comportamento di un gruppo nell’arco di dieci anni, e naturalmente la crescita degli alberi.., oppure l’altro sogno baziniano di un mondo avvolto in sudari pelli­ colari. In qualche modo: il film totale, il cinema “totale”, anche se limitatamente allo sviluppo temporale. Ma la censura principale che il cinema ha sempre subito è stata in effetti quella sulla rappresentabilità (più che di qualsiasi altra cosa fotografata) del tempo. Ed è essa il segno di tutte le paure (non solo “del” capitale) che hanno “autocensu­ rato” il cinema dal sogno del u cinema tota? (cfr. Barjavel, Parigi 1944), mito della rappresentazione integrale e onnicomprensiva (tutti i sensi implicati, etc..). Per arrivare al paradosso del “cinema totale” (chi è a produrlo, chi il burattinaio, chi il “creatore”; o il “savant fou”..) basta infatti lo sbrigliamento (anche pura­ mente mentale: qui..) sul piano della durata, della lunghezza. Il “film di trent’anni” - parlo sempre del filmteatro che ha bisogno di essere proiettato in un “teatro” - ipotetico potrebbe essere “visto” solo a patto di passare e impegnare in ciò trent’anni della propria vita; il “film di un secolo” sarebbe matematicamente invisibile in rapporto a uno spettatore-soggetto isolato; il più bel reperto di cinema antropologico o “scientifico”, se troppo lungo, resterebbe letteral­ mente non consultabile; le bobine della “storia del mondo” potrebbero esser vi­ ste solo a pezzetti, per assaggi e tentativi qua e là (“esploratori” potrebbero per­ dere la vita tentando di arrivare “più in là” nella “conoscenza”..). No more science-fiction (ché poi infatti il cinema di fantascienza è rimasto a livelli irrisori sul piano dell’invenzione..). Non è difficile comunque capire allora perché tutto il cinema (in qualsiasi paese) si sia fino ad oggi esercitato in direzione di una “gestione del tempo” rigorosis­ sima: quando si parla di “efficacia” filmica si allude alla concentrazione di parec­ chi “significati” o parecchi “segni” (o azioni) in un tempo definito, la standardiz­ zazione nel numero delle inquadrature per film all’interno del cinema americano classico e il “montaggio” ejzen&ejniano vanno nello stesso senso, e ogni manuale di tecnica insegna a tralasciare i “tempi morti” (illusori?) per “saziare” di mate­ riali e di cose narrate il tempo-cinema che di tempi morti non ne ha mai. D fatto che nella quasi totalità i film girati dal 1895 ad oggi durino meno di due ore è al di là delle spiegazioni empiriche immediate - di per sé stupefacente. Questa gestione “economica” del tempo (fino al fotogramma subliminale) tende esorei­ sticamente a rendere “neutro”, standardizzandolo in una misura corrente (il film potrebbe perfino, grazie al suo carattere di “continuità” e appunto alla regolarità media delle “durate”, essere preso a unità di misura: “ho vissuto duemila film”..), l’elemento tempo troppo inquietante. Contro l’incubo della “proiezione infinita del tempo”, contro la proliferazione incontrollata di “fantasmi temporali”, si è instaurata una sorta di “ascetismo temporale” che ha cercato di frustrare il mag­ giore o unico erotismo filmico derivante dall’unico “senso” sicuramente rintrac­ ciabile nel cinema, quello dello “scivolamento” nel tempo e del tempo (in tal “senso” è stato importantissimo il ruolo dell’accompagnamento musicale e poi del parlato, che hanno certamente modificato la percezione temporale dei film; è, 62

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la musica infatti - il rumore, il sonoro - che permette di superare già agli esordi del cinema la qualità allucinatoria e in qualche modo “fissa” dell’immagine in movimento; il suono è sempre decisivo per la capacità del soggetto di percepire il trascorrere del tempo e di valutarlo; perciò, questi elementi tecnici più “inna­ turali” che altro - perché un’immagine bidimensionale si mette a parlare?.. Da dove viene questa musica?.. -, complicando il quadro dei riferimenti temporali, facendo slittare il tempo musicale su un altro tempo, danno insieme maggiori punti di appoggio allo spettatore, rafforzandolo nell’illusione di dominare e con­ trollare l’esperienza in atto). Le differenze tra un film e l’altro vengono poi affi­ date alla ricchezza del mostrato (in lingua frankliniana, un film “dura” 300 mi­ lioni, un altro due miliardi), alle diverse capacità di organizzazione di esso da parte di un realizzatore e/o di un’équipe. Come non è possibile dire “fai vu tous les films”, perché anche se i film fossero tutti uguali (e lo sono) non riuscirei a percepire esattamente la dimensione temporale (cioè quasi inesauribile) della loro “uguaglianza” (mentre il flusso letterario, nonostante la diversità dei testi, è percepibile come “possibilità” nella positività di un testo) nel riempire parzial­ mente un possibile infinito (il vuoto-cinema), così non riesce a resistere il film che voglia dire “tutto”, essere lui (se non il cinema) “totale”, “ultimo”: nono­ stante tutti i tentativi (specie appunto gli ultimi: vedi i film di Bertolucci Rocha Jancsó Anghelopulos Kubrick), il piano filmico della fisicità non viene mai inte­ gralmente dominato e mostrato, e al massimo è la metafora ad essere totale (gli esempi sono molti: da II sepolcro indiano di Lang a Intrigo intemazionale di Hit­ chcock, da 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica di Kubrick a Providence di Resnais). Ma la contraddizione resta; nessuno potrà mai vedere tutti i film che vengono e sono stati prodotti - in gran parte - per essere visti da tutti (è l’aporia insita nel concetto del cinema come arte “popolare”, in realtà tale solo per la potenza del capitale o per l’intervento dirigistico che pianifichi la produzione: dieci film al­ l’anno e solo quelli da vedere..). Nell’accumulo, i “film di due ore” producono ugualmente un testo invivibile e invisibile, enorme, imparagonabile, un “tempo” non percorribile e ossessionante nel percorrere il suo “senso” (in fondo, non un testo). Questa contraddizione di fondo, in un mondo di oggetti filmico-spettacolari che infine propongono la maschera come totalità, è sempre stata avvertita nel cinema che lottava contro di essa, anche proprio all’interno di quello holly­ woodiano, il più perfettamente contraddittorio. Il millenarismo catastrofico insito in Hollywood da molto prima del genere “catastrofe” si trovava già non casual­ mente filtrante nei famosi romanzi di West (The Day of the Locust) e di Fitzge­ rald (The Last Tycoon) - ora naturalmente portati sullo schermo -, e nella vita eternamente spaventata e sospesa dei “divi” (cfr. Morin) costretti a “vivere” nel­ l’ambito in cui ula mort (est) au travail” (Le cinéma selon Cocteau), lontanamente consci della loro parzialità a confronto con una macchina produttiva che potrà riprodurli per sempre e renderli quindi per sempre “vecchi” nel confronto con le loro immagini, film dopo film con la paura di arrivare alla fine della “pellicola” come nella fiaba angosciosa del filo che si dipana si dipana. H contrasto tra pre­ carietà (e indifferenza del segno delle immagini che sono sempre ambigue, A e B

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insieme, e il morto vero non si distingue dal morto falso) ed eternità, tra durata limitata e possibilità di infinitizzazione della durata, trapela sempre, e non serve relegare i film “troppo lunghi” (le grosse eccezioni d son sempre state, da Grif­ fith a Bertolucd e Anghelopulos) nel bestiario dei “kolossal” (per i quali, sul piano pubblidtario, non si fa mai leva sulla durata, ma sull'ampiezza e magnifi­ cenza e sul costo del “mostrato”); essi fanno ancora intravedere il limite ma lo minano istituendo un’esperienza di spettacolo filmico completamente “diversa” per il solo fatto di durare tre quattro undici ore (come in Rivette) e se Novecento (stroncato infatti dalla divisione in due, per puri motivi di “durata” e non perché risultino alterati i rapporti interni etc..) fa ancora rima con Via col vento - quattr’ore - è per questo, e infine d sono film (La region centrale di Snow, in parte la Recita, le celebri maratone di Rivette e le “performance” storiche della cinepresa di Warhol) in cui il kolossal non è più sul piano del costo e del fotografato, ma proprio la durata viene valorizzata, fotografata, tesa fino a produrre da ciò le do­ mande sul senso. Cioè di nuovo la domanda sul film infinito, sul soggetto (in ogni senso di esso), chi lo produce chi lo vede. Su questo piano, d si accorge come la quantità più segreta (ma costitutiva infatti) del cinema sia trascorsa e trascorra fuori di esso. Tutto dò che sopra si ipotizza come “fantasy” c’è già oggi nella sodetà dello spettacolo, di cui la televisione è solo lo specchio. Ecco la televisione, doè infine la produzione automatica di un tempo infinito a piacere che non risulta più per nulla drammatico proprio perché non c’è più il rito della sala e della proiezione, ma un’apparenza di continua con­ temporaneità; se al cinema (spede con i film lunghi lunghissimi) c’è ancora lo sconcerto del tempo espropriato, alla televisione si ha sempre (anche quando passano i film) l’illusione di vivere un proprio tempo senza scissioni, proprio per­ ché la TV è come se fosse sempre “in diretta”, è sempre in azione garantita e si­ cura. Se chiudono i cinema, resta l’immagine dnematografica sempre più perfe­ zionata; se l’apparato smobilita o si riduce di dimensioni (anche per quel che ri­ guarda l’apparecchio di ripresa: vedi il videotape, etc.), resta la possibilità di infi­ niti punti nello spazio da cui girare (per scopi militari si sta mettendo a punto una microcamera che risulterà quasi invisibile); se cade lo schermo, c’è la possibi­ lità dell’ologramma. Ma questo è ancora il settore dei mezzi e delle macchine per proiettare e produrre immagini: come appunto la televisione che - lei sì - può “vedere tutti i film”, come il computer che solo potrebbe analizzare (si può dire “vedere”, Hai?) l’ipotetico film di un secolo, come le macchine che già ripren­ dono in continuazione (in genere per scopi di controllo; vedi tutti gli impianti a circuito chiuso, dalle banche alle fabbriche) senza nemmeno più la finzione dei ^sujeC (i filmati di queste macchine sono realmente visti in genere solo dalle macchine stesse). Mentre, ben al di là della metafora secentesca (che resta meta­ fora) del tbeatrum mundi, è tutto l’esistente stesso (del Novecento) che è perce­ pito e si percepisce e si riproduce come spettacolo, come continua e sia anche ca­ tastrofica “performance”. L’occhio che ha tanto guardato il cinema, che tanto è stato guardato dal cinema, guarda tutto ormai come cinema (e ne può cambiare anche il modello del mondo); contemporaneamente l’occhio si dissolve perché è lui stesso “guardato” all’infinito da ogni punto, l’occhio passa in tutto il corpo; e 64

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il cinema-cinema (teatro) ormai nel suo complesso risulta nelle sue forme classi­ che e compiute (un tempo da Adorno attaccato e da Benjamin pregiato per la forma di fruizione “distratta” che indurrebbe) qualcosa che richiede una visione troppo poco distratta e insieme “globale” (per questo, funzionano meglio oggi come “cinema” i concerti pop, le gare negli autodromi, le Olimpiadi in televi­ sione, etc..). Diventa, forse solo oggi (se poi tutti avran voglia e modo di farsi i loro film), un testo, mentre prima era prodotto come un testo ma risultava sem­ pre una sorta di “metatesto”. Fuori da esso, fuori dai suoi stessi film-esperimento che non possono riuscire loro a essere fuori, si sviluppa ormai un “dentro” senza confini dove tutti hanno le paure e i tremori dei divi attori, un film indistinto che (ci) si srotola. Da quanto tempo. Ancora. [Il piccolo Hans, 15,1977]

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Providence di A. Resnais Quell’oscuro oggetto del desiderio di L. Bufiuel Herz aus Glas (Cuore di vetro) di W. Herzog L'esorcista H-L’eretico di J. Boorman La croce di ferro di S. Peckinpah Domando la parola di G. Panfilov El desencanto di J. Chavarri New York New York di M. Scorsese Il margine di W. Borowczyk (Il male di Warhol di J. Johnson) La marchesa von.. di E. Rohmer (Postille molte. Intanto, Casanova soprattutto, Ultimi fuochi e Dersu Uzala, del­ l'anno scorso ma visti in seguito. - Poi, in annata di “mondiali-caldo”. I secondi undici, anche loro tutti da portare in viaggio: Tre donne di Altman, Alice in città di Wenders, L’occhio privato di Benton, La recita di Anghelopulos (entusia­ smante più di ogni altro quest’anno quando l’ho “visto”, poi smorzato nei Cac­ ciatori, e ricordato solo come esaltata esperienza di avventura intellettuale di una sera; il ritorno, al suo posto, del Margine che m’era forse “piaciuto poco”..: la me­ moria oscilla e, soprattutto, i film cambiano), La rabbia giovane di Malick, Supervixens di Mayer, Milady di Lester, Harlan County di Barbara Kopple, Toute revo­ lution est un coup de dés di Straub, La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau di Ed­ wards, Vizi privati pubbliche virtù di Jancsó. Poi da ricordare o segnalare nel diario di dodici mesi: l’unico turpiloquio interes­ sante del cinema italiano in Berlinguer ti voglio bene (prima presa di parola - afa­ sica - di un lumpen-proletariat inventato e “vero”). Casotto in cui Cittì supe­ rando debolezze varie di sceneggiatura conferma la sua intelligenza di “storico scellerato”, Paul Newman in Colpo secco, una canzone in Cria Cuervos, e Jane Birkin in Collage. Collage solito di pezzi: la bellissima ora centrale di Audrey Rose di Wise, venti minuti di Black Sunday, La terza mano di Peter Walker, un po’ di televisione di Bologna e quell’assalto di autobus giapponese o israeliano non ricordo, in televi­ sione.) 66

1977

TELEVISIONE: Amore tra le rovine di G. Cukor Quattro diversi modi di morire in versi di Carmelo. Bene Mostra del nuovo cinema, Pesaro.

[Filmcritica, 281, 1978]

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Se il tuo occhio non ti dà scandalo, bendalo (e fai del cinema)

Non è una figura rara quella del cineasta con la benda sull’occhio, parallela a quella del soldato - regolare o di ventura - che l’occhio l’ha perso in battaglia. Più raro è un cinema che rappresenti la forza paurosa dell’unico occhio di Dio, l’occhio al cui interno non vi sono differenze se non tra gli oggetti ripresi, il ci­ nema. Nell’horror la figura di Dio creatore o normalizzatore (e quindi creatore di mostri..) è frequente, ma sempre (vedi Fisher) in una dialettica tra natura e cultura, tra scienza e corpo, tra natura e sopra-natura. Nel Circo degli orrori (che pure in certo senso ripropone il tipo dello scienziato pazzo) ogni dialettica è abo­ lita, è un unico occhio (quello del grande “chirurgo”) che vede con piacere il “male”, lo “sfigurato”, l’orribile, e che poi (tramite operazioni significativamente quasi del tutto fuoricampo, in un film eroticamente ben più “audace” rispetto ad altri film del periodo) reintegra il corpo, lo appiana, lo normalizza, lo possiede. Dio si manifesta nel mondo per venire insieme a guardare sadicamente le ferite che vi sono aperte (così la bimba che verrà operata subito all’arrivo in Francia ha il volto devastato da un’esplosione di guerra), e a rimarginarle, a suturare tutto con gesto risanatore che riproduce un corpo da vedere. I rapporti dei due aiu­ tanti con il chirurgo indicano che non si tratta di un semplice superuomo niet­ zschiano o di un Unico stirneriano, ma di un Maestro cui restano legati loro mal­ grado, un Dio sempre oscillante tra il benevolo e il vendicativo e col quale ci deve essere stato un Patto millenario dopo esserne stati creati. E il patto è conti­ nuamente risuggellato dallo Sguardo di Anton Drifting, che si distingue per oc­ chi penetranti e “cattivi”, freddi e allucinatoti. Sguardo che risana e uccide (non sono i suoi occhi a imporre all’aiutante di ese­ guire materialmente i crimini all’interno del circo?). Un Dio voyeur, che si ferma a veder dilaniare un uomo da un animale. Ma anche un dio hitleriano che dal­ l’Inghilterra (!) comincia a percorrere l’Europa per costruire col circo una società di bellezza e ardimenti, dalla quale nessuno deve né può uscire se non morto. Il circo inferno paradiso mondo, popolato dai volti più mostruosi, potenzialmente osceni proprio perché ora “risanati”, ritagliati ricuciti suturati. Si vede bene che la minaccia incombente su ciò è un nuovo smascheramento, un nuovo intervento sulla pelle, sulla carne, questa volta distruttore; le belve che sfregiano il Maestro e l’ultima bellezza forgiata da lui, lo obbligano a sottoporsi a un nuovo auto-in­ tervento eseguito dagli aiutanti: ma essi, già rivoltatisi, gli strappano i bendaggi,

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Se il tuo occhio non ti dà scandalo, bendalo..

lo sfigurano per sempre, guardano il volto orrendo del basilisco. E la Sua morte arriva puntuale per mano della sua stessa pecca originaria, il primo volto non su­ turato, l'errore che viene a uccidere l'autore ora ridotto alle stesse condizioni: i due volti di medusa si incontrano alfine. La struttura del poliziesco si dimostra fallace, in quest’horror tutto “spiegato”. L’horror, già nel titolo, diventa oggetto di se stesso, nel film che più lucidamente lo separa dal “fantastique”. Il cinema non è innocente, lo spettacolo è sempre di mostri anche quando è spettacolo di bellezza e di armonia (perché il mostro è il cinema); un occhio si è chiuso per sempre, inghiottito dall’Altro che può darsi Scandalo e assorbire lo scandalo. Nel rifiuto rigoroso di trucchi eclatanti o di esplosioni visive, Il circo degli orrori ripete la sottintesa etica puritana delThorror; c’è p. es. - dentro all’inquadratura - più sesso che in altri film del “genere” (e dell’epoca-primissimi anni Sessanta), ma nulla anima mai la secchezza della regia, neanche la disinvoltura diegetica un po’ folle del récit. Fuor d’ogni umanismo, si riguadagna la secchezza dei grandi Hollywood (Ford Hawks Mann Boetticher), per cui ogni follia può dipanarsi e avvenire entro i margini dell’occhio sovrano che - macchina - non corre nep­ pure il rischio d’essere più strappato - o il suo volto dilaniato (anche se l’occhio di Walsh offeso dal puma..). Il sangue del vampiro si allaccia invece al sottogenere indicato nel titolo, e ne ri­ pete i colori e l’economia registica inglese del periodo. Ma si dice che Henry Cass (l’autore) sia poi impazzito di follia ultracattolica, tentando anche di bru­ ciare i propri film. Non ci si stupirà, se si pensa che II sangue del vampiro è l’u­ nico film rigorosamente ateo tra i tanti dedicati al tema. Il quadro tipico e tradi­ zionale anche sul piano figurativo aiuta a riconoscere i mutamenti. Il vampiro e signore del castello non è un vampiro, ha bisogno di sangue per una malattia provocatagli dal fatto che - creduto vampiro - era stato come tale giustiziato. E quindi in realtà uno scienziato, e il suo contraltare - la scienza del giovane me­ dico - è più impotente di lui, destinato a soccombere infatti se proprio il servo orrido e maligno ma innamorato non si ribellasse al Padrone (fatto inaudito!..). Solo un insieme di “casi” permetterà la soluzione “positiva” dell’intrigo, non c’è conflitto se non tra situazioni e individui. Non c’è separazione assoluta tra il Ca­ stello e la Città civile; il castello è anzi la prigione della città, una sua appendice inestirpabile; tra la Legge (che sbaglia) e lo Scienziato che “trattato” come Vam­ piro diviene davvero “tecnicamente” tale nonostante la sua Scienza, e lo Scien­ ziato buono, nessuno riesce a imporsi in virtù di un potere suo. Nulla se non la convenzione fa sì che dilaniato dai cani finisca ancora una volta lo scienziato folle invece del protagonista. La più bella sceneggiatura di Jimmy Sangster, e un film su cui ritornare puntual­ mente. Da proteggere dall’ira del regista, che si è accorto di aver dato tutto il po­ tere al Cinema, ben al di là delle convenzioni; senza mettere in scena alcun con­ flitto, senza sacrificare a nessun soggetto che non fosse il solito occhio impassi­ bile e qui assolutamente esterno, senza concedere a nessuno la sua parte di Dio.

[Filmcritica, 283, 1978]

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La cavalcata fantastica (..) *

Il western è il Mito, molto più che sostanziarsi di Miti. H Mito del Senso della Storia, della reperibilità di uno spazio in cui proiettare la Storia e narrare le sto­ rie al cinema. Cinematograficamente, partendo da qualche “studio” o/e da poche vallate, è la produzione di uno spazio infinito eppure determinato geograficamente e storica­ mente, riconoscibile, pieno di segnali. Il rifarsi alla Storia, o almeno alla nozione di Passato (che è il suo mito più grande) e alla Cronologia, e allo spazio geogra­ fico insieme, definisce il western come il genere più definito appunto (forse Pu­ nico, a meno di considerare i cosiddetti sottogeneri, v. per esempio il peplum, quantitativamente limitati e sempre prodotti schematici di una cultura e di un si­ stema, e quindi definiti da strutture obbligate, non dai dati del proprio “possi­ bile”), Punico a usufruire costantemente non dirò di una tridimensionalità, ma almeno di due dimensioni (sarebbe come se tutte le sophisticated comedies si svol­ gessero nel e sul “XX secolo”). Il che dà bordine nel western una complessità no­ tevole; possibilità di disordine, ordine malcerto e ambiguo, soprattutto una Legge eternamente in forse anche quando è già stabilita. Un ordine che già con­ tiene il disordine come parte integrante ancor più che come possibilità, l’ordine la cui Frontiera è sempre in movimento: il disordine, lo squilibrio, non si produ­ cono in opposizione all’ordine, ma, proprio socialmente, concorrono in esso e con esso (per esempio al formarsi della Comunità). Il “campo” (è della limita­ zione e pertinenza dei campi che si parla adesso) del western è quindi, oltre che diverso da quello dell’avventuroso (che è il campo dello sbrigliamento ludico di “tutte le possibilità o di tutte le meraviglie”, sottomesse solo., all’ordine della narrazione e dello spettacolo: se ne può vedere il manifesto hollywoodiano nello stupefacente Sinbad di Richard Wallace con Fairbanks jr., o nel Prigioniero di Zenda o in Scaramouche - appunto gli esempi sono infiniti..), apparentemente e (quindi?) realmente negato al “fantastico”, che presuppone come fondamento un ordine in cui irrompere, un bàtiment in cui aprire falle, o che al limite può essere lo spettacolo dello sgretolamento di un ordine. Generi come il “nero” e il “mèlo” e la commedia sono molto più facilmente campo dell’irruzione fantastica. Qui, se l’ordine è già in forse e sempre in via di costituzione, la Legge sempre * Comunicazione letta al convegno “La Fantascena”, Trieste, 1977.

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La cavalcata fantastica (..)

trasgredita o trasgreditale anche nelle cittadine più pacifiche, l’aggressione o ero­ sione fantastica non ha possibilità, e così la nozione di western può prevedere quasi tutto e quasi tutto il suo contrario; sicurezza della stabilità sociale della co­ munità e incertezza sulla “sequenza dopo” si alleano: tutto è tranquillo, ma ci sono sempre gli spari - ci insegna la ripetizione infinita del western - e gli In­ diani, più o meno di “riserva”. Visto in originale senza l’alone del doppiaggio, Sfida infernale è un film “realista” e quasi “neo” tale, o se mai poliziesco, ma tutti i western precedenti (nel senso di “precedentemente visti dallo spettatore”) lo iscrivono in una catena in cui gli spari sono sempre infernali e preponderanti, an­ che se il titolo è magari My Darling Clementine (a proposito, il modo in cui i ti­ toli latini - mi riferisco soprattutto a quelli italiani e francesi - riconoscono o in­ vocano o producono una connotazione “fantastica” di singoli western - abbon­ dando in “torture” e “furie” e “inferni”, fino al titolo capolavoro che è Sentieri selvaggi - è indicativo in modo esemplare: e questa è una spia per dopo e per prima). Le trasgressioni a questo modello sono ovviamente molte, ma quasi tutte, se analizzate, anche quando si rifanno direttamente al piano dei contenuti o del rappresentato (vedi il caso non troppo diffuso - ma banale da rilevare, dopo il “vanishing American” di Leslie Fiedler - dell’indiano come “alieno”), mo­ strano che il fantastico si dà nel western - per forza - solo una volta considerato Vordine del western, ovvero il cinema western nell’insieme - il genere - come or­ dine. Naturalmente, tralascio qui il caso più macroscopico in cui si arriva al fan­ tastico tramite una prospettiva di meta-genere, e cioè il western all’italiana, che da meta-genere diventa genere “meta” fin quasi alla pratica del distomamento, visto che il West diviene del tutto pretestuoso e che forse non c’è un solo we­ stern italiano che entri nel gioco con innocenza naif e volendosi falsificare e mo­ strare uguale a quello USA, ma anzi la distanza dal modello è la prima cosa da af­ fermare (o la prima che non si riesce a nascondere, visti gli evidentissimi limiti di “sottogenere”), da Leone all’ambizioso pasticcio giungla di citazioni western e si­ tuazioni fantastiche che è il recente Keoma di Castellari. E certo ci sono anche tracce di un fantastico del tutto integrato e disciolto, i piccoli disordini, le evi­ denze fotografiche di oggetti particolari, di volti (il Karloff della Quercia dei gi­ ganti), di paesaggi e personaggi figure paure situazioni spinte più avanti del so­ lito, al limite (questa nozione ultima rimanda comunque al “meta-genere”, al la­ voro barocco di sbilanciamento su una struttura narrativa data). Ma, di fronte alla forza dell’ordine del western, per parlare davvero di fantastico bisogna far intravedere la possibilità di un disordine totale o che abbia la possibilità di mi­ nacciarsi tale. Così, sul piano dello spazio, in senso geografico e morfologico, due sono i momenti principali dell’intervento fantastico. Uno è la presenza (rara ma decisiva) del Mare; sorvolando sui liquidi sensi profondi dell’acqua, è proprio l’apparire del mare come limite geografico e improvviso del genere, luogo cui non è applicabile il momento della frontiera e in cui non si individuano con­ torni, che basta a far parlare fantastique un film. Certo è il mare come sfondo-limite che si considera qui, non il mare assimilabile al fiume - mezzo di comunica­ zione da un punto all’altro di una costa impervia, o come luogo da cui arrivano, nei western “sei-settecenteschi”, il colonizzatore e la sua possibilità di Legge. 71

paura e desiderio

Soggettivamente o oggettivamente non importa, due western, uno relativamente recente (/ due volti della vendetta [.One Eyed Jack}, di Marion Brando), l’altro de­ cisamente recente (Il giorno del grande massacro [Master Gunfighter}, realizzato dal clan dei Laughin, alias T.C. Frank), pur praticando pochissimo o nulla come scena dell’azione il mare-oceano che mettono in scena, spostano in modo im­ pressionante il western verso altri limiti di follia e di cultura, dal cinema giappo­ nese al kung-fu. (Molto attenuato ma sensibile, in questa direzione, il cambia­ mento che si avverte quando il western si aggira nella zona di confine col Mes­ sico, il quale Messico è però poi pronto a diventare prolunga un po’ più selvag­ gia di esso, rifugio o sacca ulteriore). Addirittura, in qualche modo il mare, sosti­ tuendo una superficie liquida e insicura all’orizzonte spesso sconfinato e sempre però percorribile del paesaggio western, quindi delimitando strettamente come un fondale la profondità del campo di cui possono prendere possesso i perso­ naggi, permette momenti di un “cinema del profondo” che è molto più raro nella profondità dei grandi spazi. Più radicale o meglio più inquietante, perché qui il disordine non è avvertito al limite, ai margini dello spazio, ma si produce come una sorta di limite interno o tabù, è il caso dello spazio del Deserto, paesaggio che sembra frequente nel re­ pertorio western ma che lo è solo di passaggio, attraversato con la massima fretta (come se anche il cinema temesse la sete), quasi mai costituendo il luogo privile­ giato della fiction. Come limite. Come estremi di uno sparuto arco di eccezioni clamorose, si possono prendere un paio di cortometraggi Biograph di Griffith (soprattutto l’allucinante Female of the Species, e The Last Drop of Water) e The Shooting di Monte Hellman (e Stringi i denti e vai di Brooks?); in mezzo, p. es. Il diavolo in calzoncini rosa di Cukor, ma specialmente tanta serie B che, come più tardi intere serie di telefilm, assume il deserto come set omogeneo economico e poco riconoscibile (come “uguale”). Il limite per cui il deserto è fuggito è il suo escludersi dal contesto sociale; come cimitero è casuale e non autorizzato, non ci si può insediare una comunità di qualche tipo (al massimo la baracca dei ban­ diti), non offre possibilità economiche o di piacere; al massimo è (cfr. appunto la serie B) un palcoscenico, arido e scomodo ma vasto; è infatti molto facile tro­ varvi il carrozzone dei teatranti cukoriani o il bordello viaggiante in panne (così nel film di Cukor si passa dallo spazio senza limiti e dalla sua paura alla paura dello spazio teatrale limitato e magico, in cui un cavallo - la cosa più comune nel West - è apparizione del tutto fantastica). La variante più estremista del deserto (di segni) è la superficie nevosa (anch’essa relativamente poco praticata, benché i titoli non manchino, da Sangue sulla Luna di Wise e L'ultima caccia di Brooks a 1 compari, Corvo rosso non avrai il mio scalpo, Uomo bianco va' col tuo Dio!, Uo­ mini selvaggi e insomma tutto il neo-western spesso obbligato all’indetermina­ tezza mitica del bianco); superficie nevosa che raddoppia ed estende perversa­ mente l’impossibilità di socializzazione e lo spazio bianco dell’errore (oltre alla tradizione del “bianco” americano). Non è un caso che l’unico western “fanta­ stico” di Ford sia Sentieri selvaggi che include entrambe queste macchie di as­ senza di senso, il deserto e la neve, dove la neve maschera e smaschera la follia di John Wayne che uccide bisonti solo per far mancare la carne agli Indiani, affine 72

La cavalcata fantastica (..)

alla figura del Robert Taylor che finisce “gelato” nélT Ultima caccia. Sempre per quanto riguarda gli spazi, e per non limitarci allo spazio non civilizzato o non civilizzabile, si noti come Tunica città o cittadina western definibile “fantastica” sia la città morta, abbandonata, infatti ghost city, luogo di scontri feroci, di agguati o di psicodrammi (cfr. Dove la terra scotta di Mann) e incontri tra fantasmi, luogo che testimonia di errori irreparabili della civiltà, di buchi della Storia. Oppure le città dei fuorilegge incassate in conche montagnose cui si accede per pochi pas­ saggi obbligati (cfr. il bellissimo “santuario” di La furia del West di Ludwig, o quello non di montagna ma semplicemente oltre il confine messicano di Una sto­ ria del West di George Sherman, dove possiamo trovare allineati in astorica con­ fusione, come in un albergo o in un museo delle cere, tutti i più celebri fuori­ legge): e questo è già un esempio che allude a un altro dei momenti “metalinguistìci” che nel western possono aprire il fantastico, quello in cui altri ordini “fit­ tizi” o fallaci emergono rispetto all’ordine western, e quindi contro di essi, tra essi, può emergere la rivolta fantastica (tipico il tema del “mucchio” di banditi, appunto, come quello di Rancho Notorious infine minato dalle pulsioni e dal de­ siderio). Prima di accennare a qualcuno di questi casi e a esempi di estremizza­ zione delle situazioni, è interessante notare quello che è probabilmente l’unico esempio di un ordine assoluto e quindi realmente “disturbatore” dell’ordine-disordine western: quello cui pur solo allude la religione col suo sogno di perfe­ zione e schema di valori assoluti, e così i western di un “classico” come Henry King (Romantico avventuriero, Bravados) sono - come tutto il suo cinema - sbi­ lanciati rispetto alla loro apparente compiutezza di proporzioni dalla religiosità delle situazioni e della regia (King è il più cattolico dei registi USA), mentre addi­ rittura “il miracolo” trasforma la sequenza finale di L'ultima conquista (film in cui l’angelismo quacchero viene preso sul serio da James Edward Grant) in una sconvolgente apparizione “angelica” (Gail Russell..) che impedisce a John Wayne di sparare ancora (nella stragrande maggioranza dei film di Ford e in ge­ nere nel Western WASP, la religione - protestante - è invece elemento duttile e decisivo, tra gli altri, nell’aggregazione della comunità). L’elenco di altri casi particolari di “contrasto fra ordini” o di fantastico per ec­ cesso nella ripetizione (certi serie B, gli stessi film di Boetticher in parte) o di di­ smisura nell’uso di archetipi o stereotipi western (Ray, Fuller) può essere infi­ nito. Si pensi per esempio alla “donna”, ben più “mostro” dell’indiano quando entri in scena come personaggio non più subalterno (vedi Griffith, vedi Donne verso l’ignoto di Wellman, vedi Cukor), alla trasgressione erotica (vedi Duello al sole di Vidor e La magnifica preda di Preminger) vera messa in scena “primaria”, col fiume sempre tumultuoso e Marilyn e tutti i “pericoli” a fianco dell’acqua che scorre..); o al bambino, quando sono suoi gli occhi attraverso cui si vede il film (Il cavaliere della valle solitaria, con i suoi strani duelli e i suoi particolari atroci e “eccessivi” eppure composti in bambinesca “armonia”); o alla stranezza dei film sui personaggi “solitari” o sugli esploratori o sull’esplorazione (in un altro mo­ mento, legato spesso alle componenti “spaziali” cui si accennava sopra, in cui il “campo” è ignoto e non ancora socializzato, si è al limite tra due ordini o dentro un ordine-indiano-che fugge, e lo spazio è solo quello del mito; cfr. Passaggio a 73

paura e desiderio

nord-ovest di Vidor e Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Pollack); e alle possi­ bilità inesauribili di “incrocio” tra ordini (spesso per motivi produttivi): il poli­ ziesco o la commedia risultano spesso étrange trapiantati nel West; colpisce come un sogno l’immagine di un uomo e una donna che nel deserto colorato di fuoco bevono tazzine di tè vicino a un carro coperto, colpiscono certe dimore lussureg­ gianti da principe o intellettuale europeo nelle regioni più desolate, certi mo­ menti di puro décor musicalistico (non parliamo invece, ovviamente, di certi risi­ bili e raramente esportati tentativi USA di incrocio meccanico tra generi: esistono horror ambientati nel West, storie di fantasmi, perfino di dischi volanti, tutte perturbazioni irrilevanti, spesso comiche e infatti assimilabili al genere parodi­ stico comunque, dato che risultano irrisorie di fronte all’amalgama sedimento dell’ordine western). O anche il colorismo, o appunto i “fantasmi” (non tanto quelli profilmici delle sequenze spiritistiche in La banda di Jesse James di Kauf­ man, quanto i fantasmi “filmici” che “tornano” nei finali di La conquista del West di De Mille e II mucchio selvaggio di Peckinpah), o infine le metafore dell’ag­ guato come “spettacolo” (da Settimo lancieri carica di Keighley, a Ford, eccetera). L’elencazione è stolida e saltabeccante e potrebbe però (magari) arrivare a distin­ zioni notevoli o sottili; porterebbe lontano, o invece a un punto che l’analisi può permettersi di indicare. Una volta posto tutto il western come ordine, sono infatti troppe le possibilità di “fantastico”; ogni eccesso barocco, ogni ricamo, ogni si­ tuazione insolita (magari le pistole d’oro di L'ultima notte a Warlock), ogni in­ quadratura particolare (e perfino la “sospensione” della musica - Romantico av­ venturiero - o l’uso di una musica “diversa”, nell’ambito del genere che ha l’àccompagnamento musicale più codificato e convenzionale) possono risultare “fan­ tastici”. E molti autori western (De Mille, Daves..) hanno le loro punte fantasti­ che, o in alcune sequenze (vedi quelle nel bar - per Walsh - in La storia del gene­ rale Custer e in Sul fiume d'argento) o in interi film (sempre per Walsh, la comme­ dia musicalerotica di Un re per quattro regine o il “dramma del profondo” di Notte senza fine) e si può citare un Gordon Douglas che (secco e “poliziesco” nei polizieschi e negli FS) riguardo al western resta il più costantemente “fantastico” degli autori (L'avamposto degli uomini perduti, Rio Conchos, Barquero, Vivere da vigliacchi e morire da eroi). E se si continua il gioco metagenere (posto che si possa chiamarlo così) estendendolo alle singole incrostazioni e calcificazioni te­ matiche o figurali della struttura (il duello, la donna - se è “buona”, p. es. quasi sempre “scura” di capelli, per quanto irrilevante possa essere la notazione.. -), per ognuna di esse si può trovare la trasgressione, l’eccezione eclatante, il parti­ colare curioso e infine “fantastico” (in tal senso, lo è anche La legge del più forte di Marshall, visto che è uno dei rarissimi film a mettere in scena come “eroe” uno degli odiati - nel West - e bistrattati - nel western - allevatori di pecore; o lo è Woody Stroode arciere negro in 1 professionisti di Brooks..). Per questo si è cercato all’inizio di trovare più ampie o anche generiche zone di possibilità fan­ tastica, che fossero connaturate al western o chiaramente opposte ad esso (e non si poteva che trovarle nell’ambito dello “spazio”, il quale a ben vedere - rielàborato plasticamente o inventato o fotografato - è quasi sempre l’elemento deter­ minante anche negli altri casi evocati). Perché una volta assunto il western glo­

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La cavalcata fantastica (..)

balmente come una Scena, ben facilmente essa diventa Fantascena, scena su cui proiettare a volontà (più o meno arbitrariamente) il “fantastico”. Si ripropone cioè il problema della definizione del termine. Infatti, il western è in sé la più ap­ propriata e la più vasta delle “fantascene”; il western è lo spazio del cinema e di tutti i suoi miti, è il Mito del Cinema. Negazione del fantastico come “codice” particolare, eppure in una particolare (“totale”) accezione “tutto fantastico”; tutto di fantasmi: neanche nel film di guerra si trova una tale proliferazione di morti risorti al film dopo e in più, per la clausola generalissima ma rispettata Bella cronologia, nel western si ha la continua garantita rappresentazione di “morti”, di cose storicamente “scomparse”.. Proprio l’essere sempre (più o meno buffonescamente) automaticamente “storico” è la condizione più “fantastica” del western, resa più acuta dalla contraddizione spazio-temporale per cui lo spazio in cui si agitano milioni di fantasmi è quello “reale” e percorribile delle praterie ancora esistenti, anche se singolarmente coniugato col vuoto artificiale degli stu­ dios. In questo senso, il western è fantastico anche nei momenti più paesaggistici, nel momento in cui Ford si permette di usare come “scena” la Monument Valley; la Monument Valley è fantascienza. [Filmcritica, 286, 1978]

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Rossellini il sogno, la storia * (ovvero: si ricorda e si riconosce il fotogramma rosselliniano?)

Qualcuno potrà dire che questo è un modo comodo per non studiare i film alla moviola. Ed è vero. C’è però anche una voluta rinuncia alla moviola, alla tenta * zione fortissima per esempio di partire dallo smontaggio e analisi dettagliata di una sola sequenza di Europa 51 o di Cartesius. Forse, un senso di colpa del cine * filo già portato perversamente a “vedere e rivedere”, ad arrivare, quasi, a impa­ rare “a memoria” alcuni dei film di Rossellini. E appunto, allora, una curiosità per il meccanismo di questa memoria, per come si forma e viene formata dalle immagini di Rossellini. Perché una serie di inquadrature spesso giudicate noncu­ ranti, sciatte, a volte perfino cialtronesche, diano luogo a film tra i più sconvol­ genti della storia del cinema. Perché interi piani girati dagli assistenti in assenza del regista, o da Rossellini stesso con palese fretta o disattenzione, risultino poi impossibili da dimenticare. Non certo in virtù di un montaggio successivo parti­ colarmente accanito nel lavorarsi; anzi, un montaggio per nulla “attrattivo” né “attraente” in modo specialmente evidente. Credo che nel dibattito sul “realismo” di Rossellini, non meno stolido di ogni di­ battito sul realismo, e insieme non meno ricco di risultati secondari interessanti, si perda però da sempre il segno di un’eventuale specificità rosselliniana. Che, se proprio dovessimo per regola riferirci a una realtà, sarebbe semmai la capacità continua di rendere “disturbante”, troublante, ciò che - non dico “nella realtà” ma: “prima dello schermo” - tenderebbe a passare inosservato, appiattito nell’in­ formazione quotidiana, nelle inquadrature abituali per l’occhio. Anche questo, non avviene per artificio espressionista di inquadrature (salvo in casi rarissimi), né al contrario per adesione naturalistica a un eccesso di realtà, e quindi per un’eccedenza o evidenza figurativa particolare del “mostrato”. Né, infine, per la fiducia in una registrazione “oggettiva” delle “immagini della realtà” da parte della camera. Il fatto è che Rossellini si pone lontanissimo in partenza da ogni ipotesi di con­ trollo totalmente (o totale anche se solo su una parte del materiale) indirizzato dei materiali a disposizione. Questo non lo distingue solo dai grandi “maniaci” del film come totalità significante da controllare in ogni sua componente, fino a * Testo, senza modifiche per ora, della comunicazione tenuta a San Remo durante il convegno su Roberto Rossellini.

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essere reso un blocco inossidabile di finalità comunicative cristallizzate nella per­ fezione di un “discorso”; diciamo i Lang, o, per fare un nome più recente e più vicino anche alle dimensioni planetarie dell’intenzione rosselliniana, Kubrick (il cui autodidattismo feroce e accanito non è diversissimo da quello più mediterra­ neo di..). Lo distingue soprattutto dalle manifestazioni varie del cinema medio d’autore, quello in cui su un supporto comunicazionale filmico sempre più tre­ mendamente omogeneo e “uguale” si innesta di tanto in tanto la volontà narra­ tiva, o illustrativa, o didatticamente e politicamente esemplificativa, di un “au­ tore” appunto, di un regista che non rinuncerà mai a “dirci la sua” spudorata­ mente anche nel mezzo del cinema meno “proprio” che si possa immaginare. Anche per Rossellini, a maggior ragione che per il critico l’esegeta e il cinefilo, si è parlato con sdegno di “noncuranza tecnica” adottata per facilità e comodità: colpa grave, nel paradiso giulivo e ilare delle estetiche e poetiche della macera­ zione espressiva. Lo stesso ambiente neorealista, folto di lettori e propugnatori di estetiche cinematografiche e non, non perse occasione di criticare l’improvvi­ sazione e la precarietà dell’impianto rosselliniano, non appena si ebbe la dissolu­ zione teorica fantasmatica e produttiva del neorealismo e Yoggetto rossellini ri­ mase nudo a vedersi e davvero scandaloso, impossibile a apprezzarsi per chi solo in Senso placherà più tardi i propri sensi di colpa. La “televisione” di Rossellini comincia prestissimo, infatti. Nel senso letterale di “visione da lontano”, del “guardare lontano” con curiosità, dello sperimentare. Direi che l’enunciazione teorica di essa è già in Paisà (e Germania anno zero) e poi nei film dei primissimi anni cinquanta, nella trilogia Stromboli - Europa 51 Viaggio in Italia, nel Francesco giullare di Dio, nella Macchina ammazzacattivi, nelVAmore, fino alla Paura e via di seguito. Nessuno di questi, che pure contengono i più straordinari risultati di evidenza figurativa raggiunti da Rossellini, aiuta nel rinvenimento di un “fotogramma rosselliniano”. Il che, nonostante la “flagranza dei contenuti” che incoraggia le illusioni realistiche della critica, conferma: il ci­ nema di Rossellini non è dentro i suoi fotogrammi. Dico “conferma”, perché tra interviste e studi, in Francia dei Cahiers, in Italia di Adriano Aprà e di Film­ critica, certe caratteristiche di questo cinema sono state efficacemente descritte: il ruolo dell’attesa di ciò che verrà, le sequenze che appunto seguono un “tempo dell’attesa” rarefatto e incerto, etc. Ricordo soprattutto questo aspetto perché, per quel che riguarda la “riconoscibi­ lità” e la “memoria”, il punto è qui. Quello di Rossellini è un cinema di tempi e non di spazi, di scansione temporale dei materiali e non di costruzione e compo­ sizione figurativa di essi. Ecco, penso che l’analisi alla moviola di qualsiasi pezzo rosselliniano possa dare risultati affascinanti in questo senso: nella verifica del gioco raffinato ed estremo che si istituisce fra i “tempi” propri delle persone de­ gli avvenimenti delle cose riprese e il “tempo rossellini”, la durata dell’inquadra­ tura, il suo cessare. (Ma questo, meno precisamente ma meglio e prima che alla moviola, la quale introduce altri tempi scanditi a volontà, avviene o può avve­ nire in qualsiasi “visione”.) Televisione, si diceva. Si, lo “stile senza stile” che appare per negazione a una ve­ rifica puramente figurativa dell’immagine morta o meglio pre-natale del foto77

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gramma, è fin dall’inizio la contestazione più radicale di qualsiasi discorso teorico sulla specificità del “segno” cinematografico. Non è paradossale che i primi a co­ gliere questo aspetto siano proprio i giovani dei Cahiers, così innamorati del “ci­ nema”, più che mai oggetto perduto. Ma qui non ci interessa appunto - o ci inte­ ressa troppo, e sarebbero confessioni e sudori, e alterchi e liriche - il gioco che il desiderio può giudicare per incontro davanti di dietro o contro Rossellini. Re­ stando invece alla televisione, si vede come il riconoscimento dell’ambiguità del segno in sé in rapporto al senso formi e fondi p. es. interamente un film ricchis­ simo come Europa 51, al quale principalmente mi atterrò per gli esempi. La se­ quenza in cui Irene-Ingrid Bergman già “rinchiusa” “subisce” un test di Rorschach come un’incontrollabile umiliazione della propria intelligenza e come un insulto al “buon senso”, è il momento più preciso e drammatico di tale riconoscimento. A chi la interroga, chiedendole cosa le sembra di vedere nelle “macchie” che ha di fronte, Irene risponde con sempre maggiore insofferenza, fino a prorompere in un “basta, basta, non vuol dir nulla, tutto, niente, potrebbe essere qualsiasi cosa..” (cito a “memoria”). Quei segni “fuori del tempo”, quell’esempio di “segno puro” da interpretare, è per Irene l’intollerabilità dell’indifferenza che si scontra stri­ dendo con la sua situazione. Le pare scandaloso che la “scelta” sia portata dal piano “morale” a quello dei segni; rifiuta l’obbligo perverso (e magari magnifico) della scelta “estetica”, per esempio, che un’altra donna, la Tristana-Catherine De­ neuve di Bufiuel, si imporrà anche tra un chicco d’uva e l’altro. Una “ricostru­ zione” e reinterpretazione (come rappresentazione) estetica (ma anche appunto “medica”, scientistica, eccetera) del mondo è esclusa, come anche qualsiasi cedi­ mento - che paradossalmente il test in questione poteva sollecitare o esigere - al­ l’impulso di ricorrere alla propria “immediatezza psichica e sensoriale” per giudi­ care e ricostruire quel “segno”. Europa 51 è il racconto utopico del rifiuto dell’i­ deologia (anche estetica), è il catalogo e la storia stessa di un cinema (alla fine die­ tro le sbarre-TV, ma guardato da chi “deve guardare”) che rifiuta lo schema inter­ pretazione-rappresentazione. Irene, come il cinema di Rossellini, non può che es­ sere fraintesa e “disturbare”. U racconto di ciò che fa è semplice, lineare, onesto perfino nella descrizione di un’eventuale occasionalità patologica del suo agire. E ogni interpretazione che ne viene data risulta errata, che siamo noi a darla o qual­ cuno nel film. Noi, che restiamo sconcertati da quello che - a un certo punto può sembrare solo un travestimento della diva Bergman acconciata da operaia, noi incapaci di concepire un’operaia così bella, noi prigionieri di schemi iconografici e di pregiudizi di sintassi politica. I veri soggetti e istituzioni (marito, partito, polizia, chiesa, ospedale psichiatrico) che emettono insieme o uno per uno i loro giudizi: è adulterio, è anarchismo, è sconsideratezza, è fanatismo religioso alla Giovanna d’Arco, è follia. In ogni caso, si ha la descrizione di un “rumore di comunicazione” che diventa errore non appena si cerca a tutti i costi di costruire un giudizio. (Ru­ mori di comunicazione, disturbi, barre tra significanti e significati, marcano tutto il cinema di Rossellini, aU’intemo e nelle relazioni tra i personaggi - si pensi a un film a caso, da Roma città aperta al Messia.) Contro questa situazione, si ha la lotta continua e “televisiva”, paradossalmente utopica, di Rossellini, a favore di una comunicazione “libera” e “in-formante” a 78

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favore di una “ricerca della verità”, per un cinema “non-autoritario”. Uno degli esiti particolari di tale lotta è come un cinema risolutamente "contro” la Storia in quanto sovrastante o comunque importante “apparato interpretante” e pregiudi­ cativo, sia da una parte chiamato in causa come “testimone di realtà storica” (.. la Resistenza), è dall’altra anche soggettivamente impegnato a proporre didatticamente figure e immagini “storiche”, dalla Grecia antica fino alla quasi contempo­ raneità (Anno uno). Non interessa qui ricostruire un itinerario delle intenzioni di Rossellini (da lui stesso negli ultimi anni ampiamente divulgato, anche in un li­ bro), né analizzare la quota di illusione ideologica che può esserci nel riprendere lo splendido ideale comeniano della “pansofia”. Ma è impossibile non rintrac­ ciare fino a questo punto estremo e in parte razionalizzato le tracce della sua lotta consapevole contro l’indifferenza del “segno-cinema” ma a partire da essa. Il tentativo di far diventare il vuoto che separa due persone, due gruppi, e i mo­ menti storici tra loro, un vuoto non meno vuoto che però li unisce acquistando la qualità di “spazio della comunicazione” (non posso non riferirmi banalmente all’orma vuota del corpo pompeiano di Viaggio in Italia, come segno ambiguo del vuoto che comunica). Ed è vero che in Rossellini ci possono essere illusioni circa “la verità”. Ma essa non è mai ricostruita indicata o ipostatizzata. Essa è solo “in atto”, come contrario della certezza, come sforzo di sapere che, come primo dato, incontra subito la propria impossibilità e, diremmo con Lyotard, lo “statuto scientifico della non-verità.” Così, ancora una volta, anche nella “storia”, non c’è una m.d.p. che seleziona e ricostruisce, ma lo stesso Rossellini che impudicamente (quante accuse di “non-sdentificità” e di faciloneria, da parte di chi per scientificità in­ tende un atteggiamento di sapiente o più spesso rozza copertura del proprio sperdimento soggettivo) compie le proprie operazioni di lettore che vuol farsi educatore; e che continua così a zoomare sulle nuvole e attraverso il “deserto” e nelle sale dei congressi DC, a mantenere inquadrature “troppo lunghe” o altre “troppo brevi”, a mettere in scena svergognatamente le parole di Pascal di Carte­ sio o degli Apostoli “come se fossero state veramente dette”. Per il Rossellini “te­ levisivo in senso tecnico”, infatti, i rimproveri sono stati questi: la mancanza di spessore storico e, nel migliore, dei casi - proprio a lui lo “sciatto”! - la sola ade­ renza figurativo-iconografica (come se essa in questo caso non fosse il primo dato - raramente confessato - di quella che si chiama poi “storia”), o la banale “somi­ glianza” di Vannucchi-De Gasperi, eccetera. Non credo sia provocazione il saltare qui le “mediazioni di discorso” forse neces­ sarie per arrivare al punto e mostrare come l’immediatezza e unicità della “mediazione-rossellini” e la memoria che ce ne resta siano assai più “profonde”, in senso tecnico, di quanto generalmente si dica. Né è necessario rintracciare tema­ tiche o itinerari culturali. Il cinema di Rossellini è infatti “il sogno”. E solo cinema, senza segni suoi propri ma con milioni di segni; magari miliardi di punti elettronici sempre diversi; ed è quindi solo soglio. “E la considerazione della intelligibilità che induce a quest’ultima rielaborazione: ma di qui se ne svela anche l’origine. Rispetto al contenuto onirico che ha di

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fronte, essa si comporta come la nostra attività psichica normale di fronte a un contenuto percettivo qualsiasi. Lo coglie utilizzando certe rappresentazioni d’at­ tesa e lo ordina sin dal momento della percezione, presupponendone la intelligi­ bilità; corre così il rischio di falsarlo: e in realtà, qualora questo contenuto non sia accostabile a qualche cosa di noto, incorre negli equivoci più strani. È noto che non siamo in grado di guardare una serie di segni insoliti o di ascoltare una successione di parole sconosciute, senza falsificare in un primo tempo la perce­ zione in base alla considerazione della intelligibilità, secondo l’accostamento a qualcosa che ci è noto. I sogni che hanno subito questa elaborazione, da parte di un’attività psichica assolutamente analoga al pensiero vigile, si possono chiamare sogni ben composti. In altri sogni quest’attività è completamente fallita; non vi è stato nemmeno il tentativo di stabilire ordine e interpretazione e quando, al ri­ sveglio, ci identifichiamo con quest’ultima parte del lavoro onirico, giudichiamo il sogno "assolutamente confuso’. Ma per la nostra analisi il sogno che somiglia a un cumulo disordinato di frammenti sconnessi ha lo stesso valore del sogno ben levigato e provvisto di una superficie. Nel primo caso ci vien forse risparmiata la fatica di distruggere un’altra volta la rielaborazione del contenuto onirico.” (La citazione è da Freud, nel trattateli© Il soffio, del 1900.) Sogni “ben composti”, sogni “confusi”. La “non-selezione” a priori dei materiali è il “reale-rossellini”, un “materiale” di sé che non ha paura di proporsi all’analisi e alla contestazione. È il rifiuto di preparare un oggetto-cinema già tutto rico­ struito, munito e difeso. È l’accettazione di una casualità e il lavoro su di essa. È ciò che permette a Rossellini di fare Europa 51 con trent’anni di anticipo, che gli permette di fare con La paura l’unico “giallo” italiano paragonabile per intensità a un Hitchcock. È appunto l’importanza del tutto relativa data prima all’inter­ pretazione del dato e poi alla “rappresentazione di esso” - diciamo così - nella realizzazione cinematografica. È l’episodicità di Paisà che anche nei film più “concentrati” evita nessi simbolici e di montaggio tra un’immagine e la succes­ siva. E la libertà di Rossellini che, da sempre intuitivamente evocata, e da lui stesso programmaticamente rivendicata, anticipa anche nel moralismo una disinvoltura “moderna” e televisiva; con la capacità di passare dal miracolo al terrore fisico della voce umana che non vuole interrompersi; dall’uomo sulla luna in tuta a quello i cui sandali di greco lasciano impresso sulla polvere delle strade il nome della propria polis', dalla voglia di vivere liberi “resistendo”, alla decisione di ri­ tornare alla libertà in prigione. Non è la dialettica per la cui lentezza di “esecu­ zione” non c’è spazio nel “tempo rosselliniano”. Seguendo la cometa si incontra Marx. Nella stanza della musica arrivano le grida dei torturati. De Sica-Della Ro­ vere mima il neorealismo e ne svela per sempre il carattere di finzione e messa in scena. Nei “giardini” delle riunioni DC volti fisiognomicamente chiarissimi ven­ gono catturati dallo zoom, e mantenuti lì, fermi in mezzo alla storia. De Gasperi aspetta il treno, la madonna guarda le nuvole, il partigiano si accende la sigaretta e aspetta nell’inquadratura mentre gli sparano. Non si vuole introdurre la figura di un Rossellini sciamano o tramite (come poi un po’ tutti, non è uno specifico) del “lavoro dell’inconscio”, né avanzare un pa­

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rallelo stretto o rigoroso tra i modi del “lavoro onirico” (assai più in azione”, per esempio, nel cinema americano classico e “sintetico”) e il suo cinema. Solo, allu­ dere a come il suo cinema funzioni. Negato alla moviola come i sogni e il reale, e come questi destinato a essere “tradito”, “letto”, “interpretato”; un cinema che “si offre”, non il cinema - diversamente apprezzabile e ammirevole - che ci porta a offrirglisi e a sacrificargli. Non un cinema che si vuole sogno; non un so­ gno che diventi cinema; non una realtà che diventa cinema, né un cinema che si voglia realtà. Come il cinema-rossellini sia un sogno. H cinema che sogna il reale. [Filmcritica, 288, 1978]

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Chi sarà Monte Hellman? (a proposito di Two-Lane Blacktop)

Molto tempo fa. Nei “cinacoli” nostri il nome era noto e leggendario senza che si fosse visto un solo film. I titoli francesi di The Shooting e Ride in the Whirlwind e le classifiche 10/18 lo davano per indispensabile, corredandolo di aggettivi con­ trastanti: “magico”, “neorealistico", “surreale”, “demistificante”. Se ne leggevano le interviste su Positi}} e il personaggio che amava Ford e Bergman si arricchiva di “cinema” raccontando di aver viaggiato per mare su una nave da carico da Sin­ gapore agli Stati Uniti, dimenticando il “tempo industriale” delle febbrili tratta­ tive per giungere a fare un film. Poi si vide il Cockfighter a Venezia, e si è giunti infine Tanno scorso ai tre clamo­ rosi Hellman in un anno che hanno di colpo rilanciato il nome in Italia chiuden­ done insieme la parabola: i due western d’esordio, e il western “italiano” Amore piombo e furore. I più “colti” e attenti, quelli che sapevano o credevano sapere i suoi ruoli (da montatore a sceneggiatore a regista) nella factory di Corman, ne ri­ conoscono ora il nome qua e là, nascosto come supervisore dentro un film, o pa­ lesemente chiamato a finire di confezionare l’ultimo film del defunto Robson. Proprio queste notizie “sparse” e ancora incerte degli ultimi tempi (si veda la stessa incredulità e la confusione di nomi rispetto alla strana avventura produt­ tiva di Amore piombo e furore) rammentano che Hellman è costretto a “lavo­ rare”: lavora nel cinema e si guadagna da vivere, non ha mai potuto, ancora, ca­ pitalizzare il suo nome. H motivo profondo di ciò sta al cuore della sua filmografia, sta nei film che molti hanno potuto vedere in Italia per la prima volta a Pesaro 1979: Two-Lane Black­ top. Per me, fu quello il primo incontro con Hellman, indimenticabile al punto di togliermi quasi la curiosità di vedere subito e d’impeto La sparatoria e Le col­ line blu “tradotti” in Italia. Al punto di farmi rimandare il sorprendente incontro con il film affascinante che è Amore piombo e furore. Intanto, Two-Lane Blacktop è uno dei pochissimi veri “film maledetti” del ci­ nema americano degli anni Settanta. Io lo vidi a Parigi “parecchi” anni fa. Mi ero precipitato a un ultimo spettacolo serale, attirato dalle buone letture francesi che “dicevano bene” del film, narrandone inoltre le vicissitudini produttive. Era stata la grande occasione di Hellman. Una grossa produzione, dopo le “miserie” cormaniane: un Warren Oates attore congeniale e ormai cresciuto rispetto ai primi ruoli unidimensionali; un divo pop-folk del momento, James Taylor. Ser­

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vizi su Time nel periodo delle riprese» con l’attesa - da parte della stampa - del nuovo mitico American movie. Il film, invece, già durante la lavorazione, comin­ ciò a non piacere ai supervisori: screzi, incomprensioni, inizi di boicottaggio e, infine, l’insuccesso di pubblico e di critica. Ma, naturalmente, i motivi dell’interesse erano soprattutto legati ad aspetti più “profondi” - pensavo il ritorno ennesimo dei miti americani della strada e della competizione. Queste “profondità” erano invece la struttura più “superfi­ ciale” e immediata del film, che infatti non sviluppava affatto le “tematiche” del mito, ma si limitava all’esplidtazione lineare di un’unica idea: come in un we­ stern, senza legge, due “avversari” opposti che si affrontano come se il mondo non esistesse. Nonostante la vellicante presenza di James Taylor, Two-Lane Blacktop sprecava ogni ulteriore possibilità di suggestionare il pubblico, e non riusciva a essere ciò su cui puntava la produzione, il film trainante del pubblico giovanile (grazie al divo e alle “corse a doppia corsia” di cui si vedrà poi un esempio in American Graffiti) e insieme il prodotto classico e compatto che avrebbe soddisfatto il pubblico medio pronto alle innovazioni contenutistiche del “dopo-Eosy Ride/* ma desideroso di maggiore solidità. Hellman gioca la sua scommessa nel modo più semplice e perdente, scarnifi­ cando invece di abbellire e dilatare, puntando sulla nudità dell’isteria competi­ tiva e della follia mitica. Invece di decidersi a quella che sarà la grande ricetta “vincente” del cinema americano degli anni settanta, quello che domina oggi con registi più giovani di lui ma usciti in gran parte dalla stessa scuderia cormaniana; la messa in scena composta e classicheggiante e restaurante e riunificante di si­ tuazioni barocche e magari eccessive e deliranti. Rivisto oggi, Two-Lane Blacktop si mostra del tutto isolato rispetto a qualsiasi corrente affermatasi in seguito, si ri­ vela estraneo (si è rivelato tale a Pesaro, nell’insieme delle proiezioni) al “trend” complessivo del cinema USA. Cos’è allora che isola all’interno del cinema americano, il regista-sceneggiatore più precisamente attaccato al termine “americani”? Intanto, così alla grossa e “sociologicamente”, proprio la sua ostinazione “americana” incapace di rendersi conto che il cinema americano - non più automaticamente “mondiale” per domi­ nio istituzionale - ha da prodursi come cinema per un pubblico “mondiale” con regia “sintetica” di soggetti capaci di colpire ovunque. Two-Lane Blacktop è in­ vece il classico tipo del “cult-movie”, del film da setta; e spreca i mezzi impo­ nenti (per una volta!) in una concentrazione e rarefazione stilistica che li occulta; ed esige un’attenzione assoluta - anche solo sensoriale -, non si accontenta della distrazione “televisiva”. Ma infine, la scelta di fondo hellmanniana, quella che spiega l’isolamento e gli aggettivi contrastanti, è l’appassionata utopia di un ci­ nema “fìsico”, mai lussureggiante e neppure lussurioso nella propria fisicità. Come spesso capita (vedi un altro “isolato”: Boorman), l’aggettivo “metafisico” viene attribuito a film che sposano il tentativo di rendere la “fisicità” delle situa­ zioni, ma che soprattutto tentano di proporsi essi stessi come esperienza “fisica” più che spettacolare o narrativa o culturale letteraria. In questo senso (come Bo­ orman che è però sia lussureggiante che lussurioso) Hellman è “novissimo”, rag­ giungendo spesso quell’allucinazione della realtà filmica che manca nell’iperreali­ 83

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smo dei Lucas Spielberg Scorsese Bogdanovich e perfino nell’ultimo delirio di Coppola. Ma l’operazione semplicissima e spontanea di Hellman è ancora più complessa: invece di puntare sul ricupero della "qualità figurativa onirica” del la­ voro nello studio (come fanno oggi "gli altri”, perfino in esterni, lavorando ad ol­ tranza sui filtri e sui “colori” più che sulle "linee”, ma appunto costringendosi al­ l’iperrealismo del segno essendo “perdute” le condizioni economiche del lavoro in studio), segue il suo amato Ford e si ricorda delle esperienze “selvagge” con Corman; toma alla pregnanza degli esterni griffithiani, e si ricorda del maestro che aveva fatto della Monument Valley il più straordinario degli “studios” (così, La sparatoria è figurativamente un omaggio a Griffith e spesso una precisa cita­ zione del magnifico colore del Three Godfathers - In nome di Dio - di John Ford con John Wayne). Certo, la semplicità "biblica” dei soggetti contribuisce all’aura "metafisica” dei suoi film, ma è l’attaccamento alla qualità fìsica dell’immagine ciò che sfonda lo schermo tentando di superare il cinema stesso come metafìsica: da sempre abi­ tuati a considerare, il cinema, se non “realtà”, almeno “una realtà” parte della realtà, sembra metafisico ciò che punta al meta-cinema. Per di più, con la di­ screta violenza di Hellman, che si permette di farlo lavorando con soggetti ultra­ classici ridotti all’osso secondo l’economia cormaniana ma senza i tentativi cormaniani di “riempire” i vuoti produttivi con digressioni barocche e bizzarrie par­ ticolari. Per questo, più di Boorman rispettato (soprattutto per motivi “genealo­ gici” e di “genere”) dai cinefili, Hellman stenta però a entrare nelle loro grazie, sembrando mancargli proprio il delirio inventivo di chi deve “inventarsi” ciò che lui tende a mostrare di avere già: la forza allucinatoria dell’immagine. Two-Lane Blacktop è il film stimma del suo cinema, dimostrando la realtà di una scelta che poteva sembrare in parte condizionata dalle esigenze produttive nei petits westerns iniziali. I due corridori, in tutto opposti salvo che nell’accetta­ zione dell’assurdo del “gioco”, mantengono fino alla fine del film il loro carat­ tere enigmatico-, e la “fisicità” del loro “scontro”, che non è fisico ma di parola e di testa (uno parla sempre, l’altro è silenzioso..), si avverte anche o soprattutto nei tempi morti della gara, quei tempi morti che mandarono in bestia la produ­ zione tesa alla realizzazione di un film a vasto respiro spettacolare e zeppo di se­ quenze automobilistiche da fiato sospeso. E anche l’aspetto “psicologico” viene affidato solo alla fisicità degli sguardi e delle alzate di spalle, annega in inquadra­ ture che, frustrando la dinamicità della corsa, cercano ancora una volta di ridare la fatica oggettuale degli sforzi e dei movimenti, anche di quelli frenetici, anche di quelli velocissimi. Una contraddizione troppo profonda, per essere accettata dentro le diramazioni del sistema hollywoodiano-mondiale: anche la velocità si fa sforzo, e del clima di una corsa risalta soprattutto il “lavoro” degli uomini dei due "eroi” stessi della storia - all’interno dei motori delle loro macchine. La sinteticità folgorante delle opposizioni (il giovane/l’uomo di mezza età, la mac­ china “vecchia”/la macchina di modello sportivo, il silenzio/la chiacchiera osses­ siva, ecc..) si rapprende in inquadrature lunghe e faticate, in splendide sequenze di “fatti normali” e tempi morti che mostrano la forza di un vero “cinema dell’in­ quietudine” in cui il lavoro e la fatica, p. es., risultano sempre “strani”; come in 84

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effetti sono, anche se la fabbrica del cinema e la lontananza dalla fabbrica hanno abituato - al cinema - a non considerare mai fatica e lavoro, i dati massimamente occultati nella storia e nelle storie del cinema stesso (come è faticoso salire a ca­ vallo.., nei western hellmanniani). Ecco, il cinema apparentemente compatto e classicheggiante di Hellman, la sua ieraticità unita a tratti a banalità “esistenziali”, fanno in realtà esplodere e saltare la pretesa di “naturalezza” che tutti i cinemi inseguono (in questo, il primo Her­ zog è forse il solo cineasta in qualche modo e “con sforzo” paragonabile a Hell­ man). Mentre un “vero autore” è forse costretto a morire finalmente (o pur­ troppo, a seconda del grado di cinismo teorico), e a “girare” gli “amori piombi e furori” inventandosi un nuovo capitolo inatteso (di cui non si può ancora par­ lare), Two-Lane Blacktop resta a segnare la “croce-Hellman” nel deserto che resta il luogo prediletto in cui mettere in scena le “lotte obbligate” cui sono costretti i personaggi dei suoi soggetti (uomini o galli). Se Pimento degli ambiziosi sceneg­ giatori e della produzione stessa era quella di un’ulteriore “America attraver­ sata”, Hellman ribadiva intorno agli uomini e alle macchine i colori le violenze le allucinazioni del deserto. In questo tuttora unico cineasta “cormaniano”, uomo da “deserto dei segni” (no­ nostante la grossolanità di alcuni dei segni da lui usati e messi in scena), Hellman finiva il suo film filmando come l’impossibilità dell’accelerazione assoluta al ci­ nema. Filmava l’impossibilità del cinema, riproduceva le critiche godardiane me­ diante il trucco di cui è sbadatamente capace qualsiasi operatore incapace: il gon­ fiarsi e bruciarsi della pellicola. Di nuovo, un’immagine totalmente fisica, e in­ sieme impossibile e dimostrante il grado grottesco dell’utopia-cinema: perché non è dentro il proiettore, in questo caso, la pellicola che brucia, ma dentro la macchina da presa stessa che si ribella al “reale”. Il cinema: un rogo, un falò di pellicola, una velocità di vita catastrofica che diventa immobilità di figure figées o di pellicola intrappolata. Un “incidente” che è realtà ma non “incide” sulla realtà. [Essai AIACE, 4, 1979]

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1978

Il diavolo probabilmente di R. Bresson Convoy di Sam Peckinpah In cerca di Mr. Goodbar di R. Brooks La sparatoria e Amore piombo e furore di M. Hellman Un mercoledì da leoni di J. Milius L'ultimo valzer di M. Scorsese Incontri ravvicinati del terzo tipo di S. Spielberg Fury di B. De Palma L’albero degli zoccoli di E. Olmi Welcome to Los Angeles di A. Rudolph (segnalare inoltre nell’ordine: L’uomo nel mirino di Clint Eastwood, I ragazzi del coro di Robert Aldrich, Ciao maschio di Marco Ferreri, Io e Annie di Woody Al­ len. Figurativamente e fotograficamente, il film che più ricordo e mi ossessiona è Zombi di Romero, che non mi è piaciuto. Non segnato l’ultimo bellissimo film di Pakula, che lascio per l’anno nuovo. Ricordo lo Scene da un matrimonio televi­ sivo di Bergman. E infine indico doverosamente un’altra decina di “migliori’’ tra i film visti all’estero o nei festival, e le riedizioni): tutti i film di Max Ophuls che si possono vedere Fedora di B. Wilder Hitler, ein Film aus Deutschland di H.J. Syberberg Alambrista di R. Young La chambre verte di F. Truffaut Lo specchio di A. Tarkovskij Duello al sole di K. Vidor Falso movimento di Wim Wenders Il regno di Napoli di W. Schroeter Matango di Inoshiro Honda [Filmcritica, 291,1979]

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Herzog clandestino

Forse non è buona regola parlare di ciò che non può essere più visto, trattandosi di cinema. Se qui si fa, è perché da moltissimo tempo non si provava tanta emo­ zione all’uscita da una proiezione. E un film “di Herzog”., probabilmente. Eine Nacbt ohne Angst (Una notte senza paura). A cura del Cineclub Brera è stato pre­ sentato a Milano, per due sabati a tarda notte, a un pubblico più casuale che sele­ zionato o privilegiato: amici, cugini, nottambuli, passanti, qualche critico impe­ gnatosi a tacere (non io). Oscuri sono i motivi della clandestinità delle proiezioni e della “segretezza” del film (fino a ieri sconosciuto); questioni finanziarie e distributivo-produttive: il film è stato girato “in una notte” durante le ultime ri­ prese del Nosferatu, in uno chalet della foresta nera, all’insaputa della produ­ zione e con attrici-amiche fuori contratto, senza assicurazione. Herzog non dispera di poter normalizzare la situazione (per ora il film non ha al­ cun titolo di testa o di coda; nessun nome; parlato in tedesco, qualche frase in francese e in tutto una ventina di sottotitoli in inglese molto artigianali), mormo­ rando anche di una possibile partecipazione a Venezia, ma il primo dato di que­ sto “evento” è appunto di non essere tale, di non essere pubblico; ovvero: un ex­ autodidatta selvaggio e “maledetto” che, divenuto autore affermato, si ritrova di colpo nei panni dell’oscuro “film-maker*. Il film. Dopo Ophuls, Cukor e Rossel­ lini sembra la quarta reinvenzione della donna al cinema, inattesa e stupefacente da un regista cosi penetrante, ossessivo e dionisiacamente “violento” quale Her­ zog. Un piano-sequenza di novantasette minuti, e dentro - quasi sempre tutte in­ quadrate - quattro cinque donne che parlano ininterrottamente o quasi, pren­ dono un tè, del vino, un po’ di marmellata. La macchina da presa si muove in movimento continuo che sarebbe avvolgente se non fosse lentissimo, percorre lo spazio breve di una capanna di legno povera ma elegante. Dalle finestre qua­ drate entra la notte, e la luce dentro è bassa. Si riconoscono alcuni volti, diverse età, diversi colori, diverse generazioni, dal­ l’attrice wendersiana Lisa Kreuzer alla più anziana Hanna Schygulla; si intravede anche Isabelle Adjani, bianchissima. Entra a un certo punto dal nero della porta, pronuncia una frase enigmatica in francese (“/e l’aimais.. lo amavo., e il giorno in cui glielo dissi me ne andai in treno”) e dopo cinque minuti esce. Difficoltà di lingua a parte, è molto difficile capire bene di cosa parlano queste donne; spesso si animano, alzano la voce, litigano, forse, ma sempre con un ac­

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cordo segreto tra loro che un po’ ci esclude; tutto sembra vago perché si ha l’im­ pressione precisa che senza paura si stiano “dicendo tutto”, un mormorio inter­ minabile continuamente affascinante; si colgono brani distinti di conversazione, allusioni a situazioni quotidiane, nomi pubblici (Schmidt, Dutschke, il generalis­ simo Franco, Nosferatu, Marilyn, Beckenbauer stupido ma bello dice una, che importa?..) e privati (anche.. Werner, ogni tanto), ma è l’insieme che sfugge e at­ trae, in una calma compatta e dolcissima che fa superare davvero tutte le paure ed estraneità, perfino il dolore di questa estraneità. Così, non ci si accorge che per due volte il film passa dal colore al bianco e nero, quasi prodigiosamente, all’interno del piano-sequenza unico; non ci si accorge di due brevissimi frammenti musicali provenienti uno (ancora una volta dei Popol Vuh) da un televisore “spento”, l’altro (Blind Lemon Jefferson) da sotto., la co­ pertina di un disco wagneriano (la macchina da presa in quel momento accarezza la copertina fin quasi a entrarci). Herzog il solitario, l’artista “veniale” a volte odiosamente a sé, sembra qui cir­ cuire, nell’immagine di un mondo solo femminile, tutto lo stesso nuovo cinema tedesco, da Fassbinder a Kluge a Wenders. Né c’è un’improvvisa esaltazione acritica del femminile; anzi, subito dopo l’uscita dell’Adjani, lampeggia brevis­ sima l’unica inquadratura che spezza un attimo il piano-sequenza, un’inquadra­ tura estranea allo spazio-tempo della capanna nel bosco: la breve immagine di un fallo, un pene eretto, un fantasma di minaccia se non di invidia, di ricordo. In questa situazione, un altro dei meriti di questa “cosa” straordinaria girata “den­ tro” a Nosferatu è quello di non arrivare a essere un film dell’orrore, nonostante le luci, nonostante le parole lontane di queste donne streghe e magnifiche o il vero orrore e la paura che può dare il gesto di Liza che richiede una tazza di tè e un dolce e un attimo dopo li rifiuta entrambi dicendo “no, non ho più voglia; non so perché”. La sorpresa che attende il finale non è solo l’abituale movimento sfrenato e infi­ nito lirico o sontuoso che chiude ogni film di Herzog. La macchina da presa, come esausta, va verso la porta, che le si apre davanti, e “corre”, letteralmente corre tra erbe alte in mezzo a una foresta rada illuminata da squarci di luna; sem­ bra la soggettiva di un cane in un film disneyano; anzi, ha qualcosa di “animale” proprio questa fuga a pelo d’erba, come di un cucciolo (o un’altra donna, una bambina?) che - nei panni del cinema, della cinepresa - ha seguito finora la scena femminile. L’ultima cosa che si vede sullo schermo (prima dei titoli, che non d sono) è questa erba scura che avvolge i nostri occhi.

[il manifesto, 12 giugno 1979]

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Cinema a pezzi “Chi potrà credere che Domenico Greco avesse spesso per le mani i suoi dipinti e ogni tanto li ritoccasse per lasciare i colori distinti e distaccati e dare ad essi crude macchie, onde mostrarsi valente?" Francisco Pacheco, pittore e trattatista, a proposito del Greco, 1540-1614

“Conoscevo un distributore del mezzogiorno che aveva una maniera del tutto personale di sistemare i film da lui giudicati un po’ lenti. Vi introdu­ ceva uno spezzone che teneva sempre di riserva e che rappresentava una corsa di tori. Questa corrida spuntava improvvisamente nelle commedie moderne, nelle tragedie antiche, nei drammi del mare, e dobbiamo ammet­ tere che, talvolta, l’effetto era abbastanza singolare." Jean Renoir, regista

E chi potrà credere che Steven Spielberg ha “ripreso in mano" il suo Incontri ravvi­ cinati del terzo tipo, un film che tre anni fa ottenne un successo strepitoso di pub­ blico.. Limitandosi poi a “sostituire* una dozzina di minuti, e aggiungendo qualcosa nell'epilogo, Spielberg ha non solo utilizzato materiali già scartati nel montaggio del 1977, ma anche girato nuove scene. In definitiva, la “Special Edition” di Incon­ tri ravvicinati è già in circolazione negli Stati Uniti, presto arriverà da noi. Un fatto quasi stupefacente, nella sua dichiarata “marginalità” e secondarietà: uno dei più ricchi e “industriali* cineasti del mondo introduce di colpo nel ci­ nema l’arte del ritocco, che si poteva supporre dimenticata e relegata nei magni­ fici inferni del manierismo barocco (o nei deliri lucidi e rilucidati del Greco). Stupisce, ed è un indizio nuovo e ulteriore di un gioco che si sviluppa - in questo inizio di anni ottanta - intorno al corpo del cinema, il testo filmico con i suoi margini precari. Fino a oggi erano le istituzioni pubbliche o private e gli apparati produttivi o giuridici a porre la questione del testo filmico (in modo assai più tranchant di qualsiasi semiologia) nell’esercizio delle varie forme di censura. E il lavoro di cut­ ting (il taglio della pellicola sul tavolo di montaggio) che precede Yediting (il ta­ glio della pellicola definitivo) ha sempre esposto il corpo dei film a ogni genere di intervento. Complesso, industriale, “costoso” come macchina produttiva, il ci­ nema produce poi oggetti estremamente fragili, tagliabili, rimontabili sempre. Dal toro dei ricordi di Jean Renoir ai quaranta minuti tolti di netto (per fare un esempio recente) nell’edizione italiana di Assassinio di un allibratore cinese di Cas­ savetes, il testo filmico ha sempre dimostrato di poter sublimare nella visione pubblica qualsiasi manipolazione mutilazione o protesi del suo corpo di imma­ gini. Nel cinema (- spettacolo di massa) la continuità della visione ha sempre surrogato l’unità dell’opera. Anche per questo, l’autore cinematografico di tipo “europeo” (punte recenti: Bresson, Straub, Anghelopulos) si costituisce proprio tendendo alla realizzazione di film “precisi” e non modificabili nel testo, affini all’ideale mallarmeano del diamante inattaccabile; e per questo, in una situa­ zione molto meno facile, John Ford sfruttando genialmente le convenzioni nar-

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rarive cercava di girare in modo che il film fosse poi montabile logicamente e plausibilmente solo come voleva lui. Il controllo, l’ultima parola sulla forma da dare al corpo fìlmico, alla salma, è stato per ottantanni la materia del contendere tra le diverse forze produttive in gioco nel cinema; molto più che il controllo sulla forma e l’identità dei corpi da filmare e riprendere (i soggetti e gli attori imposti dalla produzione, dal libraccio dozzinale poco costoso o bestseller all’amante del produttore..). Su questo piano, la storia del cinema è un cimitero sterminato di croci, come altre Storie. Infiniti nastri di pellicola impressionati e tagliati nei modi più bizzarri e difformi, o con­ formistici e piatti: immagini tagliate, fissate, interrotte, per essere spesso in se­ guito riprese, sezionate, cannibalizzate per produrre altri corpi, cadaveri bellis­ simi o osceni, smorti o vitalissimi. Non sempre comunque il corpo filmico, il testo, si costituiva nella lotta tra (sche­ matizzando a oltranza) la volontà “economica” della produzione e quella “arti­ stica” del regista o di altri. Non di rado le diverse “volontà” concorrevano, e spesso era la sola “volontà economica” a produrre diverse “versioni” di un corpo, finalizzate a mercati diversi. Nel cinema di serie B, dove i bassi costi permettevano e anzi consigliavano la doppia versione, è stata pratica diffusa fino a tutti gli anni Sessanta quella di girare contemporaneamente due film “diversi” sullo stesso sog­ getto e con lo stesso regista (ma anche cambiandolo; poco importa), a volte cam­ biando perfino gli attori, a seconda dell’area geografico-culturale cui ci si indiriz­ zava. Anche un film “d’autore” come Atlantide di Pabst veniva, negli anni Trenta, girato in due versioni. Ugualmente oggi, la differente “lunghezza” di un film, a se­ conda che lo si veda in Francia, in Italia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, non è sempre frutto di modifiche arbitrarie imposte dal peso economico della distribu­ zione, o di interventi censorii (come magari la scena uoséen tagliata nei cinema par­ rocchiali); spesso la produzione stessa apporta lievi modifiche, taglia due minuti di dialogo troppo direttamente riferiti a una situazione locale, aggiunge il primo piano di un caratterista, toglie un dito aggiusta un naso, sostituisce una canzone con un’altra. Per non parlare del doppiaggio, forse la pratica perversa più diffusa e “normale” del mondo, da sola sufficiente a raddoppiare e riscrivere i film, a produrre testi radicalmente diversi dagli “originali” (dato che la “forma film” attualmente pre­ dominante è il “film sonoro con musica e dialoghi”). Infine, non rara è l’abitu­ dine delle anteprime “all’americana” (generalmente in città di provincia), dopo le quali il regista e/o la produzione possono divinare in base alle reazioni del pubblico quali modifiche debbano essere attuate (un cineasta rigoroso come Stanley Kubrick limò parecchi minuti alla sua Odissea nello spazio dopo le prime proiezioni pubbliche). Ciò che fa la differenza, tra le versioni e tra i testi, è in effetti la flagranza della vi­ sione “pubblica”. Solo il film visto da un pubblico ragionevolmente ampio si co­ stituisce in un corpo ben preciso, dai lineamenti in qualche modo riconoscibili. Lo scandalo o la stranezza si hanno quando un film muta corpo o cambia pelle dopo ripetute visioni pubbliche, dopo che si è costituito come “oggetto pub­ blico”. L’operazione di smontare, tagliare, accorciare, rimontare un film già 90

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fatto, è estremamente usuale, si svolge di continuo alla moviola e dopo le visioni “private” per amici e persone coinvolte nella produzione e realizzazione; ma la si accetta (a volte tra le proteste appassionate ma flebili di critici o autori) come in­ tervento su qualcosa che non è ancora il film, perché tale non è stato ancora defi­ nito per contratto sociale, e ancora non son state stampate le copie per la distri­ buzione nelle varie città. Le manipolazioni da parte della produzione, della di­ stribuzione, o dell’autore stesso che appronta contemporaneamente due “ver­ sioni”, rientrano quindi in una sorta di “normalità”, o almeno fanno parte di una pratica abituale, tesa in fondo a garantire e a garantirsi un pubblico. Ultimi svi­ luppi di questa pratica: il lungo film televisivo a puntate condensato in due ore per i cinema secondo una discutibile classificazione dei tempi e dei pubblici, e il film porno “soft” interpolato dai gestori delle sale specializzate o dagli stessi con­ fezionatori con spezzoni esplicitamente “hard” (per questo motivo si chiusero di recente quattro sale “a luci rosse” di Milano; ma da almeno cinque anni a Trie­ ste, in un cinema che la domenica faceva film per bambini e famiglie, durante la settimana si potevano rinvenire scene hard vaganti..). Molteplici pratiche si oppongono così a una tendenza critico-ideologica che, ne­ gli ultimi anni, ha meritoriamente richiesto favorito imposto preteso reclamato un rigore storico-filologico nel campo della ricerca cinematografica, sia per mo­ tivi di serietà intellettuale e scientifica, sia per rispetto nei confronti del pub­ blico. Essa punta proprio a stabilire dei testi corretti per i film (o meglio, per quelli “meritevoli”), a salvaguardarne margini e integrità, mentre la nozione stessa di “testo cinematografico” sembra esplodere. Anzi, questa stessa tendenza ha dato luogo a pratiche in certa misura nuove e pa­ radossali nei confronti del corpo-cinema: le quattro ore e mezzo del Ludwig “se­ condo le intenzioni originali di Visconti”, restaurato dagli amici in base alla sce­ neggiatura originale ricuperata in un museo. Il film, che praticamente nessuno (forse neanche Visconti stesso) aveva mai visto in questa versione, per la rilut­ tanza ovvia dei mercanti a distribuire un Ludwig così lungo, è stato presentato alla Biennale di Venezia, e si vedrà in televisione. Sempre a Venezia, Martin Scorsese ha messo in scena il momento più spettaco­ lare della sua sofferta crociata per la conservazione del colore nei film, auspi­ cando il frigorifero e ottenendo firme e plausi per la sua petizione. Serietà filolo­ gica, rigore culturale, attenzione al testo originale, paura delle contraffazioni, film DOC, probabile diffusione delle attività di restauro che già si svolgono in raf­ finate cineteche e università americane, ricerca delle colonne sonore originali oppure restituzione al muto di ciò che è muto, film postumi. Ma, ancor più pro­ babilmente, materia per il lavorìo accademico di chi per anni potrà condurre me­ morabili studi sulle “varianti”, grazie ai corpi conservati nel freddo delle celle. Ancora a Venezia, infatti, almeno due film, Loulou (di Pialat) e Lightning Over Water (di Wenders) sono stati presentati in versioni differenti da quelle già viste in occasioni precedenti, e si è visto II mistero di Oberwald di Antonioni in due di­ verse versioni, televisiva e cinematografica. Alle pratiche abituali e notorie (ma occultate, o per lo meno non pubblicizzate) de­ gli apparati di distribuzione, sembra sostituirsi con clamore evidente una tendenza

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da parte degli autori stessi a intervenire in tempi successivi su testi che parevano già completati. Non si tratta di fughe avanguardistiche verso un lavoro cinematografico in progress, né di opere particolarmente aperte come intento soggettivo. Il cinema resta il cinema. Una volta tagliata, l’immagine è quella che è. Sembrerebbe se mai un maggior scrupolo del regista-autore-produttore, o una sua incertezza-paura di fronte alle aumentate responsabilità. Giovani o giovanissimi, i cineasti-produttori alla Coppola, alla Lucas, alla Spielberg, si trovano in mano un potere immenso. I loro film costano se non come una guerra almeno come una battaglia, e li coinvol­ gono direttamente - come produttori - dal punto di vista economico. Nelle moviole di Lucas e Coppola si è rimontato il Kagemusha di Kurosawa (già visto a Cannes) per renderlo più appetibile. E proprio a Cannes, l’anno scorso, c’era stata VApocalisse (now) a “svelare” e mostrare di colpo la nuova questione del testo filmico, oltre che a suonare rintocchi millenaristici un po’ di morte per la concezione che siamo abituati ad averne. Accadde (si ricorderà) che il regista del più kolossal spettacolo del mondo non riu­ sciva a concludere il montaggio del suo film: letteralmente non riusciva a finirlo, incerto almeno quanto un superottista che non riesce a decidersi e che ha tutto il tempo che vuole per essere indeciso. Francis Ford Coppola, dopo aver speso più di trenta miliardi di lire, dopo aver passato due anni nella giungla filippina, pro­ vava probabilmente la stessa incertezza “creativa” di un Bertolucci costretto a “ri­ durre” per gli Stati Uniti o per l’Italia le dimensioni del suo kolossal Novecento. Coppola fece una cosa molto semplice e inaudita: presentò a Cannes due finali differenti, e un altro ancora ne teneva pronto. Un anno dopo, in Italia, in alcuni cinema si proiettava una versione col finale A, in altri quella col finale B. Veniva sancita l’indecidibilità finale della sua stessa “opera” da parte del regista-autoredemiurgo, e non certo (solo) per incertezze su quale soluzione avrebbe incassato di più. Colpiva e colpisce che un’opera tanto lavorata e “personale” e “soggetti­ vamente industriale” risultasse poi una manifestazione palese di scacco, di auto­ scacco, di insoddisfazione rispetto alla volontà personale di progetto: a Cannes, Coppola arrivò a un pelo dal far decidere al voto del pubblico quale sarebbe stato il finale. Ai più parve un vezzo, un capriccio. In realtà, era un colpo inaugurale ma decisivo portato (dal cuore stesso dell’industria cinematografica) alla forma classica del film, testo narrativo per immagini disposto in spettacolo di massa. Proprio al mar­ gine qualcosa si inceppava, non si “chiudeva” più; non si sapeva come finire. Sbef­ feggiato o trascurato come goffo tormento d’autore, il capriccio di Coppola viene oggi estremizzato e superato da Spielberg, la cui operazione di per sé sembra di gran lunga più minimale, e magari assurda. Un film di tre anni fa, ampiamente e trionfalmente visto, ritoccato senza nessuna precisa domanda o obbligo in tal senso. Una decisione, non a caso. E (forse per caso?) di nuovo un finale modificato. Già nel titolo, qualcosa si rivela, di quella decisione. Edizione speciale. Ancora un piccolo fremito di gioia per i filologi?, come se l’oggetto-fìlm si avvicinasse sem­ pre più al componimento letterario, al libro.. Invece, la solita apocalisse, già da Spielberg avviata col personale e geniale millenarismo di 1941 (il più costoso “di­ vertimento” della storia del cinema, film giocato per perdere, di puro dispendio,

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opulento e macchinistico e insieme narrativamente sfilacciato), e ormai sempre presente in filigrana in questo “discorso” di finali che non finiscono.. Edizione speciale. Certo, necessità di autore, pallini personali. Ma è solo un para­ dosso che a distruggere i miti del cinema d'autore o dei film ben chiusi e torniti sia proprio l’espressione più avanzata e “potente” dell’autore moderno, il registaproduttore americano che filma i giochi sognati e insieme fa l’industriale. Edi­ zione speciale; industria, come il modello “sprint” o “special” di una vettura di se­ rie; oltre che un regista desideroso di accentuare gli elementi mistici del suo film. Interessanti, e affascinanti proprio ai fini di una teoria dell’autore, non ci interes­ sano però qui i meccanismi individuali e i tormenti artistici dei registi, o lo scru­ polo morale di Wim Wenders che non sa bene cosa fare del suo film sulla morte di Nicholas Ray. E indicativo che siano proprio gli autori - e soprattutto i registi produttori americani - a introdurre l’esitazione nel concludere, il ritocco, il rifa­ cimento. Ma solo un’ottusità teorica potrebbe cercare in ciò tracce di una nuova forza dell’autore. Come ben sa il Lucas delle Guerre stellari (che ha dato il seguito della sua crea­ tura, L'impero colpisce ancora, in mano a un altro regista), per il regista sarà sem­ pre più questione di Sarte combinatoria”, con o senza computer. Se il potere e il capitale, restano concentrati, la “forza” si fa però diffusa, si espande micrologicamente. Ai filologi troppo seri potrebbe accadere di saltare nella maniacalità da appassionato di HI-FI. L'edizione integrale restaurata, illusoria come Valta fedeltà. Ma quale sarà il testo integrale e definitivo, se cominciano a diffondersi gli optio­ nal L’irrealtà, l’astrattezza della ricerca e costituzione di un testo filmico sicuro (contro censure e predoni, contro i graffi dell’usura temporale), perdente e meri­ toria nei confronti della distrazione del pubblico in sala (si ha mai ricordo esatto dei lineamenti di un film?) estremizzata nel salotto televisivo, si fa palese e non scusabile in questa nuova situazione possibile. I mezzi sempre maggiori a disposizione per conoscere, criticare, restaurare (p. es. l’agilità di intervento e di impiego del videotape), sono gli stessi che contribui­ scono alla dissoluzione e allo spezzettamento del testo. L’industria stessa supera l’obiezione teorica e filosofica (da Adorno in giù) alla “scarsa attenzione al testo e al senso” indotta dal cinema. Forse si scambiano i ruoli tra apocalittici e inte­ grati. Il rifugio individuale, nel cinema, sarà proprio il film come è stato fino a oggi, forma desueta, letteraria o teatrale a seconda dei casi; naturalmente, fatto col superotto, o col videotape, insomma con la sempre profetizzata e attesa “caméra-styló", a basso costo salvo mecenati o eredità. Per la critica, forse, una branca particolare delle arti visive. Per il pubblico, rispezzettato, si può invece ipotizzare un futuro di forme diverse, e la dissoluzione degli oggetti-film, pro­ prio per la loro maggior vicinanza tecnologica, la loro riproducibilità (il video­ tape), la loro smontabilità, la loro mutevolezza combinatoria. Coppola non ha avuto il coraggio di Lucas, non ha dis-integrato il testo facendo realizzare (sulle decine di migliaia di metri di pellicola girata) dieci film diversi a altrettanti registi, dieci versioni disintegrali. Spielberg si è fatto da sé la sua “edi­ zione speciale”. Ma la tendenza potrebbe essere questa, e si può supporre che l’industria ci stia già pensando, sotto la spinta della facile pirateria indotta dalla 93

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riproducibilità diffusa (tramite TV) dei film anche più prestigiosi e protetti: dal­ l’edizione speciale, agli optional^ alla scatola di montaggio. Il cinema come industria che appronta scatole di montaggio da cui poi i clienti costruiscono il loro “film”. I “registi” professionisti gireranno, con concentra­ zioni enormi di capitali, riprese tecnicamente “straordinarie” e “meravigliose” (o, per i mercati depressi, riprese semplici e piatte), brevi sketch narrativi con gli stessi personaggi o attori, lunghe sequenze di paesaggi o di battaglia, intercam­ biabili, con sonori e doppiaggi a loro volta variati (o da “inventare” a cura del singolo consumatore assemblatore). Nudità dell’industria e del mercato. Senza l’il­ lusione odierna che il cinema, se non arte, sia almeno industria, quando invece è essenzialmente un mercato (o il mercato). Già oggi, con poca spesa, chi possiede un videoregistratore potrebbe “montarsi” usando i pezzi dei film registrati - un suo metafilm immaginario. Già oggi, soprat­ tutto, ci si sta abituando a una fruizione del cinema “a pezzi”, sia per effetto del pul­ sante televisivo di selezione programma (spezzettamento selvaggio e distratto), sia per scelta di chi magari non registra più un intero “film”, ma solo le sequenze che più gli piacciono e interessano. Per effetto della velocità elettronica, o per riflessi­ vità, i film ormai si fermano anche, si blocca la continuità magica che in fondo assi­ curava sempre la presenza (anche smozzicata e interpolata) di un corpo. E il corpo, fermato, si sgretola, si dissolve o si mostra in pezzi; sempre sezionato, sarà sempre un Frankenstein da ricostruire. I film “scatola di montaggio” (studiare Guerre stel­ lari..) potrebbero anche produrre una nuova forma-film, il film-spartito, il film-ca­ novaccio, il film come materiale di repertorio, il film-attore da far montare-dirigere al consumatore-regista. Il film stesso come “soggetto”, da integrare magari con le sequenze “povere” dei propri filmini personali. Poter mettere nello stesso film un marlonbrando e la propria famiglia. Nella diffusione pirotecnica della figura del re­ gista (dove invece di attori, cose, paesaggi il regista ha a disposizione filmati predi­ sposti di essi), a perdersi sarebbe probabilmente la sacralità casuale e misteriosa­ mente economica dell’autore e regista di oggi. Un effetto secondario forse non ne­ gativo e anzi più o meno (in)consciamente voluto dagli stessi registi più personali; nel senso per es., in cui il “personale” alla Woody Alien - Manhattan - è già sinte­ tico, “da discoteca”, omogeneizzato nelle cellule culturali e filmiche e non solo ne­ gli obbligatori meccanismi di proiezione. Il ritorno alla realtà che può imporsi a questo punto del discorso non può dimen­ ticarsi di ricordare (anche ai fanatici del testo correttamente “stabilito”) come già ottant’anni fa uno dei primi “testi” celebri della storia del cinema, il protowestem The Great Train Robbery (1903), fosse messo in distribuzione con una bo­ bina aggiuntiva contenente la famosa scena dello “sparo in macchina” (cioè del pistolero che ci guarda fissi e poi spara su “noi” del pubblico). Nelle istruzioni per i proiezionisti, si diceva che quella scena poteva essere messa in testa, o nel mezzo, o in coda. Era appena iniziato (il cinema), e già allora (o ancora) non im­ portava come finire. Che ognuno decidesse, dopo avere pagato.

[Alfabeta, 19,1980]

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Il cacciatore di M. Cimino Apocalypse Now di F. Coppola Arriva un cavaliere libero e selvaggio di A. Pakula Alien di R. Scott Dalla nube alla resistenza di Straub-Huillet / guerrieri della notte di W. Hill Fuga da Alcatraz di Don Siegei The Harder They Come., di P. Henzel Nosferatu di W. Herzog Fedora di B. Wilder, Hitler, ein Film aus Deutschland di H.J. Syberberg, L’Alambrista di R. Young e La camera verde di F. Truffaut, sono stati indicati tra i mi­ gliori visti nel 1978. (Il corridoio della paura di S. Fuller Two-Lane Blacktop di M. Hellman Corps à coeur di P. Vecchiali The Effects of Gamma Rays di P. Newman American Hot Wax di F. Mutrux c, ovviamente, Forever Amber di O. Preminger, Amore tra le rovine di G. Cukor, Eine Nacht ohne Angpt di Herzog) [Filmcritica, 381,1980]

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Un film da non intercettare

Leggo che, ancora un anno fa, la trama di un film come Interceptor sarebbe stata vista con giustificato sospetto. E non capisco in base a quali assoluzioni oggi il so* spetto sarebbe meno giustificato. Anche oggi, infatti, da un film così piatto ed ebete non può che emergere la pericolosa e nazista imbecillità dell’intreccio. La nostra paludosa cultura di sinistra ha accolto e fatto sua, oltre al salutare “grado zero” e all’amore per il cinema americano, una sempre più rigorosa incapacità di vedere le differenze, omaggiando gli aspetti più owii (e meno segreti e decisivi) del cinema che si può e “deve” amare (giustamente, quello americano). Finalmente senza freni, lo spettatore & sinistra si attacca affascinato proprio al catalogo dei materiali genericamente “cultural-americani” e di quelli narrativi bruti. Del resto, è ritornato al cinema americano passando prima per la medio* crità di Easy Rider. L’occhio “liberato” dalle vecchie pastoie vede finalmente tutto allo stesso modo, forse “normalizzando” un pochino (i film stessi). Ecco sal­ tare le differenze. La linearità piatta e insulsa di un racconto viene scambiata per la sinteticità di un cinema in cui ogni pausa diventava davvero azione. Bastano due poliziotti supermotorizzati, un paio (non di più), di buone riprese mo­ tociclistiche, una banda di cattivi inaccettabile in qualsiasi western serie Z dei de­ cenni passati, un po’ di nastro asfaltato, un futuro debitamente apocalittico e senza legge, una discreta sequenza sadica (il poliziotto torcia umana a testa in giù: ma sfo­ gliando l’album del western o del giallo/horror all’italiana, troviamo decine di esempi migliori), ed eccoci pronti a trovare un’americanità del cinema australiano (che, per quel poco che è dato conoscere, a cominciare dal sopravvalutato Weir di Picnic a Hanging Rock e de L'ultima onda, si segnala se mai per un accentuato gusto del “mistero” e del parapsicologico). Dimenticando magari che mezzo film è dedi­ cato alla vita familiare e quotidiana del poliziotto, con lungaggini incapacità e inge­ nuità di ripresa che i caroselli (almeno) ci hanno insegnato a non sopportare. Amore, amore: non è dalla finestra ma dalla porta che rientra il peggior contenuti­ smo. Quello delle figure retoriche non comprese, e quindi degli stilemi accettati come contenuti, o viceversa. E sprecando sempre più le definizioni: cinema “hard”, diretto, secco, violento, crudele, libero, noncurante, trasgressivo, delirante, deside­ rante, tenero/lucido; gli stessi aggettivi che si sprecano per l’ultimo rock.

[il manifesto, 15 marzo 1980]

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Venezia 1980, un telefilm

Esserci, a un festival, non è più una condizione necessaria per averne una perce­ zione corposa. U corpo della Biennale Cinema, per esempio, si estende con pro­ paggini e cartilagini anche fino a chi, mille chilometri sotto, perde il treno per Venezia due giorni di seguito. I resoconti, i diari, le polemiche appassionate, le cronache annoiate sui giornali danno infatti un’immagine quasi ridondante, la cui qualità è comunque molto og­ gettiva. Si sorride a leggere delle proteste dei vecchi suiveurs militanti dei quoti­ diani prestigiosi: “troppa carne al fuoco”, “sembra di essere a Cannes”, “non si può lavorare”. Come se, in tempi (per dime due sole) di videocassette e di massiccia produzione cinematografico-televisiva (vedi infatti Venezia), il giudizio e la cro­ naca, per avere un senso, dovessero e potessero essere “completi”, “esaustivi”, “ri­ flessivi”. Come se ancora esistesse (al di là delle allucinazioni veneziane) il “critico” cui è affidata la sacrale opera di mediazione-informazione verso il “pubblico”. Come se imo strano pubblico indifferenziato (per quanto socialmente molto com­ posito) non fosse ormai il “fatto” che fa vivere e rivivere e rilanciare Venezia. L’unico “cinema” sicuro, a Venezia, è il movimento incessante della “folla cri­ tica” da una sala all’altra, il cui spettacolo e resoconto integrale è fruibile e godi­ bile solo dagli “assenti”, o meglio da chi legge i giornali, segue le reti televisive, ascolta le voci radiofoniche. In questa “visione da lontano” si inseriscono per esempio le notizie sulla “televi­ sione” di Antonioni. Il mistero di Oberwald sembra aver rinverdito il vecchio con­ fronto tra cinema e televisione che tanto appassiona chi, in assenza di definizioni valide dell’uno o dell’altra, trema grandemente al pensiero di una definitiva confu­ sione dei due termini. Ma non c’è pericolo: è proprio la politica “cinematografica” della più forte major italiana del momento, la Rai, a garantire la sicurezza degli steccati. Antonioni è Antonioni; è probabile quindi che degli steccati gli importi, e che si sia giustamente buttato a corpo morto su un’operazione che gli permetteva di fare comunque “cinema”, per di più con mezzi elettronici, per di più nuovi. È un gioco abbastanza diverso da quello dei tanti “registi” del cinema italiano che ormai scrivono le sceneggiature in funzione Rai, ma solo per girare possibil­ mente con le spalle coperte (dal denaro pubblico) il loro bravo filmetto in 16 o in 35 mm, lontani da ogni reale coinvolgimento televisivo. Almeno Antonioni si è appassionato a sperimentare l’elettronico televisivo, proseguendo sulla via de­ 97

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gli exploit tecnici, dopo le performance impossibile carrello finale di Profes­ sione reporter. Ma il suo lavoro, qui a mille chilometri, non si è visto. Di qui, risalta proprio di fronte all’importanza dell’avvenimento, la paura (nella flagranza della schiacciante presenza Rai) di parlare di televisione. Antonioni è entrato nel merito dei “mate­ riali”, dell’apparato tecnico che può produrre immagini in qualche modo nuove (sia detto più o meno ingenuamente). Di sicuro, l’operazione complessiva non è nuova, non tanto per quel che riguarda {'autore, quanto per la committenza televi­ siva. Carta bianca a un “autore” (in questo caso doverosa e necessaria), sicurezza per lui, prestigio ulteriore per la Rai, e un “regalo” di qualità all’utenza. Passano e mutano le strategie, i nomi, i registi e i funzionari. Non cambia la qua­ lità dell’accordo (che in altri casi può apparire mafioso) tra la committenza tele­ visiva di stato e il regista autore cinematografico. Certo, non sono altro che au­ spicabili, per esempio, le produzioni a basso costo o l’appoggio ai progetti di ci­ neasti giovani. Ma di autori che si siano volutamente “coinvolti” con la specifica assenza televisiva di uno specifico, che abbiano insomma capito in quale grande bocca-oracolo si facevano ingoiare, per poi lavorare sui denti, o sulle tonsille, o la lingua, o giù giù fino al cuore, si possono ricordare solo Rossellini, e Godard. Accade (altrove) per la radio, mezzo indubbiamente più agile: una giornata di programmazione affidata a un personaggio che ne diventa “il regista”. Certo, il palinsesto televisivo è sempre più vasto e indeterminato, ci sono nicchie per tutto e per tutti. E “tutto” e “tutti” si adattano alla televisione: la “resa” è gene­ rale. Una cosa minima come L’altra domenica, per esempio, che aveva semplicemente scoperto reinventato la “durata” dello spettacolo televisivo come somma di piccole attenzioni e lunghe distrazioni, non è servita (pare) a nulla, se non a far co-Rai-produrre un ennesimo film per la regia dell’improbabile conduttore. Forse sarà più facile fare un’altra prova di orchestra, ma come fa un Fellini (per partire in alto..) a non sentirsi più stimolato dalla possibilità di dirigere e co­ struire in TV uno spettacolone di varietà tutto suo? O come fa Bertolucci a resi­ stere alla tentazione di fare una intera giornata (Telegiornali compresi) sulla rete uno, o due, o tre? E il giovane autore con la sceneggiatura nevrotica nel cassetto, come fa, come fa a non lottare per scalettare dirigere o “inventare” tutto un po­ meriggio sportivo? E Antonioni che aspetta a proporsi (o che si aspetta a contat­ tarlo) per tre mesi di rubrica culturale? Sono forme che solo per convenzione appaiono negate alla sperimentazione, al­ l’invenzione personale, e che già per contratto politico sono affidate a quei pochi primari e definitivi “mega-autori” televisivi che sono i programmatori del palin­ sesto. “Voglio il palinsesto!”, si mormora abbia gridato Orson Welles in fasce. Sapeva che il trucco d sarebbe stato lo stesso. Ma, e Venezia lo dimostra nonostante le decine di produzione Rai, la “forma film” è ancora la più cara, la più sicura, la meno ri­ schiosa. Gli “autori” non rischiano di disperdere la propria “tematica”, la gente non mormora, la committenza televisiva non è obbligata a dire dei no imbarazzanti. [il manifesto, 6 settembre 1980] 98

Davanti alla macchina da presa non ci sarà più “qualcosa” da riprendere. Il cinema muore di effetti speciali

Ogni artificio diretto al conseguimento di effetti illusori: è il “trucco” secondo il dizionario Devoto-Oli. Definizione nella quale rientrerebbe agevolmente anche il cinema, nato, infatti come fenomeno da baraccone. Ogni minima operazione di ripresa cinematografica o di montaggio è un trucco. Ma il trucco iniziale e de­ finitivo del cinema è, come ha mostrato Bazin, quello di istituire a priori un ef­ fetto di realtà che tollerava benissimo ogni “illusione”, perché si garantisce me­ diante l’obiettività della riproduzione tecnica di immagini in movimento. L’im­ magine sullo schermo può essere opaca, “illeggibile”, palesemente irreale, varia­ mente truccata: più o meno “esperto”, lo spettatore potrà riconoscere questo o quel grado di finzione, e i più raffinati sanno “difendersi” anche dai più elaborati e concettuali effetti di montaggio. In ogni caso, possiamo mettere in dubbio tutto (che quell’attore sia davvero morto, che l’oro sia davvero oro e il vino vera­ mente vino, che dietro la facciata ci siano anche delle stanze) ma non che di fronte alla macchina da presa ci sia stato veramente “qualcosa” (sia pur un’om­ bra) che è stato ripreso. La verità garantita è che comunque un’operazione tec­ nica di ripresa sia avvenuta; magari già “truccata” rispetto ai canoni della visione abituale (a seconda dell’obiettività degli obiettivi, dal grandangolo al tele), ma comunque compiuta da una macchina e non da un meccanismo umano come la mano del disegnatore o dello scultore. Posto questo, la macchina-cinema può tollerare e sfavorire ogni trucco. Ottan­ tanni di cinema hanno comunque ribadito che era molto più “speciale” - ri­ spetto ai geniali ma illusionistico-teatrali giochetti del mago Méliès - l’effetto del treno che entrando per la prima volta nella stazione sembra arrivare addosso ai primi spettatori del Lumière. Ma il punto estremo su cui misurare gli effettivi progressi degli effetti speciali è probabilmente il trucco che coinvolge il corpo umano. L’effetto speciale che si torce e si trucca in mille modi. (Non pestate quell’insetto, potrebbe essere Lon Chaney!) proprio di fronte alla macchina da presa. Infinitamente truccabile, il corpo umano è però (a differenza di quello “animale”) moralmente e convenzionalmente “intoccabile” sullo schermo. Una decapitazione è irreparabile, e infine praticamente non riproducibile in modo credibile se non mediante la ripresa di un’effettiva decapitazione: forse per questo le teste tagliate e i bagliori velocissimi di finte decapitazioni abbondano nell’ultimo cinema contemporaneo di finzione (Aguirre, Il vento e il leone, Voglio

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la testa di Garcia, L'uomo che volle farsi re, Apocalypse Now, per restare agli esempi più occidentali). Tutto ciò può apparire lontano o marginale rispetto all’attuale sviluppo degli ef­ fetti speciali, da 2001 in poi. Il fatto è che proprio a Venezia, mediante alcuni esempi disparati (più ancora che nel brevissimo “convegno” apposito), si è visto come l’effetto speciale e la corporeità formino insieme il nodo centrale, non del­ l’artisticità o compiutezza di un film o di un autore, ma del futuro stesso del ci­ nema come mezzo inserito nella catena di produzione e riproduzione delle im­ magini. Il finale di Berlin Alexanderplatz, Il mistero di Oberwald, Lightning Over Water (il miglior film di Wenders) e The Empire Strikes Back (il nuovissimo Guerre stellari) ripropongono, ciascuno in modo diverso, la questione dei limiti dell’illusione cinematografica, o meglio del reale cinematografico. Berlin Alexan­ derplatz si conclude con la sintesi quasi beffarda (specie rispetto al geniale Hitler di Syberberg) di un modo espressionistico di manipolare e truccare le immagini, di sovraccaricarle all’interno, (Russel, Visconti) e di giocare con esse (vedi la so­ luzione syberberghiana della proiezione di immagini cinematografiche sullo sfondo di un’altra immagine cinematografica in primo piano: come due “film” distinti incastrati l’uno nell’altro e scaglionati in profondità) dall’esterno. Il trucco, compresa la macelleria nazista di corpi, è accentuato e esibito come tale, diventa oggetto della messa in scena e non è effetto di essa o per essa. Nel Mistero di Oberwald si ha come un’adozione ingenua di una tecnica nuova da parte dell’autore. Il “trucco-colore” viene utilizzato in modo molto poco illu­ sionistico ma nello stesso tempo molto poco distanziato, per un’operazione di tipo meliesiano; qualcosa di molto nuovo e “mai visto” (se si eccettuano i meno ingenui tentativi di colorazione elettronica nell’ennesima gianboncompagnata televisiva conclusasi proprio in questi giorni, Superstar) ma che rimane per forza debole effetto scenografico di superficie in confronto alla “profondità” del trucco cinema (perversamente, consigliamo di “ritruccare” il trucco elettronico antonioniano visionandolo in bianco e nero). Assai meno esibito è il trucco nel film di Wenders sul “film” della straziata ago­ nia di Nicholas Ray; anzi non c’è trucco, Ray sta davvero morendo di cancro. Di nuovo Bazin, la morte e il far l’amore come i due tabù essenziali della ripresa ci­ nematografica, i limiti dell’“oscenità”, come nella performance “dal vero” di un pomo hardcore, Wenders mostra il lavoro del corpo, il suo avvicinarsi a un li­ mite decisivo, la morte. Lo svolgersi fisiologico del “tempo” all’interno dei corpi in movimento. Il ritorno a un effetto primario di verità fortissima: vedere i corpi sapendo che.., e quindi, come se i corpi fossero lì, per sempre. Il massimo, in questa direzione, sono probabilmente gli infami filmini porno prodotti (si dice) in Sudamerica per il vizio statunitense, quelli in cui si vedono esecuzioni sadiane dal vero, donne e uomini mostrati nell’esercizio sessuale e uccisi in scena: senza trucchi. Non plus ultra. Le teste vengono davvero tagliate. Sapere che è vero: e poi verificare nei dettagli dell’orrore la verità della morte e del sesso ripresi. Oscenità della verità: tutto ugualmente vero, di qua e di là della macchina da presa. Con il terrore, per noi, di non saper distinguere - un giorno - tra assassi­ nio vero e assassinio simulato, tra corpo mutilato e corpo truccato.

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The Empire Strikes Back sembra l’opposto. Sintesi di ogni tipo di trucco, gioiosa­ mente mostrato come potenza e perfezione tecnica, ma naturalmente non esibito nei meccanismi. L’effetto speciale come realtà dominante del film, come “sog­ getto” di esso. Corpi veri messi accanto a corpi falsi mediante sovrapposizioni, blueback, chromakey ecc.., corpi umani calati, dentro robot, paesaggi e riprese dal vero combinate nella stessa inquadratura con fondali dipinti, corpi che appa­ iono e scompaiono, una mano mozzata (e poi ricostruita). Produzione fantastica di meraviglie visive. Ma non disegno animato, anzi l’opposto, per quanti “anima­ tori” possano aver collaborate ai trucchi; la garanzia di fondo è ancora la solita: non che una macchina ha fotografato dei “disegni”, ma che quei corpi e quelle cose esistono, che quell’azione è avvenuta davvero, anche se montata per finta, anche se l’astronave è di legno dipinto. I “movimenti” provati e riprovati fino a sembrare del tutto “naturali”. Il trucco come moltiplicazione delle forze del reale, non come sostituzione o come necessità di effetto speciale per dare verosi­ miglianza a un evento (come per i cataclismi nei vari film catastrofici), e neanche come esibizione di ricchezza produttiva (come nei kolossal): e in questo senso In­ contri ravvicinati è più “kolossal” di Guerre stellari. Ciò che si vede è straordina­ rio e “speciale”, ciò che si racconta è di genere “fantastico”, ma i modi in cui si manifesta visivamente lo straordinario sono “normali”, discreti, medi. Avviene tutto lì, l’effetto speciale appare domestico e innocuo, si fa quasi “genere” in sé, proprio per la naturalezza e sicurezza convenzionale con cui corpi di sostanze di­ verse agiscono insieme. Vedendo il documentario (mediocre) sulla lavorazione di The Empire Strikes Back, risalta proprio la qualità domestico-artigianale-elettronica del complesso lavoro sui trucchi del film. E la naturalezza con cui il set cinematografico si è or­ mai allargato fino a essere un vuoto, un buio, un non-luogo in gran parte pura­ mente immaginario. Il set di The Empire Strikes Back non è definibile: ora una distesa ghiacciata in Norvegia, ora un gigantesco teatro di posa, ora un minu­ scolo studio dove si muovono i “quadripodi” che sulla scala schematica saranno poi i mostri più grandi, ora la pellicola stessa sulla quale si fanno a mano i graf­ fietti che risulteranno poi l’ombra proiettata sulle zampe dei quadripodi dai cavi con i quali i “buoni” li faranno crollare. Vedendo il film, le riprese nella neve (soprattutto le inquadrature ravvicinate) ci erano sembrate quasi tutte fatte in studio. Il documentario ci fa invece vedere che sono state girate dal vero, in mezzo a tormente di neve, venti gradi sottozero. Lo abbiamo detto a Kershner e al produttore Kurtz. Si sono scandalizzati, lo hanno preso come un insulto e una messa in dubbio della loro “verità”: quelle riprese erano dal vero, anzi c’era tanta neve che quasi non riuscivano a girare. Appunto; forse l’eccesso di realismo della troppa neve, o forse la precisione e giustezza della realtà nevosa, avevano fatto pensare che anche quella fosse roba di studio, trucco. La realtà come trucco. Nel trionfo del set immaginario, del dominio della sua realtà, la realtà vera (fosse an­ che un paesaggio) non può che scomparire anche quando c’è: il massimo è “sem­ brare finta”, lo abbiamo già verificato nel fantascientifico Barry Lyndon (e, in parte, in Tess), e lo aveva capito John Ford, che usava nei suoi western la sublime “cartapesta” rocciosa della Monument Valley.

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Comunque con gli effetti speciali delle Guerre stellari siamo proprio al limite del sintetico, il limite in cui si riproduce il vero-vero mediante un’esasperazione del falso, in cui la riproduzione stessa diventa finzione. Da una parte, dicevamo, il face to face della realtà pornografica, il vero dell’oscenità o hardcore o televisiva (dal Vietnam in poi), l’annullamento di una "differenza” tra reale e immaginario. L’immaginario del cinema è la realtà-realtà. Dall’altra, basta avvicinarsi a zoomare sul televisore o sul monitor del videoregistratore, per scoprire il futuro. Sono tanti puntini, l’immagine che sembrava compatta (ormai esistono in USA si­ stemi televisivi a definizione quasi cinematografica, 6000 linee invece delle 600 delle nostre immagini TV) si mostra fatta di atomi, di vuoti e di pieni, non è più il “corpo” che appariva da una certa distanza. Sì, il futuro. Nei laboratori NASA di simulazione del volo spaziale si usano già immagini che non hanno alcun refe­ rente materiale; immagini ad altissima definizione (e perciò credibili; paesaggi marziani che ci sembrerebbero “veri” come la Monument Valley) prodotte dal calcolatore mediante la disposizione di punti-colore elettronici. Col calcolatore, potrebbe diventare possibile costruirsi una Marilyn Monroe di consistenza “foto­ grafica”, senza mai aver avuto bisogno di fotografarla dal vero. Produrre direttamente la riproduzione della realtà, saltando i corpi e le cose. Stampare film e foto senza averli dovuti “riprendere”. Un’iporealtà. Il cinema oltrepasserebbe la sua stessa garanzia, morirebbe trionfando. Impossibilità di distinguere, certezze solo della tecnica, non più “qualcosa” di fronte alla macchina. Nessun corpo, né immagini così vere da sembrar cinema, da far pensare di aver avuto un corpo: ri­ mando illusorio a qualcosa che, di sicuro, non d sarebbe più. Come sentirsi al­ lora sicuri del proprio corpo, se l’allucinazione del futuro potrebbe essere la realtà? In ogni caso, ben al di là dell’allucinazione teorica del futuro immaginario, a Ve­ nezia si è anche visto un film di Hitchcock, truccatissimo ma senza alcun effetto speciale: La congiura degli innocenti. Un gioco di illusioni puramente mentali, per quanto basato tutto su un’unica immagine iniziale: un cadavere di cui non si vede con chiarezza il volto. Tutti pensano di averlo ucciso, nessuno lo ha fatto, si giunge (noi spettatori) a sospettare un attimo che sia lui il colpevole mai morto. Se il corpo non si è mai ben visto, forse è un sogno o un’illusione da seppellire sulla collina. C’è però un disegno che ritrae il morto; una prova, o almeno un in­ dizio. Ma no, basta cambiare alcune linee e la realtà cambia di colpo, e il mondo si ricompone in una meravigliosa mediocre e illusoria felidtà cinematografica. Col segno puro di un corpo mai davvero visto e solo abbozzato in un disegno. Senza effetti “spedali”, il cinema.

[il manifesto, 16 settembre 1980]

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Carpenter, paura in città

Potenti macchine tecnologiche si sfidano e si superano, per gioco, su rettilinei a duecento all’ora. George Lucas, Steven Spielberg: le loro operazioni, da Lo squalo a Guerre stel­ lari, ma già da Duel a American Graffiti, si sviluppano con vasto dispiegamento di codici e con complessità di meccanismi tecnici: sempre però rigorosamente di­ rezionate e determinate nella loro azione verso il pubblico. Semplici e efficaci, i giochi d’amore dei due giovani ras del cinema USA d’oggi, per quanto privati puntano senza equivoci verso il pubblico, giocano con esso grazie a referenti ma­ croscopici e facilmente individuabili; producono puro cinema totalizzante e inte­ grato, genialmente irriflesso e inattaccabile, mitologia indissolvibile finché ne sarà assicurata la ripetizione: ma il loro giocare matto col cinema è sempre po­ tentemente collegato appunto a referenti extra-cinematografici di prima gran­ dezza, da un punto di vista antropologico-culturale. Lo stesso rapporto con i ge­ neri cinema topografici è estremamente diretto, tanto naturale che la connota­ zione di genere diviene poi inavvertibile. Il loro simultaneo ricorso alla “fanta­ scienza”, avviene senza traumi: i loro film si installano d’acchito dentro lo spazio del genere, proprio mentre definiscono lo spazio del nuovo “vuoto” cinemato­ grafico. Il gioco con tutto il cinema precedente, con le luci e i colori dello studio, si coniuga con la sicurezza di essere nel luogo della tecnica “vera”: cinema di possesso del passato e di sicurezza del futuro: “il futuro è nostro come lo è stato il passato.” E nel presente, lo schiacciante successo dei loro film, inevitabile per la geniale tempestività del loro prodursi: mai collegati al presente in modo di­ retto, sempre lievemente sfalsati, lievemente “astratti” o rétro o di anticipazione, e quindi sempre capacissimi di istituire da soli il “presente” (dello spettacolo dentro l’informazione diffusa). Ovvio, in un certo senso, che l’orrore sia per loro solo un ingrediente occasio­ nale, perfino in Duel reso quasi irriconoscibile dal virtuosismo tecnico delle ri­ prese “automobilistiche”: come mostra Romero, l’orrore è troppo presente già oggi con la violenza della sua anticipazione ipotetica: è un referente fortissimo per quanto nascosto, che rischia di far saltare subito la nuova macchina cinema svelando come il grande spettacolo sia oggi definitivamente altrove, forse negli stati, forse nello spazio della Luna e di Saturno, forse e più probabilmente nelle notti invivibili delle metropoli percorse da mostri. John Carpenter, il nuovo gio­

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vanissimo (1948) del cinema americano, forse punta anche lui ai film da venti miliardi. Intanto, però, produce un piccolo cinema che nei due film visti in Italia (Halloween e Distretto 13: Le brigate della morte) si mostra assolutamente origi­ nale nello spingere all’estremo alcune tendenze già presenti. Rispetto al “punto fermo” dei Lucas-Spielberg, è come scoprire gli antipodi del Coppola di Apocaly­ pse Now. La gigantesca avventura dell’apocalisse è il punto estremo della follia d’autore, la geniale proiezione di un mito fino al punto di implosione. Una fab­ brica da miliardi si identifica col sogno cinematografico di un regista, e poi tale sogno resta indeterminato e irresoluto fino all’ultimo, ritorna dilettantesco alla fine dei miliardi; il prodotto resta incerto e mutevole (i due, tre finali tra cui Coppola deve ancora scegliere e non vuole), ma non sul piano della revisione del modello e dell’aggiunta di optional (come è successo a Spielberg, che a scanso di equivoci ha voluto rivedere qua e là i suoi “incontri” con la tecnica del mito a be­ neficio del pubblico). Stupidamente “nominabili” ancora, i registi e i grandi film da infarto finanziario lanciano ancora grida impensabili, giocano fino in fondo a essere la “realtà”, ma quando il controllo sfugge abbiamo appunto il paradosso di Coppola e della sua apocalisse incompibile perché certo troppo più grossa del geniale bambino che, avendo “cominciato”, ora dovrebbe secondo regola porre la parola “fine”. Antipodi: per Carpenter, come mai prima di lui nella storia del cinema, esiste solo il cinema. Ne è talmente certo che può permettersi di giocare con l’orrore e di controllarlo fino in fondo. È talmente capace di fare “solo del cinema” da po­ ter affrontare tematiche di “anticipazione ravvicinata” come quella della violenza urbana in Distretto 13. Oppure, ecco Halloween che, girato benissimo con tutti i trucchi e le invenzioni della fascinazione schermica, fa davvero “paura” in sala e poi dichiara: “Niente paura, è solo orrore.” Cioè, solo “horror”, inteso come genere. E più, orrore del “reale”. Halloween, come gli altri suoi film (fin dagli episodi finti e “citati” e in­ scritti nel cinema: da un buffo Billy Kid da dream-opera alla fantascienza inquie­ tante di Dark Star), diventa così in America il tipico “cult-movie”; film visto e ri­ visto da gruppi più o meno ampi di persone, non necessariamente “marginali” ma neanche sul piano delle masse mobilitate dagli altri “grandi” film. Dal ci­ nema, nel cinema, per il cinema, sul cinema e sotto il cinema. Un cinema che in­ vita decisamente alla ripetizione. Nessuna nouvelle vague si era spinta a tanto. Di sicuro le mancava la storia. Qui, sul piano della citazione, abbiamo Distretto 13 che è a tratti una parafrasi di Un dollaro d'onore, e Halloween che si costruisce tutto in contrappunto a La cosa da un altro mondo, risultandone una costola, Hawks, naturalmente. Cioè, il più puramente cinematografico e genialmente asfittico degli autori classici ameri­ cani. Autore anche sempre delle musiche, Carpenter costruisce un cinema da camera inteso come variazione musicale di temi, colori, linee, volti, emozioni. Le pallot­ tole della terribile banda vodoo che sbriciolano insieme la consistenza della fic­ tion e la verosimiglianza di qualsiasi referente, per costruire con le immagini una stoffa soffice e traforata, che solo una lama sottile e affilatissima potrebbe ta-

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Carpenter, paura in città

gliare, secare, intersecare. Solo altro cinema e altra pellicola infatti vi si interse­ cano dentro. La costruzione drammatica non esiste come palinsesto di situazioni da control­ lare logicamente o con cui combattere emozionalmente, per lo spettatore; è a sua volta un meccanismo soft, un congegno leggerissimo che si osserva dall’esterno. Rispetto alla furba “compromissione” col “reale” della storia nelle già fortezze volanti degli Spielberg e dei Lucas, rispetto alla “lotta” di Coppola, Carpenter è più “avanti”, in una situazione di assoluta “amoralità”, dentro la lucentezza di una perversione senza maschere. L’orrore non farà paura. Con gli stessi elementi di invenzione visiva semi-iperrealista che troviamo mescolati nelle massime punte del cinema “morale” del piccolo borghese Scorsese (Taxi Driver, New York, New York), Distretto 13 fa della “paura urbana” una situazione affascinante di gioco. Nulla né prima né dopo né davanti né dietro lo schermo.

[IlPatalogo, 2,1980]

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Legami di sangue?

Quello che ormai appare il più accanito e esasperato dei cineasti nouvelle vague è Francois Truffaut, da sempre il più tenero, il più dolce, forse il meno rigoroso. Il rigore di Rohmer si esplica senza problemi, cristallino come agli inizi (Le signe du lion), il cinema di Chabrol continua come sempre a cancellare ogni traccia di sforzo, Godard tra televisione e cinema prosegue nella sperimentazione del mezzo cercando di non farsene prendere in mezzo e pure riuscendo ogni volta a far passare suo malgrado un grano di fascino e di allucinazione, Demy si dimezza di film in film come si conviene a chi ha fatto film perfetti su donne chiamate perdute. (Perché questi quattro nomi? Perché sono quattro.) Da sotto l’imperfe­ zione di ogni suo film, l’unico che testimonia ancora di una scommessa matta (l’unico che non sa di avere in qualche modo vinto) è proprio Truffaut. Il solo che insegue ancora qualcosa o qualcuno, per esempio Balzac e Hitchcock: il solo per il quale ogni film è palesemente un piccolo problema a sé, ma anche il solo che sente la necessità di inserire ogni pezzetto dentro la commedia umana come spaventato della propria parzialità e soprattutto come non sapendo che nessun pezzo ormai ha possibilità di sfuggire a quella commedia. Sì, il problema di Truffaut, nascosto in tutte le sue ventennali dichiarazioni che lo proclamano apertamente, è proprio quello della scrittura e dello scrittore; non quello della letteratura. Parziali e disparati come “i film della sua vita”, i suoi film sono come i suoi gusti letterari e cinefili: liberi ed eterogenei, in nessun momento installati dentro le totalità tipo cinema o letteratura. L’immagine che tanto lo affascinò, quella finale verso cui correva Fahrenheit 451, mostra uomini-libro come uominifilm, persone che attraversano foreste recitando scritture e riportando racconti. Non quindi il labirinto filmico-letterario delle scritture (come da moda borgesistica degli ultimi vent’anni) e il trionfo del metalinguaggio. Le questioni di Truffaut nel fare cinema sono rimaste se vogliamo più semplici, del tipo di quelle che si poneva quando faceva il critico, come la differenza tra “idee di sceneggiatura” e “idee di regia”: non ha mai appiattito le differenze sugli estremi delle grandi antinomie o nell’oblio derivante dalle monistiche realtà uguali a se stesse sempre. Negli anni settanta, Truffaut vuol fare dei film come si scriveva un secolo fa. Mo­ rire dalla voglia di fare dei film, ma non aver voglia di morire (nel farli, per farli, del farli, come Vigo). E infine, inattesa, la modernità, come in Hitchcock: pas­ sando per una concezione della scrittura mitica e aureolata (ma un mito quoti-

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Legami di sangue?

diano e oggettivato nella figura dello “scrittore”: da grande voglio fare lo) come può averla un bambino, l’arrivo alla cancellazione dello stile. Di questo procedi­ mento, L'uomo che amava le donne è la figura precisa, come quasi tutti i film di Truffaut: un amore discreto e plurale, una passione divisa o addirittura spezzet­ tata, la riproduzione di un’apparenza di quotidianità in realtà mediata dal filtro sottile di uno scrivere-filmare che è comunque magia. L’evocazione: rievocare sto­ rie, girarvi intorno, produrne emozioni, sostanziare di ciò il lavoro-piacere della scrittura (solo il costante distacco dalla storia impedisce di evocare qui per esempio un Gozzano). Gli ultimi film recano tutti la figura di questa rievocazione, sempre più evidente e letterale: da Adele H. al culto dei morti e dialogo con essi dentro la Chambre verte, dall’infanzia de Gli anni in tasca al florilegio personale di L'amour en fuite. “L’uomo che amava le donne” poi scrive, dei suoi amori discreti banali e non pas­ sionali, scrive con passione sempre più accanita; e Charles Denner, il protagonista lavora, sì, lavora: già derattizzatore in Mica scema la ragazza, si dedica qui a un me­ stiere non meno raro e favolistico, ingegnere sperimentatore in dinamica dei fluidi (ali, aeroplanini, barchette in vasche di prova e in gallerie del vento); il mondo si riproduce nelle sue mani, ripete le sue dinamiche bizzarre i suoi ritmi e meccani­ smi: gioco esperimento lavoro insieme. Scissione nascosta e evidente. Anche Truf­ faut punta al controllo maggiore possibile, cercando di sognarlo come un gioco co­ lorato su un mondo-mappamondo; ma si vuole servire del controllo, ancora una volta, con discrezione tiepida, solo in quanto può servire a chi vuol fare un film o lo scrittore. La passione, è per le scritture, per i libri e per le lettere o per i bigliet­ tini. I bigliettini tra bambini, il diario cifrato e delirato di Adèle Hugo, i romanzi di Roché, il diario del seduttore che diventa romanzo. E Chabrol vien qui di seguito, naturalmente. Solo in omaggio alla provenienza nouvelle vague. Due partono insieme, poi li incontriamo in due posti diversissimi. I loro film non si conoscono più. Possiamo amarli, coerentemente e truffautianamente, solo per la loro incoerenza l’uno rispetto all’altro. Nessun legame, a essere seri, tra il perfetto Rosso nel buio e il film di Truffaut. Solo, la stessa fuga dalla Sto­ ria per raccontare storie dentro il cinema; in Chabrol, senza nessun problema, la­ sciando allo spettatore la possibilità di farsi il mosaico. Tutti e due accaniti e proli­ fici nel fare film, facili e trascurati nel produrre gioielli, unici per continuità (tra gli ex nouvelle vague). Il loro mondo-cinema è già finito, non essendo mai esistito (quello rappresentato dalla nouvelle vague); chi c’era un po’ più dentro ora gira dentro la malattia mentale (Rivette) e fa pochi film, o fa televisione; chi non c’era mai stato (Resnais) continua a non esserci. Loro, continuano a fare film, lontanis­ simi l’uno dall’altro; che arrivano, p. es. sugli schermi italiani slegati, in ordine in­ vertito, aldilà di ogni cronologia produttiva. Un po’ tristi, nell’insieme. Chabrol per l’entomologia continua e per la linea langhiana fredda che però non giunge quasi mai a scottare di ghiaccio (se non in particolari: forse qui le labbra di Suther­ land?). Truffaut per il destino che lo inchioda sempre a fare il dottor Itard: a scri­ vere sempre diari, magari di ragazzi o amori selvaggi, senza mai riuscire (se non in forma di sirena nell’ineguagliato La mia droga si chiama Julie) al romanzo sognato.

[IlPatalogo, 2,1980]

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Chi è la più bella del reame? (John Wayne)

Comincerei con una citazione dello Stendhal “dell’amore” a proposito degli americani: Tutta l’attenzione sembra rivolta alla sistemazione ragionevole della vita, e a prevenire tutti gli inconvenienti: giunti alfine al momento di raccogliere il frutto di tante sollecitu­ dini e di un così costante spirito d’ordine, non rimane più abbastanza vita per goderne. Si direbbe che., non abbiano mai letto quel verso che pare la loro storia: “E/ propter vìtam, vivendi perdere causa?.

Critica apparentemente e realmente “romantica” della “positività” americana, e riecheggiante nelle critiche dei vecchi professori umanisti che negli anni sessanta ancora raccontavano strabiliati dell’ignoranza o della disinvoltura universitaria USA (per cui Platone era “un individuo intelligente” e per cui Saul Bellow si per­ metteva di dare del tu con frivolezza ebraica ai Kant e agli Hegel nei suoi ro­ manzi), quella di Stendhal è comunque una posizione premitica a proposito della cultura e del modo di vita americano. In fondo illuminista, essa è molto simile alle immagini che una pura lettura del “buon senso” trova nella cultura ameri­ cana non solo delle origini. La lettura “colta” europea, selezionante e mitizzante, ha sempre estratto e poten­ ziato al secondo e terzo grado gli elementi “mitici” del fatto-America. Costruito di continuo, e di continuo facilmente banalmente avversato smontato., “demisti­ ficato”, il mito-America è la costituzione di un intero continente come territorio immaginario attraverso il quale produrre miti, rileggerli, illudersi nella ripeti­ zione di averne meno paura. (Di sfuggita si può accennare all’interesse che avrebbe un generale e rigoroso “Hollywood e noi” della critica cinematografica italiana, incapace di qualsiasi distanza - dall’una e dall’altra parte - rispetto alla qualità dell’America come mito culturale positivo o negativo). H sottilissimo tra­ visamento dell’illuminismo romantico di Poe operato da Baudelaire è probabil­ mente il caso culturalmente più “alto” di tale atteggiamento. La lucidità con cui un americano scrive il diario di Gordon Pym e mina per primo in letteratura la questione della produzione non di utopie ma di un mondo possibile (quindi la questione ultima del soggetto, vedi II dominio di Amheim), è andata del tutto perduta, e neppure la “generica” genialità fantascientifica l’ha ancora ricuperata.

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Qui, si cercherà di schematizzare molto brevemente un procedimento abituale di lettura mitica dell’immaginario-America, e di prescindere un attimo in modo certo ugualmente schematico, proprio dall’indubbia sovrabbondanza di miti “og­ gettivi” dentro il cinema americano. Provare, per un momento, a uscire dal modo in cui abitualmente si proietta un discorso dentro le supposte totalità miti­ che americane, per poi individuare alTintemo della ripetizione supposta, facili e inutili differenze. In quella chiave, la rivisitazione negli anni settanta seguirebbe alla demitificazione della seconda metà degli anni sessanta, e così via. E, perfino in quella chiave, sarebbe utile vedere come forse lo schema non regga troppo, se la mappa mitologica disegnata da Fiedler nei suoi saggi continua a funzionare e anzi sem­ bra permetterci proprio di legare senza difficoltà gli anni sessanta ai settanta tra­ mite la Catastrofe e l’indiano. Ma appunto, il discorso qui vuole essere un altro, e vuol sostenere che la topolo­ gia mitologica rischia di essere irrilevante sia nell’individuazione analitica dei ca­ ratteri del cinema USA di oggi, sia nell’esplicitazione delle stesse tendenze a pro­ posito del “mito”. Abbandonate le geografie e le cartografie, non si proporrà quindi di certo un “viaggio” (eppure è un mito importante..) né teorico né pra­ tico, ma solo alcuni punti generali di riflessioni possibili sul mito del cinema ame­ ricano, non a caso l’unico mito veramente nuovo emerso con forza all’interno del cinema USA anni settanta, fino a risultare il tema stesso delle guerre stellari e degli incontri ravvicinati. Così, mentre per esempio la quasi-sparizione del western indica certo una pro­ fonda e quasi decisiva “mutazione” interna alla geografia mitica, la prolifera­ zione del “cinema” all’interno dei film americani risulta ben più decisiva mo­ strando come la “frontiera” si sia spostata e si stia spostando all’interno dei mec­ canismi di produzione di rappresentazione e spettacolo. Si diceva: demitificazione, rivisitazione. Oggetto, evidentemente, il mito e le sue mitologie presupposte: ovvero, tutto il precedente cinema americano. Ora, se c’è qualcosa che la visione e rivisione di film americani degli anni died-cinquanta ri­ pete fino alla nausea è la presenza, nel cinema di quegli anni, di una lucidità pro­ duttiva oggi perduta, lucidità capace di produrre macchine standard e serie abba­ stanza “medie”; oggi, si sa, una casa di produzione paga un successo strepitoso con parecchi buchi clamorosi, ed è ormai un’owietà ridire della sparizione quasi drammatica del film “medio”, cioè del cinema come tessuto, cultura, sistema sin­ tagmatico complessivo che permette la lettura dei suoi paragrafi all’ignorante come a Wittgenstein. Guerre stellari è il segno chiarissimo di ciò, proprio in quanto sembrerebbe invece (kolossal di serie B, è stato detto..) giustamente riuti­ lizzare tutto il cinema con tutti i suoi “giochi” e le meraviglie; ma appunto, quando mai il cinema era stato così “piccolo” da poter essere sintetizzato (anche nell’accezione elettronica) in due ore? Guerre stellari, Incontri ravvicinati, sono ancora certamente dei film, ma è dubbio che appartengano al cinema, e al cinema americano. Si pongono all’interno di un sistema di informazione planetaria complessiva che è il vero mito enorme, inevi­ tabilmente lasciato coperto dai discorsi che si limitano piamente a seguire i nuovi

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autori Lucas e Spielberg, e a scoprire o addirittura riscoprire che., gli piace fare il cinema ecc. Naturalmente, tutte queste affermazioni hanno molto Paria del gra­ tuito e dell’apodittico, ma la mappa del cinema americano di oggi è impossibile da farsi secondo i metri usuali; perché, per esempio, all’interno di una quasi asso­ luta omogeneità figurativa di insieme, che potrebbe far gridare a un cinema di fotografi, la scomparsa del cinema (di cui sopra) ha prodotto invece una situa­ zione quasi europea di differenze notevoli tra film e film, autore e autore, con di­ varicazioni continue ma anche continui intrecci tra tutte le sperimentazioni e tutti i classicismi possibili. Ed è bene dire subito che qui si limiterà il campo a pochi esempi: Bogdanovich-Scorsese, Milius, Il cacciatore-Apocalisse, e Guerre stellari-Incontri ravvicinati appunto. Proseguendo a salti, gli ultimi due film sono fondamentali, contenendo nella loro unidimensionalità così evidente tutte le ambiguità possibili nel fare film oggi in America. Intanto, guarda un po’, sembrerebbero entrambi restaurativi in tal senso, entrambi nostalgici (uno verso il passato dello spettacolo, l’altro verso lo spettacolo del futuro); con in più, addirittura, il tragitto personale di Spielberg attraverso: il viaggio (Duel, Sugarland Express) e., lo squalo bianco - tragitto che parrebbe proprio indicare la famosa rivisitazione -. Ciò che però conta, in queste macchine indubbie e sapienti, è la loro “intelligenza” di macchine, il loro pro­ gramma di per sé mitico e tutt’altro che fiabesco; mitico nel senso di costruzione del mito e ripetizione rituale di esso, non nel senso della rivisitazione consape­ vole. Il mito del cinema americano nasce adesso. E sull’onda dell’unico atteggia­ mento che unifica parecchie delle diverse realtà registiche; l’atteggiamento di chi sa di avere alle spalle, come passato, appunto il cinema. Passato, va ribadito in ogni momento, perché la riscoperta della convenzione, oggi certo diffusissima, implica in effetti una sua preventiva scomparsa o un occultamento. Senza provocare troppo, direi quasi che il “cinema alle spalle” (insomma Holly­ wood, ridiciamolo), una volta riscoperto e attualizzato, è appunto il mito del ci­ nema americano di oggi. E che il cinema dei “ragazzini” impertinenti ed effica­ cissimi manager (Lucas, Spielberg) è del tutto in balìa di tale mito, è cinema co­ sciente di ogni suo meccanismo e di ogni funzionamento spettacolare della tec­ nica, ma incosciente proprio nei confronti del mito (il cinema, e gli stessi miti narrativi e mitologizzati nei loro film). L’esemplificazione più nuda del loro fare film, meno scaltrita e meno di successo perché appunto scoperta e eccessiva, è John Milius (vedi anche solo Un mercoledì da leoni). La sua volontà di mitologizzare è infatti dichiarata in ogni intervista, e attuata in ogni film; raccontare, tor­ nare a narrare storie “belle” e “mitiche". L’illusione che l’amore per Ford e Ku­ rosawa possa superare la coscienza della mediazione spettacolare (scarsa in Mi­ lius, i cui film risultano spettacolari e affascinanti per il loro partito preso più che per la “messa in scena” dei vari momenti). La dimostrazione in negativo più tra­ gica è quella di Bogdanovich, il cui successo sembra essere finito del tutto. In ap­ parente stato di coscienza, l’ex cinefilo Bogdanovich asserisce che “tutti i film sono stati fatti”, e li riproduce (i più amati e svariati) in totale incoscienza del fatto che rende il cinema un po’ più ambiguo di quel che se lo figura lui: che cioè ogni film è anche grottescamente irripetibile (forse neppure le possibilità di co­ lio

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struzione elettronica dell’immagine ne cancellano l’irripetibilità). L’inconsi­ stenza teorica (si parla della teoria insita nelle pratiche, per esempio, coppoliane o scorsesiane) di Bogdanovich è tale che i suoi film sono ormai abbandonati an­ che dalla nuova critica americana che sulle riviste di grande tiratura promuove invece il resto del cinema USA “giovane”. Bogdanovich (ripetiamone il nome come sulle croci di cimitéró) è ucciso in partenza dal mito del cinema americano. Cioè - perché questo è il punto - da un cinema non “compreso” nel suo com­ plessivo illuminismo. Hollywood, rispetto ai film americani di oggi, è l’illumini­ smo della produzione di spettacolo. Le mitologie e le mistificazioni contro cui tuonava l’Àdomo americano erano organizzate in un sistema formale che sovraintendeva al mito, privandolo del suo dominio. Nei film di oggi, è come se una sostanza mitica allo stato brado, non formata da differenze notevoli, dila­ gasse ben al di fuori dei meccanismi di controllo dei film stessi. La loro perfe­ zione di macchine mostra infatti pareti metalliche stranamente ruvide: come se contasse solo arrivare all’orgasmo voluto di gioia o di paura, senza tenerezze “ci­ vili”. Fotograficamente, per esempio, sia Guerre stellari sia Incontri ravvicinati, che puntano moltissimo sul gusto coloristico del pubblico e sull’impressionismo delle linee, lasciano - si direbbe - tutto al fotografo; l’inquadratura, la possibilità della configurazione del senso tramite la cura di ogni particolare, sono strana­ mente trascurate, noncuranti, casuali: una bellissima fotografia senza senso., e il dominio lasciato alla flagranza del mostrato e del narrato. Ciononostante, può sembrare ancora eccessivo dire che Guerre stellari e Incontri ravvicinati sono più “mito in opera” che fiabe. Allora. La tecnica molto svilup­ pata e scientificamente raffinata che sovraintende a tali film, e che in parte ne è anche l’oggetto, rimane tuttavia saldamente in mano alla produzione; è una forza (vedi appunto il film di Lucas) che viene mostrata allo spettatore, e in parte con­ segnata al pubblico che si illude del possesso. In ogni caso, nessuna scissione nella superficie dello spettacolo. E così, la lucidità innocua e a tratti mozartiana o ariostesca di Guerre stellari espone la superfide brillante del gioco ma occulta per sempre le mosse del Vathek che può esserci dietro lo schermo del cinema o dietro qualsiasi produzione di immagini. Insomma, questi film non si producono come fiabe; e, carichi come sono di riferimenti ai materiali cultural-tecnologid della sodetà dello spettacolo, hanno però piuttosto roriginarietà del mito. Il cinema hollywoodiano fin dalle origini ebbe sempre presente il modo della sua produzione, e non si contano i film da sempre dedicati al dnema nel suo farsi; in nessuno di essi, però, il cinema aveva l’alone mitico che si ritrova nel ci­ nema d’oggi ogni qualvolta esso viene citato in un modo o nell’altro. Le stesse fiabe sul dnema, o sulla costruzione di uno spettacolo, non sono più possibili; oggi, per quanto disincantato o rozzo sia il reale, esse diventano mito perché per quanto sperimentali o provocatorie esse siano (le fiabe, genere per genere) la loro dissodazione (lo vogliano o no autori o produttori) è quella stessa del reale, e la loro integrazione monolitica è quella del reale-spettacolo totale. Non c’è più scansione: fantastico o realtà, astronave o dviltà urbana (Taxi Driver) sono ugualmente artificiali e veri; è l’impossibilità di verità del mito, se non nella figura pericolosa e ingannevole dell’enigma inscritto al suo interno. In ogni caso,

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che si tratti di evasione o di romanzo sociale, è un’unica forza spettacolare che agisce, non più mediata neppure attraverso i generi, ma dilagante dal Vietnam alle stelle. La fiaba, paradossalmente, sembra possibile se mai attraverso l’elettrodomestico che più ha contribuito alTistituirsi della totalità informatico-spettacolare, la televi­ sione. Mezzo più facilmente ingoiarne, dilatazione sensoriale del cinema, essa ac­ coglie oggi (anche in USA) anche gli spettacoli “arretrati”, i telefilm ancora di ge­ nere, gli sceneggiati un po’ ebeti. Lo specifico tecnico che amalgama la produzione cinematografica americana, e che in parte deriva proprio dalla formazione televi­ siva (o dalla cultura e attitudine televisiva) di gran parte dei nuovi quadri tecnici e registici, non deve ingannare; la differenza tra film e TV è anzi radicalizzata sempre di più. Mentre il film da parte sua cede sempre di più e comunque alla necessità di essere “più di quel che è” come film, alla necessità insomma di mimare anch’esso lo spettacolo totale, o almeno di rinviare continuamente ad esso. Questa anzi è la doppia struttura per niente sorprendente dei film ad esempio dedicati a minoranze etniche o culturali, a situazioni molto particolari e magari anche “basse” (da Rocky a Taxi Driver), e però giocati forzatamente sulla pluralità dei livelli di informa­ zione, sui brani di totalità disinnescata che circolano dentro un universo unico di spettacolo. I film non riescono più a intervenire sul cinema, essi sono costretti a “essere il cinema”; salta appunto la mediazione e quindi la possibilità di una di­ stanza e al limite di un discorso che sia diverso da quello “loro”; probabilmente, non ha più senso la distinzione dnema/film. O, più probabilmente, tutto il ragionamento qui prodotto apparirà sempre più arbitrario e fallace; anche a chi, tra i miti, continua in fondo a preferire il mito dei miti, quello della ciclicità e degli eterni ritorni che coniugano ogni fine e ogni inizio. Non vorrei, soprattutto, che la confusione di questo mio ragionare, sembrasse sottintendere una semplificazione o riduzione del panorama. Tutt’altro: il terri­ torio è sempre più sezionato, diviso in piccoli castelli, fortezze isolate, cittadine, campi e irrigazioni; confini, ancora. Mai come oggi i film americani rivendicano e propongono ognuno la loro “singolarità”, ampliano l’elenco dei miti da narrare o capovolgere, rivisitare o demitificare; arricchiscono il campionario di citazioni cui riferirsi ecc. Insomma, è Punico cinema che ancora “frigge”, e annovera al suo interno traiettorie nuove e diverse (con buona pace di Bogdanovich). E ap­ punto per questo c’è da rifiutarsi di unificare tutto col riferimento solito al mito come territorio complessivo, luogo volta a volta di scampagnate o di pellegri­ naggi, di marce forzate o di spettacolini teatrali osés, di birbonate o di cerimonie. Per questo, assurdo ricorrere all’insieme dei miti (americani e non) come spec­ chio complessivo su cui leggere le trasformazioni dell’oggetto-cinema americano; molto più assurdo dell’atteggiamento cinèfilo che in fondo si limita a continuare a invocare lo “specchio delle sue brame”: la critica non ha di queste scuse, per cui sarebbe troppo disonesto riferirsi in realtà di nascosto allo stesso specchio (magari saltando il desiderio) supponendolo (miticamente) esteso all’infinito e per sempre a coprire il mondo, per chiedergli sempre e comunque “chi è la più bella del reame”? Ecco, è evidente che nel cinema americano di oggi non si può

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rispondere a certe domande, neanche barando: sarebbe come chiedersi se è più bello Porto Said o Marghera o Zanzibar o Pechino o Pesaro o Venezia. Forse John Wayne, mitologizzato a oltranza come attore ma personaggio assolu­ tamente da fiaba, avrebbe saputo rispondere, vista la sua geniale risposta alle do­ mande cattive degli studenti radicals sui suoi capelli finti (il parrucchino): "non è vero; non sono miei, ma sono capelli veri.” Proprio in questi giorni, la presunzione critica continua a dire della (probabile) non-intelligenza o scarsa genialità di Wayne. Eppure, la semplicità anche di ma­ niera di una risposta simile mostra capacità illuministiche di distinzione buonsensistica superiore a quella che viene dispiegata quando si pretende oggi che un mito possa essere così facilmente rivisitato (tra parentesi, e tornando su vecchi terreni, si può ricordare che Lesley Fiedler proponeva come momenti “forti” della riproposta del mito americano proprio i romanzi, da Piccolo grande uomo a Qualcuno volò sul nido del cuculo, da cui sarebbero stati tratti film facilmente ascritti al genere demitificante), e un territorio risuscitato. La questione è invece che il territorio stesso viene ormai percepito come oggetto “disparente” nel discorso americano di oggi. L’ossessione di ima terra compietamente “polluta” e irrecuperabile è forse oggi la più diffusa da quelle parti, rintrac­ ciabile in qualsiasi interno o esterno (entrambi o arcadizzati o mostrati nel loro or­ rore, o nei casi sublimi - penso ancora a Scorsese soprattutto - le due cose insieme) di ricordare qualsiasi film recente, e non solo nelle banalità ginsbergiane. Il reame che resta intatto, e che anzi si diffonde a dismisura, è quello dell’informazione e spettacolo, mentre i SALT sanciscono l’insicurezza del territorio e lo spettro di una forza perduta o inutile. In tutto ciò, si può ribadire per il momento (ma in attesa di analisi), è difficile rintracciare lo spazio per una differenza tra il mito e il reale, im­ possibile (e infatti la si agogna) produrre la fiaba che su tale alterità si basa per per­ correre il “cielo” naturale e mitico che tiene distanti i due termini e li collega. La fiaba, ricercata e riprodotta in letteratura, è morta per il cinema (per quello USA, ma quindi debordante), e l’unico film degli ultimi anni che si muovesse cosciente­ mente dentro la totalità del mito giocando seriamente con essa (L'esorcista li di Bo­ orman) è stato un fallimento eclatante di pubblico. E sul territorio esploso e inqui­ nato (da Punto zero in poi) lo stesso road movie recente (fino all’esemplare e geniale Convoy di Peddnpah) non rivisita e ripropone nulla se non la morte del genere del territorio (il western) e il puro diritto oggettivo dei singoli film a esistere come og­ getti (più o meno costosi o perfezionati) reali dentro a un mondo di altri oggetti reali (macchine varie e uomini) e di altri spettacoli che non sono più sintetizzati o sublimati nella trasparenza della macchina-cinema complessiva ma galleggiano in una sospensione diversa che solo un tardo hegelismo retorico ci permetterebbe di denominare come sfera o sistema o spirito o qualsiasi altra nominazione totale. Ma è proprio questa assenza di blocchi evidenti o di differenze e scansioni radicali che, terrorizzante o piacevole, produce anche i nuovissimi film con dentro i vecchissimi buoni e cattivi, bianchi e neri ecc. Con un ultimo salto, e proprio per reintrodurre quasi come funzione la figura soggettiva di chi - in questo caso due registi - potrebbe vorrebbe o dovrebbe ri­ visitare: ecco il Vietnam di Cimino e di Coppola.

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Due film entrambi solluccherosi per chi vuole rintracciare miti e atteggiamenti sul mito. E straordinari entrambi per il ruolo mitizzante nei confronti dei loro autori. In particolare, Coppola che dichiara., di essere diventato il Vietnam. I due individui, a partire dal territorio della sconfitta USA più rilevante o unica da che Stati Uniti esistono, si fanno (specie Coppola) il loro film assolutamente personale su quello che è anche il fatto pubblico più importante della storia ame­ ricana recente (corollario: il fatto pubblico più importante della storia americana recente è un fatto accaduto fuori dal territorio americano). Costruito, con la sem­ plicità dei miti (anche dei più aggrovigliati e sconcertanti) e senza la stranezza lieve e scontata della fiaba, su tre soli elementi, un gioco crudele, una caccia e un matrimonio, Il cacciatore incorpora come protagonista una sorta di “superman” emozionale (è incredibile quanto rimanga sempre “forte” De Niro - altro che John Wayne! - e soprattutto è irreale la sua capacità di reazione), e paga un ma­ gnifico tributo a Hollywood con una Saigon città irreale di acque e incendi ros­ sissimi ricostruiti in studio, con visioni che possono far pensare solo all'incendio di Atlanta. Non è qui il caso di analizzare II cacciatore e di mostrarne lo straordi­ nario specifico, comunque. E l’appaiamento con Apocalisse non è tematico. Solo, colpisce appunto - e in Coppola è sempre stato così, fin dal Padrino, cioè dal ko­ lossal familiare con la colonna sonora fatta dal padre, la sorella nel cast ecc. come il privato stesso, in modo ben più mitico che ad esempio in Fellini (dove si ergeva a mediazione oggettivata dentro il film - vedi 8 e 1/2 - la figura dell’arti­ sta protagonista) si faccia integralmente parte del mito e venga a coincidere con esso (in questo caso, la fabula conradiana dispersa nel film di Coppola e prima toh chi si risente - nella sceneggiatura di Milius). Fine delle differenze anche qui, e puro dominio, appassionato e bellissimo, del mito. Storia, Privato, Narrazione, Politica, Profondità e Abiezioni dell’animo umano, Cinema. E l’esplosione delle contraddizioni del cinema, e l’annullamento di esse dentro una totalità ben più cinematografica. Anche solo a sentirne parlare, Apocalisse è l’ultima scommessa del cinema americano come soggetto riconoscibile. Il film di cui, a lavorazione finita, a presentanone avvenuta a Cannes, ancora non si conosce il finale perché, ammette candidamente e splendidamente il regista, “non so deci­ dermi, in fondo potrebbe andare bene questo o quest’altro”. Un film “iper”, ultra­ costoso, superproduzione e ancora una volta produzione familiare, ricostruzioni meticolose e mezzi imponentissimi, il solito Brando da miliardi ecc., un’infinità di mesi per montarlo. £ poi, “va bene qualsiasi finale”. Come “va bene qualsiasi mito”, si potrebbe dire, nel cinema americano di oggi, da costruire o abbattere, chiosare o commemorare, riinventare, demitificare o rivisitare. Solo oggi, forse, compiutamente solo dalTApoctfZfrye in poi, ecco il cinema-mito, terribile o magni­ fico; senza mezzi precisi, senza precise funzioni o statuti; privato e sterminato. Non importa come finire?

[in Hollywood giugno 1979, Marsilio, 1980]

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Lifeboat (I prigionieri dell’Oceano) - 1943

Nella regia geniale di questo film “da camera" girato su una scialuppa/zattera in mezzo alTOceano Atlantico, Hitchcock mostra parecchie delle sue chiavi, anche se poi le butta in acqua, irrecuperabili come la macchina da scrivere della giorna­ lista Tallulah Bankhead che infine finirà in mare. Non è tanto la capacità di rifare in studio un “dramma marino", a stupire, ma al contrario la capacità di astrazione per cui ancora una volta uno spazio chiuso non opprime la narrazione e il cinema e noi stessi con i suoi limiti, ma anzi di­ venta l’ideale supporto - per Hitchcock - di un’essenzialità drammatica da meti­ coloso e implacabile ingegnere. Lo spazio naturale del cinema. In effetti, l’inqua­ dratura è materialmente questo spazio. Il solo spazio che interessi Hitchcock, l’unico mondo su cui lavora (con lo story-board). Mare e cielo risultano quasi un di più, o meglio risultano solo una riproduzione - all’interno di essa - dei limiti dell’inquadratura. Nessun effetto particolare è infatti dedicato al trattamento di questi due limiti, che tengono prigioniero “qualcuno" non più di quanto fanno abitualmente i lati del fotogramma hitchcockiano. Cinque anni dopo, con Nodo alla gola, Hitchcock nasconderà il suo lavoro addi­ rittura dentro una sola (finta) inquadratura. Qui, a un découpage classico, e alla concentrazione drammatica tipica dei film giudiziari, di tribunale, si aggiunge la capacità di rendere sopportabile il teatro da sempre insito al centro di tali film. La zattera-cinema, per quanto spettacolo, per quanto non meno superficiale e ar­ tefatta del mare su cui galleggia, diventa la materialissima prigione dentro cui questa volta - il materialistico Udeusn Hitchcock fa mutare e deformare i corpi e i volti dei personaggi man mano che la situazione si fa insostenibile. I caratteri molto schematici e “banali” delineati all’inizio del naufragio si decompongono lentamente, si confondono quasi l’un l’altro, la scialuppa diventa il luogo di una performance spietata, di una tendenza inesorabile al livellamento, allo spiana­ mento di ogni differenza. Il “cattivo”, il tedesco, viene infine gettato fuori bordo, e si cancella così nell’acqua la maggior differenza che esisteva (come, nello stesso momento, si annulla provvisoriamente quella tra il comunista e l’uomo di destra), insieme col privilegio della scrittura (la macchina da scrivere) che H. si assume totalmente salvo poi occultarlo. 115

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Quanto all'acqua.., il cinema di H., cinema di materia e non di elementi, quasi la trascura: è solo il fondo liquido e incerto che contorna la sicurezza di chi ritaglia nel mondo il quadrato lucido dei propri film.

The Birds (Gli uccelli) - 196}

Il congegno hitchcockiano, negli Uccelli, è talmente ricco da poter ingannare ri­ guardo alle sue “novità” e ai suoi punti forti. L'intrigo, divertente e perfetta­ mente diramato a partire dalla coppia di pappagallini “inseparabili” che intro­ duce sia il gioco degli uccelli che quello delle “coppie” di paese turbate dall’ar­ rivo della donna sola, è ancor meno importante che in altri film. Lo dimostra ampiamente l'incredibile “sospensione” dell’esito finale, con gli uccelli apparen­ temente placati in un'alba “finta”, ma in realtà schierati a perdita d'occhio di fronte ai protagonisti, e quindi ormai mobilitati per sempre. Viene quindi a man­ care lo scioglimento, tradizionale e immancabile in ogni film di suspense. Ma H., maestro di suspense per acclamazione unanime, lo è fino al punto di negare l’ov­ via strumentalità del meccanismo suspense, fino a renderlo assoluto-, Gli uccelli si chiude su un’apertura, su una pausa, un inizio. Dà il via a un'attesa che - rive­ dendolo a posteriori - si rivela solo oggi ripresa e rilanciata; per più versi è in­ fatti il primo film catastrofico - e insieme millenaristico - del cinema moderno (dopo il catastrofismo “storico” e storicizzante largamente praticato dal cinema da Griffith a Via col vento). È, essendo il più cinema, anche il più vero dei film millenaristico-catastrofìci. Il verosimile, infatti, è più che mai dietro la schiena, rendendo più fondo il so­ stanziale mistero per cui, poi, le emozioni le relazioni i rapporti risultano veri an­ cor più che verosimili. L’artificio “povero” (non ci si stancherà mai di ricordare, e un’analisi precisa dei cast “tecnici” dei film Hitchcock/Universal lo dimostre­ rebbe, data la relativa modestia e la provenienza televisiva dei nomi..) ma accura­ tissimo è questa volta accentuato dalla collaborazione del geniale cartoonist Ub Iwerks che disegna in varie occasioni le sagome nere degli uccelli direttamente sul fotogramma, secondo la più “primitiva” delle tecniche. Molto già su questo ci sarebbe da dire, per il carattere “profondo” di questi segni neri sulla pellicola, di queste ali che rompono la compattezza fotografica e rilanciano la polisemia figu­ rativa, uscendo dal cinema in parte. Più urgente, oggi, è notare come H. negli Uccelli uscisse veramente dal cinema del mondo degli uomini, per mostrare così l’irruzione del mondo (in tutta la sua ampiezza, per il tramite degli animali, anello di congiunzione tra i “regni” sulla terra) nel cinema. Che ciò poi avvenga nella modestia del solito intrigo, e par­ tendo dalla novella di Daphne du Maurier, non cambia nulla, anzi rafforza e conferma. Animali o uomini, disegni o fotografie, uccelli o donne, i corpi del ci­ nema per H. son sempre segni prodotti, producibili e riproducibili. Fino al para­ dosso di mostrare in scena - abbandonando però coerentemente il racconto a metà, o all’inizio.. - la probabile scomparsa del soggetto umano dal mondo (del 116

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cinema) e la presa di potere (sullo spazio, se non sulla parola, come suggerisce lo spettrale silenzio finale) di un generico soggetto “animale”.. Anche se a tirare le fila resta il medesimo “regista”, imperturbabile con la bomba in mano e gli uc­ celli sulle spalle. [Filmcritica, 311,1981]

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Shining di S. Kubrick 1941 di S. Spielberg Kramer contro Kramer di R. Benton Fog di J. Carpenter Bentornato Picchiatello! di Jerry Lewis L'impero colpisce ancora di I. Kershner American Gigolo di P. Schrader Superman II di R. Lester Cruising di W. Friedkin La luna di B. Bertolucci (non visti: Straub, Aldrich, Tarkovskij, Fuller, Eastwood, Siegel, Urban Cowboy, Tess) festival: Lightning Over Water (il miglior film di Wenders) Heaven's Gate di M. Cimino, non visto e che forse mai vedremo “intero”; morte e trionfo dell’amore, del testo, e del set [Filmcritica, 312, 1981]

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Cinema da un paese immaginario (Francisca Silvestre)

Ovvero, da un paese lontano. La lingua più dolce (come sempre) e il cinema più sorprendente, quello porto­ ghese. Non più solo De Oliveira a dimostrare per contrasto l’inesistenza del Por­ togallo come nazionalità cinematografica. De Oliveira e Monteiro a Venezia, al­ tri altrove nei vari festival senza festeggiato della stagione. L’ignoranza come dato di fondo (anche nostro). Stato quasi ideale, il galleggia­ mento amniotico il cui spessore scuro e sonnacchioso è improvvisamente perfo­ rato da luci, rivelazione. Tale De Oliveira scoperto già anziano negli anni settanta. Tale Monteiro, il cui Silvestre non è neppure opera prima (e forse neanche seconda; suoi film erano pare - girati in precedenza per altri festival). Festival. Occasione rumorosa e grottesca di percezione filmica più che di visione o addirittura di lettura. La lettura retrospettiva di Hawks o le visioni ludiche di Mezzogiorno-Mezzanotte “godono” della stessa fretta selvaggia, dello stesso am­ massarsi, dello stesso vedere/non vedere coatto. Come del resto ovunque. Non è per rispolverare il palinsesto come metafora o come realtà onnicomprensiva. Semplicemente, il cinema si scontra (e si incontra', vedi l’Estate romana) col tempo, con la durata, con la meteorologia. Dentro 1 predatori dell'Arca perduta il cinema è stipato, cronometrato, catalogato, come i film in un festival. E non è il semplice “piacere-non piacere” il metro con cui si suddivide e si de­ stina il proprio tempo. Nulla può intensamente piacere quanto l’amplesso infi­ nito di un amour fou, nulla può deliziare quanto un’anatra all’arancia o uno Sfor­ mato di carciofi o un sugo di noci; ma in molte occasioni si sceglie un piacere medio, più rapido e comodo, quindi più “piacevole”. Ovviamente, è questione di un'economia dei desideri, e di investimento che si è in grado o si ha voglia di fare su qualcosa; quanto tempo metterci, destinarci, sprecare se è il caso. H cinema Lucas/Spielberg (affascinante e supremo peraltro) e la mediologia metrolopolitano/massenziese sposano il piacere sintetico e veloce, che si brucia da sé ma non brucia nulla; non brucia testa corpo energia, non esige attenzione e sguardi attenti o lancinanti. Ossessionato dalla morte, si garantisce una ripeti­ zione di piaceri, la possibilità di ripetere l’atto. Francisca di De Oliveira dura molto. Tre, quattro ore? Un’eternità nel ritmo del festival, una pecora nera (ricordo anni fa il direttore di un festival minore van­

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tarsi di essere riuscito a far scorciare di un’ora e mezza un film “troppo lungo”: “bello sì, ma come si faceva..” senza la possibilità di un contorno e di una messin­ scena teatrale e ricca tipo quella di Napoléon di Coppola-Lelouch-BrownlowGance. Un film, nonostante il prestigio e le lodi, pronto per essere inghiottito e non visto, come capitò l’anno scorso al geniale Idade da Terra di Rocha (divagò? Non divagò. Il suono della lingua non mente, e trascorre dolcissimo comunque, anche quest’anno, dal portoghese affastellato e voracemente torrenziale e lirico di Di Cavalcanti di Rocha stesso ai diversi stili letterari di Silvestre e Francisca}. Silvestre ha una durata normale. Mi ha affascinato e intrigato ma ad un certo punto mi sono accorto della sua durata e dell’ora tarda. Eppure, subito dopo, Prince of the City di Lumet, che poco mi ha interessato e non ho amato, mi ha te­ nuto fino a notte fonda senza stanchezze e cedimenti, mi ha preso il tempo e mi ha dato il suo. Sempre cronaca, frammentata dal sonno e da titoli. Ora, a occhi aperti, il ricordo o la considerazione fredda di quelle che possono parere le “colpe” e i “difetti” generali, si direbbe, dei film portoghesi. Essenzialmente, una certa debolezza e inadeguatezza degli attori, molto materiale e visibile. Più intrinsecamente, e an­ che ricordando esempi passati, un legame stretto con la nozione letteraria, con la letteratura stessa. Ma questa infine è la qualità di questo cinema, o meglio dei due film distantis­ simi tra loro (due capolavori) visti a Venezia. Una serie di sottrazioni rispetto alla professione/cinema. Niente decoupage classico, montaggio poco appariscente (e spesso tragicamente ridicolo, oggi per quanto di splendida tradizione) genere let­ terario che è la sceneggiatura. Sia Silvestre sia Francisca infatti si mettono in presa diretta con la letteratura, che sia nella mediazione dello scritto (De Oliveira) o nella tradizione orale (il Barbablù mescolato a leggende tradizionali nel film di Monteiro). E la mettono in scena, come fosse la più affascinante delle attrici, senza preoccuparsi di risultare teatrali e quindi senza mai cadere nella scena tea­ trale. Che di set (nozione ben più ampia e ambigua) e non di scena teatrale si tratti è mostrato dalle audacie e libertà che i due registi si prendono. De Oliveira giunge a filmare una scena distruggendo il punto di vista dello spettatore seduto, me­ diante il raddoppio speculare degli sguardi sul set, dividendo cioè il set in due metà esatte che si guardano l’un l’altra attraverso gli occhi dei personaggi; mo­ strando letteralmente come questi due sguardi che ritagliano spazi diversi in uno stesso spazio determinino e subiscano anche un tempo diverso (è infatti la ripeti­ zione di una scena quella cui assistiamo, a usare un linguaggio riduttivo; o me­ glio, come in un’altra scena, dove c’è addirittura un ritorno indietro su musica, nel tempo, per spostarci all’esterno di un teatro., è la messa in scena separata della contemporaneità senza ricorrere all’arbitrio orgasmico e autoritariamente significante del “montaggio alternato”; o il far vedere che il set è “mille set”). E Francisca gode e gioisce della libertà delia parola letteraria per costruire con di­ stanza partecipatissima (grazie appunto all’elemento automaticamente distan­ ziarne che risulta “la messa in costume” - Portogallo Ottocento romantico - sto­ rica, che sopporta e giustifica ogni amenità e arditezza e ridicolaggine dandy di

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Cinema da un paese immaginario..

linguaggio e dialogo), anzi ricostruire (vedi tutto De Oliveira) la follia stupida e sublime del discorso amoroso, sempre preso tra i fantasmi doppi dell’oggetto amato e della parola. Immergendo i corpi in piani-sequenza che si fanno set/storia intorno a essi (i film sulla storia possono fare a meno del piano-sequenza, cioè possono fare a meno di costruire in parte un loro tempo della storia con una du­ rata che mimi la scorrevolezza illusoria del racconto della storia? Vedi Jancsó Rocha, Straub, Anghelopulos, Rossellini.. tutti cinemi così diversi..). Apparentemente meno ambizioso Monteiro con Silvestre. Invece, un’azzardatis­ sima scommessa vinta. In parte la stessa persa da Rohmer con Perceval che, ver­ gognandosi del teatro o rivendicandolo o giocandolo, se ne faceva comunque "mangiare”. Qui invece letteratura e teatro sono elementi materiali di un cinema puro e astratto, combinatorio e affascinante nella sua meccanica. Film “medie­ vale” ma più futurista (“sintetico”) di Excalibur. Ogni immagine è composta sem­ pre da livelli diversi di realtà: un fondale e un corpo vero d’attore, un suono vero e un disegno falso, un muro vero e un pavimento ricostruito, un fuoco dipinto e una pioggia vera, un drago fermofotogramma e l’amore sempre in movimento. Un gioco straordinario che non cede mai alla facilità del desiderio critico di rive­ larsi e svelarsi collo straniamente (Rohmer), anche divertito. Un film che si crede fino in fondo anche se poi gioca tutti i gradi della (in)credibilità della fiction. Fino a mostrare nell’ultima scena la sua ambizione di fare il cinema più avanzato, quello che riproduce nel cielo nero set assoluto di Kubrick e Syberberg (citati en­ trambi: il delo stellato “finto” di Hitler e 2001, e lo Schubert del finale di Barry Lyndon). Il cinema riportato - con non minore sapienza e passione tecnica dei Lucas-Spielberg, anche se con meno mezzi - al suo stadio di luogo in cui si in­ ventano e si manipolano immagini. Anche rispettando i sistemi delle emozioni e gli aspetti “umani” di un racconto. Medioevo, “fantasy”, semplicità e linearità (spezzata e misteriosa sempre) di un narrare letterario che sta di nuovo cominciando a “formarsi”. E insieme, la più sofisticata delle alchimie, la più precisa delle chimiche per costruire immagini sintetiche (ma qui, per salto economico/politico, non del tutto trasparenti/opache come in Lucas-Spielberg; anzi, con le giunture e i materiali singoli che affio­ rano si vedono e non si vedono, si dichiarano e poi si ritraggono). Due film portoghesi come costruzione di un cinema immaginario, certo porto­ ghese ma sicuramente fuori dalle preoccupazioni di un territorio che non sia in­ teso, inventato, aperto. Basta spiegare le luci e i luoghi del mito. Censire il cinema portoghese come “nuova realtà”, anche produttiva. Notando come, quasi di colpo e simultaneamente, il Portogallo sia diventato an­ che per altri cinema un luogo ideale in cui girare cinema, un Eldorado, un set puro. Ruiz, Wenders, che girano in Portogallo i loro ultimi film, dopo il lungo amore di Kast per il paese. £ altri si annunciano. Un ulteriore luogo ideale che ci fa luogo dell’immaginario, marginale Hollywood (o Montecarlo?..) dell’ autore.

[Filmcritica, 317-318,1981]

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Cin(em)a: lalingua del cinema cinese

Dieci, venti, trenta.. - Quaranta? Gioco infantile, di fronte all’oggetto misterioso cinema cinese, quello di “con­ tare i film” come le figurine da piccoli. (Quelli visti a Pesaro, quei pochissimi vi­ sti prima, un paio di “rare” anteprime..) E a Torino, fu certo il solito agghiacciante e precisissimo “caso” a disporre che il primo film della serie di anteprime per Ombre Elettriche fosse La lettera con le piume di Shi Hui. Un film del 1953, forse meno riuscito e più discontinuo dello straordinario La mia vita (1950) dello stesso regista. Ma ugualmente geniale, per la penetrazione con cui gioca e costruisce la sua “storia” (un bambino cinese che deve portare un importante messaggio ai compagni ribelli oltre le linee giappo­ nesi) dentro la psicologia infantile, con la struttura onirica dell’incubo, con ripe­ tizione di mosse e tragitti cui il piccolo, messaggero è costretto dai soldati giappo­ nesi che lo trattengono come guida-ostaggio. Il bambino conosce luoghi (il bel paesaggio montano, i villaggi) e animali (il gregge delle sue pecore, che chiama per nome e riconosce una per una, e a una delle quali “affida” il messaggio), è quindi in un ambiente familiare che gli diviene però ostile per la presenza del soggetto/nemico, l’esercito giapponese. Con scelta coraggiosa di verosimiglianza (che ovviamente sconfina nel sogno), il bambino, per quanto abile e furbo, è però condotto all’errore, all’imprudenza, chiuso in una ragnatela di terrori infantili. Una vicenda edificante per “piccoli cinesi da educare”, ima storia da “piccola ve­ detta lombarda”, diventano allora un acutissimo racconto politico in cui la Sto­ ria, la Politica, la Guerra, vengono vissute e viste dal bambino (e dal regista) nel­ l’unico modo in cui gli è possibile riconoscerle, razionalizzarle, organizzarle in un discorso: secondo gli schemi e i tipi della fiaba, con tanto di coro (il capitano giapponese) e di antropomorfismo animale (le pecore, tra l’altro perfette per un’audace metafora giocata sugli opposti; pecoroni i soldati giapponesi che se­ guono il gregge del bambino; ma anche coraggiose le pecore., contro ogni stereo­ tipo).. In questo senso, le lunghe scene notturne negli ovili del villaggio disertato dagli abitanti rifugiatisi in montagna sono straordinariamente riuscite. Il bambino è l’unico dei suoi a occupare (con lo straniero invasore) il proprio spazio abituale di vita, di ristoro, di riposo. Cala la notte, e il luogo familiare diventa una spe­ lonca di mostri. I giapponesi/brutti dormienti ostruiscono il passaggio - che 122

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sembrerebbe facilissimo - al bambino che vorrebbe uscire dall’ovile per portare in tempo il messaggio ai compagni. Il suo muoversi cautamente in mezzo ai corpi non morti ma sospesi tra vita e morte nel sonno e quindi assenti/presenti, inetti grassi e osceni eppure potenziai* mente pericolosi con la loro sola presenza fisica, è un capolavoro; un Pollicino terrorizzato, che vorrebbe dormire ma viene svegliato dal soffio stesso che gli ri­ corda il "dovere.” È allora il sogno stesso a produrre l’avventura, la notte a illu­ minare il giorno, e raramente si è visto un incubo messo in scena con tanta natu­ ralezza e intelligenza, fino a far sentire la gigantesca e deforme (oh, le pose che si assumono nel sonno) fisicità dei corpi che si oppongono alla sortita di Pollicino con la loro massa dormiente. Fino a far preferire - anche - la durata (del tenta­ tivo di fuga notturno e della sequenza stessa, piuttosto lunga) come totalmente necessaria e mai noiosa, anzi sempre più tesa. Attentissimo alla durata è il film nel suo insieme, sapiente dilatazione di un’a­ zione in sé semplice e breve, rimandata e frustrata continuamente come nei sogni d’angoscia; ma il bambino, oltre che angosciato (come lo spettatore) dalle traver­ sie e dagli impedimenti, è insieme divertito e comunque intrigato dall’unico modo che ha di prolungare quella che per lui è in ogni caso più avventura che storia: complicandola. Il film è quindi il racconto di una fiaba e insieme del desi­ derio di farsi raccontare una fiaba e di essere attore. Ancora. E infine un suono quello che ribadisce l’aspetto primariamente infantile dell’operazione "cinema cinese in Italia”, prima che subentrino legittimi intenti di ricerca. Non è certo solo effetto del riverbero di questo "primo film visto a Torino”. Un suono; che è quello della voce, delle voci che parlano questa lingua, queste lingue, i dialetti.. Il cinese. Più che un senso e una lingua, per noi un suono, un linguaggio quasi di tipo musicale. Ma, usato di fronte a noi, sullo schermo, palesemente come una lin­ gua, non domina quell’abbandono ai suoni e alle accordature che per esempio al ci­ nema avviene col portoghese una volta scontatane (credendo di capire, data la lati­ nità.. l’apparenza del senso e dei significati, o che può avvenire prima dei significati, quando si sa che son solo "suoni naturali* (?) (fiumi, venti, rumori di ciottoli roto­ lanti, animali', ma Lacan non si chiedeva se le stelle parlano tra loro?..).. Qui si è in bilico tra l’astrazione puramente sonora e la forza violenta del senso (magari rammentata dal significato preciso recitato dalle didascalie), affidati in ogni caso a un non sapere che impedisce praticamente di riconoscere un suono e definirlo come segno. Né ansia né tranquillità, né definito spaesamento, ché - no­ nostante le differenze razziali - sempre di persona si tratta (e poi - gaffe imper­ donabile - quanti film giapponesi si sono visti..). Solo, un’attitudine mista, di at­ tesa e di stupore, di voglia di spiare e di rintracciare (da detective) le rarissime nozioni culturali che si hanno o le ipotesi febbrilmente e temerariamente predi­ sposte e bruciate man mano che i fotogrammi si susseguono. Ciò che accade di fronte al chiacchiericcio infantile, ai primi suoni del neonato, ai gargarismi che non si rivolgono all’adulto ma a dei pezzi di legno colorati, alle improvvise nenie anche molto articolate - e peraltro incomprensibili, private, insensate - rivolte al sole a un uccello a un lampadario a un frigorifero a una mattonella. 123

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Ma l’identificazione sia soggettiva che oggettiva con la situazione infantile è rapi­ damente complicata da altri elementi. Oltre il gioco di scoprire*, oltre il gioco di capire un senso e di “ascoltare come infantile" il parlare cinese. La complicazione del guardare, peraltro anch’essa molto legata ai componenti infantili o di fronte all’infanzia. Posto infatti che, ignoranti e infantili noi, il cinema cinese ci appare anch’esso largamente infante per la sua incapacità di parlarci, è anche il nostro sguardo a rendere obliquo il rapporto con gli sguardi cinesi che ci guardano dallo schermo. (Parlo naturalmente di esperienze del tutto personali.) Ci si sente subito assenti, o almeno fuoriposto, come chi in una conversazione avviata si in­ tromettesse tra i due che già parlano. Essi si parlano e si guardano da decenni, forse da secoli, attraverso la sottilissima e piccola finestra del fotogramma ingi­ gantita sullo schermo. E noi interrompiamo gli sguardi e il fascio di luce/immagini col nostro corpo/mente ottuso, letteralmente con la nostra ombra. La nostra ombra di spettatori copre i veri (milioni di?) spettatori/ombra il cui sguardo ci attraversa e ci ignora: il pubblico cinese. Al di là del clima particolarmente rarefatto (e solidale, nel senso del tra noi) del­ l’anteprima, uno pensa che centoventi film cinesi non siano abbastanza cinesi senza la presenza in sala di qualche centinaio di spettatori cinesi. Allora, ripeto, in attesa del brusio teorico, storiografico, antropologico, che ac­ compagnerà i film di Ombre Elettriche, è quasi il silenzio la scelta che si impor­ rebbe, l’annullamento di fronte all’idea stessa di una platea sterminata. Allora, è la forma del “diario” quella che appare l’unica praticabile; appunti, fo­ glietti, indicazioni di strada, mottetti, scherzi.. Un diario in cui il fantasma che scrive non è comunque puro e giulivo, o pronto a farsi invadere allegramente. Il fantasma si è infatti formato in anni di cinema americano; centinaia, migliaia di film.. E tanti nomi, di “autori” o comunque evidentemente - di “registi”. E il cinema europeo.. In fondo, l’imperialismo del vedere e la sicurezza dell’occhio autorizzerebbero lo spettatore fantasma a parlare di film cinesi: il cinema è il cinema, si diceva, op­ pure “tutti i film sono stati fatti”, e insomma nonostante tutti gli spaesamenti la riconoscibilità è assicurata: la terra è terra, il cielo è cielo, l’acqua è acqua, il rosso è rosso, una donna è una donna. Ma proprio il linguaggio è inadeguato, e per linguaggio intendo la rete di refe­ renti attraverso cui si può costruire un discorso che non sia pura logica astratta. Lo spettatore fantasma, allora, senza illudersi di una verginità che non possiede, o di abbandoni che possono essere solo artificiali, fingerà di aver visto per esem­ pio davvero quei quindici film in un particolare week-end torinese. Film torinesi, film italiani, più che film cinesi. Film, in attesa di comprendere, tra gli altri film. Senza farsi impressionare da un continente e da un miliardo di persone. Anzi: “a prescindere”. A prescindere anche da quelle strane sensazioni che lo colgono, da quelle intuizioni che crede di avere. Come lo strano ruolo dell'acqua (evidentis­ simo in Sorelle della scena, 1964, di Xie Jin), fondamentale, dialettico, vitale (o anche romanticamente mortale: Crocevia, 1937, di Shen Xiling), elemento in­ sieme sintattico e di punteggiatura, nel linguaggio anche fìlmico di una società enormemente “agricola” (perfino i film americani da Pearl S. Buck o altri erano 124

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fisicamente “diversi" dovendo tener conto di tale realtà). O come il tipo partico­ lare di lentezza, che non è mai di tipo “russo" (fluviale e umanistica, quasi spiri­ tualistica), ma anzi si collega direttamente alle cose, al quadro da esaurire, che non c’è bisogno di mutare finché non sia appunto esaurito e completamente de­ scritto. Una scena non si sa mai quando potrebbe finire, non se ne intravede direttamente la finalità narrativa. Il montaggio, l’intervento, il cambio del punto di vi­ sta, appaiono quasi una violenza inutile, come se vi fosse una coscienza scettica di fondo a proposito di un ritmo delle cose. Non a caso, in parecchi dei film visti del periodo post-rivoluzione, il paesaggio al momento didattico/politico si confi­ gura apertamente come salto che rompe traumaticamente uno stallo o un’evolu­ zione lenta della quale non si intravedeva la fine (quando non sia un “posticcio" appiccicato in coda per evidente obbligo ideologico: vedi Sorelle della scena, vedi La mia vita, vedi La bottega della famiglia LiriY. un salto non necessitato, perfino quasi astorico. Perché sia la Storia che le storie sembrano assenti o almeno se­ condarie in tutto il cinema cinese; l’intreccio è raramente compiuto e ben defi­ nito, non riesce a attraversare la vischiosità delle situazioni che sembrano sempre in qualche modo “millenarie” e senza tempo, per lo meno nella loro ciclicità, an­ che quando il dibattito o la rivoluzione permanente infuriano (Li Shuangphuang, 1962, di Lu Ren). Siamo su una grande superficie (il tempo?) dove le formiche si muovono incessantemente senza peraltro modificarla radicalmente, senza bu­ carla (è l’impressione data anche da una biografia storica come Li Shizhen, 1956, di Shen Fu; e da film che attraversano un lungo periodo storico come La mia vita o Sul fiume Songhua). La qualità straordinaria di alcuni di questi film è allora come si diceva per La lettera con le piume - la concentrazione raggiunta su qual­ cosa che è di per sé dilatato e magmatico, l’intangibile somma di “destini" che si cerca di razionalizzare e/o finalizzare. Senza, ripeto, montare o truccare: quasi come aguzzando sempre più gli occhi su imo stesso quadro, cogliendone sempre più le piccole diversità, e le particolarità di disegno o di colore, anche se il qua­ dro resta poi lo stesso che si percepiva fin dall’inizio.. Stupendo in quest’ottica appare allora Sul fiume Songhua, vero viaggio nell’oscu­ rità della storia. Sublime La mia vita, rosselliniana e povera costruzione dolorosa della Storia attraverso la “naturalezza” di una vita sempre uguale nelle sue storie. Interessante Li Shuangshuang per il modo in cui lentamente ci si impone la qua­ lità topografica dei luoghi, del villaggio dove pazientemente e incessantemente (dalla famiglia al cantiere, dalla casa ai campi, dalla scuola alla strada) si sroto­ lano i conflitti politici che sono conflitti personali. Curioso il mediocre Passeggero con le manette (1980, di Yu Yang) che cerca di raggiungere la gradevolezza occidentale e revisionista dell’avventura a colori sfrenatamente spettacolare e correttamente ideologica, e che non a caso ci riesce non secondo i modelli dell’Awenturoso americano e mondiale dagli anni trenta ai cinquanta (quello sublimato oggi da Lucas/Spielberg) ma solo secondo i mo­ duli più narrativamente sfilacciati del Kung-fu di serie B. Geniale La bottega della famiglia Lin (1959, di Zhang Shui Hua), dove un melo­ dramma a colori degno di Henry King si svolge quasi tutto dentro una bottega 125

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con variazioni minime da una scena all’altra determinate esclusivamente dal de­ naro, unico miraggio di senso e anzi unico segno riconoscibile e accettabile in una vita insicura. Il guadagno diventa sinonimo di felicità, non per parossismi molieriani o paperonistici, ma proprio come direzione di vita e possibilità di futuro, di regolarità mediante la ripetizione.. Non finalità ma spinta originaria, marchio biologico (del bottegaio), croce e delizia, etc.. Ciò in cui non si può non fingere di credere. Che dire di La cestista numero cinque (1957, dell’importantissimo Xie Jin, quello del Racconto straordinario del monte Tianyun, 1981; cfr. Marco Muller, Filmcri­ tica n. 316), film incredibilmente americano non per singoli momenti di grande cinema come in Sorelle della scena, né per aperture contenutistico/ideologiche (anzi il film nelle scene “didattiche” riduce lo sport a puro strumento di disci­ plina da una parte e di “onore nazionale” dall’altra), ma proprio come ritmo, (alla Corman), montaggio, colore, capacità di mescolare e contaminare atmosfere e stili. Forse l’oggetto, la pallacanestro, il basket, quello sport per nulla millena­ rio e del tutto occidentale e capitalistico, si è imposto in modo decisivo. Il ritmo del basket è quello velocissimo del mutamento e del rovesciamento con­ tinuo di fronte, anche effimero e illusorio, ma talmente ripetuto da imporsi come unica realtà visibile. Curiosamente, questo basket occidentale sconvolge per un attimo la pazienza cinese del cesto di vimini da costruire con tradizionale atten­ zione. Negata dai dialoghi del film, l’assurdità fine a se stessa del piacere ludico e sportivo è quella di un cesto sfondato per permettere il gioco senza interruzioni. Più cinese (meravigliosamente cinese), Primavera precoce al secondo mese lunare (1963, di Xie Tieli; lo vedremo in televisione, terza rete, durante Ombre Elettri­ che) è il ritmo lento della rivoluzione (il contrario dei montatissimi EjzenStejn) che improvvisamente si annuncia e precipita, si anticipa sì ma con la calma natu­ rale delle “stagioni”, al massimo un po’ precoci. Il finale, un ponte salito dalla ra­ gazza che decide di abbandonare famiglia e figlio (!) per “andare al popolo”, un ponte che poi finisce nel cielo, nell’azzurro dell’aria, nel vuoto, è uno dei mo­ menti rari di pura utopia che fanno pensare alle nuvole rosselliniane di Stromboli e del Messia, Lo spettatore fantasma, col suo vocabolario-dizionario fatto di nomi e titoli incongrui, continua incoerente la visione, innocente e colpevole come quando amava le poesie di Mao: fiori che gli parevano nati sull’albero sotto casa. [.Filmcritica, 321,1981]

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L’incantesimo della copia imperfetta

In fondo a una grande aula universitaria (Padova) si illumina un piccolissimo schermo quadrato, mentre 500 persone aspettano. Poi parte il primo rullo di 2001: Odissea nello spazio. Una copia in superotto di un film in 70 mm. E sembra ricominciare il cinema. Il film, che era già un compendio di storia del cinema, si trasforma in una nuova esperienza “fantastica”. Smozzicato, ridotto ai lati, con i colori sfarinati e vio­ lenti, l’inquadratura tremolante, buia o bruciata, il quadro sembra la finestra di un passato realmente “prima del cinema”; le scimmie ominidi e i tapiri del pro­ logo sembrano provenire da un documento “d’epoca”. Immagini “rubate”, spiate in fretta da un operatore nella preistoria, precarie e in­ sieme già perfette. Griffith, Kubelka, Brakhage, e Straub insieme. Un paradosso, trattandosi di un film di Kubrick, il perfezionista per antonomasia, ma nel fa­ scino della visione trionfa per un attimo un piacere colpevole e totale, un ritorno di visione “selvaggia” contro tutti gli scrupoli filologia-testuali. È l’incanto della copia imperfetta. Poi imo cresce e, si sa, cerca la santità e la perfezione, lotta contro le censure più o meno stupide e obsolete, contro la forbice della produ­ zione capitalistica, contro il tempo veloce e dissipatorio che il capitale impone agli oggetti predisponendoli al deperimento a oltranza, specie se sono dei film. Una gioia, ritrovare le copie “perfette” originali, senza tagli, più lunghe. A volte, magari, clamorose gaffe, per la smania della ricerca di un originale più lungo e più vero (si ricordi la Lolita alla Biennale 1980). Soprattutto, discordanze. La filologia stessa non può che rinvenire differenze: nei cellari delle più raffinate università USA giacciono copie “diverse” dei grandi capolavori griffithiani (quale è la giusta?). Le enciclopedie più accurate riportano durate diverse per uno stesso film. L’ansia di razionalizzare Babele porta a una Babele più totale senza più la scusa dell’imprecisione di una semplice memoria mentale. Così, Kubrick super-autore che domina ogni istante del fotogramma e controlla il colore per ogni copia (in ogni parte del mondo), da una parte; dall’altra, 2001 che gli sfugge di mano nella provincia italiana e diventa un superotto sfarfallante. In realtà, proprio gli autori più attenti alla costruzione dell’inquadratura e del film, i più avanzati insomma in direzione del “testo”, dimostrano e patiscono la fragilità e la passività del loro testo, esposto comunque a ogni avventura. 127

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La stessa lotta ai pirati è perdente, perché i pirati del mercato di immagini usano - con più agilità - gli stessi mezzi delle major. Registrano, videoregistrano, pro­ ducono copie che certo non puntano a conservare e riprodurre il testo ma a con­ servarne e riprodurne il valore d’uso e di scambio. Per me Shining è fin d’ora il “film-testo” degli anni ottanta. Ma non la regola: il caso, un superfilm, ma nello stesso tempo un cinema forse senza futuro, già scon­ fitto e già perduto, senza possibilità di scàmbio, fuori del grande circuito combi­ natorio impazzante oggi. Come “uno” spettacolo di Ronconi, il Woyzeck o il Pappagallo verde. Ma, come è ormai ovvio, il trionfo della copia e della riprodu­ zione collegato allo sviluppo del circuito e del mercato distrugge il testo origi­ nale pur assicurandone in molti casi definitivamente 1’ “aura”. Le copie che verranno fatte di Heaven's Gate di Cimino circoleranno e deperi­ ranno, ma non diminuiranno certo l’aura di un originale (peraltro già tagliato) che solo alcuni newyorkesi hanno visto. Proprio il caso Cimino indica come con­ tinuino a funzionare la memoria e l’esperienza della produzione mentale delle immagini, insieme con l’industria. Il film che Cimino voleva e vedeva non lo ha potuto vedere neppure lui. Forse (con altri miliardi o dieci anni di tempo, chissà) avrebbe potuto farlo, ma l’immagine - per motivi di spazio e tempo del capitale - non ha raggiunto l’immaginazione. Ed è abbastanza inutile imprecare contro il destino o i magnati che non concedono altri tempi o altri soldi agli autori. Nessun film è mai realmente esistito al di là dei condizionamenti che lo hanno prodotto insieme con gli autori materiali. Il “tempo” e il “capitale” ovunque, sono sempre intervenuti come coproduttori decisivi. La copia originale, com­ pleta e definitiva (e comunque è affascinante che il cinema abbia inventato que­ sto meraviglioso ossimoro: “copia originale”), è un caso, un caso particolare nel­ l’itinerario dell’opera attraverso il tempo e lo spazio. La televisione, un’altra grande zona di circolazione e riproduzione, funziona nello stesso modo. Le co­ pie rieditate per la TV sono quasi sempre “accorciate” e modificate, negli Stati Uniti. La conclusione logica, che del cinema abbiamo sempre posseduto solo la “me­ moria”, non è affatto disperante. Gli esempi, macroscopici, non intaccano certo il piacere (né la capacità critica) piuttosto lo moltiplicano. Il cinema americano per lo spettatore in Italia è stato sempre un cinema di memoria, continuamente modificato da tagli, doppiaggi, censure di ogni tipo. Quale copia ha il diritto di essere chiamata “originale”? Quella del “parrocchiale” senza la scena d’amore, o il famoso Orizzonti di gloria della Venere Film a cui manca una scena e il dialogo è sempre smozzicato? Per anni, da bambini ma ancora più poi da spettatori di Cineclub, non abbiamo saputo (se non leggendo sui libri, o espatriando) cosa rispondeva esattamente Ward Bond a John Wayne in un dato film (il dialogo si interrompeva) o come moriva esattamente il tiratore di Rapina a mano armata, o perché la donna usciva da una tenda ed era vestita diversamente da come era dentro. Non si nega il lato “testuale” del film, né la relativa importanza della sua integrità. Ma solo ai fini di una visione totalizzante e classificatoria, scientifica e non necessariamente più raffinata, avanzata e “in profondità”.

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L’incantesimo della copia imperfetta

La circolazione selvaggia e le stesse nuove regole produttive stanno dolorosa­ mente modificando i testi: ma quella che viene distrutta è l’immagine “fotogra­ fica” del cinema, un cinema perennemente “in posa” sempre pronto e fatto “in un sol modo”, prendere o lasciare subito. Mentre la visione cinematografica è da sempre molto più una operazione di nomadismo cerebrale (ma anche geografico: il feticcio della copia originale non ha da riprodursi come feticismo della “copia individuale”, imperfetta e contraffatta: si andrà a Torino, o a Napoli o Parigi, dove c’è una copia “migliore”), un “lavoro” continuo di memorie che si incro­ ciano, che non un’operazione analitica. Le copie dei film si vedono insomma non come contenitori-supporti di corpi e di cose e di storie, ma esattamente nello stesso modo in cui si vedono questi corpi storie e cose; in movimento, non in posa. Facendo riferimento continuo alla propria enciclopedia culturale, cioè alle “dimenticanze” della propria memoria o di quella collettiva, per integrare i buchi. L’aspetto testuale - analitico generale - esiste ma è un ulteriore modo di vedere che si forma proprio così. Assurdo istituirlo come “primo”. Allora venerare l’autore anche quando è più nascosto (il cinema americano) di­ venta una giusta e piacevole scommessa, una ricerca utopica meravigliosa. Al­ lora, anche la ricerca della giusta copia è un’ammirevole parabola del Graal, o un appassionante giallo dentro la storia delle successive modificazioni dell’opera e della visione.

[il manifesto, 21 gennaio 1981]

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Un’invenzione senza futuro, ma con la TV. Sob, la crisi del cinema secondo Blake Edwards

S.O.B., Standard Operational Bullshit (Normale Stronzata Operativa o “cazzate di ordinaria amministrazione”), Son Of a Bitch (Figlio di Puttana). Infine, paperinescamente, sob, come gulp, bang, yip, ecc.. Esclamazione da fumetto con una mar* cata connotazione di stupore-rammarico. Venezia 1981 può star tutta nelle tre accezioni delle tre lettere che fanno il titolo del magnifico film di Blake Ed­ wards. Un film che marca la differenza dal cinema italiano ancor più della provo­ catoria dimostrazione di scienza-potenza-ricchezza de I predatori dell'Arca per­ duta. Senza bisogno di mobilitare il futuro, Edwards costruisce un film trionfal­ mente pessimista mostrando una volta per tutte (senza miti e lamenti e con mag­ gior lucidità di Nina e Fedora) come il cinema hollywoodiano viva sulla presenza costante della morte. Nessuna scioccheria o ovvietà sulla “morte del cinema”. In mezzo al geniale gioco degli artifici comedy, Sob stupisce proprio per la capacità di far cinema con tutta naturalezza sull’orlo delle tombe. La trasformazione del cinema viene messa in scena sfruttando le sue stesse dinamiche, non secondo un “discorso” che prende in carico il cinema e lo giudica lo esalta lo critica lo “porta avanti”. Non è quindi per il genere, né per il tono, né per il tipo d’autore, che Sob è così diverso da qualsiasi film italiano visto a Venezia. Sob è la capacità di assumere tutto dal cinema: il filmico, il profilmico, l’extrafilmico.., senza bisogno di iniet­ tare nei film i riferimenti alla “realtà esterna”. Questo infatti sembra essere il lo­ devole e ritardato problema principale dei registi italiani: essere “realisti” o meno, come riferirsi al mondo o a Napoli o alle proprie ossessioni, come co­ struire un’allegoria che sia melodramma ma si sostanzi di precise tematiche con­ temporanee ecc. ecc.. Un’ossessiva e bizzarra ricerca di mediazioni, senza ren­ dersi conto che il medium esiste già - il cinema - e su ciò è possibile e necessario lavorare. In tutto il cinema americano (ma anche, all’opposto, in quello tedesco/ “europeo”; vedi ultimo caso la von Trotta che quasi salta il cinema volgendosi fi­ duciosa al “reale” con la sua onesta e appassionata televisione-, evitando in ogni caso il pasticcio all'italiana) la cosa è talmente evidente da far pensare che il ri­ tardo italico non sia dovuto solo a incapacità o incomprensione. Diciamo allora che da noi, nonostante i “nuovi registi”, non è ancora arrivata al cinema l’ondata post-televisiva, quella di chi ha visto o sta vedendo migliaia di film in TV insieme coi telegiornali le telecronache il quiz il telecomando.., quella

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Un’invenzione senza futuro, ma con la TV..

di cui - dopo aver imparato le differenze - ha capito tutte le somiglianze e paren­ tele (esaltate dalla definizione televisiva) tra autore e serie, tra fìlmoni e filmetti, spazzatura e crema. Mentre Finterà ultima generazione di cineasti americani ha come ingrediente primario e automatico questo sapere cine-televisivo, e mentre un cineasta/cineasta di mezza età come Edwards contamina di schermi TV il suo piacevolissimo schermo grande alla Hollywood Party, il riferimento alla propria (e di tutti) cultura dell’immagine è, per il cineasta italiano, ancora impossibile, oppure faticosamente costruito. (Pisciceli! Del Monte Giordana.) Da noi, si sa, la matrice del cinema del dopoguerra è stata di un certo tipo, e i nostri raiders sono i “ragazzi” del Centro Sperimentale. Un legame, pur volgare e affidato solo a certi corpi, certi lazzi, certe sciatterie, colla “sostanza” del cinema italiano di sempre (la rete delle maestranze e degli attori, gli sceneggiatori, le trame volentieri scambiate tra cinema alto e cinema basso), lo praticano solo i Corbucci e i Laurenti. Ma (da noi) uno schermo televisivo troppo in campo deve essere per forza ancora un “segno” di qualcosa, un eccesso strano (come se poi nelle case..), mentre da quindici anni De Palma fa andare avanti i suoi film a colpi di teleschermo. Nelle case milanesi del Piso pisello e degli Angeli ribelli la televisione latita o c’è appena (ma anche quando si mette in scena il cinema non è che si vada tanto più in là del Fellini anni sessanta, ma questo è un altro di­ scorso, almeno), con un’automatica perdita di realtà che impaurisce. La paura di riconoscere la propria esistenza (anche di cineasti) nel pasticcio tele­ visivo, e di assumerne criticamente le conoscenze e i “saperi”, produce presun­ tuosi pasticci senza gusto e senza peso. Per questo, in fondo, tra Ricomincio da tre e il resto del cinema “giovane” italiano c’è un piccolo abisso. Del resto, un movie-fan come Wittgenstein scriveva nel 1947: “Un ingenuo e stupido film americano può insegnare qualcosa nonostante tutta la sua scempiag­ gine e per mezzo di essa. Ho tratto spesso insegnamenti da un film americano stu­ pido.” Ma aggiungeva: “Un film inglese imbecille e scaltrito non può insegnare niente.” Mutatis mutandis, sob.

[z7 manifesto, 17 settembre 1981]

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Fog: cinema nella nebbia

Con Fog John Carpenter si diverte a nascondere nella nebbia la lucentezza del suo cinema. Da sempre facendosi beffe della rigorosità geometrica del teorema narrativo, con larghe concessioni all’incongruo e all’oscuro - la notte e il nero, si pensi al primo film, il fantascientifico spaziale Dark Star (Stella scura), son sempre stati il suo ambiente preferito - e senza mai curare particolarmente i dialoghi (citazioni a parte), Carpenter giunge in questo film a introdurre nello stesso “spazio” del suo cinema un protagonista puramente spaziale, un agente atmosferico che si sposta e introduce la follia del cinema inventato in una citta­ dina che rammenta irresistibilmente la strana Bodega Bay degli Uccelli di Hit­ chcock. Fog. Nebbia. La nibla splendida di Unamuno era la coltre di bianche incertezze che avvolgono la mente, le pesanti psicologie da provincia spagnola. La nebbia di Carpenter serve tra l’altro a coprire la mancanza di psicologia, e l’inevitabile esilità o carenza dei caratteri. Popolata di riferimenti e citazioni cinefile esplicite o cifrate (la presenza di Janet Leigh e della figlia), è una nebbia che si carica per­ fettamente dei compiti del cinema quale è visto e praticato da Carpenter. Una pura costruzione artificiale, che affascina in quanto e fino a quando (hitchcockianamente) riesce a nascondere le sue carenze di verosimiglianza, i suoi buchi lo­ gici, la sfrenata gratuità del suo onirismo. L’intera storia di Fog, per quanto una e intera, inserita cioè in un’unica oggetti­ vità cinematografica, senza scissioni o diversi piani di racconto, è fin dall’inizio doppiamente “fantastica”, quando un geniale movimento di macchina collega temporaneamente e fisicamente due momenti: il prologo in cui il vecchio mari­ naio racconta la storia leggendaria ai bambini, e l’inizio del misterioso ritorno del passato che verrà rivissuto dal bambino e dalla cittadina. Due momenti che, si vo­ glia o meno fare del bimbo (che però non è assolutamente privilegiato come punto di vista) il soggetto dell’intera storia vista come un sogno, sono entrambi “non realistici”, entrambi rinviando a forme fantastiche di narrazione: la leg­ genda, il sogno. All’indeterminatezza della nebbia che porta con sé il fantastico, si sovrappone un elemento apparentemente più preciso, la definizione del tempo, la data, l’arco temporale chiuso. Anche questi, del resto, tipici di Carpenter (Halloween, Di­ stretto 13..) 132

Fog: Cinema nella nebbia

La data è il modo per fissare nel tempo delle risonanze mitiche, per aprirvi squarci parentetici, inserti puramente filmici occasionati dalla precisione del rife­ rimento temporale. Dentro la ricorrenza temporale, il quadro di riferimenti carpenteriano resta rigorosamente a-realistico. La filmicità perseguita come unico valore esclude ogni altra particolare ossessione o paranoia, ogni connotazione precisa o di genere. Carpenter non è un cineasta dell’orrore, e neanche un cinea­ sta “urbano”. È il cineasta americano di oggi; dove il non indica l’esemplarità, ma connota anzi la rarità, l’isolamento, l’autonomia folle del suo procedere. No­ nostante la forza dei contenuti di genere, il suo cinema è “dell’orrore” quanto lo sono gli orrori e i mostri e le fate nella narrazione ariostesca. Tale è la sicurezza e la devozione fìlmica, l’esclusivismo, che non solo Carpenter evita ogni riferimento a possibili “stranezze” esistenti o comunque “parlate” nella realtà contemporanea (ogni “attualità”, quindi), a differenza per esempio di un De Palma (ugualmente molto fìlmico, ma legato sempre all’occasione parapsi­ cologica o comunque ai materiali del fantastico) o di un Romero o di un Ar­ gento, Carpenter è talmente formale, talmente poco televisivo, da permettersi di irridere platealmente gli stessi sacri meccanismi di genere in un’occasione impor­ tante come il finale. Un buco narrativo totalmente incomprensibile e gratuito (perché il numero degli assassinati non è quello giusto?) viene colmato con un’al­ trettanto gratuita esibizione ulteriore di virtù cinematografica: una decapitazione che taglia la testa al toro della verosimiglianza, uno scherzo perfettamente am­ missibile, che risponde subito alla domanda che ogni spettatore attento stava già formulando (insieme con lo sbalordito prete fino ad allora risparmiato) in cuor suo o nella sua testa. Mai porre troppe questioni al cinema. Il cinema può risol­ verle tutte, purché non si tratti di mostrare la realtà.

[IlPatalogo, 3,1981]

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Alien: lo spazio, l’interno, il cancro

Il film di fantascienza, come scoprì genialmente Stanley Kubrick, è essenzial­ mente un film da camera. In due sensi: la grossa “camera” in cui si svolge il la­ voro necessario per realizzarlo, cioè lo studio cinematografico: e V interno cui sempre più inevitabilmente si riduce lo “spazio della fantascienza” quando voglia essere un po’ “realistico”. La science-fantasy ha da tempo dribblato la difficoltà, così che il genere cinematografico SF ha vissuto fino a oggi (e oggi vive ancor più, grazie alla prodigiosa capacità di ricostruzione verosimile del finzionale nelle serie Guerre stellari) dell’assunzione al suo interno di tutte le possibilità di invenzione figurativa dell’avventuroso applicato alla varietà dei mondi possibili. 2001: Odissea nello spazio rovesciò completamente la prospettiva; più simile a un poliziesco (e insieme a un documentario) che a un film fantastico-avventuroso, almeno come dati di partenza, rispettava rigorosamente l’apparire fisico del viag­ gio nello spazio, che si configurava infatti come avanzata in un nulla nero. Lo spazio nero dello studio non si riempiva di forme lussureggianti, di mostri inat­ tesi, di mondi colorati: tutto, colori e forme di ogni tipo, mostri compresi, era al­ l’interno dell’astronave, oltre che all’interno della mente, come ben si sa. E alla fine., nessuna liberazione fantastico-avventurosa: dopo una breve stimma di truc­ chi filmici, come la caduta in un buco nero, il ritorno in una camera. E curioso vedere come Vìntemità del genere SF realistico, dominante (per econo­ mia di mezzi) in televisione (e 2001 non era anche un grande film televisivo in 70 mm?) si sia poi mantenuta in alcuni prodotti successivi. Il recentissimo Black Hole di produzione Disney mostra dove portino i tentativi di aggiramento della cauzione realistica: lo sbrigliamento scenografico-fantastico, frustrato all’esterno, viene ricuperato tutto nell’interno stesso, l’astronave si popola lei di forme strane e di avventure, come già in 2002: la seconda odissea (Silent Running) di Douglas Trumbull. Diventa il mondo. Diventa lei astronave il set cinematografico tutto intero ritagliato nello spazio nero: il cinema si riproduce e riproietta dentro lo spazio nero cinematografico (vedi quanto apertamente sia “fantascientifico” in questo senso VHitler di Syberberg). Il film di genere che più decisamente e intel­ ligentemente gioca e reinventa il fascino dell’interno SF è Alien di Scott Ridley. Assicurata la cura un po’ estenuata e calligrafica (già mostrata nei Duellanti), Ridley Scott evita di fare il verso a Kubrick (in questo senso il pregevole film precedente risultava però patetico paragonato a Barry Lyndon) e si dedica all?

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Alien: lo spazio, l’interno, il cancro

minuziosa messa in scena di un intrusione dentro un’astronave. Il tema non è af­ fatto nuovo, nel genere sia letterario che cinematografico, ma mai era diventato l’asse portante di un film, e mai ce n’era stata un’applicazione così metodica e in­ telligente. Nessuna introspezione, nessun mentalismo kubrickiano. Un inizio molto oggettivo, in un bel “mondo possibile”, un pianeta morto (quasi..) e miste­ rioso: ovvero, un tradizionale spazio SF avventuroso da cui prendere il germe, il contagio per una storia che poi ribalta bruscamente gli schemi tradizionali. Così, la fascinosa scenografia “esterna" iniziale vien subito abbandonata, buttata via, e la cura scenografica e narrativa si ribalta integralmente nell’interno astronave. Anzi, la tipica avventura SF con i mostri dei variegati “mondi esterni” viene ironi­ camente costretta ad avvenire tutta in un interno. C’è qualcosa di più, qualcosa che strutturalmente sposta il film dalla sua colloca­ zione di genere. Non tanto la connotazione - anche qui - poliziesca, per cui l’a­ gente esterno, pur con effetti epidemici, colpisce uno a uno i membri dell’equi­ paggio in modo misterioso solo per le motivazioni, ma per il resto da vero e pro­ prio “strangolatore”, con bella varietà di agguati. Ma per me questa ossessio­ nante “voracità di sangue”, questo vampirismo interno, parte proprio da un dato medico, nel corso di un’operazione chirurgica in seguito a un evento misterioso avvenuto sul pianeta morto. Capita, cioè, che la struttura del film evochi irresisti­ bilmente l’idea di un cancro. Uscito dal corpo del primo uomo “affetto”, il cancro, l’alien, dilaga poi dentro il corpo dell’intera astronave, uccidendo o mandando in black-out le sue cellule umane e le sue componenti meccaniche. La sua forma si nutre di ogni materia vivente, assunta e pervertita in puro male immotivato. La sua inarrestabilità fisica è quella del cancro, come lo è la sua crescita progressiva e stupefacente. L’angoscia che il film induce non è quella dell’ignoto, non è quella del puro Meccanismo “suspense”, non è quella della perdita di qualcosa, o di un desiderio insoddisfatto, o di una piccolezza del soggetto di fronte al cosmo. L’astronave è quasi scalcinata, un vecchio “treno merci”. I membri dell’equipag­ gio non hanno nulla di eroico o di particolarmente invitante alla proiezione. La precisione degli effetti quindi funziona (fino al finale non all’altezza, o comun­ que banale nella soluzione della salvezza solo “al di fuori”, nel nero dello spazio­ studio, con la distruzione dell’astronave) in modo magnifico, probabilmente gra­ zie alla puntualità con cui la progressiva distruzione delle scenografie interne, dei “tessuti”, avviene a opera di un agente esterno che diventa interno e percorre devastante i meandri di un territorio assimilato al nostro corpo. Non per la forma del territorio-astronave, ma per il modo in cui agisce e si configura il pericolo-Alien. Il cancro come avventura implacabile. E, ovviamente (non tanto), l’avventura come cancro, escrescenza del processo lineare del tempo. [IlPatalogo, 3, 1981]

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Una, dieci, mille apocalissi

T7Apocalisse, adesso, è solo un film, più che mai un film, un film solo. Il falli­ mento di Coppola: aver prodotto in fondo un solo film, nient’altro che un film I motivi per cui questo fallimento è entusiasmante sono gli stessi per cui l’impresa è fallita. Può esistere oggi un kolossal che non sia Terremoto o 007 o Guerre stellari o la stessa guerra del Vietnam trasmessa per anni alla televisione? H coinvolgimento e la “disperazione” di Coppola nel girare il film sono più che comprensibili, sono affascinanti; e il film per questo piace (o non piace) prima di essere visto. Piace per l’ambizione, per la mania di realismo, per gli anni nelle Filippine: mi piace perché le decine di miliardi non impediscono al film di essere dilettantesco, per­ sonale, quasi da superottista come “concezione complessiva”. Vediamo. Dopo le interminabili riprese, Coppola si ritrova con giorni di materiale girato. Per giocare di più - e più elettronicamente - al montaggio, lo riversa in ampex, lo monta e lo rimonta senza mai giungere a una versione definitiva; fino alle due-tre versioni circolanti oggi, con finali differenti. E un segno ammirevolmente manife­ sto dell’ambiguità generalizzata su cui si fonda la “nuova Hollywood”, proprio in quanto il film di Coppola è atipico e mostra scopertamente le proprie contraddi­ zioni. Un film che costa quanto un piano d’aiuti a terremotati, che si promette smi­ surato, che utilizza risorse tecniche e sceniche straordinarie; e nello stesso tempo un film “privato”, e ancora una volta (per Coppola) quasi da clan familiare. Fare il film più costoso e industriale, e poi non saper concludere - letteralmente - la pro­ pria regia. Modernità di accorgersi, in qualche modo, di essere da meno del pro­ prio film, di non poterlo decidere: perdere la scommessa, inventando il primo grande esempio di film “incompiuto”, il cui finale non conta. La chiusa, questo momento narrativo decisivo, questa “morte” che condiziona la struttura vitale di ogni prodotto che si narri, è qui letteralmente indifferente: nel finale si taglia la te­ sta a un toro, ma nessuno dei finali taglia la testa al toro. Da un punto di vista classico, si vede bene cosa significa tutto questo: il film ri­ schia di non esistere. Ed è proprio così: più avanzato dei Wenders Duras Roh­ mer, Coppola perdendo tutte le sue scommesse (quella cultural-antropologica, quella goffamente umanistica, quella letteraria con Conrad), fa un film che non esiste, che si impone e incassa forse perché affascinante e gonfiato è il “racconto” del progetto e della realizzazione di esso. 136

Una, dieci, mille apocalissi

Personalmente, ho amato e difeso Apocalisse prima di vederlo. Vedendolo, non c’è quasi una scena che non deluda, rispetto al racconto che se ne poteva avere o immaginare prima. Eppure il film non delude, non può deludere. Appunto per­ ché non esiste. Neanche come kolossal, si diceva. Chiunque abbia visto più di cinquanta film resta infatti colpito qui non tanto dall’esibizione (tipica dei kolos­ sal), quanto dallo spreco che si manifesta in ogni minimo dettaglio. L’Attore ul­ tra pagato compare solo alla fine, e dietro ogni immagine si avvertono le altre mille immagini e inquadrature che sono state girate e non scelte, si intuisce uno spreco enorme di lavoro, di pellicola, di tempo, di 70 mm eccetera. Anzi, “si sa” che è così: ma solo perché Coppola lo ha gridato ai quattro venti, lo ha urlato nelle conferenze stampa, non potendo mai fino in fondo sperare di mostrarlo nel film. Quanti film ci sono nel cassetto di Coppola? Potrebbe vivere montando e rimon­ tando un Apocalisse ogni due anni. E sarebbe più giusto. Ma Apocalisse è un film onesto e ingiusto. Mostra tutta la sua insensatezza, fino a far ridere. Rimane spie­ tatamente solo cinema. Ha la gratuità di ogni film, moltiplicata per ogni foto­ gramma. E un film ricco che sembra povero cineamatoriale. Un film di guerra in­ timista. Tant’è che la trama più affascinante resta quella delle fotografie e dei nastri regi­ strati che separano l’apparizione di Brando: ciò che avrebbe potuto essere girato con il budget della Conversazione. Tant’è che il film risulta anche tecnicamente “non montabile”, e Coppola ricorre sistematicamente alla dissolvenza e alla so­ vrimpressione, dando già all’inizio la cifra finale di tutto il film, con la straordi­ naria serie di dissolvenze e sovrimpressioni triple (e più) accompagnate dalla non meno straordinaria This Is the End dei Doors. E proprio vedendo La conversa­ zione in televisione si capiscono - per associazione - altre due cose che concor­ rono alla modernità paradigmatica di Apocalisse. La gratuità formale televisiva, e la quasi totale dipendenza dal suono, dalla stereofonia, dal dolby, dalle dieci, cento, mille piste. Senza Wagner, a orecchi chiusi, anche l’assalto degli elicotteri di Davall alla baia del surf risulta piatto, girato così e così. Parecchi spettatori di “provincia” senza 70 mm, ma soprattutto obbligati a un sonoro appiattito - sono rimasti poco interessati. E la trovata più geniale del film è la nave dei folli del rock, il trip alla radiolina in cui si trova immerso Martin Sheen. Nel rollio continuo della barcaccia, si ritrova la musica degli stadi, degli apparta­ menti, delle discoteche, l’insoddisfazione Rolling, la cultura totalmente spezzet­ tata ricomposta solo dalla radio-televisione. Per il resto, le decine di elicotteri in­ quadrati sono se mai l’implosione del concetto di kolossal. Il kolossal si autodi­ strugge con l’accumulazione di sé, dopo aver già distrutto tramite il catastrofico il genere “realtà” (del disastro; lo mostra in questi giorni la spaventosa facilità con cui ci si è abituati dall’oggi al domani all’ipotesi di guerre su vasta scala). Gli elicotteri non fanno più impressione di un drappello di cavalleggeri in un film di Ford. Di certo, l’ingenuità apocalittica di Coppola è la vera fine: è il Vietnam del ci­ nema, sconvolto in una serie di contraddizioni. Un kolossal da discoteca, da ra­ 137

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dio, da televisione, che mostra la linea d’ombra su cui si muove tutto il cinema americano “di successo”: il quasi totale affidare alla forza (poco controllata) del sonoro, immagini sempre più lavorate e elaborate fotograficamente (luci, colori, valori plastici delle “cose” riprese) ma sempre meno curate e necessitate dal punto di vista compositivo e strutturale complessivo. È così nei film da “labora­ torio” di Lucas e Spielberg, figuriamoci se poteva non esser così in mezzo alla giungla (ma Cimino?). In questo tornare a essere pura realtà, proprio mentre si vuol fare del cinema quasi “maledetto” e da artista, è il fascino definitivo di Apocalisse, e il suo porsi come definizione catastrofica della modernità del cinema d’oggi, in perfetta op­ posizione col film-cardine degli anni settanta, il Barry Lyndon in cui Kubrick tenta di controllare gli stessi elementi che Coppola si limita a mettere in gioco. Per coerenza (gratuita forse, o se vogliamo, poco costosa) Coppola dovrebbe ora sul serio continuare a giocare. Ha già speso, in riprese e pubblicità. Ha già fatto l’uso più sensato che si può fare di un esercito e di una forza militare (fame un film). Dopo questa produzione geniale, potrebbe dar da montare le sue decine di ore di produzione a cinque, sei, otto registi diversi, far fare tanti altri film diversi e possibili e plausibili (con slogan vietnamitico: una dieci mille apocalissi). Capire che non sono sue, come suo non è il finale. Compiere l’operazione ultima e defi­ nitiva, per un regista autore non scevro da ambizioni: offrirsi come repertorio, darsi da montare. Forse dentro ogni kolossal possono annidarsi tanti piccoli film: anche nei film più personali, anche in un Novecento di Bertolucci (che intanto fu l’occasione per i film di Giuseppe Bertolucci e di Amelio). Permettere a altri di aggirarsi tra gli sguardi e gli accadimenti che - spesso imprevisti - succedono sul set e si nascon­ dono nelle immagini finché un altro montaggio non riannoda o inventa. Forse, sarebbe l’unico modo per superare le manie piccolo-borghesi (fino allo spreco superomistico) che si aggirano in tutto il cinema americano di oggi. Coppola compreso. E insomma: amo le dieci apocalissi che si nascondono oltre la piccola Apocalisse coppoliana.

UlPatalogo, 3, 1981]

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La voce e il suo doppio

Doppiaggio, doppiare. Parole con una eco tra il perverso e il fantastico: il doppio, la doppiezza. Mentre il doppiaggio resta anche se le voci cambiano, ci si rende conto di cosa sia stato di fronte al “vuoto sonoro”, al silenzio in cui i film proiettati in Italia sono stati lasciati dalla scomparsa, nel giro di un anno, di due voci “millenarie” (nel senso del numero di film doppiati) come quelle di Gualtiero De Angelis e Emilio Cigoli. Le commemorazioni non sono mancate, tutte però concentrate sul come se-, la morte dei due doppiatori veniva equiparata, “paradossalmente”, alla morte di una parte (la voce) degli attori da essi “doppiati”: James Stewart, Clark Gable, eccetera. Tutto bene, ma non come se-. James Stewart è effettiva­ mente morto, per quel che riguarda la sua voce per noi; e così gli altri. De Ange­ lis e Cigoli erano in effetti molto più che gli “attori”, avendone doppiati troppi. Qualsiasi televisore acceso in Italia ci rimanda - quale che sia il canale, pubblico o privato - la loro voce. Essa è presente più di qualsiasi altro elemento cinemato­ grafico: attore, fotografo, regista e produttore che sia. Le loro voci formano il più importante tratto unificante sovratestuale (cioè eccedente un singolo testo, o la singola opera di un regista) agente all’interno del cinema italiano. Con esse scompare una porzione fisica enorme di questo cinema, che più esattamente si po­ trebbe chiamare amerikitaliano. In più, il loro lavoro è stato la dimostrazione sensibile del fascino di ogni traduzione, e della possibilità della traduzione al ci­ nema, in un campo cioè che si voleva orgogliosamente e artisticamente “univer­ sale” e “autosufficiente”. Per ovvie e giustificate che siano le reazioni e le difese puristiche di “autori” e “critici”, e per lodevoli che siano le crociate in difesa dell'integrità dell’opera, il doppiaggio ha però lavorato e funzionato avanguardisticamente a favore dell’o­ pera aperta molto più di qualsiasi teorizzazione di Umberto Eco. Contro il feticcio del “già costruito” e “già stabilito”, contro la sacralità dell’o­ pera, due doppiatori come De Angelis e Cigoli introducevano con professiona­ lità altissima un elemento incredibilmente moderno nelle pratiche sull’imma­ ginario. Essi hanno "interpretato” degli attori. Interpretare attori-, è qualcosa che neanche Stanislavski] ha insegnato o teorizzato. È la proiezione fantastica del principio del doppio. I corpi sono al mondo (al cinema), hanno già fatto il loro lavoro, fissato in pellicole: una voce interviene a interpretarli di nuovo, a “suo­

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narli” come uno spartito. E la voce si riverbera intorno nel mondo, unico corpo intatto, unica fisicità reale e continua, di cui i diversi corpi-attori finiscono per es­ sere transeunti epifanie. Il fascino del mestiere del doppiatore è in questo pari a quello di tutte le voci immediatamente sacrali - che effettuano lavori o servizi “pubblici” senza che ap­ paia il volto di chi parla: annunciatori radiofonici, voci che annunciano sui treni o alle stazioni, voci dagli altoparlanti: in aeroporto, segreterie telefoniche.. Voci, più che persone. E ho in mente l’incosciente paradosso proferito da un annun­ ciatore Rai un giorno, in ascensore, nel mezzo di una discussione accalorata a proposito di qualcuno: uUn uomo si giudica per quello che fa, non per quello che dice" Aveva appena finito di leggere il giornale radio.

[IIPdialogo, 3,1981]

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Lacrime in diretta

Il record di ascolto per i film trasmessi dalla Rai appartiene a La lunga estate calda (di Martin Ritt con Paul Newman), con quasi 28 milioni di spettatori. Lo segue in classifica (con 26 milioni) Lo specchio della vita di Douglas Sirk con Lana Turner. La terza rete per ora istituzione poco diffusa e poco vista ha rag­ giunto il suo massimo con i 4 milioni e 200 mila spettatori di Scandalo al sole di Delmer Daves. Proprio in questo periodo, Canale 5, il network di Berlusconi, raccoglie consensi e indici molto alti nella fascia del dopopranzo con il suo Poweriggzo con sentimento, intelligente ciclo-contenitore cinematografico dedicato quasi esclusivamente al melodramma, con film di Daves, Wilder, Wyler, Matarazzo.. Il terremoto toccò punte complessive di audience (sulle tre reti Rai) di 35 milioni di spettatori. Vermidno ha raggiunto i 30 milioni, con lo sbalorditivo dato complementare dei 16 milioni di spettatori ancora alle due di notte, e poco meno in seguito, nella storica nottata di venerdì 12 giugno. Il dominio del melodramma come spettacolo televisivo di massa è quindi incon­ trastato, e profondo per definizione, proprio perché emerge dalla superficialità casuale degli indici di ascolto. Tanto netto è il dominio che, parlandone, appare sempre più difficile criticare, cogliere le differenze tra un melodramma e l’altro, al di là del riconoscimento rituale (e invero non difficile) deW importanza dei sen­ timenti. Così il pauroso difetto di conoscenza e di attrezzature si è mostrato nel prevalere dell’ordine e della constatazione e del guardare mentre da Vermicàio ar­ rivavano le immagini. Il buco nero e invisibile buttava fuori in primo piano una forza sempre presente e mai parlata, certo: mai, nei sondaggi, il “cittadino me­ dio” ha espresso per esempio una preferenza determinata al cinema per il genere mèlo. Western, commedia, comico, bellico, musicale..: ecco le denominazioni precise delle storie che si vogliono veder narrare dal cinema; ma l’unico ele­ mento che moltiplica poi il cinema in televisione portandolo a uno sterminato tutti insieme è infine sempre l’appassionatamente. Da questo punto di vista Vermi­ càio rientra in una serie di eventi spettacolari che potremmo chiamare “melo­ drammi in televisione”. Ma dicendo questo non si è cavato il bambino dal buco (infatti) ci si è limitati a accettare e constatare ciò che il buco ha portato in super­ ficie dai sotterranei, per spontanea eruzione. E il discorso ha continuato a oscil­ lare tra i poli (senza riferimento per la bussola) dell’esecrazione per il voyeuri­ smo spettacolistico e dell’apprezzamento per la possibilità di vedere in diretta le 141

paura e desiderio

disfunzioni e inefficienze incredibili dell’apparato statale. Oppure, tra la legit­ tima preoccupazione per il mini-golpe televisivo (quante piazze vuote quella sera) e il sollievo perché “la gente” può ancora mobilitarsi e soffrire per “cause giuste”. Con una tendenza a sopravvalutare la portata e la durata reale dell’on­ data di sentimenti, senza considerare il meccanismo misterioso per cui il più caldo e fiammeggiante dei generi si addice tanto al medium cool (freddo). Vernicino è stato un melodramma di grado zero, e in grado zero di diretta tele­ visiva. Un melodramma in diretta. Più vicino comunque all’allunaggio TV del lu­ glio 1969 che al terremoto meridionale in TV. Come allora, più di allora (perché in modo più casuale e imprevisto) la televisione ha esibito una capacità di co­ mando sul pubblico, rarissima e sempre più rara da quando il telecomando ha in­ trodotto la guerriglia tra ascolto e ascoltatori. Se non si poteva ipotizzare un ca­ nale televisivo in funzione non collegato con lo sbarco sulla luna, qui l’azzera­ mento (per quanto riguarda la Rai) del potere di intervento del telecomando e il tipo di ascolto forte e totalizzante si sono tradotti nello scandaloso appiattirsi delle tre reti su una stessa immagine (scandaloso perché motivato solo dal ter­ rore di mancare lo scoop a favore di un’altra rete). Col terremoto la TV si era presa la rivincita sul cinema (che nel filone catastro­ fico giocava sul prima della catastrofe), amplificando manifestando e sfruttando a fondo il dopo. Nell’attentato a Woytila la drammatica assenza di immagini chiare aveva impedito l’happening televisivo in diretta. Vermicino è stato invece il trionfo puro del tempo televisivo, del momento TV in diretta, indipendentemente dalle persone, dalle intenzioni, dai progetti; a partire solo dal calcolo idiota sullo scoop a lieto fine ravvicinato. A posteriori, il genio del caso appare evidente nel suo potenziale immaginario: il bambino e la famiglia, il nome (Pollicino dentro la terra come un verme), lo spostamento dal centro politico del paese piduista (Roma) a un centro “sentimentale” a pochi chilometri di distanza, le paure in­ consce di ognuno.. Ma il tutto era fuori dell’immagine televisiva, poverissima, tecnologicamente agli antipodi dell’Apollo II, quasi rigorosa nel non far vedere. Una corda viene calata in un nero-buio-aldilà-sottosuolo invisibile, e tanta gente, sempre più gente a colmare l’immagine fino a renderla illeggibile. In più, l’idio­ zia premeditata dei commentatori TV. In meno, il mèlo familiare che i genitori di Alfredino non riuscivano a saziare e a mettere in scena. Qui sta la differenza con gli altri mèlo campioni d’ascolto citati: la scena-Vermicino era una scena vuota, un puro specchio dentro cui nulla avveniva se non il puro vedersi della gente, ahimè pompieri compresi. Il melodramma non era lì; veniva attivato fuoricampo, nell’immenso fuoricampo della platea televisiva. La dilatazione terribile dei tempi sembrava quasi servire solo a questo. E l’ineffi­ cienza risultava spettacolare almeno quanto l’efficienza di Armstrong sulla luna. Grado zero, tecnica scarsa, pudori falsi, dominio del fuoricampo e occultamento della scena., questi elementi hanno costituito il più potente melodramma televi­ sivo che si ricordi in Italia. Intanto, estremizzando i dati tipici del melodramma, potenziandone le ambiguità. Il mèlo è infatti, di tutti i generi, quello più biso­ gnoso di un’integrazione affettiva da parte dello spettatore, più ruffiano nel fare appello ad essa ma anche più obbligato a essa; scarsamente autosufficiente, quasi 142

Lacrime in diretta

incapace di vivere come testo autonomo che si dà più o meno semplicemente “da vedere”. Macchina implacabile che coinvolge e hi lacrimare le macchine-corpo, il mèlo è però un tessuto a buchi, fatto tutto di ignoranze, incoscienze, non-saperi che si sciolgono solo in provvisorie o definitive agnizioni. Tele-Vermicino era un concentrato del gioco di assenze e presenze del melodramma; tutto era lì, ma tutto era celato, nascosto, letteralmente osceno. Nessuno sapeva cosa succedeva. Il Tempo stesso, che è di norma il grande “soggetto” e “autore” del melodramma al posto della Storia, non supporto o sfondo come in altri generi, si bloccò tutto in un'unica angosciosa dilatazione di un attimo, fino a sparire. In questa imma­ gine fissa del melodramma assoluto, la durata temporale era reintrodotta dalla diretta che continuava col passar delle ore. Anzi nel rapporto tra durata e diretta si è prodotto il melodramma-Vermicino. Una volta aperta e dichiarata la diretta, il già potente aspetto mèlo è stato spinto alla vertigine, grazie alla fortissima ambiguità racchiusa in essa: il massimo di rap­ presentazione (minuto per minuto) e (quindi?) il massimo di realtà. Nessuna in­ certezza tra le due cose, nessuna dialettica realtà/spettacolo; le due cose insieme, nello stesso momento senza gli occhi di Paul Newman a far da schermo. In questo caso poi, nella mosdaggine e insipienza vergognosa della “regia” istituzionale, tutto il potere (o meglio la potenza) veniva realmente delegato al fuoricampo, alla platea (che infatti ottenne con le telefonate di protesta che la diretta non fi­ nisse). Nelle case, nei bar, negli uffici: una volontà di vedere invincibile e terri­ bile. Dove il terribile non era nello spettacolo (infatti ovviamente occupato dalla commedia), non era nel visibile, ma nel vedere. All'interno del melodramma complessivo la scena-TV della diretta era Commedia televisiva all'italiana, e tele­ visione dentro la televisione: il sogno del Mazinga buono che libera il bambino, il consiglio di provare con la colla di Portobello, quella più forte degli elefanti. E un lapsus che non era un lapsus, mentre si succedevano i tentativi e i volontari: “si sta preparando il prossimo concorrente'” C’è un ultimo elemento, l’unico for­ temente anomalo rispetto al quadro del melodramma, ciò che in fondo impedi­ sce alla diretta da Vermicino di essere solo un testo. Lo scioglimento non è stato mostrato, non c’è stato nessun esito dopo i pianti e le sofferenze. Solo un’inter­ ruzione che era quasi una sospensione mai annunciata. Anzi, coerentemente, fi­ nita la diretta televisiva di quell’attimo fermo, il corpo è stato a sua volta ghiac­ ciato, a ennesima dimostrazione delle reali temperature in gioco. Ci si potrebbe vergognare a ripercorrere un fatto scontato e giustamente dibattuto nei temi di maturità. Ma l’unica vergogna sarebbe accettare la breve durata dell’/fttotfo la­ voro emozionale del testo televisivo Vermicino. Come dopo il terremoto, che, visto alla televisione nelle sue conseguenze, era parso dover cambiare tutto il paese.. Meglio considerare davvero non chiusa, solo interrotta, la diretta-Vermi­ cino, anche se il corpo è stato trovato ormai e il buco verrà chiuso. Il buco c’è ancora. Scandalo al sole quando verrà ritrasmesso avrà ancora i suoi milioni di spettatori. Questo scandalo buio non può riandare in onda, sarebbe noioso dopo tre minuti. O intollerabile; o pauroso: perché basta poco per cominciare - invece che a piangere - a vedere le nostre facce dentro la diretta che va avanti su altri schermi. [Rinascita, 31, 1981] 143

Buchi, trucchi: il verosimile onirico e la “televisione” di Alfred Hitchcock

Ci sarà una certa difficoltà per arrivare a quella meta che è in genere il titolo. Presi tra due termini decisamente freudiani e minacciosi, l’interpretazione e l’a­ nalisi, abbiamo scelto un metodo particolare, che si arresta alle soglie di en­ trambi. Abbiamo deciso di non rivedere un film o più film per poi analizzarli. Il sipario strappato, che doveva essere il nostro testo principe, si è presto dissolto, già per difficoltà di ordine pratico; Intrigo intemazionale e Notorius sono stati solo due scottanti incontri casuali nelle ultime settimane. Intimiditi, abbiamo scelto la conversazione. Non la forma della conversazione, che risulterebbe parodistica dello straordinario esempio Hitchcock-Truffaut, ma un “confronto a due” sul filo e sulla superficie della memoria. Partendo da im­ magini ricordate, più che da messe in scena complessive. Le immagini che ricor­ davamo e ricordiamo di Hitchcock sono la messa in scena hitchcockiana com­ plessiva, dalla quale siamo stati presi e mai più ridati. In questa breve avventura, rischiava e rischierà forse di perdersi l’indizio preventivo che d’altra parte ci inte­ ressava sviluppare, mostrare e potenziare: il verosimile onirico, appunto. In ogni caso, è dal nome di Truffaut e dalla sua antica genialità critica che si può partire. Truffaut che predilige due “cinemi” così diversi come quello di Rossel­ lini e quello di Hitchcock. Diversi, totalmente diversi nel metodo, dalla geniale quasi-cialtroneria rosselliniana alla geniale e burocratica accuratezza hitch­ cockiana. Entrambi però, Rossellini e Hitchcock, produttori di immagini che si ricordano; entrambi, più decisivamente, autori di sogno. A voler individuare il punto oscuro dell’amore truffautiano si può azzardare che sia proprio la qualità “onirica” di questi due cinemi fondati sull’attesa: non a caso, Truffaut resterà sempre molto lontano da un “cinema del sogno”, salvo le tracce che si palesano a partire da Mica scema la ragazza, e i suoi film fanno emergere più la struttura del rinvio o quella del ricordo che non quella - magicamente e precisamente legata al trattamento del tempo presente - dell’attesa. Poi comunque la coppia sembra ritornare antitetica: da una parte l’artificio più puro e accanito (Hitchcock), dall’altra (Rossellini) l’ingenuità più assoluta e uto­ pica di dover rendere conto a o di una realtà (in movimento o “sognata” che sia). Ma torneremo su questa strana coppia. Fin qui, come si vede, una buona dose di stereotipi e di luoghi comuni critici (o acritici). Ormai stereotipato è anche il riconoscimento della qualità artificiosa-vi-

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Buchi, trucchi: il verosimile onirico..

sionaria del cinema di Hitchcock; ed è agevole anche solo seguendo i dizionari di psicoanalisi ritrovare all’opera nelle sequenze hitchcockiane i procedimenti che dopo Freud si chiamano “onirici”. Così come non uno stereotipo - ma un dato addirittura - è il fatto che Hitchcock disegnasse prima dell’inizio delle ri­ prese ogni inquadratura, e che poi non avesse bisogno di riguardare giorno per giorno il materiale girato. Ciò, al di là delle molte boutades dell’Hitchcock con­ versatore, induce a chiedersi quale possibilità ci sia, eventualmente, di “capire” un’opera assolutamente concettuale come quella hitchcockiana, così minu­ tamente pre-vista prima di essere vista da noi o dagli altri. La paura nei film di Hitchcock? Certo radicalmente diversa dalla paura prima dei film di Hitchcock, quella dell’autore che schematizza tutto e tutto prevede disegna e separa perché nulla sia lasciato al caso. E allora, se tutto è già avvenuto prima, cosa resta nei film di Hitchcock dell’eventuale sapere hitchcockiano, ammesso che vi sia co­ munque assente una dimensione di “verità”? Certo rimane la cura grafico-visiva di ogni immagine, ma il lavoro è letteralmente perduto, nascosto anche quando è esibito nella famosa flagranza del trucco evidente. E stato detto di Hitchcock, da sempre pericolosamente descritto come cineasta “popolare”, che il suo sarebbe un cinema “non-autoritario”, democratico più d’ogni altro, insieme forse appunto con i Ford i Chaplin i Rossellini. Ed è vero che la dislocazione dell’artificio, del trucco e del virtuosismo hitchcockiano, avviene sempre comunque con una semplicità che permette gli accostamenti appena ci­ tati. Ma, perciò proprio, prima di buttarsi nelle consuete immersioni nel pro­ fondo, vai bene la pena di verificare perché la nostra memoria mantiene il ri­ cordo delle immagini hitchcockiane, nella loro totale superficialità. Già, Hitch­ cock non è un pittore; non è neanche un Lang che quasi rende superflua la lan­ gue con la parole di ogni singolo fotogramma. La significazione, in Hitchcock, appare spesso direttamente “saltata” come pro­ cesso da curare coscientemente. L’inquadratura hitchcockiana, totalmente prepa­ rata e accurata, non è mai totale, riassuntiva, decisiva. Nessuna richiesta da parte del significante verso lo spettatore, nessun segnale particolare. Il regista per cui la mitologia popolare ha sempre sprecato termini come “mago del brivido” non ha mai messo in scena in modo che lo spettatore avesse meno “sapere” (della storia e del procedere del racconto) di lui come regista o della macchina da presa come taumaturga o di un attore-personaggio come deus-exmachina. Ha sempre evitato il momento mitologico del disvelamento (che non fosse il puro confermarsi sogno). Nell’inquadratura o nel sonoro non è mai nasco­ sto un sapere che superi complessivamente quello dell’inquadratura stessa, di quel momento lì tutt’intero. Tutto può sempre accadere, ma solo nel fascino di quel momento visivo che, non contaminato da altri rimandi agganci contestuali significanti, si offre tutt’intero alla vista, all’analisi, all’attesa. Conversando, due gag tipiche bastano a confermare questo fatto. Una è quella del corpo-Hitchcock, unico “momento a sorpresa” per vezzo imposto al pubblico nelle sue apparizioni, segno talmente forte da perdere di nuovo ogni legame col significato, segno su cui peraltro da sempre - a mo’ di parafulmine - si addensa la curiosità e l’interrogativo del critico e del pubblico. Infatti, se la sola assenza 145

paura e desiderio

nel cinema di Hitchcock è fautore Hitchcock, tanto vale divertirsi a farlo vedere in carne e ossa, basterà far sapere., che è esistito, così come adesso si dice che sia morto. L’altra è la gag ricorrente - presente già in alcuni dei primissimi film - in cui qualcosa di presumibilmente fondamentale e chiarificante “si dice” sotto gli oc­ chi dello spettatore, ma non si riesce ad ascoltarlo noi, perché passa una mac­ china o decolla un aereo, o c’è un altro rumore, o una vetrata impedisce di co­ gliere il suono, o un ascensore si chiude. A volte la gag (che si trova anche nel­ l’ultimo Bufiuel, quasi a mimare l’ironica “sordità” dell’autore; Bufiuel, sì, altro possibile referente hitchcockiano..) è ulteriormente “messa in scena”, con la fi­ gura del sordo che non sente (in Mamie, p. es.,) o del cieco, etc.. Ma il cieco (per esempio ne I sabotatori) capisce lo stesso. Quasi sembra di perce­ pire allora un illuminismo visivo di fondo in Hitchcock, un’equazione di vedere/ sapere nel senso che le due cose si possono sostituire funa all’altra. Visto che si arriva al solito paradosso illuministico del vedere il trucco, cioè l’illusione, la fin­ zione come verità, il nulla.. O più semplicemente nel senso che tutto è lì, da ve­ dersi, per lo spettatore anche se non per Hitchcock. Abbandoniamo infatti il mi­ stero da noi stessi artificiosamente creato su cosa sia e faccia Hitchcock quando si prevede i film e se li gira in testa, e puntiamo solo sulle strisce visive che di lui vediamo, o su quelle che ci ricordiamo. Tutto in effetti è lì; anche se, per il nostro sollievo, lì non è tutto, non tutto deve essere lì, non tutto dev’esser richiamato e ricordato da lì. Autoritario fino all’in­ verosimile Hitchcock lo è già stato in regia, nella messa in scena. La scena, che ci resta, senza residui (e senza grandi tagli di materiale al montaggio), ci uguaglia, d dà patetica speranza di comuniSmo. Già, perché la sublime raffinatezza di Hitchcock non esiste proprio, nei film del suo cinema. Esiste solo fuori di esso, nella sua ostinata assenza/presenza di au­ tore, nel suo “gusto” tuttora impossibile a cogliersi e definirsi, anche se noi amanti del rischio a ciò vorremmo puntare, “ricordandoci”. Ricordandoci alcune immagini siamo infatti già degli “uomini che sanno troppo”. Non occorre sentire (udire), per seguire James Stewart che ha sentito (ascoltato) il finto arabo mori­ bondo sulla pista dell’aeroporto. A noi deve bastare vedere. E questo è il primo buco, che rinvia alla scarsa considerazione di Hitchcock per la musica nei suoi film, anche quando la musica (nel caso delle colonne sonore composte da Herr­ mann) era sicuramente il fatto tecnico espressivo in sé qualitativamente più alto all’opera in essi. Forse, la clamorosa rottura con Herrmann (di cui Hitchcock non usò la splen­ dida partitura per II sipario strappato) è un indizio più importante di quel che sembri. Non “un senso in più”. Anzi. Quale odiosa avventura, per Hitchcock, doveva essere un’ipotesi di “opera d’arte totale”. Contro la Gesamtkunstwerk. Per la semplificazione. I sensi esistenti, per lo schermo hitchcockiano, sono forse troppi. Non solo il tatto e l’olfatto, forse anche l’udito; oppure, vanno bene tutti, purché si vedano: anche i profumi o gli odori. Quanto ci si avvicina al sogno qui, al suo carattere insieme profondamente visivo e concettuale-parlante. Al sogno, non all’allucinazione, così spesso anche (o solamente) “so­ 146

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nora”, olfattiva, eccetera. Rispetto alle forme infinite dell’illusione Hitchcock propone invece il sogno come infinita e combinatoria produzione di forme. Qui, per inciso, una diversità con quelli spesso definiti “neo-hitchcockiani”, per esempio De Palma, o Demme, in cui il clamore della situazione visiva, ma­ gari sposandosi alla glamour-fotografìa alla Zsigmond, si pone all’antitesi del modo in cui Hitchcock utilizza l’evidenza o anche la clamorosità solo per smor­ zare l’effetto dell’evento. Vedi per esempio i trucchi forti e eccessivi, il suicidio di Noiret in Topaz, le cadute dall’alto drammatizzate all’eccesso (ne I sabotatori dalla Statua della Libertà, in Intrigo intemazionale dal Mount Rushmore) e quindi subito sublimate, i finti abissi. L’inverosimiglianza oltranzistica e “car­ toon” del décor che impedisce di perdersi nell’inverosimiglianza delle situa­ zioni e produce immagini non effettistiche ma che si ricordano di più (non si ri­ corda l’effetto “grosso”, la tensione “reale” - ma finzionale - del momento, ma il quadro visivo in cui è avvenuta) come fatto visivo, assolutamente al di là o meglio prima del senso, proprio per la forza del riferimento scenografico. La scenografìa anche come scatola che in fondo resta sempre uguale, rassicura, permettendo poi all’interno la messa in scena più acuta delle tensioni. Tutto questo, è radicalmente lontano dagli eccessi visivi e sonori degli epigoni ultimi; e non a caso De Palma diventa De Palma solo nel suo primo film finalmente e totalmente non hitchcockiano, Fury. L’inciso comunque non è più un inciso a questo punto. Anzi, sul sogno la diffe­ renza tra il modo degli hitchcockiani (non so poi per quale motivo chiamati così, se non per devianti assonanze tematiche o di genere: intrighi familiari, tensioni, rapporti di coppia, suspense., il tutto magari riciclato in fuorvianti citazioni) e l’unicità di Hitchcock è illuminante. Costoro (i neo-hitchcockiani) sono proprio i meno hitchcockiani, i meno so­ gnanti anche quando proprio si rifanno al sogno o lo mettono in scena. In essi il sogno appare come differenza, anomalia, spesso nella forma particolare dell’incubo. In Hitchcock invece siamo alla totale trasparenza del sogno, la logica della messa in scena è quella stessa del lavoro onirico, per cui il sogno/fìlm si sogna e ben di rado si riconosce come sogno; sembra vero (realtà), se no non avrebbe certo la forza del sogno. In pratica quindi non esiste come differenza, e a fatica possiamo ritrovare questi elementi di verosimile onirico, proprio nei buchi conti­ nui e clamorosi su cui in genere si sorvola per la loro evidenza. In genere, in Hitchcock, si tratta proprio di buchi nella logica della narrazione, buchi che tra l’altro non servono se non a economizzare, a visualizzare in una se­ quenza solo ciò che serve per il suo senso. Tempi improvvisamente accorciati, o allungati, che permettono la fuga o la salvezza del protagonista. Come accade più volte per esempio nel Sipario strappato*, poliziotti che non si accorgono di eventi sotto i loro occhi, oppure palesi ritardi nella percezione di fatti sonori o di elementi della scena che dovrebbero mettere sull’avviso. Spesso addirittura lo spettatore è messo in condizione di irridere la qualità logica della storia; per cui sarebbe possibile passare a volte, come in fondo abbiamo fatto noi raccontandoci delle immagini, solo da un’immagine all’altra, fermandosi sulla qualità di un sin­ golo momento visivo, senza assolutamente pensare alle concatenazioni logiche 147

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narrative, per l’appunto come nel sogno, in cui eventualmente l’interpretazione rielaborerà nelle sue logiche. (In questa chiave per esempio appare più hitchcockiano l’uso che ha fatto Mei Brooks della scenografia a dominante triangolare dell’Hotel Wyatt Regency di Chicago - quello che usa anche De Palma in Fury - dove questa scenografia di­ venta il campo per una messa in scena molto precisa di un momento molto im­ portante del film, proprio come in certe sequenze hitchcockiane, all’aeroporto in L'uomo che sapeva troppo o in parecchie scene di Intrigo intemazionale. Mentre in De Palma e in Demme per esempio nel Segno degli Hannan - la citazione è conti­ nua, sfrenata, e anche l’uso della scenografia è clamoroso, veramente solo sceno­ grafico e fotografico nel senso dell’effetto, direi all’opposto della nudità e del perfezionamento visivo “semplice” di Hitchcock). Ed è a questo punto, per cominciare a concludere, che si potrebbe riaprire il di­ scorso o sarà utile in seguito riaprirlo, giungendo alla televisione, che è per l’ap­ punto un qualcosa che riporta al nome fatto all’inizio, Rossellini. Questi due cineasti del sogno che sono anche (non bizzarramente) due cineasti della televisione, dalla televisione, o verso, fino alla televisione. Al di là della “perdita di qualità”, e a parte il bianco e nero, è proprio nel ricordo di certe im­ magini che ci si ritrova come di fronte al televisore, come per averle già viste in TV. Ma questa, senza dubbio, è la nostra memoria, essenzialmente televisiva or­ mai. In più, c’è la nota pratica e produzione televisiva di Hitchcock, grande au­ tore e produttore di telefilm per la Universal. E il vero paradosso hitchcockiano sta qui, nella elasticità con cui una pratica raffinatissima di autore/Dio si sposta senza problemi dal cinema alla televisione, con un medesimo “controllo” e utiliz­ zando quasi generalmente le stesse troupe e gli stessi collaboratori tecnici. Il for­ mato stesso dei film di Hitchcock è sempre quello medio, classico, il più simile a quello televisivo (salvo che in un paio di occasioni: il vistavision di Intrigo inter­ nazionale, e L'uomo che sapeva troppo..). La leggendaria accuratezza dell’imma­ gine hitchcockiana è sì assolutamente “speciale” e personale, ma è quantitativa­ mente nell’ordine della cura del cinema medio o televisivo, nell’ordine della ne­ cessità tecnica del medio prodotto di cartoon televisivo, nell’ordine dei tirannici tempi di produzione televisiva. Non va confusa la cura perfezionistica con la qua­ lità dei mezzi impiegati, mai eccelsa. Nonostante lo splendore formale (straordi­ nario per esempio in Topaz), spesso il colore ha la voluta piattezza e anonimità di casa Universal (TV come cinema). Gli operatori hitchcockiani, come il John Rus­ sel di Psycho, hanno fatto moltissima TV per la Universal; e lo stesso Burks (ope­ ratore di fiducia di Hitchcock) non appare sempre di qualità particolare o ec­ celsa, né sembra bravissimo il South di Complotto di famiglia. In ogni caso, la “misura” come regola (confronta per esempio anche nei trucchi, la vivacità e vi­ vezza del colore Paramount, quello della fantascienza Haskin/Pal). £ la scelta del trucco sofisticato (non solo quello proprio “voluto” come in Complotto di fa­ miglia dove l’uso del trasparente, per esempio nella corsa folle di Brace Dern, è assolutamente rétro e forse quasi una follia perfino dal punto di vista produt­ tivo), del “tracco che si vede” (come l’uccello disegnato a mano da Ub Iwerks sulla pellicola de Gli uccelli), è veramente il rapportarsi “economico” con la 148

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realtà tecnica piccola, immediata, da studio e immediatamente controllabile in ogni suo piccolo particolare nello studio. E la produzione di artificio nel modo più preciso (e in fondo quindi artigianale tecnicamente) possibile, per giungere a un reale attraverso la messa in scena rigorosa di tanti segmenti irreali. E credo che questa impressione possa essere rafforzata dalla visione dei film di Hitchcock in TV, nostalgie schermiche a parte.. La loro forma iperdeterminata resiste intatta, non si sfalda anche se le linee si fanno meno nitide. Si possono perdere dei contorni, ma la struttura delle imma­ gini resta solidissima al di là di ogni colore, persistendo la loro "forma econo­ mica”. Quindi in questo nostro tentativo di viaggio, che per l’appunto non arriva al ti­ tolo, tanto che non vi dico neanche le immagini dalle quali eravamo partiti, ci troviamo infine davanti a un televisore. Là dove sembrerebbe perduta ogni pos­ sibilità di sogno fantastico: là dove però si può forse rinvenire una scena standard, un piccolo quadrato di superficie di fiction da cui far pulsare il sogno del reale, in ogni casa, per tutti e quando si vuole. Ci troviamo in pratica a sognare e poi a parlare - se mai - di possibili analisi di fronte al televisore; cosa abbastanza rara, paradossale, e che credo possa accadere solo con Hitchcock o con Rossellini. (Due cineasti rari e imprendibili, ugualmente capaci di mediare la loro rarità nel confronto con un “mezzo” popolare, e non mediante compromessi interni ai film.) [in Per Alfred Hitchcock, a cura di Edoardo Bruno, Editori del Grifo, 1981]

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1981

In ordine di preferenza. The Elephant Man di D. Lynch Eraserhead di D. Lynch Francisca di M. De Oliveira Toro scatenato di M. Scorsese 1 cancelli del cielo di M. Cimino 5.O.B. di Blake Edwards Vestito per uccidere (e Blow-Out) di B. de Palma We Can’t Go Home Again di N. Ray La femme de l’aviateur di E. Rohmer La tragedia di un uomo ridicolo di B. Bertolucci L’ululato di J. Dante Cutter’s Way di I. Passer L’ultimo metrò di F. Truffaut Nick’s Film di W. Wenders Odyssex di G. Damiano Di Cavalcanti di G. Rocha (sarebbero da citare i vari Stalker, e Resnais, etc.., non visti l’anno scorso e ricu­ perati solo quest’anno. Inoltre, tra gli “italiani”, fuori concorso Bertolucci, il mi­ gliore indubbiamente Ricomincio da tre. Non ho visto Tre fratelli e La pelle. Spiace di non poter includere Excalibur di Boorman e 1997 Fuga da New York di Carpenter, che pur essendo notevoli non sono certo tra i migliori dei due “John” che amo moltissimo. Spiace anche per Lili Marlene, il migliore tra tutti gli ultimi Fassbinder. Non ho visto gli ultimi due film di Huston. E, tra i fuori circuito, segnato ancora Blank Generation di Amos Poe e Silvestre di Joào Cesar Monteiro. Cuore di vetro, capolavoro herzoghiano, lo avevo segnalato anni fa; ma, tra i film che “girano”, oppure ripescati, ci sono ancora i Wenders, e Fata Morgana, e Kontrakt di Zanussi. Tra i film fuori-cir­ cuito, due che vedremo presto in televisione (rete tre), Dark Star di Carpenter e Jaguar di Lino Brocka. Infine, dimenticavo I predatori dell’arca perduta (e non è un caso, anche se è un capolavoro). E le splendide anteprime cinesi? Per il 1982.. [Filmcritica, 321,1982]

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Reintroduzione1

“Ar a musical is meant to entertain, as its prime purpose, a fuck film is meant to excite." Marilyn Chambers

“Il corpo infatti non c’era più. Era una pornografìa degli angeli.” Jorge Luis Borges

1 - [Più di un anno su questi “materiali sul porno”. Personalmente, più di un anno per arrivare a scrivere, oltre gli appunti, oltre le “intuizioni” - così si dice e le note, oltre le visioni e i visionamenti. Non per un particolare “lavoro” da fare, ma anzi per indolenza, per un rinvio continuo e pigro di quello che in qual­ che modo mi appariva e mi appare un “momento della verità”. Fare i conti col pomo. Fuori discussione infatti che si possa “scrivere del porno”, e in particolare teorizzare o analizzare semplicemente il pomo-awew*. Impossibilità tanto forte da meritare da sola dei tentativi. Ma più ancora di inseguire o addirittura pro­ durre il pomo con la scrittura per centoventi pagine o milleduecento giornate è appassionante e inevitabile scontrarsi con le grandezze, le qualità, le forze, i poteri del pomo; un’economia, un fare i conti, appunto un corpo a corpo. L’impressione fortissima - e poi la certezza - che parlare di cinema-pomo sia, ancor più del solito, “parlar di cinema”, parlar d’Altro. E insieme dello stesso: parlare del parlare, scrivere dello scrivere stesso, un confronto mortale. Screw (la rivista pomo americana sulla quale comparve la prima intervista/recensione/sperimentazione di Linda Lovelace gola profonda), titolo “volgare” che discende nel significato da “vite”, “elica”, in giù.., è anche un termine che si ricongiunge sottoterra a scrivere-, Tommaseo nel Dizionario nota: “il senso di scribo e ypdcpa), col suono stesso dice più incisione che il semplice Vergar delle lettere con penna”-, e se passiamo a to screw (forma verbale) abbiamo “avvitare, stringere, serrare” e “fare entrare a forza”. E soprattutto: “torcere, torcersi; contorcersi”. Infine forse è proprio necessario (sempre sul dizionario Hazon, ultimo esempio) to screw up one’s courage “prendere il coraggio a due mani”. La messa in questione del cinema, oltre che del discorso, da parte del porno non è infatti meno radicale. Violentemente si riproducono domande dimenticate da decenni, si adoperano termini desueti: vero, verità, verosimile., realtà.. La corpo­ reità del pomo è la più tesa sfida teorica che abbia toccato il cinema nel dopo­ guerra.]

2 - Eppure, per l’analisi, il campo sembra tutt’altro che impervio e oscuro. Anzi è lì, perfettamente chiaro e tutto visibile, il fallo da vedere, la “cosa”. Gli organi sessuali mostrati in azione (o “al lavoro”); nel tempo dell’azione, aggiungerei, per il cinema porno, senza il défà mori della foto pomografica. A “sporcare” questa 151

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semplicità limpida, intervengono immediatamente parecchi fattori complicanti l’oggetto dell’analisi eventuale. Intanto lo specifico filmico del porno, o meglio ancora lo specifico “cinematografico”. Di quale cinema pornografico si parla qui, per esempio? Perché non del cortometraggio o dello stag film classico, clande­ stino, casalingo, “privato” o per piccole platee complici, diffuso per tutto il No­ vecento e anticipato dalle foto pomo o al solito dallo “studio” anticipatore del grande Muybridge (vedi la “donna che si accarezza”).. La motivazione stessa è sporca: indegna, poco “teorica”. Il diffondersi nell’ul­ timo decennio, negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, del lungometraggio pomografico distribuito regolarmente e visibile in sala pubblica. Uno sposta­ mento, una dilatazione, un contesto più che una struttura o un testo. L’arrivo sul grande schermo: importante perché il film pomo si colloca di colpo vicino ad al­ tre immagini, o al posto di esse (la continua lamentazione da parte di certa critica e certe “opinioni” in questi ultimi anni è stata rivolta proprio al processo di ingoiamento delle sale da parte del circuito “a luci rosse”, peni e vagine al posto di John Wayne e Mastroianni, Sofia Loren e Catherine Deneuve..), diventando un genere, uscendo dalla situazione di “oggetto particolare” e avvicinandosi a una fruizione “di massa”. Naturalmente ciò ha determinato una forma ibrida e in­ certa, una contaminazione da parte di modelli narrativi (necessaria anche per motivi economici: poter intervallare scene “normali” - meno costose - a quelle hard), una simbolizzazione forzata (nelle sale pubbliche il soddisfacimento ses­ suale non è certo uno sbocco semplice e normale come potrebbe essere quello casalingo mediante superotto o cassetta video). In ogni caso, Vodore della sala impregna di sé qualsiasi modello del film porno lungometraggio.

3 - Per finirla col “pomo”, definizione di origine “legale” e fortemente astratta nonostante l’etimologia la colleghi con rigore e giustezza al corpo della prostitu­ zione. Hard e soft. Hard contrapposto a soft. Perfetti onomatopeici termini in­ glesi entrati nel normale slang tecnico americano. Duri o soffici già al suono, e così propriamente vicini alla terminologia tecnologica dell’industria elettronicotelevisiva: software (programmi, prodotti) e hardware (impianti, grossa tecnolo­ gia, mezzi di trasmissione e produzione). Useremo quindi solo hard come termine unificante al di là della sofficità (flou, ri­ cercatezze) spesso voluta dalle immagini del pomo (vedi le dichiarazioni di D’A­ mato, per esempio). E come terminale duro, nocciolo irriducibile di “hard times* che per essere pensati obbligano all’erezione mentale. Anche se poi il film hard è ovviamente software.

4 - Vedendo II molto onorevole Mr. Pulham, capolavoro vidoriano del 1941, avevo provato la prima volta (a Genova, in una copia appassionatamente conser­ vata dal cineclub Filmstory) una sensazione inquietante e davvero hard. A un certo punto, dopo una nottata che si intuiva passata in baldorie studentesche, Van Heflin e il giovane Pulham (Robert Young) si incontravano la mattina dopo. Appena entrato in casa di Pulham, Heflin si lamentava di essere ancora scombussolato e quindi domandava: “E tu, hai goduto molto?” Non credo di aver

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desiderato che a quel punto della colonna sonora ci fosse “goduto”. E tre o quat­ tro volte rividi il film nella stessa copia, in due o tre anni, sempre attendendo in­ credulo per verificare il mio errore; ma era proprio “goduto”, lo feci notare a de­ gli amici che peraltro non ne furono scossi.. Ma come? “Hai goduto molto”., in un film americano degli anni quaranta, per di più in edizione cattolico-italiana (chissà quanto doveva esser crudo l’originale). In fondo non mi pareva impossi­ bile, data la straordinaria lucidità spietata del film (subito dopo c’era una specie di presentazione della predestinata “fidanzatina” di Pulham). Fino ai primi mesi di quest’anno, 1982, è rimasto un enigma e insieme una certezza, per me. Un ri­ cordo “disturbante”, un buco nella levigatezza raddoppiata del sonoro americano/italiano che ha percorso e avvolto le mie visioni di cinema per anni. Uno sconcerto forte. Poi, al controllo del nuovo doppiaggio, in Rai (si era tentato di ricuperare proprio la vecchia colonna “genovese”, risultata però deteriorata in più punti), la sorpresa, arrivato al punto che sapevo a memoria: “Hai domito molto?” (o era comunque un ancor più audace “Hai goduto/dormito bene?91..). E il riscontro sul copione inglese non lasciava dubbi. U film è poi andato in onda ovviamente nella versione “dormito”, l’unica che fosse mai esistita. Non ho più avuto modo di vedere la vecchia copia amata e perversa per ricontrollare ancora una volta e capire infine per quale improvviso distorcersi del sonoro o difetto di pronuncia o accavallamento o mangiamento di parole nel doppiaggio originario venisse fuori quel goduto che ero certo d’aver sentito. Devo ripetere, a parziale giustificazione del raccontare, che il godimento sor­ prendentemente oggettivato in parola in un film così severo e bressoniano, mi aveva procurato una sottile eccitazione. 5 - Non posso dire invece di ricordare qualcosa di preciso e distinto riguardo ai primi lunghi baci e abbracci visti sullo schermo da piccolo, magari di Disney (certo mi colpì - in TV, credo - ]ohnny Belinda, e al cinema ricordo l’eccitazione a un paio di sequenze di Hatari: ma qui si tratta di “erotismo”..?). Non ho dubbi però che fossero hard, o almeno pornografia, dal momento in cui un’amica di mia sorella ci confidò che i figli potevano nascere da baci e abbracci particolar­ mente appassionati. Credo avesse tratto i suoi indizi (convincenti) proprio dai film, dove spesso al bacio e al fuoco del caminetto - o all’urlo e alla paura: John­ ny Belinda - faceva seguito abbastanza rapidamente l’apparizione del neonato. Comunque, quelli per noi dovevano essere anche “organi sessuali (di riprodu­ zione) al lavoro”, labbra, lingua, collo, braccia, gambe, schiena, membra avvinte, in una proiezione mentale infatti sempre temuta dai giudizi allora prudentissimi del CCC e interrotta (mi raccontava mia madre) dal gelati del venditore ambu­ lante sguinzagliato al momento buono o dalla luce in sala (parrocchiale). Dico dovevano perché è solo un ragionamento logico, una deduzione fredda per cre­ pare un po’ la sicurezza della definizione; non ricordo nulla di ciò, e forse la pro­ iezione hard non può prescindere dal proprio corpo e non è tanto facile inven­ tare un fantahard dove il dito che sfiora la nuca o due occhi che si “accarezzano” risultino hard. In realtà labbra che si toccano producono lo stesso effetto o me­ glio sono la stessa cosa di una bocca su un pene o un pene dentro una vagina.

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6 — 11 gioco tra il mostrato, gli effetti che mostrando si vogliono produrre, e gli effetti effettivamente prodotti, determina il campo dell’hard. Dilaga infatti, è di­ lagato il nulla interpretativo nelle settimane successive agli interventi durissimi di sequestro disposti dal pretore di Civitavecchia (per restare hic et nunc - come fa l'hard, del resto). Ci si è accorti delle luci rosse non appena hanno cominciato a spegnersi, solo quando le “maestranze” coinvolte nella produzione hanno cominciato a costi­ tuire un problema sindacale. Allora, nei florilegi dedicati al “fenomeno” dalla stampa, sono apparse le prime analisi. Sempre pompose, lontanissime da un’e­ sperienza di fruizione reale dell’hard, inevitabilmente arretrate rispetto alle più banali dichiarazioni della più stupida delle pornodive. Né mancheranno i libri, adesso, e le analisi psico/socio/semiotiche pronte a dire la verità teorica sul porno in base a due o tre film visti, alla loro fattura, al loro montaggio, al loro “pubblico”. Qualsiasi riga di Bataille è infinitamente più “sapiente” di queste analisi prodotte di corsa per sfruttare gli ultimi bagliori delle fiammelle rosse. Qualunque esperienza (o invenzione di esperienza) dell’hard parla più chiara­ mente di un’analisi e di una teoria che, per cominciare, si illudono di aver tro­ vato il proprio testo, anzi di averlo addirittura “visto”. Nessuno improvviserebbe un discorso svi!'erotismo (pane degli anni cinquanta/ sessanta, al cinema come fuori) senza acquisire dati, senza moltiplicare le visioni, senza “recensire” e reperire gli oggetti e i testi più disparati. Ma la pornografia, si leggerà e si sentirà sempre e ovunque, è il regno dell’uguale, della ripetizione coatta, della noia, della piattezza. Un coito è un coito, visto un film li hai visti tutti. Spezzare questa ideologia dell’opposizione erotismo/pornografia è il presuppo­ sto di qualsiasi discorso sull’hard. Perché la pornografia sarebbe fuori del di­ scorso, sarebbe automatismo “naturale”, vile riproduzione meccanica, eccetera. Il “discorso” sarebbe tutto dalla parte dell’erotismo, figura ideologica tutta raffi­ natamente costruita sul versante del vuoto, della sottrazione, dell’allusione, del gioco del desiderio che cerca il suo oggetto (perduto anche se pensabile). Al di là della confusione e insensatezza terminologica di comodo, conviene ignorare que­ sta dicotomia aprioristica, buona per i pasticci dei censori o per la colpevole “fa­ cilità” dei critici. Lo spartiacque è allora davvero il mostrarsi o meno degli or­ gani sessuali in azione, ma questo di per sé non determina alcuna differenza nei film, riguardo all’erotismo. In un certo senso, secondo i grandi apocalittici da Hofmannsthal ad Adorno, tutto il cinema fu subito ed è pornografia, riprodu­ zione hard del mondo in azione della gigantesca oscena o meravigliosa (come il corpo) macchina mostrata nel suo movimento. Volendo mantenere la terminologia, si parlerà non di erotismo/pomo ma di ero­ tismo nel pomo. Il porno infatti è percorso e fondato da infinite differenze (volti, corpi, luoghi, combinazioni), non minate dalla ripetizione dei gesti e delle situazioni, come la ritualità del western non è certo sminuita dal ritornare conti­ nuo delle storie, dei luoghi, dei topoi.

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7 - Ma è vero che per esempio il décor tende a scomparire; anche quando la sce­ nografia è curata e variata (Odyssex di Damiano), il suo ruolo è quello di permet­ tere di apparire meglio all’hard, o di enfatizzarlo per contrasto, evocando luoghi “proibiti” o tabù. Il fuoco è sempre dove gli organi lavorano, e il décor è ingom­ bro, eccesso, contorno su cui l’occhio si chiude per isolare quel fuoco. 8 - Non c’è dubbio infatti che l’hard sia diverso, che non sia “un genere come gli altri, sia pur particolare” (è di solito la posizione delle anime belle che lottano contro il ghetto e la censura). Il suo rapporto conflittuale con i “luoghi” (le sale), il suo mutare continuo di testo (una fellatio in una regione americana, una sodomizzazione in un’altra, magari una scopata a Roma e di nuovo una fellatio a Mi­ lano, il tutto secondo uno scivolare incerto tra preferenze dei distributori locali o divinazioni da parte del regista-produttore nei riguardi dei gusti dei diversi pub­ blici o della maggiore o minore permissività dei magistrati), in definitiva la sua costituzionale “incertezza” unita alla certezza di ciò che si vede, lo confermano come discorso impossibile. Non uno o due modi di leggere l’hard allora (freddo/ caldo, scientifico o da appassionato), ma tre o mille, comunque tutti sospetti, ag­ ganciati alla macchina pazza (perché è perfetta ma non risponde) che è il corpo. Recuperare un po’ dell’ingenuità che “non fa differenze”, ma solo quella di De Niro in Taxi Driver, che invita Cybill Shepherd al cinema, il che per lui equivale in tutta naturalezza a portarla a vedere un hard - che la disgusterà. Per parlare di hard questa ingenuità è necessaria, unico modo per superare l’impossibilità di farlo e per scoprirne le attrattive: come per il non meno assurdo “parlare di sport” (o di..). Meglio fingere questo che non la freddezza o l’intelligenza dell’a­ nalisi. Tentare invece una doppia deriva. Un’immersione nell’hard, non in apnea con riemersione periodica all’aria, ma portandosi dietro le bombole, per diventare un po’ pesce. Entrare nella sala e vedere un hard diventa allora solo il primo passo. Bisogna tornare, sempre meno motivati dallo studio e dalla curiosità anali­ tica. Sempre più vicini al desiderio di vedere quei film sempre più vicini a se stessi, come macchina consumatrice che ciecamente vuole soddisfazione. Evitare soprattutto i due possibili razzismi, nella visione e nell’analisi. Il “sopo oggetti come gli altri” del semiologo, del mediologo, del sociologo, dell’effemerologo, che non si pone in causa, non si confessa o immagina o suppone “annesso”, ma si limita ad annettersi l’oggetto (voluto e goduto solo dagli “altri”) per studiarne e mostrarne le curiose particolarità o le ovvie banalità, evitandone le diversità e l’ambiguità. O restare alla mitologia dell’altro, del diverso, del trasgressivo. Razzismi che sono errori. Primo, perché non si possono dimenticare le differenze del porno come se la fruizione di esso non avesse ima storia interdetta. Secondo, perché al­ l’interno di sé come genere, l’hard è proprio il genere che ammette meno tra­ sgressioni, deviazioni, disgressioni. Trasgredire l’hard vuol dire porsi automaticamente fuori di esso e non, come avviene di solito, esaltare o dimostrare la norma. (Altro vantaggio teorico del termine hard che pone uno spartiacque abbastanza preciso dentro la storicità evolutiva della “pornografia”.) 155

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Forse prima di tutto è importante rivendicare la censura e l’anatema e il ghetto che sempre hanno colpito o isolato il porno, catalogando anche in medicina la passione pomografica tra le perversioni, i disturbi mentali, l’incapacità a “vivere serenamente il sesso”, eccetera. Un passaggio da non rimuovere mediante l’ade­ sione analitica o la constatazione di una liberalizzazione. Davvero poco rigoroso sarebbe normalizzare questa definizione sociale del pomo come perversione, solo in nome AeXPevidenza nella sostanza pomografica oggi di tutto il reale e di tutto l’immaginario (che anzi coincidono, il che poi potrebbe essere - filosoficamen­ te-la definizione vera della pornografia e dell’hard). Soltanto l’esemplare conosce l’immagine, e soltanto l’immagine conosce l’esemplare, Matth. Il: “Nessuno conosce il figlio se non il padre, e nessuno conosce il padre se non il figlio”. E ciò avviene perché l’essere è uno, né c’è cosa diversa da esso. Sono gli stessi i principi dell’essere e conoscere, né si può conoscere alcunché per mezzo di altra cosa. Queste e molte altre cose simili si rendono chiare se si paragona il giusto alla giustizia, l’ente al suo essere, il buono alla bontà, e in generale il concreto al suo astratto. Ciò che s’è detto dell’immagine è apertamente compendiato in Sap. 7, dove si dice che la sapienza o verbo di Dio è “specchio senza macchia”, “emanazione” “sincera di Dio”. An­ cora, che è “immagine della sua bontà” e che “nulla di impuro cade in essa.” Ed anche, che è “soffio della virtù di Dio” e “candore della luce eterna”. Se qui si dice: il verbo s'è fatto carne e abitò fra noi, in seguito, al cap. XVI (Joh. 16, 22) è detto: “Io vi vedrò nuovamente”. Vide infatti come fatto carne, e vede di nuovo abitando in noi, Luca: “Il regno di Dio è tra voi” e Is. 7: “Una vergine concepirà e partorirà un fi­ glio”, in riferimento a Cristo, “e sarà chiamato Emmanuele”, cioè “Dio con noi", in riferi­ mento a ciascuno di noi: chi è figlio dell’uomo diventa figlio di Dio, Cor. 3: “Siamo tra­ sformati nella stessa immagine di splendore in splendore, come per opera dello spirito del Signore”. Non si deve immaginare erroneamente che Cristo sia figlio di Dio in forza di una certa figliazione e di una certa immagine e l’uomo giusto e deiforme sia figlio di Dio in forza di un’altra. Dice infatti: “Siamo trasformati nella stessa immagine”. Inoltre, per quanti specchi si mettano innanzi al volto o alla faccia di un uomo, si formano da quell’unico viso (immagini tutte eguali). Dobbiamo osservare che, se la specie o immagine, per la quale si vede e si conosce la cosa, fosse altra dalla cosa stessa, giammai per essa né in essa la cosa si conoscerebbe. Inoltre, se la specie o immagine fosse del tutto indistinta dalla cosa, non servirebbe af­ fatto per la conoscenza. E perciò necessario che sia unum, non unus-, * unum* affinché si conosca per mezzo suo, “non unus* affinché non sia vana e inutile per la conoscenza. Per questa ragione il figlio, immagine del Padre che lo esprime e lo manifesta, dice “io e il Padre siamo una cosa sola”: “una cosa sola” per l’identità naturale, “siamo” per la distin­ zione personale dell’immagine e di ciò di cui è immagine. Perciò si dice: unigenito, cioè uno, ma generato, e perciò non unus, in quanto è nel seno del Padre e lo ha manifestato. Ecco perché il simile si conosce per mezzo del simile; ché la somiglianza è unità nell’alterità.

L’immagine ha tre caratteristiche. Primo: se è perfetta nulla le manca di dò di cui è im­ magine. Secondo: nulla di diverso da dò di cui essa è immagine è presente in essa. Terzo: essa è espressione formale dell’esemplare, e non soltanto effetto. Meister Eckhart, La nascita eterna, Sansoni 1974, pp. 47-63

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9 - In my heart's core: “Nel profondo del mio cuore”. Core: centro, anima, cuore. CONFUSIONE dell’hard e dall’hard. Distanza e vicinanza dal resto del cinema. Contaminazione. Esclusione. Ma anche apertura e confusione col fuoricampo: John C. Holmes superdivo dell’hard (nuovo divismo e lampante esempio di “ri­ conoscibilità delle differenze”?; pubblicità italiana di Jade Pussycat, primo piano di un pene eretto, voce: “Lo riconoscete? È il vostro John C. Holmes”) arrestato pochi mesi fa perché trovato colpevole di diversi omicidi (rituali? erotici? per ra­ pina?), in omaggio alla sua grinta cattiva di volto e di corpo; Joe D’Amato che dice delle attrici “praticamente sono prostitute”; o che racconta di come spesso le “artiste” del Volturno di Roma - locale di varietà con punte di spogliarello “quasi hard” solo femminile - facciano poi le attrici nei suoi film, e di come il pubblico del film e del teatro sia lo stesso e si diverta al gioco tra hard e soft che corre tra le due rappresentazioni; la sentenza californiana che indica la possibi­ lità di incriminare per prostituzione (adescamento o incitamento alla) gli attori e tutta la troupe di un hard, perché “si pagano delle persone perché si prestino a attività sessuali”. 10 - Contaminazione dell’hard verso un leggersi hard del cinema. La signora della porta accanto di Truffaut: mi sorprendo a chiedermi se, la sera prima di quella scena d’amore (castigatissima) Dépardieu e la Ardant avranno magari fatto dav­ vero l’amore. Estremità fuoricampo di una domanda che da sempre interroga il set del “cinema normale”: da bambini quando ci si chiede o si pensa se davvero Cary Grant ama la Bergman in Notorius, fino a quando si allude dai rotocalchi con allusioni o questioni indiscrete - alla possibilità che davvero Corinne Cléry, o Silvya Kristel, col loro partner di fronte alla m.d.p., anche se “non si vede”.. 11 - Linda Lovelace parlando (in una delle sue due o tre autobiografie tutte vere e tutte apocrife) di un’orgia nella piscina di Hugh Hefner (il fondatore di Play­ boy): “Era come quando, nei vecchi film di Fred Astaire, tutti i ballerini si ferma­ vano e facevano cerchio intorno a Fred e Ginger.” Sempre la Lovelace: “Nean­ che una volta pensai a Gola Profonda come a un vero film. Cioè come a un film di quelli veri. Avevo passato la vita a guardare attrici come Susan Hayward, Claudette Colbert e Bette Davis, e sapevo che neanche morte o mezze morte queste donne avrebbero mai messo piede sul set di un film come Gola Profonda. Forse è per questo che non mi sono mai sentita un’attrice, neanche in mezzo ai riflettori e al ronzio della macchina da presa.” Parallelamente Marilyn Chambers racconta di aver lavorato con sollievo nelVhard, che “era vero”, dopo un’esperienza nel cinema hollywoodiano con una particina in II gufo e la gattinà, con Barbra Streisand e George Segai, “dove vole­ vano che fingessi di far l’amore mentre stavo in calzamaglia coperta sotto un len­ zuolo..”. L’universo cinema-hard viene ancora vissuto dai suoi interpreti e dai suoi autori, come una necessità infernale o paradisiaca (Chambers), ma comunque chiusa e isolata in una propria ossessione. Damiano si stupisce che cineasti come Cassave­ tes si congratulino con lui. Gli piace “fare cinema”, vi si appassiona, è un maestro

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della messa in scena dell’isteria femminile, ma non sa chi è Cukor. Gran parte dell’hard sembra vivere nell’asfissia, eppure è il genere mediamente coinvolto in una riflessione su di sé in quanto “cinema” (da Pomoexhibition a Luxure è soprat­ tutto il cinema francese a porsi come meta-hard; vedi la stupenda Karin Gam­ bier, pomodiva in vacanza nel film di Pecas riconosciuta da un ammiratore al quale chiede: “Cosa è che ti eccita in più quando mi vedi al cinema? Il fatto di vedermi fare l’amore in "scala’ più grande, in un’immagine "grande’, più grande delle mie reali dimensioni..?” Ma anche il cinema americano: dallo stesso Da­ miano con il geniale film di “marionette” Let My Puppets Come a Radley Metz­ ger con I pomeriggi privati di Pamela Mann. E anche in Italia c’è stato per esem­ pio Pomovideo..). 12 - Somiglianze, strutturali o teorico-ideologiche, con altri generi l’hard ne ha. Alcune precisissime: il documentario (didattico o no), lo short pubblicitario, il film di propaganda (ma anche quello drammatico-politico). Insomma, con tutte le pratiche filmiche che rinviano dichiaratamente a effetti o motivazioni pre o post-filmiche, comunque extra. Pratiche poco indagate ma che nella loro appa­ rente unidimensionalità chiariscono “il cinema” assai più delle dominanti narra­ zioni-narrazioni. Rispetto a esse l’hard si pone di sbieco, con qualcosa di cia­ scuna (soprattutto del cinema pubblicitario: basta entrare in un “luci rosse” e ve­ dere un hard subito dopo la sfilata delle pubblicità - che son tante, perché solo l’hard ha un pubblico medio sicuro - per constatare le affinità proprio “stilisti­ che”), restando in più - da lungometraggio - nel campo della narrazione (di sto­ rie (e) di corpi) e anche in essa contaminandosi con generi che appaiono vicini (il mèlo, il fantastico., quelli alle estremità nella scala degli ipotetici “realismi”). (A suivre.)

13 - Cosa accade poi al cinema nel momento in cui una scena d’amore (da sem­ pre filmata) diventa hard mostrando gli organi in funzione.. Cosa cambia? Che qui sia uno dei misteri del cinema (o dei segreti; insomma, uno dei luoghi in cui capire come funziona) lo testimonia l’accanimento con cui negli ultimi anni pro­ prio il cinema delle differenze, quello degli autori, insegue l’hard, lo scruta, lo desidera, lo tallona, lo assaggia, lo critica o lo cita: da Vecchiali a Eustache, da Bertolucci a Godard, da Makavejev a Scorsese, da Demy a Dwoskin, da Zulawski a Warhol, da Fassbinder a Kazan.. Come tentativi di perforare il cinema impa­ rato e amato per toccare una qualità hard (quella che, senza hard, attingono gli Herzog e i Cimino..) Per scoprire perché - in effetti - filmato diversamente che sia, un coito ci sembra e ci colpisce come “un coito” prima che come “quel coito”. E perché solo l’enu­ merazione infinita e ossessiva, la ripetizione dell’uguale combinato senza tregua (Sade), possano infine permettere di discernere le differenze, ben sapendo che sono fittizie, e appunto prodotte come effetto di finzione, narrazione, stile, im­ magini (di nuovo: il mondo-hard spogliato non è forse questo? vedere che il mondo è immagini e che le immagini sono dure, che appunto - come tutto sem­ bra ripeterci, in modo ben disonesto e inavvertito, nell’hard - “tutto è uguale”)..

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14 - “I nomi sono importanti” dice una protagonista in Alpha Blue di Damiano. Lovelace, col suo nodo curioso (love-lace), è un esempio. Più esemplare la gene­ ralizzata e globale mascherata di nomi sotto cui si traveste l’hard, in un’incer­ tezza vertiginosa di identità, raddoppiata dagli insert, triplicata dai falsi, infinitiz­ zata dall’inafferrabilità del testo di un lungometraggio hard, mai stabilito e sem­ pre affidato al last cut del proiezionista; in una circolazione di soggetti all’opera cui partecipano il regista come lo spettatore feticista che ottiene dal proiezionista il fotogramma della pornodiva preferita. In un definitivo trucco per cui l’hard è nei fatti un proteo, non certo un bastone facile da manipolare, ma anzi un og­ getto fallace che scivola e si muove in mano e sotto la penna, cambiando forma, producendo lapsus.. (E lì difatti si situa l’hard, in bilico tra il realismo macabro dello snuff - i film (ma esistono davvero?..) in cui si mettono a morte parteci­ panti a party sessuali sadomasochisti.. - e il trucco del fantastico; del resto il più noto dei “trucchi”, il disegno animato, negli ultimi anni si è a sua volta in qual­ che modo hardizzato con l’abitudine sempre più diffusa di “ricalcare” corpi foto­ grafati..) 15 - Come quando si ripetono le parole fino a perderne il senso nel puro svol­ gersi del suono. Qualcosa del genere, quando una fellatio (in Alpha Blue) viene mantenuta in primo piano, tre bocche e un pene eretto, per vari minuti: un mo­ vimento costante e ripetuto, fin quando non si perde l’equilibrio e il senso dello spazio (come sono messi i corpi? chi è sopra e chi sotto?) e infine gli organi sem­ brano solo esistere, galleggiare, ma neanch’essi riconoscibili e nominabili, pure forme erette o aperte, distese o socchiuse. Pure figure oltre l’hard. Organi senza corpo (cioè che né sembrano appartenere a un corpo né esse appaiono corporee a quel punto). Un hard che muore di durata. Morte, durata. Termini sempre in gioco nell’hard. La durata è al centro dell’opposi­ zione baziniana montaggio/piano-sequenza. E l’hard, per certificarsi (il film hard) ha bisogno di durata, di piani-sequenza che garantiscono la realtà della perfor­ mance. Ma il montaggio, oltre a contribuire alla costruzione drammatica del film, ritorna soprattutto e si afferma nelle pratiche che producono il cinema pomo, le già dette manipolazioni che producono e formano l’insieme dei suoi testi. Durate fittizie, con ombre di morte per esaurimento; come quando una fellatio viene abilmente montata fino a mostrare un corpo inesauribile o una bocca insa­ ziabile. Fiato sospeso, paura che qualcosa si spezzi o “muoia”.. Finzione tanto spesso reclamata dell’hard, in nome dell’invisibilità dell’orgasmo maschile all’in­ terno della vagina. Come dire che un inseguimento automobilistico in cui non si vede l’interno è “finto” (il che in parte naturalmente è vero..). Impossibile mo­ strare l’interno come riconoscibile eccitante, si mostra l’eiaculazione “fuori”. Cu­ riosa e ulteriore hardizzazione teorica dell’hard, per cui ciò che “si dovrebbe mo­ strare” (per esser veri? per essere eccitanti?..) sembrano essere gli organi non solo al lavoro, ma addirittura impegnati in quel lavoro: la fecondazione, la genera­ zione. La generazione, sì, è davvero invisibile come processo raffigurabile e cioè confrontabile con immagini precedenti; lo si può solo simbolizzare (disegni) o

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microfotografare. Ma non rientra nell’eccitazione prodotta dall’hard (del resto l’eccitazione stessa non è simulata dal o nell’hard, ma è proprio ri-prodotta (per una volta è il termine giusto) da esso). In questo senso il centro e il cuore dell’hard-core non esiste, non è un oggetto, è piuttosto uno stato o un movimento.

16 - No-core. Il luogo nero non si mostra, per definizione. È la camera oscura che pone così vicino il processo filmico a quello della generazione e che infine impedisce che si mostri fino in fondo. Il buio che fonda l’horror, forse il genere teoricamente più filmico appunto perché propone giochi all’interno del buio ori­ ginario. E che è escluso dsSYhard in quanto genera tutto all’interno della soglia della visibilità, rigorosamente preservante l’invisibile e il nero (a perforare il quale, in cerca esattamente della generazione di corpi-immagini dal nulla, è giunta la meteora di Lynch con Eraserbead e Elephant Man), il prima e il dopo della vita in cui la vita si fa o si produce. Oppure.. 17 - “Close your eyes, and You will see.” Così dice Damiano in campo rivolto a Georgina Spelvin nel folgorante capolavoro The Devil and Miss Jones. Lei è già sola, nell’inferno che la condanna solo alla masturbazione o alla fantasia.. L’accecamento, la voglia di chiudere gli occhi dopo averli spalancati come un or­ gano di suzione, sono le istanze ultime nascoste nella visibilità hard. Una sorta di movimento ultimo e utopico oltre il cinema e la “volontà di vedere”. Dall’occhio spalancato del sesso agli occhi chiusi o socchiusi o comunque fissati solo nello specchio accecante degli occhi dell’altro: gli occhi dell'amore (forse) che cercano solo altri occhi e non hanno bisogno di vedere altro perché (sovranamente, Char) forse “sanno”. Anche fisicamente e tecnicamente, l’accecamento o la chiusura/schermatura de­ gli occhi viene mostrata spesso proprio in una delle punte dell’yard, il cum-shot*, con lo sperma che tocca gli occhi, li avvolge, li esige ma insieme li revoca co­ prendoli. Fondamentale e prima vicinanza col melodramma, proprio con quello più bagnato (con quanta proprietà gli imbecilli parlano di “pornografia dei senti­ menti”..), quando di nuovo gli occhi coperti di lacrime si chiudono, e a volte an­ che cento o mille occhi del buio della sala si velano, riconoscendo il mondo o ri­ conoscendo di non conoscerlo.

[.Filmcritica, 326-327, 1982]

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Termine brutale ed esatto certamente più hard di qualsiasi altro.

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Il 1941 secondo King Vidor

Prima di tornare a Boston, per ridiventare fino in fondo il molto onorevole Mister Pulham (fino alla morte) Robert Young lavora a New York con Hedy Lamarr in uno studio di pubblicità; è lo stesso lavoro di James Murray. Il protagonista de La folla, 1928, tredici anni prima. E il prodotto per lanciare il quale Harry Pul­ ham incontra e ama Marvin Myles (Hedy Lamarr, appunto, stupenda) è un sapone. Tra pochi anni, la televisione si identificherà in parte col sapone (e con la pubblicità): le soap-operas. È solo una risonanza, una delle tante, casuali, e/o calcolate, emesse dallo straor­ dinario film di King Vidor in onda stasera sulla Rete tre ore 20,40: Il molto ono­ revole Mr. Pulham. Una delle più incredibili intuizioni che rendono il film uno dei più anomali e insieme rappresentativi reperti del cinema e del “mondo ame­ ricano” che ci siano mai arrivati. Cinema americano né del dopoguerra né di an­ teguerra, 1941; è quasi guerra anche per gli USA. 1941. Quarantanni dopo un al­ tro film anomalo e solitario rappresenterà e inventerà magnificamente l’apoca­ lisse del cinema americano, mescolando catastrofe, commedia, demenza, so­ stanza filmica d’America, nostalgia.. Nel film di Vidor (tratto da un notevole romanzo di John P. Marquand, analisi fine del ceto abbiente bostoniano, l’alta borghesia colta, spiritosa, lievemente ot­ tusa, europea..), la guerra è ugualmente la follia ridicola che non riesce a smuo­ vere la noia, e l’eterno, ritorno delle colazioni mattutine in casa con davanti il giornale che un giorno titola le minacce dei nazisti a Roosevelt, un giorno quelle di Roosevelt ai nazi. Ma non è solo la guerra ad apparire un evento ripetuto (Pulham ha combattuto nella prima mondiale..). In questo film che rilegge a occhi aperti tutte le se­ quenze del “sogno americano” tante volte ricordate e sognate dallo stesso Vidor. La vita di Pulham è scandita da un metronomo (lo stesso con cui Vidor ritmava i suoi film muti), è “vita” ma: la vita non vive. Il buco che si apre nella sua vita in occasione della biografia da stendere per una delle terribili “feste annuali” tra gli ex compagni di college, è per Pulham una fuga di poche ore (una notte al tavo­ lino) in un passato ricordato che - rimpianto - non è tuttavia mai soffio ma anzi incubo, per la necessità con cui le singole mosse, dalla nascita al college, allo sport, alla guerra, al matrimonio, si succedono. Le opzioni capitalistiche non sono poi infinite. 161

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Quando il futuro alto dirigente di banca bostoniano lascia l’amore newyorkese di Hedy Lamarr emigrata dall’Est (peraltro), si pensa per un attimo che si è avuta una vera rottura, che la decisione di lei di non seguire lui nella sua casa di fami­ glia a Boston sia una scelta diversa. Ma le due strade si riincontrano alla fine in un punto uguale. Anche l’amore era stato una vacanza dentro il capitale (pubbli­ cità, pubblicità..). Ciò che si ricordava come “autentico” e come amore, sembra non ripetersi, non ne ha bisogno. Le merci lo testimoniano: il disco-ricordo (“il nostro disco”)., smiagola sul grammofono in modo orrendo e i due ex amanti hanno avuto la stessa idea banale: una bottiglia di champagne. Ambiguità tripla del “siamo uguali”: non lo sono più perché sono vecchi, lo sono ancora perché stanno ripe­ tendo.. (non) lo sono perché sta per iniziare un’altra vacanza (con la moglie, col marito). E non si ricordava da Griffith (e poi non si è ripetuta) una lucidità americana più precisa, quadrata, affascinante e perfida.

[il manifesto, 20 gennaio 1982]

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Scanners, struttura della paura. L’incubo di sentirsi ascoltati

Videodrome si intitola il prossimo film di Cronenberg, di prossima uscita in Ame­ rica. Non so quali immagini o quali storie correranno nel videodrome, in ogni caso Cronenberg conferma di essere un cineasta “moderno” già a partire dalla scelta dei temi e delle trame. Scanners infatti è un titolo non meno televisivo di Videodrome, a ben vedere. Scanner, dice il dizionario, sta per “analizzatore”, “di­ spositivo di esplorazione”, ed è un termine tecnico usato nella manutenzione te­ levisiva. Nel film, gli scanner sono esseri dotati di una fortissima telepatia e di ca­ pacità di intervenire sulla psiche e sul corpo delle altre persone. Scanning, inoltre, vuol dire “scansione dei versi”, oltre che - di nuovo in televi­ sione - “analisi”, “esplorazione”, “scansione”. E che sia una cosa ben diversa dalla forma di telepatia soft e luccicante che ab­ biamo sentito chiamare Shining, Cronenberg lo dimostra subito. Nel giro di cin­ que minuti, un crescendo violento di effetti di ogni tipo e il culmine nell’effetto degli effetti oggi al cinema, il più vicino alla “menzogna assoluta” (quel morto è vero o falso?-, domanda insulsa o atroce), l’esplosione della testa, il cervello in frantumi. Da quel momento l’intrigo è letteralmente scandito dalla paura. Non solo paura per le sorti del protagonista, o per gli ulteriori effetti che la produ­ cono seguendo i principi della meccanica dell’orrore. Paura per se stessi, una delle cose più rare al cinema, oggi, così generalmente funzionante piacevole e pe­ ricoloso ma così poco coinvolgente in prima persona. Da quel momento, ogni incontro tra scanners si ha paura che diventi uno scon­ tro, ogni scontro si ha paura che arrivi all’epifania della testa in mille pezzi. Straordinaria audacia nel produrre una tensione inaudita sparando subito l’ef­ fetto massimo. Effetto: ciò che dovrebbe venire “dopo”, per definizione. Ma qui tutto il film è - al contrario - causa dell’effetto. Addirittura lo scontro finale e decisivo tra i due scanners massimi e “fratelli” è montato con una singolare eco­ nomia di effetti, con un pudore inatteso a quel punto, indizi e inizi di effetto. Il rozzo, il violento Cronenberg che certo non sa girare come De Palma (l’unico dei cineasti americani nuovi o seminuovi di modernità tematica paragonabile a quella del canadese Cronenberg), e che certo non ha i mezzi di De Palma, si at­ tacca direttamente alle strutture della paura. Per Cronenberg il corpo è subito e di per sé il luogo dell’avventura, della storia, della narrazione e del cinema. Nel Demone sotto la pelle, come in Rabid o in 163

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Brood, è sempre il corpo lo spazio in cui si produce l’orrore, l’effetto speciale grado zero, il trucco numero uno (come insegna Lon Chaney), il forziere di tutte le forme aberranti e di tutte le forze, psichiche o fìsiche, endogene o esogene che siano. Qui il cervello è solo la rarefazione del corpo, la sua concentrazione nel posto del comando, la sua localizzazione nel punto più complesso. L’apparente ingenuità del plot o il “basso profilo” dei personaggi sono allora un tocco geniale di verosimiglianza politico-strutturale. “Mi sento trasparente, un vetro”, dice il protagonista: è ovviamente l’incubo di sentirsi letto e ascoltato nel cervello (e, insieme, di subire nel proprio cervello tutti i pensieri della gente circostante, come un gigantesco e insopprimibile fruscio che solo si interrompe quando lo scanner assume un farmaco chiamato Ephemeral). L’inadeguatezza del soggetto (più ancora che nei sublimi fanta-politic-thriller di un Pakula) a comprendere le sue stesse azioni e i suoi stessi poteri. 11 potere non può essere del soggetto. Contro ogni mitologia del paranormale alla Stephen King. Cronenberg col suo stile televisivo e “grosso”, visualmente di rado inven­ tivo, piazza lo scanning a livello del computer come del complotto politico. [z7 manifesto, 25 maggio 1982]

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Come si aliena un film nel palinsesto

Henry Langlois, il direttore mitico della Cinémathèque di Parigi disse un giorno (a Bertolucci) che la sua sala aveva uno schermo così grande per poter contenere i film di Rossellini (e di Renoir), le cui inquadrature parevano sempre in espan­ sione, pronte a prolungarsi verso Paltò, o verso il basso, a destra, a sinistra. La televisione, come è esistita fino a oggi e come esiste in questo momento, sembra fatta apposta contro quei film, imprendibili e imprevedibili come i mostri di Dark Star e di Alien, che cambiano forma e magari tenderebbero a sfuggire lasciando lo schermo vuoto. Qualsiasi televisore, anche il più piccolo da polso, può ridurre a sé qualsiasi film (se il cinema per Kafka era “prigione degli occhi”, cosa sarebbe stata allora la televisione che è “prigione del film”?). E evidentemente il massimo di con­ flittualità tra la tendenza esplosiva di un certo cinema e quella implosiva del mezzo TV si ha quando in televisione passa un film come Europa '51 (che poi finisce con una donna che esce dalle sbarre restando in carcere). Ma il conflitto non è mai stato serio. Tra discussioni e problemi di forme, conte­ nuti, durate, lunghezze, tagli, censure, colori, non è mai stato centrale, per defi­ nizione, il problema del bordo, della decisiva buccia o crosta della forma: il for­ mato. Lasciato alle fissazioni dei maniaci della proiezione “perfetta”, la questione forme/formati è da sempre trascurata in sede critica e teorica, pur restando il caso più clamoroso e in un certo senso misterioso di stabilità conservativa all’in­ terno dell’evoluzione del cinema. Il dominio della forma-rettangolo (dal quadrato alle varianti panoramiche su base larga) non è quasi mai stato intaccato. Eppure il luogo più vicino all’oltre del cinema, il confine, il limite, è appunto il bordo del fotogramma. Ed è sintomatico che gli Zeffirelli vadano in bestia solo perché i loro Romei e Giuliette vengono spezzettati dai caroselli (o integrati, ché sono innumerevoli ormai - quando il buon vecchio bianconero non aiuta - i casi in cui i margini dello spot si confondono con quelli delle sequenze del film, Giu­ lietta con “la giulietta”, Romeo con la Panda o con la Ritmo, e si ha un attimo di sovrapposizione, di identità “stilistica” superiore..) in modo non previsto o con­ trollato dall’autore; come se fossero loro gli autori e i controllori del palinsesto, come se i loro film non fossero merce (intera o a fette) ben venduta. E come se il vero scandalo (del cinema sulle reti private) non fosse quello della dilatazione di un film medio che finisce per durare “tutta la serata” rovesciando in modo totali­ 165

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tario quella che può essere la comodità economica (risparmio di tempo e movi­ mento) del non “uscire” per andare al cinema. La pretesa degli Zeffirelli sarebbe di andare contro il vento imbarbarimento soffiando nelle vele dell’autore che (“in America sono più accorti, ti fanno sce­ gliere dove inserire la pubblicità”..) decide da sé solo quando e quanto imbarba­ rire. Appare ridicola infatti l’illusione di mantenere al film la sua forma, già in­ taccata e modificata, ciò che ha di più specifico, il tempo, E non solo dagli inserts pubblicitari; è noto che in televisione tutti i film durano di meno, sono più corti perché passano alla velocità di 25 fotogrammi al secondo invece che a 24 (ed è giunta dagli USA - il tempo è denaro - la notizia del time-compressors che po­ tranno comprimere ulteriormente e pillolizzare - ma sempre impercettibilmente - i film “troppo lunghi”, non conformi alle pezzature su cui si calcola la pubbli­ cità). Ogni ora sono due minuti e mezzo che mancano in TV, e proprio non ci si accorge perché quel venticinquesimo di secondo è inafferrabile, è un furto subli­ minale di cinema, di azione, di movimento, un sorriso di Marilyn Monroe in meno o più corto.

Seconda parte, I film invecchiano o ringiovaniscono, passando in TV. Si ricolo­ rano o ricoloriscono, diventano rossi o giallini, e vengono continuamente “li­ mati” dal tempo televisivo. In questo senso in Italia l’attuale concorrenza televi­ siva non gioca certo al miglioramento della qualità: la qualità del colore di un film o lo stato stesso di una copia sembrano raramente rientrare nella soglia di percezione del pubblico: spesso hanno trionfato nell’indice di ascolto superbi melodrammi gialli o avventurosi verdastri. Ma la cosa davvero sempre più diffusa è quella di un mutamento forzato della forma stessa del film. Qui la “colpa” (se colpa fosse) non è di un tecnico distratto o di un disguido per cui una notte “troppo scura” viene rischiarata dalla mano­ pola dell’addetto solerte o un azzurro Columbia viene giudicato “inaccettabile” in base a criteri insondabili. Si sa che il cinemascope, il panoramico, ha sempre subito la tortura televisiva. Le “ali dell’inquadratura” venivano e vengono per forza mozzate, a volte un prota­ gonista si rivolge al vuoto. Walsh diventa Bresson e magari viceversa. Tanto spesso ciò accade da non essere più notato se non quando scorrono i titoli con pezzi di nomi e tronchi di cognomi. Registi intelligenti come John Milius o Dario Argento (Inferno) rifiutano già nelle riprese il formato grande per evitare di vedere in TV un film “diverso”: le major preparano i film per il piccolo schermo. “Tu passerai per la TV”, e il film viene modificato in modo quasi indolore. Prima dell'uragano di Walsh, L'uomo che fuggì dal futuro di Lucas, L'appartamento di Wilder, sono esempi di film che sulle reti pubbliche e private sono passati nella versione “quadrata”, e che sono arrivati alle reti, dopo l’acquisto, già così, in co­ pie magari ottime e molto più complete di quelle magnificamente “scope” che eravamo abituati a vedere nelle sale. E il procedimento dello scanning, ormai sempre più diffuso, che per evitare la striscia nera sopra e sotto e il rimaneggiamento laterale dello scope-TV viene ap166

Come si aliena un film nel palinsesto

plicato sul film. Non è facile accorgersene, il risultato è abbastanza indolore, il film viene, con particolari apparecchiature, “rifilmato”, rifotografato: una spe­ ciale macchina da presa inquadra l’immagine già girata, scegliendo la porzione di immagine più necessaria alla logica del film (?). Di volta in volta, viene mostrata questa o quella parte, in modo che l’inevitabile "taglio” coinvolga parti marginali (?) e l’inquadratura mantenga il più elevato contenuto di informazione. Il lavoro è fatto in genere molto bene, il film scorre liscio (in effetti è più liscio), a volte sembra perfino più essenziale: certo ogni tanto ci si chiede (con registi più decorativi come Minnelli) come mai si passa da un totale a un altro molto si­ mile (con sgradevole effetto), o da un primo piano a un altro solo lievemente dif­ ferente. E quanto il regista aveva appunto giocato sullo spazio dell’inquadratura lasciando magari i personaggi in campo lungo ma modificando il punto di vista e mettendo in risalto un’altra prospettiva; differenze che lo scanning appiattisce e fa apparire errori. Anche qui non c’è quasi nulla di scandaloso. Difficile sostenere che la strisciolina allungata ma tronca della soluzione "scope” sia più vicina all’originale, all’effetto voluto dal regista o dal produttore, o addirittura alle "proporzioni.” Come ognun sa, e Bogart ricorda, una figuretta di donna alta dieci centimetri è molto comoda da portare in tasca, ma baciarla è un’esperienza radicalmente diversa da quella “con dimensioni naturali”. Forse più preciso - quanto alle proporzioni sarebbe il film in scope ancora più isolato dentro il video, un rettangolino inte­ gro col nero non solo sopra e sotto ma anche ai fianchi. Il discorso cambierà col diffondersi degli schermi TV giganti, del videobeam, den­ tro i quali isolare i formati e, addirittura, giocare a “formare” l’immagine. Lo scope fu una carta d’urto per la sopravvivenza del cinema che sembrava morire in America per mano televisiva. Molti film degli anni cinquanta/sessanta erano in scope e a colori solo per poter saziare e mantenere il pubblico del drive-in. I film Alp del ciclo-Poe, con Vincent Price e diretti da Corman, tutti scope e con le splendide scenografie di Daniel Hammer sono stati acquistati dalla terza rete, e le copie migliori giunte dall’America quasi tutte sono quadrate. Non credo che Corman se ne lamenti. E così, senza troppi orrori per il pubblico, i film diventano lentamente scanned (non da “scannare”, ma da “scan, scanning1, “analisi, lettura elettronica”), la TV funziona come un grande scanner.

[il manifesto, 6-7 luglio 1982]

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Rolling Godard simpatia per il diavolo

La persona che mi porta le cassette di Sympathy for the Devil, proponendone l’acquisto (siamo in un ufficio Rai) mi dice: ttSì, è un film datato, 1974, credo, ma forse può interessare in questo momento: ci sono i Rolling Stones..” Obietto che mi pare ancora più “anziano”, come film, lì per lì azzardo un 1970; comunque, quando l’avevo visto mi era piaciuto molto, mi sembrava uno dei migliori Go­ dard, poi in Italia non era mai stato distribuito regolarmente.. Con gioia, vedo che mi lascia comunque le cassette. E subito dalle filmografie salta fuori (troppo ovvio averlo dimenticato!) che il film è del 1968. Così accade che, poche ore prima dei concerti torinesi, mi trovo chiuso in una stanzetta a rivedere il Godard/Rolling. Avanti e indietro quante volte voglio, ora non è come quando il film andava inseguito in rare salette, quei tempi lontani. E la sorpresa giunge subito. In cinque minuti, mi accorgo che Godard ha fatto il più straordinario film che si sia mai visto su una rock-star, sulla musica rock, sul rock. Nessun film ha mai dato come Sympathy for the Devii l’immagine doppia (almeno, ma non esageriamo..) del rock, la compattezza energetica e la dissipa­ tezza di un corpo fratturato e disperso, un frankenstein smontato i cui pezzi vanno benissimo anche uno per conto loro. Neanche Woodstock, né i vari concert'film in cui la performance veniva moltiplicata e franta dallo split-screen o in­ frammezzata dalle interviste e dai volti della platea. Neanche ]anis tutto concen­ trato sul corpo della voce di lei. Neanche il sublime Last Waltz che del rock era l’elegia ricomposta fino a mutare infatti di nome e forma musicale. L’unico film il cui titolo balza fuori e si scrive vicino all’altro è di nuovo un filmRolling, Gimme Shelter, il meraviglioso documentario montato dai fratelli Maysies intorno al grande concerto gratuito di Altamont. Lì, mentre Mick cantava Sympathy for the Devii, quel diavolo che attraversa la storia uccidendo i Kennedy e assistendo a ogni misfatto col sorriso sulle labbra (“pleased to meet you”), gli an­ geli dell’inferno (Hell’s Angel) del servizio d’ordine uccisero un giovane negro che si scalmanava nelle prime file per avvicinarsi ai suoi idoli. C’erano anche le cineprese, pronte per il grande film-sul-concerto, e quindi nel film si vede tutto. Anche Jagger si vede, sembra disperato di fronte alla moviola che passa e ripassa l’omicidio; o almeno un po’ perplesso, anche se sa bene che gli angeli dell’in­ ferno sono probabilmente i più adatti a proteggere una rock-star dalle affettuose simpatie del diavolo. Il film è splendido e tragico, fiammeggiante più di tutti i

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Rolling Godard simpatia per il diavolo

tramonti di Woodstock', è il rock più gli Stones, cioè forse non la coscienza del rock, ma certo l’inconscia o incosciente precisissima essenza dell’ambiguità del rock, del suo ossimoro di ordine disordinato: pietre che rotolano. Naturale che, in quell’anno 1970, trionfasse il verde idilliaco di Woodstock che si dedicava al non scritto e utopico seguito del proverbio: (sulle pietre che rotolano) non si forma muschio. Ebbe più successo lui che non tutti e tre insieme, i film che nello stesso anno videro protagonisti prima gli Stones e poi il più Rolling di loro, Jagger. Oltre a Gimme Shelter, che si assumeva appunto il compito intollerabile e soprattutto impossibile di dire una o la verità del rock, ci furono Sadismo (Perfor­ mance, di Donald Cammell e Nicholas Roeg, anche fotografo) e I fratelli Kelly (Ned Kelly, di Tony Richardson). Un affascinante nero pop-rock dove Jagger era un ex-rockstar in un intrigo loseyano come James Fox, con maschere e lustrini e prodezze della cinepresa di Roeg che seguiva un proiettile nel suo tragitto; e un meno affascinante “western australiano” in forma di ballata, ma rigorosamente non-musicale. Ma tutto questo era ancora molto lontano, Woodstock e Altamont dovevano an­ cora nascere, mentre Godard si spostava a Londra per portare la peste nel ci­ nema. E Sympathy for the Devil - il film - porta la peste nel rock. Le pietre sono ferme; o comunque rotolano nel vuoto (in studio), se non a vuoto. Nello studio di registrazione, la forma piano-sequenze (quattro o cinque riprese di circa dieci minuti l’una, più altri stacchi più brevi) contiene perfettamente il lavorio del rock, mostra con esattezza proprio i pezzettini, gli attacchi, gli stacchi di cui è composto. La facilità del roll verrà dopo, magari in concerto o al suono del di­ sco. Ora, è con fatica che l’inizio di “simpatia per il diavolo” viene provato e ri­ provato, senza alcuna compattezza possibile. Altri piani-sequenza planano in mezzo: una lunghissima intervista con Anne Wiazemskj Èva - democrazia in un prato londinese con la troupe che l’insegue tra fronde militanti del Black-Power che leggono testi sacri (anche Le Roi Jones sul blues..) in un cimitero di macchine e si armano e stuprano e uccidono donne bianche (per ultima la Wiazemskj stessa), fascisti in una porno-libreria con pano­ ramica incessante sulle copertine (ma allora era solo soft il porno mostrabile), e infine - più pianosequenza di tutto il resto - ima voce fuoricampo che legge brani di un romanzetto porno e il Mein Kampf, e altro. Il tutto unito o diviso da cartelli giochi-di-parole divertenti e d’epoca (cinémarxisme..) come gli slogan scritti sui muri di Londra dalla Wiazemskj in flash. Tra gli altri, quell’under the Stones there is the sand che ritroveremo in tedesco tanti anni dopo nella Sanders. Sulla sabbia del mare c’è la gru del grande cinema 35 mm. manovrata dai militanti del Black-Power non per “riprendere” ma solo per “prendersela” issandoci sopra la Wiazemskj immolata e la cinepresa stessa con bandiere rosso-nere contro il sole. Ma ciò che più colpisce, nelle lunghe sedute in presa diretta, è la realtà di gruppo degli Stones. Il ruolo subalterno di Charlie Watts alla batteria, schernito da Richards. Quel biondastro isolato e assolutamente muto, come indifferente, che si riconosce poi di colpo per Brian Jones e si capisce che è già morto. L’im­ magine di principe di Mick Jagger, l’unico che palesemente si diverte all’idea che

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lo stanno anche filmando, il più grande narciso del rock. La tensione, i silenzi; la strana intesa che fa emergere come presenza importantissima il diabolico Keith Richards quando sorride a Jagger un attimo (Jagger-Richards il marchio..). One plus One: è l’altro titolo con cui il film è conosciuto. Battuta dialettica, o il gruppo rock come somma di singoli e soli. O anche Godard che aggiunge att’inscindibilità finale del suono (la sua “unicità” anche dimensionale) le evidenti am­ biguità del mostrare. Alla fine, in ogni caso, il coretto è quello che ricordiamo nel disco. E qualcuno (poi) verrà: i trecentomila di Altamont, i milioni di questo tour europeo etc.. Mentre finisce con i titoli di coda (di nuovo i loro nomi) il film comincio a ricor­ darlo: Godard anticipa tutti mostrando il mixage (Mixing..) e la sovrapposizione di tempi che formeranno non il cinema ma tutto lo spettacolo e la vita quoti­ diana stessa di oggi. Chi sa se la Rai lo comprerà. Quando gli produsse Lotte in Italia ci furono molti problemi. Per i Rolling sembrano essercene ormai molti di meno; rollano sem­ pre di più, sul velluto, ordinati e previdenti. Iniziano sempre con Under my Thumby sicuri di avere in potere automaticamente il pubblico, sotto il loro pol­ lice e non viceversa. Invece di Godard, a mixarli ora c’è Mixer dopo i mondiali (Minà Pende Tardetti Tognazzi Rossi Eleonora Giorgi Sordillo Lizzani Corbucd Milo Gentile..). A proposito di Rai, avevo iniziato a Genova un programma della terza rete su un concerto di Lou Reed proprio con un gioco su un altro dei loro titoli, un altro fondamentale (con “simpatia per il diavolo” e il sintomatico “dammi protezione, dammi rifugio”, un salto enorme rispetto al gimme some loving degli Spencer Da­ vies) il più famoso: (I can get no) Satisfaction. Cinque minuti sul corpo rallentato di Lou Reed, lo stadio di Marassi casualmente adiacente al carcere di Marassi, la folla ecc. E sopra appunto Satisfactiont in un’esecuzione dal “vivo”, ma rovesciata, cioè registrata dall’inizio alla fine, riconoscibilissima ma parlata in una lin­ gua sconosciuta, un po’ angosciosa nett’inseguire affannosamente l’inizio. Come spiegava maldestramente, dopo, un testo maldestro, forse cori il rock poteva ro­ vesciarsi, trovare davvero soddisfazione magari in un prato, togliendo quella ne­ gazione, quel no. Il programma - per un motivo o per l’altro; per motivi di tempo, in fondo - non l’ho mai finito.

[il manifesto, 18 luglio 1982]

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Cinema corpo mistico in TV

Se si avvicina l’occhio al teleschermo (meglio non farlo, fa male; e poi non è più necessario, basta guardare un grande videobeam - tipo Massenzio - per avere il medesimo effetto), fino a discemere i puntini e le linee, non c’è più differenza tra Mike Bongiomo e Gary Cooper e Dallas. Di fronte a queste linee e puntini la Rai opera (come del resto tutte le televisioni europee più o meno monopolistiche, e gran parte di quelle americane) una sorta di violento zoom all’indietro. Quando il prodotto e la “cornice” (è una delle traduzioni del frame inglese che significa fotogramma, sia televisivo che cinematografico, e che vuol dire anche “ordinamento”, “struttura”, “armatura”, “montaggio”..) televisiva italiana, negli anni cinquanta e fino ai primissimi sessanta, erano ben distinti e lontani dal ci­ nema, la programmazione dei film era quasi selvaggia, senza problemi nel sac­ cheggiare i generi del cinema popolare italiano (melodramma, cappa e spada, musicale, comico) e americano e nel trasmettere i film aldilà di ogni inquadra­ mento o “discorso”. Oggi, a omologazione più diffusa (capita anche con i film americani, se non si è perfettamente svegli e attenti, di seguire per venti secondi un carosello chiedendosi dove è finito il protagonista del film o viceversa), il film è invece enucleato dal resto della programmazione, posto in (bella) evidenza, corredato di “note” critiche, quasi sempre inserito in cicli e rassegne. E, mentre si diffondono (sull’esempio di altre TV europee) i programmi “sul” cinema: rubri­ che, documentari, inchieste, appunti sul set, la Rai è divenuta uno dei maggiori “produttori italiani”, si sa.

La Rai produce film per avere un alibi

Una grande ansia di non confondere i linguaggi e le immagini, di dire in fondo che “questo è il cinema” e “questa è la televisione”, o che al massimo l’uno è parte dell’altra o viceversa. Ma soprattutto, non mescolare. Anche la Rai che “produce film” (e che negli ultimi anni ha letteralmente puntellato e tenuto in vita bocca a bocca gran parte del cinema italiano) è una riaffermazione di ruoli distanti, di rapporti soggetto-oggetto, di una capacità di “far discorso” e di espri­ mere potere e controllo “culturale”, appunto oggettivando e producendo. L’attacco delle TV “private” basato in gran parte sul film per garantirsi un ascolto 171

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da “fatto compiuto” in una situazione di vuoto legislativo, ha costretto la Rai stessa ad ammettere che, in certo senso, è vero anche il contrario: ovvero “il ci­ nema (mediante i film) può produrre la televisione”. Negli Stati Uniti, si sa, la cosa avvenne proprio dal punto di vista dei mezzi di produzione, con le major di Hollywood costrette a investire sul fronte televisivo per sopravvivere, costrette a inventare una nuova “forma”: il telefilm. Da noi, viceversa, il cinema è sempre stato più una “moneta”: Rai d’un tempo; e oggi, per tutti, moneta per acquistare ascolto. Produrre cinema o farsi produrre dal cinema è diventato, nel sistema te­ levisivo italiano, l’alibi per non produrre televisione, o per produrne sempre meno. Ragionando su scala più ridotta, si può misurare l’effetto della situazione di con­ correnza degli ultimi due anni nel settore della programmazione cinematografica sulle reti Rai. (Scala ridotta e obbligata, se si pensa quanto sia isolato l’unico grosso esperimento di televisione moderna in Rai nel 1981-82, cioè la serata del martedì rete uno occupata da due programmi misti e “anomali” come Movie Mo­ vie e Mr. Fantasy, entrambi discontinui e discutibili ma felicemente avviati a met­ tere insieme diversi pubblici particolari, a polarizzare la specializzazione e - il primo - a giocare con i film, a antologizzarli senza problemi - Sordi insegna.. contaminando campi diversi senza giungere alla frenesia totaltelevisiva di Mixer, affascinante solo come tentativo e come ideologia assoluta del mezzo.) Il cinema, complessivamente nelle tre reti, è (con gli sporadici Tortora e Bongiomo, e con i Tg peraltro costretti sulla difensiva) la più sicura fonte di ascolto medio forte o molto forte. Logica quindi l’attenzione e pressione aziendale sul “film”; dato anche l’aumento vertiginoso (e non meno logico) dei prezzi unitari, strettamente collegato alla do­ manda e inoltre allineato su quelle che da vari anni erano le cifre altissime pa­ gate p. es. dalla TV francese o inglese per assicurarsi titoli grossi e meno grossi (centinaia di milioni a titolo; la nuova ipotesi d’accordo raggiunta dalla Rai con la MPEAA - Columbia, Warner, Mgm-Ua, Paramount, Fox, Universal ecc.. Motion Picture Export Association of America, fisserà un prezzo standard per un film americano in edizione italiana di oltre 40.000 dollari e per un “piedone” le case italiane chiedono anche cento milioni a passaggio..). Avendo necessità di immediati riscontri nell’ascolto, diminuisce la possibilità di variare l’offerta uscendo dall’incudine battuta dalla triade “grossi film USA, grossi film italiani, grossi film francesi” (distribuiti preferibilmente in rassegne su attori, o più rara­ mente su registi, o “sciolti”). Se ciò ha già in parte avvicinato la programmazione cinema della prima e della seconda rete, a maggior ragione rischia di colpire la terza rete, che si dibatte in un paradosso vischioso. Costretta a legittimarsi con l’ascolto per convincere il referente politico e l’azienda stessa a promuoverne lo sviluppo oltre il limbo attuale (dovuto essenzialmente alla scarsa attivazione della rete distributiva del segnale), è d’altra parte quasi per statuto (o per atto di nascita) legata ai canoni pur vaghi, dell’attenzione ai “fatti della cultura” e ai fe­ nomeni regionali e locali. In ogni caso, è dubbio che una politica generale della Rai di pura “reazione” (cioè tentativo di aumentare contemporaneamente tutti gli ascolti nel breve ter-

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Cinema corpo mistico in TV

mine) possa avere successo, l’effetto più probabile sarebbe quello di una radicalizzazione dello scontro tra le reti (e rispettive “politiche di servizio” o politiche servite mediante TV) per attribuirsi quote più alte all’interno di un ascolto com­ plessivo stabile (se va bene), mediante una strategia regressiva di appiattimento ben lontana da quel bilanciamento di dispersione analitica e di sinteticità che sembra il solo segno di una televisione moderna capace di variare i suoi pubblici e di fornire spettacolo-informazione-servizi per i pubblici più vari.

Via col vento, zuccherino conteso dalle tre reti

La Rai ha cominciato ad acquistare grossi pacchetti di film (il più famoso è quello dei cento, 2001: Odissea nello spazio, Il laureato, Piccole donne, Quo vadis? etc..), muovendosi direttamente come azienda, al di sopra delle reti, date le cifre in gioco (dieci miliardi). Da un’operazione di questo tipo dovrebbe derivare logi­ camente una programmazione cinema non più gelosamente e magari segretamente perseguita dai responsabili nelle singole reti (tra l’altro legati a brame de­ sideri obblighi titoli nomi forzatamente simili), ma gestita in pool (come avviene per lo spettacolo sportivo), pensando alla somma degli ascolti e non a quelli par­ ticolari. Diventerebbe più agevole impostare operazioni oggi sempre più man­ chevoli e rappezzate, diciamo una politica “editoriale” complessiva (natural­ mente tenendo conto delle esigenze di rete, ma anche ipotizzando, su iniziative da articolare contemporaneamente su più di una rete), oggi inesistente e impossi­ bile in un mercato dove già almeno sei-sette grossi soggetti (rete uno, due, tre, Berlusconi, Rusconi, Mondadori.. ) puntano agli stessi obiettivi e alle stesse “col­ lane” (attori, attrici..). Insomma, chi deciderà se Via col vento deve avere il primo passaggio sulla prima rete, per avere i trenta milioni di ascolto record; o sulla seconda, per permetterle il gran balzo in avanti; o sulla terza rete, per misurarne il reale e definitivo po­ tenziale (di cui si ha un’idea: 4,1 milioni di spettatori per Guerra e pace, 4,2 per Amarcord, 4,3 per Scandalo al sole, trasmesso un anno dopo sulla prima rete arri­ vando a 24 milioni..); o una volta a testa nel giro di un mese; o tutti gli anni a Natale su una rete diversa; o un pezzo un pezzo un pezzo; o come serial diviso in tronconi di venti minuti.. [xZ manifesto, 26 agosto 1982]

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Fugge l’amore di Francois Truffaut

Con questo film, trasmesso in contemporanea con la manifestazione dedicata al cinema francese organizzata a Napoli dalla Biennale di Venezia, inedito in Italia e appositamente doppiato per l’occasione, la terza rete dà il via a un nuovo ap­ puntamento cinematografico, Ultimo spettacolo. In onda stasera alle 22,15. L'amore fugge, non è la traduzione esatta, forse, per L'amour en fuite (titolo di una canzone, così come era stato per i “baci rubati” di Trenet). O non è l’unica. Comunque, è truffautiana, per questo film (sottovalutato quasi ovunque) che chiudeva nel 1978 la storia di Antoine Doinel cominciata vent’anni prima con I quattrocento colpi (e proseguita con L'amore a vent'anni, Baci rubati, Domicile Conjugal - questo sì incredibilmente “tradotto” come No» drammatizziamo è solo questione di coma). La dolce inafferrabilità dell’amore che fugge da decenni at­ traverso il cinema di Truffaut. Ma l’operazione non è la solita, della codificata “crudele tenerezza” truffautiana: o lo è a tal punto da sconfinare in un méta-cinema di incredibile acutezza. Su novantaquattro minuti di film, infatti, diciotto sono fatti da “pezzi” dei film prece­ denti, rimontati o comunque riletti spesso da un sonoro fuoricampo. Un film “narrativo” diventa, per la prima volta al cinema, documentario sul cinema stesso e sul suo “tempo” visto in altri film. Con leggerezza da surrealista felice alla Queneau, cioè con perfetta modernità, Truffaut lavora con logica da stu­ dioso di narratologia strutturalista. Il suo mezzo romanticismo si divide ulteriormente, si spezzetta fino a confer­ marsi una fenomenologia spietata (per quanto “riposata”, come ogni fenomeno­ logia). La “memoria” che si rilegge la vita di Jean-Pierre Léaud-Doinel è solo il cinema. Non vi è ricostruzione di ciò che era già stato “costruito” dal film prece­ dente. Né citazione: solo riproduzione, con operazione analoga a quella degli ar­ tisti conceptual-minimal che rifotografano fotografie. Si esalta così l’appassionante e costante (ormai mitica) superficialità truffautiana. Meglio non grattare la superficie sottilissima e perforabile; da seguire è il gioco nascosto dei percorsi che svelano così di quanti strati sia fatta questa superficie. Un regista che chiude un ciclo dichiaratamente autobiografico (cioè che racconta di sé e lavora su di sé) in cui il protagonista è sempre stato lo stesso invecchiando sullo schermo insieme col suo corpo; e che lo chiude non “cambiando” o “con­ cludendo” davvero (la morte, o la certezza di un mutamento di vita in Léaud, di 174

Fugge Famore di Fran^oise Truffaut

eludendo” davvero (la morte, o la certezza di un mutamento di vita in Léaud, di una sua stabilità sentimentale..) ma anzi riproponendo parecchie delle stesse im­ magini, come negando un’evoluzione o una possibilità “poetica” di rievocazione memoriale. “Da cosa si riconosce d’essere innamorati? E semplice, si è innamorati quando si comincia ad agire contro il proprio interesse.” La semplicità stendhaliana di que­ sta frase dello “scrittore” Doinel nel film si addice al partito preso di Truffaut, al rigore che improvvisamente si manifesta in mezzo alle solite gag dolciamare, alle musiche di Delerue, alle immagini di Nestor Almendros. Truffaut agisce contro il proprio interesse, svela i limiti del cinema di cui vive, essendone innamorato: toglie aura alla rappresentazione riproponendola tei quel senza dimensioni ulte­ riori. Il cinema non produce altro, l’opera non trasfigura: quel bacio era (solo quel bacio), già fisso morto fotografato, quel litigio era quel litigio e basta. Lo sguardo indietro non aggiunge senno, per una volta non “dice”. Un modo per (non) raccontare e per (non) fissare una volta per tutte le incertezze degli anni sessanta-settanta sotto la sicurezza degli entusiasmi.

W manifesto, 30 settembre 1982]

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Yol, dov’è la libertà

Yol, oltre a essere il racconto della breve licenza di cinque detenuti di un carcere turco, dei loro cinque diversi viaggi-vacanza-discesa all’infemo nei giorni della Turchia contemporanea, è violentemente - anzi forzatamente - un film sulla pro­ pria condizione di regista internato, un pezzo di autobiografia quasi “in diretta" prima del gran salto fuori dal proprio territorio e dal proprio paese verso una condizione di “esule" (che lo accomunerà d’ora in poi a quella di alcuni sudame­ ricani, in particolare di Littin e di Raul Ruiz). In questo doppio aspetto sta buona parte del fascino del film, ben oltre l’aura di “autore completo” che sem­ bra conferire a Guney, e oltre la forza stessa delle immagini. Si pensa a Fitzcarraldo, il gran film di Herzog presente anch’esso a Cannes. An­ che lì, un film che è parso a molti eccessivo e insieme non all’altezza del suo ec­ cesso, troppo leccato produttivamente girato che poi sembra non costruirsi come “film", quasi buttando via il set più straordinario mai reperito. Precisamente lì è la grandezza di certo cinema: nel buttarsi via, nello sprecarsi, nel non realizzarsi come film: nel caso di Herzog di farlo felicemente, addirittura regalando a Kin­ ski l’ottimistica e splendida risata finale e a Les Blank il suo stesso set per un do­ cumentario magnifico sul suo stesso film (Burden of Dreams). Guney non butta via niente, naturalmente: o meglio, qualcosa butta, visto che dalle sei ore di film girato è arrivato in montaggio a un’ora e cinquanta. Ma Yol è il film di un visionario (e la visione di un film) non meno di Fitzcarraldo. O forse di più. Ha la forza e la correttezza che ormai contraddistinguono gran parte del “nuovo cinema intemazionale” (che sia australiano, tedesco, israeliano, finlan­ dese, polacco..): buona fotografia, buona recitazione, buona storia di impianto epico.. Le stesse doti di Suru: buon cinema che può non entusiasmare anche se può far stupire che in Turchia.. Ma l’incanto di singole immagini, e proprio la semplicità bellissima e fordiana del soggetto, rompono le corrette normalità del montaggio o le falle e le zeppe di sceneggiatura. Sembra non esserci spiegazione, ma proprio questo “film dal carcere” sembra il modo giusto di vedere un paese come la Turchia oggi. Dall’ambiente chiuso della prigione, un lungo sogno visivo verso i luoghi della libertà, che si risolve invece in un’ossessione da incubo attraverso luoghi agognati, divinati, inseguiti che si ri­ velano spazi claustrofobia, il villaggio come la città, la famiglia come la società, la pianura come la montagna, il treno come la strada. Così, il viaggio più lungo e

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Yol, dov’è la libertà

tortuoso dei cinque, quello che attraversa diversi strati di medioevo, diverse “al­ titudini” e paesaggi, quello di Seyit All che va a vendicarsi della moglie adultera, si compie drammaticamente dentro uno dei più bei momenti nevosi della storia del cinema: in un bianco straordinario che sembra la summa di tutti i terribili co­ lori della società, e che è, nello stesso tempo, il luogo innevato che Guney aveva rintracciato - racconta - “durante una licenza nel febbraio del 1981”. Il viaggio fuori dalla prigione, sognato e concepito in prigione, è allora definiti­ vamente viaggio nella prigione. Indizio importante, e salutare evasione dalla buona confezione, è il sonoro, caotico e insopportabile (ben al di là della media cacofonia del cinema turco), sempre in bilico tra frastuono e silenzio, lontanis­ simo dalle dieci-cento-mille piste del cinema ipertecnologico, e vicino se mai a un'ipotesi di dolby dell*anima o della testa. Sonoro solcato continuamente dallo sferragliare del treno e dal sibilo dei suoi freni, che impediscono la frequenza di visioni paesaggistiche d’incanto come se ne avevano attraverso i finestrini ferro­ viari di Suru. Uno stridore che impedisce che tutto tomi e mantiene aperto il film come un carillon angoscioso, che si fa sentire prima di ogni ipotesi di palin­ genesi politica. Ma il lieto fine è assicurato nonostante gli errori (o le bellezze infernali) del me­ dioevo turco e fascista. Il film infatti è girato, finito, completato. Compiuto come il viaggio di Fitzcarraldo, anche se i Puritani in playback e in barca non sono pro­ prio il massimo desiderato. Guney è oggi fuori dalla Turchia: moderatamente li­ bero, farà altri film. Potrà non piacere lo schema didascalico delle diverse scelte (o obblighi) dei cinque in “libera uscita”: uccidere, lottare, sposarsi, conformarsi, resistere armati. Di certo il viaggio più lungo dei cinque (quello con la neve), il più bello e il più completo, supera il didascalismo nel momento in cui un fine (uccidere l’infedele) è raggiunto quando ormai non lo si voleva più e non si sa­ peva più cosa fare. Di certo Yol è di una rarissima intelligenza nella scelta e nella messa in relazione degli spazi chiusi e aperti, con la percezione ambigua ma acutissima che dello spazio deve avere un imprigionato in regime di semilibertà. Ma soprattutto il film, al polo opposto dell’utopia del controllo assoluto del testo, si pone, grazie alla situazione extrafilmica (ma non troppo) di Guney, al centro di una questione forse metafisica ma sempre più attuale e reale: chi (o che cosa) fa un film? Chi lo produce mettendo i soldi? Chi lo organizza mettendoli a profitto? Chi dirige le riprese? Chi le illumina determinando la “luce” dei film? Chi le interpreta dando il corpo? Chi lo monta determinando la forma finale? Chi lo scrive? Chi lo idea dal fondo di una prigione? Guney non dà risposte, anche se racconta bellissime storie sul cinema immagi­ nato in prigione, aguzzando lo sguardo nel libro (“Zeki Okten voleva fare un film sul modo in cui gli raccontavo la sceneggiatura di Suru. Quando leggevamo insieme, io e lui eravamo a turno il vento e l’oscurità, la profondità di campo e la cinepresa., eravamo non solo la storia ma tutte le sensazioni che lo spettatore ne poteva trarre..”). Ma la situazione-Guney, arcaica e retrograda per definizione (la Turchia, il car­ cere), è esemplarmente “moderna" e noncurante di definizioni troppo precise. 177

paura e desiderio

Truffaut ne L'ultimo metrò l’aveva messa in scena: la regia “a distanza”, dal pic­ colo inferno del sotterraneo che il regista teatrale ricercato dai nazi conduce nelle prove in palcoscenico, controllando lo spettacolo (anche se poi gli amori..) fino in fondo ma nello stesso tempo mai del tutto, mai vedendolo. E il solito Ros­ sellini modernissimo si sa che fece girare per telefono (dall’Italia) a Lizzani varie sequenze di Germania anno zero, e che dall’albergo in amore seguiva India; e di nuovo all’albergo curava il misconosciuto geniale Dov’è la libertà, dove Totò, rientrando in carcere, dava alla stessa domanda di Yol (sulla società, sul cinema, sulle prigioni) una risposta solo apparentemente diversa.

[il manifesto, 10 dicembre 1982]

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La mente che cancella Rocky Horror

Il primo mostro è - o sembra essere - il regista, David Lynch. Due teste: Eraser­ head e Elephant Man. Così diverse Tuna dall'altra, si dice in giro. E invece fino a oggi (privilegio e condanna del vivere e scrivere in quest'attimo.. ) i due film for­ mano un campo meravigliosamente organizzato e coltivato e integrato, percorso da scambi (evidenti, o nascosti come il flusso di certe acque) che ne fanno un unico corpo ma soprattutto un’unica testa girevole, evidentemente a due facce (che si nutrono dello stesso cervello). Dal titolo, la bifrontalità e il gioco degli scambi dilagano e si riverberano sui di­ versi piani, i due film sembrano attivarsi a vicenda. Elephant Man è un'opera for­ temente cancellata, mentre Eraserhead (distribuito in Italia col titolo La mente che cancella) mostra con molta evidenza le mostruosità dei corpi, in una flagranza vi­ cinissima al titolo del film successivo. Eraserhead domina dal 1977 (insieme con Rocky Horror Picture Show) il circuito americano dei “cult-movies” di mezza­ notte, Elephant Man è uno dei più grossi successi del 1980; ma i percorsi dei due film non si toccano (“Nell’ottobre del 1980, sull’onda dell’enorme successo di pubblico e di critica di Elephant Man, la sala Cinema II di New York presenta Eraserhead per una settimana in normale programmazione diurna che risulta un clamoroso fallimento al box-office’’, J. Rosenbaum, Cahiers du Cinema n. 322), sembrano destinati a due pubblici diversi, o almeno a due modi diversi di pro­ porre un film al pubblico. In Italia, con un ragionamento che ripete quello del fallimento newyorchese di cui sopra, il primo film viene distribuito oggi, dopo il successo del secondo. Tutto ciò non disturba. Non è solo l'esiguità della filmografia a evitare la possibilità (se non a prezzo di lampante stupidità) di una visione in chiave retrospettivo-evoluzionistica: il trovar tracce; premonizioni, anticipazioni, embrioni.. Nonostante Eraserhead sia pieno di immagini-embrione, il film è se possibile ancor più complesso di Elephant Man (possibilità che a molti parrà ovvia, dato il supposto “semplicismo” del se­ condo film), ma non meno compiuto, concluso, maturo, organizzato. Anche la sola innegabile evoluzione che si può riscontrare, quella della produzione finanziariamente avventurosa (universitario-personale, con soldi messi insieme volta per volta dopo lo stanziamento iniziale dell’American Film Institute, e con riprese diluite ne­ gli anni) al confortevole budget di cinque milioni di dollari che permette di girare in studio con tutti i crismi industriali, appare come un semplice succedersi (quasi ca­ 179

paura e desiderio

suale anche se necessario e magari obbligato) di due situazioni produttive diverse (tra l’altro, con un trattamento inversamente proporzionale del mostrato rispetto alla disponibilità economica della produzione). La sperimentazione di due moduli opposti ma con risultati ugualmente padroneggiati; anzi, finalizzandoli entrambi a una medesima possibilità di controllo. Così, se Eraserbead è una “creatura” di cui Lynch rinvia senza impazienza la venuta alla luce, è per poter disporre liberamente del tempo (e, nel tempo, del denaro) necessario a fare ciò che intende fare, elimi­ nando ogni frenesia di “concludere”, secondo la mitica immagine dei grandi tede­ schi del muto (Lang, Murnau) che impiegavano anni per costruire esattamente il film voluto (avendo in più l’appoggio economico dell’UFA). In Elephant Man la pre­ cisione è ottenuta mediante il capitale che permette di concentrare il tempo di un’accanita lavorazione in studio. Il tempo è una nozione chiave per il lavoro di Lynch, anche se i suoi film sem­ brano poi prescindere completamente da esso, uscirne. Del resto, i mostri non si evolvono. Per definizione, si pongono fuori dalla linea generazionale evolutiva. Sono apparizioni accecanti e attraenti, ma senza precedente e senza successori, invito a ogni stordimento sbigottito, o divertimento sadico di spettatori, o orrore analitico di chi interpreta. Il Lynch-mostro arriva nel cinema senza una cultura cinematografica, senza filiazioni o referenti diretti, forse quasi con una certa ignoranza di esempi che non siano quelli canonici. Lynch dice di amare Fellini, Bergman, Tati, Kubrick, Wilder. Omaggi al “cinema d’autore”, certo, ma anche predilezione per i film centrati su personaggi e situazioni anomale e abnormi. Con - per noi - la curiosità di un nome, Kubrick, che è forse il meno lontano da Lynch nella capacità appunto di chiudere ogni film (fin dagli inizi) in sé e per sé, e la curiosità di quel Lolita primo film kubrickiano di produzione inglese, come inglese è Elephant Man.. Ma non è neanche cinema d'autore tipico quello di Lynch, Lynch non filma, costruisce un film, lo compone. Questo è l’inestimabile pregio di Eraserhead, che (come facilmente si è classifi­ cato Elephant Man come film “umanistico” di facile vena..) pure si sarebbe por­ tati a definire classico film “d’avanguardia” sulla linea degli incubi onirici alla Chien andalou. No, Eraserhead non ha nulla della facilità delle inversioni e inven­ zioni surrealiste, né della studiata figuratività espressionista. Come Elephant Man, si pone sotto il segno dell’ambizione cosmica, agitando e mostrando prima di tutto proprio lo spettro della generazione e della pro-creazione fantastica, il formarsi nel vuoto oscuro di un biancore che diventa forma, sostanza, incubo, elefante, gomma, materia qualsiasi. Tutto il cinema di Lynch, in Elephant Man in modo più semplificato e paradig­ matico e essenziale, in Eraserhead più polifonicamente e complessivamente, è il sorgere di forme che si scontrano, si spezzano, si suddividono, ne procreano al­ tre, senza problemi quanto alla materia, sia essa carne o gomma. Come Shining, Eraserhead stupisce per la capacità di tener fede alla forma lingui­ stica dell’inconscio senza dimenticare di comprendervi la follia ossessiva e luci­ damente illuministica di tale stessa intrapresa, senza cioè abbandonarsi al mime­ tismo onirico. Eraserhead riesce in questo nonostante la fortissima connotazione fantastica di ogni immagine e di ogni inquadratura.

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La mente che cancella Rocky Horror

Il suono che ne arriva è ogni volta almeno doppio, come lo è fisicamente nei film (grazie al lavoro di Alan Spiet). Realistico e infernale rumore di una periferia cit­ tadina, ma anche suono di fondo del mondo che ruota dentro il vuoto cosmico; un’orrenda disarmonia delle sfere che rompe la rassicurante e abituale omoge­ neità del suono filmico, eterno garante della riconoscibilità dei singoli oggetti ci­ nematografici. Come doppio risulta il tentativo di dare un titolo italiano al film, secondo il movimento di un’incertezza che riprende perfettamente l’ambivalenza del cinema di Lynch, il suo materialismo spiritualistico. Tesla di gomma era que­ st’estate a Massenzio. Mente che cancella è adesso. Mente che cancella una testa di gomma che è un elefante con dentro un vuoto dentro cui è una scena che una matita riempie con segni sulla tela che la gomma cancella. [Scena, 1, 1982]

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Cinema: paura e desiderio

1 - Mio padre non ha mai paura; in qualsiasi momento è capace di interrompere e scoraggiare con una battuta le angosce nascenti negli spettatori che gli sono vi­ cini. Non so se questo gli serva o gli servisse per spegnere negli altri le paure che sente avvicinare anche a se stesso; non so infatti come si trovi a vedere un film da solo, ma so che - come molti, molti di più di quanto non pensassi - rifugge in genere con forza e con sdegno dal vedere un film da solo, cioè dall’andare a ve­ dere un film da solo (non accompagnato) anche in una sala gremita. Così, ricordo che quando eravamo piccoli (e ancora adesso a volte lo fa con mia madre o mia zia) ci diceva alle scene più thrilling o tornando a casa dal cinema (o, in seguito, di fronte al televisore): “E solo un film. Guardate che in questo momento l’attore sta solo pensando a finire la scena e alla pastasciutta che si mangerà dopo.” Ma so che ha paura per esempio della televisione, detesta sen­ tirne provenire dialoghi e suoni attraverso la parete del suo studio, perché con­ fessa un’irresistibile tentazione di alzarsi e andare a vedere. E, una volta che co­ mincia a vedere qualcosa (film, telefilm), resta fino in fondo, magari in piedi e con in mano ancora carte di lavoro, facendo vista di andarsene da un momento all’altro ma ormai obbligato a vedere. Capisco quindi che i toni da Eclissi dell’in­ tellettuale di Zolla e da francofortese di destra che ha sempre usato contro le al­ trui e nostre passioni televisive sono in realtà un’autoflagellazione per la facilità con cui si lascia affascinare dalle immagini in movimento. Il suo razionalismo sui singoli film è però costante e preciso in modo irritante: rapidamente intuisce e puntualmente prevede e annuncia gli sviluppi nella trama di film mai visti. Anche per questo è difficile che abbia paura vedendo un film quanta ne può avere (prima) di vederlo (che non gli piaccia; che sia troppo spinto o disperato; insomma che lo lasci insoddisfatto o turbato, alla fine). 2 - Mia madre e mia sorella hanno paura di parecchie situazioni canonicamente create per far paura (quel tanto che si può e si deve) allo spettatore durante il film. Mia madre però si rimette prontamente, e due minuti dopo la fine, pur ri­ cordando “mamma mia, che impressione!”, è in grado di discutere del film con calorosa partecipazione (le piace tanto) ma con una lieve superiorità da professoressa di lettere. Mentre mia sorella (che vede meno film) resta più a lungo im­ pressionata o sconvolta. Mia zia (sorella di mio padre) ha meno paura dei traboc­ 182

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chetti tipici del genere “paura”, vive da sola e ama il suspense, legge gialli e la sera è capace di guardarsi un La casa dalle finestre che ridono senza fiatare. Solo che di fronte ad alcune scene di Psycho si chiude gli occhi terrorizzata; non è proprio paura “normale” ma una specie di fobia nei confronti di alcuni oggetti che possono apparire sullo schermo: il peggio, per lei, è un occhio umano (o an­ che di animale) ripreso da vicino, in primo o primissimo piano. Ha una reazione meccanica immediata, di ripulsa, schifo, paura. Non l’ho mai portata a vedere Un chien andalou e non so se (benché insegni francese) abbia mai letto negli “oc­ chi” di Bataille (“Perché l’occhio, nella raffinata espressione di Stevenson, go/osità cannibale, è per noi oggetto di una tale inquietudine che non lo morde­ remmo mai”). Un’altra paura sua è quella di perdere il filo del racconto o di non capire bene: si premunisce chiedendo delucidazioni e sollecitando confronti in­ terpretativi durante la visione. 3 - Di mia nonna ricordo che, negli ultimi mesi di vita, quasi completamente cieca, aveva una certa paura di essere invasa dalla televisione che peraltro ormai non percepiva più come tale: “Quanto chiacchierano, ma perché avranno da chiacchierare tanto..?” diceva dopo due o tre ore di TV pomeridiana impostale da noi ragazzi. Gli effetti musicali terrorifici (che impaurivano molto mia sorella) la lasciavano indifferente, mentre si agitava realmente impaurita se qualcuno (Humphrey Bogart) proferiva minacce dal fondo del salotto. 4 - Ricordo altre paure di altre persone, alcune le vedo ancora tutti i giorni, a volte anche di fronte a film visti dieci volte in due mesi grazie ai novantanove ca­ nali e alla pirateria. Allo stesso punto, un trasalimento, sempre lo stesso. Alcuni bambini si nascondono il viso con le mani. Molti adulti fanno lo stesso. Mi rendo conto oggi delle fortissime differenze soggettive nel campo delle reazioni di “paura” o a situazioni “paurose”; so che è possibile individuare parecchie catego­ rie diverse catalogabili con precisione. Eppure ricordo le paure all’unisono di trecento ragazzi la domenica al cinema parrocchiale per lo stesso ghigno cattivo, la stessa freccia improvvisa, lo stesso crescendo d’archi, lo stesso balzo d’acro­ bata. E poi chi aveva paura del sangue e chi delle prove fisiche esasperate (inse­ guimenti, duelli di gladiatori, lotte con animali, arrampicate), chi delle attese e chi delle sorprese. Tutto il diagramma delle paure al cinema mi appare incredi­ bilmente discontinuo, scisso in momenti di massa e in numerosi raggruppamenti di “eccezioni” e casi singoli. Non sarebbe difficile schematizzare analiticamente le differenti fobie, i terrori, le ansie e le angosce, le inquietudini. Forse non diffi­ cile ma infinito, compito enorme e certo scarsamente utile per avvicinarsi a un’e­ ventuale specifica relazione tra cinema e paura. Tra paura dei topi e paura delle forbici, paura degli aghi nella pelle e paura del­ l’orco nei cartoni animali, mi è diffìcile ricordare o immaginare quali paure avvenis­ sero solo al cinema. Forse davvero solo la nascosta paura del cinema di mio padre?

5 - Somiglia a temi come “l’amore e il cinema”, pretesto per gustose o solo inter­ minabili casistiche costrette a esaurire una varietà di situazioni ampia “almeno 183

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come la vita” (visto che poi c’è sempre possibilità in più del cinema, a semplifi­ care o complicare). Mi fa pensare, narciso, ai momenti in cui le mie (o le tue) paure sono solo mie, non corrispondono al fiato sospeso collettivo o al collettivo fremito agghiacciato che sottolinea l’orrore in sala. Quando i percorsi della pro­ pria paura si intersecano fino a confondersi con quelli dell’amore, e anche in un film, uno ha paura che solo lui può sapere, come la paura di essere lasciato da una donna che tutti magari ritengono pacificamente “sua”. Non sono frequenti al cinema momenti del genere (forse solo Rossellini: Angpt-Paura per primo, Viaggio in Italia, Stromboli..), mentre - a ben guardare e superando orgogli elitari - ci si accorge che, in una categoria o nell’altra, le proprie paure rientrano benis­ simo in uno dei tanti momenti “di genere” che i generi della paura (thriller, hor­ ror, SF, mystery, poliziesco, noir: e quest’ultimo è il termine più preciso, con l’in­ determinatezza del colore che sfuma i confini con qualsiasi altro territorio della paura) contemplano rigorosamente. 6 - Già. Come l’amore, più dell’amore e prima di esso, la paura è il sentimento più fisiologicamente interno al cinema, ai suoi contenuti e ai meccanismi della rappre­ sentazione. E la paura e non l’amore che fonda il genere sentimentalmente più forte, il melodramma; poiché è la paura (di perderlo, di non averlo mai, di non averlo mai avuto) che definisce e struttura l’amore. Se l’amore è il sentimento forte che per­ mette l’identificazione e la proiezione soggettiva, la paura (come intuiva Hobbes e temeva Cartesio) è la passione più forte e decisiva, attiva e devastante, la più perso­ nale e la più ancestrale, la più pura e originaria. Senza bisogno dell’illusione o del gioco di produrre un soggetto/oggetto, come accade nell’amore, la paura è il nudo sentimento di sé nel corpo, nell’anima, nella mente, una precarietà che può essere attivata da qualsiasi evento. Sentirsi soggetto solo in quanto terminale di sensazioni e passioni non proprio controllabili da sé.

7 - La paura è lo schermo bianco e il nero vuoto della camera (m.d.p.) in attesa di essere riempiti. La paura è, più ancora dell’occhio tagliato, l’orbita vuota dell’oc­ chio o (mia zia!) l’occhio costretto a ingoiare immagini incontrollabili, l’occhio co­ stretto all’incubo di una situazione “da orecchio”: aperto a forza come, in grado di­ verso, sia in 2001 che in Arancia meccanica di Kubrick. Timore allora di essere co­ stretti a vedere e di restare accecati (le varie metafore delToccé/o che uccide e dello specchio). Timore del cinema stesso verso il vedere, verso il troppo vedere che ac­ ceca. Ma solo il cieco sarà poi veggente, vedrà il vero e parlerà giusto.

8 - Per non parlare della paura di essere visti e di quella (ancor più forte e deci­ siva, indicativa di tutto l’apparato cinema) di non essere visti, da parte dei pro­ duttori-distributori-autori di film, da parte dei film stessi. 9 - “Chi sa quale simbolo sublime sia il sangue? Proprio il disgusto delle parti oiganiche fa supporre che ci sia qualche cosa di molto sublime. Davanti ad esso noi rabbrividiamo come davanti a spettri e, con un brivido infantile, intuiamo in quella strana mistura un mondo misterioso che potrebbe essere un vecchio conoscente.” (Novalis, fr. 1783)

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Cinema: paura e desiderio

10 - Ma allora la paura si toglie o si aggiunge al cinema? È del mostrare o dell’alludere? dell’irrompere o delTannunciarsi? Vecchie dispute cui non ha senso rispondere. Brian De Palma da dieci anni, e in modo sempre più acuto, si accani­ sce nel mostrare in azione o nel costruire tutti i meccanismi che possono “impau­ rire” lo spettatore, da quelli più soft a quelli hard, dai suoni più inquietanti e raf­ finati alle macellerie tipo Dario Argento. Ma la paura al cinema non è neppure questione di stili, né solo di magistero d’autore. 11 - Tempo fa ho visto dissolversi la paura hitchcockiana degli Uccelli, in TV. La madre della donna che amo non l’aveva mai visto, lo attendeva gustando già il brivido. Ma il ritmo della paura era scomparso, spezzato dagli spot pubblicitari demenzialmente numerosi. Un film quasi da ridere; e in un angolo solo io avevo paura, a ogni stacco, che partisse un altro carosello. 12 - Già; raramente ho avuto paura al cinema. Da bambino non ricordo, Bianca­ neve e i sette nani, forse, ma mi pare che più impressionato fosse un mio fratello. Negli ultimi anni, il finale di A Venezia un dicembre rosso shocking di Roeg, dove proprio il rosso shocking del colpo di scena finale mi colpì con violenza incredi­ bile. E poi i “morti viventi” e i “crazies" e infine di nuovo gli Zombi di Romero. La morte di HAL in 2001 e il “ murder-redroom” di Shining. La nota della spesa. Senza distinguere tra il disagio continuo di Alien e i terrori improvvisi di De Palma, tra il crescendo musicalbarocco di Dario Argento con i Goblin e i silenzi allucinanti che rarissimamente rompono il continuum sonoro del cinema. 13 - “L’orrore è istituito dalla natura per rappresentare all’anima una morte improvvisa e inopinata, di modo che, benché a volte a farci provare orrore basti il contatto con un verme, o lo stormire tremante di una foglia, o la propria ombra, si sente subito un’emo­ zione forte come se i sensi percepissero un acutissimo e evidente pericolo di morte, il che produce immediatamente un moto che spinge l’anima a impiegare tutte le sue forze per evitare un male così vicino e presente; di solito, questo desiderio si chiama o fuga o av­ versione.” (Descartes)

n titolo di questo “Articolo 89” del trattato su Les passions de l’àme dice: “Quel est le désirqui nati de l’horreur*. Oggi il cinema sembra vivere in una dimensione di “desiderio dell’orrore”. Non solo il cinema-cinema ma anche la televisione: negli Stati Uniti gli spettacoli TV di stuntmen che compiono vere e proprie follie da brivido rischiando la pelle sono tra i più popolari. In Italia, giugno 1981, un bambino annidato dentro il buco nero della paura ha tenuto sveglie per ima notte trenta milioni di persone (potenza in­ quietante del “vermicino”, direbbe Descartes). L’orrore non riesce mai a eccedersi, a produrre ripulsa e terrore, a non farsi sopportare e vedere. Il cinema lo sopporta sempre più. Un corpo nudo coperto da uno sciame d’api, oggi, lo si può vedere in qualsiasi TV all’ora della “TV dei ragazzi”, poi si scopre che era quello di un sorri­ dente apicultore. E da decenni i film giocano sulla paura degli animali, degli insetti più schifosi, dei rettili, delle cavallette, delle “tarantule”, dei lupi - il sottogenere “uomo-lupo” gode di un pieno revival senza generare turbamenti.

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Oltre i dati che riproducono le paure prefilmiche o profilmiche la paura sembra scomparire. Scariche di paura vengono regolarmente erogate mediante i mecca­ nismi noti, ma la paura dell’incertezza assoluta, daU'Unheimliche freudiano, di­ serta il cinema. Trionfando è il cinema stesso a espellerla, dopo che da essa e in essa si era generato. U cinema, perfetta immagine dell’ambiguità unheimliche heimliche, ha realizzato la proiezione impossibile di un equilibrio continuamente perturbato e perturbante. Una banale dissolvenza fa passare corpi compenetrati in miscele impensabili, trasforma una persona in un albero, una montagna in una barca sul mare. Senza stupori. Distinguere dentro la bolla del cinema le “paure” più o meno grandi è un eserci­ zio puramente accademico. L’unica paura è quella di improvvise aperture che su­ perino i fremiti casuali legati alla bizzarria delle ombre e alla vista del sangue. Possono anche essere aperture solo pensate: l’hard più spinto, gli snuff-movie dove si uccide la modella porno, i momenti in cui qualcosa ti spinge ad aver paura oltre lo schermo, a pensare anche semplicemente che la bambina di Ad­ ventures of Dolile (il primo Biograph di Griffith, inizi del secolo), scampata mille volte alle insidie delle rapine e della sorte, sarà probabilmente morta, a sapere che Varroseur arrosé è certo morto da tanto tempo. Immagine di morte, la paura sarà allora possibile (come intuiva Bazin riflettendo sull’osceno) solo se il cinema in qualche modo muore e si nega alla sua continuità funzionale, se si affida all’in­ certezza e all’indeterminatezza delle immagini. Shining, Non essere più di casa dove si è di casa, essere costretti a entrare real­ mente nella finzione. Recuperare infine la paura del vuoto assoluto in cui nasce il cinema (Michael Snow). Il cinema, non è logicamente il contrario della paura? Luogo di orrori che attrag­ gono e non respingono, immagine rovesciata della paura, come in una camera oscura. Registi che, come Penn, fanno cinema esorcizzando la paura che da piccoli li spinse una volta sotto il sedile tenendoli lontani per anni dalle sale cinematogra­ fiche (!). O che come Schrader (American Gigolo e II bacio della pantera, remake di un classico della “paura”, Cat People di Lewton e Tourneur) devono lottare contro la paura religiosa e iconoclasta di una famiglia che per sedici anni gli ha impedito di vedere un film. Paura magari solo di non poter fare più i film che si sognava di fare; terrore, ve­ dendo i film preferiti, che mano a mano lo scenario si componga e non resti più nulla da fare. Un’impressione del genere di fronte a Shining (e Eraserhead?}. Non a caso il film di un regista che ha imparato ad amare la bomba cantic­ chiando Well meet again, e il cui primo film - andato perduto, e rinnegato dal­ l’autore - si chiamava Paura e desiderio. E il suono sempre più sinistro delle strizzate d’occhio come i finali di Polanski che sono sempre dei “Forget it Jake, è solo un film”. Sinistro come è sempre stato sinistro il suono di C’est la vie, so ist das Leben: la vita è fatta così. Come il ci­ nema, desiderio e paura. [Segpocinema, 3, 1982]

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Non è un caso, che proprio all'inizio del libro Jerry Lewis racconti di una sua sparizione, di un'assenza dal set, anzi addirittura di un suo perdersi: infatti, “fui ritrovato mentre mi arrampicavo su una passerella". Questa è la struttura stessa del libro, delle lezioni di cinema in esso contenute (e paragonabili per importanza solo a due libri pedagogicamente fondamentali “scritti da cineasti": l’intervista Truffaut/Hitchcock e la sterminata Autobiogra­ fia, inedita in Italia, di Cecil B. De Mille). Il più grande e folle comico cinemato­ grafico - cioè semplicemente “il più grande comico del mondo” vivente, assu­ mendo nella qualità “grande” la qualità “cinematografica” - si sposta come un geniale quadrumane dall'uno agli altri dei problemi che messi insieme produ­ cono un film. Per far ciò, il movimento principale è quello di sparire, oscurarsi, cancellarsi per lunghe pagine in quanto comico e corpo dell’attore comico. Nella funzione pedagogica obbligata (lezioni universitarie) Lewis trova il modo di riba­ dire il concetto portante del cinema comico, la presenza in scena, il ritmo dei corpi nella scena e nell’inquadratura, e insieme di rivendicare il diritto/dovere di abbandonare la scena per percorrere i diversi anfratti del fuori-campo, appunto le impalcature che sostengono e formano lo studio/set. Scusi, dovè il set? diventa allora un titolo perfetto, meno ideologico dell’origi­ nale: The total film maker. Il corpo comico si aggira sul set e intorno al set, den­ tro l'inquadratura e fuori, chiedendosi sempre dove stare, quale sia il suo posto, volendo fare del cinema. Capiamo presto dove si situa Lewis: alla domanda del ti­ tolo italiano risponde con il titolo inglese, il corpo comico sta dentro l’inquadra­ tura ma il set è ovunque, si dilata oltre lo studio o il luogo in cui si filma, rag­ giunge l’ufficio del produttore, la moviola di montaggio, si acquatta nel foro in­ teriore del regista/autore, nello spazio mentale in cui l’immagine si immagina. Con Lewis, arrampicandoci lungo tutte le strutture che formano o ingombrano il cinema, si imparano a riconoscere tutti i momenti in cui si gioca il destino di un film. In un cineasta americano ben precedente l’epoca dei registi-autori-produt­ tori alla Lucas/Coppola, quasi stupisce tanta volontà di controllare tutto il pro­ cesso produttivo di un film. Ancor più stupisce il mito deX£autore, singolo e uni­ ficante, caldeggiato difeso promosso per tutto il libro, con accanimento quasi straubiano, o comunque di tipo “europeo". Per discutibile che sia, o utopistico, il mito del “total film maker" risulta perfetto da un punto di vista pedagogico, ol­

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tre a trovare forti riscontri dal punto di vista produttivo, cioè nei film stessi di Lewis. Su nessuna delle fasi della lavorazione di un film Lewis si permette osservazioni banali; pur risalenti a una quindicina d’anni fa, e riferendosi quindi a una parti­ colare fase storica (oltre che culturalgeografica: hollywoodiana) della macchinacinema, le sue lezioni aderiscono ottimamente anche all’oggz. E ancor più che nelle analisi puntuali e precise della pre-produzione, dell’ideazione e attuazione tecnica di una scena, della scelta delle musiche, degli obiettivi, delle scene, degli attori, Lewis risulta utile e folgorante quando affronta alcuni nodi “ambigui”, scarsamente tecnici, quelli che si chiamerebbero “problemi umani”. Rapporti con la gente, amore, desideri. Oltre le impalcature e le macchine che producono cinema, il percorso lewisiano attraversa la zona d’ombra principale, il tabù gene­ rale in cui è avvolto il cinema. Il gesto renudistico con cui Lewis dissolve quel­ l’ombra è quello di mostrarla chiara nei suoi contorni, ombra, nodo inesplicato, null’altro. Così, questo percorso/diario/manuale così tecnico e così “americano”, cioè pieno di solidità e di “buon senso”, inizia con una dichiarazione d’amore vi­ scerale e abissale, per quanto pronta a risalire dall’abisso nero oggettivando nella superficie della pellicola ciò che è amato, il cinema: l’immagine di se stesso chiuso in una moviola a leccare la pellicola, la “droga-pellicola”, pensando che “un qualcosa di più di me sarebbe passato nella pellicola”, è folle come quella analoga del più individualista dei cineasti europei, Werner Herzog. E il tono da individualistico “fai-da-te” ha continui cedimenti di tipo “sentimentale” o quasi “patetico”, simili agli intermezzi o sostrati umanistico-sentimentali, ideologicoconvenzionali, che secondo la critica più miope intaccano a volte la “comicità pura” del cinema lewisiano. Avendo a che fare coi corpi sempre, il comico sa bene quanto poco pura e pre-dnematografica, quanto folle e impura sia la co­ micità. E ugualmente quanto impura e tutto sommato approssimata sia la pro­ duzione di un film, attuata essenzialmente mediante corpi e persone. I “buoni sentimenti” che abbondano (i migliori tecnid dentro una troupe non sono i supertecnid perfezionisti, ma quelli più “umani” e “simpatici” che apportano ric­ chezza umana..; i migliori attori quelli che per aiutare un collega fingono di aver sbagliato loro., ecc..) pareggiano a stento la percentuale di calcoli e ragio­ namenti capitalistici, di afre, investimenti, sfruttamento del mercato, costi. E il bel nodo che li lega insieme non di rado è svelato con candidissimo dnismo; ecco il costume di scena regalato a un’attrice, accompagnato da un biglietto gentile; quando l’attrice parte per una lunga tournée in teatro, nelle interviste televisive rilasciate in varie città trova sempre il modo di parlare (bene) del film che ha appena fatto con Lewis: “Pagare per una pubblidtà del genere sa­ rebbe costato arca 600.000 dollari. Secondo i miei calcoli, d ha fatto un regalo di un mezzo milione di dollari”. H lavoro, l’umanità, il dollaro. Lewis dta pa­ role semplici di un grandissimo regista di intrighi sofisticati (da Èva contro Èva a Gli insospettabili), Joseph Mankiewicz: “Il buon regista è quello che sa creare un’atmosfera favorevole al lavoro”. Ovvietà che farebbero cadere le braccia se la loro verità oscura non risultasse chiara a chiunque abbia messo piede su un set. “Fattore umano”, “doti umane”. Né sentimentalismo né umanitarismo. Ri­

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badendo tali concetti, sottolineando tali doti come fondamentali nel lavoro ci­ nematografico, Lewis continua a parlare in realtà di “tecnica”. I mille segreti per riuscire a ottenere che un progetto individuale venga realizzato da cento paia di mani. Qui si tocca davvero il fondo, la questione chiave di ciò che è stato il cinema fino a oggi. E a farla risonare, a chiarirla, è proprio la non vergogna con cui in mezzo alle lezioni di cinema vengono inserite pagine da manualetto di psicologia spic­ ciola. (Essere felice, non è questo forse il fìne/tema/problema di tutti i film di Le­ wis, aldilà dei generi di volta in volta percorsi o parodiati, dal western al polizie­ sco al film di guerra? Non è forse il fine o il tema di quasi tutto il cinema co­ mico? da Chaplin a Troisi, la felicità da cercare attraverso infelicità e dis-awenture interminabili. In quale altro genere la felicità e il benessere sono la questione chiave?) Il cinema si palesa, molto prima e molto più che essere film, come arte di raccattare o fare i soldi per fare i film, convincere delle persone ad aiutarvi a farlo, per soldi e per amore insieme (oppure, non per soldi ma per denaro, alla Wilder). Più che uno scrittore (ciò che “da piccolo” voleva essere Lewis da grande, come Truffaut) anche il regista/autore è allora un mediatore continuo, che prima di tutto (anche se non è un Jerry Lewis che dirige Jerry Lewis) mette in scena, in mezzo alla scena, a tutte le scene, se stesso. E che si deve trasformare in una specie di piccolo condottiero capace di trascinare persone, divinare situa­ zioni presenti e future, animare cose e indicare orizzonti. Senza criteri che non siano sogni personali lentamente portati dalla folgorazione mentale alla visualiz­ zazione “per tutti”. Dalla scelta di un obiettivo a quella di un attore, il libro di Lewis chiarisce così il perché dell’opacità in cui ci si immerge appena si tenti di capire per esempio quella che fu la macchina/cinema più rigorosa, precisa, po­ tente, industriale: la Hollywood classica. La descrizione del meccanismo (la divi­ sione del lavoro, il potere dei produttori, lo “stile” e l’economia delle Major, i tipi di contratto in uso) non basta mai a spiegare certe “differenze”, tra regista e regista, tra stile e stile, tra film e film in definitiva. E le autobiografie, le memorie anche di grandi protagonisti sembrano sempre spezzettarsi in episodietti di scarso interesse, aneddoti, ricordi di incontri costellati di battute scipite, giudizi sugli altri attori, sugli altri registi, sugli altri produttori.. Disegnando proprio quel reticolo vuoto di rapporti umani che di per sé (e di sé) nulla dicono e nulla spiegano, se non che di lì dovrebbe partire una storia (impossibile) del cinema. Proprio di lì: dalle antipatie, dalle durezze di carattere, dalla cattiveria di un re­ gista, dalla dolcezza di un’attrice, dalla doppiezza di un attore, dai meteorismi del fotografo, dal (per chi ci crede) segno zodiacale del truccatore. “Umanità”, oltre che una dote, è quindi anche una spia rossa continuamente lampeggiante nel percorso attraverso questo set lewisiano dilatato presumibil­ mente fino al filo da cui passano le telefonate con gli attori. E “umana”, splendi­ damente e misteriosamente umana resta la discriminante ultima, la motivazione immotivata delle singole scelte filmiche e dello stesso fare cinema, confessato quando Lewis spiega quale può essere il criterio ultimo e unico per procedere sul crinale in bilico tra il se stesso/regista e il pubblico: il piacere, il proprio piacere. Criterio così di buon senso e così irrazionale, cori vicino alla risposta indicata da

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Lewis come ideale alla domanda “Perché volete fare del cinema comico?”: “Per­ ché c’è qualcosa in me che mi spinge a farlo”; “Perché non so perché”. Si spiega l’ossessione di Lewis in queste lezioni (e nel suo cinema!) per il con­ trollo di tutto il processo produttivo, così vicino a quella dell'autore “definitivo e mostruoso”, Kubrick, da lui tanto ammirato. Nasce, più che dall’individualismo ebreo-americano, proprio nella consapevolezza dell’enorme ammasso di casualità in mezzo a cui un film prende forma e di cui si sostanzia. Tentare di sostituire ad alcune di esse delle causalità è il compito del controllo minuzioso in ogni fase del rapporto tra progetto/intenzione e realizzazione tecnica. Fin dall’inizio infatti la tendenza al controllo più assoluto possibile è posta in relazione con l’intangibi­ lità, con l’imponderabilità di fondo, con la capacità della pellicola di trattenere, a volte, da sola, l’intangibilità stessa del reale, di percepire il lavoro che su di essa e con essa il cineasta sta compiendo e intende compiere. Spiritualismo pellicolare quasi, alla Bazin. Ma, come in Bazin, quali che siano i termini usati o l’ideologia, il ragionare di pellicola se spinto a fondo non può che arrivare a livelli di asso­ luta lucidità. E Lewis è lucido in questo testo, modernissimo e capace di spiegare la modernità dei suoi film e del suo cinema. L’immagine della pellicola infettata dal bacillo dell’informazione è splendidamente illuministica. Anche manovrata da un idiota (senza riferimento all’idiota/personaggio di Lewis cui Jerry si riferisce di continuo nel testo producendo - con un altro guizzo modernissimo - un tri­ plice sfasamento tra il Lewis/regista, il Lewis/attore, e il Lewis/personaggio (Idiota); o quadruplice, mettendo nel conto il Lewis che fa lezione..), la mac­ china da presa capta “migliaia” di informazioni a ogni istante, e il compito del to­ tal film maker è cercare di determinarne, conoscerne, rintracciarne, orientarne e usarne il maggior numero possibile, che naturalmente sarà sempre minimo dato che il “migliaia” tra virgolette equivale a infinite (informazioni). Per muoversi dentro le possibilità di scelta anch’esse virtualmente infinite (ogni punto spaziale può produrre differenza), rispetto alle quali Lewis sembra credere all’esistenza di una (o due, o dieci o mille) scelta o “posizione” giusta ogni volta (sembra un as­ surdo, ma in certi momenti di Walsh - la scena del bar ne La storia del generale Custer o in Sul fiume d’argento - o di Ford o di Lang pare davvero di vedere dal­ l’unico punto di vista possibile, l’unico “esatto”..), Jerry adotta metodi estremamente moderni. Come spiega, è stato il primo al mondo a utilizzare un sistema di controllo video con telecamere e monitor sul set che gli davano la possibilità di verificare in ogni momento l’immagine, di valutare le “informazioni” che sta­ vano passando dal set alla pellicola. Oggi il cinema, nelle sue punte industriali/sperimentali (Coppola, Lucas, Spiel­ berg, Godard, cinema industriale e pubblicitario, videomusic) punta a obiettivi diversi, controllando il mezzo (video, o come se) per ottenere immagini virtual­ mente sintetiche (magari un giorno, è il sogno di Coppola, l’effetto realistico del corpo stesso dell’attore), cioè controllate in partenza, all’atto di generarle, in un sogno di manipolazione che mima pacificamente l’idea di Dio o quella di Hitler. Ricercando possibilità espressive inedite ma in fondo scegliendo gli elementi di informazione come su una tavolozza, cioè dentro un insieme delimitato, per poi mescolarle sovrapporle incrociarle, nei modi più sbrigliati.

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Rispetto ai bambini di Spielberg (ricordo E.T., ma non i loro volti) che sembrano tutti uguali, o agli attori/funzione (espressivi poco; o meglio, molto espressivi, ma in poche direzioni, felicemente e volutamente convenzionali) lueasiani, l’identità/integrità del volto/corpo e del cinema lewisiano ha poche possibilità (se mai il cinema ipermodemo salta direttamente a - o prende le mosse da - un’altra immagine sintetica, la comicità scatenata e “violenta” del cartoon). La sua le­ zione principale, oggi, resta un’altra; quella su cui non cessa di insistere, vero tema di fondo della lezione di regia lewisiana: situato il corpo, il problema al ci­ nema è il ritmo (anche per questo tutti i “nuovi comici” italiani dovrebbero leg­ gere questo libro; e i “futuri”). Da tutti i magnifici e didattici movimenti di chiarimento e svelamento illuminista che abbondano nel libro come nei film di Lewis (Hollywood e il cinema sono un tema e un punto di riferimento costante nella sua filmografia, non solo nella “tri­ logia” che i titoli italiani dichiarano esplicitamente: Hollywood o morte, Il matta­ tore di Hollywood, Jerry 8 e 3/4) una cosa viene infine ribadita, che è la meno mo­ strabile, la più “intangibile”, la più importante, la più visivamente musicale: il ritmo. Quando ne L'idolo delle donne uno straordinario movimento di gru (sulla quale Lewis ha imparato benissimo ad arrampicarsi) ci mostra un intero pa­ lazzo in spaccato con tutto ciò che avviene all’interno, non solo dà una lezione di cinema moderno (ripresa dal fan lewisiano Godard in uno dei suoi film più intensamente “politico/brechtiani” Tout va bien), ma ci pone di fronte al pro­ blema che subito segue l’atto del mostrare. Dare un ritmo a ciò che si vede; e an­ che, o anche, dare un ritmo al vedere. E parlando di ritmi non si intende solo montaggio o rapporto di scene o durata, ma rapporto di un’inquadratura con un’altra, di grandezze con altre grandezze, un ritmo visivo. Il rigore e la sempli­ cità con cui Lewis ha filmato e realizzato le gag più assurde lascia continui echi in queste pagine; come nel continuo invito agli “esordienti” (cui esplicitamente è rivolto tutto il discorso) a diffidare del gadget tecnico e del “grandioso” (par­ lando dei superschermi: “Pensano solo al Grand Canyon e si limitano a dire: metteteci dentro degli attori”). Ovvio che il suo tipo discreto e ambiguo di mo­ dernità (sperimentata in teatro, in TV, al cinema) abbia subito una crisi (anche personale) già negli anni settanta, in epoca di dolby e di nuove apocalissi so­ noro-visive promesseci per l’attimo. Ma, mentre Lewis toma, e dà alle stampe la sua autobiografia, e interpreta nuovi film, e supera una crisi cardiaca e si ri­ sposa, nel cinema ipermodemo irrompe E.T., un film relativamente poco co­ stoso e sicuramente solido e “semplice” anche se da dolby. Un film che certo gli sarà piaciuto. Visto che finendo questo libro parla di un film che ha “ap­ pena visto”, di 24 minuti, intitolato Amblin, realizzato da un regista di ventun anni, Steven Spielberg, costato 17.000 dollari., pieno di uno straordinario ta­ lento registico e creativo. Oh, le qualità “umane” di uno che capisce il talento, che ama il cinema. Anche in chi (o soprattutto in chi) avrà più forza, astuzia, entusiasmo di sopravvivere e adattarsi nelle nuove costosissime condizioni della produzione industriale di film. Intanto, per restare alle soddisfazioni umane, ecco Lewis incontrare un regista giovane e geniale, Martin Scorsese, che gli fa interpretare un film come attore/

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Jerry Lewis in carne e ossa, senza aspettare le repliche elettroniche coppoliane, e dotandolo di un titolo adatto: King of Comedy. E il futuro di Lewis, di fronte a questo libro così lucido e “presente”, ma dopo un vuoto anche cinematografico di dieci anni? Spielberg ha dichiarato in un’intervista che un giorno, lui era un bambino, il pa­ dre arrivò a casa mostrando un piccolo aggeggio nel palmo della mano, una capsuletta, e dichiarando con enfasi: “Guarda ragazzo, è un transistor, guardalo bene perché questo è il futuro.” “Lo presi e lo ingoiai. Mi pareva bellissimo, in­ goiare il futuro.” Non so se Lewis ha una mouth (bocca) abbastanza big (grossa: The Big Mouth è il titolo originale di uno dei suoi capolavori, da noi II ciarlatano) per ingoiare un po’ di futuro ancora. Nel suo ultimo straordinario e sfortunato film, Bentornato picchiatello (nell’originale il bel titolo suona ironico-didattico: Hardly Working) Jerry dava un’altra ricetta per il presente: non è importante co­ struirsi un grande futuro, importante è costruirsi un buon passato. [in Jerry Lewis, Scusi dovè il set?, Arsenale, 1982]

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Doppio nome. Piccola variazione. Biografia? Gioco su Buddy Buddy? Più semplicemente, un lievissimo slittare, un aggiustamento di fuoco della mac­ china da presa, un’incertezza di scrittura. Un’ambiguità e una duplicità che in­ fine sembrano essere il cinema di Wilder almeno quanto sono materia dell’intrec­ cio e della “fabula” dei suoi film. Rispetto a registi come Lubitsch da una parte o Minnelli dall’altra, Wilder è stato spesso additato come esempio di minor compiutezza, minor controllo regi­ stico, minor sottigliezza. In definitiva, come autore di un cinema meno capace di costruire ambiguità filmiche che di scatenarsi nei contorcimenti della farsa (dove il travestimento è tutto meno che ambiguo, nella sua riproposta continua e di­ chiarata di meccanismo) o nei viluppi del “noir”. Tra l’altro, l’ostinato rifuggire di Wilder dalle spiegazioni o anche solo da esami “seri” della sua opera aiutò e aiuta a confondere le acque. E lui il più rigido e convinto sostenitore della “regia che non si vede”; e ovviamente in questa chiave i suoi primi film, per esempio, tradiscono una vera e propria assenza di “impalpa­ bilità”, una lontananza flagrante dal maestro Lubitsch. Ma proprio il primo titolo hollywoodiano di Wilder, The Major and the Minor, svela e sintetizza con perfetta chiarezza la duplicità e ambiguità cui si accennava. Il rigore del Lubitsch touch lascia posto a un “accordo” wilderiano sempre in bi­ lico tra “maggiore” e “minore”, a un cinema complesso che si sposta verso la can­ cellazione della regia solo nel senso di un sempre più evidente occultamento delle pratiche d’autore. Non è questione di “gusto” (cattivo o buono), se i molti “grandi temi” (l’alcoli­ smo, il mondo del cinema, il giornalismo sensazionalistico..) toccati dai film di Wilder hanno dato luogo a manufatti privi di teoria o di un toccante riconoscibile eppure perfettamente funzionante e insieme anomali rispetto ai generi domi­ nanti. E se in seguito i grandi temi scompaiono e si dissolvono in film che per compattezza culturale e capacità di mescolare il minore e il maggiore (Stalag 17, The Apartment, One, Two, Three, Kiss Me Stupid, The Fortune Cookie, Avanti!) fanno pensare non al “tragico” ma alla capacità riassuntiva, popolare, propulsiva della tragedia euripidea. Omologare Wilder al “cinema americano” è per questo quasi un esercizio perico­ loso. Il cinema della trasparenza schermica per eccellenza, che la regia fosse visi­

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bile o invisibile, ha sempre comunque avuto come regola generale quella di di­ chiarare la propria identità, attraverso il sistema dei generi e i codici di riconosci­ mento che ne derivano. Mentre il cinema di Wilder è non solo “il cinema dei tra­ vestimenti’* ma anche e soprattutto un cinema travestito. Travestito da cinico o da ingenuo, da minore o da maggiore, da teatro o da operetta, da drammone o da farsa, il cinema di Wilder ossessionato dai travestimenti narrati è anche il cinema più travestito e indefinibile che oggi esista. Indefinibile forse anche come “trave­ stito’*, cioè come sistema di maschere attraverso cui un soggetto (il regista) cela e rivela pazientemente il suo enigma complessivo. Non un cinema che si traveste e si maschera, non quindi il travestimento come “attributo** ma proprio come “so­ stanza”. Un cinema già noto così, ambiguo, travestito travestito, non a caso svi­ luppatosi dalle parti di Casablanca. Cinema “operato” fin dall’inizio, fin dalla scissura così ben accettata e ricom­ posta tra Europa e America, tra Vienna (e Berlino) e Hollywood. Così, tutto il fare cinema di Wilder, cod poco “truccato” (“Detesto i trucchi. Si vede un uomo che attraversa la strada e all’improvviso viene inquadrato dal nono piano di una casa. In sala, ci si comincia a dire: Deve esserci un agente dell’FRI che lo sorveglia. Invece, si tratta solo di un operatore che vuol fare l’artista”), è un continuo maquillage-dissolvenza di un volto (o di un corpo) che non si of­ fre mai nudo. Uno dei pochi “viennesi veri” del cinema diventa in realtà un perfetto berlinese, e a Berlino si avvicina al cinema in una parodia svagata del­ l’itinerario frammentato e concentrato del self-made man americano, prati­ cando vari mestieri (gigolò., giornalista., umorista..) e sottraendosi a qualsiasi magistero teorico-culturale. E a Hollywood si mette subito a scrivere le trame del miglior cinema americano. Qui, in questo semplice “scrivere le trame” per altri, si annida probabilmente il cuore invisibile dell’ambiguità wilderiana. Qui, e nella motivazione (a ben ve­ dere imperscrutabile) che lo spingerà poi a voler girare lui le proprie storie per­ ché “una testa funziona meglio di due”. Wilder, con i film e con i suoi “detti” di­ screti e ritrosi, cinici e burberi, è infatti il regista che più si avvicina al non-detto principale su cui si fonda qualsiasi dire, (e in modo particolare e clamoroso il ci­ nema): si gira sempre lo stesso film. E da notare come ciò sia inteso in senso praticamente opposto a quello dell’arti­ sta che “scava”, “approfondisce”, “ripete”, “perfeziona”, le proprie ambizioni te­ matiche incertezze ossessioni.. Una testa funziona meglio di due ma il cinema è uno scambiarsi continuo di teste che sfumano luna nell’altra. Un circolare di nomi, di corpi, di volti, di paesaggi, che sembrano infiniti ma sono in realtà limitati: una centrifuga che ogni tanto manda fuori, rilavati è strizzati, oggetti già visti. Una macchina da scrivere collet­ tiva le cui “scimmie” riscrivono continuamente le stesse storie. Così, del tutto na­ turalmente, la forma-travestimento è insieme il metodo e il senso stesso del ci­ nema di Wilder; e la complessità vertiginosa e indefinibile (e invisibile, e rara­ mente vista p. es. dai critici, per quanto avvertita dai pubblici) di questo senso è data proprio dalla vicinanza alla struttura generale con cui il cinema produce e macina le sue storie.

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Billy Billie

Percorrere le trame e i titoli sarà allora istruttivo. Si scopre che Wilder nasce e cresce dentro un cinema tedesco che riciclava storie poliziesche e mistery di pro­ venienza americana; un cinema tedesco dove i giovani registi vengono utilizzati per rimontare serial americani (o tedeschi) traendo due film da uno solo; un ci­ nema tedesco che poi a sua volta riesporterà trame e meccanismi narrativi.. Si scopre che di un film sceneggiato allora da Wilder fu fatto un remake perfino in Cina. Si scopre che il “remake” sembra essere il concetto-chiave del cinema di Wilder. Si constata che il suo ultimo successo è il remake di un recente film fran­ cese di successo. Dentro il vortice diventa inutile forse discutere di commedie travestite da dramma o viceversa. O può essere accademico fare paragoni (scoprire magari, nella centrifuga, che per errore un attimo il volto di Bufiuel dissolve in quello di Wilder..). O verificare per l’ennesima volta come, avvicinandosi nei fatti alla struttura dei modelli, Wilder ritrovi i sistemi di “dati” e di “tracce” che è l’incon­ scio di Freud (Freud che un giorno a Vienna lo cacciò di casa). Affascinante diventa provare a scoprire un vuoto dietro la sostanza ultima che è in Wilder il travestimento. Inventarsi un Wilder metafisico sornione, che filma in immagine indimenticabile l'aria - soffio non filmabile e trasparente - che si fa movimento e corpo, carne scoperta, le gambe incantevoli di Marilyn spogliate in The Seven Year Itch. O che, senza preoccuparsi di essere cacciato di casa, vive solo dentro il cinema, dentro la camera mentale che è il cinema e - dietro le ac­ que confuse a bella posta - inventa una delle immagini più chiare e stupende della storia del cinema: il corpo galleggiante cadavere di colui che parla (l’au­ tore?) all’inizio di Sunset Boulevard visto da sotto, dal fondo (della vasca). Filmando il fuoricampo da cui sempre si parla fingendosi onniscienti (e sospesi in uno spazio acquoso, in una prospettiva indefinibile e strana stranissima) e au­ torizzati a parlare nella saggezza ironica della morte filmica. [in Billy Wilder, Editori del Grifo, 1982, in collaborazione con Marco Giusti]

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Dal video-giocare alla video-jacquerie

Il flaneur baudelairiano ha vita dura nel paesaggio urbano contemporaneo. O meglio, gli si richiede una capacità attiva di dispersione dell’energia, una pos­ sibilità di applicazione meccanica, che si pongono solo come sostitutive di al­ tro, rinviando all’infinito l’avvento sovrano della pigrizia. Apparentemente più ro//, meno imponente e rumoroso del flipper postbellico con cui il gioca­ tore doveva far corpo in un amplesso hard, il video-gioco, pubblico o privato, da sala giochi o da camera, porta nel suo funzionamento il segno di una tota­ lità, graziosa o temibile, comunque proprio una totalità nel senso hegeliano del termine. Intanto, che si abbattano tre marziani colorati o (essendo bravi e allenati) tre­ mila o trentamila, cambia poco. Non il gioco, che per forza - per potersi gio­ care - ha regole fisse. Ma la situazione del gioco, che è radicalmente diversa da tutte le altre situazioni di gioco storicamente avvenute. Più che a un “gioco”, il videogioco assomiglia a un Rito, dove la ripetizione consente il Mito mediante l’immutabilità della Legge. La regola del videogioco, rimando a cose dette al­ trove1, è insieme la Legge, la Macchina, il Tempo e il Campo del gioco. Il vi­ deogioco, si è detto, costituisce col giocatore (o con i giocatori) un circuito dove ciò con cui si gioca è l’elettronica stessa, con i suoi timing precisi. Il mas­ simo di bravura è di adattarsi alla macchina e ai suoi tempi, a ciò che essa con­ sente. Ricordo che Abruzzese leggeva nel ragazzino in video-azione un atteg­ giamento da domatore: la macchina come un cavallo, o una bestia ignota, il ritmo del girarle intorno, tastarla, provarla, comprenderne lentamente i mecca­ nismi di funzionamento, infine il possesso di essi o di essa, domata. Posto che, se non nella realtà in cui il cavaliere spesso è portato, almeno nei film di Ford il cavallo può poi essere indirizzato in una direzione, facendo certo attenzione (come mostra Sentieri selvaggi) ai suoi ritmi di macchina animale, il videogioco si trova invece a essere un cavallo a dondolo (da fiera o da camera) sempre fermo nello stesso posto. Non a caso, dal punto di vista dell’animazione, una sala di videogiochi senza clienti non è meno vivace di una piena. Lo spettacolo visivo, anzi, è più facile a percepirsi, meno ingombrato dai corpi che si attac­ cano alla macchina. Ma il videogioco attende il corpo, per fame, si è detto e si ripete apoditticamente, una parte del corpo-macchina, il che vuol poi dire una parte del campo stesso in cui si gioca. Si è detto, con altre parole, che il video­ 196

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gioco potrebbe ricordare un vampiro. E senz’altro, il videogioco giunge a pos­ sedere il corpo, non ammette distrazioni, se si vuole raggiungere la “presta­ zione”. Il flaneur certo sa come difendersi; ma è costretto a farlo non giocando, o giocando il videogioco rifiutando di giocarci, senza neanche pensare a una vittoria che comunque, nel lungo periodo, è keynesianamente impossibile. (Forse infatti un ragazzetto ipemutrito oppure disperatamente new-wave, assi­ stito da medici e amici, potrebbe abbattere milioni o miliardi di marziani, ma infine morto sopraggiungerebbe.) Passare da un videogioco all’altro, brevi at­ timi, mai competitivi, godersi lo spettacolo, forse. Ma qui si rischia di cadere (per quanto sìa utile) in ricordi francofortesi o benjaminiani, e non è il luogo o il momento. Da tempo si accetta con beata incoscienza la distinzione nominalistica tra Uomo e Macchina; meno beatamente, possiamo accettarla anche noi. La questione, infatti, non è quella della differenza, o del re­ cupero rétro di differenze private all’interno dei parametri urbani. E neanche quella della metropoli, termine che per maggior precisione, après McLuhan se non altro, conviene sovrapporre e far coincidere con quello di mondo, visto che per il cittadino di Metropolis, fosse pure Superman al polo Nord, ci sarà ancora la televisione a ricordargli (suprema ironia) la realtà*. Tanto più si è distanti dal tessuto urbano tanto più si scorge la forma del paesaggio urbano, che è quella del punto o meglio del velo in espansione. Nella provincia o nella savana ricorre l’iperrealtà urbana; ma era già accaduto per la luna, di molti chilometri più lon­ tana. Questa della frantumazione delle distanze, ideologia senz’altro, ideologia del mezzo di comunicazione di massa o di trasporto, con benzine o energie nuove, ideologia video, quindi perfettamente sembiante e fatta reale, è in ogni senso l’ideologia principale dell’elettronica, e - per quel che lo riguarda - del videogioco. L’illusione ideologico/entusiastica del nomadismo, della disper­ sione del soggetto, del decentramento, del procedere in tutte le direzioni - che per esempio, a proposito di direzioni, emerge proprio nei settori più avanzati e coscienti della sinistra -, nell’abbandonarsi al flusso urbano e a tutte le musi­ che, ecc.. è tragicamente perdente proprio nella mimesi elettronica, cioè nel­ l’adorazione elettronica, nel cercar di fare e ripetere proprio le cose che l'auto­ mazione elettronica fa o soprattutto ha già fatto con assoluta capacità di concen­ trazione. Se per una volta vai la pena di usare il termine, baudrillardesco e “buono a tutto”, implosione, è appunto per definire nell’insieme l’operazione generale dell’elettronica, mentre il soggetto può credere di mimarne le fun­ zioni esplodendo. Condensare, ridurre le distanze e i tempi e le grandezze, fino a giungere (combinando tecnologie diverse, dalle fibre ottiche al laser) tenden­ zialmente e all’infinito a un punto piccolissimo in cui milioni di funzioni, di im­ magini, cose, operazioni, usi, possano essere concentrati. Illudersi di una tra­ sversalità, solo perché è possibile praticarla, equivale a trascurare troppo le ap­ parenze, a ritenere banale ciò che salta agli occhi, la contraddizione fisica tra tendenza al punto non misurabile, piccolissimo e infinito da una parte, e realtà dell’estensione geografica - e in particolare dell’accumulazione e agglomera­ zione urbana - dall’altra. 197

Non per determinare valori, ma se mai per ricercare alcune valenze, e per sfug­ gire al post-sessantottismo avanguardistico o a quello antieracliteo rifluente, può essere utile fermarsi sulla questione che - più di ogni altra - viene curiosamente posta da dò che sembra distruggerla: quella del soggetto. Che si gioca appunto sul terreno immaginario dell’elettronica, anche da parte degli individui che vi­ vono su territori più o meno “reali”, come l’Italia, per esempio. Un paese dove, sempre per esempio, l’ottusità terroristica ha rivolto in passato le sue attenzioni ai cervelli elettronid e alle banche di informazioni in modo ovviamente parassi­ tario e difensivo, restando per il resto completamente prigioniera del sistema delle comunicazioni di massa. Videogioco. Ma si può tornare al videogioco e alla questione del soggetto la­ sciando tra parentesi l’occhio straordinario di Kubrick che non a caso oggi dopo aver fatto nel ’68 2001 - fa Barry Lyndon e infine uno Shining che stupisce per la sua capacità di rifare l’identica operazione di 2001 in altri spazi, altre stanze, altri tempi, ponendo magistralmente proprio tale questione. D soggetto consumatore presupposto all’atto della costruzione come parte della macchina (come accade per esempio in ogni mezzo di trasporto, si noti; in ogni, mezzo per qualcosa; ma qui si tratta di gioco, un’azione molto particolare) che con essa dovrà far colpo. Riduzione della distanza soggetto-oggetto. Come in­ gresso nel sociale, inoltre, il videogioco è esemplare nel senso di una riduzione della distanza tra pratiche basse e alte. Gioco da fiera e da baraccone, oltre che da camera, tende a sostituire, con l’applicazione meccanica del corpo del gioca­ tore al ritmo di una macchina, il virtuosismo - anche acrobatico e fisico - del tra­ dizionale gioco da fiera. Alla concentrazione nel gesto “abile”, nella “mira”, nel­ l’agilità fisica, che anche a un flaneur consentirebbe l’exploit passeggero, suben­ tra l’applicazione un po’ sorda a un ritmo non proprio, la forzata adesione a un tempo di gioco imposto per quanto riguarda i singoli tempi delle mosse e delle reazioni alle mosse. Il discorso, su questo piano, potrebbe proseguire, fino alle raffinatezze estreme dei war-game video, la cui massima perversione e genialità è quella di occultare il massimo gioco post-bellico e post-moderno, post-Superman e post-Alex Raymond, quello che i masters of the war conducono per la prima volta su scala davvero mondiale e orbitale. Ma c’è un altro modo, più “tecnico” e meno legato al funzionamento del circuito videogioco/videogiocatore, in cui il videogioco pone la questione del soggetto: ed è la qualità stessa della sua immagine video. Così come, dalla qualità comples­ siva del sistema della comunicazione televisiva, si è prodotto ed è già possibile un nuovo modo di “videogiocare”. L’immagine elettronica del videogioco è infatti attualmente il caso più diffuso e generale di immagine che simula dei corpi e dei soggetti, umani o marziani, senza far riferimento - in nessun punto del processo di produzione dell’imma­ gine stessa - alla presenza effettiva del corpo stesso. Per quanto ancora legata per motivi di economia semantica ed economia capitalistica - a un sistema di si­ gnificazioni tramite simboli, essa è già nella classe di quelle che si possono chia­ mare, con termine tra il plotiniano e l’eckartiano, immagini di immagini, metaimmagini, immagini definitivamente senza corpo; come quelle già usate nella si­ mulazione dei voli spaziali, immagini del tutto verosimili, cioè apparentemente

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rimandanti a un corpo del quale si sia fatta copia, fotograficamente o in altro modo. La coerenza dell'immagine può cioè far pensare alla fotografia di una cosa, mentre invece si tratta di “un’altra cosa”, né immagini né cosa prodotta mediante bit di informazione tradotti in numerosissimi punti elettronici sullo schermo (e forse non a caso David Byme dei Talking Heads, scrive la sua Seen, sul desiderio - concepito di fronte alla TV - di avere un altro volto, simile a uno visto per caso, o mentalmente immaginato come preferibile al proprio). Gli stessi Coppola e Lucas, nuovi tycoons cinematografici, riscoprono il video e la televisione per la possibilità di truccaggio, per la capacità di produrre “imma­ gini false” e verosimili. Ne L’impero colpisce ancora spesso dentro un’inquadra­ tura ci sono tre o quattro livelli di immagini che compongono quindi un insieme quasi totalmente sintetico, prodotto solo grazie al computer che permette il per­ fetto inserimento, l’incastrarsi o lo spalmarsi l’una sull’altra delle immagini. Tra fondali, primi-piani, corpi umani, è un vero e proprio missaggio delle immagini quello che si affaccia, ancora più composito e interessante, come operazione, di quella del possibile trompe l’oeil elettronico suaccennato. Di fronte a queste nuove possibilità, come di fronte a tutta l’elettronica, il pro­ blema non è quello dell’adorazione e del flusso, ma quello del comando, del “po­ tere” di disporre e predisporre i nuovi scenari immaginari. La questione del soggetto non si pone così dalla parte dell’artista creatore, ma anzi è problema di qualsiasi istanza vivente. In ritardo rispetto alla chimica, c’è la possibilità di sintetizzare le immagini. L’uso di tale possibilità può essere strap­ pato a padrini e padroni (si parla anche di mercato) solo se rispetto ad essa non si opera una fuga ma anzi si prende la decisione di rilanciare, giocando fino in fondo. Così, la crisi dell’opera, chiusa o aperta, non è necessariamente un appiattimento delle possibilità o degli scenari “artistici”; in crisi sono le singole opere, ma mai come adesso l’operazione (si veda, banalmente, il vertice di presenza raggiunto dal regista nel teatro oggi) è stata possibile. È sovrana. La crisi stessa, tutta in­ tera, si sta muovendo, con un’economia autonoma e imperterrita, verso un riuti­ lizzo del già prodotto e addirittura (con i rifiuti riciclati) del già usato. Il gioco va quindi spinto sempre oltre, senza mai fermarlo, anzi sovrapponendo sempre un gioco all’altro, come avviene con le scommesse sui vari sport. È probabilmente l’unico modo per sfuggire alle trappole di nuove architetture, nuove forme, nuove ideologie, moderne o post-moderne. Non fermarsi sulle immagini, ma mutarle continuamente, ponendo quindi il problema della post-immagine, come si potrebbe dire. Nulla di fantascientifico e di illusorio. Anzi, un processo in questa direzione è appunto già avviato. Basta pensare a quanto ormai sia più “regista” e “sog­ getto” (benché ancora abbondantemente passivo), rispetto al patetico autore “vero” televisivo o cinematografico, il telespettatore munito di telecomando. Il telecomando è l’esempio più avanzato di videogioco, la possibilità oltranzi­ stica di mutare scenario e di mutare, incrociare, distruggere e cancellare i testi. Il testo diventa palin-testo, ogni volta, nessuna immagine è sicura e ferma. Al­ l’appiattimento e al “tutto uguale”, all’indifferenza che può sembrare il pro­ 199

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dotto primo di un tale videogiocare, subentra invece un atteggiamento violen­ temente combinatorio che è probabilmente il tratto strutturale, anche se costi­ tuzionalmente “vuoto”, di ogni operazione nel post-moderno. L’ars combina­ toria che, dalla citazione all’aggregato retorico, domina ogni campo nel suo sviluppo recente, incluso quello della riflessione estetico-filosofica, mai come oggi combinatorio (anche se a volte - o più spesso - è pura ripetizione: ma non tutti sanno giocare). H diffondersi in ogni settore produttivo (compreso quello della produzione di immagini) del principio del montaggio e del riuso, vincente a tutti i livelli, è confermato dalle operazioni in campo musicale (si veda il “regista musicale” Brian Eno e tutti i gruppi più avanzati, assolutamente non originali nei materiali, ma inventori di montaggi sempre nuovi e di forme e materiali diversi ma ripetuti e spesso ultra-tradizionali). Il mondo, con tutte le sue opere, diventa un unico repertorio, un magazzino e un arsenale. Come se tutto fosse già stato prodotto e non si trattasse di riprodurre ma di ri-produrre, con le macerie o con i sogni. Perfino in campo urbanistico-architettonico la filosofia del riuso, del non più costruire ma del riadattare mesco­ lando tecnologie diverse e senza mai fermarsi a un’opera immaginata, è ormai avanzata, e ne è esponente proprio uno come Renzo Piano, “autore” del Beaubourg, paradossalmente frainteso da Baudrillard proprio come “immagine esemplare”3. Tornando al video, la registrazione stessa - che in generale sembrerebbe risocia­ lizzare o almeno diffondere l’opera e il testo - a sua volta li distrugge entrambi sempre più; non solo per le pratiche di smontaggio-distomamento-perversione che induce (non solo quindi perché mina l’integrità proprio mentre ne assicura la fruizione), ma soprattutto portanti a un’impossibilità sempre più marcata di fruire tutti i testi registrati nel tempo. La macchina-uomo non riesce (per ora) a registrare “più velocemente del tempo (reale)”; e la questione non è tanto il con­ trollo delle macchine e della loro memoria, ma la capacità di collegare la memo­ ria umana alla tecnologia e la possibilità di assumere informazioni (immagini, suoni, scritti) sui ritmi sfrenati della contemporaneità (letteralmente: “nello stesso tempo”). Quando tutto è registrato, quindi, tutto è pronto per la video-jacquerie, oltre lo stupore di fronte al videogiocare che in fondo si gioca benissimo anche da se stesso. Video-jacquerie’, parola eccessiva e illusoria forse, ma anche meno ovvia di quanto sembri. Entrare nei circuiti, scombinarli, dar loro il proprio tempo, rubar loro il tempo. Non fermarsi dentro l’immagine, non bearsi di una velocità che non è la propria; stoppare il fotogramma o il frame elettronico fino a bruciarlo o farlo saltare, essere più veloci o più lenti di esso, mai come lui. E - ma qui è que­ stione di gusti, cioè massimo di incertezza e virtualità morale - non cedere alla tentazione di salire sull’astronave/immagine per ulteriori “incontri ravvicinati”; sempre che si voglia continuare a vedere: non è forse restandone fuori, a guar­ darla, che si può scoprire e capire che (e perché) l’astronave di Incontri ravvici­ nati (che sembra ed è un videogioco, con tutti quei lumini) è l’immagine rove­ sciata di Manhattan? 200

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(E ora, cambiare canale, subito! - Tanto, qualcuno e qualcosa ce rassicura, ripas­ seremo di qui, con o senza telecomando, eternamente. Magari infine con la pro­ pria immagine/martello luddista, un volo azzurro che si insinui negli infiniti spazi inesistenti del televisore o del monitor.) [in Paesaggio metropolitano, Feltrinelli, 1982]

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Cfr. E. Gbezzi, // giocatore incantato, in Le macchine simulanti, Theorema Edizioni, Roma 1980. Cfr. Superman II di Richard Lester. Vedi di Piano, Ardoino, Fazio, Antico è bello, Laterza, Bari 1980.

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Blake Edwards, di che sogno sei?

*In questo senso anche Aristotele dice all’inizio della Metafisica: è la mera­ viglia, che adesso e in passato ha mosso gli uomini a ‘filosofare’." Arthur Schopenhauer

Contro Blake Edwards e la MGM/UA è in corso una causa promossa dagli eredi di Peter Sellers. Trovano irriverente e ladronesco che il regista abbia usato per il suo ultimo film Trail of the Pink Panther (Sulle orme della pantera rosa) spezzoni e - so­ prattutto - “tagli” (gli scarti) dei cinque precedenti in cui agiva l’ispettore Clouseau/Sellers (naturalmente all’insaputa del defunto). Ne chiedono i danni, mentre a noi toccherà goderne. La notizia rafforza un’impressione di indeterminabilità e di reiterazione, legata non solo al ciclo della Pantera Rosa ma a tutto il cinema di Edwards: così, “/ giorni del vino e delle rose, più che terminare, si ferma” (Vaccino). Interminabilità per cui il mondo diventa un immenso ripostiglio ai bordi del set, da cui pescate soggetti e motivi rielaborabili secondo infinite logithe (mai la lo­ gica). Un cinema che funziona quasi integralmente come una sola gigantesca gag slow-bum: “Il droghiere non reagiva, li guardava lasciandoli fare pur sapendo cosa stavano preparando: prendevano p. es. del grasso e glielo spiaccicavano sulla testa; lui si ripuliva un po’ e andava nel loro negozio a far qualcosa di simile mentre essi lo stavano a osservare. In un altro film il droghiere aveva i pantaloni bagnati di al­ cool e Laurei e Hardy vi appiccavano il fuoco senza che l’uomo si muovesse. Una cosa del genere non accade mai nella realtà” (Blake Edwards). Spesso il fuoco bru­ cia tanto lentamente da non scottare, producendo una comicità congelata, dilatata, inversa: l’opposto del deserto bruciato (di cinema, gusto, intelligenza) che molto cinema comico contemporaneo sembra richiedere o provocare come habitat della risata. Forse non sono tanto “spiacevoli” la “fiacchezza narrativa”, la “carenza rit­ mica”, la “dispersione comica” lamentate a proposito de La grande corsa da Vac­ cino (nel suo ottimo saggio) citando subito dopo una frase felicemente ambigua di Philip French: “assistiamo allo spettacolo con stupore e con delizia, ma non ri­ diamo” (corsivi miei). Leggermente fuorviarne appare allora la cifra della dop­ piezza, dell’antinomia, dell’ossimoro, ossessivamente utilizzata come riassunto e segno di un’opera e di un metodo edwardsiani, e già leggibile nei titoli di saggi e interviste: un humour serio, un naturale sofisticato, la sofisticazione dell'innocenza (vedi bibliografia). L’oscillazione stessa (nella filmografia ma soprattutto all’in­ terno dei film) tra commedia e poliziesco o tra mèlo e commedia, o tra comedy e slapstick e cartoon, è più un derivato costante che una costante primaria. Dilatato secondo la staticità apparente dei grandi geni del comico (Laurei e Hardy, Cha­ plin), attento ai bisogni mimici e “corporali” degli attori, quindi sempre aritmico, il 202

Blake Edwards, di che sogno sei?

tempo permette un’analisi ambigua della realtà spettacolare in atto, senza il ricorso a dialettiche di montaggio o a ideologie e meccanismi drammaturgici. Come se la lunga durata o semplicemente la sfasatura temporale consentissero di girare intorno allo specchio, evitando drammatici attraversamenti o traumatici rovesciamenti e svelamenti. Le due facce sono allora entrambe interne o entrambe esterne, conti­ gue nello spazio/tempo del cinema di Edwards, grazie al farsi lento e laborioso dell’analisi. Tutto procede non secondo codici di differenza/sostituzione/esclusione ma secondo quelli della compresenza e dell’affiancamento (che è, se si vuole, uno sfiancamento dei codici stessi). Hollywood Party (film chiave di un’annata “curiosa”, il 1968) è il testo in cui più meravigliosamente si condensa la capacità di analisi a oltranza delle antinomie. Ogni elemento vi appare “prolungato più del dovuto” (per riprendere una critica mossa a La grande corsa). E l’inizio è direttamente il manifesto dell’ambivalenza comica indotta dalla durata e dal prolungamento. Hrundi Bakshi/Sellers, che non la finisce di fare il trombettiere di Gunga Din con un accanimento da disco incantato, distrugge poi il set con un gesto fulmineo per grazia e eleganza, inat­ teso e fuoritempo. (Al produttore che lo caccia dicendogli che non potrà mai più fare del cinema, Hrundi risponde “Neanche più televisione?”.) Lo spazio si scom­ pone, muta, si degrada, ma il party va avanti e funziona, come il film. La pesantezza e la grazia. Edwards/Sellers (anche nella serie della Pantera Rosa) costruiscono mediante il corpo dell’attore e la nonchalance della durata un si­ stema inquietante, un’immagine inedita e impossibile: la naturalezza della goffag­ gine. Né il Tati di Playtime (altro grande film del 1968) insieme con Sellers/Clouseau/Bakshi il vero esempio di desaxé del cinema anni sessanta/settanta, né il Le­ ster di Come vinsi la guerra o dei Tre Moschettieri o di Royal Flash si avvicinano mai a simili risultati, scegliendo o accettando la via di un confronto critico col set, una lotta tra il personaggio e se stesso (visto come alterità), o tra il personag­ gio e la fiction stessa, con contrasti ed effetti molto più evidenti e consapevoli e “distanziati”. Edwards invece è sempre dentro l’incertezza della confusione. Non ha bisogno di sbagliare apposta i tempi delle scene d’azione, di far fallire le gag (vedi I tre Moschettieri) per metterle in risalto. I suoi film appaiono sempre grandi torte di cartone nel cielo, goffe e pesanti ma di una pesantezza aerea che permette voli perfetti. I tempi sono forse quasi sempre sbagliati, o meglio sem­ brano tali, insinuano nell’occhio un leggero ronzio di fastidio ma l’occhio sa an­ che che potrebbero essere giusti, in attesa che dentro lo stupore dello sguardo si produca qualcosa. La componente estatica in Edwards è fortissima. Hollywood Party è più estatico e sognante della casa esplosa di Zabriskie Point (1969), da cui ci dà l’implosione dall’interno. Contemplativo permane il cinema di Edwards da Hollywood Party in poi, come in un tentativo di sfuggire sempre più radical­ mente dalle fila del “partito di Hollywood”. Operazione Crépes Suzette, Uomini selvaggi, Il seme del tamarindo, i vari ritòmi della Pantera Rosa, 10, Sob, Victor Victoria, sono pezzi di un itinerario atipico rispetto al cinema contemporaneo ma oscuramente modernissimo. Grosse macchine spettacolari “di genere” (origi­ nale?) che si perdono in primi piani insensati dedicati ai volti degli uomini e alla bellezza delle donne. Che diventano film “privati” e familiari dedicati alla mo­ 203

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glie Julie Andrews. Che si abbandonano all'opacità della fiction senza voler mai sollecitare suspence o favorire la trasparenza. Sempre più onirici (cioè, in un certo senso, sempre più indistinti), includono spesso lunghi numeri musicali (cantati e/o danzati) come quelli trionfali e ripetuti di Sob e Victor Victoria, spie­ gabili colla loro importanza quantitativa come puro abbandono di Edwards al fa­ scino del movimento coreografico, del canto, probabilmente del vecchio musical e (ancora probabilmente) della moglie: comunque, vere e proprie “sospensioni”. In definitiva (diciamolo per finta) ci si trova di fronte a un cinema ostinatamente segreto e sfuggente. A nulla serve l’oscillazione critica tra Wilder e Lubitsch (esi­ stono poli più lontani? E poi, in un’intervista Edwards esprime ammirazione so­ prattutto per un grandissimo dimenticato, Leo McCarey). E la detection critica si scontra con le trame non-sense di un grandissimo esperto di poliziesco (fin dai tempi del suo lavoro radiofonico e televisivo). Inutile chiedergli di che segno (Cancro) o di che sogno sia: il suo cinema sgradevole/gradevole è come un can­ cro del cinema che convive impazzito nel corpo del cinema, prendendosi rivin­ cite splendenti in epoca di salto tecnologico. Il poliziesco, il genere più cinema­ tografico perché - come nella vita, o nel sogno - solo a Ila fine e dopo si capisce il senso e il segno di ciò che accade prima, diventa invece per Edwards un gioco in cui non c’è nulla da sapere in fine, se non che il senso eventualmente (nascosto) c’è già all’inizio o non c’è per nulla. Nell’accoppiata Sob/Victor Victoria le appa­ renti evoluzioni della fiction (il folle percorso dialettico del regista e il progre­ dire del rapporto “travestito” tra Gamer e Andrews) trascorrono in una regia compatta dove le diversità (di cinema o di sesso) non esistono, si riducono a va­ riazioni. In questo senso Edwards ha prodotto da sempre un cinema ermafrodita o travestito (per usare una figura reperibile in molti film degli ultimi mesi, dal Parsifal di Syberberg a Passion di Godard a Tootsie di Pollack, a parte il precur­ sore Jancsò di Vizi privati e pubbliche virtù) dove, per sottrazione certo (il pudore quasi pauroso di Edwards è evidente), il sesso lavora come linguaggio occulto. Il gioco non si ferma qui (e i titoli casuali dei primi due film diretti da Edwards danno un indizio ovvio ma non casuale: Bring Your Smile Along e He Laughed Last), e ormai pare abolire la soluzione di continuità tra un film e l’altro, e per­ fino quella tra vita e morte. The Trail of the Pink Panther rischia di essere il più avanzato tra i film che utiliz­ zano spezzoni di altri film. Superando l’operazione di Truffaut in L'amore fugge, Edwards costruisce un film sui resti del personaggio Clouseau/Sellers; morto Sel­ lers permane il “resto/Clouseau” su pellicola; nulla è mai ultimo, e partendo dal Clouseau pellicola è possibile imbastire oltre la morte di Sellers un altro film, un’altra finta detection audace almeno quanto il sogno coppoliano di girare un film con un Bogart zombie/Frankenstein ricostruito elettronicamente. Gioco senza limite (anzi oltre il Limite), The Trail of the Pink Panther è il cinema che prosegue mentre la vita muore. E l’inumanità del cinema, un incubo leggero. Prolungato più del dovuto-, ma (come della vita, o del sogno) non ne abbiamo mai abbastanza.

[in Quaderni dell'ufficio cinema del comune di Venezia, 12, 1982]

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Studio

Studio come parola magica, aura mitica di Hollywood passata. Le mille variabili in gioco in questo momento danno tuttavia spesso esiti inattesi, quasi “arretrati”, di un cinema che si raggruma intorno a se stesso o che si remaka all'infinito. Co­ micità demenziale, horror, fantascienza e fantasy, sono sicuramente caratteristi­ che di genere dominanti. Ma lo sono anche il drammone post-Vietnam, il “fa­ mily (mèlo) drama”, il dramma d'ambiente sportivo, il film americano d’autore europeo etc. .. - Così come, più strutturalmente (e non solo nell'evidenza dei “parte seconda” sbeffeggiati da Mel Brooks..), è evidente la tendenza all’itera­ zione, allo sfruttamento e al riciclaggio quasi maniacale di un numero fisso di schemi narrativi. Eppure tutto è cambiato, almeno a partire da Apocalypse Now in poi. Anche se il “vecchio cinema” continua a esistere, e con esso lo strapotere USA sui mercati mondiali, in realtà i progetti produttivi del cinema americano sono sempre più incerti. Basta sfogliare Variety, il giornale USA dello spettacolo; le sue classifiche, le previsioni, le pubblicità. Il “modello” USA con cui ogni cine­ matografia al mondo è chiamata a fare (letteralmente) i conti si sgretola appena si tenta di fotografarla. Difficile perfino individuare una questione centrale: il rapporto tra i produttori e le case? Tra i registi e i produttori? Tra i registi/produttori (i nuovi “moguls”, Lucas/Coppola/Spielberg) e i registi? O la tenuta dei divi vecchi e la creazione dei nuovi? O la distruzione dei generi classici già avve­ nuta, con la loro rinascita previa sottomissione al grande meta-genere comples­ sivo dell’i(pe)rrealismo post-pop? O di nuovo e più drammaticamente il rapporto tra cinema e altre voci nei bilanci delle grandi case (Warner Communications, Columbia-CocaCola..)? L’eccesso di potere di certi registi (ma davvero Cimino ha rovinato la United Artists, o questa si è “rovinata” da sola inventando e pro­ vocando il caso-Cimino per vendersi e fondersi come da copione?)? L’abbassa­ mento pauroso dell’età media degli spettatori (“in America fanno solo film per bambini”, si lamentano i registi europei alla Bertolucci, ma anche il Kasdan di Brivido caldo che ha sceneggiato L'impero colpisce ancora..) unito alla paurosa lie­ vitazione dei costi? Il fatto che tutto il mondo (almeno) si è palesato “cinema” in qualche modo e che quindi i film sono costretti o tesi a immaginare altri mondi e altri modi, magari senza averne i mezzi culturali? Ma la macchina va davvero avanti da sé o d sarà una Wall Street del cinema? Cosa si legge nella contraddi­ zione per cui il regista superstar Spielberg, rappresentante massimo del dnema 205

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opulento e strutturato (“industria”..) che si rimpiange in Europa, gira personal­ mente le sale americane per controllare la resa dei suoi sonori dolby, e si lamenta che è uno schifo, promette premi ai proiezionisti..? E se tutto, ma proprio tutto (va bè: o quasi; si dice così, per sperare) il cinema è già passato in TV e i registi USA ne hanno visto tantissimo e quindi (di nuovo Spielberg) han passato più tempo di fronte alla TV o al cinema che a fare altro.. Non sarà “il cinema stesso” la loro realistica e vera “realtà”? Queste domande e questi rapporti si possono leggere nella galassia filmica USA, nelle sue istanze produttive sempre più incapaci di prendere successi e insuccessi. Mentre la visione stessa si va trasformando, mutando fisicamente le immagini, accogliendo la riproduzione o la diretta produzione elettronica dei corpi - e quindi dei film più diversi.. Per questo ha un sapore un po’ strano distinguere tra film diversissimi come gli ultimi dell’anzianissimo Cukor o dei maturi Brooks e Penn e quelli che esplo­ rano gli altered states della letteratura fantastica producendo insieme trasforma­ zioni di immagini e trasformazioni di corpi.. Sì, Gli amid di Georgia è un bellissimo film “sul sociale”, e E.T. sarà una favola; ma dentro Gli amid di Georgia c’è l’allunaggio visto in TV (era vero o falso? vedi il Peter Hyams di Atmosfera zero o di Capricorn One) e chi può impedire che per un attimo si fantastichi: se i corpi degli amici di Georgia non siano prodotti elet­ tronici come quelli di Tron, pura pellicola.. Parlare di studio oggi vuol dire toccare gli estremi: pura fantasia del puro cinema, vertigine del trucco che pirandellizza se stesso, sintesi quasi mentale di un ci­ nema prodotto nel vuoto; o - fuori del cinema se ancora si può - analisi di chi o cosa, eventualmente, ancora produce quelle o queste immagini, per amore, per piacere, per dovere.. Perché è e cosa è il cinema americano oggi è diventata una domanda filosofica e etica non meno sublime e difficile (o idiota) del “perché vivo, da dove vengo, dove vado, etc. etc...” che pose in passato tanti problemi irrisolti.

[in La fabbrica del dnema, Audac, 1982]

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1982

Parsifal di H.J. Syberberg * La cosa di J. Carpenter Identificazione di una donna di M. Antonioni Fitzcarraldo di W. Herzog Ricche e famose di G. Cukor La figlia del partito di Lin Nong * Victor/Victoria di B. Edwards Germania pallida madre di H. Sanders * Troppo presto, troppo tardi di J.M. Straub * Querelle di R.W. Fassbinder * inoltre Cat People di P. Schrader White Dog di S. Fuller * Scenario de Passion di J.L. Godard (video post-film Passion) * La giocatrice n. 5 di Xie Jin * Outside in di S. Dwoskin * The Devil in Miss Jones di G. Damiano * E.T. di S. Spielberg Scanners di D. Cronenberg Gli amici di Georgia di A. Penn (I film con asterisco son visti all’estero o in rassegne e festival). Ho tralasciato le riedizioni e i televisti, anche se - p. es. -, Secondo amore, di Sirk, e Pianura rossa, di Parrish.. Non ho visto gli ultimi film di: Coppola, Milius, Taviani, Ruiz, Skolymovski, Demy, Eastwood, Pakula. Ho visto tre volte (ma nulla più) Blade Runner. Spiace di non poter aggiungere., il numero - Body Heat, Popeye, Le beau mariage, Cali­ fornia Dolls, e soprattutto La trota, di Losey. Tra i microfilm, i due “video” musical delle GO-GOs, e gli straordinari smodati 15 minuti in interni in cui il modesto Gli occhi, la bocca di Bellocchio ci fa inghiot­ tire dagli occhi di Angela Molina. La più bella cosa “italiana” è stato lo special televisivo (terza rete) di Massimo Troisi: un capolavoro. {.Filmcritica, 331, 1983] 207

La città calata sul monte e la bestia mansueta (ovvero le apocalissi - apocrife - del cinema americano) “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Infatti il primo cielo e la prima terra disparvero, e il mare non c’è più. E vidi la città santa, la nuova Geru­ salemme, scendere dal cielo, da Dio, preparata come sposa fattasi bella per il marito. E udii una voce possente provenire dal trono, che diceva: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con essi, ed essi saranno i suoi popoli, e Dio stesso sarà con essi, e tergerà ogni lacrima dai loro oc­ chi, e la morte non sarà più: lutto, grida, dolore non ci saranno più; poiché le cose di prima sono passate.1 “E Colui che sedeva sul trono, disse: ‘Ecco, faccio nuove tutte le cose.1 E disse: ‘Scrivi! Queste parole sono degne di fede e veraci.’ E mi disse: ‘Ecco sono compiute! Io sono l'Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. All'assetato io darò da bere dalla sorgente dell'acqua della vita, gratuitamente. Il vinci­ tore erediterà questi beni, e sarò per lui Dio ed egli sarà per me figlio. Ma i vili, i rinnegati, gli abominevoli, gli omicidi, gli impudichi, i fattucchieri, gli idolatri e tutti i menzogneri, hanno la loro parte di eredità nel lago ardente di fuoco e di zolfo: è la seconda morte.*” (Giovanni, Apocalisse, 21, 1-8)

Quando nel 1979 si adagia nei cinema il fenomeno Apocalypse Now sfugge la coincidenza che nello stesso anno venga prodotto 1941 di Steven Spielberg. Oggi poi ben diversi sono il peso, la considerazione, il ruolo destinati ai due film. Nell’unico fallimento commerciale che interrompe la straordinaria collana di successi spielberghiani (a partire dal 1975: Lo squalo) si legge ancora la “va­ canza demente” concessasi dal regista per il copione pazzo del duo ZemeckisGale, il tentativo abortito di fare una commedia-kolossal. A dar fascino alla cosa basterebbe certo il puro accostamento di due generi tanto lontani, l’intuizione inedita (anche se le grosse “torte in cielo” edwardsiane - da Blake Edwards - di cartone colorato..) di quanto il comico (il genere in partenza più economico e “profilmico” e prefilmico: vedi il facile suo proliferare oggi in Italia come all’estero) possa rischiare e anche guadagnare sbilanciandosi verso il grandioso l’immane lo smisurato il kolossale dispendioso e sprecato (i Blues Bro­ thers attori in 1941 raccoglieranno poi la palla nel film di Landis, divertentis­ simo e abbastanza privo di inventiva, in cui per omaggio lo stesso Spielberg com­ pare nel catastrofico finale): come il Petrolini pantografato nel Nerone ridicolo di Peter Ustinov che si protende sghignazzante sul Quo Vadis.. Ma non sta male (1941) neanche come ulteriore sovrimpressione sull’apocalisse di Coppola. Anzi 1941 è il film che chiarisce la vocazione particolare di Spiel­ berg all’interno del trend apocalittico del cinema americano dalla metà degli anni settanta in poi. 1941 è apocalisse fin dal titolo, almeno quanto lo è il film di Coppola. Perentoria come un 1984 la data, l’indicazione dell’anno, è subito uno scherno becero verso il revivalismo impazzante (questo surrogato di apocalisse,

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catena di similapocalissi che si riciclano di decennio in decennio): al decennio della moda imbecille, ma anche al secolo della Storia (Novecento), sostituisce l’al­ lusione evidente al Millennio, bruciando in un dilatato e sgangherato attimo spettacolare una fabula che se racconta di un improbabile e vuoto “inizio” (quello di un’invasione giapponese negli Stati Uniti) risulta soprattutto un inno alla “fine delle fini”, non potendosi poi troppo trascurare il fatto che oltre quel vuoto fracassone si tratta sempre di seconda guerra mondiale, E poi: 1941 è an­ che fantascienza, è sessant’anni “dopo” 2001 (primo capolavoro apocalittico, di dieci anni in anticipo). Ed è moderno modernissimo (nel senso del riuso) giran­ dosi tutto nella street scene dei Burbank Studios vista in tanti film Warner degli anni quaranta e rilanciata proprio dal 1941 come elemento di trasformazione (sfondo per fantasmagorie notturne senza tempo, come il nero “blue back” dello studio lueasiano), per affiorare (sorpresa!) ulteriormente palindissestata in Biade Runner solo tre anni dopo. Insomma, limite estremo anche del cinema mondiale pesante (non quello possibile sempre del cinema/scrittura pensato nella e colla propria cameretta) che non sa più (1979) da che parte rivoltarsi, in che spazio si­ tuarsi, cosa fare. Commedia? Film catastrofico? Di guerra? Kolossal?.. Invece di lavorare nella street scene Coppola va nelle Filippine a fare la sua guerra del Vietnam, ma è ancora un viaggio nel cuore delle tenebre, lo spazio nero da riempire, in cui tracciare linee e narrare avventure; il fotogramma da cui si cerca di uscire producendo lo spazio cosmico (Lucas e Lucas-Spielberg) e col suono dolby e (Coppola) sovrapponendo più immagini in una sola immagine come Abel Gance e cantando This Is the End tre volte in una volta sola (suono, immagine, montaggio..). Più che il saldarsi ludico e perfetto di Lucas-Spielberg, magnifica macchina pro­ duttrice di miti e predatrice di arche perdute, più che le multiformi “produzioni” coppoliane, Spielberg e Coppola “da soli” appaiono i più precisi e coerenti pro­ duttori (meglio che “registi”: ambizione smodata sarebbe del resto il “dirigere”) di apocalissi. Due segni precisi, oltre i due capolavori dello stesso anno. Per Coppola, il nome stesso della sua ambiziosa (e oggi sfortunata) intrapresa pro­ duttiva. American Zoetrope è una coniugazione programmatica di passato remo­ tissimo e di futuro: se l’aggettivo rinvia all’orgoglio di frontiera in espansione (dove? in quale spazio che non sia “astronomico” o interno, mentale, filmico-chimico-elettronico, extensio animae che sia nastro o pellicola; comunque oltre la li­ nea mitica del surf esaltata dall’amico Milius sceneggiatore di Apocalypse in un ubig Wednesday* che unisce il graffito al mito con onde immani provenienti non si sa da dove ad abbattersi sui disegnini generazionali lueasiani eccedendoli, ucci­ dendoli e facendo vivere altri piccoli sogni - per carità, solo il tempo brevissimo (quanti secoli e orgasmi?) di una scivolata apocalittica dentro un’onda che non sembra finire) più che a una territorialità, il nome è archeologia, è un’Alfa pe­ scato nella preistoria del cinema, quando i Lumière ancora non filmano fabbri­ che e molto prima che il cinema americano sia fabbrica. Lo Zoetropio fu inven­ tato e brevettato nel 1860 dal francese Desvignes, cent’anni prima della nouvelle vague; ma è appunto un “prima” della storia, un'origine, più che un omaggio al cinema francese sussunto in quello americano, che indica e sceglie Coppola a

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emblema. L’operazione si ripeterà (in terreno più “storico”) col pattinaggio del Napoléon rimusicato dal babbo (per omaggio al nepotismo bonapartista), ma con lo Zoetropio (nome altisonante, ingenuo, ambizioso) si pesca proprio nella topo* grafia preistorica del cinema, in quell’intrico di nomi e titoli ottocenteschi che troppo bene formano un labirinto di attribuzioni e discendenze impossibili. Lo Zoetropio, portato in America da un tale William E. Lincoln (!) nel 1867, “viene trasportato - nota Pasinetti (Storia del cinema, Roma, Bianco e Nero, 1939; Ve­ nezia, Marsilio, 1980) - per gli Stati Uniti in uno di quei carri coperti, covered wagons, che condussero i pionieri nel West e che più tardi appariranno in più di qualche film”. Deriva abbastanza direttamente da uno dei primissimi apparecchi ottici per produrre l’illusione di immagini in movimento (di quanto il cinema s’è spostato di lì, realmente?), il Daedaleum costruito nel 1833 (lo precedono di poco il Diorama, il Taumatropio, la Ruota Vivente, il Fantascopio, il Fenachistoscopio, lo Stroboscopio) da William George Horner, che così lo descrive giustifi­ candone il nome (citato da Pasinetti): “.. The phenomena may be displayed with full effect to a numerous audience. 1 have given this instrument the name of Daeda­ leum as imitating the practice which the celebrated artist of antiquity was fabled to have invented, of creating figures of men and animals endued with motion.! Lo stesso inventore lo chiamò comunque anche Ruota del Diavolo e Tamburo Magico. Per Spielberg invece il segno resta una precisa immagine visiva. L’astronave del finale di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ovvero l’immagine fotografica rove­ sciata e animata del più clamoroso e riconoscibile segno metropolitano USA, Manhattan di notte con le torri luminose e il profilo di dislivelli magari ricon­ dotti a armonia nella circolarità del fish-eye. Non è solo il superamento netto e brusco, un capovolgimento appunto, dell’inferno (di cristallo) urbano (L'inferno di cristallo è del 1974, solo tre anni prima) e dei due filoni che catastroficamente lo rappresentano nella prima metà degli anni settanta (il catastrofico-catastrofico e il “violenza urbana”) combattendo l’inveramento televisivo del cinema me­ diante l’ingrandimento e l’intensificazione parossistica dell’effetto di verità (fino al parodistico Sensurround di Terremoto) ottenibile rivolgendosi ai sensi dello spettatore intorpidito dal salotto (in cui peraltro ha già assistito agli sbudella­ menti vietnamiti). E una citazione, precisa ai limiti dell’inimmaginabile (e infatti si può certo immaginare che la cosa sia involontaria), dalla parte finale dell’Apocalisse, quando la città, la Gerusalemme celeste, si posa sul monte calando dal delo. Quello era il primo now nell’apocalisse del cinema americano, la semplice e miracolosa inversione di tendenza, la città/realtà che cala dall’alto (ritorna, come la terra scende spesso dall’alto dell’inquadratura nelle incredibili immagini imperniate sull’asse della Region centrale di Michael Snow) facendosi apocalisse invece di immagini apocalittiche prodotte riproducendo e deformando le realtà. Dato il via all’apocalisse, il ritmo con cui i deli si compiono è rapidissimo. Dopo i segni e le immagini, e il breve attimo (Apocalypse Now, 1941) in cui l’apocalisse si configura e trionfa, Coppola continua-ricominda a correre verso l’Omega e Spielberg si avvia a riscrivere apocalissi “alla rovescia”, riconoscendo, mo­ strando, riconfigurando la Bestia che aveva già incontrato anni prima (Lo squalo)

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e che Coppola segnalava nel Brando-padrino di Apocalypse, I due film del 1979 erano precipitati di immagini instabili, contenevano anche proprie apocalissi in* teme. Coppola non si districava nella scelta del finale giusto, si rivolgeva quasi a un referendum pubblico, girava e faceva girare per il mondo due/tre finali, affer­ mava di avere ancora dieci apocalissi in materiali da montare inediti e “sprecati”. Spielberg entrava nel laboratorio tecnologico, elettronico sintetico asettico, di Lucas e “partiva” per un viaggio-vacanza, non senza però aver prima placato una sorta di insoddisfazione che il pur very successful Incontri ravvicinati gli aveva la­ sciato. La seconda edizione del film, in parte rimontata e con un'aggiunta finale, oltre a sancire proprio da parte dei massimi registi-produttori riformatori e rifor­ misti di Hollywood un tramonto di massima della possibilità di una regia “to­ tale" consapevole (appunto: troppa ambizione., accontentiamoci., della produ­ zione) e quindi un avvento del film disco-volante boomerang che fuoriesce dalle mani di chi lo lancia e lo fa ruotare (ma sì: girandolona, ruota di effetti veloci e luminosi, astronave, trottola), conteneva nel caso di Spielberg una nuova indica­ zione precisa di quello che stava accadendo come futuro (o linea d'ombra del fu­ turo immediato) del cinema americano. Rispetto alla purezza mistica del primo finale, che poco mostrava, il secondo si avvicinava - tentando di superare il di­ lemma del cosa mostrare - a mostrare (la) cosa (dopo averla prodotta, o produ­ cendola), la “cosa” del cinema americano. Non necessariamente, si badi, l'extra­ terrestre di cui era ed è questione. Lo stesso Lucas, che appare “moderno" con più ironia finezza e distacco, con maggiore “abilità" da videogame (Guerre stellari..), con meno di quella forza cele­ brata nel suo film ma con molta di quella fluidità che ne è la qualità più impor­ tante (se poi la si sa concentrare), è in questa linea “interna" all'apocalisse, colle­ gato agli amici dall'ossessione della “cosa". Nonostante le sue superiori capacità strutturalistiche di combinazione narrativa, nonostante il suo rifiuto dell'incubo o del mito dell’inizio e della fine (e insieme dei finali dei film), esplicitato con l'allegra anarchia cronologica e numerica (alla Farmer, per fare un nome di FS letteraria; già, è chiaro che si parla di FS: non è la fantascienza, il fantastico, l’or­ rore infine il genere filmico guida e propulsivo di oggi, oltre alla continua capa­ cità afilmica di mediazione (sur)realistica del comico?) della sua saga stellare in nove episodi (certo qualcosa di magico permane nel numero), cominciata a metà e procedente a salti come un bambino sapiente che gioca e non vuole andare dall’A alla Z perché tanto la storia la conosce già; nonostante questo anche Lu­ cas - e nei due “guerre stellari" prima ancora che nel film fatto insieme con Spielberg - sente la necessità non solo di tessere trame e traiettorie e far esplo­ dere effetti di luce come sbattimenti di palpebre al circo o formicolìi di midollo sessuali, ma anche di costruire corpi, più o meno antropomorfi, più o meno tele­ guidati e elettronici, ma sicuramente corpi, e più esattamente cose: magari un mi­ sto di disegni e di corpi volumetrici, un intarsio di sfondi e di oggetti realmente costruiti, ma in ogni caso tesi a produrre un mondo di oggetti e di cose verosimil­ mente tali per quanto inverosimili, un mondo parallelamente reale. Non è solo un omaggio, l’incontro di E.T. (ma coperto e mascherato da un telovelo come l’uomo-elefante di Lynch) con i pupazzi delle guerre stellari, irresisti­

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bile scena comica e geniale sintesi in poche inquadrature di alcuni dei segpi (non solo fisiognomia) più riconoscibili nella storia del novecento. Che il punto sia quello, la produzione di corpi-cose, la loro iniezione reale nella realtà e quindi la loro realizzazione vera a tutti gli effetti, a dirlo più chiaramente è proprio Spiel* berg, proprio per l’incredibile efficacia che lo isola nel cinema mondiale e che meriterebbe uno studio (impossibile e smisurato, se si pensa ai coefficienti di casualità/ingenuità presenti nell’operare spielberghiano in misura ben maggiore che in Lucas e altri - Carpenter compreso). De Mille, Disney, Hitchcock, Ford (intendendo i nomi solo come segno di specifiche e particolari capacità di effica* da), il primo nome più di altri - per le cifre di miliardi di occhi che hanno visto i suoi film - sono i punti di riferimento dnematografìd necessari per parlare di Spielberg, non potendosi prescindere (per metodo) da un discorso di grandezze; altri nomi e segni possono essere Warhol, i Beatles, la Coca*Cola.. Può fare rabbia che sia E.T. (non il suo migliore, né il primo né il migliore della linea “dentro l’apocalisse”) il film che da un anno insegna e mostra a milioni di persone alcune cose sulle immagini di oggi, nell’oggi, dell’oggi, e non La cosa programmaticamente tale di Carpenter, fallita ai botteghini della lunga estate americana. O non il Sogno lungo un giorno di Coppola, sublime sfida (subliminale più propriamente) infatti non percepita e non amata, visto addirittura come fredda (!) mentre continua a essere la sua guerra filmica, in (Big Red) One from the Heart che è ancora una volto Y inizio; e naturalmente, certo, è stato anche la fine attuale dell’American Zoetrope, in curiosa contemporaneità con quella di un’al­ tra etichetta mitico*mistica, un altro esperimento contraddittorio e commercialutopistico dal titolo astrale, la New World di Corman (il primo padrino coppo* liano, oggi costretto a svendere). Spielberg ha capito (o meglio sa, davvero, in quel modo poco illuministico e molto “luministico”, immediato, da transustanziazione e trasmutazione elettro* nica, da immagini apprese in sonno ipnotico a televisore acceso o anche spento alla Poltergeist, immagini felici e produttrici di sapere, come in Incontri Ravvici­ nati e E.T., o di incubi come nel film di Hooper, insomma un sapere senza biso­ gno di capire, un “conoscere” senza bisogno di analisi condotta dallo stesso sog­ getto perché l’analisi è demandato all’apparato telematico..) che nel momento at­ tuale la frontiera non è più nello spazio ma dentro i limiti del corpo umano, den* tro le sue capacità di organizzazioni diverse e di mutazioni di forma. Che questa fosse la linea di movimento del cinema americano lo confermava e lo conferma l’esplosione simultanea della fantascienza, della fantasy e dell’horror compattati in un unico meta-genere che ben poco si riferisce (anche quando la cita, vedi sempre e ossessivamente Carpenter) ai dati dei generi classici originari. Alien, L'ululato, Stati di allucinazione, Wolfen, Un lupo mannaro americano a Londra, Cat People, Blade Runner, La cosa, Entity, film di registi provenienti da espe­ rienze e formazioni assai diverse, affrontano tutti il tema della trasformazione/ duplicazione traumatica del corpo umano. Tematiche tutte antichissime, dal mito dell’uomo lupo al fondamentale mito moderno del Jekyll/Hyde di Steven­ son; e tutte già molto sfruttate al cinema, se si pensa che proprio Jekyll/Hyde è il soggetto più remakato e sfruttato (diverse decine di volte) nella storia del d212

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nenia. Risulta facile leggere perché oggi questo mito non è più oggetto del ci­ nema, ma si impossessa del cinema stesso metaforizzandolo. La produzione stessa di corpi non è più oggetto di fiction, ma fiction reale, frontiera presente per quanto avveniristica, non solo al cinema ma nella biologia e nella medicina. Gran parte del cinema di oggi, nelle linee potenti e dominanti (ma non solo) è dentro questo movimento che lo eccede. La fantasy di Excalibur, di Conan, di Kaan è il dato più semplice, la forma più riconoscibile del movimento post-apocalisse (e dentro). Produzione di storie “superficiali”, guerre stellari senza biso­ gno di mettere in scena il nero cosmico spaziale, anzi riempiendolo senza paure di un mondo immaginato in ere senza tempo, territorio sganciato, di nuovo ri­ proiettato in un continuo pendolo tra un passato e un futuro entrambi insonda­ bili anche se “immaginabili”: nel senso del mettere in immagini, del design; e ecco i designer e i truccatori che sono più “importanti” dei registi; ecco Joe Alves che ha dato il look di 1997 - Fugp da New York esordire alla regia con Lo squalo 3 (Jaws 3-D). Ecco la terza dimensione, negazione solo apparente della “superfi­ cialità”. Il ritorno del rilievo, in cinema e in TV. Insieme con l’alta definizione. Ricerche diverse che concorrono alla produzione di un corpo spettacolare unico in uno spazio (anche percettivo) a tre o a più dimensioni. Un cinema che si con­ torce con effetto simile, esplosivo, a quello dei corpi scricchiolanti che diventano lupi alieni mostri superumani nei film. All’errore tattico di Coppola, che sogna film fatti di corpi veri ricostruiti elettro­ nicamente e quindi repertoriabili e utilizzabili all’infinito come materiali e ele­ menti fissi di nuove scritture, John Wayne come un sostantivo, Jack Nicholson come un aggettivo nel 2041, Marilyn Monroe una parentesi, saltando (negando al pubblico) il calore della propria trasformazione interna di uomo/cinema e dandogli intanto solo un film (anche se prodotto elettronicamente, anche se splendido, anche se adorabilmente minimo), e proprio un film con (anche se que­ sto con è - quasi impercettibilmente..; sì, i colori, sì gli intarsi, ma in TV e in pub­ blicità è quasi déjà vu - “elettronico”) Frederic Forrest e Nastassia Kinski (esem­ pio peraltro dei più fantastici - giustamente utilizzato in tal senso in Cat People di trasformazione morfogeneùca di padre in figlia), Spielberg risponde non di­ sperdendo la dualità Jekyll/Hyde in “tutto il film” (come fa il cinema post-Excalibur, e Boorman è in questo momento l’esempio di un esito diverso per l’avven­ tura apocalittica: il suo L’esorcista 11 era il film in cui l’apocalisse dell’occhio esplodeva più selvaggiamente; il ricomporsi dei frammenti del tabernacolo-spec­ chio-immagine di Zardoz è stato poi più rapido del previsto, agevole la ripropo­ sta tranquilla del mito), o ridandola in un cinema Hyde di se stesso (gli straordi­ nari Lynch, Herzog, Kubrick), o adagiandosi nel gioco Jekyll-Hyde tra Cinema e TV così scontatamente simile al racconto di Stevenson (con il sovrapporsi di vo­ lontarietà e possessione nell’esperienza del “bruto-selvaggio”) praticato/subìto dal medio autore europeo o americano. Spielberg costruisce un quadro narrativo e ambientale ancora meno complesso (e anzi molto meno complesso) di quello di Incontri ravvicinati (infatti molto più af­ fascinante come itinerario), e gli fa contenere la dualità, la Cosa, senza costruirne il parossismo come in Carpenter, senza tentare scommesse perdute (per quanto 213

paura e desiderio

suggestive: mostrar il fantasma fisicamente, magari gelandolo in post-scultura dopo aver dato - della sua invisibilità - solo gli effetti su un altro corpo, quello bellissimo e violentato di Barbara Hershey) come quella del mediocre Entity. E questa cosa/E.T. la mette in scena - lontanissimo dalla scrittura pittura scultura cinematograficoelettronica dei Coppola Godard Syberberg Antonioni - secondo una scansione puramente concettuale, con semplicità chapliniana. Facendo un semplice film, di colpo supera il cinema, dà la forza di una cosa e di un segno. Non devastante e inafferrabile come la straordinaria forma duplicatrice di forme del film di Carpenter. Ma certo dilagante oltre i limiti del solito lucido deserto filmico (nero o bianco, notturno o artico che sia) carpenteriano. Fino agli scaffali delle drogherie. E.T. poi riserva sorprese, in fatto di ambiguità. Fin dal nome-sigla, un doppio del corpo/E.T., celebre almeno quanto il corpo e addirittura al posto di esso utiliz­ zato nei badge, i distintivi piatti con scritto semplicemente E.T. (al corpo, giusta­ mente, è riservata la tridimensionalità dei pupazzetti). E poi quale perversione di fanciullo nel fare della Bestia Trionfante, per restare in apocalisse, un trionfo di soavità e di umorismo. Ma il nome stesso è ambiguo: “extraterrestre”, sì, con quel tanto di inquietante e palingenetico che gli appartiene, eppure anche Elliott (il nome del bambino di cui E.T. è il doppio evidentemente proiettato, lunga­ mente cercato carezzato cullato protetto nella notte mentre i grandi lo cercano); e quindi extra come “extrastrong” o “extra-vergine”, nel senso di ancor più, ancor più terrestre, ancor più umano, ancor più bambino. E.T. ricupera infatti l’uma­ nità appiattita nel branchetto dei bambini. Lui emerge come il corpo vero negli esperimenti più audaci e misti di Disney, rispetto al “mondo fotografato” (uo­ mini cose natura) del resto del film che fa da sfondo. Corpo sensato, soggetto ecologico, capace di volare e di far volare, tra Miracolo a Milano e Mary Poppins. Si capisce la sorta di invidia/fastidio del (mondo del) cinema verso il wonder boy di Rambaldi. Polemiche giuste e istruttive; nani che si ribellano all’anonimato, che rivendicano la loro presenza di corpo all’interno di un corpo-involucro per le inquadrature in campo lungo, che cercano di ridimensionare l’animazione elet­ tronica e di rivalutare la (loro) corporeità. Soggetti che muoiono (nella cronaca) mentre E.T. sopravvive (quanto è morto di E.T. con la “comparsa invisibile” - da sempre ossimoro dei film di mostri - di cui si è saputa la morte? Qualcosa - ma cosa?). Più potente della bambina da esorcizzare di dieci anni, Regan (!), E.T. riesce a comunicarsi a tutto il suo pubblico potenziale, non solo in virtù di pubblicità, ma soprattutto per una specie di comunicazione-contaminazione interna “di massa” che rammenta le folle indiane osservate da Truffaut mentre ascoltano il suono degli extraterrestri di Incontri ravvicinati (ma, a proposito di forma complessiva del cinema di oggi, non è forse questo in Gandhi - per il “resto” mediocre e pu­ lito sceneggiatone, tra Gesù di Zeffirelli e Marco Polo - ad affascinarci e ad agire? La fortissima identificazione che scatta - nella durata - tra Gandhi e Ben Kin­ gsley, e l’amore per questa teste strana, per questo sorriso “e.t.”, l’ammirazione per parole d’ordine semplici e sconcertanti che passano - si è mai capito bene come, senza TV..? - in migliaia e migliaia di villaggi..). Come tutti gli hit degli ul­ 214

La città calata sul monte e la bestia mansueta..

timi anni, E.T. si basa sul pubblico più forte e più misterioso, i bambini i ragazzi gli adolescenti, e su quel corpo vuoto e oscuro, misterioso trinitario e/o osceno che è la famiglia; contenendo in sé la propria propaganda, funzionando anzi (rela­ tivamente poco costoso) come un ottimo film di propaganda (anche). Insieme, miracolosamente e casualmente buttandosi indietro a costeggiare le im­ magini della Bestia contigue (non sempre precedenti, specie nei testi apocrifi) nelle Apocalissi a quelle della palingenesi. Indietro rispetto al puro suono o alla geniale città sul monte di Incontri. Ma avanti come inserimento metronomico nel cuore del cinema d’oggi. Addirittura in sintonia con le massime tentazioni degli intellettuali europei o con i sottili equilibrismi di Blake Edwards (e ben oltre il cinema post e punk etc. - quasi tutto il video - così sfacciatamente teso a vivere del cadavere di un cinema che ancora Coppola e gli altri stanno inventando), con l’androgino, l’ambiguo sessuale di Passion o di Parsifal. Ecco Spielberg saltare la questione chiave del cinema moderno, quella più segreta e evidente ma incomu­ nicabile: la passione della generazione. Generazione come produzione: i fantasmi in cui Lynch ricerca i segni biancastri del procreare, il “cuore di vetro” herzoghiano, l’Overlook Hotel kubrickiano, macchina che contiene e produce imma­ gini come gli sprechi solari(s) tarkovskiani, infine Coppola che con le macchine fuoricampo vuol produrre e utilizzare simulacri di corpi e finzioni di scrittura. Il modo di uscire dal labirinto gelato di Shining, dal dedalo che è all’origine del ci­ nema, sembra semplice per Spielberg. Lontano dal rigore desolato di Shining, dalla geometria che solo un EHo o un demiurgo possono padroneggiare con oc­ chio sovrano dall’alto, Spielberg sposta i piani, fa calare le città dal delo, fa vo­ lare i bambini e parlare E.T. al telefono con una inesistente extra-territorialità. Produce lui una piccola cosa, un “e.t.”. G fa un film. Una piccola cosa di sesso incerto, la cui madre tanto chiamata non riusciamo a im­ maginare. “Gesù vide dei bambini che succhiavano. Egli disse ai suoi discepoli: ‘Questi piccoli che succhiano sono simili a quelli che entrano nel Regno? Essi gli dissero: ‘Se siamo piccoli, entreremo nel Regno?’ Gesù disse loro: ‘Quando farete che i due siano uno, e farete l’in­ terno come l’esterno, e l’esterno come l’interno, e ciò che è su come ciò che è giù, e se fate il maschio e la femmina in uno solo, affinché il maschio non sia più maschio, e la femmina non sia più femmina, e quando al posto di un occhio rifarete due occhi, e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.’” “‘Oggi voi mangiate cose morte e ne fate ciò che è vivente, (ma) quando sarete nella Luce, che cosa farete in quel giorno, nel quale, essendo uno, diverrete due? E quando di­ verrete due, che cosa farete voi, allora?’” (Due passi dal Vangalo di Tommaso; cfr. Apoca­ lissi Apocrife, Guanda, 1978). “Infatti il Signore in persona, essendogli stato chiesto quando verrà il suo Regno, rispose: ‘Quando i due saranno uno, e l’esterno come l’interno, e il maschio con la femmina (non saranno più) maschio né femmina.’” (Riportato da Clemente di Alessandria come passo appartenente al Vangelo degli Egiziani, cit. sopra.)

[Filmcritica, 333, 1983]

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H presente in bianco e nero

Nel colore sbiadito e mal gradato dei filmini familiari che si stagliano nel bianco e nero magnifico di Toro scatenato c’è il primo salto teorico decisivo. Un ribalta* mento netto dei canoni stabiliti del rapporto colore/realtà/immagine mille volte ripetuto dentro la cornice televisiva, con lo spezzone documentario d’epoca in bianco e nero inserito nel tessuto del presente quotidiano mostrato a colori. Più che un ribaltamento, allora: un passo avanti logicamente conseguenziale. L’im­ magine del ricordo fissato in cronaca a colori come il superotto e il filmato gior­ nalistico; il “repertorio’* si confonde con l’attualità pronta a diventarlo (già adesso è necessaria in TV la scritta elettronica “filmato di repertorio”, in man­ canza di differenze e scarti evidenti), il superotto o il video familiare si può con­ fondere col repertorio da una parte o con le sperimentazioni di Antonioni e Go­ dard dall’altra, le pubblicità in TV coi film che le circondano. Il futuro è del colore aveva già affermato Hitler negli straordinari filmini a colori (mostratici da Philippe Mora, e recentemente anche dalla Rai in TV) girati a Ber­ chtesgaden in cui prega l’operatore di far vedere alla signorina Braun quella nuo­ vissima macchina da presa. Certo, il futuro come il presente e adesso il passato: il colore del tempo sono i colori, non (più?) il bianco e nero. Il tempo fluisce a colori, e i tentativi di imporsi a esso, di uscire un attimo e di evidenziarsi, sono sempre più spesso in bianco e nero: la serata quotidiana in TV è a colori, le reti private (ma anche la Rai) sarebbero disposte a regalare cinque film in bianco e nero (a meno che non siano dei Da qui all'eternità, che - grazie al titolo? - reggono bene la concorrenza) per uno a colori, ma la pubblicità (e quella sua diretta filiazione che è il video/music) comincia a utilizzare il bianco e nero come segno, come lampeggiamento, come interruzione palese che chiama attenzione. Tutto ciò è complicato dal fatto - ovvio - che tale bianco e nero con­ tinua a essere nella maggioranza dei casi fortemente referenziale in senso storico/temporale, legato alle mode rétro, agli eterni ritorni di fiamma. Il ritorno del bianco e nero è infatti nonostante l’aspetto evocativo temporale, e anzi proprio in quel senso, l’arrivo di un nuovo colore, più forte, iperrealistico, capace in parte di fotografare il tempo stesso: diciamo come una fotografia in bianco e nero scrupolosamente fotografata con pellicola a colori. Dentro questo bianco e nero inteso come colore ci stanno comodamente i vari calchi anni set­ tanta USA: L'ultimo spettacolo, Frankenstein Junior, Paper Moon. 216

Il presente in bianco e nero

In Europa il bianco e nero perdurava nella linea d’autore, e all'est, in bilico tra “scelta espressiva” e povertà (del resto, la “confusione” colore/bn è un problema da società dell’immagine opulenta e sovrabbondante; la necessità - per .quanto corrosa dal video - domina ancora poco nel pomo-hard, riviste e film, in cui il bn resta segno di povertà; e viva Michalkov che a proposito di un suo film, inopi­ natamente finito in bn, celiava: “Era finita la Kodak che avevo a disposizione”..)? In mezzo, Woody Alien che il calco lo faceva proprio sulla linea europea, anche se in Stardust Memories il discorso fortunatamente un po’ si complicava. Oggi (forse solo oggi, breve momento?) il bianco e nero invece esiste, comincia a esistere autonomamente, non solo in rapporto al colore come privazione o scelta. Il percorso dentro il suo spazio sembra il più interessante del cinema d’oggi, in­ sieme con l’altra linea estrema dell’immagine elettronica, inventata o virtuale. A Venezia 1982 fu una presenza forte. Zanussi lo riproponeva come spazio del rigore folle del ragionare di Dio. Wenders ne faceva programmaticamente il luogo per un discorso di spazio, fuori dal tempo storico, dentro quello cinemato­ grafico che per essere rappresentato nel film toma a essere spazio: Lo stato delle cose, infatti, Veronika Voss stupefaceva nel suo accostarsi a Querelle. Il bianco e nero, come già in Scorsese, tornava a essere “scrittura”, ma del tutto fantastica, affine appunto a quella di Querelle, assoluta e arbitraria, tutt’altro che tesa a “ri­ cuperare” un’epoca, anzi ironico-fantastica, decisamente romantica cioè, come romantico (tornando a Petra con Kant) si è confermato Fassbinder nelle due opere che lo hanno concluso. Al bianco e nero “raffigurante" del cinema d’autore classico, o “citante” o “rical­ cante” si sostituisce un bianco e nero ricostruito, irreale come il colore di Min­ nelli (New York, New York e Toro scatenato vanno in coppia) e come il bianco e nero di Val Lewton (ma ricco e non genialmente povero come quello) atempo­ rale. Esattamente come il colore di Querelle e di Blade Runner, due film (all’eternità?) visivamente così “simili”. Tessitura, scritture incrociate, studio cinematografico. Non tanto lontano in realtà (tre vie parallele, infine?) dai tentativi video ovvia­ mente sbilanciati sul colore che aspetta le migliaia di autori-scrittori futuri. Ma anche un tentativo quasi opposto, disperato, di ritagliare uno spazio (econo­ mico?) per l’autore che già esiste e persiste, senza dover lottare col futuro. In­ tanto, Veronika Voss, film sull’oblio, può essere un modo di combattere un certo facile confondersi o obliarsi nel tempo delle immagini (a proposito, non è raro ri­ cordarsi “a colori” un film che rivisto risulte in bianco e nero: il passato è del co­ lore?), è l’unico modo di vendicarsi di Hitler, smentendolo: il presente è (anche) del bianco e nero.

[il manifesto, 25 febbraio 1983]

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Il film e il suo doppio

Difendere il corpo del film è la missione di chi considera il doppiaggio un at* tacco inammissibile all’integrità e alla completezza del testo. Si tratta naturalmente di un "corpo mistico”, visto che poi è lo spirito del film, il senso, a essere invocato. Certo il doppiaggio palesemente affrettato e approssima­ tivo di Ferruccio Amendola/Dustin Hoffman in Tootsie è fastidioso - più che fuorviarne -, magari non rende onore alla bravura verbale dell’attore.. Ma per­ ché illudersi che il cinema sia davvero opera d’arte totale e oggetto universale, e non anche (o solo) un testo-Frankenstein costruito per assemblaggio precario di diversi corpi ed elementi, immesso in un mercato dove la pratica della combina­ zione continua smembrandolo e ricomponendolo in testi ulteriori. Oltre ogni cancellazione parziale, riscrittura, riassemblaggio, protesi, il corpo in­ fine permane, desiderato dal pubblico non nella sua forma pura ipotetica cristal­ lina ma proprio come fantasma informe. Il mito del film esatto, del diamante lu­ cido mallarméano inattaccabile dagli agenti atmosferici e dalla storia, è poco pra­ ticabile se il cinema stesso (proprio in quanto composto, composito) fa parte delVatmosfera in cui si vive e si muore. Un coup de dés jamais n abolirà le hasard (Mallarmé): se Straub insegue il cristallo e la sua luce, Kubrick (che non gli cede in rigore) è costretto ad accettare che i suoi cristalli-film vengano doppiati, per poter essere prodotti (costano). E né l’uno né l’altro né altri possono rifiutare la traduzione televisiva (traduzione nel senso di dislocazione forzata; carceraria, di­ rebbe qualcuno). Fecondo, il mito della produzione cinematografica come riproduzione precisa e perfetta di un'idea o di una concezione originaria (del regista, dello sceneggiatore, del produttore; idea visiva, o letteraria, o “di impresa” bellica o architettonica ecc..) insomma in fondo come traduzione assoluta del film sognato e previsto, non può fingersi fino al punto di ignorare il mito principale in cui è immerso, quello del denaro. Venduta l’anima, l’affannarsi per l’integrità del corpo ha qualcosa di ridicol­ mente ossessivo, è un movimento a vuoto se non arriva alla totalità donchisciot­ tesca (Kubrick o Spielberg che visitano centinaia di sale per rendersi conto della qualità della proiezione). Certo il merito è del sonoro di aver scisso anche solo l’illusione dell’opera d’arte universale che non ha bisogno di traduzioni. 218

Il film e il suo doppio

Nei primi anni trenta in America come in Europa, date anche le difficoltà-impos­ sibilità tecnico-economiche di post-sincronizzazione, fu consuetudine doppiare integralmente i film, corpi degli attori compresi. Dato un progetto, una sceneggia­ tura e un investimento produttivo, si giravano (con registi diversi) due tre quat­ tro versioni in lingue diverse (francese, tedesca, svedese, spagnola, italiana, in­ glese..) e con attori diversi di nazionalità appropriata e situazioni narrative qua e là mutate secondo costumi o censure locali. Mancando un’agilità di montaggio su due colonne separate (suono-immagine), era il corpo intero del film a essere tradotto in un’altra lingua, intendendosi cor­ rettamente che il corpo e il volto dell’attore sono anch’essi, nell’inquadratura e nel racconto, elementi linguistici materiali, identificabili e (con tutti i vantaggi e inconvenienti del caso) “traducibili”. Parecchi registi si fecero le ossa dirigendo le versioni “locali” di altri film o tra­ ducendone i dialoghi (come altri, Hitchcock compreso e molti dei tedeschi “Vienna-Hollywood”, esordirono traducendo le didascalie dei film muti). E restano tra parentesi varie conseguenze, ed elementi nuovi. La questione della citazione filmica, che è sempre traduzione o non è, restando in caso contrario ele­ mento testuale eterogeneo e virgolettato al quadrato. I remakes, spesso vere e proprie “traduzioni” spostate in tempi e set diversi. Le possibilità di détournement infinito, anche solo giocoso e privato, indotte dall’uso doppio - registra­ zione e produzione - del video. Mentre il design - immagine precisa e control­ lata, trucco costoso - tenta su scala mondiale e capitalistica di perpetuare le ra­ gioni del film potente e industriale, chiunque può invece giocare a riscrivere in parte i classici, a doppiare Bertolucci con le voci degli amici, in attesa di rifare con video-corpi a scelta i sogni coppoliani lunghi un giorno o un solo attimo “dal cuore”. [il manifesto, 5 maggio 1983]

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Oltre i cancelli, il cielo

Tre film sono sufficienti per scorgere la costanza ossessiva con cui in Cimino il cinema è trapiantato altrove (sullo schermo? Sulla pellicola? O in cieli su cui pro­ iettare film? O nella mente, visto che il “suo” I cancelli del cielo (Heaven's Gate) resta in fondo inedito, versione personale e virtualmente invisibile, corpo di reato e feticcio da solaio di casa) di uno spazio/tempo reale sognato per incubi e visioni. Una calibro 20 per lo specialista, introducendo subito il tema dell’amicizia virile, conteneva viaggi e spostamenti che si condensavano nell’effetto allucina­ torie (per noi e per gli interpreti del film) in un edificio (una chiesetta) spostato e ricostruito in un altro luogo per salvaguardare un bottino. Primo trasloco e tra­ pianto tutto “reale” e insieme scenografico/filmico, cioè un’azione e un effetto tipicamente “filmico” (spostamento di una costruzione sul set) mostrati come reali e insieme disturbanti. Nel Cacciatore il trapianto riguardava direttamente i protagonisti (sempre legati da amicizia virile) sballottati in ambienti diversi e co­ stretti a vivere come incubo il sogno di scoperta/visione/comunione del e col territorio/natura mostrato nell’ascensione quasi religiosa di De Niro alla monta­ gna dominio del cervo. In I cancelli del cielo il trapianto è ancor più immediato e più letterale, per quanto perversamente occulto e fuoricampo: il gigantesco al­ bero della scena iniziale del ballo è stato fatto trasportare da Cimino sul set da un’altra regione, con costi enormi. 1 cancelli del cielo è quindi davvero lo spalancarsi di un abisso mitico. Non tanto quello della Storia, o della storia del Cinema in cui già si inscrive (con in più l’ef­ fetto cacofonico anagrammatico generatore di lapsus di un nome che disturberà e ingarbuglierà i futuri estensori di saggi e monografie: “Il cinema di Cimino”) e è stato inscritto come fallimento militare e maledetto. Diciamo che è uno sconfi­ namento dal territorio stesso del cinema. Cimino lo condivide (negli anni settanta/ottanta) con i Kubrick, Herzog, Lynch, Tarkovskij, Syberberg, col Boor­ man di L'esorcista II e forse col Fellini di Casanova (ma certo più con quello del Viaggio di Mastoma, il “Fellini-mai-fatto”), col Coppola produttore. Òhe la sua scommessa lo destini più precisamente a esiti von-stroheimiani (disastri?) è chiaro, più che dagli eccessi folli e dagli sprechi, dalle mancanze di controllo, dallo spiazzamento un po’ rétro della sua figura di regista tra il bimbo e il maudit rispetto alle aspirazioni tycoonesche di Coppola Lucas Spielberg. Cimino non parla di video, di televisione, di nuovi processi produttivi multimediali, e le sue 220

Oltre i cancelli, il cielo

scarse frequenze produttive lo collegano alla figura dell’autore europeo (per giunta pre-fassbinderiano). Completamente affondato nel cinema, paga integral­ mente le contraddizioni di chi vuole sfidare la tendenza all’infinitamente piccolo (il punto-linea della definizione televisiva) cercando il parossismo produttivo del “grande”. Nella difficoltà di situarsi dentro i generi (/ cancelli del cielo è forse un western? Il cacciatore cosa è? E Una calibro 20 per lo specialista sta un po’ stretto anche dentro il “genere Eastwood”), cioè di trovare un vero territorio filmico re­ ferenziale (operazione che riesce molto bene invece a Lucaspielberg), è il piccolo segno del generale situarsi problematico di Cimino rispetto al cinema stesso. In questo il suo fascino enorme; nella constatazione finale - per lo spettatore - che neanche nel cinema è il territorio di Cimino, o meglio dei suoi film. I suoi film “enormi” annegano nell’enormità e nella piccolezza del cinema. Il trapianto messo in scena sempre non riesce tuttavia mai. Mettere radici nel cinema non sembra consentito a Cimino come non è consentito ai suoi “eroi” (gli immigrati “russi” della provincia americana). Forse per questo tutti i suoi film si aprono su lunghe sequenze rituali/religiose (anche se poi nel primo subito Eastwood getta la tonaca del finto prete), forse per questo il cinema dei suoi film cerca di radi­ carsi - nei grossi buchi narrativi compatti e prolungati fino a sembrar diluiti, e uniti solo per sfilacciature narrative quasi viscontiane riscattate da un procedi­ mento (nei due ultimi film) difficile da mettere a fuoco e da dettagliare, proprio in quanto paragonabile a successivi spostamenti di fuoco all’interno di un grande quadro in lieve movimento, dove masse e personaggi sono “memorie” che si stra­ tificano più che presentazioni e “dati” per futuri sviluppi narrativi. Né un’altra grande struttura come la famiglia (ancoraggio, peso, garanzia in tutti i sensi per un regista-produttore come Coppola, e naturalmente per l’altro italo-americano Scorsese e per tutta la ex-corman-factory dispersa) trova posto o viene trovata cercata fuggita nei film di Cimino. L’amicizia virile rinvia a percorsi solitari, pri­ mordiali, mitici, a confronti essenziali di pure energie dove si brucia la sicurezza o la rassicurante convenzionalità dei rapporti drammatici e di parentela. Mentre il disegno complessivo del film (nelle due versioni che si son già viste in Italia, quella distribuita nelle sale e quella “lunga” al Festival di Venezia, nono­ stante i finali e i montaggi diversi) appare spesso chiaro in trasparenza, tuttavia lo si percepisce continuamente come deformato, perché tutte le linee (gli elementi) sembrano andarsene per conto loro, spingere verso la loro curvatura finché pos­ sono. Per lineare e quasi “semplicistica” che appaia la fabula, questa assenza di un padrone (come se il regista-dio-ideatore si fosse poi accontentato del sogno e della memoria) produce affascinantissimi spaesamenti, anche puramente tecnici. Il so­ noro cori oltre che smisurata e involontaria parodia del suono travagliatissimo e multipista, è la follia di un tentativo di ridare l’inaudibilità complessiva del reale, la sua frammentazione non ricomponibile, il suo consegnare, all’orecchio che ascolta la Storia, spezzoni inintelligibili, mozziconi di discorso affogati in un ru­ more di fondo naturale che può essere solo quello del territorio stesso che si sposta e del mondo che rotola (in originale - l’originale accusato dalla critica americana di quasi incomprensibilità - il suono di I cancelli del cielo è il più emozionante de­ gli ultimi anni, a livello di Eraserhead, più che di Nashville). 221

paura e desiderio

E gli attori? Kristofferson, nonostante e con Walken, e con la Huppert, non è forse l’ottusità dello sguardo come Walken ne è la follia, in ogni caso sguardi poco discorsivi, troppo fondi e poco espressivo/unidimensionali per risultare spettacolari, lineamenti poco spigolosi. Di nuovo, annegare, affogare nel cinema cancellando anche il volto troppo forte e centrale alla De Niro. E i finali o meglio le versioni del film. Non programmaticamente incerte come in Coppola, incerte e aperte e multiple come quelle di Apocalypse Now. Aperte e incerte invece perché squadernate spellate vive violentate dalla produzione, e perché è difficile immaginare un soggetto (Kubrick?) che, oltre a idearlo, pro­ gramma fino in fondo un progetto come I cancelli del cielo. Allora forse qualcosa di snuff, di very very hard affiora in questo film soavemente legato al palo di Ulisse che passa accanto alle sirene. E lo sguardo sulla prateria sanguinolenta della storia omologata al corpo dei sentimenti e all’impossibilità inanità insensa­ tezza (non ci vorrebbe almeno un Alessandro Magno per I cancelli del cieloì Un condottiero, dei "volontari” in camicia rossa?) del cinema. In scena, l’uccisione di un sogno che si era visto copulare con tanti possibili territori del cinema.

UlPatalogo, 5-6,1983]

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L’entità della cosa (il doppio del cinema)

Dissolvenza e sovrimpressione restano forme tipiche dell'immagine moderna, che sopravvive anche alle figurette lucide e precise del “post” sublimato nelle co­ pertine, nei video e negli short pubblicitari. La caparbia decisione coppoliana di far avvenire now la catastrofe senza tempo si appoggia in partenza sulla sovrim­ pressione multipla, sullo schermo/strato che inghiotte e codifica l’eccesso. E la tendenza all’alta definizione - dal videodisco alle riprese sperimentali di Storaro e Montaldo (..) - non esclude la sopravvivenza del dominio di un’immagine vi­ deo slavata, quasi trasparente, lattiginosa e piena di buchi. Se l’immagine sinte­ tica computerizzata (cioè agibile/riproducibile dal computer come da un moto­ rino che muovesse una marionetta) deriva da ricerche spaziali/militari, proprio le più emozionanti immagini dallo spazio (quelle “in diretta” o quasi delle teleca­ mere, non i filmati visti in seguito), diciamo l’uomo sulla Luna, hanno la qualità del fantasma: attraverso i corpi degli astronauti si vede qualcos’altro, lo sfondo, e il movimento disegna a sua volta scie trasparenti, il corpo è un effetto speciale senza contorni esatti, come certi ectoplasmi dentro i circuiti chiusi TV di sicu­ rezza (banche, eccetera). Ma alla fine della dissolvenza l’immagine che fuoriesce e nasce non appare diversa. Il cane lupo che corre sul bianco gelato del pack in­ seguito da un elicottero (La cosa) si muove dentro un look disegnato dal vecchio mago di Hitchcock, Albert Whitlock; è cinema, il solito amorevole ipercinema di Carpenter. Eppure sta accadendo qualcow; qualcosa di inquietante. Entity. Improbabilmente e sciattamente raccontato, spesso efficacemente mo­ strato, il film di Furie è la storia di un’ossessione che materializza il proprio og­ getto (se stessa), giungendo quindi a un allucinante impossibile, a un’immagine in­ visibile, o meglio a un’immagine che accoglie come agente interno l’invisibile di solito riservato al fuoricampo. Mediante il ricorso a un fatto di cronaca parapsi­ cologica il fuoricampo entra in campo, ma, assumendo il cinema come soggetto, si ha per la prima volta un film in cui l’ossessione del corpo arriva all’invisibilità, al bianco/vuoto/trasparenza assoluti. Per la prima volta, l’invisibilità non appare effetto di mutazione o stato provvisorio; una voce, la pur ridicola voce dell'invisi­ bile, è l’unica cosa che appare e alla fine ci resta, e permane oltre la storia. Del corpo (spirito, spirito!) invisibile si ha allora un’immagine “negativa” nel corpo della donna che si mostra violentato, sballottato, battuto dal nulla. E il tentativo estremo di imprigionarlo, che è tentativo di farlo vedere, di bloccarlo in una

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forma, non può che passare attraverso il rigore del ghiaccio, stato instabile e multiforme per definizione, illusione di forma; che del resto viene anch’essa spezzata e vinta, in un bell’effetto speciale che ha il record di rappresentare uno stato di trasformazione dell'invisibile. Uno stato particolare all’interno di una gal­ leria di stati di trasformazione e di allucinazione che, profetizzata nel 1968 da 2001 con la lunga sequenza di effetti speciali visivi del corridoio delle stelle oltre Giove e prima della stanza. prefata da Zardoz nel 1974 con la scena della distruzione/attraversamento/assorbimento del tabernacolo di sapere/immagini del Vortex, è oggi il tempo del cinema, quasi parodizzato negli affascinanti Stati di allucinazione, che nonostante tutto traspaiono al di là del connubio stridente tra lo psicologismo televisivo di Chayefsky e la cialtroneria effettistica di Ken Rus­ sell. L’invisibile manifestandosi accanto al corpo ha il vantaggio e la particolarità di chiarire la natura della cosa, più vicina al “nulla” (e quindi al “tutto”) che a qualsiasi concetto del “corpo”. La cosa non è il corpo. Anche il corpo è cosa. The Thing/E.T. Nel passaggio dai settanta agli ottanta l’effetto speciale “di tra­ sformazione” si è inserito nella dissolvenza temporale (cosa è un decennio..) quasi a costituirne il riflesso filmico. Di più: il cinema di trasformazione include la dissolvenza filmica; non praticandola (perché allora ne sarebbe preda, e i truc­ chi perderebbero la loro qualità più preziosa, che è oggi quella di aderire alla “proibizione del montaggio” che Bazin aveva decretato per i documentari e i film “per bambini”..), ma fotografandola spesso in quanto forma all’opera. L’uomo che diventa lupo (Dante, Landis, Wadleigh..) è una forma di dissolvenza corporea. Certo la circolazione tematica della trasformazione, che nella comme­ dia può aprirsi all’infinito giocando sul non-detto, nell’horror/fantascienza si scontra col suo carattere stesso di esibizione, costretta a iterarsi proprio nel mo­ strare la mutevolezza dei corpi e la maestria tecnica, tendenzialmente anti-narrativa e teatralbaracconesca. Punto di congiunzione tra tecnologia avanzata e arti­ gianato, il trucco di trasformazione è permesso anche alle piccole geniali produ­ zioni indipendenti, mentre il salto vero è - comme toujours - nel “già trasfor­ mato”, nel lavoro talmente efficace e sprecone da occultarsi. Occultamento è lo spreco portato a naturalezza da Guerre stellari e proseguito senza enfasi dalla linea-Lucas: un cinema già imploso e riassorbitosi, multitruccato, non solo accon­ ciato e mutante. Nel cinema “ricco” il gioco è già oltre il trucco, oltre i suoi li­ miti pericolosi: i trucchi e le trasformazioni sono non più “oggetto” ma oggetti, attori quasi, posto che gli sfondi stessi diventano “agenti”, sono “costruzioni”, non più mondo-ambiente “naturale” per definizione anche se ricostruito in stu­ dio. La trasformazione può al più essere un piccolo gioco transeunte nello spazio nero lueasiano attraversato sempre a velocità altissime (la capacità visiva - e di animazione - di mantenere una varietà e abbondanza di “cose da vedere” - per esempio nelle battaglie stellari - rispetto all’effetto di velocità sembra anzi essere in sé il trucco più forte e rilevante del cinema attuale di Lucas). Nell’estate del 1982 escono insieme sugli schermi USA E.T. e La cosa. Successo enorme del primo, clamoroso fallimento del secondo. Due approdi estremi e di un comune lavoro sul trucco, di un comune superamento logico del suo domi­ nio. La fiaba rassicurante di Spielberg riesce a mettere in campo un puro segno

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L’entità della cosa..

antropomorfo, un “già trasformato”, un “oltre il make-up”, dandogli una consi­ stenza sentimentale che permette la semplicità/banalità di un trucco classico come quello del volo in bicicletta. Allo spettatore - come nel grandissimo ci­ nema “popolare” (Disney, De Mille, Ford) - è affidato il compito/piacere di “truccare” il film, di spostare sull’alieno l’investimento di umanità, senza alcun bisogno della potenza tecnologica esibita dal trucco “hard” di tanto cinema; anzi esaltando la semplicità, il “fai da te” (come il tentativo di E.T. di comunicare con le stelle), la dolcezza della normalità. Negata l’onnipotenza del trucco, il trucco viene recuperato come capacità di far apparire, con la massima fiducia nel ruolo ordinatore-educativo del cinema (che infatti “insegna”, raccoglie e trasmette se­ gni e notizie sia a E.T. che al bambino, fa da mamma e da scuola insieme). Nes­ suna mamma invece in La cosa. Nessun “amore”. Forse, nessuna “umanità”, visto che c’è “la cosa”. E possibile identificarsi con qualcosa che si può identificare con tutto e che non ha quindi forma? E possibile identificarsi con qualcuno che potrebbe essere già “qualcosa” mentre lotta contro la cosa? Possibile sposare la sua lotta che appare assurda? Non c’è rifugio dal terrore della cosa. Non c’è biso­ gno di mostrare alla fine la nuova epifania dell’orrore, con la solita ironica con­ statazione che il “vampiro” non è stato sconfitto e tornerà. Qui si ride, si scherza come scherzavano dopo l’esplosione dell’astronave i due personaggi proiettati verso la morte nel primo film di Carpenter (Dark Star). Si ride alla fine (ridono i due personaggi superstiti in attesa della fine) proprio perché non c’è scampo dal trucco. La cosa è il principio stesso della trasformazione, adottato per la prima volta insieme come forma narrativa, Aggetto della narrazione, generatore di im­ magini. Che la cosa sia il cinema riudtato all’interno di se stesso è abbastanza chiaro. Non è il cinema come fuoricampo che tenta di oggettivarsi (Entity, fanta­ sma infatti, larva di cinema); La cosa è il cinema come puro deserto, nudità di un vuoto (qui il bianco artico) da popolare e riempire. Da sempre citazionale e refe­ renziale, il cinema di Carpenter affrontando direttamente il “cinema” con la forma-remake si concentra e si compatta di colpo in una macchina infernale che deve mordersi la coda senza alcun dolore o contraddizione, perché la macchina/ cosa è questo mordersi la coda. Se il trucco carpenteriano era sempre stato soft o inesistente dal punto di vista del make-up e degli stati di trasformazione (vedi la semplicità di Halloween e di Fog), puntando più direttamente a “truccare” il ci­ nema stesso rendendolo oggetto lucido e godibile, finto e fallace, costruito per ingannare senza deludere, qui la normale apparenza di artificialità del set (bianco uguale al nero cosmico di Dark Star o di Lucas) è invasa e subissata dal trucco come essenza. Dalla meticolosità iniziale del remake si salta in un’ossessione folle la cui struttura sorprendente è quella di un’improvvisa riflessione della cosacinema, non in un gioco di specchi ma in uno specchio senza limiti, il trucco as­ soluto come pura possibilità di produrre/modellare forme e corpi. Remake di Hawks, il film è quasi subito remake anche di una “parte prima” di cui vediamo gli spezzoni nel “diario filmato” della missione scientifica già devastata dalla cosa. Il gioco di massacro è all’infinito, finché la vita non sia estinta, perché qual­ siasi essere può essere ancora la cosa, l’essere del cinema. Fortemente implosivo, il film più geniale e affascinante di Carpenter è anche un’uscita allo scoperto che 225

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estremizzando il gioco filmico lo abbandona, che nel moltiplicarsi dell’euforia vi* siva trascina lo spettatore nel luogo della pura teoria, della rarefazione concet­ tuale, ai limiti dell’asfissia e della disforia. Non c’è un segno nuovo da seguire, fosse pure un ragnetto e.t.; nulla “appare” a rinsanguare l’occhio. Anzi, la stupe­ facente mostruosità del trucco mina qualsiasi rilassata fiducia nella fiaba-cinema: non solo il cane-lupo che inietta fin dalla prima inquadratura la fiction nel bianco polare potrà essere d’ora in poi “cosa”, ma anche il gattino che abbiamo sulle ginocchia di colpo potrebbe cominciare a decomporsi, scomporsi, dissan­ guarsi, suddividersi in dieci teste, sibilare, diventare una pozza di liquido, un uomo o un ragno con la testa umana. Occhio dissanguato allora, occhio freak, occhio che in ogni momento può cominciare a friggere e delirare. La cosa è la messa in scena del cinema come pupilla (tanto bianco intorno, infatti) in cui tutto ciò che appare è pronto a dichiarare il suo non-senso, in cui qualsiasi ordine può aprirsi e mostrare orrori infiniti lovecraftianL La perfezione del trucco, che rapi­ damente induce una credibilità della meccanica sfrenata delle trasformazioni, di­ venta nel suo orrore schifoso una "potenzialità” della materia stessa, uno stato che viene iterato - nella seconda parte del film - solo per mostrarsi e dirsi visiva­ mente, per giustificarsi produttivamente nella sua perfezione. Sembrerebbe non essercene bisogno, ma è proprio questa reiterazione esibizionista a rendere "nor­ male” anche questo stato di infinito orrore. Blade Runner. Ridere, allora, è il segno di un’intelligenza acre e disperata dello spettacolo. La risata finale di Kurt Russell è del suo compagno è un appoggiarsi ironico al limite del trucco X, il crinale tra riconoscibilità e rappresentabilità. L’uomo che ride può già essere cosa, ma allora sempre sarà così, nel senso che il tempo si ferma in una dimensione di indecidibilità, di ambiguità assoluta. Già il set viene minato dalla "cosa”: Carpenter avrebbe voluto girare nella stessa zona in cui erano stati girati gli esterni del film di riferimento (La cosa da un altro mondo), ma non ha potuto a causa dello scarso innevamento; girato in un’altra zona desertica del Nordamerica, il film cancella ogni informazione sul suo set geografico (bianco e indefinito del resto), appare studio, effetto speciale ritoccato visivamente da Whitlock. Omologa al cinema, la cosa si impadronisce del set e comunque lo "finziona” di sé. Naturalmente ben altro successo ha avuto Blade Runner, film capitale per molti versi, simpaticamente epocale, già cavalcato come ultimo “easy rider” d’annata. Tema del doppio, del replicante, della copia. Non è il massimo del trucco? Con tanti begli interrogativi e tormenti romantici (uniti, figuriamoci, all’esistenziali­ smo soft del “noir” chandleriano), con la più assoluta mancanza di ironia. Le macchine perfettamente funzionanti di Ridley Scott, perfettamente "pubblicita­ rie” sempre e “affermative” fino in fondo (salvo Alien, meravigliosamente con­ traddittorio: si può fare “pubblicità” al., cancro?). Un trucco è ancora la cosa più interessante e decisiva del film: trucco scenografico, ritorno e anzi sopravvento della scenografìa, scenografìa come regia, trucco coloristico, immagine quindi scomposta in chiaroscuri plurimi, immagine finta trionfalmente barocca, ma ap­ punto per questo infinitamente superiore e distante rispetto alla banalità del tema “replicante”. Originale e replica, la loro dialettica, sono presi in un unico 226

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“destino”, non quello tragico e “profondo” adombrato dalla scenografìa (che, en passant, elimina del tutto l’aspetto secco e ironico del romanzo di Dick) ma quello fortunatamente “superficiale” dell’immagine e delle sue luci ombre. Affa­ scina il film come repertorio di mode e architetture, come raccolta di immagini bagnate e di cartoline di città sempre crepuscolare. Ma il tema del “doppio”, di cui si vedono e si annunciano inevitabili repliche, è sicuramente un passo indietro mediante una finta scorciatoia rispetto alla “trasformazione”. Intendo natural­ mente dal punto di vista desueto del “cinema”, non da quello dell’arredo urbano psichedelico. Nulla rischia Blade Runner sul cinema. Resta lontano da tutto ciò che la cosa ri­ schia di perdere. È indubbio che il trucco (di ogni tipo) abbia sempre vissuto tra incertezze e aporie paradossali; da una parte il trucco “di servizio” che aiuta la verosimiglianza di una scena economizzando e semplificando i problemi di una ripresa “dal vero”; dall’altra il trucco palesemente inverosimile e “meraviglioso”, di stampo mélièsiano, circense, ingegnoso e anche povero. Oppure, il trucco che si esibisce e quello che si nasconde. Eccetera. Ammessa in azione la “cosa” fil­ mica, dietro qualunque immagine, dentro qualunque corpo, può esserci il trucco. Tron. Se dal tutto-trucco dell’animazione classica si passa alla contaminazione dell’immagine cinematografica simulandola con la computer-grafica si verifica una realizzazione di fatto del doppio, ben più forte della simulazione reale del corpo. Nessun test “di immagine” diventa possibile. Non solo ogni immagine può men­ tire (come in ogni fiction) o non dire. Ogni immagine può essere lei un simulacro di immagine, immagine di immagine, immagine robot. Un doute subsistait sur Vi­ ntage à cause de la presence de Vhomme*. la celebrazione baziniana dell’ontologia del realismo fotografico si può rovesciare in un dubbio opposto, proprio in se­ guito alla perfetta dimostrazione del suo assunto. A causa della presenza della macchina. Inevitabile allora che già i primi esempi in qualche modo deludano ri­ spetto alla vertigine teorica (ma proprio su questo, per esempio, è costretta a puntare la pubblicità) dell’assunto. Tron regge benissimo, è un ottimo esempio di video-animazione perfettamente ingenua e disneyana, dove nel mondo elet­ tronico si riproduce solo in forme classiche la scissione Bene/Male. Quel “mondo” funziona benissimo, ma non più o meglio di qualsiasi ambiente disneyano classico di fiaba. Quanto è lungo un sogno? Nell’immagine elettronica computergrafizzata l’effetto speciale specialissimo è infatti per l’appunto la scomparsa della differenza. Uomo o macchina, l’occhio che produce non permette di capire chi ha prodotto l’im­ magine, ma questo è il noto problema metafisico del fuoricampo. Molto di più, ora è la “verità” della macchina stessa a non essere più garantita. Un sogno lungp un giorno (e i tentativi simili che seguiranno) è costretto a farsi pubblicità puntando su ciò che pochissimi occhi tecnicamente avvertiti possono “notare” (e solo per le sue., imperfezioni): il fatto che si tratta di immagini “elet­ troniche”. E l’enfasi rischia di sommergere proprio la qualità, sublime due volte, di essere un magnifico piccolo film e di rischiare la non pércepibilità per un so­ gno del cinema. 227

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Di fronte allo scontro di finte intensità tra meraviglioso e “veromiglioso”, il trucco più affascinante torna forse a essere proprio quello del soggetto. Distrutto e simulato senza via di scampo, annullato nell’infinitizzazione delToggef/o, ab­ bracciato per sempre a esso nella cosa, il soggetto può davvero fingere immer­ sioni nella tron-immagine. “Scrivere”, addirittura (Godard..). Da una posizione diversa, tutta interna alla scissione e alla cosa, che era l’ossessione dello scrivere di un tempo. Girare da quel punto di vista che non è più riconoscibile e situabile perché è dentro la cosa-oggetto-elettronica, costretto a una distanza rovesciata. Correre in avanti verso indietro a “vedere” come nascono e spariscono le imma­ gini, come agisce la cosa. “Io me ne vado e voi mi cercherete ma lì dove io vado non potete venire” (Giovanni, 13,33).

UlPatalogo, 5-6,1983]

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Occhi che cercano, voci che sanno (La tragedia di un uomo ridicolo)

Difficile ricordare un film italiano recente così affascinante, appassionante e li­ bero dalla “teoria”. Un film così istintivamente cinema, anche se ostinatamente programmato e voluto', in ogni senso, soprattutto come contrario di “involuto” e senza bisogno di essere “evoluto”. Molte delle scelte del film, per esempio, sono programmaticamente ambigue, a cominciare dall’incertezza con cui finisce. E l’ossimoro del titolo si ripete su piani diversi. Così, in un momento in cui spesso si rimpiange la capacità americana di strafare cinema, l’autore del kolossal padano-americano Novecento fa quasi snobisticamente un film relativamente mode­ sto, in cui però la concentrazione di idee in ogni scena è altissima, pari alla pro­ fusione di lustrini e ricchezza nei grandi spettacoli. In un film in cui non c’è quasi nulla da vedere che si imponga di forza come cardine (si veda per contrasto la ricerca accanita di materiali che parlino da soli nel “nuovo” cinema italiano, dalla situazione-choc di Piso pisello e La caduta degli angeli ribelli alla Napoli fla­ grante di Pisciceli!; con la solo parziale eccezione di Moretti, già più capace di la­ vorare sul poco anche se legato - in questo come Woody Alien - alla violenta presenza scenica di sé come polo d’attrazione) è proprio il vedere che trionfa, la messa in scena visiva, il piacere di guardare e di spiare e essere spiati. Evasivo, potrà sembrare, se in fondo si parla di terrorismo. Ma questo è il punto. Chi sa qualcosa di definitivamente preciso del terrorismo? Bertolucci non azzarda il film d’avventure, o quello politico, o il melodramma che li coniughi entrambi. Moventi e azioni permangono oscuri, e il film si arresta esattamente alle soglie del sapere. Come Tognazzi investe su una perdita, sul rapimento, sull’assenza del figlio dato per morto, anche Bertolucci investe sul proprio non-sapere, sul vuoto e sulla terra bruciata del terrorismo. All’impossibile invenzione di un discorso soggettivo del terrorismo (o dei terroristi) sostituisce, ironico e sottile, fresco e cinicamente cinematografico, la soggettiva sonora (non solo) di Tognazzi. La voce fuoricampo del protagonista nel poliziesco americano era la descrizone di incubi e meandri sconcertanti, ma anche la certezza (per lo spettatore-ascolta­ tore) di essere portati per mano a un sicuro scioglimento, come lungo un conti­ nuo flashback psicologico che inizia comunque dal luogo privilegiato (il fuori­ campo) da cui proviene la voce che si sovrappone e che sa.. Qui, il fuoricampo è un commento mormorante che segue passo passo, senza alcuna presupponenza, l’azione cieca del protagonista. Che, come tutti i ciechi, è fascinato dal vedere, 229

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dall’atto voyeuristico: spia col binocolo, guarda di nascosto questa o quella nella sua casa fatta di buchi e piani appositamente sfalsati; spia perfino la natura, i prati e il paesino di fronte a casa, si immerge con gli occhi nel bianco del latte con cui si fanno i suoi formaggi, come in un momento “drammatico” non dimen­ tica di guardare ammirato e sorpreso (come noi) il seno di Laura Morante im­ provvisamente e inopinatamente nudo e voluminoso. Quasi una parodia dell’in­ dagine, questo seguire un personaggio che non riesce a sapere niente e che se rie­ sce a ottenere uno scopo, il ritorno del figlio, è solo nell’ignoranza e dopo essere stato certo di averlo jberso. Non fosse per le malizie bertolucciane (e per il modo in cui l’ambiguità, oltre a esserci, viene dichiarata e enunciata) sarebbe la semplicità enigmatica delle para­ bole evangeliche la cifra narrativa del film. Ma la “tragedia di un uomo ridicolo” è tutto un continuo mescolarsi di toni in un generale disagio dolce amaro dove il punto di vista del piccolo industriale Tognazzi è talmente parziale da dover es­ sere chiuso alla fine in un mascherino, una piccolissima parte di schermo, bef­ farda e tenera. Bertolucci rivendica la parzialità del film, i suoi limiti; ammette e ingloba un altro “buco”, i giovani (improbabilmente confinati nella solita purezza/ingenuità/ascetismo/perversione, ma con un sospetto finale di “recita­ zione” complessiva, di messa in scena che accetta di giocare con l’economia di Tognazzi..) e si dedica a tante figurette tragico/ridicole, come gli straordinari e straordinariamene comici carabinieri Caprioli e Salvatori. Dimostra col finale in discoteca come non ci sia bisogno di Verdi e Wagner per costruire un attimo di melo. Inventa inquadrature stupende come quella dell’albero vicino al gabinetto all’aperto, ulteriore apparizione allucinata di una naturalissima visione di To­ gnazzi, seguita da un tocco geniale di (ir)realtà, la luce del giorno che diventa notte nel passaggio brevissimo da un campo a un controcampo, il tempo traso­ gnato dilatato soffiante sospeso doloroso di una pisciata.. Costruisce con nulla momenti di intensa suspense: l’altoparlante che segue minaccioso Tognazzi uno si chiede, cos’è? siamo tornati agli attrezzi in campo del cinema godardobrechtiano.. - e invece è Cavallo; o quelle macchine scompostamente ferme da­ vanti a casa, i cappotti nell’ingresso, una cosa normale e borghese che per un at­ timo appare possibilità di tragedia, sconvolgimento, minaccia. Solo un attimo. Come l’elicottero sinistro che arriva a spiare in casa come solo la televisione può far meglio dei carabineri; e l’unico vero mancamento di Tognazzi, che avviene per l’appunto mentre il Tg trasmette la ripresa in sottofondo e l’uomo ridicolo apprende che il figlio parlava di rapirlo. Scambi e sostituzioni di affetti, di de­ naro, di persona, di valigie. Scambi tra un sentimento e l’altro. Un non-terrorismo spinto fino a rifare il sonoro aggiungendo proprio la voce fuoricampo previ­ sta già in partenza. Un altro sintomo di un cinema (d’autore) che impara sempre più a giocarsi, a rimontarsi, a scommettere sui suoi difetti (i suoi vantaggi) nei confronti della realtà.

UlPataloff). 5-6,1983]

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Voglio sapere perché (l’avventura non è l’avventura)

Spillato dentro una cartellina azzurra con sopra scritto un no a matita, no ripe­ tuto in rosso sulla prima pagina, Voglio sapere perché è il titolo di quella che ap­ pare essere la prima versione del soggetto Avventura. (Voglio sapere perché-, domanda che si risolve nel porsi, anzi quasi “progetto di domanda” e di ricerca senza oggetto finale. Razionalismo? Illuminismo, empiri­ smo. Attenzione abituale di Antonioni al “lato oscuro” della ragione. Diderot: l’illuminismo che “sogna” (Il sogno di D'Alembert). Blow up, Professione: reporter, Thomas, David (Hume, John) Locke che nel loro empirismo anglosassone - vo­ lendo sapere perché - sperimentano l’improbabile e il non-causale ben previsti da Hume - prima del costituirsi di un a priori kantiano - nella sua critica del concetto di causalità: solo Vabitudine ci fa credere che sempreiuna pallina da bi­ liardo urtandone un’altra la sposterà o produrrà un rumore e che l’una cosa di­ penda dall’altra. Non abituale è anche, intanto nella cultura (cinematografica e non) italiana, e poi forse nel cinema tout court, legato sempre, condannato quasi (magari in negativo: cfr. il “fantastico” come “genere") all’attesa di gesti prevedi­ bili, alla ripetizione abituale di situazioni probabili, a una serialità di accadimenti il cui fascino è dato solo o proprio dall’esecuzione sempre diversa di momenti ca­ suali sempre uguali, questo atteggiamento antonioniano). Sedici pagine (più dieci fogli volanti con la minuta), la storia di sette personaggi che vanno a fare ima gita in barca. (Un altro foglietto volante con un appunto scritto a mano, come lo spunto per un altro film, un’altra storia, farfalla infilzata pronta per Quel bowling sul Tevere, o notizia di cronaca (?!) trascritta in barlume fantastico: “Vicino a Ponza, estate 1958 / - Due che facevano la pesca subacquea sono scomparsi. / Riemergono molto lontano e approdano in un’isola solitaria”.) Leggere l’inizio può essere utile: Questa è una storia spietata e anche un po' misteriosa. / Incomincia a Roma in una bella giornata di febbraio. Finisce alcuni giorni dopo ad Amalfi. Due ragazze e un uomo ne sono i protagonisti principali. Le ragazze (Anita e Giuliana) non sono ricche. La prima vive col padre benestante, la seconda lavorando per conto suo. Essendo ragazze di gusto, vestono con eleganza ed hanno amicizie nell'alta borghesia, dove le cose sembrano essere talvolta di una facilità sorprendente. Basta infatti che Anita confessi a Uberta, un'aristo­ cratica che ha conosciuto da poco e che le dimostra simpatia, un suo vecchio desiderio di passare alcuni giorni su uno yacht, perché Uberta con una telefonata ("Pinuccio, mi dài la

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barca per un po’ di giorni, quest’estate?”) la accontenti. / Anita non sta più in sé dalla gioia. Vuole vedere subito lo yacht, ancorato a Napoli. E così un bel mattino un gruppo di amici parte per Napoli a vedere “la barca”. E siccome la giornata è quasi primaverile, il cielo terso, il mare liscio come l'olio, si decide di fare subito, cioè il giorno dopo, una gita a un’isola, la più selvaggia e disabitata di tutte: Palmarola. / Sono sette persone: quattro donne e tre uomini. ! Durante il tragitto, tra un discorso scherzoso e uno serio, i nostri personaggi, e i rapporti che li legano, si chiariscono. Vi accenniamo di sfuggita perché, eccettuati i tre citati, gli altri non hanno un peso decisivo.

Eccettuati i tre citati (anche se Tuomo, Roberto qui, Sandro nel film, è stato men­ zionato appena di sfuggita; i nomi delle due ragazze, Anita e Giuliana, scompa­ iono nel film - diventando Anna e Claudia - per ritrovarsi ne L'eclisse (Rossana Rory) e in Deserto rosso (Monica Vitti); in compenso c’è già un’Anna, quella che nel film si chiamerà Giulia (Dominique Blanchar), ma nella minuta c’era una “Laura” cancellato e corretto a mano già in “Giulia”).. Da Quel bowling sul Tevere, “Chi è il terzo?”: È sempre con molta fatica quando ho finito un film che mi metto a pensarne un altro. Ma è la sola cosa che mi resta da fare e che so fare. Delle volte mi fermo su un verso che ho letto, la poesia è molto stimolante per me. Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? Quando un verso diventa un sentimento non è difficile metterlo in film. Questo di Eliot mi ha tentato molte volte. Non mi dà pace quel terzo che ti cammina sempre accanto.

Che il cinema di Antonioni viaggi accompagnato da un “terzo” e che sia in parte agito o solo guardato da esso, in parte ricerca di esso, è testimoniato dall’acca­ nito indagare “la solita storia” da Cronaca di un amore a Identificazione di una donna, quasi sempre l’affiorare/cancellarsi della figura del triangolo nei rapporti tra i personaggi (triangolo e rapporto che a partire da Blow up si sposta e ogget­ tiva anche direttamente nelle relazioni tra diversi piani di realtà, diversi seziona­ menti visivi (visioni) e logici all’interno del reale spazio-temporale, fino al ge­ niale apparire di una doppia donna - due spazi diversi? e poi l’iperspazio della fantascienza?.. - in Identificazione di una donna), senza arrendersi al luogo co­ mune che legge solo banalità e ovvietà nel triangolo borghese. O dallo stesso Antonioni che scrive, nella prefazione a Sei Film (Einaudi, 1964): Pensai anche - in un momento di esasperazione - di sceneggiare i primi capitoli della In­ troduzione alla filosofia matematica, libro serissimo, ma ricco secondo me di spunti comici Per esempio: “Il numero tre non è identificabile col terzetto composto dai signori Brown, Jones e Robinson. Il numero tre è qualcosa che tutti i terzetti hanno in comune”. Dove al terzetto dei signori Brown, Jones e Robinson è riservata una parte già colorata di ridi­ colo.

(Ma più inquietante è, per me, la prima grande foto a tutta pagina all’inizio dello stesso libro einaudiano, a fianco del titolo. Sgranata, bassa definizione per l’in­ grandimento: cespugli bassi in primo piano, dietro salgono tra le rocce della Li­ sca Bianca de L'avventura, da sinistra a destra e col mare sullo sfondo in basso (in 232

Voglio sapere perché..

alto nell’inquadratura), tre persone: si riconosce Antonioni, che è davanti, den­ tro una sorta di cerata/giaccone scura, poi la Vitti al centro, bionda con l’imper­ meabile schiaffeggiata dal vento; e sulla sinistra, un po’ più in basso e quindi più piccolo, a chiudere la fila, pantaloni chiari e giubbotto, un uomo con gli stessi capelli di Antonioni, molto simile a lui, forse più giovane, o forse proprio “lui”. Fossero solo lui e la Vitti lo si direbbe certo Antonioni, data poi la collocazione introduttiva al volume. Sarà invece un membro della troupe (Franco Indovina?), ma certo fa pensare per un momento a un fotomontaggio, o a un fantasma colto dalla macchina fotografica, a un “terzo” comunque incongruo..) O è testimoniato dallo sguardo ulteriore che fotografa l’ombra della troupe di Zabriskie Point sulla copertina di Quel bowling sul Tevere. O dalle due straordi­ narie sequenze “finali” de L'eclisse e di Professione: reporter (e quella psichedelico-esplosivo-musicale di Zabriskie Point, col ralenti “inumano”..), che rompono una sintassi di sguardi per introdurre un occhio che sta a fianco e sopra e oltre, con l’evidente assunzione in Professione: reporter da parte della m.d.p. del punto di vista del soggetto fantasma (per non voler dire “dell’Altro”; certo appropriata è una lettura di Antonioni “con Lacan”, e non solo per il gioco tra chi guarda, chi è guardato, chi guarda guardare..), o del fantasma/cinema (proiezione di esso) per una volta preso in carico direttamente dal film. Visione fantasma che infatti esce dall’inquadratura-finestra abituale e giunge a guardare il luogo dove era (la m.d.p.) e dove ora resta solo il vuoto del soggetto nel cinema, necessario sempre perché il cinema si faccia, evidente qui dove della macchina-apparato non resta traccia se non la messa a morte anch’essa sempre agita dal cinema (ma questa è anche - in qualche modo - la prima ripresa in soggettiva della Morte - e non “dell’assassino” - nella storia del cinema). Modificando il cinema prima an­ cora che la steadycam proponga qualcosa di simile nel “volo” di Pazuzu dell’Esorcista II: lJeretico di Boorman e in quello che apre Shining ma in Antonioni con una durata e esattezza che evocano appunto un personaggio altro, un terzo, o meglio FAltro come personaggio, l’ombra del soggetto che vede, con un movi­ mento in cui “TAltro, sorgendo di sorpresa, costringe il pensiero a uscire da se stesso e l'io a scontrarsi con la mancanza che lo costituisce e da cui si protegge” (Blanchot), mentre la steadycam oggi introduce automaticamente, e spesso inconsapevol­ mente in molti film in tutt’altre faccende affaccendati, una diffusa “malaise”, un benemerito senso di incertezza e galleggiamento, di acquaticità di un occhio so­ speso e diffuso a disposizione di tutti, più forte di qualsiasi regista. Non è in ogni caso un’interpretazione di Antonioni che si vuole proporre qui (né altrove), ma solo raccontare di una tangenza, di un lavoro nostro (di Michele Mancini e mio) che si sta svolgendo sulla base di materiali antonioniani. Di un “discorso” - se è possibile - che non vuole mimare o assumere o arbitrare quello di Antonioni, ma solo verificare ipotesi lavorando materiali tra i quali ci sono i film raccolti dentro il suo nome. E certo, raccontare alcune “coincidenze”. Falsi ritorni - Per un'archeologia del set si intitola intanto un programma di tre ore, tre puntate per la terza rete della Rai, dedicate rispettivamente a La terra trema di Visconti, L'avventura di Antonioni, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. O me­ glio, a Aci Trezza e La terra trema, a Lisca Bianca e L'avventura, all’apparta­ 233

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mento di Passy in cui si incontrano Marion Brando e Maria Schneider. Tre set (con raggiunta di una quarta puntata, di Giuseppe Bertolucci, sull’Emilia-Roma­ gna come set: di nuovo Antonioni, e Fellini, Bellocchio, Bertolucci, Zurlini..) uniti dalla flagranza che mantengono, fortemente marcati dalla e nella realtà; e che in gran parte permangono, come nomi e come topografia di massima, tre luoghi di cinema che non sono stati riinghiottiti nel Luogo/buco nero dello stu­ dio, che non sono svaniti in un mutar di luci e scenografie. Tre operazioni di­ verse, per noi. Per Aci Trezza il tentativo di rimettere in scena il dispositivo ri­ tuale che aveva prodotto una autointerpretazione collettiva da parte della gente del luogo; i corpi stessi dei protagonisti, il corpo e il volto del protagonista prin­ cipale, Ntoni (girando a Lisca Bianca e ad Aci a pochi giorni di distanza ci è parso naturale e esatto perfino il gioco di inclusione presente nei nomi: A-ntonioni..) che restano o deperiscono o scompaiono come parti mobili del set; la ripe­ tizione di scene del film di Visconti, fatte con i “sopravvissuti” e con le sagome grandezza uomo (dal film) degli scomparsi (morti o emigrati), con dialoghi man­ tenuti praticamente a memoria dalla gente, da allora a oggi. Per Parigi / Ultimo tango, ancora da girare, solo l’appartamento in cui si incontravano i due; vuoto e “affittasi/vendesi” nel film, abitato oggi (dalla famiglia di un piccolo produttore cinematografico), suddiviso in vani diversi, ridisegnato dalle mode plurime del­ l’oggi. Set non “naturale”, la permanenza dello spazio e il mutamento della fun­ zione, da riportare per un attimo al “cinema”. Individuazione dei piccoli per­ corsi, i “calchi” dei corpi, situare l’apparire dei “mobili” (immagine precaria di eternità nel quotidiano, paesaggio “mobile” che - ricordava Savinio - sopravvive alla morte di chi abita e al mutare o allo scambiarsi degli spazi e degli ambienti) mediante truccaggi dell’immagine, convocare la Schneider sul set, non tanto come “attrice” ma come “attrice che rifiuta il film in cui ha lavorato, e il set e la troupe”. (Poteva essere 1 pugni in tasca, per la puntata dell’interno*, la casa di fa­ miglia dei Bellocchio a Bobbio, un interno che non è un momento ma quasi tutto il film; claustrofobia, e l’inserzione di Angela Molina, segno di un ritorno bellocchiano - Gli occhi, la bocca - sul set mentale del vecchio film. Operazione saltata, o rinviata, per problemi familiari forti (forse è un interno davvero troppo interno..). Ma per Ultimo tango ci affascina la questione dell’impossibilità a oggi di utilizzare in Italia pezzi del film, il suo essere - in quanto italiano - un film giuridicamente inesistente, fotogrammi fissi da “animare” o da ridisegnare, una seconda operazione “archeologica”.) Falsi ritorni non solo perché ogni ritorno è falso, non solo perché in particolare il ritorno sul set di film mitici di questo tipo con una troupe leggera (a Parigi vor­ remmo poi girare in elettronico) e il 16 mm è ancora più falso, con 1000/2000 watt dove Aldo impostava illuminazioni da teatro di posa (e La terra trema per questo non è tanto diverso da Le notti bianche), su un’isola a luglio senza nulla per influenzare il sole (neanche un riflesso). Falsi ritorni perché sono ritorni sul luogo di false “riprese”, se vogliamo. Non quindi a documentare il deperimento e la mutazione del set, la perdita e la modifica più immediata e evidente (i morti, le distruzioni, le ricostruzioni; ecco così Ntoni che fa l’amore non sullo scoglio ma dentro il ristorante che oggi sta sullo scoglio - visibile peraltro dalla finestra

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oblò della sala da solo, perché la donna è emigrata, ma con gli stessi gesti lo stesso abito nello stesso punto esatto di allora), ma la perdita di cui già in par­ tenza il film (ogni film) è documento, risultato, traccia e insieme causa. Ciò che già il film aveva perso, occultato, giocato del set. Ciò che permane e si muove ancora oggi di questa perdita, nel film e fuori. Convinti, come siamo, che se nel fotogramma si articola, si mostra, si produce e definisce il simbolico, il luogo dell’immaginario è prima di tutto altrove, nel set. Per questo, in partenza, L’avven­ tura già non è.. L’avventura ma, per noi, un set esemplare, l’isolotto di Lisca Bianca di fronte a Panarea. (A proposito di tracce e traiettorie dell’immaginario, abbiamo trovato una cartolina - Antonioni non ne sapeva nulla - con il mare l’i­ solotto il cielo e dietro la didascalia: “Lisca Bianca, lo scoglio davanti a Panarea dove è stato girato il film L’avventura di Antonioni*. Con la striscia di terra tra mare e cielo che taglia tutta la cartolina, risultando una région centrale potenzial­ mente infinita; e sulla roccia in alto, sublime raffinatezza involontaria, la figuretta minuscola di una donna in costume da bagno.) Quei venti/venticinque mi­ nuti in cui ha luogo un accadimento esemplare, un evento quasi “storico”: la scomparsa, la cancellazione pura e semplice di un personaggio, di una donna Anna - da allora a oggi mai più riapparsa (anche se Identificazione di una donna.., che a tratti appare come il desiderio/possibilità di un “remake logico* dell’Apventura..). Deserto. Figura perfetta e concreta del vuoto, l’isoletta, circondata da quell’altro grande vuoto/pieno che è il mare (Giulia nel film: “Io le isole non le ho mai ca­ pite, con tutto quel mare attorno, poverine..*), segno essenziale del deserto che, urbano e geografico, è il paesaggio dominante e privilegiato in tutto il cinema di Antonioni - luogo in cui tutto può accadere, e essere visto e percepito (se non “capito”). Paul Ricoeur, a proposito del suo Le temps raconté: “Non si può pensare il di­ scontinuo che sullo sfondo della continuità. È la continuità che permette di inte­ grare anche le rotture, come rotture di cui si ha memoria. Se invece esse fossero assolute e totali, non sarebbero neanche oggetto di ripensamento nella memo­ ria”. In un certo senso (e poi in molti sensi), il vuoto è la continuità su cui gio­ cano le piccole continue rotture del cinema di Antonioni, più che una rottura esso stesso. Perché è un vuoto “pieno”: vedi l’ossessione micrologica che traspare dagli scritti e da molti dialoghi di Antonioni, il suo tentativo di rendere percorri­ bile e infine visibile l’invisibilità del vuoto; e il tentativo di arrivare - se fosse possibile - alla grana delle immagini (più che del supporto, pellicolare o meno), da Blow up agli acquarelli ingranditi de Le montagne incantate all’entusiasmo per l’immagine elettronica che è fatta di “grani”, “punti”, “linee”, presto quasi del tutto indifferenti al referente fisico e corporeo che potrà perfino stare o meno di fronte all’apparecchio di ripresa. “Comunicazione* (non esistendo quindi un puro vuoto fisico, totalmente penetrabile) si potrebbe quasi chiamare questo vuoto antonioniano, non fosse un rovesciamento troppo facile dell’ideologia in­ ventata dell’incomunicabilità antonioniana. Oggetto indefinibile fotografica­ mente e verbalmente, presente in negativo ma come effetto ben reale, quasi un’aura degli oggetti e dei fenomeni (Valentina/Vitti ne La notte. “Mi sembra 235

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che l’amore debba limitare una persona. Qualcosa di sbagliato, che fa il vuoto at­ torno”). Vuoto che infatti si apre anche nei dialoghi, come non-risposta che fa parte di essi, altro deserto da mettere a fuoco, isola di senso da conoscere ancora (ecco le magnifiche domande sospese che contornano oscurità di passione o la indimostrabilità logica del dover essere, la illogicità dei desideri e delle azioni; da L'eclisse, dialogo tra Delon e Vitti sulla Borsa: “Bisogna venirci spesso per ca­ pire. Se ima comincia, poi, entra nel giro. Si appassiona” - “Si appassiona a cosa, Piero?”; o la battuta finale del bambino in Identificazione di una donna). Spesso poi il passaggio vuoto/pieno è utilizzato diacronicamente anche nello svi­ luppo delle inquadrature. Per L'eclisse, utilizzando gli inizi delle inquadrature, prima che entrino in campo i personaggi, e i finali, quando sono già usciti, quasi si potrebbe costruire un breve film senza personaggi che però renderebbe conto di tutti i set del film e praticamente di tutte le scene. (Qui c’è un vuoto, un buco nel testo. Non ho la registrazione, e del buco mi ac­ corgo adesso. Su due fogli scarabocchiati in verde trovo i miei appunti del 1983, come sempre disposti a tavolozza. Erano la parte mancante del testo scritto. Parte affidata alla retorica immediata, alla scelta sul posto, a Ferrara. Un pezzo anche lungo, a parlarne. Decifro solo alcuni accenni e citazioni: prima il muta­ mento tra l’edizione della sceneggiatura de L'avventura del 1960 (Cappelli) e quella del 1964 (Einaudi), su una battuta pronunciata all’awicinarsi dell’isola: A) “Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani” - “Il libro di geografia della terza elementare non ha segreti per te”; B) “Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani” - “Pensa che dodici anni fa, quando io e te siamo venuti qui, hai detto la stessa cosa”. Nella seconda edizione, quella cioè tratta direttamente dal film, è già forte il senso archeologico, della ripetizione. E Antonioni, nel suo magnifico “inserto” per il nostro programma, sceglie quello come inizio verbale, prime pa­ role (“Pensa che dodici anni fa..”) per un ennesimo ritorno. Seguono le battute: “Dev’essere Basiluzzo! Basiluzzo, sembra il nome di un pesce.. - Quella invece è Lisca Bianca”. Non fosse altro che per un’indagine wittgensteiniana sulle riso­ nanze dei nomi, su questo osso di seppia della memoria visiva antonioniana che è “Lisca Bianca” bisognerebbe costruire un’avventura, che parte forse dall’isola sul Po, immersa nella nebbia vicino a Ferrara.. - Forma che affiora esile, segno vuoto, isola o montagna incantata o volto, neanche il nome di un pesce, solo il nome di ciò che ne resta disossato e esangue, bianco, tutto da scrivere inventare rinominare come i nomi dei personaggi.. - Sempre per il suo inserto Lisca Bianca, 1983, il tentativo di Antonioni - l’accanimento, anzi - di scolorire alla stampa il profilo dell’isolotto e i suoi colori, di portare - in stampa - quasi al gri­ gio la luce netta dell’estate, di invemalizzare l’aspetto del luglio, di ricostruire lui non “il set” de L'avventura ma il suo clima freddo grigio nonostante i bagni e la falsa vacanza o troppo netta - vacanza. (Altro appunto.) La cancellazione, an­ cora, il magnetofono de La notte. (..) E noi, che per la nostra “archeologia” vor­ remmo ricostruire mostrare in mappe sovrimprimere anche la situazione della volta celeste nei giorni delle riprese dei film, le stelle, la luna (piena o meno). Trovo anche la citazione esatta da Savinio - Ascolta il tuo cuore, città, Milano, Bompiani, 1944, p. 347 “I mobili hanno vita più lunga degli uomini, sono i

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rappresentanti degli uomini quaggiù e i loro continuatori. Ogni mobile rimane a rappresentare un uomo, la sua distrutta forma corporea» la sua anima indistrutti­ bile”. Marginale, come altre note verdi. La maggior parte tanto marginali da essere in­ decifrabili. Altre, se stese adesso a macchina, rischierebbero di allargare - magari centrare - troppo il discorso. Lo farò (lo faremo) nella “cosa” TV. Ora, sta per ar­ rivare il corriere, l’editore aspetta, il resto del libro con gli Atti è già pronto. Mi spiace non trovare il collegamento “finale” col quale si accedeva a Florenskij. O forse è impossibile “accedere” proprio a Florenskij. A Ferrara, era stata forse una pausa, un’esitazione, una rottura, una sospensione gratuita tra due discorsi. aprile 1985 -.) Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. (M. Antonioni, dalla Prefazione a Sei Film)

Anche qui la doppia tendenza: all’esplosione, allo sfondamento in avanti dell’im­ magine, che nello stesso movimento diventa implosione, assorbimento dentro un reticolo di punti senza segno. Questo passaggio dal massimo vedere al vedere (il) nulla, questo tentativo di ve­ dere l’invisibile o almeno di delinearlo negativamente, fa pensare a pagine stu­ pende di Pavel Florenskij (Le porte regali. Saggio sull'icona, Adelphi 1977), scien­ ziato e mistico russo (lo scritto risale agli anni died/venti), non a caso la “fonte” principale di un altro grandissimo regista indagatore della follia del vedere, della possibilità-impossibilità della visione, Tarkovskij. Ecco perché è di una profonda verità l’opinione che ho sentito ripetutamente da V.M. Vasnetzov, che il delo non si può rappresentare con nessun colore, ma soltanto con l’oro. Quanto più scrutiamo il delo, specie intorno al sole, tanto più si insinua in noi il pensiero che non è l’azzurro il suo segno caratteristico, bensì la lucentezza della luce diffusa nello spazio e che questa profondità luminosa si può rendere soltanto con l’oro; il colore sem­ bra torbido, piatto, opaco. Ecco che con purissima luce il pittore d’icone costruisce, non costruisce però quel che capita, ma soltanto l’invisibile, attingibile con l’intelletto, sussi­ stente sul piano della nostra esperienza, ma non sensibilmente e che perdò nella rappre­ sentazione si è obbligati a tener distinto sostanzialmente dalle rappresentazioni del sensi­ bile. (p. 141)

Linee di forza, campi di forza - è detto a puntino e in un certo senso correttamente. In effetti se l’artista avesse bisogno di rappresentare un magnete e si accontentasse della ri­ produzione del visibile (e certo, adesso parlo del visibile e dell’invisibile non nel senso alto e dogmatico, ma in quello quotidiano e grossolano), rappresenterebbe non un ma­ gnete ma un pezzo d’acciaio; resterebbe come invisibile il magnete nella sua essenza di campo di forza, esso non sarebbe raffigurato e neanche indicato, benché per la nostra concezione del magnete esso è senza dubbio reale. Ancor più, parlando del magnete, ab­ biamo in mente un campo di forza, che si pensa e si presume prima del pezzo d’acciaio, e

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non viceversa - prima il pezzo d’acciaio e poi le forze che gli sono intrinseche. Ma d’altro canto se l’artista disegnasse, valendosi per esempio d’un manuale di fisica, anche il campo di forze come un oggetto qualunque visibile quanto il magnete stesso - mescolando nella cosa rappresentata dall’acciaio anche la forza, al visibile l’invisibile - innanzitutto egli di­ rebbe il falso intorno all’oggetto, e in secondo luogo negherebbe la forza reale nella sua natura di potenzialità d’azione invisibile: nella rappresentazione del magnete devono es­ sere riprodotti e il campo di forza e l’acciaio, ma in modo che le riproduzioni dell’uno e dell’altro siano incommensurabili e siano chiaramente riferite a piani distinti L’acciaio dev’essere cioè rappresentato col colore e il campo di forza astrattamente, in modo che non ci sia bisogno di una motivazione sostanzialmente impossibile per rappresentare il campo di forza con un colore piuttosto che con un altro. Non mi impegno a indicare al­ l’artista come di fatto procedere a questa congiunzione inaudita di due piani distinti, ma non posso non ribadire la certezza che l’arte figurativa possa arrivarci. Al limite tale inaudita congiunzione diventa la rappresentazione del lato invisibile del vi­ sibile, dell’invisibile - nel senso alto e ultimo della parola, cioè dell’energia divina che compenetra ciò che è visibile all'occhio, (pp. 142-43)

Lo sparire di Anna ne L’avventura a Lisca Bianca e il manifestarsi della “cosa*/ astronave alla fine di Identificazione di una donna appaiono infine due diversi stati di (in)visibilità della materia, dello spazio, del mondo. E l’immagine di quella cosa doveva essere, per Antonioni, tracciata e prodotte via computer, cioè letteralmente composta di punti elettronici, cosa/non-cosa, corpo incorporeo. Anche cori, apparendo lì dove si cercava l’immagine sicura di una donna, appa­ rendo “normalmente* fotografata (?), la cosa ha un effetto provocante; come i corpi, le rocce, i fantasmi, i vuoti di quelle dissolvenze che possono - ^archeo­ logo - far perdere un po’ la testa. [in Identificazione di un autore, Pratiche, 1983]

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*Se stesso non è il soggetto che d isola dal mondo, ma un luogo di comuni­ catone, di fusione del soggetto e dell’oggetto.” Georges Baiatile

Non è il tempo a mancarci. Siamo noi che manchiamo al tempo, incapaci di sa­ ziarlo e di riempirne gli spazi mai finiti. Incapaci di percepirlo e di farcene perce­ pire, o di afferrarne la metafora, splendida: extensio animae. Al cinema non manca il tempo (anche se si sente dire che sta per finire, ogni tanto), ma a volte noi non abbiamo tempo per i film; se non dentro quell’ab­ bozzo di visione palinsestica che è l'arredamento psico-elettronico, la simulta­ neità televisiva radiofonica telefònica musicale umana di certe stanze e di certe situazioni. Poco tempo per i film: non essere riuscito a vedere l'ultimo Fellini (E la nave va) prima di partire per Venezia. O poco spazio, se {’anteprima si teneva in una sa­ letta piccola piccola come dicevano. Ma quale rimpianto, adesso, oltre quello ri­ dicolo di non aver visto “l’ultimo film” prima di scrivere? Mai avuto rimpianti o desideri violenti per un Fellini. Sempre molti i mesi fatti passare senza che la vi­ sione divenisse impellente. Era come, fin da ragazzo, se la passione evitasse le isole già trovate nei cinefonim e girasse al largo in cerca di coralli semi-affioranti; con il dubbio che potesse essere anche una balena il Fellini. Visto tutto, e rivisto, e vissuto negli ascolti sonnambolid delle conversazioni dei “grandi” nell’altra stanza con la mamma che difendeva Otto e mezzo dallo scetticismo delle amiche. Cinema già cinema; già lì, iper-costituito. Nessun senso dell'avventura, per me. E il rifiuto della “poesia”. Così, scelte dure, rigorose, burbanzose: Lo sceicco bianco, Il bidone, magari Le notti di Cabiria molto amati e isolati dal resto (come, ri­ cordo, non più di due film di Visconti: Ossessione, Bellissima). Quando “autore" era un concetto di lettura, di passione della lettura, più che mezzo di definizione dell’oggetto testuale, la flagranza d’autore di Fellini (e degli “altri”), il suo rap­ presentare il cinema nell’enciclopedia della memoria popolare e della cronaca lo rendeva poco filmico, predigerito proprio in quanto “oggetto misterioso” da mo­ strare alle velleità piccolo-culturali. Trovarmid di fronte di colpo, in quanto nome, mi fa impressione. Per una sug­ gestione giunta dal telefono (“Sai, a Rimini, una festa, la nave va, e noi addobbe­ remo il Grand Hótel come il Rex..), ma qui a Venezia (1983, Biennale Cinema) con la parata Fellini Bergman Godard e Bertolucci presidente di giuria, tanti schieramenti dimenticati o solo ridicoli negli attimi di riesumazione. Strane sin­ tesi inattese di cinemi diversi. Nessun polo e nessuna teoria, gli amid che espri­

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mono pareri diversi e tutti mediati, senza più odii né premeditati né istintivi. Non mi pare la vendetta di qualcuno. Scrivere di Fellini, per Fellini, un omaggio e una festa. Credo di aver scritto specificamente di lui solo una volta, per una ri­ vista che avevamo chiamato II Falcone Maltese (e quest’anno, lungo la solita ri­ viera adriatica, a Cattolica, un intero festival per i “Falconi” e per un solo genere di Cinema, che non ha più alcun bisogno di essere difeso e che forse è troppo “amato”): il film era Amarcord. Ricordo che mi piacque scrivere che non mi pia­ ceva, ma non riuscii a non dire stupendo, fantastico ecc. (non ricordo le parole) a proposito della scena della suora nana e di Ciccio Ingrassia in cima all’albero. Ma vedere più film, amarli o amare vederli, nominarli insieme con tanti nomi di Regusti (giuro che volevo scrivere Registi; lapsus da tastiera e aggiungo la paren­ tesi tra le righe), riportava anche ai soliti nomi, quelli che trascuravo nella vi­ sione, in quanto non più soggetti ma direttamente aggettivi (felliniani) segni di al­ tro, titoletti culturali ecc., arrivati al “rayiano”, o al “manckiewicziano”, o al “manniano”, al “matarazziano” o al “kinghiano”, tutta la questione si ripropo­ neva. Del resto, il contorno di Fellini non mi era mai dispiaciuto. Non l’aura era antipatica, così cialtronesca, gentile, imprevedibile, ma il corpus. Leggevo tutte le interviste, mi piacevano le sue apparizioni televisive, le sue smorfìette, la sua voce di Pan come quella di Mastroianni. Ricondotti a lui, gli eccessi del mito facevano intravedere il suo aspetto più ambiguo e affascinante. L’odio infatti (non si è ancora capito?) era per una certa oggettivazione mercan­ tile e “consumistico-culturale” dell’eccesso, diciamo per l’accessibilità dell’ec­ cesso, rappresentata da Fellini, per l’appropriazione indebita di visionarietà, nei confronti dell’occhio o senso che voleva lui, fa re le visioni (e allora era giusto de­ lirare per Bava, o fare finta). E infine, i conti con Fellini, né allora, né adesso mi è mai parso di doverli fare. Proprio non me lo so spiegare, perché poi era giunto un film che, con Barry Lyndon, mi pareva dire tutto degli anni settanta, senza bi­ sogno di fare la Storia e di incontrare e scendere a patti anche con la ideologia analitica jungo-italiana. Casanova, come il primo film di Fellini, completamente “straordinario”, fuori dall’ordine dell’autore come da quello del cinema, capace di superare i gusti e la teoria per proporsi manifesto angoscioso e sublime di una sparizione/misconoscimento del soggetto nell’artificio della morte scenica. L’unico film italiano che possa essere messo vicino alla teoria degli spettacoli di Ronconi per il teatro, il primo a incorporare la macchineria teatrale e la morte del cinema e del teatro, in un gioco di visibilità dove il vedere non solo non ga­ rantisce del trucco, ma addirittura elimina la differenza tra corpo dell’attore e corpo dell’automa, tra vivere (e morire) del corpo e morire (e vivere) dell’imma­ gine. Come isole, molti film di Fellini riemergono con raccolte di sguardi alluci­ nanti. Modernissimi, anzi oltre ogni limite di modernità: operazioni e non oggetti. Corpi visuali sgangherati e sfilacciati come Roma (lettura del caos urbano come continua metempsicosi) escono oggi dalla televisione non più con l’evidenza fa­ stidiosa del corpo-archetipo così visibile, ma con l’intermittenza, i vuoti e le so­ vrapposizioni tra un’immagine e un’altra (tra un’ipotesi di testo e un’altra); opere istintivamente a livello del lavorio più “scientifico” di un Resnais (visto ieri sera 240

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il suo La vìe est un romani, il Satyricon come un sognare la storia già fantascienti­ fico e anni ottanta, il Casanova come intensità gelata capace di attrarre lo spetta­ tore febbricitante (io) che guarda a tarda notte il video sul suo divano. Dentro la mancanza o vacanza del cinema italiano di oggi, è beile vedere in Fellini una co­ scienza produttiva che si trova forse solo negli ultimi Antonioni e Bertolucci o nell’afasia di Troisi: l’intelligenza di costruire non più sul vuoto o sulle nuvole, ma col vuoto, con la istruzione stessa delle regole e dei punti di riferimento. La dolce vita, a sua volta, accoglie di nuovo, sempre riproposta in televisione come fenomeno scandaloso e di costume, un po’ rétro, qualsiasi domanda di oggi, e non solo i dialoghi ascoltati dalla cucina, o troppo più avanti rispetto a qualsiasi regista esordiente italiano di questi giorni. Nella rarefazione del cinema contemporaneo, nel suo addensarsi intorno a pochi poli lasciando alcune plura­ lità decentrate alla sola forma televisiva, ogni film di Fellini, come le sue imma­ gini capaci di farsi riconoscere da una provincia italiana, è insieme “film sul ci­ nema” di livello altissimo, testo che si autodelimita come corpo nero addensato su se stesso e non orientato su altri inevitabili magneti. Non tutto mi convince in questo rifluire di onde sul Lido davanti al (palazzo del) cinema, vento e sole, istante di distensione. Ma non riesco a capire perché non ho ancora visto anche solo il penultimo film di Fellini, La città delle donne, se non a pezzi, e poi tutto l’anno, nella sigletta del Cinema in TV eppure ne ho par­ lato con tanti amici, come se visto lo avessi; con densità, ma con passioni diverse di volta in volta, vere e argomentate. Come se proprio la flagranza, pregio e pecca di Fellini, venisse meno, e in qualche modo l’essenza sola del suo corpo/ci­ nema mi attirasse. L’ultima settimana passata poi a lavorare sull’edizione televisiva di Freaks, su corpi mostruosi lontani da quelli di Fellini, con rapporti tanto diversi con la loro realtà di set, e con le regole extra-filmiche delle relazioni tra persone e perso­ naggi; normalità della deformità in Freaks, normalità AeW appello della deformità e della anomalia fisica in Fellini, attesa di essa come eccezione ripetuta e segno iterabile di film in film. Distanza da Fellini ancora, forse per il rigore immediato con cui tutto, compreso il gioco del riconoscere, in sogno, il fantastico e l’orrore, passi nei suoi film digeriti attraverso il sé, tradotti in un immaginario pre-costituito, al di là di ogni impressione di restrittività/autenticità/confusionarietà. Di rado, quindi, direttamente legati alle questioni della verità', sempre avvolti in una rete di secrezioni/trasmissioni/funzioni, prodotti dell’io/autore o di cui il sog­ getto comunque tira senza sforzo le fila. Freaks in televisione, speriamo (?) più di mezzo milione di spettatori, Amarcord, Hit, terza rete a Natale del 1981, più di 4 milioni. Cifre, scommesse. Nei giochi anche economici del cinema, la strategia di Fellini e non felliniana del gioco; il rilancio estremo e il bluff continuo. Qui, di nuovo esternamente e tan­ genzialmente, il cinema stesso si giova, gioca la sua possibilità di esistenza, pro­ ietta il suo passato verso il futuro. Come Herzog, e Kubrick, come Coppola e Lucas, come Antonioni, Fellini propone l’avventura del cinema/impresa, esplo­ razione cinematografica, sfida sovrumana o capitalistica. La mostruosità non è al­ lora quella dei corpi interni dei fotogrammi, ma il fotogramma stesso, per

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quanto di fuoricampo trascura perde cancella; tutto il suo cinema appare infine una cosa, un pianeta già in orbita la cui faccia (non essendo chiaro chi guarda e da dove, né rispetto a cosa si definisca forbita, se un utero o un occhio, o il so­ gno di un utero dentro un occhio..) non son solo due ma infinite, sfera di visione multipla il cui bordo può far male, incominciare come una vagina dentata o iniettare all’occhio in sipari £atti come mucose. Nel circo appare non più il clown, ma una grande palla minacciosa; il cinema non è più esterno alla fla­ granza della scena; la prova d’orchestra diventa il girare a vuoto della realtà, la cosa è l’incubo della verità. Tra i mostri che tutto il cinema mondiale (quello che conta e quello che conta ancora di più) si affanna oggi a mostrare, produrre, riprodurre, il cinema di Fel­ lini si autoproduce limpidamente e perfino razionalmente, illuministicamente, come mostro. La vendetta è dello Yeti, non dei mostri ossessivamente assemblati. H tempo, non della vita o della morte. Di colpo quasi da fare riscrivere tutta que­ sta nullezza mi viene in mente cosa scrivere e cercavo nelle interiste felliniane (non mi convinceva aver detto sopra che mi piacevano) da parecchio tempo in qua. Mastoma. Bel nome, da giocare in molte lingue e da smontare in molti modi (non ora). Il viaggio di Mastoma, film meta di Fellini ancora da girare, sempre il prossimo da vari anni. Mi appassiona, mi dà i brividi, è uno dei pochi film che aspetto e, vuoto per vuoto, posso confessare (a lui?) un altro desiderio. Poter ascoltare (saranno state conservate?) le colonne-guida invedibili dei suoi film, quelle registrazioni di set che sono mezzi film, anzi un nulla proprio, parole vuote e mugolìi insensati di attori, pagine di lavoro che scompaiono poi nel dop­ piaggio, traccia sonora del lavoro occultate dal lavoro stesso. Potrei “lavorare so­ pra”. Associazione di Fellini e “desiderio”. Visione. Tra sei giorni La nave va. Lo vedrò. In “sala grande”. Senza colonna guida. [in Fellini della memoria, La casa Usher, 1983]

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Nota per Cukor (un catalogo?)

Se c’è una costante nell’opera di Cukor, una costante generatrice perfino, è il continuo sottile muoversi lungo la linea quasi invisibile del gradimento. Secondo un’indagine svolta negli anni sessanta da Films in Review, Cukor risulta - fa­ cendo una media tra i suoi "piazzamenti” decennio per decennio - secondo solo a William Wyler come “cineasta di successo". Parallela al gradimento del pub­ blico è stata la sua continua discreta fortuna come regista reliable all’interno di diverse case di produzione. Ma che la linea del gradimento sia una linea anche d’ombra lo dimostra il frequente slittare cukoriano al di là o al di qua di essa, l’alternarsi di cadute e risalite sulla corda da funambolo: i casi numerosi in cui fu chiamato a riportare in carreggiata un film, a terminare lo spettacolo o comple­ tare la macchina montata da altri, e quelli ugualmente significativi in cui lui stesso fu "completato”, sostituito, distornato, esautorato da altri. In questo senso, il suo essere uquasi-il-regista-di-Via col vento1* è esemplare. Due anni passati sul progetto megalomane di Selznick, applicando il proprio talento da mago del minimale alla grandiosità rosseggiante del produttore che voleva far dimenticare The Firth of a Nation. E il mistero, fino a oggi, del suo being fired (nell’incendio di Atlanta?), del licenziamento dopo anni di perfetta sintonia col tycoon. Via col vento atto mancato di Cukor (insieme col Mago di Oz..), un punto interro­ gativo inquietante sull’ortodossia di un regista tanto spesso identificato come esempio perfetto e felice di integrazione nel gioco/giogo hollywoodiano. E in ef­ fetti nelle sue interviste degli anni sessanta/settanta la nostalgia dilaga, Holly­ wood diventa il sogno/rimpianto di un sistema che ogni mattina fa trovare pronti al regista sotto l’albero i regali di Natale, mezzi sconfinati, il meglio di ogni campo, “potevano comprare tutto”. Ma questo plurale, questo they, “loro” (“loro: sono sempre gli stessi..” dice in un’altra intervista) ribadisce o illumina una differenza inattesa. Il luogo del gradimento si mostra allora come punto di incrocio di intenzioni traiettorie desideri diversi, di momenti attivi e passivi. Il Cukor denigrato in certe cronache come esecutore supino - abile e di gran gusto, sì - dei desideri delle majors, o celebrato da morto su tutti i giornali come stereo­ tipo di “regista delle donne”, dissolve in un’ambigua capacità di essere lì pronto a farsi desiderare come regista di donne; in un mercato di contributi che funziona mediante un lieve persistente oscillamento tra domanda e offerta. Cukor consiste 243

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probabilmente in questa vibrazione, forse poco audace e scatenata, forse poco evidente, ma infinitamente misteriosa e produttiva. Rigido dipanatore secondo il filo dei codici hollywoodiani (di comportamento e di produzione), ammette per un attimo - Sylvia Scarlett - che perfino l’affermazione convinta (sua) che un buon film è quello che ha successo (di pubblico) è inesatta o ambigua, incerta come il sesso non di un’attrice o di un personaggio ma dell’immagine di esso/essa (come ricorda oggi Edwards con Victor Victoria: ma le crudezze coperte da superfici smaltate nei Cukor estremi - prima del postCukor anni settanta - The Chapman Report e Justine - non rammentano piuttosto i “despair” e le “lacrime amare” e le “fili marlene” e “querelle” di un altro vanishing degli ultimi mesi? Un altro capace di ridare lo smarrimento grandissimo che è il privilegio femminile dell’incertezza/insicurezza rispetto alla misera duplicità maschile). Di questi paradossi è piena la carriera cukoriana, chiusa da un titolo felice e rias­ suntivo, Rich and Famous, per il quale il regista di donne è stato ancora una volta “scelto” - dalle donne stesse (Jackie Bisset). Ultimo piccolo paradosso, questa rassegna/omaggio nel lutto della scomparsa. Fino a poche settimane fa era un al­ tro nome, un altro il corpus cinematografico da celebrare, quello di un regista spesso accostato a Cukor (Women da solo forse non ci dice tutto/all-about Eve) e comunque di fatto spesso intersecantesi con lui come produttore/scrittore/regista: Joseph L. Mankiewicz. Cukor quindi si trova di nuovo a fare un take over, a subentrare a qualcun altro.. Per noi, costruire questo catalogo praticamente in quindici giorni è allora un’e­ sperienza strana. Senza illusioni riassuntive, senza neanche la possibilità di una collezione sufficientemente assortita: Cukor è uno dei registi americani su cui più si è scritto, uno dei più “riconosciuti” e intervistati. Cercar di legger tutto il pos­ sibile in due settimane, e di raccogliere il massimo, risulta perfino utile, disincan­ tante nell’obbligo delle scelte immediate e dei confronti volanti in mezzo all’affollarsi dei materiali bibliografici e all’astensione filmografica. In questa corsa un po’ folle, nelle nottate in bianco - e nero - sempre più “lucide”, più volte ci è ap­ parsa clamorosa l’inutilità di un catalogo, nel senso della distanza di una sua eventuale (superata e curata) utilità rispetto all’esperienza (piacere*, si spera) del vedere i film. Due ordini completamente diversi, una distanza ribadita a ogni no­ tizia in più messa insieme, a ogni dichiarazione cukoriana tradotta. Se Cukor (i suoi film) passa spesso in televisione, se ha addirittura diretto dei film per la TV, se il suo raggio d’azione “visiva” si è esteso attraverso il paradosso della bassa de­ finizione televisiva, non possiamo alla fine che ritrovarci “lontano” dal suo ci­ nema. Le sue parole, i ricordi e le spiegazioni, sospese spessissimo tra la banalità e il buon senso, offrono una trasparenza che favorisce solo la miopia. L’illusione di capire il personaggio o almeno il suo ragionare si adagia, velo ulteriore, a schermare un cinema del segreto quanto pochi altri. Perché, per un mezzo che tanto facilmente ne può prescindere, l’arte di dirigere gli attori è davvero la più misteriosa e effimera, la più superflua e infine la più necessaria se si vuole co­ struire l’immagine /film a partire dai minimi elementi costitutivi, quali i punti e le linee di un volto o di un corpo che piange o sorride o comunque si muove e si increspa. 244

Nota per Cukor (un catalogo?)

Nel “ricordo” dedicato a Cukor Russell Taylor conclude affermando di sentire molto la mancanza di Cukor e di Hollywood, identificati in un’immagine co­ mune. Traducendolo, ci era venuta la tentazione (ma tempo e senso non torna­ vano) di rendere “/o miss” (avvertire la mancanza) con l’altro significato di “man­ care”, “fallire”, “perdere”; sfiorare e perdere l’occasione di capirli, Cukor e Hol­ lywood. E la stessa sensazione che un catalogo risulti uno strumento preso fra tre illusioni: quella biografica, quella filmografica, quella cinefila di chi vede i film e li gode. Mentre riconosciamo che. i film (più si studiano gli “autori” e la macchina-Hollywood) continuano a star fuori dal gioco come una faccia estrema, bi­ sogna infatti ammettere (lo stesso Cukor - citato da Lambert - dice di non leg­ gere i libri sui grandi produttori, i Thalberg e i Selznick, perché “non sembrano mai parlare delle persone che ho conosciuto”) che anche catalogare o dimensio­ nare una personalità al di qua dei suoi film è un’illusione, e che la regia miste­ riosa cukoriana (così poco touching, perché i “tocchi” sono se mai mostrati, foto­ grafati, messi in scena quasi senza agire su di essa..) si avvale proprio della fascia di opache parole/concetti che nulla spiegano. Magari meno “intelligente” dei la­ birinti di Mankiewicz (e l’intelligenza - virtù (?) facile a sopravvalutare nel ci­ nema - è tuttavia così rara e piacevole) o - chi sa? - meno geniale di un McCarey?, o meno “interessante” di un.. Daves?, Cukor mantiene il fascino acutissimo del frammento sviluppato nella durata. Regista principe di provini (se Vivien Leigh/Rossella O’Hara si preferiva nel bianco e nero del provino cukoriano; e se la Swanson di Sunset Boulevard..), fino alle ultime straordinarie immagini della Monroe in cui il superprofessionismo resta fissato in durata e mosse “fàtiche” da superotto, si dimostra moderno nella quasi noncuranza della costruzione d’as­ sieme e della strutturazione forte (per lo meno nella sua evidenza, visto che le in­ dagini rivelano poi un controllo/riscrittura costante e nascosta delle sceneggia­ ture; ma l’attenzione principale e ossessivamente ribadita è invece quella per V apparire, il look, come mostrano le ricerche accurate sulla moda, il gusto mania­ cale per la fashion). Il gradimento si inscrive allora nei due cerchi concentrici del guardare e del farsi guardare, in un gioco di momenti interminabili e quasi autosufficienti e ineffabili (spesso Cukor intervistato cerca di raccontare la semplicità/banalità di certi mo­ menti magici dell’attore/attrice; e non a caso ripete decine di volte il luogo co­ munissimo del fatalistico “era nato/a per quella parte”). La coscienza di questo gioco di sguardi è evidente nel ritorno costante a soggetti e trame che parlano di cinema e di spettacolo; una riflessione che dura fino agli amori tra le rovine, fino allo stesso carrozzone di The Blue Bird, e che ne Les Girls si rivela senza dubbi un confronto tra diversi look, diverse visioni/superfici/colori, più che tra “inter­ pretazioni” teorico/morali. A Star is Bom durava all’inizio più di Via col vento, e forse James Mason aveva paura che non finisse mai: mentre la tenacia di voler far durare il momento effimero riscatta l’inanità di quel momento/cinema più breve del tempo che occorre a pensarlo. [in Incontri cinematografici, Festival di Salsomaggiore, 1983]

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Caroselli d’autore

Che il tempo è denaro, il cinema lo sa da sempre. La televisione aggredì il ci­ nema proprio sul tempo, occupandolo massicciamente coi palinsesti e riducendo i tempi/costi di lavorazione, fino a far coincidere in parte, con lo specifico (pur sopravvalutato) della diretta, tempo di produzione e tempo del prodotto. L’e­ stensione della produzione TV e il tempo tendenzialmente “contìnuo” della tra­ smissione, oltre all’ampiezza inaudita dei pubblici (e cioè dei mercati), hanno avuto come corollario il moltiplicarsi di segnali di riconoscimento, marche di de­ finizione, titolazioni, intervalli: il fenomeno particolarissimo delle sigle. Dentro ciò, è sempre più netta e clamorosa oggi la particolarità della pubblicità televi­ siva, emersa ormai come vero perno di un “cinema cortissimo” che - venduta l’a­ nima al diavolo - è risultato per anni in molti Paesi quasi l’unico angolo (per fare un esempio) in cui poter praticare su ampia scala audacie sperimentali che fu­ rono un tempo di EjzenStejn o dei mostri sacri delle avanguardie. Commercials*. la definizione inglese degli spot pubblicitari cinematografici e televisivi rende perfettamente la nudità con cui un intero genere di cinema si pone di colpo oltre le eterne spesso equivoche antinomie tra “cinema d’autore - colto - serio - im­ pegnato” e “cinema commerciale”. Non è una documentazione storica che si intende dare di tale fenomeno e di tale genere cinetelevisivo, né una sistemazione teorico-critica: entrambe richiedereb­ bero altri spazi, tempi, mezzi. “Venezia TV”, in un’annata in cui la Biennale si pone sotto il segno riemergente e insieme “ultimo” dell’aw/ore, documenta non la supplenza produttiva (in Italia come in quasi tutta l’Europa) della televisione nei confronti del cinema d’autore, in un gioco più o meno fecondo di reciproche garanzie e salvaguardie, ma il nodo complesso in cui si lega una triplice realtà: “d’autore”, “commerciale”, “televisiva”. Omaggio appena un po’ malizioso al­ l’autore in una delle sue sponde limite, il programma si articola innanzitutto in una vasta ricognizione (forzatamente antologica) dell’apporto dei registi italiani di cinema alla produzione pubblicitaria; decine di nomi (dai Taviani a Maselli, da Montaldo a Comencini, da Pontecorvo a Brasati, da Emmer a Bolognini, dai Risi a Leone, e parecchi altri; per finire col cinema italiano più recente: Amelio, Ponzi, Nichetti..; né manca un “commercial” di Antonioni, né di Petri, i due au­ tori che fanno spicco nella Mostra di quest’anno). E che si tratti di un fenomeno di osmosi e insieme di sovrapposizione di due tipi di cinema, con un trasferi­ 246

Caroselli d'autore

mento di soggetti in un territorio più ampio e sicuro, lo dimostrerebbero altri nomi dei diversi settori di competenza produttiva: dalle musiche di Morricone alle luci di vari direttori della fotografia, da De Santis a Rotunno a Tovoli, ul­ timo lo Storaro dello spot per un’automobile, che collabora anche con i Taviani per i ritratti femminili degli spot ministeriali di “Azione Donna**. Certo il carosello - titolo ben più giocoso e ambiguo che “commercial” - è un fe­ nomeno atipico e molto a sé sul piano intemazionale, con ima sua precisa collo­ cazione nella storia del costume italiano (televisivo e non) a metà tra identità na­ zionale e provincialismo. Non solo polemicamente un autore per eccellènza, Go­ dard, lo definì un giorno - “Carosello” - “il meglio del cinema italiano”. Per questo - al di qua di tutti i discorsi e le analisi avviate quando “Carosello” in quanto trasmissione scomparve (1976) - si propone anche, a parte, una selezione del “corpo coraico” di “Carosello”, attori e scenette eterogenei, da Billi e Riva a Cochi e Renato passando per Peppino ma anche per Eduardo De Filippo, per Tognazzi e Vianello e per Tofano, per Paolo Villaggio, per Manfredi, e Sordi, tutti al centro di scambi con i vari sottogeneri comici del cinema italiano; e con logiche “d’autore” nelle sceneggiature, firmate Age e Scarpelli, Wertmiiller, Ma­ gni. E comunque curioso constatare in “Carosello” la funzione di “schermo pa­ rallelo”, palestra di specifico televisivo e insieme punto di irruzione di altri speci­ fici e traccia puntuale e continua di una prassi cinematografica esterna al video, e perfino di alcuni percorsi individuali. Tutte da individuare, narrare analizzare, restano le microstorie che legano tali percorsi al quadro della committenza. E naturalmente un attraversamento dei modi diversi con cui questo cinema “commerciale al quadrato” e programmatica­ mente “impuro” produce denaro, “funziona” insomma nell’incrociarsi di retori­ che e persuasioni in un unico discorso sarebbe un’altra delle possibili linee di in­ terpretazione. Qui si è voluto, proprio in relazione al nodo specifico dell’autore e dei nomi de­ gli autori, aggiungere al quadro italiano (nel quale già entravano materiali etero­ genei e sovranazionali, dal corpo di Jerry Lewis alle tecniche di autori stranieri come Lelouch e Lester) una selezione ristretta puramente esemplare, di commer­ cials francesi (Chabrol, Godard, Lelouch..) e soprattutto inglesi. La situazione inglese è infatti forse il polo opposto rispetto a quella italiana precedente la crisi del monopolio televisivo Rai. E il cinema stesso (il cinema inglese oggi tanto apprezzato e premiato sul piano intemazionale) a nascere dalla pubblicità, a trame non solo i nuovi talenti (Ridley e Tony Scott, Hugh Hudson, Alan Par­ ker, Adrian Lyne) e le sue forze produttive, ma le stesse forme narrative e infine la trama visionaria delle immagini. Non sono i nomi del cinema che si trasferi­ scono in un altro corpo (per esempio nella realtà “altra” che era rispetto a Cine­ città la relativa povertà produttiva carosellistica); al contrario tra visione e mer­ cato si instaura o chiarisce un nesso trasversale e plurale, molto più complesso di una semplice situazione di “mercato delle immagini”. Ecco infatti la pubblicità di tipo “nazionale” cedere il passo a un dominio delle immagini (capacità di co­ struire e dominare immagini anche in rapporto a soggetti precisi) che non può più essere “locale” e solo narrativo. La costruzione stessa delle immagini è scom­

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posta in elementi diversi (affidati a diverse botteghe) che tutti insieme concor­ rono a “narrare l’immagine". Così la cultura fotografica pop con tutti i suoi deri­ vati ha prodotto (per fare solo un esempio) gli straordinari specialisti inglesi del “food”, i ritrattisti di yogurth e insalate, i maghi dei liquidi capaci di dare alone divistico a un gotto di whisky, i Cecil Beaton delle marmellate o gli esteti della grana dei jeans. Sempre più, una medesima luce (e non sempre in occasioni e tempi diversi) illu­ mina e vende motociclette bibite abiti profumi e emozioni storie sensazioni so­ gni. Non c’è bisogno infatti di un filosofo come Gianni Vattimo per notare che i film in televisione appaiono sempre più simili ai fastidiosissimi spot che ne insidiano la visione fluida e integrale. O almeno c’era anche bisogno che il comico Ro­ berto Benigni proprio in TV si lamentasse (nostalgia di “Carosello”, “spettacolo separato” per eccellenza..?) dell’impossibilità di godersi in santa pace un po’ di pubblicità senza le interruzioni di quei noiosi pezzetti di film. Ciò che questi due “programmi di visioni” vorrebbero (nei loro limiti precisi) per una volta permettere, a loro volta intermittenti - nel palinsesto biennale - come piccoli spot, in fondo ancora amabili e accettabili perché ancora “riconoscibili”, determinati, limitati, non subliminali e invisibili (forse lo è più il cinema che ne deriva?) ma apparizioni dichiarate e uniche dell’essenza del fuoricampo (i capi­ tali che producono cinema e TV). “Commercials” e spesso “d’autore”, natural­ mente. [Catalogo Biennale, 1983, con la collaborazione di Marco Giusti]

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Lo stato (di allucinazione) delle cose ai confini della realtà

“Che non è nero ancora, e *1 bianco more.”

Dante, Inferno, XXV, 66 “Ma l’ora e ’1 giorno, ch’io de luci apersi ! Nel bel nero e nel bianco.” Petrarca, Canzoniere, 29.22-23

Quando è dimostrato che non c’è più nulla, o che continua a non esserci ancora nulla da raccontare, e che insomma la disgregazione è molto più forte delle ricom­ posizioni che possono attraversarla, non è più possibile inventarsi l’avventura in questo mondo o in questo tempo; si sognano strane sfere, rumori siderali, si pensa a fare un film di fantascienza, un film in cui sia cosa o qualcow. Antonioni con Identi­ ficazione di una donna ha fissato con modernità estrema una condizione che è del ci­ nema prima di essere di un autore o di una “società”. Identificare una donna è iden­ tificare il cinema (che certo non è “maschile”), sapere con “cosa” si ha a che fare. Nell'Avventura una donna (Anna/Lea Massari) spariva e un cinema di vuoti na­ sceva a raccontare le sue avventure possibili. Qui la donna appare, scompare, è un’altra, poi riappare, poi.. E il film (dio, come sei lucido!) percorre venticinque anni di cinema italiano e antonioniano per chiudersi su immagini di fantascienza sognate e raccontate a un ragazzino. Non è un atto di conoscenza, sognare “fanta” e raccon­ tarlo a un bimbo; ma è un atto, un gesto, forse una danza. Non per paradosso l’ultimo film di un iper-autore italiano come oggetto ideale, mezzo di locomozione per avvicinarsi al tema assegnato: “il cinema di fanta­ scienza come luogo di confluenza dei generi classici”. Che il fantastico ripetuto (Blow-up, Zabriskie Point, Professione: Reporter, Il mistero di Oberwald), nelle proiezioni di un autore oltre e dentro le griglie narrative si muti infine in fantascienza indica una contaminazione, un dilagare dell’ultra-spazio e dell’ultra-tempo al di là dei confini di un solo paese e di un solo cinema. Anche il tedesco Wim Wenders va in Portogallo a mostrare come si tenta di gi­ rare un filmetto di fantascienza alla Corman anni cinquanta, con attori francesi e americani. Frantumazione di frontiere, cinema apolide che come spazio sembra avere solo il gorgo insieme ossessivo e riposato della bellissima acqua blu scura “da studio” sotto i titoli di testa di Hammett. Costavano poco i film di Corman; per la troupe di Wenders anche su un piccolo film in bianco e nero il budget è insufficiente. Già in principio la fantascienza (film nel film) si interrompe, il ge­ nere cade lasciando spazio a una storia ossessiva di cinema. Situata in testa o in coda, la spia/SF nei due film europei d’autore non è tanto un luogo o uno spazio quanto una “cosa” a sua volta. Cosa inquietante, che colora o biancoannerisce il resto del film, ma più un oggetto, un vuoto solidificato, molto simile alla grande palla distruttrice e ancora finale della Prova d'orchestra felliniana. 249

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Quasi una tangenza, confluenza ben particolare, di un genere forte come il “film d’autore”. O uno scambio di segnali, un reciproco invio di asteroidi a confondere un po’ i territori (tutti gli autori lo stanno facendo comunque, non solo l’esule cileno Ruiz: cercando capitali in coproduzioni complicate, emi­ grando a ripetizione, fuggendo dalle patrie, sperimentando in modo massiccio un cinema senza luoghi forti e forme legate ai modi della produzione nazio­ nale, utilizzando la televisione come esperanto o come eldorado o come elsinore in cui essere o non essere, mèta-territorio ulteriore). Certo anche l’intro­ duzione (mediante la SF) di un livello ultimo da cui “parlare”, o meglio di un ultimo addensarsi oscuro del linguaggio in un corpo che è il “resto” del film, nocciolo irriducibile come la condensazione della materia in una pallina di atomi, la famosa “palla da tennis” che raccoglierebbe tutto l’universo. Accogli­ mento esplicito e materializzazione interna di un principio entropico e implo­ sivo, la cosa/SF (nostalgica e citazionale in Wenders, tecnologico/minimale in Antonioni) è la proiezione oggettiva di una mancanza del cinema a sé stesso, la ricerca di un senso altrove, della possibilità di rifarlo in un altro spazio/tempo. Remake déWAvventura, e invece della donna che sparisce e si sostituisce - o ol­ tre a ciò - una x cosa che appare. Luogo di confluenza: in questa estate (1983) sono già quattro/cinque gli “inter­ venti” (scritti!) richiestimi di qua o di là su tematiche, modi, aspetti del cinema di fantascienza, di trucchi, di “trasformazione”. Nello stesso tempo, nella stessa estate anzi (e in questo stesso assessorato?), rassegne di film, antologie, libri, film sui film lavorano sulle passate vicinanze e aderenze (truccate naturalmente spes­ sissimo) ai territori locali, alle regioni e alle città: Roma e il cinema, Venezia e il cinema, Genova e il cinema, la città-set, il territorio come set perduto. Divarica­ zione, due linee di fuga. Un percorso, anche. Dal cinema storicizzato come mo­ tore di interventi sul set/mondo al cinema senza territorio che non sia il cinema. E, mentre lo spettacolo/cinema diventa sempre meno centrale, il luogo teorico spazio/temporale “cinema” si trasforma invece sempre di più in posto del “sog­ getto” (“provincia” e “mondo” sono allora ugualmente dati per il cinema o dal ci­ nema, agiti e finti da esso; e poi, non è proprio dalla “provincia” USA che pro­ viene - rivendicandola - il fanta-duo Lucas/Spielberg?). Tutto sembrava del resto già inverato, fatto, teorizzato nel 2001 di quindici anni fa. Programmaticamente millenaristico e post-millenaristico insieme (quell’arto), Kubrick mandava la Discovery astronave a perforare lo spazio filmico di diversi generi, dal “musical” al “nero” (1, lotta con Hai.), e soprattutto fondava un nuovo nero come spazio eletto della finzione cinematografica. Lo spazio veniva contemporaneamente istituito e attraversato, il cinema si identificava con esso e ancor più con questa contemporaneità: il monolito e l’astronave erano entrambi immagini del funzionamento possibile di tale spazio/tempo “cinema”. (Biso­ gnerà arrivare all’apparente banalità buonsensistica del “tutti questi viaggi mi in­ vecchiano” - cito a memoria - pronunciato dall’Harrison Ford del frenetico Pre­ datori dell'arca perduta, per trovare perfettamente assimilata, digerita, normaliz­ zata la nozione einsteniana del tempo come spazio del cinema proprosta di colpo e con tanta “oggettività” da 2001). 250

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Dando al tempo il colore nero, Kubrick circondò il film di qualcosa che era Lu­ tero del film, il luogo scuro in cui far nascere il cinema, intuizione del nero e del­ l’orrore come luoghi ideali del cinema, omologhi ad esso; analoga, negli anni ot­ tanta, quella di un cineasta, ossessionato dall’idea di generazione, David Lynch di Eraserhead e di Elephant Manz cinema come orrore/scandalo/gioia - empia? della generazione e riproduzione di forme; cinema come forme che si generano in camere oscure; la paura come “destino iniziale” del cinema e dei film. Ma dette anche un’irripetibile immagine implosiva, di annullamento, di scontorna­ mento feroce delle forme-cinema possibili. Riscoperta di Méliès, proposta di un “assoluto” spazio fantastico, nuova epifania del trucco, invenzione di un cinema muto sonorissimo, e il documentario e la TV e le forme razionali minimali a com­ plicare “méliès”. Anzi, documentario dentro lo spazio in cui si creano i trucchi meliesiani.. eccetera. E la luce/lumière che sola permette l’immagine e in più permette gli “scatti” del monolito in congiunzione astrale. Dialettica tra stelle e stille di luce bianca e spazio/fondo nero, 2001 attraversa lo spazio con immagini stupende sfidando il nero. Ma (dal Tommaseo): “(Fà.) (Gov.) Pel fisico II nero non è colore, ma assenza di ogni luce, e quindi di ogni colore (T.). Ma comunem. dicesi Color nero”; “Propriamente vale Privazione di ogni luce, quali sarebbero le fitte tenebre. Nel linguaggio comune chiamasi Nero quel corpo che tenendo in sé tutta la luce che gli vien di fuori, pochissima ne rimanda all’occhio, o forse so­ lamente il raggio intensamente azzurro (Fanf.)”; “(T.) Bianco e nero. Di colore che nella superficie si alterna, non già misto de due, che direbbesi tra il bianco ed il nero. In questa locuzione che fa quasi tutt’una voce, Bianco preponesi sempre, come quel ch’è la luce”. Prima di cominciare a sfruttare l’indicazione luminosa di quel nero, il cinema (il cinema americano) si limitò a gettarsi sulla fantascienza come genere sociologico, perfettamente terrestre, il più terrestre forse nei primi anni settanta (1975: Occhi bianchi sul pianeta terra; 2022 I sopravvissuti). Lo stesso straordinario capolavoro underground La Region Centrale di Michael Snow euforizzava le tendenze kubrickiane rendendo il territorio un’astronave ripresa da un impossibile inventato punto di vista “sospeso”. E Kubrick autofecondatosi cominciava i suoi eterni ri­ torni geniali avvolti nel tempo ma anche in nuove luci e colori. Douglas Trum­ bull, che aveva lavorato ai trucchi di 2001, usò il nero come sfondo di una ripro­ posta ecologica (nello spazio) di un territorio e della sua vegetazione, e l’astro­ nave proprio come immagine microcosmica della terra (Silent Running, 1972). Un piccolo film curioso come Doppia immagine nello spazio di Parrish (1969) si avvicinava forse maggiormente alle ipotesi limite kubrickiane. La lontananza di 2001 sembra oggi ancora maggiore (non è forse andato “male”, da noi in TV?: “solo” 8 milioni di spettatori, contro gli oltre 25 dei Padrini e di Via col vento). Eppure, più ancora di Zardoz (1974) di Boorman, il film di Kubrick si dà da leggere in questo momento come un papiro profetico da srotolare ancora una volta, un palinsesto filmico in cui leggere alcuni successivi “presenti” del cinema. La navi­ cella Discovery attraversa nel 1968 con la precisione di un traghetto alcuni steri del cinema dei quindici anni successivi. E, tra chi vide allora, si ricorda, fu il pubblico più giovane quello più entusiaste e trasportato dal film. 251

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Lo stesso pubblico che era cresciuto bevendo film in TV in una miscela quoti­ diana (misteriosa come la Coca-Cola) di anni trenta, quaranta, cinquanta. Segno in negativo della “magia 2001” è il modo leggermente ossessivo in cui il film di Kubrick viene preso a referente-bersaglio da tre esordi americani giovani ben di­ versi l’uno dall’altro: THX 1138 di Lucas (1972) è - al di là dell’impianto socio­ logico, e con in più un’attenzione già sfrenata al video - una variazione sul bianco ossessivo visto come variazione “interna” (tutto avviene nel sottosuolo) del nero, con un forte gusto figurativo “moderno”; in Schlock (1973), forse il mi­ glior film di John Landis (uno dei meno affascinanti tra i giovani cineasti USA), curiosamente anticipatorio nell’introdurre la Bestia che diverrà dominante a par­ tire dal King Kong remakato e poi con gli uomini-lupo, c’è una citazione-presa in giro demenziale divertentissima della scena-dell’osso-lanciato-dalla-scimmia-chediventa-astronave, con una banana al posto sia dell’osso che del monolito e senza nessuna astronave; Dark Star (1974) di Carpenter infine è una deliziosa “comme­ dia spaziale” garbatamente tesa a smontare il mito e l’aura “filosofica” di 2001. Per tutti e tre i registi, la fantascienza e il fantastico risultano il genere più adatto a “cominciare”, il loro generazionale territorio-cinema più diretto, anche se per anni se ne terranno lontani. Dieci anni dopo, con Lucas e Carpenter ampiamente “tornati a casa” (che sia la casa di Poltergeist poco cambia o poco cambierebbe), Spielberg aggrega Landis a un’altra “squadra” (Joe Dante, l’australiano Miller di Mad Max) che, finalmente “libera”, può dedicarsi a immaginare i veri oggetti di culto che precedettero 2001 nell’infanzia (fiancheggiandolo e sovrastandolo): gli episodi (telefilm allora) di Twilight Zone» “ai confini della realtà”. E gli stati, gli stadi, gli strati di 2001? Ecco, al processo, al “viaggio” di Disco­ very, che è ancora spostamento e tragitto per quanto poi chiuso in infiniti circoli logici, si è sostituita l’orbita permanente, lo space-lab, l’apnea spaziale. Natural­ mente, dopo l’avvenirismo e l’apocalitticismo, dopo i dilemmi di vita/morte, soprawivenza/olocausto, etc. dei primi anni settanta, quando il western lenta­ mente si estingue e si travasa direttamente proprio nella fantascienza come ge­ nere guida, genere forte dopo decenni di esistenza come genere “pulp”, “pop”, “cult”, insomma minore come le noccioline o ideologico come la guerra fredda (certa SF anni cinquanta ricalcata sullo spy-movie, incluso lo splendido Invasione degli ultracorpi di Siegei). Il limite della metropoli urbana come scena per un nuovo western (Eastwood/Siegel, Distretto 13 di Carpenter) è presto superato con 1’estremizzazione o la stilizzazione (/ guerrieri della notte) e la frontiera si spo­ sta ormai vertiginosa verso la rinascita dell’avventura in un altro spazio. Saltando direttamente all’orbita, appunto. Operando disinvoltamente, senza percorrere traiettorie come quelle indicate e “narrate” in 2001» di avventura e esplorazione insieme. Essere in orbita, lo stato del cinema d’oggi. Anche all’ombra di un’orbita più de­ cisiva e minacciosa (per esso), quella del satellite televisivo pronto a far esplo­ dere l’informazione e a far implodere le immagini. In realtà orbita senza nero e senza paure apparenti o in agguato. Se il nero è rinato in Guerre Stellari» se il trucco è ripartito lungo infinite sedute allo specchio (così semplice, così “bam­ bino” come dicono tutti, non sarà piuttosto il cinema-d’-oggi dominante-compli­

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cato e “pesante” come la Faye Dunaway/Joan Crawford straordinaria dell’inizio di Mammina cara, sola al trucco mattutino di fronte e dentro la specchiera? Non è forse semplicemente bello e stravolto come un bambino/bambina che si trucca allo specchio e non sa cosa fare e sta lì, e non sa perché è al mondo e canticchia, è contento, distratto, assente, presente, potrebbe anche uccidersi..), siamo però già dopo, tutto è già passato e quindi è ancora dentro la camera del finale di 2001 (la camera d’albergo di Shining), a mutare indefinitamente senza mai ricono­ scersi. Stucchevole elencare i modi dell’orbita: il western-western (Atmosfera Zero), il “nero” poliziesco (Blade Runner), l’avventuroso (Lucas), la “soap” co­ medy (E.T.), il fantapolitico, il fantahorror (Alien, La cosa), il fanta-hard (AlphaBlue di Damiano), il fantamélo (Saturn 3), il fantamedioevo ovviamente (..), il fantacartoon.. La loro pluralità/ripetitività dimostra che si tratta davvero di un’orbita, di un equilibrio raggiunto in sospensione intorno a (..). Trasferimenti in massa. Forse, davvero confluenza. In orbita, tutto è più leggero, ci si muove meglio, si vede la realtà ma si è più “in alto”, legati a una forza di gravità ma an­ che vicini a velocità superiori, di fuga, magari di avventura ulteriore.. No, i film non sembrano per ora Pioneer o Discovery lanciati oltre il sistema solare con tar­ ghe segnaletiche o Hai 9000 e David Bowman a bordo. Spezzato il tabernacolo delle immagini (il Vortex di Zardoz) e con esso le possibilità di altri Graal, si può raccontare qualsiasi storia, e Excalibur è più vicino a Guerre Stellari che 2002 La seconda odissea (Silent Running) a 2001. Orbita intorno al cinema, intorno a una Terra rappresa in immagini. Ancor più: intorno a un immaginario (cinema, fumetti, letteratura popolare, fiabe, televi­ sione). Fanta diventa così una lettura, un punto di vista orbitante intorno a un oggetto, proiettato quanto si vuole nel futuro e nello spazio ma inevitabilmente post. Dietro lo specchio non c’è oggetto nuovo, o il nero/spazio o il ripopolarsi di miti e di storie già raccontate. La maestria tecnica del cinema (anta (a propo­ sito, forse il sottogenere meno praticato è la fanta-fantascienza, riferendosi all’e­ lenco di cui sopra) è di tipo compositivo-combinatorio. Niente progetti smisurati alla Kubrick, voli magici alla Pazuzu di Boorman (Esorcista II: L'eretico), traver­ sate del deserto e cuori di vetro alla Herzog, esplorazioni della terra di nessuno delle immagini alla Tarkovskij. Il massimo di inquietudine (e non si vuol dire che è poco) è quello del doppio, della copia, del “replicante”. Sottile ma potente congiunzione, questa, tra i “cinemi” esistenti che sembrano diversi l’uno dall’altro. La contrapposizione forte che sembra esserci tra i due grandi generi dominanti e inglobanti tutti gli altri, il comico/commedia e il “fanta” (fantasdenza/fantastico) quasi si vanifica. Non tanto per lo sconfinare del primo nel secondo (Landis, Monty Python..) sia per temi che per oltranzismo de­ menziale (da The Blues Brothers a Banditi del tempo), né per il caso E.T.. Un lavo­ rìo comune sul corpo percorre e di fatto unifica i due territori di genere, li rende uno doppio dell’altro proprio mediante il dominio della doppiezza e dell’ambi­ guità (sessuale prima di tutto). Che siano mostri asessuati costruiti da Rambaldi, o Dustin Hoffmann “donna” e Julie Andrews donna/uomo/donna, E.T. o El­ liott, che siano dei personaggi “umani” e “tormentati” o manichini, mediante essi agisce e parla un’unica cosa. Genialmente Carpenter (giustamente mediante un 253

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remake vertiginoso) mette in scena le due specie di lavoro di corpo da parte della cosa; il doppio/duplicato e il mostro, la trasformazione. Film (per comodo no­ stro) sommamente "teorico’7, La cosa è il puro progetto di un soggetto/cinema che altro non ha da hire che assumere forme. Tutto il filone del film "di trasfor­ mazione” (che potremmo chiamare paradossalmente del "trucco hard”, a vista e senza stacchi: uomini che diventano lupi o forme incredibili - Stati di allucina­ zione -, corpi che si contorcono fino all’inverosimile) continua a sua volta l’esplidtazione di dò che può avvenire nella camera settecentesca di 2001, infatti per­ fettamente susseguente agli anni (fine settanta) che hanno visto il ritomo/dominio del trucco ottico forte, delle "allucinazioni”, sulla sda di quelle viste/provate dal Bowman-spettatore prima di approdare con la sua navicella alla "camera”. Incanta alcuni il modo in cui il doppio/replicante si libera dell’impacdo della trasformazione (che ci ha dato immagini tra le più affasdnanti degli ultimi anni, da L’ululato a Cat People, anche in film mediocri o sbagliati come Stati di allucinazione) per proporsi “tale quale”, riproponendo il valore dei "plot” e della pa­ rola che dice “la verità” (se è “vero o falso”). L’insopportabile “profondità”, “in­ certezza”, “poetidtà”, il ruminio chandleriano, che guastano la magnifica Usua­ lità di superfide e la scelta interessante di delegare la regia alla scenografia in Blade Runner, sono fatte apposta per la comoda sensibilità "post-punk” in delirio per il romanticismo colorato degli spot pubblidtari. Ben più decisivo e coinvol­ gente, ben più “ai confini del dnema” il tentativo opposto, quello di Lynch so­ prattutto (e di Tarkovskij, spostando l’accento sulla generazione/trasformazione delle immagini stesse), di risalire il processo di trasformazione fino al momento oscuro della generazione primaria della forma. (E attendiamo l’ingresso di Lynch nella fantasdenza/fantasdenza di Dune.) Come quando si formava il ‘feto astrale’ che appariva nell’ultime immagini di 2001.. Sembra quasi di far già la storia di questi primi anni ottanta. Potremmo ricomin­ ciare le distinzioni, rinumerare le definizioni: il cinema è il cinema, il mondo è il dnema, il cinema è il mondo. Ricordare come tanti altri "autori” europei ab­ biano raccolto il segno dell’ambiguità/trasformazione dei sessi quando non dei corpi; da Syberberg (del resto l’unico a seguire davvero Kubrick, col suo Hitler tutto proiettato nel nero cosmico e infine addirittura aperto alla “beanza a ve­ nire” che oggi appare quella di Guerre stellari) a Godard, fino a segnali modesti come Moretti che in Sogni d’oro diviene lentamente lupo. O ribadire differenze che restano al di là di tutte le contaminazioni: sottolineare l’originalità lueasiana o come in parecchi film (ultimo E.T.) appaia il mito della comunicazione, comu­ nicazione immediata, per immagini come fosse una musica. Per esempio, televi­ sione come apprendimento di segni e sedimentazione di immagini (il bado di John Wayne e Maureen Ò’Hara in E.T.). Comunicazione allo specchio. Mito quasi religioso del comunicare, inventando forme di visioni e di corpi, facendo agire e mostrando la cosa. Cioè sempre (anche) il dnema. Oppure, a questo punto, la forma nuda della visione-comunicazione. Coscienza di dò in Lucas, segni di smarrimento e incertezza nelle ultime interviste (cfr. il manifesto, 3 giugno 1983): “Voglio scendere dall’astronave”.. (..), camminare nei boschi non saper più “cosa” fare nel momento dell’ulteriore “massimo successo”

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dell’episodio della sua saga: “i miei attori stanno invecchiando, la situazione di mercato, con l’instabilità tipica degli anni ottanta, può modificarsi di momento in momento, io stesso sento di avere in parte esaurito la mia ispirazione”. Il ty­ coon che confessa e ribadisce il timore dell’incognita “mercato”, proprio quando pensa di aver realizzato un magnifico esempio di “cinema muto” (Return of Jedi), di aver raggiunto lo stupore attonito e meraviglioso di un ipotetico “inizio” del cinema. Un sogno (per ora lungo un solo giorno, ma potrebbe essere di un “attimo” elet­ tronico) interviene con un segno davvero inedito di smarrimento. Coppola, l’u­ nico dei nuovi tycoon a non aver mai affrontato direttamente il genere fanta­ scienza (anche se c’è di mezzo Apocalypse Now, e anche se produsse il THX 1138 di Lucas), comincia un viaggio nel delirio immaginario, con un innocuo dolce “soft” esempio di “cinema elettronico” (Un soffio lungo un giorno). In fondo allo schermo dei desideri c’è un fine da scienziato pazzo; non mostrare la duplica­ zione o intessere trame con essa, ma produrre direttamente duplicati. Non di corpi, ma di immagini, anche di immagini di corpi. Raggiungere mediante il computer (già lo fanno per immagini quasi statiche o per simulazioni militari e spaziali “gli americani"; si dice anche “i giapponesi”) il “punto” di materia elet­ tronica con cui ridisegnare a piacere e muovere le immagini dei corpi, fino a po­ ter fingere vero un hard, per esempio, con Humphrey Bogart e Lauren Bacall, proseguire serial all’infinito (senza il timore che Harrison Ford invecchi..). E in­ tanto toma il 3D. Spostamento decisivo, la meravigliosa inanità di tale “pro­ getto” (sia pure virtuale), o anche la sola possibilità che venga pensato. Nelle im­ magini e dalle immagini, tanta realtà da non poter avere mai più un “effetto ve­ rità”. Tutta fantascienza (forse-, e fondamentale, il “forse”). Non più “punti di vi­ sta”. (Curiosa trasandatezza/noncuranza di singole inquadrature nel Coppola su­ blime: come se non quello importasse ma la “grana”, la “materia”, la cosa elettro­ nica in azione, e la scelta fosse davvero impossibile). Svuotato il senso dell’or­ bita. Orbite vuote. Tutta la fiction e il cinema che si riversano e addensano sulle cose/immagini che affiorano a farsi vedere. L’occhio è per così dire dentro l’im­ magine, dentro il mondo che (anche in immagine) può essere lui davvero (del re­ sto è storia vecchia) il sogno di un folle, di un frankenstein, di un cineasta. (In­ fine: Il cinema non è il cinema). O forse solamente il raggio intensamente azzurro..

[in Cose dell’altro mondo, Comune di Venezia, 1983]

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“Nel cinema di Roger Corman non c'è 'prima' e non c'è 'dopo', c'è solo l'attimo. Pre­ cisamente in quanto l'attimo non esiste nei suoi film (non esiste cioè il 'bel mo­ mento', la 'notazione acuta' cui ne seguirà un'altra), ma i suoi film sono 'attimi senza tregua'. Il film di Corman in linea di massima scoraggia lo spettatore dall'abbozzare, di sequenza in sequenza, una previsione. Tutto insieme, esso chiede di essere conside­ rato un unico fatto che si esaurisce in una fiammata." Sul numero 7 della rivista II Falcone Maltese, settembre 1975 (dopo il numero 8 si sarebbe interrotta, scomparendo le bozze del n. 9 in un’alluvione nei vicoli di Genova), cominciavo così un pezzo intitolato “Previsione e narrazione in Roger Corman”. Più esattamente, cominciavo con una citazione da Alien Tate: “The idiot greens the meadows with his eyes..” (l’idiota rende verdi i prati con i suoi occhi). Alcune pagine dopo concludevo: “Aristotele nella Poetica, VI, 1450: 'La tragedia non è imitazione di uomini, ma di azione di vita. E la felicità e l'infelicità sorgono in conseguenza dell'azione, e il fine stesso della vita è un'azione e non una qualità. Ora gli uomini hanno questa o quell'altra qualità in dipendenza del carat­ tere, ma sono felici o infelici per le azioni che essi compiono.. Se non è possibile che si diano tragedie prive di azione, ce ne possono essere invece senza caratteri - - La tragedia dunque è imitazione di azione, 'e soltanto subordinatamente all'azione è imitazione di personaggi che agiscono'. In Corman e da Corman non avremo l'ataras­ sia della commedia, ma il coinvolgimento strutturale della tragedia, un cinema della superficie che si trasforma in 'cinema del profondo'." In mezzo, il film più citato era Perversi a occhi chiusi (Naked Angels, 1972), un film non di Corman ma che noi allora si considerava “suo”. Mi affascinava in esso il definitivo denudamento rispetto ai “wild angels” del 1966, mi pareva la “verità” di tutto il cinema di Corman. Amavamo molto Corman, e non in moltissimi. In qualche modo, quel film di Brace Clark è rimasto l'ultimo film di Corman. Non lo sospettavo - prima previsione impossibile o mancata -, non lo si sospettava in un regista così prolifico e veloce, mentre arrivavano voci da riviste straniere di un suo remake griffithiano: Birth of a Nation. Niente Birth of a Nation. La nascita di un cinema, sì. Nel decennio in cui il ci­ nema dei suoi figli e nipoti viveva e si affermava (inutile stare a rifare i nomi), Corman regista finiva. Al titolo di un film mitico si sostituiva un nome ancor na­ scente e utopico: New World, la sua casa di produzione e distribuzione. I nomi

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non sono mai per caso, ma ancor meno per caso e certo non innocente è il nome (dal 1983) della nuova “factory” cormaniana: Millennium (nel 1970 un testo di Paul Willeman su Corman si intitolò The Millennic Vision). A questo e a molto altro ho avuto da pensare lavorando negli ultimi due anni a una personale televisiva (Raitre) di tutti i “film-Poe” di Corman. Agli inizi dell’a­ more e interesse per Corman, mi piacevano e parlavano meno. Certo: era l’og­ getto cormaniano più noto e abituale, ciò per cui Corman era famoso, per cui an­ che la critica più “ufficiale” strizzando l’occhio manifestava un qualche apprezza­ mento. E in fondo il corpus più chiuso, più ovviamente riuscito e insieme ripeti­ tivo. In qualche modo, poi, usciva dalla folgorazione dell’attimo, anzi appariva trionfo della distensione e dilatazione-divagazione scenografica. In più, Poe og­ getto sacro era troppo palesemente il “pretesto” (quante volte è stato detto..) per un’operazione di altro tipo. Rileggere Poe, il Poe “teorico” che “pubblicava” cinicamente i suoi stessi “me­ todi di fabbricazione poetica”, mi ha dato oggi un’immagine, oltre che di vici­ nanza assai maggiore dell’ammesso tra il “testo complessivo-Poe” e il corpus de­ gli otto film cormaniani (/ vivi e i morti, Il pozzo e il pendolo, Sepolto vivo, I rac­ conti del terrore, I maghi del terrore, La città dei mostri, La maschera della morte rossa, La tomba di Ligeia), di forte omologia tra il procedimento tecnico-poetico di Poe e quello di Corman. Sempre questione di tempo e di tempi, e di durate. Poe in The Poetic Principle, appare ossessionato - riguardo al componimento poetico - dalla lunghezza, dalla durata, dal tempo necessario a leggere, dall’unità o frammentarietà del­ l’atto di leggere il testo: “Io ritengo che una poesia lunga non esista. Sostengo che la frase ‘una lunga poesia’ è, semplicemente, un’aperta contraddizione di ter­ mini. Mi è appena necessario il notare che una poesia merita il suo nome solo in quanto che essa eccita l’anima, elevandola. Il valore della poesia è in ragione di questa eccitazione che eleva. Ma tutti gli eccitamenti sono, per fisica necessità, passeggeri. Quel grado di eccitazione che dà diritto a una poesia di esser chiamata tale, non può esser sostenuto da un capo all’altro in un componimento di una certa lun­ ghezza. Dopo una mezz’ora, al massimo, esso scema - viene a mancare - segue un rivolgimento - e quindi la poesia non è più vera poesia, in essenza ed in ef­ fetto. Vi sono molti senza dubbio che hanno trovato difficoltà nel conciliare l’as­ sioma critico che il Paradiso perduto deve essere devotamente ammirato da un capo all’altro, coll’assoluta impossibilità di mantenere per esso, durante un’at­ tenta lettura, quel grado di entusiasmo che quell’assioma critico richiederebbe. Questo grande lavoro infatti deve essere riguardato come poetico solamente quando, perdendo di vista quel vitale requisito in ogni opera d’arte, ch’è l’Unità, noi lo consideriamo puramente come una serie di poesie minori. Se, per conser­ vare la sua Unità - la totalità d’effetto o d’impressione - noi lo leggiamo (come sarebbe necessario) in una sola seduta, il risultato è solo una costante alternativa di eccitamento e di depressione.” (Dalla traduzione di F. Olivero, Laterza 1939.) Nato come cinema corto o comunque “breve”, da doppio spettacolo, il cinema di Corman è davvero un “attimo” prodotto a basso prezzo ma con molta fatica e in

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pochissimo “tempo” all’interno della battaglia del capitale. La sua minimalità produttiva, quasi ulmeriana, pronta a sfruttare gli interstizi non solo tra un film e l’altro ma tra un set e l’altro, una posa e l’altra (La vergine di cera/The Terror, gi­ rato in quattro giorni con i “resti” - troupe, set, budget - de I maghi del terrore; e Coppola esordisce con Dementia 13 “a lato” di I diavoli del Grand Prix; in una “storia en abime della produzione indipendente USA” succede poi che Bogdano­ vich esordisca con Targets utilizzando sul grande schermo del Drive-in il Karloff di La vergine di cera..), si rivolta e svolge infine nel cido-Poe in una sontuosità scenografica, in lussureggianti nastri di superficie schermica. La dilatazione e la divagazione concretizzano l’attimo, permettono e avvolgono - cullano - l’essen­ zialità. Se nei suoi cinque giorni di set Ulmer produce la sua deviazione, il suo Detour, Corman in 8 film (o almeno in sette di essi, se si vuole escludere La tomba di Ligeia girato in buona parte in esterni) utilizza ossessivamente lo stesso set, modificandolo o allargandolo di volta in volta, nello stesso tempo co­ struendo un altro set, il set mentale caro a Poe. Non è solo a The Haunted Palace che si riferisce Poe in una lettera del 1841: “Io mi riferivo a una mente abitata da fantasmi, un cervello in disordine..” Stupefacente la corrispondenza, a posteriori, tra il disegno complessivo dei Corman/Poe e le indicazioni metapoetiche, teori­ che, di Poe a proposito della sua opera. L’arbitro scenografico (i tocchi scenogra­ fici, il “colore”, non sono certo dominanti nei racconti di Poe, a parte eccezioni significative) composto con Floyd Crosby e Daniel Haller, la persistenza dell’am­ biente, diventano veri e propri tendaggi del tempo, vesti soffocanti di uno spazio mentale in cui uno stesso teatro si riproduce mille volte. Variazione infinita di dati minimi, come mimesi di eternità, creazione eterna e folle, fissità di un at­ timo esploso, di un incubo ripetuto e senza risvegli. In questo senso proprio il film più chiaramente “non da Poe”, il lovecraftiano The Haunted Palace/La città dei mostri, si rivela esattamente poesco fino alla fine, né poteva essere divera­ mente, con un titolo così decisivo. E La tomba di Ligeia - l’ultimo - dopo essere evaso nei suggestivi esterni d’Inghilterra rientra nel suo set utilizzando gli stessi fotogrammi di “stock footage” dell’incendio già utilizzati in Morella (episodio di Racconti del terrore) e in vari altri film. Costante, la distruzione finale del set è in­ dice di una distruzione dell’orizzonte del senso, di un continuo azzeramento, di una cesura a ribadire quello che il fumo/nebbia dominante e quasi sempre ine­ splicabile, e comunque inesplicabile in ogni film, sottolinea in ogni film: la nar­ razione è essa stessa un velo, il primo di molti veli, tutt’altro che un “valore” in sé. Fatto di piccoli millenarismi il cinema Corman/Poe è un rimescolamento continuo di dati poesco-freudiani in un vortice maelstromiano, ben al di là di una fedeltà alla lettera (che, come si ricorderà sempre, rubata fin dall’inizio è an­ che lì, appena nascosta sì, ma lì, in ogni momento). Può continuare, la lettura (qui appena accennata) di Corman mediante la poetica di Poe. In The Philosophy of Composition, prima della famosissima analisi e smontaggio, verso per verso, di The Raven, Poe “confessa”: “Io preferisco comin­ ciare dal considerare un effetto. Avendo sempre presente alla mente l’originalità poiché colui che s’arrischia a far a meno di una sorgente d’interesse così ovvia, e che può ottenersi così facilmente, illude se stesso - io dico a me stesso, in primo

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luogo: Tra gli innumerevoli effetti, o impressioni, dei quali il cuore, l’intelletto, o (più generalmente) 1’anima è suscettibile, quale sceglierò io nel caso presente?’ Avendo scelto un effetto anzitutto nuovo e poi vivido, io passo a considerare se esso può venir meglio ottenuto per mezzo dell’incidente o del tono - se per mezzo di eventi ordinari o di un tono peculiare, o viceversa [..] cercandomi quindi attorno (o piuttosto dentro) per trovare tali combinazioni di eventi, o di tono, che meglio potranno aiutarmi a costruire l’effetto." Non è un’equivalenza-dissolvenza del cinema di “attimi" in un cinema di “ef­ fetti", che si propone, tantomeno in un cinema di effetti “speciali" o di trucchi. L’unico effetto cormaniano costante è il trucco col tempo; il molto che diventa poco, il poco che sembra molto, l’attimo che dura l’eternità di un film. Si vuol solo dire - i tempi di produzione brevissimi bastano a dimostrarlo - che il film di Corman è un film progettato in toto con un effetto, con una precisione e un ra­ zionalismo sovrastanti qualsiasi necessità narrativa, e perfino a prescindere dagli accidenti del “set”. (Poe, Eureka, ed. Theoria 1983: “Nella costruzione di un in­ treccio, nella finzione letteraria, dobbiamo mirare a combinare gli avvenimenti in modo tale che noi stessi non saremmo capaci di decidere, per ciascuno di essi, se questo dipende da un altro o se ne è la causa.") C’è in tutti i film del ciclo-Poe un’inquadratura costruita nello stesso modo, metafora dello sguardo razioci­ nante di Poe “dentro" la mente permeabile, e segno di tutto il “ciclo”: senza che quasi si notino, o al contrario percepibili come puro “effetto”, appaiono delle fiamme, nella parte bassa dell’inquadratura, come se l’occhio del cinema vedesse sempre da dietro un fuoco (e infatti è questione di fuoco), come se chi/ciò che guarda fosse già in un inferno o su di esso si affacciasse sostando sul limite. Effetto, In un’altra accezione, si può ben dire che i “discepoli” lontani di Corman (Coppola, Scorsese..) sono “effetti” del suo cinema, del suo irripetibile modo di produzione. Effetti sì prodotti, ma accidentali; effetti di “scarto”, surplus. Quindi i non discepoli di un maestro. Eppure oggi il Coppola di Rumble Fish fa pensare al fumo di Sepolto Vivo-, l’assurdità dei suoi tempi, la mutevolezza della loro so­ vrapposizione allo spazio (nuvole e luci veloci), provengono forse dall’entusia­ smo di Coppola per la bellissima enfasi di Godfrey Reggio (Koyaanisqatsi), ma rammentano il tempo inesistente e non mirabile de I Selvaggi e sono la millenaristica catastrofe di un cinema che implode in uno sfilacciarsi interno di tempi, in uno scollarsi dell’immagine nei suoi elementi spazio/tempo. Scenografia. Non scenografico, Poe, è però partigiano fortissimo di una forma d’arte di un superamento-prolungamento della scenografia (il cinema? cos’è Scarfiotti per Coppola o per De Palma/Scarface?..), e che gli pare importante quasi come la musica: la costruzione di paesaggi. Non solo in teoria: uno stu­ pendo racconto lungo, Il Dominio di Amheim, è dedicato a un giardiniere di pae­ saggi (Landscape Gardener). (Il set/mente dei Corman/Poe sarà allora un pae­ saggio della mente come più tardi le Figures in a Landscape/Caccia sadica di Lo­ sey?) Tempo. Da vent’anni Corman non dirige film, e produce poco. Ha distribuito ci­ nema d’autore europeo e ultimamente è apparso in fotografia su una rivista di ci­ nema americana per commemorare il cinema disparente dei drive-in (nei quali lo

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“Scope” dei suoi Poe diventava davvero paesaggio naturale. Lo merita oggi la TV? E meglio il terribile scanned o quest’orizzontalità troncata che rimanda a un cinema di prolungamenti liberi oltre tutti i bordi di un moncone..?). Ma cos’è il tempo al cinema e per il cinema se il cinema è “immagine del tempo” (Bazin)? E se per chi vede i film quattordici anni sono comunque “passare” e perdersi di sé, invecchiare: (“Non esistendo in Lui né passato né futuro, ed essendo tutto pre­ sente..”, Poe, Eureka).. E il cinema immagine del tempo cosa è se “il tempo non è altro che la visione frammentaria e a brani che un individuo può avere delle idee, le quali sono fuori del tempo e perciò eterne”) per questo Platone dice che il tempo è l’immagine mobile dell’eternità.

[Cult Movie, 19-21,1983-1984]

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1983

(in ordine di preferenza): Re per una notte di Scorsese Nostalgica di Tarkovskij Sulle orme della pantera rosa di Edwards E la nave va di Fellini Cammina cammina di Olmi Inserto girato a Lisca Bianca luglio 1983 di Antonioni *** Wheel of Life (solo il primo episodio, che è di King Hu) *** Un so&io lungo un giorno di Coppola Moonlighting di Skolimovski *** Pauline à la plage di Rohmer *** I ragazzi della 56a strada di Coppola Lfargent di Bresson *** Scusate il ritardo di Troisi Il volto dei potenti di Pakula *** Fino all'ultimo respiro di McBride La ville des pirates di Ruiz *** Koyaanisqatsi di Reggio *** Prénom Carmen di Godard *** Sex Business-made in Pasing di Syberberg *** Una lama nel buio di Benton Note - (I film segnati *** sono i dieci migliori tra i visti in festival e rassegne, gli inediti, i ricuperi dell’anno scorso). Non ho visto gli ultimi di Oshima Straub Le­ wis, né Biquefarre, né Eastwood. Mi spiace non includere (rigidità del numero) tre francesi belli: À nos amours di Pialat, Finalmente domenica di Truffaut, La vita è un romanzo, goduti molto. E anche Narayama di Imamura (non dei suoi mi­ gliori), e Cross Creek di Ritt (molto bello, il suo migliore?), entrambi nella linea “natura/cultura” che sembra tra Cannes e Venezia indicare un piccolo genere ecologico emergente. E La scelta di Sophie, e Under Fire di Spottiswoode, così sfatto di luci diverse nella fotografia di Alcott, lontano dalla ovvia lucidità “inter­ national” di Un anno vissuto pericolosamente. Il ritorno dello fedi, che ho amato non poco a Venezia, ha resistito non molto: L'impero colpisce ancora di Kershner resta l’episodio supremo della saga stellare, anche se da grande teorico Lucas rie261

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see a dimostrare molto bene che la regia non (gli) serve (quasi nullo Marquand..). Agli estremi delle durate, nelle sei ore di Bergman ultimo ci sono ore sublimi. Per i microfilm, i migliori video sono forse i primi 5-10 minuti di Flashdance (pe­ raltro digradante verso la mediocrità assoluta, nonostante - impossibile! - la più grande rivelazione dell’anno il corpo/muscolo/sorriso di Jennifer Beals, forte ol­ tre ogni doppiaggio o triplaggio) e brani di It's AU True dà Julien Temple (ma non è “tutto vero”, visto il suo deludente video per Undercover dei Rolling), an­ che se la miglior cosa musicale in assoluto è forse il silenzio dei Ten Minutes for John Lennon di Depardon. Parlando di TV, escluderei le decine di titoli filmici vi­ sti o rivisti che si affollano; ormai è biblioteca, sceglierli è come dire “all’interno di tutta la storia del dnema”, e sarebbe “un altro discorso”. Visto che invece il criterio è quello dell’w/ew/7^ (e ancora ci sarebbero da scegliere i “died migliori Fassbinder”..), non posso che cedere alla forza poco raziodnata con cui un titolo si impone all’altro nel far ricordare l’emozione del suo “esser-stato-visto” e nel farsi pensare oggi. Intensità, emozione, non godimento, ché allora più ancora del video almeno trenta pezzi di pubblicità televisiva (Ridley Scott Chanel 5 e Falby/Deneuve “tutte le volte che ho una nuova Landa mi fanno un film”) occu­ perebbero la lista esaurendola, insieme con litanie di bètises da talk-show TV e con i lampi di sport - l’unico regolare per quanto intermittente momento hard e emozionante in TV, film a parte -. Unica eccezione Zelig di Woody Alien. Tanto lo amo Woody e tanto non amo i suoi film. Grandissimo Io e Annie, sì. Affasdnante il mediocre Stardust Memories a svelare la nullità di Manhattan e a mo­ strare l’aspetto ancor più romantico che ebraico de\Tattimo supremo da inse­ guire, dieìTistante da fermare in felicità di cinema. Zelig come Io e Annie è il mas­ simo momento teorico di Alien, il tentativo di dare una ragione alla frammenta­ rietà, di renderla oggetto di cinema. Mi sembra inadeguato a dò di cui tratta, e insieme troppo lungo, elefantiaco pur essendo breve e senza essere elephant man. Ma è anche il fantasma di un cinema cercato che infine si trova ndTapplica­ zione a farsi, ed è come i venti film disparatissimi elencati sopra (certo non tenuti insieme - nonostante l’apparenza dei nomi - dall’esilissima e un po’ risibile neo­ nostalgia d’autore dei Cahiers) cui (io, io /cinema) si vorrebbe assomigliare. Corpo che desidera forme infinite e che si dà a desiderare come infinità dell’informe, Zelig ha anche il pregio di inventare dubbi dentro e fuori le immagini sulla loro consistenza di verità, che sia permesso o proibito il montaggio: mia madre (ma molti altri..) professoressa mi chiede se questo Mister Zelig.. insomma se è una ricostruzione o un documentario, non dovrebbe essere una finzione completa, forse è esistito, certo c’è Alien., certo sono dei trucchi, il Papa, Hitler,.. ma vo­ levo conferma. [.Filmcritica, 341,1984]

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Dovendo fare fattore, in un film di esordiente che non è un melodramma nel senso che non lo vuole essere. E “dovendo” non nel senso dell’obbligo, ma così come a un certo punto capita che si facciano cose che non si pensava o non si vo­ leva fare, facendole magari con disagio e fatica, ma sentendo che si deve fare (come certi momenti fortemente istituzionali cui neppure si pensa dubitando: fiscrizione di un figlio all’anagrafe, fare il passaporto, la carta d’identità; per molti, “fare il militare”). Mi è capitata una cosa, un lapsus, un fraintendimento, natural­ mente nel rapporto con il regista (un amico). Bovino, volevo essere attore nel senso più animale e hitchcockiano: darmi da dirigere, ottuso, senza nessuna vo­ lontà di interpretazione, quasi con la paura di capire tròppo (“e se poi questo ci­ nema - questo film - non mi piace?”). In realtà, temendo poi di investire troppo, di disturbare sicuramente perché allora la voglia sarebbe state quella di andare di là, dall’altra parte della m.d.p., dove è sicuramente più comodo stare scomodi. Non volevo misurare mie ipotesi di regia con quelle infinite di chi vuole fare quel film e si trova già nella virtualità di infinite inquadrature e punti di vista e insieme nella realtà di finitissime risorse economiche (budget). (Tanto penso on­ nipotente la “regia”; proiezione mentale sul set di un’onnipotenza pensate.) Oggi credo che l’interiorizzazione - come “attore”/animale - della splendida in­ tuizione hitchcockiana (che fattore è appunto un animale, con tutto ciò che di ambiguo ne segue) fosse invece da parte mia l’attentato più pericoloso alla possi­ bilità del regista di trattarmi come un animale (o forse, semplicemente, io sono quest’animale qui, che si proietta, si finge, finge di non fingersi, eccetera; che si diverte a iniettare “coscienza” inutile e idiota fino a che paia e sia incoscienza). In una delle scene - io medico, la protagonista paziente, siamo in attesa davanti alla porta di una cobaltoterapia - il regista dopo un paio di prove e di riprese mi dice: “Con più premura, Enrico, per piacere; un po’ più di premura con Anna.” Lo guardo appena stupito. Di solito, credendo che l’altro abbia già capito, ci ver­ gognatilo quasi di dire (ma penso che per le mie vergogne sfrontate Gianfranco mi abbia scelto, insomma che mi abbia già in partenza - e lì proprio non c’en­ travo ancora - visto e scelto come un animale), fingiamo al volo di aver capito. Ma qui, mi pare di aver già anche troppo accelerato cadenze e movimenti.. Ri­ proviamo e accelero ancora il mio gioco, quasi dimenticandomi di Anna nel ten­ tativo di stringere i tempi. Vedo òhe l’assenso del regista è contenuto, formale, in 263

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realtà insoddisfatto. “Più premura.” “Ma più di così, Gianfranco, ho perfino guardato due volte l’orologio per enfatizzare la fretta!” Sbalordimento suo: “Ma dài, Enrico, per piacere!..” Altre due prove più o meno uguali, e stop. La sera, a cena, viene lentamente fuori il punto. Lui pensava scherzassi (uno dei soliti miei giochi di parola idioti): ovviamente dovevo essere premuroso con Anna, il che poi è ovvio dato che il mio personaggio era sempre impacciato ma attento e af­ fettuoso con lei.

Il titolo

Un fatto di set, oltre che di parola. Di quanti lapsus è fatto un set. Quanti lapsus ne entrano in un’immagine fìlmica, mentre si è sempre detto che il “lapsus di im­ magine” è ovviamente impossibile se non nel Set Virtuale come luogo dello spreco di esso. Il set come sovrimpressione in atto, continua, di immagini possi­ bili. E quelle sovrimpressioni, quelle dissolvenze che sono letteralmente le vi­ sioni, il vedere un film. Sempre un po’ come in sonno più e prima che in sogno. Impressioni, selezioni arbitrarie, ricomposizioni (raccontare un film è come rac­ contare un sogno: cosa “viene prima”, se non insieme ciò che si ricorda e dice per primo e ciò che si dimentica?). Diciamo il set come luogo in cui per la prima volta il film sembra farsi ultimo. Accadere per la prima/ultima volta e non esser più modificabile se non all’interno del “mio” sistema occhi orecchie cervello. Più esattamente e non metaforicamente, il cinema stesso contiene in sé l’imma­ gine di questa incertezza dell’immagine, di questo poter/voler essere in ogni mo­ mento un’altra immagine. Non per caso, si tratta forse dell’unico elemento dav­ vero originale (di cui non si hanno altri esempi precedenti nella storia delle arti), dal punto di vista dell’apparire, all’interno di un sistema/cinema la cui determi­ natezza storica è comunque hegelianamente impressionante. Dissolvenza, so­ vrimpressione: che poi i grammatici e gli storici le abbiano classificate come ele­ mento di punteggiatura, segni vuoti da utilizzare come virgole o parentesi, vuol dir solo che era necessario normalizzarlo, questo vuoto. E pauroso: “dissol­ venza”, così spesso unita a “nero”, il nero della nascita e della formazione ma an­ che il nero in cui l’immagine muore si perde. Una dissoluzione che è anche la dissolutezza, la perversione prima del cinema proprio nel nascere, tra luci ombre emulsioni. E che diventa estrema quando il fondu fonde davvero due immagini, confusione incestuosa mantenuta nella durata della sovrimpressione (il Gance ri­ scoperto da Coppola all’inizio di Apocalypse Now che è fin dal titolo il ricomin­ ciamento di un cinema moderno e la fine): che magari “non ci piace” appunto perché cerca di uscire dall’obbligo di questo cinema e esser più film più tempi più durate nello stesso tempo, senza riuscire quindi a situarsi nei limiti che ren­ dono visibile il cinema, percepibili i film. (Certo, i film che si ricordano pieni di dissolvenze non son gradevoli; ma è forse un caso che “il film più bello della sto­ ria del cinema”, uno dei tanti/pochi, Europa 51, sia pieno di dissolvenze e non ce ne ricordiamo..?) (E poi non sono l’allucinazione della realtà e il reale oggi a proporre la percezione del vivere come mixaggjo continuo, tempi diversi dentro 264

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un tempo, un suono nelle orecchie in cuffia, tante immagini nella testa e negli occhi, fermi in un punto a vivere telecineticamente o telepaticamente o telematicamente “molti mondi”?)

Avventura e identità

Per me - lavoro in televisione, appaio dentro il video, scelgo/curo/presento film per la televisione, corpo modesto di una sintesi sicuramente immodesta smodata modulante di modi diversi dell’immagine - dissolvenza e sovrimpressione sono immagini ancora più forti. Di una situazione in bilico tra l’estasi della visione e il fascino della lettura/ascolto che è la televisione. Di un sistema di immagini ancor più precarie, che un semplice tocco di mixer può mutare in altre immagini fatte di linee e punti. Strano effetto non critico delle visioni/lettura in TV. Più che lo stupore, appunto la lettura. Con il testo visivo che quasi annega, prima della trasmissione/messa in onda, nelle cento piccole operazioni tecnico/burocratiche perché il film ci arrivi, a quel momento. E le persistenze che assumono quindi forse ancora maggior “valore”, quando reticoli di senso passano e si impongono. Cicli. Finito uno “strampalato” (rete tre) sull’avventura. Genere per definizione illimitato. E senza territorio (a differenza del western, ma anche del nero quasi sempre urbano, della commedia quasi sempre “da camera”), senza riferimenti storico-sociali da rispettare, senza regole narrative generali: tutto può accadere, questa è l’avven­ tura. Almeno tre i capolavori compresi nel ciclo: Scaramouche, Il ladro di Bagdad, Le avventure di Sinbad il marinaio (e II cigno nero di King? E L'uomo che volle farsi re di Huston?). Tutti di una complessità affascinante, o meglio di una ricchezza stordente. Sillogi totali dell’avventura, e testi meta-avventurosi, assolutamente “teorici”, Scaramouche per primo. E un filo li attraversa, così insistente e ricono­ scibile (in TV, dove la questione parentelare è così oziosamente presente e domi­ nante, sotto la forma dei “rapporti tra i due mezzi”..?) da sembrare, più che una condizione dell’avventura, il gomitolo di filo che la tesse sempre. L'identità: ma­ scherata, perduta, ritrovata, incerta. Prima dei ruoli (generalmente ben definiti, rigorosamente consegnati alla pura funzione narrativa, e quindi in fondo a una scambiabilità morale) è l’identità come possibilità di riconoscimento del personaggio/eroe, e come suo situarsi rispetto agli altri, a dominare e generare la fic­ tion con la sua incertezza. L’incertezza dell’identità come unica legge in un ge­ nere che della legge se ne infischia, così come invece il western nell’incertezza della legge (da instaurare magari) vive e il nero/poliziesco sull’ambiguità e neces­ sità della legge si costruisce. Diventa facile elencare i titoli e riconoscere questo tema soggiacente; un titolo come “l’uomo che volle farsi re” è in qualche modo paradigmatico, ma da Zorro a Guerre stellari è un discorso unico che si dipana. Più maschere che in Pirandello, più false paternità che nel melodramma (dove il problema, notoriamente, è opposto come segno e tendenza: verso la perdita deh l'identità, perdersi credendo di trovare, o al massimo trovarsi perdendosi; non a 265

caso il mèlo è il genere più vero, cioè più spinto nella finzione delle strutture del vero). Anche se poi il gioco filmico dell’avventura è tutto un altro: mostrare le cose infinite, le azioni e le peripezie, le giravolte, i distomamenti e i salti che av­ vengono intorno sopra sotto questa identità incerta perduta da riaffermare nello spreco di un soggetto o di più soggetti nella frizione di sé con lo spazio pura­ mente immaginario dell’avventura. Anche i tesori nascosti sono sempre un sé (era chiaro anche prima che David Carradine si guardasse nel libro/specchio alla fine di Messaggi da forze sconosciute [Silent Flute}), e l’avventura è sempre un ri­ trovarsi alla fine dentro un teatro a duellare con un fratello che non si sa essere tale, è sempre un principe Ahmed obbligato a essere un mendicante cieco, un la­ dro che è un cane, un marinaio millantatore che vive avventure nell’attimo stesso in cui le inventa e le millanta (è la lezione del Sinbad di Wallace, meravi­ glioso e magico demiurgo incosciente dentro i colori del technicolor hollywoodiano, approdato infine all’isola dove tutto è possibile). Rivisto adesso, nei filmclub/officine, in una copia che è essa stessa incerta della propria identità (quei colori incredibili che sembrano del tutto fade-out e sfal­ dati, ma poi si vedano i pantaloni turchini accesissimi di Robinson; e magari si legge che già allora il colore era giudicato “imperfetto”; che fa col tempo il co­ lore di un film a colori imperfetti: migliora..?), il Robinson Crusoe di Bufiuel, av­ venturoso “d’autore”, è in qualche modo un’iniziale perdita d’identità dell’au­ tore a confronto con un Libro/Bibbia (e infatti proprio sul Libro si apre il film, con una bellissima lentissima dissolvenza che porta alla carta geografica e poi al mare al naufragio all’isola), e poi l’esercizio di riduzione efficacissima a un unico principio, appunto quella dell’identità, vissuta e ricercata fino all’allucinazione dello specchio e all’incanto dell’eco dentro una situazione di grado zero e estremo dell’avventura, un uomo e il set deputato. Che poi, appunto, il gioco sia quello di mostrare, è un altro discorso; discorso di tutto il cinema, della sua ori­ gine e destino (meraviglia del baraccone, esibizione), dello sperdimento da Mille e una Notte necessario perché il cinema possa proseguire senza preoccuparsi della propria identità. E anche questo discorso lo fa per intero II ladro di Bagdad, con quelToxrerriofle dell'occhio fin dall’inizio (sulla polena della nave), e la cecità, e i diversi tipi di trucchi, e l’occhio della dea preso in mano e poi volutamente perso, gettato via perché il film possa andare avanti e nell’abisso scuro si gene­ rino terremoti e altre immagini. Perché non è solo questione di sapere vedere ma anche di saper chiudere socchiudere sbarrare “spegnere” gli occhi. [Filmcritica, 342, 1984]

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Ballerine, in un recente “dibattito” a proposito delle riviste di cinema (in Italia, e nel mondo, e nel futuro addirittura..), mi è accaduto di chiamare non tanto le ri­ viste (anche se poi al dibattito medesimo vi fu il rapido passaggio in palcoscenico dei direttori di rivista italiani) quanto noi che scriviamo. Da bambino le riviste erano quelle di letteratura o altro che potevo trovare in casa o vedere in mano ai miei. Poi qualcosa di peccaminoso si insinuò nella parola “rivista”, leggendo libri e infine ascoltando parroci che furibondi la condannavano. Comparando e met­ tendo insieme informazioni, venne fuori che il “teatro di rivista” non era quello che veniva pubblicato solo su seri fascicoli, ma quello che si esibiva su palcosce­ nici di dubbio gusto e moralità. (Anche il cinema, a dire il vero, era circondato da miti e anatemi - per anni non seppi cosa era il/la B.B. pronunciato con orrore per spiegare cos’è lo “scandalo”, nell’ora di religione a scuola - ma esorcizzato gagliardamente tra cinefonim e Disney.) Il nome continua a mantenere l’ambiguità, oscillando tra la seriosità del rigore accademico e l’incerta levità delle ballerine da avanspettacolo. Ancor più per le “riviste di cinema”, dove entra in gioco un’altra leggerezza/incertezza, quella del film mai fissato e mai visto davvero (a meno che davvero non si creda - anime belle - che la videoregistrazione diffusa e il fermofotogramma a portata di mano ci diano “di più”, mentre è ancora da inventare se mai qualcosa che ci registri e ci fermi - senza ucciderci - e che insomma mostri come noi funzioniamo nel ci­ nema e da cinema come “siamo cinema” o come lo facciamo funzionare, cioè come lo vediamo/percepiamo). Mi accadde di sottolineare, a quel dibattito, l’inanità delle riviste di cinema (a meno che non siano bollettini altamente specializzati, “specchi” professionali, miniere di notizie specifiche), comprese le punte “teoriche” come i Cahiers du Cznéma, che offrono l’esempio migliore - da sempre - di un lavoro in progresso in­ torno al cinema, ma che se fermati e analizzati - o autoanalizzati, quando gli ac­ cade di “fare il punto” - mostrano anch’essi tutta la loro “arretratezza”, il loro ar­ rancare tra “autorismo” vecchio e nuovo. Ma proprio i Cahiers, col loro Journal (la parte più stimolante della rivista, insieme con gli interventi teorici di un Bonitzer - ma dove è finito Oudart? - che continua a “questionare” le sue “idee ri­ cevute” e “idee formate” sul cinema, e con gli interventi di non-specialistv. ultimi, Deleuze e Virilio), alludono a una realtà evidente: Variety, il grande settimanale 267

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USA di informazione su tutto lo show-business o la semplice lettura di Variety, sono più illuminanti di qualsiasi analisi, sulle “trasformazioni” in atto nello spet­ tacolo e nello spettacolo/cinema. Ogni settimana un assemblaggio di due/tre no­ tizie di Variety ci potrebbe parlare più di un editoriale dei Cahiers o di Filmcri­ tica. E seguire nel giro di venti mesi lo strisciante apparire e Espandersi di nuovi spazi, settori, rubriche, da video a homevideo a videomusic.. Quanto alla diffusione, e ai pianti, è solo questione di razionalizzare e accetta­ re la propria “marginalità mediale” (rivista stampata, poco “sulla cronaca” e quindi oggi costantemente in ritardo, eccetera..). O puntare fin d’ora sulla “rivista-video”, soluzione ovvia e a sua volta ritardata se cercherà d’essere la trasposizione in video della “rivista di cinema”/tipo o se inseguirà - magari senza le informazioni - il taglio pubblicitario o da video-magazine. Ma affa­ scinante se giocata sulla provocazione di un discorso in bilico tra visione e let­ tura, immerso nella scissura che il video apre nella compattezza e irripetibilità di un testo. Ma infine, non per inseguire vecchi miti - scrivere di cinema è come fare un film, eccetera - viatico di impotenza. Scrivere di cinema, fare le ballerine cioè - come in qualsiasi rivista di qualunque cosa, per mostrare di sapere “fare” (scrivere, per esempio; o pensare) o semplicemente (non minore ebbrezza) di sa­ pere - inserirsi col proprio desiderio in un’altalena di desideri che coinvolge autori produttori attori di cinema tutti. Difficile da spiegare e da accettare. Scrivere di cinema non è come fare un film. È molto “sotto” e molto “sopra”. È come aver già fatto un film (il fantasma) o non averlo mai fatto. Soprattutto è un'altra cosa, anche se sempre cosa (cioè friabile e inesistente come ogni og­ getto di desiderio). Allora lo scrivere inane può vivere solo rivendicandosi per sé e non per altro. Scrivere di cinema - e “rivedere” film - come un atto a ma­ lapena tangente, forse anzi fuori dal film, sicuramente inferiore al video e al ci­ nema. Unico modo forse di “farsi leggere” per qualcosa che non sia la pura ri­ tualità di un teatrino (autori-critica-pubblico) che una qualche mossa per ora sospesa potrebbe di colpo annullare o dissolvere. Dar da leggere una differenza che nell’era del video rifiuta il farsi vedere - il far vedere e i macchinari a ciò necessari. Puro software adatto a un hardware anche puramente mentale. Po­ vertà inattaccabile dello scrivere, un foglio e una matita sempre disponibile, appena più complesso del vedere, più artificioso ma nello stesso tempo sicura­ mente più agile del “far vedere” (comprare o noleggiare una “macchina per”.., che sia un super8 o un Betamovie o un proiettore o un faretto o una macchina fotografica; disporli; cominciare; insomma fare set; mentre scrivere si inserisce in o scaturisce da un set sempre aperto, una presa d’energia sempre in funzione e in ogni momento possibile). Il est bien plus aisé de lire que de voir, scrive D’Alembert critico nel Discours préliminaire de iEncyclopedic. Colmare questa differenza di gradi e di “facilità” è compito impossibile della scrittura. Più facile leggere (di) un film che vederlo. E qui si tratta di scrivere qualcosa - che verrà letto - (che verrà letto?) su un film, sui film, sul cinema, su ciò che sta sostituendo o affiancando i film.

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Scarface Scarface di De Palma, per esempio. “È l’organizzazione del cinema - scrive an­ cora Deleuze - a far sì che, per quanto grandi siano i controlli che pesano su di lui, il creatore disponga almeno di un certo tempo per ‘commettere’ l’irreversi­ bile. Ha una chance di estrarre un’immagine da tutti i cliché, e di addestrarla contro di essi.” Alla critica il compito di scoprire il sorgere di tale Immagine, e di estrame la logica. Così Bonitzer, nel 343 dei Cahiers du Cinéma - De Palma che si nega e si reinventa, negando proprio, lui così immaginifico così pieno di imma­ gini, la propria immagine costituita fino a oggi. Con nessun rischio che il riferi­ mento a Hawks possa essere frainteso come quello a Hitchcock (a proposito di Cahiers\ la linea hitchcockhawksiana.., anche se in Italia qualcuno la ricorda male - come una contrapposizione di linee..). Infatti: “Scarface di De Palma non è per niente hawksiano..”, e via con osservazioni di questo tipo. Non c’è dubbio che De Palma ha commesso il suo ultimo film. Grande crimine, insieme di provo­ cazione (alla Cronenberg; quella sega elettrica che balena dopo poco dall’inizio fa pensare a seguiti ancor più sanguinosi e insopportabili, come la testa esplo­ dente subito di Scanners, invece no, resta un terrore atteso e sempre sospeso) e di profanazione (Hawks; ma il movimento iniziale circolare di identificazione in­ torno al personaggio/Pacino si riferisce - più che al finale di Complesso di colpa - alla scena più disturbante de La donna che visse due volte, quando l’amore in­ vece di sciogliere complica e scurisce). Grande discorso smisurato sulla dismisura immaginaria e criminale del capitale. Sulla sua insicurezza. Sul tesoro, la monta­ gna alpina bianca e innocente di cocaina. Droga. Raffinarla, venderla, diffon­ derla. Come il cinema. Come “ogni cosa” se ridotta alla sua essenza e purezza barbara. Tutto è puro e barbaro, perduto nell’attimo di guadagnarsi, in Pacino e in Scarface. Girato benissimo come sempre, l’immagine però si rompe non più in se stessa, in mille specchi, ralenti, giochi e costruzioni di montaggio, di pedali, frenate e accelerate. Qui si va in avanti come un treno, sicuro della fine e della fine, obbligata, convenzionale. Le rotture sono fuori, per la prima volta in un film di De Palma c’è qualcosa d’altro, il cinema nasce perché una tensione oltre lo schermo lo rompe. Se la bomba (con i bambini) esploderà o meno è una que­ stione che spacca lo schermo e il volto di Pacino, rompe la sua traiettoria sicura, dissolve la sua sicurezza/video (il sistema di controllo a circuito chiuso della sua residenza-fortezza). Finalmente si moltiplica l’ambiguità del cinema natural­ mente e tecnicamente ambiguo (qui, in macchina, mentre nasce l’amore con la bella del capo/Michelle Pfeiffer, una combinazione zoom indietro/carrello in avanti o viceversa, insomma un movimento dell’immagine dentro l’ambiguità tecnica; cos’è questo film?). A sua volta il cinema classico ricostruito su Pacino è rotto dal video, cioè dalla cultura/video (cinema + pop). I killer neri e sudameri­ cani che lo sopraffaranno sono quella cultura visiva, capace di pensarsi stupen­ damente anche in cinema (è Carpenter), mentre Pacino/De Palma è in grado di morire/non morire mimando il finale di Arsenal di Dovienko. L'ossessione, più forte della morte. Non so se sia “compito della critica” scoprire il sorgere dell’immagine/Scarface, o “estrarne la logica”. Certo De Palma spinge qui la pro­ 269

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pria ossessione di cinema fino alla ricerca di “totalità”. L’equivalenza droga-de­ naro-potere, che per valere deve per forza mettere in gioco il consumo, funziona anche per il cinema, macchina criminale che si dà da consumare, che se si ferma un attimo non può che chiedersi “è tutto qui, tutto uguale, ancora una volta?” come l’attonito Pacino. Dentro il circolo del denaro si situa anche il cinema, con i suoi Scarface puramente filmici. Da molto tempo (Apocalypse Now?) non si ve­ deva un film americano così complessivamente politico. (Logiche da estrarre, ce ne saranno molte).

Rivista

Dimenticavo, per i significati più classici e meno ballerineschi del termine, il Tommaseo: “1) Il rivedere [..] Revisio. 2) Parlandosi di scritture, dicasi l’Azione del Rileggerle attentamente a fine di correggerle [..]. 3) T. Mil. L’esame che si fa da’ colonelli, da’ maggiori e dagli ajutanti maggiori, dei soldati che debbonsi mandare ad una fazione, ad una guardia, ad una parata, per vedere se nulla manca al loro vestimento ed al loro armamento. [..] D’italianità più antica è Ras­ segna; ma la Rassegna è più esatta. Riconoscere se ci siano tutti; e più per minuto quel che concerne ciascheduno. La Rivista, come suona al vocab. per abbracciare coll’occhio l’intero, vedere come siano sotto l’armi e come si muovano. 4) Da’ Francesi gl’italiani prendono il dt. di Rivista a parecchi giornali, o a una parte di giornale, anche politico, ove promettesi esaminare i libri usciti e le cose operate. Ma certe Riviste traggono, e co’ loro abbagli difendono e rendono più ostinati gli sbagli.” (Ciao, ci rivediamo.) [.Filmcritica, 343-344, 1984]

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Cannes - 1 (Il tempo)

A Cannes si concretizza infine in un oggetto il grande lavorìo mitico di Sergio Leone sul tempo. Non è tanto (o solo) il titolo del suo film, Cera una volta l’A­ merica, a indicare questa centralità del tempo nella produzione di esso. Produ­ zione che non è stata un investimento di tempo (dieci anni spesi nella proie­ zione, il vagheggiamento, la promozione, la vendita, la rielaborazione di un so­ gno di film), ma piuttosto sempre più chiaramente, sul tempo. Nell’epoca della circolazione pubblicitaria, un regista già “cult” come Leone, che si ferma per dieci anni, produce più circolazione del suo nome e dell’aura conseguente che non dirigendo tre o quattro film. Diventa allora francamente indifferente, ri­ spetto al film visto a Cannes, esprimere soddisfazioni o insoddisfazioni, giudizi e analisi. Non perché il film si ponga fuori dal tempo, cristallo inattaccabile; al contrario, perché esso è integralmente nel tempo e del tempo, come se quei dieci anni - più pesanti e significanti dei decenni di storia americana evocati e percorsi nel racconto - si fossero riversati e concentrati nel film con la cupezza liberatoria di un desiderio ossessivo infine sbloccato. La vicenda delle versioni (una di Leone; almeno due della produzione USA, con Leone però ad accennare alle decine di versioni tentate dai “traditori” nelle mo­ viole parigine; l’altra di Leone annunciata per la TV, naturalmente più lunga..), oltre a riproporre il destino dei grandi progetti d’autore (dal Padrino a Novecento ad Apocalypse Now), stretti tra tempo e durata, e tra TV e cinema, e tra regia e montaggio, infine tra fare/sognare cinema nel proprio idioletto e il mostrare il film, è in questo caso parte integrante della fabula del film, interna al suo “nar­ rato”. Già la versione di Cannes sembra piena di “buchi”, dichiarati o leggibili nei presupposti del dialogo. La banale scritta intermission (“intervallo”) che appare dopo oltre due ore, prima che il film ricominci, merita un’occhiata all’Ox/ord Dictionary, visto che cade dopo il fortissimo climax dello stupro in macchina e della partenza di “lei” per l’Ovest: “Pause, cessation; period of inactivity”, e poi naturalmente “(musical selec­ tion during) interval in theatre performance etc.” Segno di vuoto, questa “intermission”, subito colmato dalla proiezione. Ma colpi­ scono le incoerenze, le afasie del film. E sconcerta, rispetto a Leone, lo sparire 271

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del barocchismo di montaggio interno a ogni sequenza. L’allucinazione psichedelico-pubblicitaria (nel senso dell’estetica da spot) secondo cui veniva scandita la sequenza, è ora respinta verso la macrostruttura che è il film stesso. Nella scena è privilegiata l’inquadratura con la sua durata, non la frantumazione osses­ siva in tempi/spazi diversi. Tutto il film invece affonda in questo tempo son­ tuoso, unica costruzione barocca in cui è difficile discemere il prima e il dopo come il capo e la coda, o è (quasi) impossibile capire secondo quale principio si ordinino. Non più quindi la violenza dello spazio distorto in miriadi di inquadra­ ture e in spezzature volute, ma l’insostenibilità della durata, quasi la perfor­ mance scandita dal suono, come nella stupenda sospensione in cui De Niro di fronte a James Woods sul “trono” mescola oltre ogni limite lo zucchero nel caffè con un tintinnio sempre più insopportabile e teso - e infine parodico, già oltre il climax, fino allo scioglimento - nel silenzio assoluto. Andare oltre il climax sem­ bra l’intento continuo del film, secondo linee arcuate che ricadono su se stesse. Evitarlo quasi, il climax; se si pensa che anche narrativamente il climax si tocca naturalmente prima dell’intermission - nel lungo stupro in macchina privo di eroismo, pieno della disperazione di uccidere il proprio sogno. Al suo capolavoro Leone arriva proprio affidandosi a questa debolezza interna, a questa lotta col tempo insostenibile, alle durate dilatate di per sé senza artifici di ripresa e di montaggio. Una sorta di disfarsi mahleriano, in contrasto violento con la volontà pomposa di fare epica che traspare purtroppo in ogni scena, in ogni dialogo, in ogni sottolineatura quasi ridicola della musica. H fare grande si avvera allora solo nel fallire, nel ridursi allo sguardo opaco sul proprio sogno, alla distensione oppiacea e insensata del sorriso finale schermato di De Niro, in­ quadratura totalmente ambigua che potrebbe situarsi (collegando tempo e abbi­ gliamento e acconciatura) nel cuore mancante del film (intermission) o anche al­ l’inizio come a preludio di un lungo incubo prima della morte violenta che il film risparmia al soggetto (si sa che un soggetto già morto - Wilder/Holdem permettendo - difficilmente narra, anche se le visioni dei morenti, magari in quella fumeria incantata completata dalle ombre cinesi..). Questa inquadratura finale non si libera dal tempo, e anzi tutta l’ultima parte del film sembra inge­ gnosamente ribadire che, quale che sia il lavoro del film, quale il suo montaggio, nulla accade davvero, e i personaggi si inchinano solo a un tempo lineare e natu­ rale, quello che li fa invecchiare tutti e quattro, i principali (includendo oltre a “lei”, De Niro e James Woods, anche Treat Williams il sindacalista, sicuramente sacrificato nel montaggio “attuale” - definizione evanescente e impropria, visti i tempi delle riviste e le vicissitudini del film; sostituiamo allora il dove al quando e ridiciamo “di Cannes”). Per quante morti vengano messe in scena e tentate e si­ mulate (De Niro/soggetto fin dall’inizio; James Woods cadavere sospeso per tutto il film; Treat Williams martoriato e sparato a ripetizione; lei violentata), loro arrivano fino in fondo, indifferenti alle giravolte della fiction, obbligati a ri­ trovarsi tutti in scena. E anche qui, dopo l’ultraviolenza terrorizzante dell’inizio, le scene “d’azione” successive sembrano più vuote, leggere, quasi arcadiche, sem­ pre configurate in promessa e allusione più che in svolgimento effettivo; quasi pudiche. (Una forma di aggressione iniziale praticata nell’horror dello Scanners di Cronenberg, e in un film quasi speculare rispetto a quello di Leone, lo Scarface di De Palma.) 272

Dissolvenze/Sovrimpressioni

Hitcbcock-uno E prima di penetrare ancora dentro gli enigmi dei cinque film più “belli” di Hit­ chcock» è bene sentire di quale bellezza si tratta, anch’essa ancorata da Hitch­ cock in ciò che più passa e più resta, più è e meno esiste, il tempo. Sospendere la visione dei cinque film che in questo 1984, superati gli scogli legali, arrivano su­ gli schermi e in futuro bucheranno i televisori, è stato infatti da parte di Hitch­ cock, ben aldilà di qualsiasi intento venale (più volte dichiarato; ma natural­ mente in gran parte “estinto” dalla morte), la creazione volontaria e cosciente di un tesoro, di una cassetta di gioielli interrata e nascosta per una piccola eternità. E tesaurizzare oggi, attendere e sospendere la dépense, è in generale socialmente più “batailliano” dell’apparenza di spreco e di spesa secondo cui nomi e oggetti si dipanano nel mondo e sui mercati. Supremamente hitchcockiani, i cinque film tendono così anche nella loro vita di og­ getti fino all’inverosimile il meccanismo della sospensione che gli è interno. La vi­ sione impedita, grande tema hitchcockiano (ricordare II sipario strappato) obbligata al ricordo, alla costruzione del mito, alla profanazione piratesca. Voyeur impotente e immobile, ininfluente rispetto agli oggetti del suo desiderio, lo spettatore-cinefilo è come James Stewart di fronte alla finestra sul cortile, costretto solo a guardare ciò che gli è possibile vedere in quel quadro quando appare (e significativamente pri­ vato dalla sceneggiatura delle sue armi di registrazione fotografica..). E questi film di Hitchcock letteralmente “vivranno” (e moriranno?) due volte in una vertigine di attese e rimandi. E l’uomo che sapeva troppo è lo spettatore che fin da bambino si porta in cuore e negli occhi il ricordo netto di quella scena iniziale in cui Stewart sente qualcosa che il bambino non sentiva. Aver aperto nella storia del(la visione del) cinema questa falla, questa mancanza di sé per tanti anni, è il segno ultimo della genialità hitchcockiana, tesa tra il ca­ davere presente e invisibile di Nodo alla gola - Cocktail per un cadavere e l’assas­ sino assente di La congiura degli innocenti. A rendere più misterioso il riaffiorare, più sinistramente dorato il gesto dell’oc­ cultamento, ecco poi, nello stesso anno, negli stessi mesi, la proposta televisiva dell’agghiacciante documentario inglese girato nel 1945 nel campo di concentra­ mento di Bergen-Belsen, quello con i kapò e le SS obbligate dalle autorità alleate a seppellire in pubblico e di fronte alle cineprese i corpi del loro crimine. Ultimo relitto hitchcockiano, seppellito fino a oggi in un archivio. Hitch aveva collabo­ rato al montaggio, raccomandando di “tagliare poco” perché non si pensasse a un montaggio, perché si capisse che era “tutto vero”. Tre anni dopo, con Cock­ tail per un cadavere, avrebbe mostrato quanto lo stesso procedimento può fin­ gersi e mentire.

[Filmcritica, 346, 1984]

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Dissolvenze/Sovrimpressioni

Citizen Zelig

Nel cinegiornale che dopo il trespassing iniziale illustra la vita pubblica del citta­ dino Rane, in Quarto potere, c’è tra le altre truccherie del gusto di proteo wellesiano l’affacciarsi a un balcone di Welles/Kane a salutare la folla (non vista) in­ sieme con Adolf Hitler. Sembra chiaramente (è) un falso Hitler, una controfi­ gura. Non c’è trucco dentro l’immagine, salvo quello pesantissimo di Welles in­ vecchiato e appunto il simil Hitler. Dopo Zelig m’è venuta la voglia di control­ lare, di passare e ripassare la breve inquadratura nel tempo esausto della mo­ viola. Non per confermare in Zelig la citazione wellesiana (chi può non citare Welles?) ma per cercare le tracce di una stessa ambizione, l’incunabolo di un germe da cui Alien appare ormai felicemente infettato. Zelig come parodia di Kane, anche. Da Melville a Welles. Il trasformismo di Alien esaltato in quello di Zelig, ombra di quello originario di Welles. Dopo pochi minuti del suo primo film, e interpretando lo stesso personaggio, Welles ha già assunto una decina di aspetti ed età diverse. Introduzione alla sua ambizione di esistere, Citizen Kane come ogni suo film. Il suo corpo d’attore pre­ sente non è il marchio, il segno stesso della cancellazione come in Hitchcock dove il corpo-regista interviene a firmare sempre uguale (pari alla silhouette dei suoi telefilm). Star, clown che entra piroettando in campo, Welles prepara sem­ pre straordinarie epifanie di se stesso, costruendo nel tempo, tra i suoi film e quelli in cui solo appare, un gigantesco monumento al proprio narciso. Ma il trionfo inebetito e attonito dell’immagine di sé nella scena degli specchi di La si­ gnora di Shanghai non fa dimenticare che la sua prima apparizione nel cinema è dentro una silhouette nera da ombra cinese, poi morente, poi morto, Rosebud e così sia. Posto il suo cinema sotto il segno dell’enigma mascherato e occultato nella forma mutevole del corpo, manifestato nell’energia vitale e mortale che lo anima, Welles si ingegnerà a raccontare Shakespeare e storiacce spy o noir di serie B come se fossero la stessa cosa: frammenti folli generati nella rottura di una sfera, imma­ gini uscite ingiustamente all’aperto “morendo”, espulse dal vuoto spinto dell’imma­ ginazione; storie immortali già raccontate e già note in cui ciò che conta è la forma che assumono all’occhio che le divina: la voce con cui sono narrate, il soggetto (ma­ gari fuoricampo) che decide di dire “io”, il corpo che lo incarna. Meno lirico, meno dolorosamente e orgogliosamente “cinema”, Alien con Zelig 274

Dissolvenze/Sovrimpressioni

concentra ugualmente la propria immagine in una fissazione della dispersione, im­ broglia le carte in modo splendidamente wellesiano (F for Fake). Né finzione né simulazione (per riprendere la dicotomia baudrillardiana, un po’ stanca e prete­ stuosa), ma, come ogni volta che una delle due riesce, un incontro, una contami­ nazione: fingere di simulare, e viceversa. Trionfo della “possibilità” formale, del­ l’epifania improvvisa. Broadway Danny Rose conferma una ripartenza, e l’isti­ tuirsi di una nuova non lieve scissura nel cinema americano. Non più “mostro” di comicità a-filmica o prefilmica, Alien produce “mostri”, gioca coi corpi in una plastica libera e scatenata, forse (in futuro) come quella dei suoi giochi di parole, dei suoi mots e dei suoi wiz. Mia Farrow sua moglie (attrice intellettuale) diventa un’italoamericana grassa e goffa, stupidotta. H film poi resta nella conferma, si chiude nell’ammiccamento, nella leggerezza facile alla Manhattan, ma Alien-ci­ nema è ormai contaminato da Zelig, Io e Annie (in Zelig lo si capiva) non po­ trebbe più avvenire in quel modo splendidamente in bilico tra piccolo neoreali­ smo newyorchese e nouvelle vague. Né Annie Hall, né Woody Alien, né Mia Farrow né Diane Keaton; Annie Hall, Zelig, Broadway Danny Rose, semplicità del titolo-nome, indice del soggetto che si finge e simula (quanta finzione, si sa, nella frase “Madame Bovary cest mot*', quanto dolore, ma anche quanto piacere, a morire come Kane, a vivere come Zelig). Maestro d’ombra Ho già dimenticato, e prima non me ne ero accorto, i particolari che ribadiscono con quanta cura, intelligenza, passione, Val Lewton avesse intessuto le immagini del suo ultimo film RKO, quel Bedlam (trasmesso a luglio su Raitre per il ciclo “Lo specchio scuro - Val Lewton maestro d’ombra”) di solito ritenuto un po’ freddo, meccanico, perfettamente in costume e d’epoca ma poco “lewtoniano”. Naturalmente, è stato alla visione ultima prima della trasmissione (il ciclo era da me curato) che me ne sono accorto davvero, che sono uscito dalla pigrizia della visione, dalla sicurezza del giudizio. Come gli altri horror RKO di Lewton, Mani­ comio soffre del disinteresse drammatico di Lewton; della sua noncuranza verso il progredire drammatico dei corpi e dei volti sul set, verso la recitazione, in defintiva. Non è un invecchiamento dei procedimenti narrativi. Anzi. La struttura a scene chiuse, quasi autonome e indipendenti, è modernissima, tra il telefilm e il video. Ma il segnale è troppo “rigoroso”, troppo intelligentemente fondato sul vuoto/pieno dell’oscurità e delle ombre; troppo simili, i film di Lewton, a docu­ mentari astratti sulla paura (apparentemente il contrario del trucco fantastico che oggi copre tutto il cinema americano, horror fantascienza avventura perfino commedia - Un lupo mannaro americano a Londra, Ghostbusters -, mostrando il corpo doppiato decomposto ricomposto sformato giocato e “visto” fino al mira­ colo delle cellule mutanti di La cosa). Le “figure” di Lewton sono già retorica an­ che quando danno la fisicità della paura, i suoi attori quasi anonimi sono già re­ plicanti (il cinema è dei replicanti). E in questo senso l’apparizione traumatica, imposta dalla produzione nei suoi ultimi film, di un corpo e volto caratteristico, e proveniente dalla molto meno impalpabile stagione visiva dell’“espressionismo americano anni trenta” alla Whale, come quello di Boris Karloff, è intrigante. 275

paura e desiderio

Da una parte Lewton è costretto a condensare intorno a lui buona parte del rac­ conto, e addirittura - con uno spostamento che a posteriori appare programma­ tico - porta in Europa (Scozia, Grecia, Inghilterra, La iena, Il vampiro dell'isola, Manicomio) l’ambiente della fiction. Dall’altra l’Europa che già contaminava di sé l’America horrorlewtoniana con le sue tradizioni transilvaniche (e lo stesso Lewton è russo) è un set totalmente immaginario anche in rapporto alla storia del cinema. Se espressionismo ha da essere, non è quello filmico UFA ma quello bòckliniano (Il vampiro dell'isola). Se Scozia ha da essere, che sia quella nebbiosa astratta invisibile dello Stevenson che indifferentemente poteva scrivere storie scozzesi americane di pirati di mari del sud di mitteleuropa. Ma Manicomio appare più impostato, più “serio”, volutamente serio, quasi foucaultiano (oltre che antinazista) nell’assunto sociopolitico. Non per la solita regia quasi anodina di Robson. Proprio per il tema e per la maniera quasi illustrativa e didascalica (prerosselliniana) dell’esposizione drammatica di esso. Premonizione di un cinema futuro del Lewton da sempre “preoccupato” della società (Youth Runs Wild) e desideroso di abbandonare quello che avverte come un ghetto di genere. E, dentro questa esposizione appunto quasi rosselliniana, l’evidenza con cui la meccanica degli effetti viene sovvertita, mostrata e svelata, infine rigiocata. Un’analisi di tutto il film lo mostrerebbe nei dettagli. Li ho notati - dicevo - ri­ versando il film, o meglio controllando il riversamento da telecinema su nastro Ampex prima della trasmissione. L’ultima visione nell’iter tecnico-burocratico di una pellicola in TV, in Rai. Quella in cui si sta attenti che i rulli non vengano in­ vertiti (difficile che accada), che non ci siano sganci, salti, rotture, “scrosci”, “ru­ mori” elettronici, eccetera; insomma si pre-vede l’immagine che andrà in onda. Una visione alienata per eccellenza, visione che è lettura/ricerca di eventuali di­ fetti tecnici, attenta solo a ciò che può mancare, venir meno; o infine attenta a una qualità ultima e puramente e supremamente “formale”, qualità della sostanza/nastro, dell’apparire visivo di un’immagine che è comunque un po’ (scope a parte..) “riquadrata”, riformata, limata e livellata in TV. Lì spesso mi succede di “scoprire” un film, di leggerlo di più, invece che di “vederlo”. Forma acuta e “cen­ soria” di televisione, questa visione astratta si muta spesso in lettura essenziale, come quella che porta a capire di più come è fatto un film quando gli si toglie l’au­ dio, quando si elimina la cerniera sonora. Qui a eliminarsi è l’obbligo del godi­ mento o della soddisfazione nel capire e seguire la storia. Così infine, in Bedlam, poco dopo l’inizio, quando dopo il primo fatto delittuoso notturno nel manicomio c’è la prima vera “apparizione” in piena luce del volto malefico e pauroso di Kar­ loff, il suo primo manifestarsi: siamo nell’anticamera di un nobile, il perfido mastro Sims/Karloff è seduto in attesa, inquadrato quasi distrattamente, in campo lungo quasi. E volto è lì, lisciato, quasi ovvio, non pauroso (per tutto il film Karloff è va­ nitoso, si cura d’aspetto, si mette e toglie la parrucca..). Neanche si nota. E il primo moto étrange, fantastico se non proprio terrorizzante, è quando Karloff stesso spa­ venta il simpatico negretto servitore che gli fa compagnia nell’attesa mostrandogli riflesso nello specchio il suo volto di bambino colorato quasi buffo. Primo piano del volto del ragazzo nello specchio prima sorridente poi impaurito. Uno specchio, sempre, è più oscuro di qualsiasi volto di qualsiasi Karloff.

[Filmcritica, 348-349,1984]

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Specchio per il corpo senza radici

Ripetizione: nel giro di quattro pagine del suo primo libro (1953), Empirisme et subjectivity (“saggio sulla natura umana secondo Hume”) Deleuze cita due volte una stessa frase dai Dialoghi di Hume: “Perché un sistema ordinato non potrebbe essere tessuto dal ventre come dal cervello?” E Deleuze parafrasa e chiosa: “Per­ ché prendere come base dell’analogia l’attività tecnica dell’uomo invece di un al­ tro modello operativo, né più né meno parziale come per esempio la genera­ zione o la vegetazione?” Di lì, la messa in scena finzionale e la proliferazione combinatoria marcheranno tutti i suoi libri successivi, ogni volta concepiti come “rottura” del proprio ab­ bozzato e già superato sistema, fadmento/disfadmento di un’opera. E, più di vent’anni dopo, quello vegetale diventerà davvero un modello operativo deleuziano (fare rizoma, non mettere radici, insegna e motto del periodo di lavoro a due con Guattari). Nello stesso periodo (tutti gli anni settanta), da L’anti-Edipo a Mille Plateaux, il cinema si afferma come sistema di riferimenti dtazioni evoca­ zioni per tutto il discorso deleuziano, il Dietro lo specchio di Nicholas Ray e i primi piani di Bergman fendono la compattezza dei vari “saperi” spedalisdci. Ma da sempre il dnema appariva lo specchio lontanissimo e ideale, il limite/superfide “richiesto” da Deleuze per lo stesso espandersi del corpo filosofico “senza or­ gani”. Quasi superflua la chiarezza della nota di Deleuze (del 1974) all’edizione italiana de La logica del senso (1969): “(..) due superfìd coesistono, con due storie contigue - e si direbbe che queste due superfìd si arrotolino in modo che si passi da una storia all’altra, mentre scompaiono da un lato per riapparire dall’altro, come se il gioco degli scacchi fosse diventato sferico. Ejzen&ejn parla in questi termini dei dipinti a rotolo giapponesi in cui vedeva la prima approssimazione del montaggio cinematografico: *11 nastro del rotolo si avvolge formando un ret­ tangolo! Non è più il supporto ad arrotolarsi su se stesso, è dò che vi è rappre­ sentato che si arrotola sulla propria superfide*.” Aggiungendo, di sé e Guattari: “In due, vorremmo essere l’Humpty Dumpty della filosofia, o il suo Stanilo e 01lio. Una filosofia-cinema.” Sul dnema; la prefazione di Differenza e ripetizione era - fuggevolmente - an­ cor più programmatica: “Si avvicina il tempo in cui non sarà più possibile scri­ vere un libro di filosofìa come se ne scrivono da un pezzo (caro, vecchio stile!). La ricerca di nuovi mezzi d’espressione fu instaurata da Nietzsche, e deve es­

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paura e desiderio

sere oggi proseguita in relazione con il rinnovamento di altre arti, quali il tea­ tro o il cinema”. E soprattutto l’appello al genere della cultura “popolare/sofisticata”: “Un libro di filosofia deve essere da un lato una specie particolarissima di romanzo poliziesco, dall’altro una sorta di fantascienza. Parlando di ro­ manzo poliziesco, vogliamo dire che i concetti devono intervenire, con un’area di presenza, per risolvere una situazione locale Devono avere una coerenza tra loro, ma questa coerenza non deve venire da loro, altra essendo la parte donde hanno da attingerla. Questo è il segreto dell’empirismo. L’empirismo non è affatto una reazione contro i concetti, né un semplice appello all’espe­ rienza vissuta. Esso instaura al contrario la più folle creazione di concetti che mai si sia vista o intesa”. E se l’introduzione di Foucault (Theatrum Philosophicum) allo stesso Differenza e ripetizione conclude: “È la filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno”, non è difficile vedere come un pensiero/cinema fosse il limite già presente evocato, come il cinema potesse essere il luogo in cui proiettare o rive­ dere le ipotesi varie di theatrum mundi, arena mentale per un gioco di simulacri filosofici in cui porre sullo stesso piano - non solo per paradosso, ma col “con­ forto” dell’empiria - il reale e la realtà, l’immaginario e il simbolico.

Parlare il cinema

In questo senso l’apparizione del primo volume del Cinema di Deleuze è folgo­ rante, depistante. Riconoscendo il cinema come oggetto privilegiato, Deleuze slitta subito, si sposta impercettibilmente: non è l’esplosione del riconoscimento, piuttosto il discorso implode nell’agnizione. D filosofo che più di ogni altro sembrava scriversi direttamente come “cinema”, strutturalmente (negli anni settanta Altman poteva ben sembrare un’appendice filmata alla Logica del senso..), compie oggi un gesto sottilmente diverso nomi­ nando e parlando apertamente il cinema. “Io faccio, rifaccio e disfaccio i miei concetti a partire da un orizzonte mobile, da un centro sempre decentrato, da una periferia sempre spostata che li ripete e li differenzia.” Differenza e ripetizione, ancora; e non è forse, oltre che un testo-chiave, un titolo perfetto per il funzionamento della macchina/cinema (e scritto nel 1968, anno che è infine, in cifra, il rimescolamento di quel 1896 che vide la prima proiezione dei Lumière)? la ricomposizione del tempo operata dal cinema mediante la scomposizione/sintesi di istanti qualsiasi (Deleuze), il gioco delle serie di foto­ grammi, non è questo “titolo”? Più che parlar di cinema Deleuze comincia a per­ correrlo e parlar/o. Il “movimento” è già l’atto di parlarlo, in una curiosa assenza di teoria. La bellissima e semplicissima prefazione di questo volume. L’immagine-movi­ mento, parte da una degenerazione (“non è una storia del cinema”) e promette una tassonomia, un tentativo di “classificazione delle immagini e dei segni”. Na­ turalmente, questo tentativo di classificazione sarà in qualche modo una storia. 278

Specchio per il corpo senza radici

Una “storia del tempo”. Una storia del cinema come tempo. Per questo l’intrapresa di Deleuze è qui sotto il segno di Bergson (già studiato e amato), prolungandone la “tesi profonda del primo capitolo di Matière et mémoire: 1) non ci sono solo delle immagini istantanee, cioè sezioni immobili del movimento; 2) esistono immaginimovimento che sono sezioni mobili della durata; 3) ci sono infine immagini-tempo, cioè immagini-durata, immagini-cambiamento, immagini-relazione, immagini-vo­ lume, al di là del movimento stesso..” (notiamo, a proposito di “storia” - o di “cro­ naca” - che Matière et mémoire è scritto sempre nel 1896..). Se quindi il gesto è di per sé teorico, l’attraversamento del tempo-cinema è empi­ rico, multiforme, attento da una parte fin troppo alla “storia del cinema” codifi­ cata (Griffith-Ejzenàtejn-Antonioni..), dall’altra a tutti i momenti d’autore che la pratica cinefila ha rinvenuto fino a oggi (da De Mille a Anthony Mann, da Roh­ mer a Michael Snow, da Hitchcock a Fuller, da Altman a Wenders..). Le classificazioni sono rapide, non un’imposizione strutturale di griglie, ma esse stesse maschere abbozzate (sia che si tratti del montaggio: organico/attivo-cinema americano; dialettico-sovietico; quantitativo-psichico-francese; intensivo-spirituale-tedesco espressionista; o dei tre tipi di immagine-movimento: l’immaginepercezione, il totale: l’immagine-azione, il campo medio: l’immagine-affezione, il primo piano) di diversi modi di giocare il tempo filmico. L’analisi spaziale è sem­ pre analisi del tipo di “tempo". Ciò in fondo spiega quella che sembra una curiosa arretratezza/regressione, un appiattimento deleuziano sulla francesissima “teoria degli autori”, magari nella nuova veste improbabilmente riscoperta oggi dai Cahiers du Cinéma (il referente teorico privilegiato da Deleuze, all’interno di un quadro comunque molto fran­ cese). Autori - e singoli film - come fantasmi e come oggetto di passione (dichiarata nella prefazione), autori provocatoriamente come pensatori, punti di riferimento necessari per definire uno spazio del cinema che è stato, constatazione empirica delle varie possibilità di discorso, al di là dell’erre^ parlato che il cinema è più di qualsiasi lingua (del resto, l’inquadratura si può paragonare più “a un sistema in­ formatico che linguistico”). Non è questione di “superare” Metz o altri, ma di evitare la trappola linguistica (all’inizio almeno: chi vorrà., potrà sempre chiudere il circolo ermeneutico). Au­ tori quindi come cow-boy del cinema, indicatori di letture possibili che dietro le griglie lasciano sempre leggere altre possibilità, altre dicotomie, altre classifica­ zioni (gli elementi naturali, la gassosità, l’acquaticità per es., l'acqua nel cinema francese..). Non un impossibile discorso sul soggetto (impossibile). Resta aperto Bazin, e Lacan resta come vuoto di una teoria possibile, magari in chiave di “og­ getto a-minuscolo”.

Vedere il tempo

Deleuze lascia poi soggiacere contraddizioni dei testi filmici, è queste contraddi­ zioni: la distanza è solo nella cauzione generale teorica che pesa sul tutto: quel 279

paura e desiderio

discorso del tempo, quel dibattere tra Alon e Kronos che già produceva la logica del senso. L’apparenza di valore d’uso (ci dobbiamo preparare alle citazioni più sfrenate, agli accademismi?), le classificazioni e i riferimenti puntuali e luminosi ai film, l’empirismo, non possono far dimenticare questa attesa costante, lo spettro dell’immagine-tempo. Perfino l’ottusità che parrebbe l’assenza nel libro del video, della televisione (ep­ pure si parla di un Sidney Lumet..), è invece il pregio di una chiarezza di sguardo, di sguardo sullo sguardo e con lo sguardo, che implica già il vedere di oggi, senza bisogno di comode video-sociologie dei simulacri alla Baudrillard. “Come è detto nei Misteri di Shanghai-, tutto può succedere in qualsiasi mo­ mento..” “Bisogna forse intendere che, secondo Bergson, il cinema sarebbe sol­ tanto la proiezione, la riproduzione di un’illusione costante, universale? Come se si fosse sempre fatto cinema senza saperlo? Ma allora, si pongono molti pro­ blemi.” Deleuze lascia poi soggiacere nascosta questa incertezza iniziale, “storica” forse metafisica. Il suo merito è di ripartire da zero, dalle “origini”. Lumière eccetera.. Come dovesse cautelarsi, essere pedagogico, didattico. E continua a farlo per tutto il libro, come se tutti i suoi libri futuri dovessero essere aU’intemo di una serie nominata “cinema”. Così, parla di Hitchcock e di Dreyer, e di Renoir e Bresson, e legge nei più artificiosi colori delle stoffe dei kolossal storici ameri­ cani il segno di un vedere il tempo. Tra “micro” e “macro”. Intanto, l’occhio si sposta. “In altri termini, l’occhio è nelle cose (corsivo nostro), proprio nelle stesse immagini luminose.” “La fotografia, se fotografia vi è, è già presa, già scattata, all’interno stesso delle cose e per tutti i punti dello spazio..1* (Ber­ gson) “Per Bergson (..) sono le cose a essere luminose di per se stesse, senza nulla che le rischiari.” Entrare nel cinema è allora rientrare nel mondo, nello stesso mondo in cui ogni rappresentazione è fallito. Analizzare film e autori è seguire alcune articolazioni morali del vivere/vedere; pienamente anche se attraverso la maggior ossessione possibile, il cinema, “la più folle creazione di immagini-tempo-concetti”, nel quale i cineasti “pensano il mondo”. Come se davvero (per riprendere il titolo originale del Dietro lo specchio di Ray) il cinema fosse “più grande della vita”, bigger than life.

[il manifesto, 5 aprile 1984]

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The Changing Man

Zelig non è Zelig. Come Woody Allen, nel film, non è Woody Allen. E probabil­ mente neanche il cinema è il cinema, per Alien. Zelig non è più cinematografico degli altri film di Alien, ma è d’improvviso il più alternano, quello capace di mo­ strare nuda la cifra fondamentale del suo cinema. Nel suo film più bello fino a oggi, lo e Annie, Alien si mostrava - nel solito ruolo di intellettuale - avido spet­ tatore (“buff”) di Le chagrin et la pitie, il grande “documentario” di Marcel Ophuls sul collaborazionismo francese “diffuso”. Nello stesso film - anzi, se ri­ cordo bene, nello stesso cinema dove si proiettava l’Ophuls, nella hall della sala - compariva Me Luhan, il teorico del villaggio globale e del mezzo-messaggio. Almeno due segni in uno, per quanto sempre vicini a quella che sembrava la ma­ nia sublime di Alien e insieme il suo limite, il tic della strizzata d’occhio, per forza di cose non troppo filmico: ogni battuta e ogni riferimento culturale un oc­ chio che si chiude, a volte tutti e due gli occhi chiusi come in un inebriante ma fastidioso starnuto cinematografico. Oggi Zelig quei due segni li chiude perfetta­ mente in uno stesso circolo e di colpo rivela o meglio sposta il cinema di Alien: dal trionfo del profilmico (il suo tipo di comicità) all’ambito metafilmico. Saltato sembra essere il cinema, il film stesso. Progetto geniale, vicino alle imprese totali del cinema fantastico più avanzato, da Shining a The Elephant Man/Eraserhead, da Hitler, ein Film aus Deutschland a Fitzcarraldo (a Tarkovskij), Zelig è un film “mancato”. O un film che non trova la sua forma, soprattutto non trova la sua durata. Zelig infatti non è (solo) uno Zelig, non è un film che esiste in quanto mu­ tante, in quanto ente in cerca di forme da assumere. Costretto alla misura holly­ woodiana e mondiale del lungometraggio economicamente sfruttabile, disperde la sua forza di folgorante “falso documentario” di venti minuti in un inventario di situazioni e in una drammatizzazione infine rettilinea e chiusa che fanno rim­ piangere allora il serial potenziale, la grande epopea di durata televisiva, o il film di durata folle quasi non mostrabile e visibile intero. Come tutto il cinema che punta “alto” o che semplicemente “riesce” (da sempre), Zelig finisce per parlare di cinema. Ma subito di un cinema che non è il fantasma dell’essere, il modello di un mondo retto dal demiurgo e crudelmente attraver­ sato da passioni che appaiono tanto più “vere” quanto più sono mimate. Di que­ sto, Alien aveva già “parlato” in brevi scene di Stardust Memories, film certo più avanzato esasperante lancinante di Manhattan’, l’attimo “vero” che si vive e si 281

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perde, momento di emozione e di compimento di cui poi si potrà ridere (alla Bataille) almeno quanto piangere, estasi forse del semplice guardare istantaneo oc­ chi che ti dicono amore e che tu dici-riconosci mentre te lo dicono. Eccetera. Era l’emergere di un nocciolo duro o di un punto scuro, sotto o sopra o dentro la chiarissima verve colta delle battute e delle gag. In Zelig lo schermo dell’at­ timo è superato, non a caso in qualche modo si è già nella “storia”, dentro il tempo già registrato, lo has been del documento storico. Non totalità imprendi­ bile di un attimo insensato, ma progetto teorico che lavora sulle forme prodotte dal cinema-linguaggio totale e sulla sua forma stessa. Il truccaggio è allora indif­ ferentemente del corpo e della pellicola, del presente di Alien (il suo corpo di at­ tore) e del passato della cronaca storica filmata. Doppiezza e identificazione ge­ niale, spiazzamento che spiega tanti iniziali stordimenti e fraintendimenti da parte anche di spettatori smaliziati (a proposito dell’identità di Zelig, del suo “es­ sere esistito”..), e infine gioco che ha perfino il “gusto” - eccessivo, troppo illu­ ministico e cortese - di interrompersi, di darsi già come risultato. Eppure Zelig è in marcia. Non si può evocare impunemente la forma impossibile e già parodistica (parodia lacaniana?) di un.. Altro deU’^Z/ro. Oppure, più sempli­ cemente, non si può infettarsi della “cosa” carpenteriana, del principio di mute­ volezza delle forme su cui palesemente si fonda il cinema di oggi, attratto e ter­ rorizzato dal corpo fino al punto di metterlo in scena continuamente come og­ getto del racconto e insieme di torturarlo sminuzzarlo mutarlo scrivendo su di esso il racconto e facendone clessidra del tempo che passa. O anche, non si torna indietro dopo aver trasparentemente evocato numi e nomi “totali” e significanti come il Melville di Moby Dick (e ovviamente del Confidence Man, straordinario Zelig fluviale e western, uomo-riassunto della cultura occidentale, uomo-fin­ zione di tutti i saperi e di tutte le identità) e Leonardo da Vinci e William Selig (credo), il produttore che scopri Hollywood come luogo “adatto” al cinema. Il film successivo di Allen, Broadway Danny Rose, cod “piccolo”, così simile ai pre­ cedenti, così digeribile, incantevole come sempre e così poco incantato, mette in scena però la “donna” di Alien, Mia Farrow, ingolfata in un incredibile imbruttimento travestimento mascheramento. Un donnone di origine italiana, un corpo sformato, un viso pacioccone. Non fellinismo (Fellini con Bergman, numi alleniani: Persona, La dolce vita, Otto e mezzo, riferimenti precisi..), non scelta di realtà “eccessive” da rivivere visionariamente, da sognare, sognate e infine “tro­ vate” picassianamente. Alien “cerca”, è costretto a cercare. Sta quasi reinven­ tando il (suo) cinema. Crea mostri, li mette in pista, sa di esser lui stesso un mo­ stro, un corpo prodotto da grandi esperti di effetti speciali. E il suo Leonard Ze­ lig ha il pregio, rispetto ad altri tentativi di dar forma a un principio astratto di proliferazione incontrollata delle forme dell’apparire e del vedere (la vita-ci­ nema!), di essere - come Stanilo e Ollio o la testa che cancella - un idiota.

[IlPatalogo, 7, 1984]

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Gli occhi di Coppola

Uno e due. Non siamo più alla scissione cosciente tra “conversazioni” e “pa­ drini”. E già “accaduto” Lucas. Non è così facile, con le coppie autore/produttore, person ale/di successo, bianco e nero/colore. Sempre più avanguardistico, Coppola mescola tutto, in bilico sul 1984. Divide et impera, il progetto è unico. Stessa fonte dei soggetti, stessi attori principali, storie e personaggi diversi ma stesso ambiente. Il fascino stranissimo di I ragazzi della 56* strada (The Outsiders) e Rusty il selvaggio (Rumble Fish), il loro essere uno e due, gli Stanlio e Ollio del cinema anni ottanta di solito diviso in tanti frammenti, in tanti oggetti e progetti diversi ma uniti dal loro volersi uno per uno definitivi, esaurienti, complessiva­ mente ambigui, “ultimi”. Ecco invece un dittico che - preso come “uno e due” appunto - è forse il capolavoro di Coppola. Audace come Un sogno lungo un giorno, ambiguo e riassuntivo come Apocalypse Now, “americano” come II pa­ drino, privato come La conversazione. E continuando con la storia del cinema ri­ vista: qui dai ribelli senza causa di Nicholas Ray alle avanguardie storiche anni venti e trenta con più Kammerspiel che Espressionismo. Inventando i due volti giovani in assoluto più affascinanti di tutto il mondo cinema USA: Matt Dillon e Diane Lane. Il suo serial, Coppola lo sintetizza in due sole puntate, mirando pubblici radicalmente diversi. E le distanze dei due film affascinano e stregano non meno delle vicinanze. Confermano una svolta in atto nel cinema non solo americano. U cinema come make-up, trucco facciale, ridisegno e accentuazione di certe linee certe luci certi corpi, importante quanto gli special-effects e visualeffects che da anni stanno costituendo il nuovo corpo del cinema. (Il ruolo di un personaggio come Dean Tavoularis nel cinema di Coppola, ben oltre il credit “tecnico” di “scenografo” è da verificare e dimensionare, come quello di uno Scarfiotti; in epoca poi di trionfo della “regia-scenografia” di un Ridley Scott e dei videoclip più riusciti.. ) Naturalmente, il trascorrere di Matt Dillon da I ragazzi della 56* strada a Rusty il selvaggio è stato interpretato come la salvazione resipiscente dell’autore Coppola dopo l’abile operazione “di mercato”. Estasi, addirittura, di fronte alla grazia e all’incanto del pesce rosso che si staglia nel bianco e nero. Poi: un po’ di esisten­ zialismo che fa un po’ più Europa che non Tulsa-Oklahoma, inquadrature a sghimbescio e molte variazioni di focale con uso “strano” del grandangolo, luce “tedesca”, montaggio ellittico, Dennis Hooper nel ruolo del padre (!), la colonna 283

paura e desiderio

sonora di Copeland/Police, la telecinesi del corpo di Matt Dillon levitante.. In­ somnia, lo sfrenamento della libertà d’autore - pur “raccontando una storia”.. dopo l’ossequio alle costrizioni di un mercato di ragazzini sgranocchianti pop­ corn. Quasi vero. Se non fosse che Rusty il selvaggio è la complicazione ulteriore, la visione perversa di un tableau già in partenza assolutamente inquietante. Per­ versa in quanto visione, in quanto introduce un occhio secondo dentro il primo film scompaginandolo e smontandolo, sdoppiandolo. La struttura del dittico permette a Coppola di superare i propri limiti di “concentrazione” (quanto hanno da invidiare i Lucas ma anche e soprattutto gli Schrader, in questo senso), la propria perenne relativa incapacità di “montare” e di “chiudere”; i due film appaiono superbamente chiusi, aperti solo integralmente l’uno sull’altro, imper­ niati e incernierati sullo stesso bordo, fogli successivi di un libro illustrato, o specchi disposti a libro. The Outsiders è della memoria, del ricordo concluso; Rumble Fish, ovviamente, del sogno. Ma è la compattezza mèlo di The Outsiders la prova più difficile, l’e­ sito più inatteso. Senza distanza, con un dialogo che sembra immediatamente già oggi datato come quello di Gioventù bruciata, riferito a un sistema di valori po­ chissimo interessante, innestato in una temporalità sfasata, The Outsiders sembra la corruzione ed esaltazione romantica di un triangolo mèlo Ray/Daves/Sirk, con in più la fosca insensatezza dell’età dei suoi interpreti e del suo pubblico. Com­ mozione alla Coca-Cola, forse (ma qualcuno davvero crede sia più intenso e “alto” il dramma visibile delle droghe “confesse” che non quello invisibile dei miliardi di consumatori - da decenni - di questo mistero dolce forse devastante chiamato Coca-Cola?..), e il pianto sicuro sul ritorno dei volti perduti nella dis­ solvenza finale. Siamo un po’ oltre le perfette operazioni atemporali di Walter Hill (I guerrieri della notte, ma anche il recente Streets of Fire proprio con Diane Lane), senza cieli, senza pause, cinema in vitro vicino a Carpenter però senza il brivido di far nascere “cose”. Il pianto di I ragazzi della 56a strada è la scelta di scontrarsi con la realtà anche in mezzo a una esilissima favola edificante, di scon­ trarsi col cinema anche quando sembra aver trionfato il “film” (o la “serie” di film, la saga, comunque il progetto). Nel film, il tempo funziona come in una preistoria; lo sfondo rètro è insieme evasione e datazione, leggerezza ma anche oppressione della “presenza” oggi di quel periodo, flash lancinante di quaran­ tenni viventi oggi. Film “soft”, facile, caramelloso, si è detto: eppure, più che le paradigmatiche notti alla American Graffiti, a colpire è l’impasto generale dei co­ lori, livido, senza speranze, assai meno netto e arioso del bianco e nero di Rum­ ble Fish. Tutta la giocata avviene prima di Rumble Fish, nel rischio di The Outsiders piut­ tosto che nella scrittura più evidentemente d’autore. Prima che si introduca il daltonismo autorale, la sublimazione, lo spostamento dello stesso meccanismo decisivo della “morte” verso il “fratello maggiore” mitico e “con la moto”. H mi­ sterioso romantico auratico Mickey Rourke è meno “misterioso” di Matt Dillon, più interpretabile, più “culturale”. Il pesce colorato dentro il bianco e nero (ef­ fetto ripreso con maggiore fluidità e con ottimi risultati nell’ultimo video di El­ ton John) è meno magico e affascinante del colore di The Outsiders. Perfino la 284

Gli occhi di Coppola

dinamica del desiderio nel primo film è più complessa, meno fuggiasca rispetto al corpo della donna/bambina che si annida nel cuore del dittico. E in The Outsiders c’è più apocalisse, più incertezza di fondo rispetto al male, più insensatezza e disperazione, più commozione, più forzatura in direzione di un reale contaminato di realtà. Rumble fish è sublimazione, tranquillità del “cinema” come operazione in cui solo gli altri muoiono e il soggetto appunto può solo fingersi morto e in realtà svolazza superando tempo della morte e spazio dell’azione. Contrapposizione comunque forzata, se i due film sono uno. Troppo plateale per essere anche ope­ rante davvero. Diciamo allora che la differenza è effetto di messa in scena che si mette in scena esso stesso. Se The Outsiders sembra affermare l'immagine (come quasi tutto il cinema moderno), Rumble Fish è ovviamente l’inquadratura. Ma poi, soprattutto, è l’immagine (il pesce rosso) dentro l’inquadratura, e viceversa: come, in apparente assenza di sguardo, dentro il look televisivo squeezoom e altri effetti si incaricano di inquadrare qualcosa dentro il dominio dell’immagine dif­ fusa e senza confini. Non stupisce che dalle lunghe sovrimpressioni/dissolvenze di Apocalypse Now (e del Napoléon/Gance..) Coppola sia arrivato alla fascinazione per i tempi diversi da sempre noti come trucco o come “mezzo” al cinema sperimentale e scientifico ma per la prima volta impiegati integralmente e al massimo della concentrazione tecnologica dal suo protetto “monaco” Godfrey Reggio in Koyaanisqatsi. Come e più del pesce rosso, le nuvole che svariano nei deli e sfondi di Rumble Fish a velodtà multiple e sottomultiple sono inserti di immagini-tempo dentro altre im­ magini-tempo, come se già una tessitura elettronica permettesse arazzi di spazi e tempi diversi in un solo luogo schermico. L’immagine diventa potenziale, con­ tiene diverse inquadrature e disposizioni, funziona da memoria permanente con strati che cadono e si mescolano l’uno nell’altro. Un dittico, due occhi. Occhi che piangendo sdoppiano e rifrangono la visione, in sovrimpressione, in colore e bianco e nero. Oppure, un occhio che guarda un corpo immobile, l’altro che ri­ corda e condensa la luce del sole che muta. Un occhio che segue estatico una moto impazzita, l’altro che si sdoglie dentro un acquario, un occhio che segue il tempo della musica e l’altro che guarda consumarsi qualcosa. Anche lo strabismo supremo dei due occhi che si guardano. Noi in mezzo, sfalsati dalle due superfid/visioni che tenderebbero a chiudersi, a restringere lo spazio piccolo della no­ stra visione, ad abbracdarsi nel sogno quanto coppoliano di una visione tutta tecnologica e romanticamente totale.

[Il Patalogo, 7,1984]

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L’oriente è verde

Cineasta di grandi rossi, di blu, di bianchi, Oshima con Furyo si tuffa nel verde, nuota quasi in un solo colore anche senza dimenticare il rosso bellissimo dei fiori mangiati, il rosso che del verde è quasi il complementare, il “.. da mangiare”. Questa forza del verde e delle cose verdi fa pensare a Querelle, a un film “ul­ timo”. Non tanto per la riflessione-immersione su e dentro colori basilari dell’o­ mosessualità, là il giallo-oro-rosa-violetto, qui il verde; ma per l’integralità del­ l’immersione, senza talloni di fuori. La definitività mortale di Querelle (messa in scena infatti da un testo di carattere monomane) è però quella del desiderio che si proietta in ima nuvola di luce, luce truccata che trucca il set dorandolo, che sa di non avere e di non essere oggetto, di venire solo con la luce del cinema, come i gialli e azzurri e i neon di Un soffio lungo un giorno o il grigiazzurro di Blade Runner. “Chi guarda non vede ciò che è raffigurato con l’oro: l’oro è senza oggetto” (Florenskij). Ambiguo come il verde (il verde ospedaliero-curativo, dolce e rassicurante, ma anche sintomo di malattia - “verde in volto”, ricorda già il Tommaseo - e di rab­ bia e di mostri da “esorcista”), il film di Oshima è più ambiguo di quello di Fas­ sbinder, meno chiuso nel teorema. Chiuso in un campo di concentramento (e poi, nell’ultima scena fuori da esso, in una prigione), è il film meno concentrato e meno chiuso di Oshima che - in uno dei film più belli degli ultimi vent’anni, Notte e nebbia del Giappone - aveva chiuso anche l’idea stessa di rivoluzione in un “campo” (con precisione, visto l’obbligo di un'orbita che il termine di rivolu­ zione impone). Qui, libertà ondivaga dei movimenti di macchina (fin dal primo, bellissimo e incerto, che segue figure in cammino tra il bosco e la radura) anche nelle scene di maggior ritualità, un alternarsi di macchina da presa “alta” (che dominava impercettibilmente ma lugubremente quasi tutto Querelle) e di “ca­ mera bassa” alla giapponese. Né geometriche potenze né cerimonie. Solo incer­ tezze di desiderio, ribadite dallo straordinario flashback che non semplifica né complica ma che sposta dal perverso-carcerario alla Qualcuno da odiare (buon film di Bryan Forbes da ripescare in TV private, con James Fox inglese oggetto di desideri oscuri e George Segai “l’americano” vessato e vessante in un campo giapponese) a un inedito melodramma interamente maschile, fatto di paura e di non-senso oltre che di “non-sesso”, più breve lampeggiante e “mentale” - ma non meno intenso - di quello fassbinderiano. 286

L’oriente è verde

Fuggire nel fuoricampo, fuori dal film, può non essere appropriato o essere troppo ovvio, a proposito di un film “di campo di concentramento”. Del resto, alla lunga, la rete si chiuderebbe, perché Furyo è ancora più esatto e intellettual­ mente “completo” e inquietante di Querelle, non è quella grande bolla di sapone ossessiva che in fondo resta teatro (a luce oro-rossa) e potrebbe ricominciare sempre e non interrompersi mai. Lascio i campanelli della musica di Sakamoto (geniale idea, non “eleggere” ma cogliere direttamente le due rock-star a protagoniste, nella loro realtà ovvia di oggetti del massimo desiderio-protezione), dimentico altre ricchezze del film (la forza di “chiudere davvero”, con lo splendido grido-sorriso finale del comico Takeshi-sergente (O’) Hara; lo spirito di personaggi che non rinunciano alle diverse gradazioni di (in) umanità, torno a casa pensando che in fondo proprio il fiore rosso mangiato ha rotto il rapporto Bowie-Sakamoto (ma con un bacio in bocca il biondo poteva passarlo al giapponese). Sfoglio un libro che non riesco mai a leggere, molto bello: gli scritti di Oshima (Écrits 1956-1978 - Dissolution et jaillissement, Paris, Cahiers du Cinéma - Galli­ mard). E, a pagina 246, esce fuori un titolo, Bannissez le vert (“bandite il verde; evitate il verde”). L’inizio suona stupefacente: “Quando ho girato per la prima volta un film a colori (era il mio secondo film; il primissimo era in bianco e nero), mi sono imposto interiormente un divieto. Era questo: mai, assolutamente mai, filmare il verde. Evitare gli abiti verdi è facile. E di mobili verdi ce n’è po­ chi. Le insegne verdi, basta staccarle. H problema è il verde degli alberi e del­ l’erba. Ma il film si svolgeva in una città, e non c’era quindi questione di prati e foreste. L’unico problema da risolvere fu quello degli alberi dei giardini. In stu­ dio, non ho fatto mettere giardino intorno alla casa, e quando giravo in esterni fissavo le inquadrature stando attentissimo a escludere alberi e giardini. [..] Il verde degli alberi dei giardini fu quindi causa di varie difficoltà. Se si filmano due personaggi in un rapporto di conflitto severo, la semplice apparizione del verde, anche solo per un attimo, indebolisce la violenza del conflitto: la scena di­ venta mild (si addolcisce). Il verde addolcisce l’animo delle persone. Non so come reagiscano gli stranieri, ma so che il verde edulcora i sentimenti dei giapponesi, e per questo bandii total­ mente questo colore. H verde dei pini è particolarmente da evitare. L’irruzione di questo verde informe e flou addolcisce, neutralizza qualsiasi espressione. Neanche il cielo sopra il verde dei pini va bene. Non che il cielo azzurro sia in sé una cosa negativa. Un cielo azzurro sopra una terra bruna e scura è capace da solo di espri­ mere il carattere terrificante dell’esistenza. Ma il cielo azzurro al di sopra del verde dei pini, il cielo che si intravede furtivamente al di là del muro di cinta del vicino, è assolutamene incapace di esprimere ciò. Genera solo una piccola soddisfazione, un sentimento mediocre che ci assicura che le cose sono proprio quelle che sono. Ecco perché in questo film non ho mai mostrato il delo sopra i tetti delle case o visto dalla finestra, non so se ciò abbia dato buoni o cattivi risultati. Il film pro­ vocò una girandola di pareri favorevoli e ostili: in ogni caso se ne parlò molto. Ma nessun critico notò che avevo bandito il color verde e che mi ero imposto in modo così lancinante di non filmare il cielo”. 287

paura e desiderio

Il regista che riflette sulla soglia della vecchiaia, sulle linee direttrici della sua opera, constata, man mano che accumula i lavori, come si rafforzi la sua ten­ denza a rifiutare la realtà e a nutrirsi delle proprie chimere. Ma - questo è il ruolo che il destino ha assegnato alla cinepresa - a essere filmato è il paesaggio del Giappone reale. Allora, due domande: in che misura è possibile modificare il paesaggio in quanto paesaggio? E: in che modo l’occhio dell’autore, mediante la cinepresa, ritaglia il paesaggio reale per fame una chimera? Alle soglie della vec­ chiaia, il regista perde d’un tratto il coraggio di bandire come un tempo il verde o di evitare il cielo, ma si sforza, infiltrandosi con minuzia estrema in certe appa­ renze della realtà, di scoprire e estrarre la propria chimera. Vivendo in un mondo di chimere, rifiuta poco a poco la realtà nella sua interezza. Perché un re­ gista, quasi vecchio, deve imporsi un compito così penoso e gravoso? Perché non esistono nel Giappone reale, paesaggi che si oppongono con forza sufficiente alla realtà? In questo Giappone antico, ogni cosa, appena creata, si seppellisce nella realtà, perfino il Giappone moderno. Se nutro una solida diffidenza verso gli architetti, gli urbanisti e i paesaggi giapponesi, è perché non hanno mai creato un paesaggio che si opponga abbastanza alla realtà. Ma questa sfiducia non traduce forse piuttosto la collera rimossa, o il risentimento di un regista re­ presso professionalmente, che avverte improvvisa una stanchezza e cerca di di­ simpegnarsi su un cammino difficile?” (Kyo-senzui, Letteratura oggi, settembre 1974). Da quando ha scritto queste righe, Oshima ha realizzato, oltre ad alcune cose te­ levisive (tra cui una “vita di Mao” e una battaglia di Tsushima), tre soli lungome­ traggi: L'impero dei sensi, L'impero della passione, Furyo. Tre film “estremi”, dal­ l’yard inaudito del primo all’ambiguità verde di Furyo dove né i sensi né la pas­ sione possono imperare, solo spezzoni di desiderio roventi si manifestano, fanta­ smi dentro un altro dominio (il campo). Spero non sia troppo inesatta la copia vista qui e le cose verdi nel film ci sono (più ancora che nel bel Narayama di Imamura - tutto pieno di paesaggi e di mo­ menti “naturali” - che a Cannes vinse inopinato il festival lasciando sconsolata la “Oshima gang”), se non il colore. Nel caso, a scusa o ammonizione, mi soccorre un detto di Rembrandt riportato non so bene perché da Goethe, inglobato nelle sue “massime e riflessioni”: “Non dovete stare a annusare i miei quadri. I colori sono nocivi.” [IlPatalogo, 7,1984]

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Bagliori di ghiaccio

Non meno che da Hitchcock, da Hawks è lontanissimo De Palma. Curiosamente ripetendo, in forma inversa, la stessa operazione compiuta sui materiali hitchcockiani: l’esasperazione, la dilatazione estremistica che nella tensione giunge a lace­ rare e a frammentare le immagini, a spaccare le sequenze facendovi gemmare al­ l’interno altre sequenze. L’opposto teorico di Hitchcock cui arrivava il procedi­ mento è qui doppiato dall’opposto di Hawks. Esasperare e dilatare la secchezza hawksiana, la qualità straight del suo “non-apparire”, non può infatti che rove­ sciarsi in eccesso al quadrato, in una violenza smisurata formalmente molto più vicina alla furia walshiana di La furia umana che al teorema elisabettiano scate­ nato ma lucido dello Scarface anni trenta. La vicinanza impressionante dei due plot è subito cancellata dalla distanza delle durate, più importante dei cinquantanni che separano le date dei due film; un’ora e mezza per Hawks, quasi tre per De Palma. Al Pacino ci metterà molto più tempo di Paul Muni, a morire. Il mondo è vostro, è loro, di Muni come di Pa­ cino, di Scarface come di Scarface. Ma lo Scarface di De Palma non è la rappre­ sentazione di un mito, la sua costruzione concomitante con lo smascheramento. Pacino come Muni è un proiettile sparato dalla pistola-cinema al massimo della velocità, però il suo film comincia con l’indugio, con l’orbita intorno all’attore destinato a giacere morto ai piedi del (mappa)mondo. Indugio necessario a con­ tornare la figura dell’alieno, a mostrarla piano piano come si fa appunto con i mostri. Se il Camonte di Muni usciva dall’ombra espressionistica, il Pacino di De Palma “viene alla luce” sbarcando da un’isola che non si vede, da un pianeta (“il comuniSmo”) che già non era il suo mondo. E questo iniziale movimento circo­ lare dà subito il via al gioco infernale che mescola un’integralità (del personag­ gio) con la deliberata confusione, la reiterata ambiguità della messa in scena. Rettilineo è il percorso del personaggio, senza ritorni indietro che non siano il marasma del finale. Rettilineo il suo “tempo”, come quello dell’altro grosso film “politico” della stagione (con Scarface e Osterman Weekend}, Il grande freddo. Rispetto all’epica più “classica” dell’oppiaceo e contorto Cera una volta in Ame­ rica di Leone, Scarface mantiene e accentua un’esplosività eccitata e eccitante che è sempre stata di De Palma. Qui, invece dei grandi sogni di De Niro/Leone, imbricati l’uno nell’altro e contemplati in un lento stupore da fumeria, con la Storia già dipinta sul volto e un sorriso da saggio, il tempo è un incubo brevissimo e in­ 289

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calzante» talmente rettilineo da riprodurre il circolo iniziale, così veloce e ineso­ rabile da risultare più una traccia direzionale che un percorso, più un’ineluttabile gradazione goniometrica del personaggio e della sua storia che una concatena­ zione di eventi drammatici. La cocaina, polvere bianca che è dapprima l’oggetto dei traffici, il mezzo per arricchirsi e affermarsi, diventa rapidamente il soggetto, l’agente del film; il “doppio” di Pacino, il suo nutrimento, il suo supplemento d’anima in ghiaccio. Ostia di un tempo da mangiare, di un mondo da consumare interamente; montagna bianca, infine, da assumere come sogno di innocenza. Sembra lontano anche da sé, De Palma. Del fantastico, assume forme non pro­ priamente sue tipiche; una scena di violenza quasi insostenibile non molto dopo l’inizio del film (quella della sega elettrica..), alla Tobe Hooper ma struttural­ mente simile alla prima testa esplosa di Scanners (tutto il film ci minaccia da al­ lora di continui spalancamene ulteriori d’orrore); il “trasformarsi” di Pacino, sempre più alieno rispetto a sempre più persone, infine rispetto a tutti, alieno an­ che nei confronti della verosimiglianza fisica, capace di vivere interminabili se­ condi dopo essere già stato imbottito di piombo. E la musica: una macchina bru­ tale e assillante, il Moroder-sound spalmato sopra come a rendere più veloce e scorrevolmente lancinante la pista della morte, lontanissimo dal sinfonismo ar­ chitetturale herrmanniano. La dilatazione non è più gusto sperimentale della scomposizione e ricomposizione di una scena, tastiera di effetti e di citazioni. Il film nel suo insieme è una dilatazione, l’ingrossamento di una palla che esplo­ derà, di una fame che mangerà se stessa; il look è complessivo, magnificamente integrale, non legato alla singola scena, sempre incollato al corpo di Pacino quasi onnipresente in campo. Nessuna brillantezza tecnica esibita e isolata; piut­ tosto, un continuo mascherare e rendere ambiguo lo spazio: pareti scorrevoli in campo e zoom con carrelli combinati in movimento contrapposto e simultaneo di allontanamento-avvicinamento, con lenta deformazione a vista. Tutti incubi, d’amore o meno. Tutto spinto al limite. E, fascino estremo, una circolazione, una “circolabilità” di valori corpi cose totalmente schizofrenica, dinamiche di scambio magnificamente complicanti rettilineità di fondo. Quasi brechtiano, il circuito droga/denaro/potere politico/droga è esibito come mostro onnivoro, macchina automatica la cui energia non può che assorbire e infine annientare il moralismo cattolico e entropico di Pacino. Esattamente contrapposto (nei tempi) all’orrore della scena “sega elettrica” è, prima del crepuscolo degli dei, il rifiuto di Pacino di sterminare l’intera famiglia (moglie e figli..) di un “bersaglio”. Scena che si risolve in altro sangue ravvicinato, ma che produce soprattutto un livello di tensione insopportabile, un punto in cui il film si inghiotte in se stesso perché di colpo il sistema di riferimento si complica, un imperativo morale e un’osses­ sione si scontrano con un’altra. Mai confrontato prima con un soggetto così forte, De Palma dà il suo film più “progressivo”, parte con un cinema che non ha più bisogno di esibire la propria modernità. E prescinde dai padri al punto di osare il remake hard, titolo com­ preso. Scarface. Non è una citazione, è una cosa. [Il Patalogo, 7, 1984]

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Pro-memoria per un oblio

Sotto la crosta c’è l’immagine. Sotto lo splendore, sotto il luccichio, sotto il ve­ tro; sotto l’immagine stessa. Per vivere un sogno bisogna romperlo (svegliarsi), per raccontarlo bisogna tradirlo, perché esista (per gli altri: amici analista se stesso) bisogna fingerlo e inventarlo il sogno. Non è che l’inizio della lezione di Orson Welles in Citizen Kane, ma proprio l’inizio è lezione: la prima sequenza del primo film. La serie di effrazioni e oltrepassamenti, di superamenti del no tre­ spassing originario e inaugurale mediante movimenti e dissolvenze, culmina e si placa un attimo (e poi, dopo questo straordinario “trailer” iniziale si potrà “rico­ minciare” col falso documentario con la “falsa realtà”) nella palla di vetro che cade dalla mano e si infrange. Dall’effrazione all’infrazione, alla rottura. Rottura di un ritmo, rottura di un’immagine mitica racchiusa in una cappa di vetro stretta in una mano. Un altro film può svolgersi sotto quel vetro. Lo stupro iniziale ope­ rato dalla macchina da presa, i “trucchi” visivi in successione, sono i ticchettìi del cucchiaino sulla crosta dell’uovo, del timer a scandire i secondi che separano dal­ l’esplosione. Solo sotto vuoto può preservarsi il mito di Rosebud e solo infrangendo l’involu­ cro si può provare a raccontarlo nella sua sostanza, il nulla. Raccontare insomma come il nulla di un affetto perso e spostato su un oggetto si fosse ricomposto e possa ricomporre nella curvatura di un’immagine sotto vetro e nel volume illuso­ rio prodotto dal clinamen di atomi filmici. Trent’anni e migliaia di film più tardi, il tacchettare di un bastone (da cieco ovviamente, nonostante la furba spavalderia del ragazzino) prelude - La nuit américaine - all’effrazione e al furto dei manife­ sti di Citizen Kane. E naturalmente è il sogno-flashback, è il bianco e nero virato, perché rotta la crosticina è il tempo a implodere. Noi vediamo la rottura e ci sem­ bra un’esplosione, è l’esplosione di un congegno ma i suoi pezzi esplodono verso l’interno, un interno chiuso, una cavità non una profondità abissale e infinita (il più infinito e abissale dei cineasti di oggi e di sempre, Kubrick, alla fine del viag­ gio più programmatico nella più nera profondità, alla fine di un altro riassunto delle potenzialità storiche del cinema faceva trovare ugualmente - in 2001 - una ricurvatura delle immagini, un interno e dentro l’interno un vetro che si rompeva, c poi un feto che rinasceva dalla forma circolare dell’ovulo-immagine..; e atten­ diamo che la superficie gelata dell’ultimo strato di immagini/tempo in Shining si rompa di nuovo in altri film). 291

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Non è necessario che la rottura sia titanica. In fondo è piccola cosa. E la nou­ velle vague la compie quasi allegramente, in souplesse, soprattutto in gruppo. Godard Truffaut Chabrol Rivette Rohmer.., tutti Alice nel paese delle meravi­ glie, subito dietro lo specchio senza troppo precipitare. Ma è probabile che solo la rottura della cinefilia generalizzata e cristallizzata di oggi (quand on aime la vie on va au cinéma) possa dar conto dell'infrazione e sbriciolamento che sono stati il sogno americano e la notte americana per i cineasti nouvelle vague. Che sia o meno falsa, è in una notte americana che hanno voluto e dovuto addentrarsi, ed è probabile che per fare cinema abbiano dovuto inventarsi un effetto notte, infine è certo che hanno attraversato lo spazio del pieno fraintendimento, del day for nigfjt che è il programmatico “lucciole per lanterne” (ma più esattamente l’in­ verso) del gioco filmico. Oblio. Sostantivo, o prima persona (esattamente come “ricordo”). È la parola chiave, forse per definire il rapporto nouvelle vague/dnema americano, sicura­ mente per attrezzarsi a “capirlo”. Ancora Welles (“Tutti, sempre, gli dovremo tutto”; Godard) indicava nell’oblio il movimento che rende possibile, dopo il ge­ sto dell’appropriazione filmica, il narrarsi della storia e lo svolgersi del tempo. Non sapere (cosa è il dnema, come va a finire, cosa è Rosebud, “forse è davanti ai nostri occhi ma non lo sappiamo”, cosa è vero e cosa è falso, chi era chi). Co­ struire la memoria e non solo “averla”. Costruire una storia del rapporto in questione è affare lungo ma possibilissimo: le pezze d’appoggio son lì, con un supplemento di filologia si possono trovare le dtazioni che mancano, le tracce infinitesime delle buone letture/visioni, gli intrecd più perversi tra Rossellini e Minnelli; eccetera. (Non è questo che venti giorni & voleva e poteva chiedermi Roberto Turigliatto per telefono; solo, si chiedeva, forse era il caso di colmare il suo giusto oblio programmatico di una questione perfino interessante.) Se mai, oggi, più affasdnante è indagare (certo meno gratificante e accademico, perché si tratta di non-tracce, di doppi vuoti, in­ terruzioni, non di comodi “indizi”, non dei vuoti conformati in “orma”, delizia dell’indagine) l’allontanamento costante da un territorio filmico “americano” da parte dei cineasti nouvelle vague. E questo mentre il cinema mondiale nel suo complesso (fino a Michalkov, fino alle Filippine), e il cinema americano sopra tutti, sembrano avvolti da una memoria di cinema americano, da nostalgie e cita­ zioni automatiche. Distanza. Certo l’oceano in mezzo era più percepito, venticinque/trenta anni fa. H viaggio nel senso Europa-USA meno abituale. Abituale invece stava per diven­ tare l’Europa come set di un cinema americano alla ricerca di sfondi e di bassi costi e di sfondi a basso costo. Oggi i Cahiers vanno a farsi due numeri in USA, e poi a Hong-Kong. Magari per ribadire la loro scelta anacronistica a favore delVautore di tipo “europeo”, ma ormai intimamente convinti che là avviene il mo­ derno “surgissement de l’image”; o che la promozione e il marketing culturale non possono prescindere da quell’Ovest, più semplicemente. Rispetto al francesissimo Made in USA di Godard, è un deciso spostamento. Dal movimento imma­ ginario dentro un reale, all’inseguimento di una realtà “dentro” il suo territorio, al più nel tentativo di contaminarlo. Oggi, a consuntivo, d si accorge che i nomi 292

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principali della nouvelle vague non sono mai riusciti a (non hanno mai voluto?) ar­ rivare in America, Tonda ha al massimo attraversato la Manica, mai Toccano. Per Truffaut TAmerica è proprio la distanza, sono “le Indie”, luoghi di fraintendi­ mento e di follia (La sirène du Mississippi, L'Histoire dAdele H). Se poi la confu­ sione tra crimine e amore si farà chiara sulle nevi europee (La sirène..), l’oltremare serve come perfetto set immaginario di uno scambio che vizia e segna in origine il rapporto: da una parte e dall’altra dell’oceano si desiderano e ci si scambiano cose diverse, si riceve ciò che non si vuole e si finisce per amarlo. L’anello comunque non va bene al dito. Cronaca stupendamente disseminata di segni, la storia di Bon­ nie and Clyde è esemplare: soggetto concepito per essere messo in film da Truffaut o da Godard, infine girato dal più “europeo” dei cineasti americani, quell’Arthur Penn che a sua volta non girerà mai in Europa. Saranno francesi non nouvelle va­ gue (Malle..) a arrivare più tardi in America; l’unico del gruppo a “riuscire” un film là bas è stato il più etereo, il meno legato al set francese e il più avanzato della contaminazione, Jacques Demy con Model Shop. Cineasta marginale, film bellissimo. Film dove si legge con facilità la distanza, e insieme la violenza del rapporto intorno a cui giriamo. Un rapporto d'amore. E la notazione vuole essere metodologica. Il rapporto nouvelle vague/dnema ameri­ cano è una storia d’amore. E si sa quanto poco entri nell’amore l’oggetto del de­ siderio. Non è Ford, il padre, a impressionare e suscitare l’amore NV. Non è un rapporto di filiazione a instaurarsi. Né è il territorio a essere desiderato, il set originario e territoriale, la Monument Valley in cui Ford cerca sollievo lontano da Holly­ wood. Paris-Texas lo potrà fare e dire solo Wenders, e proprio dopo i crucci e i “fallimenti” di Hammett nel rapporto con Hollywood. La fitta, la consanguineità sentita o desiderata, il desiderio vagamente incestuoso, è con Hollywood, è per la perversione hollywoodiana. Evidenziata nelle figure cardine del rapporto: Lang e Hitchcock, due provenienti dall’Europa; Ray e Welles, due “destinati” al­ l’Europa nel tentativo di superare l’impossibilità produttiva; infine Hawks, non a caso indicato come il diamante americano per eccellenza, il distillato della tra­ sparenza americana, la lente-schermo-alibi attraverso cui vedere accettare amare le tortuosità degli altri. Diversissimi autori, diversissimi soggetti del desiderio (ma un sogno di plaisir che solo l’apolide Ophuls potrà dare e sfiorare). Il cinema e la cultura americana in Rohmer Godard Truffaut Chabrol Rivette.. Una decina di itinerari individuali complessi. (O magari semplici, tra sèrie noire e Howard Hawks, prescindendo da Melville..) Ma se il cinema è oblio in progress, se quello è il suo metodo, se il cinema (per Godard) è le contraire de la culture, perché non prendere la figura estrema dell’oblio come forma del rapporto in questione; per­ ché non assumere come rilevante proprio il fra, l’intervallo, le cose che passano tra i personaggi di questa fiction (Nouvelle Vague/Hollywood), infine desideri. Era ciò che più amava Godard nel cinema che più amava. Una storia di desideri, di proiezioni di abbracci, di vere e proprie sovrimpres­ sioni dove il triangolo critico spariva e M. Teste affondava: scrivere filmare desi­ derare di filmare scrivere di desiderare di filmare di desiderare di amare di scri­ vere di filmare di essere. In alcuni anni, il desiderio si avvertiva operante nei due 293

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sensi: Lang, Welles, Ray, Hitchcock, Hawks, in qualche modo aspettano qual­ cuno che li ami, attendono i loro lettori amanti appassionati, e poi non si negano all’abbraccio, prima o poi finiscono nei loro film (Le mépris, La dècade prodigieuse..)9 generano libri insieme dopo essersi fatti scrivere addosso (Hitchcock Chabrol Rohmer Truffaut Hitchcock).. E tutte le confusioni dell’amore, i fraintendimenti, in cui l’unica cosa certa è la passione e l’unica cosa chiara la forma che assume di volta in volta; con la capa­ cità di essere lucidi fino alla follia di volta in volta contraddicendosi, giungendo a vedere tutto (i contrari all’opera) in qualsiasi inezia. “Un segno spaventoso che la testa si smarrisce, è che pensando a un qualche fatto minimo, difficile da ana­ lizzare, ora lo vedete bianco e lo interpretate in favore dell’amor vostro, un mo­ mento dopo v’accorgete che in realtà era nero, e lo trovate ancora favorevole al vostro amore” (Stendhal, De l*Amour). Ne sa qualcosa Rohmer, anima lucida in­ tenta al contrario a discernere e disseppellire il marmo formato nel mare di cellu­ loide. Rohmer e tutti gli altri che svelano nelle interviste a posteriori i veri “amori" e quelli di scuderia; quando gli oggetti d’amore venivano inventati e spostati a seconda delle mosse tattiche da fare nel campo di battaglia della cri­ tica: vedi Minnelli, vedi Sabotage sabotato perché piaceva alla critica ufficiale (lo svela il cinico Chabrol nell’intervista sui C.d.C. 339) che detestava il resto dell’Hitchcock americano. Ma vedi anche com’è bella questa confusione, che arriva a mescolare le teste e le mani e le scritture, e di Rohmer e Chabrol nel libro-Hitchcock “nessuno può capire chi ha scritto che cosa” (Chabrol) perché l’integra­ zione era stata perfetta, computeresca. Ricerca di un oggetto d’amore “proprio”, riservato, non condiviso da altri (que­ sto afferma Godard nella sua Introduction à une véritable histoire du cinéma)\ la scelta del cinema americano come reazione verso ciò che non si amava: “un pic­ colo film gangster americano è meglio di un film francese scritto da un accade­ mico di Francia o da uno sceneggiatore affermato o tratto da un romanzo di Gide”. Tutto molto vero, vero anche oggi, in Italia come in Francia come in In­ ghilterra dove si sta formando una nuova accademia trionfante di grande “qua­ lità”. Ma non sembra tattica la scrittura di Godard a partire da Ray, poco prima di esordire alla regia: “Mai personaggi di film ci erano apparsi così vicini e nello stesso tempo così lontani. Davanti alle vie deserte di Bengasi, alle dune di sab­ bia, pensiamo subito, per un attimo, a tutt’altra cosa, agli snack degli Champs-El­ ysées, a una ragazza che abbiamo amato, a tutto e a nulla, alla menzogna, alla vi­ gliaccheria delle donne, alla frivolezza degli uomini, alle partite a flipper, perché Bitter Victory non è il riflesso della vita, è la vita stessa fatta film vista da dietro lo specchio in cui il cinema la capta. È nello stesso tempo il più diretto e il più segreto dei film, il più sottile e il più grossolano. Non è cinema, è meglio del ci­ nema. - Come parlare di un film simile? A che serve dire che l’incontro fra Ri­ chard Burton e Ruth Roman sotto gli occhi è montato con un brio straordinario? Forse è una scena in cui abbiamo chiuso gli occhi. Bitter Victory infatti, come il sole, vi fa chiudere gli occhi. La verità acceca”. Accecamenti, dimenticanze, lapsus, day for night. Non ci importano solo le diffe­ renze, le lezioni e le letture diverse, le preferenze, le contraddizioni. (Truffaut

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che adora Welles, cita il Welles del sublime “video” inaugurale di Citizen Kane senza parole fino a Rosebud, e che confessa di aver cominciato ad amare il ci­ nema americano attraverso il suono e la sostanza dei dialoghi doppiati in fran­ cese nelle sale popolari. Lang modello per Chabrol Rivette Rohmer; di astra­ zione filmica per Chabrol, di intreccio e contorsione per Rivette, di controllo as­ soluto dei materiali per Rohmer - apparentemente il più libero e lieve dei cinea­ sti. Modello per Godard di una “riflessione” sulla “degradazione” e impossibilità del cinema. La “freddezza” di fondo che accomuna i numi amati, escluso Ray che è il compagno l’amico la proiezione di sé già vista tra Rossellini e Renoir. Quindi la predilezione - vedi il dizionarietto dei “cineasti americani” sui C.d.C., che an­ drebbe qui ripubblicato per intero come documento primario e essenziale grazie alla brevità delle schede - per l’eccesso visibile ed estremistico di Aldrich, il ri­ fiuto del wellesismo di Kubrick che è già “welles”, è già “freddo” e definitivo come un maestro, già autore di operazioni strategiche più che complice d’a­ more.) Piuttosto una generalità nel vivere quell’amore e nell’assumerne le con­ traddizioni, l’evidenza demiurgica Lang-Welles da una parte e la cancellazione hitchcocko-hawksiana dall’altra. Insomma, il cinema in questione, il cinema ame­ ricano come figura maggiore di esso, ma tutt’altro che compatta, anzi, figura che si compone e completa solo con Rossellini Renoir Mizoguchi Barnet.. Cinema americano non come annessione e percorso consapevole, non “hollywood ci ap­ partiene”; al contrario, luogo di deriva situazionista da cui portare detriti, in cui depurarsi e affinarsi proprio bagnandosi di qualsiasi fango e stringendo qualun­ que mano. In esso, non un repertorio linguistico già pronto, con tante “parole” da usare e citare. Ma finalmente la “scoperta”. Analisi del proprio amore come invenzione dell’oggetto, scoprire che si può parlare con lui, chiedergli qualcosa, corteggiarlo, invitarlo, farlo parlare, perfino ottenere delle risposte. Operazione anche ideologica, certo, intrisa di quell’ideologia che è l’amore, accecamento e wishful thinking continuo. Archeologia di un atteggiamento che non ha fatto in tempo a diventare storia. Oggi, quasi “morto” o molte volte morto, sicuramente mutante in modo decisivo, preso tra telematizzazione, televisione, ritorno del mito del cinema totale, il cinema che si fa da parte dell’autore, dell’esordiente, di un’ipotetica figura omologa a quella critico-autore NV, è un cinema costretto ad ammettersi in partenza, a giustificarsi, a dirsi “sì” come se la pura esistenza fosse già una scusa, un motivo, una ragione sufficiente. Allora, e sono solo venticinque o trent’anni fa in Europa, si poteva ancora mettere in questione il cinema, par­ lando di messa in scena. E lo si evocava, il fantasma amato del cinema, proprio mentre scompariva o sembrava in pericolo negli stessi Stati Uniti, contaminato da estetiche “televisive”. Oggi tutto il cinema è diventato classico, “passato”, ac­ cettato, rivisto ritrovato riletto restaurato (Napoléon per primo). I percorsi nou­ velle vague sembrano inghiottiti in alcuni casi proprio in quella “qualità” un tempo aborrita. Il prescindere di Truffaut dall’oggetto/soggetto è stato p.es. frainteso come un ritorno (Aurenche e Bost..) al vecchio cinema “di sceneggia­ tura”. Dalla seconda metà degli anni settanta, la nouvelle vague è americana e poi inglese. Sembra essere oggi il cinema più potente del mondo, Lucaspielberg e Ridley Scott; e il “video”, magari con la riscoperta di Welles (Julien Temple). 295

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Nessuno sembra più aver bisogno (o paura o desiderio) di essere “accecato”. Tutto è stato visto, si dice. Forse si è tutti già accecati, sono già ciechi i registi. Dominio infatti della visione, della luce dell’attimo subliminale pubblicitario di* fatato in un film (Blade Runner). Dominio del cinema come sistema di riferì* mento. Autoreferenzialità mondiale del cinema (filmografie, interviste, dati, in­ formazioni, saperi che circolano ovunque. Rumore di informazione). Per primi i nuovi tycoon di Hollywood hanno insegnato la strada, o meglio “sono stati inse­ gnati” dalla “strada”. Prima mamma TV e poi magari (guarda un po’) l’istituzione universitaria funzionante (le “filmscbool”) li hanno nutriti di cinema; per loro non è più citazione, affetto, rapporto incerto e faticosamente formalizzato col ci­ nema; essi “parlano cinema”, il cinema non è un tesoro in uno scrigno o il rischio dell’accecamento oltre il tendone d’ingresso nella sala, è linguaggio già introiettato, è visione che genera visioni. Non esiste oggi un rapporto della ex-NV col cinema americano. La nouvelle va­ gue sembra già “storia”, lei sì, anche lei citata - magari amata (magari dai cineasti americani) -, dimensionata. Ma i suoi ultimi film (da Vivement dimanche a Prénom Carmen a Les nuits de la pieine lune) ribadiscono prolungano ripetono dei “discorsi”, infine un solo discorso: quello dell’amore, dell’ossessione che si na­ sconde in ogni amore, che lo genera e gli sopravvive. Anche il dissidio Godard/ Truffaut pare futile, e soprattutto pare frivolo e causato da “amori” non concessi non ammessi non filmati (Godard: “tra tutte le inquadrature di La nuit américaine ce n’era una che mancava, un’inquadratura dove io l’avevo visto entrare [Truf­ faut] in un ristorante di Parigi al braccio di Jacqueline Bisset, durante le riprese del film. [..] Era per quello che aveva fatto il film. Tutte le inquadrature di lui con Jacqueline Bisset non erano nel film [..] Infatti, non a caso ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero; effettivamente è un film tipicamente americano”). Truffaut pare che stia morendo, anche se forse è osceno scriverlo. Godard ha per il mo­ mento lasciato la televisione; si è chiuso per anni a Grenoble, voleva andare in America a Los Angeles per televisionare le Olimpiadi, naturalmente non ce l’ha fatta; ora scrive lettere video (per 6 persone?) invece che articoli, e fa di nuovo film. Di nuovo d’amore, di lavoro, di amore del lavoro dell’amore del cinema del­ l’amore.. Con i film ulteriori, la nouvelle vague conferma nel presente di essere (stata) l’unica grande scuola borghese di cinema. Ossessione di piccole cose. Nean­ che Parigi in fondo le appartiene. Viene Ioseliani e anche lui (come Wenders Ruiz Zanussi Oshima Bertolucci) conferma che il cinema è degli (autori..) apolidi con forte connotazione nazionale. La sua Parigi (Les favoris de la lune, un miracolo) è Ophuls Bufiuel Clair messi insieme colla leggerezza NV, è tutto il cinema che conta letto in una volta sola e fatto tourbillonare su un set che è tutta la Storia moderna almeno, in una girandola entropica che non ha bisogno di finire perché è già in-finita. È già “oltre” la NV, oltre le sue ossessioni di “scrittura”, oltre l’ossessione di fare un cinema “come la vita” perché in fondo la differenza è (era) ancora così forte troppo forte e allora valeva la pena di lavorare sulle intensità, cercare di com­ misurarle, farsi accecare da Ray e da Rossellini. Nell’immaginario ricco multiforme esplosivo del cinema americano si cercavano attrezzi “lumi” oggetti d’amore per assaltare col cinema la realtà troppo più 296

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forte. Ben oltre i numi e le dichiarazioni, il metafisico Godard e il fisico Truffaut rinvenivano dai gorghi frammenti di immagine e pezzi di dialogo, situazioni. The Naked Jungle (capolavoro di Byron Haskin, colori, con Charlton Heston e Elea­ nor Parker, Furia bianca), del 1954, si apre con la stessa situazione (donna con­ tattata per matrimonio da possidente e piantatore in terre esotiche; ma arriva la donna “sbagliata”) da cui si sviluppa La sirène. Pierrot le Fou avvolgendosi in­ torno agli occhi il nastro di dinamite sembra ripetere le stesse parole e la stessa invocazione di John Wayne su Gail Russell morta alla fine di Wake of the Red Witch (La strega rossa, 1948, Edward Ludwig). (E se si vuole ricercare, Truffaut o Godard? - citava il film di Haskin tra i dieci migliori di un anno..) (Se mai farò un film, per caso, e ovviamente sul - sotto - il caso, potrò fare a meno di “citare”/rifare quella scena che so io, da Framed di Richard Wallace, con Glenn Ford che..?) Dinamiche di scambio simbolico, di “contrattazione” amorosa come quelle che si vedono in tutti i film di Truffaut. Desideri di assoluto di cui rendere conto (razionalizzando..; o con la musica; o con la pittura) come in tutto Godard. Nel cinema di oggi difficile leggere scambi di questo tipo, difficile che avven­ gano (vedi l’insuccesso puntuale di pubblico e critica, non appena qualcosa del genere miracolosamente avviene: King of Comedy di Scorsese). Si è già avverato, il cinema. Può morire tranquillo, ha già vinto, ha figli a legioni, il suo reale ha già ricoperto la realtà, esplosioni nucleari comprese. Patetiche, di fronte alla “sua” potenza, o meglio di fronte a quella potenza, le pretese sempre d’amore di Godard (sentito l’anno scorso a Venezia mentre “vinceva” il Leone d’Oro: le uni­ che cose d'amore che passano in TV sono il cinema - i film - e lo sport). Nato sotto il segno magnificamente bifido dell’amore e della tattica, cioè della retorica che sola può dire la passione, il rapporto nouvelle vague/cinema americano è ri­ masto dispari, discrepante, forse c’è perfino dietro (ma l’innamorato non lo am­ metterà mai, se pure lo riconoscesse) una storia di capitali e di interessi non cor­ risposti, o di dote mancante o di volere contrario di un don Rodrigo. Rapporto di cui oggi è utile conservare e preservare la irrealtà (mentre il non-NV Tavernier poteva più ottimisticamente mostrarlo come possibile e mimarlo in L’horloger de Saint-Paul mimando la straordinaria scena fordiana - non a caso - di Stewart e Widmark che discutono della vita seduti sulla riva del fiume in Two Rode Toge­ ther, titolo speranzoso). La capacità di non vedere, di immaginare, magari di farlo senza fine illuministicamente (Rohmer). Truffaut l’aveva citato in Baisers volés (un bacio non è mai rubato e/o lo è sem­ pre), l’inizio del Giglio nella valle di Balzac: “Cedo al tuo desiderio. Il privilegio della donna che amiamo più di quanto ella ci ami è di farci dimenticare.”, P.S. - (Il corsivo dell’ultima parola è mio. La cosa è stata scritta di seguito a ca­ vallo tra il 19 e il 20 settembre 1984, senza rilettura e correzione. Quindi, è da rileggere.) [in Nouvelle Vague, Torino, 1984]

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Ha un sapore arcaico, nei tempi della mutazione elettronica, la figura dello “scienziato pazzo", l’impronta dei dottori, Frankenstein o Mabuse. Non si tratta più di singoli soggetti, di isolati sogni di dominio e progetti di ingegneria gene­ tica, oppure di malattie e di medicine, di pazienti e di dottori. Quando il cinema è costretto a ri-mettere in scena questa figura e questi progetti, lo può fare solo estremizzando gli effetti e le conflagrazioni (vedi Scanners) fino a far dimenticare 11 *soggetto", il piccolo motore della storia, appunto lo scienziato pazzo e ge­ niale. Senza bisogno di registi che Io “sappiano” e ci mostrino di saperlo, il cinema sa bene di essere lui (e mostra di essere lui stesso) lo scienziato folle. E il cinema a impegnarsi direttamente nella costruzione di nuovi corpi, nuove sensibilità, nuove protesi elettroniche; e nuovi spettatori anche, secondo un processo che rammenta (nonostante tutte le differenze di contesto e di finalità) quello ipotiz­ zato e utopizzato da Vertov mediante le virtù del cineocchio. Non c’è bisogno di untori, di maghi e stregoni a moltiplicare il morbo. Dilaga da sola l’epidemia, e se mai proliferano i vaccini: i milioni e miliardi di schermi televisivi sono già molto più che pustole o bollicine o bubboni, coprono già tutto il corpo (del ci­ nema), e i vaccini inoculati sono (giustamente) a immagine di ciò da cui ci si im­ magina di doversi difendere. Corpo, è la parola chiave già pronunciata e scritta. Paradossalmente centrale, se in fondo si parla sempre di fantasmi (al cinema). Ma il cinema oggi è questione di corpo, unica nozione che resta valida anche nell’universo semantico della simula­ zione. (Corpo, anche, come momento forte del fantasma, e viceversa.) L’unica che attraversa il doppio gioco del cinema, che ne ripete il doppio gioco. Mentre il set continua a debordare e coincide sempre più con le mappe e con gli strati del mondo geografico e geofisico (il bordo che si sgretola inquietante lungo i “confini della realtà", se si pensa all’incidente mortale sul set di Twilight Zone, naturalmente rimasto fuori dal film e oltre quei confini, anche se il produttore Spielberg continua a vedersela in tribunale; lo spazio cosmico che si fa set: già si sapeva ampiamente, ma per scherzosa che sia la foto dell’astronatuta sullo Skylab che mostra il ciak del “film sullo Skylab* in preparazione vuol dire qualcosa di più; il sottosuolo, cioè il nero cosmico e “da studio", ipoteticamente terrestre e economicamente perfetto per il cinema, che ricomincia, dopo il primo Lucas, a 298

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essere utilizzato come territorio di mostri e avventure, come nel recentissimo Chud presentato a Cannes ’84, è la nozione di corpo a contaminare senza pro* blemi qualsiasi set, a avvicinare la fiaba avveniristica tra Guerre stellari e E.T. agli orrori fantascientifici della mutazione nucleare. Diversi gradi di malattia (per quanto la diagnosi sia incerta, su un corpo di per se stesso così caduco tremolante indefinito quale è il cinema), una sintomatologia saltabeccante, casi difficili da classificare; del resto, questa è l’epidemia, la malat­ tia improvvisamente diffusa, definibile solo come processo, l’improvvisa e spesso insipegabile intensificazione quantitativa dei casi senza che sia di per sé chiaro il motivo del dilagare e il meccanismo dell’infezione. Allora, sommariamente e empiricamente, proviamo a distinguere, e a elencare. Il corpo truccato o il corpo-trucco, tutto finito, nel cinema. È il trionfo delle forme, dal film per bambini al più orribile e pauroso film di mostri (diciamo, tra E.T. e La cosa), che siano corpi robot, inventati costruiti telecomandati animati, o corpi umani truccati o completati con protesi più o meno sofisticate, dalla ma­ schera al finto arto (vedi Elephant Man, Stati di allucinazione, Toro scatenato, per nominare generi diversi). Ma se l’autore (Lynch, Scorsese, Spielberg, Coppola..) gioca la durata e la flagranza dei corpi nella sua messa in scena, accetta il rischio della catastrofe lavorando però sulla stabilità incerta, perennemente in bilico tra l’hard e il soft (ma curiosamente più vicino al primo), il cinema in genere e di ge­ nere è costretto a moltiplicare vertiginosamente le apparizioni e le mutazioni dei corpi, che dissolvono l’uno nell’altro, frullano dal nulla e ritornano in esso, na­ scono come fiori, deperiscono e vengono prontamente sostituiti nella fabbrica seriale. La cosa di Carpenter (e sottolineo il di, perché anche Carpenter è un “autore”) mostra con totale lucidità gli obblighi di questo cinema costretto a stupire e a es­ sere incredibile e verosimile, ma nello stesso tempo inscritto nella ripetizone più hard (proprio da cinema pomografico) che possa esistere. È il film ultimo della trasformazione (alone principale del “cinema-corpo”; da L'ululato a Un lupo man­ naro americano a Londra, a II bacio della pantera a Stati di allucinazione allo stesso Tron), quello in cui un corpo può smontarsi-rimontarsi a vista in qualunque altro corpo, secondo una logica combinatoria infinita che supera il passaggio-muta­ zione-trasformazione da una forma-stadio all’altra per alludere a una plasmabi­ lità illimitata di “immagini-corpo” come quella fin qui praticata solo dal cinema di animazione, ma senza più l’evidenza dell’inanimato (carta, cartone, pupazzo), da animare, anzi con l’apparenza fotografica dei corpi in gioco (a un passo dal1’Aleph?). Appare tuttavia incerto lo statuto di questo cinema-proteo, tecnologicamente e spettacolarmente proteso verso la pluralità più sfrenata ma in realtà costretto (i costi..) a limitare il manifestarsi di nuove “creature”. Un indizio perturbante e re­ cente della sua instabilità, e della precarietà del corpo al cinema, è il diffondersi negli ultimi due anni dei sintomi “gore” (il cinema “sanguinolento”) per esempio in tanti piccoli e grandi film horror-violenti USA; anche film relativamente calmi, magari normalmente drammatici e “duri”, nei momenti forti esplodono in ampu­ tazioni, troncamenti, decapitazioni, squartamenti, sventramenti (su corpi umani 299

paura e desiderio

o di animali).. Trucchi, naturalmente. Bisogno di fingere il sezionamento e lo sgretolamento del corpo, desiderio di vedere questo corpo offeso (il fenomeno da noi non è ancora tangibile, ma in tutto il mondo anglosassone si avverte ormai l’allarme per il successo della diffusione in video di questi prodotti), e di nuovo vaccino, inoculazione del brivido snuff (snuff-movie vennero definiti, negli anni ’70, film di origine forse sudamericana, erotici e violenti, in cui venivano filmate dal vero pratiche sadomasochiste che culminavano nella messa a morte reale delle vittime, rapite all’uomo, o ingannate; in realtà (???) non si sono mai avute conferme ufficiali dell’esistenza o della distribuzione di tali “film”, anche se qual­ che imitazione del genere, spesso con protagonisti di altissimo livello, uomini politici, campioni dello sport, ecc., può essere ogni tanto fruita in televisione). Inutile comunque dilungarsi sulle diverse forme e commistioni, sulle catastrofi e sugli ippogrifi di questa immagine del corpo pullulante al cinema. Più interessante può apparire il riflettere dell’immagine fìlmica sul proprio corpo. Il corpo del­ l'immagine. Naturalmente, corpo dell’immagine e immagine del corpo si intrec­ ciano, si confondono volentieri. Sogno del cinema che lavora sulla mutazione del proprio corpo-immagine è, in definitiva, arrivare mediante essa a produrre nuove immagini del corpo, perfette simulazioni del corpo fotografato, immagini sinteti­ che e virtuali di esso. Se Coppola si è accontentato di usare il video (in Un soglio lungo un giorno) per delle “simulazioni di messa in scena”, riprese multiple, gi­ rando in pratica diverse versioni del film in video, ma infine selezionando con occhio “da cinema” il materiale per il montaggio definitivo, si sa che l’ideale per lui (e per Lucas) sarebbe poter utilizzare un “attore elettronico” alternamente di­ sponibile senza neppure il bisogno di ridisegnarlo ogni volta. Come se la ricerca di un atomo di cinema, di un nucleo irriducibile in cui scomporre l’immagine (le linee, i punti del video - sempre più linee, la alta definizione su cui giù i giappo­ nesi hanno scatenato la battaglia - fino a raggiungere appunto una compattezza del corpo-immagine), tendesse a definire un mattone di base con cui ricostruire qualsiasi immagine. L’utopia microscopica di una visione sempre più acuta, sem­ pre più “interna” e appunto “nucleare” del mondo mediante il mezzo filmico (fortissima per esempio nei testi di Antonioni raccolti in Quel bowling sul Te­ vere), andando oltre la corteccia degli alberi, oltre la pelle e la superficie degli occhi delle persone (fino a un DNA dell’immagine) viene inverata ma più precisamente aggirata mediante l’utopia video. Il mondo fisico matematizzato dai com­ puter che si ricompone sui terminali in immagini sintetiche, visioni non di realtà fisiche ma del loro fantasma matematico e strutturale: termografie, simulazioni dell’interno dei corpi, fanno ormai parte dell’immaginario pop-elettronico da anni, trionfano sulle copertine dei dischi e nei poster, e mediante un semplice ta­ sto, un mixer può simulare la scomposizione di qualsiasi volto (ma insomma di qualsiasi immagine) in puntini o riquadri elettronici. I corpi sfasciati, smontati, trasformati a vista mediante orrendi trucchi e trasmu­ tazioni, o semplicemente troncati spezzettati dissolti, finiscono allora per coinci­ dere con il tentativo dell’immagine stessa di considerarsi corpo e di smontarsi-rimontarsi, di funzionare come un’eterna dissolvenza, scomposizione e ricomposi­ zione di sé. Due sono i limiti per ora mostrati al cinema di tale tentativo. Uno è

300

Immagine-epidemia del corpo (e., viceversa)

l’oggettivazione interna, nel narrato e mostrato del film della simulazione estrema: da Blade Runner a Android, l'ossessione del doppio-automa-nonumano lavora nel cinema di oggi in modo sostanzialmente diverso rispetto al terrore politico dello svuotamento totalitario della personalità ipotizzato dalla fantascienza anni '50 nel suo esempio più lucido, L’invasione degli ultracorpi (titolo magnifico e ingenuo; e anche l'originale aveva un body nel corpo del titolo, Invasion of the Body Snat­ chers). Oltre al quasi banale rovesciamento per cui oggi è il replicante-androide a provare sentimenti umani o a desiderare di essere (considerato) uomo, si afferma un più radicale e strutturale capovolgimento, per cui il modello appare essere già un “doppio", è insomma il replicante a essere il fulcro e l'orizzonte della fabula. La paura dell'uomo di essere assorbito in un universo di pura finzione robotico-elettronica sembra quasi in questi film un residuo irrazionale, e più logico si rivela l’at­ teggiamento ludico con cui i protagonisti di Tron si lasciano ingoiare e elettronizzare dal computer per combattere dentro di esso il videogioco del Bene e del Male. In Tron proprio questo conta, la perfetta ambiguità dell'immagine (sui cui la pubblicità ha puntato molto, tardando a svelare che pochissimi minuti del film sono stati davvero tessuti dal computer mediante video-sintetizzatore), l'indiffe­ renza del sapere se il corpo è vero o finto. Con risultati vertiginosi, da una parte più teorici e raffinati di tutta la storia delle teorie del verosimile e dello specifico filmico, dall'altra, nulli, come un buon mal di testa, una vertigine appunto in cui “senso” è solo prima e durante mai estraibile dopo. Se l'altro limite è quindi di tipo implosivo, quello della simulazione dei livelli stessi di verosimiglianza del corpo-immagine, e cioè simulazione dei diversi gradi della simulazione stessa, cioè del rapporto dell'immagine con i corpi reali e con il mondo-set, c’è però un altro modo in cui il cinema lavora in funzione del corpo: un “movimento” con cui il cinema desidera un corpo per sé, desidera di essere lui stesso un corpo, evoca e reclama una corporeità. Superando o evitando la messa in scena ossessiva di mutazioni clonazioni repliche generazioni e rigenera­ zioni di corpi e di mostri, questo cinema si dà (si vuol dare) un corpo o si collega come protesi al corpo umano, si fa assumere in esso o lo controlla. Del cinema­ protesi, del cinema che, mediante video, prolunga le possibilità sensoriali e co­ gnitive dell’uomo, abbiamo già avuto varie immagini “rappresentate”, anch’esse interne ai film (i più noti; il lontano Lang I mille occhi del dottor Mabuse, La morte in diretta di Tavernier, Osterman Weekend di Peckinpah, Brainstorm di Trumbull). Perfino l’autore di cinema fantastico che fino a oggi era parso il più tenacemente e artigianalmente legato ai rapporti tra corpo sano e malato, alle fi­ liazioni del corpo in escrescenze e bubboni, ai rigonfiamenti inquietanti, esplo­ sivi e sovversivi, Cronenberg, è passato con Scanners, e poi con lo splendido Videodrome e infine con Dead Zone (sia pure attraverso la mediazione parapsicolo­ gica in quest’ultimo; mediazione già sfruttata al meglio da Fury di De Palma, per conto suo altro grande cineasta - da sempre, lui - della protesi videotecnolo­ gica), a un cinema che mostra e narra i cortocircuiti tra diverse macchine del reale-immaginario, tra i cervelli umani e le macchine computertelematiche co­ struite dall’uomo, tra il vedere dell’uomo e l’essere visto (e “fatto vedere” fornito di immagini) ddla-rlalla macchina 301

paura e desiderio

Ma questa tendenza è ancora più forte e visibile nei contorcimenti e rigonfia­ menti del macchinario cinematografico, del suo arcaicissimo (fino ad oggi) appa­ rato tecnologico. I nuovi tentantivi di 3D, quelli che perfezionano la veccha stereoscopia, peraltro ancora ridicolmente bisognosa di stranianti occhialetti che enfatizzano il ruolo del soggetto “visore” invece di sperderlo. O quelli più interessanti perseguitati, soprattutto in Unione Sovietica, mediante olografia, con illusione completa di volumi a proiezione laser, fin quasi a simulare-attuare il “trasferimento” di corpi da un luogo all’altro, un telerattrappimento del mondo in una grande video-con­ ferenza tridimensionale. E l’arredo video-elettronico, l’immagine-corpo che diventa paesaggio, (finta) fi­ nestra aperta tridimensionale, immagine-muro ambiente.. E, dalla steady-cam alla sky-cam volante, lo stesso mezzo di ripresa che si rende sempre più lieve, dotato di “respiro”, portatile e identificabile quindi col corpo coi polmoni coll’occhio dell’operatore (ma pensiamo già al rimpicciolimento-annullamento della mac­ china, a un collegamento diretto dell’occhio a terminali, video..). Spinta alla tridimensionalità che in realtà proietta il cinema in un annullamento del cinema, in un suo staccarsi insieme dallo schermo e dal suo proprio tempo cristallizzato in esso: rientrare in un unico mondo spazio temporale, scendere in platea, tornare indistinguibile teatro-via di immagini-corpo-robot; semplicemente vita (vita?) di soggetti (soggetti?) non si sa bene se “ripresi”, “copiati”, “creati”, “generati”, “evocati”. Questo scenario si incontra anzi coincide con l’altro della simulazione delle immagini (cui ormai lavorano insieme accanitamente, a costi altissimi e “insensati”, la Walt Disney e il Pentagono, i sofisticatissimi laboratori di bioingegneria e la Lucasfilm..) e con la diffusione telematica dei cineocchi. Non c’è molto cinema in questo scenario, essendocene - come dire? - troppo. Trionfando il cinema, il cinema “muore”. Si dissolvono le sue specificità, dimi­ nuisce sempre più il suo grado di formalizzazione interna. E questo proprio men­ tre aumenta la consapevolezza visiva, il dominio del look (videomusic, pubbli­ cità, Ridley Scott) magari in un tentativo subito ingoiato di reagire a una “bassa qualità” dell’immagine televisiva. Mentre la coscienza di lavorare su immagini di immagini di immagini è diventata patrimonio di tutti e in un altro senso il ci­ nema si è fatto corpo, corpo mistico, pane mangiato in qualsiasi paninoteca pub­ blicitaria, cadavere imbalsamato citato e remakato all’infinito (secondo un pro­ cesso che parte dai Bogdanovich e arriva al Moroder che colora e “musica” e im­ belletta il corpo di Metropolis). Dietto la superficie lucidissima e tesa dell’imma­ gine filmica iperrealistica, dietro il look di un mondo simulato, è pronto l’altro corpo della simulazione. Come immagine mentale, i “mostri” in tre dimensioni sono già lì in un attimo prima di irrompere da dietro lo schermo e da dietro la parete (come nella magnifica scena di Pianeta proibito). Gli oggetti stessi sullo schermo del nuovo look si assumono (Christine) il ruolo del soggetto e dell’occhio stesso. Non l’occhio sembra avere la possibilità di rico­ noscere le immagini e discemerle, ma le immagini quella di captare l’occhio. Look è del resto un termine che oggettiva lo sguardo e l’estasi. Nella parete tele­ matica e mutevole Vocchio (con la capacità stessa di mutare punto di vista, di se302

Immagine-epidemia del corpo (e., viceversa)

lesionare..) è inglobato e dipinto, noi che guardiamo siamo già li avendo dele­ gato lo sguardo. Si vede allora come la vertigine, l’ossessione, la “tragica” do­ manda del replicante, o dello spettatore sulla “replica”, sia falsa, sintetica e repli­ cata anch’essa. Nessuna differenza; viene il sospetto che da sempre ogni film ogni fotografia (ogni bacio?) sia l’immagine di una copia. E la vertigine diventa il ricordo di momenti di un cinema che oggi sembra perduto, di uno shining sempre più difficile da percepire: il “fantastico” emanato da film dove non si parla di co­ pie ma dove (Shining è il testo capitale e ultimo di tale cinema rintracciabile in tanti momenti di Bergman, Herzog, Antonioni, Lynch, Ophuls, Boorman..), ogni attimo si propone irripetibile e proprio per questo incerto, sospetto, mali­ gno, friabile; irripetibile e proprio per questo ripetuto, come ricalcato su una traccia perfetta e invisibile nell’aria, fantasma di un’invisibilità. Che sia John Wayne a cavallo e col braccio alzato nella Monument Valley di Ford, o l’inna­ morato di Vigo che cerca un’immagine d’amore sul fondo del fiume sotto l’Atalante, o Jack Nicholson che cerca di sfuggire al labirinto delle proprie immagini nel tempo, quello è il cinema degli ultracorpi, deviazione improvvisa delle im­ magini in un clinamen di atomi visivi, sospensione del giudizio, per cui tutto ciò che si vede appare anche come recitato e agito da corpi-robot, consegnato a un’e­ stasi fatale. [in Epidemie deirimmaginario, Il lavoro editoriale, 1984]

303

CLUB

A

CLUB

fuoricatalogo

'dispensacela, a sé* di Enrico Ghezzi

(pervenuta, ahimè!f fuori tempo massimo

ma a cui non abbiamo saputo rinunciare) n«d«r«.

NON RICORDO

4

(riassunta di un pazze per gli anici dall’officina)

Nel cinema 1 cinema, nel fils i ulub. Andare al cinema è/era andare in sala, e prima ancora andare per sale secondo derive quasi si tua zie ni s ti,

perderai e ri t levarsi lunge le città a piedi e pei in autebua e pel in vespa, scoprendo ogni tante un nuove ’oldsrado* a sampierdarena, un 'èden'

a veltri, un 'albatree1 a rlvarolo (sona tutti quartieri periferici di ge­

neva) •

Nomi Non riesco a trovare collegamenti (o non he tempo né voglia), però negli ultimi anni (a parto lo molto cose non scritte, mai spedite, perso) por

tre 'pezzi1 o cose da scrivere ho avuto problemi particolari. Una re-in traduzione per un numero di 'filmar!licapsula clnoma^porn^Sarà; una ri­ cerca per un'patalogo* passato sui nomi dei t cinema delle regioni e cit­ tà che grafèmi. B per questo 'club a club'» Di quella ricerca ricordo la delusione -indagando su scala nazionale- nel

constatare la secchezza, lo scarso fascino, la rigida programma ti ci tà o i S»Mi*oineclub. Bsdus. l’.coht. v.rocchio la bocca che da soli possono fora»xingolare quella delusione» L'occhio, appunto, era il nome più appassionante, quasi un titolo di film

o l'unica club -per me a geneva- che potesse rivaleggiare con filmstory

sovrapponendo al rigore follo genovese una rigorosa follia, un po' di sen­ tieri selvaggi. Ma lì a filmo tory erano altri i nomi che contavano, quel­

li scritti con lo t gigantografie dei ritratti sugli ingrossi delle duo salette» Sala ford o kl* De Millo, il 16 o il 35, unica scolta una diffe­ renza di stazza, qualsiasi colore purché sia nero (WrSMllitXX»»)»

Straordinario, era di tendenza anche solo scendere le scalette e sostare

sotto quelle fotografie» Ma spianava un po' non andare invece all'airone, che non esisteva più o non esisteva ancora prima di non esistere più. 0 al 1'Alcyone, dove tra uno spogliarello e l'altro (o era il superba) davano

la mia droga si chiana julio o incredibilmente scaramcuche in riedizione?

o un masumura vietato ai di ciotto» Il club, senza avventura, era come te­ lefonare a un amico, l'apparato dolce della chioccherà, del biglietto mol­

to cheap per i soci sostenitori, del bar con le carisberg e del tv-color con i mondiali del 74 (grandissimo francisco marinho, e Iute peroixa e naturalmente Cruyff i^estaUXI di chinagHa. •) • Tutte cose che si ricor­ da—

M g inflitte spari aceno, devono sparire ■ e riaffiorane solo k se le ris­

caldi immergendole nell* tassa di thè» Ma reo giusti -°Wolti altri, me/io compreso- oootione di ricordare perfet­ tamente con chi xstaK vide 1 singoli film (lui aveva terrea lotltuslona11 e invitava). Naturalmente non è vero, «peone mi situa ixxpl accanto a

lui in occasioni mal occorse; o il guaio è che lo ricordo una persona,lui un’altra* Sopravvalutata la memoria, o l’amicizia, o tutte e duo* Un film,

soprattutto in una grande sala (affollata di sabato sera o vuota alle 14,3C di un bel giovedì di maggi* solatìo -appuntamento prediletto quest'ultimo,

ma non al nell’anno di liceo perché noi non si marinava), è sempre visto da soli* Così come -et sa- ogni film è sempre fatto o xxm recitato e dirot­

to ’in soggettiva*9 essendo notoriamente ’risultato di un lavoro d’équipe* (cosa anche vera, m ma proprio nella stessa accezione in cui le guerre,

dalla dichiarazione all’armistizio o al fungo o allo sterminio, sono an-

I

ch'esse ’lavoro d’équlpeg')* Lo si scopre tardi, tardissimo in genere,

!

quando giustamente si è già passata una vita a distinguere piani e sequen­ ze, pianisequenza e montaggio sovrano, montaggio interno e montaggio paral­

lelo o soggettiva* •

Memoria

L’itinerario è questo! andare al cinema cercando i film nella topografìa cittadina (genova città di mare e di misteriosi distributori napole tomisti­

ci pullulava ancora di 'copie uniche* invidiate e cercate in tuttitalia)e

insieme golosamente assorbendo quelli nuovi nelle primevisioni o meglio nelle prosecuzioni (o bì chiamavano 'pròseguimento! di p.v* ’?)pcanB£ÌBe ntxmtn ritrovando e volendo til cinema!: finire poi nei cineclub volendo

•il film’, consci che la scelta era già stata operata prima da altri, coi quali si poteva essere più o meno consonanti; 'scegliendo ’noi’, ma ap­ punto sapendo prime, essendo in qualche rodo già ’colti’ oCSS^’awisr - ' ,3i\ a parte ’1 -ualcosa* E dico ’noi* perché comunque tri va al cinema, in'tanti’ sempre anche se poi si vede da soli sempre* Infatti ola si tele­

fonava prima e dopo le visioni solitarie solitarie (quando insorra nessu­ no era seduto vicino), ci si comunicava tutto anche in interurbana. Nella saletta del cineclub poi, specie in certi spettacoli pomeridiani degli an­

ni d'università, non si era mai ’soli’ anche quando lo spazio era punteg­ giato -due per fila- di cinefili ognuno più solo ego ti etico chiuso e dif­ fidente dell’altro (l'unico che non diffidava mai **ra forse m.g* -ma lui

credere di 3 appunto fingeva di non essere mai polo - e questo è rimasto il sue pregio e difetto saggiare)» Lì si formava il 'gusto*, chopper quanto soggettivo appare essere una delf^TSfù no mal izza te e normali zzanti e sul turai izza to Ozrtt So 1 nomi di quelli che scrivono per Officina, per Club a Club. Vorrei fa­

re una vldeolottora, per rendere seno osceno, o più insopportabile, il flusso di memoria. Qui devo interromperlo. So che gran parte di 'noi* ve­

diamo e vorremmo vedere gli stessi filo, ’amiaH1 lo stesso cinema e eser­ citiamo più o seno gli stessi desideri sul pro a sino cinema- Pome di comu­

niSmo utopico. Anche se ognuno vorrebbe anare cose sue e scoprire tesori, trovare Vero anche se non per venderlo.

Il aio tassello lo posso «vendere anche a poco, non fingere di darlo por amore• Anche se 'amore9 era la parola di cui ci ri empievano la bocca e la

testa- Inoro per il cinema, contro tutti gli accademismi. Passione per il cinema. Facemmo una rivista, Il falcono maltese, ohe giustamente rivendi­ cava l'auBr? cotica e te do e baso, che palesava ciò che avrebbe dovuto dare

per scontato e che giustamente non voleva dare pei; scontato. Bppure il tassello dàxxslnxHxqx contribuisce solo al quadro di un set|

storiografia. Non è neppure tangente alla luce dello schermo, sempre ine­ sorabilmente sopra le nostte teste (se no4 non si sarèbbe visto nulla,o

delle silhouette che avrebbero prodotto pugnalate). La storia della cine­ filia sarebbe interessante, e va fatta, non mediante le memorie di noi tutti pentiti dissociati o duri incalliti, non mediante le cronache degli screzi e delle pacificazioni o dei fili sotterranei (ricordo uno grmék del

la cappella triestina, mi scrisse dopo aver lette a casa di casotti un pezzo della mlantioìt8tftolo, cinema moralla), ma mediante 1 programmi,!

volantini, le registrazioni, le scritture, come so fossimo morti e fosse solo archeologia, ricerca di dati fonti reperti. Eccoci invece a fare le fonti viventi di ricordi, con soaroo possibilità

di emuàro la vivezza delle storie (per r ostar lontani) dei gruppuscoli nichilisti xt e populisti russi.• A ricordare, a far memoria, thè pianti

risate* > comunanza. Non potrei for altro che aderire. 1 ringraziare alme­

no sol o sette personoft che .tì hanno permesso di somare e di vedere cose

mai viste. Aàore (Per me l’innamoramento per sempre avvenne

al cinema né al cineclub,ma

nell’extraterritorialità di un teatro-auditorium (’delle clariase’) in rapali?Iftionoine da settecenti bianche e In velluto, mentre Bul­ lo schermo passava un fila nx del periodo zarista su Stenka Bazin* Smar­ ci nel buio, poi perfezionati di fronte a un videtgioco in bianco e nero e poi in una partita di scopone o un caffè• Bra ’quasi’ un festivali, •

il festival appunto era una colonia a sé, nella vita del cinefile, terra

ancora più ambigua o serbatoio di visioni 00801000 o di nassa -per olita rio che fossorf- rispetto alle solitudini abituali anche dentro le follo domenicali dei cinema)» Sesie

Strano ohe si finisca subito a parlare di memoria o a ramemorare, che oi si faccia abbracciare dal tempo» mentre si tratta precisamente di epa zi ex

o di luoghi» Che si rammentino azioni o comportamenti invece che visioni o operazioni sullo visiono» Bizzarre dispositivo della memoria ohe oi riporti

atti e modi, forme e rituali, ma allontana la visiono » Ci ricordiamo (??) con chi e ferree dove e corto a ohi piaceva o ohi no (verifiche smentito poi mille volte, sicurezze di schieramenti oontrappostd ohe poi oggi sem­

brano perse e ricuperi solo dopo lunghi discorsi scoprendo fondamentali differ anelanti sfumature), ma più facilmente dimentichiamo l’attimo di un film o magari una svolta importante della ’storia*• Irriducibilità della

visione, non tanto per l'attualizsazione ovvia ogni volta soggettiva del film ohe si vedo, per il remake-up di ogni testo sullo schermo (1 film in­ vecchiano» si sa è si dovrebbe sapere), ma anche proprio per il film. Og­ getto invisibile che resta UFO ag sempre, noe dolo duro oltre ogni analisi testuale, oltre ogni smontaggio produttivo (quanto no abbiamo impara té ne­

gli ultimi anni, quando un festival come pesare ha assunto p»es. il disoor so tan dello caso di produzione), oltre ogni sapere » $>pure si commemora, oi celebra» Strano 1964 terminale primo di un'archeo­ logia del futuro» In meno di tre mesi, in Italia, si commemorano i venti­

cinque anni della nouvelle vague, i vent’anni di pesare o i ’quanti anni?1 dei clnb (cosa accadrà nel 1996? Cent’anni di cinema prin.\ della fnga di

cr.rrenter da new york e di k h^nk-kong alla cina). Giulebbe e colpi al cue

re del cinefilo» la prima volta/Difforense

Fon ricordo il primo film che vidi a fiImatory (di sicuro era bellipsimo; per -ne.ibrfe

r. così diversi e cosi pronti a farsi ugualmente da specchio. [Segnocinema, 1, 1981]