Cose (mai) dette. Fuori orario di Fuori orario 9788845229022, 8845229025


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Italian Pages 300 [249] Year 1996

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Cose (mai) dette. Fuori orario di Fuori orario
 9788845229022, 8845229025

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enrico ghezzi

cose (mai) dette f IV fuori orario di fuori orario

M!

Da sene anni (il 2 novembre 1989 è partito nella forma attuale, su Raitre) fuori orario cose(mai)viste forma con blob e schegge un tridente di programmi acefali, dispersi, intensamente marginali. Ma se schegge è la teoria dell’archivio perma­ nente e mai fìsso che si fa spettacolo dello spettacolo esploso e asperità che si conficca senza nome nella memoria nostra e nella pianezza televisiva, se blob è l’archeologia dell’immediato e il viaggio del cervello nello stomaco (e viceversa, andata e ritorno), fuori orario è la passione, l’amore che brucia le immagini tut­ te insieme, nella privilegiata assenza di dimensioni della notte. Anarchico e ri­ spettoso, pirata e rigoroso, ‘integralista’ e ‘frammentista’, classicista e selvaggista, fuori orario ha costituito giorno per giorno un’avventura (per chi lo fa) nella pro­ pria memoria e oblìo delle immagini, e per i sene o settantamila o settecentomila spettatori lo spettacolo di tale avventura e il tuffo a propria volta nelle acque anche fangose di un immaginario che diventa enciclopedia, miriade di riferimenti sempre diversi sempre uguali. Buona Visione dice enrico ghezzi lanciando fiiorisincrono immagini spesso annunciate dai giornali, mai promesse da spot o trai­ ler. Buona Visione (e.gh. è orgoglioso di questo) lo dicono ora tutte le annuncia­ trici. Piccolo misticismo quotidiano televisivo. Intanto, con l’accanimento di voler far essere cinema la tv e tv il cinema, ’diretta’ un film di Vigo Lang Rossellini e ‘film’ una telecronaca, fuori orario insiste, proponendo ridisponendo indispo­ nendo immagini mille volte (mai) viste e inediti assoluti, prime volte e ultime vol­ te, furti e consacrazioni, a praticare non la visione né la revisione, ma la stravi­ stone. Stravisioniamo, stravedere, chiudere gli occhi. E i ‘discorsi’ di e.gh. (auto­ rizzati solo da sé) si scusano solo così, con la cecità, col non mostrare (quasi) mai i propri occhi; parlare solo di quel che (non) si vede.

enrico gbezzi ha (?) quasi sedici anni nel maggio del 1968. Ama Eddy Merckx co­ me Jean Vigo come gli 8 metri e 90 centimetri di Bob Beamon. Si occupa di cine­ ma e di televisione (o meglio, e peggio!, ne è occupato). Dal 1979 lavora a Raitre, perlaquale ha curato o inventato cicli difilm, le nonstop dieta Magnifica Osses­ sione, e iprogrammi fuori orario, schegge, blob, oltre a aver diretto dal 1987 al 1994 ilpalinsesto della rete diretta da Angelo Guglielmi. Gli piace troppo scrivere per non lasciarsi annegare nelle immagini. Dirige il festival di cinema di Taor­ mina dal 1991. Ha realizzato da regista alcuni programmi tv, ilfilm cortome­ traggio GELÓSI E TRANQUILLI, e alcuni videoclip. Sta realizzando un film inti­ tolato LUCE IN MACCHINA e, per Bompiani (dove ha già pubblicato paura e de­ siderio.), sta scrivendo una cosa che (non) assomiglia a un romanzo, COMPAGNI DI NEBBIA (o ORO SOLUBILE??. Come tutti, crede di amare e non sa se è ama­ to.

In copertina: enrico di Mario Schifano ® 1996 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano I edizione Bompiani ottobre 1996 II edizione Bompiani gennaio 1997 Stampato presso il Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - Bergamo ISBN 88-452-2902-5

enrico ghezzi

cose (mai) dette fuori orario di fuori orario (librorale)

Bompiani

a marco melarli

* - richiami dal testo parole a margine - rimandi al testo

Ultimi bagliori di un crepuscolo

Non è la storia, il racconto fantapolitico, quello che in­ teressa e resta di questo film, molto bello e sottovaluta­ to, di Robert Aldrich, del 1977, dagli anni 70 molto du­ ri, dal cuore degli anni 70. E al di là del cast, con al­ meno due grandi divi, Burt Lancaster e Richard Widmark, ma anche col grande Charles Durning, e al di là diciamo delle seduzioni di genere e del grande conge­ gno spettacolare, quello che colpisce - ancor più della minaccia atomica, ancora una volta messa in scena, messa in scena come minaccia non di guerra, ma di pu­ ro scacco - è il gioco, gioco che, grazie all’atomica, si riposiziona a livello più alto. Quindi il gioco che come posta ha lo sterminio, lo sterminio atomico di enormi masse. E non per guerra, ma per un segreto, per una li­ bidine, per una vendetta, per un desiderio oscuro, alla fine, come un desiderio oscuro e un gusto oscuro è quello del potere. E, infine, questo film è appassionan­ te perché gioca, appunto, la partita del potere e del de­ siderio fino in fondo. Fino in fondo, fino cioè a non po­ terla mostrare. Infatti un contrappunto continuo del film è quello delie telecamere di controllo nella base missi­ listica - dove avviene quasi tutto - che tutto controlla­ no, tutto dovrebbero controllare e non riescono a con­ trollare tutto, perché ci sono degli angoli ciechi, delle zone morte, dove questi occhi perfezionati e ulteriori queste protesi - non riescono ad arrivare. E allora la messa in scena ultima è proprio quella della messa in scena, della possibilità di vedere e di mostrare che ha il cinema stesso quando è in mano a un regista democra­ tico duro, spinto, tesissimo, come Aldrich, che sa bene che non si riesce a mostrare tutto. E che, proprio grazie al fatto che non tutto è mostrabile e che resta un mar­ ginale invisibile agli occhi che per ciò stesso diventa es­ senziale, in questo luogo si nasconde sicuramente il po­ tere e ci si può anche nascondere. Si può giocare a rim­ piattino col potere, ci si può acquattate, e quindi gioca­ re la partita anche nel luogo dell’occulto, sperando di fame un film, sperando di farlo vedere, di spaccare quelle telecamere di controllo e muoversi, respirare in una panoramica., in una panoramica di occhio umano o in un'ulteriore protesi, più totale, più delirante o più

Aldrich 9,102

atomica 9.36.39.173.175

guerra 9. II. 16. 18. 24. 26. 41.175.

196

potere 9, 14.31,53.88, 230

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soggettiva. Non in mano a un potere, ma per un solo, puro piacere. Buona visione [10 febbraio 19951

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John Ford dichiara guerra

John Ford Declares War. Dichiarazione di guerra di John Ford. Il cinema è da sempre il luogo della guerra, non solo perché è come un campo di battaglia - se­ condo la definizione immortale di Sam Fuller nella par­ te di se stesso in Pierrot lefou di Jean-Luc Godard - ma perché la battaglia, la guerra, con il suo dispiegamento di strategie, è il set immaginario, naturalmente perfetto per il dispiegamento della strategia cinema su un set. È pura avventura e, in più, rispetto alla superiore libertà della avventura che spesso sconfina nel fantastico, è la costrizione del gioco della realtà, del dover vivere, so­ pravvivere o distruggere e non, invece, danzare, come ci ricordano alcuni capolavori del cinema avventuroso, per esempio II corsaro dell'isola verde di Robert Siodmak, oppure Scaramoucbe, o / tre moschettieri di Sid­ ney, che sono comunque qualcosa di più del puro ci­ nema avventuroso: una sorta di sublimazione del cine­ ma che si rispecchia in un gioco fantastico. Allora John Ford e la guerra. Non è un caso che John Ford sia un ci­ neasta così raramente dell’avventura - dell’avventura in­ tesa come svincolata dagli obblighi di un rapporto men­ tale o storico con la realtà, ma vista come una fiaba su­ periore - se non in alcuni rarissimi film come, forse, I tre della croce del Sud, dove però c’è una tale persi­ stenza tematica fordiana - ad esempio quella dell’ami­ cizia e dello scontro virile - che di nuovo non si può di­ re che sia un altro genere a dominare. In ogni caso, il grande genere di John Ford, ovviamente come per tutti gli autori, più ancora del western, è il cinema di John Ford. Allora si può anche dire che la forte presenza di Ford sui veri e propri set bellici - quindi non più sulla guerra immaginata ma sui set della seconda guerra mondiale, poi sui set della guerra di Corea (e vedrete, appunto, stasera, credo in prima televisiva in Italia, This Is Korea!) fino al Vietnam - testimonia, da una parte, di una sorta di valore primario di questa comunità ma­ schile, non perfetta ma perfettamente sublimante la so­ cietà, che è l’esercito e, dall’altra, di un impegno reale da parte di John Ford per il suo paese, sui vari set bel­ lici. Che cosa c’è di estremamente filmico in questo ci­ nema documentario di Ford che vinse anche degli

guerra 9.11.16.18. 24. 26. 41.175. 196

Ford

11.33.59.143.203

Godard 11. HO. 112.114.117. 141. 143.

162.16$. 192.195. 197. 220.

229 set 11. 59.66.78. 80.187. 218. 222

documentario 11. 22. 25. 43. 47. 62. 108. 146.

151. 161.169.182. 200. 230

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occhio 12, 23.95, 111. 126.151, 185

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Oscar, come nel caso de La battaglia di Midway che ab­ biamo più volte dato e di cui, anche stasera, vedrete dei pezzi? C’è la serietà spaventosa, che diventa quasi ludi­ ca e che è imbarazzante, e la cattiveria nel dare le cifre della vittoria sui giapponesi a Midway. L’imbarazzante, sì, l’imbarazzante anticomunismo, in certi momenti, di This Is Korea!, secondo me è, in qualche modo, il mo­ mento più fìlmico, proprio perché quello più spinto al di là di un rapporto col reale. Naturalmente è facile di­ re che dimentico, troppo facilmente, che si tratta anche di film di propaganda che devono comunque confer­ mare, in ogni caso - in un sistema democratico come quello americano - confermare al pubblico la giustezza della propria posizione durante un particolare sforzo bellico. Però, di nuovo, in Ibis Is Korea!, questa esage­ razione dei toni, questa retorica assunta senza nessuna., senza nessuna vergogna e anzi, di nuovo, gonfiata, qua­ si anabolizzata, dà luogo, in realtà, a immagini di gran­ dissima purezza fìlmica, tanto che, visti oggi, fuori da quegli agoni politico-militari che effettivamente si svol­ sero, possiamo, con l’infamia dello spettacolo - assu­ mendo per un attimo fino in fondo l’infamia dello spet­ tacolo - dire che, in questi grandi film-documentari di guerra di Ford, assistiamo, in realtà, a una costruzione purissima di cinema che ci dà anche un senso della ter­ ribile angoscia di questo soldato eterno, che attraversa tutto il cinema fordiano, totalmente dedito al valore, ai valori dell’esercito e del paese, ma così coattivamente dedito a essi da apparirci - anche quando ha le fattez­ ze, in certi film, degli attori più umani di John Ford - da apparirci una specie di fantoccio, di fantoccio-fantacci­ no, di persona obbligata dalla storia, da un set e da un regista per ultimo, a compiere quei gesti, quegli atti an­ che di valore e eroismo. E c’è un momento in This Is Ko­ rea!, quando la voce evoca l'arrivo dei rimpiazzi - fil­ mato come sempre magnificamente, che sia filmato dal­ la troupe di Ford oppure preso da repertorio, comun­ que una scelta delle immagini sempre alta, semplice e insieme alta - che, d’improvviso, li vediamo proprio co­ me fantasmi costretti, da sempre, a avanzare verso non si sa bene che cosa. Possiamo pensarlo anche in rap­ porto a film di fiction come II massacro di Fort Apache, che spesso è stato visto come un film anti-indiano o, co­ munque, come un film tipicamente di destra. Ma se si vede con gli occhi del cinema o anche semplicemente

con i soli occhi che abbiamo tuttora, gli occhi dell’oggi - ancora gli occhi diffìcilmente riescono a vedere den­ tro i più tempi che il cinema, ormai, gli suggerirebbe dobbiamo ammettere che II massacro di Fort Apache, per esempio, è un grandissimo film antimilitarista. E proprio mentre segue fino in fondo la passione - il de­ lirio militare, la fedeltà militare alla legge e alla forma, alla struttura pura di Henry Fonda in veste di similCuster - in realtà ci denuncia, automaticamente, l’assurdità di questa stessa fedeltà, che non ha neanche i bagliori della santità ma, appunto, una sorta di roboticità mate­ rialistica. Domani vedrete un’intera notte dedicata a John Ford e, intanto, buona visione. Con questa guerra che ancora una volta, stasera, faremo dichiarare a John Ford, vivendo le sue immagini e forse, forse deforman­ dole con la nostra sola ipotesi di rimandarle in ond'. Buona visione. 118 febbraio 1994]

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Tempesta su Washington

colore

14.41.59.62. ’1. «6.176 hollywood

14.50.65.75.80, 118.137. 221

Ataiante

14.143.147. 152.153. 155.158 VlgO

14. 141.147. 153. 240 potere 9.14. 31. 53.88. 230

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Buona notte. Sono in aeroporto e ho un telefono a sche­ da. Quindi finirò presto con la scheda. Con l'esaurirsi della scheda. Un aeroporto è un luogo molto disegnato e parlare di Preminger, anzi di questo film particolare di Preminger che è Tempesta su Washington, è un po’ co­ me parlare di un enigma. Intanto perché non lo vedo da molto, ma soprattutto perché quella che va in onda sta­ notte è una copia oscena, come molte delle copie dei film che si vedono adesso. Non solo è doppiata ma, in più, è ‘scannata’, riquadrata, e colorizzata. Un altro film. Soprattutto se pensiamo che Preminger è quasi sempre, nel suo cinema, uno dei massimi architetti visi­ vi che siano esistiti nel cinema hollywoodiano. E così il film è lontano-vicino, attualizzato da questo colore. Sapete che non abbiamo nulla, che non ho nulla, in principio, anzi, contro queste ferite infette ai testi, an­ che ai film più belli: Sentieri selvaggi di Ford o L’Atalaute di Jean Vigo. Però il rischio, allora, è di appiattir­ li solo sull’attualità-inattualità, sul discorso del potere che solo il cinema americano - forse perché è così vici­ no al potere del capitale, potere del capitale di produr­ re immaginario e di trarre capitale dall'immaginario, trarre potere dall'immaginario stesso - proprio solo il ci­ nema americano - a meno di non considerare il cinema nazista o stalinista ma, poi, solo a Hollywood - ha sa­ puto fare più volte e in film non solo politici. Il discor­ so del potere. Ancora più complicato, poi, rispetto al ci­ nema nazistalinista che è geometrico, ancora più com­ plicato dalla difficoltà del dispiegamento di questo po­ tere aU'intemo dei regolamenti. Sì, proprio dei regola­ menti, delle regole democratiche. E questo mi fa pensa­ re a tutto Preminger, al Preminger che vedrete poi do­ mani che, curiosamente, è di nuovo il Preminger son­ tuoso dello schermo grande, del colore o comunque di questo cinema, almeno visivamente, epico o in costu­ me. E non il Preminger, ancor più straordinario, dei pic­ coli-grandi film noir, per esempio per la Fox, o il Pre­ minger di Laura, il Preminger che ha fatto, per molti, di Gene Tiemey una delle forme più pure e inquietanti della storia del cinema. Gene Tiemey con la quale eb­ be un rapporto poi crudele (e, guarda caso, Gene Tier-

ney ebbe un rapporto anche con un grande momento umano della politica americana: Kennedy. Ma sto ridi­ vagando). Quello che a me preme, invece, è proprio il Preminger - stanotte e domani - alle prese più direttamente col sistema hollywoodiano nella sua grandeur, nella sua voglia di essere grande e di confrontarsi con soggetti grandi, con momenti ampi, sia di narrazione, sia di dispiegamento di ricchezza sul set. E, anche lì, lo sappiamo, è, per l’appunto, una questione di democra­ zia. Preminger è noto per essere stato uno dei più cru­ deli e autoritari directors sul set, un despota, un po’ al­ la Fritz Lang, con in più dei giochi - si racconta - di ve­ ra e propria tortura psicologica. È il tema ricorrente al­ l’interno del cinema hollywoodiano del ricrearsi, dentro l’immaginario, di una lotta tra diversi despoti e tiranni, tra il vero e proprio dispotismo asiatico, da una parte e, dall’altra, i sindacati, le forme di protezione, per esem­ pio, delle varie professioni organizzate all’interno del­ l’industria dell’immaginario. Quindi questo ’enigma' Preminger.. Enigma, perché enigma? Perché poi, invece, è creatore di forme, ripeto, purissime, apertissime, do­ ve * un corpo diventa una geometria alata che ci ricor­ diamo così come un cristallo. Ecco, Preminger ci ha da­ to alcuni di questi momenti non quasi astratti, definiti­ vamente astratti, dentro il cinema, che per noi sono il cinema, come Rossellini, Vigo, Lang, Ford, Ophuls. Buona visione con questo enigma offeso, Tempesta su Washington, Otto Preminger. Il mistero della regia, il contrario della democrazia e il sublimarsi del sogno de­ mocratico di vivere oltre la morte. Buona visione. [5 marzo 19951

Lang is. 49, 162.197. 237

corpo IV 34. 36. 39. 45. 47.63. 81.

85. 95. 97. 102. 106. 139.141. 144. 160.162.176.184. 189. 193.228

morte 15. 1«. 21.31. 52.81.97. 104. HI. 187. 219

* un corpo diventa una geometria alata che ci ricordiamo co­ sì come un cristallo

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Giglio infranto (cuori di tenebra nel mondo di Bosnia)

guena 9. 11. 16. 18. 24. 26.41, 175. 196

diretta

16. 127. 129. 137. 230

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Stiamo un’intera notte sui confini impossibili della guer­ ra, oggi, oggi più che mai impossibili come confini. An­ nunciano la notte di domani, a cura di Sergio Grmek Germani, che parte da un'idea di Bosnia, come luogo eletto della guerra, senza confini e insieme intorno ai confini sempre più fratti, sempre più frattali, verrebbe da dire. Le immagini che l’annunciano sono quelle di un bellissimo film di Raffaello Matarazzo, Guai ai vinti, un film radicale nel mettere in scena un lungo incubo in­ fantile che parte da immagini terse, riposate, anche se la guerra è lì a un passo, oltre un fiume, oltre un corso d’acqua-confìne, e poi lungo l’acqua. C’è l’idea acquati­ ca, uterina, della violenza carnale, della mescolanza dei segni. C'è una grande pioggia. Matarazzo trasforma la guerra, la guerra sociale e politica - fenomeno, diciamo, di macro-storia - la trasforma, invece, in un puro melo­ dramma, in una sorta di corazza-non corazza, in un coz­ zare di diverse corazze di sentimenti intorno al nucleo familiare fasullo, puramente fasullo, dentro questa guer­ ra che, ovviamente, non va oltre i confini familiari. Que­ sta notte di domani, piena di film e di altre immagini, è soprattutto una none di distanza dal soggetto Bosnia. E nonostante l’accanimento, anzi direi grazie all’accani­ mento di Sergio Germani, verrà fuori proprio il fuori orario, l'impossibilità di essere in diretta, oggi più che mai, oggi che abbiamo più informazione, anche visiva, oggi che ne siamo affollati. Dicevo impossibilità di es­ sere in diretta con questa guerra - ma diciamolo - con qualunque guerra, con qualunque amputazione violen­ ta voluta, con qualunque stupro. Impossibilità di essere in diretta che, poi, può essere anche desiderio osceno di essere davvero in diretta, di farle queste cose. E in­ vece, di nuovo, non poter essere soggettivamente. Po­ ter solo continuare in questa carezza, in questa tenerez­ za terribile o in questo stupro visivo, vedete voi, pensa­ te a voi mentre vedete. Cosa state facendo a queste im­ magini, queste immagini-corpo? Distanza. Perché dice­ vo distanza? Perché, ancora una volta, fuori orario, in­ tervenendo su un tema presente, duro, di cronaca, cro­ naca storica, non può che evidenziare la distanza, la di-

stanza dello sguardo, il fatto che lo sguardo è automati­ camente distanza. Anzi, la istituisce proprio questa di­ stanza, la ribadisce. Per cui, ancora una volta, non c’è questa differenza tra fiction, non-fìction, tra forma-film, forma-documentario e forma-televisiva. Sono solo di­ verse traiettorie, dettate, in questi casi, tutte da un’unica forma che è la forma di questi conflitti. Proprio perché la guerra è forse la forma del cinema, ma anche quello che abbiamo sentito dire tante volte da Samuel Fuller: ’Il cinema è come un campo di battaglia con una batta­ glia’. Il cinema è questo, non è come. Il cinema è batta­ glia di segni - noi ne cogliamo pochissimi - in ogni im­ magine, in ogni attacco di montaggio. • E anche dentro l’immagine ci sono scontri che non capiamo, li perce­ piamo ma non li capiamo e, in qualche modo, neanche li vediamo. Non riusciamo a vederle, queste cose. Ep­ pure ci sono: c’è una linea, una curva che ne uccide un’altra, c’è ogni momento un’immagine che uccide quella precedente. Il cinema è molto così, è meccanico. C’è illusione del continuum, ma è molto più facile sa­ pere che c’è questa guerra tra immagini, e che dove ce n’è una non ce ne può essere un’altra. Ecco, inseguen­ do questa sovrimpressione continua di vita nostra, di vi­ sione nostra e di emanazione delle immagini da questa guerra terribile, domani - in questa notte costruita, in certo modo patita, ma anche, forse, goduta da Sergio Germani - cominceremo a attraversare tutti i confini mi­ nuscoli, minimi, che alla fine arrivano fino a noi, e che rendono possibile qualunque guerra. Buona visione. (10 giugno 19941

* E anche dentro l’immagine ci sono scontri che non capiamo, li percepiamo ma non li capiamo e, in qualche modo, nean­

che li vediamo

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Somalia anno zero

Rossellini 18, 25.28, 31.32, 60,138.148,

158,160.162,166, 222,230

guerra 9,11,16,18, 24, 26.41,175.

196

mone 15, 18. 21, 31. 52, 81, 97,104, 111, 187,219

macchina

18,97, 107, 129.131

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Cosa è rimasto e cosa rimane, cosa rimarrà di un anno e più di operazione militare umanitaria in Somalia? Ri­ mane, sicuramente, la solita desquamazione di immagi­ ni che si è dipartita da quella realtà e che resterà, per noi, a lungo o brevemente, o già sta dissolvendosi, co­ me unica memoria, unica traccia possibile. Somalia an­ no zero. Un’allusione al tentativo fortissimo, intensissi­ mo di Roberto Rossellini di uscire dall’impossibilità del cinema e dell'immagine di testimoniare alcunché, di toccare davvero le tragedie e i dolori del mondo, in­ ventandola quella realtà, unico modo per rendersi simi­ li a essa. Questa sorta di ‘contrario’ del neorealismo, in­ teso comunemente, che sono i film di Rossellini. Soma­ lia anno zero è, invece, la testimonianza dell’anno più lungo della televisione. La televisione ha avuto molto tempo e molto spazio in Somalia, in una situazione tut­ to sommato meno di guerra, meno drammatica, meno immediatamente a rischio che, per esempio, in Bosnia, nell’ex Jugoslavia, a Sarajevo. Quindi una situazione in qualche modo ideale per cercare di vedere, capire. E in un anno che è iniziato - lo ricordiamo - con uno sbar­ co quasi burla, con i soldati che ridevano, accolti sulla spiaggia, di notte, dai fari, non di un eventuale nemico, non di una resistenza, non di una fazione somala, ma di quelle fazioni che sono le diverse televisioni mondiali. Confusione assoluta tra ‘troupe’ e ‘truppe’. L’avventura, il tentativo di missione, questo strano pasticcio somalo, si è concluso, in qualche modo, con la morte di una giornalista, Ilaria Alpi del Tg3, e del suo operatore, Mi­ ran Hrovatin. E di questo, anche, vedremo immagini lo­ ro e, subito dopo, anche intorno alla loro morte, filma­ te da loro e dopo. Ovviamente questo rischio è rimasto. Pensiamo anche alle morti di Mostar, agli altri tre ope­ ratori Rai che sono morti a Mostar, perché?, per ripren­ dere un'ultima immagine - erano vicino a un rifugio, tra una macchina blindata e un rifugio - perché c’era una beila luce, ci è stato raccontato. Ecco, in qualche modo, la macchina televisiva - che pure è così presente, che può sembrare così ossessiva, avere quasi una facilità di trasmissione e documentazione - è, in realtà, questo: una bella immagine, una bella luce. E a parte le Eveli-

ne, montate da Ciro Giorgini e Emanuela Sciatta che so­ no anche i responsabili di questa intera notte, vedrete stasera, invece, proprio il girato, il non montato, il gira­ to di base delle troupe Rai, durante questi mesi. Un gi­ rato che non contiene nulla di particolare, ma tanti pic­ coli particolari e, soprattutto, questo fluire ossessivo delle immagini, questo girare intorno a un intero. È una popolazione, è un paese, ma quasi sembra un conti­ nente che guarda in macchina, questa macchina che però passa veloce, ai lati, sempre a sua volta in mac­ china, su un’automobile, su un blindato, su un pulmino, su una jeep. Corre intorno. È proprio la panoramica, dif­ fìcile entrare, carrellare dentro, inventare cinema o un senso dentro questa realtà; si cerca di coglierla nei bran­ delli, e a sua volta questi brandelli guardano continuamente in macchina. Questo è il dato più impressionan­ te. Avete visto, anche poco fa, gli sguardi in macchina originari del cinema; quelli verso la macchina dei fratel­ li Lumière. È come se non fosse cambiato nulla. Allora non si costruiva una narrazione, non si cercava di dare un senso a ciò che si vedeva. Era già sufficiente, di per sé, il vedere, il farsi vedere, questo incrocio di sguardi. Era come se di colpo l’umanità, il mondo, si ricono­ scessero in maniera quasi insostenibile, come quando ci si guarda in uno specchio, per strada, furtivamente. È una cosa molto simile. E non c’è nulla di più, in questa notte, in questo ammasso di immagini. Ma è proprio quello che volevamo raccontare. Volevamo porci lì, su quel bordo dove si toccano la fine delle immagini, la fi­ ne della realtà - la fine delle due realtà incernierate - e si possono solo guardare. Davvero, l’intero continente Africa è lì, è come se ci guardasse in macchina. E noi, a nostra volta, lo possiamo solo guardare dalla macchina e, a nostra volta, in macchina, come se questi sguardi fossero macchine che ci fanno paura. Sguardi della fa­ me, bambini.. E vedrete anche un documentario un’eccezione al nostro tipo di lavoro - di Elena Caputo e Giuseppe Cedema, uno degli attori brillanti più bravi del nuovo cinema italiano, uscito dalla sua maschera in­ telligente, comica e bizzarra. Ha lavorato con I’onu nel sud del Sudan e ha voluto, in qualche modo, uscire dal­ la sua realtà di spettacolo. Eppure sappiamo che questo rientra in una notte che, a sua volta, da voi, giustamen­ te, verrà vista anche come spettacolo, alla ricerca di qualcosa in più, di curioso, di particolare. Noi speriamo

mondo 19.21, 32,37. 53.62,67,78.

95, 104, 116, 142, 144, 176, 182,

202,203

19

destino 20.32.51.57.58. no. 195

che questo sia uno spettacolo, però, totalmente vuoto, che lasci un po’ sgomenti, che non lasci appigli - appi­ gli per la coscienza, per la buona o cattiva coscienza che lasci solo davvero il vuoto di questo doppio sguar­ do in macchina, di questo girare intorno all’acquariomondo, acquario-Africa, • acquario di quello che man­ ca, della vita che, mentre la riprendiamo, deperisce. Po­ tremmo essere noi stessi. Di colpo una bomba, un crol­ lo, una depressione economica. Ecco, questo, questo è uno dei destini paralleli, non solo possibili ma già, adesso, paralleli. Anche se poi resterà solo questa de­ squamazione e la gente continuerà, forse, a morire così facilmente in Somalia e, altrove, in Africa, le fazioni a sparare. Buona visione in macchina e fuori dalla mac­ china. (9 aprile 19941

• acquario di quello che manca

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La luce contro le tenebre

Non è uno spot per Amnesty International contro la pe­ na di morte, anche se lo sembra molto. E diciamo che come tale lo proiettiamo, lo mandiamo in onda stasera. Da molto tempo c’era in Rai questa cassetta, con questa evelina - ma forse non è giusto chiamarla così, questa volta - di una lontana, ormai, esecuzione capitale a Bei­ rut, negli anni ’80, fine anni '80. Una cosa passata, una cosa che possiamo facilmente - oppure con facilone­ ria - definire ‘vera’, accaduta, anche se la morte nel ci­ nema, nell'immagine filmata o videata è ancora meno possibile e facile da definire nella sua realtà, nel suo es­ sere davvero accaduta, ancora meno della vita. Presto questo verrà cancellato, come sappiamo, dalle immagi­ ni virtuali, dalle immagini totalmente di sintesi, per le quali non ci sarà differenza. Si potrà fingere una vita esattamente come si fìnge una morte. Ancora siamo in grado di apprezzare questa terribilità, di disgustarcene, di sentire lorrore, in attesa che, invece, l'immagine sin­ tetica, la giustizia sintetica, la televisione, ancora più sin­ tetica di quanto non sia oggi, ci permetta davvero, al­ meno, di simulare, simbolizzare l’amministrazione della giustizia. Pene di morte, ma solo per immagini. E, come abbiamo ricordato molte volte, sognava, immaginava, non temeva, Chlébnikov, guardando le code delle per­ sone davanti al cinema negli anni subito dopo la Rivo­ luzione d’Ottobre. Ecco. Attesa di quel momento, terri­ bile, tenibile anche perché eliminerà, forse, differenze tra corpi e immagini, ma anche salvifico, forse, perché allora solo le immagini moriranno, e non le persone. Moriranno queste persone che sono le immagini: solo loro. Intanto stasera, a sorpresa, in queste notti di ago­ sto dove, salvo gli alberi che bruciano, le atrocità le te­ levisioni cercano di tenerle lontane - oppure è il mon­ do che fìnge di tenerle lontane - abbiamo proposto queste immagini. E adesso, invece, riproponiamo una notte, curata un anno fa, circa, da Marco Metani e Amos Gitai, montata da Amos Gita! a partire da materiali tut­ ti girati da lui. È una none su una grande storia di intol­ leranza religiosa e, nello stesso tempo, invece, di auto­ intolleranza. Un po’ come il massacro della Guyana: il suicidio orgogliosissimo di un intero gruppo di perso-

morte 15. 18. 21.31.52.81.97.104, 111. 187. 219

vita 21. 36. 52. 67. 78. 83. 92. 97. 104. 144. 163. 202. 240

mondo

19. 21.32. 37.53.62.67. 78.

95.104. 116.142.144. 176.182. 202. 203

Gitai

21.36.66. 228

21

apolide 22.65.67.68

documentario 11. 22. 25.43.47. 62.108.146, 151.161.169.182,200.230

ne, intese, ben intese, per motivi religiosi, a non arren­ dersi, a non rendersi, a restare per sempre in quel mo­ mento, in quel momento dell’interruzione della propria vita visibile e narrabile. Be’, intorno a questo, invece, con molta leggerezza, quel cineasta apolide - e quindi per necessità leggero, fugace, leggero, anche ostinato nella sua leggerezza, che è Amos Gitai - ha proposto proprio una riflessione su come oggi l'immagine stessa è apolide. Passa di televisore in televisore, di video in cinema, di cinema in video. Presto faremo vedere Nel nome del Duce, l’ultimo, il penultimo ormai, leggerissi­ mo documentario di Amos Gitai - si è molto polemiz­ zato - girato a Napoli in occasione della campagna del­ l’onorevole Mussolini per l’elezione a sindaco del no­ vembre scorso. Un documentario in realtà leggerissimo, di nuovo, poco documentato, se vogliamo proprio mor­ di e fuggi: meno di una settimana a Napoli. Però con un momento di piccolo o grande cinema, ma proprio di ci­ nema - di ostinazione nel vedere - quando, all’interno di una sede missina a Napoli, la troupe di Gitai e Gitai stesso insistono pei poter filmare una cosa che hanno visto poco prima, a telecamera non accesa: un ritratto banalissimo, semplicissimo del Duce, di Benito Musso­ lini, che hanno intravisto mentre si chiudeva una porta. E qui c’è uno scontro, ma non uno scontro, c’è un af­ frontarsi, un confrontarsi molto teso tra chi vuole vede­ re e chi non vuol far vedere. Due posizioni entrambe le­ gittime, quindi un’ostinazione leggera che diventa terri­ bile, una chiusura leggera che, per un attimo, può far paura. Nessuna violenza. Però si sente, molto più che in altre cose, l’atto di voler vedere, di filmare o di videare, di voler ancora fare cinema, insomma, di voler dare una forma a una visione, una forma per altri, visto che roc­ chio aveva già visto. Può essere violento o far temere violenza o produrre violenza o mutare il mondo: ecco, un momento di cinema che vedrete presto. E intanto, buona visione. C’è molta oscurità, in questa notte. L’oscurità della sto­ ria, l’oscurità del nero, dell’orrore di Auschwitz. E poi c’è questa lotta della luce che non è da vedere - i ’figli della luce’ o i ‘figli della notte’, nel senso solo degli an­ geli e dei demoni - in qualche modo, di nuovo, una lot­ ta all’interno dell’immagine. Infatti, vedrete un altro mo­ do di viaggiare, e di nuovo di viaggiare dentro il tempo

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del cinema che è, lo sapete, è nella nostra sigh da sem­ pre, la sovrimpressione. La sovrimpressione che da una parte è confusione, dall’altra tentativo di lottare contro questa confusione, di mettere le cose insieme, di far sì che le immagini non siano una, ma una più que­ sta, più a + b + c, e che quindi, come ci dice sempre Go­ dard, parlino, invece di stare lì e farsi guardare o guar­ darci, primario mistero delle immagini. Naturalmente, a sua volta, questa è una singola immagine, ogni volta. Quindi, quando vedrete il grandissimo regista america­ no Samuel Fuller sovrimpresso con un cimitero ebraico, con una foresta o con una panoramica da un treno su un paesaggio dell’Europa centrale, questa immagine sarà diffìcile da leggere, ma sarà di nuovo - e sarà com­ plessa, complicata - sarà di nuovo anche una sola im­ magine e quindi un nuovo territorio. L'unico territorio di cineasti come Amos Gitai è davvero il cinema. E lo è tanto più in quanto lavorano su delle geografìe. Ap­ punto, ritornano. Avete visto ieri UW/, che era proprio - in quel caso, invece - il ritorno in un luogo preciso, molto preciso, a cogliere precisamente lo slittamento del tempo, certi mutamenti. In questo caso invece il tempo slitta su se stesso. Nel presente già slitta. E que­ sta è la lezione di qualunque movimento, naturale o in­ naturale che ci sembri un respiro, che lo faccia un vi­ deo, come in questo caso, o un 35 mm di Nicholas Ray. Il movimento ci dice che h terra non è mai ferma, an­ che se a noi sembra di essere sempre nello stesso pun­ to, di essere sempre presenti a noi stessi. Ecco, c’è un ‘terzo occhio’ - che non è né il nostro né quello della storia - di dio che ci guarda dall’alto, qualcosa che gal­ leggia, lì in mezzo, ed è esattamente il luogo in cui, se volete, se vogliamo, ci si può perfino impegnare, lavo­ rare, morire dentro la storia. Sennò sarà il nostro occhio a galleggiare lì, a cercare di spostarsi in questa ulteriore posizione, quello che politicamente e accanitamente fa da anni Amos Gitai. Buona visione. [20 agosto 19951

sovrimpressione

23.112,132,196

tempo 23. 25. 26. 30. 45. 57.66.119. 124. 126. 131. 149. 195. 221.

229

occhio 12, 23.95. 111. 126. 151.1«5

dio 23. 50. 58. 121,142

23

Dalla nube alla resistenza

Straub 24, 30, 165.197. 200

autore 24, 32. 50. 72.92. 195.197. 214.

236

24 fotogrammi 24. 95, 97.123. 229. 237

guerra 9, 11. 16. 18. 24. 26, 41, 175,

196

24

Sono dirette da Gustav Leonhardt - che era, come ricor­ derete, Bach, il doppio di Bach, in Cbronik der Anna Magdalena Bach - le musiche di Dalla nube alla resi­ stenza, un film da, anzi, non da, con Pavese. Perché non sono mai film da, i film di Straub e Huillet, ma sono davvero film con, anche nel senso di costruire con, con dei materiali. Addirittura i testi vengono sempre serviti, in maniera straordinaria, anche in questo caso, ogni vol­ ta come se fossero l'unica cosa importante e, ogni volta, anche con quella noncuranza che porta a dizioni e let­ ture aspre, distaccate, dove sempre viene privilegiato il senso automatico - in qualche modo autonomo - il sen­ so che non ha bisogno dell’intervento dell’autore. È il solito paradosso del cinema di Straub e Huillet, che poi è tra i più formati, tra i più controllati della storia del ci­ nema. Ma il controllo è appunto questo: controllare che qualcosa ci sia, fargli vuoto intorno, ogni volta contor­ nando, qualunque cosa sia, sia esso una voce o un testo da tramandare, ogni volta trattandolo come un piccolo o grande monumento. Dalla nube alla resistenza voleva­ mo mandarlo il 25 aprile, ma è bene che si prolunghino, in qualche modo, queste date. Che non siano delle ri­ correnze, né dei ritorni, ma una sorta di linea rossa, di presenza costante. E in testa questo cinema - ripeto così straordinariamente e puramente cinema, ovvero il contrario della riflessione, del tempo di riflettere. Ogni volta che un autore fa questo, che lavora al massimo gra­ do, in realtà, specie se raggiunge la consapevolezza ge­ niale degli Straub e Huillet, si abbandona poi al suo ma­ teriale che, prima di tutto, è il cinema. Che si decide lì, in un attimo, in quei ventiquattro intervalli, in quelle ventiquattro frazioni all’interno di un secondo, si decide lì e non è più ripensabile. Ecco. E contrapposte, non contrapposte, in testa a questo cinema iperformato ve­ drete delle riprese che un amico ci ha mandato. È un ci­ neasta anche lui, un videasta. Le ha trovate nella cantina di suo padre, credo a Parma o nel parmigiano. E sono immagini di una presa da parte dei partigiani, nell’estate o nella primavera del ’44, di un piccolo municipio, di Comiglio, credo. E poi altri episodi della guerra partigiana tra il ’44 e il ’45, sempre in provincia di Parma, fì-

no alla Liberazione. E c’è un’immagine - sarà la prima spero, stanotte, forse l’avete già vista - di una bambina, come il bambino di Germania anno zero che entra mal­ destramente - maldestra l’inquadratura - dentro l’inqua­ dratura di macerie di una casa distrutta. E immediata­ mente, con questa flagranza di tempo - non di verità né di realtà, di tempo - viene da pensare cosa è adesso, chi sia quella bambina. Poi magari lo si pensa anche della casa, dello spazio. Non si capisce dove si è. È un’inqua­ dratura stretta, non dà quasi nessuna informazione su quel momento, sulla storia ampia di quel momento, ma è un’immagine la cui archeologia immediatamente ci tenta. E subito dopo, nuvole, nuvole artificiali, queste stupende nuvole di resistenza, le nuvole dei lanci dei pa­ racadutisti, anzi, degli aerei alleati, i lanci di armi e di rifornimenti e anche di alcuni paracadutisti. E li vedia­ mo, sono volti rosselllniani, come sono volti rosselliniani quelli di queste donne partigiane che fumano. So­ no volti di cinema, che proprio - lo abbiamo già detto con i Combat Film - nella loro forza documentaria si riallacciano perfettamente e unicamente a quel territorio, che diventa subito unico, dell’immaginario-cinema e che, davvero, ci insegnerà molto - non con le storie dei suoi film o con la qualità dei singoli stili - ci insegnerà molto quando lo comprenderemo o cercheremo di comprenderlo. Ma troveremo di abitare lì. Ripeto, lo comprenderemo come un unico luogo, cui appartenia­ mo e non apparteniamo, che ci appartiene e che non d appartiene. Ecco, questo è il nesso di stasera. * La cami­ cia che ci ucdderà sono i nessi. Per forza. Perché ogni immagine, lo sappiamo, si lega a milioni di altre e, quin­ di, siamo obbligati a morire di nessi, con il cinema. Nu­ vole, nubi, resistenza, ** parole di un tempo che per ri­ cordare - questo è importante - dobbiamo almeno fìn­ gere di dimenticare e non così venerare in ricordi pol­ verosi e, anche, menzogneri, in qualche modo. Dimen­ tichiamolo e ricordiamolo ancora. Buona visione. [24 giugno 1994]

tempo

23, 25,26, 30.45, 57.66,119. 124.126.131,149.195, 221,

229

nuvole 25.41.59,162

Rossellini

18, 25.28.31,32.60.138,148. 158,160,162,166, 222,230

documentario II, 22. 25, 43.47.62.108.146,

151.161.169.182,200. 230

* La camicia che ci ucciderà sono i nessi

•• parole di un tempo che per ricordare - questo è importan­ te - dobbiamo almeno fìngere di dimenticare

25

Heimat, U tempo è durato troppo

tempo 23.25. 26. 30,45.57.66.119.

124.126.131, 149,195. 221,

229

guerra 9.11. 16,18. 24.26,41, 175,

196

26

Fuori orario-che da sempre si vanta, ci vantiamo di es­ sere fuori orario e di non seguire troppo i centenari, i decennali, i ventennali, insomma, gli anniversari ma, ogni tanto, naturalmente ci scappa, anche perché in ogni momento c’è qualche anniversario (• il tempo or­ mai - come dire? - è durato troppo, la storia è quasi troppo lunga) - stasera affronta in modo leggero, con un sorvolo intensivo costruito da Ciro Giorgini, affronta una ricorrenza tonda, forte, tipica: il '43, un anno cru­ ciale della seconda guerra mondiale. Ci siamo attacca­ ti al volo alla puntata di Heimat, il primo Heimat di Ed­ gar Reitz, questo lunghissimo film di sedici ore e mez­ za, concepito sia per il cinema sia per la televisione, ma sostanzialmente un film, e questa è la puntata del *43. Allora, ovviamente, di fronte a questa precisione, ’43, 1943, l’ipotesi era doppia: i film girati nel 43, i film che parlano del '43- Ma la questione, la sfida per il cinema è unica, ovvero che cosa il tempo depositi di sé nel ci­ nema, nella pellicola, oltre a quello che comunque, continuamente, è imprigionato nella pellicola. Ovvero il puro e semplice fluire del tempo: questi cinque minuti, un’ora e mezza, due ore, sedici ore e mezza come è nel caso del primo Heimat. Ecco, che cosa resta oltre a que­ sto fluire? Per un film, diciamo storico, che cerca di rac­ contare un’epoca, la durata, questa durata fluviale e quasi naturalistica sembra immediatamente necessaria per riuscire, in qualche modo, a entrare in un’ipotesi di ricalco di una vita, di un’epoca. E il secondo Heimat quello che state vedendo in questi giorni anche ai cine­ ma in Italia finalmente Cera stato presentato a Venezia l’anno scorso) - è addirittura più lungo, mi sembra ventisei ore, addirittura più di una giornata, più di una gior­ nata di cinema. Quindi, in qualche modo, è come se fosse una cellula di vita ancora più estesa. E di per sé, secondo me, questo è straordinario, anche se poi il film, davvero, lo è, episodio per episodio. E ne riparleremo la prossima settimana perché annuncio, fin d’ora, La ca­ duta di Berlino, un film lungo, un grande film. È il qua­ rantennale, più o meno, siamo circa a quarantanni dal­ la morte di Stalin. Il cinema, la dittatura. Il cinema in fondo è, nel novantanove per cento dei casi, un’arte co­

sì autoritaria, non solo nei confronti del tempo, ma nei confronti del ‘nostro’ tempo e nei confronti dell’orga­ nizzazione dello spazio. Imprigiona per sempre le per­ sone che sono state riprese. Ecco, a parte questo, il di­ scorso è proprio che cosa resti di un periodo, di un’e­ poca. Forse l'abbiamo detto recentemente di un film gi­ rato durante la guerra come La Belle et la Bète di Jean Cocteau - che presto daremo interamente. Di notte, dopo Cuna, le due, quando c’erano meno luci accese era più facile attaccarsi alla luce, ‘rubare la lu­ ce’ - diceva Cocteau - cercare di lavorare più tranquil­ lamente, mentre, di giorno, il rumore della vita e della guerra insieme era troppo forte. Questo sicuramente è rimasto nel film che è, in qualche modo, un film di guer­ ra anche se è una favola trasognata. È un film di guerra perché è un film allucinato. Ed è una fiaba che funzio­ na perché c’è, dentro, la notte, anche se il film, poi, è in studio e non si capisce se è notte o giorno. Era stato gi­ rato di notte, e questo è sicuramente rimasto negli oc­ chi degli attori, nel loro corpo. Ecco, che cosa resta di un film girato nel ’43? Stanotte vedrete un film intero, lo straordinario Prigionieri dell’oceano, Lifeboat, di Alfred Hitchcock. È un film totalmente astratto, così nudo, de­ nudato, girato a bordo di questa scialuppa di naufraghi. Ed è una domanda, questa volta, rivolta esclusivamente a voi. Che cosa c’è, dentro, di quell’anno che moltissi­ mi di noi non hanno vissuto e ne hanno solo letto? È probabilmente l’unico modo fino a oggi, al mondo, per sapere qualcosa, perché ci arrivi qualcosa di un anno come il 1943, qualcosa di fìsico davvero. È proprio un film e in questo film sono per sempre registrati minuti secondi del tempo che, allora, fu passato su un set non certo in mezzo all’oceano, quello era fìnto ma il tempo era terribilmente vero - su un set da quegli atto­ ri, dallo stesso Hitchcock con la macchina da presa. Ec­ co, era il tempo che tutti in quel momento vivevano, ed è rimasto dentro queste bobine. E stanotte ripassa. Non è un miracolo. È l’operazione di base del cinema che ogni volta, ogni volta che poi, davvero, la percepiamo, anche se solo per un istante, credo faccia impressione. Buona visione. [13 marzo 19931

Hitchcock 27. 47.49, 97.189. 220

• il tempo ormai - come dire? - è durato troppo

27

Cinema che non difende mai nulla

Rossellini 18. 25. 28. 31.32, 60.138. 148.

158. 160,162.166.222. 230

28

Devo dire — oppure ‘devo no’, perché nessuno mi ob­ bliga, ci obbliga - che alla fine mi verrebbe voglia, al so­ lito, di cominciare invece da Europa '51, dalla grande insensatezza che Irene-Ingrid Beigman manifesta, inse­ gue, vuole proprio, non per tirarsi fuori, ma per non es­ sere, comunque, dentro, sul crinale, o addirittura dentro la lotta degli schieramenti politici. Ma ormai eravamo, appunto, negli anni ’50, e diciamo che l’insensatezza cui fa appello, che definisce e cui fa appello Irene-Ingrid e, in definitiva, Roberto Rossellini, con tanti sceneg­ giatori inventandola in due o tre scene tra le più belle della storia del cinema - sembra un esito terribile, vuo­ to, specie nel cinema di un regista che aveva fatto Ro­ ma città aperta, Paisà, i film principali della Resistenza da una parte, della Liberazione dall'altra. Non è per di­ re che queste due parole, questi due momenti, arrive­ ranno, sono arrivati o sonc adesso entrambi a un esito di v(u)oto, ma è comunque perché questa stessa paro­ la, resistenza - una parola straordinaria in sé, con que­ sta erre che limita e insieme prolunga, arrota, resisten­ za, r-esistenza, qualcosa di non eroico, un sorta di rosicchiamento, di restare attaccati - è comunque molto più zen, molto più estrema della semplice difesa, o co­ munque della difesa che implica una volontà di difesa, una costruzione, uno schermarsi. Nella r-esistenza si può resistere, anche nudi, anche mentre ti stanno fuci­ lando. Non ti stai difendendo mai stai resistendo. Ecco, il cinema di Rossellini è questo: un cinema che non si difende mai, che non difende mai nulla. Non dobbiamo mai difendere nulla. Dobbiamo esistere, r-esistere. Pai­ sà, il grande film della Liberazione, sarà, a sua volta, un film soprattutto libero invece che un film sulla Libera­ zione. E un film sulla pura libertà, un viaggio in Italia già libero come tutti i Rossellini successivi, un film a episodi che include già gli episodi delle future commediacce all’italiana degli anni '60. Naturalmente li include tutti e li supera in una botta sola, e per il resto segue, frammentato, questo territorio che, sappiamo, non è mai stato tanto unito. Addirittura se pensiamo a Firen­ ze - a questa città che è uno dei cuori italiani - l’episo­ dio fiorentino è a sua volta l’episodio, la storia visiva di

un viaggio, di un passaggio attraverso un confine così interno alla città da essere ormai il confine interiore, quello per cui si uccide, perché in quel momento que­ sto accade e deve accadere. Ma sembra assurdo ucci­ dere, sembra davvero uccidere anche se stessi. Il film, quindi, cos’è, salendo? Salendo, e poi arrivando all’ab­ bazia, arrivando ai monaci, è una sorta di liberazione, appunto, anche dalla paura, dall’obbligo della violenza, dall'obbligo di vincere, fino a questo piano, questa in­ quadratura incredibile - per me resta una delle più bel­ le di tutta la storia del cinema - del soldato americano, aggregato ai partigiani, che in attesa di essere preso, e probabilmente ucciso, si accende quest'ultima sigaretta. Guardando, di nuovo, verso il nulla, ma liberato dall’obbligo di dover confluire verso un happy end, trat­ tandosi di cinema, o di dover dare una speranza asso­ luta, marchiata, scritta a chiare lettere. Anche in questo film Rossellini è di un’ambiguità assoluta. Paisà è un film di straordinaria ambiguità. Non c’è, appunto, un territorio unito, non c’è una liberazione definitivamente avvenuta. C'è solo la libertà, almeno, non fìnta - questo è il punto di Rossellini - non fìnta, ma vissuta, non si­ mulata, ma già stata, per una volta almeno nel cinema. Il cinema come stato ulteriore - non finale - come ulte­ riore stato per i nostri corpi, per le nostre speranze, as­ sottigliate in una forma di ultimo orizzonte di libertà. Buone visioni. 129 aprile 19951

ambiguità

29. 32. 47. W. 90. 102. 174. 192

29

Dichiarazione di v(u)oto

vuoto M 40. 67.184. 209. 226. 228,

239

tempo 23. 25. 26. 30.45. 57.66.119.

124.126.131.149.195. 221. 229

Straub

24.30.165. 197. 200

30

Dichiarazione di vuoto, v(u)oto, come promesso. Ma l’abbiamo fatto molte volte questo gioco del voto con la u in mezzo, in tempi elettorali. Stasera, proseguendo ri­ spetto a ieri, paniamo con un film straordinario che, però, mi scuso di non aver visto in questa edizione. Cre­ do sia un'edizione italiana fatta non so bene dove e mi scuso anche con chi l’avesse fatta, magari benissimo. Abbiamo deciso, praticamente stamane, ieri sera, di mandare questo film, quando ci siamo accori! che esi­ steva in Rai, Reign of Terror- Tbe Black Book, un gran­ dissimo film di Anthony Mann, un grande cineasta, so­ prattutto noto per i suoi western, da Winchester '73 a L'ultima frontiera a Dove la terra scotta, eccetera. Uno dei cineasti più istintivamente ’morali’ della storia del ci­ nema americano - dei più sottovalutati perché quasi sempre legatissimo ai generi, per l’appunto, soprattutto al genere western ma, anche, prima e dopo, al polizie­ sco, al noir - qui, invece, è con uno dei suoi film più atipici ma anche personali. Questo film in costume, questo film sopra, sotto, contro Robespierre, sul terrore, contro il terrore, io lo ricordo - l’ho visto due volte, l’ul­ tima volta una decina di anni fa - come uno dei film più intensi, proprio sul terrore della storia. Forse in Val Lewton, per esempio in Bedlam, c'è qualcosa di analogo. Ma proprio un terrore della storia, un terrore del costu­ me stesso, della storia che appare come maschera terri­ bile che siamo costretti a indossare senza nessun diver­ timento, senza nessuna scelta, sapendo che abbiamo delle maschere che non riusciamo a svellerci di dosso. Questo, la storia, il tempo che non abbiamo scelto, il tempo che non potremmo decidere come attraversare se non in minima parte, questo, secondo me, è in Reign of Terror, un bel titolo per un sacco di cose, forse an­ che per la nostra vita attuale, politica, che in fondo sem­ bra, pur sempre, quella che si può svolgere nel paese, in qualche modo, più beilo del mondo. E Troppo presto, troppo tardi, che abbiamo dato più di una volta, il film straordinario degli Straub-Huillet, è ancora qualcosa di più che una dichiarazione di v(u)oto. Sono due set lon­ tanissimi, l'Egitto e la Francia, la campagna francese, at­ traversate, unite dalla lotta di classe non realizzata, dal

‘troppo presto troppo tardi' della rivoluzione impossibi­ le. E un film che trovo praticamente un melò, anche questo suonerebbe un’offesa, forse, per Straub e Huil­ let, ma per me davvero è ai confini del melò. E lo dico nel senso della radicalità che c’è, che ci può essere den­ tro oppure ai limiti del melodramma. Poi c’è una delle coreografie de) potere. Perché parliamo di elezioni, senza dire nulla di voti, di ‘par condizioni? Parliamo di potere, parlando di elezioni. Da dove viene il potere? E Roma rivuole Cesare di Miklos Jancsò, come già La tec­ nica e il rito, è davvero una coreografia dell’infondatez­ za del potere e, insieme, della necessità terribile del po­ tere. Necessità, come dire, la necessità con cui a un cer­ to punto qualcuno, in una situazione, dice magari: 'Questo gioco deve finire’, 'Bisogna fore un’altra cosa’, ‘Bisogna cominciare a vivere’, ‘Bisogna tornare alla realtà’, ‘Bisogna avere un punto di riferimento’. Tutti bi­ sogni e necessità che possono sembrarci anche veri, in certi momenti, e naturalmente non vengono mai ridi­ scussi, perché sarebbe come discutere non della pena di morte, ma della morte, che invece viene sempre vi­ sta così istintivamente aborrita. Il terrore, fonore, il peg­ gio, la vita contro la morte. È, come dire, dato per scon­ tato dato che viviamo. Dopo Jancsò, in mattinata, do­ vrebbe esserci, appunto, Anno uno, dopo L’edicola. Sì, dopo l’edicola votiva, dopo l’edicola dei santini quoti­ diani che, in questo caso, sicuramente avrebbero già qualcosa dei sondaggi elettorali. Ecco, avevamo messo Anno uno, l’ho già detto ieri della paura che questo film, troppo libero, ha fatto comunque. Non so a chi l’abbia fatta, fatto sta che non l’abbiamo potuto manda­ re in onda. Mi piace molto che abbia ancora fatto pau­ ra. Nel momento in cui parlo non so se andrà Vanina Vanini, un altro film che forse fa paura. Ma che bello che tutto Rossellini faccia paura ancora! È una cosa davvero inattesa. E allora buona visione. Questa non è la nostra dichiarazione di v(u)oto, ma una, una delle no­ stre dichiarazioni di v(u)oto. Siamo molto pluralisti, dentro il vuoto, siamo molto buoni, anche se sappiamo di essere una pessima visione. Buona visione. 122 aprile 19951

potere 9. M, 31. 53.88, 230

morte 15.18, 21.31.52. «1.97.104.

111. 187, 219

Rossellini 18, 25. 28,31.32,60.138,148. 158.160, 162, 166, 222, 230

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Lo zio di Brooklyn

Cinico TV 32. 34. 93.109. 121. 127

ambiguità 29. 52. 47. 87. 90.102.174, 192

trucco 32, 43. 74. 170. 216 mondo

19. 21. 32. 37. 53, 62, 67. 78. 95. 104. 116. 142. 144. 176. 182.

202. 203 destino

20.32,51.57. 58.110.195 Rossellini

18. 25. 28, 31. 32. 60. 138. 148,

158. 160. 162. 166. 222. 230

autore 24. 32. 50. 72. 92. 195, 197. 214.

236

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Dopo quel che non si diceva ieri, risulta ancor più pa­ radossale presentare - oltre a alcune cose di Cinico TV, tra cui un sublime ‘Pasta e fagioli’ che è l’apparizione, già in chiave di Ultima Cena, del grande corpo di Paviglianiti, del grande ‘pasto nudo’ di Paviglianiti, una fi­ gura che si troverà nel film Lo zio di Brooklyn insieme a molte cose inedite, a molti personaggi inediti - risulta invece paradossale istituire stanotte delle parentele. Pa­ rentele, alcune ovvie, spiegabili. Freaks. Freaks è il grande film che introduce la mostruosità come norma, come società normale, come vita. Davvero 'un paese normale’, il paese dei mostri, freaks. Però, con assoluta evidenza, la mostruosità esibita, naturalistica, senza micco, se vogliamo, è nello stesso tempo ambigua. Non moralmente, dico. Parlo di una morale sovrappo­ sta, precedente, quella con cui di solito cerchiamo di in­ vestire - banalmente, inanemente - il cinema, i film. Ma la morale di quel cinema è una morale interna ambigua, perché, invece, ci fa balenare la possibilità che si tratti di un trucco infinito. E questo è il mondo, è il mondo di Freaks, è il mondo di Cinico TV. Un mondo dove as­ sistiamo a un trucco infinito e siamo truccati, noi, da un trucco infinito, modellati, plasmati secondo codici, de­ stini genetici che sono nostri, di singoli e di società, di gruppi, contro i quali ci ribelliamo, ci dibattiamo, in ba­ se a altre genesi codiche, o codificate. E infatti Rossel­ lini è in questa notte. Saltiamo / mostri, una predilezio­ ne confessa, come Freaks, di Cipri e Maresco, uno dei grandi film di Dino Risi, forse il più grande, proprio nel­ la frammentarietà, perché rinuncia sia alla narratività un po’ angusta del film a episodi che, semplicemente, a ri­ conoscere l’episodicità della commedia all'italiana. E ri­ nuncia, anche, alla narrazione distesa, ampia, appunto al gonfiaggio. È tutto pura concentrazione, gli episodi stessi sono i frammenti, non sono neanche episodi, son così brevi in sé, sono mostruosità, sono corpi mostruo­ si, sono schegge impazzite. / mostri, un grande film ri­ vendicato come padre, come parentela, da Cinico TV. E, invece, Rossellini. ‘Rossellini non è il nostro autore’. E noi volutamente abbiamo messo Rossellini, non perché non sia il loro autore, e quindi per provocazione, ma in-

vece perché ci pare che, palesemente, in Francesco giullare di Dio, ma in molti altri film, compreso La mac­ china ammazzacattivi che vedrete stanotte, Rossellini sia l'unico senza bisogno di ricorrere - magari per di­ versa cultura - all’incredibile capacità visivo-fìgurativa che è di Cinico come è stata di Ford, come è stata, forse, di un Bunuel che gli è già più vicino, peraltro. O meglio: qui sono già più vicini i nostri, scusate ‘nostri’ non c’è nessuna appartenenza, altroché, né parentela né appartenenza - invece proprio a Rossellini, ripeto. Pensate a Francesco giullare di Dio, al modo di man­ giare, a certi dialoghi, alle facce. Cosa sono, i compagni di Francesco, se non attori di un’immagine cinica che esiste da sempre? E non c’è cinismo nell’umanismo, nel­ l'umanesimo di Rossellini, così esibito e così contrad­ detto dalla trascuratezza affettata del suo cinema, dal modo in cui manipola le sue stesse emozioni, in cui ne fa commercio, esibizione? Tutto, però, secondo un ge­ sto di libertà, di libertà assoluta. Rossellini è quello che sa di essere libero di fronte a quello che fa col cinema, perché il cinema c’è, preesiste rispetto a lui, rispetto al suo essere artista, regista, drammaturgo, amante. Il ci­ nema c’è, il cinema non è quello fatto dai film, il cine­ ma è lì di fronte a lui e aspetta di essere un po’ preso, un po’ preso al volo. È quello che fa Rossellini. E allo­ ra, il modo in cui - con le loro pose incredibili, con le loro pause, con le loro soste lungo l’autostrada del mon­ do - ‘sanno’ i Cinico è vicino a Rossellini proprio per la libertà incredibile che essi - con questo gesto - si pren­ dono rispetto alle storie codificate del cinema italiano, del cinema tutto, della necessità di raccontare, di dire, di significare, di tradurre, di render conto di una realtà. Per questo Cinico TV, Lo zio di Brooklyn, il cinema di Cipri e Maresco, è una realtà. Per questo ci sfugge. Buo­ na visione. [17 settembre 19951

Ford 3

33

‘Cinica’ è la notte

Cinico TV

32, M. 93,109,121, 127 mutazione

54.36, 39, 41,45, 85,93.106, 173,176, 182,187. 236

corpo 15. 34. 36. 39. 45.47.63.81. 85.95.97. 102,106.139. 141. 144, 160. 162. 176. 184. 189.

193. 228

34

Nulla da dire, nulla viene da dire in più, o verrebbe da dire solo nulla su Cinico TV. Sulle immagini prodotte, bruciate, negli ultimi anni, in tutti gli anni '90 da Danie­ le Cipri e Franco Maresco. E sulle mutazioni che han­ no indotto o la mutazione che sono stati - meglio - nel­ la televisione italiana, in fuori orario, in Blob, in loro stessi se pensiamo a quello che erano le loro cose quat­ tro, cinque anni fa. C’è sempre stata in loro tensione verso un intento alto, altissimo - anche malgrado loro, ma non credo. La loro cultura figurativa risulterà a tutti evidente vedendo il loro proprio film, coraggiosamente e provocatoriamente assente a Venezia. Sarà al cinema tra due, tre settimane e sarà chiaro quanto si pongano su un piano altissimo e, direi proprio, colto. Il piano di un barbarismo, di una barbarie coita, di un primitivismo citazionista, oltre addirittura alle istanze, già in questo senso, sviluppate diversi, molti anni fa da Pier Paolo Pa­ solini. Nulla da dire perché - oggi nel film sarà chiaro progressivamente, la loro tendenza comico-scatenata, la loro tendenza freaks, quella alla esibizione mostruosa, la loro tendenza musical-estatica alla persistenza di im­ magini, alla persistenza di corpi su sfondi che mutano raramente - vengono ogni volta scelti e diventano im­ mediatamente assoluti e immobili - è tipica fin dall’ini­ zio del loro lavoro, che sia in studio o che sia all’aper­ to. Immobilità di ciò che è ripreso, e invece poi ci ac­ corgiamo di colpo - è un soprassalto nostro - che si muove qualcosa. E quindi c’è un tempo, non è un’im­ magine fìssa, non è una fotografìa. C’è un’inquadratura che respira, eppure ci sembrava spietatamente uccisa, bloccata. Ecco, negli ultimi mesi, starei per dire, ancora più che anni, c’è un salto tra le forme spesso mostruo­ se, degradate - la periferia più estrema di Palermo, im­ magini di povertà, di degrado urbano, metropolitano, post-atomico, bladerunneriano, addirittura cieli schiac­ ciati - e la ‘forma’, verrebbe da dire, che è il contrario della mostruosità, che è immediatamente una sorta di canto lirico, di disperazione esaltante. Ecco, questa ten­ sione, ormai così ravvicinata da aver prodotto un’uni­ ca - non più neanche immagine, finalmente - un’unica cosa scultorea, ma respirante (che include la mostruo­

sità dei contorni e l’esaltazione del vederli e dell’esserne visti) è davvero un cinema fuori dalle orbite. E l’ab­ biamo sempre chiamato cinema anche quando era fat­ to solo in video. E il film che vedrete si apre con San Polifemo che si toglie un occhio dall’ofbita. Ma è un ci­ nema davvero fuori dalle orbite quello che siamo abi­ tuati a percorrere. Fuori dall’orbita vuol dire che, anche il circuito che si instaura tra esso, tra il film, tra l’imma­ gine, tra le cose che crediamo di vedere nelle immagini di Cipri e Maresco e noi, non è un’orbita, tranquilla­ mente osservabile, che ci porta da un punto all’altro, cir­ colarmente, che attraversa i loro occhi, gli occhi degli attori e i nostri. No. È un tragitto, un sentiero interrotto che ci obbliga a dei salti, che ci provoca davvero a spac­ carci un po’ anche il cuore. Sì, a cercar d’essere, forse, a voler esser con questi soggetti, con questa povertà, con questo sud estremo, con questo set devastato di Pa­ lermo. Ma nello stesso tempo ce lo fa godere amare pia­ cere, in maniera - di nuovo - estrema, assoluta. Questi mostri sono, sempre, santi, queste immagini di degrada­ zione sono immediatamente immagini sante. Stasera ve­ drete un’ora di immagini recenti, montate, prodotte an­ zi, per questa none, da Cinico TV. E poi Rossellini, idea di un'isola. Il tentativo di coronare, dì dare cenni su un set, più alcuni dei loro cult, classici. Il set in cui si muo­ vono e che hanno smosso, per sempre ormai, col loro gesto. Ed è un set dei più caldi anche per il cinema ita­ liano, il set Sicilia, se pensate alle polemiche veneziane. Però, davvero, di nuovo, vorrei non dire nulla, eppure so che domani ’diremo' ancora, per la seconda parte di questa Cinica, come è la notte. Buona visione. [16 settembre 19951

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Noi/Tbem

none 36. 53.102.135.138 vita 21,36. 52,67.78.83.92.97, IM. 144, 163. 202, 240 corpo 15.34. 36.39.45.47.63.81.

85,95.97,102.106,139,141, 144.160.162,176,184,189.

193.228 Siegel

36, IM, 172,209 mutazione

34, 36.39.41.45, 85.93.106,

173. 176, 182, 187, 236

Gitai 21, 36,66, 228

remake 36. 39.42, IM

horror

36.42, 74.99.193

atomica 9, 36. 39.173. 175 Giappone

36, 39,41.172.175. 178

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* 'Noi siamo con la notte una carne sola’. È bello, per una volta, citare da un giornale di due giorni fa, citare da quella bellissima antologia minima, che diventa par­ te del testo della giornata, che è Oggi. Oggi, cose (mai) scritte e riscritte ogni volta, scelte da Ceronetti per la pri­ ma pagina della Stampa. Questo è un verso di Paul Celan: ‘Noi siamo con la notte una carne sola’. Non pen­ siamo a Celan, al suo testo. Questa frase può essere stra­ volta, usata per sensi ennesimi, per esempio •• ‘con la notte, nella notte, siamo una came sola, come formiche connesse da questo buio che ci toglie la forma e ci la­ scia in questa rete onirica’. Onirica o del desiderio. In questa vita più collettiva, anche se di notte la vita sem­ bra meno sociale, più legata a desideri, funzioni, pul­ sioni primarie.. ‘Noi/Tbem’: noi/loro. Them, poi, è il ti­ tolo di un famoso film di fantascienza, ma them potreb­ bero essere gli ultracorpi, i bodysnatchers di Don Sie­ gei. Stanotte, questa notte coordinata, voluta da Marco Metani, si incrocia con una notte di mutazioni alla qua­ le pensavamo, da tempo, con Roberto Turigliatto, io e Carmelo Marabello. C’è questa notte-Golem. Nel cuore delta notte vedrete Naissance d’un Golem di Amos Gi­ tai e II Golem di Paul Wegener, uno dei classici del mu­ to, messi come cuore dei due Tetsuo, Tetsuo uno, in co­ da - ormai è un cult di fuori orario - e Tetsuo due. Non il remake, ma il seguito e insieme remake a colori del film di Shinja Tsukamoto, dello stesso Tsukamoto, regi­ sta di cui vedremo, in seguito, la traiettoria. Presto ve­ dremo anche Hiruko the Goblin, il film molto più com­ merciale, di genere, sempre di mostri. Un horror gira­ to per la Shochiku, una grande casa, proprio per pagar­ si, da indipendente, anche il Tetsuo due. Tetsuo era già l’oggetto dei suoi primi super 8. È un’ossessione, que­ sta dell’uomo metallico, questa iper-mutazione tra la carne e il metallo. Una carne che diventa metallo. È una mutazione strana che, dicevamo ieri, prosegue questa vocazione di fantastique puro, estremo e, quindi, di realismo, invece durissimo, da parte del bombatomicato Giappone. Non dimentichiamolo mai. Il Giappone è sicuramente mutato. È per noi una sorta di futuro, di orizzonte futuro, ci mostra in modo più evidente quel-

lo che sicuramente sta accadendo anche a noi. E il ci­ nema ce lo mostra di più. Sappiamo che il cinema è una mutazione del mondo. *** Il cinema è, non un’anima, è un’esalazione, una squama. Ma, in qualche modo, per i] cinema vale sia II ritratto ovale di Edgar Allan Poe sia Dorian Gray. I ritratti. Allora il mondo si distrugge, in­ vecchia, deperisce, si consuma, sicuramente per entro­ pia, e si riafferma per sempre. E anche se poi i film fan­ no parte del mondo, il cinema è già mutato, il cinema, il video.. E poi, comunque, i film stessi si perdono, de­ periscono. Ma il cinema, invece, trionfa, si afferma. Re­ sterà, resterà come idea, come idea di creazione. Tor­ niamo a ‘Noi/Tbem’, la notte del Golem. Il Golem, un bellissimo mito della creazione. Il Golem è una specie di creato non finito. Proprio letteralmente vuole dire il non-fìnito, il non-completato. Ed è un grande mito ebraico della creazione: questa carcassa, questo corpo che attende l’anima, il soffio, la parola. Nello stesso tem­ po è un Frankenstein, è un robot, è un quasi-robot o un robot. Invece il mutante, il mutante che cos’è? C’è una confusione in questa notte.. Ma se pensiamo che Tetsuo è un uomo metallico - e quindi è questa mutazione tra l’organico e quello che ci sembrerebbe l'inorganico, tra la carne e, appunto, il metallo - se pensiamo questo, in fondo, è come un passo verso il robot. L’uomo, uomo che si robotizza da solo. Mentre nel mito di Franken­ stein, e molto prima, in quello del Golem, c’è la costru­ zione, la creazione, proprio il mito della creazione. È un mito religioso o di hybris atea del riprodurre, dell’assumersi il gesto del dio. La mutazione è una sorta di im­ magine anarchica, atea, selvaggia che non riconosce l’o­ rigine del cambiamento dell’umanità, del corpo umano. Della mutazione, infatti, si ha una paura terribile. Men­ tre il robot ci sembra un momento tecnologico di co­ struzione, di soggetto-oggetto, di possibilità, in qualche modo di dominio della nostra stessa intelligenza, ripro­ dotta artificialmente, il corpo, la mutazione, invece, ci fa pensare noi stessi come possibili robot di un tempo, creati, certo, venuti da qualcosa, e che però mutano continuamente. E Io sappiamo, che mutiamo continuamente, fino a quella mutazione suprema che è il mutar­ si en soi méme, tei qu'en lui-méme enftn Vetemité le change.. (Mallarmé). Il massimo certo è tornare a esse­ re se stessi, alla fine del mondo che, poi, è una cosa che esiste. In questi giorni di Pasqua, questa notte sulla nuo­

mondo 19. 21. 32, 37, 53. 62. 67, 78. 95,104, 116, 142. 144, 176.182,

202,203

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va came. La resurrezione della carne è un momento for­ tissimo del Vangelo. E forse è tutto lì, esclusivamente e solamente lì, il cristianesimo. Il ritorno della carne, la re­ surrezione dei corpi, quindi ben oltre la dicotomia ani­ ma-corpo. Allora la mutazione è questo stato di ogni momento. Noi siamo in preda alla mutazione. Ecco, questo ci racconta questa notte del Golem e del mutan­ te. Di queste due forme entrambe estreme. Una più cul­ turale, più leggibile, più razionale, in fondo, di questo razionalismo ebraico, e l'altra, invece, più diffusa, sel­ vaggia, veloce, infatti velocissima: sono due film di im­ provvise accelerazioni, terribili. Terribili i due Tetsuo. Invece sia 11 Golem di Wegener, il muto, sia il ritorno di Amos Gitai, sensibile e intelligente, su questa tradizione ebraica, su questa profezia, sono lenti, attenti a questo meccanismo stesso del mito. Noi/7hem, Noi/ftem, Noi/7bem.. Buona visione. |2 aprile 1994]*

* ‘Noi siamo con la notte una carne sola'. (Celan)

•* 'con la notte, nella notte, siamo una carne sola, come for­

miche connesse da questo buio che ci toglie la forma e ci la­

scia in questa rete onirica' *** Il cinema è, non un’anima, è un’esalazione, una squama

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Giappone trance mutazione

Ci sono, ci sono. Potrebbero non esserci. Questo è il bello della televisione. In questa notte, contaminazioni fortissime tra il corpo più duro, più forte, più materico ancor più che materiale. La materia intesa proprio come materia tellurica, mutazione a vista. È il tetsuo. Tetsuo, l’uomo metallico diventato uno dei miti di fuori orario e da fuori orario. E l’esito di questa notte non può che essere nel solito back to tbe future del quale ci pascia­ mo e forse troppo ci compiacciamo. Appunto un ritor­ no, un’avanzata indietro, un ritorno in avanti alla muta­ zione sublime, fiammeggiante, di Matango. Gli uominifungo di Inoshiro Honda nella mutazione post-atomi­ ca, nella mutazione oltre la nebbia del dopo-storia. In mezzo e prima ci sono altri esempi di questa immagine giapponese mai a fuoco e il film più a fuoco della not­ tata, questo Sting of Death, dramma famigliare che fa sembrare approssimativo qualunque film di Beigman o quasi tutti i film di Beigman. Un film di spietata geo­ metricità, sospesa poi. Una geometria anche interrotta. E in testa, in testa perché è una prima visione, in testa perché costa molti soldi, in testa perché rischia di non andare mai in onda in Rai, Akira, un altro film-mito non ancora andato in televisione, in Italia, appunto. Un film, invece, di carta, di cartone, un film molto meno materi­ co, ma un film dalla cui costola, in qualche modo, dal­ la cui costola mentale è nata l’idea di Tetsuo. Akira si rifa a una celebre serie di manga giapponesi nei qua­ li c’è, per l’appunto, il personaggio di Tetsuo, anche se poi, come film, Tetsuo è prima, è ‘originario’. Tetsuo è un film che, nonostante il remake-prosieguo dello stes­ so Shinjia Tsukamoto, potrebbe restare da solo, in qual­ che modo, nella storia del cinema. È il film di un regi­ sta di un unico film, anche se, ripeto, ci auguriamo che non sia così. È un film che brucia intorno, con questa fi­ sicità martellante che diventa impossibile, puramente virtuale, per cui il cartoon di Akira è invece una sorta di scommessa terza, anche se il fascino è proprio questo. Se lo pensiamo insieme - e infatti sono vicini - insieme con la fisicità dura di Tetsuo è l’oscillazione ravvicinata di una mutazione di cartone e di una mutazione di me­ tallo. In entrambi i casi un corpo che si perde, così co-

corpo 15.34. 36. 39,45. 47.63.81.

85,95.97.102.106.139.141.

144.160.162,176.184. 189. 193.228

mutazione 34.36. 39.41,45.85.93.106.

173.176,182.187,236

Honda 39,41.175

atomica 9.36,39.173,175

Giappone 36, 39.41,172.175.178

remake 36.39.42,104

39

vuoto 30. 40. 67, 184, 209. 226. 228, 239

virtuale 40, 86. 95. 123

40

me il sentimento. Si estenua, si racchiude, e poi, però, si perde in un vuoto racchiuso in Sting ofDeath e, co­ me il corpo, diventerà irriconoscibile, diventerà fungo, diventerà luogo di spore, di colori, cangianti a vista. In qualche modo una meraviglia, ma davvero un altro mondo. Un mondo bello solo per il cinema, e non è po­ co, naturalmente. Ecco, questa notte è la notte di un paese, del paese che al mondo ha più investito in mo­ do diretto - dopo il famoso ‘fùngo’ - ha investito pro­ prio sul virtuale come mondo, e non sul mondo vir­ tuale. La famosa frontiera losangelina - non a caso ver­ so il Pacifico, verso il Giappone in qualche modo - de­ gli Stati Uniti. 11 nuovo West, Silicon Valley, l’immateriale come orizzonte.. È quasi il contrario in Giappone, co­ me se rimmateriale, la vaporizzazione, la mutazione del dopobomba fossero stati da subito, in questo dopo­ guerra, il terreno, il set, la parte fìsica, come anche in qualunque film di Oshima, se vogliamo perfino nei film di Kurosawa. Questa disperazione, o anche frenesia in altri casi - vedi i film di stanotte, quasi tutti - del mu­ tarsi, dell’essere già mutati, del non poter fìngere che questa mutazione sia una cosa psicologica o - vedi gli Stati Uniti - tecnologica, di arrivo, di esito, di fuga. No: è la partenza. Questa mutazione sperimentata sul pro­ prio corpo svuota più radicalmente che in qualunque Blade Runner, fin dall’inizio, l'identità facile, la costitu­ zione del soggetto e apre a questo formicolare di sog­ getti dove muta la forma dell’alveare, la forma del for­ micaio, la forma di questa collettività che disegna forse un unico, piccolo soggetto, oppure che all'interno di ogni formica è di nuovo ridivisibile. Non c’è più una grandezza, un ordine di grandezza. Siamo fin dall’inizio in un set che è contemporaneamente minuscolo e glo­ bale, mondiale, cosmico.. Buona visione. Buona muta­ zione della vostra visione. (8 dicembre 19951

Matango il mostro Nelle nuvole, le nuvole. Mi vengono in mente le nuvo­ le non solo perché mi piacerebbe essere nelle nuvole, ma perché sembrano nuvole i funghi lussureggianti, multicolori, di questo film, di Inoshiro Honda, Matan­ go, un film del '63-'64. Un film coloratissimo e un film in cui che mi sembrino nuvole questi funghi forse non è neanche così casuale, visto che sono funghi mutanti, o meglio, mutati. Sono esseri umani diventati fungo. E il fungo è la forma di una nuvola sinistra e meraviglio­ sa, quella del finale di Stranamore, per dirne una, We’ll meet again {C’incontreremo ancora), la canzone del fi­ nale di Stranamore. Ed è questo fungo quello che è sta­ to sperimentato - unico popolo al mondo ad averlo sperimentato - in senso distruttivo, bellico. Anche se ora abbiamo le notizie dei rispettivi esperimenti, cosid­ detti 'civili' e su civili, agghiaccianti, di americani e rus­ si durante la guerra fredda. Comunque, i giapponesi sono stati oggetto dell’unico esperimento, terribile, di 'set’ popolato, abitato dalla popolazione civile, con Hi­ roshima e Nagasaki nel 1945. Quindi un film di muta­ zione, di mutazioni, fatto da un regista giapponese. È una sorta di film neorealista. Noi abbiamo fatto vedere una volta un terribile docu­ mentario, mi sembra di Susumu Hani - e spero che lo faremo vedere anche domani notte se non già stanotte sulle ferite, sui corpi mutati, letteralmente, dalle esplo­ sioni di Hiroshima e Nagasaki. Un film ultra-fantastico e Honda è un maestro del cinema fantastico, non solo perché ha diretto Godzilla, Atom, Rodan. È un grande regista di Kaijueiga, questo genere giapponese dei mo­ stri, dei grandi mostri, spesso benefìci, spesso - invece che supermen - superbestie. Un incrocio tra l'immaginario positivo del superman e quello della bestia, della bella bestia, della bestia buona spesso in lotta fratricida con una bestia cattiva, con il Maligno. Ma al di là della favola, questi film - e Matango, con questa forma del fungo lo è in modo straordinario, straordinariamente preciso - sono anche, sempre, il racconto di una muta­ zione, di una paura, di un paese, di un popolo che pro­ babilmente è già mutato. E noi sappiamo che è così e probabilmente lo sa questo stesso popolo. Quindi il ge­ nere più fantastico, horror, su scala mondiale, da Car-

nuvole 25. 41. 59. 162

colore 14. 41. 59. 62.71.86.176 Honda

39. 41. 175

guerra 9. n. 16.18. 24. 26. 41. 175. 196 Giappone 36. 39. 41.172. 175. 178 mutazione

34. 36. 39. 41. 45. «5. 93.106. 173, 176.1«2.187. 236

horror 36.42.74.99.193

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remake 36, 39, 42, 104

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penter in poi, da La cosa ( The Thing) - i) remake del­ la Cosa è il trionfo di questo - è diventato il genere più realistico, il genere che ci dice di più, che ci racconta di più della vita di ogni giorno e di ogni momento per il cinema giapponese. Per il Giappone, tutto, è così dagli anni ’40, ’50, '60. Allora Matango, un film di fantascien­ za e di horror che riprende il tema mitico dell’isola, al­ la King Kong - l’isola protetta dalla nebbia, l’isola dove si approda per sbaglio o per un naufragio, o alla ricer­ ca di qualcosa di misterioso - diventa l’isola dove non si incontra un mostro, ma si incontra il principio stesso della mutazione. Ecco, questo film segue il metodo os­ sessivo, la cadenza ossessiva di tutti i film dell'orrore, con l’intensificarsi delle mutazioni, con l’accrescersi del ritmo di esse. Però - ed è la cosa più forte del film - len­ tamente, non possono, i protagonisti, che pensarsi già mutati. Allora, per un attimo, vedere questa foresta, ve­ dere questi vegetali, vedere qualunque pianta, qualun­ que momento, apparentemente vivente, inquadrato, fa pensare di vedere un essere, umano, ex umano, ultrau­ mano, un momento di questa energia in mutazione. Mu­ tata per sempre. Questo film che è visibile come pura, purissima evasione, terribile evasione in questa isola parco delle meraviglie e degli orrori è anche l’ingresso, perfetto, secondo me - perfetto, perfetto mai - l’ingres­ so giusto, forse, per la notte di domani: Noi/77?ew (noi//bem), dedicata alla mutazione, a questo switchare tra noi e noi stessi che c’è in ogni momento, forse, da sempre. Due parole per Inoshiro Honda, morto da po­ chi mesi, che è stato ricordato quasi da tutti, a parte Godzilla, come collaboratore per gli ultimi film di Aki­ ra Kurosawa. Ed è vero, ed è diventato di nuovo famo­ so nel mondo per questo. Molto anziano ha assicurato però i trucchi, semplicissimi e bellissimi, di questi ulti­ mi film di Kurosawa. In particolare vi ricordo i trucchi per Dreams, il film che contiene due o tre dei momen­ ti più belli, forse, di tutto Kurosawa, anche se è molto discontinuo. Vi ricorderete, a proposito di bomba e di mutazione, quella nube, quella nube da fine del mon­ do, che arriva nell’episodio più bruciato, più semplice, più tirato via, proprio b-movie, serie b, serie z, che sem­ bra proprio girato da Honda. Il aprile 19941

King Kong

Cento anni fa praticamente veniva inaugurato, come im­ magine mondiale, l’Empire State Building che sarebbe stato, fino a oggi, praticamente l’immagine di altezza, di esplosione metropolitana, di guglia metropolitana. Ve­ niva - ripeto - inaugurato come segno, come anche se­ gno-guglia, neU’immaginario mondiale, da King Kong, il film di Ernest Schoedsack che allora aveva quarant’anni. Infatti è anche praticamente il centenario di Ernest Schoedsack - il film era diretto anche da Merian Cooper - e questa è già una storia interessante. Avevano fatto documentari per più di dieci anni, inseguendo il reale nel momento in cui si manifesta - la presunta autenti­ cità del fenomeno solo da documentare (appunto, do­ cumentario) - e costruiscono in maniera geniale, a partire da uno spunto diverso, questo loro film, sullo spunto letterario de La bella e la bestia, interessante og­ gi da rilevare, ma nello stesso tempo - come dire? - un filo modesto, lì dentro, anche perché il gioco della Bel­ la e la Bestia è proprio direttamente sul cinema. In pra­ tica sulla scelta di quale delle due sia la Bella e quale sia la Bestia tra il cinema e, di nuovo, la supposta realtà op­ pure il supposto cinema e la realtà. In realtà, una divi­ sione, una dicotomia del tutto immaginaria, e anche questo è affascinante, ancor più all'intemo dell’immagi­ nario. E direi che King Kong è proprio un segno forte in questo senso. Lo scambio tra le due ipotesi, realtà e im­ maginario, tra i due punti di vista è assolutamente con­ tinuo. Le coppie si possono continuamente dividere. Così il film più radicale, il film che più documenta una realtà, la realtà dell’immaginario nel momento in cui esi­ ste il cinema è, per l’appunto, il film più di fiction di Schoedsack e Cooper. È il loro primo grande film di fic­ tion, inventato quindi, con questo animale ‘costruito’, un modello, con le scale falsate, con le dimensioni illu­ sorie. Insomma il film del trucco. E, ne abbiamo parla­ to un’altra volta, è sicuramente casuale e non casuale che sia uscito praticamente negli stessi mesi in cui arri­ vava - anzi, era uscito prima - Freaks, il film che fa lo stesso discorso ma a partire, lo sappiamo, da corpi ‘ve­ ri’. Ma, come in uno straordinario racconto di fanta­ scienza, se, tra altri sessanta - speriamo di no - o due­

Schoedsack 43. 169

documentario 11. 22, 25.43. 47.62. 108.146,

151.161.169. 182. 200. 230

trucco 32.43, 74,170, 216

43

mila anni, venisse trovato King Kong, come ipotetico re­ sto di una civiltà come questa, ci sarebbe molto da de­ cifrare. Chissà se verrebbe letto come documentario o come film di fiction. Chissà se esiste ancora una distin­ zione fra queste due cose nella nostra stessa ipotesi. Sta­ notte, nel montaggio a cura di Roberto Tùrigliatto e poi, sostanzialmente nella riproposta intera di alcuni film, a partire da King Kong, vedremo, appunto, questo attra­ versamento, ormai, da quel giorno, dai giorno in cui si scatenò, in cui King Kong si installò subito in cima alla civiltà occidentale, cadendo poi, certo, ai piedi dell’Empire State Building come vittima sacrificale non solo delYhappy end. Vi telefono da Berlino dove è stato cele­ brato l’anniversario. C’era questo King Kong che tro­ neggiava sulla grande sala, che è poi lo Zoo Palast. Ed è sempre stata una cosa notevole a Berlino che i film si vedessero nel cinema dello Zoo, nel grande cinema adiacente allo zoo. E questa, oltre a quella delia Bella e la Bestia, oltre a quella della Metropoli e del Selvaggio, oltre a quella del trucco e della realtà nel cinema, dei documento e della finzione, è un’altra delle cose forti del film: che ci sia questo grandissimo animale, ma che per poter avere questo animale dentro questa città - che si arrampica e che interviene dentro questa metropolitana, che appare in primo piano alle finestre, con que­ sto effetto incredibile, magico - ci debba essere una co­ struzione umana, un’invenzione umana. Questo imma­ ginario che dev’essere costruito. Anche l’animale viene costruito. Buona visione. [21 febbraio 19931

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Sulle spalle del giganti

• Si potrebbe perfino dire che il cinema è il nano della realtà, una realtà bloccata. Il cinema è tempo bloccato, corpi che restano sempre uguali, che non cresceranno mai, anche se poi sappiamo che il cinema è affidato al­ la nostra memoria, che lo fa crescere o rimpicciolire. Però, ecco, il corpo del cinema e i corpi che sono den­ tro il cinema, in qualche modo, è come se fossero tutti nani. Per me è anche questa l’inquietudine forte che si ha quando si vede un corpo nano dentro un film, den­ tro un’immagine. Intanto perché ci rendiamo conto, quasi sempre di colpo, che non abbiamo molti modi di capire le dimensioni di un corpo rispetto ai nostri occhi, rispetto alla nostra distanza, rispetto al riquadro, rispet­ to al fraine, all’inquadratura. E, davvero, è impossibile.. Allora, quando appare il corpo nano - con questo rap­ porto mutato tra le diverse parti del corpo all'interno del corpo stesso e poi all'interno dell'inquadratura con gli altri corpi - un incubo ricorrente, nel cinema fantastico, è proprio quello del mutare dimensione, del diventare più piccoli o, viceversa, del trovarsi giganti. Insomma, il continuo scambio tra Gulliver e il lillipuziano, tra l’in­ cubo di essere un gigante-nano o un nano-gigante. In­ contrarsi in un’ipotetica normalità. È quello che siamo noi quando vediamo un film. Siamo nani, forse nean­ che sulle spalle dei giganti ed è, questa, una frase cui ri­ corre Werner Herzog nello straoidinario Cuore di vetro, non a caso una storia di mutazioni, di tentativo di rag­ giungere un nuovo colore, di dare un nuovo senso alla materia. E di Herzog è lo straordinario film che apre questa nottata, assemblata e montata da Sergio Grmek Germani. Anche i nani hanno cominciato da piccoli e dal nulla, e un altro concetto paradossale è pensare che questa dimensione più piccola è nata ugualmente da un nulla, da qualcosa di ancora più piccolo dove tutto era uguale. E la ribellione anarchica è terribile, ossessiva, è monomane con quella totalitarietà che è solo dell'anar­ chismo sviluppato dentro l’obbligo di una lotta. È Freaks. È Freaks, la normalità dei nani, l'umanità dei na­ ni in Freaks, rispetto agli altri corpi mutati e mutanti. •• I nani come aspirazione a una vita che sarebbe assur­ do definire piccoloborghese, nanoboighese. E sappia­

tempo 23.25. 26.30, 45. 57.66.119. 124, 126.131, 149.195. 221.

229

corpo 15. 34.36. 39, 45. 47.63. «1, «5.95. 97. 102. 106.139,141. 144. 160.162, 176.184. 189.

193. 228

Herzog 45.47.135.149

mutazione 34. 36.39.41.45.85.93,106.

173. 176. 182. 187. 236

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mo che in questo rimpicciolire, in questo tornare verso il nulla è invece uno dei destini più affascinanti, per esempio, della scienza moderna, quella che sviluppa le nano-tecnologie. E davvero possiamo tornare sul piano dei sogni di bambino o degli incubi di bambini, quan­ do credevamo di vedere dentro il buio minuscoli gno­ mi - i fosfeni - che si agitavano e muovevano le cose per noi. Quando avessimo acceso la luce avremmo tro­ vato, forse, tutto cambiato.. E cosa c’è di paradossale o invece di assoluta normalità nella norma, appunto, di un western interpretato tranquillamente da nani, con una sorta di automatismo che ci lascia beati, esterrefat­ ti, anche sospesi? Forse, oggi, se lo leggessimo annun­ ciato, un western o un poliziesco, * *** un poliziottesco post-giudici italiano, interpretato tutto da nani, che co­ sa diremmo? E pensiamo cos’era il western, negli Stati Uniti: un western di nani. Buona visione anche a quello, nella notte. [4 luglio 1993)

* Si potrebbe perfino dire che il cinema è il nano della realtà

“ I nani come aspirazione a una vita che sarebbe assurdo de­ finire piccoloborghese, nanoborghese

*** un poliziottesco post-giudici italiano interpretato tutto da nani

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Echi da un regno oscuro

Dai corpi di Mapplethorpe, i corpi fotografati, eviden­ ti, dalia voce-corpo di Patti Smith ai corpi mangiati, rac­ contati, del cannibalismo di Bokassa, nello straordinario documentario-film di Werner Herzog, che è un’eco eco da un’oscurità come è sempre un documentario per quanto si illuda di essere più di un'eco e magari di essere documento di una realtà. Ecco, eco da un’oscu­ rità, da un paese, da un regno oscuro. Credo che sia ad­ dirittura il titolo giusto per qualunque documentario, soprattutto per un documentario, mentre un film di fic­ tion riorganizza nella fiction, in qualche modo, una leg­ gibilità di fiction, magari (speriamo) per arrivare a ulte­ riori ambiguità. E dico questo avendo in mente un al­ tro corpo: il corpo tagliato che c’è oggi in Profezia di un delitto, uno dei grandi him, uno dei tanti, bellissimi film di Claude Chabrol, che conclude un ciclo che su Raitre è stato passato praticamente inosservato. Mentre il ciclo è dedicato, davvero, a uno dei grandi cineasti della nouvelle vague, una persona che ha fatto, quasi esclusivamente, film belli - e ne ha fatti tantissimi - e che da sempre, dopo aver scritto di un Hitchcock insieme a un Rohmer, ha proseguito in un’idea di cinema, perfet­ tamente ambigua, che costruisce congegni di sentimen­ ti con un rigore ancora più langhiano che hitchcockiano e, nonostante questo, sempre con una perfetta am­ biguità. Perché alla fine sappiamo che l’immagine, più di tanto, non può comunicare come conoscenza. E so­ prattutto - più grave e più forte - noi, più di tanto, non possiamo leggere di questa immagine. E allora immagi­ ni spoglie e, nonostante questo, eccedenti. E, comun­ que, anche Chabrol è passato. Addirittura stanotte su Raidue c’è un him di Chabrol, fuori da qualunque ciclo, il suo Albero degli zoccoli: Il cavallo d’orgoglio, Le che­ tai d’orgueil. E comunque corpi, dicevo. Il corpo da cui era ossessionato Chabrol - scusate - da cui era osses­ sionato Mapplethorpe, il corpo ‘tagliato’ di Chabrol, i corpi, ora evocati in questo grande documentario, in questo grande film di Herzog. Anche a Venezia c’era un suo grande documento che inseguiva attraverso i corpi, corpi siberiani, alcune ossessioni di spiriti. E sappiamo che Herzog è ossessionato e affascinato dall'ipnosi. 1

corpo 15. 34. 36. 39.45,47,63, RI. 85.95.97.102,106,139, Mi. 144. 160. 162, 176,184.189.

193, 22H documentario 11. 22. 25. 43, 47. 62. 108. 146.

151.161.169, 182,200.230 Herzog 45.47.135,149

ambiguità 29' 32.47. 87.90.102. 174, 192

Hitchcock 47. 49.97. 189. 220

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suoi film sono ipnotici, non sapremo mai quanto lo so­ no. Il film comincia con degli animali, con questi inset­ ti su una rotaia, con questa sintesi durissima, e * gli ani­ mali ci sembrano sempre un po’ ipnotizzati. Non sap­ piamo se sono stati guardati da qualcuno, cosa gli è suc­ cesso, se sono stati al cinema, se provengono dal cine­ ma.. Buona visione. (10 marzo 1992]

• gli animali ci sembrano sempre un po’ ipnotizzati. Non sap­ piamo se sono stati guardati da qualcuno, cosa gli è successo,

se sono stati al cinema, se provengono dal cinema

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Regia: l’ago nel pagliaio. Omaggio a Claude Chabrol

Mi piacerebbe usare molto il termine ‘capolavoro’ per quasi tutti i film di Chabrol. Ha fatto decine e decine di film. È il più prolifico dei cineasti nouvelle vague, quel­ lo che la critica francese, per esempio, per primi i Cahiers, hanno naturalmente riscoperto ora, in occasio­ ne dell’ultimo, bellissimo La cérémonie, uno dei film che avrebbe meritato di vincere il leone d’oro al festival di Venezia, se avesse un senso vincere un leone d’oro al festival di Venezia. Capolavori tutti, perché? Perché in qualche modo non c'è un solo film - io a memoria ri­ cordo forse due titoli, che non vi dico perché magari mi sbaglio, due titoli tra gli ultimi, poco interessanti o co­ munque chiaramente falliti - per il resto non c’è un so­ lo film di Chabrol, secondo me, che non sia molto bel­ lo, e per ‘molto bello’ intendo che non rechi traccia di questo sistema dissimulato di regia che è il calco rove­ sciato del grandissimo cinema americano degli anni ’40’50. E, naturalmente, l’incrocio miracoloso - ma un pic­ colo miracolo, perché nello stesso tempo è un’ombra derisoria di tutto ciò — di due massimi del cinema, Al­ fred Hitchcock e soprattutto Fritz Lang. Di Alfred Hit­ chcock non è il continuatore, Chabrol, ma è davvero una sorta neanche d’allievo, ma una sorta di rivale ri­ spettoso che però mette continuamente a morte il mae­ stro, il maitre, con un cinema che invece prosegue questo sì, tenta di proseguire - il gesto altissimo, più perverso, meno ludico, ma più perverso, il gesto di Fritz Lang. Per questo Profezia di un delitto è anche il film giusto - il suo cinema poi è così bello — perché la sua coscienza più alta è quando non c’è dentro la coscien­ za del regista la coscienza di un attore. * La somma di incoscienze ci dà una co-scienza. Lì, lì nel film, le inco­ scienze unite diventano un’unica co-scienza, anche per noi, tramandata. Qui, se vogliamo divertirci, c’è davve­ ro una partita a scacchi tra Hitchcock e Lang, l’ombra del regista dominatore, demiurgo assoluto che tenta di piegare - figuriamoci! - i destini, non tanto degli attori, degli attanti, o dei lattanti che siamo noi, ma dell’imma­ gine. Figuriamoci, l’immagine. L’immagine che fugge in tutte le direzioni, che non è mai perfettamente maftri-

Hitchcock

27.47,49,97.189, 220 Lang

15.49,162.197. 237

49

dio

23.50. 58.121, 142

autore 24, 32. 50,72.92,195.197, 214. 236

Hollywood

14. 50.65,75.80,118,137,221

Renoir 50,52.58. 59.83,158

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sable, padroneggiabile. Hitchcock, che invece gioca in modo molto più sornione, pur producendo alcune del­ le immagini più ludicamente riconoscibili della storia del cinema, non gioca neanche per un momento a fare ‘colui che riesce a controllare’. È, semmai, un demiurgo distaccato, davvero una sorta di dio lontano e, ripeto, ridacchiarne. ** Allora, l’ago nel pagliaio - mi verrebbe da dire il filo di paglia nell’ago - l'ago nel pagliaio è pro­ prio il fantasma della messa in scena. Chabrol, regista moderno, per forza post-moderno. Tutta la nouvelle va­ gue in qualche modo è post-moderna trattandosi di ci­ nema, che comunque è il mito del moderno a priori, già cinquantanni prima di Chabrol. È ancora uguale, ades­ so - altri cinquantanni dopo, cent’anni dopo il mai ini­ ziato inizio - Chabrol, che viene dalla critica che inven­ ta e fonda - ‘fonda’, ci sarebbe da dire, forse sfonda ma non l’ha mai fondata davvero la politique des au­ teurs, la politica dell’autore di cinema, quindi del regi­ sta come massimo autore. Ecco, Chabrol, che si inseri­ sce in questa linea e, invece, di tutti questi registi, Roh­ mer, Godard, Truffaut, Demy, Rivette, produce il cine­ ma più cancellato. Quello dove non solo è difficilissimo capire se siamo dalle parti di Lang o dalle parti di Hit­ chcock - che già, appunto, partecipano di una stessa deriva - ma, spesso, è difficilissimo capire se c’è davve­ ro un autore o non qualcuno - come hanno pensato a lungo i critici o gli stessi Cabiers du Cinéma successivi qualcuno che ha venduto la sua ipotetica anima d’auto­ re a un ipotetico sistema, l’ipotetico cinema di cassetta. Mentre, invece, Chabrol ha sempre inseguito, e credo molte volte anche casualmente raggiunto, il sogno o, in questo caso, l’ombra di un sogno, del sogno che è sta­ to il cinema hollywoodiano o comunque il cinema di genere e insieme d’autore. Di tutte le stagioni felici dei grandi cinemi, cinemi nazionali e soprattutto di quel meta-cinema, meta-nazionale, ultra, ipernazionale, mul­ tinazionale che è stato il cinema hollywoodiano ingiu­ stamente chiamato ‘classico’. Ingiustamente chiamerem­ mo classico, faremmo il torto di chiamare classico, an­ che in un’opera perfettamente riposata come la Ceri­ monie di Chabrol, Chabrol che ha, semmai, la violenza anticlassica di un Renoir e mai la capacità di riposarsi che ha avuto Renoir. Anche nei film più suoi renoiriani, più francesi, più di provincia francese, Chabrol è sem­ pre invece acido, è sempre lontano da un'umanità im-

mediata dei personaggi che lascia, invece, agli attori sempre scelti con grande amore o con grande odio. C’è una grande perversione, credo, sotto l’apparente bono­ mia del mondo chabroliano. Nei film che diamo oggi e, poi, nella nottata di domani la bonomia è comunque lontana. È evidente, davvero, come la sfida di Chabrol sia quella di qualunque cineasta degno di questo nome, cioè ‘degno di nome’, degno di inscrivere un nome in mezzo a questo straordinario fiume o mare - visto che parliamo di onde, di vague - che è il cinema.. Quella cioè di riuscire a dare una piccola forma, non solo una piccola forma alla propria onda, al proprio cinema, ma riuscire a inserirsi con un piccolo taglio personale, con una piccola deriva d’autore su quella regia automatica che compie il cinema. E, soprattutto, riuscire a selezio­ nare un’inquadratura, un punto di vista su un set, su dei set, di fronte a degli attori che potrebbero funzionare ogni volta con milioni di altri punti di vista. Questo è ‘l’ago nel pagliaio’, che è la regia di Chabrol. Ripeto, se­ condo me, è uno dei registi più enigmatici di tutto il ci­ nema del dopoguerra. Sicuramente non un regista che ci ha dato due, tre, quattro opere capitali intorno alle quali arrovellarsi - enigmi evidenti - ma appunto un re­ gista che ci propone la regia stessa come enigma, come capacità di giocare il proprio destino d’autore in mez­ zo a quello dei personaggi e rispetto ai milioni, miliardi di destini (che il cinema ci ha dato) di attori, di corpi e anche di immagini, di modo di inquadrare, di credere di dare forma a essi. Buona visione. Provate a cercare que­ sto ‘ago nel pagliaio’. Buona visione. (30 settembre 19951

destino ». 32, 51.57. 58. no. 195

* La somma di incoscienze ci dà una co-scienza • • Allora, l’ago nel pagliaio - mi verrebbe da dire il filo di pa­

glia nell’ago

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La vie est à nous?

ossimoro

52,141. 181, 224. 23°

Renoir 50. 52,58. 59.83,158

vita 21. 36,52,67.78, 83.92,97.

104.144. 163. 202. 240

mone 15, ]«, 21. 31. 52,81.97.104. Ili, 187,219

Debord

52. 55. 57

52

Le vie està nous mi è sempre parso uno straordinario os­ simoro da parte di un grandissimo artigiano, uno dei grandi inventori della poesia del cinema, grazie al suo essere tessitore di immagini: Jean Renoir. La messa in scena del più magnifico dilettantismo, all’opera, a! lavo­ ro, dilettantismo di attori, militanti o meno, insieme al dilettantismo del tentativo di farli recitare se stessi. Sco­ perta del cinema come macchina che costeggia, scin­ dendola, spaccandola, ottimamente, la vita. Della quale sappiamo benissimo essere tutti dei dilettanti, arrivando alla professione, a questa possibile morte dell’entusia­ smo, solo probabilmente in punto di morte. E quindi non poterla, non poterla vivere da professionisti, per fortuna. La vie est à nous è una sorta di anteprima, di avant-propos, alla notte che domani, a cura di Sergio Germani, si sviluppa intorno a L’occhio di Vicby, L’oeil de Vicby, grande documentario di Claude Chabrol, che, non tanto per caso, dopo poco tempo ha dato il suo ul­ timo film geniale, L’enfer. Ma, prima di arrivare a Cha­ brol, credo che, stasera, sia necessario parlare ancora non parlare - ricordare, uno dei dati di questo ossimo­ ro di La vie est à nous. * Poche cose sono meno ‘à nous’ della vita. In qualche modo, Francois Truffaut, nella chambre vert, la camera verde, ha tentato di dire anche 'la mort est à nous’, anche la morte è nostra, è per noi, è a noi, invece, ribadendo, in qualche modo, che neanch’essa è a noi, mentre cerchiamo di viverla. E oggi ci è arrivata una notizia, la notizia della morte di Guy De­ bord a sessantadue anni: suicidio. La morte di Deboid che è stato l’inventore del movimento situazionista e che, per l’appunto, ne ha vissuto profondamente negli ultimi anni anche la morte, la dissoluzione, rifiutando qualunque celebrazione, qualunque mostra. Anche se era prevista per gennaio, addirittura su Canal Plus, una serata dedicata a Debord, con un’intervista, con una specie di programma da lui fatto, pare, quest’anno. Una sorta di documentario su se stesso. E poi alcuni dei suoi film. Allora non so se in base a uno stato di malattia o a un tentativo di testamento, ma questa era veramente una sorta di autocancellazione nel mostrarsi: cancellare la leggenda di una persona che si era sempre negata al-

l’apparizione dentro la sfera dello spettacolo, dentro le macchine dello spettacolo. In molti ci avevano provato, in qualche modo ci avevamo provato anche noi, maga­ ri con un amico come Carlo Freccero, a Parigi. Ecco, mi è capitato di nascere nei giorni in cui veniva presentato a Parigi dal ventenne o ventunenne Debord il suo pri­ mo film, Hurlements à faveur de Sade - Grida a favore di Sade, nel quale, tra l’altro, secondo un gesto tipico dei situazionisti, c’è una stupenda foto degli anni ’60, *i situazionisti al cinema’, dove si stagliano tutti contro lo schermo, seduti come per guardare contro lo schermo, spalle allo schermo, dentro l’inquadratura e la luce bian­ ca dello schermo.. E anche in quel caso Debord era sa­ lito sul palco e aveva detto: ‘Per me possiamo passare subito al dibattito perché il cinema è morto’. E molti bianchi e molti neri e molte immagini, casualmente ac­ coppiate, erano nei film di Guy Debord, leggendari e pochissimo visti. Debord è notissimo soprattutto per un libro, La società dello spettacolo, anche se ha scritto altre cose e sempre con una scrittura altissima, di grandissi­ ma retorica, anche nelle ultime opere amare. Amarissi­ me. E ha scritto anche, una decina di anni fa, sette, otto anni fa - anche se credo che la prima edizione fosse ad­ dirittura del 77 - uno strano libro che riproduceva una partita al gioco della guerra con un suo amico. E in que­ sta partita, in questo libro che riproduce tutte le mosse di questa partita con dei commenti, alla fine dei com­ menti generali c’è una frase quasi evangelica: 'Celui qui veut tout garder, perderà tout’ (Chi vorrò mantenere tut­ to, perderò tutto). Debord ha cercato di mantenere una sorta di cerchio individuale dentro un mondo che ve­ deva come il percorso continuo di forze quasi pynchoniane - di cospirazione di poteri totalitari, totalitari in quanto poteri, in quanto forme dì potere - e sempre più occulte quanto più apparentemente il potere era manifesto. E oggi più che mai nella televisione, in Italia, lo sappiamo, è al potere una persona che viene identi­ ficata con la televisione. E forse non è questo ciò di cui bisogna avere paura perché, in fondo, è visibile. Alla ri­ cerca dell’invisibile Debord aveva fatto svanire in un ti­ tolo ossimorico e insieme un palindromo - quindi che si mangia da solo come in girum imus nocte et consumimurigni (gireremo nella notte e ci consumeremo nel fuoco), il movimento e consumazione e consunzione questa morte di cui non sappiamo nulla che, in qualche

schermo

S3. 72, 77.83.89. IH. 144,153. 160

mondo 19. 21, 32. 37. S3.62,67. 78,

95. 104. 116. 142, 144. 176,182.

202. 203 potere 9. 14, 31. 53. 88. 230

notte

36. 53.102. 135,138

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modo, ci sembra vicina a quella di una Moana Pozzi, un’altra star che si è donata tanto da negarsi, che si è fat­ ta vedere tanto da negarsi. Mentre qui, con Debord, ab­ biamo in qualche modo, ripeto, assistito quasi a un per­ corso inverso: c’è ° questa morte che non sappiamo davvero se piangere o se temere di dover piangere che non sia vera. E vorremmo apprezzare l’invenzione situazionista anche della propria morte come finzione, quindi che una vita altrove di Debord, che del resto si è sempre negato, sia invece la morte reale, la reale spari­ zione. Ecco, Debord ha raccontato l’anarchia di questa situazione della società, ancora preda di passato, di fu­ turo, mai vis(su)ta, vista dal presente. La situazione as­ soluta - il presente - quella che non ha ancora fatto, ma è fatto. ‘La vita privata, è privata di che? Molto sempli­ cemente della vita che ne è crudelmente assente’, scri­ veva nel 1961, in un articolo, Debord. E, però, Debord sapeva che proprio le tecniche dello spettacolo - dal te­ lefono alla televisione a, oggi, le varie vie telematiche potrebbero introdurre un disordine anarchico con po­ tenziale di liberazione enorme, se solo accettassimo un’apparente impossibilità di essere regolati e vivessimo la vita invece di porci continuamente, terrorizzati, pro­ blemi come se dovessimo regolare continuamente an­ che il nostro corpo, i nostri piedi, le nostre mani, i no­ stri occhi. L’occhio di Vicby- domani, questo documen­ tario di qualità superiore, documento di documenti, con intervento di regia apparentemente minimo - è uno dei gesti che, sorprendentemente per alcuni, forse, in Cha­ brol, regista della costruzione, della costruzione mini­ male, della derisione calcolata, del borghese portato al sublime, entra invece - il titolo è bellissimo - proprio dentro la felicità di un organo che non ci permette di giudicare. Quell’organo che ci mostra tutto e insieme as­ sottiglia, non le differenze, ma proprio lo spessore dei corpi che, insieme, lì, impariamo in parte a ammirare, a amare, a desiderare. E li fa sparire in quella estrema con­ centrazione di spettacolo che, per l’appunto, secondo Debord, era questa società. La morte. Buona visione. [2 dicembre 19941 * Poche cose sono meno 'à nous' della vita

• • questa mone che non sappiamo davvero se piangere o se temere di dover piangere che non sia vera

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Musical della politica

Il musical della politica. Anche questo è un gesto situazionista, stanotte. Un film trovato a sorpresa, forse an­ dato in onda, chissà, un pomeriggio.. Non c’è traccia nelle messe in onda Rai di questo Distaccamento fem­ minile rosso, capolavoro fiammeggiante di Wang Ping, grande regista maoista. Capolavoro perché è un film di colori scatenati, sfrenati, un film che è giusto apparen­ tate a Busby Berkeley. Quando diciamo ’musical della politica’ diciamo questo: diciamo le traiettorie, le traiet­ torie impensabili del cinema di Vertov, dove l’immagi­ ne è musicale, diciamo Busby Berkeley, diciamo II Pi­ rata di Minnelli e diciamo Distaccamento femminile rosso, un titolo ormai cosi astratto che è come parlare di un gioco di cubi. E questo apologo moral-politico-militare va in queste notti che si avvicinano al voto, v(u)oto, di cui abbiamo parlato molte volte. Ogni volta che si av­ vicina il voto questa u davvero scompare. E persino il titolo, Il musical della politica, ha fatto paura, abbiamo ricevuto telefonate: ‘Che cosa vuol dire?’.. ‘Attenzione alla par condicio’. È un titolo sadiano, sadico, détoumé. Debord, amici di Debord, situazionisti, avevano gioca­ to, negli anni 70, un rimontaggio di materiali cinesi, sbeffeggiandoli, distornandoli, anticipando di parecchi anni qualunque pratica resa poi facile dallo scratch vi­ deo, dalla disponibilità delle immagini-video. Noi sta­ notte, invece, come è nostro costume, intento, illusione, proponiamo queste immagini - intanto come intere, co­ me tali e quali - in attesa che se ne reperiscano i diritti, per poterle vedere, rivedere, per poterne parlare, per poterle far uscire da questi piccoli schermi televisivi. Perché questo sono i film, i film come questo: traietto­ rie. Traiettorie chiuse - anche con la maestria assoluta dei maestri del musical lì dentro - più sono chiuse, più sono precisi e più sono magistrali e più vorremmo che si prolungassero verso di noi o ai lati del piccolo o gran­ de schermo, col rischio di perderle, perché non sareb­ be più cinema. E, infatti, fuoriesce anche da ieri e arriva stanotte lo stes­ so Debord, perché vedrete uno dei suoi film a forza in­ seriti in questa notte di musical deliapolitica. Sono not­ ti un po’ disperate anche proprio nel farsi. Il gruppo no­

Vertov

55.107.135.143.146.225

Debord 52. 55. 57

55

stro rischia di sfaldarsi, come ho già deno, anche per motivi contrattuali, e quindi il lavoro che vi regaliamo il lavoro che è un furto, un furto a voi, anche del vostro tempo, e questo è il crimine maggiore - è un lavoro che spinge paurosamente all'illusione, all’invenzione del proprio tempo, che è prima di tutto distruzione. Così poi, una volta distrutto, disperso intorno a sé, lo si può anche ritrovare, magari dentro, ingoiato, in fondo all’in* testino. Ecco, il musical della politica è soprattutto l’or­ rore sublimato di questi obblighi di aggregazione, di so­ cialità, di linee, di passi dell’oca, di ritmi, di risvegli gior­ no per giorno (per cui continuiamo a vivere) che ve­ diamo perfettamente insieme, irreggimentati al massimo e sublimati nel musical: il punto ultimo di tensione per­ ché lo amiamo. Amiamo questa perfezione formale e vorremmo che invece tutto si spaccasse, che il mondo non stesse più insieme. E sennò, tenetevi, teniamoci il musical da vedere - con in mano un bicchiere di qual­ cosa - di cui parlare, guardandolo, da piccoli esteti. Ma che orrore! Buona visione. 19 aprile 19951

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U mio caso

Non è un caso, anzi è sicuramente un caso che da po­ co tempo sia morto Guy Debord, l’inventore del situa­ zionismo, di questo movimento che è stato definito co­ sì teoricamente, di cui avete visto, adesso, una magnifi­ ca ipotesi. Anzi l'illustrazione delle ipotesi delle placche rotanti in psico-geografìa. In realtà è il centro di Parigi in qualche modo spezzettato e centrifugato, una ipote­ si ulteriore di deriva urbana. Parlavo di caso. Questa notte l’abbiamo intitolata II mio caso, introduzione al Non è un caso, di domani notte, questa notte di destini montata, curata da Roberto Turigliatto. Le signe du lion, il segno del leone, il film che diamo stanotte, è il primo lungometraggio di Eric Rohmer del '59- Rohmer era già un intellettuale maturo, forse la figura più eminente, do­ po Bazin, dei Cahiers du Cinéma e lui, come Rivette, Jacques Rivette, l’altro intellettuale più formato del gruppo, esordirono, entrambi, con un film sul loro set, sul loro habitat di intellettuali: Parigi. Paris nous appar­ tieni è addirittura il titolo del film d’esordio di Rivette e, invece, Le signe du lion, il segno del leone, appunto, è una specie di incrocio di due mappe, la mappa astrolo­ gica (la mappa astrale) e la mappa di Parigi. Perché ho fatto vedere all’inizio questo? Vedere? Intravedere, balu­ ginare, questo bianco e rosso, queste frecce, questi pez­ zi, quartieri, arrondissements? Perché inconsapevol­ mente - ma non del tutto dato che il lettrismo e, poi, il situazionismo non era sconosciuto in quel periodo a Pa­ rigi, anzi, Rohmer tra l’altro recensì un film di Isidore Isou, il teorico lettrista poi sconfessato in quanto bana­ le avanguardista dal situazionismo che si voleva ‘oltre’, oltre l’illusione dell’avanguardia di essere oltre il tem­ po-la forza del situazionismo, di questa invenzione di situazioni, era proprio quella di vivere nel presente co­ me un lampo, fin quasi a sparire ma, nello stesso tem­ po, risultando accecanti e sparendo anche per questo. E, curiosamente, sia il film di Rivette e sia questo film di Rohmer hanno molto della deriva urbana, dell’attraver­ samento. In particolare, rispetto all’ipotesi più guerrigliera, più movimentata di Rivette, più complicata e langhiana di Rivette, complottistica, il film di Rohmer - lo vedrete stanotte - è una specie di anticipo geniale del

Debord

52.55. 57

destino 20.32.51. 57. 58.110. 195

tempo 23. 25. 26. 30. 45, 57. 66. 119.

124,126.131.149.195.221.

229

57

Wenders 58. 63.65

Renoir

50. 52. 58, 59. 83. 158

destino

20. 32,51. 57. 58,110. 195

dio 23.50. 58.121. M2

58

cinema che arriverà forse quindici anni dopo: il cinema, per esempio, tutto il primo cinema di Wim Wenders. Un cinema del minimalismo fenomenologico e insieme della tenerezza umanistica. Tra l’altro è un film che si rifa molto direttamente, anche nella figura stessa del protagonista, allo straordinario Boudu sauvé des eaux di jean Renoir con Michel Simon. È appunto questo un po’ il piccolo prodigio del film. Quello di coniugare una grande freddezza fenomenologica, quasi astrale — che resterà poi il segno di Rohmer - con un calore umano e quasi cristologico, un affetto renoiriano che è anche, in qualche modo, religioso. Ecco, se pensiamo che do­ mani avremo, in apertura di nottata, il film II caso di Krzysztof Kieslowski - ne abbiamo già parlato in occa­ sione del Decalogo, altro grande film di casi, di casisti­ ca, più che di precetti - vediamo come questi due ci­ neasti, apparentemente molto lontani, Kieslowski e Rohmer, oppure fin troppo vicini, entrambi ossessiona­ ti dai destini incrociati, dalla possibilità di dominare o di sfuggire il proprio destino, siano uniti solo dal cine­ ma più che da questa ossessione. Perché Rohmer - e lo vediamo in questo film che sembra insieme più carnale ma anche più freddo degli altri suoi - punterà sempre su una sorta di astrazione in qualche modo astrologica, su una chiarificazione, su un disossamento delle situa­ zioni. E mentre il più cattolicamente pesante Kieslow­ ski, più arrovigllato, aggrovigliato e arrovellato, meno illuministico, ci darà più dei corpi alla deriva, molto più legato alla fisicità delle situazioni, in Rohmer si tratterà, invece, di topografie di set viste, non dentro questa mi­ schia di destini ma, in qualche modo, con l’occhio di un dio quasi beffardo e sottile. Buona visione. [7 gennaio 19951

I piccoli teatri del cinema

È una notte decentrata, questa, intitolata ai piccoli teatri del cinema. Il cinema è il grande tbeatrum mundi del novecento, cento anni di questo teatro, lo sappiamo fin troppo, ormai. E questa notte non è centrata, invece, sul ‘grande’ teatro, sul fatto che il cinema sia il teatro del mondo, dove tutte le cose agiscono: attori e bicchieri e nuvole.. Tutti i racconti dei grandi registi, da Renoir a Ford, parlano di porte aperte perché entrino altre cose, parlano di macchina azionata al volo per prendere una nuvola che sembra dipinta nel film, tanto è precisa, giu­ sta, esatta, necessaria per sempre.. E sono problemi squisitamente teatrali. Oggi, forse, sappiamo che è, o sarà per sempre, il contrario: chiudere almeno una por­ ta, chiudere perché non sia sempre attraversato da un unico flusso il set di un film, il set su cui viviamo, un unico flusso che riunifica. Forse oggi si tratta di chiude­ re, ogni tanto. Ripeto, almeno una porta lasciarla chiu­ sa. La porta è Renoir, l’ho ricordato più volte, per esem­ pio, per Bernardo Bertolucci. Ma stasera, dicevo, Pic­ colo teatro. È il titolo di un film straordinario di Jean Re­ noir prodotto per la televisione: piccolo teatro, piccoli pezzi eppure, nell’insieme, pezzi che compongono tut­ to il necessario dell’artigianato fìlmico, della coscienza di operare nel cinema come dentro il teatro di un tea­ tro, il teatro ultimo. In questo senso, se pensiamo che stanotte vedremo anche il film di Michelangelo Anto* fifoni, tratto da un testo teatrale, L’aquila a due teste, potremmo dire che il film ha due teste, e il testo ha due film. L’aquila a due teste di Jean Cocteau: in mattinata vedrete anche il film tratto dal suo stesso testo. È un film del '48, quello di Antonioni è del 1980, invece. E sem­ bra quasi un veicolo per due cose diverse: da una par­ te Fattrice uscita dal suo cinema - Monica Vitti - è di­ ventata la grande attrice della commedia italiana e, dal­ l’altra, è sperimentato il colore, La tecnologia del colo­ re video trasposto in pellicola, con una sorta di entusia­ smo, di facilità quasi fanciullesca. Un altro maestro quindi, un altro degli ultimi film in qualche modo di un maestro, come IIpiccolo teatro di Jean Renoir, che si mi­ sura con qualcosa che viene visto abitualmente come nemico del cinema - ma è inutile fare questo discorso,

teatro 59. 83. 192. 202. 222

nuvole 25. 41. 99. 162

Renoir 50.52.58.59.83. 158

Ford 11. 33.59.143.203

set H, 59. 66. 78. 80. 187. 218. 222 Bertolucci 59,63.68.87.90,114,137. 203. 215. 216. 219

Antonioni 99.62,67.152

colore 14. 41. 59. 62. 71. 86.176

59

Rossellini 18. 2$. 28. 31. 32. 04.144. 163. 202. 240

mondo

19. 21. 32. 37, 53.62,67,78.

95,10». 116,142, 144,176.182. 202,203

set tt

78

66, 78. 80.187, 218.222

ma, ma non importa che sia moderna, è solamente in­ censa e forte e raggelante e micidiale, tanto è vera, - del­ la messa in scena alla quale non si può sfuggire, nono­ stante tenerezza e affetto. Figuriamoci, sono i due scher­ mi, ma sono anche i due, probabilmente, oggetti di af­ fetto maggiore per Fellini. E, però, già li vediamo in mezzo a questa capacità felliniana di trovare ugualmen­ te degni di affetto e di amore uno zampone gigante o il volto un po’ mostruoso, iper-umano, ultraumano, di un’orrenda - per esempio - comparsa. Ecco, lo stesso questi due attori-feticcio suoi, queste due figure con le quali non possiamo non simpatizzare, a un certo punto ci fanno sentire con violenza che non si può essere fuo­ ri da quello spettacolo, che in quel momento virulentemente rappresentano e insieme, insieme con Fellini, condannano. Dallo spettacolo non si può sfuggire. Il film non si interrompe mai. Il cinema-vita non si inter­ rompe neanche quando gli attori smettono di vivere, neanche quando i registi non ci sono più. La pellicola continua a srotolarsi. Non è del film e non è della vita di potersi interrompere, anche se le singole vite sem­ brano interrompersi, anche se i singoli destini sembra­ no arrivare a dei punti finali. Lo stesso non si può.. Si guarda di fuori, ma è illusorio guardare di fuori, guar­ dare da sopra come fa sempre il regista-demiurgo. E chi lo è stato più di Fellini che mentre guardava da sopra, sapeva che era finto questo guardare da sopra, perché era guardare da sopra dentro un teatro di posa? E poi anche il mondo, per lui, era un teatro di posa. E dove­ va fare una cosa, sugli attori, uno special per Raitre, cre­ do per Leo Pescarolo: la prima parte era sugli attori questo nuovo diario di un regista’ - e la voleva girare al polo, un polo ricostruito in studio. Quindi, immedia­ tamente, una cosa che sembrava semplicissima, il vuo­ to, diventava enormemente costosa. Ecco: un cinema del dispendio massimo anche se poi voleva lavorare sul set più semplice, vicino e a portata di mano, cioè la pro­ pria testa, la propria mente, il proprio sogno. Fellini ha partecipato alla crociata contro gli spot nei film e, ricor­ diamo, ha evitato di essere interrotto in una famosa messa in onda televisiva - poco tempo fa, forse un paio di anni fa, o un anno fa - telefonando al presidente Manca della Rai, chiedendo che non andasse in onda a metà, tra un tempo e l’altro, un telegiornale. Ecco, gli ul­ timi suoi film, piccoli film, sono stati gli spot per una

banca, di nuovo semplicissimi e bellissimi sogni nei quali (io l'ho visto sul set) lavorava con la stessa pas­ sione (e disprezzo) per il sogno, per il lavoro. Appas­ sionatissimo come se fosse un film, come se fosse un film da trenta miliardi e, nello stesso tempo, totalmente disincantato. Ecco, la freddezza di chi, con passione, ha visto come si vive e si sogna. Ginger e Fred, Federico Fellini, Giulietta Masina, Marcello Mastroianni. Buona visione. [29 ottobre 19931

* due non riescono, forse mai, neanche a fare

uno 79

Tbe Last Command

sei n. 59. 66, 78. 80. 187. 218. 222 hollywood

14. 50. 65. 75. «0. 118. 137. 221

80

Semplicità. Joseph von Sternberg che si complicò con il ‘von’, come Stroheim, un nome tutt’altro che nobile, nel 192S produce Tbe Last Command. Ed è un Film che dà un’indicazione di fondo per quella che è la complica­ zione del cinema, appunto. Il film parte bizzarramente o neanche tanto bizzarramente, da un suggerimento, anzi, da una storia raccontata da Ernst Lubitsch - un aneddoto vero - raccontata da Lubitsch a Lajos Biro. E su questo, poi, viene costruita una sceneggiatura e que­ sto film. Lubitsch, dicevo.. Bizzarramente Lubitsch è il maestro della perversione intellettuale, dell’intelligenza, della scrittura pre-cinematografìca al cinema e, poi, del­ la messa in scena purissima di essa, e ugualmente fil­ mica. Quello che è passato in maniera straordinaria dal successo nel muto al successo nel sonoro, capendo co­ me la parola sia solo un’economia d’immagini e non una pesantezza teatrale, lanciando in qualche modo, per la prima volta, la parola come un’ultima frontiera dell’immagine. In von Sternberg, in qualche modo, è quasi il contrario. È come se l’immagine raggiungesse lo stesso potere di complicazione, di perversione, di ‘intorcinamento’ che può avere il discorso verbale o la scrittura, mediante il linguaggio letterario per esempio, o anche filosofico. Infatti, questo film è incastrato in mo­ do infernale in se stesso. Si reinnesta, si apre in un Jlasb-back che dovrebbe essere il racconto reale, il rac­ conto da un set reale che si apre all’interno di un set ci­ nematografico. La storia comincia su un set hollywoo­ diano. C’è una parte che dovrebbe essere, diciamo, più realistica: la parte più cinematografica, più pompieristica, più hollywoodiana, montata come spettacolone in­ verosimile: questa lotta nella Russia pre-rivoluzionaria, tra la rivoluzione che stava ormai vincendo e un vec­ chio - e un vecchio? - e un generale, allora all’apice del potere. La parte, invece, sul set è molto più vicina non dirò a un documentario ma a un cinema meno iperbo­ lico. Quindi la parte più gonfia, se vogliamo anche più pesante, è proprio quella che dovrebbe riferirsi a una realtà, per di più a una realtà storica. Dove, invece, il film diventa vertiginoso è sul set, nel luogo dove in que­ sto film si filma, alla fine, come se tutto ricominciasse o,

meglio, come se tutto morisse. Perché questo film fini­ sce con una morte, con la morte-trionfo dell’attore che è come morisse due volte. Come se morisse sul set quel­ la morte che gli era stata risparmiata nel racconto per potergli permettere di venire a Hollywood, insieme al suo ex prigioniero, ora regista, in uno scambio clamo­ roso delle parti, proprio in un gioco servo-padrone ver­ tiginoso. E, in qualche modo, alla fine è come se dav­ vero si ringoiasse tutto in questa verità dell'illusione. Fa molto pensare all'ultimo film di Ferrara con Madonna, il film che, per l'appunto, rende vera, per la prima volta, anche Madonna. La rende vera come attrice proprio me­ diante un film sui giochi della finzione del set e della ve­ rità della finzione. Tutto questo, domani, lo vedrete in una notte che è dedicata, per intero, alla ’magnifica os­ sessione’ del cinema, mediante un incrocio di cinema nel set, di set nel cinema, di cinema sul set, a proposi­ to del set. In realtà è il tema ultimo e definitivo di que­ sto grande film di Sternberg che, alla fine, di nuovo dà il suo ’von’ con la scena, che ora siamo abituati a vede­ re, ma allora clamorosa, dell’inquadratura che si allarga e mostra oltre la battaglia che abbiamo visto in scena e sappiamo essere un set. Si allarga e vediamo la macchi­ na da presa: vediamo per l’appunto il set. La cosa affa­ scinante è che tutto questo non cambia di segno al film. È semplicemente un’ulteriore duna, un ulteriore spo­ starsi, che è per sempre, per sempre, dato da von Stern­ berg: l’annuncio di un orizzonte che non finisce mai. 11 cinema non darà mai conto della propria finzione, per­ ché l’unico modo di dar conto della propria finzione sa­ rebbe negarla in maniera definitiva. Chissà, adesso, con l’arte elettronica, con i corpi clonati, inventati, proprio von Sternberg - l’abbiamo già detto - sarebbe il regista perfetto di giganteschi videoclip elettronici. Sicuramen­ te si divertirebbe - l’abbiamo già detto - a giocare fi­ nalmente con dell’acqua finta, lui che lamentava, alla fi­ ne, di dover usare del liquido vero per fare l’acqua, di non poterla fìngere, cosa che forse lo accomuna anche a Fellini, se pensiamo al Fellini di Casanova, dove, però, la finzione era così evidente da risultare un altro gioco, un segno imperiale d’autore. Qui invece, davve­ ro, si dissolve il gioco che sembrerebbe banale nel con­ trasto set-vita, realtà-finzione e, appunto, si indica solo che per sempre raggiungeremmo questa verità, solo im­ provvisamente sentendoci tutti, in qualunque momen-

morte 15. la 21.31. 52.81.97.104.

111. 187. 219

corpo 15. 34. 36. 39.45. 47. 63.81.

85.95.97.102.106.139.141. 144. 160. 162. 176. 184. 189.

193.228

81

to, attori. Di un gioco che non è vero che non ci ri­ guardi. Ci riguarda terribilmente, proprio perché ne sia­ mo in gran parte solo attori. Buona visione. [4 febbraio 19941

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Essere o non Essere?

Se noi tirassimo un sasso all'attore sul palcoscenico, a teatro, forse lo uccideremmo, la recita si interrompe­ rebbe. Se tiriamo un sasso verso lo schermo o rimbal­ za oppure, dietro, appare un nero e il film va avanti ine­ sorabilmente. 11 suo tempo, è proprio il suo tempo — in quel caso - che ci impone, non il suo spazio. E proprio questa distanza fa essere, di nuovo, il cinema. Induce una proiezione così forte, nostra, un investimento così forte.. E, come ultimo paradosso, il cinema da molti an­ ni insegue, invece, davvero, quel famoso mito del cine­ ma totale, che poi vorrebbe dire un super teatro. Il mas­ simo sogno del cinema è quello di tornare ai cinque sensi, alla profondità, alla stereovisione, all’ologramma, a ‘quasi toccarlo’. Però, non sarebbero attori, sarebbero proiezioni. Toccheremmo cosa? Degli automi, un teatro di automi. Ecco, di nuovo teatro, un doppio allucinatorio molto più pieno anche se poi ci sarebbero, di nuo­ vo, questa volta, i vuoti tra i personaggi, le cose. E in­ vece così il cinema è costretto a lavorare - lo sappia­ mo - da Godard in poi, su questo vuoto, su queste di­ stanze, sulle relazioni che passano - non misurabili co­ sì facilmente in termini spaziali - tra le cose e i perso­ naggi, tra un personaggio e l’altro, tra lo schermo e noi. Su questa proporzione che non è mai giusta, non è mai esatta. Qual è il punto esatto da cui vedere un film? Lo sappiamo bene che non esiste. Teatro nel cinema. Tea­ tro-cinema: né teatro nel cinema né cinema nel teatro. Teatro-cinema, barra, Essere o Non Essere, To Be or Not to Be, un capolavoro come quello di Lubitsch, un altro capolavoro come La carrosse d’orRenoir. Ecco, due film che ci fanno vedere non la differenza tra vita, teatro, cinema, ma come il cinema ci costringa a inven­ tare un teatro, ci costringa davvero a giocare su una di­ stanza che non sarà mai quella giusta, mentre a teatro comunque è una distanza in qualche modo fissata. Noi vediamo dentro questo spazio sicuramente quella cosa lì, che ha questi rapporti.. Mentre il cinema è questa im­ magine che già ha compiuto la violenza di scegliere, e poi ci si impone anche come un’ipotetica soggettiva no­ stra e di qualunque altro spettatore. E quindi è, imme­ diatamente, una pluralità, una folla quasi demoniaca.

teatro

59. «3, 192. 202. 222

schermo 53.72.77, «3.89, IH. 144.153.

160

Renoir 50. 52,58. 59,83.158 vita 21,36.52,67.78.83.92.97,

104.144. 163. 202. 240

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un’incertezza, se vogliamo un obbligo di scelta molto maggiore. Ecco il cinema che subito ci fa affollare in­ torno la possibilità della vita, mentre il teatro è costret­ to, per vivere, a una intensità assoluta. E invece - lo sap­ piamo da sempre - anche il film più caduco ci può da­ re un attimo di incanto assoluto. E La carrosse d’or, La carrosse d’or è questo. È il momento di assoluto dolore che c’è nell'allegria del teatrante, il ribaltamento non da compiere, non in un gioco di scatole cinesi. Nel mo­ mento stesso in cui potessimo rallentare tutto, come nelle immagini degli atleti sotto sforzo, di cui parlavo ie­ ri, vedremmo che non c’è una sola espressione, che non c’è mai una decisione, ma ci sono tantissimi passaggi in un attimo. * E forse non esiste l’atomo della visione, come non esiste il punto di cui si può dire: 'Ecco, que­ sta è la vita *. Non lo sappiamo ancora qual è il dna del dna, qual è il luogo dei luoghi. E, tra teatro e cinema, qual è il terzo luogo, quello da cui si può parlare e di­ re: 'Questo è teatro, questo è cinema’. To Be or Not to Be. E Lubitsch dice per sempre in questo film straordi­ nario, in questa straordinaria commedia, in questa sati­ ra, che la satira non può esistere o, meglio, che può es­ sere ma immediatamente non è. Perché quell’immagine è passata. Buona visione. Cinema-teatro, di nuovo Car­ melo Bene, di nuovo Amleto. Essere, non essere: non è un problema. Buona visione. [21 agosto 1993)

* E forse non esiste l’atomo della visione, come non esiste il

punto di cui si può dire: ‘Ecco, questa è la vita’

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Salomè

..il labbro strappato, come mi capita di fare con passione archeologica, e un po’ di sangue che colava quando ho finito di rivedere il Salomè, la Salomè di Car­ melo Bene, un film che ho amato molto e che mi è par­ so, di nuovo, un film capitale. Capitale anche nel suo essere leggero, forse il più leggero dei film di Carmelo Bene, più leggero perfino di Capricci con quel titolo. Non è vero comunque che è leggero. È leggero perché sembra, a rivederlo oggi, un antenato: l’inventore delle video-clip da una parte, e del cinema di Almodóvar dal­ l’altra. Tutto il cinema di Almodóvar è fortunatamente contenuto in due o tre scene di questo film di Bene e direi anche superato, da un punto di vista visivo, inten­ do. Il film, oltre il suo impianto, oltre il suo punto di partenza teatrale, molto più evidente, naturalmente, an­ che come testo che negli altri film di Bene (a parte for­ se Un Amleto di meno e Don Giovanni), ha due o tre frasi capitali, come questo terrore, alla fine, del movi­ mento blasfemo, importantissimo nel film. Questa bla­ sfemia generalizzata che porta al rifiuto dell’idea di ri­ suscitare i morti. Va bene ogni miracolo, ogni mutazio­ ne, ogni realtà virtuale, ogni reincarnazione ma non ri­ suscitare i morti. Sì alle trasmutazioni ma non risuscita­ re i morti. E infatti la fine del film è questo: ‘Comincio ad avere paura’. La paura come unica vera intensità che alla fine si libera da questo film di corpi, di pezzi di cor­ pi, di inquadrature singole di nudo, di natiche, di boc­ che, di seni. È un film lui stesso, un corpo spezzettato e rimontato continuamente, un corpo vocale, i dialoghi ri­ detti, le frasi che tornano, smozzicate o ridette in modo diverso. E poi, se ci pensate, una specie di fine, di fine anticipata del cinema di Carmelo Bene - anche se poi vennero altri film - è questo ‘Non voglio più vedere nul­ la!’. Questo ‘Basta!’, questa fine della luce, questa fine della visione. E poi questo farsi grattar via la pelle ram­ menta una cosa successiva: il clip No Money Down di Lou Reed, fatto da Godley and Creme, che abbiamo tra­ smesso molte volte a fuori orario, a Schegge di futuro. Farsi strappar via il volto, la maschera. Non è che sotto ci sia una maschera e poi il volto, no, il volto è, ovvia­ mente, una maschera infinita, è uno strato, sono strati

passione

85.112.195. 197

mutazione

34.36. 39.41.45.85.93.106. 173.176.182.187.236

corpo 15. 34.36.39.45.47.63.81.

85.95.97.102.106.139.141.

144.160.162.176.184.189. 193. 228

85

virtuale 40,86.95,123

colore 14. 41, 59.62, 71.86, 176

86

diversi di maschere, strati diversi della stessa maschera. In fondo strapparsi via, farsi strappar via questa pelle, questa parte di volto è una sorta di sostituzione della decapitazione del Battista, più volte allusa. Richiesta, come da storia originaria, allusa con il taglio del coco* mero, in fin dei conti maivista. E invece abbiamo que­ sta sorta di decapitazione/decollazione per grattamento. Al posto di ciò, della decapitazione, c’è una sorta di au­ toeliminazione del volto e della testa. Possiamo imma­ ginare che andando avanti, alla fine lì, se il film fosse stato realizzato in epoca di immagini computerizzate o di realtà virtuale, probabilmente davvero quel volto l'a­ vremmo visto scomparire. Non poter vedere più nulla perché non c’erano più gii occhi e sarebbe stata pura voce: la voce straordinaria di Carmelo Bene. Buona vi­ sione. E poi queste immagini, questi colori, questi co­ lori, appunto, tra Fassbinder e Almodóvar, questa artifi­ cialità spintissima, queste immagini che sono quasi sem­ pre anche specchio, lustrino di se stesse, e fanno pen­ sare ai colori di un film come Tbe Trip, un film di dro­ ga, in cui si parla molto di droga, e a un film sulla dro­ ga di Corman: Il serpente difuoco. Oppure la luna, que­ sto suo tornare ironico alla luna. Naturalmente la luna, la luna, la luna., la luna, il cerchio, il sedere, le natiche, la luna. Che fa pensare persino a La luna così diversa tenera: l’infanzia di Bernardo Bertolucci. Questo, così per forzare in molte direzioni questo film bellissimo. 121 gennaio 1994]

La notte del piombo nelle all

Il primo film della notte che si apre fra poco, La notte del piombo nelle ali, come l’abbiamo chiamata con vo­ luta retorica - ci piace molto la retorica - è La tragedia di un uomo ridicolo di Bemardo Bertolucci. Un film dell’inizio degli anni ’80 che apre proprio il decennio, e che apre anche un decennio in cui il cinema italiano, con circa un dieci, cinque, sei, sette, otto anni di ritar­ do - quindi con una distanza - si occupa del terrorismo, il terrorismo fiorito soprattutto negli anni ’70, in Italia. È bello per come si chiama, per come si intitola: La tra­ gedia di un uomo ridicolo. È un film capitale per molti motivi. Intanto perché per Bertolucci segna l’inizio di una lunga pausa. Il film andò malissimo pur essendo si­ curamente uno dei suoi ’grandi’ film, forse il suo film più segreto e più decisivamente politico. Politico in quanto grande melodramma e grande film sentimenta­ le, ma con una straordinaria lucidità, lucidità neH’ambiguità, il punto è questo. Il terrorismo, col suo rifarsi a valori precisi, durissimi, a indicazioni molto nette - d'a­ zione - a un’opposizione, spietata, terroristica, non può che far risaltare, invece, la totale ambiguità delle situa­ zioni in cui il tentativo di osservare o di obbligare al­ l’osservanza di questi principi porta. Inevitabilmente. In tutti questi film, in un modo o nell’altro, quello che ri­ salta - automaticamente, appunto - è l’ambiguità nelle situazioni. Ed è un'ambiguità che dura anche adesso, in Italia. La nettezza dei principi terroristici rende, di per ciò stesso, il movimento terroristico e le azioni terrori­ stiche in qualche modo indecidibili - sì-no, bene-male, di destra-di sinistra -, strumentalizzate, conosciute, in­ filtrate.. Sono giudizi tra l’altro che possono essere dati solo molto tempo dopo e, se per caso un’azione terro­ ristica ha avuto ’successo’ da parte di agenti o di man­ danti oscuri - pensiamo alla metafora del Grande Vec­ chio in Italia - lo sapremo fra trent’anni o mai, e nel frat­ tempo staremo vivendo questi effetti senza sapere che, in parte, la struttura politica o sociale - per esempio di adesso, del 1995 — è dovuta anche a quell’atto terrori­ stico. Inutile nascondersi. Pensiamo a Moro, il politico italiano più straordinario e più straordinariamente am­ biguo, che viene rapito con un gesto pochissimo ambi-

Bertolucci 59, 63.68.87,90.114.137. 203.

215.216, 219

ambiguità

291 32- 47, 87. 90. 102.174.192

87

potere 9, M. 31, 53. «8, 230

88

guo: lo sterminio della scorta. Un gesto terribile che se­ gnava subito anche un esito, in qualche modo, della fu­ tura trattativa. La tragedia di un uomo ridicolo è una piccola vicenda, provinciale, di terrorismo-non terrori­ smo. Era appena abbozzata e resta una complicata e in­ sieme serena ambiguità, sospesa su questa inquietudine di fondo, legata all'Italia del post-miracolo e della ric­ chezza che vediamo. Ricchezza non esagerata, ma ric­ chezza in parte contadina e in parte industriale. Ecco, credo che, seguendo il suo itinerario personale, abbia fatto, tra l’altro, un film molto legato alla sua terra d’ori­ gine - Parma - almeno quanto Prima della rivoluzione, almeno quanto Novecento. La tragedia è, in fondo, ripe­ to, semplice, così semplicemente ambigua e deriva dal puro porre la parola, il diktat del terrorismo, il suo sì o no, il suo obbligo di scegliere, di schierarsi, di lottare. Sembrerà stupido parlare di questo e anche così fuori luogo, oltre che juori orario, in occasione di un ciclo dedicato a questo cinema italiano, un ciclo tutto in una notte. Cinema italiano che ha rielaborato il terrorismo, magari nei modi del melò di Marco Tullio Giordana o con la maggior distanza, quasi minimale, ma insieme da noir, di Italo Spinelli e Paolo Grassini. Oppure, di nuo­ vo, con il dramma civile e sentimentale di Colpire al cuore di Gianni Amelio. Ecco, sembrerà fuori posto, ma anche per il cinema, soprattutto per il cinema - e lo mo­ stra in pieno La tragedia di un uomo ridicolo - si è con­ segnati, una volta che si mette in gioco il fantasma di potere assoluto, che è il terrorismo - il fantasma della sicurezza assoluta - si è consegnati a un puro labirinto, a un puro gioco di apparenze che dissolvono Cuna nel­ l’altra. Il terrorismo dà luogo a un cinema al quadrato, al cubo, all’infinito. Intendo dire al cinema che più fa or­ rore ad alcuni e che in fondo però indica la situazione in cui già viviamo. Quello che ci fa continuamente pen­ sare che i margini dello schermo non esistano più e che - ultimo terrore, oppure terra promessa, nuovo orizzonte - ci sia un unico cinema, terribilmente ambi­ guo - questo sì - ambiguo in modo anche terrorizzan­ te. E dicevamo ieri del cinema assente in Italia negli an­ ni 70, in qualche modo, in quanto sostituito da un for­ tissimo immaginario televisivo legato proprio all’azione terroristica. Vi ricordate? Il parlarne-non parlarne, il far vedere-non far vedere, il dibattito sui giornali, rilancia­ re.. Ma allora che cosa ci sarebbe stato in Italia? Una sor-

ta di ipocrisia, un vuoto e, intanto, l’azione terroristica quasi come unica azione, la più importante proprio per­ ché non se ne sarebbe parlato, sarebbe stata l’occulto vero e proprio. E l’altra ipocrisia sarebbe stata, invece, renderlo troppo popolare, far vedere, parlare con i pa­ renti delle vittime.. Stasera prima del film ci sarà anche una conversazione con Alberto Franceschini, un’intervi­ sta di Ciro Giorgini. Io non la conosco. Sono a Cannes, sto facendo la mia solita conversazione senza interlocu­ tore e, anche per questo, buona visione. Io mantengo solo un rimpianto. Ma lo faremo nelle prossime setti­ mane. Volevo chiedere a Franceschini e ad altri - a Re­ nato Curcio, in particolare, che so, sapevo appassiona­ to di cinema - che cosa era stata la visione, la non-visione del cinema o, meglio, durante il periodo del car­ cere, la * visione obbligata, fordusa, reclusa, cioè dover vedere solo certe cose in televisione, piccolo schermo, bianconero. Mah! forse è una piccolissima curiosità su una sorta di ** immaginario recluso: la visione reclusa del cinema. È un discorso che forse non ha nulla a che fare con il terrorismo ma, per l’appunto, con la situa­ zione vissuta da alcune di queste persone. In ogni caso può valere per qualunque altro recluso, quindi questa è una divagazione. Buona visione. [27-28 maggio 19951

schermo 53.72,77. «3. w. 111.144.153. iso

* visione obbligata, forclusa, reclusa

** immaginario recluso: la visione reclusa del cinema

89

Terza generazione

Bertolucci

$9.63. 68.87.90.114, 137. 203,

213.216, 219

ambiguità 32, 47. 87t 90 102, 174. jpz

90

Terza generazione è un anticipo della notte di domani dedicata al ‘piombo nelle ali’, che è anche, se ci pen­ siamo, il piombo nelle ali del cinema italiano che, in parte, il terrorismo ha significato. Il terrorismo degli an­ ni 70 ha coinciso, ce ne accorgiamo oggi, con un mo­ mento di grande vuoto del cinema italiano, del cinema nazionale, come se la forza drammatica, l’intensità drammatica delle trame e dei sentimenti stessi più civi­ li fosse tutta lì, nella trama terroristica, nella minaccia, nei morti, nel dolore, nelle uccisioni, culminata da una parte nell’uccisione, nello sterminio della scorta di Mo­ ro, e poi nell’uccisione dello stesso Moro, Aldo Moro e, dall’altra, nel videotape terribile dell’interrogatorio e dell’esecuzione di Roberto Peci, fratello del pentito Pa­ trizio Peci. Ecco, quello è stato il cinema. La nostra atte­ sa. L’attesa di chi era maturo o bambino o adolescente in quegli anni, e aveva la televisione, tra giornali e tele­ visione, con questi comunicati magari letti brevemente, con tono asettico dai commentatori, dagli speaker. Ed erano sempre preceduti dalla parola ‘deliranti’.. Ecco, questo ’deliranti’ era il melò terribile - e insieme il film drammatico e insieme il poliziesco terribile - che ci ha accompagnato per una decina d’anni. E, in quella situa­ zione, non c’è stato più il cinema italiano. E questo lo vedremo domani. Vedremo invece il cinema fatto dopo, a partire dal capolavoro di Bertolucci, La tragedia di un uomo ridicolo. E oggi, ripeto, come anticipo, c’è La terza generazione. Un film di Fassbinder dedicato alla stessa storia, alla stessa trama, alla stessa, così terribile, dissociazione del terrorismo, una dissociazione brech­ tiana della vita mediocre - in qualche modo senza prin­ cipi - di chi lotta, legata a principi talmente alti e asso­ luti, obbligati, determinati, deterministici da svuotare tutto il resto, da svuotare la propria stessa vita e affidar­ la, invece, ai patteggiamenti più mediocri, alla quotidia­ nità più obbligata, ai rapporti di potere più brutali. Un grande film di Fassbinder, da un altro paese - appunto la Germania - che ha visto con l’Italia il terrorismo in Europa più aggressivo, più pensato e infine ugualmen­ te ambiguo, anzi il più ambiguo, per questo, che sia esistito. Quindi, se vogliamo, il più vicino all’ambiguità

di fondo del cinema, quella che ci fa continuamente chiedere - non di fronte alle immagini dei film ma men­ tre le vediamo, e non per quelle immagini - ci fa chie­ dere qual è il potere, l’amore o l’odio che muove, non ‘il cielo e le altre stelle’, ma quelle persone lì sullo scher­ mo. E quello lo possiamo ricostruire. Gli stili.. È un film straordinario di Fassbinder a proposito, e sarebbe lun­ ghissimo parlarne., lo stile della nostra vita, gli stili di lotta - anche oggi in Italia - delle nostre vite., e al di là dei ’primi mandanti', chi è che produce questo film? Buona visione. 127 maggio 19951

91

Fuori orario Pasolini

vita 21, 36, 52, 67, 78,83,92,97,

104.144. 163. 202, 240

autore 24, 32,50, 72.92, 195,197, 214,

236

92

Sospeso tra la volontà profetica dell'annuncio e la sen­ sibilità, anzi volontà quasi ideologica del San Sebastia­ no, del sansebastianismo omosessuale, il rischio di Pa­ solini è sempre stato che la tensione - tra queste ipote­ si che possono anche in certi momenti coincidere - che la tensione venisse, invece, ridotta e letta in una figura di interprete alto o basso o medio, puntuale o lirico. In un interprete della realtà, della realtà italiana del dopo­ guerra, della seconda metà del secolo, del penultimo quarto del ventesimo secolo in Italia, in Europa o forse nel mondo, comunque in un lettore, in un interprete, in un poeta e cineasta della realtà. Mentre credo che Pa­ solini già avesse il cinema con una precisione straordi­ naria, il cinema come linguaggio e addirittura lo chiamò, nella lingua dell’epoca, ‘semiologia’ della realtà. Il cinema come semiologia della vita, come cose che parlano, in qualche modo, da sole, un elemento del futurismo anticipatore degli inizi del secolo. * Il cinema come esempio, ancora incompleto, di fonografìa, di scrittura con i fatti e con le cose. E non poteva non es­ sere disperata, questa coscienza. Coscienza del fatto che, poi, il cinema funzionasse come un enorme ice­ berg sommerso, e che la puntina del visibile - del visi­ bile artistico, della parte di visibile su cui un autore, un regista, anche molto colto, può incidere - fosse sempre minuscola, scivolosa e pronta a sciogliersi. Regista col­ to culturalmente, in senso generale, per fortuna Pasoli­ ni era un selvaggio semmai dal punto di vista del lin­ guaggio, dell’apprendimento e della cultura cinemato­ grafica e cinefila sedimentata. Ma era un autore colto che poteva investire di molti codici le immagini. Eppu­ re questa capacità, non di dominare, ma di caricare di senso le immagini, non poteva che apparirgli di anno in anno, probabilmente di film in film, sempre più inane rispetto al funzionamento automatico, al trascinamento automatico della macchina-cinema come produttrice di senso e di sensi. Infatti il film definitivo di Pasolini è un film non annunciabile, che non annuncia altro se non la fine, una sorta di apocalisse fredda: il Salò-Sade, il film davvero mortale, fatalmente mortale. Pasolini in qual­ che modo si è offerto come vittima designata, consape-

vole, quasi gratificata di *** un terrorismo non armato da qualcuno, armato da sé. E probabilmente l’urlo che ci manda oggi Pasolini è un urlo di linguaggio molto oltre i due poli, cui abbiamo accennato, e molto oltre l’ambi­ to della cultura e della società italiana. Credo che Paso­ lini sarebbe da leggere, oggi, insieme ai Beckett e ma­ gari ai Burroughs, come tentativo di portare la carne sul piano della letteratura, di rendere la letteratura a sua volta carne, di costruire, quindi, una sorta di percezio­ ne della mutazione, di uomo mutante. Il contrario del­ l’antropologia classica cui continuamente si riferisce per cultura acquisita. Un segno fortissimo di questo è pro­ prio la sua scelta - che era parsa lunare, bizzarra, poe­ tica - proprio di Totò. Stasera, sianone, vediamo, prima di questa nottata dedicata da Vieri Razzini a due film di Pasolini, vediamo degli squarci - che si vedranno anche altrove - di una sequenza inedita che in occasione del­ la Magnifica Ossessione Ninetto Davoli ci consegnò. E ti diamo così, muti, lontani da ogni possibilità filologica di assegnazione a un luogo dentro il film, dentro Uccellacci e uccellini, proprio perché ci riportano la selvag­ gia forza della cultura di Totò, di Totò come personag­ gio già di un cinema cinico, di un Cfafco TV già di gra­ do zero, di risata mutata, mutante. Totò come stupefat­ ta scultura che è, così, sui bordi del moderno. Si muo­ ve a metà tra la parola folle d’amore di San Francesco e il linguaggio - a proposito di mutazione - il linguaggio degli animali. Ecco, credo che sarebbe più utile, più scandaloso, più pasoliniano, spostare Pasolini dai de­ cenni in cui ha vissuto e leggerlo, oggi, come fantasma, oltre la fragilità del suo cinema, la fragilità di chi ha ten­ tato di competere con la forza di messa in scena che il cinema ci porta, ogni momento, come un’atroce cosa dall’altro mondo. Buona visione. 13 novembre 19951

mutazione 34. 36, 39.41. 45.85.93.106, 173, 176, 182, 187. 236

Cinico TV

32.34,93,109.121.127

* Il cinema come esempio, ancora incompleto, di fonografia ** un terrorismo non armato da qualcuno, armato da sé

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Sade Sade. Elegia dei buoni sentimenti

Camme unejolie rose qui tombe aux efforts redoubles de l’aquilon.

Questo non è un verso, è una frase da uno dei punti più efferati dell’opera del marchese De Sade. E questa simi­ litudine squisita come questa rosa che cade per gli sfor­ zi raddoppiati dell’aquilone, del vento, è in realtà la te­ sta, una testa di fanciulla innocente che viene decapita­ ta durante un atto sessuale. È uno dei punti più strani di tutta l’opera di De Sade, e De Sade non abbonda di di­ gressioni liriche ma, semmai, una sorta di lirismo viene proprio dalla monotonia, quasi rap, della lingua sadiana che inanella orrori e descrizioni con una certa - ri­ peto - anche monotonia lessicale, con una vera mac­ china che parte da un ridotto numero di pezzi come, in­ fine, ridotti sono i pezzi del corpo. Ma proprio da que­ sto numero ridotto crea combinazioni infinite per il pia­ cere più spinto o più orribile, mostrando come, in fon­ do, all’interno di ognuno di questi pezzi, atomizzando, riatomizzando si possano pensare riprodotti questi mec­ canismi infernali o paradisiaci. Questa notte Sade Sade, che riecheggia ovviamente Sat Sat, è inventata, propo­ sta, da Roberto Tùrigliatto e da fuori orario sulla base, anche, di alcuni lasciti, di nuovo, di magazzino, per esempio il bellissimo film di Peter Sasdy, Hands of the Ripper, Gli artigli dello squartatore, che è forse il più sadiano dei film dedicati alla figura del Jack the Ripper contemporaneo ispiratore - e, diciamolo, magari ispira­ to anche da - ispiratore di Jekyll e Hyde di Stevenson. Volevo arrivare anche a questo altro titolo capitale non solo perché - lo abbiamo detto mille volte, mille volte giusta la ripetizione - perché Jekyll e Hyde è uno dei soggetti più ripetuti, più remakati, con una violenta coa­ zione, nella storia del cinema che entra domani in que­ sto ‘oltre cento’, in questo nuovo ‘cento’. Ma perché la scissione, per l’appunto, è un po’ la cosa che lega il ci­ nema, per sempre, all’opera di Sade. Naturalmente, nel corso della nottata, vengono proposti, invece, esercizi particolarmente sadiani da Bunuel a Stroheim al genia­ le Most Dangerous Game. Messinscene tutte estrema94

mente raffinate, tutte sostanzialmente basate sullo sguardo che si rimette in scena e che sfugge gli altri sguardi ma li vuole dominare tutti, li vuole possedere tutti. È questo poi il cinema. Perché questo sguardo che non vedremo mai al cinema, neanche in uno specchio, non sarà mai lo sguardo di questa macchina che guar­ da. È il cinema. Che non è neanche la cinepresa, natu­ ralmente. È questo soggetto che non c’è, lo sappiamo. Ecco, questo sguardo che tutti gli sguardi attira. Questo è Sade: Sade è, davvero, tutta l’opera di Sade è una proiezione pervertita di qualunque idea benefica, anche di dio. E il cinema è questo: la ripetizione di immagini, fin dentro il secondo, con questi suoi ventiquattro o venticinque fotogrammi, la ripetizione continua, auto­ maticamente ossessiva, senza bisogno degli autori os­ sessivi o sadiani. Il cinema che ci ripropone sempre, unicamente, prima di tutto, questa situazione, fi cinema quindi, come una specie di tortura continua del mon­ do. Il mondo che si torce su se stesso come un corpo di Rybczynski che si avvita, che si guarda girare, che è come, contemporaneamente, l’interno e l’esterno di un gorgo, passando attraverso un film folle come Sadismo, il film più eccentrico di Nicholas Roeg (un regista spes­ sissimo sottovalutato e qui ancora fortemente acceso, inventivo ogni momento). Purtroppo mandiamo anche una copia tagliata su cui si è esercitato il particolare sa­ dismo antisadiano della censura-cesura. Ecco, da que­ sto a altre operazioni più lucide, le immagini che la not­ te vi propone sono comunque tutte soprattutto echi del sadismo di base del cinema, anche quello più ‘buono* (non dico Chaplin in cui il sadismo, poi, è anche molto evidente e raccontato, spesso, come in tutto il grande o piccolo cinema comico). Ma appunto i momenti di mas­ sima tenerezza nel cinema dovrebbero ricordarci questa testa di giovinetta che cade come una rosa sotto gii sfor­ zi del vento, dell’aquilone, perché ogni momento, an­ che il più isolato, dolce, sospeso, attonito, estatico, ne) cinema, presuppone un occhio - il nostro, quello di chi ha prodotto quell’immagine o quello di chi la vedrà tra un mese o tra altri cent’anni - un occhio che gode sem­ plicemente di questo. Di vedere di fronte a lui formar­ si, riformarsi e agire per lui, corpi o simulazioni di cor­ pi, non importa. L’inganno del virtuale è questo, che siano veri i corpi o che siano virtuali, che siano inven­ tati, che siano sintetici, vera, terribilmente vera, è que-

24 fotogrammi

24.95, 97.123. 229. 237

mondo

19. 21.32. 37. 53. 62.67.78. 95. 104. 116. 142. 144. 176. 182.

202.203 corpo 15.34.36.39.45.47.63. «1.

85.95.97.102.106.139.141.

144. 160.162.176. 184.189. 193.228

occhio

12.23.95. 111. 126.151.185

virtuale 40. 86.95,123

95

sta situazione del vedere, godere di questa fascinazione vera/fìnta dentro la quale, però, siamo presi in un mo­ do che saremmo quasi portati a definire per sempre reale. 130 dicembre 1994]

96

Monsieur Barbablù il serial killer della luna di miele

Monsieur Barbablù è un titolo che prende, che rilancia il gioco soave istituito da Charlie Chaplin, da un’idea di Orson Welles con Monsieur Verdoux. Ed è La seconda notte, dedicata al tema del serial killer, sempre a cura di Marco Melani, seconda notte nell’arco di pochi mesi. Perché questa ossessione, nostra, in qualche modo co­ sì affine a quella del serial killer? Da una parte perché come abbiamo parlato di cinema come macchina di reincarnazioni - nel caso del Piccolo (ultimo) Buddbae in generale appunto del cinema - non possiamo non parlare anche del cinema come macchina di 'messa a morte’. Il cinema è davvero un serial killer. Non solo perché c’è già il serial killer che è la morte, ma per l’ap­ punto perché il cinema, la morte, la mostra continuamente al lavoro. Al lavoro dove? Su questa scultura o, meglio, su questo corpo che è la vita, che il cinema scolpisce, modifica: nei volti, nel trascorrere del tempo intorno ai tratti, intorno ai corpi. * Il cinema diciamo che, con la morte, scolpisce la vita. Allora il serial killer è una figura depurata, estrema, di questa ossessività che è del cinema. Ossessione - magnifica ossessione, l’ab­ biamo chiamata molte volte - che è legatissima alla struttura stessa del cinema. Il cinema è un’arte, è una macchina automaticamente ossessiva, fino a oggi. È os­ sessiva perché si fonda su questa ripetizione, terribile o giocosa, di immagini quasi identiche. Lo sappiamo: nei famosi ventiquattro (o venticinque, in televisione) fo­ togrammi al secondo se non è ripetizione - ossessione della ripetizione, condanna all’ossessione della ripeti­ zione - questa, non ce n’è una più pura, più meccani­ ca, più assoluta al mondo. Stanotte vedrete un film di Ulmer, un film di Bragaglia.. Naturalmente rivedrete al­ la fine il Verdoux di Chaplin e vedrete alcuni, un paio, spero, dei telefilm di Hitchcock, molto spesso dedica­ li - naturalmente non con l’idea della serie - a questa torma, così astratta, di omicidio rituale che è l’uxorici­ dio. Un omicidio su un parente ovviamente stretto, su un parente, su un momento molto forte del rituale, su un corpo, su un’incarnazione molto forte del rituale so­ ciale, con una parentela di base. Quindi una scelta che,

macchina 18. 97. 107.129. 131

morte

15. 18. 21.31. 52. HI. 97.104. HI. 187. 219 corpo 15. 34. 36. 39. 45. 47. 63. 81,

85.95. 97.102. 106.139.141. 144.160.162.176.184.189. 193. 228

vita

21. 36. 52.67. 78.83.92. 97.

104, 144. 163. 202. 240

ossessione 70.97.100 24 fotogrammi

24. 95.97. 123.229. 237

Hitchcock

27. 47. 49. 97.189. 220

97

amore 70.98. 143.147, 154.190, 195. 221. 229. 240

Moretti 98.100.147,169. 203

98

poi, diventa scelta di morte, annullamento della scelta o sublimazione della scelta mediante l'assassinio. Parlo di astrattezza anche perché in questi giorni - l’avete visto ieri l’altro, in un breve montaggio, lampeggiare - c’è su­ gli schermi al cinema un film come Madame Butterfly di Cronenberg, che a noi sembra bellissimo. Forse il suo film più chiuso, meno espanso, sicuramente meno sfat­ to e forse meno plurimo e affascinante di Naked Lunch. Oppure meno rarefatto, meno assoluto di Inseparabili ma con lo stesso attore di Inseparabili, jetemy Irons direi spinto, in realtà, più in una direzione davvero di astrattezza, rarissima oggi. Questi due corpi, questi due soggetti: non è più questa la scelta di Inseparabili, del gemello, dello specchio, del doppio Jekyll e Hyde. Per­ ché ognuno dei due è, era, Jekyll e Hyde, era Hyde per l’altro. Qui addirittura non c’è più nessun fascino nel personaggio, il personaggio di Irons è totalmente vuo­ to. È un puro schermo di desiderio. Anzi, è un'emissio­ ne, un’emittente di desiderio che gli rimbalza addosso, da questo corpo che non riesce a definire. Ed è subito amore. Ed è subito cieco. Il corpo non esiste, non riu­ sciamo a vederlo.. C’è questo tentativo di esibizione, al­ la fine, eppure il film è così, nel non mostrare, irrime­ diabilmente superiore rispetto a La moglie del soldato, film peraltro gradevole, di Neil Jordan. E questa ‘caval­ cata’ che è dei serial killer è molto più inquietante, se­ condo noi, nella forma appunto dell’uxoricida in serie appunto del Barbablù - che non del Barbablù domesti­ co. Questa forma davvero domestica del selvaggio Henry, il serial killer che tanto ha spaventato, forse per scherzo, Nanni Moretti nel suo ultimo film. O comun­ que, che lo abbia spaventato o meno, l’ha molto im­ pressionato e ne ha fatto oggetto anche giocoso di una polemica, di una polemica critica, non vedendolo non dico come un cartoon, perché sembra sempre dimen­ sione ludica - cartoon, giocosità.. No, il serial killer gio­ ca un terribile gioco e di solito i film che lavorano in­ torno al concetto di serial killer sono, ripeto, film che lottano con l’idea stessa di cinema, con questo obbligo fatale che hanno gii attori dentro il cinema e, certi sog­ getti, nel mondo. Obbligo di ripercorrere continuamen­ te le stesse strade, le stesse vie, l’obbligo di uccidere an­ cora una volta, di compiere ancora una volta quel gesto che si vorrebbe ultimo, appagante - e invece no! - c’è ancora un fotogramma, c’è ancora una ripetizione, un

lieve cambiamento. Ecco, questo, dentro l’apparenza domestica, è sicuramente ancora più forte, ancora me­ no confondibile con un più generico - e lo dico senza sminuirlo - con un più generico onore. Horror. Buo­ na visione. [8 gennaio 1994]

horror 36.42. 74.99. 193

Il cinema diciamo che, con la morte, scolpisce la vita

99

Bianca

Moretti 98. too, 147. 169. 203

ossessione

70. 97. 100

100

Un titolo bellissimo, più ancora che un nome: Bianca. Bianca come un aggettivo, come una pagina, come una visione bianca. Bianca, di Nanni Moretti. Volevamo metterlo insieme con II cameraman e l’assassino, ma il titolo originale, di nuovo, è più belio, C’est arrive près de cbez vous, anche se non è un grande film. Lo dare­ mo prossimamente. Attualmente è ancora vietato ai di­ ciotto e perciò c’è da fare un’operazione: va derubrica­ to, come si dice. Poi, quindi, viene martirizzato. Tornia­ mo a Bianca, in attesa di questa notte dei serial killer, anche se qui non si tratta di serial killer: è un tipo di­ verso di maniacalità. Bianca scade tra pochissimi gior­ ni, finiscono dei diritti. Lo manda in onda, ancora, fuo­ ri orario. Intanto perché ci piace molto il titolo, e poi perché comunque, come in tutto Moretti, c’è questa for­ tissima ossessività, questa ossessione. Essendo raccon­ tata così in prima persona, con un’autorappresentazione evidente da parte dei regista, * è subito un’ossessio­ ne sommata: si somma all’ossessione di rappresentare le proprie ossessioni. Che poi, forse, non direi si decante­ ranno - non userei questo termine - ma, anzi, al con­ trario, si spingeranno talmente oltre da non avere più bisogno neanche di questa coincidenza esibita del se­ guire la biografìa-autobiografìa di Michele Apicella, e negli ultimi film si libereranno a partire forse dal prete, dal sacerdote di La messa è finita. Fino poi allo straor­ dinario ultimo episodio di Caro Diario dove, senza bi­ sogno di nomi, Nanni Moretti è Nanni Moretti, il Nanni Moretti malato che racconta la propria malattia, quindi forse quello più terribilmente autobiografico. E ci si po­ teva aspettare il massimo di compiacimento autobiogra­ fico, e invece è anche il più leggero, il più distante, il più risolto. Sembra quasi dissolta, questa ossessione ter­ ribile del doppio raccontarsi. E doppio diventa, invece, lo sguardo: lo sguardo libero, leggero, alla Lubitsch, e lo sguardo che arriva dallo schermo, da questo corpo straordinario, da questo volto e voce straordinari, che sono poi gli organi di Nanni Moretti cineasta. Ora, sem­ pre di più, ma forse per la prima volta, in qualche mo­ do, addirittura un po’ estremisticamente, vorrei dire che - anche perché è l’estremità sua attuale - questo ultimo

episodio, questa ultima parte non è un episodio del suo ultimo film. È il momento in cui il suo cinema comincia a esistere, o forse a liberarsi del sempre esistito, e non è più un tentativo, una volontà troppo evidente di dir­ si, di raccontarsi, di esibirsi come soggetto autoriale in contrasto con un mondo. Bianca, comunque, in questo titolo-nome-aggettivo ha già questa tensione. Ed è pia­ cevole anche ritrovarla e, nello stesso tempo, è impor­ tante trovare in questo personaggio, maniacale e crimi­ nale, in un certo senso, la nascita di una linea che poi si afferma in pieno - direi - in Moretti - scusate - in Be­ nigni, in tutti i film da regista di questo cineasta grande - secondo me - sempre più grande e regista che è Ro­ berto Benigni, in cui la sostanza fantastico-criminale del personaggio e delle storie racconta in modo automatico e così precisamente l’Italia. Non l’Italia come metafora: l’Italia questa, questa di oggi, di questa parola, di que­ sto tempo che mentre diciamo ’oggi’ già si dissolve. Ma che questi film aiutano, in qualche modo, a permanere, a rimanere, a ossessionare ancora, a farci ossessionare, a farcene ossessionare ancora. Buona visione. Bianca. 110 dicembre 1994]

* è subito un'ossessione sommata: si somma all’ossessione di

r.ippresentare le proprie ossessioni

101

Baci neri

ambiguità 32« 47, 87,90, 102.174,192

corpo 15, 34,36, 39,45,47,63.81,

85,95.97,102. 106,139.141. 144.158,162.176.184,189.

193.228

nero 102,104.144, 205

Kubrick 102.104,149, 166.177,178,

222

Aldrich 9,102

notte

36.53.102.135.138

102

Kiss, Kiss of Death, Kiss Me, Deadly, Killer’s Kiss: molte k, molte s, e ‘kiss', soprattutto. Questo bacio che in in­ glese mantiene la s, che è latinamente del bacio, che non ha la dolcezza del ‘bacio’ italiano e ha, invece, qualcosa del serpente, deU’ambiguità.. E anche una sorta di forza di penetrazione che il bacio, in quanto at­ to, atto erotico, sessuale, ha ancora nei titoli, così forte­ mente evocativo.. Nei titoli il bacio, salvo che si tratti di film pornografici, è in qualche modo l’indice estremo del contatto fra i corpi, quello più allusivo, comunque. Kiss. I corpi che si toccano, le bocche.. Ed è così lonta­ na, come idea, dal mostrabile, il bacio, * il bacio in sog­ gettiva. Di nuovo due cavità, due bocche che s’incon­ trano e fanno nero, e lì non si può vedere. Vediamo so­ lo due persone che si baciano. Non vedremo mai dav­ vero il loro bacio, come tutti gli atti di contatto tra i cor­ pi che, toccandosi, oscurano e fanno un punto nero che il cinema non può mostrare, esattamente come il coito. Ecco, ci siamo divertiti stanotte a mettere insieme que­ sti ‘baci neri’, a partire dal bellissimo - praticamente il lungometraggio d’esordio di Stanley Kubrick, ma il pri­ mo aveva un titolo ancora più evocativo, Fear and De­ sire, Paura e desiderio - Killer’s Kiss. E il titolo di que­ sta none potrebbe davvero essere Kiss Me, Deadly, ba­ ciami mortalmente, Un bacio e una pistola, il film di Ro­ bert Aldrich, il bacio del film noir. Il bacio è sempre, nel film noir, un bacio di Giuda. Tradisce lo spettatore, tradisce i protagonisti e, nello stesso tempo, invece, ras­ sicura lo spettatore che si trova dentro l’ambiguità per­ fetta, sublime del film noir, della notte. Dove ogni ge­ sto, anche il più amichevole, il più intimamente ami­ chevole - un bacio - può essere equivocato. E, a volte, viene da pensare quanto un bacio, pensiamo al bacio vero, millantato, inventato, comunque così forte, come immaginario, tra incredibile e inverosimile oppure ve­ rosimilissimo - tra Andreotti e Totò Riina, quanto que­ sto bacio abbia pesato nell’immaginario italiano degli ultimi due anni. Ecco un altro bacio nero, un altro ba­ cio mortale. Astratto, astratto, immaginario non più ricostruibile. Non filmato eppure indimenticabile - anche se non fosse mai avvenuto - come sono indimenticabi-

li persino questi baci neri di questi grandi film noir che riusciamo a non dimenticare pur avendo la possibilità di dimenticarli e di rivederli sempre, ormai, in cassetta. O in queste notti registrarli., credere di ricordarli.. Vor­ remmo dimenticarli per ricordarci solo i nostri baci, i più ambigui, quelli di cui siamo meno sicuri, dentro il film noir che è - sicuramente non è un'ipotesi - la no­ stra vita, anche quando ci sembra declinata in rosa. Buona visione. 14 giugno 19951

' il bacio in soggettiva. Di nuovo due cavità, due bocche che

s'iiK-ontrano e fanno nero e, lì non si può vedere

103

Cose dall’altro mondo

mondo 19. 21. 32. 37,53.62.67.78, 95. 1M. 116. 142. 144. 176. 182. 202. 203

vita

21.36, 52.67.78.83.92.97.

104. 144. 163. 202. 240 morte

15. 18. 21. 31. 52. 81. 97.104. Ut. 187. 219

nero 102,104.144. 205 Kubrick 102. 104.149. 166,177.178. 222

Siegei 36.104. 172, 209

remake 36.39.42.104

104

In questa none di cose dall'altromondo, a cura di Mar­ co Metani e Carmelo Marabello, era difficile inserire im­ magini davvero inedite, soprattutto perché il tema, il te­ ma dell’alieno, dell'alieno che arriva sul nostro mondo, è forse il più rimosso ma anche il più ossessivamente presente nella storia del cinema dal dopoguerra a oggi. Tuno questo cinema è stato in qualche modo riassunto e cancellato da quel grande film dei '68, quel grande film del cinema fino al prossimo millennio, il film della storia del cinema, 2001: Odissea nello spazio che, come sappiamo, era un procedimento inverso, e di alieno c’e­ ra solo questo strano motore immobile, letteralmente il monolito, nero. Ma si andava a cercare l’alieno fuori, fuori dai confini del sistema solare, verso dove era indi­ rizzata la pulsazione. E lì, in effetti, si tornava, anche mattante gli effetti, non solo in effetti. In effetti nel sen­ so di ‘effetti speciali'.. Si tornava dentro il soggetto, si tornava alla storia dentro il corpo di un solo uomo: vi­ ta, morte, rinascita, continuamente. Battito sempre più ravvicinato di vita e di morte, forse, chissà, di vita e mor­ te nello stesso momento, quello che sappiamo che c’è nel cinema, con questo nero mortale tra un fotogram­ ma e l’altro. Nero-morte che, unito ai fotogrammi che lo precedono e lo seguono, produce la vita, intanto, che è il cinema. Ecco, l’intuizione di Kubrick di ritrovare l’a­ lieno dentro l’umano - così come già terribilmente alie­ na era la proiezione enfatizzata, spinta al massimo, di una parte dell’umano, della troppo umana razionalità di Hai 9000 - prima e dopo, questa intuizione, è stata rea­ lizzata in un altro genere di film, più direttamente fan­ tastico e di fantascienza, e addirittura in un titolo, in una storia, che è il mitico Invasion ofthe Body Snatchers, di Don Siegei, più volte trasmesso in televisione, l’abbia­ mo trasmesso anche noi. È un film talmente classico an­ che se è un film che sbalestra la nozione classica del ci­ nema. E spiegherò perché, dicendo subito che stanotte cominciamo con Terrore dallo spazio profondo, sempre wnTnvasion of Body Snatchers, il primo remake fatto da Philip Kaufman nel 1978. Un film bellissimo, così co­ me molto bello è l’ulteriore remake fatto, invece, un paio di anni fa da Abel Ferrara. Questi film, come il film

originale di Siegei, portano in sé il germe del dubbio as­ soluto sul cinema, che è lo stesso che ritroveremo - in modo un po’ più banale, non certo per la storia di Dick, ma per la regia splendidamente scenografica - in Biade Runner di Ridley Scott, che peraltro fa la replica di un grande cinema. Quindi, e forse coerentemente, Biade Runner è un grande film replicante in sé: un film body snatcber. E questo è la storia di bodies snatched. È già, senza bisogno di arrivare aU'immagine sintetica, un film che presenta la pura allucinazione di uomini che non lo sono più. È un procedimento fantastico tipico - tra l’altro è molto semplice - anche rispetto ai trucchi. Ba­ sta dirlo, basta - con un meccanismo narrativo, in que­ sto caso i baccelloni, ricorderete - dire, mostrare che questi non sono più umani, sono stati abitati, risucchia­ ti. È un tema che, al di là di questa storia classica, ab­ biamo visto mille volte al cinema, e diecimila volte ab­ biamo letto, raccontato dalla fantascienza. E giustamen­ te, perché spostato sull’esterno, sulla crosta della narra­ zione, è la riproposta dello scoprirsi alieni. Che, in un certo senso, è l’intera storia del cinema di fantascienza o meglio, del genere ’alieni sulla terra’ fino a E.T. e poi a tutti i film, The Thing (La cosa), che vedrete stanotte con l’originale di Hawks e Nyby. Poi vedrete un Roy Ward Baker della serie di Quatermass, L’astronave de­ gli esseri perduti, poi La guerra dei mondi di Byron Ha­ skin.. È curioso che tutti questi film - mi viene in men­ te adesso - siano o dei remake o degli originali di futu­ ri remake. Pensate a La cosa, remakato genialmente da Carpenter, a La guerra dei mondi, un remake di un ra­ diodramma, il celeberrimo radiodramma, con regia di Orson Welles, che spaventò mezza America.. Quindi sempre, in un certo senso, film replicanti, seguitanti, mai, in qualche modo, degli originali, ma film che in­ ducono a loro volta il sospetto che ogni fìlm possa es­ sere un alieno, una replica, un qualcosa venuto da un altro mondo. Noi l’abbiamo detto mille volte che il ci­ nema è qualcosa venuto a fare altro il mondo o a mo­ strare che il mondo è già altro ed è già alieno. Quindi non lo ripeteremo. Però, davvero, se pensiamo all'azze­ ramento mentale, teorico, di cui molte volte ugualmen­ te abbiamo parlato, dell’orizzonte filmico, che è dato dalla pura apparizione, dalla pura pensabilità dell’im­ magine sintetica assoluta - quella che prende Humph­ rey Bogart oppure, molto più mediocremente, enrico

allucinazione 67.105.116.176.2)6

Welles

65.105. 156, 22R

105

corpo 15. 34. 36. 39.45. 47.63.81. 85.95.97. 102.106.139. Mt. 144.160.162.176. 184.189.

193. 228

mutazione 34.36.39.41.45. «5.93.106, 173. 176.182, 187. 236

106

ghezzi, e non ha bisogno di enrico ghezzi su un set, ma se lo riproduce elettronicamente e gli fa fare quello che vuole, magari anche andare in onda in sincrono - ecco, questo orizzonte, se ci pensate, è, di nuovo, applicato alle sole immagini, è la possibilità di un body.. E il cor­ po delle immagini che in questo caso viene snatched^ impossessato, viene preso in carico da altro, da una pu­ ra volontà di animazione, da una pura volontà di co­ struzione, animazione, narrazione, quello che volete. Anche in televisione, quest’estate, una delle cose che hanno fìnto di appassionarci - e ancora ci sono notizie in questi giorni — è l’immagine dell’autopsia dei corpi, forse di extraterrestri, trovati dopo un crash, dopo un incidente, un atterraggio mal riuscito, forse, di un disco volante nel ’47 nel New Mexico. Se ne sono visti bran­ delli in Mixer ed è sintomatico che, anche in quell’oc­ casione, la discussione non sia stata su altro che sul cor­ po delle immagini. Finalmente non sull'immagine del corpo, cioè su come erano queste immagini ma, invece, se queste immagini potessero essere vere, potessero es­ sere verosimili, com’era il loro corpo. Se fossero state ri­ costruite elettronicamente, quale fosse la loro consi­ stenza tecnica e quindi la loro credibilità. Il che riman­ da a altre vecchissime questioni ma sfata proprio il pro­ blema. Una delle facce dell’alieno: il fatto che l’immagi­ ne dell’alieno è in qualche modo possibile. È l’immagi­ ne della bestia, come viene chiamata nell'Apocalisse, oppure, come viene chiamata evangelicamente, biblica­ mente, l’uomo, qualcosa di fatto *a immagine e somi­ glianza’ di ciò che lo crea e, quindi, il massimo dell’a­ lieno. Questa ipotesi divina che potrebbe tornare da fuori è, di nuovo, non una mutazione, ma un’origine di cui noi saremmo la mutazione-imitazione. Va bene, ma mi sono spostato su un’altra ‘duna’ e vi lascio con il Terrore dallo spazio profondo. È un bel titolo italiano, per una volta, tra cose da altri mondi. Buona visione, con l’illusione che ci siano, davvero, cose da vedere. Ma questi film, soprattutto i film di stanotte, mostrano for­ se, ne parleremo altre volte, che il cinema non è que­ stione figurativa, non è un’arte figurativa. È prima o do­ po la raffigurazione, nel luogo teorico, molto mentale, dove si decide, con passione o meno, se si è prima o se si è dopo. Buona visione. (13 agosto 1995]

Il tempo dell’occhio

Dopo Fonda - l’onda lunga, corta - lunghezza d’onda, Wavelength di ieri l’altro di Michael Snow, e dopo il Kinoglaz, Il cineocchio, di Dziga Vertov, La region cen­ trale, questo film che inaugurava, con gli anni 70, an­ che una specie di millennio nuovo del cinema. Un mil­ lennio che forse sarà dato di vivere alle macchine auto­ matiche per produrre immagini, sia per filmarle sia, ap­ punto, per produrle senza bisogno di filmare, senza bi­ sogno di fotografare, lo sappiamo. Lo sappiamo da mol­ ti anni, e ora sta naturalmente accadendo. Naturalmen­ te, sottolineo naturalmente, perché questa è natura, og­ gi. E ha a che vedere moltissimo la natura - natura, ie­ ri - con La region centrale, che invece si muoveva in un'altra linea radicale di dominio della macchina e di assenza dell’uomo legata alla macchina non software, non quella che costruirà adesso, costituirà immagini dal nulla o comunque dal tutto-nulla elettronico. In quel ca­ so era una macchina hardware, era una macchina per riprendere, in qualche modo, una scultura, a suo modo, esposta poi nei musei canadesi. Una macchina specia­ le - che Michael Snow progettò e si fece costruire da un tecnico (era a ’altezza d’uomo’) - che potesse compiere i diversi movimenti in tutte le direzioni, circolari, a trecentosessanta gradi completi, come sorta di macchinapianeta che si muovesse a altezza d’uomo, come una macchina su questo pianeta, come una macchina, un Lem appena sbarcato o in procinto di sbarcare. Del re­ sto nella presentazione di questa sua ipotesi a una com­ missione americana, Michael Snow presentava l’idea co­ me un'avventura. Infatti è un grandissimo film epico, anche a rivederlo oggi, un film di esplorazione, quello che sarebbe stato - se fatto seriamente, diceva Snow il primo film di esplorazione lunare, invece che queste immagini falsamente oggettive che abbiamo avuto dal­ la luna, peraltro straordinarie, soprattutto in bianco e nero. Fantasmi lattiginosi, baluginanti, traforati dai no­ stri occhi, senza corpo, eccetera. Ecco, oggi resta di questa avventura grandiosa questo aver piazzato questa macchina in una zona desertica, vicino ai grandi laghi del centro del Canada e aver telecomandato questa macchina. E poi il montaggio - di nuovo, montaggio -

Vertov 55.107.133.143,146, 225

macchina 1«. 97, 107. 129. 131

107

documentario 11.22.25. 4J.4T62. 108. 146. 151. 161.169.182. 200. 230

108

che monta, che spezza, che sovrappone, che cambia i punti di vista, anche perché questa macchina ruota, e li cambia continuamente lei stessa. E montaggio, quindi, come una forma di intervento artistico e d’autore molto presente e anche evidente. Ma di nuovo, dopo averlo visto due, tre volte o anche dopo un quarto d’ora, si ha l’impressione di essere invece questa macchina, e quin­ di comunque in soggettiva, comunque in un continuum come la nostra vita che è continuamente spezzata, fram­ mentata, dimenticata - ma sappiamo e sentiamo - così anche atrocemente ininterrotta. È così diffìcile per noi da isolare in attimi. Per fortuna. Ma, quindi, è così im­ possibile porsi fuori da noi, questo è il centro, la région centrale del him è questa. È quella in cui non si può en­ trare, è questa regione incontaminata. E dice Snow: •Questo sarà un documentario di quello che potè es­ sere la natura non toccata dall’uomo un tempo. Pianeta su cui atterrare, quindi macchina che arriva dall’esterno. Davvero una macchina interstellare che arriva e filma. Ma questa macchina, a parte la propria ombra - ancora un'ombra - ancora una volta non può Filmare se stessa se non filmando l’inanità dello specchio che qui fortu­ natamente non c’è. E quindi questo centro comunque non è filmabile, alla fine di tre ore e dieci, anzi, è pu­ ra - lo sappiamo - perdita di centro. Questo film è la massima avventura psichedelica, e non bruciata, non in pochi secondi. È il protrarsi impossibile di un amore della visione psichedelica, per di più rigorosamente progettata e poi riscompaginata e riprogettata al mon­ taggio. Vedrete la terra diventare, a un certo punto, let­ teralmente una nave galleggiante nel cielo, perché com­ piendo queste rivoluzioni a trecentosessanta gradi, pun­ tando a un certo punto verso il cielo, ruotando sul pro­ prio centro, la macchina, a un certo punto, si vede apri­ re il cielo, poi la terra, poi di nuovo il cielo, e la terra è letteralmente questo luogo che galleggia, luogo media­ no - per un attimo - tra cielo e cielo. E quindi, sì, zona centrale dello schermo in quel momento. Ma questa re­ gione centrale, questo intimo della ripresa è, ancora una volta, negato alla visione, perché è la visione stessa. Al­ lora questa soggettiva liberata dall’uomo e regalata poi agli umani, a noi spettatori come esperienza è due vol­ te una soggettiva impossibile. Cancella l’uomo, cancel­ la l’orma umana, come già diceva in quegli anni Fou­ cault. Cancella l’immagine dal dubbio dell’intervento

umano, come disse Valéry all'apparire del cinema, ra­ gionando sul cinema. Il dotile, il dubbio che subsistait sur l’image, che sussisteva sull'immagine, a proposito dell’immagine - cioè che potesse essere modificata dal­ l’intervento umano, dal disegno oppure dal ricordo, dal­ l'inesattezza dell'approssimazione - la macchina, in qualche modo, lo toglieva. Lo toglieva a priori: il famo­ so naturalismo automatico della ripresa. Ecco, qui è radicalizzato questo discorso e nello stesso tempo, inve­ ce, o proprio per questo, ci troviamo estranei rispetto a questa visione e obbligati a essere questa visione. Ve­ diamo una visione che non è la nostra, che è di una macchina, per quanto progettata dall'uomo, e ci rendia­ mo conto, di colpo, che mai al cinema vediamo con i nostri occhi, vediamo con i nostri occhi la visione - non tanto gli altri autori, registi: questo, in qualche modo, è secondario - di una macchina, dentro la quale non po­ tremo mai essere, al massimo potremmo esserlo. E a quel punto non potremmo più distinguere, però, questa immagine. Quindi o diciamo che siamo noi i robot, che non c’è più differenza, oppure questa immagine non sarà mai nostra. Ecco, questo è La région centrale, oltre a essere un grandissimo film di fantascienza. Subito do­ po, di nuovo, veramente non una volta l’abbiamo man­ dato in onda, ma molte, troppe volte - mai troppe L'uomo con la macchina da presa, una sorta di rovescio speculare di tanti anni prima. Dziga Vertov, un umani­ smo che alla fine risulta nella stessa impossibilità, ridà lo stesso senso di scacco, di bruciato, proprio in questa costruzione continua, fotografica, moltiplicazione di giochi con la ripresa stessa, con l’obiettivo stesso. Che questo obiettivo sia sempre una soggettiva, e sempre non nostra, questo è il terribile e l’affascinante. Sogget­ tiva di chi? Di cosa? Di quale istanza pura o provenien­ te da quale zona? Per questo abbiamo cominciato con un viaggio intorno a un corpo, una region centrale mol­ to evidente: una pancia. E dentro, però, dentro questa pancia è scuro, come dentro la macchina, la camera oscura, dentro la pancia di Paviglianiti, l’eroe di Cinico TV. È vicina, vicina all’onda che non si vede più. Allo­ ra non si vede più e, quando non si vede, c’è una sorta di comunanza terribile tra questi soggetti che non si toc­ cano. Buona visione con La region centrale di Michael Snow. Buona visione. 127 agosto 1994]

Cinico TV a. 34. 93. 109. 121. 127

109

Umano, non untano

destino

32- 51. 57, 58. no. 195

Godard 11,110. 112. 114. 117. 141. 143. 162,165. 192, 195. 197.220. 229

Moravia 110.219

no

Umano, non umano doveva essere affondato nella not­ te di domani - la notte di arte, di video, di cinema in­ torno all’arte, con dentro l’arte, spero fuori dall’arte che stiamo finendo di montare, anche in occasione di questo centenario così fìnto, così buffo: l’idea di un cen­ tenario della Biennale Arte, mentre ci stiamo avvicinan­ do al centenario del cinema. E anche alla recente Bien­ nale Arte veniva da pensare - ma questo lo vedremo domani - che il cinema è il destino gridato, inseguito dalla maggior parte dell'arte contemporanea, specialmente quando non è cinema. Ecco, qui abbiamo que­ sto grande film di Mario Schifano, che chiude gli anni '60 italiani e in qualche modo li riinventa nell’atto di chiuderli, di catalogarli tutti. Soprattutto questo sessan­ totto che non è italiano, che non è solo italiano, o che è italiano in quanto è intemazionale. Questo pop, rock, blues, esattamente come il Revolution & Mick Jagger dei Rolling, qui stupendamente doppiato, in playback, da un improbabilissimo Mick Jagger, improbabile come cantante, in questa situazione, così come il pezzo, a suo tempo, era stato accusato di fiancheggiamento e sfrut­ tamento fasullo del sessantotto, della guerriglia menta­ le, di questa ‘ri-rivoluzione’. Ecco, era vero e fìnto nello stesso istante, e lo sguardo di Schifano era, appunto, già uno sguardo molto oltre il lavoro che faceva come pit­ tore. O, meglio, era uno sguardo che contaminava an­ che il suo gioco di pittore. Nessuna immagine era suffi­ ciente a se stessa e, come dice Godard, e in qualche modo come dice Nietzsche - Umano, non umano, trop­ po umano, più che umano - un’immagine da sola non è mai nulla. Può essere certo tutto, sublimemente, esta­ ticamente, ma è anche nulla. Solo due immagini, tre, il prima, il dopo di un'immagine, e quindi il movimento, almeno mentale. Nessuna immagine basta né a se stes­ sa né a noi stessi, e noi stessi naturalmente non bastia­ mo alle immagini. Non bastiamo a questo film che, og­ gi, visto, ci eccede, pieno di personaggi, di grandi per­ sonaggi-emblemi. Emblemi, grandi icone, appunto, da Jagger e Richards a Alberto Moravia, a Sandro Penna che legge, racconta alcune delle poesie, sue, più belle. Lo stesso Godard, sul set. È una specie di catalogo di un

insieme di monumenti. È davvero un grande film-mo­ numento, con questo sguardo di colore accecante e reinventante il cinema, di nuovo. C'è lo schermo lace­ rato, e invece è il nostro occhio, che è come un treno. L’occhio di Schifano, anche nelle sequenze più statiche, è un treno che fora lo schermo, invece di venirci ad­ dosso va addosso allo schermo, alla visione. Quindi è un ‘buona visione’ sospeso tra politicità assoluta e pura invenzione figurativa, tra staticità e dinamismo storico. Si sente addentro in queste inquadrature sghembe, con­ trapposte a quella, invece molto centrata e immobile, della manifestazione. Ce n’è una ferma e ce n’è una, in­ vece, che si muove, che ruota, che lo vede quasi defor­ mato in un fish eye. Questo striscione che avanza e que­ sto rosso e queste bandiere. C’è dentro perfino Giovan­ ni Forti e la bellissima Rada Rassimov. Giovanni Forti che - lo sapete - è diventato poi una morte pubblica. La sua morte per Aids recente, un anno fa, è stata di­ chiarata televisivamente dallo stesso Giovanni Forti ed è, quindi, una cosa che ricontamina, anche a posteriori, questo., mi viene da dire davvero 'questo grande film'. Domani ci troveremo con altre immagini di Schifano. Stasera avrete visto lampeggiare brevissimamente la si­ gla di un nostro vecchio programma per i novantanni del cinema: La Magnifica Ossessione fatta da Schifano. Immagini incastrate, proiettate, sognate sul volto di suo figlio e, poi, una cosa incredibile che dà molto un’idea di anni 60 per la leggerezza: questo atto, che ci appare durissimo oggi, di questa iniezione, questa droga - im­ magino - sul tetto, sul terrazzo di San Pietro, con Ge­ rard Malanga, ballerino mitico dell’undecground ameri­ cano, Living Theatre. La morte, Andy Warhol. Molta morte e tantissima vitalità in questo sguardo, semplicis­ simo, feroce, umano-non umano, Mario Schifano. Buo­ na visione. (25 giugno 19931

schermo 53.72,77.83,89. IH. 144. 153.

160 occhio 12. 23.95. HI. 126. 151. 185

mone 15. 18. 21.31.52.81.97.104. Hi. 187, 219

111

Vivre sa vie

Godard 11. HO. 112. 114. 117. 141. 143. 162. 16$. 192. 195. 197. 220. 229

sovrimpressionc 23. H2.132.133- 196

passione

H5. 112. 195. 197

112

Vivre sa vie, vivere la propria vita, forse anche vivere la sua, sa, vivere la sua vita, la vita di lei, per esempio, la vita di Anna Karina. Karina, la bellissima allora, credo, moglie di Jean-Luc Godard, e appunto la protagonista di questo film meraviglioso che stasera vedete in un’e­ dizione italiana più corta di circa un quarto d'ora di quella originale francese. E promettiamo, fin d’ora, un confronto, di quelli che spesso facciamo, tra le due co­ pie. E intanto però, ecco, è una di quelle cose che so­ pravvivono anche ai più barbari tagli di censura, credo ’d’epoca’, perché il film era abbastanza spinto, per quei primi anni '60 in cui appariva e in cui si mantiene an­ cora a bagno. ‘Vivere la propria vita’, o ‘vivere la vita di lei’, è anche un vivere immediatamente la morte. Vive­ re la vita del cinema, vivere la vita che si consuma nel­ l'attuazione del Ritratto ovale, non a caso letto, in que­ sto film, e letto nell'originale dalla voce di Godard. Il ri­ tratto ovale di Edgar Allan Poe; entrare dentro questo ri­ tratto, continuo ritratto che è il cinema, primo piano continuo del mondo, in un ‘totalissimo’, oppure primo piano di un naso di un occhio o di una silhouette o di una città. Sempre, inevitabilmente, primo piano e, in­ sieme, sempre distanza. Distanza totale, che è quella ir­ riducibile dei cinema. Però dentro questa distanza Go­ dard inventava un modo di vivere che era davvero quel­ lo che adesso si suppone: l'interattività.

[La voce in corsivo e la voce in tondo si sovrimpri­ mono, ndrl Ecco, forse il cinema di Godard è tutto inghiottito dal La scena al cinema in cui Anna, la prostituta Anna, desiderio che affiora in moltissimi film di Godard, di vive, piange, si proietta o, semplicemente, viene visessere, infine, la danza del cinema, uno stato di estrema suta dalla forza dell'immagine di un film: ‘La passion raffinatezza e, insieme, di primarietà, di primordialità de Jeanne d’Arc’ di Dreyer. Dentro c’era stata tanta pasdel cinema: la danza. Vedere, ascoltare, ledere, sione di set, la follia di Renée Falconetti, l'accanimento vedersi, muovere un tempo, un tempo che è già quasi sadico di Dreyer. Ecco, questa cosa si comunica,

un corpo, uno spazio: la danza. Il faut danser. in questa grande, sublime scena. Ma niente.. E poi il film parte con alcune altre brevissime immagini, forse anche un momento da satellite. Un lontano film, un al­ tro film secondi anni '60 di Mario Schifano, dove si sen­ te un Almanacco che noi abbiamo fatto vedere a fuori orario, dove si paria di Dreyer. Ill giugno 19931

113

Godard Prénom Carmen

Bertolucci

59.63,68. «7. 90. 114.137, 203.

215. 216. 219

Godard 11.110,112.114.117.141. 143.

162.165.192.195.197. 220.

229

114

Sono clamorosamente passati quasi dieci anni dall’edi­ zione della Biennale di Venezia in cui da una giuria di tutti autori, tutto sommato tutti nouvelie vague- da Ber­ nardo Bertolucci, presidente, a Peter Handke - fu da­ to il leone d’oro a Prénom Carmen. Anzi due leoni d’oro: anche quello per il contributo tecnico a Raoul Con­ tarti per la fotografìa e a Francois Musy per il suono. E la cosa curiosa è che Raoul Coutard non era fotografo, non era alla macchina, non era operatore, non era di­ rettore della fotografia. La fotografìa era, in qualche mo­ do, curata dallo stesso Godard. Nel film, invece, Cou­ tard, uno dei suoi fotografi classici, era chiamato consi­ gliere per la luce, e questo perché Prénom Carmen era soprattutto la storia - come ormai in tutti i film di Go­ dard, almeno a partire da Passion - la storia della luce. Pensiamo a quel capolavoro di indagine, non sulla lu­ ce, ma ófe/Zaluce, che è stato, per esempio, Nouvelle va­ gue. E non è un caso, naturalmente, che tutti questi film, i film di quel periodo, da Sauté qui peut (la tie) a Pas­ sion, a Prénom Carmen e poi a Détective, e a Grandeur et decadence, siano la storia di film che hanno difficoltà a farsi, di progetti folli, o anche minimali come in Gran­ deur et décadence, che sembrano non riuscir mai a far­ si, per problemi diversi. Godard non ha bisogno di fore i film, li cerca, perché, in qualche modo, ha trovato il cinema da subito. Mi pa­ re che proprio in Prénom Carmen ci sia la frase, l'im­ perativo, il faut cbercber. bisogna cercare. Cercare per Godard vuol dire continuare, comunque, a mettere in­ sieme immagini, affidarsi alla luce, questa luce che è straordinaria, nel suo cinema recente, sempre di più, sempre più disneyana mente precisa e affascinante al punto da far diventare tutto natura. In questo film è na­ tura anche Maruschka Detmers, che poi si ritroverà in Bellocchio: è natura come un prato, nonostante sia de­ signata col prénom Carmen, quindi nominata dentro la civiltà, dentro la storia dell’arte. E Godard si mette maliziosamente dentro questa storia dell’arte, e ormai ha dimostrato, per sempre, in Passion e Scénario de Passion, di voler, in qualche modo, esse­ re, di offrirsi come corpo di quest’arte. E qui, tra l’altro,

offre il suo corpo di attore in modo molto hard, come quello di Maruschka Detmers. Prénom Carmen. Ricor­ diamoci che è soprattutto luce, questo nome. E non cre­ diamo troppo alle parole. Buona visione. 15 giugno 1992]

115

Il diavolo probabilmente

mondo 19. 21.32. 37. 53.62.67.7«. 95. 104,116.142.144.176,1B2.

202.203 allucinazione

67.105.116.176, 236

116

Non amo particolarmente, anzi, in particolare, anzi no, diciamo che non li amo, i Beatles. Però Helter Skelter, il pezzo che state sentendo, è un pezzo orribilmente, ba­ nalmente in tema, stasera, stanotte, il pezzo demonico dei Beatles. Demoniaco, in questa Notte del demonio, come avremmo voluto chiamarla, per ricordare un film sublime di Jacques Toumeur. Ma, certo, Il diavolo pro­ babilmente... - con questa approssimazione nel titolo, questa incertezza - è più perfetto di un film ancora più sublime, se vogliamo superlativizzare il superlativo, co­ me è giusto, trattandosi di un capolavoro assoluto di Ro­ bert Bresson che, purtroppo, non vediamo stanotte. Lo vedremo, lo vedremo, forse l’avete già visto, lo state ve­ dendo anche se non l’avete mai visto. Allora, Il diavolo probabilmente... Mi viene in mente che un altro france­ se - non un cineasta ma quasi, quello che ha per primo capito che il mondo, tutto, è un'allucinazione, è un film, un cinema possibile - René Descartes, Cartesio, nelle Meditazioni metafìsiche, parla del famoso dubbio metodico che potrebbe inculcarci, oppure far lenta­ mente scivolare, nella nostra testa, un diavoletto, il dia­ voletto di Cartesio e farci pensare che nulla esiste, che noi stessi, mentre stiamo pensando, siamo sognati. Mol­ to orientale, Descartes fonda la cosiddetta soggettività razionale del pensiero occidentale fino all’illuminismo, ma l’illuminismo (il sogno di D’Alembert poi..) è tutto molto più complicato. Ecco, l’incertezza, la probabilità, ’il mio nome è legione’, il demonio in una straordinaria narrazione dei Vangeli, il demonio che parla per voce di un indemoniato, urlando: ’il mio nome è legione’. La pluralità, la possibilità, l’incertezza, come marchio, co­ me segno del demonio. Questa notte non si gioca tra ti­ toli: storie diversissime. Neanche il primo film — come i Beatles - non amo molto, non amiamo molto. È un film che mandiamo in onda per una contaminazione orien­ te-occidente, per alcuni corpi che, invece, amiamo pa­ recchio e che riconoscerete, da Burroughs a Ginsberg. Siamo passati a una cosa che amiamo di più, che amo di più, Sympathyfor the Devil, i Rolling Stones, Gimme Shelter, Gimme Shelter, Helter Skelter.. Rolling.. Beatles., e un altro racconto demoniaco in musica. Abbiamo da-

to più di una volta il film di Jean-Luc Godard, straordi­ nario, che segue la nascita in studio di questo pezzo, fondamentale, basilare. Ecco, anche noi vorremmo esprimere solo, giocare solo, manifestare una strana, va­ ga simpatia per il demonio, e proprio per questa sua vo­ lontà di pluralità, di dubbio, per l’incapacità di sceglie­ re spinta al massimo. A questa vorremmo aggiungere, di nostro, quella di poter non scegliere neanche il demo­ nio, di non volerlo scegliere, di * restare sospesi in una sorta di rettitudine gassosa diffusa dove, in qualche mo­ do, anche questa rinascita del mondo continua è illuso­ ria. Illusoria perché è il diavolo probabilmente che ce la pone di fronte agli occhi. È il cinema, è lì, perforabile, non assoluto: il cinema probabilmente.. Buona visione. Fino alle molte maschere del demonio, fino al bellissi­ mo Diavolo èfemmina non di Cukor, ma The Detil Is a Woman, Capriccio spagnolo di Von Sternberg che è, ap­ punto, il maestro, l’inventore primo, forse, dell’assoluto artifìcio cinematografico. Il diavolo probabilmente... Buona visione. [25 novembre 1994]

Godard 11. no. H2, 114.117. MI. 143.

162.165.192.195.197. 220. 229

* restare sospesi in una sona di rettitudine gassosa diffusa

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Finalmente la notte (una notte di finali di film)

Hollywood 14.50.65.75. so. 118.137.221

118

Finalmente no, purtroppo siamo arrivati a farlo. È da cin­ que anni che volevamo fare questa notte, una notte di finali, molto banale, molto semplice a farsi, a pensarsi ancora di più. il titolo, Finalmente la notte, è troppo semplice, truffautiano e poteva essere Fine senza fine, il più bello, ma l’abbiamo usato alla fine dell”89 per la non-stop sugli anni '80. Oppure potrebbe essere La fi­ ne probabilmente, o meglio 11 diavolo finalmente, o molti altri. C’è una cosa di innaturale, deno questo, nel­ l’idea di ‘finale di un film’, perché i film, il cinema, dan­ no proprio quest’idea fluviale di immagini che scorro­ no, che vanno verso qualcosa che è il finale, quando c’è scritta questa parola, Fine, The End, a seconda delle lin­ gue, Fin. Ma è anche assurdo vederla, perché, certo, la fine sappiamo che nel tempo-cinema che ci è dato di vi­ vere è prevista: ci è annunciata una fine, una morte. Ma il cinema lo vediamo da fuori. Non sentiamo questa condanna soggettiva, quindi, quando ce lo troviamo di fronte, anche nei congegni più giustamente, hollywoodianamente, portati a finire in modo bappy o in mo­ do disastroso o very sad o tristissimo, restiamo in qual­ che modo colpiti, sia perché vorremmo che non finisse mai, se ci piace, sia perché se non ci piace, che finisca così, in modo mediocre, ci delude. La fine non ci può saziare, perché come può finire un’ossessione, la voglia che abbiamo di ripetere tutti i gesti che anche minima­ mente amiamo, tutti gli affetti che anche minimamente proviamo, anche, appunto, quelli più piccoli? * Anche perché in quale mare vanno a finire i film che finisco­ no* C’è tutta una notte, stanotte, per vedere questa uni­ ca amica, my onlyfriend, the end, this is the end. •* Do­ ve va a finire questa fine, questa che è la fine? Appunto sono fiumi e alla fine c’è un mare? Cos’è? Perché si in­ terrompono i film? Non credo che questo seguito di fi­ nali li renderà più naturali. Certo, da una parte, sarà un film, tutto intero, sarà un film di fuori orario, ma, di nuovo, il finale ci deluderà. Perché? Perché finirà. Allo­ ra accadrà questo, che non finirà neanche, non ci sarà neanche scritto ‘Fine’, perché, probabilmente, la durata non è mai esatta, i palinsesti slittano, e quindi verrà ’sfu-

maro’. Questa fine stranissima che hanno molte cose in televisione. Uno suona e soprattutto i musicali dicono, i tecnici dicono: ‘Mandateci delle cose musicali sfumati­ li’. La musica viene vista come qualcosa che non è sog­ gettiva, non è di un uomo, non è voce., a un certo pun­ to può essere tolta. Invece la voce., a volte vediamo, or­ mai, anche le voci sfumate, vediamo i film che sfumano e si mette a parlare, magari, Oscar Luigi Scalfaro. Che strane fini, l'altro giorno. Poi è riuscito *•• a finire' Isoliti ignoti, con questo titolo profetico, derisorio e tragico e profetico. Torniamo alla fine e diamole inizio, anche se, davvero, dietro ogni fine c'è un uomo che muore, for­ se, ma anche sappiamo che c’è un gruppo di uomini, a volte uno solo, un autore - oppure un cast, una troupe - che hanno voluto fare o che sono stati costretti a fare questo film, a ‘macchinarlo’. E poi è finito. Ma poi sap­ piamo - è un altro discorso - che anche quando c’è scritto ‘Fine’ non sono mai finiti. This is the end, diceva Coppola in Apocalypse. Ma proprio Apocalypse Noto è il film che lui non sapeva finire. This is tbe end, ma quale this'?, perché la offrì addirittura in pasto al pubblico, a Cannes, perché scegliesse il finale. Quindi, anche se fi­ nisce la proiezione, il film non è finito, lo sappiamo, lo dobbiamo proseguire noi. E solo l’apocalisse, per l’ap­ punto, è, forse, la fine. ‘Un giardiniere è eterno per qua­ lunque sua rosa’, come diceva Fontenelle, illuministica­ mente, deridendo il mito, i miti religiosi. Ma è come il tempo, il tempo per noi c’è perché non ne vediamo l’i­ nizio, non ne vediamo la fine. Solo per questo c’è il tem­ po e quindi abbiamo gli inizi e le fini: perché non la ve­ diamo la fine, /inizio, e quindi sogniamo. E ci è stata annunciata, più volte, l’apocalisse e il momento in cui assisteremo a una fine. Ecco, i finali dei film - e deve fi­ nire anche questa presentazione - sono, simulano que­ sta grande catastrofe, questa grande apocalisse. La fine davvero in diretta. Buona visione: Finalmente la notte.. 17 novembre 19931

tempo 23, 25. 26.30.45.57,66.119.

124. 126. 131. 149.195. 221, 229

* Anche perché in quale mare vanno a finire i film che fini­

scono? •• Dove va a finire questa fine, questa che è la fine?

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Nacbalo

Scusate se guardo così in basso, non proprio negli oc­ chi. È per la luce negli occhiali, che alcuni hanno nota­ to e che, d’accordo con l’operatore, adesso abbiamo cercato di eliminare. Quindi bisogna un po’ guardare in basso e, probabilmente, non vi guarderò proprio negli occhi. Ma, insomma, mica bisogna ipnotizzarsi.. Forse qualcuno di voi ricorda Le stagioni, un meraviglioso him di Artavash Pelesjan, un regista armeno, visto un paio di volte in fuori orario, sia due anni fa, sia l’anno scorso. Quello dove su riprese di Pelesjan fed è l’unica volta, che io sappia, anzi la prima volta in cui Pelesjan ha fat­ to delle riprese, perché di solito agisce su materiale di repertorio) assistevamo a dei momenti di vita rurale agricola armena con delle traiettorie incredibili. Ricor­ derete un’immagine che molti ricordano - credo molti dei pochi spettatori nostri - quella dei contadini che sci­ volano lungo una parete di neve con i loro animali ab­ barbicati. E scivolano in mille direzioni diverse. Non si capisce se stiano scendendo o se stiano ascendendo verso qualcosa. Ed è un po’ questa centrifugazione dei punti di vista che Pelesjan attua col montaggio. Lo ve­ drete, lo avete visto, lo avete visto nelle immagini di po­ co fa. È un pezzo breve. Si chiama Nacbalo, credo ‘l’i­ nizio’. È la prima cosa, è anche t'inizio del cinema di Pe­ lesjan - aveva già trent anni, usciva dalla scuola di ci­ nema del vgik, sovietica - ed è un film di montaggio del ’67, in occasione dei cinquantanni della Rivoluzione d'Ottobre del 17, la rivoluzione russa. E questo aspetto celebrativo - che diventa celebrativo di una specie di movimento puro, quasi terribile - questo movimento di energie che si perdono a onde, che cominciano e che in qualche modo non Uniscono mai, ci mostrano pro­ prio una carica entropica del cozzare di linee di forza, fatte da umani, da umani aggregati, che siano militari o che siano manifestanti. C’è questa specie di emergere continuo di un'onda dentro la storia. In dieci minuti è uno dei pezzi di montaggio più intensi che abbia mai visto - e credo anche voi - nonostante ora, più di vent'anni dopo, abbiamo un'abitudine molto più for­ sennata al montaggio, a montare noi stessi le immagini nei nostri occhi, a sovrapporle. Qui non c'è sovrapposi120

zione. C’è solo questa velocità e di nuovo o, meglio, già all'inizio del cinema di Pelesjan, un sommovimento, uno sconvolgimento dei punti di vista consueti. E, no­ tate, solo utilizzando materiale di repertorio, quindi sen­ za permettersi di girare, di preparare il mondo per la propria cinepresa, no, il mondo è già lì, preso da altri occhi: è l’occhio del montaggio, in questo caso, il ritmo del montaggio, il respiro dell'occhio di chi vede, infine. Ecco, come quando si dice che si fa cinema in ogni mo­ do, anche solo guardandolo, in questo momento. Que­ ste immagini provengono, in qualche modo, da Bella­ ria, da ‘Anteprima Cinema’, che quest’anno aveva una retrospettiva dei film del vgik, e adesso vedrete due bre­ vi pezzi del vincitore o dei selezionati, comunque del concorso a tema fisso, tre minuti in video, dedicato a un tema molto minimale, una parola molto semplice, corta e forse, però, anche enorme: dio. Sono esempi lonta­ nissimi l'uno dall’altro: il vincitore è il pezzo dei sicilia­ ni Cipri e Moresco, già oggi una realtà nuova negli oc­ chi che si muovono in Italia fra video e televisione. Spe­ ro che vedremo delle altre cose: e qualcosa avrete in­ travisto, forse, tra le schegge di Blob. Spero che le ab­ biate intraviste. Vedrete il modo folgorante un po’ fassbinderiano con cui questa specie di occhio-lampo che illumina per un attimo la scena - illuminati, appunto rifotografa e muta quella scena alla quale siamo arriva­ ti con un bellissimo, semplicissimo movimento di mac­ china, e ne fa un quadro atroce, un po’ pasoliniano, fassbinderiano, molto forte. L’altro è, di nuovo, una linea di fuga molto semplice, un dialogo, un occhio - che for­ se è attaccato a una macchina che forse è attaccata a un’altra macchina, a un’automobile - una direzione che non si sa quale sia. Questo dialogo, Pax Max, e poi - a espiare queste mie parole eccessive, troppo lunghe co­ me sempre, e soprattutto a permettere ai vostri occhi di rivedere, di percepire qualcosa che, forse, state già pen­ sando di rivedere nel registratore (e per chi non l’ha re­ gistrato) - di nuovo Nachalo, ‘l’inizio’. Ah! non volevo dirlo, forse era meglio lasciare una sorpresa. Ma, insomma, è voluto, non sarà un errore. Buona visione. Che avete già avuto. 130 agosto 19901

dio 23. 50. 58. 121. M2 Cinico TV

32,34.93.109.121.127

121

Cadaveri squisiti (una notte dada)

Bufluel 122, 144. 153, 220, 240

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Il cadavere squisito, per definizione, ci piace molto. Procedimento surrealista, dadaista, dell’accostamento casuale, fortuito, che si affida al superiore sapere del ca­ so, alla superiore possibilità di scelta che il caso offre, nella possibilità di attaccare qualunque molecola di sen­ so a qualunque altra molecola di senso. Noi l’abbiamo visto, verificato mille volte nel lavoro quotidiano, per esempio di Blob. Ma questa notte dada è così lontana dal domino, da questo gioco invece così poco surreali­ sta, così spietatamente geografico., mentre il cadavere squisito, in fondo, è anche una sorta di sovrimpressio­ ne continua: il fatto che ogni immagine, ogni parola possa attaccarsi a un’altra.. E poi, un giorno, chissà chi vedrà, interrompiamo e vediamo il senso. Ma cambierà anche quello, ogni momento. Ogni momento ci fa pen­ sare che tutte le altre scelte siano possibili. La superio­ re libertà del dada, del dandy dada, ci guida in questa nottata. Perché si passa da questa sublime critica matu­ ra di Buftuel all’idea stessa di libertà surrealista, di sca­ tenamento dell’inconscio in arte, superiori possibilità dell’arte. E, invece, Il fantasma della libertà fa procla­ mare, alla fine, addirittura beffardamente, vivas las cadenas, viva le catene. Che poi vuol dire non solo le ca­ tene, le catene, quelle che ti censurano, che ti pesano, che ti obbligano a costruire e, se vuoi esserlo, anche a essere artista ma, nello stesso tempo, le catene del si­ gnificante, di questo gioco puro di segni di associazio­ ni: viva le catene. E il film che comincia questa nottata è pieno di associazioni, così provocatorie, quasi infanti­ li. È il film, nello stesso tempo, più liberamente infanti­ le di Buhuel. Incontreremo anche Russ Meyer: ma non c’è nessun gioco del domino. L’improvvisa esplosione di sesso far­ sesco, dentro questo buco di provincia americana è, di nuovo, se ci pensate, una specie di associazione conti­ nua di parole-corpo-giochi bassissimi. E poi, invece, avremo i momenti alti, la visualità raffinatissima di Man Ray, di nuovo sospeso tra dada e dado e geometricità. E poi i fratelli Marx e poi tutto quello che vi verrà se­ gnalato in questa notte montata a cura di Carmelo Ma-

rabello. Ma il punto è che il cinema, in qualche modo, si oppone, invece, alla libertà sfrenatamente dada e dandistica del 'cadavere squisito’. Si oppone perché il cinema vive solo in quanto si ripete queste ventiquat­ tro volte al secondo. Il cinema, invece, è proprio ob­ bligatoriamente domino per costituirsi in corpo. La sto­ ria stessa del cinema è fatta di oggetti che riusciamo a vedere. Non solo. L’orizzonte attuale è quello, median­ te immagini di sintesi e realtà virtuale, di tornare a que­ sta possibilità falsa di fotograficabilità ma, in realtà, so­ prattutto a questo: a corpi che si vedono. Probabilmen­ te l’opporsi a questo da parte del cinema sarebbe ri­ nunciare alla propria visibilità, come abbiamo visto in diversi esperimenti di avanguardia nel corso di tutta la storia del cinema: montaggi fotogramma per fotogram­ ma - infatti subliminali - e quindi costituzione di corpi invisibili anche se poi c’è sempre qualcosa che si vede. Questa, comunque, sarebbe la tensione interna. Ma al­ lora perderemmo anche la possibilità di accostare paro­ le, immagini-parole, immagini-segno, perché non le po­ tremmo riconoscere, e quindi non avremmo neanche da-da. Il massimo dell’articolazione sarebbe, ben oltre la pagina bianca, la pagina nera: * il nulla di articola­ zione, il nullinio.. Buona visione. [15 maggio 1994]

24 fotogrammi

24.95.97. 123. 229. 237

virtuale

40. «6.95.123

* il nulla di articolazione, il nullinio

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La lunga notte di Vent’anni prima

tempo 23.25. 26.30.45. 57.66, 119. 124. 126.131.149.195. 221.

229

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Ancora una volta, ma per quante volte? Forse potrebbe anche essere l’ultima. Di nuovo si ripropongono i moti­ vi contrattuali, la non-fantasia burocratica, forse anche il non riconoscere, più che il peso e la storia, una specie di qualità e di intensità di un lavoro di gruppo in questi ultimi sette anni, dentro Raitre o ai margini di Raitre. Co­ munque sette anni fa, nel gennaio dell'ottantotto, Ventanni prima nasceva come figlio - il primo Piglio dell’idea generativa di Schegge, dell'uso illimitato in qualunque formato e in qualunque durata del reperto­ rio di ogni genere. Quella di stanotte è una notte di pu­ ro repertorio di cose (mai)viste, già viste in Vent'anni prima. Quindi è il trionfo della ciclicità di Vent'annipri­ ma. Quella ciclicità, peraltro, di II tempo si è fermato, per riprendere un titolo olmiano di cui parlavamo ieri. Mi fu personalmente chiesto: ‘Come mai una citazione rovesciata da Dumas? Perché Ventanniprime#' Era pro­ prio questo: di non giocare sulla nostalgia, sul ricordo, vent’anni dopo. Il non porsi in un ‘oggi’ che rilegge, cri­ tica, si confronta, utilizza lo schermo del passato, per capire, blablabla, eccetera. Questa storicità un po’ ovvia e soprattutto molto, molto inefficace, un po’ idiota, di fronte alla televisione e al gioco delle immagini che ec­ cede in patetici tentativi di controllo storicista. Ecco, questo è Vent’anni prima. È Vent’anni prima come macchina. I singoli pezzi possono essere un momento di documentario, un’intervista rara con Pasolini, un Ez­ ra Pound, un Borges, un Marcuse e poi gli innumerevoli momenti politici. Può essere questa strana Cinquecento - mi sono segnato il numero: Roma 370687 - una targa che si intravede in un’immagine di tiggì nell’estate, nel­ l’agosto del ’68, i carri armati sovietici circondati dalla folla.. E c’è una Cinquecento che segue, forse insegue in mezzo alla folla, insegue un carro armato sovietico. Questa Cinquecento targata Roma - non siamo riusciti a leggere bene le immagini come sempre da quel bian­ co e nero da pellicola, riversato, ormai deperito, non si legge, ma mi sembra che sia 370687 - che cosa faceva quella Cinquecento targata Roma, lì, dietro quel carro armato? Proprio due macchine così diverse.* Se deve fi­ nire, se non abbiamo più tempo, se c’è poco tempo, al-

lore ci viene ancora più voglia di perderlo, il tempo, di perdere il nostro tempo in questa contemplazione-azio­ ne, così inutile, così affascinante, così uccidente, anche, per noi. Perché lavorare così sulle immagini vuol dire veder scorrere, mentre passano, quei cinque minuti di immagini che ci colpiscono, che ci sembra di non aver mai visto, per un istante. Anche stanotte, chi si calerà in questo colare, chi colerà a sua volta su queste immagi­ ni, perdendo un po’ di sonno, lentamente crederà di non aver mai visto, vedrà cose che non aveva visto. E però vedrà anche un fantasma, il fantasma dei suoi die­ ci minuti ‘prima’, di quel tempo che è andato, vedendo quell’altro tempo già fermato, già fermo. Vent’anni pri­ ma qualcuno, molti non erano nati. Buona visione. |19 marzo 1995]

• Se deve finire, se non abbiamo più tempo, se c’è poco tem­ po, allora ci viene ancora più voglia di perderlo, il tempo, di perdere il nostro tempo in questa contemplazione-azione

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11 tempo della durata

tempo 23.25. 26,30,45. 57.66.119.

124,126. 131.149. 195. 221. 229

occhio 12,23.95. 111. 126,151. W5

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La none. Il tempo della durata. Non è una notte teori­ ca, non vuole discutere, non vuole ragionare, non vuo­ le neanche riflettere nulla sul tempo. In qualche modo, forse, vorrebbe riflettere direttamente il tempo e forse è una delle notti più avventurose, avventurose nel senso che ci si affida appunto all'avventura prodotta dal tem­ po stesso, dal suo semplice scorrere, come viene spes­ so detto. In realtà l’idea è quella di riprodurre il tempo come fìsso, come /rame, come inquadratura, come sfondo. Anzi, il tempo, quindi, non è il passare, non è lo scor­ rere, ma in qualche modo è proprio il durare, il restare, il consistere. L'unica cosa che consiste, quindi, sarà il tempo, quella poi più friabile, meno afferrabile. E den­ tro passeranno, in questa notte, alcuni corpi, alcune co­ se, alcune linee che poi ci potranno far pensare che pas­ si dentro questo tempo un occhio e che, a sua volta, sia proprio questo occhio a ri-istituire il tempo, a ri-produrlo, nel senso di produrlo davvero una seconda vol­ ta. Cominciamo con i coccodrilli in Illud tempus di Fa­ bio Galli, un cineasta italiano che vive in Svezia che, in India, vicino a Bombay, ha filmato, videato, un alleva­ mento di coccodrilli, lì per vivere, vivere per morire, per diventare forse delle borsette. No, ci ha detto che inve­ ce è un allevamento che protegge i coccodrilli, quindi non diamo nessuna forzatura ideologica. Si chiama pro­ prio Illud tempus: questo tempo qui, e solo questo, è so­ lo con il tempo che ci viene ridato. L’inquadratura fissa, senza stacchi, per quasi un’ora. Poi ci sono, mi pare, altre inquadrature, e appunto dentro movimenti anche minimali di questi animali, di questi animali jurassici. Un’operazione molto spielberghiana, nessun sentimento lì rappresentato, tutto lasciato a noi, la paura, la noia, non il disgusto, ma, anzi, il lento sim­ patizzare con queste bestie, con questi animali che a volte si cristallizzano da soli in inquadrature fìsse. Fisse, in inquadrati fissi. Loro stessi diventano monumenti al tempo e di tempo. Irti ma immobili. Fanno paura quan­ do solo si sposta, lievissimamente, la loro stessa ombra e sembra solo un quadro, un’immagine fìssa, appesa, davanti alla quale si muove qualcuno, producendo lie-

vissimi slittamenti nella luce. Poi un’ora di Cinico, di sguardo su Paviglianiti, sul grande Paviglianiti, questo altro monumento che mangia - è una cosa già presen­ tata al museo Pecci di Prato come installazione - e poi altre cose, tutte un po’ indicibili, come Vermicino - la più grande, la più grande anche in senso epocale - la più grande durata televisiva dell’ultimo decennio e pas­ sa, che all’inizio degli anni ’80 segnò, comunque, il cambiamento della nostra visione e percezione, anche per chi non la vide tutta, questa notte terribile. E poi il Gran Premio di Monza. Avremmo voluto avere le im­ magini del Gran Premio di Imola. Ma è molto diffìcile raccogliere queste immagini di soggettiva dalle auto­ mobili, dalle macchine da corsa della Formula Uno che vengono ciecamente - ma capiamo il discorso di chi la­ vora - vengono poi cancellate o lasciate deperire, non vengono immagazzinate e che, messe insieme, invece formerebbero uno dei più incredibili depositi, proprio la biblioteca di visioni automatiche, di tempo puro in di­ retta. Tempo, tra l’altro, spesso interrotto traumatica­ mente dagli incidenti, dalle uscite di strada, dall’im­ provviso bloccarsi definitivo dell’inquadratura anche al­ l'interno dello spazio, non più all’interno di se stessa co­ me sempre un’inquadratura fissa. Ed è stupendo da un'inquadratura fissa che si muove.. Infatti il massimo di complicazioni e insieme, come dire, di presenza nirvanica lo otterremmo - e questo avremmo voluto fare dando per esempio, tutta la notte, un viaggio RomaNew York o Milano-New York ripreso dal cockpit, dal­ la cabina dell’aereo - più che con un lento scivolare pa­ noramico - quindi in soggettiva, attraverso questo spa­ zio quasi vuoto, questo cielo. E diventa un purissimo traversare il tempo, molto più che lo spazio. E poi lo sappiamo, con il passaggio dei fusi è davvero un tra­ versare, un allungare o rattrappire o far rattrappire il tempo. Avremo anche delle dilatazioni, delle solite ope­ razioni di odio-amore per le immagini, per finire su un film di Minnelli il cui titolo originale, 7%e Clock, in ita­ liano - messo da noi tanti anni fa nella prima edizione italiana - è L’ora di New York. E niente. Si voleva chiu­ dere su questa idea di ora legata a un luogo, a uno spa­ zio, quindi a uno stare, di nuovo, a uno stare fermo di questo tempo, un tempo legato a uno spazio. ‘L’ora di..’. I’ una definizione molto strana. Di chi è il tempo? Il tem­ po, quindi, appartiene allo spazio, appartiene a un luo-

Cinico TV

32.34.93.109.121,127

diretta 16. 127. 129. 137. 230

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go. E proprio come definizione in sé è molto curiosa e forse dice qualcosa. Ecco quindi il tempo come qualco­ sa di insostenibile ma, per una volta, qualcosa che non si limita a fluire per permettere, per permettere.. La te­ levisione, poi, è questo. È questo sempre, intendiamo­ ci, lo sappiamo: è lì, è quella inquadratura fìssa, sempre. È sempre questa soggettiva-oggettiva, sta lì, sempre, co­ me un quadro appeso, fermo sostanzialmente anche • se si potessero portare i televisori in mano, questi pac­ chetti di sigarette di tempo, nascosti perfino nelle ta­ sche. È un quadro fìsso di tempo.Allora volevamo pro­ vare a sfidare questa capacità della televisione con del­ le cose - cose tutte molto belle - fatte anche volutamente da delle persone, da dei soggetti che si pongo­ no, automaticamente anche loro, dentro il tempo. E quindi lo Sfidano, lo portano in qualche modo a un si­ lenzio, a un 'non essere’. Ecco. Buona visione di questo tempo che non esiste e che dura e che ci fa vedere den­ tro quale set ci muoviamo, l’unico set, il tempo. Buona visione. 19 luglio 1994]

* se si potessero portare i televisori in mano, questi pacchetti

di sigarette di tempo, nascosti perfino nelle tasche

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Monza 1990

Era solo un giro di prova. Sono le riprese mandate in onda in diretta, a settembre, del Gran Premio di For­ mula Uno di Monza. Un esperimento che avevamo fat­ to anche l’anno scorso, come terza rete, di dare la pos­ sibilità allo spettatore di avere un pezzo di regia in ma­ no, di poter ‘staccare’ sull’imbocco della curva parabo­ lica e, quest’anno, addirittura all’interno, sulla visione che si ha dall’interno dell’abitacolo del pilota. Quindi la possibilità di farsi in parte, in parte solo, la propria re­ gia, se si vuole vedere, in quell’attimo, cosa accade in quella macchina, una delle macchine su cui è monta­ ta la telecamera per questo tipo di riprese. Quest’anno è quasi sempre, credo, Berger nella McLaren e Piquet, quello in giallo che si vede ogni tanto. Credo che siano loro. Non è una cosa sportiva, non è tutta la gara. An­ che quando abbiamo fatto la diretta, abbiamo potuto farla solo per la prima parte, in parallelo, rispetto alla re­ gia della diretta su Raidue. E stasera non c’è questo gio­ co: c’è solo questa inquadratura. Perché rivedendola, a distanza di settimane, mi sono reso conto, ci siamo resi conto, di una forza incredibile di queste immagini, una forza naturalmente ipnotica, anche molto hard. Non vo­ glio dire che sia una cosa piacevole, tranquilla. Anche se, dopo un po’, c’è la ripetizione del circuito, la ripeti­ tività della situazione-macchina: macchina fissa e mac­ china in movimento.. L’inquadratura è fìssa. Ci sono due inquadrature: una davanti e una, ogni tanto, di dietro, dall’interno di questo bolide lanciato a duecento all'ora sulla pista di Monza. Però la situazione è quella. È co­ me essere sempre fermi e sempre in movimento, come del resto capita spessissimo nel cinema, fin dagli inizi: una cinepresa piazzata su un treno, quindi ferma su quel treno - in quel punto lì, ferma - però seguiva il movimento del treno. È uno dei grandi sogni del cine­ ma, quello di agganciarsi a tutte le possibilità di movi­ mento preesistenti: i tram, la fascinazione dei Lumière |x_t le riprese dal tram in città, questi supercarrelli già al­ l'inizio del cinema. Anche qua siamo a bordo di una specie di carrello potentissimo, una macchina potentis­ sima. Non è stasera il discorso dello sguardo in macchi­ na, né dello sguardo in soggettiva, anche se avremo dei

diretta 16.127.129.137,230

macchina

1«. 97. 107.129.131

129

lampi di soggettive, dei montaggi di soggettive e di sguardi in macchina. Questo è, curiosamente, una spe­ cie di sguardo dalla macchina* che è anche, come qua­ si sempre, uno sguardo in soggettiva. Ma è una sogget­ tiva di cosa? Perché siamo a fianco del pilota, quindi si­ curamente non possiamo identificarci con uno sguardo umano - cosa comunque difficilissima - e mai nella soggettiva. Anzi, il gioco della soggettiva - lo intrave­ derle anche stasera - è che non può mai essere vero­ simile come lo sguardo di un uomo. Non c’è panoramicità. Insomma, in attesa di nuove riproduzioni di tipo elettronico più spinto e avanzato, non siamo davvero in soggettiva o in qualcosa che ci rammenti la soggettiva. Anzi, è proprio questo spiazzamento il gusto della sog­ gettiva. Qui doppiamente spiazzante, perché siamo por­ tati a identificarci, invece, con una specie di angelo cu­ stode, di piccola macchina che è a fianco del pilota: lo intravediamo, intravediamo le mani, intravediamo parte della visiera, del casco. E dopo un po’, soprattutto no­ nostante il rumore o proprio per questo, per questa mu­ sica del motore che è sempre uguale, che varia in mo­ do sempre simile, per questa inquadratura che è, ripe­ to, muta ed è sempre la stessa, ci troviamo anche den­ tro una specie di sogno, di delirio, di videogioco. Si rag­ giunge l’astrattezza del videogioco, di queste cose da salagiochi o anche da computerino casalingo, floppy di­ sk: il giochetto, dove siamo al votante di una macchina e dobbiamo cercare di restare in strada, di superare, è molto simile. Sappiamo che è un Gran Premio, sappia­ mo che è avvenuto, vediamo anche fotografìe, ci sono questi sganci, c'è la qualità anche modesta, mediocre, di questa registrazione, ma scompare tutto. Scompare la diretta: siamo noi in diretta, in questa specie di falsa soggettiva. Abbiamo la macchina e non l’abbiamo, un po’ Io siamo, un po’ non lo siamo. Buona visione. (11 novembre 1990]

130

Finale di partita

Chi guarda? Verso chi guardava Maradona mentre cor­ reva da solo verso la postazione della telecamera, al­ l’angolo del campo, dopo il suo grandissimo goal con­ tro la Grecia, nei mondiali che si concludono domani? Non si capisce. L’abbiamo guardata e riguardata la sce­ na, al ralenty. Improvvisamente scarta sulla sinistra, pro­ prio quando si pensa che stia guardando solo la mac­ china, e invece, forse, guarda nel vuoto, ma punta la macchina, pur sapendo che è la macchina, la macchina che trasmette il calcio - il torero - che in certi momen­ ti il giocatore, o anche solo lo spirito del gioco, l’im­ provviso uscire dal tempo del gioco, riesce a sua volta a sfidare, a incornare. Sono tutti attimi rubati, i pochis­ simi che poi restano davvero nella memoria, anche di un mondiale, di un campionato mondiale. Se poi, den­ tro il gioco, sono gli attimi a essere rubati, è il tempo dello sport, nell’insieme, che ruba al tempo parallelo, al tempo dentro cui si adagia, al tempo cosiddetto della vi­ ta, della società, dei mondo. Questo tempo, per esem­ pio il tempo di una finalissima, totalmente compresso, concentrato, è un mese di gioco - di discorsi, di attese, di fusi orari, quindi di sfasature - ’mondiale’ appunto, quindi ore diverse in tutto il mondo che si concentra in questa ora e mezza finale. E di nuovo, lì dentro, maga­ ri sono solo i piedi di Baggio che poi sono legati, sono l’estremità di una gamba malata, forse non li vedremo, e se no sono quei piedi che magari entrano per cinque, dieci minuti. Ma è sempre così in questo mondiale, è stato sempre così, nel geniale, sublime, invisibile Bag­ gio, di restare nascosto, di non riuscire a giocare, giù di tono fisicamente, di non riuscire mai a superare l’avver­ sario e poi, improvvisamente, avere un momento, due momenti, tre momenti, forse, di lucidità esplosiva, leg­ gera. E, a quei punto, il finale di partita è in ogni mo­ mento. Andiamo in onda col finale di partita e col film Cup Final che racconta proprio, a proposito della peri­ colosa partita di ieri di fuori orario, racconta proprio del sovrapporsi dei due tempi: tempo di guerra, tempo di gioco, coincidere. Ne parlavamo ieri. Ma, dicevo, que­ sto momento che diventa sempre finale - si è sempre in zona Cesarmi, si è sempre troppo presto, troppo tardi -

macchina W. 97.107.129.13J

tempo 25. 25. 26. 30. 45. 57. 66. H9. 124, 126. 13), 149, 395 221.

229

131

sovrimpressione 23.112.132.133.196

132

diventa anche improvvisamente un set dilatato di fanta­ smi. Pensavo a questo Italia-Brasile che toma di nuovo in un altro continente, venticinque anni quasi dall’ItaliaBrasile, uno a quattro, in Messico. E stanotte, senza sa­ pere che questa sarebbe stata la finalissima, avevamo deciso, Sergio Germani aveva già effettuato questa so­ vrimpressione straordinaria — dopo l’inedito bellissi­ mo, come tutto John Ford, con John Wayne - di un al­ tro sport, di un’altra palla, di un’altra lingua. Ma appun­ to parliamo del tentativo di un gioco di palla, anche di esportarsi su un altro continente, quest’anno. E vedrete le due penultime, ormai, finalissime, identiche, identi­ che nei nomi delle protagoniste, opposte nel risultato: Argentina-Germania / Germania-Argentina, sovrimpres­ se dentro lo stesso tempo, 44 giocatori, fantasmi, due palloni, senza commento, i rumori missati, alla pari, op­ posti entusiasmi alla fine. Faremo meccanicamente con la violenza di queste operazioni - della quale insieme ci scusiamo e siamo orgogliosi - quello che poi, forse, non meno meccanicamente, anche noi, voi, tutti, tutti quelli che la guarderanno, faranno domani, guardando questa partita, avendo già vissuto o anche solo visto - nella lo­ ro riproposta memoriale della televisione — una stessa partita, con gli stessi nomi e con lo stesso titolo: 'ItaliaBrasile/Brasile-Italia’. Sovraimprimiamoci. Buona visio­ ne, buona sovrimpressione. [16 Luglio 1994]

Vertov su Vertov sowertov

Non so se la mia voce sforerà, si sovrimprimerà anche lei alle immagini, già offese - e in realtà perfettamente illese, nello stesso tempo - dalla musica nel Brian Eno (discreta musica di Brian Eno), nello stesso tempo.. Ho detto 'nello stesso tempo’: è un modo di dire tremendo, ma credo che ci sia come una tensione utopica quando si dice 'nello stesso tempo’. Di solito si dice per anche dire, invece, un’altra cosa: ‘nello stesso tempo, invece, è anche’.. Ecco, ma qua è nello stesso tempo’, proprio nello stesso, che vedrete tre film di Dziga Vertov. L’ab­ biamo fatto altre volte, questo, e viene ritenuto una su­ prema offesa. Sono film che abbiamo fatto vedere mol­ te volte. Forse neanche., no, non vi dico neanche i ti­ toli. Se vuole li metterà Roberto Turigliatto, ulteriore im­ pressione, sovrimpressione, quindi, su Vertov: Vertov sopra Vertov sopra Vertov su Vertov, sowertov, suwertov.. Non è per sowertire questa immagine, queste im­ magini, il cubismo. Non è per giocare ulteriormente ai cubisti patetici, ultimi (siamo al 2000) sul grande cubi­ smo d'inizio secolo di Vertov, il primo grande genio a giocare con immagini altrui, a rendersi conto, e a ren­ der conto, del fatto che non erano di nessuno queste immagini, e quindi in qualche modo neanche sue, pur costruendo forme tesissime. Allora il gioco di stasera è perché queste immagini, riconosciute o sconciate - non sappiamo: lo stiamo facendo quasi in diretta, pochissi­ me ore prima della messa in onda - queste immagini, o meglio l'immagine che ne risulterà, l’unica cosa che, forse, può voler - giocando - dire è che le immagini non finiscono mai: non finiscono qui, non sono certo iniziate qui, e non sono mai una sola. Anche in quel momento, anche nel singolo fotogramma, un’immagine è sempre una sovrimpressione delle epoche che hanno portato a quelle immagini. Delle epoche geologiche, starei per dire, oppure delle epoche biologiche degli esseri umani inquadrati, delle costruzioni, delle epoche storiche delle costruzioni, delle strade e delle pareti che si vedono. Quindi l’immagine è sempre sovrimpressio­ ne, quindi noi rigiochiamo la sovrimpressione per dire dawero che non finiscono mai. Sovrimprimete anche il vostro apprezzamento, il vostro odio, il vostro amore o

Vertov 55.107. 133. 143. 146. 225

sovrimpressione

23. 112. 132. 133.196

133

disgusto, questa notte, come quarto tempo parallelo.. * Buona sovravisione. [21 maggio 19961

• Buona sovravisione

134

‘sci-nema’

Per problemi tecnici contrattuali, contratti pericolosi, contratti anomali, probabilmente stanotte è l’ultima not­ te di messa in onda di fuori orario, per una decisione che stiamo prendendo e che prenderemo tutti insieme, il gruppo fondatore e attuale di fuori orario - cose (malviste. Forse diventeranno cose non più viste anche se, magari, resteranno delle puntate già preparate. Co­ munque proprio questo exploit, questa notte di ‘sci-ne­ ma' l’avevamo chiamata - finirà domani manina con Amazzoni bianche, un vecchio film sciistico italiano di Righelli e speriamo sia grande sci-nema, nella notte con Alberto Tomba - * questa notte ‘tombistica’ potrebbe essere, anche, una none tombale per questo fuori ora­ rio - cose (malviste che, con un gruppo di amici, ho fat­ to e, soprattutto, con voi (mi vergogno sempre di evo­ care retoricamente ‘voi’), con te, con la persona che in questo momento sta vedendo, la persona, non più di una. Ecco, probabilmente, s’interromperà da domani. Non so quando tornerà e se tornerà. Questo racconto, questo film non è dei più belli di Her­ zog, ma io lo trovo ugualmente bellissimo. E tutto que­ sto anche se poi il cinema di Herzog non è tra i cinemi più provocanti e più fìlmici che esistano al mondo. An­ zi è tra quelli che, proprio spingendo al massimo il con­ fronto con la realtà, col profìlmico, cedono di più dove lo scacco è sempre in agguato, dove (’immagine non rende conto dell'ampiezza e dell’enormità della sfida. Anche qui a volte sembra di essere, in fondo, in un film hollywoodiano sulla sfida con la montagna. Invece c’è Messner, invece è stato un vero, un vero lottare corpo a corpo con questa montagna, con il Cerro Torre.. Ecco, quindi, l’exploit, la flagranza che non riescono a docu­ mentarsi in cinema. E proprio questo trovo tenerissimo, il rovescio tenero dell’asprezza, della durezza, in fondo, dello slancio durissimo e totalitario, romantico, verso una meta. Ecco, credo che, in qualche modo, dobbiamo dirci, in queste ore forse così simpaticamente estreme di fuori orario, che avremmo voluto giocare, invece, sta­ notte, come se le ore fossero tutt’altro che estreme, co­ me giochi di scivolamento. Appunto ‘sci-nema’, uno sci­ volare nella notte con questa scia lieve, con questo non­

notte 36. 53.102.135.138

Herzog

45. 47. 135,149

135

rumore che è dello scivolare dalla montagna innevata. La neve che dà un’altra forma alle montagne - le rende non solo scivolose - ma che ottunde. Questa ottusità. E invece ci troviamo, ci rendiamo conto che, proprio per la leggerezza anarchica della nostra organizzazione, •• non possiamo che ripetere che abbiamo posto la nostra causa, abbiamo affidato la nostra causa al nulla. Non a un’organizzazione, non a pani o a paniti o poteri che ci sostengano, ma al nulla. Al nulla delle immagini che in­ fatti possono mutare, possono essere sostituite da altre, possono svanire, possono essere seppellite da qualun­ que valanga reale. Buona visione. (28 febbraio 19951

* questa notte 'tombistica’ potrebbe essere, anche, una notte tombale

* * non possiamo che ripetere che abbiamo posto la nostra cau­

sa, abbiamo affidato la nostra causa al nulla

136

fuori orariofuori orario

[enrico ghezzi ha gli occhiali sporchi di panna montata, ndrl

Questa.. Più stretta l'inquadratura, più stretta! Sì, ricomincio.. Questa non è una scena comica, non è una cosa comica. È che - siccome siamo in diretta - è venerdì e sono le 19,44, tar­

dissimo.. No, no.. No! (Gli arriva una tona di panna montata in faccia, ndr] ..È accaduto che prima c’è stata una gag., anche con un uovo in testa.. Io però continuo a dire quello che do­ vevo dire, seriamente. Allora, il film.. Adesso vediamo una co­

sa seria, gli Oscar.. Hollywood, un film su Bernardo Berto­

hollywood

lucci.. un'anteprima italiana., è un film che si chiama li viag­

14. 50. 65. 75. HO. UH. 137. 221

giatore italiano. Bernardo Bertolucci ha fatto, una volta, una dichiarazione molto bella a proposito di chi rimprovera a que­

Bertolucci

sto film straordinario, che è L'ultimo imperatore, di essere un

59. 63, 68. 87.90. 114. 137. 203.

film hollywoodiano, di aver preso nove Oscar e di essere co­

2)5. 216. 219

sì diverso dai suoi altri.. A parte che il discorso sarebbe lun­ go.. È un film molto suo.. Forse se ne parlerà anche domani

pomeriggio in Va' pensiero.. La frase di Bertolucci è questa:

“Tutte le volte che gli amici mi dicono: ‘Questo tuo film non lo riconosciamo.. È molto diverso dal tuo solito stile.. Pecca­

to, non ti riconosciamo più’, allora sono contento, perché vuol dire che sto facendo quello che voglio: sto cambiando". Ecco,

questa voglia continua di mascherarsi da pane di Bertolucci è uno dei momenti più segreti, misteriosi e affascinanti del suo

Cinema-

Fuori orario di fuori orario, chissà cosa scrivono oggi i giornali. Celebrazione’., non è. È il contrario di una ce­ lebrazione, è un atto warhoiiano (ma sì, diciamo che siamo warholiani ancora una volta, comunque vorrem­ mo esserlo) di riproposta, quasi pura, di qualcosa che però non è fuori orario. Infatti è 'fuori orario fuori ora­ rio'. È un fuori orario di sette anni fa, della primavera dell' '88, fine inverno, fin quasi all'inizio dell'estate. Era un tentativo fallito, fallito negli esiti. Io credo che oggi a rivederlo sembri più un programma di culto, possa forse esserlo. Chissà, forse dovremmo fare delle casset­ te. Un programma sgangherato, frastagliatissimo, pieno di insenature, un programma frattale, un programma che in qualche modo è il contrario del fuori orario di oggi, perché voleva essere in diretta, era in diretta, al­ meno per alcune puntate. Era appunto 1’ '88, il primo

direna 127, |29, 137.

137

Rossellini

18. 25. 28. JI. 32. 60. 138. 148. 158. 160. 162. 166. 222. 230

none 36. 53.102. 135. jja

138

anno di gestione Guglielmi di Raitre, molto investimen­ to, Bruno Voglino capostruttura, Romano Frassa, io, Da­ vide Riondino. Vedrete, molti.. Tatti Sanguineti che con me sceglieva i momenti di cinema, la non-diretta da but­ tare dentro la diretta, per far saltare la diretta. Questa è la cosa che è rimasta oggi, oggi in modo più concettua­ le, distante se vogliamo. Tante volte diciamo che ci pia­ cerebbe fare dei momenti di film-jockey, fare delle not­ ti intere, con noi presenti-assenti, io e il mio gruppo fuori, fuori ma con le mani che muovono le cose. Quin­ di esserci, esserci, patire queste durate di fuori orario, almeno nelle notti del sabato. Era l’intenzione di allora, con molte cose non realizzate, ma già troppe in scena. Ne vedrete alcune puntate, vedrete attimi di montaggio d’altre, il montaggio è a cura di Carmelo Marabello che non c’era, allora. Ed è giusto che sia così. Come ci si può montare da se stessi? Brigate Rossellini.. Quindi, di nuovo, scontro con il fluire della diretta che nessuno riusciva a padroneggiare, tantomeno la regia, tantome­ no noi autori, tantomeno Davide Riondino e Linda Bru­ netta, tantomeno gli ospiti, il filosofo Giorello, il grande psicanalista Elvio Facchinelli, che poi è scomparso, e tanti altri. Li vedrete. Vedrete l’impossibilità di seguire davvero un filo, la voglia di seguire tutte queste cose, contemporaneamente, senza in realtà scegliere un mo­ mento più forte, quindi il rischio assolutamente corso, e centrato in pieno, di non dare un’immagine precisa, però una forza visiva, mi rendo conto, oggi. Anche se lo studio di Massimo Iosa Ghini era imprendibile dalle telecamere, non si riusciva a darne un’idea. Alla fine, poi, magari, sembrava una cosa fredda, montata, men­ tre lì accadevano molte cose, si mangiavano in diretta i cibi di Gianni Emilio Simonetti. Ecco, parlandone, qua­ si mi accaloro, come se il ricordo fosse., fosse positivo. Invece fu, appunto, un fallimento insieme al blocco po­ litico, in quelle stesse settimane, di Matrioska, che di­ ventò poi L 'araba fenice, il programma più avanzato, più radicale di Antonio Ricci, che fu proprio bloccato. Neanche andò in onda. Segnò invece l’improvviso na­ scere e subito bloccarsi di un tentativo di occupare la notte, di fare davvero parlareìa notte in televisione. Al­ lora non c’era la notte non stop. Eravamo una propag­ gine, quindi non entravamo in un tessuto. Fummo visti come qualcosa di estraneo, di presuntuoso, di iperintellettualistico. Né talk-show alla Costanzo, né proposta

pura di cose alte, ma proprio corta con troppi strati, con troppi sapori o forse con nessun sapore. Ma è questo che vogliamo essere. Noi vogliamo essere insipidi oggi, e oggi ci riusciamo, perché appunto abbiamo queste co­ se già (mai)viste. Nel frattempo ci ha raggiunto il fuori orario di allora che poi, dopo un anno e mezzo - fini­ te le quattordici puntate, finiti i tre mesi, in quell’ '88 dopo un anno e mezzo decisi di riprenderle per farne una cosa di proposta, come sapete, di immagini. Di pro­ porre (’immagine iper-registrata del cinema sostanzial­ mente come televisione, e viceversa la televisione ren­ derla cinema, tentativo che va continuamente incontro allo scacco. Ma è uno scacco felice, e voluto. Allora non volevamo fallire e questa specie di olocausto, chissà, forse non è servito a nulla. Volevamo addirittura fare un programma trasversale, mi ricordo, con Antonio Ricci. Apparire rispettivamente nei programmi altrui, avere dei momenti con un * logo uguale, logo comune, da fa­ re apparire nei due programmi e scambiarsi i materiali. Poi, ecco, non partirono neanche insieme, non riuscim­ mo a farlo, fu un’operazione di commando costosa e in­ sieme fallita. Ecco, fallita. Se oggi arriva qualcosa, qual­ che ultimo colpo di bazooka, io lo ripropongo come un oggetto, come un momento - ma neanche di pop art di archeologia, di pura archeologia televisiva che me­ diante un nome, fuori orario, ancora diventa, ridiventa (maijvista, così come è stato, in qualche modo, fuori orario fuori orario, maivisto, (mai)visto. C’è una punta­ ta credo intera, qua dentro. Mi pare fosse la quarta. Fu sospesa la diretta di fuori orario, a un certo punto, per intervento della direzione generale Rai, perché mo­ strammo a qual punto non eravamo in grado di con­ trollare questa massa di proposte, di materiali, di mon­ di paralleli che andavano avanti. E invitammo Cicciolina. Volevamo averla come corpo né estraneo né scan­ daloso, come altro corpo, anzi, come segno quasi leg­ gero di corpo e, sicuramente, meno corpo di altri. Cicciolina. Celebravamo John Holmes, era una puntata di quelle miste, forse la prima che in qualche modo si av­ vicinava a quello che avremmo voluto fare. E, in questa diretta, ci fu un momento in cui la regia fu gabbata, in qualche modo, da Cicciolina che si mostrò improvvisa­ mente. Mostrò il sesso in un momento rapido, ma quel­ lo si vide, mentre, altrove, si scattavano polaroid, si mangiava, si cantava. Quello fu visto in onda, quello

corpo ’5‘ X 16

45. v?. 63. 81.

« «

139 Mi.

144. 160. 162, 176. 1H4. IH£.

193. 228

139

sembrò una voluta, banale trasgressione, una presa in giro dichiarata, eccetera eccetera, tutto quello che non avremmo mai voluto fare. E però demmo una dimo­ strazione di non-controllo che era in qualche modo la verità del programma. Nessuno di noi fu davvero in gra­ do di controllarlo. Da quel momento i dislivelli furono un po’ più predisposti: prima, appunto, si passava dal­ la puntata di Cicciolina.. e magari alla puntata prima c'e­ ra la grande quaresima pasquale, con Tarkovskij, con immagini di Cristi muti che si innalzavano.. C’erano grandi dislivelli, anche casuali, non del nino cercati.. Poi cominciammo a registrare a parte delle cose, a montare insomma, e le puntate, forse, tenevano anche di più, in qualche modo assomigliavano di più al fuori orario di oggi. Cominciò ad avere una parte più importante il ma­ teriale preparato da Tatti Sanguineti e da me. Però, quel­ la puntata, che lì lì stava per riuscire e forse riuscì, se­ gnò la fine dell’ipotesi più ardita: quella della direna notturna, davvero out ofcontrol. Lo era troppo. Oggi, ir­ rigidita nel montaggio, ve la riproponiamo insieme ad altre cose. Buona visione, di nuovo, con fuori orario, cosa (mai) vista. Buona visione. [22 agosto 1994]

* logo uguale, logo comune

140

Prima della nouvelie vague

n tuffo è un titolo vicino, forse, al nostro cuore, o co­ munque, più facilmente, a una delle nostre estremità. Non parlo né della testa, né dei piedi, ma proprio della sigla di questo fuori orario, la sigla ripetuta mille volte, da L’Atalantetà Jean Vigo, un tuffò a cercare, appunto, il ci­ nema. E questo titolo semplicissimo, in italiano dà pro­ prio l’idea del corpo, non solamente del corpo umano, può essere anche un sasso. Tuffo, questo corpo che ta­ glia una superfìcie, che penetra dentro. Era stato presen­ tato a Venezia l’anno scorso, nell'ultima edizione della settimana della critica, ed è un piccolo film d’esordio di Massimo MarteUa, che ha una qualità fortissima- nouvelle vague, al di là del titolo, così semplice, così minimale. Del resto la nouvelle vague è stata, probabilmente, non il pri­ mo ma l’ultimo grande movimento di cinema minimali­ sta, legato proprio ai piccoli momenti guardati, quasi sempre, in modo ’piccolo', anche col romanticismo della piccola borghesia che diventa sublime dentro il cinema. Il tuffo è un film che presenta, in realtà, una formula di visione. È una formula di visione, il tuffò: cercare di an­ dare in profondità. Ma i tuffi possono non riuscire e que­ sto è, anzi, il racconto: un tuffò fallito, seppellito nel pro­ prio passato, nella propria memoria. Ma bisogna tuffarsi, lo sappiamo appunto da Vigo, per cercare le stesse im­ magini della memoria. Stasera vogliamo proporre una memoria della nouvelle vague classica. Godard, Fino al­ l’ultimo respiro, un titolo fuori, invece, da questa cultura piccolo borghese che molto spesso - e anche giusta­ mente - leghiamo all’idea stessa di nouvelle vague. Fuga da questa piccola borghesia, dalla piccola borghesia visi­ va del cinema francese. Proponiamo questa nouvelle va­ gue, in uno dei suoi capolavori inaugurali, attorniata dal film Leon Morin prete di Melville - con un grande corponouvelle vague, Beimondo - da un film che è coevo, completamente coevo alla nouvelle vague, ma che non ha quasi nulla a che vedere. Anche se nello stesso Fino all’ultimo respiro l’autore del film, Jean-Pierre Melville, gioca la parte di uno strano romanziere rumeno, Parvulesco, una sorta di Ionesco che esprime il famoso afori­ sma, il famoso ossimoro: ‘Il mio sogno è quello di di­ ventare immortale e poi morire’. Immortale ovvero far

Vigo 14. 141. 147.153, 240

corpo 15. 34.36. 39.45,47.63.81.

85.95.97. 102, 106,139. 141. 144. 160, 162.176. 184, 189. 193. 228

Godard

11. HO. 112, 114. 117. 141. 143. 162. 165.192.195. 197. 220.

229

ossimoro

52.141.181. 224.230

141

dio

50- 5H. >21. 142

mondo 19.2). 32 37. 53.62.6’ 7K

parte dell'Accademia francese. E poi è giusto: diventare accademici è già morire, non si può che morire. E lo di­ ce Jean-Pierre Melville, un grande legista che adora l’Accademia, che ha fatto dell'Accademia una passione sfre­ nata. Se ci pensiamo, Melville è il primo grandissimo re­ gista post-moderno - per il resto bisogna risalire al mu­ to - della storia del cinema. Post-moderno durante la notwelle vague che era, invece, così accanitamente mo­ derna, anche nell’uso delle citazioni, così free jazz. Men­ tre Melville aveva l’orchestrazione di un Ellington e ave­ va già tutta la sapienza visiva di un Ridley Scott. Solo che Ridley Scott, poi, fa Blade Runner, accumulandoci dentro tutti i detriti della civiltà dell’immagine. Ed è uno che ha visto, che ha visto e fatto, migliaia di spot, e lì ha visto l’enciclopedia delle immagini. Mentre Melville era uno capace di vedere quaranta, cinquanta volte i film ameri­ cani, non solo dei grandissimi, non solo di Ford ma an­ che, magari, di Lloyd Bacon o di Frank Lloyd. Ecco, Mel­ ville era già davvero un pre-post-modemOj e quindi una sorta di faccia mortuaria della nouvelle vague, che oggi vi­ ve, vive con dei film magnifici. Questo è uno dei tanti film, bellissimi, di Melville. E poi Le sedicenni, in coda, nella notte. È già andato di notte, ma abbiamo voluto ri­ darlo prima che scadesse, perché c'è il grande cinema di Becker. Un cinema spessissimo segnato da destini, che racconta destini spesso tremendi, un cinema del fato motto distante dalla libertà renoiriana a cui invece era de­ voto - che però in questo film termina in un volo, il con­ trario del tuffo, se vogliamo, un altro lanciarsi in un ele­ mento, in un elemento più leggero di quello su cui pog­ giamo, ahimè, per quasi tutta la vita. * Acqua, aria e, in mezzo, questa realtà: noi stessi, che siamo rose, oppure la rosa è il cinema? Ma torniamo a citare - visto che è ci­ tata anche da Godard, neH’aforisma fìlmico messo in te­ sta con un esergo stasera da Marco Metani - la rosa di Fontenelle, la rosa per la quale ogni giardiniere - ag­ giungiamo - per brutto, banale, spregevole che sia, è eterno, è come un dio. È più di lei, perché la rosa finisce, muore, termina. Chissà tra cinema e mondo - cosiddet­ ta realtà - cosa, quale delle due è la rosa? E quale, quale delle due sembra giardiniere all’altro? Buona visione. [29 aprile 1994]

95.>04. 116. M2. 144.176.1B2.

202.203

* Acqua, aria e, in mezzo, questa realtà: noi stessi, che siamo rose,oppure la rosa è il cinema?

142

Cinema della nascita- Nascita del cinema

C’è una frase che non si ricorda bene Roberto Turigliatto, che ha ricostruito questa notte di nascite, di cinema della nascita e di nascita del cinema. Una frase, proba­ bilmente di Truffaut, oppure, chissà, di Godard. Ci pia­ ce immaginare che esista questa frase, perché non può esserci rimasta in testa dal nulla, a proposito del fatto che alla fine del him L’Atalante - da cui è tratta, come spero ormai sappiate, la nostra sigh, la sigla di fuori orario - nella scena d’amore finale, dopo il ricongiun­ gimento dei due amanti viaggianti, di questa famiglia nomade, di questa ipotesi di amourfou e insieme ma­ trimoniale, quando i due si appartano (subito prima del­ la fine, per fare l’amore), lì, fuori campo, in quel fuori campo, nasca Antoine Doinel. Antoine Doinet è il pro­ tagonista dei Quattrocento colpi - il primo film di Truf­ faut - Jean-Pierre Léaud. Ed è colui che poi Truffaut ha ricapitolato, attraverso i suoi stessi film, in quel film ge­ niale, incompreso, straordinario e insieme lievissimo, potentissimo come idea di cinema, ma anche leggero, come quasi sempre Truffaut, che è L'amour en fuite {L'amore/ugge). Ecco, questa fuga d’amore per Truffaut nasce in questo fuori campo deìVAtalante. Questo per dire che il cinema, in qualche modo, nasce sempre fuo­ ri campo. Pensiamo a Lynch. Stanotte rivedremo alcune immagini da Grandmother, ma rivedremo anche imma­ gini da John Ford. Anzi, vedremo, tra poco, un film do­ ve la maternità diviene in qualche modo maschile. E poi vedremo Griffith, vedremo questa maternità legata alla terra. E vedremo un film abbastanza straordinario, di nuovo, ma è vero, è straordinario, è tragicamente tale, Ninnananna di Vertov, un film del ’37, segnato da Sta­ lin, dallo stalinismo, da questo tiranno che sorride ai bambini, che li attira a sé, e insieme da questa utopia di voli, di voli che già sono cadute. C’è una donna che fa la paracadutista. C’è questa mobilitazione femminile tra movimento orizzontale, la parata statuaria, dinamizzata, ma nello stesso tempo bloccata e, invece, questi corpi che cadono appesi, affidati a un paracadute, queste donne che si lanciano dagli aerei. È un film molto, mol­ to giocato, molto libero in questo rapporto di dinami­ smi. E poi vedere questo tiranno che sorride, che sorri-

Godard ]]. HO. 112.114. 117. 141. 143.

162. 165. 192, 195. 197. 220.

229 Atalante

14. 143. 147, 152. 153, 155. 158

amore 70. 98. 143.147. 154, 190. 195. 221. 229. 240

Ford 11. 33. 59. 143. 203

Vertov 55. 107. 133- *43. 1*. 225

143

Buùuel 122. 144. 153. 220. 240

schermo

53. 72. 77. 83. 89, ni. 144. 153. 160

nero 102. 104. 144. 205 corpo 15. 34. 36. 39. 45.47. 63.81.

«5.95.97. 102. 106. 139. 141. 144. 160. 162. 176. 184. 1«9. 193. 228 vita

21.36. 52. 67. 78. «3.92.97. 104. 144. 163. 202. 240

de a queste bambine, fa molta impressione. Capiamo che questa ninnananna è, appunto, il contrario di una nascita, quasi un addormentamento. È un titolo a suo modo profetico, e comunque indicativo: la fine, la fine di un'utopia, se mai c’era stata. * È un po’ tutta la sfida del cinema quella di non riuscire a mostrare dove na­ sce. Di nuovo la provocazione di Buftuel, proprio a proposito dell’Ata/an/e, lo schermo, ormai, non ha da darci nulla di nuovo se non riprodurre la luce, la luce bianca che permette il cinema. Questo è l'unico salto in più che può fare il cinema. Allora, alla ricerca di questa luce bianca abbiamo visto - cito soprattutto Cronenberg e Lynch - il cinema che invece s é addentrato nel nero della nascita, all’interno delle viscere, del corpo fem­ minile o, a volte, maschile, alla ricerca del momento della generazione, il momento che non si vede, che è dark, scuro, nero. E lì dentro si formano le immagini co­ me si forma qualunque vita. L'impossibilità di capire chi è, al cinema, che dà la vita, che fa nascere. Se la luce o il mondo. Se ci sia prima la luce, il mondo o un suono. E oggi siamo vicini a questo orizzonte millenaristico: il duemila, l'immagine sintetica, la realtà virtuale. Siamo vicini a metterci nella posizione di chi cerca di capire facendolo lui - come si genera un mondo, come si fa nascere un mondo. Buona visione. [25 dicembre 19931

mondo 19. 21, 32.37. 53.62, 67. ’8. 95.104. 116, 142.144. 176. 182. 202. 203

* È un po' tutta la sfida del cinema quella di non riuscire a mo­ strare dove nasce

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Acciaio

È per me di gran lunga più gradevole osservare le stelle, cbe sottoscrivere una sentenza di morte. È per me di gran lunga più gradevole ascoltare le voci deifiori, che bisbigliano ‘è lui!', quando passo per il giardino, cbe vedere ifucili, che uccidono quelli che vogliono uccidere me. Ecco perché non sarò mai e poi mai un uomo di governo! Il rifiuto si chiama questa poesia di Velimir Chlébnikov, un poeta russo morto nei ’22. Un iperfùturista, l’inven­ tore di una lingua poetica che forse non è ancora usa­ ta, che non ha nulla a che vedere - nulla - con lo stali­ nismo, con Stalin, con l'acciaio di questa notte di cui, tra poco, vedrete il primo montaggio. E poi La caduta di Berlino, film supremo, di un certo tipo di immaginario, che ovviamente si fa risalire a Stalin. là dentro c’è, pro­ tagonista, Stalin, o meglio il suo sosia più famoso, Ge­ lovani. Stalin fu uomo dai molti sosia, non solo in pub­ blico e nelle occasioni spettacolari, ma forse anche in occasioni più politiche. Una scelta evidente di politica come rappresentazione, nulla a che vedere con l’avan­ guardia di un Chlébnikov, anche se vi ho letto una del­ le poesie più ideologiche, più dichiarative, più meravi­ gliosamente leggibili. Ma anche un inventore di lin­ guaggi come Chlébnikov - come poi è stato Majakovskij - si trova oggi per noi a concorrere alla costruzione del tempo staliniano. Ne abbiamo parlato quando ab­ biamo trasmesso, in un paio di occasioni, Hitler - Un film dalla Germania di Syberberg, che centra in pieno il discorso del totalitarismo moderno, dei grandi totali­ tarismi come sistemi di rappresentazione e di autorap­ presentazione totale. Sistemi che utilizzano nei con­ fronti del sociale, con una sorta di ingegneria folle questo fino a oggi, fino al Pol Pot dei Khmer rossi, dei massacri in Cambogia - la stessa vertiginosa onnipoten-

145

Vertov 55. 107.133- H3,146. 225

documentario 11. 22, 25, 43. 47. 62. 108, 146,

151,161. 169, 182. 200. 230

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za che le avanguardie storiche (le avanguardie tacciate naturalmente di ‘arte degenerata* da questi regimi di ‘decadenza’) sperimentavano e sperimentano sul piano del linguaggio: quindi l’ebbrezza della manipolazione. Lo vedrete anche stanotte nei momenti di Vertov, con­ trapposti al rito infinito della cerimonia, e della cerimo­ nia funebre, del raggrumarsi della forma nell’immobilità e fissità della scultura. Vertov, di cui vedrete alcuni fram­ menti, è il massimo del movimento, dell’invenzione ri­ voluzionaria.. Ma anche lui dovette sottostare all’ordine staliniano e, in qualche modo, questo vortice di forme era una sorta di equivalente puramente formale - ma un equivalente - di quel vorticoso rimescolio di razze che, per creare l'Unione Sovietica interrazziale, il ‘piccolo padre’ Stalin - terribilmente, orrendamente, a prezzo di massacri o di dolori infiniti - creava negli stessi anni in Unione Sovietica. Ecco, questa è una visione che vi pro­ poniamo al di là del mito stesso di Stalin che, come sa­ pete, morì circa quarantanni fa. E vedrete ora delle im­ magini della sfilata del cinquantenario della Rivoluzio­ ne d’Ottobre, 1967, che abbiamo già proposto in un’in­ tera notte. Di nuovo, qui, ne vedrete alcuni momenti che hanno le stesse linee - anche se sfaldate nell’im­ magine televisiva - del documentario di Gerasimov e di Caureli sulla morte di Stalin, sull’addio al capo. Buona visione. Buona visione di queste forme. Sono sempre forme. Anche il volto di Stalin è una forma che magari sì contorce in un cartoon antinazista americano. E sap­ piamo che Stalin voleva costruire un monumento a se stesso negli Urali, alto cento metri, un grattacielo sicu­ ramente modernissimo. Buona visione. (20 marzo 1993)

Ricordi della casagiada

Nel mare non finiscono, il mare mantiene le correnti, il mare percorso da fiumi che non vediamo.. Abbiamo già dedicato, mesi fa, una notte ai fiumi, alle acque di pri­ mavera. Domani la rivedrete, con alcune notazioni, con acque sempre uguali e sempre diverse, a cura di Sergio Germani. Questo film, che abbiamo voluto dare in pri­ ma visione televisiva, questa sera, si apre su questa ipo­ tesi visiva di fluvialità, che è sempre, se non altro, nel nostro orizzonte di jùori orario, se pensiamo che da quasi cinque anni fuori orario si apre con queste im­ magini del fiume di Jean Vigo, del fiume su cui naviga, per sempre, L’Atalante. Il fiume dentro cui possiamo trovare questo primo atto d’amore in sovrimpressione tra un’immagine e un’altra immagine. Davvero questo atto non originario, ma che rigenera, che genera, di nuovo, per sempre, il cinema. Anche i film di Monteiro sono film in cui molto cinema confluisce.. Monteiro è un poeta, è un autore appartato, singolarissimo, è il pro­ tagonista di questo film. Mette in gioco il proprio corpo, il proprio nome, la propria esibita - e costruita - spor­ cizia, trasandatezza rosselliniana di personaggio. È una specie di San Francesco inutile, di idiota vagante che fa pensare a film che sono venuti, pochissimi anni dopo, in questa linea. Penso soprattutto a Manhattan by Num­ bers di Amir Naderi, di cui abbiamo parlato quest’anno a Venezia, e di cui avete visto alcune immagini e, anco­ ra di più, a Diario di un vizio di Marco Peneri, dove il vizio del cinema si attacca a questo vivere che non è neanche un vizio. Oppure penso a molti momenti, so­ prattutto l’episodio iniziale, del Caro diario di Nanni Moretti.. Questo film lRecorda$òes da casa amarela, ndr] è dopala parola, dopo questa voce fuori campo che è la voce, è la musicalità portoghese, importantissima nel film. Prima le parole, quindi, ma subito dopo la mu­ sica. Si apre dove finisce Barry Lyndon, un film che sembrerebbe, all’opposto, un film squadrato, spietato dove a scorrere è solo un tempo implacabile delia sto­ ria. E invece, qui, il Trio - Opera 100 di Schubert, uno degli accordi più malinconici e più irriconciliati e irriconciliabili della storia della musica, apre un film che, per quanto risulti a momenti comico, per quanto riduca

Vigo

14, HI. 147.153.240 Atalante 14.143.147. 152, 153.155.158

amore 70.9«. 143.147.154. 190, 195. 221. 229, 240

Moretti 9H. 100. 147. 169.203

147

Rossellini 18, 25. 28. 31. 32.60.138.148.

158.160.162.166. 222.230

sempre la carica tragica con una sorta di adesione-rap­ porto con i muri, con le luci di una città - e in questo il film fa pensare a un altro premio speciale di Venezia, la Morte di un matematico napoletano di Martone - no­ nostante questi effetti, che limitano con autoironia la pesantezza della situazione, è una specie di assolo - so­ stanzialmente per un unico strumento - per questo uo­ mo-orchestra che, in qualche modo, riassume anche un secolo, un secolo di Rumi di cinema, dall’immagine di Nosferatu a Rossellini. Questo è, miracolosamente, un film che si svolge come un fiume, ed è perfettamente vi­ sivo, perfettamente ‘cinema’ in ogni momento. • E poi, invece, si insegue, ha questo scarto, insegue la sua for­ ma, non può assolutamente raggiungerla perché la pro­ pria forma è, giustamente, solo un’ombra. Parlavo di trasandatezza rosselliniana che è raffigurata in pieno nel personaggio, nel corpo, nel deliquio-soliloquio delle parole. Ma il film è, invece, perfettamente formato. Pen­ siamo a un film che abbiamo dato, a Raitre, almeno due o tre volte, qualche anno fa, Silvestre, un film lontanis­ simo da questo, un film quasi mitico, medievale, la sto­ ria del Portogallo. Un film inventato tra corpi veri e fon­ dali palesemente irreali, molto vicino, secondo alcuni, a Perceval legallois di Rohmer. Questo per dire come sia­ mo di fronte, comunque, a un cinema bilanciato, fin troppo bilanciato, da una qualità fìlmica altissima, che poi però si abbandona, si lascia andare lungo il tempo. Sa che il tempo del cinema, come quello della televi­ sione, che stiamo vivendo, state vivendo insieme con noi in questo momento, è più forte della volontà di for­ mare o di informare, o della volontà di padroneggiare questo scorrere del tempo. Ecco, quindi, un film che, sapendo di non raggiungersi, pur riuscendo perfetta­ mente, è anche un film pieno di disincanto verso il mondo e verso il cinema che sa di non poter essere ri­ conosciuto. In fondo, chi conosce Monteiro? Chi di voi mi dirà: ‘Sì, Joao César Monteiro. Mi ricordo. Ho visto un altro film. Certo, è quello che ha fatto O'ultimo mergulbo, L'ultimo tuffo, due anni fa, sempre a Venezia? Buona visione e, domani, altri fiumi, altre acque. [19 marzo 1994) * E poi, invece, si insegue, ha questo scarto, insegue la sua for­

ma, non può assolutamente raggiungerla perché la propria for­ ma è, giustamente, solo un'ombra

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Notte Senza Fine

Volevamo far seguire 2001:Odissea nello spazio -anche se è andato da pochissimi giorni in onda, proprio su Raitre, nella notte - volevamo far seguire il film di Ku­ brick all’/H/britas di Marlen Chuziev, un film presenta­ to due anni fa al Festival di Berlino. Un film che, se­ condo me, è straordinario, lungo. Sembra non finire perché il modo in cui non si attarda, ma prende il suo tempo su ognuna delle scene, fa pensare a un film in sé. Ogni scena non potrebbe, non dovrebbe interrom­ persi, e interrotta ci sembra una violenza - non una li­ berazione - una violenza più che una liberazione, o una violenza perché è violenta come tutte le liberazioni, an­ che le più soavi, anche le più ben intenzionate. Infìnitas, un film riassuntivo di un cineasta apprezzato all'in­ terno del cinema sovietico. Ha fatto molto pochi film tra i quali Ho vent’anni, Postfazione- film che nel tito­ lo già portano molto forte la presenza del tempo. Ho vent anni, Postfazione, questo ‘post’ questa idea di ‘do­ po’, che è poi del cinema: * il cinema come postfazione automatica del mondo, generata dal mondo stesso. Co­ me scrittore e autore, all’interno di questa generazione automatica del dopo di sé da parte del mondo (il cine­ ma), Chuziev produce con Infìnitas una sorta di difesa del tempo. Il tempo che comunque vince sul cinema, ma che viene continuamente offeso, spezzettato, torto dal cinema. Qui proprio il tempo è il forte di questo film, il tempo in sé. Esattamente come lo spazio in sé di­ venta il tempo nel film di Kubrick, e esattamente come il percorso nello spazio è il tempo in Nostalgbia di Tarkovskij, che invece vedrete per echi, anche più im­ mediati, dopo Infìnitas, stanotte. Ecco, fra Infìnitas e Nostalgbia c’è comunque questa vicinanza dell’acqua, di cui abbiamo parlato tanto, troppe volte in fuori ora­ rio, almeno quanto del deserto. Il deserto e l’acqua: questi due set, queste due immagini del cinema, imma­ gini ulteriori del cinema. Perché il fiume, il fiume infini­ to che si allarga alla fine di Infìnitas, è più impressio­ nante, più improvviso — nonostante la lentezza e dentro questa lentezza - del finale di Aguirre. Bellissimo, in Herzog, questo pelo d’acqua che potrebbe sembrare infinito, questo scorrere sull’acqua sempre uguale, sem-

Kubrick

102.104, 149. 166. 177. 178. 222

tempo 23. 25.26. 30, 45.57.66, 119. 124. 126. 131, 149, 195, 221.

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Herzog