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Italian Pages 558 Year 1973
Galvano della Volpe
Opere a cura di Ignazio Ambrogio 6
Editori Riuniti
1 edizione: dicembre 1973
© Copyright by Editori Riuniti, Viale Regina Margherita, 290 . 00198 Roma
Si
ringraziano le edizioni Feltrinelli per aver consentito la pubblicazione della Critica del gusto. Copertina di Tito Scalbi CL 63-0578-4
Indice
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Critica del gusto Prefazione, p. 11. - Avviso al lettore della seconda edizione, p. 13. Avviso al lettore della terza edizione, p. 13. - I. C:;:J..tic_~_ della ~dmtnagi_rl!U,_f>Qetica, p. 15. - § 1, p. 15. - § 2, p. 18. - § 3, p. 22. § 4, p. 23. - § 5, p. 23. - § 6, p. 37. - § 7, p. 44. - § 8, p. 53. - § 9, p. 64. - § 10, p. 73. - II. La chiave semantica della poesia, p. 79. - § 11, ,p. 79. - § 12, p. 81. - § 13, p. 89. § 14, p. 98. - § 15, p. 117. - § 16, p. 123. - III. Laocoonte 1960, p. 138. - § 17, p. 138. - § 18, p. 160. - § 19, p. 164. § 20, p. 172. - § 21, p. 177. - § 22, p. 179: - Appendice prima. Engels, Lenin e la poetica del realismo socialista, p. 183. - Appendice seconda. Sul concetto di « avanguardia » 1 p. 187. - Appendice terza. La questi9ne cruciale dell'architettura odierna, p. 189. Appendice quarta. Linguaggi artistici e società, p. 192 (§ 1, p. 192. § 2, p. 193. § 3, p. 196). - Appendice quinta. Linguistica e critica letteraria, p. 199 (§ 1, p. 199. § 2, p. 203. § 3, p. 205). Note, p. 211.
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Sulla dialettica § 1, p. 267. -
281
§ 3, p. 277.
Chiave della dialettica storica § 1, p. 283. -
301
§ 2, p. 272. -
§ 2, p. 291. -
§ 3, p. 300.
Critica dell'ideologia contemporanea Prefazione, p. 303. - Parte prima. Logica, p. 305. - 1. Chiave della dialettica storica, p. 307 (§ 1, p. 307. § 2, p. 315. § 3,
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p. 329). - 2. Dialectica in nuce, p. 332. - 3. Per la critica della sociologia borghese, p. 338 (§ 1, p. 338. § 2, p. 339. § 3, p. 342). 4. Critica di un paradosso tardoromantico, p. 345. - 5. Moralismo e utopismo di Marcuse, p. 350. - Parte seconda. Politica, p. 357. 6. II convitato impossibile ovvero i « diritti dell'uomo » malthusiano, p. 359. - 7. René e la democrazia, p. 363. - 8. And-_Kelseµ,. p. 366. - 9. I negri d'America e le due democrazie, p. 373. 10. Per una democrazia postborghese (un'ipotesi per l'azione nel presente), p. 377. - Parte terza. Estetica, p. 379. - 11. I ragiona~ menti della poesia, p. 381. - 12. I conti coi formalisti russi, p. 384. - 13. I conti con la poetica « strutturale», p. 398.
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Giornale filosofico Il caso Lévi~Strauss ovvero la grande vacanza che continua, p. 411. La «. Comm_uge » d~l '71 vista da un (?Steta, p. 413. - Hugo e i
due angeli, p. 415. Contro l'eclettismo contemporaneo, p. 417. Heidegger e Tolstoj, p. 419. - L'« oratorio» di Peter Weiss per il genocidio hitleriano, p. 421. - Una frase recuperata di Ippolito Taine, p. 425. - Marxismo contro strutturalismo, p. 426. - Una difficoltà per il compagno Althusser, p. 430. - Consigli a un critico («strutturalista)>) di Montale, p. 432. - Una rivalsa estetica: « Strapatole >> di Zavattini, p. 434. - L'ottobre sovietico e la filosofia politica, p. 437. La questione negro-statunitense riconsideràta, p. 438. - Bric-à-brac teatrale, p. 440. - Quasi una fantasia storica, p. 442. - « Mass culture », « Kitsch » e critica del « Kitsch », p. 444. - Kafka '60, p. 447. - Un poeta scopre il misticismo di Hegel, p. 449. - Autocritica «teorica»?, p. 451. - Crisi ceca e teoria politica, p. 452. - Calderén tradito: ovvero di un invito alle sviste 1 p. 455.
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Note
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Appendice biobibliografica Notizia biografica, p. 519. Violi), p. 521.
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Indice alfabetico generale
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Indice dei nomi
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Indice bibliografico (a cura di Carlo
Opere 6
Critica del f!_usto
Prefazione
Nel pres~nte vdlume si è tentata l'esposizione sistematica di una estetica materialistico-storica e quindi una lettura sociologica metodrca della poesia e dell'arte in genere. Il che presuppone soprattutto una critica radica,le della concezione estetica romantica e idealistica; anche se non solo di essa. E implica una indagine intesa a restituirci l'opera d'arte nella sua integrità: ossia tanto nei suoi aspetti gnoseologici piu generali, per cui essa si ricollega essenzialmente alle altre istanze umane fondamentali, sc'entifiche e morali, che nei suoi aspetti gnoseologici speciali e tecnici (donde il problema della dimensione semantica particolare dell'arte), E tutto questo, diciamolo subito, mediante una continua messa-a-punto sperimentale - critico-artistica e quindi critico-storica - delle tesi teoriche e ipotesi metodologiche da dimostrare. In modo da impegnarsi anche da parte di chi scrive alla riparazione di quella « trascuranza » del « bto forma'1e », o diciamo logico e gnoseologico, del!'« origine» delle « rappresentazioni ideologiche» (qui: le artistiéhe) dai« fonJamentali fatti economici» e sociali (o « lato del contenuto »), che fu confessata da Engels in nome anche di Marx (« wir alle ... ») nella sua autocritica a Mehring del luglio 1893 (inclusa nel motto remesso a uesto volume). Riparazione, si sa, variamente Ìnìziata _e_ in_gmsa quasi sempre ~scoE_tiE~dai E.le-, chanov, ~~i e Lukacs. Cosi, ad esempio, l'indagine dell'aspet• t~antico (linguistico) della poesia (e dell'arte in genere) è uno dei motivi prindpaU della presente ric,,rca sistematica, proprio perché essa è finora mancata nell'estetica materialistica: ossia se ne è sentita indirettamente la necessità da parte di Marx ed Engels quando hanno avvertito, nell'Ideologia tedesca, che « la lingua è ;}(. la realtà immediata del pensiero » in genere (col sottinteso ricor11
so, da parte .loro, alla linguistica romantica a,Hora indiscussa), e ne ha ,sentito implicitamente la necessità il, Gratmci difensore della « grammatica normativa » contro il linguista idealista B~ni: ma niente di piu. E però non il caso o una personale inclinazione di chi scrive per le faticose sottigliezze deH' « algebra » linguistica di Hjelms:lev, bensi l'esser questa - la glossematica o linguistica strutturalistica deNa scuola di Copenhagen lo sviluppo piu coerente e completo della moderna linguistica scientifica (saussuriana) e quindi fa teoria linguistica piu generale, lo ha indotto a utilizzarla in ,prevalenza (e neHa sua sostanza) per assicurare le basi semantiche della poesia o letteratura e quindi procedere ad un abbozzo di semeiotica estetica generale. ( 1 ) Questo tentativo, diciamolo pure, di una emendatio materialistica, razionalistica, del gusto tradizionale (borghese), tardo-romantico e estetistico e decadente - e quindi di una difesa del realismo della poesia - appare in un momento in cui, da una parte, si assiste aHa condanna passionale - pronunciata da un noto romanziere borghese ( 2 ) - del realismo cattolico di un Manzoni«di -< cui ad es. si i,ottolinea con unilaterale e astratto compiacimento - nel suo famoso passo sul pr.imo incontro di Egidio e la monaca di Monza - la seguente caratterizzazione del contegno del seduttore, che sarebbe mera rappresentazione di « sadismo » e « lussuria profanatoria »: « [ ... ] allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso»: e ,si sorvola nientemeno « 1a sventurata » in « la sventurata rispose», culmine poetico di tutto il passo come ad un tempo (') culmine di giudizio etico-religioso, cattolico), condanna ispirata dal • desiderio di confutare la « moderna richiesta » di una « poesia di propaganda » e quindi rifiutare soprattutto H realismo artistico socialista; e dall'altra •parte si assiste a una difesa non meno passionale - ad opera di ,critici marxisti non solo nostrani - di una poetica del realismo sociale cosiffatta che contesta che il ricono- ;t. scimento engelsiano della poesia realistica dei romanzi del ~eazionario Balzac e uello leninista della verità sociale_pgr.tka d~LLOJ:!)_gf!Zi d!'l.P_opulista-mistico Tolstoj ,siano qrnì cosa di piri di partiwlari esatti giudizi « storici » e cioè delle osservazioni particolari tanto proforrde da essere suscettibili di generalizzazione (estetica); suggerendosi con ciò la pericolosa conclusione restrittiva che solo con idee « giuste », progressiste, si faccia poesia realistka. Ora, che tale conclusione non •solo agevoli involontariamente il gluoco degli esteti borghes.i, di cui sopra, ma che contraddica intimamente la 12
stessa possibilità di costituzione di una rigorosa poetica del rea lismo socialista vero e proprio, per Ia quale oggi i democratici debbono combattere, questo, dimostrare questo, è non ultimo compito della presente ricerca sistematica. E già solo l'interesse polemico in proposito ch'essa potrà so:1levare varrà la fatica ch'è costata, al• meno quella dell'autore, se non proprio quella del lettore che qui si ringrazia sinceramente. Messina, Università, nel giugno 1960.
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Avviso al lettore della seconda edizione L'autore avverte che quest'opera non può esser giudicata veramente che nella presente seconda edizione corretta e accresciuta, definitiva, Basti rilevare che è stata perfezionata la strumentazione linguistica della poetica e quella semantica in genere di tutta la teoria. E che non c'è quasi pagina senza qualche ritocco. Messina, Università, 15 giugno 1963.
Avviso al lettore della terza edizione A parte l'aggiunta di una quinta appendice, su Linguistica e critica letteraria, questa edizione si avvantaggia sulla precedente per miglioramenti formali e, in particolare, nelle pagine dedicate alla strumentazione linguistica della poetica, si distingue per una ulteriore precisazione del « polisenso » come categoria estetica nei confronti del «polisenso» (o « polisemo ») come categoria lessicale. (Sempre aiutandoci il proto, s'intende.) Roma, 18 ma:rzo 1966.
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I. Critica della « immagine » poetica
1. L'ositacolo piu grave ohe l'estetica e la critica letteraria (per limitarci, al momento, a quest'ultima) trovano ancora oggi sulla loro strada è il termine « immagine » o « immaginazione » (poetica) tuttora carico dell'eredità romantica e del misticismo estetico che le è proprio, per cui, anche essendo 1a « immagine » poetica intesa come simbolo o veicolo di verità ( 1 }, si sottintende che ciò non è dovuto affatto alla compresenza organica o comunque efficiente dell'intelletto o discorso o di idee ("'lC restano il grande nemico delfa poesia): e tuttavia si insiste suhla «veracità» della « immagine », quindi sulla sua cosmicità o universalità e valore conoscitivo («intuitivo» si dice). Una impasse connaturata alla sostanza della poesia stessa, fatale, insormontabile, si direbbe (e si dice): se non si trattas,se di una antinomia storica connaturata al pensiero estetico tradizionale, romantico, spiritualistico (cristiano-borghese), per definizione: e quindi superabile col superamento di quest'ultimo nel suo insieme e nelle sue radici. Sta di fatto che oggi siamo ancora, nella sostanza, nei criteri filosofici, al punto in cui ,si trovavano ad es., in Inghilterra, un George Moore o un Yeats, quando il primo proclamava « le idee [ ...] peste e parassiti dell'opera d'arte» e i1 secondo rifiutava il simbolismo ibseniano perché troppo chiaro e inte1lettuale: se anche oggi - per ·restare nel campo delh cri tica anglosassone critici come Cleante Brooks e Roberto Penn W arren, cui si debbono proprio alcune analisi non superficiali della struttura intellettuale di tante poesie moderne, possono premettere questo avvertimento metodico-filosofico alla analisi della •struttura della Waste land eliotiana: che « la seguente discussione è da considerarsi come un mezzo per un fine: l'apprendimento immaginativo del poema stes15
so ». Siamo ancora a Coleridge e alla sua miracolosa « immaginazione» (d'origine romantico-germanica). L'estetica tedesca attuaie, da parte sua, ci ripete per bocca del compianto Nicolai Hartmann, la lezione « autonomistica » astratta o estetistico-kantiana nella formula dello « specifico » del piacere artistico come « un comportamento contemplativo». E, in quanto all'estetica «marxista», a tacer d'•altro, che dire di un Lukacs per il quale « l'arte fa intuire sensibilmente » ciò che la scienza risolve in « elementi astratti » e « definizioni concettuali » e che, tuttavia, pretende di salvare ancora la istanza della « tipicità» (idest: intellettualità) del fantasma artistico? Cominciàmo a vedere le prime smentite che l'esperienza artistica (letteraria), considerata senza dogmatismi o metafisicherie ma con attenzione gnoseologico"scientifica, infligge al misticismo estetico. Diciamo prime smentite, perché l'analisi seguente è ancora provvisoria, parzirnle, limitandosi semplicemente al criterio della portata immediata, ai fini del gusto, della significanza. razionaie implicata dalle « immagini » ,poetiche addotte - e accontentandosi ,anche del materiale esiguo di ,poche linee o frammenti di poesia. E ,si badi che questo primo criterio scelto - de.Ila immediata portata - per il gusto - dei significati concettuali implicati dalle « immagini » in questione - non è affatto arbitrario, dappoiché si fonda sul primo carattere permanente, reaile, obiettivo, posseduto dalle « immagini »: cioè eh' esse sono inseparabili da quei loro veicoli che sono insieme - in quanto strumenti semantici - veicoli· di concetti: le parole; ed è pur la questione della veracità poetica e della natura di tale veracità (se extra-intellettuale o no) che sommamente ci interessa qui. Dunque, quando Dante ci dice nella grande canzone dell'esilio che « di fonte nasce il Nilo picciol fiume / quivi dove 'l gran lume / toglie a la terra del vinco la fronda », c'è da chiedersi come possiamo percepire e valutare la bellezza dell'ultima immagine (in cui culmine.no le precedenti) ,se dobbiamo assumerla salo come «immagine» e cioè senza anche {a tacer d'altro) il contemporaneo concetto esplicativo dell'ombra quasi annulfota daJ:la ,perpendicolarità dei raggi Boiari? Appena ci abbandoni questa povera nozione empirica (la « piu ,probabile», ci dice la oritica) non ci resta che un gratuito nonsenso che è ad un tempo un'immagine sfocata: e cioè da un rigoroso punto di vista tanto gnoseologico che estetico: un niente: non immagine-concetto e dunque nemmeno immagine o intuizione che si dica. 16
Altro che rapporto dr un che di strumentale provvisorio (spie-. gazione) a un fine (immagine)! La cos,a interessante qui è che ,la compresenza del concetto o significato intellettuale all'immagine si manifesta con la massima mgenza problematica nel caso della « immagine » piu bella o schiettamente bella in cui culminàno tutte le precedenti, le quali sono anch'esse (occorre dirlo?) immagini-concetti in quanto parole di un lessico. Bisogna cominciare ad ammettere che piu è significativa o pregna di sensi e piu la immagine è icastica ossia è immagine? E che ciò sia di gran momento per la sua veracrtà nel senso che la veneranda equazione bellezza = verità abbia una ragione gnoseologica ,scientifica, complessa, e non certo estetistica e metafisica? Pariment,,, proseguendo, non è difficile vedere per quanta parte H patetico,poetico dei versi petrarcheschi « Consumando mi vo di piaggia in piaggia / el di pensoso, poi piango la notte / né stato ò mai se non quanto la luna » (canz. CCXXXVII) dipenda deill.'inseparabi/ità •logica (gnoseologica) dr quella bane>lissima nozione astronomica (la Iuna muta sempre di stato) dal1a immagine-similitudine (dell'inquieto amante) che ,su di essa poggia. Ancora: non a caso ,!'accenno piu lirico o,« il solo veramente lirico » (Cont;ni) della dantesca sestina doppia 45 (CII) è dei versi: « [ ...] questa gentil petra / mi vedrà coricare in poca petra, / ,per non ,levarmi se non dopo il tempo / quando vedrò se mai fu bella donna / nel mondo come questa acerba donna»: ché, trattandosi di un momento di poesia escatologica, abbiamo, qui, un concetto teolo3ic0 (quello del giudizio universale alla fine dei tempi) la cui comp:,esenza alle immagini è tanto organica e inseparabile da esse che ritrovbmo in queste la loro alta evidenza patetica solo tramite ìa ardita figura dell'eterno {uso traslato dei termini temporali: dopo, quando, riferiti al tempo medesimo) fondata su tale concetto (teologico) ( 1 ) • E ancora: cercate di gustare quello ch'è, forse, il piu bel verso di Mallarmé: « Gloire du long désir, Idées » (Prose pour des Esseintes): e vedete di riuscirvi trascurando il preciso (seppur ingenuo) senso platonico delle immagini: cioè il concetto deJ:le idee come entità-tipi trascendend e metempi,riche e oggetto dell'eros etc.: cosi facendo perderete le «immagini» del « lungo desiderio» e della relativt «gloria» (1'utto il 1oro «incanto» poetico!): e le perderete come immagini avendo perduto il loro motivo, il loro senso, ch'è radicato nel concetto platonico di cui sopra: il che vuol dire, ,sappiamo. ch'esse «immagini» poetiche sono immagini-con17
cetti. Non sono solo questo (vedremo a suo tempo l'altra loro caratteristica, quella semantica specifica): ma intanto sono già questo: un fatto gnoseologico normale (vorremmo dire): un complesso intuitivo-logico, un concetto concreto. Cosi, se voi trascurate il significato ateo di quello « apparir del vero» etcetera in A Silvia, per cui « Silvia si mostra pura di ogni elemento soprannaturale o spirituale » e « non ci è piu cielo, non ci è piu redenzione », non avendo « Silvi3 [ ... ] niente di comune [ ...] con Beatrice e Margherita» (De Sanctis), voi perderete ad un tempo la patetica conclusione del sublime ( 1 ) idillio leopardiano.
2. Questo primo rapidissimo esame di un materiale artistico (letterario, poetico), fatto al Jume del criterio della immediata portata estetica dei significati o concetti oggettivamente (cioè tramite la parola) implicati dalle « immagini » poetiche, ci permette, con le smentite del misticismo estetico che ne risultano, di fissare alcuni elementi basilari di gnoseologia dell'arte. Diciamo subito che non ,può avere akun ·senso, che non sia mistico e quindi del peggim dogmatismo, il par!BJre ,ancora (persino da parte di marxisti) di una conoscenza artistica per « immagini » o « intuizioni » soltanto e non insieme organic&mente per concettr. In effetti, che cosa ci fa conoscere - e cioè percepire un che di valido per lo universo - se non fo capacità di sormontare J'equivoco o caotico della immediatezza o materia bruta per se stessa informe e inesprimibile? se non insomma fa instaurazione dell'ordine o unità ch'è dello universale o concetto (donde la verità ch'è universalità) e attributo proprio del rationale? Ora, assumete, nell'astrazione gnoseologica, le immagini o intuizioni in se stesse e per se stesse, come dati presentativi spogli di qualsiasi riferimento concettuale, e constaterete, certo, ch'esse hanno una loro positività, un loro essere inabolibiìe (lo constaterete ad es. nel « gran lume » etcetera del primo testo succitato, se fissato in sé nel suo aspetto meramente sensibile, esthetico, qui visuale): ma constaterete anche che la aggiunta inevitabile (sappiamo) del significato o concetto loro tramite i comuni denominatori lessicali ( e grammaticali) di « grande », « lume », « solare » etcetera non solo non nega il loro essere (sensuale o materiale) di immagini ma lo esplica e promuove: ché le immagini raggiungono fa evidenza ch'è loro propria, la icasticità, nel momento stesso e solo nel momento in cui si fanno co,
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muni nt:lle e per le (adeguate) parole corrispondenti: ossia nel loro esprimersi che è, innanzi tutto, il loro comunicarsi: come 1a esperienza conoscitiva volgare e quella poetica ci attestano ad ogni momento, attestando con ciò anche la loro identità (fino a questo punto). Il che comporta, infine, 1. che, prive di ogni senso unitario idest intellettuale (fa « sublime insignificanza » che sarebbe la poesia secondo lo estetismo mistico), le immagini sono, si, un qualcosa di caotic0 e bruto e quindi di pre-conoscitivo essendo, appunto, un che di ~legato incoerente e meramente discreto o molteplice; 2. che, però, in tal caso esse non sono neanche se stesse nella loro positività di immagini o sensibile o «lirico» etc.: e che insomma questo loro essere precedente (in astratto) la loro concettualizzazione o unificazione è solo un essere (per cosi dire) potenziale in confronto del lo~o essere sensibile o materiale esplicantesi in sintesi col rationale, i! cui essere, a sua voha, è, se si astrae dalla sintesi, un che di potenziale o essere pre-conosdtivo, pre-gnose0logico anch'esso, è la istanza unitaria a vuoto o possibilità pt.èra-astratta o categorialità che non categorizza. È questa la dialettica (di eterogenei) di materia-ragione quale si mostra - con singolare chiarezza - nel mondo dell'arte (nel mondo poetico, nella fattispecie), per quanto suoni paradossale. Prendiamo ora ad esempio la famosa tesi vichiana dei « caratteri poetici» degli Achille, Ulisse, Oreste etcetera, come « ritratti » fatti nor, « con l'a.strazion per generi» ma « con la fantasia» onde sarebbero « universali fantastici ». Sta di fatto che quando Vico è portato a dire che quei caratteri poetici sono « certi universali fantastici dettati naturalmente da quell'innata propietà della mente umana di dilettarsi dello uniforme », e che è della mente « con la fantasia ingrandire i particolari » e « ridurre » cosi « ad Achille tutti i fatti d~' forti combattitori, ad Ulisse tutti i consigli de' saggi » etc., Vico è costretto a contraddirsi nelle sue stesse piu acute parole, perché è contraddittorio e assurdo riconoscere l'esigenza umana della uniformità o unità o razionalità, e quindi della generalizzazione o « ingrandimento » dei particolari, e assegnarne il soddisfacimento specificamente non alle categorie e derivanti processi di astrazione per generi, non alla ragione insomma, beusi alla « fantasia » o sensibile, sinonimo della particolarità stessa o del molteplice (come se questo potesse «ingrandirsi» da sé!). Nel vero o piu vicino al vero è qui l'avversario diretto del Vico, il Castelvetro, allorché, attraverso sia pure il suo semplicismo di scolastici schemi di generi e di specie, ci rende avvertiti che la univer-
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salità e quindi la poeticità di Oreste, Medea e Ulisse deve pure far capo in qualche modo a quel complesso di qualità astratte (o aristotelici anonimi poioi) ch'è la «spetie» uomo, in cui quelli sono compresi; onde non si può non concludete che la poeticità di Oreste, Medea, Ulisse, Achille e innumeri altri personaggi tragici e epici (e lirici) deve pur consistere, intanto, in quella loro universalità che altro non è che 1a possibilità e necessità inerente a tipi o generi risultanti da sintesi esthetiche idest empiriche condotte secondo i criteri della astrazione categoriale ossia della astrattezza originaria propria dei generi piu generali che sono Je categorie, i predicati o punti di vista supremi delle cose (la qualità, ad es., con tutto ciò ch'·essa implica o coimplica). O, in altri termini, siamo, intanto, avviati a concludere che i « caratteri poetici », e con essi ogni altro poetico fantasma, lungi dall'essere quegli ircocervi che sono gli unh,ersali fantastici, come vorrebbero il Vico e gli odierni vichiani, sono universali dianoetici o discorsivi, ossia dei fatti gnoseologici normali, ,·isultando essi, come ogni altro universale o concetto (in concreto), da una astrazion per generi fondata contemporaneamente sulla categorialità delle cose e sulla materialità o empiricità o estheticità delle stesse. Ma, ciò posto, siamo né piu né meno costretti a cangiare il criterio tradizionale-moderno della stessa «forma» artistica e quindi del« contenuto» artistico: a identificare, intanto, la prima col pensiero o concetto, invece che con astratte, mistiche « immagini » (quando non addirittura con immaginisuoni!) ossia immagini insignificanti e quindi, sappiamo, incomunicabili e inespressive, e infine: informi; e a identificare il secondo con la materia o molteplice (le immagini). Un rovesciamento della problematica dell'arte ereditata dalla Romantik. Se non fosse cosi e se non si riconoscesse ch'è cosi, dovremmo ammettere che non ha veramente alcun senso parlare di «forma» a proposito della poesia e dell'arte in genere: dove non c'è eidos o dianoia o idea o concetto (giudizio) che si dica non c'è forma degna del nome, ma solo il caos, lo informe della materia o molteplice: e parlare di « forma » a proposito di « universali fantastici » o di « immagini » ( o « intuizioni ») « cosmiche » (le « pictures of integrai thoughts » di shelleyana memoria) et similia - nella misticheggiante accezione vichiano-romantica e postromantica e decadentistica - è, sappiamo già, un controsenso: è come affermare che il particolare o materia si ingrandisce o generalizza o formalizza da sé. Dovremo, allora, concludere che c'è un « discorso poetico »
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come c'è un discorso storico e scientifico etc.: e che il termine « discorso » è da prendersi in senso letterale rigoroso - di procedimento razionale-intellettuale - anche nel caso della poesia: in tutti i casi. Dovremo ammettere, in altri e piu precisi termini, che la poesia, e l'arte in genere, è ragione (concreta) come la storia o la scienza e che in questo non differisce affatto dalla storia e scienza in genere: non differisce, cioè., negli elementi conoscitivi, gnoseologici, generali, sensibilità (fantasia o che altro) e ragione, che sono in comune. Dovremo convincerci che se ha un senso (come indubbiamente l'ha) il parlare della sensibilità o immaginazione di uno storico o scienziato lo ha altresi per converso e non meno il parlare della razionalità o discorsività della poesia: ché l'istanza della « coerenza » quale fattore fondamentalissimo dell'opera poetica come tale, questa istanza su cui tutti si è d'accordo, resta inspiegabile se si intenda la coerenza come coerenza « fantastica », cioè istituita dalla fantasia o immaginazione invece che nella fantasia; non dandosi coerenza ossh unità (e quindi universalità) se non per la e nella ragione: se' non col rationale, onde, sappiamo, il molteplice o discreto puro, ch'·è la fantasia o immaginazione per se stessa, acquista un significato che rende espressive, o parlanti come si dice (ma in senso letterale non meno che traslato!), le immagini: acquista appunto categoricità, unità. Non meno di ciò che accade alle immagini, al molteplice, che ricevono significato, ossia unità, nella storia, nella scienza. E se non fosse cosi, ripetiamolo, non sarebbe davvero lecito parlare di forma e di valori formali etc. della poesia e dell'arte in genere. Dunque, il poeta per esser poeta, e cioè per dar forma alle sue immagini (sia pure in quel certo suo modo, che vedremo poi), deve pensare e ragionare, nel senso letterale dei termini, e quindi fare i conti con la verità e la realtà delle cose (il « verosimile » come elemento artistico essenziale scoperto d~ Aristotele) non meno, certo, dello sto~ico e dello scienziato in genere. E fare i conti - come poeta - con le ideologie e gli avvenimenti e l'esperienza insomma (anche« storica») pur quando, nell'intenzione sua, astragga da - o rifiuti - le prime e i secondi, alla maniera di un Ariosto o di un Cervantes. Ed è la complessa dialettica (reale) dell'opera poetica come tale che dobbiamo ora affrontare: il che è inevitabile conseguenza dell'esser- essa opera poetica - un discorso non meno di quel che lo sia il discorso storico o scientifico in genere. 21
3. È in altri termini, la natura sociologica dell'opera poetica che dobbiamo constatare: e s'intende il perché: solo .se i significati e le articolazioni intellettuali (del reale, piu o meno storico: di che altrimenti?) sono costitutivi dell'opera poetica come tale, ·ne consegue allora veramente la possibilità di una fondazione sociologica (materialistica) dei valori poetici e vien riconosciuto come mitico e illusorio quel platonico cielo o spazio metempirico e metastorico (lo hegeliano regno dell'ideale o dei Geister o « ombre » e « spirituali figure ») in cui i valori poetici sono stati ipostatizzati almeno dalla Romantik in poi. Onde l'accertamento progressivo, che faremo, dei significati o valori strutturali di opere poetiche (ma struttura, o ordine organizzativo e compositivo, non è sinonimo per sé di intellettualità?) ,risulterà al contempo un accertamento della condizionalità empirica, storica, sociale delle stesse opere poetiche (ci sono, ripetiamo, significati o concetti non rapportabili direttamente o indirettamente all'esperienza, del re~le, e alla storia insomma?): e del resto, se il carattere e valore sot'ologico dell'opera poetica non fosse richiesto o meglio implicato dalla stessa sostanza (strutturale, intellettuale) dell'opera poetica, come dimostrare la piena umanità dell'opera poetica stessa, nel senso uno e duplice dell'umano impegno totale di quell'individuoartista in quanto essere pensante e morale oltre che senziente e immaginativo e del suo impegno come reale individuo tuttavia, storicamente collocato e quindi partecipe di una società e civiltà? Se cosi non fosse, veramente una estetica realistico-materialistica non sarebbe niente di piu che un generoso sogno. Niente di nieno che Goethe, per un verso, e Marx, per l'altro, hanno avviato questa problematica quando il primo ha avvertito che « la piu alta liricità è decisamente storica » e che se si tenta ad esempio di « staccare gli elementi mitologico-storici dalle Odi di Pindaro » si troverà che cosi « si è recisa affatto la foro intima vita», e il secondo, dopo aver premesso che ad es. « l'arte greca presuppone la mitologia greca », e « cioè la natura e le forme sociali stesse già elaborate dalla fantasia popolare», ha poi concluso che « la difficoltà [per il materialista] non sta nel capire che l'arte [figurativa] e l'epos dei greci sono legati a certe forme di sviluppo sociale», bensi la difficoltà (maggiore) sta nel fatto che « esse ci procurano ancora un piacere artistico e sotto un certo rispetto valgono come norma e modello inarrivabili ». Dove, da parte di Marx, è intuita l'estrema complessità del problema estetico quando Io si ponga rigorosamente in termini materialistici e non piu in termini posi22
tivistici (constatate che siano crltlcamente le carenze dell'impostazione romantica e idealistica): e cioè che il legame storico, sociale, dell'opera d'arte non può condizionarla meccanicamente o dal!' esterno ma deve far parte in qualche modo del piacere sui generis ch'essa - e non altra cosa - ci procura, e quindi far parte della sostanza stessa dell'opera d'arte come tale: della sua sostanza strutturale, intellettuale, appunto; onde nel suo nucleo razionale-concreto, solo tramite in essa presumibile, si è visto, delle articolazioni del reale, nel suo insieme di ideologie e fatti e istituzioni d'ogni genere, si riduca proprio quella sorta di sedimento vitale, lo humus storico, la cui presenza organica nell'opera d'arte ha da essere dimostrata dal materialista, propriamente.
4. Procediamo, ora, ad una mpida lettura sociologica della Antigone sofoclea, ossia ad una prima esemplificazione di quell'accertamento del condizionamento sociale, storico, dell'opera poetica, di cui sopra: con l'avvertenza che l'accertamento dei valori strutturali di ogni poesia, che strettamente dipende da quello del condizionamento storico, sociale, della stessa poesia, e quindi da una filologia integralmente funzionale, è al contempo accertamento di quel punto focale da cui (col concorso della peculiarità semantica da vedersi a suo luogo) si irradiano i valori (« tragici ») di questa ( 1 ) poesia sofoclea nella fattispecie, come di ogni altra, in quanto è esso che alimenta il simbolismo propriamente artistico di questa come di ogni altra poesia, la puntuale-universale significanza della poesia insomma.
5. Proprio a proposito della poesia greca, e dell'Antigone in particolare, Croce ha ribadito che « la poesia non tratta "problemi", ma forma immagini di vita in atto » e rimproverato Hegel di « essere troppo preso dalla urgenza e gravità del problema ch'egli meditava e a suo modo risolveva, dello Stato e delle sue antinomie, da osservare in questa parte la religione dei confini tra poesia e filosofia» (sic). Checché sia di Hegel in proposito, il che vedremo fra poco, ci pare, intanto, incontestabile contro Croce nella fattispecie quanto segue. 1. Che, senza i concetti etico-religiosi greci del!' hybris, o tracotanza umana, e della sophrosyne 23
o saggezza come senso della misura - suo opposto - e della nemesis, o celeste punizione, e della ananke o necessità (o destino) come piano celeste etcetera, e quindi senza i problemi ch'essi generano, l'Antigone nella fattispecie, ma con essa, vedremo, ogni tragedia greca, non avrebbe alcuna sostanza poetica; onde la astrazione e separazione della « unità logica» sua (e di ogni altra tragedia greca) dalla « unità lirica », quale è operata ancora alla maniera crociana da tanta critica (estetizzante), è metodo pessimo. 2. Che, a riprova di ciò, sia la hybris di Antigone, figlia di Edipo, che in nome della legge religiosa della reverenza ai morti disobbedisce all'editto di Creante che vieta la sepoltura del fratello di lei, sia la hybris di Creonte che, atto strumento di dèi che intendono distrutta tutta la casa dei Labdacidi, condannando a morte Antigone (murata in caverna) commette tuttavia una ingiustizia che lo esporrà alla nemesi, costituiscono il fulcro della poesia tragica, da cui irraggiano quei momenti lirici e drammatici che sono tanto piu tali quanto piu espressivi, appunto, di quel peculiare ethos greco: come ad esempio: la « saggezza» comprensiva della sorella Ismene: « Per me, dunque, pregando i nostri morti sottoterra di perdonarmi, poiché vi sono costretta, obbedirò a coloro che hanno il potere. Voler fare ciò ch'è al di sopra delle nostre forze [perissà] è un atto irragionevole [ ... ]. Poiché lo vuoi, va: e sappi una cosa: tu parti per un atto folle, ma tu sei veramente amica di quelli ohe ami» (vv. 65 sgg., 98-9): la logica dello strumento divino Creante: « È impossibile conoscere l'anima, i sentimenti e il pensiero di alcun uomo, se non lo si è mai visto all'opera al potere e nell'applicazione delle leggi [ ... ] . No, io non sono un uomo, è essa [Antigone] che prende il mio posto, se questa superiorità che ha assunto deve restare impunita » (vv. 175 sgg., 484 sgg.); le ragioni di Antigone di fronte a Creante: «A.: [ ... ] Né io credevo che il tuo editto avesse forza bastante da dare a un mortale il potere di violare le leggi non scritte e immutabili degli dèi [ ... ] . Chi sa se queste [tue] regole sono sacre laggiu? C.: Certo un nemico non mi sarà mai caro, neppure quando sia morto. A.: Certo, io non nacqui per condividere l'odio, ma l'amore» (vv. 453 sgg., 519 sgg.); il secondo stasimo o delle speranze umane: « [ ... ] La varia speranza a molti uomini giova, per molti, invece, è un inganno dei loro vani desideri: ed essa si attacca a chi nulla comprende prima di bruciarsi il piede all'ardente brace. Con saggezza è stato pronunciato il detto famoso: "il male sembra essere un bene a colui a cui la 24
divinità spinge l'intelletto alla rovina": ed egli passa brevissimo tempo al riparo della sventura» (vv. 615 sgg.); la logica di Creonte confutata dal figlio Emone: «C.: La città non è forse ritenuta esser di chi la governa? E.: Da solo, certo, tu governeresti bene un deserto» (vv. 738-9); il lamento di Antigone-Niobe e la sua terribile risposta al corifeo: « A.: Ho sentito dire come assai compianta l'ospite frigia, figlia di Tantalo, peri sulle vette del Sipilo: come, edera tenace, una pietrosa vegetazione la copri e lei consumata la pioggia e le nevi, cosi è fama tra gli uomini, mai l'abbandonino ed essa si inondi del pianto continuo delle sue ciglia: ed ora, quanto simile a lei, un dèmone mi corica nella pietra. Cor.: Ma essa [Niobe] era una dea e prole di dèi, noi invece siamo mortali e figli di mortali; certo per te morente è gran cosa goder fama di aver ottenuto da viva e da morta sorte comune agli eguali agli dè,i. A.: Tu ridi di me. Perché, per gli dèi patri, mi insulti non ancor morta ma viva?» (vv. 823 sgg.); la sua finale chiamata in causa degli dèi: « Abbandonata dagli amici, infelice, vado viva nelle cavernose fosse dei morti: quale decreto degli dèi ho io trasgredito? A che serve ch'io, sventurata, guardi ancora agli dèi? » .(vv. 919 sgg.); la morale tratta dal corifeo e da Creante punito: « Cor.: Ahimè., come sembri veder tardi la giustizia! C.: Ahimè, ora la conosco, sventurato. Ma un dio allora mi colpi in testa e mi stordi e mi spinse per vie crudeli, calpestando le gioie della mia vita. O inutili sforzi degli uomini! » (vv. 1270 sgg.); l'ammonimento finale del coro a Creonte: « Non far voti ora: ché non c'è scampo dalla sciagura destinata ai mortali» (vv. 1337-8). 3. Che, se è vero, come la filologia classica piu rigorosa dimostra, che niente è piu alieno dalla mente di Sofocle di un conflitto in Antigone fra religione e Stato, essendo per lui greco lo .Stato, la polis, parte dell'ordine divino stesso (e non già un organismo modernamente distinto e opposto), e se è vero d'altronde che Antigone non può incorporare attraverso il suo sentimento e il suo agire religioso se non lo spirito della vera polis, dovremo concludere, in primo luogo, che il torto di Hegel, nel suo intendimento dell'Antigone, non fo già qnello (secondo crede il Croce) di aver sollevato dei problemi morali, filosofici, trasgredendo cosi i confini fra poesia e filosofia (pensiero!), bensi di aver scambiato problemi antichi con problemi moderni e fu insomma un errore filologico (ma H. in quel suo senso cosi vivo della necessità poetica dell'ethos nella tragedia sofoclea e in genere resta esemplare ancor oggi, 25
anche se quel suo senso è dovuto soltanto alle esigenze contenutistiche di un razionalismo peranco troppo unilaterale e astratto per poter affrontare il pwblema artistico in genere nel suo duplice nodo reale, romantico-classico o estetico-logico); e, in secondo luogo, che quanto detto sopra del profondo rapporto di Antigone con la polis ci rimanda, in fine, alla estrema problematicità dell'Antigone: ché, stando come si è detto le cose, il poeta stesso (non solo l'esemplare credente Sofocle) riconosce qui nel viluppo hybrico Antigone-Creante (ben piu che nell'hybris edipica) il postulato religioso: che la sventura, la necessità (l'ananke), può colpire anche il pio, l'innocente, una Antigone: anzi: che la divinità si compiace (il « giuoco » degli dèi con l'uomo) di convertire lo umano proposito e scopo (anche nobile) in destino, fatalità, ate. Altro che dire che questa poesia non tratta problemi ma solo immagini di vita in atto! E del resto, se è vero che il Croce appunto ha buone ragioni contro la critica positivistica quando osserva che in sommo grado « la critica dell'Antigone è andata soggetta a una sorte di logica "metabasi in altro genere" » ossia di passaggio dal genere poetico a quello storico o filosofico, è pur vero che la sola alternativa alla critica positivistica non è, non può essere, la critica spiritualistica estetizzante, bensf una critica filologico-semantica integralmente funzionale, ossia interamente in funzione del testo in quanto prodotto storico: ch'è poi, vedremo sempre meglio, il criterio di giudizio ( ') (critico-storiografico) fornito da una estetica materialistica e la miglior conferma (sperimentale) della bontà del metodo di questa. Onde si salda veramente, non meccanicamente ma dialetticamente, la sovrastruttura culturale (cui appartiene la poesia e l'arte in genere) alla base economico-sociale e si dimosfra - attraverso l'enucleazione di complessi poetico-strutturali (come quello di cui sopra e i seguenti) - che né Antigone « né Achille né Vulcano etc.» sarebbero stati « possibili » con « Roberts and Co. » o « il Crédit immobilier » o « la polvere da sparo e il piombo » (Marx, cit.): proprio perché ognuno di essi presuppone e contiene nella sua struttura di organismo poeticamente significativo tutt'altre (da queste moderne) condizioni e ragioni storiche, idest tutt'altre, si è visto, condizioni ideologiche o culturali (morali, religiose, scientifiche etc.) e implicitamente economiche o materiali. E ciò sottintende, naturalmente, e conferma quella legge, intravista da Engels, che diremo dei « lunghi periodi » e cioè che « quanto piu la particolare sfera [culturale] da noi investigata [ad es. un dato periodo arti-
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stico] è, lontana dalla sfera economica [ sich vom Oekonomischen entfernt] e si approssima a quella della pura astratta ideologia e tanto piri essa mostrerà nel suo sviluppo delle accidentalità [ e anche peculiarità] e la sua curva correrà a zigzag», ma che, « se voi traccerete l'asse mediano di questa curva, troverete che questo asse correrà tanto piri approssimativamente parallelo all'asse della curva dello sviluppo economico quanto piu sarà lungo il periodo [storico] considerato e piu ampio il campo [ideologico] trattato ». (Ma su ciò ritorneremo.) Restando a Sofocle, si riesamini l'Aiace e l'Edipo a Colono, ad esempio, e si troverà che anche in essi i momenti di piri alta « umana » poesia sono oggettivamente peculiari, nel senso che non sussistono separati dai concetti greci etico-religiosi di cui sopra, dalla Weltanschauung greca in genere. Nell'Aiace: a) il prologo con Athena che « giuoca » in iscena con l'eroe protagonista da lei fatto insanire per un suo gesto di orgoglio tracotante (l'hybris) e giuoca con una crudeltà da impietosire Ulisse sulla sorte del suo nemico Aiace oltre che degli uomini in genere: « Athena [ ad Aiace insanguinato per aver scannato un gregge scambiato, nella sua follia, per i capi dei greci suoi offensori]: Poiché ti piace di fare cosi, colpisci dunque, porta a termine tutti i tuoi progetti senza eccezione. Aiace: Vado a finire la faccenda. Per te, Athena, e ti prego di essere sempre la mia alleata, come oggi. Athena: Tu vedi, Ulisse, la potenza degli dèi, quanto è grande. Quale uomo piri giudizioso e piri bravo di lui al momento opportuno? Ulisse: Non ne conosco. E malgrado tutto, pur essendo mio nemico, compiango la sua sventura, legato com'è a un fato crudele, e penso anche al mio destino. Lo vedo: tutti noi che viviamo non siamo che fantasmi, ombra vana. Athena: Che questa vista ti apprenda a non proferir mai una parola orgogliosa contro gli dèi, né a concepir fierezza altern se tu superi altri nella forza o nell'immensità della ricchezza, ché basta un giorno per abbattere e sollevare gli umani: e gli dèi amano la moderazione nei desideri e odiano la empietà» (e questa ammonizione conclusiva, che piri drammatica, poetica, non potrebb'essere, è stata scambiata, dalla solita critica estetizzante, per un prosaico fabula docet e però separata dall'azione del prologo e da tutta la seguente!); b) il « discorso ingannevole», ambiguo, tenuto alla sua compagna per tanquillarla, da Aiace, che, rientrato in se stesso, si avvia al suicidio per salvare il suo onore: « [ ... J Cos{ ormai sapremo cedere agli dèi e impareremo a onorare gli Atridi [ ... ] . La potenza, 27
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la forza, cede all'autorità, come gli inverni nevosi alia feconda estate [ ... ] . E come non apprendere una saggia moderazione? [ ... ] Io vado dove bisogna ch'io vada [ ... ] » (discorso che, per il fatto che coinvolge l'universo alla presenza e sorte del protagonista, è stato preso in considerazione dai piu come semplice sfogo « lirico » !) ; e) la formula con cui il messaggero riassume la colpa d'orgoglio di Aiace: che egli « [ ... ] si è attirato l'implacabile collera della dea con dei sentimenti che non sono di un uomo », cosi come dice poco prima, dei simili ad Aiace, sprovvisti di misura e vani, che, « nati con la natura di uomini, non ne hanno pertanto i sentimenti » (una definizione poetica del senti,mento umano ch'è ben greca, antica, storicamente circow
scritta!). Dell'Edipo a Colono ( 1 ) basti questo dialogo di Ismene e Edipo: « Ism.: Oggi gli dèi ti rialzano, dopo averti atterrato. Ed.: Povero beneficio risollevare da vecchio chi è caduto da giovane! »: due tremende battute, che sono peraltro piene di un pathos tanto peculiare, tanto greco, cioè tanto poco genericamente o astrattamente «umano», da servire a un Wilamowitz come documento cospicuo della concezione greca dei rapporti fra l'umano e il divino. E del « razionalista » Euripide non si può non ricordare ad esempio: 1. le Baccanti, dove la sorte atroce di Penteo, straziato dalla propria madre nel tumulto bacchico perché colpevole di « empia hybris » verso Dioniso, è già annunciata, piu che dal primo stasimo del coro, con singolare potenza poetica, drammatica, dalla visione ferina del dio che balena agli occhi di Penteo quando, già fuori di sé a opera del medesimo, si avvia accanto a lui sul cammino mortale, a vedere le baccanti: « Penteo: Ma in verità mi sembra di vedere due soli e due Tebe. E mi sembra che tu sia un toro che mi guida andando innanzi, che sul tuo capo siano spuntate le corna. Ma forse una volta tu eri una fiera, perché davvero ti sei trasformato in toro! Dioniso: Il dio, che prima non ti era benevolo, ova ci accompagna come alleato. Ova tu vedrai ciò ch'è. necessario che tu veda » (vv. 918 sgg.); 2. lo Ippolito, in cui anche solo qualche battuta, ad apertura di pagina a caso, - ad esempio come: « Nutrice: Cipride non è, dunque, una dea, ma qualcosa di ancor piu grande di una dea, essa che ha rovinato lei [Fedra] e me e tutta questa casa», o « Fedra: Rallegrerò Cipride, causa della mia rovina, liberandomi dalla vita, vinta da un amaro amore» (ofr. il fr. 619 della Fedra sofoclea: « questa malattia mandata da un dio »), o « Ippolito [ morente alla
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presenza di Artemide]: O divina fragranza! Anche nelle mie pene m'accorsi di te e mi sentii sollevato. La dea Artemide è qui. A,·temide: C'è, sventurato, la piu cara delle dee per te. Ipp.: Tu vedi, mia padrona, in che stato sono. Art.: Lo vedo, ma non mi è lecito versar lacrima. Ipp.: Non esiste piri il tuo cacciatore, né il tuo scudiero» etc. (vv. 1391 sgg.), - qualche battuta, dicevamo, è sufficiente a farci avvertire la peculiarità cristiano-moderna della Fedra raciniana, dove, anche a prescindere dalla rimozione delle dee, Cipride e Artemide, Fedra è la protagonista e tutta individualisticamente introversa, intenta all'analisi moralemorbida della sua umana-passione-chiave-di-tutto; onde, ad esem· pio, la« Venere» invocata nel suo grido famoso(« C'est Vénus tout entière à sa proie attachée ») ha, nella sua sostanza espressiva, niente piri di un valore metaforico (Sainte-Beuve aveva ragione): e tutto questo, insomma, se non pregiudica proprio il nostro piacere artistico (come pensa il Pohlenz), certo solleva un serio problema di gusto e di critica, già intravisto, a suo modo, da Chateaubriand. Risalendo ora ad Eschilo, maestro nel rappresentare concatenazioni di hybris, basterà per i nostri scopi che ci soHermiamo sulla posizione tragica, poetica, di Agamennone nella tragedia omonima prima parte della Orestiade: posizione incompresa e falsa - esteticamente - se si prescinda (come gran parte della critica ancor oggi) dalla ananke che costringe il protagonista a sacrificare Ifigenia, e si creda invece - in guisa anacronistica e antiartistica ad un tempo - che 1a soiagura che colpirà Agamennone « abbia origine nella sua volontaria decisione » (come scrive un critico illustre) di sacrificare la figlia, allorché il testo fa riferimento espresso, fin dall'inizio del coro, al terribile presagio, contenuto nell'ira di Artemide per una lepre gravida divorata dalle aquile inviate da Zeus stesso a incoraggiare Agamennone alla sua partenza per Troia, e di conseguenza alla necessità di una espiazione propiziatoria (in un sacrificio umano): « [ ... ] E quando l'indovino [Calcante], coprendosi del nome di Artemide, venne ancora a proclamare un rimedio piri doloroso ai capi dell'amara tempesta, percossero gli Atridi con lo scettro la terra e non contennero le lacrime [ ... ]. E [Agamennone] mise il collo nel collare della necessità [d'anankas] » etc. (vv. 198 sgg., 218 sgg.); allorché, infine, vien da pensare, come dke il Page, che non ci sia in tutta la tragedia greca un passaggio che eguagli in pathos, in bellezza, quel passo, centrale, del coro (vv. 385 sgg.) che rappresenua, negli effetti
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dell'ananke su Paride stesso, prima che su Menelao,· 1a, portata generale della necessità: « [ ... ] Persuasione ostinata lo violenta, invincibile figlia della cospirante ruina. Ed ogni rimedio è vano: la sua offesa non resta nascosta, ma brilla di maligno splendore [ ... ]. E cosi che Paride entrò nella casa dell'Atride e ne rapi la moglie e oltraggiò la mensa ospitale [ ... ]. Vedi la silenziosa umiliazione dello sposo che siede in disparte, senza parola di sdegno o supplica. Nel suo desiderio d'amore per colei ch'è al di là del mare, egli la sogna, in fantasma, regina della casa. Gli è odiosa la grazia delle statue di lei, dai loro occhi vuoti ogni amoroso fascino è fuggito [ ... ]. E Ares, cambiatore d'oro che tratta cadaveri, che tiene le bilance in mezzo alla battaglia, che da Ilio rimanda ai parenti, tolta dal rogo, una polvere greve di duri lamenti, una cenere di uomini, che leggera riempie le urne [ ... ]. Pericolosi sono i discorsi della città se rancore li muove. Il mio ansioso pensiero attende di udire ciò che le tenebre nascondono [ ... ] . Gloria smisurata è piena di pericolo [ ... ] ». Risalendo ancora, i poemi omerici, piu generalmente ed esplicitamente riconosciuti ad un tempo documenti storici (senza preoccupazione, per lo piu, del problema estetico implicito), ci mostrano, anch'essi, come le loro giunture poetiche siano cost-ituite, ad esempio, del concetto o meglio di un certo concetto dell'hybris, e di quello correlativo della nemesi (per il resto, cioè per l'incidenza poetica di altri dati, ad es. del corrente animus religioso greco, si pensi, fra mille, all'effetto poetico ovvio ma non per questo meno oggettivamente peculiare della rappresentazione dell'atteggiamento di Ulisse nel suo incontro con Nausicaa, quando, per accortezza, egli può chiederle se è una dea in senso letterale: « Sono ai tuoi ginocchi, regina, sia tu dea o mortale! Dea, presso gli dèi padroni dei campi del cielo, tu devi esser Artemide, figlia del grande Zeus: la taglia, la bellezza e l'incedere sono di lei! Se tu non sei che una mortale abitatrice del nostro mondo tre volte felice tuo padre e la tua augusta madre [ ... ] »; o si pensi all'effetto· similare della rappresentazione che annuncia Circe: « [ ... ] e nel frastuono di un grande telaio intendiamo la fresca voce di una dea o donna »): e si veda per la funzionalità poetica dei suddetti concetti: a) l'Iliade, dove troviamo sia l'hybris sociale, come tracotanza di m1 uomo contro un suo simile appartenente alla medesima casta (ad es. canto I, 200 sgg., dove Achille, che sta per scagliarsi contro Agamennone, reagisce all'apparir di Athena amica degli Arridi: « Una luce tenibile si accende nei suoi 30
occhi e rivolto a lei dice le parole alate: che vieni tu a fare ancora, figlia dell'egioco Zeus? Forse per vedere l'hybris di· Agamennone figlio di Atreo? Ebbene, ti dirò che intendo fare: per la sua arroganza perderà presto la vita» etc.; canto II, 211 sgg., l'episodio di Tersite; canto XIII, 631 sgg., i troiani« infetti di hybris », di quella •invendicata ancora di Paride, accolto da essi e protetto; etcetera), sia l'hybris come umana tracotanza verso gli dèi, anche se non ancor specificata con tale termine ma per lo piu con quello d'empietà: e basti per tutti il canto XXIV e in particolare l'episodio dell'oltraggio da parte di Achille del cadavere di Ettore: oltraggio giudicato da Apollo alla presenza degli immortali con parole (vv. 33 sgg.) che sono ad un tempo poesia e uno dei piu antichi documenti dell'etica greca, preannuncianti la problematica dell'etica aristotelica addirittura: « Voi che siete crudeli e funesti o dèi! [ ... ] Voi preferite dunque aiutare Achille, l'esecrabile Achille [ ... ] che, simile a un leone [ ... ] piombato su un gregge, ha abbandonato ogni pietà e ignora il pudore [ ... ] » etc. (e cfr. le parole dello stesso Apollo invitanti Diomede alla « misura » nel canto V, 440-1); e basti, infine, ricordare che la nemesi che colpirà Achille, presentita sebbene non rappresentata, è determinante poetica della chiusa del poema, come si sa; b) l'Odissea, dove predomina l'hyhris sociale (i proci sono, come Ulisse, principi delle isole ioniche e della terra dei Cefalleni, non sono plebe) ma non manca, nel catalogo dei dannati e degli eroi poziori (il sublime dell'ombra d'Aiace assolutamente silenziosa, XI, 543 sgg.), il riconoscimento dell'hybris (massima)· contro gli dèi attraverso le sanzioni d'oltretomba su chi l'abbia commessa (ma si ricordi, per la prima hybris, Leitmotiv etico del poema, Telemaco in I, 368 sgg.: « Pretendenti di mia madre, che avete in cuore un'hybris sfrenata» etc., Bumeo .in XI, 326 sgg.,. Telemaco in XVI, 78 sgg., Penelope in XVI, 410, Ulisse in XVII, 431, e in tutta la seconda metà e in XVIII, 143 sgg., Penelope e Laerte in XXI, 63 sgg., 351 sgg.). Per venire ai «lirici», lasciando fra gli altri Saffo, i cm !!· stretti interessi ed estrema linearità e semplicità di pensiero hanno prodotto, soprattutto, quel capolavoro dell'ode ad Afrodite, ch'è tale perché in essa « superstizione e arte si dan la mano », come ha ben dimostrato la critica recente (Page), soffermiamoci un momento su Pindaro, bersaglio incredibile della piu recente critica fattasi estetizzante (e dimentica dell'avvertimento goethiano di cui sopra) per reagire, al solito, a quella positivistica, e però in31
cline, da tm lato, a considerare il mito, la storia, il pensiero in Pindaro come elementi allotri, extrartistici, e quindi ad :tlmanaccare, al solito, su un dualismo di« unità logica» e« unità estetica.», e condotta, d'altro lato, a ridurne la poesia a «immagini» soltanto e (però) frammenti e quindi, con coerenza estrema nell'errore, a considerare implicitamente i « voli » pindarici, i suoi tipici traslati, immagini libere da vincoli razionali; laddove si tratta di traslati tipici proprio in quanto la loro stessa arditezza sottolinea la natura del traslato o metafora in genere: di esser cioè nesso o pensiero delle cose le piu dissimili, dominate appunto dall'altezza della ragione-intelletto e delle sue categorie (occorre .ricordar la prima olimpica? « ottima è l'acqua e l'oro come fuoco ardente nella notte sp}ende [ ... ] . Se vuoi anima mia cantare gli agoni, non cercare astro piu fulgido del sole [ ... ] né agone piu splendido di Olimpia »). Cosi, dissociate, ad esempio, le immagini dai concetti etico-religiosi e da quelli piu comuni in questa veduta conclusiva della vita umana dell'ottava pitica, senza perderne la poesia, se vi riesce: « [ ... ] La gioia dei mortali in breve ora cresce e cosi si abbatte, sovvertita da un giudizio ch'è fuori del nostro controllo. Creature d'un giorno! Che mai è ognuno di noi? Che mai non è.? Sogno di un'ombra è l'uomo. Ma quando ci investa un raggio di Zeus, la luce per gli uomini è fulgida e la vita soave » (e cfr. la seconda olimpica: « Nessuna delle nostre azioni, e giuste e ingiuste, è senza conseguenza, nemmeno se Cronos padre di tutte le cose potesse segnare un termine alle opere; ma con una felice sorte potrebbe nascere l'oblio. Muore, infatti, il tenace male domato dalle nobili gioie, quando la Moira celeste ci sollevi a una felicità somma »). Provate, in altri termini, a serbare la poesia astraendo la gnome dalle immagini (traslate o no), se ci riuscite. Cosi per la undecima nemea: « Beato chiamo il padre dell'eroe [ Aristagora di Tenedo], e di questi amnì.iro le membra ammirabili e la nativa intrepidità. Ma se alcuno, che goda fortuna, superi gli altri in bellezza e primeggi negli agoni provando il suo vigore, rammenti che le membra che riveste sono mortali e che si vestirà finalmente di terra» (e cfr. il fr. 104 Schroeder: « Per amicizia vorrei pregare i Cronidi che a Eolada e la sua stirpe volga un ininterrotto tempo felice. I giorni dei mortali sono eterni, e il corpo mortale»; e cioè le generazioni si succedono senza fine, mentre la vita individuale ha una fine). Cosi ad es. nell'undecima olimpica per la sentenziosa esaltazione aristocratica di guerrieri e di saggi: « Unitevi, laggiu, ai cori: io mi faccio garante 32
0 Muse che non vi troverete un popolo inospitale o ignaro di opere belle, ma saggio piu di ogni altro e guerriero. Ché mai la volpe fiammante e i ruggenti leoni si scambieranno le loro nature»; o nella seconda pitica per il consiglio al potente Gerone di restar fedele alla sua natura aristocratica e di non lasciarsi ingannare, come i fanciulli che ammirano la scimmia (un volo pindarico!), dalle insinuazioni invide: « Sii te stesso, quale hai appreso a conoscerti. Agli occhi di fanciulli la scimmia è bella, sempre bella» etc.; o nell'undecima pitica per la sentenza sull'hybris: « Le sventure invidiose [concentrata formula metaforica per dire: le sventure riversate dagli invidi dèi su chi non conosca limiti ai desideri] sono stornate da chi, toccato il vertice e vivendo tranquillo, sia sfuggito all'insolenza fatale» etc.; o infine nella settima istmica per il ricordo ammonitore delle passate glorie tebane: « Ma dorme l'antica grazia e i mortali smemorano di quanto non abbia ragg1unto il perfetto fiore di poesia, confuso a risonanti correnti di canto ». (Dinanzi a tanta poesia il noto critico estetizzante inglese, il Norwood, non sa che ripeterci che « la moralità non crea grande poesia, né anzi crea poesia», e che l' « aforisma », la sentenza, non è. una chiave della rappresentazione pindarica delle glorie greche piu di quanto la scalinata a una galleria sia una chiave della botticelliana Nascita di Venere ... ) E in quanto al mito in P. e al suo preteso carattere allotrio, si vedano ad esempio i miti di Iamo e dei Dioscuri nella sesta olimpica e nella decima nemea per poter toccare con mano, come si dice, quanto il gçnuino pensiero religioso, lo spirito oltre che fa lettera del mito, dia alla poesia e forza e tono inconfondibili perché indissolubili da esso: 01., VI:«[ ... ] Deposta la cintura di porpora e l'urna d'argento, ella [Evadne, madre del profeta Iamo] generava nella cupa macchia un fanciullo di senno divino: e iI dio dalla chioma d'oro [Apollo] le mandava in soccorso Ilitia benigna e le Moire [ ... ] . Piena di dolore lo abbandonava al suolo, e due serpenti dagli occhi glauchi, per volere degli dèi, lo nutrono del veleno innocente delle api [ ... ] . E quando [ Iamo] ebbe còlto il dolce frutto di Ebe dalla corona d'oro, discese nel mezzo dell 'Alfeo e invocò il potente Posidone, l'avo, e l'Arciere che veglia su Delo fondata dagli dèi, chiedendo, solo nella notte, sotto la volta del cielo, qualche onore regale sul suo capo. E chiara risonò la voce di suo padre [Apollo] e lo cercava: alzati, figlio, e segui la mia parola e v,ieni nehla terra a tutti ospitale [ ... ] »; Nem., X: « [ ... ] E Zeus scagliò contro Ida [ uccisore di Castore] il fumido fu!-
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mine: e ms1eme [Ida e Linceo] nella solitudine erano consumati; ché è duro agli uomini contendere coi piu forti. E rapido ritornò il Tindaride [Polluce] presso il possente fratello, non ancor spento, che respirava convulso: e ora egli versa lacrime ardenti e fra i singulti grida: "Padre Cronide, quando ci sarà una fine ai dolori? Imponi anche a me la morte, o re, insieme a questo mio fratello [ ... ] ". Cosi disse e Giove venne di fronte a lui e pronunciò questa parola: tu sei mio figlio [ ... ] ». Confrontiamo ora, a riprov,a del tono pindarico, - inconfondibile (come sempre quello della grande poesia) non per pure ragioni stilistiche, astratte, ma per ragioni stilistiche concrete, condizionate e inseparabili testualmente da ragioni storiche, sociali, - una celebre ode oraziana pur ispirata da Pindaro (Pit., I): l'ode Descende caelo (III, 4), dedicata alla saggezza e all'ordine comparati alla forza bruta. Essa comincia con un appello alle Muse e alla musica e un vagheggiato ricordo dell'infanzia del poeta, già posta sotto il segno della grazia dei celesti (« Discendi dal cielo, Calliope regina, e cantami una solenne melodia sul flauto, o con la tua chiara voce, se lo preferisci, o sulle corde della cetra di Febo. Udite anche voi [amici] o un'amabile follia si prende gilioco di me? Mi sembra di udirla, la Musa, e di vagare per i sacri boschi, dove si aggirano acque e aure amene. Le colombe favolose [le colombe portatrici d'ambrosia a Giove infante] ricopersero di frondi novelle me fanciullo stanco per il giuoco .e il sonno sul Vulture appulo davanti alla casa della nutrice Pullia, perché fosse di meraviglia a quanti occupano il nido dell'alta Acerenza e le balze Bantine e il pingue suolo dd basso Forento come io dormissi al sicuro dai neri serpenti e dagli orsi e fossi coperto di sacro alloro e mirto raccolto, non senza gli dèi fanciullo animoso »); prosegue col dire come egli appartenga alle Muse in ogni circostanza della sua vita, pacifica o pericolosa (« Vester, Camenae, vester in arduos / tollor Sabinos [ ... ] / utcumque mecum vos eritis, libens / insanientem navita Bosporum / temptabo »), e come esse fargiscano nell'antro Pierio ristoro all'eccelso Cesare (Augusto) e mite consiglio a chiunque si rivolga loro, senza di che la bruta forza si sfascia per la sua stessa mole come mostra la vana lotta degli assalitori del cielo (« [ ... ] Scimus ut inpios / Titanas immanemque turmam / foltnine sustulerit caduco, / qui terram inertem, qui mare temperat / ventosum [ ... ] / magnum illa terrorem intulerat Iovi / fidens iuventus horrida brachiis / fratresque tendentes opaco / Pelion imposuisse Olympo: / sed 34
quid Typhoeus et validus Mimas [ ... ] / contra sonantem Palladis aegida / possent ruentes? hinc avidus stetit / Volcanus, hinc matrona Iuno et / numquam umeris positurus arcum, / qui rore puro ,Castaliae lavit / crinis solutos, [ ... ] Delius et Patareus Apollo. / vis consilii expers mole ruit sua [ ... ] »), ché gli dèi promuovono a maggiori cose la forza temperata dalla ragione; e conclude con la seguente visione delle pene eterne dei trasgressori in genere dei « miti consigli», della ragione: « La terra gravante sopra i suoi mostri [i Titani] si duole e affligge della sua progenie gettata al pallido Orco; né il saettante fuoco ha consumato l'Etna so,.,rapposta a quelli, né l'uccello custode della malvagità ha abbandonato il fegato dell'impudico Tizio; e innumeri catene legano l'innàmorato Piritoo ». Vediamo la « fondamentale differenza » (come dice Eduard Fraenkel) fra Orazio e Pindaro nel trattare il loro tema. Ei;:trambi cominciano con la musica, dono delle Muse (cfr. Pit., r,·1 sgg.: « O cetra d'oro, tesoro indiviso di Apollo e delle Muse dalle trecce viola, che induci i passi alla danza festosa, e le tue note i cantori assecondano quando, con le tremule corde, ti prepari a segnare il preludio ai cori seguaci! »): ma « qual è la sorgente di questa musica in ciascun caso? Nel poema di Pindaro è qualcosa stabilito nei costumi e nei culti di una società a cui appartenevano e il poeta e coloro pei quali egli scriveva. Le competizioni atletiche e altre in Olimpia, Delfo, e altrove, e le celebrazioni in onore di un vincitore e della sua città, prima al santuario e poi, in forma pici elaborata, al suo ritorno a casa, erano tutte parte organica della vita della comunità. Le gare ai festivals erano solo un'occasione fra tante per celebrazioni musicali [ ... ] . L'istituzione di queste performances musicali era radicata profondamente nella vita religiosa e civica della società: e come la totalità di tale vita proveniva dagli dèi. È per ciò che Pindaro può partire da premesse di incontestata validità e senza sforzo passare [Pit., I, 5 sgg.] dal mousikon operante nella presente performance [ in onore di Gerone etneo vincitore col carro] al potere dell'armonia che governa il mondo ». Ma « Orazio non ha questo fondamento: e ne era perfettamente conscio [ ... ]. La sua poesia, la sua "musica", non era il prodotto cumulativo di uno sforzo della sua personalità e di qualcosa che c'era quando nacque, indipendentemente da lui [ ... ]. Gli oraziani " carmina non prius audita" [Odi, III, 1, 2] non avrebbero potuto esistere se non per il suo sforzo [ ... ] . Per Orazio non ci sono cantori, non cerimonie di festivals, non tradizione che possa seguire [ ... ] . 35
Tutto questo - e non un vano piacere di esibire brani della propria biografia [ donde la opinione critica perdurante della mancata unità dell'ode in questione a causa del troppo« realismo»! J - è la .ragion per cui egli ci dice tante cose della sua prima fanciullezza e di quei luoghi remoti che allora nutrirono la sua immaginazione e invigorirono 1a sua mente, la ragion per cui egli ci parla dei pericoli superati e di quei suoi favoriti luoghi di riposo dove gli è concesso di scordare i sescenta negotia della sua vita nella rumorosa capitale e può ascoltare le voci delle Camene. Egli non pretende e nemmeno desidera di esser il portavoce di una comunità tale che non esiste piu; egli è, determinato a restare. l'uomo che è, nato in una tarda e distratta età [ e già dalle odi I, 34, Parcus deorum cultor, e I, 35, O diva gratum, si ricava, come mostra sempre Fraenkel, che Zeus e Tyche o Fortuna son considerati un solo medesimo potere governante il mondo: « concezione al tempo di Orazio probabilmente familiare alle persone educate » J [ ... J. L'ardito verbo in prima persona singolare [III, 1, 1: « Odi profanum volgus ... » J con cui comincia il ciclo delle odi romane ha il suo complemento negli estesi passi personali di Descende caelo. In questi passi non c'è niente di pindarico:: essi descrivono quell'esperienza che nella vita di Orazio era l'equivalente del credo di Pindaro [ ... ]. [ Nel J conclusivo diminuendo [ « amatorem trecentae / Pirithoum cohibent catenae »] [ ... ] per una felicissima ispirazione Piritoo è messo ultimo di coloro che hanno peccato contro gli dèi. Anch'egli ha peccato per aver ten- . rato di rapire Proserpina dall'Averno: e gli è inflitta una punizione troppo severa. Ma come veniale sembra il suo peccato: amatorem... Ci è impossibile connetterlo con la immanis turma., di cui sopra. Lo sfortunato giovane innamorato è in perfetto con: trasto con quei mostri [ ... ] ». Crediamo che si possa concludere da quanto precede ch'è lecito vedere nel rapporto storico letterario Pindaro-Orazio (lirico) cosi come si è, profilato un paradigma critico che, proprio perché valido per questi poeti che rientrano entro limiti storici non amplissimi quali sono i limiti segnati dall'appartenenza lor@ allo stesso evo antico-precristiano, si impone, a maggior ragione., per giudicare di poeti di età ben piu distanti fra loro (cfr. intantG sopra il rapporto Euripide-Racine) e insomma per giudicare della poesia in genere nel senso suesposto: che piu la poesia è autentica e grande e piu essa esige per esser gustata una sua messa-a-punto .st1listica concreta, ossia sociologica, che non ha niente a che fate
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né col metodo critico positivistico né con quello del « realismo » marxistico-volgare, che, mantenendosi e,,trambi al di qua della poesia, restano anche, nella sostanza, al di qua della storia (non soltanto letteraria). Come meglio si vedrà col procedere della ricerca. Lasciando ora le letterature antiche, passiamo ad esaminare alcuni exempla o campioni di poesia medievale, moderna e contemporanea.
6. La Divina commedia. La possibilità di gustare la poesia anche in questo caso - con la possibilità di coglierne il peculiare pathos storico nel senso suaccennato. Essa inizia, nel I canto dell'Inferno, in un clima di racconto drammatico: un uomo, il poeta, si trova in una selva paurosa, in una valle, minacciato da tre fiere, che gli impediscono di salire un colle e un soccorritore inatteso ne lo trae fuori. Ora la situazione del lettore è la seguente: o accetta il linguaggio del poeta in quanto linguaggio della cultura (religiosa) e della socie_tà del suo tempo prima che linguaggio suo personale o non lo accetta: nel primo caso si metterà in condizione di partecipare dell'intero senso e pathos del racconto in ciò ch'esso ha di peculiare e di universale ad un tempo; nel secondo caso sarà in condizione di non partecipare che in misura minima di quel senso e pathos (solo contraddicendosi una piena partecipazione è rivendicata anche dai piu ( 1 ) tenaci assertori della « immediatezza » fantastica e negatori del carattere tecnicostorico del linguaggio poetico e nella fattispecie negatori delle possibilità artistiche, poetiche, della letteralità e allegoricità medievali): e però non resterà in possesso che di generici e astratti valori espressivi (sensuali), sottraendosi alla poesia di questo canto-proemio (e quindi a tutta la poesia. della Commedia). . Scegliamo il primo caso per provarne la necessità, positività e validità. E cominciamo a intenderci sulla letteralità religiosa medievale del testo dantesco per poi passare al suo allegorismo o simbolismo in senso proprio e eminente. Cominciamo col riconoscere e accettare sensi letterali come i seguenti: « selva» (oscura, selvaggia etc.) = la selva erronea di questa vita, l'errore e il peccato propri - nel senso cristiano - di questa vita; « valle » = «selva» (cfr. l'espressione abituale rimastaci: « questa valle» per dire « questa vita »: una sorta di metafora morta, o non piu riconosciuta come metafora da parte del credente che l'usa): e cosf è tutt'uno -
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via. Perché, « quando, a proposito del I canto », ci avverte un filologo come il Barbi, « si parla comunemente di allegoria fondamentale del poema (e meglio sarebbe chiamarla, se mai, figurazione iniziale), si tira a significazione allegorica troppo di quella che è semplicemente espressione parabolica o tropologica, e che appartiene, come tale, al mero senso letterale. Cosi, ad esempio, ciò che Dante dice della selva in cui si trovò smarrito è una semplice maniera di dire .figurata per significare il proprio traviamento morale; e, quando dalla figura noi passiamo a vedere, nell'immagine della selva, siffatto traviamento, non usciamo a,ffatto dall'ambito del senso letterale per entrare in quello allegorico, dacché, giusta la definizione del!' Aquinate, il senso letterale non è la figura in sé, ma quel che è in essa figurato, vale a dire quello che essa significa. [ « Sensus parnbolicus sub literali continetur: nam per voces significatur aliquid proprie et aliquid figurative, nec est literalis sensus ipsa figura sed id quod est figuratum. Non enim oum Scriptum nominai Dei brachium, est literalis sensus quod in Deo sit membrum huiuscemodi corporale sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa », Summa th., I, I, 10, 3.] E ciò è tanto vero che, per richiamare lo stesso fatto del traviamento, il poeta altrove ha potuto servirsi, senza incongruenza, di altre figure, quando proprio non lo abbia espresso con la nudità di quello che i retori chiamano linguaggio proprio. Vedi [anche] Inf., II, 108, e XV, 50, dove all'immagine della selva è sostituita quella di fiumana o di valle; e in Purg., . XXIII, 117, dove, indicando Virgilio a Forese, il poeta, fuor di ogni velo di linguaggio figurato, dice " di quella vita mi tolse costui ". Ed espressioni proprie e figurate ritornano promiscuamente nella scena del paradiso terrestre, in cui Beatrice gli rimprovera i suoi trascorsi ed egli stesso li confessa. Anche altre piti complesse figurazioni, le quali pur si collegano in un modo o nell'altro al senso allegorico del poema, appartengono, in quanto si prendano a sé, al linguaggio parabolico, che Dante ha familiare in conformità col gusto del tempo e per la consuetudine con le sacre Scritture e con le opere ascetiche; e rientrano, quindi, nel senso letterale. Valga ad esempio la figmazione delle tre fiere che impediscono l'andar su al "bel monte". Si tratta certo di 1mpedimenti intrinseci, che si oppongono alla liberazione dell'anima dallo smarrimento morale in cui si trova: e ben videro i primi interpreti figurato in esse il peccato: ch'è, in fondo, il distacco dell'anima dal bene. sommo a cagione della "concupiscentia carnis" [ o lus-
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suria: la lonza], della "concupiscentia oculorum" [ o avarizia:
la lupa] e della "superbia vitae" [o la superbia: il leone], nelle quali si riassume tutto ciò che nel mondo ostacola all'uomo "la strada di Deo "». Non basta: « Anche se rappresentata per via di figure (la selva, le tre fiere, Virgilio, Beatrice, Paradiso terrestre, Paradiso celeste) questa storia fa parte del senso letterale del poema, ed è errore considerarle [quelle figure] come allegorie e, peggio, come l'allegoria fondamentale. Nell'ambito dell'allegoria - e diciamola pure allegoria iniziale perché ci è data dai primi due canti presso che tutta o almeno nelle sue linee essenziali si entra solo in quanto il poeta ha voluto adombrare in se stesso la società cristiana del suo tempo, e Virgilio e Beatrice assumono il significato dell'autorità imperiale e dell'autorità pontificia, le quali, l'una con gli argomenti della scienza umana [ = il saggio pagano Virgilio] e l'altra con gli insegnamenti della verità rivelata [= la beata Beatrice], debbono guidare gli uomini per la strada "del mondo" e "cli Deo" rispettivamente alia felicità temporale ed all'eterna [ ... ]. Tutto ciò che opera nella "lettera" del poema le si conviene [ a Beatrice] come a persona "da carne a spirito salita"; e che, poi, per quel proposito di dare all'opera un senso che trascenda il senso letterale, al modo che. ha chiamato Virgilio a simboleggiare l'umana sapienza Dante abbia voluto in Beatrice simboleggiare la scienza delle cose divine appare trapasso naturale e giustificato anche per il fatto che ella, per la sua condizione di beata, sa quello che Virgilio, anima del Limbo, e Dante, ancora della milizia terrena, non possono sapere [ ... ] . [Ma] quando all'invenzione poetica della "lettera" si sostituiscano i concetti dell'allegoria, non si può piu parlare della " gentilissima " fiorentina né dell'esaltazione di lei come intendimento del poema; alla stessa maniera che non è piu da parlare né di Dante cittadino di Firenze né cli Virgilio poeta cli Roma, né della selva né del paradiso terrestre o di quello celeste. Allora bisogna parlare della umanità traviata, della necessità eh'essa sia rimessa sulle vie provvidenziali "del mondo e di Deo " e torni ad esser guidata alla felicità terrena dall'autorità imperiale, coi lumi della ragione e della filosofia, e alla beatitudine eterna dalla Chiesa, con gl'insegnamenti della verità rivelata e della teologia [ « finis totius operis et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis », Epist., XIII, 39]. Insomma, ripetiamolo ancora, non bisogna confondere il senso tropologico, che rientra nella "lettera ", con la " allegoria " vera e propria: sono, sf,
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l'una congiunta all'altra; ma son da tenersi ben distinte, e come su piani di pensiero distinti ». D'accordo sin qui con questi risultati ultimi della piu rigorosa filologia dantesca italiana (fra i piu sicuri insieme ad es. a quelli che vanno sotto il qinomio Hegel-Auerbach, di cui piu avanti, e '!!le indagini strutturali-te o rafiche · s i a proposito del.replso io 1 avalcante): ma restano pur da chiarire, in sede di estetica e piu precisamente di poetica letteraria o teoria generale della letteratura, due punti problematici al fine di poter esaurire quei preliminari di metodo che ci permettano di penetrare la Commedia in quanto organismo artistico: a) il preciso senso gnoseologico-estetico di quei suddetti termini letterali-figurati che costituiscono la parte piu peculiare del linguaggio storico, medievale, usato necessariamente da Dante poeta; b) il conseguente plausibile passaggio e connessione di questa letteralità (sui generis) con la simbolicità o allegoricità complessiva del poema: donde il problema, insomma, della unità artistica del poema (unità trascurata, anche se non negata come dal Croce, dalla filologia che non vede in sostanza che la distinzione dei due sensi, il letterale e l'allegorico, ossia il loro esser su due diversi piani di pensiero, come dall'ultima citazione sopra). Per il primo punto è da notare che se la selva o la valle e simili hanno per il credente Dante un valore conoscitivo {-espressivo) in quanto termini significanti letteralmente la peccaminosa vita terrena etc., cosf come il tomistico braccio divino vale conoscitivamente in quanto letteralmente significativo della virtu operativa divina, ciò è possibile perché essi hanno la stessa funzione conoscitiva che hanno per noi termini come la sella montana o k gamba del tavolo (o anche, ripetiamo, la valle = vita per il cristiano credente convinto pur di oggigiorno): i quali termini sono metafore morte, cioè sono ormai allo zero della coscienza ossia ( 1 ) inavvertiti come metafore o figure, e quindi presi come ·significati letterali, mentre, invece, funzionano pur sempre, sotto l'aspettG Jel loro valore conoscitivo e pratico, come nessi (intellettualità) di un molteplice (immagini) e cioè come metafore vere e proprie (nessuno pensa di mettersi su una sella montana come sulla sella di un cavallo). Con una sola differenza fra }e due specie di metafore ( 2 ) morte: una differenza di contenuti: ché la prima, quella medievale, la religiosa, tomistica, dantesca, è costi1luita di sensi (figurati) morali e la seconda di sensi (figurati) materiali e triviali. Il che ci porta al chiarimento del secondo punto: ché accade che il simbolismo morale40
religioso si esplichi ( 1 ) e struttuvi e unifichi il poema proprio in quanto opera primamente su di un materiale omogeneo costituito innanzi tutto di sensi figurati morali, quei sensi « letternli »-figurati 0 metafore morte di cui sopra, donde quella simbolicità di secondo grado che caratterizza il simbolismo del poema dantesco, il suo allegorismo, e costituisce - là dove riesce a fondere in sé ossia a unificare sensi figurati morali e sensi letterali (nel significato vero e proprio del termine) - la peculiare grandezza artistica dantesca. Valga il vero (e vediamo se valga la pena di tanta mole di costruzione intellettuale, cioè se la poesia dantesca la esiga per esser tale e quindi la compensi). Torniamo al canto-proemio (tenendo in prospettiva il secondo canto che fa corpo con esso). Cominciamo col rilevare che, se non si accetta subito di assumere (col beneficio di inventario estetico che ci siamo garantiti) e la selva oscura e la smarrita diritta via ( = via conducente alla virtu del singolo e allo stato ben ordinato del genere umano) e la valle e il colle o dilettoso monte ( = vita virtuosa e ordinata ch'è la base dell'umana felicità), e via via gli altri termini simili, come sensi morali, ci precludiamo in uno e la partecipazione al pathos drammatico dell'inizio (la «paura» del protagonista), che in ipotesi .deve riscattare e giustificare l'uso ex ahrupto di quegli elementi figurati, e l'ingresso a quella visione-rivelazione edificante ch'è il poema stesso. Intanto, non si può negare che il simbolismo comincia, se comincia, con la presentazione del protagonista come rappresentante l'intera umanità peccatrice e precisamente perché smarrito in quella selva ch'è la selva erronea di questa vita e non semplicemente una qualunque selva materiale e letterale in senso proprio, in cui l'individuo Dante sia capitato a trentacinque anni (idem per la valle etcetera). Ma che il simbolismo cominci veramente, in quanto simbolismo espressivo-artistico, e non freddo ·allegorismo, ce lo mostrano non solo e non tanto i progressivi sensi morali caratterizzanti l'inoltro in quella selva, pur già potentemente indicativi e suggestivi di un certo tipo di pathos (etico-religioso), quali « esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier •rinova la paura », « Tant'è amara che poco è piu morte », « Io non so ben ridir com'io v'entrai, / tant'era pieno di sonno [dell'anima] a quel punto / che la verace via [ = diritta] abbandonai», « Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto / là dove terminava quella valle / che m'avea di paura il cor compunto », « [ ... ] a rimirar lo passo / che non 41
lasciò grn mai persona viva » etcetera, quanto, in special modo, lo svilupparsi dell'azione nello incontro, prima delle tre fiere, per l'icasticità del loro stesso essere emblematico (la sensuale lonzalussuria « leggiera e presta molto»,« di pel maculato[ ... ] coverta», la leonina superbia «con· la test'alta e con rabbiosa fame, / sf che parea che l'aere ne temesse», e, infine, l'avida lupa, spettrale, « che di tutte brame / sembiava carca nella sua magrezza, / e molte genti fe' già viver grame » e che « mi porse tanto di gravezza / con la paura ch'uscia di. sua vista, / ch'io· perdei la speranza dell'altezza [idest: del colle] »,«la bestia senza pace,/ che, venendomi incontro, a poco a poco / mi ripigneva là dove 'l sol tace » etc.), e poi del soccorritore spirito dotato di pagana saggezza di Virgilio (« Non omo, omo già fui / [ ... ] Nacqui sub Julio [ ... ] / al tempo delli dèi falsi e bugia,rdi »,«Or se' tu quel Virgilio» etc.), di Virgilio che, alla ben precisa richiesta di soccorso contro la lupa in particolare (« Vedi la bestia per cu' io mi volsi: / aiutami da lei, famoso saggio, / ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi »), dà quella risposta: « A te convien tenere altro viaggio / [ ... ] se vuo' campar d'esto loco selvaggio: / ché questa bestia, per la qual tu gride, / non lascia altrui passar per la sua via, / ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide» etc., la quale contrassegna tanto icasticamente il significato (morale) di quella minacciata morte (spirituale) - ch'è uccisione semplicemente per impedimento al colle della vita virtuosa e quindi illanguidimento di quella speranza dell'altezza - da riverberarsi non solo su tutto quel che precede, e potenziare esteticamente in ispecie fa lupaavarizia, che raggiunge qui il culmine della sua realtà drammatica (mentre, secondo un recente commentatore, « tutta allegorica » e « intessuta di elementi intellettualistici » sarebbe proprio la « rappresentazione della lupa »), ma altresf su ciò che segue immedia- · tamente (« infin che 'l Veltro / verrà, che la farà morir con doglia / [ ... ] la caccerà per ogni villa, / fin che l'avrà rimessa nello 'nferno, / là onde invidia prima dipartilla »), e insino al termine del canto, col proposto viaggio « per 1uogo etterno » (« [ ... ] Poeta, io ti richeggio / per quello Dio che tu non conoscesti, / acciò ch'io fugga questo male [ la schiavitu del peccato] e peggio, / che tu mi meni là dove or dicesti, / sf ch'io veggia la porta di san Pietro / e color cui tu fai cotanto mesti [ ... ] »), in una omogeneità espressiva (simbolica) difficile a negare, per quel che si è visto, anche nel riguardo immediato del secondo canto, che insieme al primo contiene la impostazione simbolica del mistico
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viaggio oggetto della visione, in quanto ci mostra, col circostanziato annuncio virgiliano dello intervento di Beatrice beata ( « [ ... ] non vedi tu la morte che 'l combatte / sulla fiumana ove 'I mar non ha vanto?» etcetera), che per intraprendere il cammino della redenzione non basta secondo la logica morale cristiana - « un momentaneo terrore del peccato e un lampo della ragione», ma « è necessaria una luce superiore a quella della ragione umana, e la certezza della grazia celeste, che confermi quel primo moto dell'animo » (Chimenz). O, in altri termini, in « ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide » etc. la fusione del letterale o reale e del simbolico o allegorico è perfetta, essendovi l'azione aggressiva di sbarrare il cammino propria di una lupa reale e un tale risultato di questa azione ch'è, si, un mortale danno morale, ma in quanto realmente, fisicamente, consiste nel subire un impedimento per un movimento contrastato e un impedimento ch'è poi moralmente letale perché ciò che viene constrastato è luogo di salvezza, il colle della vita virtuosa, il « bel monte», ch'è, infatti, contrastato e allontanato non da una qualsiasi lupa reale (impotente) ma da una lupa « che di tutte brame / sembiava carca nella sua magrezza » etcetera. La stessa fusione per il resto che ne consegue. E per tutta la Commedia viva. Concludendo, ci pare dimostrato a sufficienza: 1. che anche la poesia dantesca è incomprens1bile, e quindi inconcepibile, fuori del suo humus culturale-sociale organicamente presente in essa con un linguaggio che è. tanto storicamente quintessenziato e tecnico quanto personale: donde quel peculiare pathos della Commedia che ci afferra non meno per la sua umana novità storica (comparate quella «morte» dell'anima sulla «fiumana» della vita con la « morte » in Orazio, in Virgilio e Lucrezio e nei poeti greci: e quella « paura » del peccato, del canto-proemio, in quale poeta moderno non che antico la trovate?) che per la novità del suo individuale accento (Dante non è Petrarca ma neanche è Guido Cavalcanti); 2. che di conseguenza la « macchina del poema» (Tommaseo), la struttura allegorico-morale e tecnica (compresovi quel metodo del rapporto figura-compimento, Figur-und-Erflillung, approfondito da Auerbach su spunti hegeliani, per cui si illumina veramente il « realismo » dantesco, da Ciacco goloso a Casella e Buonconte e fino a Cacciaguida e l'apostolo Pietro, in quanto esso non è che una applicazione estesa al mondo contemporaneo al poeta del procedimento giudaico-cristiano usato da 43
· Paolo e dai padri della Chiesa di vedere in Adamo uria « figura » di Cristo e in Eva della Chiesa etc., onde ogni avvenimento del vecchio Testamento veniva concepito quale « figura » da portare a « compimento » con gli avvenimenti dell'incarnazione di Cristo) è strettamente ind,spensabicle e insepambile dalla poesia della Commedia, conferendole essa quella unità (di giudizio) senza cui qualunque parte o episodio del poema perde la sua sostanza espressiva, artistica, col perdere appunto il suo puntuale signrficato universale, simbolico (allegorico). E cosi, se non si vuole snaturare esteticamente anche il popolare episodio di Paolo e Francesca, bisogna capire che è la sua inquadratura cristiano-cattolica - e precisamente l'elemento strutturale ch'è il giudizio etico-religioso che situa topograficamente gli amanti cognati nel girone dei « peccator carnali / che la ragion sommettono al talento » etcetera - a dargli quel peculiare pathos per cui esso episodio amoroso si distingue non solo da ogni altro ispirato al moderno, romantico, « amore-passione », con relativa « eroina», di desanctlsiana e crociana memoria, ma anche da ogni altro di tono medievale galante-cortigiano, come putacaso quello degli amanti della Espinette amoureuse di un Froissart, pur con quella sua singolare analogia di espressioni, ad es.: « Adont laissames nous le lire » ( 1 ); onde a coglier il tono esatto della pietà dantesca è pertinente quel complesso di elementi storici, intellettuali, richiamati in proposito dai filologi piu avveduti: come la teoria del « cor gentile» e « l'ombra antica della fatale deità d'amore protendentesi attraverso la cristiana coscienza medievale » (Crescini): elementi assorbiti nella pietà severa, giudicante, di D. poeta.
7. Il Faust goethiano. Per gustarne l'arte è giuocoforza restituire anche di esso il peculiare pathos storico: e cioè nella fattispecie precisare il senso del conclusivo simbolismo morale-moderno del poema: o in altri termini risolvere quel problema del significato esatto della « salvazione di Faust », da cui dipende insieme e il riconoscimento della unità strutturale del primo e secondo Faust e la connessa adeguata articolazione dei valori « lirici » e « drammatici » del poema. ( 2 ) È ancora una questione di linguaggio storico-tecnico prima che personale o dell'individuo poeta: nel caso il linguaggio della cultura (filosofica) e della società della « età di Goethe ». Il linguaggio dell'umanesimo natura,
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rista. e laico, panteistico per intenderci, sviluppatosi dall'umanesimo libertario e inquieto dello Sturm-und-Drang (la avversione morale contro il dispotismo politico divenuta avversione metafisica contro la idea di. un divino despota dell'universo: quindi, altresf, i risultati della critica illuministica antidispotica e antichiesastica tramutati in articoli di una nuova « religiosità », laico-panteistica e idealistica e non piu laico-deistica o razionalistica alla maniera dell'Aufklarung: come dire ad es. la mistica coincidenza-degli-opposti di un Hamann contemperata con lo spinoziano Deus-sivenatura). Ma non basta: ciò che occorre stabilire subito - per poter penetrare la poesia del Faust - è l'uso goethiano rigoroso e vigoroso di questa cultura laico-idealistica e del suo linguaggio: per cui accade - tutto all'incontrario di Dante - che stavolta sono i termini e i concetti teologico-morali e religiosi chiesastici (cattolici) che sono assunti solo come metafore, come figure, dei vafori propri del mondo reale, cioè del mondo umano e laico (mentre il. medievale genio dantesco storce, vedemmo, termini mondani come selva, valle, fiumana etc. a metafore etico-religiose, di cui, persino, ·esso dimentica la natura di met11fore, onde valgono intenzionalmente come sensi letterali-morali). Si pensi, infatti, che I'intera ,vicenda del Faust (I-II) è racchiusa e definita da un « prologo in cielo » e una « salita al cielo ». Prescindiamo per il momento dal prologo celeste, dal dialogo fra il « Signore » e Mefistofele a proposito del protagonista, e ricapitoliamo alcune delle tappe piu significative della vicenda del dottor Faust fino alla sua morte. Cominciamo dalla prima parte, di solito unilateralmente detta senz'altro « tragedia di Margherita » da coloro che persistono a considerarla a sé e staccarla dalla seconda parte: e vediamo come essa contenga una impostazione di problemi morali. e poetici che trascende l'avventura ( 1 ) di Faust con Gretchen, la seduzione, !',infanticidio e la tragica morte deJla fanciulla. La prima parte consta, infatti, dei seguenti punti nodali: l. il profondo tragico disgusto della vita finora vissuta fra astrazioni e cose morte (« Perché un oscuro dolore reprime in te ogni movimento vitale? Invece della vivente natura [ ... J non hai dintorno che scheletri d'animali e ossa umane») spinge Faust a evocare non il diavolo (Mefistofele gli verrà innanzi piu tardi) ma lo « Spirito della terra», cui si volge la sua religiosità, il suo sentimento panteistico:. cioè il nuovo dio che il poeta simboleggia qui in una nota figurazione. del culto spiritistico svedenborghiano 45
(veèli, per tutti, Korff): « Faust: [ ... ] Dove ti afferrerò infinita natura? [ ... ] Tu, Spirito della terra, mi sei piu vicino [che non il macrocosmo]; già sento crescere le mie forze, già mi riscaldo dentro come per vino nuovo; mi sento il coraggio di avventurarmi attraverso il mondo, di portare tutto il dolore della terra e tutta la felicità della terra [ ... ]. Spirito: Tu supplichi a perdita di fiato di vedermi [ ... ] eccomi. - Quale pietoso terrore ti coglie ora, superuomo! Dov'è il grido dell'anima? Dove il cuore che suscitava in sé un mondo e lo portava e lo custodiva e trasalendo di gioia si gonfiava per eguagliarsi a noi, agli Spiriti? [ ... ] Sei tu, che avvolto dal mio alito tremi nel piu profondo del tuo essere vitale, un pauroso verme che contorto si scosta? Faust: Cederei io a te, forma di fiamma? Sf, sono io, sono Faust, io il tuo pari! Spirito: Nei flutti della vita, nell'uragano dell'azione, mi innalzo e mi abbasso, alito qua e là! Culla e tomba, un eterno mare,. una mutevole tela, una ardente vita, cosi io opero al rumoroso telaio del tempo e tesso la vivente veste della divinità. Faust: O tu che scorri l'ampio mondo, Spirito operoso, come mi sento prossimo a te! Spirito: Tu somigli allo Spirito del tuo concetto, non a me! Faust: Non a te! A chi dunque? Io, immagine di Dio, neppur simile a te! » etc.; 2. l'impulso al suicidio, maturato in Faust dall'esser stato respinto da!lo Spirito della terra nella « incerta condizione umana », dove « i sentimenti sublimi che ci animarono intorpidiscono nel brulichio terrestre » e « la cura si annida nel profondo del cuore e vi genera segreti dolori [ ... ] e tu tremi davanti a ciò che non ti coglie mai », tale impulso è fugato dal suono delle campane di pasqua non per un risveglio in F. di sentimenti cristiani («intendo bene il messaggio, ma mi manca la fede »), bensi per la elementare forza di una inconsapevole volontà di vita, mancante certo a Werther, ma già presente (vedi Korff) nel Prometeo goethiano: « [ ... ] E pertanto questo suono, familiare alla mia infanzia, mi richiama anche ora alla vita [ ... ]. La gioiosa speranza verdeggia nella valle [ ... ]. Qui è per il popolo il vero cielo, grandi e piccoli esultano di contentezza: qui mi sento uomo, qui mi è lecito esserlo» (e di contro il suo famulus Wagner uomo-di-libri che si lamenta: « [ ... ] da solo non mi perderei qui, ché io sono nemico di tutto ciò ch'è grosso: !ano»); 3. la condizione tragica faustiana, da cui hanno origine il patto (la gioventu, e una vita piena, in cambio dell'anima) e la scommessa (la insoddisfazione perpetua) con Mefistofele ( 1 ) e la portata di questi impegni che caratterizzeranno lo sviluppo 46
futuro dell'eroe: a) scampato al suicidio (ma anche privato della sua forza liberatrice) per quella volontà vitale che m:mcava a un Werther, Faust è riafferrato da:! Weltschmerz, dal « tormento della ristretta esistenza tertesùre », dal doloroso senso della finitezza umana quale può agitarsi in una coscienza religiosa panteistica, e si ·arrovella nel suo inferno a maledire l'universo: « [ ... ] Tu devi rinunciare! tu devi rinunciare! È !'•eterna canzone che risuona agli orecchi di ciascuno [ ... ]. Vorrei piangere lacrime amare considerando la giornata che nel suo corso non esaudirà nessuno dei miei desideri, nessuno [ ... ] e che •impedisce ogni virtu creativa del mio cuore vivo [ ... ]. Cosi maledico tutto ciò che setta l'anima in una rete di 'inganni e finzioni e la trattiene in questa caverna di dolore con una cecità lusingatrice. E per prima sia maledetta htlta opinione di cui lo spirito [ la nostra mente o ragione ma nel linguaggio idealistico] si circonda! [. .. ] Maledetta sia la speranza! Maledetta la fede! E maledetta soprattutto la pazienza! »; b) il senso profondo del susseguente patto-scommessa con lo « spirito che continuamente nega », con Mefistofele (« cosi alla forza eternamente attiva e santamente creatrice tu [M.] opponi il pugno ghiacciato del diavolo »), che la volontà vitale faustiana ha con la mag.ia attratto nella sua orbita, è dato subito dal contrasto denso di equivoci che sta alh base del reciproco impegno: « M.: Mi voglio mettere quaggiu al tuo servizio [ ... ] : quando ci ritroveremo di là tu dovrai fare lo stesso. F.: L'al di là mi preoccupa poco; manda prima in rovina questo mondo e poi può nascere l'altro. Da questa terra sgorgano le mie gioie e questo sole splende sui miei dolori [ ... ]. M.: [ ... ] io ti darò cose che nessun uomo ha mai viste. F.: Che vuoi tu darmi povero diavolo? Lo spirito di un uomo nella sua alta tensione fu mai compreso da un tuo pari? [ ... ] Se accada mai ch'io mi stenda soddisfatto su U!l letto di pigrizia, -che allora io sia finito! Se vu puoi con lusinghe ingannarmi al punto ch'io mi compiaccia di me medesimo, se tu puoi illudermi coi piaceri, sia allora il mio ultimo giorno! Te ne fo' scommessa! [ ... ] Se dirò all'istante che passa: indugia dunque, sei tanto bello! [ ... ] allora consento volentieri a perire! [ ... ] Solo non temere ch'io rompa il patto. La tensione di tutta la mia energia è proprio ciò che prometto [ ... ]. È da tanto che mi nausea ogni sapere [ ... ]. Gettiamoci nel crosciare del tempo, nel vortice dell'accadere! [ ... ] Solo se instancabile l'uomo si afferma uomo! [cfr. l'interpretazione f.austiana, precedente, dell'incipit del vangelo giovanneo: « Sva scritto: in prin-
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cipio era il verbo. Qui già esito! Chi mi aiuterà a andare oltre? Non posso apprezzare tanto il verbo [ ... ] e scrivo fiducioso: in principio era l'azione!»] [ ... ] Mi hai già sentito: qui non è questione di piacere[ ... ]. M.: [ ... ] Credi a qualcuno come me: questo tutto è fatto soltanto per un Dio! [ ... ] F.: Ma io voglio! [ ... ] Che sono, dunque, se non mi è possibile di conquistare quella corona d'umanità a cui aspirano tutti i miei sensi? [ ... ] M.: [ ... J Il destino gli ha dato uno spirito che procede in avanti senza ,i,lcun freno e che nel suo sforzo precipitoso sorvola le gioie della terra [ ... ] . Invano implorerà conforto e anche se non si fosse dato al diavolo dovrebbe sempre andare in perdizione! »: e cioè il patto e (ancor piu) la scommessa non sono che un'astuzia della volontà vitale di Faust (a lui stesso celata dunque) per uscire dall'inferno ben umano del Weltschmerz senza ricorrere al wertheriano suicidio fisico (tanto Sturm-und-Drang) e senza preoccuparsi assolutamente di quel suicidio dell'anima cristiana ch'è la sola « perdizione » che possa minacciargli un Mefistofele (la mi totale naturale incomprensione dell'uomo faustiano tocca già il suo culmine in questo guardare ai propositi di Faust dal punto di vista della beghina); onde, insomma, è sotto il segno problematico di un amor fati = amor vitae (« Dasein ist PJlicht ... ») che si profila fin dal principio la vicenda faustiana e la sua morale: e questo bisogna tener presente per non perdere d'occhio il tutto (poetico) per il particolare, ad es. la tragedia di Margherita: ché già alcuni dei piu profondi e genuini accenti di poesia (si è pur constatato) risuonano in accordo esplicito (organico) con una struttura e un assunto generali, di cui la prima parte è precisamente l'impianto {problematico-storico). Ciò posto, si comprende come la seconda parte ci presenti il conclusivo sviluppo poetico di quella struttura e di quell'assunto problematico secondo le seguenti linee (principali) dell'esperienza faustiana ulteriore: 1. il risveglio della volontà vitale del ringiovanito Faust (1 ) - dopo lo sconforto e l'orrore di se stesso per la fine di Gretchen - al contatto con la natura (« contrada amena »): « Ariel: [ ... ]Che frastuono arreca la luce! [ ... ] Faust: II polso della vita batte fresco e vivace per salutare dolcemente l'alba eterea [ ... ]. È l'amore? è l'odio? che ci stringono col loro fuoco, e in un portentoso alternarsi di dolore e di gioia, cosi che guardiamo di nuovo alla terra per nasconderci sotto il velo della nostra prima gioventu? [ ... ] Ma quanto splendida [ ... ] la curva durevole e cangiante dell'arcobaleno, che, ora puramente disegnata ora sfo- . 48
mata nell'aria, spande attorno a sé un brivido di vaporosa freschezza: .immagine dello sforzo umano [ ... ] »; 2. la grande esperienza intellettuale di Faust: quella della Grecia antica e dei suoi miti: dalla discesa di F. alle «madri», personificazione di platoniche essenze, radici di tutte le creature (« Il brivido sacro è la miglior parte dell'umanità: per quanto caro gli faccia pagare il mondo questo sentimento, l'uomo commosso sente profondamente l'immensità», proclama Faust panteista romantico) e le sue prime impressioni del Peneo popolato di ninfe (« O meraviglia che mi penetra! Sono sogni? Sono memorie? ») e il racconto di Talete del volontario sacrificio di Homunoulus, l'uomo chimico, puro spirito, creato nel laboratorio di Wagner, che entra nella vita piena attratto dalla natura, dall'amore e la morte, uccidendosi contro il carro della Cipride marina, di Galatea (« È Homunculus condotto da Proteo. Sono i sintomi dell'imperiosa nostalgia. Sento il sospiro di uno scrollo angoscioso. Egli si sfracella contro il trono risplendente: ecco che avvampa, e folgora e già si diffonde »), fino alla unione di Faust con Elena rediviva incarnazione dell'antica bellezza (Elena « forma delle forme »), unione ch'è il simbolo poetico della poesia intesa (romanticamente) come contemplatività ( = apollineo) estetica o del sentimento (« Faust: il nostro spirito non guarda piu al passato né all'avvenire, il presente solo ... Elena: è la nostra felicità »), e fino al godimento panteistico di una libertà arcadica (« Faust: [ ... J Sono dèi o uomini? Apollo prese tanto la figura di un pastore che uno dei pastori piu belli gli assomigliò: ché dove la natura dispone nel suo puro circolo tutti i mondi si abbracciano [ ... J. Arcadicamente libera sia la nostra felicità! »): donde insomma (d'accordo col Korff e la migliore tradizione esegetica) una suprema romantica sintesi poetica di Klassik e di Romantik, nel senso di quella W eltliteratur o letteratura universale realizzata già da Goethe stesso nel Divano occidentale-orientale; 3. le estreme decisive esperienze morali di Faust: a) l'edificazione di un suo dominio politico-economico (« Questo globo offre ancora spazio per grandi azioni [ ... J, mi sento la forza per ardite fatiche[ ... ]. A me dominio e possesso! L'azione è tutto, la gloria niente »); b) dopo ,il rimorso per la fine miseranda di FHemone e Baud, indirettamente ma incontestabilmente promossa da Faust per spossessarli della loro minima proprietà (« Questi pochi alberi che non mi appartengono mi guastano il possesso di un mondo [ ... J. Ci si stanca di essere giusti [ ... ] . Nel profondo mi rincresce questo atto d'impazienza »), la resistenza 49
vittoriosa alla Cura, che lo V1s1ta nell'estrema vecchiezza e non potendo altro lo acceca, e la esplicita sconfessione della magia e di ogni sorta di superstizione: « Se io stessi, natura, di fronte a te soltanto come un uomo, allora varrebbe la pena di esser· uomo [ ... ]. Prigionieri ad ogni istante della superstizione [ ... ], cosi intimoriti noi ci troviamo soli [ ... ]. Verso l'aldilà la vista è impedita; insensato chi dirige colà lo sguardo abbagliato e si figura al di là delle nubi esseri simili a lui! [ ... ] Per il valoroso questo mondo non è muto. Che bisogno ha di vagare attraverso l'eternità! [ ... ] Fantasmi maledetti! [ ... ] Persino i giorni indifferenti li trasformate in uno sconcio caos di inestricabili tormenti. So bene che ci si libera non facilmente dei dèmoni [ ... ] ma la tua potenza insinuante e forte, o Cura, non la riconoscerò [ ... ] . La notte sembra penetrarmi sempre piu profonda [ è cieco], ma dentro risplende una chiara luce: ciò che ho pensato mi affretto a compierlo; la parola del capo soltanto ha peso. Giu dal letto, servi! Tutti in piedi! [ ... ] Prendete i vostri utensili, muovete pale e vanghe! I piani stabiliti debbono realizzarsi subito [ ... ]. Il genio di uno solo basta per mille mani »: nella quale contrapposizione di genio o mente e mani ( = le « hands » = gli « operai » dell'economia politica) vedi la divisione del lavoro, implicata dall'emulazione individualistica o di concorrenza (e cfr. avanti Majakovskij); e) la morte in piedi di Faust, l'individualista strenuo e eroe (borghese) dell'attività instancabile, che si esalta come campione consapevole e araldo di una (borghese) « comunità di liberi», chiamata a grandi opere di produzione di umano benessere, e in questa coscienza, in cui tocca il vertice e si sublima il suo amor fati ch'è amor vitae, finalmente si appaga: « Faust: [ ... ] Quando al di foori i flutti infuriano fino ai bordi [ della diga], lo sforzo comune si affretta a chiudere la breccia. Si, a questo pensiero mi sono dato tutto intero. L'ultima conclusione della saggezza è che colui soltanto merita e libertà e vita che deve conquistarle ogni giorno [ ... ]. Stare su una terra libera, con un popolo libero: all'istante che passa pot:rei ,allora dire: fétmati, dunque, sei tanto bello! La traccia dei miei giorni terrestri non potrebbe cosi disparire in delle eternità. Nel presentimento di una tale, tanto alta, felicità, godo ora dell'istante supremo. (Faust si accascia, i lemuri lo afferrano e lo coricano al suolo.) Mefistofele: Nessun piacere lo sazia, nessuna felicità gli basta, cosi amoreggia sempre con forme cangianti: ed ecco che il povero uomo desidera trattenere l'ultimo, cattivo, vuoto momento. E colui che mi ha resistito con tanta
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energia il tempo lo soggioga, il vegliardo giace qui sulla sabbia. L'orologio si ferma [ ... ] »: dove è anche chiaro, da questo cinico quanto sciocco epitaffio mefistofelico, che, se Faust incarna poeticamente (simboleggia) il lato positivo, eroico, creativo, dell'uomo moderno-borghese, Mefisto (con buona pace del Lukacs) ne incarna e simboleggia soltanto il lato negativo, tutto il deteriore. L'epilogo « in cielo» (con gli angeli che strappano Faustens Unsterbliches, la « parte immortale » di Faust, alle fauci di « iena colossale » dell'inferno, e cantano: « Salvo è. il nobile adepto del mondo degli Spiriti: "colui che sempre si sforza e cerca [Wer immer strebend sich bemiiht] noi lo possiamo salvare": e se poi l'Amore intercede dall'alto per lui la schiera beata gli viene incontro con un benvenuto di ouore » etcetera) compie e suggella il prologo « in cielo » e precisamente il discorso sui generis del « Signore » a Mefistofele a proposito di Faust: « L'uomo erra finché si sforza e cerca [ so lang' er strebt] [ ... ]. Distogli questo spirito dalla sua fonte originale [ ... J e arrossisci quando tu debba riconoscere che un uomo buono nel suo oscuro impulso è ben consapevole della retta via»; compimento e suggello duplice: perché riguardante non solo la continuità e coerenza del significato immediato e del prologo e dell'epilogo ma altresf la continuità e coerenza del significato simbolico di entrambi: ch'è, precisamente, un significato simbolico (o generale) non letterale, cioè non fondato sulla letteralità del testo, bensf sulla sua portata metaforica, ché la « salvezza » dell'uomo faustiano, con la teologia cristiana (cattolica) che ci richiama, non è altro che l'espressione concentrata (metaforica appunto) di una comparazione o similitudine dei valori morali laici panteistico-idealistici e spiritualistici del faustismo coi valori morali dogmatico-spiritualistici della teologia suddetta non diversamente e non meno (anzi con ben altro conclusivo peso simbolico morale) dell'uso simbolico-metaforico dei miti greci per significare, si è visto, la sintesi classico-romantica. E s'intende che anche qui sono soddisfatte le condizioni gnoseologiche di ogni processo di metaforizzazione (vedi sopra e avanti): la simiglianza (qui: la concezione genericamente spiritualistica del mondo) di termini pur dissimili (qui: la diversità, il distacco, ±ra concezione laica, umanistica, e concezione dogmatica, chiesastica, dellv spiritualismo, coi relativi diversi presupposti sociali e materiali). E il non aver visto chiaro in questo simbolismo finale in chiave di metafora del Faust ha sviato in piu modi, direttamente o indirettamente, i critici, dal Vischer al Rickert, al Bohm
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e fino al Korff, il ·quale significativamente oscilla ·fra il giusto riconoscimento della « necessità artistica della incorniciatura religiosa» dell'opera ossia del suo « riavvicinamento esteriore ai presupposti mitologici della cristiana saga di Faust » e la sconcertante affermazione che « questa poesia non cristiana fronteggia il proprio non-cristianesimo con quella ironia romantica ch'è. il suo ultimo poetico mistero»: affermazione che, d'altra parte, contraddice, in sostanza, il precedente avvertimento: che essa poesia « non lo [il mito faustiano] intende annichilire con ironia romantica», ché « anche il mito faustiano ha la sua interna moralità» etcetera. Concludendo, lo stesso rilievo tecnico del simbolismo finale del Faust come simbolismo in chiave metaforica, e in particolare (secondo la grammatica della metafora) di metafora-verbo (« Den konnen wir erlosen » « colui lo possiamo salvare » ), ,lo stesso rilievo, mentre ci dà la misura della forma artistica dell'opera nel suo risultato finale e complessivo, ci indica anche - proprio attraverso quel concetto-simbolo della «salvezza» dell'eroe che sta a garanzia (col suo richiamo associativo, metaforico, alle figure di una tradizione di valori morali st"bilita e venerata quanto mai nessun'altra forse) della validità e oggettività del credo faustiano - ci indica tutta la portata del «contenuto» (laico) inscindibile da tale forma: in quanto contenuto storico, la cui stessa problematicità (si pensi alla immoralità, tanto discussa, di certe azioni dell'esaltato eroe dell'azione: si pensi alla fine di Margherita e di Filemone e Baud) non è imputabile alla forma, all'arte, ohe anzi ha il merito di averla sollevata illuminando cosi la morale dell'umanesimo individualistico, borghese, e del mondo moderno in tutta la sua complessità (e, si badi, costituendosi proprio in tal modo come grande arte, grande poesia), bensf è imputabile solo, ammesso che la parola qui abbia un senso, alla storia stessa, appunto, che d'altra parte tale problematicità verrà rischiarando e risolvendo ulteriormente con l'economia e la politica e la morale e la scienza e l'arte dell'umanesimo socialista. A tal punto, insomma, nella vera grande poesia, poesia e storia sono, ancora una volta, inseparabili (anche se ognuna per sé tecnicamente distinguibile, vedremo): onde c'è nella morte e salvazione di Faust un pathos moderno, laico (borghese), non meno oggettivamente peouliare, e però poeticamente significativo, del medievale sentimento dantesco dell'illuminazione suprema della grazia (« All'alta fantasia qui mancò possa ») o del sentimento religioso greco so-
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focleo della « mirabile » morte di Edipo a Colono ( « Non piangete, perché certamente queste cose hanno autorità»).
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8. La poesia contemporanea ha anch'essa (non potrebbe essere altrimenti, sappiamo) le sue punte salienti nei poeti che meglio rispecchiano la società o meglio le società, la borghese e la socialista, dell'epoca presente; in altri termini: nei poeti piu ricchi di pensiero e di ethos: Eliot e Majakovskij e Brecht (per nominare subito coloro che hanno dato piena misura di se stessi: ad altri accenneremo nel corso dell'argomentazione). Perciò, a parte altre considerazioni, restano fuori del nostro esame (sperimentale) poeti come Yeats, Valéry, Rilke: nei quali predomina il senso del passato su quello del presente e si ripete il senso di miti secolari e un insieme di « banalità esemplari » (Kléber Haedens: a proposito di Valéry) sull'amore, la morte, l'eternità, la natura e l'arte etcetera, secondo i moduli culturali tradizionali delle esperienze postromantiche e decadentistiche (simbolistiche): come ad esempio H mito del narcisismo-ne1la-vita-e-neH'arte in Valéry (« Ma io, amato Narciso, non sono curioso / che della mia sola essenza; / ogni altra non ha per me che un cuore misterioso, / ogni altra non è che assenza» etc.; e vedi l'« occhio spirituale» nella ]eune Parque e il commento del fervido Alain); o il mito platonico-romantico della interiorità del sapere (anamnesi) e quindi di uno « spazio interiore del mondo » in Rilke (« Sebbene il -riflesso nello stagno / possa soV'ente dileguarsi ai nostri occhi, / sappi il simbolo»: Sonetti a Orfeo, IX, 9-11; e cfr. spec. Elegie duinesi, IX). Ma con Thomas Stearns Eliot la tradizione letteraria postromantica e decadente (cui pur appartiene) si ravviva nel contatto diretto coi problemi morali della società (borghese) che l'ha generata e precisamente con quelli della grande crisi prodottasi dalla prima guerra mondiale in poi (la Terra desolata è del 1922), tuttavia inavvertiti dai Valéry e Rilke e Yeats. Vediamo come lo spiritualismo, che Eliot ha in comune con costoro e i predecessori simbolisti, specificatosi in spiritualismo tra luterano e cattolico, operi quale catalizzatore poetico della crisi dei valori morali laici tradizionali, borghesi, già precipitanti in seguito alla prima guerra mondiale. Esaminiamo rapidamente qualche campione di questa coscienza poetica religiosa della crisi contemporanea. Ecco un passo saliente della prima sezione della 53
Waste land (la« terra desolata», inaridita, ch'è la presente civiltà, borghese): « Città irreale, / nella fosca nebbia di ùn'alha invernale / una folla fluiva sul London Bridge, / cosi numerosa / ch'io non avrei mai pensato che morte tanti ne avesse disfatti. / Sospiri brevi e rari erano esalati, / e ognuno fissava gli occhi a terra davanti a sé. / Affluivano su per la salita e scendevano per King William Street / fin dove Santa Maria Woolnoth batteva le ore / con un suono sordo all'ultimo tocco delle nove. / Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai chiamandolo: " Stetson ! / tu che fosti con me sulle navi a Milazzo! / Quel cadavere che piantasti l'anno scorso nel giardino / ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno? / O il gelo improvviso ha disturbato il suo letto? / Oh, allontanane il cane, ch'è amico degli uomini, / o altrimenti con le sue unghie lo dissotterrerà!" / "Tu! Lettore ipocrita! Mio simile - mio fratello! "». Si noti, per fissare l'essenziale, come la tecnica eliotiana delle metafore-frasi basate per lo piu su allusioni culturali e associazioni di lontani fatti storici (qui: allusioni alla Parigi baudelairiana dei Sept vieillards: « Fourm!Ilante cité, cité pleine de reves, / où le spectte en plein jour raccroche le passant!»; al Limbo dantesco, In/., III, 55-7: « [ ... ] si lunga tratta / di gente, ch'io non avrei creduto / che morte tanta n'avesse disfatta» etc.; alla battaglia di Milazzo del 200 a.C. vinta dai romani nella prima guerra punica, guerra commerciale e di conquista per antonomasia; al salmo XXII, 20, « [ ... ] salva dal cane chi mi è caro », e alla nenia cantata da una madre impazzita sul corpo di un suo figliuolo ucciso dal fratello nel Demone bianco, V, 4, di John Webster: «[ ... ]ma tenete lontano il lupo, nemico agli uomini / perché con le sue unghie li dissotterra»; e al verso conclusivo di Au lecteur, in Les fleurs du mal, dove Baudelaire chiama il lettore corresponsabile del « serraglio infame dei nostri vizi »: « - Hypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère ») concorra a produrre quella rappresentazione-giudizio che culmina nel pathos della denuncia dell'uomo contemporaneo (« Stetson », dal corrente nome di uomo d'affari inglese di oggi, è come fosse stato sulle navi di una delle prime guerre di conquista: ché tutte le guerre imperialistiche sono una sola medesima guerra: e Stetson, abbia fatto o no la prima mondiale, è il simbolo dell'uomo appartenente a civiltà commerciali e di rapina) per il suo tipico egoismo crudele e la sua ipocrisia, per cui è ironicamente avvertito di tenere lontano dal cadavére-vittima il raspante cane-amico-degli-uomini: cioè di nascondere (non . 54
gli sarà difficile) le sue colpe alla sua coscienza umanitaria (di. cui è tanto fiero). Simbolismo riuscito perché fondato su una rappresentazione, pur nella sua complessità, estremamente precisa, concreta. Ma già in Gerontion (1919), ch'è attraverso il ritratto dei pensieri di un vegliardo il quadro simbolico di una civiltà irreparabilmente decaduta, troviamo accenti come questi: « Eccomi, un vecchio in una stagione arida / [ ... ] Nella gioventu dell'anno / venne Cristo il tigre - / nel maggio depravato cornioli e castagne selvatiche e alberi di Giuda in fiore - / da mangiare, da dividere, da bere / fra bisbigli: da mr. Silvero, / dalle mani carezzevoli, che a Limoges / passeggiò tutta la notte nella stanza accanto; / da Hakagawa, che s'inchinava fra i Tiziani; / da madame de Tornquist, che nella stanza buia / spostava le candele; da Fraulein von Kulp / che si voltò nel vestibolo, una mano sulla porta [ ... ] / Dopo tale cognizione, quale perdono? Pensa ora / che la storia ha molti passaggi sottili, ingegnosi corridoi / e uscite, e ch'essa ci inganna con sussurranti ambizioni, / e ci guida con delle vanità [ ... ] / Pensa che / né paura né coraggio ci salvano. Vizi contro natura / sono generati dal nostro eroismo. E virtu / ci sono dettate dai nostri crimini senza pudore. / Queste lacrime sono scosse dall'albero della collera. /. [ ... ] Balza il tigre nell'anno nuovo. E ci divora [ ... ] / Ho perduto la mia passione: perché dovrei serbarla / se tutto ciò che si conserva deve adulterarsi? / [ ... ] De Bailhache, Fresca, mrs. Camme!, proiettati / oltre il circuito dell'Orsa rabbrividente, / in atomi polverizzati [ ... ] / E un vecchio cacciato dagli alisei / nel suo angolo di sonno. - Abitanti della casa, / pensieri di un cervello secco in una stagione arida». Dove, espressi col solito procedimento eliotiano di metafordrasi etcetera, due significati morali campeggiano: 1. la denuncia dello scristianizzarsi della società borghese quale ad es. si rivela nei suoi alti strati, della cosiddetta international café society: e si noti come la perversione dell'amor sacro - in questo ceto mondano tipicamente accennato nelle silhouettes del maniaco di porcellane preziose (mr. Silvero dalle mani carezzevoli), della praticante di spiritismo (madame de Tornquist) e degli altri - prenda potente rilievo poetico (metaforico) dalla ellittica, obliqua, associazione della celebrazione del sacramento - di amore - della santa comunione (« da mangiare, da dividere, da bere fra bisbigli: da mr. Silvero ») sia coi pagani riti della fertilità di pri. mavera (quel maggio « depravato » non solo per la sua bellezza sensuale, dunque: ma in primavera cade anche la santa pasqua)
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sia coi primitivi abiti rlru;ili di mangiare Ja carne e bere il sangue di animali feroci per acquistarne gli attributi, il che ci spiega - in questo telescopio di immagini, dalle piri vicine alle piri lontane - quel « tigre » che, dall'inizio, è pur associato (sullo spunto dei bestiari medievali, « moralizzati ») ,a;l Cristo ( 1 ), ,;pportatore dello amore divorante (cfr. Matt., 10, 34: « non pace» etc.) e donatore di se stesso appunto nelle specie del pane e del vino da mangiare, dividere etc., e che incombe terribile verso la fine; 2. la svalutazione mistica della storia umana, tutta inganni e corruzioni (un « adulterarsi ») e lacrime infine: ma - si badi - lacrime non solo versate per i vizi mostruosi generati dal nostro eroismo e le virtu dettate dai nostri crimini, le guerre ad esempio, ma - piu radicalmente - scosse da quel biblico albero della collera ch'è Io stesso albero della conoscenza del bene e del male. Il che ci rinvia all'opera poetica conclusiva di E.: i Quattro quartetti, d'ispirazione studiatamente religiosa, anzi mistica. Nel primo dei quali, Burnt Norton, ch'è, il migliore anche per la ricchezza dei temi che saranno poi ripresi negli altri tre, troviamo il mito poetico centrale del « giardino delle rose che hanno l'aria di fiori che sono guardati ». La trovata poetica originale consiste in questo: che uno dei motivi convenzionali piu patetici dell'esperienza umana - i giardini della nostra infanzia, quei paradisi della nostra innocenza sempre rammemorati e rimpianti - è trattato come un esempio del carattere illusorio di tutte le nostre umane esperienze, in quanto racchiuse entro le limitative distinzioni temporali di passato, presente e futuro, e rivalutato solo per la sua capacità di diventare una fugace illuminazione di qualcosa che è « ora e per sempre », di diventare, insomma, un simbolo di quella aspirazione alla rinascita come spirituale conquista, che si placa solo nel « presente » eterno del mistico, in cui tutte le distinzioni-opposizioni, comprese quelle temporali, si annullano e si gode della « quiete » dell'unità divina, dell'assoluto. Ma ecco un saggio della realizzazione poetica di questi concetti: « [ ... ] Ciò che avrebbe / potuto essere e ciò che è stato / tendono verso un solo termine, che è sempre presente. / Dei passi riecheggiano nella memoria / lungo il corridoio che non abbiamo preso / verso la porta che non abbiamo mai aperta / sul giardino delle rose. Le mie parole riecheggiano / cosi nel vostro spirito [ ... ] / Altri echi / abitano il giardino. Li seguiremo? / Presto, disse l'uccello, presto, trovali, trovali / all'angolo. Attraverso la prima porta, / nel nostro primo mondo, seguiremo noi/ l'inganno del tordo? Nel nostro primo mondo. / [ ... ] E Io
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sguardo celato passò perché le rose / avevano l'aria di fiori che sono guardati. / Essi erano H, ospiti nostri, accettati e accettanti. / Cosi ci muovemmo, ed essi con noi, in un cerimonioso ordine, / lungo il viale vuoto, ed entro la siepe tonda, / per guardare nella vasca prosciugata. / Arida la vasca, secco il cemento, dagli orli scuri, / e la vasca si riempi d'acqua per la luce solare / e i fiori di loto emersero quieti quieti, / e la superficie scintillò dal cuore di luce, / ed essi erano alle nostre spalle, riflessi nella vasca. / Poi una nuvola passò, e la vasca fu vuota. / Va, disse l'uccello, ché le foglie erano piene di fanciulli, / nascosti e agitati e che trattenevano le risa. / Va, va, va, disse l'uccello: il genere umano / non può sopportare troppa realtà. / Il tempo passato e il tempo futuro, / ciò che avrebbe potuto essere e ciò ch'è stato,/ tendono a un solo termine, ch'è sempre presente. / [ ... ] Il tempo passato e il tempo futuro / non permettono che una scarsa consapevolezza. / Essere consapevole è. non esser nel tempo, / ma solo nel tempo il momento del giardino deìle rose, / il momento sotto il pergolato, dove la pioggia batteva, / il momento nella chiesa ventosa all'ora in cui ricade il fumo, / posson essere rammemorati; implicati nel passato e nel futuro. / Soltanto nel tempo il tempo può essere vinto. / [ ... ] La parola nel deserto / è assalita soprattutto dalle voci della tentazione, / dall'ombra urlante nella danza funebre, / dall'alto lamento della sconsolata chimera. / Il dettaglio di un modello è movimento. / Il desiderio stesso è movimento, / non desiderabile in se stesso. / L'amore è per se stesso immobile, / soltanto causa e fine del movimento, / intemporale e senza desiderio, / eccetto che sotto l'aspetto del tempo, / dove è preso sotto la forma della limitazione / fra il non-essere e l'essere. / Subito in un raggio di sole / nella polvere stessa che si muove / si alza il riso nascosto / di fanciulli nel fogliame / presto ora, qui, ora, sempre. / Ridicolo il triste tempo vano / che si stende prima e dopo». (E cfr. il secondo quartetto, East Coker, vv. 130 sgg., e il terzo. The Dry Salvages, vv. 92 sgg., e il quarto, Little Gidding, vv. 245-56.) Basti notare come è condotta dal poeta, nella sostanza, la svalutazione mistica di quell'esperienza del nostro primo ingresso nel mondo attraverso la natura (i giardini dei primi giuochi della nostra infanzia) e quindi la riduzione di. tale esperienza ad un esempio del carattere di illusione della nostra esperienza in genere in quanto contenuta e definita dalla temporalità: quel giardino - egli si chiede - è veramente reale? Ha un senso dire che ne abbiamo realmente
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varcato la porta etc.? Le sue rose non hanno forse quell'aria delle cose troppo rimuginate dalla nostra mente (« E lo sguardo celato passò »), delle cose fantasticate, e tutta la scena, priva di genuinità, non si svolge forse come una i11tellettuale commedia (« ospiti nostri, accettati e accettanti », gli echi, « in un cerimon;oso ordine »)? E del resto che cosa impedisce che tutto il giardino coi fanciulli etc. sia precisamente un miraggio come quel riempirsi un istante della vasca per un inganno ottico del fulgore solare? Questi inganni non sono propri delle cose naturali e d'esperienza? Cioè di quanto è sottomesso al movimento e cangiamento, al tempo (il « dettaglio » di un « modello », non il modello, il « desiderio », non l' « amore »), e quindi non possiede uno stabile essere (« Il genere umano / non può sopportare troppa realtà »)? Non resta, dunque, che riparare nel valore simbolico-religioso di quel giardino della nostra ,infanzia, assumendolo come un'allusiva visione fugace (perché possibile solo nel tempo, ma noi siamo nel tempo) di beni e godimenti eterni, immobili, perfetti, reali («qui ora e sempre») e quindi di una rinascita nell'eternità, ch'è una ascetica spirituale conquista etc. (e si vedano gli altri Quartetti: e si tenga presente tutto il materiale storico fornito a E., e spesso indirettamente richiamato nel testo, dai metafisici e mistici, da Eraclito e il vangelo giovanneo e Agostino al Dante del Paradiso e Giovanni della Croce etcetera). Cosi Eliot con la sua sensibilità mistica della presente crisi della società borghese domina la poesia di questa società, lasciandosi dietro a grande distanza non solo e non tanto un Dylan Thomas (formalista dal mondo frammentario per un continua catena a reazione di metafore che tendono a superarsi e distruggersi a vicenda: sorta di Rimbaud in ritardo) ma anche un Auden, poeta pur pensoso e sensibile alle sorti della società borghese (ad es.: « nell'incubo notturno / tutti i cani d'Europa abbaiano, / e le nazioni viventi stanno 'in attesa, / ciascuna sequestrata nel suo odio»: e vedi (1) spec.: September 1, 1939; Crisis, 1940; The unknown citizen etc.), ma senza tuttavia né un centro ideale né una tecnica originale come E.; e anche un \'Vallace Stevens col suo panteismo estetico ma senza immortalità, da m1Jderno Lucrezio (ma notevole: Sunday morning, soliloquio domenicale di una donna che si dibatte fra le ragioni pro e contra la religione cristiana, tisolvendosi per il contra: ad es.: « Essa dice: "sono contenta quando uccelli al risveglio, / prima del volo, provano la realtà / dei campi in bruma con le loro dolci domande: / ma quando gli uccelli son partiti, ed i loro caldi campi / non
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tornano piu, dove allora è il paradiso?" »); per non dire di uno Spender, uno Auden in minore (vedi ad es.: After they bave tired; Statistics etc.). · Ma almeno un accenno esige in questo luogo la poesia· di Eugenio Montale, la sola o la maggiore poesia italiana della crisi e però, secondo il nostro criterio, la piu significativa e la piu durevole poesia italiana contemporanea borghese. La perdita deila certezza del reale e di ogni fede, l'aridità del puro esistere, la stessa natura decomposta in allusioni intellettuali, ironiche, e quindi un pathos secco e gelido e pur sottilmente straziante: ecco lo schema morale di questa poesia autentica patita della crisi. È la poesia di un mondo che ha colori come questi: « Qui - il colore / che resiste è quello del topo che ha saltato / tra i giunchi 0 col suo spruzzo di metallo / velenoso, lo storno che sparisce / tta i fumi della riva »; una poesia che si pronuncia in sentenze come la seguente: « Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»; una poesia che conclude con un « piccolo testamento » che dice: « Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di chiesa o d'officina / che alimenti / chierico rosso o nero .. / Solo quest'iride posso / lasciarti a testimonianza / d'una fede che fu combattuta, / d'una speranza che bruciò piu lenta / di un duro ceppo nel focolare. / Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / e un ombroso Lucifero scenderà su una prora / del Tamigi, del Hudson, della Senna / scuotendo l'ali di bitume semi- / mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora. / Non è un'eredità, un portafortuna / che può reggere all'urto dei monsoni / sul ,fil di ragno della memoria, / ma una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l'estinzione»: e cfr. sopra, per quest'ultimo verso, Eliot: « tutto ciò che si conserva deve adulterarsi»; ma si tenga presente la differenza tra la conclusione religiosa, anzi mistica, di E. e la conclusione asscilutamente, e negativamente, atea di M. Con Vladimir Majakovskij, il poeta della rivoluzione socialista di ottobre (1917), sembra che il mondo rinasca: « Noi tutti / sulla terra », è detto in Rivoluzione del 1917, « siamo soldati d'un solo / esercito che crea la vita». Lo stesso ateismo, l'ateismo del socialismo scientifico (« Noi / con Dio / che abbiamo da spartire? / Noi stessi / seppelliremo in pace i nostri morti»: ivi), è elemento positivo, una componente dell'ottimismo di questo
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nuovo umanesimo (socialista). E l'amore è messo in dubbio e negato, si (« Sulla polvere alzata dalle battaglie, / su chi si azzuffa, disperando nell'amore, / oggi, / inverosimile verità, si avvera / la grande eresia dei socialisti! »: ivi), ma solo, appunto, nella sua accezione tradizionale, borghese, di amore umanitario, cristiano spiritualistico ,( « Ma 1a critica di Lenin / conode la vernice del[e frasi eleganti / e mette a nudo la loro rapace realtà. / Non bastano piu i discorsi / sulJ' essenza della libertà, / sul tema degli uomini tutti fratelli, / noi siamo in pieno movimento marxista, / siamo il primo partito bolscevico del mondo»: poema su V.I. Lenin, 1924 ), per r1afformarlo e ricrearlo come solidarietà socialista: « Vengono al comunismo/ i proletari/ dal basso: / dal basso di miniere, / di falci, / di forconi, / ma io dai cieli / della poesia / mi precipito nel comunismo, / perché non v'è amore / per me / senza di esso » (A casa!); « Forse, / forse un giorno / da un viottolo dello zoo / lei, / lei che amava le bestie, / entrerà nel parco, / sonidente, / come ne1la foto sul tavolo. / È / tanto bella lei, certo rinascerà. / Il vostro / trentesimo secolo / sorvolerà / lo sciame di inezie che dilaniano il cuore. / [ ... ] Risuscitami: / voglio vivere tutta la mia vita! / Perché non ci sia piu amore mezzano / di matrimoni, / di lascivia / e d'un pezzo di pane. / Maledicendo i letti, / balzando su dal materasso, / si espanda l'amore in tutto l'universo. / Perché il giorno, / che il dolore degrada, / non sia mendicato per amor di Cristo. / Perché tutta la terra / sJ rivolti / al primo grido: / "Compagno!"» (Di questo amore, 1923). Cosi via via i principi del materialismo storico e i temi del marxismo-leninismo, teorico-pratico, si articolano poeticamente, espressi in metafore e piu spesso in iperboli folgoranti (il pindarismo del realismo socialista majakovskiano). L'economia marxista e la correlativa lotta di classe: « In Russia, tra le nevi, / nei deliri delJa Patagonia, / il tempo ha impiantato i torni del sudore. / [ ... ] Come se lavorasse in ogni officina, / come se ogni lavoro lo facesse con le sue mani, / colse [Marx] in flagrante / coloro che predano il plusvalore. / E dove gli operai in tremore / non osavano alzare lo sguardo / nemmeno all'ombelico dell'agente di Borsa, / Marx, con la lotta di classe, / guidò il colpo / contro il vitelJo d'oro fattosi bue» (V.I. Lenin, III). Lenin interprete degli istinti di classe delle grandi masse russe sfruttate: « Ho incontrato un operaio analfabeta, / non sillabava neppure una parola. / Ma aveva sentito la voce di Lenin / e sapeva tutto. / Ho ascoltato / il racconto d'un contadino siberiano: / espropria-
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rono le terre, le difesero èon le baionette / e come una paradiso diventò il villaggio. / Essi mai avevano letto Lenin, / né ascoltata la sua parola, / ed erano leninisti» (ivi, IV). Il partito comunista leninista nella sua precisione storica: « Il partito è la spina dorsale della classe operaia. / Il partito è l'immortalità della nostra opera. / Il partito è l'unica cosa che non tradisce. / Oggi sono un povero commesso, / ma domani / cancellerò i regni dalla carta. / Cervello e fatica, / vigore e gloria della classe: / ecco cos'è il partito. / Il partito e Lenin sono fratelli gemelli. / Chi vale di piu di fronte alla storia? / Noi diciamo Lenin e intendiamo il partito, / noi diciamo partito e intendiamo Lenin » (ivi, VII). La dialettica storica della rivoluzione: « Noi / la dialettica / non l'imparammo da Hegel. / Col fragore delle battaglie / irrompeva nel verso, / quando / sotto i proiettili / dinanzi a noi fuggivano i borghesi, / come una volta / noi / dinanzi a loro » (A piena voce, 1930). Il funerale-apoteosi di Lenin: « Egli era un uomo umano per ogni vena. / Portate la bara e struggetevi d'angoscia, / uomini! Un peso come questo gli oceani / non l'hanno ancora portato nei secoli, / come questa bara rossa / che naviga sulle schiene / dei singhiozzi e delle funebri marce, / verso la Casa dei sindacati. / [ ... ] Vagano le notti / sul!'onda dei giorni, / mutando le ore, / confondendo le date, / come se notte non vi fosse, / né steI!e nel suo buio, / ma solo le lacrime / dei negri che piangono Lenin / negli Stati Uniti [ ... ] / Ora i gradini [ della Sala delle colonne] diventano un baratro, / un abisso di vertigini al piede. / Quattro gradini: un abisso dalle generazioni schiave / cui solo era nota la sonante ragione dell'oro. / La bara di Lenin segna il d±stacco. / E piu oltre l'orizzonte della Comune [cioè: Ia fase finale, comunista, del1a società socialista sovietica] » (V.I. Lenin, XIV). La tecnologia e l'ethos implicati nell'edificazione di uno Stato socialista. « Anche noi siamo realisti, / ma non / come il bestiame / (muso a terra) / si nutre del foraggio; / noi ,siamo per la nuova / vita futura, / gigantesca, / moltiplicata / per l'elettricità / e il comunismo» (Lettera a Gorkij, 1926); « Il rombo delle macchine / dei tempi futuri / è / in un sacco / di pietra. / E zitto. / Dacci il ferro! / Fino ai sacchi / nascosti nel sonno, / fino al cuore / terrestre / è giunta la parola d'ordine. / Dacci il ferro! » (Agli operai di Kursk che hanno estratto il primo minerale,« intendo quelli/ [ ... ] che semplicemente lavorano: / buoi del futuro », 1923 ). « Non senza ragione ho sussultato. / Non era uno spettro. / Nella calma estiva / ardente come lava / del porto
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/ virava, / entrando, / il compagno "Teodor / Nette". / È 1ui. / Lo riconosco. / Le due cinture di salvataggio sul davanti / sono i suoi occhiali. / Salute e evviva, Nette! / Dunque tu vivi ancora: / fumando dalla ciminiera, / con la tua attrezzatura, / l'argano dell'àncora pronto. / [ ... J Quando tu eri un uomo, Nette, / forse lo ricordi ancora, / noi bevemmo insieme il tè / nel vagone diplomatico. / [ ... J Al mattino ti addormentavi, / con la browning / in pugno./ [ ... ] Avevi mai pensato/ che, appena dopo un anno, / come nave, / come nave a vapore, / avresti incrociato / la mia strada? / Dietl'O la poppa la luna piena. / Che ingresso. / Si adagia / spezzando in due la distesa. / Quasi in eterno / ti trascinassi dietro / dalla lotta del corridoio / la tua orma d'eroe, / luminosa di sangue. / [ ... J Ma questo / d'un tratto dà vita alle "chimere", / e mostra / il midollo e la carne / del comunismo. / [ ... ] Per esso / alla croce! / al fuoco incrociato dei nemici! / perché non in Russia, / non in Lettonia, / ma in ben piu larghi cerchi / viva d'accordo / l'umana comunità. / Nelle nostre vene / c'è, sangue, non acqua. / Camminiamo attraverso / l'abbaiare delle rivoltelle / per incarnarci, / m0rendo, / in navi, / in poemi / e in altre opere durature»: Al compagno Nette, nave e uomo, 1926. Dove è interessante notare come motivi poetici alla Whitman, quali il senso della moderna tecnica e l'esaltazione del lavoro umano, assumano in M. una diversa e piu vasta portata dall'ethos della solidaria emulazione socialista che potenzia straordinariamente l'individuo immettendolo in una produzione sociale che lo trascende solo per assicurarne il frutto del lavoro, del braccio o della mente che sia, nel corpo sociale: contrariamente a quanto espresso già tipicamente nel borghese Faust, dove, vedemmo, si esalta la emulazione di concorrenza e relativa divisione del lavoro col contrapporre il « genio di uno solo », dell'imprenditore o industrious man (Smith), ch'è appunto Faust, alle « mille mani» o hands o labouring poors (come diceva ancora Adamo Smith). E s'intende che con ciò il dominio (straordinariamente accresciuto) dell'uomo sulla natura (tramite il lavoro), già poeticamente esaltato dal borghese Faust, è rinnovato come motivo poetico senza confronto nel socialista M. Proseguendo, ecco una critica della vita quotidiana borghese, e dei suoi « ideali » correnti, in una scena di vita americana che ritrae una giovanissima operaia al lavoro nei giganteschi magazzini-a-buon-mercato Woolworth (proprietà, se non erriamo, della stella della café society internazionale e miliardaria Barbara Hutton): « Ma al piano inferiore:
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/ "Drugs. soda / ~reat a?d. f_amous nati?nal ~omp~y", ( E a un finestrmo una miss / di d1c1assette anm. / Siede h per reclame / e affila lame. / [ ... ] Io non ho né baffi / né chioma / né dollari; / e in gola / mi s'incagliano / i mozziconi d'inglese. / Ma mi avvicino / e muovo le labbra, / come se / attraverso il vetro / parlassi in inglese: / "Tu siedi, / applaudita dagli occhi dei borghesi. / Che cosa ti assicura? / Testa dura". / Ma la ragazza sente:/ "Open,/ open thedoor". /[ ... ]Io m'arrabbio:/ "Esci,/ rompi la finestra, / e i rasoi spartiscili / per le grasse strozze". / Alla ragazza pare: / "My, my girl". / Cresce la fantasia/ oltremisura, / ed io / le appaio / bello e robusto. / Alla ragazza sembra / che un impiegato innamorato / arrivi da Wall Street / per sposarla. / Crede anche la miss, / tremando di felicità, / [ ... J che in altri piani / già / siano pronti per lei / gratuiti / una tavola / e un appartamento. / Come ficcarle / in testa / le idee-coltelli / che i russi conoscono un altro sistema / per far giungere l'operaio / a tutti i piani, / senza sogni, / senza nozze / e senz'aspettare l'eredità? »: La signorina e il Woolworth, 1925. E si confronti - per la diversità del tono poetico - questa rappresentazione cruda ma umana, e ottimistica in fine, di un caso di alienazione morale borghese (di schiavitu capitalistica) con la rappresentazione eliotiana (nella Wast land, III, 207 sgg.) di un caso oggettivamente simile di vita alienata (il sordido interno domestico, la « home », di una dattilografa della City): rappresentazione quest'ultima impietos.a, senza luce che non provenga, sappiamo, da un disumano « eterno », negati che siano misticamente la «storia», il mondo tutto (e del resto cfr. il pessimismo cristiano di Eliot col rifiuto majakovskiano: che « il giorno», che « il dolore degrada», sia « mendicato per amor di Cristo»: vedi sopra). Ed ecco la capacità majakovskiana della metafora e dell'iperbole nella rappresentazione di un episodio storico (è la chiusa del racconto della presa del Palazzo d'inverno in Bene! o poema di ottobre) e di un moto sentimentale (all'apertura dello stesso poema): « Ardevano le stelle / come lame di baionette, / impallidivano le stelle / di guardia / nel cielo. / E come sempre sibilava l'ottobre coi suoi venti, / serpeggiavano le rotaie sul ponte/ e i tram / continuavano la loro corsa / già / nel socialismo »; «Oggi/ non leggende, non epos/ [ ... ] come telegramma vola,/ verso! / Con labbro ardente / chinati a bere nel fiume / che ha nome " fatto ". / Il nostro tempo vibra / come un cavo telegra-
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fico, / e io son stretto / alla verità. / Questo accadeva alla patria, / ai combattenti, / o solo nel mio cuore ». Concludendo, non è difficile vedere come la maggior forza poetica di M. stia nell'uso geniale di nessi metaforici (e iperbolici) ai fini di una tipizzazione dei valori del1a società socialista in cui visse, dei suoi ideali e istituti e avvenimenti decisivi: il che non deve stupirci, se non altro per la suaccennata natura intellettuale (concreta) dei nessi metaforici in quanto nessi o unità di un molteplice o dissimile (le immagini) a pari titolo degli altri nessi o concetti (letterali). Come non dobbiamo stupirci, per la stessa ragione, del carattere tendenzioso cosi conseguito dalla sua poesia (secondo la sua stessa poetica che dice che « la poesia comincia là dove ci sia una tendenza » ), perché è tale carattere che costituisce il realismo socialista della medesima poesia: e cioè il realismo giudicante o valutativo del combattente per una causa sociale, per il socialismo e il comunismo. Per cui il pindarismo modernissimo, tutto basato su un materiale lessicale storicamente quintessenziato e spesso addirittura tecnico non meno del linguaggio di Pindaro, Dante, Goethe (« Ah, lo so! Il poeta lirico farà una smorfia / [ ... ] : "Ma dov'è l'anima? Dov'è la poesia? / Questa è. solo retorica o giornalismo". / Lo so, "capiterlismo" non è una parola elegante, / ha un suono piu dolce la parola "usignolo", / ma io non mi arrendo per cosi poco. / Io lancio il mio verso / come una parola d'ordine e di lotta, / una parola d'agitazione »), fa tutt'uno col realismo (socialista) di questa poesia.
9. Le precedenti analisi sperimentali di testi poet1c1 Cl autorizzano a trarre, intanto, le conclusioni seguenti. 1. Che la verità o valore conoscitivo della poesia in quanto discorso fa capo (come per ogni altro discorso) a immagini-concetti ossia a complessi logico-intuitivi, secondo quanto ci ha confermato la presenza indispensabile - di una struttura (intellettualità) ossia di un significato in ogni prodotto o « fantasma » poetico. 2. Che, di conseguenza, rinviandoci ogni significato direttamente o indirettamente alla esperienza e storicità e quindi a un quid sociologico, cosf, e solo cosf, è resa possibile la fondazione materialistico-storica della poesia, la sola criticamente accettabile per il suo carattere scientifico, antidogmatico, antimetafisico. 3. Che, tuttavia, solo la analisi (finora rimandata) della componente semantica (verbale)
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,,lella poesia ci permetterà di mostrare anche la peculiarità e specificità di questa, e in che senso diverga il discorso poetico da quello scientifico, e quindi di precisare formule come quelle usate sopra: di pathos oggettivo e storico etcetera. Intanto, procediamo a sviluppare l'esame - sopra saltuariamente accennato in occasione di analisi testuali - di fondamentali categorie di poetica letteraria: quali la metafora (e iperbole) e il simbolo (e l'allegoria): in modo da elaborare ulteriormente il «oncetto di verità letteraria in quanto astrazione letteraria, astrazione implicata appunto dal discorso letterario o poetico. Ma prima sarà utile trarre subito una ulteriore conseguenza dalle analisi fatte sopra: e cioè il chiarimento per contrasto di quel fenomeno negativo che va sotto il nome di banalità letteraria o impoetico vero e proprio: fenomeno ora chiaramente imputabile non. - come si usa - alla « povertà » di « fantasia » o « immagini », bensl a fantasia o immagini non provvedute di struttura o intellettualità sufficiente ad evitare la loro genericità e casualità di significato e quindi la loro stessa opacità di immagini (vedi sopra il principio della implicazione reciproca di ragione e materia ossia di dato e pensiero). E s'intende che anche da questa considerazione resta fuori, per ora, la specifica e specificante componente semantica: e tuttavia, anche se con ciò che si è detto si'includa altresi la banalità scientifica, si ha già abbastanza in mano di ciò che è la sostanza dello impoetico o banale lettetario per poter richiamare a una piu equilibrata conclusione estetica quei critici che, come gli americani Cleante Brooks e Roberto Penn Warren già ricordati, dopo aver premesso che lo « apprendimento immaginativo » di una poesia è « lo scopo » del gusto e la coscienza della struttura della stessa è solo « un mezzo » per tale scopo, concludono, nondimeno, a proposito de1la stock response o gusto-banale-di-massa, che « il buon poeta cerca di provvedere nel1' opera sua i motivi o le ragioni [the grounds] de1le risposte del gusto de1la sua udienza, ma [che]. il cattivo poeta, simile a chi scriva per la pubblicità, fa appello semplicemente ad atteggiamenti mentali convenzionali, per quanto rozzi o generici possano essere ». E insomma per avvertire i teorici e i critici di non continuare a fare (nel migliore dei casi) parti diseguali fra ragione e senso o fantasia quando si tratti della poesia, e di evitare quindi incongruenze e contraddizioni: come nel caso segnalato. Passando al problema della metafora, si può dire che nella Retorica aristotelica, 1405a 5-10 sgg., si trovi in nuce la proble-
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matica filosofica, gnoseologica, della metafora (e similitudine e iperbole) nei suoi aspetti classici essenziali e quindi piu imbarazzanti e impegnativi per noi eredi del Vico, della Romantik, del1',idealismo, e del loro pregiudizio estetistico della metafora come « nesso fantastico » o operato da immagini pure (la solita contraddizione in termini) e insomma come un quid puramente icastico (« certainly a vividness », ci dice uno degli ultimi esteti decadenti, Ezra Pound il fondatore dello imagism). Perché ivi è detto non solo che la metafora conferisce allo stile «chiarezza» (virtu intel- · lettuale!) prima ancora che « attrattiva e distinzione», ma che altresf essa « ha grande valore in entrambe, poesia e prosa». Il che è riecheggiato con intelligenza da Cicerone e da Quintiliano, quando il primo ci dice che « l'adolescenza fiore dell'età» è « una sorta di definizione » del!' adolescenza stessa e il secondo, sempre a conferma del valore intellettuale, conoscitivo o di verità, dei traslati, non esita ad affermare della iperbole (il che vale, a maggior ragione, della metafora normale) che, « se essa mente, non mente per ingannarci»; e ancora il secondo, sulle orme del primo, osserva che è « per necessità » che si parla prosasticamente di « gemme » o « bottoni » della vite e di « caratteri aspri » etcetera, cioè « per inopia di termini propri » semplicemente: non già per « inopia di generi e di specie » come dirà invece il Vico, che vorrà riserbati i generi e le specie alla « filosofia»! In altri termini, quel passo della Retorica, con la sua implicita teoria della metafora come nesso intd!ettuale, genere o concerto, e quindi strumento tanto di poesia quanto di non-poesia, ci mette oggi nell'imbarazzo di non poter rifiutare l'intellettualità (concreta, vedremo, non astratta) della metafora e quindi la sua appartenenza alla « prosa ». come alla poesia, e di dover nondimeno rifiutare l'identificazione pura e semplice di poesia e non-poesia, di arte e non-arte, e quindi distinguere in qualche modo l'uso poetico o artistico della metafora dal suo uso impoetico, se anche sotto questo aspetto non vogliamo, anzi non possiamo, perdere la istanza problema' tica moderna della« autonomia» o specificità dell'opera d'arte. Ma, rinviando, al solito, la soluzione di quest'ultimo problema alla trattazione della componente semantica della poesia, vediamo ciò che fin da ora non si può rifiutare nei riguardi della metafora: la sua indispensabilità di strumento mentale, intellettuale, conoscitivo. Indispensabilità che la inopia di termini propri adeguati non basta certo a spiegare, ché quotidianamente ci accade di preferire· ai termini propri e alla loro ridotta generalità quei nessi piu lati
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e profondi delle cose che sono appunto i termini traslati. Non ci riferiamo qui soltanto alle innumeri metafore cosiddette morte 0 dormienti o consunte, quali la gamba della tavola, la sella del
monte, il collo della bottiglia, la valle ch'è la vita etc. (che del resto solo da un punto di vista superficiale, psicologico, appaiono morte, ma ben vive sono, lo vedemmo per quelle dantesche, in quanto sempre funzionali sotto l'aspetto gnoseologico o della verità e quindi pratico), bensi ci riferiamo soprattutto alle metafore che strutturano tanto spesso i ragionamenti piu sottili e le definizioni piu calzanti (si pensi a quelle piu famose di «forma» e « contenuto » usate in filosofia e a tutte quelle che si trovano in queste stesse righe: « strutturano », « sottili », « calzanti », « usate »... ): ragionamenti e definizioni che perderebbero ogni valore di verità (e ben spesso si tratta di ragionamenti e definizioni illustri) se si dovesse ammettere che la metafora non è che associazione per immagini - invece che di immagini - o giuoco fantastico. Di modo che della metafora si può ben dire ch'è come l'aria che ci circonda e senza cui morremmo come pensanti (e anche questa è una metafora esplicata in una similitudine). E altrove si è mostrato ( 1 ) che ad un Orazio e ad un Hobbes è capitato di difendere, l'uno, e condannare, l'altro, la metafora servendosi di metafore ( «•serendis verbis », « ignes fatui»). Stando cosi le cose, e cioè stando questa prima constatazione del comune carattere di intellettualità e quindi di verità della poesia e della prosa anche e persino per via della metafora (detta regina della poesia), onde non è lecito distinguere, sotto questo aspetto generico della verità, metafora poetica da impoetica, resta da vederne l'ulteriore giustificazione gnoseologica, che non può far capo se non alla giustificazione prima, aristotelica, modernamente ripensata, s'intende. Premesso in Retorica, 1410b 10 sgg., che la metafora ci fornisce facile insegnamento e conoscenza « mediante il genere » (« quando H poeta [ Odissea, XIV, 213] chiama stoppia la vecchiaia ci ammaestra e istruisce tramite il genere, ché entrambe hanno in comune la perdita del loro fiore ») ossia in quanto essa è nozione generale o idea (e, dopo il Castelvetro etc., ce lo ripete oggi I. A. Richards dicendo che « nella metafora incrociamo generi _per farne nuovi occasionali » e che « in essa il processo di generalizzazione è fondamentale ») e premesso ·ahresi in Poetica, 1459'a 5 sgg., che « il saper trovare belle metafore significa saper percepire il simile nel dissimile » e che cioè « le metafore bisogna saperle trarre da cose relazionate [ = «tenore» ( 2 ) della metafora: Ri67
chards] a una data cosa originale, tuttavia non ovviamente in relazìone con esse [ = «veicolo» della metafora: Richards]: proprio come in filosofia vedere la somiglianza pur tra cose diverse e lontane è prova di singo1are acutezza di intelletto» (dr. Retorica, 1412a 9 sgg., e cfr. Richards: « il pensiero metaforizza e procede per comparazioni »); premesso tutto ciò, Aristotele conclude mostrando in sede di logica, nei Topica, I, 1086 1-25, e VIX, 40a 10, che la somiglianza, « in vista della quale coloro che usanm metafore metaforizzano », è la stessa norma categoriale della somiglianza o medesimezza che regola i ragionamenti induttivo, ipotetico e definitorio. Per limitarci a quest'ultimo, « l'esame della somiglianza [o medesimezza] di cose dissimili», è detto, « serve nel formulare le definizioni, perché, se siamo capaci di cogliere quel che hanno di medesimo vari casi particolari, non saremo in difficoltà di sapere in qual genere dobbiamo porre la cosa da definire: dal momento che di tutti i predicati comuni quelle che rientra piu sicuramente nella categoria del!' essenza sembra essere il generico ». E del resto per un riconoscimento modem@ di questa legge gnoseologica elemeptare del!'« esame della somiglianza », che il pensiero metaforizzante e poetico ha in comune con quello filosofico e scientifico, si confronti quel che dice in sede di metodologia storica il compianto Mare Bloch, che, dop@ aver premesso che « alla base di quasi ogni critica [ delle testimonianze] sta un lavoro di comparazione», conclude che « la critica si muove tra questi due estremi: la somiglianza che giustifica e quella che discredita » e che « in fin dei conti la critica delle testimonianze si fonda su una istintiva metafisica del simile e del dissimile, dell'uno e del molteplice» (e s'intende che la metafisica nella faccenda non c'entra, bastando la garanzia gnoseologica). E che anche qui, nel caso della metafora, si tratti, come nel caso dei vichiani « caratteri poetici», di cui sopra, di sintesi astrattive empiriche (esthetiche) per generi o tipi, condizionate dalle categorie, e quindi si tratti di una intellettualità non astratta ma concreta e insomma di un complesso logico-intuitivo (già implicito nell'aristotelico uso, di cui sopra, dell'esame della somiglianza o medesimezza di dissimili), ce lo mostra già l'analisi aristotelica dei seguenti casi assai sottili e pur straordinariamente esemplari di traslati omerici e empedoclei: del genere alla specie e di specie a specie. Un esempio di traslato del genere alla specie - è detto - è questo: « Qui ristà la mia nave» (Odissea, I, 185:; XXIV, 308) perché l'« esser ancorato», ormein, è un modo speci-
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fico del generico « ristare », o « esser fermo », estanai, che qui è usato in vece sua. Di specie a specie, questo: « poiché con l'arma di bronzo gli attinse la vita » (Empedocle, Katharmoi) e anche: « poiché con la coppa di duro bronzo ebbe recisa l'acqua» (ivi): dove il poeta disse arusai, « attingere», invece di tamein, « recidere», e recidere invece di attingere, e tutt'e due sono specie del generico aphelein, o « toglier via». Al qual proposito è da considerare, in primo luogo, che la metafora del « ristare » della nave è veramente tale e non una insipida astrazione a patto che quella sorta di definizione che essa è (come dice il Castelvetro), e cioè riportamento della specie dell'ormein al suo genere estanai, consista non in un puro nesso formale di astratte ragioni ma in un nesso logico-intuitivo delle diverse specie (non solo lo ormein) col loro genere; a patto insomma di essere non astratta pura somiglianza o sintesi senza analisi, ma sintesi-analisi: ché altrimenti si misconoscerebbe quel tanto di intuitivo o immaginoso o icastico che contribuisce a render espressivo quel traslato omerico appunto perché la sua positività di icastico o intuitivo o molteplice risulta non già abolita ma esplicata e intensificata (per il principio dell'implicazione reciproca degli eterogenei) dalla stessa potenza relazionale di quei suoi nessi specifici, che costituiscono in concreto il concetto-genere del «ristare»; risulta, infine, per chi sappia percepire che la nave ristà all'àncora come il carro ristà sulle ruote e l'uomo sulle gambe etc. E in secondo luogo è. da considerare che, se quel che si è detto di questo primo tipo (aristotelico) di traslato (il piu sottile e difficile per il suo drastico intellettnalismo) è applicabile piu agevolmente al secondo tipo, piu ovvio in quanto in esso l'effetto di traslazione è affidato ad uno scambio tra loro di termini specifici anziché di generici e specifici, nondimeno è da tener ben presente che l'effetto poetico vi è conseguito non solo dalla concretezza di uno « specifico » che non è, s'intende, pura ratio specifica o astratta essenza (ineliminabile l'aspetto icastico o intuitivo dell'« attingere» e del« recidere»!) ma insieme e parimente dal rispettivo « genere » (il « toglier via ») che, coi valori categoriali che lo condizionano (l'« azione» che coimplica l'« essere» etcetera), costituisce propriamente, in questo come in ogni caso, quella significanza o universalità ( 1 ) (validità) della metafora da cui è poi indissociabile, al solito, il potenziamento icastico o intuitivo della medesima: e si noti, infatti, come questo secondo tipo di traslato, in cui lo « attingere » è con tanto effetto poetico usato invece del « recidere » o viceversa, presupponga un tal complesso
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di somiglianze-dissomiglianze ch'è ben evidente che esso non può realizzarsi se non con un simultaneo intervento dell'astrazione categoriale genericizzante (l'« azione» etc. del« toglier via») e della concretezza puntualizzante dell'immaginazione (e cfr. la stessa complessità logico-intuitiva, tuttavia meno evidente, del primo. tipo di metafora). Ma, in terzo luogo, è ormai da considerare che con questo concetto della metafora come rapporto di somiglianza-dissomiglianza (idest: complesso logico-intuitivo), e insomma intellettualità concreta, possediamo un criterio filosofico della stessa ch'è veramente tale, non dogmatico, in quanto criterio funzionale, sperimentale, e quindi normativo della critica o storia letteraria, secondo l'implicita lezione di metodo racchiusa nel procedimento aristotelico di non disgiungere la teoria (della metafora, come putacaso della tragedia) dall'analisi del fatto o oggetto poetico da spiegare, il verso omerico e quelli empedoclei nella fattispecie, che essa spiega e giustifica e di cui regola l'appercezione o esperienza cosiddetta di gusto (il cui significato è ben diverso da quello moderno tradizionale, romantico o (1) mistico-estetico) proprio in quanto il fatto o oggetto poetico con la sua acquistata chiarezza e validità conferma e convalida a sua volta la verità della teoria. Criterio ch'è il solo che possa guidarci ad una appercezione non insufficiente delle metafore e simboli poetici, ed evitarci la caduta in un gusto unilaterale, sia questo nel senso prescritto dal!' estetica razionalistica, paga soltanto di una « ragionevolezza » astratta e piatta del traslato, ossia della maggiore somiglianza ( 2 ) o unità dei suoi elementi, sia nel senso dell'estetica romantica e decadente, interessata soltanto alla dissomiglianza di quegli elementi e quindi all'urto «fantastico» delle « immagini » (misticamente «cosmiche») o loro« vivezza» insomma. Criterio ch'è dunque norma (questione semantica a parte) di ogni lettura integrale di metafore e simboli poetici, che ne è, a sua volta, la convalida: come, ad esempio, la adeguata lettura critica del Richards di una metafora shakespeariana famosa (« Amleto: perché sta a strisciare fra cielo e terra gente come me?»). Nota appunto il Richards (ma qui si ferma per il suo psicologismo): « Quando Amleto usa la parola "strisciare " la forza espressiva di questa non proviene soltanto dalla qualsivoglia somiglianza di Amleto ai vermi ch'essa comporta, ma almeno altrettanto dalle differenze che resistono e dominano le influenze delle s0miglianze: vi è, sottinteso che l'uomo non dovrebbe strisciare. Cosf il discorrere [soltanto] della identifica70
zione o fusione tffettuata da una metafora quasi sempre ci svia ed è pericoloso » (cors. nostro). E criterio che, avvertendoci dell'aspetto (un aspetto) intellettuale della metafora, ci fa evitare, ad esempio nel tradurre poesia, quelle sviste gravi prodotte da un abituale male inteso senso della « concretezza » poetica, o senso estetistico, che si svela nella pratica approssimativo e grossolano come ( 1 ) il vezzo invalso di tradurre, nell'esempio omerico, di cui sopra, il « ristare » della nave con « esser ancorato » (vedi anche il Bérard), giudicandosi presumibilmente astratto il primo (metaforico) e concreto il secondo, letterale ma piatto in confronto; oppure di tradurre lo shakespeariano « Ripeness is all » (in King Lear, V, 2) con« esser pronti è tutto» (o« le tout est d'etre prét » e cosi vla; una eccezione: A. W. Schlegel: « Rei/ sein ist aMes »), perdendo l'effetto metaforico, poetico, di « maturare è tutto»: e cioè perdendo la « suggerita analogia tra la inevitabilità dei cicli naturali vegetativi e i cicli della vita umana », richiamata giustamente da Wellek e Austin W arren. Analogia che stabilisce un nesso profondo, poetico, tra la vita dell'universo e la nostra vita, un nesso che comprende ben altro che il particolare « esser pronto » - dell'uomo, che nel nesso, al solito, si concreta meglio, onde al confronto quest'ultima espressione con la sua « concretezza » troppo poco mediata è una grossolana parafrasi o riduzione in prosa. Allo stesso tipo di errori del gusto giustificati dall'estetica tradizionale romantica e postromantica appartiene in modo eminente l'errore di chi per esaltarlo giudica Pindaro - l'inventore di quei voli poetici omonimi che sono sinonimi di arditissimi traslati, e quindi di cose dominate dalla massima altezza della ragione e sue categorie come un poeta di belle « immagini » soltanto e la sua « un'arte puramente immaginifica, libera da vincoli razionali, prossima all'impressionismo » niente di meno (Rostagni: e cfr. sopra); commettendo cosi per ragioni inverse (romantico-decadenti) lo stesso errore d'incomprensione del pindarismo commesso da un Voltaire - nemico di P. per ragioni classicistiche ossia per la difesa di una piatta « ragionevolezza » in poesia. Né in questa fenomenologia dell'errore estetico si può dimenticare Hegel, il cui complesso atteggiamentÒ di fronte alla metafora è ben significativo e istruttivo, in quanto ci mostra come, non essendo egli riuscito a liberarsi della unilaterale concezione romantica della metafora e a sostituirgliene un'altra che tenesse conto della portata dell'aspetto relazionale, e quindi razionale-intellettuale, della metafora, è poi costretto, dal proprio razionalismo astratto, 71
rigidÒ, a sottovalutare ( 1 ) la metafora stessa. Infatti, dòpo aver ammesso che la metafora « è una similitudine estremamente scorciata in quanto essa non mette peranco di fronte l'immagine e il significato ma soltanto mette in rilievo l'immagine [nur das Bild vorfiihrt] e cancella [tilgt] il significato proprio [letterale] di essa, che, pur non dichiarato espressamente, si lascia subito chiaramente riconoscere nella connessione di cui l'immagine fa parte», Hegel può concludere che, «poiché il senso cosf simboleggiato [der so verbildlichte Sinn] si rischiara [erhellt] solo in quella connessione, il significato che si esprime per metafora non può pretendere al valore di una rappresentazione artistica indipendente ma è un che di occasionale e secondario [nur beilaufigen Kunstdarstellung], cosi che la metafora [ ... ] non può essere che esteriore ornamento di un'opera d'arte veramente autonoma»: e però essa« è sempre una interruzione [Unterbrechung] del corso delle rappresentazioni e una continua dispersione, suscitando e giustapponendo immagini che non riguardano [ gehéiren] direttamente l'oggetto [die Sache] e il suo significato [proprio] ». (Ed esalta - tendenziosamente - il senso plastico degli antichi che li ha stornati da un uso troppo frequente di traslati.) Dove, infine, è da notare che, se Hegel avesse non solo intenzionalmente ma realmente tenuto conto (contro Schelling etc.) della positività dell'intelletto, non gli sarebbe sfuggito il carattere razionale-intellettuale della metafora con tutte le conseguenze (anche riguardo ad una rivalutazione effettiva dell'istanza classicistica). Giunti a questo punto, visto come la poesia anche nella metafora, che si suol dire cosa sua propria, sia razionalità (nel senso concreto suinteso) e verità e conoscenza verace e quindi niente affatto « al di qua » delle distinzioni di reale e irreale etc. come pretende l'estetica misticizzante (provatevi a non pensare veramente l' « acqua » e l' « oro » etcetera della prima ode olimpica, provatevi cioè a non assumere sul serio nella comune accezione lessicale quei termini comunissimi della nostra esperienza, e a contentarvi del loro aspetto puramente icastico o immaginativo senza alcun esatto significato, e dite in coscienza che cosa possa sorgere in voi e negli altri di quella commozione poetica che Pindaro ha inteso comunicarci mediante quei suoi trapassi di significati dal!'« acqua» all'« oro», al «sole» e infine agli «agoni» di « Olimpia »: niente del tutto; e d'altra parte è forse l'occasione di richiamare l'osservazione aristotelica che la similitudine, a differenza della metafora, « non dice esplicitamente che "questa" cosa è "que72
st'altra", e che perciò chi ascolta è meno interessato nel nesso ideale», Retorica, 1410b 18-9: osservazione capitale, ma che per aver senso presuppone il riconoscimento nella metafora di una identità paradossale del diverso e quindi una intellettualità acerrima, come nel caso esemplare del pindarismo); visto tutto ciò,· non ci resta che esaminare conclusivamente il concetto generale di astrazione letteraria, poetica, e tutta la problematica che vi fa capo: dal problema del tipico letterario a quello del simbolo letterario e dell'allegoria.
10. Da quel che precede, e precisamente dalla natura di intellettualità concreta, di complesso logico-intuitivo e, in questo senso, di discorso, della poesia, si può derivare, se non erriamo, fondatamente il carattere _di ti~icità (e quindi di tendenziosità) dei valori oetici, in genere; on e è da riconoscer~, oltre il tip_ico scienti ico, un tipico artistico come un insieme di caratteri qomuni e sp_ecifici o una essenzialità storico-sociale, che, sembra superfluo avvertirlo, nÒn-'.ha niente a che vedere - proprio per la sua intellettualità concreta - con una qualsiasi sorta di media statistica: e del resto, se la tipicità è l'essenza di un dato fenomeno storico, essa non uò identificarsi sem licemente col m diffuso, col2-iu · reguente (o quantifica ile) o col iu ordinario. In altri termini, questo ti~co, appunto perché non è. una me rn, si presenta come un che i sensibile o concreto o caratteristico ch'è perciò esprimibile ossia valido tramitèllìlinsìeme d1 tratti comuni-specifici e non se!npli~nte comuni o generici. E insomma una tipicità caratteristica. La contraddizione intima di chi creda conciliabile il criterio dell'arte come un« intuire sensibile », senza elementi« concettuali» o intellettuali, col criterio deUa « tipicità » ossia intellettualità artistica, questa contraddizione l'abbiamo già denunciata a proposito dell'estetica «materialistica» di Giorgio Lukacs. Ora si tratta di sgombrare del tutto il terreno da ogni possibile residuo di equivoco. Engels, ad esempio, dopo aver risollevato da materialista la questione della tendenziosità (die Tendenz) della poesia, ed aver indicato innanzi tutto in Esch1lo, Aristofane, Dante e Cervantes, dei « poeti tendenziosi», non è pago di avvertire (giustamente) che « è male da parte di un autore essere infatuato del proprio eroe » e che « il poeta non deve dare al lettore bella e 73
pronta la futura soluzione dei conflitti sociali ch'egli descrive», ma estende il suo cave contro il prosastico fino a squilibrare e deformare la giusta esigenza che « la tendenza deve sorgere dalla situazione e dall'azione stessa» con la clausola restrittiva assurda che suona: « senza che vi si faccia [ alla tendenza] esplicito riferimento », e fino a concludere (ben stranamente per un materialista-storico) che « quanto piu le vedute [Ansichten] dell'autore restano nascoste e tanto meglio è per l'opera d'arte»: il che non si può spiegare che con residui in Engels stesso della paura romantica del pensiero nella poesia (e cfr. anche Goethe: la poesia « esprime il particolare senza pensare all'universale o indicarlo »: e vedi avanti). Comunque, si pensi al carattere artistico organico delle « vedute » di poeti, da Eschilo a Màjakovskij e Brecht, di cui sopra. E_si pensi alla minaccia che sono per un'l poetica del realismo sociale, tanto caldeggiata da Engels, quelle restrizioni aiillrazfonali ~elsiane: che ne è allora della forza oetica della ,< satira » e cfell'«Ironia » ri evate da Engels stesso nel Ba zac arti- 6 stà, per prendere un caso estremo e ben caratteristico? Ma il caso ' stesso di Kabale und Liebe di Schiller, ricordato con lode da Engels per esser stato il primo Tendenzdrama politico tedesco, diventa ben imbarazzante e controproducente per Engels se lo si giudichi oggi con quei restrittivi criteri engelsiani: ché accade paradossalmente che proprio per non essere sufficientemente pensato, ossia storicamente motivato, il dramma borghese schilleriano ci appare oggi nella sua vera natura di opera artisticamente mal riuscita e mancante di realismo sociale: in quanto esso come hanno rilevato Auerbach e Korff - « non è realtà, è melodramma » (una caratterizzazione negativa d'ordine estetico questa ultima, non è superfluo notarlo); essendo che « il motivo forse piu importante per la conoscenza della struttura soCiale [ ... ] , l'intjma sottonussìone-dèi sudditi che nella loro religiosità ot~BJ e gretta credono che la loro pesante o pressione sia l'attU'll',1Qne di una •egge eterna, questo motivo, non risu ta mai chiaramente » (cors. nostro). E dunque proprio l'esser rrmasta ·tanto celata in Schiller scrittore quella che avrebbe dovuto esser una « veduta » tendenziosa, critica, borghese, della suddetta sottomissione ancien régime, è ragione non di artistica riuscita ma di fallimento di questa tragedia (borghese!). Sgombrati questi _residui romantici, e inteso il _çncetto del tipico poet1co con rigore materialistico, n211 è difficile-vedere com·e i·ientrino. in questò..tipìcO-·noll soltanto 1sjggificati poetfcì7l;ffè1àliEia"'altr~IC-perla natura iii.telrertuale (C':_1:·
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creta) della metafo~a, i significati metaforici e iperboliçi,__~g,_fl_o anch'essigueII'irisieme Hi caratteri comuni e specifici o essenzia• Jff/,-storico-sociale cl_i_ cui__SQpfa. Onde, ad esempio, riscontriamo, in complesso, tipìd.tà della lettera nel verso omerico « e nel frastuono di un grande telaio udiamo la fresca voce di una dea o donna », nei sofoclei « questa malattia mandata da un dio » e « povero beneficio risollevare da vecchio chi è caduto da giovane! », nel pindarico « e Giove venne di fronte a lui e pronunciò questa parola: tu sei mio figlio», nell'euripideo « e mi sembra che tu sia un toro che mi guida », nell'oraziano « e innumeri catene legano l'innamorato Piritoo »; tipicità metaforica nell'eschileo « e mise il collo nel collare della necessità», nei pindarici « le sventure invidiose» e « sogno di un'ombra è l'uomo», nel sofocleo « la varia speranza [ ... ] si attacca a chi nulla comprende prima di bruciarsi il piede all'ardente brace», nel dantesco « che di tutte brame / sembiava carca nella sua magrezza », nei goethiani « il tormento della ristretta esistenza terrestre », e « il genio di uno solo basta per mille mani! » e « colui che sempre si sforza e cerca noi lo possiamo salvare», nell'eliotiano « Stetson! tu che fosti con me sulle navi a Milazzo! »; tipicità iperbolica nel pindarico « non cercare astro piu fulgido del sole [ ... ] né agone piu splendido di Olimpia » e nel majakovskiano « perché tutta la terra / si rivolti / al primo grido: / Compagno! »: e cosi via. (E non è forse superfluo ricordare per la iperbole l'Aristotele di Retorica, 1413a 19 sgg., che dice: « le iperboli riuscite sono anch'esse metafore, ad es. quella su un tale con un occhio ammaccato: " lo avresti detto un canestro di more": dove l'occhio annerito è comparato alle more per il suo colore, l'esagerazione consistendo nella quantità di more suggerita». Dunque: tutto un campionario, se è lecito ,lire, di formule poetiche, «liriche», « tragiche», «epiche», che sono indivisibilmente essenzialità storico-sociali - e viceversa (cfr. sopra§§ 5-8): ed è notevole il fatto che, per quanto isolate e frammentarie risultino, cosi trascritte, queste formulazioni poetiche (che in realtà sono cellule vive e vitali di veri organismi poetici, dall'Odissea al Faust e al majakovskiano Di questo), ognuna di esse serbi, tuttavia, tanta verità, tanta tipicità, da rispecchiare di scorcio qualche aspetto della cultura e della vita di questa o quella società: della società greco-arcaica o del quinto secolo o latina del tempo d'Orazio o medievale o dell'età borghese goethiana (post-rivoluzione-francese) o del primo dopoguerra mondiale· o del primo Stato socialista (vedi sopra ibidem).
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In quanto al simbolo letterario, che è sinonimo del tzpzco caratteristico (letterale o traslato) di cui sopra, non occorre dire che bisogna pur sempre distinguerlo dall'allegoria, sua cattiva copia e falsificazione, disvalore artistico. Sulla necessità di questa distinzione si è tutti d'accordo, ma manca l'accordo su ciò che solo può dare un senso preciso e rigoroso alla distinzione: i rispettivi concetti di simbolo e allegoria. La formulazione goethiana delle ragioni della distinzione resta la piu feconda pur con tutti i suoi limiti e finora insorpassata. Il simbolismo, dice Goethe, « converte il fenomeno in idea e l'idea in una immagine di modo che l'idea nell'immagine è sempre infinitamente efficace [ wirksam] e resta irraggiungibile e anche espressa in tutte le lingue indicibile». L'allegorismo, invece, « converte il fenomeno in un concetto e il concetto in una immagine di modo che il concetto sia sempre ristretto all'immagine [im Bilde begrenzt] e completamente in essa mantenuto ed esprimibile in essa». In altri termini, dice G.,« è una differenza di gran momento che il poeta cerchi il particolare per l'universale oppure contempli [schaut] l'universale nel particolare. A quel modo sorge l'allegoria, nella quale il particolare vale solo come esempio [Beispiel, Exempel] dell'universale; l'ultimo modo è propriamente della natura della poesia: essa esprime un particolare senza pensare all'universale o indicarlo. Chi ora afferra vivo questo particolare mantiene insieme, al contempo, l'universale senza accorgersene o accorgendosene solo piu tardi » (Maximen und Reflexionen, III, 2, 1113, 279). Dove ciò ch'è vero è che nel simbolismo l'universale, l'« idea», resta inesauribile (infinitamente attivo), resta se stesso, mentre nell'allegol'ia l'univer- · sale, il « concetto », è limitato, ristretto all'immagine, ad una immagine, e in questa esaurito e insomma distrutto; e ciò che non è vero è che tutto questo significhi che nel simbolo l'universale, in quanto inesauribile o universale vero e proprio, sia « indicibile », misticamente ineffabile, e non ci se ne « accorga» se non «tardi», - cioè troppo tardi, - e nell'allegoria, invece, sia dicibile e però quivi si manifesti non come «idea» ma come «intelletto» nel senso unico, deteriore, in cui questo termine in genere è usato dai romantici: e tutto questo è l'eredità pesante della Romantik in Goethe stesso. La profonda verità intravista da G. è che nel simbolo c'è pensiero, c'è la unità ch'è l'universale stesso, e c'è « insieme » il particolare « vivo », mentre il limite di questa verità è nel non aver visto che, se c'è nel simbolo la unità e quindi la particolarità, viva, il simbolo è perciò (per la dialettica degli
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eterogenei) non m1stJC1smo ma discorso, intelletto, ossia ragione concreta, ragione che si fa intelletto, il che manca nell'allegoria, che, non essendo « idea», pensiero, non può nemmeno essere immagine o particolare - se non come un immediato esempio di un altrettanto immediato concetto (astrattamente dato, presupposto 0 « convenzionale », artificioso, si suol dire); onde l'allegoria è fredda, come si dice, cioè manca di un'immagine o particolarità viva, proprio perché manca di unità o universalità o idea o ragione _ e viceversa; perché non è discorso o intelletto concreto, insomma. Si confronti, in questo, Goethe con Hegel che si limita ad osservare che nell'allegoria « il rapporto tra il senso [Sinn] e la forma [Gestalt] esteriore non è cosi immediato e necessario» come nella metafora (ma vedi sopta per la metafora in Hegel): e si constaterà la maggior pregnanza dell'impostazione goethiana del problema. Concludendo, è da tener presente: 1. che il suddetto criterio, per cui il simbolo si distingue dall'allegoria, mostra la sua validità non soltanto quando si assuma per se stesso un dato rapporto fra i due sensi, Sinn e Gestalt, nel linguaggio hegeliano, o « lettera » e« figura», in quello desanctisiano, e si veda se tra essi il rapporto sia o no « immediato e necessario » (Hegel), o « essenziale e preciso » (De Sanctis), « si che il lettore possa facilmente andare [ o non andare] dall'uno all'altro» (De S.); ma in quanto soprattutto si faccia un esame mediato delle possibilità o meno che quel rapporto-di-sensi ha di potenziare un contesto nel confronto del semplice « senso letterale, concorde nelle sue parti e sufficiente a se stesso » (De S.): onde non accada, come al De Sanctis, ad esempio, di dire, a proposito della dantesca « selva » (figura) della vita umana (figurato), che « la vita umana, perché figurato, ci si presenta spoglia di ogni particolare, per cui ed in cui è vita, generale ed immobile come un concetto»; ché, da un lato, si è visto sopra ( § 6) come Dante simboleggi l'umanità intera - e si potenzi cosi sin dall'inizio il significato del contesto - proprio perché smarrito nella selva erronea di questa vita e non in una selva materiale pura e semplice, e dall'altro par difficile sostenere che in quel rapporto-di-sensi (anche a prescindere dai valori contestuali: cfr. § 6), la vita umana, il figurato, si presenti spoglia di ogni sua particolarità, se se ne coglie - niente di meno l'aspetto peccaminoso e con quegli attributi di « oscuro » e sfrenato, « selvaggio» etc. ch'esso comporta nel linguaggio corrente della coscienza religiosa e morale se non altro patristico-medievale: e 77
dunque ivi « il senso letterale [ ... J ha stato », come direbbe il Castelvetro (cioè i dissimili, vita peccaminosa e selva, hanno sufficiente somiglianza), e« l'allegoria[ ... ] è[ ... ] da ricevere per buona»: cioè ivi si tratta di simbolo (-metafora) e non di allegoria (in senso deteriore); 2. che, se diciamo che il simbolo letterario è sinonimo del tipico caratteristico, che può essere indifferentemente letterale o ti·aslato, dò comporta a) che diventa arbitrario ed erroneo identificare senz'altro il simbolo col significato traslato o metaforico, come si tende a fare almeno dalla Romantik in poi per esaltare la pregnanza « fantastica » e « misteriosa » ( = mistica) della metafora (romanticamente concepita) contro la chiarezza dello« impoetico » intelletto: come se l'oraziano « e innumeri catene legano l'innamorato Piritoo » fosse meno simbolico, ossia meno espressivo di un significato universale (di tutta una società: vedi sopra), del pindarico« le sventure invidiose»!; b) che questa tendenza contraddetta dai fatti, e però erronea, conferma con la sua erroneità la tesi inversa dell'intellettualità concreta tanto dei significati metaforici che di quelli letferali e quindi della capacità simbolica e tipizzante di entrambi i significati; c) che questo simbolismo intellettuale (altri non ce n'è) costituisce quella sorta di astrazione ch'è l'astrazione letteraria: astrazione non generica o deteriore (non valida), bensf astrazione concreta, determinata, in quanto la tipicità, con cui essa si identifica, è, vedemmo, tipicità caratteristica; astrazione insomma valida (gnoseologicamente, esteticamente); 3 .. che resta da vedere, infine, come l'esame della componente semantica dell'astrazione letteraria potrà perfezionare l'analisi di questa, compiuta finora da un punto di vista gnoseologico generale e non speciale: e quindi rivelare ciò che fa specificamente di questa astrazione una astrazione letteraria, poetica e non scientifica, chiarendo ulteriormente la stessa problematica fondamentale del simbolo letterario.
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II. La chiave semantica della poesia
11. Già all'inizio della ricerca siamo stati obbligati a tener conto del!' aspetto semantico (verbale, linguistico) delle « immagini » poetiche prese in esame, proprio per mostrare che, non essendovi - in concreto - immagini poetiche senza comuni denominatori lessicali (e, sottinteso, grammaticali), ed essendo, questi, veicoli anche di concetti, si aveva cosf una prima smentita di fatto del tradizionale misticismo estetico, secondo il quale la poesia è, « intuizione (o immagine) pura» e però misticamente idest misteriosamente « cosmica » ossia universale.
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Naturalmente ciò comporta, innanzi tutto, una precisazione in sede di linguistica e di filosofia della lingua prima che in sede di estetica: e propriamente una precisazione dei limiti - oltre che della portata positiva - di quella filosofia romantica del linguaggio che resta tuttora la base del misticismo moderno in estetica. Per cominciare dal positivo, si sa· che il postulato della identità di pensiero e linguaggio (lingua), nel quale concordano da tempo e filosofi e linguisti, - da Marx, il quale, premesso che è « uno dei compiti piu difficili dei filosofi [ ... ] scendere dal mondo del pensiero nel mondo reale », conclude che « la realtà immediata [concreta] del pensiero è la lingua»; a de Saussure, secondo il quale il pensiero, per sé preso, è una « nebulosa », dove niente c'è di determinato prima del sorgere della lingua; a Croce che ammette che « un'immagine non espressa, che non sia parola [ ... ] perlomeno mormorata fra sé e sé, [ ... ] è cosa inesistente» (e vedi avanti); a Wittgenstein, ai cui occhi il postulato della possibilità del segno linguistico è. il postulato stesso della « determinatezza del significato » o senso di come sono le cose (anche se non di che cosa siano), - questo postulato fondamentale di ogni moderna 79
filosofia è scoperta romantica. Già dallo Sturm-und-Drang si era visto che nel!'« oceano delle sensazioni » le cose sono «distinguibili» e quindi« [ri]conoscibili » solo per quei« [contras]segni della riflessione » che sono le parole (Herder); ma è con Wilbelm von Humboldt che abbiamo quella pro.fonda caratterizzazione romantica del linguaggio secondo cui 1. la lingua, quale « mediatrice eterna » tra lo « spirito » e la natura, « si modifica secondo ogni grado e sfumatura del primo » e non è quindi uno ergon, un prodott0 fissato o cosa o« sostanza», ma « qualcosa cbe dev'essere costantemente prodotto », una energheia o« attività»; e 2. « la parola, che fa del concetto un membro [ Individuum] del mondo del pensiero, gli aggiunge significativamente del suo, e, mentre dà determinatezza all'idea, questa è al contempo entro certi limiti sua prigioniera », onde « dalla mutua dipendenza di pensiero e parola è evidente che le lingue non sono tanto dei mezzi di esposizione [ darzustellen] di verità già accertate [ schon erkannte] quanto piuttosto di scoperta di verità prima non note». E in quanto al lato negativo, che qui particolarmente c'interessa, esso si riassume nei principi humboldtiani seguenti: a) che« la lingua nel vero senso del termine è nell'atto [spirituale-creativo] del· suo reale prodursi» ch'è la parola, onde « nel senso vero e essenziale » la lingua si riduce alla « totalità delle parole» (ofr. Croce: « Che cosa è la parola se non continua, perpetua trasformazione? Che cosa è il signor Uso linguistico se non il complesso delle parole realmente pronunziate o scritte? Foggiare un uso linguistico, che serva di pietra di paragone, non è .forse creare un ente immaginario? [e cfr. OgdenRichards: « such an elaborate construction as la langue» « as a guiding principle .for a young science it is fantastic »] [ ... ]. In cambio di qualcosa di saldo, si colgono di volta in volta tante espressioni sempre individuali, che sono altre da quelle che erano state fissate dapprima»: e cfr. Vossler etc.); b) che, di conseguenza, « il frantumarlo [l'atto ch'è la parola] in termini [di un lessico] e in regole [grammaticali] è soltanto un morto lavoro inutile di anaTisi scientifica» (cfr. Croce: « lo studio extraestetico non è piu studi0 di linguaggio ma di cose, cioè di fatti pratici»: e Vossler etc.). In altri termini, la lacuna grave della linguistica romantica e idealistica, lacuna finora inavvertita dall'estetica tradizionale (da Croce a Nicolai Hartmann e Richards etc.), ma denunciata apertamente dalla linguistica modernissima, da de Saussure in poi, è la riduzione, ben unilaterale e astratta (nel significato deteriore del termine), del fatto, tanto complesso quanto fondamentale, del
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linguaggio naturale ad uno solo dei suoi elementi, la parola o atto soggettivo del parlante, trascurando nientemeno che la lingua come istituto reale, storico-sociale (fenomeno sovrastrutturale): e cioè quel sistema oggettivo unitario di segni (verbali) ch'è la norma preesistente, senza di cui nessuna mutua comprensione sarebbe possibile fra i soggetti parlanti e quindi nemmeno l'esistenza di questi come tali avrebbe un senso reale (curiosa e ben significativa della intrepida cecità del dogmatismo idealistico è la pretesa crociana, di cui sopra, di tacciare di « ente immaginario » l'oggettivo reale uso linguistico e di esaltare per converso come solo reale l'astratta soggettività di un parlante in vacuo!); onde il vero è che la lingua o sistema e la molteplice parola sono entrambe reali e si condizionano a vicenda. Con tutte le relative conseguenze in estetica, innanzi tutto. Per avviarci alla considerazione delle quali, occorre, appunto, richiamare - come premesse - alcune scoperte fondamentali della piu moderna linguistica generale.
12. Cominciamo con due constatazioni di .linguistica che serviranno a problematizzare e quindi approfondire la geniale pregnante ma oscura intuizione ch'ebbe lo stesso Humboldt di una mutua dipendenza di idea o pensiero e parola, tale da potersi affermare che l'idea nel ricevere determinatezza dalla parola ne è al contempo entro certi limiti sua « prigioniera » (gefangen gehalten): e cioè a problematizzarla e approfondirla col convertire, intanto, quella mutua dipendenza di pensiero e parola nel mutuo condizionamento di lingua o sistema o norma e parola. « Nella parola latina cor, "cuore" », ha osservato Edward Sapir, « non è soltanto espresso un concreto concetto, ma ivi fanno parte della forma [linguistica o morfema del nome J, che è in effetti piu breve del suo proprio elemento radicale (cord-), i tre distinti e tuttavia intrecciati concetti formali [ossia: categorie grammaticali] della singolarità [numero], del genere (neutro) e del caso (soggetto-oggetto) [ ... ] . La cosa importante circa una parola come cor è che le tre delimitazioni concettuali [idest: categoriali grammaticali] non sono semplicemente implicite allorché tale parola va a posto in una frase: bensi sono legate, ad ogni fine, agli organi vitali della stessa parola [ - « concetto concreto » o pensiero] e non possono essere eliminate in quale che sia l'impiego [usage] della 81
parola»: putacaso, nell'uso espressivo-poetico fattone da uno scrittore làtino. Cosi, se è vero, come ha notato Louis Hjelmslev, che la « funzione grammaticale » non deve essere confusa con lo « impiego» (« l'emploi ne concerne pas la forme [ ... ]. Il entre dans les cadres de la signification »), è vero altresf, ha concluso lo stesso H., che, per quanto un« avverbio», ad es., possa esser usato come un'«interiezione», questo« non cambia affatto» la funzione «grammaticale» di tale elemento: e che un certo « semantema» può, sf, esser impiegato come « iperbole » o « metafora », ma « senza che cangi » anche in tal caso la sua funzione grammaticale. Il che, aggiungiamo, d confenma l'à propos del richiamo, fatto da noi altrove ( 1 ), del!' aristotelica definizione tecnico-grammaticale dell'Iliade (« un esempio di proposizione [logos] che riceve unità mediante particelle congiuntive ») come estremamente istruttiva anche e soprattutto dal punto di vista gnoseologico"estetico, se si considera, infatti, che già per Aristotele la « proposizione » è« voce significativa composta » in gran misura di « parti significative, cioè di verbi e nomi». E cosi accade che, per restare nell'Iliade, la possibilità di cogliere un effetto di verità e credibilità poetica (I, vv. 200 sgg.) dipenda dal retto intendimento - secondo l'uso della lingua - del tempo di un verbo, di un aoristo, phaanthen, che, in quanto tempo indeterminato, senza implicazione di continuità o ripetizione, e quindi istantaneo, c'impone - nel verso: « Una lnce terribile si accende [phaanthen] nei suoi occhi» - di attribuire quella « luce terribile » agli occhi di Achille improvvisamente sdegnato dell'apparizione di Pallade Atena a favore dei suoi nemici (« che vieni tu a fare ancora, figlia di Zeus [ ... ]? Vieni tu a vedere l'insolenza di Agamennone [ ... ]? » etc.) e non già, secondo vorrebbe una tradizione, agli occhi di Atena, che viene a raccomandare la calma ed è del resto impassibile per definizione (cfr. Paul Mazon). Si comincia a vedere, dunque, che la mutua dipendenza di pensiero e parola si dispiega in concreto come mutua dipendenza di parola e lingua, se è vero che anche la parola poetica - cioè espressiva di un pensiero poetico - non può non essere essenzialmente lingua e quindi « forma » grammaticale; se è vero, insomma, che non c'è metafora o altro simbolo poetico che, per quanto geniale o creativo, non sia un semantema, o elemento di significazione, appartenente ( 2 ) a quel sistema preesistente di segni ch'è un sistema linguistico e non sia quindi senza un suo « valore » grammaticale, - pena altrimenti la sua non-espressione ( = incomunicabilità) e insomma il suo non-essere quale valore (pensiero) poe-
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tico. Ma vediamo a grandi tratti che cosa sia il segno linguistico e in che consista quel sistema normativo di segni ch'è la lingua 0 linguaggio naturale: ch'è. poi il sistema di quei comuni denominatori (lessico-grammaticali) delle >, cioè un elemento (grammaticale o plerematico) del segno linguistico, viene inteso come un significato alla pari del significato « tagliare » ! Tali confusioni sono state sbloccate da Hjelmslev. Perciò la linguistica - in quanto teoria generale del segno linguistico - può e deve interessare il gnoseologo. Cosi essa elabora quei criteri sintetici o generali veramente che soli servono alla. teoria generale della conoscenza (come disciplina scientifica). Diamo sotto per comodo del lettore cui interessi la tavola hjelmsleviana dei glossemi, e quindi dei duè piani correlativi del segno linguistico, quale si trova (pp. 210-11) in Siertsema (che avverte che « it is a very much simplified scheme »), facendola precedere dai seguenti chiarimenti generali di S. (p, 17): « The study of the elements of thought, directed to the piane of the content (fr. contenu), is called plerematics, the units it deals with are pleremes (from gr. nÀ.i)p'l]ç
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= full: these units "contain" a "lump" of meaning [o pensiero], so to say ). The study of the elements of the other piane of language, the elements of expression [fonemi e loro equivalenti grafici etc.], is called cenematics (from gr. xev6ç = empty: these units ''contain" no meaning). That this part of glossematics, which studies the same units as phonology does, is nevertheles-s given another name, has its -reason in the other theorem introduced by de Saussure and interpreted by glossemati-cians as meaning that languiage is form, not substance, and that it does not matter, therefore, what substance is used to make the form visible or audible or tangible, as long it manifests the form [ ... ]. If the substance is sound, for istance, a ceneme may materialize in entirely different sounds at different times in the history of a Ianguage [ ... ]. The "substance" has nothing to do with the form as such; "la forme linguistique", says Hjelmslev, "ne recouvre aucune forme extra-linguistique". That is why, far the unins of expression, the term "fonemes'' would not do as being too narrow, and why the term "cenemes" has been created. In the same way the units of the content (pleremes) may according to Hjelmslev materialize in different significations and in different "things" in the world around us [ ... l. Also this "substance" has nothing to do with the content-form as such [ ... ] e.g.: the phenomenon that two entirely dilferent "content-substances" such as a black and a brown cow are in one language, united in one content-form "cow" whereas- in another language, wich has no word for ,,cow" but only for either "black cow" or "brown cow", they are "formed" in two different forms. Also the content-forms are only defined by their relations. Thus we see that both cenemes and pleremes are exclusively defined by their relations, that is what Hjelmslev calls their functions: "the important thing is [ ... J the preparattlon of the analysis so that it conforms to the mutuai dependences between these parts [ ... ]". Cf. de Saussure: "Ainsi, dans un état de langue, tout repose sur des rapports; comment fonctionnent-ils?" » (cors. in gran parte di Siertsema). Content plane (plerematic) Constituents (pleremes) Exponents (morphemes) central const. (radical elements)
marginai const. (derivational elements)
intense exp. (noun morphemes: case, comparison, number, gender, article)
extense exp. (verbe morphemes: person, voice, stress, aspect, mood, tense)
Expression piane (cenematic) Constituents (cenemes) Exponents (prosodemes) centrai const. (vowells)
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marginal const. (consonants)
intense exp. (accents)
extense exp. {modulations}
A proposito di questa tavola dei glossemi osserva Siertseina, op. cit., p. 212: « It will be noted that such units as radical elements, derivational elements, morphemes, are presented as units in the content piane. When seeing the content units referred to by terms which bave always been used to denote units of the expression, the reader should remember that what is meant is actually: the concepts [grammaticali) expressed by those units. In "he sings", for instance, the morpheme is not -s, but thete is the group of morphemes: third-person-singular, present-tense, active, indicative. Ali these morphemes are expressed by -s. The concept "sing" of "he sings" is not a morpheme in :Hjelmslev's sense, it is called a "radical element", by which is meant again: the concept [grammaticale) expressed by tbe radical element in the expression » (cors. di S.: e cfr. Sapir, op. cit., pp. 92-3) ( 1 ). Cosf, a proposito del tedesco Nacht: Niichte, de Saussure indica già (vedi sopra) sia il « fatto grammaticale », il « plurale >> e il « singolare », - e cioè, nella terminologia hjelmsleviana, l'« esponente intensivo» o« morfema» del nome ch'è il « numero », appartenente con gli altri morfemi del nome al « piano plerematico » o degli elementi grammaticali « riempibili » dal senso o significato ( o pensiero) o piano del « contenuto » (pensiero), sia il correlativo fatto « fonetico », cioè: « senza Umlaut e senza e finale» (il singolare) e« con Umlaut e -e» (il plurale), cui corrispondono in termini hjelmsleviani e l' « accentatura » (accents) del nome o suo « esponente intensivo » e gli impliciti « costituenti centrali» (le vocali) e « marginali » (le consonanti), in quanto tutti appartenenti al « piano cenematico », o degli elementi « 11011 riempibili » dal senso o significato (o pensiero), o piano della «espressione» (fonetica del «contenuto» o pensiero). In quanto a Ogden e Richards, incuranti, nel loro famoso libro, della moderna linguistica, essi concludono con la seguente astratta dicotomia di uso « referenziale » o « simbolico » della parola ( quello intellettuale o scientifico in genere) e uso puramente « emotivo » della medesima ossia artistico, poetico: « Words [ .. .] are instruments. But besides this referential use which for ali reflective, intellectual use of language should be paramount, words have other functions which may be grouped together as emotive [ « these "non-symbolic" influences »! J [ ... J poetry, for many reasons, the supreme form of emotive Ianguage [ ... ). As science frees itself from the emotional outlook [ ... ], so poetry seems about to return to the conditions of its greatness, by abandoning the obsession of knowledge and simbolic truth. It is nor necessary to know what things are in order to take up fittings attitudes towards them, and the peculiarity of the greatest attitudes which art can evoke is their extraordinary width. The descriptions and ordering of such attitudes is the business of aesthetics » (op. cit., pp. 10, 159, 239-40: e vedi I. A. Richards, Principles of literary criticism, London, 1955, spec. cc. XXIII-XXXV). E cosf il Richards, che ha avuto tanta 225
influenza nel mondo anglosassone, finisce in una estetica psicologica e sentimentalistica, diciamo in un emozionalismo e comportamentismo estetico ch'è una sorta di traduzione empiristica della Romantik, coerente - e questo è ciò che qui ci interessa - col suo rifiuto della linguistica scientifica e quindi con la sua fedeltà, consaputa o no, alla teoria romantica della lingua come parola-energheia. Le sue qualità migliori, cultura estetica e gusto personale, si riscontrano nella cit. Philosophy of rhetoric e in Practical criticism, London, 1948 (che contraddicono ,intimamente le sue tesi teoriche); non certo nei cit. Principles (su questi vedi ora: A. Plebe, Processo all'estetica, Firenze, 1959, spec. pp. 137-8). Coerente fino in fondo nell'atteggiamento semanticistico-pragmatico in filosofia, Charles Morris, teorico del comportamentismo in Signs, language and behaviour (New York, 1946: trad. it. Ceccato, Milano, 1948 ), esita e si contraddice poi nelle conclusioni particolari in specie con~ cernenti la semantica artistica: per cui oscilla tra il riconoscimento del segno estetico come quel segno « iconico » ril cui designatum è un « valore » ( donde l'opera artistica, consistente in tali segni, come « segno di se stessa ») e la ammissione che « nessun segno è "estetico" come tale »; a parte ogni riserva da farsi ad es. sulla carenza di analisi gnoseologica speciale dei segni e linguaggi artistici, come si vede a pp. 259-60 della trad. it. quando discorre s_eriamente delle « iconi molto generali » della pittura e musica formale o automorfica e dice della stravinskiana Sagra della primavera che « forze primitive in un con~ flirto elementare » è « la significazione approssimativa » di tale musica e che > e e viziosa ch'è l'hegeliana con le sue astrazioni « indeterminate» in quanto metafisiche, e le sue ipostasi insomma. 2 Chi conosce Hegel sa ch'egli ha Jntravisto questa fondamentale verità: vedi ad es. Scienza della logica, Hl, p. 56 (trad. Moni, Bari, Laterza, 1925): « L'intelletto - egli dice - dà bensi alle sue determinazioni mediante la forma dell'universalità astratta per cosi dire, una tal durezza dell'essere che non hanno nella sfera qualitativ,a' [cioè della mera empiria] [ ... ]; ma con questa semplificazio1:e in pari tempo le anima e avviva [begeistet] e le rende acute per modo che proprio soltanto in questo culmine acquistano la capacità di risolversi e tra,passare ne! loro opposto [ = la dialettica]»; e ancora (ivi, p. 57): « È ,pertanto sotto ogni rapporto cla rifiutare la separazione dell'intelletto e della ragione, cosi com~ comunemente vien fatta [vedi Kant!]. Quando si considera LI concetto [determt-
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punto la storia delle Teorie - ·ci ha condotti, s1 e visto, alla evidenza dialettica ( 2 ) delle formule conclusive del Capitale concernenti la defini:oione del lavoro produttivo. Ora, è il carattere non «astratto», ma complesso, concreto, storico, della definiz,ione raggiunta (insomma il suo carattere di astrazione determinata) che occorre riconsiderare per capire il grande « finale » dialettico a cui sentiamo di esser giunti nei testi conclusivi, di cui sopra, del Capitale (e capire insieme la dianato, intellettuale] come vuoto di ragione, Si deve, anzi, riguardare ciò come un'in-
capacità della t'agione di sapervisi riconoscere. Il concetto determinato ed astratto è la condizione- o meglio un momento essenziale della ragione. È forma animata, nella quale hl :fiinito, mediante l'universalità, in cui si riferisce a sé, si accende in sé, è posto come dialettico ed è con ciò il cominciamento stesso dell'apparire della ragione». M.a che a tale verità -aveva già rinunciato quando ad es. aveva poco prima premesso (ivi, pp. 54-5): che « ogni concetto determinato è però ad ogni modo vuoto in quanto non contiene la totalità, ma solo una determina• zione unilaterale, Anche quando abbia d'altronde un contenuto concreto, ad es. uomo, Stato, animale etc. 1 rimane un concetto vuoto>>; e « se ora nel concetto puro questa eternità [appannaggio della «universalità» come è intesa da Hegcl] ap.partiene alla sua natura, le astratte determinazioni di quello [cioè: dell'-intelletto] sarebbero delle essenzialità eterne solo quanto alla loto forma [cioè: l'univetsalità]; ma iJ. contenuto [«concreto»] loro non è adeguato a questa forma; quindi non sono verità né sono nulla di men che caduco. Il contehuto loro [ « concreto», storico] non è adeguato alla forma,, perché non è 1a determinazione stessa come universale [cioè: « concetto puro»], ossia non è come totalità della differenza di concetto o non è esso stesso la forma intera; la forma dell'intelletto, limitato, è appunto l'universaUtà imperfetta, vale a. dire astratta» etc. E insomma i:l dramma intellettuale di Hegd, come ci appare oggi, consiste nell'essersi accinto paradossalmente alla difesa dell'intelletto, e quindi nell'essersi opposto ( contro Kant e poi contro SchelUng) alla sua separazione dahla ragione, con un concetto inadeguato, perché mistico e però deprezzativo, di esso intelletto {«la ragione pensa.nte - egli precisa in op. cit., II, pp. 72-3 - acuisce, per cosi dire, l'ottusa differenza del diverso, la mera molteplicità della rappresentazione fino a farne la differenza essenziale, l'opposizione» di «essere}> e « non essere}> etcetera); onde il metafiisko Hegel ha fallito hl suo generoso tentativo di cogliere la funzione razionale deU'intelletto e quindi, in definitiva, cli superare l'illuminismo dimostrando l'unità organica di ragione e storia. Laddove solo l'intelletto per eccellenza positivo, cioè l'inte1letto storico, può diventare funzione dehla ragione - o, ch'è lo stesso, :condizione sine qua non di una {analisi) di.alettka del reale, storica appunto. Dopo il grandioso fallimento hegeliano, che si ripercuote gravemente nel materialismo «dialettico}> engelsiano fo specie, e quindi nel marxismo scolastico, tradizionale, dobbiamo sforzarci di portare a termine il tentativo hegeliano con l'ausilio anche del monito hegeliano sopra riportato: cioè che rivela nient'altro che incapacità della ragione stessa il suo non sapersi riconoscere nel concetto de• terminato. Mentre :il sistema hegeliano, con la sua «dialettica}> di astrazioni indeterminate o concetti genericissimi - vera dialettica in vacuo o pseudomobile - sta a significarci, .purtroppo, ch'è colpa del concetto determinato («ottuso}> e « vuoto ») se la ragìone non sa riconoscersi in esso! Per un'analisi diffusa di .alcuni dei testi hegeliani citati qui vedi la nostra Logica come scienza positiva, 19562, pp. 46-7, 61-2 (1 ), E vedi nota seguente.
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lettica degli antecedenti storici recuperati ad hoc). Per ( 1 ) capirne la struttura logica. Vediamo. La definizione raggiunta è propriamente la definizione della produttività del lavoro come produttività capitalistica del lavoro sociale. Una definizione storica, che, anche cosi sommariamente formulata, suggerisce - sotto lo aspetto della sua struttura logica - la presenza di un'antinomia o contraddizione interna a un dato fenomeno storico (l'antinomia fra carattere privato del capitale e carattere sociale del lavoro nella produzione capitalistica). E si ricordi che nei testi conclusivi, di cui sopra, la definizione storica raggiunta enuncia esplicitamente, nelle sue varie formulazioni, sia delle varianti della contraddizione interna testé considerata, o contraddizione (antinomica) di contraddittori, che si dica, sia ( 2 ) anche e insieme delle contraddizioni esterne idest la contrarietà propria dei contrari che ci costringono a oltrepassare per dir cosi quei fenomeni contraddittori e ci impongono un passaggio ad altro '. Esempio del primo caso quanto segue: « Se quindi il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per lo sviluppo della forza materiale produttiva [Marx allude all'efficienza del lavoro produttivo sociale J [ ... J esso è al tempo stesso la costante contraddizione fra questo suo compito storico e i rapporti sociali di produzione corrispondenti »; esempio del secondo il seguente: « [ ... J che la 1 È da sottolineare ,che il termine « ,eontraddizione » è di solito usato nelfa letteratura marxista in modo estremamente ambiguo e confuso: c10e senza avvertire quando si tratti di quella contraddizione problematica o problematizzante, negativa, incomponihile, ch'è la contraddizione di contraddittori o antinomia che si dica, e quando invece si tratti di quella contraddizione risolutiva, e positiva, componibile, ch'è la contraddizione costituita di contrari o opposti di contraddittori dati. E, siccome la ( analisi) dialettica consta organicamente di entrambe (e non può non esser cosi'. se la dialettica deve assolvere i1 compito gnoseologico de1la non-separazione dell'intelletto, con !e sue reali antinomie, e della ragione, risolutiva di quelle con la sua esigenza di unità), lo strumento dialettico, mercé la confusione, di cui sopra, è stato guastato e perduto. Naturalmente ciò è stato possibile per finflusso hegeliano persistente, che portava, e porta tuttora, a · ridurre la dialettica soltanto al momento risolutivo (e di che?), concepito hegelianamente come contraddizione « assoluta» di opposti unitari ( = « differenze essen:dali ») ossi-a contrarietà di contrari-categorie, genericissimi quindi e statici o solo gratuitamente componibili perché sia la loro > di « risolversi e trapassare nel loro opposto»? Solo che Hegel, si è visto testé, era poi convinto della « ottusità» costituzionale del molteplice o intellettuale, che, non .per virtU propria, - ma per l'intervento della « ragione .pensante» che « acuisce» essa la « ottusa differenza del diverso » nella > etc., - parteciperebbe ad un movimento (illusorio) di opposti categoriaU (quindi genericissimi, come I'. Ossi,a concludendo: il rapporto fra pianificazione e valore è, a rigore, rapporto di contrario-contraddittorio (positivo): cioè la pianificazione socialista, negato ed eliminato quel contraddittorio negativo ch'è il capitale borghese, eo ipso conserva e sviluppa il corrispondente contraddittorio positivo ch'è la legge del valore-lavoro: onde possiamo parlare di una opposizione dialettica di socialismo--capitalismo solo nel senso che il socialismo è 11 contrario (negatore e conservatore) di quella specie storica antinomica o autocontraddittoria ch'è il capitalismo. Imprecisione logica, dun• que, di S. Che nel socialismo le leggi economiche non siano pi-6. « cieche leggi naturali)> lo vede bene M, Rozental, Die Dialektik in Marx' « Kapital »,
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formula suesaminata della definizione storica in questione è la necessità in essa della compresenza e anzi del reciproco condizionarsi di contraddizione antinomica o contrarietà (interna) dì contrari « incomponibili » o contraddittorietà, che si dica, e contraddizione «componibile» o contrarietà (esterna) che nega la prima (nel suo contraddittorio negativo) e la incorpora (quanto al contraddittorio positivo): reciproco condizionarsi, ripetiamo, ché altrimenti quella formula non ha ( 1 ) alcun senso o almeno non ha il senso che intende avere: cioè di enunciazione d'un necessario trapasso e sviluppo storico, col relativo ritmo reale di negazione (o Aufhebung, si è visto al c. 49, ma Hegel non c'entra perché si tratta della negazione di qualcosa di determinato o storico!) e conservazione (o Beibehaltung: idem ut supra mutatis muvandis! ). In altri ( 2 ) termini, piu generali, bisogna ammettere, per salvare quel senso, che quella definizione cosi formulata presupponga e attui la riconciliazione e l'integrazione reciproca dei due principi logici classici nati nemici: di identità o non-contraddizione, o figura aristotelica di contrari « incomponibili », e di contraddizione «componibile» o unitaria (fJgura platonica della tautoeterologia): riconciliazione e integrazione in modo tale, si badi, che è la viola~ione del principio di non-contraddizione - cioè l'iniziale contraddizione antinomica - a produrla col suscitare - proprio in quanto contraddittorietà determinata il suo contrario cbe la supera e risolve (non è forse il determinato o storico-specifico concetto antinomico « che la produzione [ sociale] è solo produzione per il capitale [privato] » a provocare l'opposizione superatrice che suona « e non al contrario i mezzi di produzione sono semplici mezzi per una continua estensione ciel processo vitale per la società dei produttori»?); restituendo, cosi, dialetticamente - cioè con uno sviluppo o accrescimento Berlin, 1957, pp. 99 sgg., anzi v1 ms1ste, trattandosi di uno dei loci communes pili gloriosi del marxismo ( il passaggio « dal regno della necessità al regno della libertà » ), ma mette insieme in un fascio « legge del valore» e « legge della concorrenza » etc. Hegelianeggiante è poi, superfiluo notarlo, la « dialettica » in R., che si compiace ancor.a di formule engelsiane piU o meno innocue come la seguente, quando deve occuparsi (nel c. III) dell'elaborazione dehla teoria dello sviluppo dialettico nel Capitale: « lo sviluppo come processo del rovesciamento dei mutamenti quantitativi in qualitativi» etcetera. Qualche cenno accu~ rato della teoria di Marx sul valore in un'economia socialista in: An essay on marxian economics,. London, 1949, pp. 23 sgg., di Joan Robinson, anche se l'autrice curiosamente concluda che « non c'è nessuna delle importanti idee che Marx esprime nei termini del concetto di valore che non possa esser meglio espressa senza di esso».
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qualitativo - la coerenza o unità richiesta dalla ragione, violata (storicamente) nell'antinomia iniziale. Riconciliazione, infine, dei due principi classici in una nuova figura (di una logica della storicità effettiva dell'umano progresso): quella di contrari o opposti di contraddittori dati: e quindi opposizione costituita da opposti determinati (almeno quanto lo sono - determinati - gli storici concetti antinomici di cui sono i contrad), e opposti reali, e dinamici, si è visto: a differenza ( 1 ) dell'hegeliana opposizione di genericissimi contrari ossia opposti assoluti (quali sono i concetti « puri » o « differenze essenziali » di « essere », « non-ess·ere », « divenire » etcetera) e
quindi opposizione, l'hegeliana, indeterminatissima, irreale, e però statica e sterile (« dialettica mistificata » o « falso mobile » la defini Marx giovane), - in quanto insomma opposizione in vacuo. Meno schematicamente tutto ciò significa che la moderna ragione, materialistica, dopo esser stata idealistica e illuministica, cerca, si, anch'essa, di razionalizzare la storia, dando un senso al movimento storico: ma, ragione insieme progressista (che ragione sarebbe altrimenti?) e ( 2 ) rispettosa (a differenza dell'idealistica) dei fatti storici, sociali, nella loro concretezza, essa si limita ali' analisi valutativa dell'intima coerenza (anche a questa non può rinunciare senza venir meno a se stessa) di ogni fatto storico (situazione o ,istituto sociale che sia); analisi il cui criterio di valore, si badi, è dato dagli umani bisogni e problemi specifici del ( 3 ) presente storico (o presente non piu sussunto, e però annullato, sotto categorie eterne o ipostasi): ed è. quindi analisi anticonservatrice e critica, e la sua scoperta di antinomie in seno ( 4 ) ai fatti o fenomeni umani del passato e del presente comporta innanzi tutto l'accertamento di contraddittori negativi ossia delle specie storiche avverse all'umano proi,resso dal passato al presente coi suoi problemi di avvenire. Analisi storico-funzionale che consiste, però, in una analisi storico-dialettica in quanto la scoperta di quelle antinomie le rivela al contempo i loro contrari, che negano i contraddittori negativi contenuti in esse e quindi « si compongono con » o incorporano quelli positivi e cioè le specie storiche positive o inconsumate già contraddette - ma ora liberate - da quelle negative negate ed espunte: ed è, questa, la reale ( 5 ) effettiva negazione della negazione: cioè la negazione del negativo storico, che niente ha a che vedere con la mistica e mitica « negazione della negazione » hegeliana, che intende esprimere, invece, il «processo» metafisico dell'auto-rico. 298
stituzione della unità propria di una ragione o idea ongmaria misteriosamente auto-negatasi nel molteplice intellettuale, autonegazione da essa stessa ora - non meno misteriosamente - negata (1), onde ritornare a sé come spirito assoluto (e si confronti il plotiniano « processo » teologico di « discesa » nel mondo o molteplice e « ritorno » a sé dell' « uno » !). Cosi, per la sua autolimitazione ad una analisi storicamente discriminativa di antinomie perciò ( 2 ) superabili nei loro opposti 1, la ragione materialistica è ragione progressista massimamente pratica: giacché è ragione in grado di mutare e trasformare il mondo, in base, appunto, a criteri-fini storico-specifici e però determinati, cioè adeguati all'azione, operativi. Tali criteri-fini sono costituiti (superfluo dirlo) dagli opposti (storici) di quelle (storiche) antinomie. Mentre la dialettica nella sua forma« mistica» e« mistificata», hegeliana, - è detto nel famoso poscritto del 1873 al Capitale, - « era diventata una moda tedesca perché sembrava trasfigurare [zu verklaren] Io stato di cose esistente» (col sublimarlo in un sistema di « concetti puri »), essa, « nella sua forma razionale [ cioè materialistica], causa alla borghesia [ ... ] dispetto e orrore, perché, nella comprensione posiùiva dello stato di cose esistente, essa include simultaneamente anche [zugleich auch] la comprensione della negazione di esso [ cioè la comprensione della necessaria negazione di quanto di negativo contraddittorio esso contiene], del suo necessario tramonto [ cioè: del tramonto di quanto esso ha di negativo] [ ... ] perché essa [ dialettica materialistica] è per l'essenza sua critica e rivoluzionaria [kritisch und revolutionar]. Il movimento pieno di contraddizioni [interne] della società capitalistica è avvertito dal borghese, uomo pratico, nel modo piu evidente nelle vicissitudini del ciclo periodico che l'industria attraversa, e nel suo ciclo culminante ch'è la crisi generale». Ci siamo, infine, resi vieppiu conto del fatto logico seguente: che il principio eminentemente razionale-intellettuale di non-contraddizione non solo non è applicato qui, nel Capitale, - come è applicato nella logica formale antica e scolastica (comoda testa di turco del polemico Hegel!) o moderna che sia - a dei meri 1 Diciamo « perciò superabili nei loto opposti » proprio in quanto tali antinomie non sono generiche e quindi indeterminate ma storicamente discriminate e quindi determinate o intellettualmente « acuite)> ad un punto tale da non poter non trapassare nei loro {determinati) opposti (negativi e insieme realmente conservativi): cfr. le note alle pagine 292-3 e 295-6.
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simboli - indifferenti ( 1 ) e insignificanti - di concetti (o giudizi), al cui proposito è pacifico che dalla A di A = A non si può uscire, per passare, nonché a B, a non-A; bensi è applicato a concetti e propriamente a concetti puntualmente significanti e complessi e differenziati (cioè, le definizioni di cui sopra) in quanto sono delle vere e proprie specie storiche, si è visto ('); per cui è naturale il trapasso dialettico, ripetiamo, da un determinato complesso concetto antinomico ( « che la produzione è solo produzione per il capitale», ad es.) - concetto che consta, appunto, di elementi contraddittori quali il carattere « sociale » del modo di produzione e il carattere «privato» dei rapporti (capitalistici) di produ~ione - al concetto contrario o opposto (per cui _i mezzi di produzione non sono che « semplici mezzi » per una « continua estensione » del processo produttivo « vitale » per la « società » dei produttori), che, mentre nega di quello l'elemento contraddittorionegativo (il carattere privato dei rapporti di produzione), perciò ne conserva e sviluppa l'elemento contraddittorio-positivo (il carattere sociale del modo di produzione), già contraddetto dall'elemento contraddittorio-negativo ora negato ed espunto. Tale analisi dialettica di storiche contraddizioni è lo strumento logico scoperto dal materialismo storico, che fa di questo una scienza (sociale in quanto sociologia storica) e non semplicemente una ideologia.
3. In quanto alla tematica morale, ch'è, insieme e inseparabile dall'economica, il contenuto della forma metodica (dialettica) suesposta, essa è. già evidente, nei suoi tratti salienti, nei rilievi marxiani, di cui sopra, circa la coscienza critico-dialettica (da assumersi) del «feticismo» della merce, della personificazione delle cose e della reificazione delle persone e, insomma, di tutti quegli epifenomeni morali della produttività capitalistica del lavoro che si riassumono nella figura dell' « alienazione umana » dei produttori in una società capitalistica. Da tale figura potrà e dovrà prender le mosse una teoria veramente moderna della persona 1•
1 Per la problematica moderna deLla persona vedi i nostri studi: La libertà comunista dt., Umanesimo positivo e ema_ncipazione marxista, Milano, 19642, e Rousseau e Marx, Roma, 19644 (3),
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Critica dell'ideolo?,ia contemporanea Saggi di teoria dialettica
Prefazione
Il presente volume, coi suoi sviluppi e chiarimenti di logica, politica ed estetica, conclude una non breve ricerca materialistico-storica i cui punti-chiave sono Logica come scienza positiva 1, Rousseau e Marx, Critica del gusto; termina almeno idealmente una ticerca intellettuale « di sinistra » durata piu di un quarto di secolo (a contare dal Discorso sull'ineguaglianza, del '43). Degli scritti qui ripubblicati e raccolti a guisa di capitoli di un 1ibro organico, costruttivo e polemico insième, non ce n'è uno che non abbia subito ritocchi, anche profondi (si veda, ad esempio, Chiave della dialettica storica). Superfluo, forse, ricordare al lettore che il termine « ideolo.gia » è qui usato per lo piu nell'accezione deteriore, marxiana, di un corpo di idee aspiranti alla universalità e verità la piu lata e astratta, ma rappresentative soltanto - sebbene inconsapevolmente e dogmaticamente - di interessi storici parziali o di una data classe sociale: idee che sono per lo piu idealistiche ipostasi. Non superfluo avvertirlo che il criterio dialettico antihegeliano qui esposto, essendo uno strumento gnoseologico metodico per comprendere la storia al fine di mutarla, investe ad un tempo in quanto dinamica ana1isi risolutiva di contraddizioni reali 1 Ma titolo piu adeguato e definitivo (nella prossima ristampa): Logica come scienza storica; essendo cessate le immediate ragioni polemiche (contro la logica idealistica quale >, finisce, con la sua sovrana universalità ossia generìcìtà, per assomiglku:e assai piU adlo « eterno presente}> (dell'autocoscienza}, in cui cuJmina ogni hegelismo coerente, che non al > che la logica del materialismo impone al Luk.ics. Cosi questi sconta fa sua insensibilità alla critica marxiana materialistica della dialettica «mistificata» e viziosa ch'è l'hegeliana con le sue a.strazioni « indeterminate)> in quanto metafisiche e le sue ipostasi insomma. Loui~-- _.AJt~u_sser __ mi _contest:l (i_n Lire le Capita!, I, p. 59} l'interpretazione ch_~___JQj:Ief))iSs_ò_ .1!1arxian6 · dell'introduzione {1857} a Per li7 critica. dell'ecotlò"mìa PQ[iji.çg.,__ 211~.:. -~---Pt~_g.1ppg~_tg _..4alla _ conclu~iqne, di __ c~i_'~Topra;·crrca-n concettO_" ctI aptec:edenti~cause o. antecede~i! ·_ logico•storici (del presente st0rico). Il passo è ,_/· questo: « Sarebbe inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nel1 l'ordine in cui esse furono storicamente determinanti. Il loro ordine è invece }1, determinato dalla relazione in cui esse si trovano l'una con l'altra nella moderna
I.
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quwto .e- vedremo - è rri~toc;!olo15ko-st?rico di astrazioni deter' minate:'} La verifica iniziata"'ctft;;Je tramite appunto
mètodo .:.:_:
società borghese, e questo ordine è esattamente l'inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico » ( cors. mio). E lo Althusser: « La suite immédiate du texte de Marx ne laisse d'ailleurs subsister aucune équivoque, puisque nous apprenons que ce débat sur la correspondance directe ou inverse des termes des deux ordres [il cronologico e quello di valore logico] n'a rien à voir avec te problème analysé )>. Senonché, il seguito immediato di quel testo, che egli dà, è scorciato e suona come segue ( tradotto in italiano): « Non si tratta della relazione che si stabilisce storicamente fra i rapporti economici [ ... ], si tratta della il.oro Gliederung (o combinazione articolata) all'-interno della moderna società borghese». Ora, il testo nella sua integrità e in una traduzione meno frettolosa è questo: « Non si tratta del posto che i rapporti economici occupano storicamente nel susseguirsi [Aufeinanderfolge] delle diverse forme di società e ancor meno della loro successione nell'idea (Proudhon), che non è che una rappresentazione nebulosa del movimento storico, ma della ,loro Gliederung nella moderna società borghese ». Dunque, il testo esatto· ci dice: che non si tratta {proprio nel problema «analizzato» del rapporto presente-passato) né di un mero susseguirsi cronologico delle categorie economiche (nella fattispecie) né tanto meno di un loro susseguirsi nell'idea (secondo lo hegelianeggiante Proudhon: cfr. Miseria della filosofia), bensl si tratta di__ guella loro _art_icolaziot1e.... O, C()!}ne~sione _organica. (vedi ad es. le ·ca'fog:orie « Iavòro sans· phtast:r};;;··-o•"-, .. é- ' ch'è ad un tempo negativa del negativo che sono i meri antecedenti accidentali (le varie forme circostanziali di lavoro) e conservativa e sviluppatrice degli antecedenti non-accidentali {il lavoro come « comun denominatore », onde Je «unità>> di lavoro possono essere confrontate, addizionate etc.) della produttività della società borghese moderna; riuscendosi cosi a salvare sia il discreto storico (cui pure appartengono i non-accidentali. antecedenti) sia il continuum dell'idea o ragione {che Sancisce la non accidentalità o essenzialità di taluni antecedenti), sia l'analisi che la sintesi: o infine fa marxiana « unità molteplice» (e non è superfluo ricordare, ancora, quanto, nel confronto, sia spoglio di discretezza - o concretezza - storica il metodo «dialettico}> hegeliano). E cfr. per tutta la questione: la nostra Logica come scienza positiva, 19562, spec. p. 195 e n.i e ,la cit. Libertà comunista, pp. 157 sgg. { 1} E, per Althusser, vedi ancora avanti. 1 Chi conosce Hegel sa ch'egli ha intravisto questa fondamentale verità: vedi ad es. Scienza della logica, I,II, p. 56 ( trad. Moni, Bari, 1925): . e « v:1oto. >-> ), ~Wa J!~·"l."'jf· i-agJ~_non sa r1conosc_~.t§.!.. uiJ;;s_§:"§1 Per un analisi d1ffusa d1 alcuni de1 testi he... \)--' 1 geliani citati qui \'._e_QL__g __ JlQ.~t!..?--1:Qgiqq__ _f_Q_~-~- _s,çj_f!.!!..~..P_9_!.UÌ.1!!!J~..Pl:· 1§:.71.."~!~~j.!): 1 (E vedi nota seguente.) Si tenga anche presente) a propos.tto Oel carattere dt dialettica in vacuo proprio della hegeliana, il seguente passo ben significativo ;,..( - per la sua noncuranza della problematica platonica della « doxa _verace» - della 1 ' • sezione dedicaifal?latone nehle hegeliane Lezioni di storia diii;;- H{g..mfia: « Ciò \\teli cht..inten"dé piU dappresso ]?!atone è che Fidea:-l'in sé e per sé universale [ ... ] si )\~ _____./·Qebbono prendere per se stèssi [ ... ], che non si deve badare [ ... ] al soggetto, di .> cui queste determinazioni sono predicato» etc. (v. JI 1 p. 222, dell'ed. it. a cura di E. Codignola e G. Sanna, Firenze 1 1964: cors. mio). E vedi Logica come scienza positiva, pp. 85-95 (2).
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alla evidenza dialettica delle formule conclusive del Capitale concernenti la definizione del lavoro produttivo. Ora, è il carattere non