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Italian Pages 3188 [577] Year 1973
Galvano della Volpe
a cura di Ignazio Ambrogio ó
Editori Riuniti
I edizione: dicembre 1973 © Copyright by Editori Riuniti, Viale Regina Margherita, 290 - 00198 Roma Si ringraziano le edizioni Feltrinelli per aver consentito la pubblicazione della Critica del gusto.
Copertina di Tito Scnlbi
CL 63-0578-4
Indice
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Critica del gusto Prefazione, p. 11. — Avviso al lettore della seconda edizione, p. 13. — Avviso al lettore della terza edizione, p. 13. — I. Critica della « imma gine» poetica, p. 15. — § 1, p. 15. — § 2, p. 18. — § 3, p. 22. — § 4, p. 23. — § 5, p. 23. — § 6, p. 37. — § 7, p. 44. — § 8, p. 53. — § 9, p. 64. — § 10, p. 73. — II. La chiave semantica della poesia, p. 79. — § 11, p. 79. — § 12, p. 81. — § 13, p. 89. — § 14, p. 98. — § 15, p. 117. — § 16, p. 123. — III. Laocoonte 1960, p. 138. — § 17, p. 138. — § 18, p. 160. — § 19, p. 164. — § 20, p. 172. — § 21, p. 177. — § 22, p. 179- — Appendice prima. Engels, Lenin e la poetica del realismo socialista, p. 183. — Appen dice seconda. Sul concetto di « avanguardia », p. 187. — Appendice terza. La questione cruciale dell’architettura odierna, p. 189. — Appendice quarta. Linguaggi artistici e società, p. 192 (§ 1, p. 192. § 2, p. 193. § 3, p. 196). — Appendice quinta. Linguistica e critica letteraria, p. 199 (§ 1, p. 199. § 2, p. 203. § 3, p. 205). — Note, p. 211.
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Sulla dialettica § 1, p. 267. — § 2, p. 272. — § 3, p. 277.
281
Chiave della dialettica storica § 1, p. 283. — § 2, p. 291. — § 3, p. 300.
301
Critica dell'ideologia contemporanea Prefazione, p. 303. — Parte prima. Logica, p. 305. — 1. Chiave della dialettica storica, p. 307 (§ 1, p. 307. § 2, p. 315. § 3,
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p. 329).— 2. Dialectics in nuce, p; 332. — 3. Per la critica della sociologia borghese, p. 338 (§ 1, p. 338. § 2, p. 339. § 3, p. 342). — 4. Critica di un paradosso tardoromantico, p. 345. — 5. Moralismo e utopismo di Marcuse, p. 350. — Parte seconda. Politica, p. 357. — 6. Il convitato impossibile ovvero i « diritti dell’uomo » malthusiano, p. 359. — 7. René e la democrazia, p. 363. — 8. Anti-Kelsen, p. 366. — 9. I negri d’America e le due democrazie, p. 373. — 10. Per una democrazia postborghese (un’ipotesi per l’azione nel presente), p. 377. — Parte terza. Estetica, p. 379. — 11. I ragiona menti della poesia, p. 381. — 12. I conti coi formalisti russi, p. 384. — 13. I conti con la poetica « strutturale », p. 398.
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Giornale filosofico Il caso Lévi-Strauss ovvero la grande vacanza che continua, p. 411. — La «Commune» del ’71 vista da un esteta, p. 413. — Hugo e i due angeli, p. 415. — Contro l’eclettismo contemporaneo, p. 417. — Heidegger e Tolstoj, p. 419. — L’« oratorio » di Peter Weiss per il genocidio hitleriano, p. 421. — Una frase recuperata di Ippolito Taine, p. 425. — Marxismo contro strutturalismo, p. 426. — Una difficoltà per il compagno Althusser, p. 430. — Consigli a un cri tico (« strutturalista ») di Montale, p. 432. — Una rivalsa estetica: « Straparole » di Zavattini, p. 434. — L’ottobre sovietico e la filo sofia politica, p. 437. — La questione negro-statunitense riconside rata, p. 438. — Bric-à-brac teatrale, p. 440. — Quasi una fantasia storica, p. 442. ■—• « Mass culture », « Kitsch » e critica del « Kitsch », p. 444. — Kafka ’60, p. 447. — Un poeta scopre il misticismo di Hegel, p. 449. — Autocritica «teorica»?, p. 451. — Crisi ceca e teoria politica, p. 452. — Calderón tradito: ovvero di un invito alle sviste, p. 455.
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Note
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Appendice biobibliografica Notizia biografica, p. 519. — Indice bibliografico (a cura di Carlo Violi), p. 521.
547 Indice alfabetico generale 557 Indice dei nomi
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Opere 6
Crìtica del gusto
Prefazione
Nel presente vdlume si è tentata l’esposizione sistematica di una estetica materialistico-storica e quindi una lettura sociologica metodica della poesia e dell’arte in genere. Il che presuppone so prattutto una critica radicale della concezione estetica romantica e idealistica; anche se non solo di essa. E implica una indagine inte sa a restituirci l’opera d’arte nella sua integrità: ossia tanto nei suoi aspetti gnoseologici piu generali, per cui essa si ricollega essenzial mente alle altre istanze umane fondamentali, scientifiche e morali, che nei' suoi aspetti gnoseologici speciali e tecnici (donde il proble ma della dimensione semantica particolare dell’arte). E tutto que sto, diciamolo subito, mediante una continua messa-a-punto speri mentale — critico-artistica e quindi critico-storica — delle tesi teo riche e ipotesi metodologiche da dimostrare. In modo da impegnar si anche da parte di chi scrive alla riparazione di quella « trascuranza » del « lato formale », o diciamo logico e gnoseologico, dell’« origine » delle « rappresentazioni ideologiche » (qui: le artisti che) dar « fondamentali fatti economici » e sociali (o « lato del con tenuto »), che fu confessata da Engels in nome anche di Marx (« wir alle... ») nella sua autocritica a Mehring del luglio 1893 (inclusa nel motto premesso a questo volume). Riparazione, si sa, variamente iniziata e in guisa quasi sempre discontinua dai Plechanov, Grams ti e Lukacs. Così, ad esempio, l’indagine dell’aspet to semantico (linguistico) della poesia (e dell’arte in genere) è uno dei motivi principali della presente ricerca sistematica, proprio per ché essa è finora mancata nell’estetica materialistica: ossia se ne è sentita indirettamente la necessità da parte di Marx ed Engels quando hanno avvertito, nell’Ideologia- tedesca, che « la lingua è la realtà immediata del pensiero » in genere (col sottinteso ricor 11
so, dà parte loro, alla linguistica romantica allora indiscussa), e ne ha sentito implicitamente la necessità il Gramsci difensore della « grammatica normativa » contro il linguista idealista Bertoni: ma niente di piu. E però non fi caso o una personale inclinazione di chi scrive per le faticose sottigliezze dell’« algebra » linguistica di Hjelmslev, bensì Tesser questa — la glossematica o linguistica strutturalistica della scuola di Copenhagen — lo sviluppo più coe rente e completo della moderna linguistica scientifica (saussuriana) e quindi la teoria linguistica più generale, lo ha indotto a utiliz zarla in prevalenza (e nella sua sostanza) per assicurare le basi se mantiche della poesia o letteratura e quindi procedere ad un abboz zo di semeiotica estetica generale, f1) Questo tentativo, diciamolo pure, di una emendatici materia listica, razionalistica, del gusto tradizionale (borghese), tardo-ro mantico e estetistico e decadente — e quindi di una difesa del rea lismo della poesia — appare in un momento in cui, da una parte, si assiste alla condanna passionale — pronunciata da un noto ro manziere borghese (2) — del realismo cattolico di un Manzoni ([di cui ad es. si sottolinea con unilaterale e astratto compiacimento — nel suo famoso passo sul primo incontro di Egidio e la monaca di Monza — la seguente caratterizzazione del contegno del sedut tore, che sarebbe mera rappresentazione di « sadismo » e « lussu ria profanatola » : «[...] allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso »: e si sorvola nientemeno « la sventurata » in « la sventurata rispo se », culmine poetico di tutto il passo come ad un tempo (3) cul mine di giudizio etico-religioso, cattolico)), condanna ispirata dal desiderio di confutare la « moderna richiesta » di una « poesia di propaganda » e quindi rifiutare soprattutto il realismo artistico so cialista; e dall’altra parte si assiste a una difesa non meno passio nale — ad opera di critici marxisti non solo nostrani — di una poetica del realismo sociale cosiffatta che contesta che il ricono scimento engelsiano della poesia realistica dei romanzi del reaziona rio Balzac e quello leninista della verità sociale poetica dei romanzi del populista-mistico Tolstoj isiano qualcosa di più di particolari esatti giudizi « storici » e cioè delle osservazioni particolari tanto profonde da essere suscettibili di generalizzazione (estetica); sug gerendosi con ciò la pericolosa conclusione restrittiva che solo con idee « giuste », progressiste, si faccia poesia realistica. Ora, che tale conclusione non solo agevoli involontariamente il giuoco degli esteti borghesi, di cui sopra, ma che contraddica intimamente la 12
stessa possibilità di costituzione di una rigorosa poetica deb rea lismo socialista vero e proprio, per la quale oggi i democratici deb bono combattere, questo, dimostrare questo, è non ultimo compi to della presente ricerca sistematica. E già solo l’interesse polemico in proposito ch’essa potrà sollevare varrà la fatica ch’è costata, al meno quella dell’autore, se non proprio quella del lettore che qui si ringrazia sinceramente. Messina, Università, nel giugno 1960.
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Avviso al lettore della seconda edizione
L’autore avverte che quest’opera non può esser giudicata ve ramente che nella presente seconda edizione corretta e accresciuta, definitiva. Basti rilevare che è stata perfezionata la strumentazione linguistica della poetica e quella semantica in genere di tutta la teoria. E che non c’è quasi pagina senza qualche ritocco. Messina, Università, 15 giugno 1963.
Avviso al lettore della terza edizione A parte l’aggiunta di una quinta appendice, su Linguistica e critica letteraria, questa edizione si avvantaggia sulla precedente per miglioramenti formali e, in particolare, nelle pagine dedicate alla strumentazione linguistica della poetica, si distingue per una ulteriore precisazione del « polisenso » come categoria estetica nei confronti del « polisenso » (o « polisemo ») come categoria lessi cale. (Sempre aiutandoci il proto, s’intende.) Roma, 18 marzo 1966.
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I. Critica della « immagine » poetica
1. L’ostacolo più grave ohe l’estetica e la critica letteraria (per limitarci, al momento, a quest’ultima) trovano ancora oggi sulla loro strada è il termine « immagine » o « immaginazione » (poe tica) tuttora carico dell’eredità romantica e del misticismo estetico che le è proprio, per cui, anche essendo la « immagine » poetica intesa come simbolo o veicolo di verità ('), si sottintende che ciò non è dovuto affatto alla compresenza organica o comunque efficiente dell’intelletto o discorso o di idee ('■he restano il grande nemico della poesia) : e tuttavia si insiste sulla « veracità » della « immagine », quindi sulla sua cosmicità o universalità e valore conoscitivo («intuitivo» si dice). Una impasse connaturata alla sostanza della poesia stessa, fatale, insormontabile, si direbbe (e si dice): se non si trattasse di una antinomia storica connaturata al pensiero estetico tradizionale, romantico, spiritualistico (cristia no-borghese), per definizione: e quindi superabile col superamento di quest’ultimo nel suo insieme e nelle sue radici. Sta di fatto che oggi siamo ancora, nella sostanza, nei criteri filosofici, al punto in cui si trovavano ad es., in Inghilterra, un George Moore o un Yeats, quando il primo proclamava « le idee [...] peste e parassiti dell’opera d’arte » e il secondo rifiutava il simbolismo ibseniano perché troppo chiaro e intellettuale: se anche oggi — per restare nel campo della critica anglosassone — critici come Cleante Brooks e Roberto Penn Warren, cui si debbo no proprio alcune analisi non superficiali della struttura intellettuale di tante poesie moderne, possono premettere questo avvertimento metodico-filosofico alla analisi della struttura della Waste land eliotiana: che « la seguente discussione è da considerarsi come un mezzo per un fine-, l’apprendimento immaginativo del poema stes15
so ». Siamo ancora a Coleridge e alla sua miracolosa « immagina zione » (d’origine romantico-germanica). L’estetica tedesca attuale, da parte sua, ci ripete per bocca del compianto Nicolai Hartmann, la lezione « autonomistica » astratta o estetistico-kantiana nella for mula dello « specifico » del piacere artistico come « un comporta mento contemplativo ». E, in quanto all’estetica « marxista », a ta cer d’altro, che dire di un Lukàcs per il quale « l’arte fa intuire sensibilmente » ciò che la scienza risolve in « elementi astratti » e « definizioni concettuali » e che, tuttavia, pretende di salvare an cora la istanza della « tipicità » (idest: intellettualità) del fantasma artistico? Cominciamo a vedere le prime smentite che l’esperienza ar tistica (letteraria), considerata senza dogmatismi o metafisicherie ma con attenzione gnoseologico-scientifica, infligge al misticismo estetico. Diciamo prime smentite, perché l’analisi’ seguente è anco ra provvisoria, parziale, limitandosi semplicemente al criterio della portata immediata, ai fini del gusto, della significanza. razionale implicata dalle « immagini » poetiche addotte — e accontentando si anche del materiale esiguo di poche linee o frammenti di poesia. E si badi che questo primo criterio scelto — della immediata por tata — per il gusto — dei significati concettuali implicati dalle « immagini » in questione — non è affatto arbitrario, dappoiché si fonda sul primo carattere permanente, reale, obiettivo, posseduto dalle « immagini »: cioè ch’esse sono inseparabili da quei loro veicoli che sono insieme — in quanto strumenti semantici — vei coli di concetti: le parole1, ed è pur la questione della veracità poetica e della natura di tale veracità (se extra-intellettuale o no) che sommamente ci interessa qui. Dunque, quando Dante ci dice nella grande canzone dell’esi lio che « di fonte nasce il Nilo picciol fiume / quivi dove ’1 gran lume / toglie a la terra del vinco la fronda », c’è da chiedersi co me possiamo percepire e valutare la bellezza dell’ultima immagine (in cui culminano le precedenti) se dobbiamo assumerla solo come « immagine » e cioè senza anche (a tacer d’altro) il contemporaneo concetto esplicativo dell’ombra quasi annullata dalla perpendicola rità dei raggi solari? Appena ci abbandoni questa povera nozione empirica (la « più probabile », ci dice la critica) non ci resta che un gratuito nonsenso che è ad un tempo un’immagine sfocata1, e cioè da un rigoroso punto di vista tanto gnoseologico che estetico; un niente: non immagine-concetto e dunque nemmeno immagine o intuizione che si dica. 16
Altro che rapporto di' un che di strumentale provvisorio (spie gazione) a un fine (immagine)! La cosa interessante qui è che la compresenza del concetto o significato intellettuale all’immagine si manifesta con la massima urgenza problematica nel caso della « immagine » piu bella o schiettamente bella in cui culminano tutte le precedenti, le quali sono anch’esse (occorre dirlo?) im magini-concetti in quanto parole di un lessico. Bisogna cominciare ad ammettere che piu è significativa o pregna di sensi e piu la immagine è icastica ossia è immagine? E che ciò sia di gran mo mento per la sua veracità nel senso che la veneranda equazione bellezza -- verità abbia una ragione gnoseologica scientifica, com plessa, e non certo estetistica e metafisica? Parimente, proseguendo, non è difficile vedere per quanta parte il patetico-poetico dei versi petrarcheschi « Consumando mi vo di piaggia in piaggia / el dì pensoso, poi piango la notte / né stato ò mai se non quanto la luna » (canz. CCXXXVII) dipenda ddil’inseparabilità logica (gnoseologica) di' quella banalissima nozio ne astronomica (la luna muta sempre di stato) dalla immagine-si militudine (dell’inquieto amante) che su di essa poggia. Ancora: non a caso l’accenno piu lirico o « il solo veramente lirico » (Contini) della dantesca sestina doppia 45 (CII) è dei versi: « [...] questa gentil petra / mi vedrà coricare in poca petra, / 'per non levarmi se non dopo il tempo ! quando vedrò se mai fu bella donna / nel mondo come questa acerba donna »: che, trat tandosi di un momento di poesia escatologica, abbiamo, qui, un concetto teologico (quello del giudizio universale alla fine dei tem pi) la cui compresenza alle immagini è tanto organica e insepara bile da esse che ritroviamo in queste la loro alta evidenza patetica solo tramite la ardita figura dell’eterno (uso traslato dei termini temporali: dopo, quando, riferiti al tempo medesimo) fondata su tale concetto (teologico) (!). E ancora: cercate di gustare quello ch’è, forse, il più bel verso di Mallarmé: «Gioire du long désir, Idées » (Prose pour des Esseintes): e vedete di riuscirvi trascurando il preciso (seppur inge nuo) senso platonico delle immagini: cioè il concetto delie idee come entità-tipi trascendenti e metempiriche e oggetto dell’eros etc.: così facendo perderete le « immagini » del « lungo desiderio » e della relativa « gloria » (tutto il loro « incanto » poetico!): e le perderete come immagmi avendo perduto il loro motivo, il loro senso, ch’è radicato nel concetto platonico di cui sopra: il che vuol dire, sappiamo, ch’esse « immagini » poetiche sono immagini-con17
cetti. Non sono solo questo (vedremo a suo tempo l’altra loro carat teristica, quella semantica specifica): ma intanto sono già questo: un fatto gnoseologico normale (vorremmo dire): un complesso intuitivo-logico, un concetto concreto. Così, se voi trascurate il signi ficato ateo di quello « apparir del vero » etcetera in A Silvia, per cui « Silvia si mostra -pura di ogni elemento soprannaturale o spi rituale » e « non ci è piu cielo, non ci è più redenzione », non avendo « Silvia [...] niente di comune [...] con Beatrice e Marghe rita » (De Sanctis), voi perderete ad un tempo la patetica conclu sione del sublime (‘) idillio leopardiano.
2. Questo primo rapidissimo esame di un materiale artistico (letterario, poetico), fatto al lume del criterio della immediata portata estetica dei significati o concetti oggettivamente (cioè tra mite la parola) implicati dalle « immagini » poetiche, ci permette, con le smentite del misticismo estetico che ne risultano, di fissare alcuni elementi basilari di gnoseologia dell’arte. Diciamo subito che non può avere alcun senso, che non sia mistico e quindi del peggior dogmatismo, il parlare ancora (persino da parte di marxi sti) di una conoscenza artistica per « immagini » o « intuizioni » soltanto e non insieme organicamente per concetti'. In effetti, che cosa ci fa conoscere — e cioè percepire un che di valido per lo universo — se non la capacità di sormontare l’equivoco o caotico della immediatezza o materia bruta per se stessa informe e ine sprimibile? se non insomma la instaurazione dell’ordine o unità ch’è dello universale o concetto (donde la verità ch’è universalità) e attributo proprio del rationale'} Ora, assumete, nell’astrazione gnoseologica, le immagini o intuizioni in se stesse e per se stesse, come dati presentativi spogli di qualsiasi riferimento concettuale, e constaterete, certo, ch’esse hanno una loro positività, un loro es sere inabolibile (lo constaterete ad es. nel « gran lume » etcetera del primo testo succitato, se fissato in sé nel suo aspetto mera mente sensibile, esthetico, qui visuale): ma constaterete anche che la aggiunta inevitabile (sappiamo) del significato o concetto loro tramite i comuni denominatori lessicali (e grammaticali) di « gran de », « lume », « solare » etcetera non solo non nega il loro es sere (sensuale o materiale) di immagini ma lo esplica e promuove: che le immagini raggiungono la evidenza ch’è loro propria, la ica sticità, nel momento stesso e solo nel momento in cui si fanno co18
muni nelle e per le (adeguate) parole corrispondenti: ossia nel lo ro esprimersi che è, innanzi tutto, il loro comunicarsi: come la espe rienza conoscitiva volgare e quella poetica ci attestano ad ogni momento, attestando con ciò anche la loro identità (fino a questo punto). Il che comporta, infine, 1. che, prive di ogni senso unita rio idest intellettuale (la « sublime insignificanza » che sarebbe la poesia secondo lo estetismo mistico), le immagini sono, sì, un qual cosa di caotico e bruto e quindi di pre-conoscitivo essendo, appun to, un che di slegato incoerente e meramente discreto o molteplice; 2. che, però, in tal caso esse non sono neanche se stesse nella loro positività di immagini o sensibile o « lirico » etc.: e che insomma questo loro essere precedente (in astratto) la loro concettualizzazio ne o unificazione è solo un essere (per così dire) potenziale in con fronto del loro essere sensibile o materiale esplicantesi in sintesi col rationale, il cui essere, a sua volta, è, se si astrae dalla sintesi, un che di potenziale o essere pre-conoscitivo, pre-gnoseologico anch’esso, è la istanza unitaria a vuoto o possibilità pera-astratta o categorialità che non categorizza. È questa la dialettica (di eterogenei) di materia-ragione quale si mostra — con singolare chiarezza — nel mondo dell’arte (nel mondo poetico, nella fattispecie), per quanto suoni paradossale. Prendiamo ora ad esempio la famosa tesi vichiana dei « caratteri poetici » degli Achille, Ulisse, Oreste etcetera, come « ritratti » fatti non « con l’astrazion per generi » ma « con la fantasia » on de sarebbero « universali fantastici ». Sta di fatto che quando Vico è portato a dire che quei caratteri poetici sono « certi universali fantastici dettati naturalmente da quell’innata propietà della men te umana di dilettarsi dello uniforme », e che è della mente « con la fantasia ingrandire i particolari » e « ridurre » così « ad Achille tutti i fatti de’ forti combattitori, ad Ulisse tutti i consigli de’ saggi » etc., Vico è costretto a contraddirsi nelle sue stesse più acute parole, perché è contraddittorio e assurdo riconoscere l’esi genza umana della uniformità o unità o razionalità, e quindi della generalizzazione o « ingrandimento » dei particolari, e assegnarne il soddisfacimento specificamente non alle categorie e derivanti processi di' astrazione per generi, non alla ragione insomma, bensì alla « fantasia » o sensibile, sinonimo della particolarità stessa o del molteplice (come se questo potesse « ingrandirsi » da sé!). Nel vero o più vicino al vero è qui l’avversario diretto del Vico, il Castelvetro, allorché, attraverso sia pure il suo semplicismo di sco lastici schemi di generi e di specie, ci rende avvertiti che la univer19
salita e quindi la poeticità di Oreste, Medea e Ulisse deve pure far capo in qualche modo a quel complesso di qualità astratte (o aristo telici anonimi poioi) ch’è la «spetie» uomo, in cui quelli sono com presi; onde non si può non concludere che la poeticità di Oreste, Me dea, Ulisse, Achille e innumeri altri personaggi tragici e epici (e lirici) deve pur consistere, intanto, in quella loro universalità che altro non è che la possibilità e necessità inerente a tipi o generi ri sultanti da sintesi esthetiche idest empiriche condotte secondo i criteri della astrazione categoriale ossia della astrattezza originaria propria dei generi più generali che sono le categorie, i predicati o punti di vista supremi delle cose (la qualità, ad es., con tutto ciò eh’essa implica o coimplica). O, in altri termini, siamo, intanto, avviati a concludere che i « caratteri poetici », e con essi ogni altro poetico fantasma, lungi dall’essere quegli ircocervi che sono gli universali fantastici, come vorrebbero il Vico e gli odierni vichiani, sono universali dianoetici o discorsivi, ossia dei fatti gnoseolo gici normali, risultando essi, come ogni altro universale o concetto (in concreto), da una astrazion per generi fondata contemporanea mente sulla categorialità delle cose e sulla materialità o empiricità o estheticità delle stesse. Ma, ciò posto, siamo né più né meno costretti a cangiare il criterio tradizionale-moderno della stessa « forma » artistica e quindi del « contenuto » artistico: a identifica re, intanto, la prima col pensiero o concetto, invece che con astratte, mistiche « immagini » (quando non addirittura con immaginisuoni!) ossia immagini insignificanti e quindi, sappiamo, incomu nicabili e inespressive, e infine: informi} e a identificare il secondo con la materia o molteplice (le immagini). Un rovesciamento della problematica dell’arte ereditata dalla Romantik. Se non fosse cosi e se non si riconoscesse ch’è cosi, do vremmo ammettere che non ha veramente alcun senso parlare di « forma » a proposito della poesia e dell’arte in genere: dove non c’è eidos o dianoia o idea o concetto (giudizio) che si dica non e’è forma degna del nome, ma solo il caos, lo informe della materia o molteplice: e parlare di « forma » a proposito di « uni versali fantastici » o di « immagini » (o « intuizioni ») « cosmiche » (le « pictures of integral thoughts » di shelleyana memoria) et similia — nella misticheggiante accezione vichiano-romantica e post romantica e decadentistica — è, sappiamo già, un controsenso: è come affermare che il particolare o materia si ingrandisce o generalizza o formalizza da sé. Dovremo, allora, concludere che c’è un « discorso poetico » 20
come c’è un discorso storico e scientifico etc.: e che il termine « discorso » è da prendersi in senso letterale rigoroso — di proce dimento razionale-intellettuale — anche nel caso della poesia: in tutti i casi. Dovremo ammettere, in altri e più precisi termini, che la poesia, e l’arte in genere, è ragione (concreta) come la storia o la scienza e che in questo non differisce affatto dalla storia e scienza in genere: non differisce, cioè., negli elementi cono scitivi, gnoseologici, generali, sensibilità (fantasia o che altro) e ragione, che sono in comune. Dovremo convincerci che se ha un senso (come indubbiamente l’ha) il parlare della sensibilità o im maginazione di uno storico o scienziato lo ha altresì per converso e non meno il parlare della razionalità o discorsività della poesia: che l’istanza della « coerenza » quale fattore fondamentalissimo del l’opera poetica come tale, questa istanza su cui tutti si è d’accordo, resta inspiegabile se si intenda la coerenza come coerenza « fanta stica », cioè istituita dalla fantasia o immaginazione invece che nella fantasia; non dandosi coerenza ossiì unità (e quindi univer salità) se non per la e nella ragione-, se' non col rationale, onde, sappiamo, il molteplice o discreto puro, ch’è la fantasia o imma ginazione per se stessa, acquista un significato che rende espres sive, o parlanti come si dice (ma in senso letterale non meno che traslato!), le immagini: acquista appunto categoricità, unità. Non meno di ciò che accade alle immagini, al molteplice, che ricevono significato, ossia unità, nella storia, nella scienza. E se non fosse così, ripetiamolo, non sarebbe davvero lecito parlare di forma e di valori formali etc. della poesia e dell’arte in genere. Dunque, il poeta per esser poeta, e cioè per dar forma alle sue immagini (sia pure in quel certo suo modo, che vedremo poi), deve pensare e ragionare, nel senso letterale dei termini, e quindi fare i conti con la verità e la realtà delle cose (il « verosimile » come elemento artistico essenziale scoperto da Aristotele) non meno, certo, dello storico e dello scienziato in genere. E fare i conti — come poeta — con le ideologie e gli avvenimenti e l’espe rienza insomma (anche « storica ») pur quando, nell’intenzione sua, astragga da — o rifiuti — le prime e i secondi, alla maniera di un Ariosto o di un Cervantes. Ed è la complessa dialettica (reale) dell’opera poetica come tale che dobbiamo ora affrontare: il che è inevitabile conseguenza dell’esser —essa opera poetica — un di scorso non meno di quel che lo sia il discorso storico o scientifico in genere. 21
3. È in altri termini, la natura sociologica dell’opera poetica che dobbiamo constatare: e s’intende il perché: solo se i significati e le articolazioni intellettuali (del reale, più o meno storico: di che altrimenti?) sono costitutivi dell’opera poetica come tale, ne consegue allora veramente la possibilità di una fondazione socio logica (materialistica) dei valori poetici e vien riconosciuto come mitico e illusorio quel platonico cielo o spazio metempirico e me tastorico (lo hegeliano regno dell’ideale o dei Geister o « ombre » e « spirituali figure ») in cui i valori poetici sono stati ipostatizzati almeno dalla Romantik in poi. Onde l’accertamento progressivo, che faremo, dei significati o valori strutturali di opere poetiche (ma struttura, o ordine organizzativo e compositivo, non è sino nimo per sé di intellettualità?) risulterà al contempo un accer tamento della condizionalità empirica, storica, sociale delle stesse opere poetiche (ci sono, ripetiamo, significati o concetti non rap portabili direttamente o indirettamente all’esperienza, del reale, e alla storia insomma?): e del resto, se il carattere e valore socio logico dell’opera poetica non fosse richiesto o meglio implicato dalla stessa sostanza (strutturale, intellettuale) dell’opera poetica, come dimostrare la piena umanità dell’opera poetica stessa, nel senso uno e duplice dell’umano impegno totale di quell’individuoartista in quanto essere pensante e morale oltre che senziente e immaginativo e del suo impegno come reale individuo tuttavia, storicamente collocato e quindi partecipe di una società e civiltà? Se cosi non fosse, veramente una estetica realistico-materialistica non sarebbe niente di più che un generoso sogno. Niente di meno che Goethe, per un verso, e Marx, per l’altro, hanno avviato questa problematica quando il primo ha avvertito che « la più alta liricità è decisamente storica » e che se si tenta ad esempio di « staccare gli elementi mitologico-storici dalle Odi di Pindaro » si troverà che così « si è recisa affatto la loro intima vita », e il secondo, dopo aver premesso che ad es. « l’arte greca presuppone la mito logia greca », e « cioè la natura e le forme sociali stesse già elabo rate dalla fantasia popolare », ha poi concluso che « la difficoltà [per il materialista] non sta nel capire che l’arte [figurativa] e l’epos dei greci sono legati a certe forme di sviluppo sociale », bensì la difficoltà (maggiore) sta nel fatto che « esse ci procurano ancora un piacere artistico e sotto un certo rispetto valgono come norma e modello inarrivabili ». Dove, da parte di Marx, è intuita l’estrema complessità del problema estetico quando lo si ponga rigorosamente in termini materialistici e non più in termini posi22
rivistici (constatate che siano criticamente le carenze dell’impo stazione romantica e idealistica) : e cioè che il legame storico, sociale, dell’opera d’arte non può condizionarla meccanicamente o dall’esterno ma deve far parte in qualche modo del piacere sui generis ch’essa — e non altra cosa — ci procura, e quindi far parte della sostanza stessa dell’opera d’arte come tale: della sua sostanza strutturale, intellettuale, appunto; onde nel suo nucleo razionale-concreto, solo tramite in essa presumibile, si è visto, delle articolazioni del reale, nel suo insieme di ideologie e fatti e istituzioni d’ogni genere, si riduca proprio quella sorta di sedi mento vitale, lo humus storico, la cui presenza organica nell’opera d’arte ha da essere dimostrata dal materialista, propriamente.
4. Procediamo, ora, ad una rapida lettura sociologica della Antigone sofoclea, ossia ad una prima esemplificazione di quel l’accertamento del condizionamento sociale, storico, dell’opera poetica, di cui sopra: con l’avvertenza che l’accertamento dei va lori strutturali di ogni poesia, che strettamente dipende da quello del condizionamento storico, sociale, della stessa poesia, e quindi da una filologia integralmente funzionale, è al contempo accerta mento di quel punto focale da cui (col concorso della peculiarità semantica da vedersi a suo luogo) si irradiano i valori (« tragici ») di questa (*) poesia sofoclea nella fattispecie, come di ogni altra, in quanto è esso che alimenta il simbolismo propriamente artistico di questa come di ogni altra poesia, la puntuale-universale significanza della poesia insomma.
5. Proprio a proposito della poesia greca, e deW Antigone in particolare, Croce ha ribadito che « la poesia non tratta "problemi", ma forma immagini di vita in atto » e rimproverato Hegel di « essere troppo preso dalla urgenza e gravità del problema ch’egli meditava e a suo modo risolveva, dello Stato e delle sue anti nomie, da osservare in questa parte la religione dei confini tra poesia e filosofia » (sic). Checché sia di Hegel in proposito, il che vedremo fra poco, ci pare, intanto, incontestabile contro Croce nella fattispecie quanto segue. 1. Che, senza i concetti etico-reli giosi greci &A\.’hybris, o tracotanza umana, e della sophrosyne 23
o saggezza come senso della misura — suo opposto — e della ne mesis, o celeste punizione, e della ananke o necessità (o destino) come piano celeste etcetera, e quindi senza i problemi ch’essi generano, Antigone nella fattispecie, ma con essa, vedremo, ogni tragedia greca, non avrebbe alcuna sostanza poetica-, onde la astra zione e separazione della « unità logica » sua (e di ogni altra tra gedia greca) dalla « unità lirica », quale è operata ancora alla ma niera crociana da tanta critica (estetizzante), è metodo pessimo. 2. Che, a riprova di ciò, sia la hybris di Antigone, figlia di Edipo, che in nome della legge religiosa della reverenza ai morti disob bedisce all’editto di Creonte che vieta la sepoltura del fratello di lei, sia la hybris di Creonte che, atto strumento di dèi che intendono distrutta tutta la casa dei Labdacidi, condannando a morte Antigone (murata in caverna) commette tuttavia una ingiusti zia ohe lo esporrà alla nemesi, costituiscono il fulcro della poesia tragica, da cui irraggiano quei momenti lirici e drammatici che sono tanto piu tali quanto piu espressivi, appunto, di quel pe culiare ethos greco: come ad esempio: la « saggezza » compren siva della sorella Ismene: « Per me, dunque, pregando i nostri morti sottoterra di perdonarmi, poiché vi sono costretta, obbedirò a coloro che hanno il potere. Voler fare ciò ch’è al di sopra delle nostre forze [perissà] è un atto irragionevole [...]. Poiché lo vuoi, va: e sappi una cosa: tu parti per un atto folle, ma tu sei veramente amica di quelli che ami » (vv. 65 sgg., 98-9); la logica dello strumento divino 'Creonte: « È impossibile conoscere l’anima, i sentimenti e il pensiero di alcun uomo, se non lo si è mai visto all’opera al potere e nell’applicazione delle leggi [...]. No, io non sono un uomo, è essa [Antigone] che prende il mio posto, se questa superiorità che ha assunto deve restare impunita » (vv. 175 sgg., 484 sgg.); le ragioni di Antigone di fronte a Creonte: «A.: [...] Né io credevo che il tuo editto avesse forza bastante da dare a un mortale il potere di violare le leggi non scritte e immutabili degli dèi [...]. Chi sa se queste [tue] regole sono sacre laggiù? C.: Certo un nemico non mi sarà mai caro, neppure quando sia morto. A.: Certo, io non nacqui per condi videre l’odio, ma l’amore » (vv. 453 sgg., 519 sgg.); il secondo stasimo o delle speranze umane: « [...] La varia speranza a molti uomini giova, per molti, invece, è un inganno dei loro vani desi deri: ed essa si attacca a chi nulla comprende prima di bruciarsi il piede all’ardente brace. Con saggezza è stato pronunciato il detto famoso: ”il male sembra essere un bene a colui a cui la 24
divinità spinge l’intelletto alla rovina”: ed egli passa brevissimo tempo al riparo della sventura » (vv. 615 sgg.); la logica di Creonte confutata dal figlio Emone: «C.: La città non è forse rite nuta esser di chi la governa? E.: Da solo, certo, tu governeresti bene un deserto» (vv. 738-9); il lamento di Antigone-Niobe e la sua terribile risposta al corifeo: « A.: Ho sentito dire come assai compianta l’ospite frigia, figlia di Tantalo, peri sulle vette del Sipilo: come, edera tenace, una pietrosa vegetazione la copri e lei consumata la pioggia e le nevi, cosi è fama tra gli uomini, mai l’abbandonino ed essa si inondi del pianto continuo delle sue ciglia: ed ora, quanto simile a lei, un dèmone mi corica nella pietra. Cor.: Ma essa [Niobe] era una dea e prole di dèi, noi invece siamo mortali e figli di mortali; certo per te morente è gran cosa goder fama di aver ottenuto da viva e da morta sorte comune agli eguali agli dèi. A.: Tu ridi di me. Perché, per gli dèi patri, mi insulti non ancor morta ma viva? » (vv. 823 sgg.); la sua finale chiamata in causa degli dèi: « Abbandonata dagli amici, infelice, vado viva nelle cavernose fosse dei morti: quale decreto degli dèi ho io trasgredito? A che serve ch’io, sventurata, guardi ancora agli dèi? » (vv. 919 sgg.); la morale tratta dal corifeo e da 'Creonte punito: « Cor.: Ahimè., come sembri veder tardi la giustizia! C.: Ahimè, ora la conosco, sventurato. Ma un dio allora mi colpì in testa e mi stordì e mi spinse per vie cru deli, calpestando le gioie della mia vita. O inutili sforzi degli uomini! » (vv. 1270 sgg.); l’ammonimento finale del coro a Creonte: « Non far voti óra: che non c’è scampo dalla sciagura destinata ai mortali » (vv. 1337-8). 3. Che, se è vero, come la filologia classica piu rigorosa dimostra, che niente è più alieno dalla mente di Sofocle di un conflitto in Antigone fra religione e Stato, essendo per lui greco lo Stato, la polis, parte dell’ordine divino stesso (e non già un organismo modernamente distinto e opposto), e se è vero d’altronde che Antigone non può incor porare attraverso il suo sentimento e il suo agire religioso se non lo spirito della vera polis, dovremo concludere, in primo luogo, che il torto di Hegel, nel suo intendimento AAV Antigone, non fu già quello (secondo crede il Croce) di aver sollevato dei problemi morali, filosofici, trasgredendo così i confini fra poesia e filosofia (pensiero!), bensì di aver scambiato problemi antichi con problemi moderni e fu insomma un errore filologico (ma H. in quel suo senso così vivo della necessità poetica dellWZw nella tragedia sofoclea e in genere resta esemplare ancor oggi, 25
anche se quel suo senso è dovuto soltanto alle esigenze contenu tistiche di un razionalismo peranco troppo unilaterale e astratto per poter affrontare il problema artistico in genere nel suo duplice nodo reale, romantico-classico o estetico-logico); e, in secondo luogo, che quanto detto sopra del profondo rapporto di Antigone con la polis ci rimanda, in fine, alla estrema problematicità delVAntigoneche, stando come si è detto le cose, il poeta stesso (non solo l’esemplare credente Sofocle) riconosce qui nel viluppo hybrico Antigone-Creonte (ben piu che nell’hybris edipica) il po stulato religioso: che la sventura, la necessità (Xananké), può col pire anche il pio, l’innocente, una Antigone: anzi: che la divinità si compiace (il « giuoco » degli dèi con l’uomo) di convertire lo umano proposito e scopo (anche nobile) in destino, fatalità, ate. Altro che dire che questa poesia non tratta problemi ma solo immagini di vita in atto! E del resto, se è vero che il Croce appunto ha buone ragioni contro la critica positivistica quando osserva che in sommo grado « la critica dAYAntigone è andata soggetta a una sorte di logica ’’metabasi in altro genere” » ossia di passaggio dal genere poetico a quello storico o filosofico, è pur vero che la sola alternativa alla critica positivistica non è, non può essere, la critica spiritualistica estetizzante, bensì una critica filologico-semantica integralmente funzionale, ossia inte ramente in funzione del testo in quanto prodotto storico-, ch’è poi, vedremo sempre meglio, il criterio di giudizio (*} (critico-storiografico) fornito da una estetica materialistica e la miglior conferma (sperimentale) della bontà del metodo di questa. Onde si salda veramente, non meccanicamente ma dialetticamente, la sovrastruttura culturale (cui appartiene la poesia e l’arte in genere) alla base economico-sociale e si dimostra — attraverso l’enucleazione di complessi portico-strutturali (come quello di cui sopra e i seguenti) — che né Antigone « né Achille né Vulcano etc.» sarebbero stati « possibili » con « Roberts and Co. » o « il Crédit immobilier » o « la polvere da sparo e il piombo » (Marx, cit.) : pro prio perché ognuno di essi presuppone e contiene nella sua struttura di organismo poeticamente significativo tutt’altre (da queste mo derne) condizioni e ragioni storiche, idest tutt’altre, si è visto, condizioni ideologiche o culturali (morali, religiose, scientifiche etc.) e implicitamente economiche o materiali. É ciò sottintende, naturalmente, e conferma quella legge, intravista da Engels, che diremo dei « lunghi periodi » e cioè che « quanto più la particolare sfera [culturale] da noi investigata [ad es. un dato periodo arti 26
stico] è lontana dalla sfera economica [sich vom Oekonomischen entfernt] e si approssima a quella della pura astratta ideologia e tanto piu essa mostrerà nel suo sviluppo delle accidentalità [e anche peculiarità] e la sua curva correrà a zigzag », ma che, « se voi traccerete l’erre mediano di questa curva, troverete che questo asse correrà tanto piu approssimativamente parallelo all’asse della curva dello sviluppo economico quanta più sarà lungo il periodo [storico] considerato e più ampio il campo [ideologico] trattato ». (Ma su ciò ritorneremo.) Restando a Sofocle, si riesamini YAiace e VEdipo a Colono, ad esempio, e si troverà che anche in essi i momenti di piu alta « umana » poesia sono oggettivamente peculiari, nel senso che non sussistono separati dai concetti greci etico-religiosi di cui sopra, dalla Weltanschauung greca in genere. Nell’Alce: a) il prologo con Athena che « giuoca » in iscena con l’eroe protagonista da lei fatto insanire per un suo gesto di orgoglio tracotante (l’hybris) e giuoca con una crudeltà da impietosire Ulisse sulla sorte del suo nemico Aiace oltre che degli uomini in genere: « Athena [ad Aiace insanguinato per aver scannato un gregge scambiato, nella sua follia, per i capi dei greci suoi offensori]: Poiché ti piace di fare cosi, colpisci dunque, porta a termine tutti i tuoi progetti senza eccezione. Aiace: Vado a finire la faccenda. Per te, Athena, e ti prego di essere sempre la mia alleata, come oggi. Athena: Tu vedi, Ulisse, la potenza degli dèi, quanto è grande. Quale uomo piu giudizioso e più bravo di lui al momento oppor tuno? Ulisse: Non ne conosco. E malgrado tutto, pur essendo mio nemico, compiango la sua sventura, legato com’è a un fato cru dele, e penso anche al mio destino. Lo vedo: tutti noi che viviamo non siamo che fantasmi, ombra vana. Athena: Che questa vista ti apprenda à non proferir mai una parola orgogliosa contro gli dèi, né a concepir fierezza altera se tu superi altri nella forza o nell’immensità della ricchezza, ché basta un giorno per abbat tere e sollevare gli umani: e gli dèi amano la moderazione nei desideri e odiano la empietà » (e questa ammonizione conclusiva, che più drammatica, poetica, non potrebb’essere, è stata scam biata, dalla solita critica estetizzante, per un prosaico fabula docet e però separata dall’azione del prologo e da tutta la seguente!); b) il « discorso ingannevole », ambiguo, tenuto alla sua compagna per tanquillarla, da Aiace, che, rientrato in se stesso, si avvia al suicidio per salvare il suo onore: « [...] Cosi ormai sapremo cedere agli dèi e impareremo a onorare gli Atridi [...]. La potenza, 27
la forza, cède all’autorità, come gli inverni nevosi alla feconda estate È come non apprendere una saggia moderazione? [...] Io vado dove bisogna ch’io vada [...] » (discorso che, per il fatto che coinvolge l’universo alla presenza e sorte del protagonista, è stato preso in considerazione dai piu come semplice sfogo « lirico »!); c) la formula con cui il messaggero riassume la colpa d’orgoglio di Aiace: che egli «[...] si è attirato l’impla cabile collera della dea con dei sentimenti che non sono di un uomo », cosi come dice poco prima, dei simili ad Aiace, sprovvisti di misura e vani, che, « nati con la natura di uomini, non ne hanno pertanto Ì sentimenti » (una definizione poetica del sentimento umano eh’è ben greca, antica, storicamente circo scritta!). Dell’Edz'po a Colono (’) basti questo dialogo di Ismene e Edipo: « Ism.: Oggi gli dèi ti rialzano, -dopo averti atterrato. Ed.: Povero beneficio risollevare da vecchio chi è caduto da gio vane! »: due tremende battute, che sono peraltro piene di un pa thos tanto peculiare, tanto greco, cioè tanto poco genericamente o astrattamente « umano », da servire a un Wilamowitz come do cumento cospicuo della concezione greca dei rapporti fra l’umano e il divino. E del « razionalista » Euripide non si può non ricordare ad esempio: 1. le Baccanti, dove la sorte atroce di Penteo, straziato dalla propria madre nel tumulto bacchico perché colpevole di « em pia hybris » verso Dioniso, è già annunciata, piu che dal primo stasimo del coro, con singolare potenza poetica, drammatica, dalla visione ferina del dio che balena agli occhi di Penteo quando, già fuori di sé a opera del medesimo, si avvia accanto a lui sul cammino mortale, a vedere le baccanti: « Penteo: Ma in verità mi sembra di vedere due soli e due Tebe. E mi sembra che tu sia un toro che mi guida andando innanzi, che sul tuo capo siano spuntate le corna. Ma forse una volta tu eri una fiera, perché davvero ti sei trasformato in toro! Dioniso: Il dio, che prima non ti era benevolo, ora ci accompagna come alleato. Ora tu ve drai ciò ch’è. necessario che tu veda» (vv. 918 sgg.); 2. lo Ippolito, in cui anche solo qualche battuta, ad apertura di pagina a caso, — ad esempio come: « Nutrice: Cipride non è, dunque, una dea, ma qualcosa di ancor più grande di una dea, essa che ha rovinato lei [Fedra] e me e tutta questa casa », o « Fedra: Ralle grerò Cipride, causa della mia rovina, liberandomi dalla vita, vinta da un amaro amore » (ofr. il fr. 619 della Fedra sofoclea: « questa malattia mandata da un dio »), o « Ippolito [morente alla 28
presenza di Artemide]: O divina fragranza! Anche nelle mie pene m’accorsi di te e mi sentii sollevato. La dea Artemide è qui. Ar temide: C’è, sventurato, la più cara delle dee per te. Ipp.: Tu vedi, mia padrona, in che stato sono. Art.: Lo vedo, ma non mi è lecito versar lacrima. Ipp.: Non esiste più il tuo cacciatore, né il tuo scudiero » etc. (vv. 1391 sgg.), — qualche battuta, dice vamo, è sufficiente a farci avvertire la peculiarità cristiano-mo derna della Fedra raciniana, dove, anche a prescindere dalla rimo zione delle dee, Cipride e Artemide, Fedra è la protagonista e tutta individualisticamente introversa, intenta all’analisi morale morbida della sua umana-passione-chiave-di-tutto; onde, ad esem pio, la « Venere » invocata nel suo grido famoso (« C’est Vénus tout entière à sa proie attaehée ») ha, nella sua sostanza espressiva, niente più di un valore metaforico (Sainte-Beuve aveva ragione): e tutto questo, insomma, se non pregiudica proprio il nostro piacere artistico (come pensa il Pohlenz), certo solleva un serio problema di gusto e di critica, già intravisto, a suo modo, da Chateaubriand. Risalendo ora ad Eschilo, maestro nel rappresentare conca tenazioni di hybris, basterà per i nostri scopi che ci soffermiamo sulla posizione tragica, poetica, di Agamennone nella tragedia omo nima prima parte della Orestiade: posizione incompresa e falsa — esteticamente — se si prescinda (come gran parte della critica ancor oggi) dalla ananke che costringe il protagonista a sacrificare Ifigenia, e si creda invece — in guisa anacronistica e antiartistica ad un tempo — che la sciagura che colpirà Agamennone « abbia origine nella sua volontaria decisione » (come scrive un critico illustre) di sacrificare la figlia, allorché il testo fa riferimento espresso, fin dal l’inizio del coro, al terribile presagio, contenuto nell’ira di Arte mide per una lepre gravida divorata dalle aquile inviate da Zeus stesso a incoraggiare Agamennone alla sua partenza per Troia, e di conseguenza alla necessità di una espiazione propiziatoria (in un sacrificio umano): « [...] E quando l’indovino [Calcante], coprendosi del nome di Artemide, venne ancora a proclamare un rimedio più doloroso ai capi dell’amara tempesta, percossero gli Arridi con lo scettro la terra e non contennero le lacrime [...]. E [Agamennone] mise il collo nel collare della necessità [d’anankas] » etc. (vv. 198 sgg., 218 sgg.); allorché, infine, vien da pensare, come dice il Page, che non ci sia in tutta la tragedia greca un passaggio che eguagli in pathos, in bellezza, quel passo, centrale, del coro (vv. 385 sgg.) che rappresenta, negli effetti 29
dell’