Opere [Vol. 5]
 8835923417, 9788835923411

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Galvano della Volpe

Opere a cura di Ignazio Ambrogio 5

Editori Riuniti

I edizione: dicembre 1973 © Copyright by Editori Riuniti, Viale Regina Margherita; 290 - 00198 Roma Si ringrazia l’editore Laterza per aver consentito la pubblicazione della Poetica del cinquecento. Copertina di Tito Scalbi CL 63-0577-6

Indice

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II verosimile jilmico e altri scritti di estetica Prefazione alla seconda edizione, p. 11. — Prefazione alla prima edizione, p. 12. — I limiti del gusto crociano, p. 15. — Problemi di un’estetica scientifica, p. 23. — Il verosimile filmico (Note sul rap­ porto di forma e contenuto nell’immagine filmica), p. 40. — Gramsci e l’estetica crociana (a proposito di « struttura » e « poesia »), p. 52. — Pudovkin e l’attuale discussione estetica, p. 56. — Poesia contro poetica (A proposito di Mallarmé), p. 66. — L’ultimo Chàplin, p. 69. — Contraddizioni dell’estetica di Lukacs (A proposito del dibattito sul realismo socialista), p. 72. — Ideologia e arte, p. 77. — Il pro­ blema della tipicità artistica, p. 79. — Aggiunte, p. 85: Ideologia e film (in occasione dell’« Uomo di paglia » di Pietro Germi), p. 87; Situazione 58, p. 90; Notarella sul festival veneziano del ’59, p. 92; Postilla sul cinema e le atti figurative, p. 94; Risposta a « Cinema nuovo », p. 96; Un film che vale molti romanzi, p. 98; [Sul cinemaverità], p. 100.

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Poetica del cinquecento Avvertenza, p. 105. — Introduzione a una poetica aristotelica, p. 107: § I, p. 107; § II, p. HO; § III, p. 112; § IV, p. 118; § V, p. 127. — La poetica di Aristotele commentata, p. 141.

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Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica Prefazione alla quarta edizione, p. 193. — Avvertimento al lettore (1961), p. 195. — Rousseau e Marx, p. 197: Introduzione, p. 199; I. Critica dell’uomo astratto di Rousseau (§§ 1-5), p. 201; IL II problema della libertà egualitaria nello sviluppo della moderna demo­ crazia: ossia il Rousseau vivo (§§ 6-7), p. 222; III. Socialismo e

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libertà (§ 8), p. 238; IV. Chiarimenti, p. 241 (1. Rousseau e Hegel, p. 241; 2. Liberalismo e/o democrazia, p. 242; 3. Ancora Kant mora­ lista borghese, p. 244; 4. La problematica del « Discorso sulla dise­ guaglianza » e la sua attualità, p. 249; 5. Riepilogo sistematico, p. 259; Nota bibliografica, p. 263); Appendici, p. 265 (I. Ancora sulla legalità socialista, p. 267; II. L’umanità di Montesquieu e di Voltaire e quella di Rousseau, p. 282; III. Critica marxista di Rous­ seau, p. 292; IV. Noi e la costituzione, p. 304). — Dialettica senza idealismo, p. 309 (Nota sul positivismo logico, p. 312). — Per una metodologia materialistica della economia e delle discipline morali in genere (A proposito degli scritti metodologici di Marx dal 1843 al 1859), p. 315: I. Gli scritti filosofici postumi del 1843 e 1844 (La critica materialistica dell’apriori), p. 317; II. La « Miseria della filosofia » (1847) (Il sorgere del problema di una dialettica scienti­ fica, cioè analitica), p. 327; III. L’introduzione (1857) e la prefazione (1859) alla «Critica dell’economia politica» (L’avviamento alla solu­ zione del problema di una dialettica analitica), p. 337. —. Aristotele 1S52> P- 353. — Cenno sommario di un metodo, p. 357: § 1, p. 357; § 2, p. 363; § 3, p. 364. — Cinque frammenti di etica, p. 367: 1. La Bruyère e l’« inevitabile » ineguaglianza, p. 369; 2. Il bravo Robin­ son, p. 371; 3. Il ci-devant signore di Voltaire, p. 373; 4. L’anima bella Carlo Jaspers, p. 375; 5. Il filosofò e la pace, p. 378.

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Schizzo di una storia del gusto

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Note

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Indice dei nomi

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Opere 5

Il verosimile filmico e altri scritti di estética

Prefazione alla seconda edizione

Questa nuova edizione del Verosimile filmico è corretta e ampliata rispetto alla prima. Le correzioni principali sono due: 1. la rettifica (a p. 50) della mia adesione al giudizio di Arnheim su un particolare della Fine di San Pietroburgo di Pudovkin (e cioè la sua arbitraria riduzione a valori visivo-pittorici del suddetto particolare); 2. la nuova traduzione (a p. 23), migliorata, di un verso di Shakespeare citato, nella prima edizione, in altra tradu­ zione. Le aggiunte sono pochi spezzoni critici apparsi ulterior­ mente in riviste. Per lo sviluppo e il senso ultimo dei criteri este­ tici appena abbozzati in questo volume l’autore rinvia alla immi­ nente edizione definitiva, nell’« Universale Feltrinelli », della sua Critica del gusto. Si consiglia intanto il lettore interessato a que­ sti problemi di confrontare la trattazione presente dei problemi dell’arte filmica con quella della prima edizione della Critica del gusto (1960). L’autore ringrazia Edoardo Bruno e Adriano Apra per la loro cura amichevole nell’allestire questa nuova edizione del Verosimile filmico. Roma, 15 maggio 1962.

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Prefazióne alla prima edizione

Raccolgo nel presente volume articoli e saggi di estetica di un quinquennio con aggiunte e coordinamento. Lo sviluppo rigo­ roso di una polemica antiromantica e antidealistica è uno degli scopi di questi scritti e un altro strettamente connesso è l’abbozzo delle ragioni, o di alcune ragioni, di una estetica dei mezzi espres­ sivi in quanto conclusione di quell’estetica scientifico-materialistica alla cui fondazione un’inflessibile critica antiromantica (e solo essa, crediamo) apre l’accesso. Per fermarci un istante su uno di questi problemi, quello dei mezzi espressivi o di un « nuovo Laocoonte » (secondo l’espressione divulgata fra noi, anni fa, da due teorici del film, Rudolf Arnheim e Umberto Barbaro), chi scrive crede doveroso reagire a tendenze di gusto come quella che in­ duce, ad esempio, il romanziere Alberto Moravia a concludere una sua molto interessante recensione della versione filmica del ro­ manzo giallo I, the jury di Mickey Spillane dicendo che « la macchina da presa è un mezzo espressivo grossolano al confronto con la penna », dal momento che « nessun film potrà mai dirci [...che] ”il rombo della 45 scosse la stanza” [...]» et similia (in Europeo del 14 marzo 1954). Doveroso o necessario reagire, dunque, alla tendenza ancor diffusa di stabilire delle gerarchie o scale di valori espressivi o artistici, quando si tratta semplicemente di riconoscere una diversità o pluralità dì valori espressivi dovuta ai relativi mezzi e ammettere quindi una pacifica coesi­ stenza di eguali. Che, se è vero che nonché il « rombo della 45 » di Spillane ma neanche ad es. le « grida orrende alle stelle » del Laocoonte di Virgilio (che Lessing confrontava appunto con quello dei Musei vaticani) sono filmabili o dipingibili o scolpi­ tili etc., onde appare sempre più gratuito e innocuo l’oraziano « ut pictura poèsis », è vero altresì che né il leone-che-rugge della 12

Corazzata 'Potemkin né il viso di Terry in Limelight o le sopracci­ glia di Groucho Marx nei suoi gags sono traducibili in parole, in letteratura (mentre il dialogo letterario di Hemingway suona « ri­ dicolo », perché superfluo, fuori posto, nella migliore versione filmica di To have and have not, secondo l’osservazione di un noto critico inglese, il Reisz): e che insomma la partita fra le arti è pari, come chi scrive si è proposto di dimostrare. Così la parti­ colare sfida del pittore al resto dell’universo ci sembra ben resa nelle seguenti parole di Aragon a proposito di certe composite nature morte picassiane addirittura: « [...] Ces bouchons de cautchouc qui se tortillent aux bouteilles de natures mortes plus récentes, et qu’on achetait au bazar de l’Hótel-de-ville, sans les voir-. Picasso ne les avait pas encore peints » (in Lettres frangaises del 29 luglio 1954). Che poi la tendenza a ipostatizzare e quasi for­ zare l’arte in un’arte e quella a unificare contaminandole arti che son diverse per i loro mezzi espressivi (vedi ad es. la visivitàpittoricità del film sostenuta dal Ragghianti) siano conseguenzecontrappasso della preconcetta (aprioristica) comoda « unità » idealistica dell’arte (onde il Croce nella nota lettera a Chiarini sul cinema, in Bianco e nero del dicembre 1948, si levava d’impiccio concludendo: « Dunque, un film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto, e non c’è altro da dire » e intendeva con ciò di essersi « spacciato », ancora una volta, con una « negazione ra­ dicale » di « tutte le controversie alle quali dànno origine i cosid­ detti ’’mezzi” di espressione »), che sia così, che cioè la natura (la varia realtà o esperienza artistica) cacciata dalla porta ritorni (assai malamente) dalla finestra, questo è ben presumibile ed è comunque la questione ultima, il perché finale, che non si può né si deve eludere, che ci riporta a una rigorosa critica (materia­ listica) di ogni apriorismo, anche romantico — e il circolo si chiude. Infine, l’autore spera che queste pagine riescano meglio delle precedenti a far vedere ai suoi critici dove lo abbia condotto la sua antica repugnanza (almeno fino dalla Crisi critica dell'estetica ro­ mantica, 1941) per l’« intuizione cosmica » crociana e idealistica: cioè a una teoria della intellettualità dell’arte idest del suo valore conoscitivo pieno, solo tecnicamente (semanticamente) differenziato dal valore conoscitivo della storia e delle scienze in genere. Teoria che, parafrasando la terminologia kantiana del primo paragrafo della Analitica del giudizio estetico ma in funzione antikantiana (in specie contro il Kant della Dialettica del gusto, ispiratore della 13

Romantik col dogmatico principio del bello come « idea esteti­ ca », cioè rappresentazione « inesponibile » in concetti intellet­ tuali), può essere riassunta approssimativamente così: che tutte le rappresentazioni date in un giudizio essendo empiriche e quindi estetiche, qualsiasi giudizio che risulti da esse è tanto logico che estetico e dunque esse rappresentazioni sono riferibili sempre al­ l’oggetto. (Chi ha inteso meglio l’autore in proposito è Gillo Dorfles in The journal of aesthetics and art criticism, 2 dicembre 1953: e l’autore gliene è grato.) Roma, 31 luglio 1954.

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I limiti del gusto crociano

Se si riduce il concetto crociano della « critica » artistica in genere al concetto pur crociano della « tecnica interiore » (e niente ci vieta di farlo da parte del Croce), ne risulteranno in piena luce tutte le insormontabili difficoltà conclusive di quel concetto. Infatti, è risaputo, da una parte, che anche una estetica intesa come teoria di una « non impura poesia pura » (eguale a « intui­ zione lirica ») non può evitare il problema della « tecnica » in quanto inscindibile da quello della intuizione-espressione (-comu­ nicazione), e che, d’altra parte, il problema della critica è, a sua volta, anche problema inevitabile della tecnica; in quanto è, pro­ blema di « criteri ». Dunque, secondo la riassuntiva Aesthetica in nuce, la tecnica si presenta al Croce in due aspetti o momenti: a) come « fissa­ mente dell’intuizione-espressione in un oggetto che diremo mate­ riale o fisico per metafora », cioè « un complesso di cognizioni disposte e indirizzate a uso delazione pratica [...] che foggia oggetti e strumenti pel ricordo e la comunicazione delle opere d’arte »; onde — rispetto alla « poesia » che è « già intera » in quanto « parola tra sé e sé » — con la « comunicazione » si entra in un « nuovo stadio, certamente di molta importanza sociale e culturale, il cui carattere non è estetico ma pratico »; h] come « sinonimo dello stesso lavoro artistico, [...] nel senso di ’’disci­ plina”, cioè del legame necessario con la tradizione storica, dalla quale nessuno può slegarsi, sebbene nessuno vi resti semplicemente legato »; la tecnica come « tecnica interiore » insomma. Ora, ad a) osserviamo che, anche dato e non concesso che la tecnica materiale o esteriore sia tale solo per metafora, resta pur sempre da chiedersi quale sorta di ricordo e comunicazione dell’intuizione-espressione, cioè dell’opera d’arte, essa sia, se il suo esser­ li

ricòrdo non è estetico ma pratico soltanto-, non ne sarà piuttosto un’alterazione o addirittura l’annullamento? E allora la «circola­ rità » o unità spirituale non sarà puramente immaginaria o verba­ le, svelandosi le « forme » dello « spirito » nient’altro che delle rigide forme di tipo scolastico? E insomma che ci sta a fare questa tecnica « materiale », se, in questo concetto spiritualistico e deprezzativo della comunicazione (artistica), la soluzione del proble­ ma espressione (artistica) non è nel migliore dei casi che spostata e rinviata? Ma venendo allora a b}, alla tecnica interiore, spirituale, a cui la prima, la tecnica materiale o esteriore, ci solleciterebbe come ricordo, vediamo a che si riduca in effetti, nelle precise parole del Croce, quella « disciplina » suaccennata come legame necessario con la tradizione storica; quella disciplina nella quale consisterà, se ha da esser qualcosa, la tecnica interiore in quanto sinonimo, si è visto, dello stesso lavoro artistico ossia della formazione dell’in­ tuizione-espressione. Questo niente può mostrarcelo meglio della « caratterizzazione della poesia » con cui il « critico » rivive il pro­ cesso poetico stesso in riferimento al « contenuto » della poesia, al « sentimento che la poesia ha espresso », onde il critico coglie il « motivo generatore » della stessa. Niente può mostrarcelo me­ glio, in quanto la disciplina suddetta è ovviamente ancor piu ma­ nifesta nel critico che nel poeta; per cui il rapporto fra essa disci­ plina, come tecnica interiore, e la poesia si svelerà in tutta la sua vis problematica. Dunque, « caratterizzare una poesia — dice il Croce nel libro-testamento intitolato appunto La poesia — importa deter­ minarne [ in una « forinola » ] il contenuto o motivo fondamentale riferendolo a una classe o tipo psicologico ». Ma anche « la classe prossima è pur sempre una classe, ossia un concetto generale, e la poesia è invece non il generale ma l’individuale-universale, il fi­ nito-infinito-, onde la formola, per quanto si accosti evocata poesia, non coincide mai con lei e anzi fra le due rimane sempre una distanza abissale ». Da ciò, « dopo il momentaneo appagamen­ to, lo scontento che si prova dinanzi alle più elaborate formole cri­ tiche »; da ciò « l’impeto a volger ad esse le spalle e ad immer­ gersi da capo nella individua e viva poesia », nella rievocazione intuitiva da cui il critico ha cominciato (e qui il Croce richiama il principio humboldtiano: che « parlare e scrivere su un poeta non è altro che un andar vagando intorno all’ineffabile »). « Senonché 16

— continua il Croce—'■ -il critico che conosce il suo mestiere [...] avverte anche lui che la forinola non coincide con la poesia e che non si può in termini generali ’’effari” quel che si è già espresso da sé in termini intuitivi, e che, "affabile” per sé, diventa, nel nuovo rapporto, "ineffabile” »! E tuttavia bisogna riconoscere che « in quel prodotto ultimo, in quella formola, si racchiude tutto il lungo processo che si è percorso nell’apprendimento della poesia, dalla preparazione filologica alla rievocazione intuitiva, e da que­ sta al giudizio che l’ha qualificata »; e che « perciò, sebbene essa [formola] non sia quel vivente processo, è il mezzo piu efficace per agevolarne la ripetizione senza ripetere le fatiche già fatte »; onde il critico, che « si è sottomesso a speciale disciplina », allor­ ché « comunica la caratterizzazione eh’è nella formola da lui fog­ giata » semplicemente « toglie dall’inerzia » i lettori: e insomma anche la tecnica interiore ch’è la disciplina che si riscontra nella critica non è che mera praticità, come già la tecnica esteriore o materiale della poesia. E constatiamo ancora — e in un caso ben grave — la inefficienza — e insussistenza — della tanto procla­ mata circolarità spirituale. In altri termini (secondo VAesthetica in nuce), per il critico o lettore in genere « non c’è altro partito che svolgere, in modo conseguente, la storia individualizzante e trattare le opere d’arte non in relazione alla storia sociale [o « civile »], ma ciascuna come un mondo a sé, in cui confluisce di volta in volta [come? se ogni formola intellettuale o sintesi discriminante è inestetica? ] tutta la storia, trasfigurata e sorpassata, per virtù della fantasia [o «rievocazione intuitiva»], nell’individualità dell’opera poe­ tica ». Da tutto ciò si ricava, a tacer d’altro, che l’asserita « distanza abissale » proclamata fra la formola intellettuale caratterizzante (formola in cui si riassume la disciplina o tecnica interiore del critico o lettore, nonché del poeta stesso) e la evocata poesia o intuizione-espressione lirica, tale distanza, mentre svaluta total­ mente ai fini artistici la stessa tecnica interiore, divenuta metafo­ rica come tecnica (perché quel che è già espresso da sé in termini intuitivi, o ch’è effabile per sé, la poesia, diventerebbe ineffabile nel nuovo rapporto, cioè nel rapporto con la formola o tecnica!), con questa svalutazione frustra completamente innanzi tutto la cro­ ciana « restaurazione e difesa della classicità », ossia del « momento formale e teoretico » contro la Romantik e ogni misticismo; misco­ noscendo infatti tale svalutazione proprio la goethiana e antischil17

leriana istanza di quella « delimitazione precisa » dell’oggetto este­ tico 1 che, se non fa tutt’uno con un momento formale che sia sinonimo di formola o formalità intellettuale concreta, discorsiva, e sinonimo infine di tecnica e tecnicità, non si sa quale senso possa avere (e in effetti non ha e non può avere che questo netto senso antiromantico, di cui fa fede tutto il Briefwechsel Goethe-Schiller, che contiene la suddetta istanza letterale). E il Croce, sempre in contraddizione con le sue più ambiziose intenzioni di superatore della Romantik e pur sempre coerente e ligio al suo costituzionale romanticismo, il Croce crede di poter accettare e utilizzare, nella difesa della « classicità », lo schilleriano e anticlassico carattere « indeterminante » — come dire mistico — dell’arte! (Vedi in proposito Aesthetica in nuce.) Estetica, dunque, la crociana, di schietto tipo romantico e misticizzante e però nemica della tecnica-, perché nemica — come ogni mistica — dell’intelletto ossia del discorso quale carattere razionale intrinseco e positivo anche dell’arte. Estetica che teoriz­ za appunto l’arte come un’« intuizione cosmica » ch’è sinonimo di una « pura » intuizione « metastorica » o soprastorica, col conse­ guente « consumarsi » o cancellarsi della storicità — della tecnica e del discorso — nell’arte, cioè nella cosmicità-eZeraztó dell’intui­ zione artistica. Affermazione (dogmatica) dell’uno puro (di neo­ platonica memoria) sotto la specie di un puro « universale fanta­ stico », di cui l’organo per impossessarsene sarebbe una pura « ir­ riflessa » intuizione che rinnoverebbe — come raptus estetico — •l’impresa mitica dell’estasi religiosa neoplatonica: la congiunzione con l’universale o uno puro, con l’assoluto. Ma se l’estasi è « cosa dei sensi», ci avverte già sant’Agostino nel De gen. ad Utt., IX, 47, contro i neoplatonici-(1)/ essa appartiene al « contingente » e non ci permette di attingere niente di « eterno ». Estetica ch’è, in effetti, teorizzazione e documento di un gusto povero, di un mezzo-gusto: come mostra (per sorvolare sulla riduzione crociana della Divina commedia a un mosaico di punti lirici e cosi via) quel saggio sul Leopardi dove il Croce, in base al preconcetto della mera praticità o extrartisticità della for­ mola intellettuale caratterizzante la poesia, si limita a richiami immediati, estrinseci, di « momenti poetici », soltanto indicando (e vorremmo dire: ammiccando) il verso « Quando beltà splendea... » con la mera frase « parole definitive », o i versi « Viene 1 Vedi nel saggio seguente il testo goethiano del Briefwechsel Goethe-Schiller.

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il vento recando » e « Dolce e chiara è la notte » ancora con la frase « versi perfetti » e così via; rinunciando, cioè, coerente­ mente, a tutto quanto non sia un mero invito a « immergersi » o « abbandonarsi » attimo lirico-cosmico ossia lirico-eterno o so­ prastorico e, in quanto tale, ineffabile, eh’è la « rievocazione intui­ tiva » (l’impressionismo crociano in flagrante!)1. O rinunciando, insomma, il Croce a tutto quanto non sia, in estetica, un atteggia­ mento astrattamente spirituale, misticizzante, e però astrattamente sensuale. Col risultato, dunque, di una estrema povertà proprio del gusto-, col risultato di una sensibilità ch’è impoverita in quanto 1 Proprio ciò da cui il Croce tenta ancora di difendersi in un messaggio al XV congresso internazionale del Pen dub a Venezia (17 sett. 1949): mes­ saggio in cui ci propone come « primo tema » il seguente: « Che cosa dev’es­ sere la critica perché non degeneri né nell'impressionismo né nel dottrinari­ smo e sia giudizio che, come ogni serio giudizio, disposa l’elemento sensibile con quello intellettivo, distinti tra loro e che possono anche per incidente at­ teggiarsi tra loro nemici, ma senza il cui simultaneo concorso il giudizio non nasce come in natura non si nasce da un unico sesso » (Gazzettino di Ve­ nezia, 13 settembre 1949; il corsivo, al solito, è nostro). Ma si è visto ora l’impressionismo crociano nei suoi presupposti sistematici metafisici: si è vista perciò l'extrartisticità essenziale della « formola » ossia del « giudizio » del cri­ tico: e dunque tutto il solito caratteristico dire e disdire crociano, tutto il suo stile ambiguo di eclettico, che qui, nel messaggio, riappare in quello « sposarsi » di elementi non solo « distinti » ma pur « nemici », anche se solo « per inci­ dente » etcetera, tutto questo non può nascondere il fatto: che l'impressionismo crociano, come ogni impressionismo, finisce nell’alternativa: o poesia o critica. Bella prospettiva per un messaggio sulla critica artistica e i suoi compiti. (*) Vedi sul congresso suddetto: L. Anceschi, Poetica americana, 1953, pp. 159 sgg. E vedi le particolarmente interessanti Proposte per una critica d'arte di Roberto Longhi lette a quel congresso e pubblicate in Paragone (gennaio 1950), su cui torneremo altrove, e di cui intanto riproduciamo i seguenti passi ben significativi: « L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla volta Sistina, è sempre un ca­ polavoro squisitamente ’’relativo”. L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte [...]. È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge soltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra. Qui è il fondo sodo di un nuovo antiromanticismo illuminato, semantico, terebrante, anali­ tico [...] ». Altri spunti notevoli di critica del crocianismo (sotto l’aspetto delle questioni di storiografia letteraria) vedili nel saggio Literary history di Mario Praz (in Comparative literature, primavera 1950, Univ, of Oregon), su cui torneremo pure («How is it possible to lay aside comparisons as irrelevant [...]? But how can this isolated judgment by itself deserve the name of history? » etc.) E vedi nell’op. cit. di Anceschi la parte sostanziale del testo della relazione di Giacomo Debenedetti al detto congresso (necessità odierna di una vera « scienza estetica », collegata alla necessità che «l’ordine rivelato dalle scienze divenga l’orizzonte della vita quotidiana » etc.). E ivi la netta posizione assunta da Francesco Flora («non si può parlar di poesia in termini di poesia, ma solo di critica»). Per le profonde ragioni tecniche (semantiche) di una critica letteraria non-impressionistica vedi poi A. Pagliaro, Critica semantica, Napoli, 1953, e II segno vivente, Napoli, 1953. E vedi la nostra Poetica del cinquecento, Bari, Laterza, 1954 (2).

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ammutolita (che ne sarebbe della piena lirica, sentimentale, di un Leopardi, senza le parole-concetti di «dolce», di «chiara», di «notte » etcetera?); e ch’è ammutolita in quanto «ineffabile» di tipo mistico', in quanto immediata, astratta, spiritualità come estasi metafisica o di tipo religioso. In quanto, insomma, si trat­ terebbe di una sensualità non mediata con la spiritualità in un pro­ cesso raAonAe-intellettuale , la cui precisione discorsiva, invece, si presenta (a ben considerare) come la sola reale, non dogmatica, effabilità o obiettivazione — in quanto razionalità puntuale — della discretezza o puntualità, o ineffabilità se si vuole, ch’è sino­ nimo della estaticità effettiva del senso o sentimento (nella sua autonomia e positività). Estetica, infine, che riassume, con la sua stessa apparenza sistematica, meglio di altre contemporanee, tutta la mentalità este­ tica tradizionale, eh e. romantica, idealistica, spiritualistica, e in­ somma teologizzante (in senso lato): la « tentazione » che « op­ prime » i « moderni » poeti e esteti è la tentazione di « una espe­ rienza che si potrebbe quasi confondere con quella dei mistici », come è ben detto nella conclusione di quel fondamentale rapporto sul gusto cosiddetto moderno ch’è il noto libro di Marcel Ray­ mond (De Baudelaire au surrédlisme, 1933). E non può ingan­ narci minimamente che questa estetica, che è una specie di stimmi del gusto tradizionale, romantico-decadente e dimidiato (nel senso suesposto), si presenti nondimeno (e vedi ora anche l’articolo: Arte moderna} come avversaria della teoria dell’« arte pura » e sostenga che « l’arte suppone l’uomo intero »; giacché questa sua opinione di se stessa equivale quella precedente, illusoria, di es­ sere una difesa della classicità. Sta di fatto che, non essendo la crociana circolarità spirituale che puramente eclettica (come tenta­ tivo di conciliare la « dialettica » platonizzante di Hegel con l’« analitica » empiristico-critica del « gusto » di Kant), si resta (cfr. sopra) a quell’astrazione romantica ch’è l’arte come « pura intuizione » o « intuizione irriflessa dell’essere » : si resta alla « non impura poesia pura », allerte pura insomma: e occorre forse richiamare ora quel tipico risultato « storiografico » ch’è la riduzione della « struttura » della Commedia, e cioè dell’uomo Dante, nell’« allotrio »? Concludendo, il problèma filosofico e metodologico attuale della critica artistica si presenta, anzitutto, negativamente, come il problema di liberarci da ogni concetto misticizzante del gusto e della critica, e poi, positivamente, come il problema dell’elabora20

ziotie di un concetto non dogmatico o aprioristico del gusto, che indichi la irremissibile umanità o pienezza umana del gusto come tale e però la possibilità di una critica artistica integrale, che sia critica estetica proprio in quanto è al contempo critica storica o sociale e civile: donde il passaggio obbligato a una considerazione logico-gnoseologica positiva del concetto empirico, e del relativo discorso intellettuale o dialettismo concreto, che sostituisca le tra­ dizionali astrazioni gnoseologiche antitetiche e equivalenti, di una intuizione pura e di un concetto puro (dialettico o non). Il che equivale al compito di una fondazione veramente scientifica, non metafisica, dell’estetica: e precisamente di quelYestetica materiale o materialistica che, al di là sia dell’unilaterale istanza classicistico-razionalistica del « bello come verità o ogget­ tività » sia della parimente unilaterale istanza romantica del « bello come liricità o soggettività », sappia tener conto fino in fondo, — avendola purificata di ogni superfetazione teologica ossia mistico­ romantica, — della fondamentalissima istanza moderna, kantiana, antirazionalistica, autonomia o positività dell’ertejffco (cioè del sensibile o materiale secondo la fenomenologia e la problema­ tica dell’arte): e sappia insomma pervenire a quella sintesi origi­ nale di quanto resta di istruttivo nelle due costituzionali istanze moderne del classicismo-razionalismo e del romanticismo, che si annunzia già nella tendenza alla formazione di un tipo di gusto fatto di sentimento e di chiarezza (virtù razionale) a un tempo, verso cui, spinta dalle cose, si orienta, nella sua crisi anche este­ tica, nel suo bisogno di oggettività anche nell’arte, la coscienza odierna. Quella sintesi presentita dal Marx che, postosi sul ter­ reno del materialismo storico, avvertiva dov’era la reale difficoltà del materialista di fronte alla generale questione dell’arte e affer­ rava però i due capi della complessa questione, non perdendo di vista l’istanza della « forma » per guardare a quella del « conte­ nuto » (come poi è successo a pressoché tutti i filosofi marxisti dell’arte): il Marx che scriveva che « la difficoltà [per noi mate­ rialisti] non è nell’intendere come l’arte [figurativa] e l’epos dei greci siano legati a certe forme di sviluppo sociale: [ma che] la difficoltà è. nell’intendere come quell’arte e quell’epos ci procurino ancora un piacere artistico e sotto un certo rispetto valgano come norma e modello inarrivabili » (Einleitung zu einer Kritik der politischen Oekonomie, 1857). Fondazione, insomma, di un’estetica il cui criterio basilare può fissarsi nei termini seguenti: che, se sta fermo il principio, 21

non negato neanche dal misticizzante Croce, che «oxìimmagine non espressa, che non sia parola [...], perlomeno mormorata fra sé e sé [...], è cosa inesistente », se sta questo incontrovertibile prin­ cipio, esso ha un senso solo se il termine « parola » non è puramen­ te metaforico come necessariamente è nel Croce mistico senza accor­ gersene (quanta superiore coerenza nell’aspirazione mallarméana alla « pagina bianca », in cui rivive appunto, sotto specie estetica, il « silenzio» della mistica, il suo assoluto). Per cui non si può non concludere che solo nella coscienza in quanto parola reale (tacita o no), ossia parola intellettuale, è possibile l’effettiva, ori­ nale, estaticità dell’estetico o sensibile, che si traduce, infatti, in concetti (al plurale o empirici), non già disperdendovi se stessa (come equivocando crede l’esteta mistico, che in effetti intende un’estasi metafisica, rarefatta, per cosi dire), ma proprio espri­ mendovi se stessa in quanto positiva discretezza o singolarità o soggettività (autonomia dell’estetico!). Come mostra, negativamente, quella caratteristica tensione del discorso dialettico con­ creto in genere nel tentativo di superarsi in una unità o universa­ lità perfetta senza mai riuscirvi e pur attingendo esso, ciò mal­ grado, la sua perfezione di razionalità concreta perché puntuale o discreta (della discretezza ch’è la positività o autonomia del sen­ timento o estetico o materia rispetto alla ragione o forma); at­ tingendo insomma la sua perfezione di razionalità non mitica, ma reale, umana. Perfezione che — criticamente — si riscontra nel­ l’opera d’arte a pari titolo — pur nella sua peculiare problematica tecnica — che in ogni altro risultato dell’experiri ch’è la nostra vita umana. (1949) (')

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Problemi di un’estetica scientifica « La difficoltà [per il materialista] non è nell’intendere come l’arte [figurativa] e l’epos dei greci siano legati a certe forme di sviluppo sociale: la difficoltà è nell’intendere come quell’arte e quel­ l’epos ci procurino ancora un piacete artistico e sotto un certo rispetto valgano come norma e mo­ dello inarrivabili » Marx.

1. Un’osservazione critica di T. S, Eliot ci richiama almeno in­ direttamente all’istanza classicistica e razionalistica come istanza ancor suggestiva e ricca di vis problematica. « È la parola — egli dice nel saggio su Swinburne poeta — che fa trasalire Swinburne, non l'oggetto. Quando scomponete un verso suo, voi trovate spesso che Voggetto non c’è-, c’è solo la parola » con le « vaghe » asso­ ciazioni di « suoni » e di « idee generali » eh’essa suggerisce. « Pa­ ragonate i ’’bucaneve che implorano perdono — e si struggono di paura” con ”i narcisi che vengono prima che la rondine si ar­ rischi”. (*) I bucaneve di Swinburne scompaiono, i narcisi di Sha­ kespeare restano » (vedi The sacred wood, trad. Anceschi, cor­ retta, e corsivo nostro). E dopo altri esempi del genere conclude che « il linguaggio [poetico] in buono stato di salute presenta l’oggetto, è così vicino all’oggetto che le due cose si identificano » e che insomma « la lingua che più importa per noi è quella che si sforza di assimilare e esprimere nuovi oggetti, nuovi gruppi di oggetti, nuovi sentimenti ». Apriamo ora l’Art poétique di Boi­ leau del moderno codificatore dell’estetica classicistico-razionalistica: vi leggiamo che « une merveille absurde [i « bucaneve »] est pour moi sans appas » e che « l’esprit n’est point ému de ce qu’il ne croit pas »: ossia che una meraviglia assurda è senza bel­ lezza e che lo spirito non è punto commosso da ciò che non crede. Il che sottintende le ben note massime fondamentali del realismo classico, formulate da B. nell’Épitre à Seignelay come segue: « Rien 1 L’abbiamo riprodotta integralmente, assieme alla Epistola a Seignelay e alla Riflessione decima su Longino, nelle nostre dispense universitarie intitolate: Boileau e la sua ars poetica, Messina, Edizioni Ferrara, 1953. Su cui vedi P. P. Trompeo, nel Mondo, 9 febbraio 1954, e H. Martineau nel Divan, luglio-settem­ bre 1954.

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n’est beau que le vrai. La nature est vraie et d’abord on Ie sent. Le faux est toujours fade »: soltanto il vero è bello; la natura è vera, e prima di tutto lo si sente; il falso è sempre insipido. E ripensiamo ai « bucaneve » impoetici (perché falsi, assurdi) di Swinburne e ai « narcisi » veri e quindi poetici di Shakespeare. E gli esempi potrebbero variare all’infinito. Dunque, la parola poetica è anch’essa parola-oggetto e quindi parola-concetto nel senso che si tratta di un concetto specifico in quanto empirico: e insomma l’intelletto, con le sue distinzioni, è a casa sua nel mondo poetico come nel mondo prosaico di tutti i giorni: come altrimenti ci commoverebbero poeticamente i narcisi shakespeariani a prefe­ renza dei bucaneve swinburniani '? Ammissioni, certo, da far rab­ brividire i sostenitori dell’estetica « moderna » cioè romantica de­ cadente (con la sua teoria del raptus estetico etc. ch’esamineremo piu avanti). Ancora: con l’istanza della « verità » o della « vero­ simiglianza » (o aristotelica « possibilità »), e con quella conse­ guente dell’« imitazione della natura » e quindi della « chiarez­ za » e « precisione» (o «buonsenso » oraziano), è l’istanza della « tecnica » filologica come elemento intrinseco e permanente del­ l’opera d’arte o opera bella, è questa un’altra istanza suggestiva e particolarmente irrefutabile dell’estetica razionalistica, come mo­ strano le pur elementari considerazioni di. Boileau sulla portata artistica del vocabolario storico omerico o pindarico; secondo le quali considerazioni (che Sainte-Beuve sottovalutava a torto) è ben chiaro che, non designando la parola « asino », ad esempio, niente di ignobile in una società primitiva come quella da cui nacque l’Iliade, ne deriva che il greco che paragonava Aiace a un asino non ne era affètto nella stessa maniera di un cortigiano francese del tempo di Luigi XIV e così via, come ricorda il Lanson; e lo stesso vale, si sa, per il « porcaro Eumeo » etc. Si confronti ora questa istanza di Boileau con l’istanza romantica e idealistica cro­ ciana del carattere meramente pratico e extrartistico (« allotrio ») e della funzione puramente preparatoria e provvisoria di ogni filo­ logia e tecnica nell’apprezzamento di gusto: e si vedrà già presso chi si trovi maggior rispetto delle condizioni dell’opera d’arte. Ma, d’altra parte, l’istanza estetica .razionalistica cessa a un certo punto di essere suggestiva e feconda: e precisamente non (come si cre­ de) nei suoi corollari piu ovvi, e oso dire più meritori, circa il ca­ rattere istruttivo, morale e educativo, dell’opera d’arte e quindi 1 Vedi la teoria della metafora nella dt. Poetica del cinquecento, Introduzione.

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circa l’utilità sociale di questa etc.; ma bensì iti quanto essa tocca presto il suo limite naturale, che consiste nell’esser interessata veramente solo all’aspetto razionale dell’opera d’arte e nel dare il resto di questa per spiegato o come pacifico, in conseguenza (nel che accade naturalmente che anche lo stesso aspetto problema­ tizzato resta a mezz’aria e seminsoluto). Questa dimidiata pro­ blematicità è il difetto reale dell’istanza razionalistica (così come, in senso inverso, una dimidiata problematicità è il difetto reale della istanza kantiana avversaria); onde, nella fattispecie, quel­ la ému », quel « commosso », o insomma la commozione, il sen­ timento, resta troppo pacificamente connesso col « croit », con la credenza o convinzione razionale, cosi diversa, in quanto sinonimo di obiettività, dal sentimento o soggettività o immediatezza (si abbia presente il piacere visivo dei « narcisi » di cui sopra); con il risultato finale di una scarsa comprensione dell’opera artistica che è soltanto constatata come un assieme di ragione e di senti­ mento (e in questa constatazione c’è anche il relativo merito, non soltanto storico, di tale istanza). Il difetto di cui sopra non è meno visibile naturalmente nei ripetitori odierni di Boileau: in Alain, ad esempio, che, mettendosi dal punto di vista di Michelangelo, cioè dell’artista, afferma quanto segue: « Michelangelo era cre­ dente, aveva-paura dell’inferno [...]. Ma non sono affatto questi sentimenti che l’hanno elevato alla bellezza: egli lo disegnava questo inferno, forte, vivente e vero, per dir tutto in una parola. Era la follia [cioè la superstizione] che pagava, ma era la saggezza che scolpiva ». Dove ci -si dice, dunque, che i sentimenti dell’ar­ tista sarebbero soltanto la occasionale « follia », l’accidentale te­ nebra, che la chiarezza della ragione o sagesse vince e dissipa — nell’opera «estetica»! Lo stesso Alain trova che un «cavallo alato », non essendo « possibile », e però non essendo « vero », non può esser « veramente hello »: e così dicendo non si accorge che un cavallo alato non è certo meno bello e quindi meno possi­ bile dell’inferno michelangiolesco, se è un ippogrifo ariostesco e così via. Donde si comincia a vedere che il problema del carat­ tere razionale della òpera d’arte, come di quello estetico o fanta­ stico, non si può porre in astratto e in generale e ricorrendo dopo la formulazione dei « princìpi » agli oggetti o fenomeni artistici come « esemplificazioni » di quelli: ma che questo problema, co­ me ogni altro del genere (e di ogni genere), non si può porre in modo corretto che in rapporto e in funzione di un oggetto parti­ colare problematico, appunto, o da spiegare come artistico (nella 25

fattispecie): e che insomma senza là contemporanea presenza dell’oggerrp problematizzato non c’è.problema, ma pseudo-problema, e quindi non c’è soluzione ossia unificazione del maggior numero possibile di casi particolari (si è visto come resti fuori dalla astratta « spiegazione » estetica razionalistica di Alain l’ippogrifo ariostesco ad esempio: e Alain stesso svaluta la « Vittoria alata » etc.). Tuttavia, prima di lasciarci Alain alle spalle insieme a Boileau, è doveroso ricordare la seguente'illuminante messa-a-punto raziona­ listica, ripetuta da Alain, della parola-oggetto (nel senso di cui sopra) a proposito della funzione dominante della parola nel teatro in confronto con l’« arte muta » del film. « Le parole sono ivi delle cause — dice Alain — e senza rimedio. Niente può fare che ciò ch’è. stato detto non sia stato detto: ”tu sarai re”. La talpa cammina, come dice Amleto: prodigiosa immagine. E Otello è sca­ vato da talpe, che sono parole » (Préliminaires à l’esthétique, 1939, pp. 17, 21, 61 etc.).

2. La controistanza kantiana, cioè la critica kantiana della istanza estètica razionalistica (di un Leibniz), in quanto si duplica nella istanza di una « bellezza libera » da ogni concetto o fine e nell’istanza di una « bellezza aderente » a concetti o fini, ha il grande merito dì tentare, a costo di un grave dualismo interno, di tener ferma l’autonomia dell’aspetto specificamente estetico (in senso etimologico) dell’opera d’arte senza negare del tutto carat­ tere artistico all’opera in cui vada unito il razionale all’estetico. Certo, è la prima istanza che ha contato storicamente e teoricamen­ te. Certo, la « bellezza libera » è da Kant designata come la bel­ lezza « per sé stante » o bellezza vera e propria di questa o di quella cosa naturale o artificiale. È ad esempio la « bellezza pura » di un fiore: con questa avvertenza, che, se, all’infuori del botanico, nessuno sa in genere ciò che un fiore « debba essere », tuttavia il botanico stesso, che conosce l’organo riproduttore etc. della pianta, « quando esprime in rapporto al fiore un giudizio di gusto, non ha alcun riguardo a questo suo fine naturale » né agli altri suoi fini e significati. Così, egli dice, «molti uccelli [...] e una quantità di conchiglie marine hanno una bellezza pura, che non si riferisce ad alcuna determinazione concettuale dell’oggetto, per rispetto al suo fine, ma piace liberamente e per sé ». Così i disegni à la grecque, gli arabeschi delle tappezzerie « non significano nulla per sé, non rappresentano nulla, nessun oggetto secondo un con­ 26

cetto determinato e sono bellezze libere »: come «si può anche ricondurre al medesimo genere di bellezza le fantasie musicali (senza tema), anzi tutta la musica senza testo ». Dunque, poiché il « bello » vero e proprio, ch’è la « bellezza libera », consiste nel sentimento di un « piacere immediato dell’oggetto », in quanto è un piacere che « non si riferisce », si è visto, ad alcuna determina­ zione concettuale dell’oggetto, ossia che « non dipende », come Kant dice anche, dalla « rappresentazione o concetto » della « uti­ lità » e « perfezione » dell’oggetto, ed è insomma il piacere « di­ sinteressato » che ci dà una conchiglia o un arabesco, esso « bello » si risolverà, alla fine, in una « finalità soggettiva formale » o « fi­ nalità senza fine »; e cioè in un atto di apprezzamento o giudizio di gusto che è « puramente contemplativo », come quel giudizio che, « indifferente sdi' esistenza di un oggetto, concerne solo il suo rapporto con il sentimento del piacere o dispiacere»; giudizio detto appunto estetico, perché il suo principio determinante non è un concetto, ma è « il sentimento (del senso interno) dell’armo­ nia, del giuoco, delle facoltà dell’animo [immaginazione e intel­ letto], in quanto tale armonia può essere solamente sentita ». Ed è giudizio « apriori » perché universale e necessario (la sua uni­ versalità « soggettiva » essendo fondata sulla presenza, identica in tutti i soggetti, delle condizioni soggettive delle facoltà dell’im­ maginazione e dell’intelletto) ; ma è anche solo giudizio « riflet­ tente », in quanto la finalità soggettiva, estetica, esprimentesi nel sentimento del bello, è una regola non già della natura, ossia delle cose, ma della nostra semplice facoltà del giudizio. È innegabile che l’istanza kantiana di un sentimento disinteressato, ossia libero da concetto, e pur capace di formalità o universalità o comunica­ bilità (sia pure sui generis), è una forte istanza a favore della autonomia e positività dell’arte o meglio (piu correttamente) delV elemento estetico nell’opera artistica e può soccorrerci, con la sua ricca problematica, là dove ci vengono meno i razionalisti Boi­ leau (cartesiano) e Leibniz. E cioè è una controistanza seria sia alla troppo pacifica unilaterale spiegazione del sentimento poetico con la verosimiglianza e razionalità del fantasma artistico, che ci dà il primo; sia alla dogmatica deduzione del senso e sentimento — e quindi del bello — come « idea confusa » dalla ragione o «idea distinta », che ci dà il secondo con la sua distinzione mera­ mente « di grado » o « quantitativa » di senso e ragione, rimpro­ veratagli da Kant che gliene contrappone una « qualitativa », gno­ 27

seologica e non meramente logica \ È innegabile, insomma., che nella nostra esperienza dell’oggetto « artistico » c’è un aspetto o momento — quello della icasticità ossia del piacere contemplati­ vo, wotcy/mZo, dei « narcisi » shakespeariani — che riceve, appun­ to, dall’istanza kantiana una luce che gli è negata dall’istanza di Boileau, secondo cui basta semplicemente la convinzione oggetti­ va, razionale, o concetto di una cosa, per commuoverci e darci piacere poetico. Ma, d’altra parte, non si può neanche negare che la verosimiglianza è oggettività (cioè la rion-indiffetenza alla « esi­ stenza » etc. dell’oggetto) e razionalità insomma di quei poetici narcisi — l’altro aspetto del fenomeno problematizzato — riceve luce a sua volta dalla istanza di Boileau, non da quella kantiana. E non solo (e già basterebbe) perché il puro giudizio dà gusto kantiano « non è mai conoscenza » ossia non è un giudizio nor­ male, oggettivo, conoscitivo, e neanche pratico, ed è, invece solo, sappiamo, una regola della nostra semplice soggettiva facoltà di giudizio (giudizio « riflettente »); ma anche perché la stessa du­ plicità suaccennata dell’istanza kantiana non ci soccorre in propo­ sito, in quanto l’altro criterio kantiano, il criterio di una bellezza « aderente » a concetti o fini (ad esempio la bellezza di una « fi­ gura umana » o di un « edificio », che « presuppone il concetto di un fine che determini ciò che la cosa deve essere » etc.), con­ cernendo la « unione del piacere estetico con quello intellettuale », si riferisce a regole che « non sono allora regole del gusto, ma re­ gole dell’unione del gusto con la ragione, cioè del bello con il buono » etc.: e insomma non è. criterio rigoroso del bello (ch’è tale solo se è bellezza « pura », essendo cioè bellezza « libera » da ogni concetto o fine). La controìstanza kantiana (la « bellezza libera ») è valida, dunque, solo parzialmente: ma ciò in cui è va­ lida significa veramente una prima scoperta della specificità e po­ sitività dell’estetico (in senso lato): cioè della irremissibile imrne1 Riportiamo per intero il passo classico del § 15 della Analitica della Critica del giudizio-. « è un errore pensare — dice Kant — che la differenza tra il bello e il buono consista solo nella loro forma logica, in quanto il primo sia un concetto più confuso e il secondo un concetto più chiaro della perfezione, pur essendo l’uno e l’altro identici per contenuto ed origine. Se ciò fosse, infatti, non vi sarebbe tra { due concetti alcuna differenza specifica, ma un giudizio di gusto sarebbe anche un giudizio conoscitivo come quello con cui una cosa è dimostrata buona. Si tratterebbe, insomma, di un caso simile a quello che ha luogo quando, nell’affermare che la frode è ingiusti?, l’uomo comune fonda il suo giudizio su di un principio confuso, il filosofo, invece, su un principio perfettamente chiaro, avendo, però, questo in comune: di ricorrere, tanto l’uno che l'altro, a un principio di ragione » (trad. Banfi).

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diatezza o discretezza o molteplicità di cui è sinonimo tipico. E d’altra parte bisogna riconoscere che l’istanza di Boileau, l’istanza della verità e intellettualità dell’opera d’arte, resta pur vaga in ciò per cui è valida; giacché 1 valori gnoseologici a cui si richiama (il concetto, il giudizio etc.) sono soltanto postulati e non dimostrati (il suo merito è tuttavia di postularli in questo rapporto, in rap­ porto alla problematica artistica); onde, infine, la parola poetica come parola-oggetto, ossia concetto determinato, cui essa si appella, è un valore precostituitp e dogmaticamente accettato, senza analisi della sua struttura etc. (e si intende che giucca in tutto questo la trascuranza razionalistica del problema dello immediato o senso o sentimento o estetico lato sensu che si dica). Ma.passiamo da Kant alla Romantik.

3. Che cosa resta, nei grandi romantici tedeschi, della com­ plessa duplice istanza estetica kantiana? Anzitutto, essi non si in­ teressano che della « bellezza libera » e propriamente del modo (metafisico) con cui essa è presentata da Kant nella « Dialettica del giudizio di gusto » : e cioè come quella aesthetische. Idee che c..« una rappresentazione inesponibile [in concetti intellettuali] della immaginazione ». In Schiller ritroviamo il kantiano « sentimento dell’armonia e giuoco delle facoltà » etc.: ma in che modo? Sviluppato in una « pura [cioè: indiscriminata] unità estetica » nella quale « spari­ scono interamente » la « libertà » e la « necessità », ossia la ra­ gione e la sensibilità o natura: nell’attività artistica, infatti, pensa Schiller, l’uomo giucca con le opposte forze attive o razionali e passive o sensuali e cioè, si sente egualmente loro padrone e libero e « disinteressato »(« nel momento del godimento della bellezza — egli dice — con eguale facilità ci volgiamo al pensiero e all’in­ tuizione », che « con la bellezza entriamo nel mondo delle idee, senza abbandonare perciò il mondo sensibile »). Donde la « cal­ ma », la catarsi, artistica (prodotta ad esempio dalla Venere Ludovisi): la calma assoluta, si badi, cioè la calma inerente a quella pura « conciliazione degli opposti », a quella « vera unità » meta­ fisica (nella poesia c’è « Vassoluto dissimulato » cioè indiscrimi­ nato o in potenza, scrive Schiller a Goethe il 3 aprile 1801) che manca, secondo il rimprovero di Hegel, esaltatore di Schiller, alla « bellezza soggettiva kantiana ». Riprova dell’arte secondo Schil­ ler: « se dopo un godimento estetico — egli dice — ci sentiamo 29

preferibilmente disposti a un particolare [o determinato] modo di sentire e operare [...], questo può servire di prova infallibile che non abbiamo sperimentato un’azione puramente estetica » ossia artistica (ventiduesima delle Lettere sulla educazione estetica del­ l’uomo). Riprova, questa, dunque, di quel carattere indetermi­ nante, e come dire mistico, dell’arte, ossia di quella « semplice indeterminazione » (blosse Bestimmungslosigkeit) coincidente con la « infinita determinabilità » (unbegrenzte Bestimmbarkeit) pro­ pria dello « stato estetico », che, se ha interessato et pour cause il Croce, non interessò e non piacque affatto al Goethe intendi­ tore vero del classico, che in una lettera del 19 ottobre 1794 ri­ spondeva a Schiller: « quando voi affermate che c’è incompati­ bilità fra delimitazione precisa e bellezza etc. [...], questi sono per me enigmi! ». Ora, se continuiamo a tener presenti i «nar­ cisi » di cui sopra (e la compresenza effettiva del problematizzato al problema è condizione metodica ineliminabile, come si è detto), non sarà troppo difficile vedere che la loro poeticità, poiché di­ pende, si è visto, dalla loro verosimiglianza e oggettività, dipenderà altresì dalla loro determinatezza concettuale o delimitazione pre­ cisa o esclusività logica (cioè che i « narcisi » non sono cavoli e neanche rose etc. etc.); e che Goethe ha ragione contro Schiller — e contro Croce. Il carattere indetermànante dell’arte (« l’arte non ha mai nulla di esclusivo », ignora cioè il principio di contraddizione, ci ripete Humboldt e si veda Novalis *), questo fondamentale carat­ tere romantico dell’arte, è dunque connesso alla concezione della « bellezza » come « pura », ovvero indiscriminata, « unità degli opposti » e quindi mistica verità (« verità in potenza »). Comincia cosi, sul terreno dell’estetica, la moderna guerra all’intelletto e alla sua razionale determinatezza e discorsività, e al connesso « pra­ tico » e « quotidiano », in nome della pura unità («estetica»!) degli opposti ossia di un puro universale (« estetico »!) o estetica ipostasi-, cosi come l’antica, promossa da Plotino e da Proclo, e proseguita nei secoli fino al Cusano e oltre, fu combattuta (ma con ben altra coerenza) nel nome della natura divina, dell’uno « superessenziale » etcetera. Assistiamo perciò a un processo di teologizzazione dell’estetico (in senso lato); processo di snatura1 Novalis: « Distruggere il principio di contraddizione è forse il piu alto compito della più alta logica »: vedi J. Wahl, Novalis et le principe de con­ tradiction, in Le romantisme allemand, textes et études publiés sous la direction de Albert Béguin, Paris, 1949, pp. 161 sgg.

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mento (in ipostasi estetiche) del senso o sentimento, cioè, del sinò­ nimo tipico dell’immediato o discreto o molteplice; processo deri­ vante ') di formulare perciò — sulla base di essa media— una ipotesi di soluzione dell’oggetto attualmente problematizzato, avendo sgombrato le pregiudiziali istanze (aprioristiche) comuni alle teo­ rie dominanti in questo campo della ricerca: pregiudiziali istanze alla cui inefficienza per esaurimento storico si debbono appunto l’oscurità e problematicità del primo fenomeno, presunto artistico dalla coscienza comune, in cui si capiti, come è quel rigo shake­ speariano, dal quale poi, sappiamo, si deve necessariamente par­ tire, e senza mai distaccarsene, per poter porre fruttuosamente anche il solo principio di una qualsiasi questione di estetica; c) di attendere infine dalla funzionalità completa dell’ipotesi di spiega­ zione dell’oggetto problematizzato — e quindi dalla sua piu larga conferma sperimentale — di poter concludere alla verità (scien­ tifica) dell’ipotesi, ad esempio, testé sottintesa sulla artisticità — come icasticità e intellettualità insieme — di quel rigo shake­ speariano e però di ogni altro rigo o volume o tratto di colore o tema musicale e così via, di cui si faccia esperienza *. Già nel 1857, alla fine della Introduzione alla Critica dell’eco­ nomia politica (1859), Marx avvertiva dove era la reale difficoltà del materialista rispetto all’arte e teneva fermi i due capi della com­ plessa questione, non perdendo di vista l’istanza della forma per guardare a quella del contenuto (come successo poi a quasi tutti i filosofi marxisti dell’arte), allorché dichiarava che « la difficoltà non è nell’intendere come l’arte [figurativa] e l’epos dei greci siano legati a certe forme di sviluppo sociale: [ma che] la diffi­ coltà è nell’intendere come quell’arte e quell’epos ci procurino ancora un piacere artistico e sotto un certo rispetto valgano come norma e modello inarrivabili ». La presente analisi, se ha mostra­ to, infatti, da un lato, quel che resti di valido e cioè funzionale nell’istanza clazslcì^tico-razionalistica e quindi suscettibile di esser rielaborato e trasvalutato in una teoria materialistica del generico212 1 Si avverte che qui l’analisi è ancora incompleta, non considerandosi che le caratteristiche gnoseologiche piu generali dell’opera d’arte (la intellettualità idest universalità e la icasticità idest particolarità), che questa ha, quindi, in comune con ogni altro prodotto della coscienza o ragione: e testando da consi­ derare le sue caratteristiche specifiche, tecnico-semantiche, della varia organicità (e aseità) semantica, verbale (quel rigo shakespeariano), pittorica, musicale, fil­ mica etc.: circa le quali rinviamo alla Introduzione a una poetica aristotelica, in Poetica del cinquecento, Bari, Laterza, 1954, e alla Critica del gusto (1960), capitoli secondo è terzo. Tuttavia (1 ) un senso approssimativo di questa pro­ blematica si può avere qui dal saggio sul Verosimile filmico (che può esser meglio inteso, a sua volta, se si tenga presente questa nota) e anche da un accenno dato più avanti in Ideologia e arte. 2 Vedi la nota precedente.

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elemento razionale ò giudicativo dell’opera d’arte, onde sia possi­ bile giustificare la formalità e comunicatività del fantasma arti­ stico e tutti i connessi valori di contenuto, morali, sociali etc., ha d’altro lato tenuto a indicare quel che resti di parimente valido nell’istanza intuizionistica kantiana di un piacere immediato, fra­ intesa dai romantici; istanza che rielaborata materialisticamente può giustificare quell’altro elemento generico1Jdell’opera d’arte, l’elemento della icasticità-, dal quale assieme di elementi recipro­ camente funzionali si avvìi infine la giustificazione della icasticitàintellettualità dell’oggeZ/o problematizzato e della conseguente esemplarità dell’opera d’arte, cui allude Marx; esemplarità « inar­ rivabile » — « sotto un certo rispetto »: in quanto cioè storica­ mente, temporalmente, durevole ossia rinnovabile e quindi inesau­ ribile. Il metodo di impostazione e risoluzione in genere anche di questo problema del giudizio artistico o estetico è e non può non essere, dunque, che il metodo scientifico-materialistico, non metodo di ipostasi o astrazioni apriori, generiche, viziose e infeconde12, ma metodo di « astrazioni determinate », o storiche, e quindi funzio­ nali e scientificamente rigorose. (1951)

1 Vedi la nota precedente. 2 Vedi la critica materialistica deU’apriori nella nostra Logica come scienza positiva, Messina-Firenze, 1950, spec. pp. 156-91, 269-83 (*).

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Il verosimile filmico

(Note sul rapporto di forma e contenuto nell’immagine filmica)

1. Quando Pudovkin, in Film technique and film acting (trad. Montagu, New York, 1949, p. 95), ci avverte che « il sogget­ tista dà soltanto un’idea al regista, un astratto [detached] conte­ nuto dell’immagine [filmica], ma non la sua concreta forma» (corsivo di P.), egli non formula soltanto un’esatta osservazione tecnica generale, su cui i teorici, da Barbaro a Arnheim, da Groll a Spottiswoode, da Chiarini a Ejzenstejn e a Howard Lawson, sono tutti d’accordo; ma tocca anche, almeno implicitamente, una questione assai piu generale e propriamente di estetica: come si debba intendere il rapporto forma-contenuto nell’immagine filmica e se e come si possa collegare quello specifico significato del detto rapporto con un suo significato in genere nel campo artistico. Il che significa poi che solo dalla soluzione di tale quesito dipende la autenticazione filosofica, ' o fondazione piu generale (gnoseolo­ gica), del film come valore (artistico). 2. Per procedere dal particolare al generale, cominciamo dal­ l’esame del significato speciale, tecnico, dell’osservazione surrife­ rita. È ovvio che con essa Pudovkin intende fare una distinzione: intende discriminare l’immagine visivo-filmica, con la sua peculiare « concretezza » o « plasticità », dall’immagine verbale o letteraria e la sua (1 ) propria, relativa, « astrattezza » o capacità diretta di traslati e simboli e insomma di idee complesse. E intende sottoli­ neare i limiti della collaborazione del letterato, del soggettista, al­ l’opera filmica: « it is not the words he writes — continua il testo —■ that are important, but the externally expressed plastic images that he describes in these words [...]. The scenarist must know how to find and to use plastic (visually expressive) material [...] that plastic content the expression of which is the chief substance 40

of the director’s task» etc. (pp. 27, 95). E la discriminazione dell’immagine filmica è. stata ulteriormente precisata da Ejzenstejn in un confronto di essa con l’immagine pittorica, contribuendo cosi E. a uno sviluppo dell’istanza (di Arnheim) di un « nuovo Laocoonte »: « nella pittura — egli dice — la forma nasce dagli astratti elementi della linea e del colore, laddove nel cinema la ma­ teriale concretezza dell’immagine-fotogramma presenta, come ele­ mento, la più grande difficoltà di elaborazione » formale (.'Film form, trad. Jay Leyda, London, 1949, p. 60, corsivo di E.). D’al­ tra parte, se procediamo nell’analisi tecnica, tenendo presente che il fotogramma, la singola inquadratura, non è che una « cellula o molecola del montaggio » (p. 53), non si può non ammettere, con E., che traslati e simboli e idee filmici sono possibili, si, ma — di regola — nella « sfera della giustapposizione-di-montaggio » : e vedasi in Ejzenstejn, pp. 241 sgg., l’elenco di casi di « lifeless literary symbolism » (p. 58), cioè di falliti tentativi di singole in­ quadrature simboliche: in Griffith (la whitmaniana donna dondo­ lante la culla: la culla « unità di presente e avvenire »!), in Dovzenko (un femminile nudo-fecondità) e in Ejzenstejn stesso (le arpe e balalaiche di Ottobre, che « non erano mostrate » per quel che erano, « arpe e balalaiche », ma come simboli dei « melliflui » discorsi dei menscevichi) etc. Cosi, i primi positivi esempi classici di simbolismo filmico, forniti in pratica dallo stesso Ejzenstejn, e cioè il simbolismo ottenuto in Sciopero (1924) mediante il mon­ taggio della scena dell’uccisione degli operai con la scena dei buoi scannati all’ammazzatoio, e quello ottenuto nella Corazzata Po­ temkin (1925) O mediante le tre fulminee inquadrature di un leo­ ne di pietra contrappuntate (montate) con le bordate della corazzata insorta, hanno suggerito a Pudovkin le seguenti istruttive conclu­ sioni. Rispetto al primo esempio, dopo aver fatto notare che il soggettista, il letterato, « desidera » di « dire » che, « come un macellaio abbatte un bue, cosi freddamente, crudelmente, furono abbattuti gli operai », conclude che « questo metodo [di Ejzen­ stejn] è particolarmente interessante, perché, per mezzo del mon­ taggio, introduce un concetto astratto nella mente dello spettatore, senza ricorrere a una didascalia », a parole, a letteratura (Pudov­ kin, p. 49). Riguardo al secondo esempio, dopo aver trascritto per il lettore quel brano del trattamento che culmina nella descri­ zione verbale del contrappunto delle bordate (e relativi effetti sul­ l’edificio del quartier generale nemico in Odessa) con le tre in41

quadrature del leone di pietra (che dorme, apre gli occhi e rugge), sottolinea che « questa è una costruzione di montaggio solo diffi­ cilmente riproducibile in parole, ma di effetto schiacciante sullo schermo »: e conclude che con questo esempio (del leone-rivolu­ zionario) « il film passa dal naturalismo, che in certo grado gli era proprio, a una capacità di rappresentazione libera, simbolica, indi­ pendente dai requisiti di una elementare probabilità » o verosimi­ glianza che si dica (pp. 88-9). E possiamo concludere intanto: a) che solo l’immagine filmica completa, in quanto immagine-unificata-per-montaggio, è di regola portatrice di traslati, simboli, idee astratte, non meno dell’immagine verbale o letteraria; b) che, tut­ tavia, il « dirla » resta un mero « desiderio » : e cioè la sua effi­ cacia emotivo-artistica è,, piu che difficile, impossibile riprodurla o tradurla con sole parole, ossia con mezzi semantici diversi da quello filmico. Giacché (‘), come mere parole, «leone rivoluzio­ nario » e « anche le pietre si rivoltano e gridano » sono banalità artistiche in confronto della plasticità delle suddette immagini ottico-pregnanti in quanto immagini dinamico-visive montate *. 3. Ma giunti a questo punto dell’analisi tecnica (semantica) c’è (2) da chiedersi, filosoficamente, come si possa continuare a chiamare « immagine », nel senso psicologico-estetico-idealistico, 1 Un eccellente riassunto critico delle teorie del montaggio di Pudovkin e Ejzenàtejn si troverà ora nel recente bel volume del noto critico inglese Karel Reisz: The technique of film editing, compiled by Karel Reisz for the British Film Academy, London and New York, Focal Press, 1953, spec. pp. 15-40. Particolarmente interessante è poi un equilibratissimo giudizio sul film sonoro. Dopo aver osservato che « the hundred per cent talkies — that is to say musicals and stage adaptations which relied solely on the appeal of spoken dialogue and songs, and made the picture into a static, unimportant background for the sounds — proved, after the novelty had worn off, dull and unimaginative », il Reisz conclude tuttavia come segue: « Films like Ford’s The informer, De Sica’s Bicycle thieves or some of Carné’s pre-war films, all display an admirable economy in the use of dialogue which has led to films of great distinction. But this does not in itself justify the conclusion that a sparing use of dialogue is necessarily an essential prerequisite of every good film. Any theory which rules out films like The little foxes, Citizen Kane or the early Marx brothers comedies, must be suspect from the beginning. It is more relevant to stress that although these films use dialogue to a considerable extent, they make their essential impression by the images'. The little foxes and Citizen Kane are among the most visually interesting films to hive come from Hollywood; the visual contribution to his gags of Groucho Marx’ eyebrows is incalculable, and Harpo never says a word. Making a quantitative estimate between the amount of visual and aural appeal can serve no useful purpose. It is not so much the quantitative balance between sound and picture, as the insistence on a primarily visual emphasis which needs to be kept in mind» (pp. 44-5: corsivo nostro). E vedi avanti: L’ultimo Chaplin.

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una immagine portatrice di simboli o idée o forme, non solo, ma di simboli idee forme ben determinati e discorsivi (leone-coraggio-rivoluzionario etc. etc.) e anche tecnicizzati. (*) Il che equi­ vale a ridomandarsi, con più precisione di prima, in che rapporto stia il problema della « immagine » filmica col problema della « forma » e (conseguentemente) del « contenuto ». È già da dubi­ tare, per quel che precede, che la crociana idealistica teoria del­ l’arte come intuizione-espressione cosmica, in quanto sintesi apriori di immagine e sentimento, possa conservare, anche rispetto al problema della immagine filmica, un insegnamento che non sia sostanzialmente negativo (gli errori da evitare). Anche il nostro Chiarini, che (come il primo Barbaro) parte formalmente dalla teoria crociana, non riesce a nascondersi le sue enormi difficoltà, e felicemente contraddice la sua iniziale adesione quando, preso atto della posizione crociana, in cui « per la preoccupazione di compromettere la purezza spirituale del processo creativo si è lo­ calizzato questo nell’immagine interiore [cioè: apriori], facendo della realizzazione dell’opera una mera esecuzione, un fatto pra­ tico », egli osserva che, « risolvendo la creazione artistica in inte­ riore homine, nell’unità di intuizione-espressione, e svalutando la tecnica con l’espellerla dal campo dell’arte [...], non si può non concludere con una sentenza di condanna per il cinema e proprio per la sua complessità tecnica »; e giustamente conclude per suo conto che « la tecnica non costituisce un processo successivo a quello propriamente artistico, che serva a fissare, per così dire, un’immagine bell’e determinata, ma che è essa stessa determinante dell’immagine e fa parte, cioè, del processo creativo » (17 film nei problemi dell’arte, Roma, 1949, pp. 42-6). Sebbene poi questa sua conclusione ritenga, forse, dal cattivo esempio crociano (ad es.: Problemi di estetica, p. 486: « Dinanzi a una qualsiasi sensazione, se non mi abbandono alle attrattive e ripugnanze dell’impulso e del sentimento [...], sono in quella disposizione medesima per la quale godo ciò che si suole chiamare opera d’arte. Vivo la sensazione, ma come puro spirito contemplatore » etc. etc.) un significato più psicologico che gnoseologico, come quando sostiene che « l’arti­ sta realizza nel fantasma l’immagine attraverso la tecnica, che fa parte anch’essa del contenuto e come tale è fonte di ispirazione ». (E in quanto al tentativo gentiliano di rivalutazione della tecnica artistica, che Chiarini probabilmente tiene anche presente, ba­ sterà notare che, se è vero che il Gentile non nega, a parole, la validità conoscitiva della tecnica, dei concetti empirici dei generi 43

letterari etc., che egli difende contro la crociana qualifica di « pseu­ doconcetti » col dichiararli « categorie » nell’« atto » del loro pen­ samento, è anche vero che, di fatto, con la sua teoria del pensiero come atto « puro » o « concetto del concetto » o autocoscienza, ritoglie alla tecnica la concessale positività gnoseologica, in quanto non è dato di vedere come si possa asserire, da parte del G., la validità categoriale di una qualsiasi nozione e norma tecnica, di un qualsiasi concetto empirico, senza dissolvere eo ipso tali nozioni e norme e concetti nella unità apriori degli opposti ch’è appunto l’atto puro, il concetto del concetto, il Concetto con la maiuscola, asso-piglia-tutto; senza insomma annullare la validità dei concetti empirici, o del concetto con la minuscola, e riammettere tacita­ mente l’idealistico-coerente « pseudoconcetto » crociano e già he­ geliano.) Ma, fermandoci alla conclusione di Chiarini, si può ac­ cettare che la tecnica nell’immagine artistica (filmica) faccia parte specificamente e soltanto del « contenuto »? Se no, che cosa nel­ l’immagine è forma (*) e che cosa contenuto? e che cosa è il rap­ porto di questi termini? Che cosa, insomma, si deve intendere, dal punto di vista filosofico, cioè gnoseologico, per « immagine » filmica? Intanto, ci sembra non discutibile che si debba abbando­ nare la estetistica o estetizzante teoria crociana e tradizionale della immagine o intuizione come per se stessa forma e quindi « indiscriminata » o « pura » immagine o intuizione « cosmica » : ossia immagine o intuizione universale-metastorica o universale in senso assoluto, mistico (nell’op. cit., pp. 84, 185, Croce asserisce che concetti e sentimenti trasfigurati nella poesia « hanno perduto l’impronta storica » etc. etc.): universale in senso mistico, ripe­ tiamo, se la verità o universalità della immagine artistica è ap­ punto, per Croce, soprastorica, eterna, e ad un tempo indiscrimi­ nata e « ineffabile ». Ma, a parte ogni generale considerazione negativa, si è visto, nel nostro caso, che l’immagine filmica è co­ stituita, non diversamente da quella letteraria, di forme o idee determinate, discriminate o discriminanti; e che perciò la forma­ lità o universalità o comunicatività (espressività) di essa immagine non può consistere (e in che altro?) se non in tali idee o univer­ sali discriminanti e, insomma, nel discursus della intelligenza. Ma allora, da questo punto di vista, che vuol essere rigorosamente gno­ seologico e non psicologico e mistico (si sa che la psicologia sup­ porta la mistica e che questa non sopporta sostanzialmente che. quella!), tutto si sposta o rovescia e ciò che abitualmente è inteso come « contenuto », cioè le idee, i pensieri, le stesse norme tecni­ 44

che etc., è da intendersi invece come « forma »? E che cosa inten­ deremo come «contenuto»? (Si sa che il crociano sentimento­ contenuto dovrebbe esser spiegato con la mera metafora del « cir­ colo » dello « spirito », che ruota « fulmineamente » dall’« intui­ zione » al « logico » che sono i pensieri e le idee, e da questo al « pratico » ch’è il sentimento, e da questo, quale nuovo contenuto estetico, alla sua forma, ch’è l’immagine o intuizione indiscrimi­ nata, in cui il sentimento, coi pensieri etc. « trapassati » in esso, viene « calato », per ricominciare il giro forma-contenuto!) Rispon­ diamo: 1. che è la simbolicità o idealità sua che fa l’immagine ar­ tistica (filmica etc.) specificamente forma e quindi comunicativa o espressiva (la comunicatività o è. sinonimo di universalità, o og­ gettività, o cosmicità che si dica, o non si sa che possa essere: ma l’universalità etcetera è attributo specifico dell’idea o forma, del concetto, non della immagine, che, per se stessa, è soggettiva, non meno di quel che sia soggettivo il sentimento, ed è incomu­ nicabile per definizione); 2. che Tesser, l'immagine, forma, vuol dire, si è visto, esser essa forme, (al plurale) ben determinate e di­ scriminate, cioè idee o concetti empirici o « pieni », donde poi la effabilità o effettiva comunicatività dell’immagine artistica in quanto immagine formata o formale che si dica (la forma che, in quanto tale, sia sinonimo di indiscriminabilità, e quindi di ineffa­ bilità, è, in fondo, contraddizione in termini: è l’informe, è l’uno plotiniano, mitico, è la notte schellinghiana e mistica, in cui tutti i gatti sono neri); 3. che il « pieno » dei concetti ci rimanda ovvia­ mente dalla forma (idea) al contenuto-, contenuto che non può esser che ciò che si dice sensibile o esperito, in genere, e insomma la materia, il particolare, in cui si puntualizza l’idea (l’universale) per poter essere « idea di qualche cosa », che se no non è niente, cioè non è niente idea; 4. che il contenuto stesso non è tale se non rinviandoci alla forma, all’idea, per la propria (si è, visto) og­ gettivazione o espressione (tanto di « sentimenti » che di « imma­ gini »!); cosi come, è sottinteso, la forma rinvia sempre al conte­ nuto o materia (come qualcosa di radicalmente distinto) proprio per esser forme, ossia forma efficace, e insomma forma (che è l’auto-forma, l’universale apriori, dell’idealismo, la tenebra misti­ ca, di cui sopra, in cui niente ha forma, infatti). Ed è questa funzionalità reciproca di forma e contenuto (funzionalità inevita­ bile e pur cosi difficile da ammettersi da chi subisca ancora il fa­ scino della metafisica ossia dello apriorismo in genere), è questa che sola può spiegarci come accada, in pratica, che ogni questione 45

di « contenuto » (nel senso corrente) si risolva, se un poco appro­ fondita dalla critica artistica, in una questione di « forma » e vice­ versa (segno, dunque, che bisogna andar al fondo del significato gnoseologico dei due termini, forma e contenuto, per poter giusti­ ficare l’effettiva, inevitabile, funzionalità reciproca o circolarità dei due, di cui non rende conto la puramente metaforica circola­ rità delle « forme » dello spirito). Un esempio tratto proprio dalla critica cinematografica: « Le limitazioni contenutistiche — ha os­ servato John Howard Lawson — non possono non impoverire la struttura cinematografica e costringere i cineasti a indulgere a concezioni sociali ignobili e a false giustificazioni dell’attività dei personaggi. I personaggi stessi diventano sempre piu stereotipati, privi di volontà e soffocati da emozioni incontrollabili » (Teoria e tecnica della sceneggiatura, trad. Di Giammatteo, Roma, 1951, p. 318, corsivo nostro). Orbene, è. estremamente interessante notare quivi come il critico sia costretto a risolvere, sia pur confusamente, rilievi di contenuto (nel senso corrente del termine) in ri­ lievi formali come quelli concernenti la « struttura » filmica e i personaggi « stereotipati »: il quale ultimo rilievo è soprattutto importante per il suo più esplicito significato di valutazione formale-artistica (negativa): dove c’è lo stereotipato, l’accademico, il poncif, il banale, non c’è valore artistico, ne siamo tutti persuasi. Ma quante considerazioni da fare, se ci fosse tempo, sull’istanza tipicamente storico-dialettica (materialistica) che si nasconde in questo abituale rimprovero di poncif rivolto agli artisti! Basti fiotare qui che la ragione di tale rilievo formale negativo non sta solo nel difetto di originalità personale dell’individuo-artista e nell’ap­ plicazione da parte sua di consunte norme tecniche (forme), ma anche e non meno nell’uso non-dialettico di modelli espressivi e cioè di simboli o ideali o idee (forme) storicamente, realmente, sorpassati, consumati, anch’essi. È questo, in altri termini, il pro­ blema della originalità artistica, come si ripropone oggi a noi, dopo la crisi dell’estetica romantica e mistica, quando ritorniamo sul grosso problema del rapporto storia-arte o realtà-arte. 4. Ma, si dirà, anche concesso che sia come voi dite, e che si debba rinunciare all’estetismo e misticismo che viziano la conce­ zione tradizionale del rapporto forma-contenuto, e che si debba ammettere che anche nell’arte forma-contenuto non significa che idea-materia o concetto empirico (nel senso suaccennato), come distingueremo i concetti empirici artistici (filmici, letterari etc.) 46

dai concetti’empirici del senso comune o della scienza (le leggi) e così via? La risposta è stata implicitamente fornita sopra: la di­ stinzione è possibile in base ai diversi mezzi espressivi, alle diverse tecniche semantiche che già (’) separano, dentro il campo dell’arte, si è veduto, il film (immagini e simboli dinamico-visivi e montati) dalla letteratura (coi suoi simboli e immagini verbali) e dalla pit­ tura (coi suoi simboli e immagini statico-visivi e « astratti »). Giac­ ché questo implica, s’intende, la possibilità di altre tecniche o tec­ niche extrartistiche. Possibilità che, se non possiamo ragionarla qui, non è per questo meno logico presupposto di quel che si è venuto dicendo del campo artistico e meno concepibile: se si sono rilevate alcune specie (film, letteratura, pittura) del genere (arte), non solo è concepibile il genere stesso nella sua interezza e quindi la tecnica artistica in generale ma anche gli altri generi e. le rela­ tive tecniche. E per ora basterà forse chiedere al lettore: anche concessoci che una metafora (arte) sia pensiero (benché, s’intende, non soltanto pensiero!), e -sia pensiero già solo per il semplicissi­ mo aristotelico motivo eh’essa è « somiglianza » e quindi « nesso » di « cose lontane e diverse » come accade « anche nella filosofia », o nella scienza, ed è infatti ad es. « trasposizione (traslato) dal genere alla specie » ’, anche concessoci ciò, chi potrebbe credere che fra una metafora e una legge scientifica non ci sia pur una differenza? Ma, tornando sul film per concludere, vediamo il si­ gnificato generale di una giusta osservazione autocritica del Chia­ rini regista della Bella addormentata, a proposito di un piccolo dettaglio del « costume » della protagonista. « C’è, una scena — dice C. — in cui la protagonista, una povera ragazza di campagna che fa la serva, si spoglia togliendosi numerose sottovesti. Pur­ troppo esse sono nuove di zecca e brillano del lucido di un satin che non è mai stato in bucato. Nel vedere quella scena si prova un senso oltremodo sgradevole, come di una pennellata fuori po1 Poetica (trad. Valgimigli, 1946, p. 148): «Un esempio di metafora, dal genere alla specie è questo: ’’Quivi s’è ferma la mia nave” [Odissea, I, 185; XXIV, 308]; perché 1’’’essere ancorato”, ormein, è un modo speciale del generico ’’esser fermo”, estimai». E cfr. Retorica, 3, 11, 1412a 9 sgg. (cit. dal V. a p. 160). Interessante notare che il valente traduttore della razionalistica Poetica aristotelica è in estetica crociano, e il lettore attento se ne accorge dalla Introduzione, com’è risaputo. Per la Poetica aristotelica si veda la Introduzione al nostro volume: Poetica del cinquecento, Bari, Laterza, 1954. Sul Croce e il Gentile vedi i nostri lavori: Crisi critica dell’estetica romantica, Messina, 1941, pp. 13 sgg., 18 sgg.; I limiti del gusto crociano, in questo volume; Logica come scienza positiva, MessinaFirenze, 1950, pp. 87-9, 284 sgg., 323 sgg. E si veda la cit. Critica del gusto. Vedi anche G. Morpurgo Tagliabue, Il concetto di stile, Milano, 1951. (2)

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sto in un quadro » (op. cit., pp. 146-7). Donde proviene quel senso molto sgradevole nello spettatore? Se vogliamo prender il critico in parola, dobbiamo scartare l’ipotesi eh’esso provenga da un mero eccesso visivo, da un cattivo effetto di fotografia (quel « lucido ») e tenendo presente, come par che si debba, quel parti­ colare visivo nell’assieme dell’inquadratura e del resto del film, cioè nel significato suo complessivo, dobbiamo chiederci se in una altra situazione immaginata quel « lucido di un satin » etc. etc. disturberebbe ancora: nel caso, ad es., non di una povera serva di campagna, ma di una parvenue o di una cocotte. Non disturbe­ rebbe: e allora è la complessa incoerenza e inverosimiglianza di quel dettaglio la ragione del disturbo artistico-, del fatto ch’esso non c’interessa positivamente. Incocrenza e inverosimiglianza com­ plessa, si è detto: ché il nostro regista ha in quel dettaglio con­ traddetto, da un lato, la situazione immaginata, assunta, quella di una tipica serva di campagna etc., da rendersi (compito espres­ sivo specifico, tecnico, dell’artista-regista) con la concentrazione di effetti visivi richiesta dal ritmo dinamico filmico; e d’altro lato ha contraddetto indirettamente il vero, il reale, per quel tanto ch’è tradito nella mancata vero-simiglianza di quel dettaglio di « costume » (filmico): ma tradimento, si noti, che non concerne qui (nell’arte che sia arte) il vero, cioè una qualsiasi situazione reale, bensì concerne soltanto la situazione immaginata (ma ve­ ro-simile), concerne, insomma, la coerenza intima, la ragionevo­ lezza dell’assunto stesso del regista: e quindi l’effetto finale, il fine, di credibilità, di commozione, di interesse, cui egli mira (in quel modo di artista). Dunque, noi reagiamo negativamente a quel dettaglio visivo non soltanto con gli occhi ma insieme con la no­ stra esperienza e il nostro senso unitario, razionale (ideale) delle cose, con la nostra (sperimentata) ragione-, il che ci conferma ciò che si è visto sopra: che l’arte è — nei suoi modi — rapporto di idea (ragione) e materia, concetto empirico. Ma questo ora signi­ fica anche eh’essa è verosimiglianza (nel complesso senso suaccen­ nato). Così tutti gli effetti filmici, grandi e minimi, se artistici sa­ ranno sottomessi alla complessa legge della verosimiglianza, cioè saranno del verosimile filmico. Anche il leone-di-pietra-che-simuove, di cui sopra? Anche V impossibile, dunque? Anzi. Quel leone, in quanto è un simbolo effettivo, e quindi una « somiglian­ za », un nesso, di cose (reali) lontane fra loro, è un approfondi­ mento di quell’esigenza di coerenza intima, o di razionalità in­ terna, immaginato o assunto, ch’è il lato, vedemmo, piu ca­ 48

ratteristico della verosimiglianza come condizione costitutiva del­ l’arte (e Pudovkin, nel passo citato sopra, non parla, a proposito di questo leone, che dì una sua « indipendenza » da una « proba­ bilità » o verosimiglianza « elementare »: non da quella verosimi­ glianza complessa, da cui invece esso dipende, a cui è sottomesso come a sua legge in quanto effetto artistico riuscito). Insomnia, il caso del leone di Ejzenstejn è lo stesso caso estetico della pindarica « cerva dalle corna d’oro » e similia, salva la differenza di tecnica filmica e tecnica letteraria: rientrano, cioè, entrambi, e tutti gli altri simili, nella stessa rubrica problematica, già scoperta da Ari­ stotele: cioè: le cose impossibili e incredibili (« inverosimili »), come queste, sono, nell’arte, regno del verosimile, errori o no? Sono lecite o no? Aristotele rispondeva da pari suo: sono errori se « si tratta di errori direttamente connessi con Yarte del poeta », non lo sono se sono soltanto « errori in altra materia che con l’arte del poeta ha solamente un rapporto accidentale » (stupendo riferimento, questo « rapporto accidentale », al contenuto astratto dell’opera d’arte!). E si spiegava: « non sono piu errori se il poeta raggiunge il fine che è proprio della sua arte: se cioè [...] egli riesce con tali impossibilità a rendere piu sorprendente e interes­ sante o quella parte stessa dell’opera che le contiene o un’altra parte [...]. Ancora: se si biasima il poeta di non essere fedele alla verità delle cose, — ma le cose, egli potrà rispondere, come deb­ bono essere io le ho rappresentate [...]. Riguardo alle esigenze della poesia, bisogna tener presente che cosa impossibile ma cre­ dibile è sempre da preferire a cosa incredibile anche se possibile [...]. Ma giustissime sono le censure di irrazionalità e di malva­ gità di carattere [dei personaggi poetici] quando irrazionalità e malvagità siano adoperate senza che nessuna interna necessità le giustifichi » (Poetica, trad, cit., pp. 186-7, 200-1). Dove, attraverso l’indicazione del « fine » artistico (non solo « sorpresa », che po­ trebbe anche riguardare sensi e fantasia puramente, ma « interes­ se » e « credibilità ») e la connessavi subordinazione del dover essere o idealità, e insomma della interna necessità o razionalità, del fantasma veramente poetico, troviamo già in guisa pregnante l’enunciazione del lato o aspetto piu caratteristico e specifico che fa la verosimiglianza essenza dell’arte. Ma, allora, se ci sono buoni motivi, pare, perché la verosimiglianza (cosi intesa) sia il fonda­ mento della costituzione artistica della immagine filmica e di ogni altra, che non solo si presuma ma si possa dimostrare esser arte, che ne è del generale criterio estetico ancor dominante della creati49

vita e spiritualità assoluta dell’arte? E che ne è del suo tipico corollario di una cosmica ma indiscriminata o mistica verità? Ma, per concludere, non sarà superfluo richiamare ancora le ragioni (della tecnica) che sole ci permettono poi di distinguere il verosi­ mile filmico da quello letterario e cosi via, e di non fare di ogni erba fascio. Sono esse che ci costringono ad ammettere, e che spiegano, non solo che il visivo-filmico leone rivoluzionario di Ejzenstejn è, vedemmo, in traducibile letterariamente ossia in vero­ simiglianza letteraria (scadrebbe a banalità), com’è intraducibile parimente in verosimile filmico o pittorico o scultorio il dante­ sco leone « che parea che l’aere ne temesse »1 ; ma che è. altresì intraducibile il pudovkiniano (*) scorcio filmico (realistico-fotografico) del monumento dello zar che, monumento-tradizione, in­ combe schiacciante sui contadini proletari che entrano in città (vedi La fine di San Pietroburgo-, e cfr., per una diversa interpre­ tazione, Arnheim, Films als Kunst, Berlin, 1932, pp. 85-6 2). C’è, dunque, il verosimile filmico, ch’è la « immagine » filmico-artistica: cioè la « concreta forma » o idea filmica che Pudovkin teorico intende, si è visto da principio, distinguere dall’idea letteraria, dal verosimile verbale, che il soggettista gli offrei. Idea, quest’ultima, 1 « Questi parea che contra me venesse / con la testa alta e con rabbiosa tame, / si che parea che l'aere ne temesse » (Inferno, I, 46 sgg.). 2 II mio distacco da Arnheim vale altresì, si intende, per il suo ultimo volume, Art and visual perception, Berkeley and Los Angeles, University of Cali­ fornia Press, 1954, nel quale il suo psicologismo lo ha portato a confondere visività filmica e visività pittorica (2>. 3 Contemporaneamente a questo nostro saggio (apparso in Rivista del cinema italiano, settembre 1952) il cit. Karel Reisz pubblicava in The cinema 1952, edited by Roger Manveil, Penguin Books, un interessante articolo: Substance into shadow, ispirato anch’esso ai problemi del « nuovo-Laocoonte » e basato su una acuta analisi comparativa degli effetti artistici di alcune opere letterarie e dei rispettivi adattamenti filmici. Ad es., a proposito di To have and have not di Hemingway e del suo più riuscito adattamento in The breaking point di Michael Curtiz, osserva fra l’altro il Reisz quanto segue: « [...] there is still the matter of Hemingway’s prose style, which needs interpretation. The terse sentences (or long, repetitive sentences, split 'into terse clauses), the constant use of repetition, and the hectic punctuation — all these give his style a quality which is an inseparable part of what he writes, and would, in a faithful adap­ tation, have to be rendered in film terms. The literary style cannot be divorced from the underlying Weltanschauung in his books [...]. In suggesting that the effect of the idiosyncrasies and vbcabulary of a writer’s style could be translated into film terms, the critic is at something of a disadvantage. Only a practical demonstration could prove the point The breaking point attempts none of this [...] and the film proceeds with the pace of a thriller. The plot, itself somewhat diluted, is presented neat: divorced from the style which gave it validity it looks hollow and somehow pointless. Similarly, Hemingway’s dialogue has been torn from the emotional climate of the novel and survives, in places, to sound more than a little ridiculous » (corsivo mio). E, dopo aver mostrato

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che, per quanto brillante in sé, non è appunto, per il regista con­ sapevole, che « astratto contenuto » ossia altra materia che con l’arte del regista ha solamente un rapporto accidentale, il rapporto né più né meno che hanno i leoni reali e le cerve reali (sprovviste queste, nonché di corna auree, di corna affatto) col leone di Éjzenstejn e con la cerva di Pindaro. (1952)

altresì come nella versione filmica fatta da Clarence Brown di Intruder in the dust di Faulkner « the conflicts are drastically simplified » e che « it means that the novelist’s most sensitive instrument of perception has been lost » e ohe il film «captures only small elements of Faulkner’s novel without giving it anything in compensation », il Reisz conclude in generale che « no adaptor could resolve the conflicts of The Bostonians [di Henry James] in action or give a concise dramatic shape to War and peace without losing the basic qualities of the originals»: e che, «indeed, the more fully the novelist avails himself of the freedoms of his medium, the less likely is his novel to be adaptable into a film » (corsivo mio). Con che conferma le istanze critiche poste al principio: che « the bastard creations [idest: « the works of art exploited by transposing them into another medium »] come to lack aesthetic unity because they have been illegitimately conceived outside their medium — a state of affairs which proves the incompetence (or unscrupulousness) of most adaptors rather than the im­ possibility of adaptation itself »: e che « adapting another man’s novel does not absolve the adaptor from the necessity of creating an integrated work within his own medium » (corsivo mio). Per questi problemi si veda anche l’interessante volume di Gillo Dorfles: Discorso tecnico delle arti, Pisa, 1952 (su cui torne­ remo altrove) e dello stesso la recensione del presente saggio in Aut aut, sett. 1952. Un cenno significativo di questi problemi in Barbaro (nell’Uwirà, Roma, 29 sett. 1953): quando riconosce, a proposito di un progetto di film (L’armata s’agapò di Renzi), che « la sua forma è imperfetta e provvisoria per definizione, giacché sì tratta del progetto di un’opera futura. Un’opera la cui forma non sarà letteraria, ma essenzialmente visiva, figurativa » (corsivo nostro). Per la rigorosa critica cinematografica esercitata da Chiarini, vedi avanti a proposito dell’Ultimo Chaplin. Per un tentativo di unificazione di questi problemi nel problema della organicità semantica di ogni opera d’arte, si veda, intanto, spec, riguardo alla letteratura, la nostra Introduzione a una poetica aristotelica-, in Poetica del cinquecento. E si veda la cit. Critica del gusto. Un accenno (*) in proposito è fatto piti innanzi nello scritto: Ideologia e arte.

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Gramsci e l’estetica crociana (a proposito di « struttura » e « poesia »)

Nel secondo dei « quaderni del carcere » (pubblicato nel 1950 nel volume einaudiano: Letteratura e vita nazionale, pagina undi­ ci e seguenti) Antonio Gramsci sintetizza rapidamente i suoi rap­ porti col Croce sul terreno della filosofia dell’arte: e cioè, quel tanto di accordo esplicito e di disaccordo implicito del suo pen­ siero con quello dell’ultimo grande erede della estetica kantianoromantica o cosiddetta moderna. « Il concetto che l’arte è arte, •— scrive Gramsci, — e non propaganda politica ’’voluta” e proposta, è poi, in se stesso, un ostacolo alla formazione di determinate cor­ renti culturali che siano il riflesso del loro tempo e che contribui­ scano a rafforzare determinate correnti politiche? Non pare, anzi pare che tale concetto ponga il problema in termini piu radicali e di una critica più efficiente e conclusiva. Posto il principio che nell’opera d’arte sia solamente da ricercare il carattere artistico, non è per nulla esclusa la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento verso la vita circoli nell’opera d’arte stes­ sa. [...] Ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico, e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato » (corsivo nostro). Che l’accordo con Croce superi qui il disaccordo, o che quest’ul­ timo sia ancora implicito, lo mostra altresì la conclusione del me­ desimo scritto (intitolato: Criteri di critica letteraria), in quanto ammette che « il principio formale della distinzione delle catego­ rie spirituali e della loro unità di circolazione, pur nel suo astrat­ tismo, permette di cogliere la realtà effettuale » (corsivo nostro). Ma già altri scritti, nello stesso « quaderno » e nei precedenti e suc­ cessivi, ci dicono di più circa il disaccordo: dagli scritti su Conte­ nuto e forma (« Ammesso che contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc., non significa ancora che non si possa fare la distinzione 52

fra contenuto e forma. [...] Il primo contenuto che non soddisfa­ ceva era anche forma e, in realtà, quando si è raggiunta la ’’forma” soddisfacente, anche il contenuto è cambiato. [.,.] ’’contenuto” e ’’forma”, oltre che un significato ’’estetico”, hanno anche un si­ gnificato ’’storico”. Forma ’’storica” significa un determinato lin­ guaggio, come ’’contenuto” indica un determinato modo di pensare non solo stòrico, ma ’’sobrio”, espressivo senza pugni in faccia », corsivo nostro) e su «Contenutisti» e «calligrafi» («Poiché nessuna opera d’arte può non avere un contenuto, cioè non essere legata a un mondo poetico e questo a un mondo intellettuale e morale, è evidente che i ’’contenutisti” sono semplicemente i por­ tatori di una nuova cultura, di un nuovo contenuto, e i ’’calligra­ fi”, i portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o diversa cultura; a parte ogni quistione di valore su questi conte­ nuti o culture per il momento, sebbene in realtà è proprio il valore delle culture in contrasto e la superiorità di una sull’altra che decide del contrasto. Il problema quindi è di ’’storicità” del­ l’arte, di ’’storicità e perpetuità” nel tempo stesso, è di ricerca del fatto: se il fatto bruto, ecoriomico-politico, di forza, abbia [...] su­ bito l’elaborazione ulteriore che si esprime nell’arte [...] », corsivo nostro) agli scritti su Arte e lotta per una nuova civiltà (*) (« La critica del De Sanctis è militante, non ’’frigidamente” estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della "struttura" delle opere, cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio’ in ciò pare consista la profonda uma­ nità e l’umanesimo del De Sanctis [...] », corsivo nostro) o su Croce e la critica letteraria (l’esigenza crociana di una « restaurazione e di­ fesa della classicità » contro il romanticismo « mostra quali siano le preoccupazioni ’’morali” del Croce, oltre che le sue preoccupa­ zioni estetiche, cioè le sue preoccupazioni ’’culturali” e quindi ’’politiche”. [...] ma la [crociana] critica in atto non dovrebbe solo criticare, cioè fare la storia dell’arte in concreto, delle ’’espres­ sioni artistiche individuali”? ») o su Grammatica e tecnica (contro Croce e Gentile: « la grammatica normativa, che solo per astra­ zione può essere ritenuta scissa dal linguaggio vivente ») o sulla Linguistica, in cui la ripugnanza vivissima di Gramsci alla retorica idealistica (in fatto di lingua) del Bertoni (« positivista sostan­ ziale ») è del suo maestro anticipa l’orientamento della moderna 53

critica dei Pagliaro e Devoto e Nencioni all’identificazione crociana e vossleriana di arte e lingua. E cosi via. Finché troviamo nel breve studio sul Canto decimo dell’« Inferno » (quaderno tredicesimo, pp. 34 sgg. ed. cit.: e cfr. la novantaduesima delle Lettere dal car­ cere, pp. 141 sgg. della medes. ed.) la messa-a-punto piu vigorosa di ciò che divide Gramsci da Croce sulla questione del metodo in estetica é assieme troviamo il risultato piu convincente del nuovo modo di impostare il problema estetico fondamentalissimo del rapporto struttura-poesia nella Commedia e nell’opera d’arte in genere. In contrasto con tutta una tradizione di critica dantesca, che, dal De Sanctis al Croce e al Momigliano, ritiene che la poesia del « canto di Farinata » cessi con la « didascalia » recitata da Fa­ rinata (« Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, / le cose, disse, che ne son lontano; / ...Quando s’appressano o son, tutto è vano / nostro intelletto » etc.) in risposta alla domanda di Dante (« solvetemi quel nodo ») che non si sa spiegare la dolorosa, dramma­ tica, ignoranza di Cavalcante circa la sorte del figliuolo Guido, al presente pur vivo (« Di subito drizzato gridò: Come ! dicesti? egli ebbe? non viv’egli ancora? / non fiere gli occhi suoi lo dolce lome? »), Gramsci osserva che « Dante non interroga Farinata solo per ’’istruirsi”, egli lo interroga perché è rimasto colpito dalla scomparsa di Cavalcante [« Quando s’accorse d’alcuna dimora / ch’io facea dinanzi a la risposta, / supin ricadde e piu non parve fuora » ]. Egli vuole gli sia sciolto il nodo che gli impedì di rispondere a Cavalcante; egli si sente in colpa dinanzi a Caval­ cante [« Allora, come di mia colpa compunto, / dissi: or direte dunque a quel caduto, / che ’1 suo nato è co’ vivi ancor con­ giunto; / e s’i’ fui, dianzi, alla risposta muto, / fat’i saper che ’1 fei perché pensava / già nell’error che m’avete soluto »] ». E che insomma « il brano strutturale [cioè: il concetto della previsione, da parte dei dannati, del futuro e dell’ignoranza loro del presente etc.] non è solo struttura, dunque, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto» (corsivo nostro). E sog­ giunge puntualmente che « la parola piu importante del verso ’’Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” non è ’’cui” [Virgilio] o ’’disdegno” ma è. solo ebbe »; che «su ’’ebbe” cade l’accento ’’estetico” e ’’drammatico” del verso ed esso è l’origine del dram­ ma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata: e c’è la ’’catarsi” ». Non è forse troppo difficile arguire da quel che precede che è proprio di qui — da questa complessa capacità rivelata da 54

Gramsci di avvertire le ragioni della ragione, o intellettualità o discorsività, nell’opera d’arte, senza cadere, dopo aver rotto l’in­ canto del formalismo, cioè dell’estetica (misticizzante) dell’« in­ tuizione irriflessa » b « pura », nella tentazione di un contenuti­ smo sia pur raffinato—' che comincia la possibilità di una nuova (integrale) critica letteraria e artistica e della relativa implicita estetica. Capacità eccezionale, che non si riscontra quasi in nes­ suno dei teorici e critici letterari materialisti posteriori a Marx e a Engels, da Plechanov a Lukàcs (di quest’ultimo basti ricordare la sopravvalutazione di Balzac a discapito di Flaubert e di Stendhal e la riduzione della poesia di Holderlin al suo astratto contenuto illuministico). Benché proprio da questa capacità di cogliere la pie­ nezza conoscitiva della poesia (non solo sentimento ma altresì intelletto!) dipenda, come dà premessa ineliminabile, la possibilità di mostrare la pienezza umana, in genere, della stessa, la sua con­ cretezza e storicità (come potrebbe riflettersi nell’opera d’arte la storia con le sue distinzioni e coi suoi nessi se non attraverso la intellettualità, q ragione discorsiva, come costitutiva dell’artistici­ tà stessa?) e socialità etcetera: la possibilità, insomma, di dimo­ strare le tesi principali dell’estetica materialistica. Ma, concluden­ do,. cTsembra doveroso riconoscere che alla formazione di questa superiore coscienza estetica materialistica di’ Gramsci non fu certo estranea (non sorprenda) la peculiare atmosfera filosofica italiana, cioè crociana, da cui Gramsci trasse ispirazione non solo polemica o negativa per ripensare il problema dell’arte. Basti ricordare come Gramsci (a differenza dei critici marxisti nominati, a lui inferiori almeno nel metodo) tenga fermo il concetto dell’autonomia del­ l’arte (che l’arte ha da essere arte): concetto ricevuto nella suaultirna e più raffinata elaborazione dal Croce. Onde Gramsci si rac­ corda a Croce e lo sviluppa, va più avanti, noi pensiamo, per quella paradossale dialettica reale, o storica, ch’è assai diversa dalla dia­ lettica idealistica se non altro perché qùest’ultima è. (contro le sue pretese) così poco paradossale o rivoluzionaria. Comunque, Gram­ sci deve il suo progresso, come sempre m questi casi, anzitutto alla « sua apertura verso la verità, da qualsiasi parte gli giungesse », secondo il preciso riconoscimento dello stesso Croce. (1953)

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Pudovkin e l’attuale discussione estetica

Vsevolod Pudovkin non è stato soltanto un grande regista, uno dei primi registi, assieme a Ejzenstejn, veramente grandi. Ma Pudovkin è stato anche e resta un grande teorico dell’arte filmica: il primo autore classico dell’estetica cinematografica; che si è tro­ vato, perciò, di fronte a un problema nuovo-, il problema estetico liminare, e estremamente complesso, del rapporto del cinema con la letteratura (e le altre arti in genere). Caso unico nella storia dell’arte del film, Pudovkin è stato dunque un regista che ha raggiunto l’eccellenza nell’arte e nella filosofia dell’arte ad un tempo; sia pur seguito a breve distanza, nel duplice exploit, dall’altro regista russo classico, lo Ejzenstejn, che, come teorico, si confuse talvolta in mere analogie dell’arte filmica con le altre (vedi il Senso del film) oppure seppe soltanto riprendere e illustrare (da par suo) motivi estetici fondamentali già scoperti da Pudovkin (vedi la Forma del film). Ma la pudovkiniana Tecnica del film (col complementare Attore nel film) resta un capolavoro insuperato, il codice estetico fondamentale dell’arte filmica: e anche sotto questo aspetto (della filosofia o teoria del film) colpisce nel giusto il nostro Barbaro, quando scrive: Pudov­ kin è il cinema (vedi L’unità del 2 luglio 1953). Consideriamo solo questo Pudovkin. Non è. soltanto la teoria del « montaggio » (di pezzi brevi) come « idealizzazione di tempo e di spazio » che costituisce la struttura dell’opera filmica (quella « struttura » in genere nella quale Croce e gli esteti idealisti e misticizzanti hanno visto e vedono lo scadere dell’intuizione pura o arte al grado dell’intellettualità e della pratica e quindi della non-poesia, come ha giustamente ricordato Barbaro di recente); non è solo questa la gloria di Pudovkin teorico, anche se la princi­ 56

pale. (E noi italiani non dobbiamo mai dimenticare l’appo_rto ori­ ginale dato da Antonio Gramsci alla questione estetica fondamen­ talissima del rapporto struttura-arte.) Grande merito di Pudovkin teorico è anche di aver avviato la moderna ricerca dei differenti mezzi espressivi dell’arte (in genere) e quindi della sua natura eminentemente tecnica: come quando ci ha avvertiti che « il sog­ gettista dà soltanto un’idea al regista, un astratto contenuto del­ l’immagine [filmica], ma non la sua concreta forma » di « imma­ gine plastica », visiva, « difficilmente riproducibile in parole, ma di effetto impressionante sullo schermo »; senza peraltro perdere di vista la generica artisticità dell’immagine filmica (quando ce l’abbia) ossia Vunità delle arti, col riconoscere, infatti, anche al­ l’immagine visuale-filmica una « capacità di rappresentazione sim­ bolica» (la « universalità » eminente di ogni opera d’arte degna del nome). Fermiamoci un momento su questo risultato fondamentale. Sono stati i primi positivi esempi ormai classici di simbolismo fil­ mico (diciamo positivi per distinguerli dai tentativi infelici di Griffith, di Dovzenko e di Ejzenstejn in Ottobre), esempi forniti da Ejzenstejn in Sciopero (1924), col montaggio della scena del­ l’assassinio poliziesco degli operai con la scena dei buoi scannati all’ammazzatoio, e nella Corazzata Potèmkin (1925) con le tre fulminee inquadrature di un leone di pietra contrappuntate, cioè montate, con le bordate della corazzata insorta, sono stati questi esempi che hanno suggerito a Pudovkin le seguenti profonde, istruttive conclusioni. Rispetto al primo esempio, avendo fatto notare che il soggettista, il letterato, « desidera di dire che, come un macellaio abbatte un bue, cosi freddamente, crudelmente, fu­ rono abbattuti gli operai », ne conclude che « questo metodo [di Ejzenstejn] è particolarmente interessante, perché, per mezzo del montaggio, introduce un concetto astratto [o generale] nella mente dello spettatore, senza ricorrere a una didascalia », cioè a lettera­ tura (p. 49 dell’ed. inglese della Tecnica del film). Rispetto al se­ condo esempio, dopo aver trascritto quel brano del trattamento che culmina nella descrizione (letteraria) del contrappunto delle bordate con le tre inquadrature del leone di pietra che dorme, apre gli occhi e scatta ruggendo, sottolinea che « questa è, una costruzione di montaggio solo difficilmente riproducibile in pa­ role [letterarie], ma di effetto schiacciante sullo schermo» (e vuol dirci, in sostanza, che, al confronto della plasticità delle sud­ dette immagini ottico-pregnanti in quanto immagini dinamico57

visive montate, le mere espressioni letterarie del « leone rivolu­ zionario » e delle « pietre che anch’esse si rivoltano e gridano » sono artisticamente delle banalità: donde l’impossibilità, per i mezzi espressivi diversi, di una traduzione adeguata delle prime nelle seconde, cosi come, per converso, il letterario leone dante­ sco, « che parea che l’aere ne temesse », è intraducibile filmica­ mente e pittoricamente; e cosi via, se ben si considera). E conclude, P., che con questo esempio (del leone rivoluzionario) « il film passa dal naturalismo [o realismo immediato], che in certo grado gli era proprio, a una capacità di rappresentazione libera, simbo­ lica, indipendente dai requisiti di una elementare probabilità » o verosimiglianza (il leone è di pietra e pure rugge). Su quest’ultimo punto (la capacità simbolica) insistette poi felicemente lo Ejzenstejn teorico (in polemica con gli americani), mostrando le ampie possibilità di simbolismo filmico offerte nella « sfera della giustapposizione-di-montaggio ». Con che veniva ri­ preso e sviluppato il concetto pudovkiniano del montaggio come necessaria struttura del film e quindi della implicita insopprimibilità della struttura in genere nell’opera d’arte vera. Sul primo punto (la « plasticità » dell’immagine filmica) ^an­ no insistito lo stesso Ejzenstejn, che, allargando il confronto al campo della plasticità pittorica, osservò che « nella pittura la for­ ma nasce dagli astratti elementi della linea e del colore, laddove nel cinema la materiale concretezza dell’immagine-fotogramma presenta, come elemento, la piu grande difficoltà di elaborazione formale », e di recente il regista Gerasimov. Quest’ultimo ha defi­ nito la regia cinematografica dicendo che « il regista è un artista capace di svelare con la massima concretezza il contenuto di una opera letteraria agendo direttamente sui sentimenti dello spetta­ tore, conferendo a questo contenuto di immagini la forza e la chia­ rezza deWimpressione soggettiva » (I problemi del mestiere nel cinema sovietico, in Cinema sovietico, 1953, n. 1, Roma). Defini­ zione ch’egli deriva, anzitutto, da una osservazione di Cernysevskij: che se «la poesia opera sulla fantasia», le cui immagini sono « scialbe e deboli a paragone delle percezioni dei sensi », « le altre arti, come la viva realtà, operano direttamente sui sen­ si », inclusovi ora il cinema (con la sua visività e conseguente pla­ sticità). Onde G. conclude che « probabilmente non sbagliamo di­ cendo che il cinema è poesia [...], ma dotata, per usare le parole di Cernysevskij, della forza e chiarezza impressione soggettiva fornita dalla realtà », e che « la fantasia creatrice del regista non 58

deve [...] concentrarsi nell’inventare i particolari mancanti [nel soggetto e nella sceneggiatura], man&W incarnare tutta la ricchezza dei particolari contenuti nelle opere [letterarie o soggetti sceneg­ giati] »: dove è ben ovvio che la metafora dell’incarnare sta a indi­ care la plasticità dell’immagine filmica. (« Ma ogni vero regista, anche se portato all’attività letteraria [...], sogna una sceneggia­ tura ben riuscita per tradurla in film. ») Né, d’altra parte, Gera­ simov, ritornando sul confronto del cinema col teatro, esita a riba­ dire che, se nelle opere teatrali « sono limitati per numero i luo­ ghi dell’azione e coloro che vi prendono parte e il tempo del­ l’azione » (e l’azione umana vi è. mostrata « quasi esclusivamente attraverso il dialogo » o letteratura), la cinedrammaturgia invece « si serve liberamente dello spazio e del tempo » (il montag­ gio) e però « può rappresentare in pari misura i grandi mo­ vimenti di massa », i « conflitti fra gli uomini », la « loro vita », la « loro lotta », gli stessi « processi del lavoro » (« il che per l’arte del mondo socialista ha un’importanza assolutamente ecce­ zionale ») e « le più sottili sfumature dei pensieri e dei senti­ menti del singolo ». E con ciò la preziosa eredità dottrinaria, filosofico-estetica, di V. I. Pudovkin continua a fruttificare in ogni sua parte. E infine anche l’ultima fase dell’attività dottrinaria di P., la fase più spiccatamente polemica e critica contro il pericolo (sempre rinascente) del formalismo, trova cosi il suo significato giusto, equilibrato: che è non il ripudio del procedimento tecnico­ strutturale del montaggio, ma della sua deformazione, come quan­ do si cada nel calligrafismo, nel bel dettaglio visivo come fine a se stesso. « Le tendenze formalistiche — dice appunto P. in uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato nell’Unitd citata — possono col­ pire un artista nel modo più imprevisto. Mi è capitato di vedere, in Polonia, un breve film sul lavoro nelle miniere di carbone. Evi­ dentemente il regista intendeva far conoscere agli spettatori, nella maniera più onesta, la vita degli operai e il loro lavoro. Ma, essen­ dosi abbandonato alla descrizione del particolare, quel regista per­ dette a un tratto il senso fondamentale dell’opera, il suo scopo, e ne deformò il contenuto. » E s’intende che, senza un senso fon­ damentale chiaro, manca all’opera quel simbolismo che la organizza e la fa artisticamente vitale, in quanto realmente espressiva o co­ municativa che si dica (espressione o comunicazione presuppone l’« universale » o un senso generale: anzi si identifica con esso, necessariamente, anche se non unicamente, che senza « sentimen­ ti » o particolarità da esprimere non c’è « espressione » nemmeno). 59

E insomma, se l’errore del « contenutista » consiste nello scam­ biare il sentimento, la esteticità (in senso etimologico), ossia la par­ ticolarità, con l’universale o senso generale o « strutturale », l’er­ rore inverso del « formalista » consiste nello scambiare l’universale o strutturale col particolare o sensuale o estetico. Scambio del fine col mezzo, nel primo caso, e del mezzo col fine nel secondo (la insufficiente comunicatività o universalità o umanità di tutti i for­ malisti!). Ma fine e mezzo sono ovviamente, anche nell’arte, en­ trambi necessari e indissolubili. E questo sapeva bene il Pudovkin teorico non meno che il Pudovkin regista, equilibratissimo sempre. L’equilibrio rigoroso di fine e mezzo: questo e non altro il signi­ ficato della finale polemica pudovkiniana contro il formalismo filmico: contro cioè la tendenza, da parte di tanti registi e teorici, a sostituire il « punto di vista » (generale), o senso strutturale dell’opera, con un « angoletto » visivo (Gorkij, cit. da Gerasimov), aiutando la piccola tecnica dei particolari isolati o « belli », che non è che deformazione e abuso della grande tecnica strutturale ch’è il montaggio con la sua peculiare capacità di simbolismo fil­ mico. E appunto mediante il libero uso o « idealizzazione » dello spazio e del tempo, in cui il montaggio essenzialmente consiste, si può rappresentare, fra l’altro, ciò che ha eccezionale importanza per i'arte del mondo socialista: i movimenti di massa, la lotta degli uomini per la loro vita, i processi del lavoro etcetera; come ci ha ricordato sopra un discepolo russo del grande maestro. A questo punto resterebbe da chiedersi come si inserisca la ricerca estetico-filmica pudovkiniana nella attuale discussione este­ tica materialistica. A tal proposito ci sembra che lo stato attuale della discussione materialistica dei problemi dell’estetica si possa riassumere nei seguenti punti. 1. La « capacità di rappresentazione simbolica » o « di astrat­ ti concetti » riconosciuta da Pudovkin anche all’immagine filmi­ ca; capacità prodotta dal procedimento tecnico-strutturale ch’è il montaggio. (Motivo ripreso e svolto da Ejzenstejn nella sua teoria dell’ampia possibilità di metafore e simboli data dalla « sfera della giustapposizione-di-montaggio ».) 2. La dimostrazione data da Antonio Gramsci (a proposito del drammatico incontro di Dante e Cavalcante nel decimo delYInferno} della necessità della struttura per la poesia o loro in­ scindibilità, per cui si conclude che « il brano strutturale [cioè: 60

il concetto della previsione, da parte dei dannati, del futuro e della ignoranza loro del presente] non è solo struttura, dunque, è an­ che poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto » (il dolore inflitto da Dante a Cavalcante rivelandogli la morte del figliuolo, in seguito all’« errore » di Dante circa la capacità di previsione di quei dannati, errore « soluto » a Dante da Farinata per necessità estetica, poetica, drammatica, dunque, non meramen­ te didascalica, come i critici da De Sanctis in poi hanno creduto e credono). E si soggiunge infatti puntualmente che « la parola piu importante del verso ’’Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” non è ’’cui” [Virgilio] o ’’disdegno”, ma è solo ’’ebbe” », poiché « su ’’ebbe” cade l’accento ’’estetico”, ’’drammatico”, del verso ed esso è l’origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle di­ dascalie di Farinata: e c’è la ’’catarsi” ». 3. Le tesi conclusive di G. M. Malenkov sul « tipico » in arte, formulate nel rapporto al XIX congresso del Partito comu­ nista dell’Urss (e vedi la Grande enciclopedia sovietica alla voce Tipico) f1): « Creando le immagini artistiche — egli dice — i no­ stri artisti, scrittori, lavoratori dell’arte, devono ricordare sempre che tipico non è, soltanto quello che s’incontra più di frequente, ma quello che più completamente e acutamente esprime l’essenza di una determinata forza sociale. Nella concezione marxista-lenini­ sta, tipico non significa affatto una sorta di media statistica; la ti­ picità corrisponde all’essenza di un dato fenomeno storico-sociale, essa non s’identifica con il più diffuso, con il più frequente o con il più ordinario. L’iperbole cosciente e Taccentuazione di un’z'wmagine non esclude la tipicità, ma la rivela più completamente e la sottolinea » (corsivo nostro). Dove cosa notevolissima ci sem­ bra l’aver incluso in quell’innegabile prodotto di intellettualità (concreta, non astratta, s’intende) ch’è il « tipico » artistico anche la metafora e il simbolo in genere. Cosa notevolissima, giustissi­ ma: che, infatti, non solo ogni cons-aputa iperbole o immagine ac­ centuata rientra nel dominio della metafora, come ci ha mostrato per primo Aristotele nella Retorica, 1413a 19 sgg. («le iperboli riuscite sono anch’esse metafore, ad esempio quella su un tale con un occhio ammaccato: ”lo avreste detto un canestro di mo­ re” »); ma la metafora poi non è (a considerarla bene, senza este­ tismi) che un risultato intellettuale, come prodotto di un para­ gone o rapporto o nesso (mentale). E infatti, diceva ancora Ari­ stotele nella Poetica, 1459a 6 sgg., « il saper trovare belle meta­ fore significa saper vedere e cogliere la somiglianza delle cose fra 61

loro » e fare magari una « trasposizione dal genere alla specie », ad: esempio, come quando diciamo con Ornerò: « qui si è fermata la mia nave », poiché « Tesser ancorato è un modo speciale del generico essere fermo »; e soggiungeva completando nella Reto­ rica, 1412a 9 sgg.: « Bisogna saper trarre metafore da cose ap­ propriate ma non evidentissime. Anche in filosofia vedere il si­ mile pur tra cose lontane e diverse è, prova di singolare acutezza di intelletto ». E s’intende che per comprendere ciò bisogna ab­ bandonare (finalmente) la concezione estetizzante o puramente estetistica della metafora (e del simbolo) come universale « fanta­ stico » (meramente) o comunque un prodotto di mera o « pura » intuizione o fantasia (sintetica!); concezione invalsa da Vico ai romantici e a Croce etc. etc. Concezione psicologica e metafisica (confusamente) a cui si può opporre, da un punto di vista gnoseo­ logico elementare quanto rigoroso, che, se bisogna ammettere, co­ me è costretto a fare l’onesto Vico, che i pretesi universali fanta­ stici (in genere) sono « dettati » dalla « propietà della mente umana di dilettarsi uniforme », tale incontestabile proprietà non può essere che sinonimo di razionalità o intellettualità in quanto è senso della unità o universalità o generalità, mentre ogni intuizione o immagine è, presa per sé come tale, disgregata o mol­ teplice o diversa, è senza significato o inclassificabile o acritica che si dica. . E che insomma una pura intuizione sintetica (o « uni­ versale fantastico ») non può -sussistere, perché se è intuizione pura o « irriflessa » non può essere sintetica, mancandole quella concettualità o razionalità che istituisce sola la sintesi o unità o universalità che >si dica, e se è d’altronde un’intuizione sintetica non è, non può essere più, una intuizione pura, ma sarà una intui­ zione-concetto ossia un concetto concreto o empirico-, la intellet­ tualità concreta cercata. Quella intellettualità in cui solo potrà saldarsi il caratteristico col tipico preservando quest’ultimo da ogni astrattezza (ma la categoria del « caratteristico » non può essere scambiata pacificamente con quella del tipico o usata in sua vece, come crede un giovane critico marxista (1 ) che rivela in questo di subire ancora confusamente l’influsso del Croce, del Croce tanto amico del caratteristico o « intuitivo » quanto nemico del tipico o « pseudoconcetto » in arte e nel resto!). L’inclusione, dunque, suggerita anche da Malenkov, della me­ tafora nel tipico artistico (già scoperto da Engels) significa un no­ tevole progresso nell’elaborazione di una estetica materialistica: in quanto, con l’impulso dato a sottrarre questo fondamentale pro­ 62

cesso formale (metafora e simbolo) alla superstizione estetistica e decadente di un universale « fantastico » o intuizione pura « co­ smica » (sintetica!), ci aiuta ulteriormente a cogliere e fissare quel carattere di intellettualità dell’arte in genere senza cui non è possi­ bile, nonché fondare, nemmeno concepire filosoficamente l’estetica materialistica o idea di un realismo socialista: come infatti potreb­ bero « riflettersi » nell’opera d’arte la società, la storia, con le loro distinzioni e i loro nessi (empirici!), se non mediante una intellet­ tualità concreta, o ragione discorsiva, come costitutiva essenzial­ mente della artisticità stessa? Donde altrimenti la possibilità di mostrare la pienezza umana dell’arte, la sua pienezza conoscitiva e pratica, la sua concretezza e storicità e socialità? 4. In conclusione: i risultati conseguiti, nel rispettivo campo estetico del cinema e della letteratura, da Pudovkin, Gramsci e Malenkov, segnano una nuova fase, di effettivo progresso, nella storia della ricerca estetica materialistica iniziatasi con Marx e En­ gels. Di effettivo avanzamento sui Plechanov e Lukàcs, perché, mentre costoro sono rimasti, nella loro ricerca pur meritoria, al­ l’esterno dell’opera d’arte in quanto tale, poco curanti della tecni­ ca e forma artistica e in sostanza indifferenti alla gnoseologia del­ l’arte e paghi solo di tipizzazioni di contenuti sociali (astratti, in fondo), coi Pudovkim e Gramsci e Malenkov ci si riavvicina al­ l’opera d’arte e alla sua dialettica-e _si jriprende e sviluppa (sulle orme del Marx della Introduzione alla Critica della economia po­ litica e dell’Engels delle lettere a Minna Kautsky sul romanzo) l’analisi gnoseologica dei procedimenti tecnico-strutturali o formali dell’arte e si individua finalmente l’apoorto indispensabile (a tutti i fini, si è visto) ùeW.’intelletto all’opera creduta di « pura fanta­ sia ». Si ha così la teoria pudovkiniana del montaggio, come pro­ cedimento strutturale filmico, e del conseguente simbolismo fil­ mico (e Umberto Barbaro, che tanto giustamente osserva che « una creazione soggettiva e lirica, distinta dall’attività concettuale e dalle attività etica e pratica, nelle quali ricadendo si annulla e si nega, quale è l’arte per Croce, non si spiega come e dove possa attingere carattere di totalità » o cosmicità, non può, se non a patto di contraddirsi, mantenere poi tanta suffisance crociana verso la tecnica in generale e quindi verso l’intelletto o attività concet­ tuale, come fa quando scrive categoricamente a proposito del film che « l’arte non nasce mai da una normatività tecnicistica » e con­ clude estetisticamente che « carattere specifico dell’arte » è la « fantasìa », intendendo con questa parola « la sintesi di due ele­ 63

menti, la fantasia propriamente detta e la immaginazione»: al che vien fatto di chiedersi: ma perché non uscire deliberatamente dalla sfera estetistica? perché mantenere quel pericoloso doppione ch’è la « immaginazione »? e non sostituirla con la parola « intel­ letto »? Dato che poi, un poco oscuramente, l’amico Barbaro dice che « l’attività fantasia-immaginazione è un’attività intellettuale di natura conoscitiva » '). Si ha la teoria gramsciana della insepa­ rabilità di struttura e poesia nella Divina commedia: un principio di rivoluzione nella critica dantesca e letteraria in genere; a cui resta ancora inferiore il posteriore celebrato tentativo eliotiano di rivalutare l’allegoria del poema sacro in base alla distinzione psi­ cologica, superficiale, di « struttura emotiva » e « impalcatura » allegorica o intellettuale, che « rende possibile » la prima « sen­ za » che sia necessaria la « comprensione » di essa, la seconda! SLha, infine^ la teoria malenkoviana della intellettualità della me­ tafora in quanto quest’ultima è dichiarata anch’essa partecipe di processi di tipizzazione e specificazione (e così implicitamente per il simbolo o metafora strutturale e sistematica). Teoria di un inte­ resse enorme, pur nella sua forma abbozzata, e di grande autorità, diciamo, come quella che si fa forte non solo dell’Aristotele fon­ datore della poetica e estetica, ma altresì di quella tradizione ari­ stotelica che dal Rinascimento italiano, francese e inglese si pro­ lunga e sviluppa e vigoreggia nell’odierno neoaristotelismo este­ tico anglosassone (cui fa da pendant in certo modoJJ’attuale neoaristotelismo sovietico in logica: vedi Ueber formale Logik unà Dialektik. Diskussionbeitràge, Berlin, 1952). Neoaristotelismo estetico che, contro ogni estetismo e misticismo dell’arte, proclama per bocca di I. A. Richards, ad esempio, che « nella metafora noi incrociamo delle specie per farne delle nuove » e che in essa « il pro­ cesso di classificazione è fondamentale ». (2) (Ma cfr. l’umanista Castelvetro.) Alla confluenza di problemi e interessi così vivi e attuali pare, dunque, che venga a trovarsi l’estetica cinematografica fon1 E dice anche felicemente altrove (nell’Unz'Zà, Roma, 28 nov. 1953) che, «per quella ch’è I’antinomia caratteristica dell’arte, il realismo dipende piti dall’imma­ ginazione raziocinante che dalla fantasia senza freno» (corsivo nostro) (*). Il che pieferian» senz’altro a quel che scappa detto a Carlo Salinari: che la «ideologia» che circola in un romanzo è « calata, perfettamente fusa e quasi dimenticata nella umanità dei personaggi» etc. (nell’Uwnfà, Roma, 2 sett. 1953): tutte espressioni di sapore ancor idealistico, in quanto con esse si concede, al massimo, una presenza tacita, vergognosa, della ideologia nell’opera d'arte (ancora il « circolo » crociano?): ma vedi avanti: Ideologia e arte e vedi soprattutto la cit. Introduzione alla Poetica del cinquecento.

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data da Pudovkin: e con essa la generale discussione materiali­ stica in estetica. Discussione che, dal rigore del suo metodo, anti­ metafisico e scientifico, si annuncia come la forza destinata a con­ vogliare e risolvere in sé le attuali