Opere [Vol. 4]
 8835923417, 9788835923411

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Galvano della Volpe

Opere a cura di Ignazio Ambrogio 4

Editori Riuniti

I edizione: settembre 1973 © Copyright by Editori Riuniti, Viale Regina Margherita, 290 - 00198 Roma

Si ringraziano gli editori Samonà-Savelli e Sugar per aver consentito la pubblicazione della Libertà comunista e di Per la teoria di un umanesimo -positivo. Copertina di Tito Scalbi CL 63-0521-0

indice

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La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion « pura » pratica Avviso al lettore della seconda edizione, p. 11. — Avviso al lettore, p. 13. — I. La « persona cristiana » o persona originaria e il problema sociale, p. 14. — § 1, p. 14. — § 2, p. 15. — § 3, p. 16. — § 4, p. 17. — § 5, p. 23. — IL La «persona cristiana» nell’ideologia dei «revisori» del marxismo; cesia revisione ■ dei revisori, p. 25. — § 1, p. 25. — § 2, p. 30. — § 3, p. 39. — III. L’« uomo totale » marxiano in quanto persona storica, sociale, e il suo « libero svi­ luppo e movimento ». La nuova problematica, p. 47. — § 1, p. 47. — § 2, p. 53. — § 3, p. 64. — § 4, p. 81. — § 5, p. 91. — § 6, p. 99.

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Per la teoria di un umanesimo positivo. Studi e documenti sulla dialettica materialistica Al lettore, p. 135. — Marx e il segreto di Hegel (Introduzione ad alcuni problemi di filologia marxista), p. 136. — Marx e lo Stato moderno rappresentativo (Un saggio della critica marxiana della dia­ lettica mistificata), p. 144. — Testi ‘tradotti (con qualche chiarimento interlineare), p. 168. — Dalla « Critica del diritto statuale hegeliano » (1843) di Karl Marx, p. 168. — Dai «Manoscritti economico-filosofici » (1844) di Karl Marx, p. 212. — L’« uomo astratto» del cristianesimo e T« umanesimo positivo » (Saggio di una generalizza­ zione della critica marxiana della dialettica mistificata), p. 227. — § I, p. 227. — § II, p. 231. — § III, p. 243. — Primo abbozzo di una teoria dell’interesse-dovere, p. 248. — § I. Critica della caritas, p. 248. — § IL Critica dell’amore umanitario (Rousseau), p. 251. — § III. Critica del moralismo (Kant), p. 255. — § IV. Abbozzo di una teorìa generale, p. 262. — Nota finale (1948), p. 270.

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Logica come scienza positiva Dalla prefazione alla prima edizione, p. 283. — Prefazione alla se­ conda edizione, p. 284. — I. U problema moderino del principio logico e te sue implicazioni. Critica della logica kantiana, p. 286. — § I, p. 286. — § II, p. 297. — § III, p. 306. — II. Critica della dialettica mistificata, platonico-hegeliana, e dell’analitica aristotelica, p. 320. — § I, p. 320. — § II, p. 339. — § III, p. 354. — § IV, p. 390. — III. Riassunto del passaggio dalla critica antica del platoni­ smo alla critica moderna, materialistica, della ragion pura, p. 412. — IV. Il principio di identità tautoeterologica e la dialettica scientifica, p. 418. — Appendici; p. 489. — I. Galileo e il principio di non-contraddizione, p. 491. — II. Su tre epigoni italiani di Hegel, p. 498.— III. Critica del positivismo logico, p. 514.

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Note

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Indice dei nomi

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Opere 4

La libertà comunista Saggio di una critica della ragion « pura » pratica

Avviso al lettore della seconda edizione

Questa ristampa---- promossa dai miei damici delle edizioni Avanti! che ringrazio — di un libro che circa vent’anni fa suscitò nell’immediato secóndo dopoguerra affamato di verità sociali un certo interesse ha forse qualche giustificazione che va oltre le ragioni commemorative o documentarie. Sembra all’autore che tali giustificazioni intrinseche siano di un duplice ordine di interessi filosofici: primo, l’analisi del concetto tradizionale della persona attraverso una critica inflessibile dei « revisori » classici del marxi­ smo, e della loro etica e politica socialliberale; secondo, l’articola­ zione fedele il piu possibile allo spirito del marxismo (e non secon­ do lo spirito di un equivoco « umanismo » social-spiritualistico, come da parte di una legione di interpreti, in specie stranieri, venuti dopo) dei concetti fondamentali dei marxiani Manoscritti economico-filosofici del 1844 (da chi scrive esaminati in prece­ denza nella Teoria marxista dell’emancipazione umana, 1945): qua­ li i concetti di « uomo », « natura », « società », « alienazione umana » (ora uno slogan dell’intelligenza borghese « inquieta ») e « soppressione positiva dell’alienazione umana » e « comuniSmo » etcetera. Del primo ordine basti ricordare in particolare l’analisi dei precedenti russoiani e kantiani nonché lockiani del revisioni­ smo dei Bernstein, Kautsky e Mondolfo, e l’esame della « critica » crociana del plusvalore fatta dal punto di vista della « idealità » o assolutezza della morale; del secondo l’articolazione della formula marxiana cardinale della « socialità del lavoro ». Naturalmente i difetti e i limiti, palesi, dell’opera sono piu avvertibili nella sua seconda parte, dedicata alla ricostruzione valutativa del marxismo, diciamo, di Marx: se non altro per la limitatezza dei documenti usati (principalmente i Manoscritti e Yldeologia tedesca I): difetti

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che si è cercato di rimediare in Per la teoria di un umanismo posi­ tivo (1949) e soprattutto in Rousseau e Marx (1962); per tacere della Logica come scienza positiva (1956), della quale, del resto, il saggio Sulla dialettica, che qui segue la ristampa della Libertà, è una sintesi ed un approfondimento insieme {'). E in Rousseau e Marx si troverà anche un approfondimento del messaggio russoiano e di quello kantiano, l’indicazione dei loro aspetti positivi e storicamente non esauriti; rettificandosi cosi in una piu larga prospettiva storico-ideale il giudizio espresso su Rousseau e Kant nella prima parte dell’opera presente, dedicata alla revi­ sione dei revisori e dei loro precedenti classici, e nelle conclusioni ultime. In quanto alle note a pp. 116-21, 130-2, contenenti abbozzi di etica e di logica, l’autore si è deciso a lasciarle, malgrado il loro residuo gnoseologismo astratto e formalismo, principalmente a scopo pedagogico, cioè per consentire a qualcuno dei lettori piu pazienti di misurare tutta la distanza tra il metodo ancora incerto seguito allora da chi scrive e il metodo della Logica come scienza positiva e dei saggi di critica materialistica contenuti nel Rousseau e Marx: metodo, questo, di una storicizzazione radicale della dia­ lettica dei problemi filosofici (compresi quelli logici): senza di cui non ha senso alcuno dichiararsi seguaci del materialismo storico. Il vecchio libro è dunque intero davanti a nuovi lettori (solo pochissime righe troppo connesse con l’autobiografia dell’autore o con le cronache culturali di un tempo già lontano sono state espunte) e chiede onesta indulgenza. Roma, 15 aprile 1963.

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Avviso al lettore

■ La natura del problema affrontato nel presente volume rende superflua, se non nociva, una vera e propria prefazione in cui l’autore anticipi le intenzioni e le direttive che lo hanno guidato nella ricerca. Chi scrive preferisce che chi legge vi si accinga senza prevenzioni e equivoci, possibilmente. Le ragioni di consenso o dissenso il lettore le troverà, più naturali e schiette, nel corso stesso della ricerca. Le difficoltà che questa presenta non sono tutte imputabili all’autore, che la gravità del problema vi ha neces­ sariamente la sua parte, e anche il fatto che la « letteratura » (filo­ sofica) sull’argomento è pressoché inesistente. Non c’era da con­ tare veramente che sulle « fonti », non troppo abbondanti. Per l’essenziale, che è in Marx, si sono tenute presenti di questi anche le opere postume, in specie quelle filosofiche; ma si è avuta cura di tenere distinta, anche se non materialmente, la trattazione storico-critica da quella teoretica e personale, f1) La trattazione teoretica traccia i fondamenti di quella critica della persona a cui l’autore lavora da tempo. Questa fatica è dedicata specialmente ai giovani compagni intellettuali. Messina, Università, marzo 1946.

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I. La « persona cristiana » o persona originaria e il problema sociale

1. Fenomeno etico-politico saliente del secondo dopoguerra mondiale è, senza dubbio, la tendenza quasi generale a risolvere l’incombente crisi economico-sociale con una conciliazione di liberalismo e socialismo. In questa soluzione si sono trovati d’ac­ cordo il grande presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, e l’arcivescovo di Canterbury, Harold Laski e i leaders di altri parti­ ti europei di sinistra, e non solo di questi, e infine, almeno teori­ camente, anche Benedetto Croce (come vedremo). Le quattro libertà americane « conciliano », si sa, la sociali­ stica « eguaglianza di chances per tutti » (sono le parole di Roosevelt nel messaggio del 6 gennaio 1941 al Congresso) con l’in­ dividualistica « libertà di iniziativa » (« the right to live in an atmosphere of free enterprise »). Laski, il capo dell’esecutivo del partito laborista, nel suo ultimo interessante libro, Faith, reason and civilisation, London, Gollancz, 1944, p. 81, annovera le quattro libertà fra le « grandi concezioni » e ripete l’augurio di Roosevelt: che « la prossima sia l’epoca dell’wowo comune ». (Ma l’« uomo comune » non è già nato, oltre un secolo e mezzo fa, con la rivoluzione francese, in sostituzione dell’« uomo di qualità »?) L’arcivescovo di Canterbury, William Tempie, pone, in Christianity and social ordre (New York, Penguin books, 1944), la questione del giorno nettamente: « la questione attuale non è: dobbiamo essere socialisti o individualisti, ma: come essere socia­ listi e individualisti? » (p. 77); e precisa (pp. 78-93) un Pro­ gramma in sei articoli, in cui alle esigenze liberali tradizionali si uniscono esigenze socialiste, quale quella della pianificazione eco­ nomica (« Planning on a considerable scale »). 14

2. Ora, ciò che c’interessa anzitutto, nella sede ideologica, e propriamente filosofica, in cui vogliamo mantenerci, sono le ra­ gioni generali che inducono il nostro arcivescovo a scegliere, anche lui, la via di mezzo, la via di una conciliazione (di cui vedremo la precisa. natura) fra individualismo e socialismo. Tali ragioni consistono nel bisogno di salvare il concetto cri­ stiano-confessionale della persona umana, della personalità, e però mostrarne la capacità a risolvere i problemi morali di ogni tempo, quindi anche del nostro. È la « santità » della persona che viene, infatti, invocata dal Tempie (pp. 65-6) per motivare il rispetto do­ vuto agli operai, già chiamati in Inghilterra « hands », mani, cioè « strumenti viventi » (« which is the classical definition of a slave »). E questa « santità » ha la sua spiegazione nell’assunto, dogmatico-fideistico, che « ogni uomo e donna è un figlio di Dio »: per cui « è in ogni uomo un valore assolutamente indipendente da ogni sua utilità alla società » (p. 45). E la logica conclusione, che « la persona è primaria, non la società », anziché contraddetta è rafforzata e puntualizzata dal corollario dogmatico: che « per il compimento della personalità occorre sia la sua relazione a Dio che quella col prossimo » (pp. 49-50). Giacché la società istituita dalla caritas, o dall’amor del prossimo, è appunto una società che sorge unicamente in funzione del pre-esistente — e trascenden­ te — costituirsi della persona (ossia individuo investito di uni­ versalità o valore) mediante l’unione originaria — cioè dogma­ tica, immediata, gratuita — dell’individuo o particolare con l’uni­ versale (ch’è Dio), onde è detto, infatti, che è « per amor di Dio », del padre comune, che si ama il prossimo, i fratelli (come noi stessi), che ci si unisce con essi; è insomma una società di persone pre-costituite come tali al loro congregarsi o associarsi: una società ch’è cosa secondaria, posteriore; primaria essendo soltanto, si è detto, la persona. Si comprende però tutta l’estensione del signi­ ficato di ciò che si è riferito sopra: come il valore o dignità (pro­ cedente dall’esser investito dell’universale) dell’individuo, il suo esser persona insomma, sia assolutamente indipendente da ogni utilità dell’individuo per la società in genere (e per quella politica in specie) ; si comprende che « il primo principio dell’etica cristiana e della politica cristiana dev’essere il rispetto per ogni persona semplicemente come tale» (p. 45). Vien subito fatto di chiedersi come questo individualismo (cristiano) possa piegarsi a risolvere il problema dell’* ordine sociale », possa insomma conciliarsi non estrinsecamente, non 15

ecletticamente, col socialismo. Vien da chiedersi se la santità della persona dell’operaio, nello specifico significato sopra assunto, sia sufficiente a motivare l’emancipazione delle masse degli operai e lavoratori in genere.

3. Ma non anticipiamo. Dobbiamo prima vedere se l’indivi­ dualismo cristiano, ora esaminato in una sua formulazione schiet­ tamente confessionale, mantenga le sue caratteristiche essenziali, e la relativa carenza sospettata, in altre sue formulazioni, dottri­ nalmente raffinate, cioè razionali o filosofiche. Passiamo perciò dal teismo cristiano positivo, chiesastico, al teismo razionale, filo­ sofico, al cristianesimo « secondo ragione ». Vediamo, dunque, la formulazione individualistica di Tom Paine, filosofo politico « illuminato », fondatore, non meno di Franklin, e di Jefferson, della civiltà americana che sta dietro le quattro libertà, e uno dei padri della cultura politica anglo­ sassone in genere (a lui si appella ancora Harold Laski nel libro citato). Il cristianesimo laicizzato, « ragionevole », ch’è alla base del suo pensiero politico, si esprime cosi (nell’&à della ragione)-. « Io credo in un Dio, e niente più; e spero in una felicità oltre la vita. Credo all’eguaglianza umana; e che i doveri religiosi con­ sistano nell’operar giusto, nella pietà e nello sforzarsi di render felici le creature nostre compagne [...]. Non credo nei credi professati dalla Chiesa ebraica, dalla romana, dalla greca, dalla turca, dalla protestante, né da qualsiasi altra ch’io conosca. La mia mente è la mia Chiesa ». E poiché « l’Onnipotente ha impresso in ciascuno di noi questi inestinguibili sentimenti [del bene] », che « sono come i custodi della sua immagine nei nostri cuori », e « ci distinguono dal gregge dei comuni animali », la dignità o valore, che così deriva ad ogni individuo umano e lo costituisce persona fin dal suo nascere, si esprime nei « diritti naturali » (libertà etc.) innati o impressi apriori in ogni umano individuo come tale. E propriamente nel senso che « alla nascita di ogni individuo appaiono nuovi diritti che nessun precedente patto [sociale] può giustamente limitare o annullare »; donde la ne­ cessità di una « continua riaffermazione » del « patto sociale », cioè del patto per cui si istituisce la società politica e il relativo governo intesi alla tutela dei naturali diritti. E, del resto, il governo politico è — logicamente — un « male necessario »■' e, «come i nostri vestiti, segno di innocenza perduta» (senso 16

comune) ; logicamente, perché il carattere aprioristico-astratto, pre­ istorico, dei valori, e relative pretese o diritti dell’individuo, sva­ luta pregiudizialmente, a tutti i fini, la società politica, ente storico, empirico, e però artificiale, non « naturale ». Cosi la conclusione del laico e « illuminista » Paine, asse­ rente l’importanza secondaria e subordinata della società politica nei confronti della persona, coincide sostanzialmente con quella dell’arcivescovo Tempie circa la primarie tà della persona; e in­ somma l’individualismo cristiano mantiene, anche tradotto in ter­ mini razionali e filosofici (sia pur correnti, come quelli usati dal filosofo-libellista americano), il suo significato essenziale: e però svela vieppiù la sua incapacità fondamentale a risolvere quel problema di un « ordine sociale » ch’è un’istanza ulteriore e piu alta che non il problema di un ordine politico meramente (fino alla soluzione del quale soltanto esso può giungere, come meglio vedremo studiando le basi russoiane cristiane della « democrazia moderna»). Sta di fatto che il problema di un ordine sociale, significando il problema di una società degna del nome, di una società sociale o società verace e non apparente, resta compietamente estraneo a chi muova dal principio della mera primarietà della persona rispetto alla società in genere. E vien da chiedersi come anche le quattro libertà americane -— che hanno alla base la formulazione individualistica cristiana di Paine e altre simili — possano essere, da un punto di vista ideologico, qualcosa di piu di un eclettismo, di un compromesso fra individualismo e socialismo. 4. Ma, salendo ancora un gradino, veniamo a Rousseau, al massimo patriarca spirituale della « democrazia moderna ». « C’è nel fondo delle nostre anime — Rousseau ci dice, prima di Paine — un principio innato di giustizia e di virtu [...] cui io dò il nome di coscienza »: cioè i « doveri » e l’« eterna » giustizia «che me li impone» (Emilio, IV). Specificamente la coscienza morale consiste nel « sentimento dell’umanità » o amore umanitario: « l’amore degli uomini derivato dall’amor di sé è il principio della giustizia umana », cioè « è dal sistema morale formato da questo doppio rapporto a se stesso e ai propri simili che nasce l’impulso della coscienza », che « rende l’uomo simile a Dio » (ivi). La spiegazione di questo doppio rapporto ch’è la coscienza 17

sta in ciò: che, poiché « l’amore per VAutore del proprio essere [...] si confonde con questo medesimo amore di sé » (ivi), l’amor di sé e l’amor dei propri simili coincidono, si confondono, a loro volta; questo doppio rapporto scaturendo, infatti, dal fon­ damentale rapporto di unione (amore) di ciascuno di noi, di noi stessi e degli altri, con Dio, con Vuniversale sotto specie di comune principio trascendente, onde si precisa il detto: ch’è per amor di Dio che si deve amare il prossimo, cioè il simile, come se stesso. Nulla di meno (ma anche nulla di più) che un egotismo, diremo, religioso, e in tal senso morale, ci si presenta, dunque, nella dichiarazione russoiana: che « quando la forza di un’anima espansiva mi identifica col mio simile, e io mi sento per cosi dire in lui, è per non soffrire ch’io non voglio ch’egli soffra, e io m’interesso a lui per amor di me stesso » (ivi). Appunto per ciò — per questo egotismo sui generis, in cui si articola la persona, o individuo-valore, in quanto persona ori­ ginaria, ossia apriori nel senso di pre-sociale o pre-istorica, essendo essa unità (dogmatica, gratuita) dell’individuo o particolare con un universale assolutamente trascendente la storia (Dio) — si com­ prende come Rousseau possa dire addirittura che « la più grande idea ch’io mi posso fare della Provvidenza è che ogni essere materiale sia disposto il meglio ch’è possibile in rapporto al tutto, e ogni essere intelligente e sensibile il meglio ch’è possibile in rapporto a se stesso » (lett. a Voltaire, 18-8-1756); e che « io vi apprendo da Dio [de la part de Dieu] » che « è la parte ch’è maggiore del tutto » (Emilio, IV); possa cioè accettare pienamente il paradosso ch’è alla base dell’individualismo cristiano: cioè che per l’individuo umano non vale la legge del rapporto del singolo al tutto. (Si confronti la « primarietà » della persona nella dichia­ razione confessionale di cui sopra e anche la seguente affermazione del mistico esistenzialista Kierkegaard: « il genere umano ha la proprietà, precisamente perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che il ” singolo ” è piu alto del ” genere ” »; cui si con­ trapponga la definizione marxiana dell’individuo umano come « ente generico determinato ».) Cosi si comprende il significato vero, integrale, delle for­ mule famose del « ritorno alla natura » e dell*« uomo della natura »: cioè il fondo aprioristico, platonico-cristiano, e roman­ tico, dell’individualismo del Rousseau che dice per bocca del vi­ cario savoiardo: «Troppo spesso la ragione ci inganna [...]: ma la coscienza [ = sentimento innato dell’amor di sé ch’è amor del 18

prossimo, di cui sopra] non c’inganna mai: chi la segue obbedisce alla natura [...]. Rientriamo in noi stessi, mio giovane amico » 1 (Emilio, IV); del Rousseau che, all’affacciarsi del problema della società politica, avverte che « tutto consiste a non guastare l’uomo della natura nell’appropriarlo alla società » (La nuova Eloisa, N, 8); e che accusa il legislatore del comuniSmo spartano cosi: « Li­ curgo l’ha snaturato [il cuore dell’uomo] » (Emilio, I). Ma, a questo punto, si comprende anche la difficoltà immensa creata al Rousseau filosofo politico dalle sue stesse premesse generali, metafisiche ed etiche; dall’assioma dogmatico deLLuomo della natura, dell’individuo libero e indipendente per l’impulso originario della sua coscienza, cioè del suo egotismo religioso-, e dal corollario immancabile: che, nel farsi sociale-politico, l’uomo della natura salvi la sua integrità. Ciò è manifesto non solo nella famosa formula del « pro­ blema fondamentale » di cui il « contratto sociale » dovrebbe esser la soluzione, formula in cui si enuncia l’esigenza di « trovar una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato [cioè tuteli il diritto di proprietà e gli altri connessi diritti « naturali » ossia le pretese private della persona originaria, presociale, ch’è l’uomo della na­ tura], e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca pertanto che a se stesso e resti libero come prima » (Contr. soc., I, 6); ma altresì, e soprattutto, nelle ulteriori gravi considerazioni (già avvertite dal primo critico serio del R., Marx): che «colui 1 L’ammonimento « rentrons en nous mèmes » esprime precisamente la plato­ nico-cristiana autocoscienza, condizione fondamentale dell'egotismo religioso di cui sopra. Cfr., per Platone, Il sofista (263e), dove è detto che la verità (e ogni valore in genere) nasce dal « dialogo interiore e silenzioso dell’anima seco stessa » (in quanto « reminiscente », s’intende). Cfr., per sant’Agostino, il monito (sempre ripetuto dagli idealisti) dell’« in teipsum redi », in De vera religione, c. 39: « Non uscire da te, torna in te stesso, nèll’uomo interiore abita la verità; e, se trovi mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso, cioè trascendi il ragionamento e tendi là donde s’accende il lume stesso della tua ragione », cioè alla verità divina (riflessa nello abditum mentis o « piu profonda » memoria dell’anima, memoria intellettuale). E cfr. anche san Paolo, 2 Cor., 4, 16: « licet is, qui foris est, noster homo corrumpatur: tamen is, qui intus est, renovatur de die in diem ». — Non solo Rousseau, ma. anche Voltaire, l’altro genio della rivoluzione borghese, fa ap­ pello all'« interiorità » (astratta); tradizionale: « Et pour nous élever, descendons dans nous-mèmes! » (cit., senza riferimento alla fonte, in H. S. Chamberlain, Die Grundlagen des Neunzehnten Jahrunderts, 1941 I, pp. 1124-5). — Per la docu­ mentazione storica la più completa su R., vedi il bel libro del russoiano Hendel: Jean-Jacques Rousseau moralisti London - New York, 1934, spec. I, pp. 143 sgg., Il, pp. 100 sgg. — Per una critica compiuta della filosofia morale e politica di R., rimandiamo alla prima patte della nostra Teoria marxista dell’emancipazione umana, Messina, 1945.

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ch’osa intraprendere l’istituzione di un popolo [o Stato] deve sentirsi in grado di cangiare, per cosi dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che, per se stesso, è un tutto perfetto e solitario, in parte di un tutto piu grande, dal quale questo individuo riceva, in certo qual modo, la sua vita e il suo essere », e che « bisogna, in una parola, ch’egli tolga all’uomo forze che gli son proprie per dargliene altre che gli sono straniere » (II, 7). Nelle quali ultime considerazioni in particolare (in cui Marx vedeva disegnato l’« uomo politico » russoiano come « soltanto l’uomo astratto, artificiale ») si ha l’avvertimento, almeno impli­ cito, da parte del Rousseau stesso, della situazione in cui egli è venuto a mettersi volendo costruire la società — ossia unità — politica con elementi cosi refrattari come gli « imprescrittibili » diritti originari, presociali, dell’uomo della natura. Situazione nota, se non altro, attraverso quello che fu detto il dissidio delle due anime di R., la repubblicana o « romana » e la cristiana, la « patriottica » o civile e l’« umanitaria » (« il patriottismo e la umanità son due virtu incompatibili », egli ammise in fine); e che qui si esprime profondamente nell’avvertita difficoltà inerente all’istituzione dello Stato: si tratta di cangiare la natura umana, cioè l’uomo della natura, si tratta di trasformare ogni individuo che per sé è un tutto perfetto e solitario — perché è la parte ch’è maggiore del tutto secondo il paradosso cristiano — in parte di un piu grande tutto... Ma questo cangiare — ammesso che sia possibile — non minaccia di esser quel guastar l’uomo della natura nell’appropriarlo alla società (nel trasformarlo, come ora, oeNartificiale cittadino), che Rousseau intende, si è visto, scon­ giurare ad ogni costo, esorcizzando persino lo spettro di Licurgo? (E come non scongiurare, anche, da tale punto di vista, l’accen­ tramento statale sotto specie di quello che fu detto l’assolutismo repubblicano, con relativa « religione civile », cui l’anima « ro­ mana » dì R. indulse in talune pagine del Contratto'}') Certo, la soluzione di tale difficoltà mediante la clausola del « contratto », clausola dell’« alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità », per cui « ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno » {Contr. soc., I, 6), valse storicamente a realizzare l’eguaglianza umanitaria cioè cristiana sul terreno del diritto « civile » o politico, con la sostituzione delle « leggi », come « espressione della volontà generale » sca­ turita dal « contratto », alle « ordinanze », « lettere patenti » e «editti regi»: l’eguaglianza politica compiuta dalla rivoluzione 20

francese. Onde si ebbe l’emancipazione — politica — dell’uomo « comune ». Ma è pur vero che, avendo la « volontà generale », o « io comune », costituente il nuovo « corpo politico », il suo fonda­ mento ultimo nella « coscienza » come « sentimento deU’umanità » o amore umanitario, ed essendo quest’ultimo nient’altro che qùelYegotismo religioso di cui sopra, in cui si risolve l’individualismo cristiano, bisogna concludere che l’eguaglianza istituita da e per un tale corpo politico non può essere che quel tipo di eguaglianzadiseguaglianza che quell ’egotismo permette. Cioè: l’eguaglianzadiseguaglianza che risulta dal concepire Y eguaglianza in funzione della libertà {— persona), ma non anche viceversa. Non anche viceversa, appunto perché la persona, con cui la libertà coincide, è quell’individuo astratto, solitario, presociale, ch’è la persona « primaria » rispetto alla società, la persona cristiana, principio e fine di quell’egotismo ch’è Y amore umanitario (estrema laiciz­ zazione della caritas precisamente). Di conseguenza, un’eguaglianza come la descritta può esser tutt’al più un’eguaglianza estrinseca, formale, giuridica, in quanto eguaglianza di individui astratti, ossia naturalmente, essenzial­ mente, soltanto liberi o indipendenti: un’eguaglianza appunto come quella politica, stabilita, e stabilitale sempre, per contratto di ciascuno con tutti e di tutti con ciascuno-, non mai un’egua­ glianza sostanziale, come quella sociale: che non poten­ dosi avere società vera per via di contratto — se quest’ultimo presuppone, per definizione, la molteplicità dei liberi individui contraenti, cioè delle persone, ognuna delle quali è tale, ossia è individuo investito Acid’universale (o valore), prima e indipen­ dentemente dalla società a venire — non può aversi nemmeno eguaglianza sociale, cioè inerente alla natura del convivere, e però nemmeno espressione perfetta di eguaglianza, o eguaglianza sostan­ ziale, intrinseca, se l’eguaglianza è essenzialmente rapporto, sino­ nimo di co-esistenza in genere. Bensì si potrà avere soltanto un’eguaglianza assai imperfetta, l’eguaglianza conseguibile in una società imperfetta come quella ch’è società avventizia, non veramente umana ossia richiesta ari­ stotelicamente dalla natura dell’individuo umano: l’eguaglianza, appunto, di fronte al potere sorto dal patto sociale, di fronte alla «legge», l’eguaglianza politica. Perché questa sarà come tale nient’altro che la traduzione « legale » delle pretese o diritti « na­ turali », cioè presociali, dell’« uomo della natura » cristiano-mo­

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derno o russoiano: la legittimazione, insomma, della libertà o indipendenza originaria, astratta, della persona cristiana: l’egua­ glianza appunto in funzione della libertà e non anche viceversa. Da ciò quello squilibrio, di eguaglianza, o giustizia, e libertà, che caratterizza la società politica russoiana, la « democrazia moderna ». Onde, a Rousseau, che intese di emancipare il « peuple » emancipando quel « roturier » o plebeo in cui egli vedeva parti­ colarmente incarnato il suo tipo di « uomo » (semplice, comune), cioè l’artigiano, il piccolo coltivatore etc., il medio o piccolo bor­ ghese insomma, accadde, con ciò, di porre le premesse per l’eman­ cipazione non di tutto il popolo, ossia del popolo semplicemente, ma solo della borghesia, di tutta la borghesia, la grande come la piccola: di una classe soltanto; in base appunto (dall’angolo visivo ideologico) alla sua fondamentale concezione dell’individuo umano come individuo-valore, o persona, in quanto quell’uomo della natura, di cui l’assolutezza o indipendenza, la libertà (donde la libera iniziativa etcetera), è il carattere essenziale: in quanto, in concreto, uomo comune-borghese. S’intende già come dovesse restar fuori di questo quadro ideale (e reale) il proletario, cioè l’uomo comune in quanto speci­ ficamente lavoratore e come tale uomo di massa ossia uomo sociale per definizione, dato il manifestarsi per esso, in guisa eminente, della natura organica e organizzata del lavoro, come meglio si vedrà. Al proletario o lavoratore è, cosi, concesso di far parte del « popolo » — cioè di coloro che hanno piena capacità « giuri­ dica », e però una personalità — soltanto « salendo » (alla con­ dizione borghese), divenendo « libero », « indipendente »: dive­ nendo, ad es., industriale, grande o piccolo, e con ciò realmente soggetto di « diritto », in quanto capace dell’aro effettivo di quei diritti « naturali », o pretese private miticamente inerenti apriori all’individuo come tale, di cui soltanto può tener conto lo Stato democratico-borghese, perché soltanto nella legittimazione di essi è la sua ragion d’essere come Stato. Cade a proposito anche qui — in sede di analisi scientifica delle condizioni ideologico-motdll. della coscienza borghese — l’ironia di Marx (nell’ideologia tedesca, III, prima che nel Mani­ festo} controlla volgare ideologia, economico-morale, della stessa coscienza borghese: che il borghese non crede che sia possibile avere personalità, essere persona, se non in quanto si sia borghesi. 22

(E, aprendo una parentesi, osserviamo che l’odierna situazione sembra consistere propriamente in una crisi dell’uomo comune, cioè crisi di sviluppo dall’uomo comune-borghese all’uomo comune­ lavoratore; e che a risolverla non basta una riaffermazione del­ l’uomo comune tradizionale come si va facendo da tante parti, anche da parte socialista; benché sia comprensibile il motivo di tale riaffermazione: l’elementare profilassi contro il ripetersi even­ tuale di dittature reazionarie a fondo razzistico.) Quindi, per riassumer tutto: libertà del lavoro (il « laissez faire »), intesa come un dato apriori, ossia uno dei « diritti » innati all’individuo: come uno degli attributi di quella sostanza ch’è la persona originaria o cristiana; ma non libertà nel lavoro, se questa significhi, come ha da significare, libertà non meramente politica, ma sociale, in quanto riconoscimento della moderna ten­ denza del lavoro ad attuarsi vieppiù nella sua essenza, ch’è l’orga­ nicità e però la socialità (e storicità), come vedremo. Tali gli insuperabili limiti ideologici della « democrazia mo­ derna », russoiana: limiti che si riassumono tutti nell’essere essa una democrazia meramente politica perché libertaria: limiti che hanno la loro ragione specificamente nel principio cristiano — teo­ logico — della primarietà della persona, come ormai par chiaro.

5. La precedente analisi critica del concetto tradizionale di persona (e libertà) ci obbliga a concludere: 1. che al comune concetto della persona cristiana si riduce, nella sostanza, il con­ cetto tradizionale, « democratico », di personalità (e libertà), quale ne sia la formulazione, confessionale o laica, « dogmatica » o « filosofica » (gli sviluppi di Rousseau nell’apriorismo di tipo razionalistico, non romantico, dei Kant e Hegel, li esamineremo altrove); 2. che proprio tale concetto figura già alla base delle formule più correnti di « sintesi » di individualismo e socialismo, ossia del liberalsocialismo, ad es., delle quattro libertà americane; e che ciò è sufficiente per ritenere tali formule come equivoche combinazioni eclettiche e compromessi, a condizione, s’intende, di poter prima dimostrare che il socialismo ha, còme pare, una sua problematica filosofica e morale, e che, se esso è da con­ siderare, come non è dubbio, uno sviluppo del liberalismo, ne è tuttavia veramente non uno sviluppo graduale e riformistico, ma rivoluzionario e però è ideologicamente, con la sua nuova pro­ blematica, una frattura storica. 23

Resta ora da. esaminare, per poter svolgere compiutamente il secondo punto di cui sopra: a) il concetto di persona (e libertà) condiviso dai cosiddetti « revisori » del marxismo o socialismo scientifico, e dagli odierni sedicenti « rinnovatori » di esso: i teorici consapevoli del « liberalsocialismo »; b) il concetto della persona (e libertà) ch’ebbe Marx, in specie il Marx ex professo filosofo e moralista, e i problemi di un’etica rivoluzionaria che eventualmente ne derivino.

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II. La « persona cristiana » nell’ideologia dei « revisori » del marxismo; ossia revisione dei revisori

1. Abbiamo visto, nell’indagine storico-ideologica prece­ dente, che il concetto tradizionale, democratico-liberale, della per­ sonalità e libertà umana si riduce al concetto di persona originaria o « cristiana » (nella sua fondamentale formulazione russoiana). Resta ora da vedere come si ritrovi tale concetto nei cosiddetti revisori del marxismo, tutti solleciti, perciò, a tentar di mostrare uno sviluppo ideologico lineare, senza scosse, di Rousseau in Marx, malgrado espliciti avvertimenti in contrario di Marx stesso; e tutti destinati a trarre, da tali premesse ideologiche di un liberalismo non « rivoluzionato », le conclusioni — pratiche — di un socialismo « riformistico ». Eduard Bernstein, il primo a mettersi per questa via, riduce il problema filosofico-morale rappresentato dal socialismo al pro­ blema della personalità e libertà umana; ma pone quest’ultimo nei seguenti termini puramente tradizionali: « Lo sviluppo e la garanzia della libera personalità è lo scopo di tutte le misure socialiste, anche di quelle che sembrano esser misure coercitive. Approfondendole si vedrà che si tratta sempre di una coercizione che aumenterà la somma di libertà nella società, e che darà piu libertà in una sfera più larga di quella che prende. La giornata di massimo lavoro legale, ad esempio, è, di fatto, una legge di un minimo di libertà, un divieto di vendere la propria libertà oltre un certo numero di ore al giorno, e, per principio, questo divieto appartiene alla stessa sfera dell’interdizione, approvata da tutti i liberali, di alienarsi in definitiva schiavitù » (Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aujgaben der Sozialdemokratie, Stuttgart, 1902, pp. 129-30). Bernstein è convinto che l’aver, il liberalismo, assunto da 25

principio la fisionomia di ùn « liberalismo borghese » non impe­ disce eh’esso esprima effettivamente un « principio sociale gene­ rale molto più largo », il cui termine sarà il « socialismo » (p. 132). Questo è da considerarsi un « liberalismo organizzatore » in quanto le organizzazioni da esso volute, principalmente i sindacati pro­ fessionali, pei quali l’individuo si libera da tutte le costrizioni economiche « nei suoi movimenti e nella scelta della professione », sono caratterizzate, nei confronti delle istituzioni feudali esterior­ mente simili, precisamente dal loro liberalismo, dalla loro « costi­ tuzione democratica », dalla loro « accessibilità » (ivi). Cosi, « se lo Stato, da un lato, elimina tutti gli impedimenti legali all’organizzazione dei produttori e accorda alle federazioni pro­ fessionali, sotto determinate condizioni che prevengano il loro degenerare in corporazioni monopolistiche, alcuni pieni poteri riguardo il controllo dell’industria, in modo che sian date tutte le garanzie contro la diminuzione dei salari e il sopralavoro, e se, d’altra parte, mediante le suindicate istituzioni si provvede a che nessuno sia costretto dall’estrema necessità a vendere il suo lavoro a condizioni indegne, allora può esser indifferente alla società che accanto alle industrie pubbliche e cooperative ci siano altre imprese esercite da privati per il loro guadagno. Queste stesse assumeranno da sé, col tempo, carattere cooperativo » (p. 133). Le istituzioni in questione sono proprio le « condizioni indispensabili di ciò che chiamiamo socializzazione della produ­ zione », che « senza di esse la cosiddetta appropriazione sociale dei mezzi di produzione avrebbe presumibilmente come risultato soltanto una smisurata distruzione delle forze produttive, esperi­ menti insensati e violenze senza scopo, e il governo politico della classe operaia non potrebbe, di fatto, realizzarsi che nella forma di un potere centrale dittatoriale e rivoluzionario » (p. 134). Il « socialliberalismo » del. Bernstein (vedi il suo Zur Frage: Sozialliberalismus oder Kollektivismus?, Berlin, 1900) lo conduce, così, al rifiuto delle conclusioni del Manifesto e dell’ultimo capi­ tolo del I libro del Capitale (sulla tendenza storica dell’accumu­ lazione capitalistica); rifiuto noto per lo slogan: « lo scopo finale del socialismo è nulla, il movimento è tutto » (Die V oraussetzungen, p. 169). Bernstein è convinto che « là dove la legislazione, la metodica e consapevole azione della società, interviene adegua­ tamente, il dominio delle tendenze dell’evoluzione economica [cioè della « tendenza di sviluppo inerente all’accumulazione capi­ talistica » ] può esser ostacolato e in certi casi persino soppresso » 26

(p. 176): e che con ciò sono evitabili la «conflagrazione degli antagonismi » e il « rovescio catastrofico », questi residui « utopi­ stici » del marxismo, riconducibili allo « schema » dialettico, filo­ sofico, « preordinata » tesi « speculativa » del materialismo sto­ rico, da cui sarebbe soffocata la ricerca « scientifica », economica (pp. 176-8). E, se Bernstein comprende e ammette che l’esito della lotta del proletariato (anche per una « democrazia econo­ mica ») « non dipende » dalla concentrazione del capitale nelle mani di un numero decrescente (Marx) o crescente (B.) che sia, ciò egli ammette per soggiungere che quell’esito «non dipende nemmeno dall’intero edificio dialettico, cui quel dettaglio appar­ tiene », e che bensì dipende « dall’aumento della ricchezza sociale, e cioè delle, forze produttive sociali, insieme al generale progresso sociale e, in specie, alla maturità intellettuale e morale della stessa classe operaia » (p. 179). Parole, specie quelle riferentisi all’auspi­ cata maturità morale della classe operaia, che ricevono il loro pieno senso a p. 187, dalla conclusiva deplorazione del « disprezzo dell’ideale », dell’« esaltazione dei fattori materiali », di cui sareb­ bero colpevoli i marxisti « materialisti » (« io — egli dice — non subordino la vittoria del socialismo alla sua immanente neces­ sità economica »), e infine dal suo appello, per una « morale superiore », all’idealismo del Kant dell’imperativo categorico (vedi di B.: Das realistische und das ideologische ÌAoment im Sozialismus, in Neae Zeit, 1894). Questo il cant bernsteiniano, la sua retorica moralistica, la sua pia formula: lo spiritualismo idealistico contro il mate­ rialismo storico; ben lontano, egli che invoca « Kant contro il cant » dei dialettici marxisti, dal pensare che gli si possa ritorcere che al cant rappresentato, invece, proprio da Kant stesso, come dal maestro di questi Rousseau, e da tutto il moralismo tradi­ zionale, non c’è che da opporre Marx; non per imitare Bernstein nella sua fantasiosa polemica, ma per rispetto alla realtà stessa delle cose. Vediamo dunque, per concludere, la natura retorica delle basi filosofiche del socialliberalismo bernsteiniano, e, altresì, un esempio significante dell’influenza — negativa — di essa sulla comprensione, da parte di B., della economia e della filosofia marxiana. In quanto al primo punto, Bernstein, premesso che la demo­ crazia non è che la forma politica del liberalismo, si appella a Rousseau che « nel suo Contratto sociale [cui s’ispira lo Stato di

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diritto kantiano] pose a base di tutte le costituzioni quei principi della sovranità popolare che la rivoluzione francese proclamò — in quella costituzione democratica del 1793 tutta pervasa dello spirito di Rousseau — come imprescrittibili diritti dell’uomo »; e afferma infine che « anche uno sguardo fugace al contenuto della costi­ tuzione del 1793, espressione conseguente delle idee liberali del­ l’epoca, mostra quanto poco essa era o è di ostacolo al socialismo », che anzi « di fatto non c’è un’idea liberale che non appartenga anche all’ideologia socialista » (Dìe Voraussetzungen, p. 130) *. Ma, sfortunatamente per B., che mostra qui di tenere tenacemente al dogma speculativo degli imprescrittibili diritti « naturali », e però alla persona originaria cui ineriscono (vedi sopra, c. I), Marx lo aveva già irreparabilmente confutato avanti lettera nella Que­ stione ebraica (1844), osservando che « i diritti dell’uomo distinti dai diritti del cittadino » — cioè proprio i diritti « naturali » •— « non sono che i diritti dell’uomo membro della società borghese, cioè dell’uomo egoista », dell’uomo « ristretto nel suo particolare interesse e nel suo arbitrio particolare, separato dalla comunità »; e che «la costituzione la piu radicale, quella del 1793, ha un bel dire: art. 2: ces droits [i diritti naturali e imprescrittibili] sont: l’égalité, la liberté, la sureté, la propriété »: che nell’art. 6 sulla libertà (come « pouvoir qui appartieni à l’homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d’autrui ») « si tratta della libertà dell’uomo come monade », nell’art. 8 sulla sicurezza (come « protection accordée par la société à chacun de ses membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et de ses propriétés ») si vede come « la società borghese non si eleva sopra il suo egoismo », ma che « la sicurezza è piuttosto l’assicu­ razione del suo egoismo »; e cosi via. E, in quanto al secondo punto, non c’è dubbio che il rifiuto da parte di Bernstein della rivoluzionaria « espropriazione di pochi ùsurpatori a opera della massa del popolo » (di cui al c. cit. del 1 Karl Kautsky, nella sua « Antikritik » intitolata Bernstein und das sozialdemokratische Programmi, Stuttgart, 1899, p. 173, ebbe buon giuoco a contro­ battere in proposito: « [...] Aber auch der Liberalistnus in seiner reinsten Gestalt, das Ideal der Mehrzahl der Denker der Aufklàrungsphilosophie, ist in seinem sozialen Inhalt nichts weniger als sozialistisch, weder direkt noch nur indirekt, in seinen Konsequenzen [...]. Der ganzen Argumentation Bernsteins liegt bier das. Zusammenwerfen von Demokratie und dkonomischem Liberalistnus zu Grunde ». Salvo poi a esaltare senza riserve, secondo il suo solito, il « contenuto politico » del liberalismo e concludere che « Anders steht es freilich mit dem politischen Inhalt des Liberalistnus, der Demokratie. Die muss der Sozialismus selbstverstandlich acceptiren » etc.

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Capitale, I) è condizionato — ideologicamente — dalla sua incom­ prensione del motivo fondamentale di quella espropriazione, addi­ tato, anche ivi, da Marx, in un fatto economico: il fatto per cui la proprietà privata capitalistica « è già fondata su un esercizio sociale della produzione »; e che tale incomprensione, del motivo basilare della rivoluzionaria « trasformazione della proprietà capi­ talistica [...] in proprietà sociale», è dipendente dai generali preconcetti tradizionali, russoiani, dalla retorica giusnaturalistica, in cui affoga ancora B., e a cui si riconnette l’ideologia economica borghese che lo acceca a tal punto. Il che è confermato da una pur rapida considerazione di certi essenziali avvertimenti di Marx all’inizio dell’introduzione alla Critica dell’economia politica (l), avvertimenti rimasti lettera morta per Bernstein (e non solo per lui): cioè che, se « gli individui producono nella società », com’è innegabile, il « punto di partenza » di ogni ricerca economica « è quindi la produzione socialmente determinata degli individui »; onde son da respingere, come Robinsonaden, come « povere fantasie del XVIII secolo », sia « l’isolato cacciatore o pescatore con cui cominciano Smith e Ricardo » sia « i soggetti indipendenti per natura » che « il Con­ tratto sociale di Rousseau pone in relazione »; e occorre, invece, richiamarsi aristotelicamente al principio: che « l’uomo è in senso letterale, uno zoon politikon » e che « è un animale che solo nella società può isolarsi » (pp. XIII-IV, ed. Kautsky, Stuttgart, 1907). Insomma, si può concludere che, ideologicamente, e cioè nella fattispecie filosoficamente, parlando, il cant giusnaturalistico, deri­ vante dall’egotismo religioso, russoiano (di cui sopra, I), impedì a Bernstein di avvertire la scoperta marxiana — scientifico-economica prima che filosofica — della socialità inerente essenzial­ mente al lavoro-, e lo fece deviare praticamente verso il riformismo del suo socialliberalismo. D’altra parte, aprendo una parentesi, si può rilevare, nei riguardi di Marx, che parla anche di « un’apparenza soltanto estetica delle robinsonate piccole e grandi » (op. cit., p. XIII), che queste esprimono pure un aspetto essenziale — il « diritto naturale » — dell’ideologia etica tradizionale, che non può esser scientificamente trascurato, come mostra di far qui e altrove il Marx, scientificamente occupato, a un certo punto almeno della sua attività, soprattutto dal problema economico e dalla conse­ guente riduzione di ogni problema storico alla storia dell’economia tout court (vedasi ancora, qui, l’asserzione semplicistica: che 29

« questo individuo del XVIII see. », l’uomo indipendente per natura, è puramente « il prodotto, da un lato, della dissoluzione delle forme economiche feudali, e, dall’altro, delle nuove forze produttive svoltesi fin dal XVI see. »); contro lo spirito profondo, vedremo, della sua filosofia, quale si manifesta nel concetto del « rovesciamento della prassi », che tende a salvaguardare, assieme all’unità del processo storico, la distinzione specifica dei momenti che lo compongono: la « natura » o particolarità, cioè le « con­ dizioni » economiche, e l’« uomo », l’universale, cioè la « sopra­ struttura » di cui fa parte ogni valore e ogni ideologia, e quindi anche, nella fattispecie, l’ideologia morale giusnaturalistica; e malgrado la stessa appassionata battaglia contro il diritto naturale da lui combattuta tutta la vita, evidentemente non verso dei puri fantasmi estetici o irrilevanti epifenomeni della realtà (economica).

2. Con Rodolfo Mondolfo la problematica revisionistica e riformistica aperta da Bernstein si allarga e diventa vieppiù istrut­ tiva, sia pur sempre in senso negativo. Esaminiamo la confuta­ zione mondolfiana della « antieticità del materialismo storico » e la connessa interpretazione della teoria del sopravalore come teoria economico-filosofica. Sgombrato il terreno della preliminare questione storico-eco­ nomica — della difficoltà, superiore alle loro categorie (non solo economiche), in cui si erano irretiti i ricardiani a proposito del plusvalore: difficoltà chiarita da Marx in questi termini: 1. che, mentre per il principio, accettato da Ricardo, dell’eguaglianza valore-lavoro, il valore di scambio d’una giornata di lavoro sarebbe eguale al suo prodotto, ossia il salario sarebbe eguale al suo pro­ dotto, di fatto era vero il contrario e si aveva, per comune con­ senso, un lavoro non pagato (plusvalore), 2. che tale plusvalore concerneva la merce effettivamente esistente all’atto del contratto fra capitalista e lavoratore, cioè non il prodotto del lavoro ma la « forza di lavoro », cui era applicabile l’eguaglianza valore-lavoro, misurandone il valore di scambio dalla quantità di « lavoro sociale cristallizzato » eh’essa contiene — Mondolfo affronta il problema fondamentale: di spiegare come e dove l’applicazione di tale valore tipo — valore-lavoro — al contratto di compravendita della forza di lavoro possa dar luogo al concetto di plusvalore o sopralavoro, nel senso di lavoro non pagato, di detrazione, di sfruttamento 30

etcetera (Il materialismo storico in Federico Engels, 1912, pp. 335 sgg.). Intanto, è indubbio che « il concetto del sopravalore, in quanto è concetto di una detrazione, non è concetto economico [dell’economia tradizionale, borghese] », ciò anche senza tener conto dell’osservazione del Croce: che sopra-valore, cioè extra­ valore, è in pura economia una parola priva di senso (p. 336). Già Marx e Engels avevano dichiarato che, se ci limitiamo a considerare la forza di lavoro come una merce, le leggi dello scambio delle merci hanno anche in questo caso un’applicazione pienamente legittima. Da questo angolo visuale, cioè nell’ambito del principio caratteristico, secondo Marx, dell’epoca capitalistica, per cui « la forza di lavoro prende per il lavoratore stesso la forma di una merce », Marx stesso, nel c. Ili, § 4, del Capitale, I, « combatte le tendenze vampiresche del capitalismo, ma ammette che l’uso della forza di lavoro appartenga al capitalista », ché « la natura speciale di questa merce, di cui qui parla il Marx, consiste soltanto in ciò, che essa richiede di non essere deteriorata con un consumo eccessivo; non in ciò, che neghi la legittimità di un sopravalore » (pp. 342-3 n.). E le « rivendicazioni » (dei lavoratori) « possono essere soltanto di miglioramenti di orario o di salario, non di abolizione del rapporto del salariato; possono riguardare la misura dello sfruttamento, non lo sfruttamento per se stesso, non l’esistenza del sopravalore » (pp. 342-3). E. Engels conferma, in Antidiihring, III, 4, che, « quando questa merce speciale [la forza di lavoro] viene sul mercato, il suo valore, come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla », e che il lavoratore, per poter affermare l’esistenza di un sopralavoro non pagato, di un sopravalore detratto, deve « avere un’idea dell’affare concluso affatto diversa » da quella del capitalista (Antidiihring, II, 7). Quale idea? Siamo di fronte, ci risponde Mondolfo, a due opposte concezioni: « se l’una parte dal concetto che la forza di lavoro sia una merce, l’altra non può muovere se non dalla ribellione contro quella che il Manifesto comunista chiama risoluzione della dignità personale in valore di scambio » (Il mat. stor., pp. 342-4). Dunque, « in quanto merce, il valore della forza di lavoro è naturalmente fissato, in base all’uguaglianza valore-lavoro, da quella che [...] il Lassalle disse eherne Lohngesetz [legge di bronzo del salario]; ma ogni protesta, ogni azione di classe, come ogni teoria di un sopravalore, di una detrazione e di uno sfrut31

lamento, suppongono un diverso principio, oltre l’uguaglianza valore-lavoro » (pp. 344-5). Il diverso principio, oltre l’eguaglianza valore-lavoro suppo­ sta da ogni teoria di un sopralavoro e sopravalore, è il « principio deWumanismo », formulato da Marx, contro la scuola storica, a proposito del proletariato che si appella a un titolo essenzialmente « umano » e non « storico »: principio che il Mondolfo deter­ mina come il principio della forza di lavoro « in quanto proprietà personale», non merce (pp. 335-45); richiamandosi precisamente al Locke che afferma (nei Two treatises on government, II, V, 44) che « l’uomo, essendo padrone di se stesso e proprietario della propria persona e delle proprie azioni e del proprio lavoro, trova già in sé la grande base della proprietà ». Cosi, prosegue il Mondolfo, il « concetto del sopravalore non riguarda soltanto il fatto della produzione o il rapporto dello scambio; si bene il rapporto della ripartizione dei prodotti e il fatto dell 'appropriazione »; e il M. si avvale della seguente cita­ zione di Engels (prefazione a Capitale e salario) : « questi valori prodotti dagli operai non appartengono agli operai [...], la classe lavoratrice non riceve che una parte della massa di prodotti ch’essa crea ». Cosi, mentre il rapporto dello scambio, da individuo a individuo, è rapporto di eguaglianza, « la diseguaglianza appare nei rapporti di ripartizione », che « non corrono piu fra gli indi­ vidui, ma fra le classi », giacché il plusvalore è un « fenomeno di classe » appartenendo alla società capitalistica in quanto divisa in classi, con differenze perciò di appropriazione (rendita, pro­ fitto, salario), donde le « differenze di ripartizione » (Il mat. stor., p. 346). E qui, « nel considerare il sopravalore come fenomeno di classe e la relativa rivendicazione come rivendicazione di classe e non individuale, è la differenza fra il comuniSmo critico marxengelsiano e quello giuridico, per es. del Proudhon ». Quest’ultimo (con cui Mondolfo teme, non a torto, di esser confuso allorché richiama il principio individualistico, lockiano, del lavoro) riven­ dica il « diritto al prodotto integrale del lavoro » per il lavoratore individuale; ma Marx, nella critica al programma di Gotha, e Engels, nella critica al prudoniano Miilberger, hanno mostrato che, non essendo la produzione industriale moderna un fatto individuale ma sociale, « il diritto al prodotto integrale del lavoro ha un significato soltanto quando lo s’intenda non per il. singolo lavoro, ma per la società intera dei lavoratori », onde la « ripar­ tizione » per il consumo fra gli individui può supporsi precisa­

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mente, in quésta marxistica « società di uomini liberi », in pro­ porzione alla somma di lavoro da ciascuno erogata (pp. 346-7). E appunto « per il confronto fra la ripartizione, che avverrebbe in una società di liberi lavoratori, e quella che si compie nella società divisa in classi, la classe dei salariati sente la sottrazione fatta al suo maximum edonistico, la coazione a produrre dosi sopramarginali di lavoro; afferma quindi la sua rivendicazione [...]. La rivendicazione di classe si sostituisce a quella individuale, in quanto alla considerazione del lavoro individuale è sostituita la nozione della natura sociale del lavoro: ma [...] con ciò noi ci trasportiamo dal terreno dello scambio a quello della ripartizione. Il concetto del sopravalore, quale fenomeno di classe, anzi che individuale, è, sì, come diceva il Croce, un concetto di differenza-, ma ottenuto per via del paragone non col concetto tipo del valore-lavoro (giustizia commutativa e rapporto di uguaglianza da individuo ad individuo); sì bene con la ripartizione dei prodotti sociali, quale avverrebbe in una comunistica società di uomini liberi (rapporto di proporzionalità e giustizia distributiva) » (pp. 347-8). Dunque, « quando si dice che il sopravalore è lavoro non pagato, l’affermazione ha un senso unicamente a patto di negare alla forza di lavoro il carattere di merce. E questo è precisamente l’angolo visuale del proletariato. La forza di lavoro è la proprietà dell’uomo in quanto persona soggetto di diritti-, contro la ridu­ zione della persona in valore di scambio, in merce, il prole­ tariato afferma il diritto dell’uomo sulla persona e sulla sua attività libera [Locke cit.]. Da questo diritto di proprietà sul proprio lavoro deriva, in un Verein freier Menschen, il diritto alla ripartizione dei prodotti in misura proporzionale all’attività spesa» (p. 350). Anzi, «a me pare — avverte Mondolfo — che il plusvalore sia concetto giuridico più che economico-, e presenti il doppio carattere di corrispondere non soltanto a una rivendicazione del maximum edonistico, ma (in quanto il danno che soffre la classe operaia si presenta come offesa, a un diritto naturale} anche a una rivendicazione universalistica di diritto » (p. 347 n.). Certo, questo « diritto dell’uomo sulla persona e sulla sua libera attività » è « il principio nuovo di diritto, che il proletariato riprende dalla Dichiarazione dei diritti e fa proprio, informando ad esso tutta la sua azione di classe. La personalità, diceva già il Manifesto dei comunisti, non è soltanto il borghese, la libertà non è soltanto quella del borghese: per rivendicare

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questi diritti inerenti alla personalità umana, il proletariato, diceva Marx, deve formare una sola testa e un solo cuore, e con una pressione di classe sollevare barriere di leggi (sulla giornata di lavoro, le condizioni igieniche, il salario etc.), che gli impedi­ scano di rendersi schiavo » (pp. 351-2). E qui Mondolfo cita Bernstein, per ricongiungersi con lui: « ogni azione di classe, che sembra diretta a limitare la libertà individuale, è in realtà diretta a conquistare la libertà della persona » (cfr. sopra). Ma non basta. Egli soggiunge tuttavia che « il celebre salto dal regno della necessità al regno della libertà, sul quale l’Engels ha tanto insistito, non significava soltanto cessazione delle crisi economiche e della anarchia della produzione. La conquista del dominio sulle forze cieche e distruttrici doveva essere condizione e mezzo del libero sviluppo della personalità» (p. 352). E termina facendo sue le conclusioni di Marx, nel Capitale, I, IV, 3, sulla sostituzione dell’individuo, nella totalità del suo sviluppo, all’individuo incompleto, organo d’una sola funzione particolare; e quelle di Engels che lo riecheggia Antidiihring, III, 3, criticando la divisione (manifatturiera) del lavoro, la mostruosità dello sminuzzamento dell’uomo in essa, e affermando che il lavoro ha da mutarsi da mezzo di asservimento dell’uomo in mezzo di affrancamento (pp. 352-3). Con ciò «par chiarita la questione dell’atteggiamento del Marx e dell’Engels di fronte alla morale » (p. 355 n.). Il difetto di questa interpretazione consiste: 1, nell’aver identificato l’umanismo, che dà un senso alla teoria del plus­ valore, nell’umanismo individualistico di Locke e dell’illuminismo in genere (da Locke alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo)-, 2. nell’immediata conseguenza che tale identificazione, dando luogo ad un’interpretazione giuridica del plusvalore, non tiene conto di quell’avvertimento critico essenziale di Marx, dal Mon­ dolfo pur dichiarato a lui presente, che dice che « su una valuta­ zione etica non può fondarsi una rivoluzione dei rapporti econo­ mici » (p. 348), cioè non può fondarsi socialismo scientifico; 3. nelle conclusioni pratiche di tali premesse speculative Umanisticoliberali: conclusioni che non possono non essere riformistiche, e come tali tolleranti accanto solo per eclettismo delle conclusioni rivoluzionarie e veramente socialistiche. In quanto al primo punto, è grave che al Mondolfo sia sfuggita l’importanza del seguente accenno di Marx, nel Capitale,. I, I, all’ideologia religiosa e filosofica di una società in cui il

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lavoro è una merce: «per una società di produttori di merci, dove il rapporto generale fra i produttori consiste nel trattare i loro prodotti come dei valori in quanto sono merci, e sotto questa loro apparenza di cose paragonare, gli uni con gli altri, i loro lavori privati a titolo di egual lavoro umano, il cristianesimo, col suo culto dell’«cwzo astratto, specialmente nelle sue forme bor­ ghesi, protestantismo, deismo etc., è la forma religiosa la piu adeguata ». Se il Mondolfo avesse tenuto presente questo profondo avvertimento circa la persona astratta, originaria, ch’è la persona cristiana, oggetto di culto morale non solo da parte del teismo cristiano positivo, chiesastico, ma anche da parte del teismo filo­ sofico e deismo in genere (vedi sopra, c. I), non avrebbe certo assunto il suo concetto della forza di lavoro dal deista Locke, e non sarebbe caduto nella difficoltà insuperabile di attingere una « ripartizione sociale » dei prodotti del lavoro, partendo dal lavoro privato ch’è il lavoro appunto come « proprietà della persona in quanto soggetto di diritti »: il lavoro da Locke inteso come « pro'prietà » di « uomini liberi e indipendenti per natura », che, solo per ulteriore « contratto », avente lo scopo di « preservare scam­ bievolmente la propria vita, la libertà personale e gli averi [« tali .diritti »] [...], si riuniscono in comunità politiche» (Two treat, on gov., cc. V, 44, Vili, 95, IX, 123-4). Da Locke che dice precisando (di seguito alla citazione del Mondolfo riferita più su): «E tutto ciò ch’egli [l’uomo] impiega di attività operante per procacciare conforto e sostegno alla propria esistenza [...] appartiene interamente a lui e non è già patrimonio comune di tutti » (V, 44). Appunto: se l’attività operante, la forza di lavoro, è origirnariamente del singolo come tale (la persona astratta, « natu­ rale »), essa, in quanto appartenga al membro di una società il cui fine è la tutela della persona astratta, naturale, essa, come il suo prodotto, rimarrà qualcosa di privato: e ciò non contro il diritto, ma in virtù del diritto, in quanto questo significa legit­ timazione dei « diritti di natura », ossia legalizzazione dell’uomo libero e indipendente per natura, della persona astratta, originaria. La prospettiva appare, dunque, capovolta. Nel concetto lockiano della forza di lavoro come proprietà della persona (astratta) è proprio la base — filosofica — della concezione economica bor­ ghese della forza di lavoro come qualcosa di privato, oggetto di 35

rapporto da individuo a individuo, oggetto di scambio, merce 1 Tutto l’opposto di ciò che pensa il Mondolfo. Al quale si presenta talvolta il concetto marxiano della natura sociale del lavoro (ad es., a p. 351, in nota!), ma lo perde di vista subito, distratto, anche lui, dalla retorica giusnaturalistica; e con esso perde la possibilità di superare davvero lo scambio, la divisione del lavoro e l’appropriazione capitalistica, e attingere l’appropria­ zione o ripartizione sociale, giusta. Così il concetto lockiano, giuridico, della persona gli impedisce di cogliere quel principio della socialità dell’uomo, o umanità della società, in cui consiste l’umanismo di Marx, il suo umanismo aristotelico: glielo impedisce proprio in quanto gli precludé il carattere « comune », sociale, dell’c attività operante », della forza di lavoro, e però della produzione-, senza cui non è possibile ripartizione sociale. Quel carattere è dal Mondolfo sottinteso come spiegabile con la comunanza di natura (umana) delle persone proprietarie della forza di lavoro; col loro genere, insomma; ma non si accorge (anche lui., come tanti altri, come tutti gli illuministi, e idealisti e spiritualisti) di assumere dogmaticamente — cioè senza mediazione o dimostrazione — l’unità del genere o uni­ versalecon l’individuo: donde la persona tradizionale come sostanza, ossia. l’universale come supporto immediato dell’indi­ viduo; donde Yegotismo giusnaturalistico — essenzialmente teo­ logico anch’esso (cfr. sopra, Rousseau) — del deista Locke, del primo grande interprete moderno del cristianesimo « secondo ragione », che lasciò appunto in eredità allo « scettico » antillumi1 È strano, o forse non lo è affatto, che al Mondolfo (e agli altri « revisori ») sia sfuggita anche la mordente caratterizzazione della sfera dello scambio come « vero Eden degli innati diritti dell’uomo », in Das Kapital, I, II (Hamburg, 1867, p. 140), che riportiamo integralmente: «Die Sphdre der Circulation oder des Waarenaustauschs, innerhalb deren Schranken Kauf und Verkauf der Arbeitskraft sich bewegt, war in der That ein wahres Eden der angebornen Menschenrechte. Was allein hier herrscht, ist Freiheit, Gleichheit, Eigenthum, und Bentham. Freiheit! denn Kaufcr und Verkiiufer einer Waare, z. B. der Arbeitskraft, sind nur durch ihren freien Willen bestimmt. Sie kontrahiren als freie, rechtlich ebenbiirtige — Personen. Der Kontrakt ist das freie Produkt, worin sich ihre Willen einen gemeinsamen Rechtsausdruck geben. Gleichheit\ denn sie beziehen sich nur als Waarenbesitzer aufeinander und tauschen Aequivalent fiir Aequivalent. Eigenthum*. denn jeder verfiigt nur uber das Seine. Bentham*. denn jedem von den beiden ist es nur um sich zu thun. Die Einzige Macht die sie zusammen und in ein Verhàltnis bringt, ist die ihres Eigennutzes, ihres Sondervortheils, ihrer Privatinteressen. Und eben weil so jeder nur fiir sich und keiner fiir den andern kehrt, vollbringen Alle, in Folge einer prastabilirten Harmonie der Dinge, oder unter den Auspicien einer AUpfiffigen Vorsehung, nur das Werk ihres Wechselseitigen Vortheils, des Gemeinnutzens, des Gesammtinteresses ». Cfr. nota seguente su Tugan-Baranovskij e altri « revisori ».

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nista Hume il compito da lui non assolto di investire criticamente anche la sostanza « spirituale », personale. In Marx, invece, vedremo, c’è lo sforzo dj mediare il genere e l’individuo, l’universale e il particolare, col lavoro, cioè con la socialità essenziale al lavoro, alla forza di lavoro. Umanismo con­ creto, socialista, di Marx, contro l’umanismo astratto, giusnatu­ ralistico e individualistico, « liberale ». Solo entro l’umanismo socialista il plusvalore ha un senso economico, e filosofico. Passando, infatti, al secondo punto, è ovvio che, come al Mondolfo non riesce, partendo dal lavoro come proprietà per­ sonale, di arrivare alla ripartizione sociale dei prodotti del lavoro, cosi non gli riesca, partendo dal lavoro, come,, « fondamento di un diritto » originario della persona, e però dal sopravalore e sopralavoro come « offesa a un diritto naturale », non gli riesca di giungere veramente a un concetto del sopravalore e sopralavoro come « un’ingiustizia di ripartizione » e « rivendicazione di classe »; e gli accada insomma di restare, suo malgrado, invi­ schiato in un compromesso fra socialismo giuridico fichtianoprudoniano (al Locke si riallaccia, Mondolfo lo ricorda, lo « Stato mercantile chiuso » di Fichte) e comuniSmo critico marx-engelsiano. Con ciò sfugge al Mondolfo l’originalità del fondamento della concezione etica marxiana: ch’è il fatto economico (fatto, in origine, non concetto'.) della socialità della produzione industriale moderna: donde il problema, scientifico-economico e politicomorale, di risolvere il contrasto di fatto fra le «forze» pro­ duttive — sociali — e i « rapporti » della proprietà privata, e dello scambio, dei prodotti. È però gli sfugge, per quanto cerchi di afferrarla, l’etica della massa che scaturisce da quel fatto: l’etica che aristotelicamente conclude alla socialità dell’uomo, ma in quanto parte dalla socialità del lavoro; e che soltanto in base a questo criterio può mostrare l’ingiustizia del sopravalore e sopra-, lavoro (procedenti dalle condizioni economiche e culturali dello scambio e diritto naturale etcetera), e dar luogo, essa soltanto, a rivendicazioni — rivoluzionarie — ^Telasse in quanto riven­ dicazionidi massa o 'sociali appunto: rivoluzione dell’etica perché dell’economia e viceversa (per quel rapporto di eterogenei ch’è la « revolutionàre Praxis », vedremo). In quanto al terzo e ultimo punto, era inevitabile che, nelle conclusioni pratiche, politiche, del Mondolfo, il disorientamento delle premesse teoriche, le incertezze e contraddizioni relative, 37

infine il compromesso fra Locke e Marx, fra illuminismo e mate­ rialismo storico, fra i principi della rivoluzione borghese (oltre che la Dichiarazione dei diritti egli richiama espressamente Rousseau per il problema dell’eguaglianza, a p. 332) e quelli della rivoluzione proletaria, si facessero sentire con l’accettazione indiscriminata sia del programma riformistico delle « barriere di leggi» (pp. 351-2), cioè di quelle rivendicazioni da lui stesso poco prima (p. 342) dichiarate, contro il Sorel, riguardanti sol­ tanto la misura dello sfruttamento, non questo per se stesso; sia del programma rivoluzionario del salto engelsiano e dell’istitu­ zione della marxistica società di uomini liberi, il cui presupposto è l’abolizione della divisione del lavoro. E s’intende che il pro­ gramma congeniale al Mondolfo è e non può non essere quello che scaturisce direttamente dalle prèmesse del suo positivismo illuministico: quello riformistico; l’altro, quello rivoluzionario, essendo conciliabile con esso solo ecletticamente. Questo il socialliberalismo o liberalsocialismo del Mondolfo: concezione che, come quelle del Bernstein e dei revisionisti in genere, rappresenta un tentativo di sviluppo o aggiornamento socialistico del liberalismo: cioè un tentativo — disperato — di risolvere dei problemi, quelli del socialismo scientifico, sorti in altra temperie storica da quella del liberalismo, e derivanti, in quanto problemi specificamente filosofici, dall’esigenza di reimpostare il fondamentale problema della personalità e libertà umana con metodo antilluministico e antiteologico in genere, proprio per poter risolvere quel nuovo problema storico dèlia libertà e dell’eguaglianza sociali, dal confronto col quale soltanto si svelano le insufficienze dell’umanismo tradizionale, ancor dogmatico e teologico, sia esso illuministico o romantico; onde in tale confronto dialettico-rivoluzionario consistono — soltanto — i rapporti storici possibili di liberalismo e socialismo, di umanismo individualista, di marca illuministica o romantico-idealistica che sia, e di umanismo socialista, critico-pratico. Certo, in quanto al tentativo del Mondolfo di conciliare posi­ tivismo illuministico e materialismo storico, esso, più di quello del Bernstein, ci istruisce, per la sua problematica più complessa e storicamente più nutrita, per il suo stesso eclettismo di conse­ guenza estremamente saliente, sulla seguente verità: che nel socia­ lismo scientifico ci si entra — ideologicamente •— solo mediante una filosofia adeguata, ch’è specificamente l’umanismo critico­

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pratico facente tutt’uno col materialismo storico1. Solo entro questa visuale sopravalore e sopralavoro hanno un senso, scientifico-economico e filosofico.

3. Passiamo, per concludere, al Croce e all’odierna scuola liberalsocialista, che dall’interpretazione crociana di Marx prende l’avvio. Vediamo, anzitutto, il significato preciso che assume, nel contesto, la nota affermazione crociana del nonsenso, in economia, del termine sopravalore. « È evidente — egli dice — che l’idealità o l’assolutezza della morale, nel senso filosofico di tali parole, sono presupposto necessario del socialismo. L’interesse, che ci muove a costruire un concetto del sopravalore, non è forse un interesse morale, o sociale che si voglia dire? In pura economia, si può parlare di sopravalore? Non vende il proletario la sua forza di lavoro proprio per quel che vale, data la sua situazione nella pre­ sente società? E, senza quel presupposto morale, come si spie1 Ai documenti di incomprensione radicale del marxismo, dovuta ad una inter­ pretazione giusnaturalistica della sua etica, aggiungiamo le seguenti conclusioni in proposito di Tugan-Baranovskij (raillé da Lenin) e Lindsay, tipici rappresentanti di quella serie di interpreti idealisti che, cominciata con "Bernstein, Stàrrimler, Cohen, Vp.rlandèr ètc., siallargafino à Cróce e Gentile, e non è ancor, chiusa. TuganBaranovskij: « Es fdas sóziàlistische Ideal] entspricht den Intéressen der'Arbeiterklassen — der grossen Mehrzahl der Bevólkerung — und ist zugleich als die fundamentalste Forderung des Naturrechts zu betrachten. ” Das angeborene Recht ist nur ein einziges ”, hat der grósste Denker der Neuzeit [Kant] gesagt, und ” Freiheit (Unabhiingigkeit von eines anderen nbtigender Willkiir), sofern sie mit jedes anderen Freiheit nach einem allgemeinen Gesetz zusammen bestehen kann, ist dieses einzige, urspriingliche, jedem Menschen kraft seiner Menschheit zustehende Recht ”, Der Kapitalismus vereitelt dieses urspriinglichste Menschenrecht; darum muss er einer besseren und gerechteren Gesellschaftsordnung Platz machen » (Tbearelische Grundlagen des Marxismus, Leipzig, Duncker und Humblot, 1905, pp. 238-9). Lindsay: «Although Marx’s teaching of the social nature of production supersedes the labour theory of value with his individualistic [sic] assumptions, the theory is nevertheless essential to Marx’s teaching. For in him also it is only the drive of the demand for justice to the individual which the theory embodies which enabled him to get behind the assumptions of the existing economic structure and see what an economic structure of society might be » (Karl Marx’s Kapital, London, Oxford University Press, 1925, p. 108). Si confronti la «demand for justice» del L. con la «generale legge etica» del Crocè (vedi sopra). L’errore identico, mono­ tono, livella tutti questi intèrpreti-revisori, gròssi e piccoli. E si capisce: è una voce sola, quella _ della tradizione, platonico-cristiana, col suo culto dell’ideale astratto, che rispónde all’istànza rivoluzionaria, realistica, di Marne: Che cosa poi significhi eticamente quell’ideale, che cosa si incorpori in esso moralmente, si è già cominciato a vedere esaminando l’amore umanitario in Rousseau, e meglio si vedrà proseguendo. Ma già sappiamo l’equazione finale: idealismo = individualismo (astratto).

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gherebbe, nonché l’azione politica del Marx, il tono di violenta indignazione e di satira amara, che si avverte in ogni pagina del Capitale? » (Materialismo storico ed economia marxistica, 1944, p. 20). Evidenti sono qui due errori: 1. che quando il Croce nega il sopravalore come concetto economico ciò accade perché non riesce a superare l’orizzonte dell’economia tradizionale? borghese, o «pura economia»: non riesce a scorgere, neanche lui, il fatto economico nuovo, scoperto dal Marx, ch’è (secondo il riassunto engelsiano del Manifesto) la « rivoluzione capitalistica », cioè, ripetiamo, la trasformazione delle forze produttive moderne « da strumenti di produzione isolata in strumenti di produzione sociale », col relativo, problema della « contraddizione fondamentale » per cui « la forma della produzione si ribella alla forma dello scambio » e «la borghesia si palesa impotente a dominare più a lungo le forze sociali della sua stessa forma di produzione »; donde l’ulte­ riore problema economico rivoluzionario di « liberare » le forze produttive dalla proprietà capitalistica per consentire al loro « carattere sociale » la « piena facoltà di esplicarsi », ponendo cosi termine alla « soprapproduzione », alle « crisi », al « circolo vizioso » di « un eccesso di forze produttive e di prodotti, da un lato », e di « un eccesso di lavoratori disoccupati e senza mezzi di vita, dall’altro »: problema economico rivoluzionario in cui soltanto ha un senso — scientifico prima che filosofico — il sopravalore; 2. che, non avendo il Croce compreso tutto ciò, non gli resta che mantenere, insieme con l’economia tradizionale, l’etica tradizionale, deduttiva, idealistica e il relativo utilitarismo teologico, che vedremo; respingendo la fondazione induttivocritica, dell’etica, ch’è appunto la fondazione materialistico-storica. Di conseguenza non stupirà che il Croce, benché tenga pre­ sente che « il Marx dichiara che la legge del valore-lavoro [da cui il concetto del sopravalore] non è una legge morale », con­ fermi quanto ha detto sopra, osservando: « Il valore è uguale al lavoro. Bene: e che cosa se ne dedurrà ai fini della morale? Che a ciascuno spetti il frutto del lavoro? Si? E come questa regola si connette con quel fatto? Si faccia la prova di connetterla, e si sarà costretti a ricorrere a una serie di presupposti sociali, nonché ad una generale legge etica che li dòmini » (op. cit., p. 169). Dove si noti come il Croce, mentre si sforza di tener presente che a qualche « fatto » economico (il carattere sociale della produzione) ha pur da rimandare la legge economica marxiana del valore-

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lavoro, misconosca al contempo quel fatta col negare che da esso, cioè dalla sua legge, si possa ricavare, la regola « a ciascuno il frutto » etc., senza ricorrere al presupposto (apriori astratto) di una generale legge etica! Questa insensibilità crociana ^’indu­ zione (marxiana, nella fattispecie) dice tutto. Cosi l’incomprensione aumenta, se possibile, in ciò che segue immediatamente: « E si vedrà anche che, secondo le varie condi­ zioni sociali, la morale potrà imporre quella particolare regola di ripartizione, o un’altra affatto diversa. In una società, p. es., in cui tutti lavorino, ma che sia composta per metà di uomini for­ tissimi dal facile lavoro largamente produttivo, e per metà di ■deboli o di malati, la regola ” a ciascuno il godimento dei frutti del suo lavoro ” sarebbe regola tutt’altro che caritatevole e mo­ rale » (ivi). A cui, a parte quella morale, cioè quella solita astratta « idealità », quell’astrazione pura, da cui tutto dovrebbe derivare, cioè dedursi-, a parte questo, il marxista può rispondere: 1 che quella regola non rappresenta la società comunista nella sua fase suprema e caratteristica; 2 che solo nella fase ultima e caratteri­ stica di tale società vige quell’altra regola di cui il Croce tace-. « a ciascuno secondo i suoi bisogni », regola ch’è possibile sol­ tanto e proprio in seguito all’attuazione della precedente, perché in una società di soli lavoratori « le fonti della ricchezza collettiva scaturiscono abbondanti » (Critica del programma di Gotha, I); è possibile, cioè, in seguito alla « scomparsa » di quella « avvilente, subordinazione degli individui alla divisione del lavoro » (ivi), alla quale il Croce liberale, il Croce appunto « caritatevole e morale », tiene ancor fermo. Stante questa incomprensione crociana dell’economia mar­ xiana in sé e dei suoi rapporti con l’etica, si spiega l’arbitrario e il fantastico della conclusione crociana sul sopravalore come « concetto di differenza » risultante dal « paragone ellittico » del presupposto ipotetico di una società di soli lavoratori, in cui si realizzi il concetto tipo del valore-lavoro, con la società reale, capitalistica (op. cit., p. 32 n.). Infine, tutto si chiarisce meglio se si tien presente il carattere generale della soluzione tradizionale, illuministica o idealistica o spiritualistica che sia, dei rapporti di economia ed etica. Tale carattere, — che consiste nella deduzione dell’economico o particolare dall’etico o universale, cioè dall’eterno o assoluto, dalla ragione, dallo spirito etc. (si pensi ad es. alla libertà econo­ mica o « laissez faire » come uno dei diritti « naturali », ossia 41

razionali, eterni, dell’individuo umano), per cui insomma l’eco­ nomico diventa una categoria di ordine teologico, cioè una cate­ goria della vita « eterna » o « spirituale » (in un senso più o meno laicizzato) dell’individuo come tale, — tale carattere si ripete nella concezione crociana testé vista del rapporto di economia e etica, allorché il Croce avverte: che « l’adozione di essi [cioè dei metodi economici] [...] deve essere un atto della coscienza morale o della libertà moralmente intesa (” liberale ” e non già ” liberistica ”) »: cfr. La terza via (in appendice a Per la storia del comuniSmo in quanto realtà politica, 1944, p. 30); che « la libertà non sta in alcuna dipendenza da uno o altro ordinamento econo­ mico, ma tutti li revoca in questione e tutti di volta in volta accoglie o respinge secondo che giovino o nocciano al suo fine dell’accrescimento della vita spirituale » (La teoria della libertà, 1945, p. 22); e che «l’idea morale e religiosa della libertà [...] non può essere in alcuna dipendenza né venire ad alcun patteg­ giamento coi bisogni vitali ed economici, che intimamente supera » (Considerazioni sul problema morale del tempo nostro, 1945, p. 15). Cosi la spiritualizzazione dell’economico (il presunto « di­ stinto »!), in cui si esprime la retorica moralistica, il cant dell’uma­ nismo individualistico, liberale, del Croce, può esser considerata l’ultima manifestazione notevole di quell’utilitarismo teologico già affermatosi, ad es., nella formula, ingenua, di Franklin: del suc­ cesso economico come infallibile segno divino. Onde lo « spirito » (= libertà morale) di Croce si richiama, aggiornandola, alla vec­ chia « Provvidenza » del deista americano. E s’intende, data la generale ispirazione platonico-cristiana o spiritualistica comune ad entrambi: ispirazione che nell’umanitario Franklin si determina come egotismo religioso, come il principio dell’ama il tuo pros­ simo come te stesso per amor di Dio, o principio dell’individua­ lismo cristiano; e che nel Croce idealista si determina come narcisismo spirituale, come principio dell’uomo autocosciente. È, in quanto all’origine crociana del liberalsocialismo no­ strano, essa è implicita nel già detto: nella. adozione dei metodi economici da parte della coscienza morale, o deduttivttà dell’eco­ nomico dall’etico (e relativa significanza illusoria del carattere di « distinto » attribuito all’economico); e nella separazione-subordi­ nazione della libertà liberistica dalla libertà liberale, del liberismo dal liberalismo, cioè dell’economico dall’etico: ch’è la formulazione crociana della cosiddetta terza via « tra socialismo (o comuniSmo o economia razionalizzata) e capitalismo,». Dice, infatti, il C.: 42

« Anche il socialismo marxistico, che credeva di recidere di colpo e per sempre la radice dei mali e dei conflitti per via meramente economica con 1’agguagliamento comunistico, si svelò utopico e insieme inefficace; e questo fu il senso, negli ultimi anni del­ l’ottocento, della cosiddetta ” crisi del marxismo ” che dovè cedere all’idea del riformismo, cioè di un continuo, succedersi di prov­ vedimenti secondo luoghi e tempi, quali il corso storico richiede e consente, correggendo lo storicismo marxistico [...]. In termini teorici, il processo che si effettuava era quello della distinzione tra liberalismo morale e politico e liberalismo economico, con la subordinazione e risoluzione del secondo nel primo [...]. II fon­ damento speculativo della distinzione [...] è stato poi elaborato dalla filosofia dello spirito con la posizione dei due momenti della praxis, quello vitale o economico e quello morale, entrambi neces­ sari e dei quali il secondo di continuo supera e configura il primo.. Conseguenza di questa soluzione del problema è che ora non si pensa piu, come un tempo si diceva, a ” moralizzare l’economia ”, ma, per contrario, si richiede che essa asserisca sempre piu energi­ camente se stessa, immorale non già ma amorale, perché tale è il suo ufficio e la sua verità, e che la coscienza morale sempre inter­ venga a integrarla, perché la vita dell’uomo si attiene a un unico principio che è questo morale, al quale spetta di regolare, in ultima analisi, i conflitti economici e di dettare l’azione- che li compone » (Considerazioni etc., pp. 12-4). E conclude approvando, com’era da attendersi, non solo il fabianismo (« il ” fabianismo ”, di cui si parla, — egli dice, — cioè la concreta e la progressiva accettazione delle riforme economiche, che dapprima erano nei soli programmi dei socialisti, è la riprova che esso [il liberalismo] si è sciolto dal vecchio connubio col liberismo », p. 17), ina altresì il nuovo corso economico-politico rooseveltiano, culminante nelle quattro libertà, al cui proposito riassume come segue, facendole sue, le conclusioni di una « guida morale per Ì seguaci del nuovo corso », di cui è au­ tore Edgar Kemler: « Leggo un libro assai istruttivo sulla ” defla­ zione degli ideali americani”; e in che mai consiste cotesto loro sgonfiamento? Nell’abbandono dello spensierato ottimismo [del­ l’individualismo della «libera iniziativa»] che fu già del secolo decimonono, e piu specificamente del quarantennio tra il 1830 e il 1870, nella rivendicazione del carattere etico-religioso del libe­ ralismo contro i legami economici che aveva stretti e le obiezioni che ne conseguivano, nel convincimento a cui si è giunti che, di­ strutto che fosse il capitalismo, non ^perciò si diventerebbe liberi, e 43

che bisogni dirigere le grandi corporazioni e le concentrazioni di potere a fini popolari. Anche qui dunque la ” deflazione ” sarebbe da dire, piu propriamente, ’’purificazione” [del «liberalismo» dal « liberismo »] » (ivi). Documento, dunque, interessantissimo queste pagine in cui il Croce stesso connette principi filosofici e conclusioni politiche: in quanto esse ci mostrano ben chiaramente quale incertezza teo­ rica, quale confusione e eclettismo di principi generali costitui­ scano la base .del liberalsocialismo, di cui oggi il Croce è, Io voglia q no, il rappresentante filosofico piu autorevole. Basti indicare quel dire e disdire perpetuo circa l’economico e i suoi rapporti con l’etico, per cui prima si afferma che il momento vitale o economico è « necessario » quanto quello etico, e dunque parrebbe essere veramente distinto da quest’ultimo, e poi si conclude che il se­ condo di continuo « supera », nel senso che lo « configura », il primo, ma tuttavia non si vuol essere confusi con chi vuole, ridicol­ mente, « moralizzare » l’economia, e si torna a richiedere la neces­ sità dell’economico, e che questo « asserisca » sempre piu « ener­ gicamente » se stesso, come « amorale » e non già immorale, per poi ritornare ancora alla coscienza etica come unico principio e regolatore « in ultima analisi » dell’economico. È la logica eclet­ tica dell’idealista inquieto del reale e concreto, ma incapace di autocritica; la logica dell’un po’ di tutto. È questa la logica del liberalsocialismo in genere: liberali nel­ l’etica e nella politica, socialisti neìl’eco'nomia; e cioè un po’ di questo e un po’ di quello; come ce l’ha mostrato nel modo più semplice e più candido l’arcivescovo di Canterbury: la « persona » (e la libertà) dell’individualismo cristiano, con una aggiunta di planning, di pianificazione economica o economia razionalizzata che si dica. Croce, con la sua logica, dice: il liberalismo, cioè l’« idea religiosa e morale della libertà », può sciogliersi dal « vecchio con­ nubio » col liberismo. È la logica del liberalsocialismo nostrano, che per bocca di Guido Calogero ripete che « sarà cosi, ancora una volta, solo l’edu­ cazióne al senso della giustizia, quel che potrà far procedere la. storia e l’economia nel senso voluto dal Marx » (La crìtica dell’eco­ nomia e il marxismo, 1944, p. 95). Si è visto dunque a sufficienza, se non erriamo, che cosa val­ ga speculativamente la « revisione » del marxismo, nei suoi rappre­ sentanti migliori, da Bernstein al Croce e seguaci, quale povera consistenza abbia la « crisi » del marxismo da essi esaltata. Abbia­ 44

mo visto Ie incertezze, confusioni é contraddizioni filosofiche di Bernstein e Mondolfo. Abbiamo visto, infine, chiaramente, nella logica crociana dei gradi o momenti dello spirito, e particolarmente nella teoria del momento economico, la ragione più significativa dello scacco,, filosofico dei revisionisti: il mancato apprezzamento adeguato dell’economico, cioè deUa categoria della particolarità o molteplicità cui esso appartiene-, mancato apprezzamento dovuto, è ovvio, all’idealismo o illuminismo comune a tutti i revisori (e particolarmente interessante, al proposito, la riduzione illuministica del plusvalore a fenomeno giuridico, cioè etico, nel Mondolfo positivista). Specchio prezioso, dunque, la filosofia dell’economico del Croce, perché specchio d’ingrandimento dedd'inquieta mentalità' astrattista sua e degli altri « revisori », specchio insomma della comune mentalità eclettica, cioè della crisi —■ irrisolta — in cui il marxismo ha messo il loro idealismo o illuminismo. (La crisi è dei « revisori ».) Per cui tutto si riduce, per noi, alla fine, a riesaminare il pro­ blema de\Feconomico, o particolare, e della sua specificità e posi­ tività nei confronti dell’etico o dell’universale, rivedendo cosi tutto il problema dei loro rapporti. La questione si può porre storica­ mente così: se, dopo Marx, si possa accettare la seguente « rivendi­ cazione » hegeliana dell’utile o economico, citata dal Croce (nella Filosofia della pratica, 1945, pp. 268-9) come sottinteso motivo ispiratore della filosofia idealistica dell’economico : che « la morale non deve fare la disdegnosa verso Futilità, perché ogni buona azio­ ne nel fatto è utile, ossia ha realtà ed effettua qualcosa di buono », ché « una buona azione che non fosse utile non sarebbe azione e non avrebbe realtà-, e {’inutilità è l’astrattezza e {’irrealtà del be­ ne »; e che, infine, l’« utilità non significa altro se non che si ha coscienza della propria azione », e che, « se questa coscienza fosse biasimevole, sarebbe biasimevole altresì conoscere la bontà della propria azione » (Gesch. d. Philos., Il, pp. 405-6). Rivendicazione ben illusoria e ingannévole, per la sua logica tipicamente idealistica, cioè genericizzante, ed elusiva dei problemi, al plurale, di cui consta la filosofia, la storia: si noti l’imbottigliamento del concetto di utilità in quelli fra loro sinonimi di realtà, effettualità (l’« effet­ tuale» crociano!), azione, di questi in quello di bene (la realtà, cioè l’essere, non è, già per gli scolastici, il bene?), di quello di bene, infine, in quello di coscienza o conoscere, com’era da aspettarsi dal razionalista Hegel. Conclusione: utile = essere = bene = cono­ 45

scere ( = sapere o autocoscienza). Par chiaro ch’è difficile accettare questa o altra simile rivendicazione dell’economico1. Così le incer­ tezze e contraddizioni dei « revisionisti » e in specie del maggiore di loro, il Croce, — incertezze che si riflettono politicamente nell’eclettismo liberalsocialista, — ci stimolano, almeno negativamente, a riesaminare il problema dell’economico e dei suoi rapporti con l’etico. Mentre la teoria marxiana della personalità e libertà umana, a cui ora passiamo, ci introduce positivamente in questi problemi, e ce ne indica la soluzione. Con questa avremo anche la risposta agli altri quesiti suaccen­ nati, particolarmente a quello dell’ammissibilità di una problema­ tica filosofica specificamente socialista, ch’è poi lo stesso quesito concernente il carattere dello sviluppo ideologico socialista del li­ beralismo: se, cioè, tale sviluppo avvenga o no per un capovolgi­ mento (rivoluzione), per una frattura storica. Procediamo, dunque, dalla persona originaria, ch’è la « per­ sona cristiana », la persona tradizionale, alla persona storica, ch’è la persona marxiana, l’« uomo totale », secondo Marx,

1 Significativa la seguente osservazione di Lenin sul passaggio hegeliano, nella Scienza della logica, all’« idea pratica »: « ’’L’idée, dans la mesure où le concept est déterminé en soi et pour soi, seulement pour soi, est l’idée pratique, l’action” (319) et le § suivant est intitule ”Bi l’idée du bien” [...]. Pourquoi done, à partir de la pratique, de l’action, passage seulement au ” bien ”? Cela est étroit, unilateral! Et l’utile? Sùrement l’utile prend place ici. — Ou pour Hegel l’utile sétait-il aussi le bien? » (Cahiers sur la dialectique de Hegel, Paris, Gallimard, 1938, p. 197). Sopra si risponde, appunto, all’ultimo interrogativo di Lenin.

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III. L’« uomo totale» marxiano ' in quanto persona storica, sociale, e il suo « libero sviluppo e movimento ». La nuova problematica

1. Non è possibile cogliere in tutta la sua portata la conce­ zione marxiana filosofica della persona e della libertà se non par­ tendo, naturalmente, dai suoi principi: dai concetti i più generali, di « uomo », « natura », « società », « lavoro » e « prassi rivolu­ zionaria » (che si trovano nei postumi Manoscritti economico-filosofici, del 1844, e nella Ideologia tedesca, I, Feuerbach, del 1845-6, editi da Adoratskij nella Marx-Engels historisch-kritische Gesamtausgabe, Berlin, 1932,1, 3, pp. 29-172, e I, 5, pp. 7-67). ( *) Cominciamo dal principio: dall’analisi del concetto di uomo. L’uomo, dice Marx, « è immediatamente un ente naturale [ Natur­ ili esen] » (I, 3, p. 160: corsivo del virgolato sempre di M.): ossia è particolare, è particolarità. Perciò è un ente « passivo, dipen­ dente, limitato », cioè finito: e in quanto passivo è « un ente appas­ sionato », anzi « la passione è forza sostanziale dell’uomo » (pp. 160-1). Contro Hegel, che riduce l’uomo ad una « astrazione del­ l’uomo », alla « coscienza di sé », al pensiero o sapere, Marx cerca aristotelicamente « l’uomo reale », ch’è, anzitutto, « natura », og­ gettività, materialità, particolarità insomma. E chiaro che l’hegeliana « coscienza di sé » non può esteriorizzarsi che in una « cosa astratta », la « materialità » (Die Dingheit), appunto un’« astra­ zione », non in una « cosa reale ». Infatti, « la ” materialità ” non è assolutamente nulla di autonomo [Selbstàndiges], di essenziale \Wesentliches'\ rispetto alla ’’autocoscienza”, ma semplicemente una cosa creata, qualcosa di posto da essa [...]. L’uomo reale, invece, crea e pone degli oggetti solo in quanto esso è posto da oggetti, in quanto è originariamente natura [...]. Esso, nell’atto di' porre qualcosa, non esce, dunque, dalla sua attività pura per creare l’oggetto, bensì il suo prodotto oggettivo manifesta semplicemente

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la sua attività oggettiva, la sua attività in quanto attività di un ente naturale, oggettivo [...]. Essere oggettivo, naturale, sensibile è avere altresì un oggetto, una natura, un sensibile fuori di sé, oppure essere noi stessi oggetto, natura, senso, è la stessa identica cosa [...]. Un ente che non ha oggetto fuori di lui non è un ente oggettivo »: ma « un ente non oggettivo [non particolare] non è un ente » (pp. 159-61). Notiamo subito il carattere di vero e pro­ prio criterio unitario, filosofico, che tende ad assumere la categoria marxiana della « natura », in quanto essa abbraccia, nel significato di particolarità, sia l’aspetto subiettivo che quello obiettivo della natura. D’altra parte, continuando, « l’uomo non è soltanto un ente naturale [particolare], ma è anche un ente naturale umano, cioè un ente che esiste a se stesso [riflesso in sé, pensante], dunque! un ente generico [Gattungswesen], e come tale deve.confermarsi e affermarsi tanto nel suo essere che nel suo sapere » (p. 162). Ossia è ente generico in quanto « esso si rapporta a sé come a un ente universale [einem universellen] e però libero» (p. 87): e questa è la sua differentia specifica: l’universalità. Formulazione marxiana dell’homo animal rationale. « L’uomo — in qualsiasi grado sia un individuo particolare e pur essendo la sua particolarità che fa di lui un individuo ■[...] — è parimente la totalità ideale » (p. 117). Concludendo l’analisi: l’uomo è « un ente generico determi­ nato [ein bestimmtes Gattungswesen) », naturale (m): come dire che è un composto di particolarità o natura e genericità. Ma questa formula del composto o sinolo marxiano ha un senso pre­ ciso solo a patto che sia risolta nell’altra: che « l’individuo [uma­ no] è Vente sociale » (ivi). Perché solo in quest’ultima si rivela a) che la genericità o universalità è la differenza specifica dell’uomo rispetto agli altri enti naturali o particolari; b) come l’umanità dell’uomo, la genericità o universalità, si attui soltanto nel suo rapporto alla naturalità o particolarità ch’è pur qualcosa di « autonomo »; c) come tale rapporto sia possibile soltanto me­ diante la socializzazione (universalizzazione) della natura, mediante il costituirsi, insomma, di società o comunità verace. Si tratta, in altri termini, di vedere la verità del composto ch’è l’uomo in questo: nell’esser uomo-natura e però ente sociale. Accettiamo co­ me un’ipotesi da verificare questo singolare composto (di distinti, diciamo), e vediamolo alla prova del problema umano per eccellèn­ za: il problema della persona o libertà: se esso sia criterio supe­ 48

riore a quelli tradizionali per la soluzione di tal problema. Vediamo perciò, passandQ„,dairanaIisi alla., sintesi, come si configuri il rap­ porto in cui si trovano fra loro gli elementi del sinolo, l’umanità o universalità e la natura o particolarità. « L’essere umano della natura — afferma Marx — non c’è se non per l’uomo sociale; è in questo modo che c’è un legame della natura con Vuomo: è per Tesserci dell’uomo per un altro e del­ l’altro per lui; e solo in quanto elemento vitale dell’umana realtà la natura è fondamento \_Grundlage~\ della esistenza umana dell’uo­ mo. Solo cosi l’esistenza naturale dell’uomo è la sua esistenza umana, e la natura è divenuta per lui umana. Cosi la società è la perfetta consustanziazione [Wesenseinheit] dell’uomo [o univer­ sale] con la natura [o particolare], la verace resurrezione della natura, la realizzazione del naturalismo dell’uomo e dell’umanismo della natura » (p. 116). Vediamo l’applicazione e la verificazione di questa concezio­ ne dei rapporti dell’uomo con la natura; ch’è una concezione net­ tamente antitradizionale, in quanto non è quella specificamente romantica, basata sul principio di un rapporto soggettivoAstica, ispirazione, genio, intuizione che sia, dell’uomo alla natura; ma non è nemmeno (si è visto) quella genericamente idealistica della natura come oggettivazione dell’uomo autocosciente, o dialettica apparenza dello spirito. Vediamo, dunque, la conferma di quanto sopra che ci offre l’esame, ad esempio, dei sensi e bisogni umani. « L’occhio — nota Marx — è divenuto umano quando il suo oggetto è divenuto un oggetto sociale umano, dell’uomo e per l’uomo. È dunque im­ mediatamente nella loro pratica che i sensi sono divenuti dei teo­ rici. Essi si rapportano si alla cosa per amor della cosa, ma la cosa stessa è un rapporto umano oggettivo seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento perde cosi la sua natura egoistica, e la natura perde la sua mera utilità dal momento che l’utilità è divenuta utilità umana [cioè universale pèrche sociale] » (p. 119). Cosi «l’uomo non si perde allora nel suo oggetto, se questo diventa per lui oggetto umano [universale o valore], uomo oggettivo. Ciò è possibile soltanto se questo oggetto diventa per lui un oggetto sociale, anch’esso un ente sociale, come la società viene ad essere per lui in questo oggetto» (ivi). Naturalmente « non solo i cinque sensi, ma altresi i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica, il volere, l’amare etc., in una parola la sensibilità umana, il carattere umano del sentire, c’è soltanto per l’esistenza

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del suo oggetto, per la natura divenuta umana » (p. 120), perché socializzata e cosi, solo cosi, universalizzata, spiritualizzata, acquisita al valore. La riprova di quanto si è detto si ha nelle seguenti considerazioni critiche circa la sensibilità umana difettosa che si manifesta in quel rapporto dell’uomo con la natura ch’è il fatto economico della proprietà privata-, considerazioni che traggono la loro ragion d’esser e la loro verità, s’intende, dal criterio suaccen­ nato del rapporto uomo-natura, che non è che il concetto stesso marxiano dell’uomo, che ora stiamo verificando sul terreno. feno­ menologico o sperimentale. « La proprietà privata — osserva Marx — ci ha resi talmente sciocchi e unilaterali che un oggetto non lo sentiamo nostro che quando lo possediamo [...]. Tutti i sensi [umani!], fisici e intel­ lettuali, sono stati sostituiti dalla semplice alienazione [Entfremdung] di essi tutti, dal senso dell’avere. A questa assoluta povertà doveva ridursi l’ente umano [...] » (p. J18). La verifica sperimentale del criterio filosofico del rapporto uomo-natura ci ha portati, dunque, nel mondo economico: il che non deve stupirci per due ragioni: l’una ideale e intrinseca alla stessa problematica filosofica da cui siamo partiti, in quanto il mondo economico è innegabilmente manifestazione tipica e fonda­ mentale di rapporti umano-naturali;, l’altra storica o di fatto (nel senso di uno storicismo effettivo e concreto, non dialettico per una dialettica platonizzante, all’hegeliana, che vanifichi in una conti­ nuità e unità astratte l’aspetto della novità o contingenza che fa la storia, anche quella dei concetti filosofici, storia o esperienzai che si dica), in quanto dal fenomeno, o novità storica, della rivo­ luzione capitalistica è nato, col problema scientifico-economico marxiano della socialità della produzione, anche il problema filo­ sofico marxiano dell’uomo umano in quanto uomo sociale. Marx continua esaminando la « storia dell’industria », storia di decisiva importanza per verificare il sinolo uomo-natura, e per risolvere il problema dell’uomo come « ente sociale ». Perché « la industria [o lavoro sociale] è il rapporto reale, storico, della na­ tura, e però della scienza naturale, con l’uomo » (p. 122), ossia tipico rapporto reale, in quanto storico, e verace, in quanto me­ diato, del particolare o natura con l’universale o uomo, che si riassume nella formula della « coincidenza della modificazione delle circostanze e della modificazione dell’attività umana [...], in quanto prassi rivoluzionaria [revolutiondre Praxis] » (I, 5, p. 534). Ora, « si vede come la storia dell’industria [...] sia stata con­

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siderata, fino ad oggi, non nella sua connessione con Yessenza del­ l’uomo [l’universalità], ma sempre e unicamente secondo un rap­ porto esteriore di utilità » (I, 3, p. 121), cioè in connessione con la « mera », astratta,..utilità p natura o particolarità dell’uomo: in­ somma da un «punto di vista di alienazione», da un.punto di vista estraneo all’ente umano, alla sua essenza specifica ch’è l’uni­ versale o valore. Infatti, « n&\Yindustria materiale ordinaria [del regime di proprietà privata] [...] abbiamo davanti sotto forma di oggetti sensibili, stranieri, utili, sotto la forma deYY alienazione, le forze essenziali aggettivate dell’uomo» (pp. 121-2): abbiamo da­ vanti oggettivata l’estraniazione dell’uomo rispetto a se stesso, alla sua specifica essenza, in quanto abbiamo davanti un’utilità (natura) straniera all’uomo perché non ancora in reale rapporto con l’uomo, non ancora socializzata e perciò non ancora permeata dell’universale, della specifica essenza umana (per la cui attuazione altro modo non c’è se non illusorio, perché mitico o dogmatico).. La fin qui implicita riduzione, estremamente feconda, dei concetti di società e storia a quello di industria o lavoro sociale (in quanto tipico rapporto reale, ed esemplare, dell’uomo con la natura), si esprime, con tutta la sua forza normativa di criterio realeideale, nella seguente dichiarazione: di ciò che deve essere, cioè la natura « antropologica » o umanizzata in quanto socializzata, e la correlativa ideale industria e società e storia; e di ciò che è: la na­ tura straniera all’uomo, rimasta opaca, astratta, natura o partico­ larità, e la relativa industria « ordinaria », privata, capitalistica, borghese: « La natura che nasce nella storia umana — nell’atto generatore della società umana — è la natura reale dell’uomo, dun­ que la natura quale essa diviene — benché sotto una forma alie­ nata — per l’industria: la vera natura antropologica [die wahre anthropologiscbe Natur] » (p. 122). Corollario significativo: « La storia è essa stessa una parte reale della storia naturale, della tra­ sformazione della natura in uomo. Le scienze naturali comprende­ ranno un giorno la scienza dell’uomo, come la scienza dell’uomo comprenderà le scienze naturali: non ci sarà che una scienza » (p. 123). Notiamo subito che la formula « natura antropologica » acqui­ sta il suo senso intero se identificata e assorbita nell’altra suaccen­ nata: della « prassi rivoluzionaria », o « rovesciamento pratico » che si dica, di cui a suo luogo. Intanto, giunti a questo punto del­ l’applicazione e verificazione del criterio marxiano dell’uomo-natura, già si profila, dall’azione critica e dissolvente sull’economia e la 51

morale tradizionale, di cui esso criterio si mostra capace, si profila il problema etico-critico, . tipicamente marxiano, della « soppres­ sióne [Aufhcbung] della proprietà privata »: come « Vemancipa­ zione completa [vollstàndige Emanzipation] di tutte le qualità e di tutti i sensi umani [...], proprio perché questi sensi e queste qualità sono divenuti umani, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo» (pp. 118-9). Precisamente Marx dice che, « come la proprietà privata è soltanto l’espressione sensibile di ciò, che l’uomo diventa ad un tempo oggetto a se stesso e oggetto straniero e inumano, che la sua manifestazione di vita è privata di vita, e la sua realizzazione è la sua vanificazione, una realtà estranea, cosi la soppressione positiva della proprietà privata, ossia l’appropriazione sensibile del modo di essere e vivere umano, delle opere umane per e dall’uomo, non è da intendersi ■ soltanto nel senso dedi’immediato, unilaterale godimento, nel senso del posses­ so, nel senso dell’avere »: ma nel senso che « l’uomo si immedesima [eignet sich], in una guisa onnilaterale, del suo essere onnilaterale [sein allseitiges Wésen], dunque in quanto uomo totale [als ein totaler Mensch] » (pp. 117-8). Si profila, insomma, il problema marxiano del « comuniSmo, come positiva soppressione della proprietà privata, ossia dell’autoalienazione \_Selbstentfremdung\ dell’uomo-, e però come reale appropriazione [Aneignungl dell’essere umano da e per [durch und fiìr~\ l’uomo; come ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé come uomo sociale, cioè come uomo umano »; in quanto « questo comuniSmo è, quale naturalismo perfetto, dell’umanismo, e, quale perfetto umanismo, del naturalismo » (p. 114); in quanto, insomma, nel « rapporto generico-naturale » (natiirlichen Gattungsverhàltnis), in cui questo comuniSmo consiste, « il rapporto del­ l’uomo alla natura è immediatamente il suo rapporto all’altro uomo, e il suo rapporto all’altro uomo è immediatamente il suo rap­ porto alla natura, la sua determinazione naturale» (p. 113). Dove è possibile cogliere, attraverso la pregnante formula del rapporto generico-naturale, che annuncia la ragione e il fine di quella socializzazione della natura ch’è l’essenza di questo comuniSmo, è possibile cogliere in tutta la sua forza la presenza normativa del basilare criterio dell’uomo-natura; criterio la cui veracità, e conse­ guente capacità di sciogliere le difficoltà economico-morali condu­ centi, già si è visto, al problema del comuniSmo, sarà provata pie­ namente solo quando sarà terminato l’esame delle difficoltà in cui

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esso può trasformare le soluzioni tradizionali dei problemi economico-morali, e però l’esame dell’adeguatezza dei suoi modi di soluzione delle difficoltà eh’esso criterio — induttivo-deduttivo — ha messo in luce nelle soluzioni tradizionali. Appunto problema etico-critico si è detto il problema marxiano del comuniSmo, in quanto problema morale impostato secondo il metodo dello storicismo concreto suaccennato, metodo che, essendo induttivo-deduttivo (secondo la formula della « prassi rivoluziona­ ria » come « coincidenza della modificazione delle circostanze e della modificazione dell’attività umana »), è veramente nello spirito della scienza moderna e di quella convalida filosofica di essa ch’è il criticismo, o contemperamento di empirismo e razionalismo, ab­ bozzato in qualche paragrafo della Critica della ragion pura e poi profóndamente misconosciuto e perduto da Kant stesso e da tutto l’idealismo e spiritualismo. 2. Terminiamo, dunque, l’esame del processo alienazione umana, in cui paiono convergere le difficoltà dell’economia tradi­ zionale e della sua morale, entrando nella critica marxiana filosofica della tradizionale divisione sociale del lavoro', cioè della struttura generale della società borghese in quanto società di classi. La « divisione del lavoro » — in cui si esprime « rispetto al­ l’attività [lavoro] » ciò che in « proprietà privata » si esprime « rispetto al prodotto dell’attività » — è, dice Marx in guisa pre­ gnante, « l’espressione economistica della socialità del lavoro [Gesellschaftlichkeit der Arbeit} dentro l’alienazione [umana] »: os­ sia « come il lavoro è soltanto un’espressione dell’attività umana nella privazione, un’espressione della vita come spogliazione della vita, cosi la divisione del lavoro non è anch’essa altro che la posi­ zione straniata, di privazione \entfremdete, entàusserte Setzen], dell’umana attività quale reale attività generica IGattungstàtigkeit} o attività dell’uomo come ente generico » (p. 139). « In che consiste — si chiede Marx — la spogliazione del lavoro? Primamente in ciò, che il lavoro resta esterno al lavora­ tore, cioè non appartiene alla sua essenza [di uomo: l’universale o generico], e che questi, quindi, non si sente affermato nel suo lavoro, ma negato, non confortato, ma infelice [...]. Il suo lavoro perciò non è libero [ = umano], ma costretto [ = « mera » na­ tura o particolarità], è lavoro costrittivo [Zwangsarbeit} » (pp. 85-6). E, d’altra parte, costretta (nel senso profondo, suinteso) si 53

rivela anche, sempre per effetto della divisione sociale del lavoro, l’attività degli stessi capitalisti, che in quanto produttori indipen­ denti, « posti di fronte gli uni agli altri, non riconoscono altra- au­ torità che quella della concorrenza, che la violenza [Zwang] della pressione dei reciproci interessi [ = mera, astratta natura] eserci­ tata su di loro » (come è detto nel Capitale, I, c. IV, Hamburg, 1867, pp. 340 e 329)T’ Dunque, la divisione del lavoro — che « si fa spontaneamen­ te [von selbst] o ’’naturalmente” [naturwiichsig], secondo le disposizioni naturali, per es., la forza fisica, secondo i bisogni, i casi etc. » (Gesamtausgabe, I, 5, p. 21), e che « non diventa una reale divisione che dal momento in cui si istituisce una divisione del lavoro materiale dall’intellettuale » (ivi) — comporta che « l’attività spirituale e quella materiale, il piacere e il lavoro, il con­ sumo e la produzione, spettino a individui differenti » (ivi). Accade cosi che « ogni uomo si sforza di creare all’altro un nuovo bisogno [...], per metterlo in una nuova dipendenza », che « ciascuno tenta di creare sopra l’altro una forza sostanziale stra­ niera per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno interes­ sato », onde « con la massa degli oggetti cresce dunque il nuovo regno degli enti stranieri cui l’uomo è asservito » (I, 3j p. 127). Accade che « il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi [raffi­ namento operato dall’« eunuco dell’industria », il produttore, a favore dei consumatori, e risolventesi in uno « sfruttamento generale dell’essere umano comune»] provoca, dall’altra parte [quella dei lavoratori], l’abbrutimento, una totale e grossolana semplicità astratta del bisogno », per cui « persino il bisogno d’aria libera cessa per l’operaio di esser un bisogno (p. 128). Peggio, accade che « nell’operaio esiste, soggettivamente, il capitale come l’uomo com­ pletamente alienato [das Kapital der sich ganz abhandèn gekommene Mensch], cosi come esiste, oggettivamente, nel capitale il lavoro come l’uomo alienato »; e che perciò, « in quanto capitale, il valore dell’operaio sale secondo l’offerta della domanda, e anche fisicamente la sua esistenza, la sua vita, è stata ed è riconosciuta come un’offerta di merce, una merce come un’altra » (p. 97). Come accade, d’altra parte, che, se tale degradazione dell’uo­ mo-operaio a merce, ad astratta natura o particolarità, è (assieme al suo essere « parcellato » nella specializzazione di fabbrica) effetto del « dispotismo » del produttore, nella divisione « manifattu­ riera » del lavoro, a sua volta la degradazione dell’uomo-produttore è per effetto di quella « necessità naturale » (Naturnothwendig54

keit), sotto cui lo mette il suo dispotismo, ch’è la regola della « pro­ porzionalità » quantitativa del processo produttivo sociale in rap­ porto ai prezzi di mercato; necessità cieca, in quanto astrattamente naturale o particolare, che non può prodursi (e in sostanza coinci­ dere) che col « caso » (Zufall) e l’« arbitrio » (Willkiihr) che pre­ siedono alla divisione « sociale » del lavoro, alla « dispersione [Zersplitterung] dei mezzi di produzione fra i molti indipendenti produttori », con la relativa « concorrenza » (e la reciproca « co­ strizione esterna della concorrenza » già vista sopra) fra i produt­ tori posti di fronte gli uni agli altri (cfr. il libro I, c. IV, del Capi­ tale, pp. 340-6, e la Miseria della filosofia, ed. Bernstein-Kautsky, Stuttgart, 1892, p. 120) '. Ora, il criterio che spiega i suaccennati aspetti della fenome­ nologia dell’alienazione umana — dalla costrizione o illibertà del lavoratore a quella del consumatore e dello stesso produttore — è Io stesso criterio essenziale secondo cui è fatta la tradizionale divisione (sociale) del lavoro: il criterio della naturalità (astratta) e però involontarietà e casualità sua; e il nerbo della critica filo­ sofica marxiana della divisione è appunto la scoperta delle difficoltà inerenti a tale criterio, della sua debolezza d’ordine generale. Con l’« autonomia » delle occupazioni, dovuta alla divisione del lavoro, sorge l’« individuo di classe », la cui essenza è la « casualità » o « accidentalità » delle sue condizioni di vita, cioè il criterio stesso secondo cui si compie la « naturale », « non volontaria » divisione del lavoro. « La casualità [Zufàlligkeit] delle condizioni di vita per l’individuo appare soltanto con l’ap­ parire della classe ch’è essa stessa un prodotto della borghesia » (I, 5, pp. 65-6). Allora « la concorrenza e la lotta degli individui fra loro produce e sviluppa questa casualità come tale » (p. 66). E propriamente « questo diritto di potere, entro certe condizioni, fruire del caso [der Zufàlligkeit sich erfreuen] con sicurezza [ungestórt] è stato chiamato finora libertà personale » (p. 64). Si confronti, fra parentesi, per misurarne la permanente verità e attualità, questa formula fortemente critica, tanto da parere esagerata, della gloriosa « libertà » borghese, come libertà del caso, col « diritto a una genuina contingenza » formulato, a proposito 1 Dar Kapital, I, p. 340: « Bei der Theilung der Arbeit im Innern der Werkstatt beherrscht die Verhàltnisszahl die jeder Sonderfunktion augewiesne Arbeitermasse a priori als bewusste und planmassig befolgte Regel; bei der Theilung der Arbeit im Innern der Gesellschaft wirkt sie nur a posteriori als innere, sturarne, im Barometerwechsel der Marktpreise wahrnehmbare die regellose WiÙkiihr der Waarenproducenten iiberwaltigende Naturnothwendigkeit ».

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della natura della libertà, dal massimo filosofo dell’americanismo, John Dewey, in Human nature and conduct, New York, 1922, p. 309, su cui torneremo. Proseguendo, resta ora da vedere la cosa più importante: cioè come si rapporti l’essenziale criterio della divisione del lavoro, cioè la naturalità-casualità, all’alienazione umana; di cui esso criterio ha da essere, sembra, il fondamentale fattore re­ sponsabile. Già ci ha messi sull’avvertita in proposito il rapporto intercorrente fra la casualità-anarchia della divisione del lavoro e quella necessità cieca della proporzionalità quantitativa della produzione, cui è sottomesso, e per cui si degrada, a sua volta, il dispotico produttore; rapporto ch’è di identità, in quanto ca­ sualità e necessità cieca o irrazionale sono sinonimi; e che, quel che conta, ci istruisce sulla comune radice della casualità-anarchia della divisione del lavoro e della irrazionalità della produzione del produttore indipendente: la naturalità o particolarità ancora astrat­ ta, non razionalizzata o universalizzata veramente, non veramente umanizzata insomma; donde la disumanità, l’alienazione, dello stesso produttore, manifesta come contrappasso, nella fattispecie, nel suo esser dominato, proprio perché despota della produzione (sociale!), da quell 'estranea potenza ch’è, oggettivamente, l’irra­ zionale — « incontrollato » — processo produttivo, con le sue «necessità naturali» appunto, e, soggettivamente, la «mera uti­ lità », l’astratto egoismo (con le sue « necessità naturali »), a cui autorizza il produttore là tradizionale divisione del lavoro col suo essenziale criterio della naturalità-casualità, o involontarietà. Dunque, questo criterio in quanto determinante di potenze irra­ zionali, estranee all’uomo, determina l’alienazione umana. Ma vediamo l’enunciazione in termini generali del condizio­ namento dell’alienazione da parte del criterio essenziale della divisione, l’enunciazione insomma del loro identificarsi alla fine. « La divisione del lavoro — dice Marx — ci mostra che, finché gli uomini si trovano in una società naturale, finché, in conseguenza, esiste la scissione fra gli interessi particolari e gli interessi comuni, finché l’attività non è dunque divisa volontaria­ mente [= razionalmente], l’atto proprio dell’uomo diventa per lui una potenza straniera, esterióre, che lo domina invece di essere da lui dominata. In effetti, da quando il lavoro comincia ad esser diviso, ciascuno ha il suo cerchio di attività determinato, esclusivo, che gli è imposto, da cui non può uscire » (Gesamtausgabe, I, 5, p. 22). Ossia: « la potenza sociale, la forza produttiva 56

moltiplicata, che nasce dalla collaborazione, condizionata dalla divisione del lavoro, dei diversi individui, appare a questi individui, poiché la collaborazione non è volontaria [nicht freiwillig], ma naturale [naturwiichsig], non già come la loro propria potenza unita [vereinte Macht], ma come una forza estranea, situata fuori di loro [...], che essi non possono più dominare » (p. 23). Dunque, la ragione dell’umana alienazione, dell’autoestraniazione manifesta nel fatto che la stessa potenza produttiva sociale umana risulta straniera a se stessa, che le forze produttive appaiono come « assolutamente indipendenti e staccate, dagli individui [umani] » (p. 56), la ragione di ciò è nella divisione naturale o immediata, non volontaria, ossia non libera, non razionale o universale, della attività umana (ch’è specificamente mediata, libera, - razionale, universale); è nella conseguente casualità o irrazionalità delle con­ dizioni di vita degli individui umani-, è nel carattere di società naturale, astratta, accidentale, particolaristica, che ha così la col­ laborazione degli individui. alla produzione, onde la potenza pro­ duttiva, non essendo veramente una potenza o forza sociale assertrice — con l’universalità in quanto socialità — dell’umanità stessa specifica degli individui, è per costoro estranea, mortifi­ cante, oppressiva. In altri termini « la ragione è che gli individui, di cui quelle son le forze produttive, esistono sparsi e opposti gli uni agli altri, mentre, d’altra parte, tali forze non sono delle forze reali che nel commercio e nei rapporti di questi individui » (p. 57). Ossia: condizioni di vita « affidate al caso » diventano « indipen­ denti » di fronte agli umani individui « precisamente per la distin­ zione degli individui, per la loro unione necessaria [naturale] data con la divisione del lavoro e divenuta, in quanto loro separazione, un legame ad essi estraneo » (p. 64). È qui che la critica marxiana incide più profondamente; qui dove il concetto-base dell’uomo come composto uomo-natura, manifestando tutta la sua forza di criterio dissolvente ideologica­ mente la struttura generale — la divisione del lavoro — del tradi­ zionale mondo economico-morale, si pone implicitamente come l’unico criterio ricostruttivo, sul piano ideologico, del mondo economico-morale, cioè criticamente del mondo; e come quello che preannuncia, in quanto li contiene, i concetti, più noti, di prassi rivoluzionaria, di società comunista, di uomo totale, in quanto criteri unitari per eccellenza, ossia concetti filosofici veri e propri. Infatti, Marx può additare profondamente la ragione della

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estraneità delle forze produttive agli umani individui nella sepa­ razione e opposizione di questi, nel mondo della « concorrenza » o « libera iniziativa » casuale, in quanto tale separazione-opposi­ zione significa per se stessa che gli individui umani sono ben lungi da quella loro socialità, degna del nome, la « socialità del lavoro » che, essendo, in base al criterio dell’uomo-natura o ente generico-determinato, consustanziazione di natura o particolare e uomo o universale, sola porta l’uomo a umanizzare o universaliz­ zare o spiritualizzare la naturalità, la materialità, la particolarità delle forze produttive, appunto col socializzarla (in una rivoluzione dei tradizionali rapporti umano-naturali, cioè del lavoro, che si spiega in base al criterio del composto di distinti ch’è l’uomo, come vedremo). S’intende che quella separazione-opposizione, in­ sita alla « libera iniziativa », non è che il risultato ultimo della società naturale — o astratta perché società degna del nome è al di_Ià_sia della natura che dell’uomo come loro mediatrice — ch’è la collaborazione non-volontaria alla produzione, cui dà luogo la non-volontaria divisione del lavoro. E s’intende che la critica di questa divisione non concerne la specializzazione o tecnica che in quanto questa non è libera, non è appunto volontaria o umana­ mente consapevole o razionale o universale che si dica. Il che, vedremo, è la premessa critica, indispensabile, per una rivoluzione della specializzazione o tecnica; per l’istituzione di una tecnica libera, tant’è dire veramente umana. In quanto alla tradizionale, borghese, « libertà della per­ sona », essa si riduce appunto a quel fruire del caso con sicurezza, che non è che l’espressione adeguata — proprio per la sua con­ traddittorietà intima — di una libera iniziativa che pretende di esser tale pur essendo casuale, cioè non razionale e però negatrice — oltre che della razionalità — della libertà stessa, ch’è sinonimo di universalità o razionalità, e infine sinonimo dell’umanità del­ l’uomo: si è visto che l’uomo, per la sua specifica essenza, « si rapporta a sé come ente universale e perciò libero ». La critica della divisione si conclude come segue, mostran­ doci la sfera dell’alienazione nella sua interezza, ossia l’alienazione come legge, che colpisce non solo la maggioranza oppressa degli individui, divenuti > 0 r Ora, ci sembra si possa dire senza esagerazione che, dopo la pubblicazione postuma, abbastanza recente (dal 1927 in poi), delle opere filosofiche giovanili, tutte le questioni fondamentali del marxismo teorico, da quella del « nucleo razionale » della « dia­ lettica » a quella del praktischer Umsturz o « rovesciamento pra­ tico », alle quali esplicitamente o implicitamente si riferisce Marx in questo poscritto prezioso, tutte sono da riesaminare. In altri ter­ mini, con tale pubblicazione si ripropone ex novo la questione della natura e portata precisa della critica marxiana della dialettica platonico-hegeliana, e del bilancio degli interessi hegeliani nel marxismo. Tale questione si può articolare in tre domande costi­ tuenti, ci sembra, le istanze fondamentali di una filologia marxista aggiornata:(f) che cosa intende Marx per dialèttica « mistificata »? ^che senso e limiti ha il kokettieren, il « civettare », di Marx, con la dialettica hegeliana, dopo averne criticato il lato «~mlsfifìcatorlo »?C3) che cosa si ha da intendere per quel « nucleo razionale » della dialettica, che resta dopo averne sgombrato la scorza mistica e mistificatoria, e che la costituisce « critica è rivoluzionaria » per eccellenza? Potrebbe sembrare (anzi sembra a molti, se non ai più dei teorici marxisti) che una risposta ancora soddisfacente, almeno al terzo di questi interrogativi, scabbia propriamente nella messa a punto del marxismo contenuta nello. Ànt.idiìhring^gngehiapo. Ma npn ci~sémbra che sia cosi. Già Lenin, in una nota sulla Dialettica (Ì915), ha osservato che, come poi in Plechanov, in Engels (sia pure « nell’interesse della volgarizzazione »), l’« essenza » della « dialettica », cioè « la divisione dell’uno e il riconoscimento delle sue parti contraddittorie », « di regola riceve un’attenzione inadeguata », che « la identità degli opposti è assunta come una somma totale di esempi (” per esempio, un seme ”, ” per esempio, il co­ muniSmo primitivo ”) »z. 1 Carlo Marx, Scrìtti scelti, Mosca, 1943, I, pp. 322-3; corsivo nostro. 2 V.I. Lenin, Selected works, London, 1943, XI, p. 81. Cfr. il seguente

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Certo, non si può dimenticare che, particolarmente nel primo libro àe\\’Antiduhring, dedicato alla Filosofia, Engels ha talvolta toccato felicemente la questione del « nucleo razionale » della dia­ lettica, cioè del modo critico-razionale, moderno, di intendere la dialettica; come quando, ad es., scagiona la trattazione marxiana sulla « accumulazione capitalistica » dall’accusa diihringhiana di es­ sere (con l’uso che fa della formula della « negazione della nega­ zione ») un « mic-mac di idee, secondo cui tutto è uno », osser­ vando che: « è soltanto dopo aver portato a tèrmine la..sua^dimo­ stratone'storica e economica che Marx continua dicendo che ’’ il sistema d’appropriazione capitalistico, derivante dal modo di pro­ duzione capitalistico, e in conseguenza la proprietà privata capita­ listica costituiscono \.pj>rima negazione della proprietà privata in­ dividuale fondata sul lavoro personale ” etcetera »; e che insomma, « quando Marx qualifica questo seguito di fatti come ” negazione della negazione ”, non pensa affatto a provarne cosi la necessità storica», ma che « al contrario: quando ha provato mediante la storia che la cosa si è in parte prodotta e in parte deve prodursi ancora, designa ciò al contempo come un fenomeno che si compie secondo una legge dialettica determinata-, ed è tutto » (corsivo sempre nostro). Non si può, dunque, non si deve dimenticare la duplice lezio­ ne implicita in questo felice chiarimento metodico engelsiano:(^ che Marx (non il marxista scolastico!) ha, nella sua ricerca posi­ tiva, scientifica, veramente solo « civettato » con le formule della « dialettica », usandole come innocenti metafore per riassumere icasticamente, secondo I’« immaginoso » linguaggio intellettuale, colto, del tempo, i processi storici di cui ha scoperto le leggi scien­ tifiche-,^ che la dialettica che sola interessa Marx e il marxismo giudizio generale di Antonio Gramsci, che può valere contro la confusione di En­ gels con Marx iniziata, da noi, da Antonio Labriola: «Non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, ma non bisogna neanche identificare Engels e Marx, né bisogna pensare che tutto ciò che il primo ha attribuito al secondo sia assolu­ tamente autentico e senza infiltrazioni » etcetera (in Rinascita, marzo 1947. sup­ plemento al n. 3). In quanto alle critiche rivolte da L P- Sartre a Engels e al marxismo deii’Antidùhring (in Temps modernes, giugno 1946, n. 9^pp. 1545 sgg.). la sola cosa interessante da notare è che esse (ad es.: « réalisme naif », « ont’ils voulu donner à la matière le mode de développement synthétique qui n’appartient qu’à l’idée », « extériorité et intériorité, inertie et progression synthétique, sont simplement juxtaposées » etc.) sono già implicite e ricavabili, come avverti­ mento autocritico avanti-lettera, nella e dalla critica marxiana della dialettica «mistificata-» (vedi sopra, e avanti: il saggio seguente): cosa che Sartre, che critica (ed è piu comodo) il marxismo limitandosi a Engels, e a un certo Engels, è forse ben lontano dal supporre!

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autentico è la dialettica dciexaùtiata, cioè coincidente con la legge scientifica (e questo^ ci. sembra.ftawcrnCL..grave..problema della dia­ lettica, cioè del « nucleo razionale » di essa, posto da Marx). Ma d’altra parte, tornando alla posizione di Engels, Engels si è poi contraddetto, ha come annullato quel suo felice avvertimento metodico, quando (e qui incide l’appunto fattogli da Lenin) ha, nello stesso luogo, dialettizzato (immediatamente) degli esempi, dei fatti empirici, ha cioè ipostatizzato, « sostantificato » la dia­ lettica, l’universale,- l’idea; ripetendo (con intenzioni diverse da Hegel, certo) un errore come quello*rimproverato a Hegel da Marx, nella sua critica della dialettica wrirrifzritta (vedi il saggio che diamo avantrdi tale critica, a proposito della concezione hegeliana del diritto statuale). Quando,, infatti, Engels assume che un « seme d’orzo », che cade su terreno acconcio etc., e germoglia, « come tale trapassa, cioè è negato », e in suo luogo sorge la pianta che produce nuova­ mente semi d’orzo e, « come appena questi giungano a maturità, lo stelo muore, ossia è negato », e « abbiamo, infine, quale risul­ tato della negazione della negazione, l’iniziale seme d’orzo, ma moltiplicato per dieci » etc.; che fa Engels di sostanzialmente di­ verso da ciò che fa Hegel, quando, ad es., nella Filosofia della natura, dialettizza suono e calore, assumendo che « il riscaldarsi dei corpi sonanti, come di quelli percossile anche di quelli soffregati l’uno sull’altro, è il fenomeno del calore, che, in conformità del concetto, nasce col suono »; o quando, nella Filosofia del di­ ritto, dialettizza il sovrano e il popolo, giustificandosi col dire che « appartiene alle vedute logiche più importanti che un mo­ mento determinato, il quale, in quanto sta in antitesi, ha la posi­ zione di un estremo, cessi di esser tale e sia un momento.organico, per il fatto ch’esso è, nello stesso tempo, un medio »; e susci­ tando cosi i sarcasmi di Marx? E l’ultimo passo citato di Hegel non è richiamato puntualmente dall’esaltazione engelsiana (che chiude la sua dialettica di esempi) di « quei giri dialettici che Marx va adoperando [sic] », per cui « ecco il ripiegare di un estremo nel. suo opposto, e da ultimo, come noccioToMi tutto, negazione della negazione »? È vero che poi Engels si affretta ad avvertire: che « si inten­ de da sé ch’io non dico nulla di positivo su quello specifico proces­ so di sviluppo che il seme d’orzo percorre dal venir germogliando fino al morir della pianta ch’ha recato nuovo frutto, finché mi fermo a dire-, negazione della negazione. Poiché, come il calcolo 139

integrale è anch’esso negazione della negazione, tanto farebbe, a rimaner sulle generali, che io pronunciassi questa assurda pro­ posizione: essere il processo biogenetico di uno stelo d’orzo un cal­ colo integrale o addirittura il socialismo [intendi: tanto varrebbe unificare astrattamente, ossia confondere, tutte le cose particolari, nella dialettica, neVdidea o universale]. E questo è il modo sur­ rettizio con cui i metafisici alterano la dialettica » (e qui si fa palese l’influenza benefica su Engels di quella critica marxiana della dialettica mistificata ch’egli almeno doveva pur conoscere!). Ed è vero che Engels conclude, in sostanza, che « ciascun genere di cose ha il suo modo particolare di comportare la negazione, af­ finché ne consegua uno sviluppo ». Ma è anche vero che egli mantiene che: « quando dico di tutti codesti processi eh’essi sono negazione della negazione, li abbraccio tutt’insieme sotto una sola legge evolutiva, e perciò appunto faccio astrazione dalla peculiarità di ciascun processo particolare ». È anche vero, cioè, che Engels tien fermo alla sua convinzione che sia lecito e fruttuoso isolare, « astrarre » la dialettica dall’esperien­ za-, correndo cosi continuamente il rischio di ipostatizzarla e però di giustapporla ai processi particolari, che restano cosi gratuiti, e surrettiziamente assunti; mentre è vero ch’essi implicano già, come loro « legge generale » incorporata, concretata in essi, la dialettica, ^universale. Perché, proprio per attingere la dialettica reale ch’è lo scopo del marxismo (e qui l’intenzione di Engels, quando dice che « la negazione della negazione realmente ha luogo », e la sot­ tolineatura è sua, « nei due regni del mondo organico » etcetera, è radicalmente altra da quella hegeliana, panlogistica); proprio per ciò bisogna tener fermo che la dialettica ha un senso o valore solo in quanto dialettica determinata ossia assorbita nelle leggi scien­ tifiche, cioè condizionante queste, e con queste coincidente in concreto. Bisogna, insomma, persuadersi che dialettizzare ha un senso solo ih quanto sia un dialettizzare (cioè unificare) dividendo, cioè classificando, in concreto ; ma perciò non ha senso dialettizzare dal­ l’esterno, astrattamente, degli « esempi », cioè dei fatti, che, in quanto tali, presuppongono già la dialettica, di cui essi, come tali, hanno da essere e sono la puntualizzazione o realizzazione. È, nel migliore dei casi, un innocuo doppione, un fuor d’opera, un meta­ forizzare, come accade con le « civetterie » di Marx, del Marx autocritico (*). E « rivoluzionaria » è, certo, la dialettica, ma non in se 140

stessa e per se stessa (che, se mai, guardata in sé, nell’analisi, essa rappresenta, avendo la funzione dell’« universale », l’aspetto dell’unità e continuità e permanenza, almeno se il termine « dialet­ tica » significa qualcosa d’altro dalla categoria scientifica, positivi­ stica (*), della «lotta darwiniana» con cui è stata contaminata da Engels in poi) : rivoluzionaria è in quanto è « critica », cioè in quanto entra come coelemento (razionale) nella costituzione delle scienze (l’altro elemento non può essere nient’altro che l’« espe­ rienza »): chi potrebbe, infatti, sostenere ciré il marxismo è rivo­ luzionario mediante i « giri dialettici », di cui sopra ? o non piut­ tosto mediante le determinate scoperte economiche e sociologiche, del Capitale’? Dire, come dice Engels (nella prefaz. alla see. ed. dell’Antidiihring), che anche « la scienza naturale ha ora progredito tanto che non sfugge più alla concezione dialettica » è riavvicinarsi, pur senza volerlo, alla filosofia hegeliana della natura, a una metafisica della natura: o nel migliore dei casi è ancora « civettare » con quel « mobile mistificato » ch’è, secondo il Marx critico del conservatore Hegel, il preteso dinamismo dialettico del « pensiero astratto »; e, del"resto, fattore specifico di dinamismo non è l’« esperienza » con la « novità » del « fatto »? La scienza, naturale o non, è già, è sempre dialettica, proprio in quanto scienza-, non ha bisogno di « progredire » nel senso di diventare « dialettica ». E, d’altra parte, come si spiegherebbe ciò che dice Marx (vedi sopra in principio) defla dialettica « nella sua forma razionale », cioè critico-razionale, per cui si mostra il « flusso » e « movimento » di ogni « esistente », ossia il suo aspetto « tran­ sitorio »? Come si spiegherebbe, se. la dialettica (che presa per sé, e metafisicizzata, è movimento chiuso, « circolare », non aper­ to) non dovesse intendersi in funzione dell’esperienza e correla­ tiva «probabilità » (non-certezza!) q apertura? Se non dovesse insomma intendersi incorporata, come sua condizione (non unica), nella scienza? Stante quel che precede, dovremo concludere dunque che il problema del « nucleo razionale » della dialettica si riduce tutto al problema di una coscienza della scienza? No, se si intenda per « coscienza della scienza » qualcosa di simile Al’epistemologia tra­ dizionale, che, basata com’è, nel migliore dei casi, su preconcetti positivistici e fenomenistici, e, nel peggiore, oggi frequente, su preconcetti metafisici e teologici, rivela una coscienza dogmatica, un’assenza di coscienza della « dialettica determinata » ch’è ogni procedimento scientifico. Si, se s’intenda una coscienza critica della 141

scienza; se s’intenda, cioè, semplicemente una coscienza materiali­ stico-pratica, che, oltrepassata ogni metafisica, sia quella del ma­ terialismo tradizionale, « teorico », che quella dell’idealismo, è in grado sola di salvare il nucleo razionale della dialettica. Che significhi « coscienza materialistico-pratica » in genere è~ indicato schematicamente nella pregnante formula fondamentale del praktischer Umsturz o « rovesciamento pratico », per cui è detto da Marx che « le circostanze [cioè l’economico, la natura etc.] fanno gli uomini [la coscienza etc.] tanto quanto gli uomini fanno le circostanze tó Il che ci indica già come si sia al di là tanto del dogmatico determinismo positivistico e materialistico (tradizionale) quanto dell’indeterminismo dogmatico dell’idealismo; con la nuo­ va problematica generale che ciò importa. E per quel che significhi « coscienza materialistico-pratica » specificamente, riguardo al problema del nucleo razionale della « dialettica », cioè, infine, dell’« universale », basti qui accennare che ci sembra che la forma corretta che questo problema deve assumere, in sede di critica dell'ideologia filosofica tradizionale, non possa esser che questa: come si concilia, non estrinsecamente, la contraddizione, la dialettica, con la non-contraddizione (da Hegel misconosciuta) che caratterizza il pensiero empirico e scientifico in genere, per cui un « uomo » è un « uomo » e non un « albero »? Il che significa chiarire il problema della dialettica determinata, della scienza cioè, da cui siamo partiti. Questi, nella forma più rapida, i problemi più generali che ci sembrano urgere oggi nel marxismo, oggi che possiamo abbrac­ ciare e connettere la critica marxiana della dialettica « mistificata » (in quanto « interpolazione » allegorizzante, teologica, del con­ tenuto, dell’empiria, della storia, con la conseguenza dell’empiri­ smo o positivismo « falso », « acritico », di un’empiria surrettizia perché gratuita, e gratuita perché trascesa nell’allegorismo apripristico), questa critica svelatrice davvero del « segreto di Hegel 1 Deutsche Ideologie, I, 1845-6 (cfr. Marx-Engels historisch-kritische Gesamtausgabe, I, 5, p. 28). Cfr. la «prassi rivoluzionaria», e la «coincidenza del variare dell’ambiente e dell’attività umana», che «può solo esser concepita es compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria », nelle note Tesi su Feuer­ bach(1845), tesi prima e terza, etcetera. E cfr. l’engelsiana uniwalzénde Praxis e simili, e il noto avvertimento autocritico di Engels stesso (nella lettera a Giuseppe Bloch, del 21 sett. 1890): «Di fronte agli avversari noi dovevamo sòttólineare il principiò essenziale da loro negato [il fattore economico, la produzione etc.], e allora non trovavamo sempre il tempo [...] di render giustizia agli altri fattori che partecipano all’azione reciproca » (Carlo Marx, Scritti scelti, I, pp. 394-5, 363;corsivo nostro). 2 Oekonomisch-philosophische M.anuskripte (1844), III (Gesamtausgabe, I,

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con la realizzazione consapevole della dialettica nella scienza eco­ nomica e sociale del Capitale. Chiarire e sviluppare il senso di questa consapevole realiz­ zazione della dialettica nella scienza ci sembra il compito « teorico » più generale (e non certo il meno importante « praticamente », se si riflette soltanto che, in quanto « dialettico » nel senso suinteso, il materialismo storico dà aU’uomo coscienza della sua forza reale, umana, e della sua condizione, al di là di ogni fatalismo, anche « economico »), il primo compito impostoci dal marxismo integrale che ora cominciamo a conoscere.

3, p. 155): « schon in der Phànomenologie [...] der unkritiscbe Positivismus [...] der spàtern Hegelschen Werke — diese philosophische Aujlbsung und Wlederherstellung der vorbandenen Empirie — latent liegt, als Keim, als Potenz, als ein Geheimnis vorhanden ist» (corsivo nostro). E vedi avanti, a pp. 168 sgg., i Testi tradotti.

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Marx e lo Stato moderno rappresentativo (Un saggio della critica marxiana della dialettica mistificata)

L’importanza eccezionale della Critica del diritto statuale hegeliano — cioè del primo scritto filosofico marxiano dopo la Doktordissertation, postumo e da datarsi fra l’inverno 1841-2 e l’estate 1843 (’ ) — risiede nel fatto che essa critica segna il distacco nettissimo, fin d’allora, del Marx (ventiquattrenne) dallo Hegel, in quanto è una critica radicale della Logica, oltre che della Filo­ sofia del diritto, di Hegel, ed è soprattutto una critica radicale per la sua fondazione su motivi di tipo inconsueto alla critica « sinistro­ hegeliana » dell’idealismo; su motivi del tipo della capitale critica aristotelica della logica aprioristica platonica (negli Analitici primi e secondi). Primo esempio: la deduzione hegeliana del passaggio dalla famiglia e società civile allo Stato. In riferimento ai §§ 261-6 della Filosofia del diritto, Marx osserva: « Famiglia e società civile sono intese come sfere del concetto dello Stato, come sfere della sua fi­ nità, come la sua finità. È lo Stato che si scinde in esse [...] e fa questo ” per scaturire dalla loro idealità come per sé infinito **, reale spirito ”. Esso ” assegna perciò* a queste sfere la materia 1 Indichiamo il corsivo di Marx (entro le sue citazioni da Hegel) coi segni: * (quando è da lui sottolineata una sola parola) e ** (quando è sottolineata più di una parola), intendendo che il restante corsivo è di Hegel. Le parentesi tonde sono di M., le quadre nostre. Le citazioni dalla Crìtica del diritto statuale hege­ liano [= Crìtica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili} e dai Manoscritti economico-filosofici sono fatte seguendo la Marx-Engels historisch-kritische Gesamtausgabe, Frankfurt a. M., 1927, I, 1, 1, pp. 403552; Berlin, 1932, I, 3, pp. 29-172. La traduzione in ambo i casi è nostra, e si distacca da quella francese, del Molitor, che in specie per queste opere filosofiche è pressoché tutta erronea (anche nei riguardi dei testi hegeliani), a parte che si fonda su testi scorretti. Le citazioni da altre opere marxiane sono tolte da Carlo Marx, Scrìtti scelti, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1944, I e IL Abbiamo tenuto presenti, oltre le note biografie spirituali di M., quella a opera del Vorlander (tutta esterna anche riguardo alle due opere filosofiche suddette), e quella

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della sua realtà, cosicché* questa assegnazione etc. appare* me­ diata ” [...]. È a questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo logico, panteistico. Il rapporto reale è ” che l’assegna­ zione della materia statale è mediata nel singolo dalle circostanze, dall’arbitrio e dalla propria scelta della sua determinazione ”. Questo fatto, questo rapporto reale, è enunciato dalla speculazione come una manifestazione, come un fenomeno. Queste circostanze, questo arbitrio, questa scelta della determinazione, questa mediazione rea­ le, sono soltanto la manifestazione di una mediazione che l’idea reale intraprende seco stessa, e che succede dietro il sipario. La realtà non è espressa per se stessa (per quel che è), ma come una realtà diversa. L’empiria volgare ha come legge non il suo proprio spirito, ma uno estraneo, e per contro l’idea reale ha come sua esistenza non una realtà sviluppatasi da essa idea; ma bensì la volgare empiria. L’idea [il predicato] è ridotta a subietto [ = sostantificata]. E il reale rapporto della famiglia e della società civile allo Stato è inteso come interna [...] attività dello Stato (dell’idea). Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, essi sono propriamente attivi [perché reali, esistenti]. Ma nella speculazione accade il contrario: mentre l’idea [il predicato] è trasformata in subietto, i subietti reali, la società civile, la1 famiglia, le ” circo­ stanze ”, 1’ ” arbitrio ” etc., diventano dei momenti obiettivi del­ l’idea [diventano dei predicati], irreali, significanti altro. L’asse­ gnazione della materia statale ” nel singolo mediante le circo­ stanze [...] ”, tutto questo non è semplicemente espresso come ciò ch’è verace, necessario e giustificato in e per se stesso; non è dato come tale per il razionale; e, d’altra parte, lo a opera del Cornu (anch’essa esterna, ed espositiva, benché incomparabilmente migliore), e, oltre altri scritti secondari (quali ad es. le introduzioni di Landshut e Mayer alle loro edizioni), gli studi di Werner Falk, Hegels Freiheitsidee in der Marx’schen Dialektik (in Archiv (tir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, 1933, pp. 167-85); di Ernst Lewalter, Zur Systematik der Marx’schen Staats und Gesellschaftslehre (in Archiv etc., pp. 612-74); di Hans Kelsen, Allgemeine Rechtslehre im Fichte materialistischer Geschichtsauffassung (in Archiv etc., 1931, pp. 449521). Ma anche questi studi ci hanno aiutato ben poco a sbrogliare i problemi particolari delle due opere suddette, nonostante l’interesse che serba la mono­ grafia di Lewalter (la migliore che conosciamo) rispetto alla questione dell’at­ teggiamento originario, nettamente critico e polemico, di Marx verso Hegel come verso Platone (ma la problematica della dialettica « mistificata », che si pone particolarmente in queste due opere, Lewalter l’ha appena avvertita). Cenni (') espositivi di questi problemi in Karl Lowith, Von Hegel bis Nietzsche, 1941, pp. 196 sgg., 376 sgg. Per la Filosofia del diritto di Hegel rimandiamo, sotto l’aspetto genetico-storico, a Franz Rosenzweig, Hegel und der Staat, 1920, II, spec. pp. 18 sgg. (per la « società civile »), 125 sgg. (per il concetto hegeliano di « massa » o « plebe »), 155 sgg. (per gli « stati »), 189 sgg. (per i rapporti di H. con Rousseau e Haller), 200 sgg. (per il rapporto del Marx giovane con H. filosofo politico) '(2).

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è, tuttavia; ma soltanto in tal guisa ch’esso è dato come una mediazione apparente: è lasciato tale qual è e riceve ad un tempo il significato di una determinazione dell’idea, di un risultato, di un predicato dell’idea [...]. È una storia duplice, eso­ terica ed essoterica. Il contenuto risiede nella parte essoterica [la popolare, « volgare empiria » ]. L’interesse della parte esoterica [l’arcano della « speculazione »] è sempre quello di ritrovare nello Stato la storia del concetto logico [o puro]. Ma appartiene al lato essoterico che avanzi lo sviluppo propriamente [che ci sia un contenuto!]-1 [...]. Lo Stato non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile, che sono la sua condizione sine qua non. Ma la condizione è posta come un condizionato, il producente come prodotto del suo prodotto [lo Stato]; 1’” idea reale” si umilia nella finità della famiglia e della società civile soltanto per produrre e godere — dal supera­ mento di essa finità — la sua infinità. Essa ” assegna perciò * ” (per raggiungere il suo scopo) a queste sfere la materia di questa sua finita realtà (di questa? ma quale? ma queste sfere sono appunto la sua realtà finita, la sua ’’materia”) [...]. La realtà empirica apparirà dunque tale quale è; essa è anche enunciata come razio­ nale, ma non è razionale per la sua propria razionalità, bensì perché il fatto empirico ha, nella sua empirica esistenza, un significato altro da se stesso [è una «allegoria», come M. dice più avanti]. Il fatto da cui si parte non è inteso come tale, ma come risultato mistico. Ciò ch’è reale diventa fenomeno [della idea], ma l’idea non ha per contenuto altro che questo fenome­ no [...]. In questo paragrafo [262] è depositato tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia hegeliana in generale [...]. Il passaggio della famiglia e della società civile a Stato consiste, dunque, in questo [vedi § 266]: che lo spirito di queste sfere, che è in sé lo spirito dello Stato, si rapporta ora a sé come loro interiorità, è reale per sé. Il passaggio non è dunque derivato dal­ 1 Cfr., per questo « falso positivismo » di H., i Manoscritti economico-filosofici (1844), terzo ms.: « [In H.] si ha che l’uomo-autocoscienza, in quanto ha riconosciuto e soppresso come autoalienazione il mondo spirituale [...], con­ ferma, tuttavia, di nuovo il medesimo mondo in questa figura alienata e lo dà per la sua vera esistenza, lo ristabilisce, pretende di esser presso di sé nel suo esser altro come tale, e quindi, dopo la soppressione, per es., della religione [...], si trova, tuttavia, confermato nella religione come religione. È qui la radice del falso positivismo di Hegel o del suo solo apparente criticismo [...]. Superfluo, dunque, discorrere di un accomodamento di Hegel con la religione, lo Stato etc. [il «conservatorismo» di H.I], che questa menzogna è la menzogna del suo [concetto di] progresso» (p. 222, qui, avanti). E vedi avanti e nota seguente.

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l’essere particolare della famiglia etc., e dall’essere peculiare dello Stato, ma dagli universali rapporti di necessità [ = immedia­ tezza] e libertà [= mediatezza]. È del tutto lo stesso passaggio che, nella logica, si effettua dalla sfera dell’essere alla sfera del con­ cetto. Lo stesso passaggio è fatto, nella filosofia della natura, dalla natura inorganica alla vita. Sono sempre le stesse categorie, che animano ora questa sfera, ora quella. Ciò che solo importa la H.] è di trovare — per le singole determinazioni concrete — le corrispon­ dènti determinazioni astratte ». Concludendo in proposito, Marx osserva in margine al § 267 (che dice: « La necessità dell’idealità è lo sviluppo dell’idea entro se stessa; essa è, in quanto sostanzialità soggettiva, il sentimento politico *; e, in quanto oggettiva, a differenza di quella, è l’orga­ nismo dello Stato, lo Stato propriamente politico e la sua costi­ tuzione »): «Il subietto è qui ” la necessità dell’idealità”, la ” idea dentro se stessa il predicato è il sentimento politico e la costituzione politica. In tedesco: il sentimento politico è la sostan­ za soggettiva dello Stato, la costituzione politica ne è la sostanza oggettiva. Lo sviluppo logico della famiglia e della società civile a Stato è dunque una pura apparenza-, giacché non è spiegato come il sentimento familiare, il sentimento civile,'l’istituzione della fa­ miglia e le istituzioni sociali come tali si rapportino al sentimento politico e alla costituzione politica e coincidano con essi. Il pas­ saggio, per cui lo spirito è ” non solo in quanto questa necessità e in quanto regno del fenomeno * ”, ma in quanto è la ” loro idealità ”, e in quanto, come anima di questo regno, esso è per sé reale ed ha un’esistenza particolare, non è affatto un passaggio, giacché l’anima della famiglia esiste per sé come amore etc. La schietta idealità di una sfera reale potrebbe tuttavia esserci sol­ tanto come scienza. Ciò ch’è rilevante è che Hegel dappertutto fa dell’idea il subiettq, e del subietto propriamente detto, reale, quale [è qui] il ’’sentimento politico”, fa il predicato^ Ma lo sviluppo procede sempre dalla parte del predicato ». 1 Cfr. Manoscritti-. « L’uomo reale e la natura reale [cioè: dei subietti] di­ ventano dei semplici predicati, dei simboli di quest’uomo nascosto, irreale, e di questa natura irreale [cioè diventano predicati dell’idea, sostantificata; predicati del loro naturale predicato!]. Il subietto [o particolare] e il predicato [o univer­ sale] si trovano, quindi, fra loro nel rapporto di un rovesciamento assoluto [cioè: il subietto, il particolare, in quanto « fenomeno » o determinazione dell’idea, del­ l’universale, diventa predicato dell’idea, appunto perché questa, il predicato, è sta­ ta sostantificata o fatta da predicato subietto: e tutto ciò, s’intende, senza che i due termini, subietto e predicato, possano perdere il loro reale valore, che resta giustapposto al nuovo, in una viziosa circolarità!]; mistico soggetto-oggetto » etcetera (p. 226, qui, avanti).

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Altro esempio: la deduzione della costituzione politica (§§ 269-70). Osserva Marx: « Che cosa giustifica la frase [del § 269]: che ” questo organismo è la costituzione politica ”? Per­ ché non invece: ” questo organismo è il sistema solare ”? Perché Hegel ha determinato ” i diversi lati dello Stato ” come i ” diversi poteri ”. Ma la frase ” i differenti lati dello Stato sono i diversi poteri ” è una verità empirica, non può esser spacciata per una scoperta filosofica, non è in alcun modo apparsa come ri­ sultato di uno sviluppo [logico] precedente. Bensì, determinando l’organismo come ” sviluppo dell’idea ** ”, parlando delle distin­ zioni dell’idea, e inserendo il concreto: ” i diversi poteri ”, s’in­ troduce l’apparenza di aver sviluppato un contenuto determinato [...]. Per lo meno ciò ch’egli dice vale per ogni organismo, e non è presente alcun predicato che giustifichi il soggetto ” questo Il risultato a cui egli propriamente tende è la determinazione delVorganismo in quanto costituzione politica. Ma non c’è ponte at­ traverso cui si pervenga dall’idea generale di organismo all’idea: determinata di organismo statale o costituzione politica, e per la eternità non si potrà gettare tale ponte [...]. In verità, Hegel [...] del subietto [= i diversi poteri] dell’idea fa un prodotto, un predicato dell’idea [altrove: « ne fa un predicato del proprio predicato » ! ]. Egli non sviluppa il suo pensiero secondo l’og­ getto [qui: la costituzione politica], bensì sviluppa l’oggetto se­ condo un pensiero in sé predisposto [...]'. Non si tratta perciò di sviluppare l’idea determinata di costituzione politica, ma sì di mettere in rapporto la costituzione politica con l’idea astratta, di ordinarla come un anello della storia della sua vita (dell’idea): una mistificazione manifesta. Così un’altra determinazione è che i ” diversi poteri ” sono ” determinati dalla natura del concetto ”, e che perciò ” l’universale li produce [producendo se stesso] in modo necessario ”. I diversi poteri non sono, dunque, determinati secondo la loro propria natura, ma secondo una natura estranea. Parimente la necessità non è attinta dalla loro propria essenza [...]. La sua sorte è piuttosto predestinata dalla ’’natura del con­ cetto ”, suggellata nei sacri registri della santa casa della logica [...]. ’’Idea” e ’’concetto” sono qui astrazioni sostantificate [cfr. sopra: l’« idea ridotta a subietto »] ». E così Marx prosegue a smascherare le « mistificazioni » in cui si risolvono altresì tutte le ulteriori « deduzioni » hegeliane: del potere sovrano o del monarca « ereditario » (sovranità come « magia della natura », dice Marx), del potere governativo e della 148

burocrazia (« corporazione dello Stato », dice Marx), del potere legislativo (vero « potere metafisico dello Stato », osserva Marx) e dell’elemento classista connesso, e infine della « suprema sintesi » (Marx) dello Stato: la Camera alta, dei pari etc., costituita di legi­ slatori « nati » in quanto signori di maggiorasco. « Non è da biasimare Hegel — rileva Marx — perché de­ scrive l’essere dello Stato moderno [cioè della « monarchia costi­ tuzionale dell’Europa d’allora»] tale qual è, ma perché spaccia ciò che è come l’essenza dello Stato. » In altri termini: « la dimo­ strazione di Hegel è concludente se si parte dai presupposti costi­ tuzionali [di fatto, del tempo]; ma Hegel non ha dimostrato que­ sti presupposti con l’analisi di essi nella loro rappresentazione fon­ damentale ». L’incapacità di Hegel a far ciò ha la sua ragione pro­ fonda nel metodo stesso — deduttivo, aprioristico — di Hegel, come Marx non si stanca di mostrarci. La ragione di tutto ciò è sempre la seguente: che non solo « l’universale come tale è fatto [da Hegel] per sé sussistente [os­ sia è sostantificato] », è « ridotto a subietto » del giudizio, e « Hegel rinuncia alla cosa qual è nella sua particolarità [o speci­ ficità] e le presta [unterschiebt], nella sua figura limitata, il signi­ ficato opposto a questa limitatezza », onde « il suo significato [del­ la cosa particolare] non è la sua determinazione, bensì una deter­ minazione allegorica, interpolata [untergeschobene] »; o, in altri termini, « esso [l’universale] è immediatamente confuso con l’em­ pirica esistenza, e il limitato è immantinente preso, in guisa acritica, per la espressione dell’idea [per il suo prodotto o predicato] »; ma che, in conseguenza di questo « scambio [Umschlag] dell’em­ piria in speculazione », si ha altresì uno « scambio della specula­ zione in empiria ». E cioè « non si guadagna in questo modo alcun contenuto, ma soltanto muta la forma del vecchio contenuto »: e infatti « lo sviluppo consiste, in particolare, in dei motivi del tutto empirici, cioè motivi empirici astratti, molto cattivi »; ossia, co­ me si è detto sopra, « appartiene al lato essoterico che avanzi lo sviluppo propriamente », o « lo sviluppo procede sempre dalla parte del predicato », vale a dire, dell’ex subietto reale. Si confronti con l’accusa di « petizione di principio » rivolta da Aristotele alla diairesi o classificazione platonica: che cioè, procedendo dal « piu generale », invece che dal « medio », la di­ visione postulava ciascuno dei suoi progressi, di cui doveva dare la ragione-, e si avvertirà la coincidenza di orientamento delle due critiche (ma di ciò più avanti). 149

Intanto, il risultato reale della 'Filosofia del diritto hegeliana è il seguente: « ovunque Hegel cade dal suo spiritualismo politico nel più crasso materialismo La costituzione politica al suo apice è, dunque, la costituzione della proprietà privata [...]. L’inalienabilità della proprietà privata [maggiorasco! ] è in uno l’alienabilità della generale libertà del volere e della moralità so­ ciale » o moralità concreta (Sittlichkeit) cui proprio Hegel tendeva, per superare le difficoltà della Moralitàt, della astratta morale in­ dividualistica kantiana. In altri termini: fallimento del tentativo di superare, con una sua sistemazione dialettica, l’universalità astratta formale kantiana, e risolvere così il problema del rapporto dell’universale al particolare, del rapporto di individuo e Stato. Che la dialettica hegeliana non sia che il « mobile mistifi­ cato » del « pensiero astratto », come qui la definisce Marx, si può inferire già con sicurezza dal conservatorismo profondo, ineli­ minabile, che caratterizza lo schema filosofico-giuridico suaccen­ nato. « Hegel — conclude Marx — qualifica il diritto privato co­ me il diritto della persona astratta o come il diritto astratto. E, in verità, bisogna che esso sia spiegato come Castrazione del diritto e però come il diritto illusorio della personalità astratta, così come la moralità spiegata di Hegel è Cesistenza illusoria della soggetti­ vità astratta. Hegel spiega il diritto privato e la moralità come astrazioni di tal genere, e presso di lui non ne consegue già che lo Stato, l’eticità [Sittlichkeit], che ha quelli come suoi presup­ posti [si ricordi la fondamentale triade dialettica: diritto astratto, tesi; moralità, antitesi; Stato, sintesi], non possa esser altro che la società (la vita sociale) di tali illusioni, bensì se ne conclude all’in­ verso che quelli sono momenti subalterni di questa vita etica [...]. Si è molto combattuto Hegel a proposito del suo sviluppo della morale. Ma egli non ha fatto altro che sviluppare la morale dello Stato moderno e del moderno diritto privato [...]. È, piuttosto, un grande merito di Hegel, sebbene inconsapevole sotto un certo aspetto (sotto l’aspetto per cui Hegel spaccia per idea reale della eticità lo Stato che ha come suo presupposto una cosiffatta mo­ rale), di aver messo la moderna morale al suo vero posto »: cioè di averla intesa come morale astratta, in quanto asociale. Prima di riesaminare conclusivamente le ragioni del fallimento dell’esecuzione dialettica dell’intenzione meritoria di cui sopra, cioè le ragioni della fondamentale incapacità critico-filosofica he­ geliana da cui dipende il suo conservatorismo, inteso nel senso più profondo del termine, dobbiamo vedere di scorcio la critica mar­ 150

xiana particolare dello sviluppo hegeliano della morale dello Stato moderno: il che ci introdurrà nel cuore della filosofia dello Stato hegeliana: nella deduzione di quel concetto della « società civile », come sistema di classi e corporazioni dedite al lavoro e al soddi­ sfacimento di bisogni, in cui Hegel cerca la soluzione del pro­ blema del rapporto individuo-Stato, della mediazione di partico­ lare e universale insomma. Tutto l’impegno di Hegel, si sa, è di dedurre la società civile (questa figura tipica in cui l’economia classica ha espresso, da Ferguson in poi, il suo dogma fondamentale dell’homo oeconomicus come bourgeois, distinto dall’homo politicus o citoyen), di dedurla come sistema di quelle cerehie o comunità, le classi e le associazioni relative, nelle quali e per le quali l’« affare generale » venga ad esistere « non soltanto in sé, ma anche per sé » (§§ 301 sgg.); onde le classi sarebbero le sole articolazioni concrete conce­ pibili dell’* universale in sé e per sé », dello Stato, e in esse e per esse soltanto la coscienza del membro dello Stato sarebbe non vuota, ma « riempita e realmente viva » perché riempita della « particolarità »; e insomma l’individuo solo cosi si farebbe « ge­ nere » o universale, — in quanto « genere prossimo »: donde l’individuo concreto, sintesi di particolare e universale. Con questa concezione delle classi come mediatrici — in quanto comunità « particolari » — fra l’individuo e lo Stato, Hegel si proponeva di superare dialetticamente l’atomismo del contrattualista Rousseau (come già con Kant, per la morale astratta), pur serbandone la lezione della democrazia politica-, almeno per quel tanto che Rous­ seau poteva conciliarsi con l’altra sua simpatia, il « legittimista » Haller; donde poi il suo « sincretismo » (secondo il termine mar­ xiano già riscontrato a proposito della Camera alta come Camera di casta posta accanto alla Camera dei rappresentanti del popolo, come altresì riscontrabile, in Marx, a proposito della hegeliana dottrina semimedievale e semimoderna delle associazioni o « cor­ porazioni »). Dunque, con questa specie di « organicismo » mo­ derno Hegel intese correggere le astrattezze russoiane e giusnatu­ ralistiche in genere e superarle. La critica marxiana ci discopre le illusioni di Hegel, e dell’hegelismo, in proposito; e per sempre. Anche in questo caso il metodo delle « interpolazioni » di cui sopra, il metodo déil’interpolazione aprioristica, teologica, mostra la sua fondamentale incapacità critica, la sua irrimediabile « acri­ sia » (Marx), infine la sua impotenza valutativa (assiologica). Per prima cosa: Hegel non riesce ad abolire la tradizionale 151

distinzione, astratta, della società civile dallo Stato, e però non riesce a realizzare la sua principale intenzione, di dare una morale sociale, concreta, una morale veramente moderna. L’esame mar­ xiano dello Stato costituzionale o Stato rappresentativo, « mo­ derno », nei tratti caratteristici che di esso sussistono nell’« orga­ nicismo » hegeliano (§§ 300-13), pone le basi di una dimostra­ zione del nostro asserto. L’esame, in altri termini, del tentativo he­ geliano di dare forma « razionale », cioè « organica », all’« ele­ mento democratico » (o russoiano) dello Stato. Dunque, Hegel premette che « ciò che costituisce il signifi­ cato proprio delle classi [cioè della « delegazione della società civile presso lo Stato »] è che lo Stato’' entra* per tal modo nella coscienza soggettiva del popolo**, e che questo comincia a pren­ der parte al medesimo ». Esatto, dice Marx: « il popolo comincia, nelle classi, a partecipare allo Stato, e precisamente lo Stato entra come qualcosa di esterno [jenseitiger] nella coscienza soggettiva del popolo. Ma come può Hegel spacciare questo inizio per la realtà'. ». Del resto, « in uno Stato, in cui la posizione delle ” clas­ si ” impedisce [come Hegel dice] che ” i singoli giungano a rap­ presentare una moltitudine e una massa, quindi un’opinione e vo­ lontà inorganica, e un potere semplicemente di massa contro lo Stato organico ”, lo Stato [cosiddetto] organico esiste al di fuori della ” moltitudine ” e della ” massa ”, o la ” moltitudine ” e la ” massa ” fa parte, sì, dell’organizzazione dello Stato: solo che la sua ” opinione e volontà inorganica ” non deve diventare una ” opinione e volere contro lo Stato ”, per la quale ” direzione de­ terminata ” essa diventa un’ ” organica ” opinione e volontà ». Dunque: « questo ” potere di massa ” deve restare soltanto ” di massa ”, giacché l’intelligenza è fuori della massa [cioè del « po­ polo »: « in quanto con questa parola — dice Hegel — si desi­ gna una parte speciale dei componenti di uno Stato, essa significa la parte che non sa quel che vuole »] e questa non può animarsi da sé, ma bensì può esser messa in movimento soltanto dai mo­ nopolisti dello ” Stato organico ” e esser sfruttata come potere di massa». Cosi «gli ’’stati” [o classi] preservano lo Stato dalla massa inorganica solo con la disorganizzazione di questa massa »; gli stati, le classi, che, essendo per Hegel le « sfere essenziali della società [civile!] », in quanto sono « comunità particolari », sono da lui chiamate a mediare individuo e Stato, il particolare e l’universale insomma, attraverso la mediazione ch’esse compireb­ bero del popolo col governo e sovrano. 152

Che cos’è, dunque, in Hegel, anche in Hegel, la « società civile », di cui le classi sono le « sfere essenziali »? Quali i suoi caratteri fondamentali? « Entro la stessa [la società civile] — dice Marx — la differenziazione si svolge in cerehie mobili, non fisse, il cui principio è l’arbitrio. E denaro e cultura i criteri capi­ tali. » Le sue sfere essenziali o classi, sappiamo infatti, sono per Hegel tre: lo « stato generale » o dei funzionari governativi, de­ tentori della « scienza civica » ò amministrativa, lo « stato pro­ fessionale » e dell’industria e arte, lato « instabile » della società civile, in quanto detentore di « fortune » piuttosto che di « pro­ prietà » stabile, fondiaria, e infine lo « stato sostanziale » o « del­ l’eticità naturale », classe basata sul principio naturale della fami­ glia e della proprietà familiare fondiaria (culminante nel maggio­ rasco: vedi sopra). « È una divisione — continua Marx — di masse [...] la cui stessa formazione è arbitraria e non è un’orga­ nizzazione. Caratteristico è soltanto che la mancanza di beni e la condizione del lavoro diretto, del lavoro concreto, costituiscono meno uno stato della società civile che non il terreno su cui ripo­ sano e si muovono le sue cerehie »; questo terreno è la massa « inorganica », amorfa, di cui sopra. Lo « stato » privato, la classe, è cosi « soltanto una determinazione esteriore dell’individuo, che esso non è inerente al suo lavoro [alla sua attività], né si rap­ porta all’individuo come un’oggettiva comunità, organizzata se­ condo leggi stabili e avente con lui stabili relazioni [come nel me­ dioevo]. Esso, piuttosto, non è in alcun rapporto reale con l’agire sostanziale dell’individuo, col suo reale stato. L’esercizio della me­ dicina non costituisce nessun particolare stato nella società ci­ vile. Un commerciante appartiene a uno stato diverso da quello di un altro commerciante, cioè a una diversa situazione sociale. Cosi come la società civile è separata da quella politica, la società civile è separata, nel suo interno, in stato reale e in situazione sociale, per quante relazioni vi siano fra i due. Il principio della condi­ zione borghese ossia della società civile è il godimento, la capa­ cità di fruire [...]. L’attuale società civile è il principio realizzato individualismo-, l’esistenza individuale è lo scopo ultimo: at­ tività, lavoro, contenuto etc. sono soltanto dei mezzi ». Posto ciò, come la società civile diventa politica, si fa Stato? Se accade mediante una rivoluzione, questa non può essere che « una rivoluzione parziale, semplicemente politica », come Marx dice Introduzione, edita nel 1844, a Per la critica della filo­ sofia del diritto di Hegel. In che (1 ) consiste tale rivoluzione (bor­ 153

ghese)? «In questo [egli dice qui]: che una frazione della so­ cietà civile s’emancipa e s’impossessa della supremazia generale; che una classe determinata intraprende, partendo dalla sua situa­ zione particolare, l’emancipazione generale della società [...], ma unicamente nell’ipotesi che la società intera si trovi nella situa­ zione di questa classe: che possegga, dunque, o possa procurarsi convenientemente, ad es., del denaro o della cultura. » Comunque, questa « emancipazione politica », secondo Marx la definisce nei suoi stretti limiti, si esprime nello « Stato politico » (Marx), nello Stato « costituzionale » (stàndische), in cui — si sa — sono sal­ vaguardati i diritti della generalità, si, ma in quanto costituita appunto in Stànde, in stati o classi; lo Stato, insomma, « in cui l’interesse statale [Marx dice], quale reale interesse del popolo [o generale], c’è soltanto formalmente »: in quanto « esiste come una determinata forma accanto allo Stato reale »: cioè come potere legislativo (la « legge »! sostituitasi all’« editto » regio), quel « potere legislativo » che Hegel appunto definisce « potere orga­ nizzatore dell’universale », cioè, si badi, organizzatore di quella « totalità articolata nelle sue cerehie particolari [le classi] » ch’è per Hegel lo « Stato concreto », com’egli dice. Il modo in cui funziona per Hegel il potere legislativo — cioè mediante i « deputati » di quelle « cerehie » che, come sue animatrici, si staccano dalla « massa inorganica » ch’è il « popo­ lo » e il suo reale interesse — ci mostrerà che veramente la rap­ presentanza popolare, la rappresentanza dell’interesse statale in quanto reale interesse del popolo, incarnata in tali deputati, non è che una forma politica, che resta giustapposta (« accanto », dice Marx) e insomma fuori del contenuto politico, cioè dello « Stato reale », — tanto quanto quelle cerehie o comunità particolari tra­ scendono la moltitudine informe, il popolo. « Se i deputati — dice infatti l’Hegel che crede di superare Rousseau — sono considerati come rappresentanti, ciò ha un senso organicamente razionale solo quando essi siano non rappre­ sentanti di singoli, di una moltitudine, ma rappresentanti di una delle sfere essenziali della società, rappresentanti dei suoi grandi interessi. Il rappresentare non ha più così il significato che uno* [cioè un singolo] sia in* luogo di un altro [cioè di altri singoli}, ma che l’interesse stesso [comune, della classe!] è realmente pre­ sente nei suoi rappresentanti, così come il rappresentante è là per il suo speciale elemento oggettivo [ = la comunità ch’è la classe cui partecipa] [...]. Nell’elemento costituzionale del potere legi­ 154

slativo lo stato privato perviene a una significazione e a un’atti­ vità politica. Il medesimo non può ora apparire, qui, né come una semplice massa indistinta, né come una moltitudine risolta nei suoi atomi, ma come ciò che. è già, ossia è differenziato in uno stato generale etc. [...]. Soltanto cosi [...] l’elemento particolare, reale nello Stato, si congiunge veramente con l’universale. » Commenta Marx: « Quel particolare non è il ” particolare nello Stato ”, ma piuttosto fuori dello Stato [perché fuori del popolo, e però fuori dell’universale] [...]. Non solo non è il ’’particolare nello Stato”, ma è l’irrealtà dello Stato [...]. Lo Stato moderno, in cui sia 1’ ” affare generale ” che l’occuparsi di esso sono un monopolio, e dove per contro i monopoli sono i reali affari generali, ha fatto la strana invenzione di appropriarsi l’af­ fare generale come una mera forma [...]. Esso ha con ciò trovato la corrispondente forma al suo contenuto, il quale è solo appa­ rentemente il reale affare generale. L’interesse dello Stato ha qui formalmente ripreso realtà in quanto interesse del popolo, ma deve anche avere soltanto questa realtà formale. Esso è divenuto una formalità, lo haut goùt della vita popolare, una cerimonia »: la cerimonia menzognera della rappresentanza popolare di classe (una contraddizione in termini, per quel che si è visto sopra). « L’ele­ mento costituente [ = degli « stati » ] — soggiunge infatti Marx — è la menzogna sanzionata, legale, negli Stati costituzionali: che lo Stato è l'interesse del popolo, o che il popolo è l'interesse dello Stato. » Questa « posizione falsa, illusoria, per eccellenza politica, che ha il potere legislativo nello Stato moderno (di cui Hegel è interprete) », si può riscontrare nella prassi (parlamentare) quoti­ diana. « Il contenuto proprio del potere legislativo è trattato (per quel tanto che gli interessi particolari dominanti non entrano in un conflitto importante con lo obiectum quaestionis) molto a par­ te, come cosa accessoria. Attenzione particolare una questione la suscita solo appena diventa questione politica, cioè o dal momento che può esservi connessa una questione ministeriale, e quindi l’autorità del potere legislativo sul potere governativo, o dal mo­ mento che si tratta in generale di diritti che si collegano col for­ malismo politico. Come questo fenomeno? Perché il potere legi­ slativo è ad un tempo la rappresentazione dell’esistenza politica della società civile [cioè delle sue « sfere essenziali », le classi]; perché l’esistenza politica di una questione consiste insomma nel rapporto di essa ai diversi poteri dello Stato; perché il potere legi155

stativo esprime la coscienza politica e questa può mostrarsi come politica soltanto nel conflitto col potere governativo. L’istanza es­ senziale, — che ogni bisogno sociale, ogni legge etc. si verifichi nel suo significato sociale come politico, cioè determinato dall’in­ sieme dello Stato, — quest’istanza essenziale assume nello Stato dell’astrazione politica [ = Stato costituzionale] la figura di una tendenza formale contraria a un’altra forza (il contenuto) ed este­ riore al suo reale contenuto. » Il che significa che la dignità preminente del potere legi­ slativo sull’esecutivo e la possibilità permanente del loro con­ flitto — due caratteristiche dello Stato « rappresentativo » che ne fanno una sola, in fondo, quella del potere legislativo come potere « metafisico » dello Stato — hanno la loro ragione profonda nel tipo di « società civile », quello tradizionale (e proprio di Hegel), da cui si esprime lo Stato « moderno », « rappresentativo » in quanto « costituzionale » (in quanto, cioè, elemento del potere legislativo è l’« elemento di classe », anzi l’« elemento politico di stato », secondo l’espressione hegeliana, ch’è sinonimo di « co­ stituzionale » appunto): e tale società civile è la società civile borghese. A questa (1 ) si riferisce Marx quando conclude contro Hegel: « Le classi debbono essere [per Hegel] la ” mediazione ” fra sovrano e governo, da una parte, e popolo, dall’altra; ma non lo sono: sono piuttosto l’organizzata opposizione politica della società civile ». Dove appare, infine, evidente perché venga fru­ strata nello Stato « costituzionale » Vistanza essenziale di cui sopra, l’istanza che ogni bisogno sociale si verifichi — nel suo signifi­ cato di bisogno sociale — come politico, cioè determinato dallo insieme dello Stato-, perché tale istanza si tramuti in una tendenza formale (la legge) in conflitto permanente col contenuto. Ciò accade proprio perché la « coscienza politica », che si esprime nel potere legislativo dello Stato « costituzionale », tale coscienza, significa soltanto la rivendicazione — contro l’esecu­ tivo e la forza statale in genere — delle « libertà », dei bisogni, dei diritti dei componenti di alcune sfere — quelle « essen­ ziali » — della società civile; esclusi i bisogni, libertà e diritti del resto, del « popolo », esclusi insomma i bisogni, diritti e libertà sociali, cioè dsWinsieme che costituisce poi il « reale con­ tenuto » dello Stato, dell’universale. Nel che è implicito: 1. che la supremazia del potere legi­ slativo sull’esecutivo non è che un dogma di origine giusnatura156

listica \ che tende a impedire consapevolmente lo sviluppo dello Stato democratico col legarlo a dei motivi — la rivendicazione « parlamentare » delle « libertà » (« naturali »!) contro l’asso­ lutismo regio :— ormai insussistenti storicamente; 2. che in tale dogma si manifesta la sopravvivenza di quelle tendenze anarchiche in cui si esprime caratteristicamente Vindividualismo astratto, borghese, giusnaturalistico, insito alla « società civile » tradizio­ nale, di cui sopra (e si confrontino con la critica marxiana le ammissioni preziose, circa l’« anarchismo » russoiano, del Kelsen, massimo fra i teorici odierni della democrazia politica) 2; 3. che 1 Nel senso che il « potere legislativo » è l’organo di legittimazione delle rivendicate « libertà naturali », o diritti « innati », « razionali », eterni, di pro­ prietà, sicurezza etc. Vedi (1) per la critica della retorica giusnaturalistica la nostra Libertà comunista, primi due capitoli; e vedi nota seguente. 2 Vedi Hans Kelsen, La democratic, Paris, 1932, pp. 3-4 (« De la liberté anarchique sort la liberté démocratique » etc.); p. 83: « Meme déformée en une simple autonomie par decision à la majorité, l’idée de liberté garde quelque chose de sa tendance anarchique, originaire, qui dissoudrait le corps social en ses atomes individuels ». Da notare che l’« anarchique », ch’è l’origine, il fondo ineliminabile, della libertà « démocratique », è appunto un esempio della cattiva empiria, o partico­ lare surrettizio di cui sopra: non esprime che le empiriche « ineguaglianze », fra individuo e individuo, di talenti, capacità, mezzi, giustificate in base al raziona­ lismo metafisico, che fonda il « sacro » della « persona » astratta tradizionale nelle Dichiarazioni dei diritti « imprescrittibili » etcetera. Molto tipico e signi­ ficativo in proposito è il modo di giustificazione dei principi del 1789, che tro­ viamo nell’interessante volume di Felice Battaglia su Libertà ed uguaglianza nelle Dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795, Bologna, 1946, pp. 10 sgg. Il Battaglia, infatti, dopo aver rilevato che, secondo la Dichiarazione dell’89, « la società, da parte sua, ha per iscopo di assicurare l'uguaglianza giuridica, nonostante l’ineguaglianza dei mezzi », e che però la rivoluzione francese, nell’affermare i suoi principi, « ne svela la funzione classista », conclude che, tuttavia, la Dichiara­ zione «dimentica ogni esigenza classista [...] per purificarsi in una incondizio­ nata enunciazione di libertà; trascura ogni aspetto contingente della libertà per sublimarsi » etc., e che « nell’aere dei principi, che incondizionati condizionano la realtà, la morale subordina l’economia, indica fini assoluti a reggere i mutevoli rapporti degli uomini », e insomma la Dichiarazione postula la « primarietà logica dell'individuo portatore di libertà » etcetera. Il Battaglia è ben lontano dal so­ spettare che è proprio tutta quella idealità purissima, quell’universalità incondi­ zionata, quella morale subordinantesi l’economia etcetera, che, in quanto tale, trascendendo lo empirico, cioè le diseguaglianze individuali, non lo media vera­ mente, e questo, ridotto a mero simbolo o segno di quell’assolutezza, di quella morale o doverosità pura, resta tuttavia (in quanto non c’è idea o forma senza contenuto o particolare!), ma resta non-mediato (perché trasceso, ripetiamo), e però gratuito e surrettizio: resta come cattiva empiria, come privilegio e ingiusti­ zia, nella fattispecie. Quella « incondizionata libertà », nonché esser purificazione dal classismo, ne è proprio l’insospettata fondazione ideologica! Il che, per quanto sembri paradossale, è comprovato, inconsapevolmente, da una dichiarazione del Battaglia, allorché egli afferma: che la richiesta « da taluno [nella seduta del 27 agosto 1789] [...] che si confermasse il dovere pubblico di assistere gli indi­ genti e gli infermi apparve un fuor di posto in una trattazione di cui abbiamo veduto l’elevatezza morale [ossia l’« essersi saputi elevare dall’economia e dalla

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col trasformarsi della società civile, e però col cadere della sua astrazione o separazione dalla società politica, separazione conse­ guente dal suo carattere classista-borghese (e relativa ideologia giusnaturalistica), non ha piu ragion d’essere la suddetta supre­ mazia del potere legislativo in quanto per eccellenza « rappre­ sentativo ». Osserva Marx: « O c’è separazione di Stato politico e so­ cietà civile, e allora non possono partecipare tutti singolarmente al potere legislativo [...], e la partecipazione della società civile allo Stato politico mediante deputati è precisamente l’espressione della loro separazione e della loro unità soltanto dualistica [...]. O, viceversa, la società civile è società politica reale. E allora [...] il potere legislativo è qui rappresentativo nel senso in cui ogni fun­ zione è rappresentativa: come, ad es., il calzolaio è mio rappre­ sentante in quanto soddisfa un bisogno sociale; come ogni deter­ minata attività sociale, in quanto attività generica [Gattungstàtigkeit], rappresenta semplicemente il genere [umano], cioè una determinazione della mia propria essenza [il « generico » o uni­ versale, l’umano]; come ogni uomo è rappresentante dell’altro uomo. È qui rappresentante [...] per ciò ch’egli è e fa ». E in tal caso !’« elemento democratico » è « l’elemento reale che si dà nell’intero organismo statale la sua forma razionale »; per cui, si sottintende, è possibile soddisfare l’istanza « essenziale » di cui sopra: che ogni bisogno sociale o deVi’insieme si verifichi — come tale — politicamente solo in quanto determinato dall’insieme dello Stato. Qui sopra, con l’accenno pregnante di uno spostamento rivopolitica alla morale»!]» (corsivo sempre nostro). Ma tant’è, la natura, la ma­ teria, l’economia, il particolare insomma, non si lascia, si è visto, espungere: ad onta dell’universale aprioristico, resta viziosamente, a detrimento proprio dell’uni­ versale, del valore. Impotenza assiologica attuale — e quindi niente « eternità » — del (’) giusnaturalismo e dell’etica aprioristica in genere. A completo chia­ rimento è bene richiamare, infine, la clausola risolutiva del russoiano Contrai social (I, 9): secondo cui il «patto sociale» istituisce una tale «eguaglian­ za morale e legittima» fra gli uomini che questi, «pur potendo essere di­ seguali di forza e di genio, divengono tutti eguali per convenzione e di dirit­ to ». Dove è chiaro che la conservazione, legittima, cioè in seno allo Stato, delle diseguaglianze empiriche, immediate, degli individui non si può spiegare che come provocata dal carattere sostanzialistico della persona (umana!) concepita come persona-apriori cioè pre-istorica e pre-sociale, e come tale titolare di pre­ tese e prerogative (i «diritti naturali») che, mentre non possono non coincidere (immediatamente) con gli attributi costituenti l’individuo ut sic o individuo astratto, asociale (perché pre-sociale nel suo valore}, non possono non essere ga­ rantite (in quanto ne sono il fine) dalla società (borghese) sorgente (2) appunto dal­ l’accordo di tali persone.

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luzionario del criterio della società civile — dal criterio individualistico-borghese della capacità di fruire al criterio socialista del­ l’aire sostanziale come lavoro e sua correlativa funzionalità o socialità — Marx pone i primissimi fondamenti teorici di quella democrazia radicale, o reale che si dica, cui si richiamerà ancora, implicitamente, circa trent’anni dopo notando, a proposito della Commune parigina del 1871, che « la Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro esecutivo e legislativo allo stesso tempo » (corsivo nostro). E che rincalzerà Lenin col noto commento (in Stato e rivoluzione} : che « le istituzioni rap­ presentative vengono mantenute, ma il parlamentarismo come si­ stema speciale, come divisione di lavoro legislativo e esecutivo, come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più » (cor­ sivo nostro) 1 Cfr., sulla democrazia sovietica, ,1’pp.cit. di Kelsen, pp. 43-6, n,: « Etant donnée l’impraticabilité de la démocratie dìrecte dans les grands Étàts économiquement et culturellement évolués, les efforts pour établir le contact le plus constant et le plus étroit possible entre la volonté populaire et les nécessaires représentants du peuple, la tendance à se rapprocher du gouvernement direct conduit non pas à une elimination ou ménte à tine reduction, mais bien à une hypertrophie insoupijonnée du parlementarisme. La constitution soviétique [del 1924] [...], contre la démocratie représentative de la bourgeoise, le montre clairement. À un parlement unique [...], elle substitue tout un système d’innombrables parlements, superposes les uns aux autres, qui portent le notti de ’’soviets” ou conseils, et qui ne sont que des assemblées representatives. Mais, de pair avec cette extension, le parlementarisme s’intensifie également. De simples ’’reu­ nions de bavards” les parlements doivent, d’après le néo-communisme, devenir des assemblèe! de travail. Ce qui veut dire qu’ils ne doivent pas se borner à édicter des lois [...], mais prendre en mains l’exécution et conduire le procès de création de l’otdre juridique jusqu’au dernier degré de la concrétisation de ses normes [...]. N’y a-t-il pas là tout simplement une tentative de démocratiser aussi, après la législation, Vadministration? Le fonctionnaire nommé par les bureaux, c’est-à-dire autocratiquement, qui, dans le cadre souvent très large trace par les lois, a le pouvoir d’imposer sa volonté aux sujets, serait remplacé par le sujet lui-méme, qui d’administré qu’il était jusqu’alors, deviendrait administrateur, d’objet sujet de l’administration. D’ailleurs, non pas directement mais par l’intermédiaire de représentants élus. Démocratiser l’administration, c’est tout d’abord simplement la parlementariser » (corsivo nostro). A proposito del concetto marxiano di « democrazia » vedi la giusta critica di Lewalter (op. cit., p. 664, n.) di espressioni imprecise dell’Engels (nella sua critica del programma di Erfurt); e vedi, per la critica marxiana (posteriore alla Crit. d. dir. stat. hegel.) della ideologia della democrazia borghese, la sua critica nella Questione ebraica, I (1844), delle costituzioni francesi dal 1791 al 1795, e del Contrai social (per questa e altre critiche vedi la nostra Libertà comunista, capitolo terzo). Infine, per l’interesse che dovette avere per Marx, nell’elabora­ zione del suo concetto di democrazia, la democrazia diretta antica e il connesso concetto di « libertà politica », è da tener presente, col resto, la seguente signi­ ficativa lettera di Marx a Ruge [Gesamtausgabe, I, 1, 1, p. 561), notata da Le­ walter (che premette giustamente che: « in der idee dieser vollendeten Gesellschaft zeigt sich Marx nur nicht so sehr (wie es etwa Troeltsch annahm) im Banne einer naturrechtlichen Tradition, als vielmehr unter dem Eindruck der griechi-

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In quanto a Hegel, il fallimento del suo tentativo di supe­ rare la separazione tradizionale di società civile e Stato, e anzi di servirsi proprio della società civile classista come termine media­ tore fra individuo e Stato, fra particolare e universale, porta seco — con la mancata realizzazione della Sittlichkeit come eticità concreta, sociale, suo obiettivo ultimo — altresì la dimostrazione della impotenza della sua critica anti-Rousseau (cfr., ad es., la deduzione seguente, contenuta nel § 190 della sezione sulla « so­ cietà civile»: che «il cittadino (come bourgeois) [...] è la con­ cretezza della rappresentazione che si chiama uomo »). Con un riferimento evidente aH’atomismo russoiano, non ap­ parente, ma sostanziale, rimasto in questo Hegel teorizzatore dia­ lettico individualismo astratto, borghese, Marx osserva che « l’atomismo, in cui la società civile precipita nel suo atto politico, risulta necessariamente da questo: che la comunità, l’essere in comune, in cui esiste l’individuo, è la società civile separata dallo Stato [è, cioè, la società civile borghese]-, o che C) lo Stato po­ litico è ord astrazione [o generalizzazione] di essa società ». E che, insomma, « questo atto politico è una completa transustanziazio­ ne », o un’« estasi », giacché « in esso la società civile si deve staccare da se stessa in quanto società civile, in quanto stato pri­ vato, e far valere una parte del suo essere [la parte politica] che non solo non ha niente di comune con l’esistenza civile reale del suo essere, ma che le è direttamente opposta ». Qualcosa di pu­ ramente dogmatico, o assurdo; per cui si può dire che anche qui l’« antinomia », di società civile e Stato, o di particolare e uni­ versale, è « spacciata » per la « soluzione » stessa; secondo il me­ todo della dialettica come « mobile mistificato ». Siamo ritornati al metodo, « speculativo », e possiamo avviarci a concludere. Dalla parte del metodo, il fallimento di Hegel come filosofo dello Stato si riassume in questo: 1. nell’averci mostrato, contro la sua intenzione, che non già lo Stato, l’« universale in sé e per schen Polis», p. 673): «Das Selbstgefiihl des Menschen, die Freiheit, ware in der Brust dieser Menschen [dei tedeschi] erst wieder zu erwecken. Nur dies Gefiihl, welches mit den Griechen aus der Welt und mit dem Christentum in den blauen Dunst des Himmels verschwindet, kann aus der Gesellschaft wieder eine Gemeinschaft der Menschen fiir ihre hdchsten Zwecke, einen demokratischen Staat machen» (corsivo nostro). Una conciliazione critica, armonica, del­ l’essenziale insegnamento della polis con quello cristiano (dell’eguale dignità di ogni uomo): tale potrebbe essere la formulazione della problematica etico-poli­ tica marxiana, cioè waterà/zrrico-pratica.

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sé », determina la società civile, ma che, all’inverso, è questa che determina quello; risultato ultimo di un riepilogo « dialettico » conservatore, non rivoluzionario (*), della filosofia politica bor­ ghese da Rousseau a Kant; risultato che giustifica la conclusione che enuncerà Marx circa vent’anni dopo a proposito della propria Critica-, la « conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono esser compresi [...] mediante il cosiddetto sviluppo generale [dialettico] dello spirito umano, ma hanno le loro radici piuttosto nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio de­ gli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, col termine di ” società civile ” »; la conclusione insomma materialistico-storica; 2. che, in particolare, la fondamentale « identificazione [hegeliana] di classe e determinazione » dell’universale (lo Stato), per cui la classe diventa la specie, il genere prossimo, del « genere gene­ rale » o Stato, ossia la realizzazione, l’« esser per sé », dell’uni­ versale ch’è in sé; questa identificazione essendo voluta da Hegel, come Marx dice, « soltanto per amor della logica », cioè del « pre­ disposto » rapporto astratto immediatezza-mediazione o in sé-per sé, Hegel è costretto a « contentarsi » di « trovare un’esistenza empi­ rica che possa risolversi in tale categoria logica [del « per sé »]: l’elemento di classe, allora »; ossia Hegel è costretto a scambiare effettivamente la speculazione in empiria, proprio per aver scam­ biato l’empiria in speculazione (vedi sopra). Cioè: proprio per aver fatto del « subietto reale », o « ente reale (ypokeimenon) », o « determinante reale », ch’è, qui, la « so­ cietà [Sozietàt] » l, il « momento » o « predicato » di una « mistica sostanza », cioè del « subietto » destinato a esser « predicato » (l’idea, lo Stato), Hegel è costretto a trovare effettivamente il « contenuto », lo « sviluppo », dalla parte del predicato « mistifi­ cato », vale a dire, dell’ex « subietto reale »; è costretto a realiz­ zare lo sviluppo, il progresso, con dei « motivi del tutto empirici, cioè motivi empirici molto astratti, molto cattivi » (cfr. sopra), che si riassumono, nella fattispecie, nella realtà e concezione vol­ gare della « società civile » come società « borghese », classista. Non diversamente da questa critica marxiana della « dialet1 Unilaterale ed equivoca tutta la trattazione di Lewalter (op. cit., spec. pp. 670-3) di quest’uso marxiano dell’ypokeimenon aristotelico (anche se, con l’edi­ zione dei testi filosofici di cui egli dispone, ma di cui non disponeva Lukàcs nel 1923, egli corregge una certa interpretazione dei concetti sociologici marxiani proposta da Lukàcs). Neanche Lewalter riesce a individuare la problematica della dialettica « mistificata ».

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tica » hegeliana, la critica aristotelica della «divisione» plato­ nica dei « generi » (secondo la « dicotomia » dialettica del « me­ desimo » e dell’« altro »), tale critica, obietta che Platone è co­ stretto dalla sua incapacità (di dialettico!) a uscire dal «piu ge­ nerale » (il « piu generale » non è il « medio »!), è costretto ad « assumere (ma non l’ha inferita) » la natura del definiendum, cioè è costretto a chiedere che gli sia « concesso » di scegliere quella delle « differenze » (« opposte »!) del genere (empirico!) sotto la quale deve cadere il definiendum, per il progresso della classificazione (An. pr., I, 31 etc.). Poiché è chiaro che lo scambio della speculazione in empiria, imputato a Hegel da Marx, corri­ sponde — illuminandola ulteriormente — alla « petizione di prin­ cipio » ch’è la assunzione gratuita della natura del definiendum, ossia della sua specificità e concretezza, — già imputata da Ari­ stotele a Platone; cosi come lo scambio dell’empiria in specula­ zione (la interpolazione allegorizzante, aprioristica, di cui sopra), da cui quello scambio consegue, corrisponde alla sostituzione del « medio » (o « differenza specifica ») col « più generale », rim­ proverata da Aristotele al procedimento, « discendente », della classificazione platonica ’. Al quale proposito, basti qui, per il momento, sottolineare l’importanza eccezionale di questa coinci­ denza pregnante, fatale, diremmo, finora inavvertita, del mate­ rialista Marx col materialista Aristotele, con lo scopritore-filosofo della « materia », ossia della positività del molteplice. Senza la quale scoperta non avrebbero senso né l’istanza ontologica del medio come « causa essenziale » (e non semplice termine medio sillogistico e logico-formale) né tutte le altre istanze ontologiche 1 Da notare una critica antiplatonica di Marx, con cui egli avverti la pre­ senza già in Platone dello stesso procedimento dell’interpolazione allegorizzante riscontrata in Hegel, e ragionata come si è visto: critica che si trova in un frammento (1841) dei lavori preliminari alla Doktordissertation e che suona cosi: «In den Entwicklungen bestimmter Fragen greift Plato zur positiven Auslegung des Absoluten [...]. Wo das Absolute auf der einen Seite, die abgegrenzte posi­ tive Wirklichkeit auf der anderen Seite steht und das positive dennoch erhalten werden soli, da wird es zum Medium, wodurch das absolute Licht scheint, da bricht sich das absolute Licht in ein Fabelhaftes Farbenspiel, und das Endliche, Positive dentet ein anderes als sich selbst [= «allegoria»!]. Jede Gestalt is ein Riitsei. Auch in neuester Zeit ist dies wiedergekehrt [vedi Hegel!], durch ein ahnliches Gesetz bedingt'» (Gesamtausgabe, I, 1, 1, pp. 137-8; corsivo no­ stro). Lewalter, che ha additato per primo questo frammento, si limita ad os­ servare che « hier, wenn irgendwo, wird es deutlich, dass Marx von Anbeginn an nicht ’’Hegelianer” ist, sondern mit einer Wendung gegen Hegel beginnt » (op. cit., p. 671). Affermazione vera, ma piena di grave responsabilità, di cui né il Lewalter né altri, a nostra conoscenza, pare che si sia reso conto. Vedi, so­ pra, la nostra introduzione (1 ).

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aristoteliche che la fondano, dall’istanza della « impredicabile » « sostanza prima » che ha unità « numerica » oltre che « speci­ fica » (e « tutto ch’è numericamente molteplice ha materia »), e dell’« ypokeimenon » come mero sostrato (richiamato sopra da Marx), alla istanza che « l’entelechia disgiunge i contrari » cioè le opposte « differenze » di cui sopra, e che però « l’individuo [l’ente reale, in atto] non ha contrario », o trascende ogni astratta relazione-, all’istanza, ontologica se mai altra, del principio di « non-contraddizione », senza il quale « sarebbe lo stesso e una trireme e un muro e un uomo ». Ma, prescindendo da questo (e da altro), basti qui richia­ mare l’attenzione sullo sforzo di tipo aristotelico di Marx (1 ) di salvaguardare l’economia, diremo, o l’integrità dell’atto discor­ sivo, dèi giudizio insomma, salvaguardando la positività della materia, del molteplice, ch’è, il subietto del giudizio; e rifiutan­ dosi, com’è chiaro, di seguire Hegel nell’istanza che il predicato sia addirittura « la sostanza, Vessenza, il concetto di ciò di cui si parla », cioè quel concetto del subietto che « ne esaurisce la na­ tura » e però lo annulla come elemento puntuale, determinato, o cosiddetta (2) base del giudizio; rifiutando insomma la platonizzante critica hegeliana della « forma [discorsiva] della propo­ sizione » (critica accolta invece dal Croce nella sua teoria degli pseudogiudizi e pseudoconcetti!) (3). Onde poi, sul fondamento di questa restituzione del valore discorsivo (della coscienza), su tale fondamento, e punto di vista, è reso possibile l’avvistamento cri­ tico, suaccennato, di quella interna. sofistica della dialettica hege­ liana che si esprime nella interpolazione aprioristica o teologica del contenuto e nella conseguente petizione di principio ch’è la postulazione del contenuto o molteplice, ossia l’ammissione non mediata, e però surrettizia, di quest’ultimo — del molteplice, dell’empiria, della storia. Tipico esempio di tale processo vizio­ so: « la società civile », destinata, nell’intenzione di Hegel, a esser condizionata e prodotta dallo « Stato », dall’universale aprio­ ristico, e effettivamente, invece, condizionante surrettiziamente lo Stato; donde Vacrisia hegeliana nei confronti della morale russoiana o borghese, e il mancato raggiungimento, infine, della mo­ rale concreta, della Sittlichkeit. Sta di fatto che la « proposizione speculativa » o « identica », o « unità del concetto », che Hegel voleva sostituire alla mera « proposizione » discorsiva, di cui so­ pra, per il motivo che, nella proposizione speculativa, la forma (Io « Stato », nella fattispecie) « è essa stessa il divenire intrin­ 163

seco del contenuto concreto »; tale proposizione speculativa non è che un’illusione di Hegel e propriamente non è che la interpo­ lazione teologica, di cui sopra, con la sua grave conseguenza di un « contenuto » non mediato e però surrettizio: onde il « di­ venire », lo sviluppo, del « contenuto concreto », anziché esser per opera della forma, è proprio per opera dello stesso contenuto « concreto » in quanto immediato, è proprio del predicato misti­ ficato, cioè dell’ex subietto reale (la « società », nella fattispe­ cie); è insomma un « divenire » del tutto apparente, insussistente. In concreto, si resta, infatti, ripetiamolo, alla « società civile » astratta, tradizionale, borghese; non si raggiunge, — per carenza di mediazione del particolare con l’universale, dell’empiria con la speculazione, — non si raggiunge la società concreta, la Sittlichkeit ch’è lo Stato. Ma allora, posto quanto precede, la critica marxiana della « mistificazione » hegeliana della dialettica, questa critica, che conclude ad una incapacità organica di mediazione da parte di questa dialettica aprioristica, vale a dire, ad una sua organica im­ potenza assiologica o critico-valutativa, idest rivoluzionaria, si prospetta (1 ), alla fine, come un nuovo tipo di critica dell'apriori. La « natura », cioè la materia, il molteplice — conclude Marx — « si vendica su Hegel del disprezzo dimostratole: se la mate­ ria non dev’esser piu niente per se stessa di fronte alla volontà [razionale], la volontà umana non conserva piu niente per sé all’infuori della materia »: non resta, cioè, che un contenuto o molteplice immediato (proprio in quanto apriorizzato). Non re­ sta, nella fattispecie, che il « crasso materialismo » (borghese) in cui si è visto rovesciarsi lo « spiritualismo », l’idealismo hege­ liano. Questo nuovo tipo di critica dell’apriorismo, che è la cri­ tica materialistico-storica, rivoluzionaria, si distacca (2) diame­ tralmente dalla critica fenomenistica o criticistica (kantiana), per questo: che ai suoi occhi l’« universale » aprioristico o razionali­ stico non è semplicemente « vuoto », anzi non è affatto « vuoto » (come vuole la critica suddetta, d’altro tipo), ma è bensì viziosa­ mente pieno di un contenuto ch’è surrettizio perché non-mediato, e non mediato perché allegorico, cioè trasceso (dedotto) o aprio­ rizzato. Lo stesso Feuerbach, il piu vicino a Marx in quanto lo iniziò alla critica della « moderna teologia » (ch’è l’idealismo), lo stesso Feuerbach non riuscì a vedere il termine ultimo, il risul­ tato effettivo, dell’« allegoria » ch’è l’apriori (il termine « allego­ ria » è già usato da Feuerbach, e parimente pressoché tutte le 164

formule che sono in Marx, « mistificazione » etc.); non riuscì a vedere insomma la conseguenza effettuale di ciò ch’egli chia­ mava l’« illimitato arbitrio della speculazione »: cioè che il con­ tenuto della forma idealistica non era effettivamente dato che dal predicato mistificato, dall’ex subietto reale, o molteplice sur­ rettizio. Questo lo intuì Marx. Quanto vide Feuerbach si riassu­ me nel seguente rilievo sul processo di sostantificazione o iposta­ tizzazione dell’universale (cfr. sopra l’« idea ridotta a subietto » ! ) : « è una via [quella della « filosofia speculativa »] per la quale — egli dice — non si giunge mai alla realtà vera e oggettiva, ma, sempre e soltanto alla realizzazione delle proprie astrazioni »; donde la conclusione: che l’« oggetto vien ridotto a determina­ zioni del tutto astratte, in cui non lo si può più riconoscere »1 ; conclusione che significa, anch’essa, che l’« universale » hegeliano non è oggettivo o concreto o pieno, ma vuoto. L’imputazione tra­ dizionale, che ripeterà anche Kierkegaard, ben lontano (1 ) dal sospettare che il « singolo » ch’egli afferma « più alto » del « ge­ nere » (« precisamente perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio »), questo singolo, quale campione purissimo dell’indivi­ dualismo cristiano (-borghese), è pur stretto parente dell’« uo­ mo » come « bourgeois », o « individuo » del teologo dell’idea, Hegel! Dunque, ripetiamo, l’« universale » di Hegel non è vuoto, non lascia fuori l’individuo. Anzi, ne è pieno, — del particolare non-mediato, e però surrettizio! (2) Concludendo, ci sembra di poter indicare fondatamente le seguenti istanze alla coscienza filosofica in quanto coscienza razionale-critica: 1. di sviluppare la critica materialistico-storica dell’apriorismo, iniziata da Marx giovane, estendendola oltre l’apriorismo dialettico hegeliano; e insomma generalizzarla-, 2. 1 Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, trad. Bobbio, 1946, pp. 56 e 134. E vedi, per l’inversione di subietto e predicato e l’allegoria, ivi, pp. 115-6: « i neoplatonici [...] trasformarono il predicato in soggetto, ciò ch'era sol­ tanto un aggettivo riferito all’uomo in un essere reale. Per altro, in questo modo anche l'uomo reale fini per diventare una meta astrazione senza sangue e senza corpo, insomma un’allegoria ». Etc. Cfr. pp. 33-4. A p. 128: « intuizione sen­ sibile (ovvero non mistificata) ». Ma resta sempre quel che si è detto sopra: che manca, in Feuerbach, l’avvertimento della conseguenza effettiva della sostan­ tificazione dell’universale: l’inevitabile contenuto o molteplice surrettizio (il se­ condo scambio, di cui sopra). Questo spetta a Marx, materialista, al Marx conge­ niale dell’Aristotele che avverti la petizione di principio (ossia dell’empirica « spe­ cie » demonstranda) nella « divisione » dialettica, platonica. Per concludere, Feuer­ bach si limitò a una constatazione ancor superficiale dei processi di ipostatizzazione nell’idealismo. Sull’etica feuerbachiana vedi la nostra cit. Libertà comunista, ca­ pitolo terzo.

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di approfondire, in conseguenza, l’originale problematica mate­ rialistica da cui essa muove e senza cui è incomprensibile, la problematica, cioè, di una positività della « natura » o ma­ teria o molteplicità, non meno irremissibile di quella della « coscienza » o ragione o unità; la problematica materialistico-storica o -pratica, che di tanto concorda (sotto certi aspetti) con quella dell’Aristotele piu schiettamente aristotelico, l’Aristotele scopritore dell’ineliminabilità e positività del senso e della materia, cui Marx filosofo si appella, di quanto discorda da quei residui, non indifferenti, di platonismo e teologismo, che si trovano nello stesso Aristotele (e assai significativamente ad es. in quel passo, cosi inumano, dell’E/zca nicomachea, dove, a pro­ posito dei gradi di ascesa al « Motore immobile », si parla dell’ani­ ma « inferiore » dello schiavo e del lavoratore manuale); 3. di rivedere infine, entro questa problematica approfondita, anzitut­ to il problema ideologico del principio dialettico o della contrad­ dizione o ragione (e del suo rapporto col principio di identità e non-contraddizione)-, mostrando in che senso questo fondamen­ tale problema tradizionale dei « principi logici » possa risolversi nel problema tipico del « materialismo pratico » in quanto dialettico: il problema di come « le circostanze fanno gli uomini tanto quanto gli uomini [con la critica rivoluzionaria] le circostanze» (Marx); o cosiddetto problema del praktischer Umsturz, del « rovesciamen­ to pratico» o rivoluzione (altro che fatalismo economico!) O; e mostrando come a questo problema si riducano tutti gli altri: da quello morale (o dell’eAcztó concreta, sociale, fallita all’ideali­ sta e spiritualista Hegel) a quello estetico. Donde, poi, il compito di uno sviluppo del concetto mar­ xiano, qui accennato, della « filosofia » come « scienza », anzi storia-scienza, in quanto « concezione specifica di un oggetto spe­ cifico » e però critico-rivoluzionaria: concezione (2), che, basata su un’istanza metodica in cui si tenga conto dell’istanza aristote­ lica (vista sopra) del « medio », rifiutando quella platonica in quanto asserzione soltanto del « piu generale » (o « universale » apriori­ stico modernamente inteso), si presenti come una analitica o de­ scrittiva critica (3 ) che opera con ipotesi di lavoro, come le altre scienze: solo che le sue ipotesi, ossia i suoi concetti funzionali, concernono (4 ) la « realtà » storica, sociale, con le sue contrad­ dizioni e hanno però valore (di leggi) solo in quanto si verifichino come critica rivoluzionaria perché capace di annullare (essendo conoscenza specifica di cose specifiche) il negativo, il contraddittorio, 166

di determinate situazioni ecohomico-sociali e cosi risolverle. A differenza della hegeliana « negazione della negazione » per le ragioni, addotte sopra, del suo carattere dialettico mistificato, che ne fa un istrumento, nonché di rivoluzione, di rigida conservazione: infatti, ripetiamo, i criteri o concetti « dialettici » hegeliani es­ sendo, nonché specifici o determinati, estremamente generici o indeterminati, si risolvono in ipostasi ossia in assolutizzazioni dei dati storici e quindi in un empirismo acritico, conservatore (don­ de lo spirito borghese della Restaurazione che ristagna nella con­ cezione hegeliana dello Stato di cui sopra). Per cui una filosofia come storia-scienza si riduce infine (per la identità di socialità e valore umano) ad una sociologia critica, come è da vedersi a suo luogo (J).

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Testi tradotti (con qualche chiarimento interlineare)

Dalla « Critica del diritto statuale hegeliano » 1 (1843) di Karl Marx

§ 298. « Il potere legislativo concerne le leggi come tali, in quanto esse abbisognano di ulteriore continua determinazione, e gli affari interni * che, secondo il loro contenuto, sono del tutto generali** (espressione molto generale!) *. Questo potere è an­ che una parte della costituzione ** che gli è presupposta e che pertanto, in sé e per sé, si trova fuori della diretta determina­ zione di esso, ma che consegue il suo ulteriore sviluppo nel con­ tinuo progresso delle leggi e nel carattere progressivo degli af­ fari generali del governo. » Anzitutto, sorprende che Hegel metta in rilievo che « que­ sto potere » è « anche una parte della costituzione che gli è pre­ supposta e si trova, in sé e per sé, fuori della diretta determina­ zione di esso », perché Hegel non ha fatto questa osservazione né circa il potere sovrano né circa il potere governativo, pei quali è altrettanto vera. Ma poi Hegel costruisce innanzi tutto l’assieme della costituzione e non può dunque presupporlo; e tuttavia ricono­ sciamo in lui della profondità, in questo suo cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni (proprie dei nostri Stati) e porvi l’accento. Il « potere legislativo è anche una parte della costituzione * », 1 Gesamtausgabe, I, 1, 1, pp. 464-512. Indichiamo con * la sottolineatura, da parte di Marx, di una parola del testo (del paragrafo) hegeliano, oppure la pre­ senza, nel testo hegeliano, di un commento di Marx in parentesi. Con ** indi­ chiamo la sottolineatura marxiana, nel -testo hegeliano, di piu di una parola, cioè anche di una frase intera. Si noti, poi, che le espressioni marxiane in francese o in latino non sono, contro l’uso, in corsivo, ma in carattere normale, per non ingenerare equivoci, dato il contrappunto di sottolineature o corsivi del testo. Del resto, ci atteniamo alla norma seguita dall’editore russo. Infine, ciò ch’è messo in parentesi angolari è commento dell’editore russo, ciò ch’è messo in parentesi qua­ dre è nostro chiarimento filologico (]),

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che « si trova, in sé e per sé, fuori della diretta determinazione di esso ». Ma la costituzione non si è tuttavia fatta da sé. Le leggi, che « abbisognano di ulteriore continua determinazione » deb­ bono pertanto esser state fatte. Occorre che ci sia o ci sia stato un potere legislativo prima della costituzione e fuori della costi­ tuzione. Occorre che ci sia un potere legislativo fuori del potere legislativo reale, empirico, dato. Ma, risponderà Hegel, presup­ poniamo uno Stato esistente'? Solo che Hegel è filosofo del diritto f1) e sviluppa la specie Stato: egli non può commisurare l’idea all’esistente, ma deve commisurare l’esistente all’idea [evi­ dente ironia di M.] (2). La collisione è semplice. Il potere legislativo è il potere di organizzare l’universale. Esso è il potere della costituzione. Esso oltrepassa la costituzione. Ma, d’altra parte, il potere legislativo è un potere costituzio­ nale. È dunque compreso nella costituzione. La costituzione è legge per il potere legislativo. Essa ha dato delle leggi al potere legislativo e gliene dà continuamente. Il potere legislativo è po­ tere legislativo soltanto nella costituzione, e la costituzione sa­ rebbe hors de loi se fosse fuori del potere legislativo. Voilà la collision! Nella recentissima storia di Francia si sono rosicchiate parecchie cose. Come risolve Hegel questa antinomia? Si comincia col dire: la costituzione è « presupposta » al potere legislativo; essa si trova « pertanto * in sé e per sé fuori * della sua * diretta determinazione ». « Ma » — ma! — essa « consegue il suo ulteriore sviluppo nel continuo progresso delle leggi e nel carattere progressivo degli affari generali del governo ». Ciò significa, dunque: che direttamente la costituzione si trova fuori del dominio del potere legislativo, ma indirettamente il potere legislativo modifica la costituzione. Esso fa per via obli­ qua ciò che non deve e non può fare per via diretta. La lacera en detail, non potendola mutare en gros. Fa secondo la natura delle cose e dei rapporti ciò che non doveva fare secondo la natura del­ la costituzione. Fa materialmente, di fatto, ciò che non fa formal­ mente, legalmente, costituzionalmente. Ma con ciò Hegel non ha tolto l’antinomia, l’ha trasformata in un’altra antinomia, ha posto in contraddizione l’attività del po­ tere legislativo, la sua azione costituzionale, con la sua destinazione costituzionale. Sussiste l’opposizione fra la costituzione e il potere legislativo. Hegel ha definito l’attività di fatto e l’attività legale 169

del potere legislativo come contraddizione, o anche come la con­ traddizione fra ciò che il potere legislativo deve essere e ciò ch’esso è realmente, fra ciò che esso crede di fare e ciò ch’esso fa realmente. Come può Hegel esibire questa contraddizione come il vero? Il « carattere progressivo degli affari generali del governo » è tanto poco esplicativo quanto appunto è questo carattere progres­ sivo che dev’essere spiegato. Nell’Aggiunta, a dir vero, Hegel non apporta nulla alla solu­ zione delle difficoltà. Ma le fa risaltare ancora più chiaramente. « La costituzione dev’essere in sé e per sé il terreno stabile e valido, sul quale sta il potere legislativo, e però non dev’essere soltanto bell’e fatta. La costituzione è dunque, ma, del pari, es­ senzialmente diviene, cioè progredisce nella formazione. Questo progredire è un mutamento * che non è visibile ** e non ha la forma del mutamento **. » Cioè: la costituzione è, secondo la legge (secondo l’illusio­ ne); ma diviene in realtà (secondo la verità). Essa è per defini­ zione invariabile, ma in realtà si modifica; questa modificazione è soltanto inavvertita, non ha la forma del mutamento. 'L’appa­ renza contraddice l’essere. L'apparenza è la legge consaputa della costituzione, l’essere è la legge non consaputa, contraddicente la prima. Non c’è nella legge ciò ch’è nella natura della cosa. Nella legge c’è piuttosto il contrario. Ma il vero non è che, nello Stato, ch’è, secondo Hegel, la presenza suprema della libertà, l’esistenza della ragione autoco­ sciente, non è già la legge, l’esistenza della libertà, che domina, ma la cieca necessità naturale? E, se la legge della cosa è ricono­ sciuta come contraddicente la definizione legale, perché non ri­ conoscere anche la legge della cosa, della ragione, come la legga dello Stato? Come mantenere ora il dualismo, avendone coscien­ za? Hegel vuole ovunque rappresentare lo Stato come la realiz­ zazione dello spirito libero, ma re vera egli scioglie tutte le dif­ ficili collisioni con una necessità naturale, che è in opposizione alla libertà. Cosi anche il trapasso dell’interesse particolare nel­ l’interesse generale non è una legge consaputa dello Stato, ma mediata dal caso, adempientesi contro la coscienza; e Hegel vuole ovunque, nello Stato, la realizzazione della volontà libera! (Qui si mostra il punto di vista sostanziale di Hegel.) Gli esempi, che Hegel porta circa la progressiva modifica­ zione della costituzione, sono infelici. Cosi, la fortuna dei principi tedeschi e delle loro famiglie si è mutata da bene privato in de­ 170

manio e la giurisdizione personale degli imperatori tedeschi si è mutata in giurisdizione mediante delegati. Al contrario, il primo trapasso si è operato soltanto come conversione di ogni proprietà statale in proprietà privata dei principi. Inoltre questi mutamenti sono particolari. Intere costitu­ zioni si sono certo modificate secondo che (1 ) a poco a poco son nati nuovi bisogni, l’antico stato delle cose è andato in rovina etc.; ma per una nuova costituzione è sempre occorsa una formale rivoluzione. « Così lo sviluppo di uno stato di cose », conclude Hegel, « è, dunque, in apparenza ** pacifico e inavvertito. Dopo un lun­ go tempo una costituzione perviene così a tutt’altro stato dal precedente ». La categoria della progressiva transizione è in primo luogo falsa storicamente, e secondariamente non spiega nulla. Affinché la costituzione non soltanto subisca la modificazio­ ne, affinché, dunque, questa apparenza illusoria non sia alla fine rotta con la violenza, e l’uomo faccia consapevolmente ciò che altrimenti è costretto a fare inconsapevolmente dalla natura della cosa, è necessario che il movimento della costituzione, il progres­ so, diventi il principio della costituzione, che, dunque, il reale sostegno della costituzione, il popolo, diventi il principio della costituzione. Il progresso stesso è allora la costituzione. Deve, dunque, la « costituzione » stessa appartenere al do­ minio del « potere legislativo »? Tale questione può esser pro­ posta soltanto 1. se lo Stato politico c’è come mero formalismo dello Stato reale, se lo Stato politico è un dominio a parte, se lo Stato politico esiste come « costituzione »; 2. se il potere legi­ slativo ha un’altra origine che il potere governativo etc. Il potere legislativo ha fatto la rivoluzione francese; esso, là dove ha dominato nella sua peculiarità, ha fatto, in genere, le grandi rivoluzioni organiche generali; esso non ha combattuto la costituzione, ma una particolare costituzione antiquata, preci­ samente perché il potere legislativo è stato il rappresentante del popolo, della volontà generale. Per contro, il potere gover­ nativo ha fatto le piccole rivoluzioni, le rivoluzioni retrograde, le reazioni; esso non ha fatto la rivoluzione per una nuova costituzione contro una invecchiata, ma contro la costituzione, precisamente perché il potere governativo è stato il rappresentante della volontà particolare, soggettiva, della parte magica della volontà. Posta rettamente, la questione significa soltanto: ha il po­ 171

polo il diritto di darsi una nuova costituzione? La risposta non può non essere incondizionatamente affermativa, poiché la costi­ tuzione, appena cessa di essere l’espressione reale della volontà popolare, diviene una illusione pratica. La collisione fra la costituzione e il potere legislativo non è altro che un conflitto della costituzione con se stessa, una con­ traddizione nel concetto della costituzione. La costituzione non è che un accomodamento fra lo Stato politico e lo stato non politico; essa è dunque necessariamente in se stessa un trattato fra poteri essenzialmente eterogenei. È dunque qui impossibile alla legge di esprimere che uno di questi poteri, una parte della costituzione, avrà il diritto di modificare la costituzione stessa, il tutto. Se si deve parlare della costituzione come di qualcosa di particolare, si deve piuttosto considerarla come una parte del tutto. Se si è inteso, col nome di costituzione, le determinazioni generali, le determinazioni fondamentali della volontà razionale, s’intende così che ogni popolo (Stato) ha queste come suoi pre­ supposti, e che esse devono costituire il suo credo politico. Ciò è propriamente cosa del sapere e non del volere. La volontà di un popolo può trascendere le leggi della ragione tanto poco quanto la volontà d’un individuo. Presso un popolo irragionevole non potrebbe insomma esser questione di un’organizzazione razionale dello Stato. Qui, nella filosofia del diritto, è inoltre nostro oggetto la volontà generale. Il potere legislativo non crea la legge; la scopre e la formula soltanto. Si è cercato di risolvere questa collisione mediante la distin­ zione di assemblée constituante e assemblée constituée.

§ 299. « Queste materie (gli oggetti del potere legislativo) * si determinano, in rapporto agli individui, più precisamente se­ condo i due lati: a) ciò che va a loro vantaggio, per mezzo dello Stato, e che essi devono godere, e 0) ciò che essi debbono prestare al medesimo. In quello sono comprese le leggi di diritto privato in generale, i diritti delle comunità e delle corporazioni e le disposizioni del tutto generali e indirettamente (§ 298) la totalità della costituzione. Ma ciò che si deve prestare, solamente se è ridotto a denaro, in quanto valore universale esistente delle cose 172

e delle prestazioni, può esser determinato in maniera giusta e, ad un tempo, in modo che i particolari lavori e servizi, che il sin­ golo può prestare, siano mediati dal suo arbitrio. » Circa questa determinazione del potere legislativo Hegel stesso osserva nella nota a questo paragrafo: « Quale materia si debba rimettere alla legislazione generale e quale alla determinazione delle autorità amministrative e al re­ golamento del governo in genere, si lascia certo distinguere, in generale, in modo che, in quella, rientri soltanto Y interamente universale ** secondo il contenuto, le determinazioni legali, e, in questa, rientri il particolare * e il modo di esecuzione. Ma questa distinzione è pienamente determinata non già dal fatto che la legge, per esser legge, e non un semplice comandamento in gene­ rale (come il ” tu non devi uccidere ” [...]), dev’essere determinata in sé; ma, quanto piu è determinata, tanto piu il suo contenuto si approssima alla capacità di essere effettuato cosi com’è. Ma al tempo stesso la determinazione che andasse tant’oltre darebbe alle leggi un lato empirico, che, nell’effettuazione reale, dovrebbe essere sottoposto a mutamenti, il che nuocerebbe al loro carattere di leggi. Nell’wtóà organica ** dei poteri dello Stato si trova, tuttavia, che è uno spirito che stabilisce l’universale e che gli dà la sua determinata realtà e lo effettua ». Ma è proprio questa organica unità che Hegel non ha co­ struito. I diversi poteri hanno un diverso principio. Essi sono oltracciò una ferma realtà. Il rifugiarsi dal loro reale conflitto nelYimmaginaria « organica unità », invece di averli sviluppati come momenti di un’organica unità, è dunque soltanto una vuota, mistica scappatoia. La prima collisione irrisolta era quella fra Yintera costitu­ zione e il potere legislativo. La seconda è quella fra il potere legislativo e il potere go­ vernativo, fra la legge e l’esecuzione. La seconda determinazione del paragrafo è che l’unica pre­ stazione, che lo Stato esige dagli individui, è il denaro. Le ragioni che Hegel ne adduce sono: 1. il denaro è il valore generale esistente delle cose e delle prestazioni; 2. la prestazione può esser determinata in una retta guisa soltanto attraverso questa riduzione; 3. la prestazione può esser determinata in tale guisa solo in quanto i particolari lavori e servizi, che ogni individuo può 173

prestare, sono mediati dal suo arbitrio. Hegel osserva in nota: ad 1. « Può sorprendere dapprima nello Stato che dal gran numero di attitudini, proprietà, attività e talenti, e dalla ricchez­ za infinitamente varia e viva che si trova in essi, i quali nello stesso tempo son legati a sentimenti, lo Stato non esiga una pre­ stazione diretta, ma pretenda la sola ricchezza che appare come moneta. Le prestazioni, che si riferiscono alla difesa dello Stato contro i nemici, rientrano nel dovere, di cui alla sezione seguente (non alla sezione seguente, ma per altre ragioni noi verremo solo più tardi al dovere personale del servizio militare) *. Ma nel fatto la moneta non è una ricchezza particolare accanto alle altre, ma è l’universale di esse, in quanto si producono nell’esteriorità della esistenza, nella quale possono esser prese in quanto cosa ». « Da noi », è detto più lontano nell’Aggiunta, « lo Stato compra ciò di cui abbisogna ». ad 2. « Soltanto in questo estremo esteriore (ossia l’estremo in cui le ricchezze si producono nell’esteriorità dell’esistenza, in cui possono esser prese come cosa) * è possibile la determina­ zione quantitativa e però la giustizia e V eguaglianza delle presta­ zioni **. » Nell’Aggiunta si dice: « Ma mediante il denaro la giustizia dell’eguaglianza ** può esser attuata molto meglio ». « L’uomo pieno di talento sarebbe, altrimenti, più gravato di quello senza talento, se la prestazione dipendesse dalla capacità concreta. » ad 3. «Platone nel suo Stato lascia assegnare a cura dei superiori gli individui alle classi particolari (1 ) e imporre loro le particolari prestazioni [...]; nella monarchia feudale i vassalli avevano parimente servizi indeterminati, ma da prestare anche nella loro particolarità, ad es., l’ufficio di giudice e simili; le prestazioni in Oriente, in Egitto, per le smisurate costruzioni d’architettura etc., sono del pari di qualità particolare etc. In questi rapporti manca il principio della libertà soggettiva, che il fare sostanziale dell’individuo, il quale in tali prestazioni è se­ condo il suo contenuto un che di particolare, sia mediato dalla sua volontà particolare-, un diritto ch’è possibile soltanto per l’esigenza delle prestazioni nella forma del valore generale, e ch’è la ragione che ha prodotto questa trasformazione. » Nell’Aggiun­ ta si dice: « Da noi lo Stato compra ciò di cui ha bisogno, e questo può apparire soprattutto come cosa astratta, morta e ina174

nimata, e può anche sembrare che lo Stato sia decaduto per il fatto che si appaga di prestazioni astratte. Ma è nel principio dello Stato moderno che tutto ciò che fa l’individuo sia mediato dalla sua volontà [...]». «Ora, il rispetto* della libertà soggettiva è messo in luce appunto da ciò, che a ciascuno si prende soltanto quel che può essergli preso. » Fate ciò che volete, pagate ciò che dovete pagare. L’esordio àeWAggiunta suona: « I due lati della costituzione si riferiscono ai diritti e alle prestazioni degli individui. Per quanto concerne le prestazioni, esse si riducono ora quasi tutte a moneta. L’obbligo militare è ora l’unica prestazione personale ». § 300. « Nel potere legislativo in quanto totalità * sono soprattutto attivi gli altri due momenti: il monarchico, come quello cui compete la decisione suprema, il potere governativo, come momento consultivo, con la conoscenza e la veduta concreta della totalità, nei suoi lati molteplici e nei principi reali che sono consolidati in essa, come con la conoscenza dei bisogni del potere dello Stato in particolare, — infine' l’elemento costitu­ zionale o degli stati \stàndische}. » {*) Il potere monarchico e il potere governativo sono... potere legislativo. Ma, se il potere legislativo è la totalità, il potere mo-s narchico e il potere governativo dovrebbero essere piuttosto degli elementi del potere legislativo. L’elemento di classe che (2) si ag­ giunge è soltanto del potere legislativo, ossia è il potere legisla­ tivo nel suo distinguersi dal potere monarchico e dal potere governativo. § 301. « L’elemento costituzionale ha (3) la determinazio­ ne che venga ad esistere l’affare generale non soltanto in sé ma anche per sé, cioè il momento della libertà formale soggettiva, la coscienza pubblica come generalità empirica delle vedute e dei concetti dei molti. » L’elemento costituzionale [= degli «stati»] è una(4) de­ legazione [classista] (5) della società civile presso lo Stato, al quale essa, in quanto è « i molti », si contrappone. I molti deb­ bono un momento trattare con coscienza gli affari generali come loro propri affari, come oggetti della coscienza pubblica che, se175

condo Hegel, non è altro che la « empirica generalità delle vedute e dei concetti dei molti » (e in verità essa coscienza pubblica non è nient’altro che questo nelle moderne monarchie, anche costi­ tuzionali). È caratteristico che Hegel, che ha tanto grande ri­ spetto per lo spirito dello Stato, lo spirito etico e la coscienza dello Stato, lo disprezzi esplicitamente allorché esso gli si presenti in una reale empirica figura (1 ). È questo l’enigma del misticismo. La stessa astrazione fan­ tastica, che ritrova la coscienza dello Stato nell’inadeguata forma della burocrazia, di una gerarchia del sapere, e che acriticamente prende questa inadeguata esistenza per reale esistenza pienamen­ te valida, la stessa mistica astrazione concede imperturbabile che lo spirito reale, empirico, dello Stato, la coscienza pubblica, sia un mero potpourri di « pensieri e vedute di molti ». Come essa sostituisce alla burocrazia un ente estraneo, cosi lascia al vero ente l’inadeguata forma del fenomeno. Hegel idealizza la buro­ crazia e empiricizza la coscienza pubblica. Hegel può trattare la coscienza pubblica reale bene a parte, appunto perché ha trattato la coscienza a parte come coscienza pubblica. Egli ha tanto meno da preoccuparsi della reale esistenza dello spirito dello Stato, in quanto crede di averlo già realizzato nelle sue soi-disant esistenze. Finché lo spirito dello Stato era misticamente nel vestibolo, gli si facevano molte reverenze. Qui, dove lo si è afferrato in persona, è appena guardato. « L’elemento costituzionale ha {2 ) la determinazione che venga ad esistere l’affare generale non soltanto in sé, ma anche per sé [...] »: e invero l’affare generale perviene all’esistenza per sé come « coscienza pubblica », « come generalità empirica delle vedute e dei concetti dei molti ». La soggettivazione dell’« affare generale » reso in tal guisa indipendente è qui esposta come un momento del processo vitale dell’« affare generale ». Invece che i soggetti si oggettivino nell’« affare generale », Hegel lascia che l’« affare generale » di­ venga « soggetto ». I soggetti non abbisognano dell’« affare ge­ nerale » come del loro vero affare, bensì l’affare generale abbi­ sogna dei soggetti per la sua formale esistenza. Che esso esista anche come soggetto è un affare dell’« affare generale ». Qui è da considerare particolarmente la distinzione fra l’« essere in sé » e l’« essere per sé » dell’affare generale. L’« affare generale » esiste già « in sé » come affare del governo etc., esiste senza esser realmente l’affare generale, esso 176

non è niente di meno di questo, esso che non (’) è l’affare della «società civile». Esso ha già trovato la sua essenziale esistenza in sé. Che esso ora divenga anche realmente « coscienza pub­ blica », « generalità empirica », ciò è puramente formale e di­ venta, per così dire, reale soltanto simbolicamente. L’esistenza « formale » o esistenza empirica dell’affare generale è separata dalla sua esistenza sostanziale. Il vero è che l’« affare generale » in sé esistente non è realmente generale e che l’affare generale reale, empìrico, è soltanto formale. Hegel separa contenuto e forma, l’essere in sé e l’essere per sé, e lascia che quest’ultimo si aggiunga esteriormente come un momento formale. Il contenuto è bell’e pronto e esiste in molte forme, che non sono le forme di questo contenuto; e per contro s’intende da sé che la forma, che ora deve valere come forma reale del contenuto, non ha a suo contenuto il contenuto reale. Idaffare generale è bell’e pronto, senza ch’esso sia l’affare reale del popolo. L’affare reale del popolo è effettuato senza l’azione del popolo. L’elemento costituzionale è l’illusoria (2) esistenza degli affari dello Stato come affare del popolo. È l’illu­ sione che l’affare generale sia affare generale., affare pubblico, o l’illusione che l’affare del popolo sia affare generale. Si è giunti al punto che, tanto nei nostri Stati che nella filosofia hegeliana del diritto, la frase tautologica « l’affare generale è l’affare gene­ rale » può apparire soltanto come una illusione della coscienza pratica. L’elemento costituzionale è l’illusione (3) politica della società civile. La libertà soggettiva appare presso Hegel come libertà formale (è certo importante che ciò ch’è libero sia anche fatto liberamente, che la libertà non regni come istinto naturale, incosciente, della società), appunto perché egli non ci ha fatto vedere la libertà oggettiva come realizzazione e manifestazione di quella soggettività. Poiché egli ha dato al contenuto presuntivo o reale della libertà un mistico portatore, il reale soggetto della libertà riceve un significato formale. La separazione dell’iw sé e del per sé, della sostanza e del soggetto, è astratto misticismo. Hegel spiega nella nota anche troppo l’« elemento costitu­ zionale » come elemento « formale », « illusorio ». Tanto il sapere che la volontà dell’« elemento costituzio­ nale » sono in parte insignificanti, in parte sospetti, cioè l’ele­ mento degli stati non è (4) alcun complemento sostanziale \inbaltsvolles']. 1. « La concezione che anzitutto suole avere dinanzi la 177

coscienza comune intorno alla necessità o utilità del concorso degli stati è particolarmente questa all’incirca: che i deputati del popolo, o addirittura il popolo, debbano intendere nel miglior modo che cosa serva al meglio del popolo; e che il popolo abbia indubbiamente la volontà migliore per questo meglio. Per il primo punto, il fatto sta piuttosto che il popolo, in quanto con questo termine si designa una parte speciale dei membri di uno Stato, significa la parte che non sa quel che vuole. Sapere che cosa si vuole, e più ancora che cosa vuole la volontà che è in sé e per sé, la ragione, è frutto di più profonda conoscenza (che risiede certo nei bureaux!) * e di penetrazione più profonda che non è precisamente affare del popolo. » Più sotto è detto in rapporto alle classi stesse: « I più alti funzionari dello Stato hanno necessariamente una penetrazione più profonda e comprensiva della natura delle istituzioni e dei bisogni dello Stato, come la più grande attitu­ dine e consuetudine per questi affari, e possono fare il bene senza gli stati, come anche essi debbono continuamente fare il bene nelle assemblee degli stati ». E s’intende che per l’organizzazione descritta da Hegel [cioè le monarchie costituzionali europee fra il 1820 e il 1830] ciò è pienamente vero [è sottinteso: ma H. non può spacciare ciò « come l’essenza dello Stato »; vedi avanti] (’). 2. « Ma per quel che riguarda la volontà specialmente buona degli stati per il bene generale, è già stato notato sopra [...] che appartiene all’opinione della plebe, al punto di vista del negativo in genere, supporre una cattiva o meno buona volontà nel governo; una supposizione che, soprattutto, se si dovesse rispondere nella stessa forma, avrebbe per conseguenza la recri­ minazione che gli stati, giacché derivano dall’individualità, dal punto di vista privato e dagli interessi particolari, sono inclini a usare la loro attività per questi, a spese dell’interesse generale; mentre, invece, gli altri momenti del potere dello Stato sono già per sé posti nel punto di vista dello Stato e dedicati al fine generale. » Dunque, il sapere e la volontà degli stati sono in parte su­ perflui, in parte sospetti. Il popolo non sa ciò che vuole. Le classi non possiedono la scienza amministrativa nella stessa misura dei funzionari, di cui essa è monopolio. Le classi sono superflue al compimento deU’« affare generale ». I funzionari possono com­ piere questo senza gli stati, essi debbono, si, fare il bene malgrado 178

gli stati. In quanto al contenuto, gli stati sono un puro lusso. La loro esistenza è dunque in senso letterale una mera forma. Inoltre, per quel che concerne il sentimento, il volere, delle classi, esso è sospetto, ché le classi derivano dal punto di vista privato e dai privati interessi. In verità è l’interesse privato il loro affare generale, e non l’affare generale il loro interesse privato. Ma qual è la maniera dell’« affare generale », di prender forma, in quanto affare generale, in una volontà che non sa ciò che vuole, o almeno non ha uno speciale sapere del generale, e in una volontà di cui il peculiare contenuto è un interesse contrario! Negli Stati moderni, come nella filosofia del diritto di Hegel, la realtà cosciente, verace, degli affari generali è soltanto formale, o soltanto il formale è reale affare generale. Non è da biasimare Hegel perché egli descrive l’essere dello Stato moderno tale qual è, ma perché spaccia ciò che è come l’essenza dello Stato. Che il razionale è reale, ciò è precisamente in contraddizione con la realtà irrazionale, che dovunque è il con­ trario di quel che esprime e esprime il contrario di quel che è. Hegel, invece di mostrare che l’« affare generale » è per sé .« soggettivo » e « quindi esiste realmente come tale » e che esso ha anche la forma dell’affare generale, mostra solo che la mancanza di forma è la sua soggettività, e che una forma senza contenuto dev’essere informe. La forma, che l’affare generale assume in uno Stato che non sia lo Stato dell’affare generale, può essere soltanto un informe, una forma che inganna se stessa, che si contraddice, una forma apparente, che si mostrerà come tale apparenza. Hegel vuole il lusso dell’elemento degli stati solo (1 ) per amore della logica. L’esser per sé dell’affare generale in quanto generalità empirica deve avere un’esistenza. Hegel non cerca una adeguata realizzazione dell’« esser per sé dell’affare generale », si contenta di trovare una esistenza empirica, che possa risolversi in tale categoria logica: l’elemento di classe, allora; nel che non manca di osservare egli stesso come questa esistenza sia compas­ sionevole e piena di contraddizioni. E poi rimprovera alla coscienza comune di non contentarsi di questa soddisfazione logica, di non voler risolvere con astrazione arbitraria la realtà in logica, ma di voler vedere la logica trasformata in vera oggettività. Dico: astrazione arbitraria. In effetti, dato che il potere go­ vernativo, che vuole, sa e realizza l’affare generale, scaturisce dal 179

popolo ed è una molteplicità empirica (che non si tratti di totalità ce lo apprende Hegel stesso), perché il potere governativo non potrebbe esser determinato come l’« esser per sé dell’affare gene­ rale » o perché gli « stati » non sarebbero il suo essere in sé, dato che non è che nel governo che la cosa ottiene chiarezza e determinatezza e compimento e autonomia? Ma la vera opposizione è: che occorre che « l’affare generale » sia tuttavia rappresentato in qualche modo nello Stato come « reale », e dunque « empirico », « affare generale »; ch’esso appaia in qualche luogo con la corona e il paramento dell’uni­ versale; onde esso diventa di per sé un ruolo scenico, un’illusione. Si tratta qui dell’opposizione tra l’« universale » come « for­ ma », nella « forma dell’universalità », e dell’« universale come contenuto ». Ad es., nella scienza un « individuo » può realizzare l’affare generale, e sono sempre degli individui che lo effettuano. Ma l’àffare diventa realmente generale quando esso non è più cosa dell’individuo, ma della società. E ciò modifica non soltanto la forma, ma anche il contenuto. Ma qui si tratta dello Stato, in cui è il popolo stesso l’affare generale; qui si tratta della volontà, che ha la sua vera esistenza come volontà generica solo nella volontà popolare cosciente di sé. E qui si tratta inoltre dell’idea dello Stato. Lo Stato moderno, in cui sia l’« affare generale » che l’oc­ cuparsi di esso sono un monopolio, e dove, per contro, i monopoli sono i reali affari generali, ha fatto la strana invenzione di appro­ priarsi l’« affare generale » come una mera forma. (Vero è che soltanto la forma è affare generale.) Esso ha con ciò trovato la corrispondente forma del suo contenuto, il quale è solo apparen­ temente il reale affare generale. Lo Stato costituzionale è lo Stato in cui l’interesse statale, in quanto reale interesse del popolo, c’è soltanto formalmente, e esiste come una determinata forma accanto allo Stato reale. L’interesse dello Stato ha qui formalmente ripreso realtà in quanto interesse del popolo, ma deve anche avere soltanto questa realtà formale. Esso è divenuto una formalità, lo haut goùt della vita popolare, una cerimonia. L’elemento costituente [ = degli « stati » ] è la menzogna (1 ) sanzionata, legale, degli Stati costi­ tuzionali: che lo Stato è l’interesse del popolo, o che il popolo è l’interesse dello Stato. Questa menzogna si scoprirà nel contenuto. Essa si è stabilita come potere legislativo, appunto perché il 180

potere legislativo ha l’universale come suo contenuto, è piu cosa del sapere che del volere, è il potere metafisico dello Stato, mentre la stessa menzogna come potere governativo etc. dovrebbe subito dissolversi o trasformarsi in una verità. Il potere metafisico dello Stato era la sede la piu adatta dell’illusione statale metafisica, generale. [§ 301.] « La garanzia, che c’è negli stati per il bene gene­ rale e la libertà pubblica, si trova, riflettendoci, non già nell’in­ telligenza particolare di essi [...], ma bensì si trova, in parte, in un’intelligenza supplementare * (!!) * dei deputati, specialmente nell’incitamento ai funzionari che stanno più lontani dagli sguardi degli uffici più alti, e in particolare nei più urgenti e speciali bisogni e difetti, eh’essi deputati hanno dinanzi a sé in intuizione più concreta; e, in parte, in quell’effetto che comporta la prevista censura di molti * e cioè una censura pubblica: di rivol­ gere già in antecedenza la migliore intelligenza agli affari e ai disegni da proporre, e di disporli soltanto secondo i motivi più puri, — una necessità che s’impone egualmente ai membri degli stati. » « Per quel che concerne quindi la garanzia in generale, che deve trovarsi particolarmente negli stati, anche ogni altra delle istituzioni di Stato ** partecipa con essi all’esser una garanzia del benessere pubblico e della libertà razionale; e ci sono, tra queste, istituzioni, come la sovranità del monarca, l’ereditarietà della successione al trono, la costituzione giudiziaria etc., nelle quali questa garanzia si trova ancora in un grado molto più deciso. La peculiare * determinazione concettuale degli stati è quindi da cercare in questo: che in essi viene ad esistere in rapporto allo Stato il momento soggettivo della libertà universale, l’intelligenza propria e la volontà propria della sfera che, in questa esposi­ zione, è stata chiamata società civile. Che tale momento sia una determinazione dell’idea sviluppata a totalità, questa necessità interna che non si deve scambiare con necessità e utilità esterne, consegue, come ovunque, dal punto di vista filosofico. » La libertà generale pubblica è presuntivamente garantita nelle altre istituzioni statali, le classi sono presuntivamente la sua auto­ garanzia. Giacché il popolo dà più importanza alle classi nelle quali crede di assicurarsi, che non alle istituzioni, che, senza la sua azione, debbono esser l’assicurazione della sua libertà, con181

ferine della sua libertà senza esser affermazioni della sua libertà. La coordinazione che Hegel assegna alle classi accanto alle altre istituzioni contraddice al loro essere. Hegel risolve l’enigma col trovare la « peculiare determina­ zione concettuale degli stati » in questo: che in essi « l’intelli­ genza propria e la volontà propria [...] della società civile viene ad esistere in rapporto allo Stato ». È la riflessione della società civile nello Stato. Come i burocrati sono delegati dello Stato presso la società civile, così gli stati sono delegati della società civile presso lo Stato. Sono dunque sempre transazioni di due opposte volontà. Nell’Aggiunta a questo paragrafo è detto: « La posizione del governo di fronte alle classi non deve essere essenzialmente * ostile, e la credenza nella necessità di questo rapporto ostile è un triste errore ». È una « triste verità ». « Il governo non è un partito, al quale si opponga un altro partito. » Al contrario. « Le imposte, che gli stati consentono, non sono inoltre da considerare come un dono * che sia fatto allo Stato, ma esse sono consentite per il bene di coloro stessi che le consentono. » Il voto delle imposte nello Stato costituzionale è, d’opinione, necessariamente un dono. « Ciò che costituisce il significato proprio degli stati è che lo Stato entra§** per tal modo nella coscienza soggettiva del popolo ** , e che questo comincia a prender parte al medesimo. » Quest’ultima cosa è del tutto esatta. Il popolo comincia, nelle classi, a partecipare allo Stato, e precisamente lo Stato entra come qualcosa di esterno [jenseitiger] nella coscienza soggettiva del popolo. Ma come può Hegel spacciare questo inizio per la piena realtà\ § 302. « Considerati come organo di mediazione, gli stati stanno fra il governo in genere, da una parte, e il popolo, risolto nelle particolari sfere e negli individui, dall’altra. La loro deter­ minazione esige in essi tanto il senso e la mentalità dello Stato e del governo, quanto degli interessi delle cerehie particolari e dei singoli. Nello stesso tempo questa posizione ha il significato di una mediazione comune all’organizzato potere governativo, 182

onde né il potere del sovrano appaia come estremo isolato, e quindi come semplice potere di dominio e arbitrio, né gli interessi particolari delle comunità, delle corporazioni e degli individui si isolino, o più ancora i singoli giungano a rappresentare una moltitudine e una massa: non giungano quindi ad un’opinione e volontà inorganica, e al potere semplicemente di massa contro lo Stato organico. » Lo Stato e il governo sono sempre messi dalla stessa parte come identici, e il popolo, risolto nelle sfere particolari e negli individui, dall’altra parte. Le classi stanno tra i due, come organo mediatore. Le classi sono il rimedio, in cui « il senso e la mentalità dello Stato e del governo » devono incontrarsi e unirsi con « il senso e la mentalità delle sfere particolari e dei singoli ». L’iden­ tità di questi due sensi e mentalità opposti, identità in cui dovrebbe propriamente risiedere lo Stato, « trova una rappresentazione simbolica nelle classi ». La transazione fra lo Stato e la società civile appare come una sfera particolare. Le classi sono la sintesi di Stato e società civile. Ma da che parte le classi debbano rifarsi per unire due mentalità contraddittorie, questo non è mostrato. Le classi sono la posizione della contraddizione di Stato e società civile nello Stato. Nello stesso tempo esse sono le pretese della soluzione di questa contraddizione. « Nello stesso tempo questa posizione ha il significato di una mediazione comune ^organico * potere governativo » etc. Le classi non mediano soltanto popolo e governo. Esse impe­ discono il « potere sovrano » come estremo, che apparirebbe quindi come « semplice potere di dominio e arbitrio »; parimente impediscono l’« isolamento » degli interessi « particolari » etc., e la « rappresentazione dei singoli come moltitudine e massa ». Questa funzione mediatrice le classi l’hanno in comune col potere governativo organizzato. In uno Stato, in cui la posizione degli « stati » impedisce che « i singoli giungano a rappresentare una moltitudine o una massa, quindi un’opinione e volontà inorganica, e il potere semplicemente di massa contro lo Stato organico », lo Stato organico esiste al di fuori della « moltitudine », della « massa », o la « moltitudine », la « massa », appartiene all’orga­ nizzazione dello Stato: solo che la sua « opinione e volontà inor­ ganica » non deve diventare un « opinare e volere contro lo Stato », per la quale direzione determinata essa diventa un’« orga­ nica » opinione e volontà. Parimente questo « potere di massa » deve restare soltanto « di massa », così che l’intelligenza è fuori 183

della massa e questa non può animarsi da sé, bensì può esser messa in movimento soltanto dai monopolisti dello « Stato orga­ nico » e essere sfruttata [exploitiert] come potere di massa. Là dove « gli interessi particolari delle comunità, delle corporazioni e dei singoli » non si isolano contro lo Stato, e dove « i singoli non giungono a rappresentare una moltitudine e una massa, non giungono quindi ad un’opinione e volontà inorganica e al potere semplicemente di massa contro lo Stato organico », è ivi preci­ samente che si mostra che nessun « interesse particolare » con­ traddice allo Stato, ma che il reale pensiero organico generale della « moltitudine e massa » non è il « pensiero dello Stato organico », che non trova in esso la sua realizzazione. Ora, in che appaiono le classi come mediazione di questo estremo? Solo in questo: « che gli interessi particolari delle comunità, delle corporazioni e dei singoli si isolano »; o in questo, che i loro isolati interessi regolano mediante le classi i loro conti con lo Stato, e nello stesso tempo in questo, che l’« inorganica opinione e volontà della moltitudine e della massa » si è occupata, come volontà (come attività), nella creazione delle classi, come opi­ nione nell’apprezzamento dell’attività delle stesse, e ha così gustato l’illusione di una propria oggettivazione. Gli « stati » preservano lo Stato dalla massa inorganica solo con la disorganizzazione di questa massa. Ma gli stati devono, nello stesso tempo, fungere da me­ diatori affinché « gli interessi particolari delle comunità, delle corporazioni e dei singoli non si isolino ». Al contrario sono mediatori 1. transigendo con l’« interesse statale», 2. essendo essi stessi l’« isolamento politico » di questi interessi .particolari, questo isolamento come atto politico, in cui, per essi, que­ sti « interessi particolari » conseguono il rango dell’interesse « generale ». Infine gli stati devono intervenire contro l’« isolamento » del potere sovrano quale « estremo » (che « appaia * quindi come semplice potere di dominio e arbitrio »). Ciò è importante in quanto il principio del potere sovrano (l’arbitrio) è da essi deli­ mitato, o almeno può muoversi solo con impaccio, e in quanto gli stati stessi diventano associati e complici del potere sovrano. Il potere sovrano o cessa così realmente di essere l’estremo del potere sovrano (il potere sovrano esiste soltanto come un estremo, come un’unilateralità, poiché esso non è un principio organico), e diventa un potere apparente, un simbolo, o perde 184

solo l’apparenza dell’arbitrio e del mero potere di dominio. Gli stati intervengono contro l’« isolamento » degli interessi parti­ colari col rappresentare questo isolamento come un atto politico. Essi intervengono contro l’isolamento del potere sovrano come estremo, in parte perché diventano essi stessi partecipi del potere sovrano, in parte perché essi fanno del potere di governo un estremo. Negli « stati » convergono tutte le contraddizioni della mo­ derna organizzazione dello Stato. Essi sono « mediatori » in ogni senso, perché sono in ogni senso « qualcosa d’intermedio ». Da osservare che Hegel sviluppa meno il contenuto dell’at­ tività delle classi, il potere legislativo, che non la posizione delle classi, il loro rango politico. Da osservare anche che, mentre, secondo Hegel, gli stati « stanno fra il governo in genere da una' parte ** e dall’altra il popolo ** risolto nelle sfere e negli individui particolari », la loro posizione, sopra sviluppata, « ha il significato di una media­ zione comune all’organizzato potere governativo ». Per quel che concerne il primo estremo, gli stati sono il popolo contro il governo, ma il popolo en miniature. È la loro posizione di opposizione. Per quel che concerne il secondo estremo, essi sono il go­ verno contro il popolo, ma il governo ampliato [amplifizierte] (*}. È la loro posizione conservatrice. Essi stessi sono parte del go­ verno contro il popolo, ma in modo che essi hanno contempo­ raneamente il significato di esser il popolo contro il governo. Hegel ha caratterizzato, sopra, il « potere legislativo come totalità » (§ 300). Gli stati sono realmente questa totalità, Stato nello Stato, ma precisamente in essi è manifesto che lo Stato non è la totalità, bensi un dualismo. Gli stati rappresentano lo Stato in una società che non è uno Stato. Lo Stato è una mera rappre­ sentazione. Nella nota Hegel dice: « Appartiene alle più importanti vedute logiche che un momento determinato, il quale, stando in antitesi, ha la posi­ zione di un estremo, cessi di esser tale, e sia un momento organico, in quanto è nello stesso tempo termine medio». (Così l’elemento di classe è 1. l’estremo del popolo contro il governo, ma è 2., nello stesso tempo, termine medio fra popolo e governo, ossia l’antitesi nel popolo stesso. L’antitesi di governo e popolo si concilia mediante l’antitesi di stati e popolo. Gli stati 185

hanno, verso il governo, la posizione del popolo, e verso il popolo la posizione del governo. Col diventare immagine, fantasia, illu­ sione, rappresentazione [Representation] •— il popolo immagi­ nato [vorgst elite] ossia gli stati che si trovano immantinente, in quanto potere particolare, in una separazione dal popolo reale — esso popolo sopprime l’antitesi reale di popolo e governo. Il popolo è già qui preparato, come deve esserlo nell’organismo con­ siderato, per non avere alcun carattere deciso.) « Nell’oggetto qui considerato è tanto piu importante rile­ vare questo lato, che rientra nel pregiudizio, frequente ma som­ mamente pericoloso, di concepire gli stati principalmente dal punto di vista d&ll’antitesi verso il governo, come se questa fosse la loro essenziale posizione. Assunto organicamente, cioè nella totalità, l'elemento di classe ** si dimostra soltanto attraverso la funzione della mediazione **. Quindi l’antitesi * stessa è degradata a ■un’apparenza *. Se essa, in quanto ha la sua manifestazione *, non toccasse meramente la superficie, ma diventasse realmente * una antitesi sostanziale **, lo Stato andrebbe alla rovina. Il segno che l’opposizione non è di questa specie si ha, secondo la natura della cosa, in questo: che gli oggetti del contrasto non interessano gli elementi essenziali dell’organismo statuale, ma cose più speciali e indifferenti, e la passione, che si attacca, tuttavia, a questo contenuto, diviene spirito di parte per un interesse meramente soggettivo, forse per le più alte cariche dello Stato.» Nell’Aggiunta è detto: « La costituzione è essenzialmente un sistema di mediazione ** ».

§ 303. « Lo stato generale, che si dedica più da presso al servizio del governo, ha immediatamente, nella sua determina­ zione, l’universale per fine della sua attività essenziale; nell’ele­ mento di stato del potere (1 ) legislativo, lo stato privato per­ viene ad un significato e ad un’attività politici. Il medesimo non può ora apparire, qui, né come semplice massa indistinta, né come una moltitudine risolta nei suoi atomi; ma come ciò che esso è già, vale a dire differenziato nello stato che si fonda sul rapporto sostanziale e in quello che si fonda sui bisogni partico­ lari e sul lavoro che li media Solo così, in questo riguardo, l’elemento particolare, reale nello * Stato, si congiunge veramente col generale.» Qui abbiamo la soluzione dell’enigma. « Nell’elemento di stato del potere (2) legislativo lo stato privato perviene ad un 186

significato politico.» S’intende che lo stato privato perviene a questo significato secondo ciò ch’esso è, secondo la sua disposi­ zione nella società cibile (Hegel ha già contrassegnato la classe generale come quella che si dedica al governo; la classe generale è dunque rappresentata, nel potere legislativo, dal potere gover­ nativo) . L’elemento costituzionale (') è il significato politico della classe privata, della classe impolitica, una contradictio in adjecto; o, nella classe descritta da Hegel, la classe privata (e in genere la distinzione della classe privata) ha un significato politico. La classe privata fa parte dell’essenza della politica di questo Stato. Hegel le dà anche un significato politico, cioè un significato altro dal suo significato reale. Nella nota è detto: « Ciò va contro un’altra concezione corrente, che, cioè, lo stato privato, essendo elevato, nel potere legislativo, alla parteci­ pazione * alla cosa universale, deve apparire colà in forma di singoli, sia che essi scelgano dei rappresentanti per questa funzione, sia che, anzi, ciascuno debba esercitarvi una parte. Questa veduta atomistica, astratta, scompare già nella famiglia, come nella so­ cietà civile, dove il singolo appare soltanto come partecipe di un universale. Ma lo Stato è essenzialmente una organizzazione di tali membri, che per sé sono cerehie, e in esso nessun momento si deve mostrare come una moltitudine inorganica. I molti come sin­ goli, il che s’intende volentieri per popolo, sono bene un insieme, ma solo come moltitudine, — una massa informe, il cui movi­ mento e fare sarebbe, appunto perciò, solo elementare, irrazio­ nale, selvaggio e terribile ». « La concezione, che risolve di nuovo in una moltitudine di individui le comunità, esistenti già in quelle cerehie in cui esse si presentano nel campo politico, cioè nel punto di vista della suprema universalità concreta, appunto perciò tiene separate l’una dall’altra la vita civile e la politica **, e campa, per cosi dire, quest’ultima nell’aria, poiché la sua base sarebbe solo l’astratta singolarità dell’arbitrio e dell’opinione e quindi l’accidentale, non una base in sé e per sé stabile e legittima.» « Benché nelle rappresentazioni delle cosiddette teorie gli stati \_Stande'] della società * civile, in generale, e gli stati [Stànde] nel significato politico si trovino largamente separati, tuttavia il lin­ guaggio ha conservato ancora questa unione che, del resto, esisteva prima **.» 187

« Lo stato generale, che si dedica piu da presso al servizio del governo.» Hegel parte dal presupposto che la classe generale sia « al servizio del governo ». Suppone l’intelligenza generale come « di stato e stabile » (1 ). « Nell’elemento degli stati » etc. Il « significato e l’atti­ vità politici » della classe privata ne sono un significato e un’attività particolari. Lo stato privato non si cambia in classe politica, ma è come classe privata ch’esso compare nella sua attività e nel suc> significato politici. Non ha meramente attività e significato poli­ tici. La sua attività e il suo significato politici sono l’attività e il significato politici della classe privata come classe privata. La classe privata può dunque entrare nella sfera politica soltanto secondo la divisione in classi della società civile. La distinzione in classi della società civile diventa una distinzione politica. Già il linguaggio, dice Hegel, esprime l’identità delle classi della società civile e delle classi in senso politico, una « unione » « che, del resto, esisteva prima ** », e che, dunque, si dovrebbe concludere, ora non c’è piu. Hegel trova che, « in questo riguardo, l’elemento particolare, reale nello * Stato, si congiunge veramente col generale ». La separazione di « vita civile e vita politica » dev’essere in questo modo soppressa e dev’essere posta la loro « identità ». Hegel si appoggia a questo: « In quelle cerehie (famiglia e società civile) * esistono già delle comunità * ». Come si può voler « risolvere di nuovo in una moltitudine d’individui » queste comunità « quando si presen­ tano nel campo politico, cioè nel punto di vista della suprema universalità concreta »? È importante seguire accuratamente questo sviluppo. L’apice dell’identità hegeliana era, come egli stesso confessa, il medioevo. Quivi le classi della società civile in genere e le classi in senso politico erano identiche. Si può esprimere lo spirito del medioevo cosi: che le classi della società civile e le classi in senso politico eran identiche perché la società civile era la società poli­ tica: perché il principio organico della società civile era il prin­ cipio dello Stato. Ma Hegel parte dalla separazione della « società civile » e dello « Stato \_Staats~\ politico », come due opposizioni fisse e realmente differenti. Questa separazione è certamente reale nello Stato moderno. L’identità delle classi civili e delle politiche era 188

l’espressione dell’identità della società civile e della politica. Que­ st’identità è scomparsa. Hegel la suppone scomparsa. « L’identità delle classi civili e politiche », se esprimesse la verità, potrebbe, dunque, esser soltanto niente piu che un’espressione della sepa­ razione di società civile e società politica! o piuttosto solo la separazione delle classi civili e politiche esprime il vero rapporto della moderna società civile con quella politica. In secondo luogo, Hegel tratta qui di classi politiche in tutt’altro senso da quello delle classi politiche del medioevo, di cui è stata detta l’identità con le classi della società civile. Tutta la loro esistenza era politica; la loro esistenza era l’esistenza dello Stato. La loro attività legislativa, il loro voto di imposte per l’impero erano soltanto l’emanazione particolare del loro significato e del loro operare politico generale. Il loro essere di stati [ihr Stand] era il loro essere di Stati [ihr Staat]. Il rapporto con l’impero era soltanto un rapporto di transazione di questi differenti Stati con la nazionalità, che lo Stato politico, a differenza della società civile, non era altro che la rappresentanza della nazionalità. La nazionalità era il point d’honneur, il senso politico zar’ di queste differenti corporazioni etc., e solo a essa si rapportavano le imposte etc. Tale era il rapporto degli stati legislativi con l’impero. Similmente si comportavano gli stati all’interno dei principati particolari. Il principato, la sovra­ nità, era ivi uno stato particolare che aveva certi privilegi, ma ch’era altrettanto impacciato dai privilegi degli altri stati. (Presso i greci la società civile era schiava di quella politica.) L’attività legislativa generale degli stati della società civile non era affatto un’accessione della classe privata a un significato e a un’attività politici, ma piuttosto una mera emanazione del loro significato e della loro attività politici reali e generali. Il loro prodursi come forza legislativa era semplicemente un complemento della loro forza sovrana e governativa (esecutiva) ; era piuttosto la loro accessione all’affare totalmente generale in quanto affare privato, la loro accessione alla sovranità come stato privato. Gli stati della società civile erano nel medioevo, come tali, nello stesso tempo degli stati legislativi, perché non erano degli stati privati, ossia perché gli stati privati erano degli stati politici. Gli stati medievali, in quanto elemento politico-di-classe, non acquistano alcuna nuova determinazione. Essi non divennero elemento poZtóco-di-classe perché partecipavano alla legislazione, bensì partecipavano alla legislazione perché erano elemento politico-di-classe. Che cosa 189

ha ciò di comune con la classe privata hegeliana, che come ele­ mento legislativo perviene a un’aria di bravura politica, a uno stato estatico [ = la « società civile » classista che si deve « stac­ care », ossia deve uscire, « da se stessa », nell’«atto politico »: di cui più avanti], a un significato e a una attività politici a parte, sorprendenti [frappanten], eccezionali? In questo sviluppo si trovano riunite tutte le contraddizioni dell’esposizione hegeliana. 1. Egli ha presupposto la separazione della società civile dallo Stato politico (uno stato di cose moderno) e l’ha sviluppata come momento necessario dell’idea, come assoluta verità razionale. Ha rappresentato lo Stato politico nella sua moderna forma della separazione dei diversi poteri. Ha dato al reale e agente Stato la burocrazia come corpo e ha sopraordinato questa, come spirito che sa, al materialismo della società civile. Ha opposto l’univer­ sale in sé e per sé dello Stato al particolare interesse e al bisogno della società civile. In una parola, egli espone dovunque il con­ flitto di società civile e Stato. 2. Hegel oppone la società civile come classe privata allo Stato politico. 3. Egli designa l’elemento di classe, del potere legislativo come il semplice formalismo politico della società civile. Lo qua­ lifica come un rapporto di riflessione della società civile nello Stato, e come un rapporto di riflessione che non altera {’essere dello Stato. Un rapporto di riflessione è anche la più alta identità fra cose essenzialmente diverse. D’altra parte, Hegel vuole: 1. non fare apparire la società civile, nel suo autocostituirsi quale elemento legislativo, né come massa, massa indivisa, né come una moltitudine decomposta nei suoi atomi: egli non vuole nessuna separazione della vita civile dalla vita politica-, 2. dimenticare che si tratta di un rapporto di riflessione, e fare le classi civili, come tali, classi politiche, ma (1 ) ancora soltanto secondo l’aspetto del potere legislativo, cosi che la loro stessa attività sia la prova della separazione. Egli fa {'elemento di classe espressione della separazione, ma, al tempo stesso, questo elemento dev’essere il rappresentante di un’identità che non c’è. Hegel sa della separazione di società civile e di Stato politico, ma vuole espressa all’interno dello Stato l’unità del medesimo, e ciò deve effettuarsi in modo che gli stati 190

della società civile formino contemporaneamente, come tali, l’ele­ mento di classe della società legislativa (cfr. XIV, X).

§ 304. « L’elemento politico-di-stato [politisch-stàndische] contiene, in pari tempo, nella sua determinazione propria, la distinzione degli stati, esistente già nelle sfere anteriori. La sua posizione anzitutto astratta, cioè dell'estremo dell'universalità empirica, di fronte al principio del sovrano o del monarca in genere, — nella quale soltanto si trova la possibilità dell'accordo e quindi, del pari, la possibilità di ostile opposizione, — questa astratta posizione diventa rapporto razionale {sillogismo, cfr. nota al § 302) soltanto perché viene ad esistere la sua mediazione. Come già, da parte del potere sovrano, il potere governativo (§ 300) ha questa determinazione, cosi anche da parte degli stati un momento dei medesimi dev’essere rivolto verso la deter­ minazione di esistere essenzialmente come momento del medio.»

§ 305. « L’uno degli stati della società civile contiene il principio che per sé è atto a esser costituito come tale rapporto politico, cioè lo stato dell’eticità naturale, che ha a sua base la vita familiare e, riguardo alla sussistenza, il possesso fondiario; e quindi, riguardo alla sua particolarità, ha in comune con l’ele­ mento della sovranità una volontà che si fonda sopra di sé e la determinazione naturale, che l’elemento della sovranità chiude in sé.» § 306. « Esso stato, più particolarmente, è costituito per la posizione e la significazione politica, in quanto i suoi beni sono indipendenti tanto dai beni dello Stato, quanto dall’insicurezza del commercio, dal desiderio di guadagno e dalla mutabilità del possesso in generale — come dal favore del potere governativo, cosi dal favore della moltitudine — e persino è rafforzato contro il proprio arbitrio per questo: che i partecipi di questo stato, chiamati a questa determinazione, sono privi del diritto degli altri cittadini di disporre, da una parte, liberamente di tutta la loro proprietà e, dall’altra, di sapere che essa trapassa ai figli in base all’eguaglianza dell’amore per essi; onde la ricchezza diventa bene ereditario inalienabile, gravato da maggiorasco.» zlggiawta: « Questo stato ha una volontà più consistente 191

per sé. Nel complesso, lo stato dei possessori fondiari si distin­ guerà nella parte colta dei medesimi e nella classe dei contadini. Intanto, a queste due specie si contrappongono lo stato indu­ striale, come quello dipendente dal bisogno e ad esso diretto, e lo stato generale in quanto dipendente essenzialmente dallo Stato. La sicurezza e la stabilità di questo stato può esser accresciuta ancora mediante l’istituzione del maggiorasco, che, tuttavia, è desiderabile soltanto nel rispetto politico, poiché ad esso è con­ giunto un sacrificio, per il fine politico che il primogenito possa vivere indipendente. Il fondamento del maggiorasco sta in ciò: che lo Stato deve contare non sulla semplice possibilità del sen­ timento, ma su un che di necessario. Ora, il sentimento non è, certo, legato a una ricchezza, ma connessione relativamente ne­ cessaria è che chi ha una fortuna indipendente non è limitato da circostanze esteriori, e cosi può procedere liberamente e operare per lo Stato. Dove, pertanto, mancano istituzioni politiche, la fondazione e protezione dei maggioraschi non è che un vincolo ch’è posto alla libertà del diritto privato, e deve aggiungervisi il significato politico o esso va incontro alla sua dissoluzione ».

§ 307. « Il diritto di questa parte dello stato sostanziale, in tal modo, è si fondato sul principio naturale della famiglia **, ma questo è sovvertito, ad un tempo, da duri sacrifici per il fine politico; per cui questo stato è destinato essenzialmente alla attività per tale fine, e parimente, in conseguenza, è chiamato e autorizzato ad essa dalla nascita, senza l’accidentalità di una scelta. Quindi esso ha la posizione stabile, sostanziale, tra l’arbitrio soggettivo o l’accidentalità dei due estremi, e come esso (vedi paragrafo precedente) porta in sé un’immagine del momento del potere del sovrano, così divide anche, con l’altro estremo, i biso­ gni, che sono del resto eguali, e gli eguali diritti; e così diventa, a un tempo, sostegno del trono e della società.»

Hegel ha fatto un pezzo di bravura: ha dedotto [entwickelt] dall’idea assoluta i pari per nascita, il bene ereditario etc., questo « sostegno del trono e della società ». Il più profondo in Hegel è che egli sente come una contrad­ dizione la separazione di società civile e società politica. Ma il falso in lui è ch’egli si appaga ddW.'apparenza di questa soluzione e la spaccia per la cosa stessa, allorché le « cosiddette teorie », da 192

lui spregiate, esigono la « separazione » delle classi civili dalle classi politiche, e con ragione, perché esse esprimono una con­ seguenza della moderna società, essendo in questa l’elemento politico-di-classe precisamente niente altro che l’espressione effet­ tiva del reale rapporto di Stato e società civile, la loro separazione. Hegel non ha chiamato la cosa di cui qui si tratta col suo nome conosciuto. È la controversia circa la costituzione rap­ presentativa e la costituzione per stati [stàndischer~\. La costitu­ zione rappresentativa è un progresso certo, poiché essa è l’espres­ sione aperta, non falsificata, conseguente, delle condizioni mo­ derne dello Stato. Essa è la contraddizióne smascherata \_unverholene]. Prima di addentrarci nella cosa stessa, diamo ancora un colpo d’occhio all’esposizione hegeliana. « Nell’elemento di stato del potere legislativo lo stato privato perviene ad un significato politico.» Antecedentemente (§ 301, nota) si diceva: « La pecu­ liare * determinazione concettuale degli stati * è quindi da cer­ care in questo: che in essi viene ad esistere in rapporto allo Stato [...] l’intelligenza propria e la volontà propria della sfera che, in questa esposizione, è stata chiamata società civile ** ». Riassumendo, ne segue: che la società civile è la classe privata, o che la classe privata è l’immediato, essenziale e concreto stato della società civile. Solo nell’elemento di classe [cioè: « costi­ tuzionale »] del potere legislativo essa società attinge « signifi­ cato e attività politici ». È, questo, qualcosa di nuovo che le si aggiunge, una particolare funzione, ché precisamente il suo carat­ tere di stato privato esprime la sua opposizione al significato e all’attività politici, la privazione del carattere politico, cioè che la società civile in sé e per sé è senza significato e attività politici. Lo stato privato è lo stato della società civile, o la società civile è lo stato privato. Quindi Hegel esclude coerentemente lo « stato generale » (1 ) dall’« elemento di stato del potere legislativo ». « Lo stato generale, che si dedica più da presso al servizio del governo, ha immediatamente, nella sua determinazione, l’uni­ versale per fine della sua attività essenziale. » La società civile o la classe privata non ha ciò come sua determinazione; la sua attività essenziale non ha la determinazione di avere come fine l’universale, ossia la sua attività essenziale non è alcuna deter­ minazione dell’universale, non è una determinazione universale. Lo stato privato è lo stato contro stato della società civile. Lo stato della società civile non è alcuno stato [Stand] politico. 193

Qualificando la società civile come stato privato, Hegel ha spiegato le distinzioni di classe della società civile come distin­ zioni non politiche, e come eterogenee e opposte la vita civile e la vita politica. Come prosegue ora? « Il medesimo [lo stato privato] non può ora apparire, qui, né come semplice massa indistinta, né come una moltitudine risolta nei suoi atomi; ma come ciò che esso è già, vale a dire differenziato nello stato che si fonda sul rapporto sostanziale e in quello che si fonda sui bisogni particolari e sul lavoro che li media 201 sgg.). Solo cosi, in questo riguardo, l’elemento particolare, reale nello * Stato, si congiunge veramente col gene­ rale » [§ 303]. In quanto è una « mera massa indivisa » la società civile {lo stato privato) non può certo apparire nella sua attività legislativo-di-classe, ché la mera « massa indivisa » esiste soltanto nella « rappresentazione » della « fantasia », non nella realtà. Nella realtà ci sono soltanto delle masse piu o meno grosse (città, borghi etc.). Queste masse o, meglio, questa massa non solo appare ma è ovunque realiter « una moltitudine dissolta nei suoi atomi », e come atomica essa deve apparire e prodursi nella sua attività po/z//co-di-classe. Lo stato privato, la società civile, non può qui apparire « come ciò ch’è già », e in effetti che cosa esso è già? è stato privato, cioè opposizione allo Stato e separa­ zione da esso. Per attingere « significato e attività politici » esso deve piuttosto rinunciare a ciò ch’è già come stato privato. Per ciò soltanto esso consegue il suo « significato politico » e la sua « attività politica ». Questo atto politico è una completa tran­ sustanziazione. In esso la società civile si deve staccare da se stessa [ = « stato estatico », di cui sopra! ] in quanto società civile, in quanto stato privato, e far valere una parte del suo essere che non solo non ha niente di comune con l’esistenza civile reale del suo essere, ma che le è direttamente opposta. Ciò ch’è la legge generale si mostra qui nell’individuo. So­ cietà civile e Stato sono separati. Dunque, cittadino dello Stato e cittadino semplice, membro della società civile, sono anch’essi separati. Il cittadino deve, dunque, operare una rottura essenziale seco stesso. Come cittadino reale esso si trova in una doppia orga­ nizzazione: quella burocratica — ch’è un’esterna, formale deter­ minazione dello Stato trascendente, del potere governativo, che non tocca il cittadino e la sua realtà indipendente — e quella sociale, l’organizzazione della società civile. Ma in questa esso 194

sta, come uomo privato, fuori dello Stato: essa non tange lo Stato politico come tale. La prima è un’organizzazione statale, a cui esso cittadino offre sempre la materia. La seconda è un’orga­ nizzazione civile \bùrgerliche~\, la cui materia non è lo Stato. Nella prima lo Stato si rapporta come opposizione formale al cittadino, nella seconda questi si rapporta come opposizione mate­ riale allo Stato. Per comportarsi, dunque, come reale cittadino dello Stato, e attingere significato e attività politici, esso è co­ stretto a uscir fuori [ = l’« estatico », di cui sopra] dalla sua realtà civile; ad astrarsi da essa, a ritrarsi da tutta questa orga­ nizzazione nella sua individualità; che l’unica esistenza ch’esso trova per la sua qualità di cittadino dello Stato è la sua pura, nuda, individualità, essendo compiuta, senza di lui, l’esistenza del­ lo Stato come governo, ed essendo compiuta, senza lo Stato, la sua esistenza nella società civile. Solo in contraddizione con queste uniche comunità esistenti, solo in quanto individuo, esso può essere cittadino dello Stato. La sua esistenza come cittadino dello Stato è un’esistenza ch’è situata fuori della sua esistenza comune ed è dunque puramente individuale. li « potere legislativo », in quan­ to « potere », è soltanto l’organizzazione, il corpo comune, ch’essa deve [jo//] avere. Prima del « potere legislativo » la società civile, lo stato privato, non esiste come organizzazione statale, e, affin­ ché pervenga a esistenza siffatta, occorre che la sua reale orga­ nizzazione, la reale vita civile, sia posta come non esistente, che l’elemento di classe del potere legislativo ha precisamente la deter­ minazione di porre come non esistente lo stato privato, la società civile. La separazione della società civile dallo Stato politico appare necessariamente come una separazione del cittadino politico, del cittadino dello Stato, dalla società civile, dalla sua propria effet­ tiva empirica realtà, che in quanto idealista dello Stato esso è un tutt’altro ente, diverso dalla sua realtà, distinto, opposto. La società civile effettua qui entro se stessa il rapporto di Stato e società civile, che d’altra parte esiste già come burocrazia. Nel­ l’elemento di classe l’universale diventa realmente per sé ciò ch’esso è in sé, cioè {’opposto del particolare. Il cittadino semplice deve abbandonare il suo stato, la società civile, lo stato privato, per pervenire a significato e attività politici, che precisamente que­ sto stato sta fra l’individuo e lo Stato politico. Se Hegel oppone già l’insieme della società civile, come stato privato, allo Stato politico, va da sé che le distinzioni all'interno dello stato privato, le diverse condizioni civili, hanno 195

soltanto un significato privato, nessun significato politico, in rap­ porto allo Stato. Giacché i diversi stati civili sono semplicemente la realizzazione, l’esistenza, del principio, dello stato privato come principio della società civile. Ma, se si è dovuto sacrificare il principio, s’intende da sé che a maggior ragione le diramazioni all’interno di questo principio non esistono per lo Stato politico. « Solo cosi, in questo riguardo, — conclude Hegel il para­ grafo [§ 303], — l’elemento particolare, reale nello Stato, si con­ giunge veramente col generale. » Ma Hegel scambia qui Io Stato come l’insieme dell’esistenza di un popolo con lo Stato politico. Quel particolare non è il « particolare nello Stato », ma piuttosto « fuori dello Stato », fuori cioè dello Stato politico. Non solo non è « il particolare reale nello Stato », ma altresì è l’« irrealtà dello Stato ». Hegel intende spiegare che le classi della società civile sono le classi politiche, e per dimostrare questo suppone che le classi della società civile siano la « particolarizzazione dello Stato poli­ tico », cioè che la società civile sia la società politica. L’espressione « il particolare nello Stato » qui può avere soltanto il senso della « particolarizzazione dello Stato ». La scelta dell’espressione inde­ terminata è dettata a Hegel da una cattiva coscienza. Non solo ha egli stesso svolto il contrario, ma lo conferma egli stesso in questo paragrafo allorché qualifica la società civile come « stato privato ». Molto cauta è anche l’indicazione: che il particolare « si congiunge » con l’universale. Congiungere si possono le cose le pili eterogenee. Ma non si tratta qui di un passaggio graduale, bensì di una transustanziazione, e non serve il non voler vedere questo abisso che si salta e ch’è dimostrato dal salto stesso. Hegel dice nella nota: « Ciò va contro un’altra concezione corrente » etc. Abbiamo appunto mostrato come questa corrente concezione sia conseguente, necessaria, una « rappresentazione necessaria dell’attuale sviluppo popolare », e come la concezione di Hegel, sebbene anch’essa molto corrente in certe sfere, sia una cosa non vera. Tornando alla concezione corrente, Hegel dice: « Questa veduta atomistica, astratta, scompare già nella fa­ miglia » etc. etc. « Ma lo Stato è » etc. Astratta è certo questa veduta, ma è l’« astrazione » propria dello Stato politico, quale Hegel stesso lo deduce. Atomistica essa è anche, ma è l’atomismo della società stessa. La « veduta » non può esser concreta quando l’« oggetto » di essa è « astratto ». L’atomismo, in cui la società civile precipita nel suo atto politico, risulta necessariamente da questo: che la comunità, l’esser in comune, in cui esiste l’individuo, 196

è la società civile separata dallo Stato; o che lo Stato politico è una astrazione da essa società. Questa veduta atomistica, benché scompaia già nella fami­ glia, e forse ( ? ) anche nella società civile, ritorna nello Stato poli­ tico, precisamente perché esso è un’astrazione dalla famiglia e dal­ la società civile. E reciprocamente. Con l’esprimere la stranezza di questo fenomeno, Hegel non ha superato Vestraniazione. « La concezione », è detto in seguito, « che risolve di nuovo in una moltitudine d’individui le comunità esistenti ** già in quel­ le cerehie in cui esse si presentano nel campo politico, cioè nel punto di vista della suprema universalità concreta, appunto perciò tiene * separate l’una dall’altra la vita civile e la politica, e campa, per cosi dire, quest’ultima nell’aria, poiché la sua base sarebbe solo l’astratta singolarità dell’arbitrio e dell’opinione, e quindi l’accidentale, non una base in sé e per sé stabile e legittima » (§ 303). Tale concezione non mantiene separate la vita civile e la vita politica: essa è semplicemente la rappresentazione di una separa­ zione realmente esistente. Essa concezione non pone la vita politica in aria, bensì la vita politica è la vita aerea, l’eterea [àtherische] regione della società civile. Consideriamo soltanto il sistema degli stati e il sistema rap­ presentativo. È un progresso della storia che ha mutato le classi politiche in classi sociali, in modo che, come i cristiani son eguali in cielo e ineguali in terra, così i singoli membri del popolo sono' eguali nel cielo del loro mondo politico e ineguali nell’esistenza terrestre della società. La trasformazione propriamente detta delle classi politiche in civili accadde nella monarchia assoluta. La buro­ crazia fece valere l’idea dell’unità contro i diversi stati nello Stato. Ciò nondimeno, anche a lato della burocrazia del potere governa­ tivo assoluto, la distinzione sociale degli stati rimase una distinzio­ ne politica, politica all’interno e accanto alla burocrazia del potere governativo assoluto. Soltanto la rivoluzione francese compì la tra­ sformazione delle classi politiche in sociali, ovvero fece delle diffe­ renze di classe della società civile soltanto delle differenze sociali, delle differenze della vita privata, che sono senza significato nella vita politica. Fu con ciò compiuta la separazione di vita politica e di società civile. Le classi della società civile si trasformarono parimente: la società civile con la sua separazione da quella politica era divenuta un’altra. La classe in senso medievale sussistette soltanto dentro la burocrazia stessa, dove la posizione civile e quella politica sono im­ 197

mediatamente identiche. E di fronte sta la società civile come sta­ to privato. La distinzione di stato non è piu, qui, una distinzione secondo il bisogno e il lavoro in quanto corpo autonomo. L’unica differenza generale, superficiale e formale, è qui ancora soltanto quella di città e campagna. Ma entro la stessa società la differenza si è svolta in cerehie mobili, non fisse, il cui principio è Varbitrio. E denaro e cultura ne sono i criteri capitali. Ma non qui, è nella critica dell’esposizione hegeliana della società civile che abbiamo da svolgere ciò. Basta. Lo stato della società civile non ha come suo principio né il bisogno, ch’è un momento naturale, né la poli­ tica. È una divisione di masse che si formano fugacemente [fliichtig], la cui stessa formazione è arbitraria e non è un’organizzazione. Caratteristico è soltanto che la mancanza di beni [Besitzlosigkeit] e la condizione del lavoro diretto \unmittelbaren\, del lavoro concreto, costituiscono meno uno stato della società civile che non il terreno su cui posano e si muovono le sue cerehie. Lo stato caratteristico, in cui posizione politica e posizione civile coin­ cidono, è solo quello dei membri del potere governativo. Lo stato attuale della società mostra già la sua differenza dallo stato di una volta della società civile in questo: che esso non è, come una volta, qualcosa di comune, una comunità che tiene l’individuo, ma è in parte caso, in parte lavoro etc., dell’individuo, si attenga questi al proprio stato o no; è uno stato ch’è a sua volta soltanto una determinazione esteriore dell’individuo, ché esso stato non è ine­ rente al suo lavoro e non si rapporta all’individuo come un’ogget­ tiva comunità, organizzata secondo leggi stabili e avente con lui stabili relazioni. Esso, piuttosto, non è in alcun reale rapporto con l’agire sostanziale dell’individuo, col suo reale stato. L’esercizio della medicina non costituisce nessun particolare stato nella società civile. Un commerciante appartiene a uno stato diverso da quello di un altro commerciante, cioè a una diversa situazione sociale. Cosi come la società civile si è separata da quella politica, la società civile si è separata, nel suo interno, in stato [reale] e in situazione sociale, per quante relazioni vi siano fra i due. Il principio della condizione borghese, ossia della società civile, è il godimento, la capacità di fruire. Nell’acquistare significato politico il membro della società civile si stacca dal suo stato, dalla sua effettiva posi­ zione privata; è colà soltanto che perviene come uomo, ad aver significato, ovvero la sua determinazione come membro dello Stato, come ente sociale, si manifesta quale sua determinazione umana. Giacché tutte le altre sue determinazioni, nella società 198

civile, appaiono come inessenziali all’uomo, all’individuo, come determinazioni esteriori, necessarie, è vero, alla sua esistenza d’as­ sieme, cioè quale legame con l’assieme, ma legame di cui può altrettanto bene sbarazzarsi in seguito. (L’attuale società civile è il principio realizzato individualismo-, l’esistenza individuale è lo scopo ultimo: attività, lavoro, contenuto etc. sono soltanto dei mezzi.) La costituzione di stati, quando non è una tradizione me­ dievale, è il tentativo di rigettare, in parte, l’uomo, dentro la stessa sfera politica, nella limitatezza della sua sfera privata, di fare della sua particolarità la sua coscienza sostanziale, e per il fatto che la distinzione di classe esiste politicamente farne di nuovo una distinzione sociale. Iduomo reale è l'uomo privato dell’attuale costituzione dello Stato. La classe ha sopra tutto il significato: che la differenza, la se­ parazione sono l’esistenza [Bestehen] del singolo. Il modo di vivere, l’attività etc., di questi, invece di farne un membro, una funzione della società, ne fa un’eccezione della società, è il suo privilegio. Che tale differenza non sia solo una differenza indi­ viduale, ma si stabilisca come comunità, stato, corporazione, ciò non soltanto non sopprime la sua natura esclusiva, bensì ne è piuttosto soltanto la espressione: invece di essere, la singola fun­ zione, funzione della società, è costituita piuttosto in una società per sé. Non solo la classe si basa sulla separazione della società come legge generale; essa separa l’uomo dal suo essere generale, ne fa un animale che coincide immediatamente con la sua determi­ natezza. Il medioevo è la storia animale dell’umanità, la sua zoologia. Il tempo moderno, la civiltà, commette l’errore inverso. Separa l’essere oggettivo dell’uomo da questi, come un essere soltanto esteriore, materiale. Non assume il contenuto dell’uomo come la vera realtà di questi. Il resto in proposito si spiegherà nella sezione: « società ci­ vile ». Veniamo al § 304. «L’elemento politico-di-stato contiene ([) in pari tempo, nella sua significazione propria *, la distinzione degli stati, esistenti già nelle sfere anteriori. » Abbiamo mostrato che la distinzione delle classi, esistente già nelle sfere anteriori, non ha alcun significato per la sfera poli­ tica, ovvero ha soltanto il significato di una distinzione privata, dunque non politica. Ma essa anche ha affermato qui, secondo 199

Hegel, non la sua « significazione già esistente » (la significazione che ha nella società civile), bensì l’« elemento politico-di-stato », in quanto (’) questo l’accoglie, come il suo essere; ed essa, immer­ sa nella sfera politica, assume un « proprio » significato, apparte­ nente a questo elemento e non ad essa. Allorché la struttura della società civile era ancora politica, e lo Stato politico era la società civile, questa partizione, questo sdoppiamento del significato delle classi non c’erano. Le classi non significavano già questa cosa nel mondo civile e un'altra in quello politico. Esse non già acquistavano un significato nel mondo poli­ tico, bensì vi significavano se stesse. Il dualismo di società civile e di Stato politico, che la costituzione classista crede di sciogliere con una reminiscenza [medievale], viene fuori in essa in tal guisa che la distinzione delle classi (la distinzione della società civile in se stessa) acquista nella sfera politica un altro significato che nella civile. C’è qui apparente identità, medesimo soggetto (2), ma con una determinazione essenzialmente diversa, dunque in verità c’è un doppio soggetto, e questa illusoria identità (essa è già illusoria perché il reale soggetto, l’uomo, nelle diverse determinazioni della sua essenza, rimane eguale a se stesso, non perde la sua identità, ma qui non l’uomo è soggetto, bensì l’uomo è identificato con un predicato, la classe, e nello stesso tempo si afferma che esso è in questa specifica \_bestimmten] determinazione e in un'altra, che esso, come questa specifica, esclusiva, limitazione, è altro che non tale limitazione) è mantenuta artificiosamente mediante la rifles­ sione che, una volta, la distinzione civile delle classi riceve come tale una determinazione che le deriva dalla sfera politica, e un’al­ tra volta essa riceve una determinazione, nella sfera politica, che non le deriva dalla sfera politica, bensì dal soggetto della sfera civile. Per rappresentare quel soggetto delimitato, la determinata classe (la distinzione di classe), come l’essenziale soggetto dei due predicati, questi vengono entrambi mistificati e sviluppati in una doppia figura illusoria, indeterminata. Il medesimo soggetto è qui preso in differenti significati, ma il significato non è la sua determinazione, bensì una determinazione allegorica, interpolata [untergeschobene]. Si potrebbe assumere per lo stesso significato un altro soggetto concreto, e per lo stesso soggetto un altro significato. Il significato, che la distinzione civile delle classi assume nella sfera politica, non deriva da essa, bensì dalla sfera politica, ed essa potrebbe qui avere anche un altro significato, come del resto è stato 200

storicamente, e viceversa. È la maniera acritica, mistica, di interpretare un’antiquata concezione del mondo nel senso di una moderna, onde la prima diventa nient’altro che qualcosa di infeli­ cemente ibrido, in cui la forma inganna il significato e il significato la forma, e né la forma perviene al suo significato e ad esser reale forma, né il significato perviene alla forma e ad esser reale significato. Questa acrisia \.Unkritik~\, questo misticismo, è altret­ tanto l’enigma delle moderne costituzioni (xa-r’ è^ox^v di quelle per stati) che il mistero della filosofia hegeliana, della filosofia del diritto e della religione, prima di tutto. Ci si libera nel modo migliore da questa illusione se si prende il significato per quello che è, per la determinazione propriamente detta, e se ne faccia come tale il soggetto e si confronti se il sogget­ to suo presunto appartenente è il suo reale predicato e se esso rappresenta la sua essenza e la sua vera realizzazione. « La sua posizione (dell’elemento politico-di-stato) * anzi­ tutto (1 ) astratta, cioè deV’estremo dell’universalità empirica, di fronte al principio del sovrano o del monarca .in genere, — nella quale soltanto si trova la possibilità de(Vaccordo e quindi, del pari, la possibilità di ostile opposizione, — questa astratta posizione di­ venta rapporto razionale (sillogismo, cfr. nota al § 302) soltanto perché viene ad esistere la sua mediazione » [§ 304]. Abbiamo già visto che le classi formano assieme al potere governativo il termine medio fra il principio monarchico e il po­ polo, fra la volontà dello Stato, quale esiste come una sola volontà empirica, e quale esiste come molte volontà empiriche, fra (’indivi­ dualità empirica e (’universalità empirica. Hegel dovette determi­ nare la volontà sovrana come individualità empirica, così come de­ terminò la volontà della società civile come universalità empirica, ma non esprime l’opposizione in tutta la sua acutezza. Hegel continua: « Come già, da parte del potere sovrano, il potere governativo (§ 300) ha questa determinazione, cosi anche da parte degli stati un momento dei medesimi dev’essere rivolto verso la determinazione di esistere essenzialmente come momento del medio ». Ma i due veri opposti sono il principe e la società civile. E abbiamo già visto che lo stesso significato, che ha il potere gover­ nativo dal lato del principe, lo ha l’elemento di classe dal lato del popolo. Come il sovrano si emana in cerchi divergenti, cosi il popolo si condensa in un’edizione in miniatura, ché la monarchia costituzionale può accordarsi solamente col popolo en miniature. 201

L’elemento di classe è assolutamente la medesima astrazione dello Stato politico, dal lato della società civile, ch’è il potere governa­ tivo, dal lato del principe. Sembra dunque che la mediazione sia completamente costituita. Ambo gli estremi hanno smesso la loro rigidezza, e inviato all’incontro [l’uno all’altro] il fuoco della loro essenza peculiare; e il potere legislativo, di cui sono elementi tanto il potere governativo che le classi, sembra non solo che non possa fare a meno di lasciar pervenire all’esistenza la mediazione perve­ nuta all’esistenza. Hegel ha anche già qualificato questo elemento di classe assie­ me al potere legislativo come il medio fra il popolo e il principe (e parimente l’elemento di classe come il medio fra la società civile e il governo etc.). Il rapporto razionale, il sillogismo, sembra dun­ que già pronto. Il potere legislativo, il medio, è un mixtum compo­ situm di ambo gli estremi, del principio sovrano e della società civile, dell’individualità empirica e dell’universalità empirica, del soggetto e del predicato. Hegel concepisce in genere la deduzione [Schluss] come medio: cioè come un mixtum compositum. Si può dire che nel suo sviluppo del sillogismo della ragione [Vernunftschlusses] tutta la trascendenza e il mistico dualismo del suo siste­ ma pervengono a manifestarsi. Il medio è il ferro di legno, è l’op­ posizione dissimulata di universalità e singolarità. Osserviamo dapprima, a proposito di tutto questo sviluppo, che la « mediazione », che Hegel vuole effettuare qui, significa quella sua esigenza ch’egli deriva non dall’ewewza del potere legi­ slativo, dalla sua peculiare determinazione, ma piuttosto dalla [pra­ tica] considerazione [Riicksicht] al riguardo di tisi’esistenza che resta al di fuori della sua determinazione essenziale. È una costru­ zione del riguardo, (') Il potere legislativo, specialmente, è spiegato soltanto in ri­ guardo di un terzo elemento. È quindi, a preferenza, la costruzione della sua esistenza formale che occupa tutta l’attenzione. Il potere legislativo è costruito molto diplomaticamente. Ciò consegue dalla posizione falsa, illusoria, per eccellenza politica, che ha il potere legislativo nello Stato moderno (di cui Hegel è interprete). Ne consegue, da sé, che questo Stato non è un vero Stato, giacché in esso le determinazioni statali, di cui una è il potere legislativo, de­ vono esser apprezzate non in se stesse e per se stesse, non teorica­ mente, bensì praticamente, non come forze indipendenti, ma sì infi­ ciate di un contrasto: non secondo la natura della cosa, bensì secon­ do le regole convenzionali. 202

Dunque, l’elemento di classe dovrebbe propriamente essere, « in comune col potere governativo », il medio fra la volontà dell’individualità empirica, del principe, e la volontà della gene­ ralità empirica, della società civile; ma in verità, realiter, la « sua * posizione » è una « anzitutto astratta posizione, cioè dell’estremo dell’universalità empirica di fronte al principio del sovrano o del monarca in genere, — nella quale soltanto si trova la possibilità dell’accordo e quindi, del pari, la possibilità di ostile opposizio­ ne* »: una « posizione astratta », come Hegel giustamente os­ serva. Innanzi tutto, sembra che qui né l’« estremo dell’universa­ lità empirica », né il « principio del sovrano o del monarca », l’estremo dell’individualità empirica, se ne stiano l’uno di fronte all’altro. Giacché le classi sono delegate dalla società civile come il potere governativo è delegato dal principe. Come il principio sovrano cessa, nel potere governativo delegato, di esser l’estremo dell’individualità empirica, e piuttosto in esso rinuncia alla sua volontà « senza fondamento ** » e si abbassa alla « finitezza » del sapere e alla responsabilità del pensare, cosi la società civile non sembra piu essere, nell’elemento di classe, universalità empirica, ma un tutto molto determinato che ha tanto il « senso e la menta­ lità dello Stato e del governo, quanto degli interessi delle cerehie particolari e dei singoli» (§ 302). La società civile ha cessato, nella sua classista [stàndischen] edizione f1) in miniatura, di essere l’« universalità empirica ». Essa è piuttosto calata a una delegazione, a un numero ben determinato; e, come il sovrano si è dato nel potere governativo un’empirica generalità, cosi la so­ cietà civile si è data nelle classi un’empirica individualità o parti­ colarità. Entrambi sono divenuti particolarità. L’unica opposizione, qui ancora possibile, sembra quella fra ambo i rappresentanti delle due volontà statali, fra le due emana­ zioni, fra l'elemento governativo e l’elemento di classe del potere legislativo; sembra, dunque, una opposizione entro lo stesso potere legislativo. La mediazione in comune sembra altresì bene adatta a prendersi l’un l’altro per i capelli. Nell’elemento di governo del potere legislativo l’individualità empirica, inaccessibile, del princi­ pe, si è materializzata \verirdischt~\ in un numero di personalità definite, palpabili, responsabili, e nell’elemento di classe [del po­ tere legislativo] la società civile si è sublimata [verbimmlischt] in un certo numero di uomini politici. Ambo le parti hanno perduto la loro impermeabilità: il potere sovrano l’inaccessibile, esclusiva, 203

empirica unicità-, la società civile l’inaccessibile, vaga, empirica totalità-, l’uno la sua rigidezza, l’altra la sua fluidità. Nell’elemento di classe, da una parte, e nell’elemento governativo del potere legislativo {1 ), dall’altra, che in comune volevano mediare la so­ cietà civile e il principe, {’opposizione sembra, dunque, primamen­ te pervenuta ad essere un’opposizione pugnace, dunque anche una contraddizione irreconciliabile. Questa « mediazione » necessita soltanto di ciò che Hegel giustamente spiega: del « perché viene ad esistere la sua * [dell’ele­ mento di classe] mediazione ». Essa stessa è piuttosto l’esistenza che non la mediazione della contraddizione. Che questa mediazione si effettui da parte elemento di classe sembra (2) che Hegel lo affermi senza fondamento. Egli dice: « Come già, da parte del potere sovrano, il potere governa­ tivo (§ 300) ha questa determinazione, cosi anche da parte degli stati un momento dei medesimi dev’essere rivolto verso la deter­ minazione di esistere essenzialmente come momento del medio ». Ma abbiamo già visto che Hegel qui arbitrariamente e incon­ seguentemente pone a confronto come degli estremi il principe e le classi. Come il potere governativo riceve quella determinazione dal potere sovrano, cosi l’elemento di classe la riceve dalla società civile. Le classi non stanno soltanto, in comune col potere gover­ nativo, fra il principe e la società civile, esse stanno anche fra il governo in genere e il popolo (§ 302). Esse fanno, da parte della società civile, di più di quel che faccia il potere governativo, da parte del potere sovrano, giacché quest’ultimo persino sta di fronte al popolo come suo opposto. Esse hanno cosi colmato la misura della mediazione. Perché, dunque, caricare ancora questi asini di sacchi? Perché deve, dunque, l’elemento di classe fare ovunque da ponte d’asino, persino fra se stesso e il suo antagonista? Perché esso è ovunque l’abnegazione stessa? Deve esso tagliarsi una mano, affinché non possa tener testa con tutt’e due al suo antagonista, l’elemento governativo del potere legislativo? Vi si aggiunge anche che Hegel primieramente fece risultare le classi dalle corporazioni, dalle differenze di stato etc., affinché non siano una « mera generalità empirica », e che ora, all’inverso, ne fa una « mera generalità empirica » per farne rilevare la differenza propria della classe! Come il principe si media con la società civile attraverso il potere governativo, suo Cristo, cosi la società si media col principe attraverso gli stati, suoi preti. Sembra ora, piuttosto, che il ruolo degli estremi, potere so­ 204

vrano (individualità empirica) e società civile (universalità empiri­ ca), debba essere di servir da mediatori delle « loro mediazioni », tanto piu che « appartiene alle vedute logiche più importanti che un momento determinato, il quale, in quanto sta in antitesi, ha la posizione di un estremo, cessi di esser tale e sia un momento organico, per ciò ch’esso è, al tempo stesso, termine medio » (§ 302, nota). Sembra che la società civile non possa assumere questo ruolo, giacché essa non ha posto nel « potere legislativo » come ciò ch’è essa stessa, come estremo. L’altro estremo, che come tale si trova nel mezzo del potere legislativo, il principio sovrano, sem­ bra dunque che debba fare da mediatore fra l’elemento di classe e (‘) l’elemento governativo. Esso sembra, altresì, qualificato per ciò. Ché, da un lato, esso rappresenta l’intero dello Stato, dunque anche la società civile, e particolarmente ha in comune con gli stati l’« individualità empirica » della volontà, poiché l’universa­ lità empirica è reale solo come individualità empirica. E inoltre non sta, di fronte alla società civile, come soltanto qualcosa di for­ male, in quanto coscienza statale, come il potere governativo: esso stesso è Stato, ha, in comune con la società civile, il momento materiale, naturale. Dall’altro lato, il sovrano è la testa e il rappre­ sentante del potere governativo. (Hegel, che inverte tutto, fa del potere governativo il rappresentante, l’emanazione, del principe. Poiché, nell’idea, di cui fl. principe ha da essere l’esistenza, Hegel vede non l’idea reale del potere governativo, non il potere gover­ nativo nella sua idealità [als Idee], bensì il soggetto ch’è l’idea assoluta, la quale esiste corporeamente nel principe, il potere go­ vernativo diventa un mistico prolungamento àeWanima esistente in quel corpo, nel corpo del principe.) Il principe dovrebbe, dunque, essere, nel potere legislativo, il termine medio fra il potere governativo e l’elemento [politico] di classe; ma(2) il potere governativo non è termine medio fra esso e la società [politico] di classe [o costituzionale], e (3) questa termine medio fra esso e la società civile? Come farebbe il principe a mediare ciò di cui esso abbisogna come il suo medio, per non essere un estremo unilaterale? Qui si affaccia tutto l’assurdo di questi estremi che, alternativamente, ora giuocano il ruolo del­ l’estremo e ora il medio. Sono teste di Giano, che ora si mostrano davanti e ora di dietro, e davanti hanno un carattere diverso che di dietro. Ciò che dapprima si determina come medio fra due estremi si presenta ora esso stesso come estremo, e l’uno dei due estremi, che attraverso quello era stato mediato con l’altro, si 205

ripresenta ora come estremo (perché nella sua distinzione dall’altro estremo) fra il suo estremo e il suo medio. È un complimentarsi a vicenda. Come quando uno s’intromette fra due litiganti e uno di questi a sua volta s’intromette tra l’intermediario e l’altro litigante. È la storia del marito e della moglie che leticavano e del medico che voleva fare da conciliatore, onde la moglie dovette intromettersi fra il medico e il marito e questi fra la moglie e il medico. È come il leone che nel Sogno di una notte d’estate grida: « io sono un leone e non sono un leone, io sono Snug ». Così ogni estremo è qui ora il leone dell’opposizione e ora lo Snug della mediazione. Quando un estremo grida: « ora sono io termine medio », gli altri due non possono toccarlo, ma solo possono col­ pire l’altro ch’era estremo prima. Si vede ch’è un’associazione battagliera in fondo al cuore, ma troppo timorosa dei lividi per battersi realmente; e i due che vogliono battersi si contengono in modo che il terzo, che nel frattempo interviene, debba pren­ dere le percosse, e allora si ripresenta uno dei due come terzo, e così a forza di prudenza non giungono ad alcuna decisione. Questo sistema di mediazione procede anche come quell’uomo che vuole battere l’avversario, ma deve anche proteggerlo, d’altra parte, contro altro avversario dai colpi, e così in questa doppia occupa­ zione non giunge a compiere la sua faccenda. È singolare che Hegel, che riduce questa assurdità della mediazione alla sua espressione astratta, logica, quindi pura e intransigibile, la designa al tempo stesso come mistero speculativo della logica, come il rapporto razionale, come il sillogismo. Estremi f1) reali non pos­ sono mediarsi fra loro, proprio perché sono reali estremi. Ma neanche abbisognano di alcuna mediazione, che sono di opposta natura. Non hanno niente di comune l’uno con l’altro, non si richiedono l’un l’altro, non si integrano l’un l’altro. L’uno non ha nel suo seno brama, bisogno, anticipazione dell’altro. (Ma quando Hegel tratta universalità e singolarità, gli astratti momenti del sillogismo, da reali opposti, è questo precisamente il dualismo fondamentale della sua logica. Il resto in proposito appartiene alla critica della logica hegeliana.) A questo sembra contrapporsi: les extremes se touchent. Che polo nord e polo sud si attraggono, e parimente si attraggono sesso femminile e sesso maschile, onde dal congiungimento delle loro estreme differenze nasce l’uomo. D’altra parte: ogni estremo è l’altro suo estremo; l’astratto 206

spiritualismo è astratto materialismo', l’astratto materialismo è Mastratto spiritualismo della materia. Per ciò che concerne il primo punto, polo nord e polo sud sono entrambi dei poli-, la loro essenza è identica: parimente sesso femminile e sesso maschile sono entrambi un genere, un’essenza, l’essenza umana. Nord e sud sono opposte determinazioni di una essenza: la differenza di un’essenza al suo piu alto punto di sviluppo. Sono l’essenza differenziata. Sono ciò che sono soltanto come una determinazione differenziata, e come questa differenziata determinazione dell’essenza. Veri reali estremi sarebbero il polo e il non-polo, il genere umano e l’inumano. La differenza è qui una differenza dell’esistenza-, là una differenza dell'essenza, di due essenze. Per ciò che concerne il secondo punto, il tratto principale consiste in questo: che un concetto (esistenza etc.) è preso astrat­ tamente, che esso ha significato non in quanto indipendente, bensì come un’astrazione da un altro e solo come questa astrazione-, così, per es., lo spirito è soltanto l'astrazione dalla materia. S’intende allora da sé che, precisamente perché questa forma deve trovare il suo contenuto, esso spirito è piuttosto l'astratto contrario, l’oggetto, da cui astrae, nella sua astrazione, qui dunque l’astratto materialismo, sua reale essenza. Se la differenza all’interno del­ l’esistenza [Existenz] di un ente non fosse stata confusa in parte con l’astrazione ipostatizzata [verselbstàndigten Abstraktion] (astrazione, s’intende, non da altro, ma propriamente da se stesso), in parte con l’opposizione reale di enti reciprocamente esclusivi, si sarebbe evitato un triplice errore: 1. che, tenendosi per vero soltanto l’estremo, si tenga per vera ogni astrazione e unilate­ ralità, per cui un principio appare, invece che come una totalità in se stesso, solo come astrazione da un altro; 2. che la risolutezza [Entschiedenheit] di opposti reali [cioè: di eterogenei? « natura » e « coscienza »?], la loro costituzione in estremi, che non è niente altro che la loro conoscenza di se stessi e il loro accendersi alla decisione della lotta, sia pensata come qualcosa di possibilmente evitabile o nocivo; 3. che si cerchi la loro mediazione [logicodlAettico-metafisica]. Ché, per quanto ambo gli estremi si pre­ sentino nella loro esistenza come reali e come estremi [ = etero­ genei?], è proprio soltanto dell’essenza di uno [cioè: del pensiero o «coscienza»?] di essere estremo [cioè: « estremo »-« es­ senza » di un altro « estremo »-« essenza », o concetto-con­ trario? vedi sotto] ed esso non ha per l’altro il significato della vera realtà. L’uno invade [greift ueber] l’altro. La posizione non 207

è eguale. Ad esempio, cristianesimo o religione in generale « filosofia sono estremi. Ma in verità la religione non costituisce alcun vero opposto [= eterogeneo?] della filosofia: ché la filo­ sofia comprende [begreift] la religione nella sua illusoria realtà, La religione — in quanto vuol essere una realtà — è dunque, per la filosofia, risolta in essa filosofia. Non si dà un reale dualismo deWessenza [o concetto-contrario? cfr. il detto aristo­ telico e plotiniano: « una è la scienza dei contrarivi}. Di piu in seguito. Si chiede: come Hegel giunge, insomma, ad aver bisogno di una nuova mediazione da parte dell’elemento di classe? O Hegel (1 ) partecipa al « pregiudizio frequente, ma sommamente pericoloso, di concepire gli stati principalmente dal punto di vista della antitesi verso il governo, come se questa fosse la loro essen­ ziale posizione » (§ 302, nota)? La cosa è semplicemente questa: da una parte, si è visto che, nel « potere legislativo », la società civile come elemento « degli stati » (2) e il potere sovrano come « elemento di go­ verno » si sono ispirati a una reale, diretta opposizione pratica. D’altra parte, il potere legislativo è totalità. Vi troviamo: 1. la delegazione del principio sovrano, il « potere governativo »; 2. la delegazione della società civile, l’elemento « degli stati »; ma oltre a ciò vi si trova 3. uno degli estremi, come tale, il principio sovrano, laddove l’altro estremo, la società civile, come tale non vi si trova. Perciò solo l’elemento « degli stati » di­ venta l’estremo del principio « sovrano », estremo che pro­ priamente doveva essere la società civile. Solo come elemento classista la società civile si organizza, come abbiamo visto, in esistenza politica. L’elemento « degli stati » è la sua esistenza, politica, la sua transustanziazione nello Stato politico. Solo il « potere legislativo » è, quindi, come si è visto, il vero Stato politico nella sua totalità. Qui c’è dunque: 1. il principio sovrano, 2. il potere governativo, 3. la società civile. L’elemento «degli stati » è « la società civile dello Stato politico », del « potere legislativo ». L’estremo, che la società civile doveva costituire rispetto al principe, è quindi l’elemento «degli stati». (3) (È perché la società civile è la non realtà dell’esistenza politica che l’esistenza politica della società civile è la dissoluzione di questa, la sua separazione da se stessa [ = l’« estaticità », di cui sopra].) Parimente esso estremo costituisce dunque un’opposizione al po­ tere governativo. 208

Perciò Hegel designa ancora l’elemento « degli stati » come {1 ) l’« estremo dell’universalità empirica », il che veramente è la società civile stessa. (Hegel ha, dunque, fatto risultare inutil­ mente l’elemento politico-di-classe dalle corporazioni e dai diversi stati. Ciò avrebbe senso solo se ora i diversi stati fossero come tali degli stati legislativi, se dunque la differenziazione della società civile, la determinazione civile, fosse la determinazione politica. Allora non avremmo un potere legislativo dell’insieme dello Stato, bensì il potere legislativo di differenti stati, corporazioni e classi, sull’insieme dello Stato. Gli stati della società civile non riceverebbero determinazione politica, ma determine­ rebbero essi lo Stato politico. Essi farebbero della loro partico­ larità il potere determinante della totalità. Sarebbero la potenza del particolare sopra l’universale. Avremmo anche non un potere legislativo, bensì più poteri legislativi, che transigerebbero fra loro e col governo. Ma Hegel ha in vista il significato moderno dell’elemento di classe: di esser la realizzazione del cittadino dello Stato [ Staatsbiirgertums ], del bourgeois. Egli vuole che l’« uni­ versale in sé e per sé », lo Stato politico, non sia determinato dalla società civile, ma, all’inverso, la determini. Mentre, dunque, accoglie la figura del medievale elemento di classe, dà a esso elemento il significato opposto di esser determinato dall’essenza dello Stato politico. Gli stati come rappresentanti della corporazione etc. non sarebbero l’« universalità empirica», bensì la «particolarità empirica», la «particolarità dell’empiria»!) Il « potere legislativo » abbisogna, dunque, in se stesso della media­ zione, cioè di un occultamento dell’opposizione, e tale mediazione deve partire dall’« elemento degli stati», poiché (2) questo ele­ mento perde, entro il potere legislativo, il significato di rappre­ sentanza della società civile e diventa elemento primario, è la società civile del potere legislativo. Il « potere legislativo » è la totalità dello Stato politico, e perciò precisamente la sua contrad­ dizione resa manifesta. Esso è dunque altrettanto la sua dissolu­ zione posta. Princìpi del tutto diversi fan carambola [karambolieren] in esso. Certo, ciò appare come opposizione degli elementi del principio sovrano e del principio costituzionale [ossia politicodi-classe] etc. Ma (3) in verità è l’antinomia di Stato politico e società civile, è la contraddizione dell’astratto Stato politico con se stesso. Il potere legislativo è la posizione della rivolta [gesetzte Revolte]. (L’errore principale di Hegel consiste in ciò: ch’egli assume la contraddizione del fenomeno come unità nell’essenza, 209

nell’idea, laddove essa contraddizione ha la sua ragione in qualcosa di piu profondo, cioè in una sostanziale contraddizione, come, per es., qui il contraddirsi del potere legislativo in se stesso è soltanto la contraddizione dello Stato politico con se stesso, e dunque della società civile con se stessa. La critica volgare cade in un opposto dogmatico errore. Cosi essa critica, ad es., la costituzione: attira l’attenzione sull’antitesi dei poteri etc., trova ovunque delle con­ traddizioni. Questo è ancora della critica dogmatica, che lotta col suo oggetto, all’incirca come una volta si eliminava il dogma della santa trinità per la contraddizione di uno e tre. La vera critica, invece, mostra l’intima genesi della santa trinità nel cer­ vello umano. Descrive il suo atto di nascita. Cosi la critica vera­ mente filosofica dell’odierna costituzione dello Stato non indica soltanto le sussistenti contraddizioni, ma le spiega, ne comprende la genesi, la necessità. Le prende nel loro peculiare significato. Ma questo comprendere [Begreifen] non consiste, come Hegel crede, nel riconoscere ovunque le determinazioni del concetto puro [logischen Begriffs], bensì nel concepire la logica specifica dell’oggetto specifico.) Hegel si esprime dicendo che nella posizione dell’elemento costituzionale rispetto (1 ) a quello sovrano « si trova soltanto la possibilità dell’accordo e quindi, del pari, la possibilità di ostile opposizione ». La possibilità dell’opposizione si trova ovunque s’incontrano volontà diverse. Hegel stesso dice che la « possibilità dell’accordo » è la « possibilità dell’opposizione ». Egli è costretto, dunque, ora a istituire un elemento che sia la « impossibilità dell’opposizione » e la « realtà dell’accordo ». Un tale elemento sarebbe, perciò, per lui, la libertà di decisione e di pensiero di fronte al volere sovrano e del governo: non apparterrebbe, dunque, piu all’ele­ mento « politico-di-stato ». Sarebbe (2), piuttosto, un elemento della volontà sovrana e del governo e sì troverebbe rispetto al reale elemento di classe nella stessa antitesi del governo stesso. Questa istanza è già molto moderata dalla conclusione del paragrafo [§ 304]: «Come già, da parte del potere sovrano, il potere governativo (§ 300) ha questa determinazione, così anche da parte degli stati un momento dei medesimi dev’essere rivolto verso la determinazione di esistere essenzialmente * come mo­ mento * del medio * ». L’elemento ch’è delegato dagli stati deve avere la determi­ nazione inversa di quella che ha il potere governativo da parte 210

dei principi, che l’elemento sovrano e l’elemento degli stati sono O opposti estremi. Come il principe si democratizza nel potere governativo, così questo elemento «degli stati» deve/2) monarchizzarsi nella sua delegazione. Ciò che Hegel vuole, dun­ que, è un elemento sovrano da parte degli stati. Come il potere governativo è un elemento di classe dalla parte del principe, così deve anche esserci un elemento sovrano dalla parte degli stati. (3) La « realtà dell’accordo » e l’« impossibilità dell’opposi­ zione » si convertono nella seguente istanza: « Da parte degli stati un momento dei medesimi dev’essere rivolto verso la deter­ minazione * di esistere essenzialmente ** come momento * del medio * ». Rivolto verso la determinazione'. Questa determina­ zione l’hanno, secondo il § 302, le classi in genere. Qui non dovrebbe piu trattarsi di « determinazione », bensì di « deter­ minatezza ». (4) E che cos’è insomma una determinazione « di esistere essen­ zialmente come momento del medio »? È essere, secondo la pro­ pria « essenza », l’« asino di Buridano ». La cosa è semplicemente questa: le classi debbono essere la « mediazione » fra sovrano e governo, da una parte, e popolo, dall’altra; ma esse non lo sono: sono piuttosto l’organizzata opposizione politica della società civile. Il « potere legislativo » abbisogna in se stesso di mediazione, e in effetti, si è visto, di una mediazione da parte delle classi. Il presupposto accordo morale delle due volontà, di cui l’una è la volontà dello Stato come volontà sovrana e l’altra è la volontà dello Stato come volontà della società civile, non basta. Il potere legislativo è, certo, solo lo Stato politico totale orga­ nizzato. Ma precisamente in esso appare anche — perché nel suo piu alto sviluppo — la manifesta contraddizione dello Stato politico con se stesso. Bisogna, dunque, che sia posta l'apparenza di una reale identità fra volontà sovrana e volontà costituzionale. Bisogna che l'elemento costituzionale sia posto come volontà sovrana o che la volontà sovrana sia posta come elemento costi­ tuzionale. L’elemento costituzionale deve porsi come la realtà di una volontà che non è la volontà dell’elemento costituzionale. U unità, che non è presente secondo l'essenza (altrimenti essa do­ vrebbe mostrarsi in atto [durch die Wirksamkeit] e non nel mero modo di esserci [Daseinsweise] dell’elemento costituzionale), deve almeno esser presente come un’esistenza [empirica], ovvero una 211

esistenza del potere legislativo (dell’elemento costituzionale) ha la determinazione di essere questa unità di ciò che non è unito. Questo momento dell’elemento costituzionale, Camera dei pari, Camera alta etc., è la suprema sintesi dello Stato politico nell’orga­ nizzazione considerata. Certo, non è con ciò raggiunto quel che Hegel vuole, la « realtà dell’accordo » e l’« impossibilità di oppo­ sizione ostile », piuttosto si resta alla « possibilità dell’accordo ». Ma è Yillusione posta dell'unità dello Stato politico con se stesso (della volontà sovrana e della volontà costituzionale, oltre che del principio dello Stato politico e della società civile), di questa unità come principio materiale, cioè in modo che non solo due opposti principi si uniscano, ma che l’unità sia la loro natura, il loro fondamento d’esistenza. Questo (*) momento dell’elemento costituzionale è il romanticismo dello Stato politico, il sogno della sua sostanzialità (2) o del suo accordo seco stesso. È un’esi­ stenza allegorica.

Dai « Manoscritti economico-filosofici » 1 (1844) di Karl Marx [...] Come VEnciclopedia di Hegel comincia con la logica e termina col pensiero puro, speculativo, e col sapere assoluto, con lo spirito autocosciente, autoconoscente, filosofico o assoluto cioè superumano, astratto, così l’intera stessa Enciclopedia non è che la essenza dispiegata dello spirito filosofico, la sua auto­ oggettivazione. Così come lo spirito filosofico non è che lo spirito pensante del mondo dentro la sua autoalienazione, cioè lo spirito alienato astrattamente comprensivo di sé. La Logica: la moneta dello spirito, il valore speculativo, di pensiero [Gedankenwert], dell’uomo e della natura — la loro essenza divenuta compietamente indifferente a ogni reale determinatezza e però divenuta irreale — il pensiero alienato, quindi astraente dalla natura e dall’uomo reale; Yastratto pensiero. — L’esteriorità di questo astratto pensiero... la natura, com’essa è per questo astratto pen­ siero. Essa gli è esterna, è la sua perdita, ed esso la considera 1 GesamtaUsgabe, I, 3, pp. 153-68. Ciò ch’è messo in parentesi quadre è nostro chiarimento filologico.

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anche come esterna, come pensiero astratto, ma alienato pensiero astratto. Infine, lo spirito, questo pensiero ritornante nel suo luogo di nascita, che, quale spirito antropologico, fenomenologico, psicologico, etico, artistico, religioso, vale pur sempre soltanto per se stesso, sino a che finalmente come sapere assoluto si trovi e si rapporti a sé nello spirito ormai assoluto f1), cioè astratto, e attinga la sua consapevole, adeguata, esistenza. Poiché la sua reale esistenza è {’astrazione. Un doppio errore in Hegel. Il primo si manifesta in guisa chiarissima nella Fenome­ nologia, questo luogo di nascita della filosofia hegeliana. Se Hegel, per esempio, considera la ricchezza, la potenza dello Stato etc., come l’essenza alienata dell’ente umano, ciò accade soltanto per la loro forma di pensieri... Si tratta di enti del pensiero, — quin­ di O, meramente di un’alienazione del pensiero filosofico puro, cioè astratto. L’intero movimento finisce, perciò, col sapere asso­ luto. Ciò da cui questi oggetti sono alienati e a cui stanno di fronte con pretesa di realtà è appunto il pensiero astratto. È il filosofo — dunque proprio un’astratta figura dell’uomo estra­ niato — che si pone (3) come la regola del mondo alienato: tutta la storia dell’alienazione e tutta la revoca ÌZurucknahme\ del­ l’alienazione non è, dunque, che la storia della produzione del pensiero astratto, cioè assoluto, del pensiero logico, speculativo. Idalienazione, che costituisce dunque il vero interesse di questo annullamento [Entàusserung] e del superamento [Aufhebung] di esso, è l’opposizione di in sé e per sé, di coscienza e auto­ coscienza, di oggetto e soggetto-, cioè l’opposizione, entro il pen­ siero stesso, di pensiero astratto e realtà sensibile o sensibilità reale. Tutte le altre opposizioni e tutti gli altri movimenti di queste opposizioni sono soltanto {’apparenza, {’involucro, la forma essoterica di queste opposizioni unicamente interessanti, che costi­ tuiscono il senso delle altre, profane opposizioni. Ciò che vale come la essenza posta e da sopprimere dell’alienazione non è che l’ente umano si oggettivi disumanamente in opposizione {4 ) a se stesso, ma bensì ch’esso si oggettivi a differenza e in opposizione dell’astratto pensiero. [XVIII] L’appropriazione delle forze sostanziali umane, divenute oggetti, e oggetti stranieri, è dunque primieramente solo un’appropriazione che accade nella coscienza, nel puro pensiero, cioè rseWastrazione-, l’appropriazione di questi oggetti come pen­ 213

sieri e movimenti di pensiero-, ed è per ciò che già nella Fenome­ nologia — malgrado la sua sembianza affatto negativa e critica e malgrado la critica ivi realmente contenuta e spesso largamente anticipatrice dello svolgimento ulteriore — è latente, come germe, come potenza e come segreto, il positivismo acritico e l’idealismo parimente privo di critica delle opere posteriori di Hegel — questa filosofica decomposizione e restaurazione dell’empiria pre­ sente. In secondo luogo, la rivendicazione all’uomo del mondo oggettivo, — ad es., la conoscenza che la coscienza sensibile non è una coscienza sensibile astratta, bensì una coscienza sensibile umana, che la religione, la ricchezza [intendi: la proprietà pri­ vata] etc. sono soltanto la realtà alienata dell’oggettivazione umana, delle forze essenziali umane destinate ad operare e (') però semplice via d’accesso alla verace realtà umana, — questa appropriazione, o l’intendimento di questo processo, appare dun­ que presso Hegel in modo che sensibilità, religione, potenza statale etc. sono essenze spirituali, — che solo lo spirito è la verace essenza dell’uomo, e la verace forma spirituale è lo spirito pensante, lo spirito logico, speculativo. Idumanità della natura e della natura prodotta dalla storia, dei prodotti umani, appare in questo: che tali prodotti sono prodotti dello spirito astratto, e però momenti spirituali, enti del pensiero. (2) La Fenomenologia è quindi la, critica nascosta, ancora non chiara a se stessa e mistificatrice; ma in quanto tiene ferma l’alienazione umana — anche se l’uomo appaia soltanto nella figura dello spirito. — si trovano in essa nascosti tutti gli elementi della critica, e spesso preparati e ela­ borati in una guisa che sorpassa di molto il punto di vista hege­ liano. La « coscienza infelice », la « coscienza nobile », la lotta della «coscienza nobile» con la «bassa» etc. etc., questi particolari capitoli contengono — sebbene in una forma ancora straniata — gli elementi di una critica di intere sfere, quali la religione, lo Stato, la vita civile etc. Come 1’essere, l’oggetto, è un ente ideale, così il soggetto è sempre coscienza o autocoscienza-, o piuttosto l’oggetto appare soltanto come astratta coscienza, l’uomo [il soggetto] soltanto come autocoscienza, e le diverse forme di alienazione che compaiono sono dunque soltanto figure variate della coscienza e dell’autocoscienza. Come, in sé, l’astratta coscienza — sotto la quale è inteso l’oggetto — è puramente un momento della differenziazione dell’autocoscienza, così si pro­ duce anche, come risultato del movimento, l’identità dell’auto­ coscienza con la coscienza, il sapere assoluto, il moto non più 214

verso l’esterno, ma soltanto procedente in se stesso del pensiero astratto come risultato: cioè il risultato è la dialettica del pen­ siero puro.

[XXIII] L’importante nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale — la dialettica della negatività come principio motore e generatore — è dunque (1 ) che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione [Entàusserung] e come soppres­ sione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro. Il reale, attivo con­ tegno dell’uomo con se stesso come ente generico [Gattungswesen], o la manifestazione di s'é come reale ente generico, cioè ente umano, è possibile solo in quanto esso esplichi realmente tutte le sue energie di genere \_Gattungskràfte~\ — il che a sua volta è possibile soltanto per l’agire in comune [Gesamtwirken] degli uomini, soltanto come risultato storico — e si contenga verso esse energie come verso qualcosa d’oggettivo, il che anzitutto è ancora possibile soltanto nella forma di un alienarsi. L’unilateralità e il limite di Hegel li faremo vedere ora per esteso nel capitolo conclusivo della Fenomenologia — il sapere assoluto — un capitolo che contiene sia lo spirito condensato della Fenomenologia, e il suo rapporto alla dialettica speculativa, sia la consapevolezza hegeliana di entrambe e del loro rapporto reciproco. Provvisoriamente anticipiamo ancora questo: che Hegel resta al punto di vista deU’economia politica moderna. (2) Egli intende il lavoro come l’essenza, l’essenza che si avvera dell’uomo (3): vede soltanto l’aspetto positivo del lavoro, non quello negativo [ = divisione asociale, borghese, del lavoro]. Il lavoro è il divenir per sé dell’uomo ne-W!alienazione o in quanto uomo alienato. Il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto [ = ideologia della asociale divisione del lavoro intellet­ tuale, o cultura, dal lavoro manuale!]. Questo, che costituisce dunque in genere la essenza della filosofia (4), l’alienazione del­ l’uomo che conosce se stesso o la alienata scienza autocosciente, questo intende Hegel come l’essenza sua, e può quindi rispetto alla filosofia anteriore ricapitolarne i diversi momenti e presentare la sua filosofia come la filosofia. Ciò che gli altri filosofi hanno fatto — cioè di intendere dei momenti particolari della natura 215

e della vita umana come momenti dell’autocoscienza e invero della astratta autocoscienza — Hegel lo sa dal fare della filosofia (’), e però la sua scienza è assoluta. Passiamo al nostro oggetto. Il sapere assoluto. Capitolo ultimo della Fenomenologia. La cosa principale è che l'oggetto della coscienza non è altro che autocoscienza, o che l’oggetto è soltanto l’autocoscienza agget­ tivata, l’autocoscienza come oggetto. (Posizione dell’uomo = auto­ coscienza.) Si tratta quindi di superare l’oggetto della coscienza. L’ogget­ tività come tale vale come un rapporto umano alienato, inadeguato all’essenza umana, all’autocoscienza. Il recupero dell’essere umano estraneo, oggettivo, prodotto sotto il segno dell’alienazione, non ha quindi soltanto il significato di sopprimere l'alienazione, ma anche {.'aggettività, e cioè l’uomo vale come un ente non-oggettivo, spiritualistico. Hegel descrive come segue il movimento del superamento dell’oggetto della coscienza. L’oggetto si mostra non soltanto (tale è, secondo Hegel, la concezione unilaterale, che coglie dunque un solo aspetto, di quel movimento) come un ritorno nell’z'o. L’uomo è posto come eguale all’ego. Ma l’ego è solo l’uomo còlto astrattamente, pro­ dotto dall’astrazione. L’uomo è egoista. Il suo occhio; il suo orecchio etc. è egoista; ciascuna delle sue forze sostanziali ha la proprietà dell’egoità [Selbstigkeit], Ma perciò è ora del tutto falso dire: {’autocoscienza ha degli occhi, degli orecchi, della forza sostanziale. L’autocoscienza è piuttosto una qualità [ = attributo] della natura umana, dell’occhio umano etc., non è la natura umana una qualità della [XXIV] autocoscienza. L’io per sé astratto e fissato è l’uomo in quanto egoista astratto, {’egoismo elevato nella sua pura astrazione a pensiero [cioè: a universale, a idea], (Ritorneremo su questo piu tardi.) L’ente umano, {'uomo, per Hegel è eguale ad autocoscienza. Ogni alienazione dell’ente umano non è, quindi, niente altro che alienazione dell’autocoscienza. L’alienazione dell’autocoscienza non vale come espressione, riflettentesi nel sapere e nel pensiero, della reale alienazione dell’ente umano. L’effettiva alienazione, che si presenta come reale, è piuttosto, secondo la sua intima essenza celata e messa in luce soltanto dalla filosofia, nient’altro che il fenomeno [o apparenza] dell’alienazione dell’ente umano reale, — dell’autocoscienza, La scienza che comprende questo si chiama 216

perciò fenomenologia. Ogni recupero dell’ente alienato, oggettivo, si mostra quindi come un’incorporazione nell’autocoscienza: l’uomo che s’impossessa del suo essere è (’} soltanto l’autocoscienza che s’impossessa dell’ente oggettivo, e ritorno dell’oggetto nell’io è dunque il recupero dell’oggetto. Formulato onnilateralmente il superamento oggetto della coscienza significa: 1. che l’oggetto come tale si presenta alla coscienza come dileguantesi; 2. ch’è l’alienazione dell’autocoscienza che pone la cosalità [Dingheit]; 3. che questa alienazione non ha solo signi­ ficato negativo, ma anche positivo-, 4. che essa ha tale significato non solo per noi [filosofi osservatori] o in sé, ma per l’auto­ coscienza stessa-, 5. che per essa autocoscienza il negativo del­ l’oggetto [cioè: della negazione ch’è già l’alienazione], o la sop­ pressione dell’oggetto, ha significato positivo, ossia essa sa questa nullità dello stesso oggetto, per il fatto che è essa stessa auto­ coscienza che si aliena, poiché in questa alienazione si pone come oggetto, o pone l’oggetto come se stessa per l’indivisibile unità del suo esser per sé; 6. che, d’altra parte, c’è qui ad un tempo quest’altro momento: che l’autocoscienza ha pur soppresso questa {2 ) alienazione e oggettività e l’ha ripresa in sé, e che dunque nel suo esser-altro come tale essa è presso di sé; 7. che tale è il movi­ mento della coscienza, e tale perciò la totalità dei suoi momenti; 8. che la coscienza deve parimente rapportarsi all’oggetto secondo la totalità delle determinazioni di questo e averlo cosi compreso secondo ognuna: e che questa totalità delle sue determinazioni fa dell’oggetto in sé un ente spirituale, e per la coscienza questo avviene in verità per il suo comprendere ciascuna delle medesime come determinazione dell’io, o per il suddetto rapporto spiri­ tuale ad esse. ad 1. Che l’oggetto come tale si presenti alla coscienza come dileguantesi è il surricordato ritorno dell’oggetto nell’io. ad 2. L’alienazione dell’autocoscienza pone la cosalità. Poi­ ché l’uomo è eguale ad autocoscienza, il suo essere alienato, ogget­ tivo, o la cosalità (ciò ch’è per lui oggetto, e veramente oggetto per lui è soltanto ciò ch’è per lui oggetto essenziale, dunque ciò ch’è il suo essere oggettivo: e come ora a esser soggetto non è Vuomo reale e quindi neanche la natura — l’uomo è natura uma­ na — ma solo l’astrazione dell’uomo, l’autocoscienza, così la cosalità può esser soltanto autocoscienza alienata) è eguale alVautocoscienza alienata, e la cosalità è posta per questa alienazione. 217

È del tutto ovvio che un ente vivente, naturale, munito e dotato di forze sostanziali oggettive, cioè materiali, abbia degli oggetti reali e naturali del suo essere, come altresì che la sua autoalienazione sia il porsi di un mondo reale, ma avente la forma dell’esteriorità, dunque non appartenente al suo essere, e predomi­ nante e oggettivo. Non c’è niente d’inconcepibile e misterioso in questo. Il contrario sarebbe piuttosto un mistero. Ma è pari­ mente chiaro che ori autocoscienza, cioè la sua alienazione, può porre soltanto la cosalità, ossia soltanto una cosa astratta, una cosa della astrazione [la cosa in genere!] e nessuna cosa reale. È [XXVI] poi chiaro che la cosalità non è affatto nulla di autonomo [Selbstàndiges] e di essenziale [Wesentliches] di fronte all’autocoscienza; ma una mera creatura, un qualcosa di posto da questa; e che il qualcosa posto, invece di affermar se stesso, è soltanto una affermazione dell’atto di porre, che, per un istante, fissa nel prodotto la propria energia, e gli conferisce in apparenza il ruolo — ma solo per un istante — di un ente autonomo reale. Ma, se ì’uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma solida terra, espirando e aspirando tutte le forze naturali, pone, nel suo alienarsi, le sue reali, oggettive forze sostanziali come oggetti estranei, questo porre non è soggetto [nicht das Setzen Subjekt]: è la soggettività di oggettive forze sostanziali, la cui azione perciò dev’essere anche una azione oggettiva. L’ente oggettivo agisce oggettivamente, e non potrebbe agire oggettivamente se l’oggetto non fosse sua determinazione sostanziale. Esso crea, pone soltanto oggetti, perché è posto da [durch] oggetti, perché è intrinseca­ mente natura. Nell’atto di porre qualcosa, non esce, dunque, dalla sua « attività pura » per una creazione dell’oggeWo, bensì il suo prodotto oggettivo attesta semplicemente la sua attività oggettiva, la sua attività in quanto attività di un oggettivo ente naturale. Qui vediamo come il compiuto naturalismo o umanismo si distingua tanto dall’idealismo che dal materialismo, e ad un tempo sia la verità che li congiunge entrambi. Vediamo al tempo stesso che soltanto il naturalismo è capace di comprendere l’azione della storia universale. 'L'uomo è immediatamente ente naturale. Come ente natu­ rale, e ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze 218

esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi-, e, d’altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, ogget­ tivo, è un ente passivo, condizionato e limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti da lui indipendenti, e tuttavia questi oggetti sono oggetti del suo bisogno, oggetti indispensabili, essen­ ziali alla manifestazione e conferma delle sue forze sostanziali. Che l’uomo sia un ente corporeo, dotato di forze naturali, vivente, reale, sensibile, oggettivo, significa ch’egli ha come oggetto della sua esistenza, della sua manifestazione vitale, degli oggetti reali, sensibili, o che può esprimere la sua vita soltanto in oggetti reali, sensibili. Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse [Sinn] fuori di sé, oppure esser noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l’identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un al di fuori, per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e alla espressione del suo essere. Il sole è oggetto della pianta, un oggetto indispensa­ bile, che ne conferma la vita, come la pianta è oggetto del sole, in quanto è manifestazione della forza vivificante del sole, dell’oggetófi? forza sostanziale del sole. Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell’essere della natura. Un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo.

[XXVII] Un ente non oggettivo è un non ente [ein Unwesen ]. Supponete un ente che non sia oggetto né abbia un oggetto. Un tale ente sarebbe innanzi tutto Yunico ente, non esisterebbe alcun altro fuori di lui, esso solo esisterebbe, solitario. Giacché subito che si danno oggetti fuori di me, subito che non ci sono io solo, io sono un altro, un’altra realtà che non l’oggetto fuori di me. Per questo terzo oggetto io sono, dunque, una realtà altra da esso, cioè suo oggetto [Gegenstand]. Un ente che non è oggetto di un altro ente presuppone, dunque, che non ci sia ente oggettivo. Tosto che io ho un oggetto, questo oggetto ha me stesso come oggetto. Ma un ente non oggettivo è un ente irreale, 219

non sensibile, soltanto pensato, cioè soltanto immaginato, un ente dell’astrazione. Esser sensibile, cioè reale, è esser oggetto di senso, essere oggetto sensibile, dunque avere oggetti sensibili fuori di sé, avere degli oggetti della propria sensibilità. Esser sensibile è esser passivo. L’uomo, in quanto è un ente oggettivo, è dunque un ente patiens [ ein leidendes ], e poiché è un ente che avverte il suo patire esso è un ente appassionato. La passione è la sostanziale forza umana tendente con energia al suo oggetto. Ma l’uomo non è soltanto ente naturale, bensì è ente naturale umano', cioè ente che esiste a se stesso [= riflesso in sé, pen­ sante], perciò ente generico, e come tale deve attuarsi e con­ fermarsi tanto nel suo essere che nel suo sapere. Dunque, né gli oggetti umani sono gli oggetti naturali quali si presentano imme­ diatamente, né la sensibilità umana, quale è immediatamente ed è oggettivamente, è umana sensibilità, umana oggettività. Né la natura obiettiva, né la natura subiettiva, è immediatamente presente come adeguata [adaequat] all’ente umano. E, come tutto ciò ch’è naturale deve nascere, così anche Puomo ha il suo atto di nascita, la storia, ch’è tuttavia da lui consaputa, e però, in quanto atto di nascita con coscienza [Entstehungsakt mit Bewusstsein], è atto di nascita che supera se stesso [sich aufhebender]. La storia è la vera storia naturale dell’uomo. (Su ciò ritorneremo.) In terzo luogo, poiché questo porre la cosalità è esso stesso solo un’apparenza, un atto contraddicente all’essenza dell’attività pura, dev’essere anch’esso soppresso, e la cosalità negata. ad 3, 4, 5, 6. — 3. Questa alienazione della [auto]coscienza non ha solo un significato negativo, bensì anche positivo-, e 4. questo significato positivo non è solo per noi o in sé, ma per essa, la [auto]coscienza stessa. 5. Per essa il negativo dell’oggetto, o il sopprimersi dell’oggetto, ha significato positivo, essa sa questa nullità dello stesso oggetto, per il fatto che è essa stessa autoco­ scienza che si aliena, poiché in questa alienazione si sa come og­ getto, o sa l’oggetto come se stessa per l’indivisibile unità del suo esser per sé. 6. D’altra parte, c’è qui ad un tempo questo momento: che l’autocoscienza ha pur soppresso questa f1) alienazione o oggettività e l’ha ripresa in sé, e che dunque nel suo esser altro come tale essa è presso di sé. Abbiamo già visto. Là [ri]appropriazione dell’ente alienato oggettivo o la soppressione dell’oggettività nella determinazione 220

alienazione — e quest’ultima deve procedere dall’indifferente estraneità alla reale alienazione ostile — ha per Hegel a un tempo, principalmente, il significato di sopprimere V oggettività, in quanto non il carattere determinato dell’oggetto, bensì il suo carattere oggettivo è per l’autocoscienza lo scandalo dell’alienazione. L’og­ getto è quindi un che di negativo, che si sopprime, da sé, una nullità. Questa nullità del medesimo ha per la [auto]coscienza non solo un significato negativo, ma anche positivo, che tale nul­ lità dell’oggetto è precisamente Vautoconferma della non ogget­ tività, della [XXVIII] astrazione, di se stesso. Per la stessa [auto]coscienza la nullità dell’oggetto ha, perciò, un significato positivo: eh’essa sa questa nullità, l’ente oggettivo, come propria autoalienazione, e sa ch’essa è soltanto per mezzo della propria autoalienazione. Il modo in cui la [auto]coscienza è, e qualcosa è per essa, è il sapere. Il sapere è il suo unico atto. Qualcosa è, quindi, per la medesima, in quanto essa sa questo qualcosa. Sapere è il suo unico comportamento oggettivo. Esso sapere sa ora la nullità dell’oggetto, cioè l’indistinguibilità dell’oggetto da esso, il non­ essere dell’oggetto per esso, per ciò che sa l’oggetto come la propria autoalienazione-, cioè sa se stesso — il sapere come og­ getto — per ciò che l’oggetto è solo l’apparenza di un oggetto, un vapore fattizio, e essenzialmente nient’altro che il sapere stesso che oppone sé a se stesso e quindi si oppone una nullità, un qualcosa che non ha alcuna oggettività fuori del sapere; ossia il sapere sa che, in quanto si rapporta a un oggetto, esso è soltanto fuori di sé, ch’esso si aliena: che esso stesso soltanto appare a se stesso come oggetto, o che quanto gli appare come oggetto è esso stesso soltanto. D’altronde, dice Hegel, qui c’è insieme quest’altro momento: che essa [autocoscienza] ha parimente soppresso e ripreso in sé questa alienazione e oggettività, e dunque nel suo esser altro come tale essa si trova presso di sé. In questa spiegazione abbiamo tutte insieme le illusioni della speculazione. 'Primieramente-, la coscienza, l’autocoscienza, nel suo esser altro come tale è presso di sé. Ossia, se astraiamo qui dall’astra­ zione hegeliana, e al posto dell’autocoscienza [ = l’uomo, il « su­ bietto reale », inteso come qualità o attributo dell’autocoscienza o idea sostantificata] mettiamo l’autocoscienza dell’uomo [cioè: l’autocoscienza come attributo dell’uomo], questa è quindi nel 221

suo esser altro come tale presso di sé [cioè un assurdo, perché, se l’autocoscienza è, rettamente, solo un attributo dell’uomo, la autocoscienza non può creare Valtro, l’oggettivo, ch’è, anche, del­ l’uomo, nell’uomo]. Qui si ha primieramente che la [auto]co­ scienza, il sapere come sapere, il pensare come pensare, afferma immediatamente [si noti: immediatamente!] di esser altro da se stesso, di esser sensibilità, realtà, vita — il pensiero che si sor­ passa nel pensiero (Feuerbach). Si ha questo aspetto, in quanto la [auto]coscienza, come solo [auto]coscienza, ha la sua pietra di scandalo non nella oggettività alienata, ma nella oggettività come tale. Secondariamente, si ha che l’uomo-autocoscienza, in quanto ha riconosciuto e soppresso come autoalienazione il mondo spi­ rituale, ossia la generale esistenza spirituale del suo mondo, conferma, tuttavia, di nuovo il medesimo mondo in questa figura alienata e lo dà per la sua vera esistenza, lo ristabilisce, pretende di esser presso di sé nel suo esser altro come tale, e quindi dopo la soppressione, per esempio, della religione, dopo il riconosci­ mento della religione come un prodotto dell’autoalienazione, si trova, tuttavia, confermato nella religione come religione. È qui la radice del falso positivismo di Hegel [ = « restaurazione del­ l’empiria », in conseguenza della « decomposizione filosofica », o allegorizzamento, della stessa: il « segreto » di Hegel, di cui so­ pra] o del suo solo apparente criticismo: ciò che Feuerbach desi­ gna come posizione, negazione e restituzione [si noti: restitu­ zione] della religione o teologia, ma ch’è da comprendere piu generalmente. Dunque: la ragione è presso di sé nella non-ragione come non-ragione. L’uomo, che ha riconosciuto di condurre, nel diritto, nella politica etc., una vita alienata, conduce in questa vita alienata come tale la sua vera vita umana. L’autoaffermazione, l’autoconferma in contraddizione con se stessi, sia col sapere sia con l’essere dell’oggetto, è quindi il vero sapere, la vera vita. Superfluo, dunque, discorrere di un accomodamento di Hegel con la religione, lo Stato etc., che questa menzogna è la menzogna del suo [concetto di] progresso [per cui lo sviluppo, il pro­ gresso, è trovato dalla parte del predicato « mistificato », dell’ex « subietto reale », ossia dalla parte dei « motivi empirici molto astratti »; donde il conservatorismo di Hegel]. [XXIX] Se io so la religione come autocoscienza umana alienata, io non so dunque confermata in essa come religione la 222

mia autocoscienza, bensì so confermata in essa la mia alienata autocoscienza. La mia autocoscienza, appartenente a se stessa, alla sua essenza, non la so allora confermata nella religione, ma piuttosto nella religione annullata, soppressa. Presso Hegel la negazione della negazione non è quindi la conferma del vero essere precisamente mediante la negazione del­ l’essere apparente, bensì è la conferma dell’essere apparente, o dell’ente alienato nella sua negazione, o la negazione di questo essere apparente in quanto essere oggettivo, dimorante fuori dell’uomo, da lui indipendente, e la sua conversione nel soggetto. La soppressione [Aufheben}, in cui si congiungono la nega­ zione e la conservazione, l’affermazione, giuoca un ruolo carat­ teristico. Così, per es., nella filosofia del diritto di Hegel, il diritto privato soppresso è uguale alla morale, la morale soppressa è uguale alla famiglia, la famiglia soppressa è uguale alla società civile, la società civile soppressa è uguale allo Stato, lo Stato soppresso è uguale alla storia universale. Nella realtà diritto pri­ vato, morale, famiglia, società civile, Stato etc. continuano a sussistere [è il conservatorismo spiegato sopra]; solo che son divenuti dei momenti, delle posizioni, dei modi d’essere [ — degli attributi o predicati '« mistificati » ] dell’uomo [ = autocoscienza = idea sostantificata, cioè fatta, da predicato, subietto!], che non valgono isolati, e si dissolvono e producono reciprocamente etcetera. Momenti del movimento. Nella loro reale esistenza questa loro dinamica essenza resta nascosta. Essa si manifesta, si rivela, solo nel pensiero, nella filo­ sofia, e perciò la mia vera esistenza religiosa è la mia esistenza fìlosofico-religiosa, la mia vera esistenza politica la mia esistenza filosofico-giuridica, la mia vera esistenza naturale l’esistenza filosofico-naturale, la mia vera esistenza artistica l’esistenza filosoficoartistica, la mia vera esistenza umana l’esistenza filosofica. Egual­ mente la vera esistenza della religione, dello Stato, della natura, dell’arte etc. è la filosofia della religione, della natura, dello Stato, dell’arte. Ma, se la filosofia religiosa etc. soltanto è per me la vera esistenza religiosa, io sono anche religioso solo in quanto filosofo della religione, e così disconosco la reale religiosità e il reale uomo religioso. E, tuttavia, al tempo stesso li confermo, in parte nella mia propria esistenza o nell’esistenza estranea ch’io loro oppongo, che questa è soltanto la loro espressione filosofica-, in parte nella loro peculiare forma originaria, che essi valgono per 223

me soltanto come un esser altro apparente, come allegorie [dell’« autocoscienza » o idea o universale], come forme celate sotto involucri sensibili [ = l’empiria ch’è « allegoria » o « simbolo » dell’idea!] della loro propria vera esistenza, cioè della mia esi­ stenza filosofica. Parimente la qualità soppressa è uguale alla quantità, la quan­ tità soppressa è uguale alla misura, la misura soppressa è uguale alVessenza, l’essenza soppressa è uguale alla parvenza, la parvenza soppressa è uguale alla realtà, la realtà soppressa è uguale al con­ cetto, il concetto soppresso è uguale Soggettività, l’oggettività soppressa è uguale Sidea assoluta, l’idea assoluta soppressa è uguale alla natura, la natura soppressa è uguale allo spirito sogget­ tivo, lo spirito soggettivo soppresso è uguale allo spirito etico, obiettivo, lo spirito etico soppresso è uguale allWe, l’arte soppres­ sa è uguale alla religione, la religione soppressa è uguale al sapere assoluto. Da una parte, questa soppressione è una soppressione dell’en­ te pensato, dunque la proprietà privata pensata si sopprime nel pensiero della morale. E poiché il pensiero si figura di essere immediatamente altro da se stesso, cioè realtà sensibile, e dunque la sua azione vale per lui anche come azione sensibile, reale, cosi questa soppressione intellettuale [denkende], che lascia sussistere il suo oggetto nella realtà, crede di averlo superato realmente. E, d’altra parte, poiché esso oggetto è ora divenuto per essa un mo­ mento del pensiero, per essa vale, anche nella sua realtà, come l’autoconferma propria (’), dell’autocoscienza, dell’astrazione.

[XXX] Da un lato, l’esistenza che Hegel sopprime nella filo­ sofia non è dunque la religione reale, né lo Stato reale, né la natura reale, bensì la religione in quanto è già un oggetto del sapere, la dogmatica, e così la giurisprudenza, la scienza politica, la scienza naturale. Da un lato, egli si trova così in opposizione sia con l’ente reale sia con la scienza immediata, non filosofica, o con le nozioni non filosofiche, di tale ente; e ne contraddice quindi i concetti correnti. D’altro lato, l’uomo religioso etcetera può trovare in Hegel la sua ultima convalida [ = il conservatorismo derivante dal « fal­ so » positivismo di Hegel!]. Bisogna ora comprendere i momenti positivi della dialettica hegeliana all’interno della determinazione dell’estraniazione, f2} a) La soppressione, come movimento oggettivo riassorben224

te \_zurucknehmende~\ in sé l’alienazione. — È questa, espressa al­ l’interno dell’estraniazione, la concezione d&Wappropriazione del­ l’ente oggettivo mediante la soppressione della sua alienazione; la concezione estraniata della reale oggettivazione dell’uomo, della reale appropriazione del suo ente oggettivo mediante l’annullamen­ to dellWze/wta determinazione del mondo oggettivo, mediante la sua soppressione nella sua esistenza alienata; come l’ateismo, qua­ le soppressione di Dio, è il divenire dell’umanismo teorico; come il comuniSmo, quale soppressione della proprietà privata, è la ri­ vendicazione della reale vita umana come sua proprietà, è il dive­ nire dell’umanismo pratico; ovvero l’ateismo è l’umanismo mediato dalla soppressione della religione, e il comuniSmo è l’umanismo mediato dalla soppressione della proprietà privata. Solo con la soppressione di questa mediazione — ch’è tuttavia un presupposto necessario — nasce l’umanismo procedente positivamente da se stesso, l’umanismo positivo. Ma l’ateismo e il comuniSmo non sono affatto la fuga, la astrazione, la perdita del mondo oggettivo prodotto dall’uomo, delle forze sostanziali umane divenute oggettive; non sono affatto una povertà per cui si ritorni a una semplicità innaturale, embrio­ nale [unentwickelten]. Sono, piuttosto, solamente il reale divenire, la realizzazione divenuta effettiva per l’uomo del suo essere, del suo essere come essere reale. Hegel pensa, dunque, mentre si forma il concetto — anche se di nuovo in guisa alienata — del senso positivo della negazione rapportata a se stessa, che l’autoalienazione, l’espropriazione e pri­ vazione della propria essenza e oggettività e realtà, da parte del­ l’uomo, è conquista di se stesso, rinnovamento del suo essere e oggettivazione e realizzazione sua. In breve, concepisce — entro l’astrazione — il lavoro come l’atto di autoproduzione dell’uomo, e il rapporto a se stesso quale ente straniero, e il manifestarsi di se stesso in quanto ente straniero, come la diveniente coscienza ge­ nerica e vita generica. b) Ma in Hegel — astraendo o piuttosto in conseguenza della suddescritta assurdità —- questo atto appare, da prima come soltanto formale, perché astratto, perché lo stesso ente umano vale soltanto come ente astratto pensante, come autocoscienza; o, in secondo luogo, poiché la concezione ne è formale e astratta, la sop­ pressione dell’alienazione diventa perciò una conferma dell’aliena­ zione; ossia per Hegel quel movimento d&Wauto-prodursi, del1’duto-oggettivarsi, inteso come auto-espropriazione e auto-aliena­ 225

zione, è la assoluta espressione della vita umana, e però l’espres­ sione ultima, avente se stessa per scopo e in sé pacificata e per­ venuta alla sua essenza. Questo movimento, nella sua astratta [XXXI] forma, quale dialettica, vale quindi come la verace vita umana-, e, poiché esso è tuttavia un’astrazione, un’estraniazione della vita umana, vale come processo divino, quindi come il divino processo dell’uomo — un processo che percorre la sua stessa essenza distinta da lui, astratta, pura, assoluta. In terzo luogo: questo processo deve avere un portatore, un soggetto; ma il soggetto si forma soltanto come risultato; e questo risultato, il soggetto che si sa come assoluta autocoscienza, è quindi Dio, spirito assoluto, l'idea che sa e attua se stessa (1 ). L’uomo reale e la natura reale [cioè: dei subietti] diventano dei semplici predicati, dei simboli di quest’uomo nascosto, irreale, e di questa natura irreale [cioè diventano predicati dell’idea, sostantificata; predicati del loro naturale predicato!]. Il subietto [o particolare] e il predicato [o universale] si trovano quindi fra loro nel rap­ porto di un rovesciamento [Verkehrung] assoluto [cioè: il subiet­ to, il particolare, in quanto « manifestazione » o determinazione dell’idea o universale, diventa predicato dell’idea, ch’è stata so­ stantificata o fatta da predicato subietto: e tutto ciò, s’intende, sen­ za che i due termini, subietto e predicato, possano perdere il loro reale valore, che resta giustapposto al nuovo, in una viziosa circola­ rità], mistico soggetto-oggetto o soggettività [= universalità] pre­ varicante [ùbergreifende] l’oggetto [= particolare o natura]; il soggetto assoluto come un processo, come soggetto alienantesi e dall’alienazione ritornante a sé, ma al contempo recuperandola in sé, e il soggetto come questo processo; il puro, continuo movimen­ to circolare in sé.

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L’« uomo astratto » del cristianesimo e l’« umanesimo positivo » (Saggio di una generalizzazione della critica marxiana della dialettica mistificata)

I

Se è vero (1 ), almeno in parte, che, nel marxismo ottocente­ sco (e corrente), gli elementi etici universali del « materialismo sto­ rico » sono piti impliciti che espliciti, predominando in esso l’istan­ za economica-, secondo le note ammissioni dell’Engels nella lettera del 21 sett. 1890 a Bloch («Di fronte agli avversari — diceva Engels — noi dovevamo sottolineare il principio essenziale da loro negato [il fattore economico], e allora non trovavamo sempre il tempo [...] di render giustizia agli altri fattori che partecipano alVazione reciproca »); è pur vero che il marxismo odierno si carat­ terizza per la sua capacità di uno svolgimento coerente e rigoroso di quegli elementi etici impliciti, come altresì, vedremo, di quegli elementi metodici generali, rimasti anch’essi finora più sottintesi che espressi. E ciò anche perché possiede oggi gli strumenti filolo­ gici adatti a tali sviluppi nelle opere filosofiche postume di Marx, cominciate a pubblicarsi solo nel 1927, quali la Critica del diritto statuale hegeliano (1843) e (2) i Manoscritti economico-filosofici del 1844. Onde, sulla base di queste opere postume e di quelle con esse immediatamente collegate e da esse ora illuminate, — quali sono i saggi morali; Questione ebraica del 1844, Sacra famiglia del 1845, Tesi su Feuerbach del 1845, Ideologia tedesca, I, del 1845-6, e minori, — su tale base è possibile assicurare e sviluppare anzi­ tutto il significato universale del messaggio etico rivoluzionario contenuto nell’opera economica e politica, dal Manifesto del 1848 alla Critica del programma di Gotha del 1875. Riesaminiamo, ad esempio, la questione fondamentale della portata e dei risultati deTTabolizione della tradizionale divisione del lavoro e seco essa delle classi. Si dice, di solito, dai marxisti, che il risultato finale della 227

scomparsa dell’« avvilente subordinazione degli individui alla di­ visione del lavoro » (divisione che comporta, dice il Marx dell’L/eologia, che « l’attività spirituale e quella materiale, il piacere e il lavoro, il consumo e la produzione, spettino a individui differen­ ti »), tale risultato, significhi che in una società « reale » e non « apparente », costituita così, per la socializzazione dei mezzi di produzione, di soli lavoratori, senza piu parassiti, « le fonti della ricchezza collettiva scaturiscono abbondanti » e però si applica, oltre la regola dell’« a ciascuno secondo il suo lavoro », la regola ultima: « a ciascuno secondo i suoi bisogni »; per cui si libera l’uomo dalla « schiavitù economica », assicurando « condizioni umane di vita dalla nascita alla morte a tutti i membri della società ». Ora, in questa formulazione abituale, ci sembra che restino impliciti tutti quei riflessi tipicamente morali che hanno pur da esser generati dalla soluzione economica materialistica: ed è come se, restando la libertà (e la persona) troppo pacificamente legata all’economico, alla soddisfazione dei bisogni, essa si trovi ad esser paradossalmen­ te minacciata nella sua costituzione specifica di tipico valore mo­ rale proprio da quel fondamento economico che deve darle una nuova dimensione assiologica. Donde poi quel che di vago che le resterebbe, come categoria morale rivoluzionaria; e da cui si può pensare che, di fatto, sia pur equivocando, i « revisori » si siano sentiti autorizzati a integrazioni — eclettiche — del caratte­ re economico-materialistico, di essa libertà, con concetti etici tradi­ zionali, o moralistici, di una emancipazione del lavoro, appunto, secondo i diritti « naturali », o eterni, insiti apriori nell’uomo, e così via (si veda, ad es., il nostro Mondolfo). In altri termini, ci sembra che nella formula surriferita restino troppo impliciti quei riflessi etici, diciamo pure spirituali, che si esprimono nella libertà (e personalità) specificamente socialista: libertà ch’è liberazione, sì, di tutti dalla servitù del bis'ogno, ma che, appunto perché liberazione non di una parte, anche grande (vedi l’americano benessere « largo­ diffuso » che John Dewey difende), bensì proprio di tutti, crea quell’« uomo totale » o completo marxiano ch’è tale solo — e qui sta la sua originalità — in quanto si trovi in un mondo in cui tutti abbiano la possibilità di essere uomini completi, totali; e perché esso •rappresenta un valore tanto spiccatamente etico quanto spiccatamen­ te economico, e cioè etico perché economico e viceversa: l’« azione reciproca » dei fattori costitutivi dell’ente uomo, quale ci si pre­ senta qui, per dir così, in una sua sezione fenomenologica (quella del pratico). 228

Alla scoperta di questo uomo totale sono indirizzati, appunto, gli studi filosofici giovanili postumi e gli altri surricordati: ed è in essi che si trova, fra l’altro, una teoria critica generale della di­ visione del lavoro e della connessa « alienazione dell’uomo » (sia lavoratore che capitalista) caratterizzante la società borghese e la sua civiltà: quella critica generale che c’interessa qui particolar­ mente per il nostro assunto.

Schematizzando, questa teoria ci dice, in primo luogo, che la divisione del lavoro materiale dall’intellettuale, implicante che la attività spirituale e quella materiale, il piacere e il lavoro etc., spet­ tino a individui (umani!) differenti, e però ai relativi compartimenti sociali o classi, è tale in quanto vien fatta « spontaneamen­ te », « secondo le disposizioni naturali, per es. la forza fisica » etc., insomma « secondo i casi »; per cui la « casualità delle condizioni di vita dell’individuo » e la relativa « concorrenza e la lotta degli individui fra loro », che « sviluppa questa casualità », esprimono bene questa divisione « spontanea », cioè immediata, « non volon­ taria », cioè non razionale, dell’attività dell’ente « razionale » che è pur l’uomo. In secondo luogo, ci dice che, dalla casualità o involontarietà o irrazionalità della divisione sociale dell’attività umana, non può originarsi che una libertà del caso, cioè quel « diritto di poter fruire del caso », finora « chiamato libertà personale » (del « bor­ ghese »), in cui si esprime una libertà ben contraddittoria in se stessa, se libertà ha da significare autonomia e però legge o ordine o razionalità, cioè non casualità} In terzo luogo, ci dice che, da questa casualità o irrazionalità delle condizioni di vita degli individui umani (cioè razionali!), per cui questi sostanzialmente « esistono sparsi e opposti gli uni agli altri », cioè in una « comunità apparente », « illusoria », si origina, altresì, quell’« alienazione » o estraniazione dell’uomo, o ente razionale, a se stesso, che colpisce cioè non solo la maggio­ ranza oppressa degli individui divenuti « astratti » in quanto il loro agire, il loro lavoro, si è disumanato o spersonalizzato col divenire una cosa, una « merce » e così via, ma anche colpisce — e qui si svela {'universalità del messaggio marxiano — la stessa mi­ noranza oppressiva, i cui individui componenti sono del pari « astratti », e non liberi, per la reciproca « costrizione esterna della concorrenza » o « libera iniziativa » casuale (vedi II capitale, I, c. IV). Onde, « la classe possidente e la classe proletaria esprimo­ 229

no la stessa estraniazione umana; ma la prima classe si sente in questa a suo agio e confermata, intende l’estraniazione come la propria forza e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente, nell’estraniazione, annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di un’esistenza inumana ». In quarto luogo, ci induce a concludere che l’abolizione della casuale o irrazionale divisione del lavoro (ritenuta dunque impro­ priamente divisione « sociale », ma in realtà asociale, del lavoro, attività tipicamente sociale dell’uomo), tale abolizione, significa: a) che alla pseudo-unione o pseudo-comunità della società classista borghese si sostituisce quella verace comunità o « unione degli individui che (nel presupposto, va da sé, che le forze produttive [ — le « condizioni » ] siano ora maturate) sottomette al controllo degli stessi le condizioni del loro libero sviluppo e movimento, condizioni finora lasciate al caso » o irrazionale che si dica; b} che questa razionalizzazione o umanizzazione delle condizioni (oggetti­ ve, e soggettive) di libero sviluppo e movimento — razionalizzazio­ ne che s’identifica appunto col controllo sociale o socializzazione delle condizioni — è essa soltanto che supera l’alienazione sud­ detta dell’uomo e compie la « emancipazione umana », completa (non semplicemente politica, borghese), dell’uomo; che « soltanto nella comunità con altri l’individuo acquista i mezzi per sviluppare le sue facoltà in tutti i sensi » e farsi uomo « totale », in quanto si libera da tutte le — asociali — limitazioni classiste-borghesi, per le quali (1 ) produzione e consumo, lavoro e cultura etcetera spet­ tano a individui differenti. E cosi soltanto « la libertà personale diventa dùnque possibile ». Che, se ora si dà un’occhiata di con­ fronto ai tipi storici tradizionali dell’« uomo completo » del Rina­ scimento e dell’età moderna, al « cortegiano » e all’uomo « goethia­ no », non è tanto difficile riconoscere che, mentre questi tipi uma­ ni di élite rappresentano, a parte il genio individuale, una comple­ tezza e armonia di capacità culturali e pratiche possibili soltanto ai pochi cresciuti nelle condizioni delle classi dominanti, donde quel loro superumanismo, quell’insensibilità e ottusità morale che dimi­ nuisce in effetti la loro umanità (si pensi alla « olimpicità » dell’ego­ tista alto-borghese Goethe!), l’uomo totale marxiano, invece, vuol significare quell’umanità, ch’è veramente completa, in quanto è dischiusa a tutti e soltanto in una società socialista (2), in cui, abolito lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, e scomparsa l’abiezione della miseria, è reso possibile a ognuno di coltivarsi e svilupparsi e progredire in ogni umano senso (3). Fra le due for­ 230

mule, dunque, dell’uomo completo c’è la stessa differenza sostan­ ziale che intercorre fra la formula tradizionale individualistica o libertaria, della libertà e dignità borghese, ch’è libertà di movi­ mento e sviluppo solo di quella parte che « ha o può avere denaro o cultura » (libertà e dignità parziale, classista, apparente), e la formula socialista della libertà e dignità reale, o della totalità-, che comprende il concetto vero di uomo completo e totale. Questa, in schema, la dimensione etica originale e rivolu­ zionaria di messaggio universale di redenzione (degli oppressori come degli oppressi), che acquista, attraverso l’opera filosofica po­ stuma e non postuma di Marx, quella formula della liberazione del­ l’uomo dalla schiavitù « economica », da cui siamo partiti col marxismo tradizionale e corrente. E questo è ^umanesimo sociali­ sta, e la sua originalità, che non permette confusioni di sorta; che rende contraddittoria e vana, ripetiamo, ogni formula « revi­ sionistica » intesa a integrare — ecletticamente — l’« economia » socialista o pianificata con la « morale » pura dell’umanesimo tra­ dizionale, libertario, o dei diritti « naturali » dell’uomo. Perché appunto la radice dell’originalità ideologica filosofica (che qui c’interessa) dell’umanesimo socialista è nel suo esser un umanesimo « positivo », come Marx dice, in quanto è un umanesi­ mo materialistico. Ora, dalla critica perentoria, di cui è capace que­ sto umanesimo, al riguardo dei fondamenti giusnaturalistici, e in genere razionalistico-dogmatici e spiritualistici astratti, dell’uma­ nesimo tradizionale, da questa critica potremo trarre la conferma decisiva della sua originalità e però infine la ragione dei limiti e delle carenze effettivi dell’umanesimo tradizionale. (*)

II

Per rispondere al quesito che ci sta ora dinanzi — il quesito della consistenza dei fondamenti giusnaturalistici, e diciamo meta­ fisici in genere, dell’umanesimo tradizionale — noi dobbiamo sot­ toporre a un’analisi critica il procedimento vizioso e dogmatico attraverso cui il giusnaturalismo opera il passaggio dall’individuo immediato o empirico all’individuo-valore o persona, cioè opera la conversione delle « disposizioni naturali » individuali, o « dise­ guaglianze » russoiane di « forza » e di « talento », in altrettanti « diritti » o pretese di valore. In altri termini, dobbiamo mostrare come in base a certe premesse ideologiche viziose, in quanto meta­ 231

fisiche, si possa credere di poter fondare la « divisione del lavoro » e la correlativa società classista-borghese. Marx ci ha indicato la strada di questa ricerca critica quando in un passo, di solito trascurato, del Capitale, libro I, c. I, accenna come segue all’ideologia religiosa e filosofica di una società classista in cui il lavoro è una merce: « Per una società — egli dice — di produttori di merci, dove il rapporto generale fra i produttori consiste nel trattare i loro prodotti come dei valori in quanto sono merci, e sotto questa loro apparenza di cose para­ gonare, gli uni con gli altri, i loro lavori privati a titolo di egual lavoro umano, il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto, specialmente nelle sue forme borghesi, protestantesimo, deismo etc., è la forma religiosa la più adeguata ». La direzione indicataci è, dunque, quella che ci conduce aXEindividualismo cristiano e per esso al giusnaturalismo culminante in Locke, Rousseau e Kant. È infatti del deista, o se si preferisce teista razionale, Locke il concet­ to che l’individuo umano è persona in quanto soggetto di diritti naturali, cioè razionali-apriori o eterni. Il lavoro stesso è, per Locke, proprietà della persona in quanto soggetto di diritti. « Tut­ to ciò che l’uomo — egli dice — impiega di attività operante per procacciare conforto e sostegno alla propria esistenza [...] appar­ tiene interamente a lui e non è già patrimonio comune di tutti. » Così il lavoro è, come la « vita », la « libertà personale » e gli « averi », « proprietà » — e « diritto » — di « uomini liberi e indipendenti per natura », che solo per sopravveniente « contrat­ to », avente lo scopo di « preservare » scambievolmente « tali diritti », si riuniscono in « comunità politiche ». Par chiaro, dun­ que, che proprio nel concetto giusnaturalistico-lockiano della forza di lavoro come proprietà-diritto della persona sta la base filosofica della concezione economica borghese della forza di lavoro come qualcosa di privato, oggetto di rapporto da individuo a individuo, e però oggetto di scambio, merce (come sta la base della concezio­ ne della proprietà privata della terra in quanto lavorata). « La sfe­ ra della circolazione ossia dello scambio delle merci, nella quale si attua la vendita e la compera della forza di lavoro, è di fatto un vero Eden dei diritti innati dell’uomo »: così comincia con un singolare mordente d’ironia un altro passo, anch’esso troppo trascurato, del Capitale, libro I, c. IV1. 1 [Se ne accorse, incidentalmente, Lenin in un art. sui Falsi discorsi sulla libertà, del novembre-dicembre 1920; riconoscendone la « profondissima sostanza storica e filosofica».]

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Dunque, da un esame anche frettoloso del tipico giusnatura­ lismo lockiano è lecito sospettare della consistenza attuale di un concetto della persona come soggetto di diritti naturali o razionaliapriori, in quanto ci si rivela impotente a giustificare il passaggio dall’individuo empirico all’individuo-valore o persona; impotente, cioè, a mediare il particolare, le disposizioni individuali o inegua­ glianze, fra individuo e individuo, di forza e di talento etc., con l’universale o valore. Le pretese, o istanze, di valore, concepite co­ me diritti razionali puri, apriori, dell’individuo, rappresentano, in­ fatti, una soluzione ormai tanto illusoria da dar luogo, per l’occhio della critica dell’ideologia, ad aporie e antinomie insolubili: la antinomia, vista sopra, del lavoro, cioè dell’agire della persona, o uomo, ridotto a cosa, a merce, ad astratta materia o empiria, a un che di disumano: l’antinomia di una libertà, o razionalità, casuale, cioè irrazionale; e così via. Ci si svela già, insomma, quella ch’è •— ormai — la retorica giusnaturalistica: cioè l’impotenza teorica e pratica, ^infecondità del giusnaturalismo come criterio etico, filo­ sofico, pragmatico. Ch’è ormai la sorte di ogni concezione apriori­ stica o metafisica in genere. Ma con ciò si comprende anche quanto sia contraddittoria la pretesa social-riformistica e social-liberale di fare dell’istanza socia­ lista una sorta di appendice delle giusnaturalistiche dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino. È ovvio che se si parte, come ad es. il Mondolfo, dal concetto, di tipo lockiano, del « lavoro » come « diritto » originario, « imprescrittibile », della persona, e però dal concetto del sopralavoro e sopravalore come « offesa a un diritto naturale », non è possibile giungere che a delle rivendi­ cazioni concernenti soltanto la misura dello sfruttamento del la­ voro, il contenimento di questo sfruttamento (le « barriere di leggi » riformistiche circa le ore di lavoro, il salario etc.), ma non mai concernenti lo sfruttamento stesso e la sua abolizione. Che il diritto naturale del « proprietario » del capitale, del compratore della forza di lavoro, farà sempre da contrappeso al diritto natu­ rale del « proprietario » della forza di lavoro o venditore di essa. In base, appunto, alla soluzione giusnaturalistica del problema etico fondamentale àeR eguaglianza o giustizia come proporziona­ lità di diseguaglianze morali (o civili) ed empiriche, di forza, ta­ lento etc., come meglio si vedrà con Rousseau. In altri termini, come sopravalore e profittò potrebbero esser dichiarati un’« in­ giustizia di ripartizione » dei prodotti, dal punto di vista del dirit­ to naturale, secondo l’affermazione di Mondolfo e tanti altri,.se 233

la forza di lavoro producente è giusnaturalisticamente privata, e cioè proprietà-diritto della persona e quindi alienabile a suo pla­ cito? Una « ripartizione sociale » dei prodotti, da tal punto di vi­ sta, è veramente un « nonsenso », come lo è il sopravalore mar­ xiano: ma non perché lo siano, l’uno e l’altro, soltanto « in eco­ nomia » (borghese) un nonsenso, come pensa Croce, ma perché lo sono non meno in sede di diritto naturale e di metafisica in genere (di filosofia dello spirito, nel caso del Croce). Perché lo sono, insomma, non meno, dal punto di vista dell’umanesimo tra­ dizionale, libertario o individualistico, e però dell’« ideologia », di cui l’« economia politica » non è che un capitolo coerente. Necessità, quindi, di chiarirci l’altro umanesimo, l’umanesimo socialista, per­ ché materialistico, nel cui ambito soltanto sopravalore, ripartizione sociale etcetera hanno un senso, per la scoperta ch’esso fa del ca­ rattere comune, sociale, della produzione e però della forza di la­ voro. Quel carattere ch’è dal Mondolfo, e da tutti i socialliberali, illusoriamente sottinteso come giustificabile a sufficienza con la comunanza di natura (umana) degli individui proprietari della for­ za di lavoro, cioè col concetto della loro partecipazione ad un astratto genere, la metastorica natura umana (come essenza dell’in­ dividuo, che risulta così precostituito persona). Senza, cioè, poter far altro che assumere dogmaticamente — senza mediazione o dimostrazione — l’unità del genere o universale con l’individuo, come si è già visto testé col fallimento di tale formulazione (giusna­ turalistica) dell’istanza socialista-, e per le ragioni viziose insite ai processi di ipostatizzazione, in cui rientra la persona apriori o precostituita, che vedremo piu innanzi. Quanto precede acquista un senso piu preciso e decisivo se passiamo dalla problematica giusnaturalistica di Locke a quella ben altrimenti complessa ed elaborata di Rousseau e Kant. In quanto a Rousseau, si cominci col tener presente, nella sua reale portata, la conclusione del Discorso sull'origine e i fonda­ menti dell’ineguaglianza fra gli uomini-, conclusione da cui dipende il tenore della formulazione del « problema fondamentale » che il Contratto sociale deve risolvere. La conclusione dice che « la dise­ guaglianza morale [o « civile »], legittimata dal solo diritto posi­ tivo, è contraria al diritto naturale ogni volta che non concorra nella stessa proporzione con la diseguaglianza fisica [ossia dise­ guaglianza individuale immediata, di « forza » e « talento » etc.] ». Essa pone, dunque, l’istanza della conformità alla ragione (al « di­ 234

ritto naturale ») di una diseguaglianza morale, cioè civile o sociale, che sia proporzionale alla diseguaglianza immediata, o empirica, di forza, di talento etc. E però la conformità razionale di una eguaglianza o giustizia, che consista in una proporzionalità di dise­ guaglianze di valore ed empiriche, è intesa come conformità al diritto naturale-, cioè come la razionalità di un’eguaglianza risolventesi in quelle diseguaglianze proporzionali suddette in cui con­ siste ciascuna delle libertà naturali, o libertà dell’« uomo indi­ pendente per natura » (ossia secondo la sua pura essenza razionale), o persona-apriori, metastorica, presociale, per intenderci. Istanza per cui eguaglianza è si concepita in funzione della libertà, ossia infine della persona, ma non anche viceversa-, appunto perché la persona, di cui ogni libertà naturale è attributo, è l’uomo indipen­ dente, astratto, presociale, cioè l’uomo per essenza alieno a quel modo di esistenza ch’è la coesistenza o convivenza o socialità, in cui ha un senso positivo e specifico l’istanza eguaglianza o giustizia. « L’eguaglianza innata, vale a dire l’indipendenza », definisce coerentemente l’eguaglianza il russoiano Kant, riducendo l’eguaglianza alla sua antitesi specifica, la libertà, con una singola­ re semplificazione della problematica etico-politica, che minaccia la stessa libertà, si intende. Ma passiamo alla formulazione del problema fondamentale che il contratto sociale ha da risolvere. In essa si enuncia conse­ guentemente l’esigenza di « trovar una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato [cioè legittimi quelle istanze di valore, concepite come diritti individuali razionali puri, che, quale la persona e i beni etcetera, sono corollari delle giusnaturalistiche ossia apriori­ stiche proporzionali diseguaglianze morali e empiriche], e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca pertanto che a se stesso e resti libero come prima »: cioè resti l’uomo indipendente secondo natura. Dove appare evidente che il formalismo contrattualistico-politico, che dovrebbe mediare « natura » o ragione e storia, e realizzare cioè l’uomo comune, la persona umana, risulta ormai un mezzo troppo estrinseco (è infatti « artificiale », non-naturale, secondo l’espressione che gli Stati sono « grandi corpi arti­ ficiali ») per poter produrre altro che una mera libertà politica come copia empirica o traduzione aposteriori delle libertà naturali o apriori. Con la conseguenza finale dell’istituzione di una « egua­ glianza » della sorta di quella stabilita dalla clausola del contratto sociale: per cui il « patto sociale » istituisce una cosiffatta « egua235

glianza morale e legittima » fra gli uomini che questi, « pur poten­ do essere diseguali di forza e talento, diventano tutti eguali per convenzione e di diritto ». Un’eguaglianza, insomma, morale e legittima in quanto convenzionale e. artificiale, ossia di diritto posi­ tivo (pubblico) : cioè quell’eguaglianza formale o di fronte alla legge, ch’altro non è se non quella libertà formale o politica ch’è la copia empirica delle libertà naturali significanti un’egua­ glianza in funzione della libertà, ma non anche viceversa! E che appunto « si tratta della libertà de&’uomo come monade » lo ve­ deva bene Marx, nella Questione ebraica, rimasta lettera morta per tutti i socialliberali, commentando l’art. sesto sulla libertà (co­ me « pouvoir qui appartieni à l’homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d’autrui »): articolo della costituzione francese « la piu radicale » e russoiana, quella del 1793. E concludendo ivi che « i diritti dell’uomo distinti dai diritti del cittadino » — cioè pro­ prio i diritti « naturali » — « non sono che i diritti dell’uomo mem­ bro della società borghese », cioè dell’uomo « ristretto nel suo particolare interesse e nel suo arbitrio particolare, separato dalla comunità ». Che l’eguaglianza o giustizia è la libertà, e che insom­ ma la tesi è immediatamente la propria antitesi, è questa la contradictio in adjecto, l’aporia insormontabile, in cui appare irretito Rousseau agli occhi della critica odierna. O, in altri termini, si svela oggi il semplicismo e l’infecondità conseguente della soluzione russoiana, aprioristica, del problema della eguaglianza come proporzionalità di diseguaglianze di valore ed empiriche: cioè della concezione di tale eguaglianza-proporzio ­ nalità come diritto naturale o libertà naturale, presociale, dell’indi­ viduo; che un’eguaglianza cosi concepita è tanto lungi dal poter convertirsi in un’eguaglianza legittima di tutti quanto è lungi dal poter essere libertà reale ossia di tutti la libertà politico-naturale a cui essa si riduce, idest la libertà astratta presociale ch’è la « li­ bera iniziativa » casuale o del borghese, la libertà classista-\>otghese, parziale, o illibertà sostanziale. Il che equivale ammettere infine la carenza di mediazione di valore ed empiria — ossia l’in­ sufficiente costituirsi dell’individuo empirico come individuo-valore o persona — ch’è la suddetta proporzionalità di diseguaglianze, se intesa giusnaturalisticamente, aprioristicamente. Questa la teoria — inconsapevole — dello squilibrio di li­ bertà e giustizia che infirma la società (1 ) politica russoiana, la « democrazia moderna ». L’ideologia che fa sua anche Kant. Il Kant che, posta la premessa « l’eguaglianza innata, vale a dire 236

l’indipendenza », può concludere coerente: « entra (se non puoi evitare la società) in una società cogli altri tale che in essa ognuno possa conservare ciò che gli appartiene »; e che pone a corollario il correlativo concetto puramente formale, negativo, del diritto, per cui « ogni diritto consiste unicamente nella delimitazione della libertà di ciascuno ». Conclusione, la kantiana, in cui si ricapitola perfettamente la parabola dell’uomo indipendente « per natura » o persona-apriori: ch’è il suo costituirsi, attraverso l’apriorismo (l’eguaglianza innata!) e la conseguente presocialità (entra, se non puoi evitare la società etc.), come persona privilegiata-, che ognuno possa conservare, nella società, ciò che già gli appartiene}. O Dove è chiaro che, se la società è un posterius, non « tutti », non ognuno, ma solo alcuni potranno conservare in essa — in quanto società. « apparente » — ciò che hanno già per l’indipendenza naturale (il prius) con le sue differenze empiriche assolutizzate. Si confronti in Rousseau la legittimazione di quell’endiadi me­ tafisica ch’è la persona e i beni. E si pensi, per non dir altro, al carattere di assolutezza o astrattezza o inumanità che impronta il diritto tradizionale, borghese, agli « averi », ch’è appunto teoriz­ zato come attributo di quella persona-rortawz# ch’è l’uomo-di-natura o uomo-apriori (col relativo « sacro »). Diritto (2) che si svela ora privilegio, come negazione cioè di quell’istanza di valore o univer­ salità o concernente ognuno che costituisce il diritto. La persona privilegiata esprime, dunque, per il critico odierno, la piu tipica e riassuntiva contraddizione in termini del pensiero russoiano e kantiano ossia della ideologia etico-giuridica classista borghese: la persona, o individuo-valore, ch’è privilegiata, ossia è negazione di valore! Perciò, mentre si conferma implicitamente l’inanità del con­ trattualismo come giustificazione di una mediazione di ragione e storia o esperienza, in quanto esso, partendo dal concetto di una razionalità come ragione pura o ragione-apriori, innata (la « natu­ ra »!), non può concepire l’atto storico ch’è l’atto sociale se non come un mero espediente o strumento accidentale della ragione e la società insomma come un assoluto posterius, si rivela di conse­ guenza la necessità dì abbandonare oramai il criterio di una razio­ nalità pura o metastorica per quello di una razionalità materiale o storica, che permetta di indicare — nella società come valore sto­ rico — quel termine medio fra ragione ed esperienza il cui falli­ mento da parte del giusnaturalismo o contrattualismo ha condotto questo nelle contraddizioni e aporie sopra rilevatesi. 237

E insomma, se non si può non riconoscere la funzione rivo­ luzionaria esercitata per secoli dal « diritto naturale » nel contri­ buire, sul piano dell’ideologia, a mutare una realtà sociale caratte­ rizzata innanzi tutto dalla soggezione politica, cominciando (per non risalire oltre) da Pufendorf e dal suo individualismo cristiano, per cui ogni uomo ha diritto alla libertà dal dominio di chi è suo eguale in Dio, e finendo con Rousseau e Kant, coi quali si pone l’istanza conclusiva di realizzare l’eguaglianza umanitaria, o cristia­ no-laica, di diritto « naturale », sul terreno del « diritto civile » o politico, sostituendo agli « editti regi » la « legge » come « espres­ sione della volontà generale » scaturita dal « contratto », onde tocca il suo culmine la funzione secolare della concezione platonico­ cristiana, cioè religiosa metafisica aprioristica, della « natura uma­ na» (in quanto « somiglianza a Dio » etcetera), cui si deve la prima scoperta universale umano, ded^uomo comune scono­ sciuto alla città antica; se non si può non riconoscer ciò, si deve peraltro ammettere che, esaurito storicamente il ciclo ideologico giusnaturalistico e metafisico, o del razionalismo astratto, per la sua impotenza ormai a mediare, attraverso le sue ipostasi, la ra­ gione e la storia, e però a mordere su questa, la funzione rivolu­ zionaria dell’ideologia non possa spettare d’ora innanzi che a un razionalismo concreto ossia materialistico, che elabori un concetto storico-sperimentale, sociologico, dell’uomo e della persona. Siamo giunti cosi, con l’aporia della persona privilegiata ch’è la persona-apriori o persona originaria, al problema conclusivo: della struttura viziosa tipica del pensiero aprioristico ossia ipo­ statizzante. Quale la genesi e la struttura viziosa di questa tipica ipostasi o astrazione entificata ch’è la persona-apriori? Generalizziamo, ap­ plicandola anche a questo caso, la critica marxiana della dialettica aprioristica di Hegel (o « mistificata »). Tale critica si riassume nel concetto del carattere meramente « allegorico », o di rappresen­ tante di altro da sé (cioè rappresentante l’universale), che assume il « particolare », la materia, o l’empiria che si dica, entro la filo­ sofia « speculativa »; per cui, avendo Hegel « rinunciato » all’esi­ stente o « subietto », « qual è nella sua particolarità » o specificità, e avendogli « prestato », nella sua figura limitata, il « significato opposto a questa limitatezza », ed essendo perciò l’« universale » o « predicato » o idea « immediatamente confuso con l’empirica esistenza » o subietto, e questo « immantinente preso, in guisa 238

acritica, per la espressione dell’idea » o sua manifestazione o pre­ dicato (« mistificato »), ne consegue infine che « non si guadagna in questo modo alcun contenuto »: e infatti « lo sviluppo con­ siste [...] in dei motivi empirici astratti, molto cattivi», come, ad es., nella fallita deduzione della « società civile » dallo « Stato » (o idea) in cui è evidente che non già lo Stato, l’« universale in sé e per sé », determina la « società civile », bensì questa — quale predicato del predicato'. — determina surrettiziamente quel­ lo; e allora « non è da biasimare Hegel perché descrive l’essere dello Stato moderno [cioè la « monarchia costituzionale » prus­ siana e la relativa « società civile » dell’« Europa di allora » ] tale qual è, ma perché spaccia ciò che è per la essenza dello Sta­ to », la dimostrazione sua essendo « concludente » solo « se si parte dai presupposti costituzionali [di fatto], ma Hegel non ha dimostrato questi presupposti con l’analisi di essi nella loro rappresentazione fondamentale »! Se generalizziamo, dunque, tale critica, possiamo stabilire quanto segue circa il caso che ci interessa. 1. Che il criterio metafisico àe\Y eguaglianza innata, apriori, degli individui umani, criterio risolventesi oramai nell’assurdo di una persona privilegiata, ha da rivelare, in quanto tale, di esser materiato di un’empiria astratta o non mediata, ch’esprima una carenza di valore o universalità, idest una razionalità oramai illu­ soria e infeconda di criterio. 2. Che, perciò, dovrà ravvisarsi nella costituzione di tale criterio, e degli altri del genere, quel processo di entificazione o realizzazione immediata di un’astrazione, ch’è la sostantificazione dell’universale o valore ossia Vipostatizzazione in senso stretto e specifico. In cui è da notare come l’universale o predicato sia, anziché mediato, confuso col particolare o subietto o sostrato ma­ teriale (Marx usa in questa accezione l’ypokeimenon aristotelico), in quanto ambiguamente lo sostituisce (l’interpolazione teologica!), per {’illusione secolare della metafisica di poter esaurire e abolire il sostrato-materia nel sostrato-essenza (confronta in Hegel la « forma ch’è essa stessa il divenire intrinseco del contenuto » etc.!). E come, d’altra parte, il particolare o subietto sia di con­ seguenza preso, immantinente e in guisa acritica, per l’universale o predicato, in quanto è preso come sua manifestazione o predi­ cato o attributo (nella fattispecie, le diseguaglianze individuali empiriche prese come differenze di valore e cioè differenti va­ lori ossia dmni-attributi di un’etera eguale natura umana e però ipostatizzata), diventando così predicato mistificato perché 239

predicato del suo predicato (la natura umana, sostantificata). Di conseguenza, si è detto, perché, non dandosi forma o univer­ sale o predicato senza materia o particolare o subietto, e vice­ versa, se il secondo, il subietto, è sostituito dal primo, dal pre­ dicato, come si vede ipostatizzazione, il predicato, tuttavia, non può venir meno e non può ovviamente esser sostituito a sua volta che dall’altro (tertium non datur!), dal subietto, che di­ venta un predicato del proprio predicato, mutuando le sue virtù predicative dal predicato o universale sostantificatosi (il sostratoessenza!); ma mantenendo, d’altra parte, la propria positività di subietto reale o materiale, cioè di immediatezza o empiria (il sostrato-materia!). Ciò per il processo di mistificazione inerente all’ipostatizzazione; per cui, diventando il subietto o sostratomateria (nella fattispecie, le diseguaglianze individuali empiriche) il predicato del sostrato-essenza (nella fattispecie, il genere gene­ rale ch’è Veterna eguale natura umana} o subietto mistificato, cioè diventando predicato mistificato in quanto predicato del proprio predicato (il genere generale), la sua universalità sarà meramente quella del genere generale ch’esso rappresenterà, e ad un tempo — senza mediazione che non sia dogmatica o soltanto asserita — tale universalità coinciderà con la pura particolarità del subietto o sostrato-materia, delle individuali diseguaglianze empiriche, nella fattispecie. Donde i diritti-attributi della eterna eguale natura umana, o subietto mistificato: i diritti « naturali », ossia misti­ ficati! Appunto tale mediazione dogmatica esprime Yempiria astratta, cattiva, viziosa, surrettizia, svelatasi alla critica mar­ xiana della deduzione hegeliana della società civile classista. (Cri­ tica che conclude, a proposito dell’hegeliana « decomposizione e restaurazione filosofica dell’empiria »: « la natura [cioè l’empiria, la materia] si vendica su Hegel del disprezzo dimostratole: se la materia non dev’essere più niente per se stessa di fronte alla vo­ lontà umana [razionale], la volontà umana non conserva più niente per sé all’infuori della materia »: cioè non resta, nella fat­ tispecie, che il « crasso materialismo » borghese in cui si rovescia lo « spiritualismo » hegeliano!) O anche svelatasi già alla critica aristotelica della petizione dell’empirica specie defintenda nella platonica divisione dialettica del genere, ossia divisione fatta solo sulla base dei « generi supremi » (il « medesimo » e l’« altro »). E appunto una viziosità che si può riassumere in una sorta di petizione di principio ontologica (e non solo formale-verbale, come interessava soprattutto ad Aristotele negli Analitici} è il 240

postumo risultato-contrappasso della ipostatizzazione: risultato-con­ trappasso dovuto proprio al tentativo dogmatico della metafisica di mediare realmente, cioè assolutamente, forma e contenuto, esaurendo, con l’ipostatizzazione, il sostrato-materia, e la sua istanza positiva irriducibile, nel sostrato-essenza, ossia pretendendo di superare il tempo, la storia, spiantandone la radice ch’è la materia o discretezza. Che l’istanza del sostrato-materia (l’unico subietto o sostrato criticamente ammissibile) sia positiva e irridu­ cibile, e che il realismo metafisico non riesca a superarla, lo mostra quel risultato-contrappasso: la viziosità, e l’infecondità conseguente, del procedimento di pensiero, metafisico o aprio­ ristico che si dica, che non tenga conto di essa istanza; onde si denuncia la materia o empiria come elemento positivo ineliminabile della conoscenza e della azione. E che tale risultato-contrappasso sia in certo senso postumo vuol dire ch’esso si disvela per la critica delle cose nella dialettica sto­ rica, e che però il tentativo metafisico valse storicamente in effetti, con la sua drastica mediazione dogmatica di forma e materia, col suo equivoco realismo, a scoprire il problema, nella fattispecie, di una unitaria natura umana, dell’universale umano (l’uomo comune!), esercitando l’azione progressista, rivoluziona­ ria, di cui sopra, come « diritto naturale » etcetera. Ma che, per­ ciò, la forma, il predicato, abbia la sua efficacia (formale) non già come quella mediazione assoluta ch’è propria del realismo me­ tafisico, ma bensì come quella funzionalità che non può darsi senza il controllo della forma da parte della materia o empiria, da essa forma eluso col sostituirsi al subietto o sostrato-materia nell’ipostatizzazione (apriorismo è ipostatizzazione!), onde, anche qui, in filosofia (morale), si tratti, alla fine, soltanto di « salvare » galileianamente le « apparenze », i fenomeni, e non già la « real­ tà » (assoluta dei metafisici); tutto questo si ricava come con­ clusione unica dall’analisi precedente. 3. Che, in effetti, anche il suddetto risultato di un processo di ipostatizzazione, ch’è Veguale natura innata, apriori, degli in­ dividui, conclude ad -uriempiria surrettizia, perché astratta o non mediata che dogmaticamente, rivelantesi sia nel carattere di merce o cosa ch’è proprio del lavoro o attività della persona soggetto di diritti naturali-, sia nella persona privilegiata (con la sua « pro­ prietà » assoluta perché asociale) che giustifica la eguaglianza innata, in quanto eguaglianza in funzione della libertà, o per­ sona, senza reciproca (e confronta quella « tendenza anarchica 241

originaria » della « libertà » democratica russoiana, riconosciuta dal giurista borghese Hans Kelsen); e così via. Il che equivale a dire che i diritti di cui è asserita titolare la persona-apriori, com­ preso il diritto di scambio della forza di lavoro (vedi II capitale, I, c. IV), si svelano oramai diritti ingiusti, cioè diritti mancanti di universalità o false pretese di valore, in quanto attributi o pre­ dicati mistificati dell’universale ipostatizzato in cui consiste la persona-sostanza ch’è la persona-apriori o individuo empirico pre­ costituito persona secondo una natura umana, eterna, metasto­ rica, essenza dell’individuo; comunque sia ragionata tale natura umana, sia come « anima » platonico-cristiana, in quanto « so­ miglianza a Dio » (donde il « sacro » tradizionale della persona); sia come « autocoscienza assoluta » o « spirito » etcetera. Per cui si conclude, intanto, che non ha più senso il teoriz­ zare yin’eguaglianza (e una libertà) innata, proprio perché non è più ammissibile criticamente una natura umana innata o universale umano apriori-. l’ammetterlo ancora vorrebbe dire accettare, an­ cora, la teoria dell’universale ipostatizzato, con le contraddizioni in termini e la petizione di principio ontologica conseguenti, e insomma senza più risultati fecondi né in teoria né in pratica. Per un esempio riassuntivo, quando un filosofo crociano (‘), in una sua recente edizione delle Dichiarazioni francesi, rileva che, sebbene, nella Dichiarazione del 1789, la società da parte sua abbia lo scopo di assicurare l’eguaglianza giuridica « nonostante {’ineguaglianza dei mezzi » o sociale, la Dichiarazione tuttavia « dimentica ogni esigenza classista [...] per purificarsi in una in­ condizionata enunciazione di libertà », onde « trascura ogni aspet­ to contingente » e « indica fini assoluti » e una « morale » che « subordina l’economia » etcetera, questo filosofo è ben lontano dal sospettare che è proprio quella libertà incondizionata o aprio­ ristica che, trascendendo, quale ipostasi, il contingente, l’econo­ mico o empirico (le diseguaglianze individuali), non lo media che dogmaticamente, ed esso resta gratuito e surrettizio; resta come cattiva o astratta empiria, come giustificato privilegio-, quelle pacifiche diseguaglianze di mezzi appunto. Onde {’incondizionata libertà et similia, anziché essere la purificazione ideologica del classismo e particolarismo, ne sono proprio l’insospettato fon­ damento riflesso o ideologico. Ed ha un curioso sapore la dichia­ razione finale del nostro filosofo: che la richiesta (fatta da taluno nella seduta del 27 agosto 1789) di confermare il « dovere pub­ blico di assistere gli indigenti e gli infermi » « apparve un fuor 242

di posto in una trattazione di cui abbiamo veduto elevatezza morale »! Ma oramai l’impotenza assiologica o valutativa del giusnaturalismo, e dell’etica aprioristica in genere, è tanto avan­ zata, si direbbe, da non poter essere contestata che dall’ottimismo del volteriano « maitre Pangloss », dell’astratto razionalista ap­ punto. (*) III Se, tenendo presente questa critica dei fondamenti « filoso­ fici » (metafisici) dell’umanesimo tradizionale, ripensiamo al con­ cetto suaccennato dell’uomo totale, che è il concetto della persona secondo l’umanesimo socialista, due ordini di considerazioni sem­ brano inevitabili. In primo luogo, appare evidente che lo stesso problema fon­ damentale della democrazia moderna, russoiana, il problema della eguaglianza umana, come proporzionalità universale di disegua­ glianze individuali « civili » o sociali e diseguaglianze individuali empiriche (2), riceve una soluzione adeguata al suo configurarsi storico odierno propriamente solo col concetto di una società senza classi, o società comunista, in cui (3), potendo ciascun indi­ viduo aver i mezzi per sviluppare le sue personali facoltà (o di­ seguaglianze individuali empiriche) in tutti i sensi, la stessa li­ bertà reale, di cui fruisce così ciascuno, e che sola gli permette di differenziarsi umanamente e però moralmente dagli altri, la stessa libertà è ipso facto eguaglianza effettiva di tutti, in quanto ap­ punto è libertà reale o di tutti, e non più libertà classista, essendo libertà sociale, — e però storica e non piu teorizzabile come li­ bertà « di natura » o metastorica o metafisica. In secondo luogo, appare non meno evidente che questi con­ cetti, della libertà ed eguaglianza sociale e della persona non me­ tastorica, presupponendo — in quanto sviluppi del concetto della « liberazione dell’uomo dalla schiavitù economica » — un com­ plesso di riferimenti storici, concreti, riassumibile nella rivolu­ zione industriale (coi suoi antecedenti e conseguenti), cioè nella trasformazione delle forze produttive moderne da strumenti di produzione isolata in strumenti di produzione sociale, con la relativa contraddizione fondamentale tra la forma della produ­ zione e la forma dello scambio ed i connessi problemi economici, sociali e politici; presupponendo ciò, ci indicano come il muta­ mento del contenuto dei criteri etici comporti il mutamento ra­ 243

dicale del metodo con cui esso è giustificato, comporti insomma il metodo sperimentale, sociologico, del materialismo storico, che si sostituisce al metodo aprioristico, metafisico, dell’etica tradi­ zionale, come altresì al metodo eclettico, contaminatorio, del po­ sitivismo illuministico e però giusnaturalistico in etica. Il metodo sperimentale con cui si rielaborano anche i concetti più generali, di uomo, natura, società, lavoro etc.: cioè quei concetti in cui si inquadrano e sistemano scientificamente — ossia in funzione e sotto il controllo dei dati empirici o storici corrispondenti — i concetti specifici di libertà, eguaglianza, persona etcetera. Così, ad esempio, Yuomo, non potendo più esser inteso, per quanto precede, come uomo-apriori, cioè anima, autocoscienza etc., vien concepito invece, secondo il Marx dei Manoscritti, come ente generico-determinato (o -naturale) : onde « l’uomo non è soltanto ente naturale {= materiale], bensì è ente naturale umano»-. cioè « ente che esiste a se stesso, perciò ente generico », ossia ente che « fa suo oggetto il proprio genere come quello degli altri enti [...] e si rapporta a se stesso come a un .ente universale e però libero »; che la sua stessa alienazione non dipende né da un Dio né dalla natura, ma solo dal « rapporto dell’uomo a un altro uomo ». Donde la socialità del lavoro etc. come costitutivo essenziale dell’uomo moderno e fonte per lui di ogni valore. Così « la moralità non esiste al di fuori della società umana, è un in­ ganno », dirà Lenin più tardi. E si è vista sopra la superiorità della soluzione socialista dei problemi della libertà e dell’eguaglianza. Ma appunto la « società » è stata da Marx scoperta — nell’« in­ dustria » o « vera natura antropologica » — come « la perfetta consustanziazione dell’uomo con la natura »: cioè soddisfazione dell’istanza razionale, specifica dell’uomo, e dell’istanza materiale, specifica della natura. Onde nella società — in una società « rea­ le » o di soli lavoratori — si trova quella mediazione di ragione e storia che si cerca ancora nel contratto politico-naturale, me­ tempirico e però metastorico. E del resto la « storia » non è che « la vera storia naturale dell’uomo », di questo « atto di nascita [«tutto ciò ch’è naturale deve nascere»!] con coscienza ». Ma su questi concetti più generali non è qui il luogo di insistere: basti tener presente la funzionalità anche di essi. E a questo proposito occorre aggiungere quanto segue. Che, non essendoci una natura umana metastorica, eterna (la « natura umana » ha già mutato due volte, dall’uomo antico all’uomo cri­ stiano-moderno!), non può più esserci nemmeno, nella fattispecie 244

che c’interessa, una morale metastorica o metafisica; non più me­ tafisica di sorta. Ma la morale, la « filosofia » in genere, non potendo anch’essa (se non vuole ricadere nelle petizioni di prin­ cipio ontologiche del metodo aprioristico ossia del metodo del « genere generale », per usar la espressione aristotelica antiplato­ nica), non potendo anch’essa esser che « concezione specifica di un oggetto specifico », come Marx oppone all’hegeliana filosofia del diritto, non potrà, infine, esser anch’essa che scienza naturale in quanto propriamente scienza sperimentale o storica. E del re­ sto, se la storia, come si è detto, non è che la vera storia naturale dell’uomo, bisognerà concludere, col Marx profetico dei Mano­ scritti, che « la storia è essa stessa una parte reale della storia naturale, della trasformazione della natura in uomo » e che « le scienze naturali comprenderanno un giorno la scienza dell’uomo [...] e non ci sarà che una scienza ». Quel giorno è già venuto col Capitale. E la nuova scienza dell’uomo, la vera scienza nuova ch’è la sociologia materialistica (e non la sociologia aprioristica vichiana o « filosofia dello spirito » avanti-lettera!) non sarà che analisi risolutiva del problema umano in ipotesi di lavoro da con­ trollarsi e verificarsi storicamente: e procederà perciò con concetti puramente funzionali, come tutte le scienze sperimentali; in modo da chiarire — e ad un tempo promuovere (appunto perché è scienza sperimentale o del concreto) nn’azione risolvente — le antinomie storiche del nostro tempo, che datano all’ingresso dalla rivoluzione industriale. Un’eZzoz sperimentale, dunque, che, men­ tre, da un lato, è costretta, dalla spinta dei fatti, che sono le antinomie storiche suddette, ad una radicale critica della « ideo­ logia », e cioè a rivelare aporematica e ormai infeconda l’ideologia precedente, aprioristica e metafisica specialmente; dall’altro lato, sulla base delle specifiche leggi economiche materialistiche, da quella dell’equazione valore-lavoro a quella delle crisi, elabora quel­ la generale ipotesi scientifica (e non « utopia » come ama illudersi ancora il Croce!) dell’uomo totale socialista, con cui essa intende partecipare, sul piano sovrastrutturale dell’ideologia, allo sviluppo rivoluzionario déd’uomo comune borghese, ormai in via di esau­ rimento storico, nell’uomo comune lavoratore-, sostituendo cosi al criterio della persona originaria o uomo-apriori (o « uomo astrat­ to » del cristianesimo, di cui sopra) quello della persona storica idest sociale-, e cosi via. In altri termini, se anche la morale, la filosofia, non è accet­ tabile criticamente che in quanto scienza sperimentale (nn’antro245

polo già critica convertibile eo ipso, per la coincidenza di socia­ lità e valore, in una sociologia), ossia in quanto ricerca non di un mitico perché (ultimo) delle cose umane, bensì del loro come o perché storico, e in quanto però analitica e descrittiva, varrà anche per essa l’imperativo metodico galileiano di « salvare le appa­ renze » ossia di dar ragione dei fenomeni, inteso con tutto il ri­ gore materialistico. « È vero — scriveva appunto Galileo al Bellarmino nel 1615 — che non è is tesso il mostrare che con la mobilità della terra e stabilità del sole si salvano Vapparenze, e il dimostrare che tali ipotesi in natura sien realmente vere, ma è ben altrettanto e più vero, che se con l’altro sistema comunemente ricevuto non si può rendere ragione di tali apparenze quello è indubitabilmente falso, siccome è chiaro che questo che si accomoda benissimo può esser vero, né altra maggior verità si può e si deve ricercar in una posizione che il risponder a tutte le particolari apparenze. » Dunque, la fondazione della scienza nuova ch’è veramente la so­ ciologia materialistica, scienza che scopre un nuovo universo mo­ rale, quello deH’umanesimo socialista, si collega strettamente alla fondazione della scienza moderna della natura, rivelatrice di un nuovo universo fisico. Tant’è vero che la stessa ispirazione antidogmatica profon­ da, che ha dettato la critica marxiana dei processi di ipostatizza­ zione propri della filosofia morale hegeliana, quella stessa che guidò la critica aristotelica della logica dialettica di Platone, ha dettato a Galileo la critica dei processi ipostatici della filosofia naturale peripatetico-scolastica; onde l’espressione galileiana del « cambiarci le carte in mano », con cui si allude ai residui qualita­ tivi o empirici astratti e surrettizi, il « su » e il « giù » e il « cen­ tro » terrestre, nella deduzione peripatetica, matematico-metafi­ sica, dei movimenti in natura, ci preannuncia e illumina il « ro­ vesciamento » del subietto o sostrato materiale in predicato, con­ seguente al rovesciamento del predicato in subietto, e insomma quel predicato del predicato ch’è empiria astratta, viziosa e infe­ conda, di cui ci parla Marx. « Voi insieme con Aristotile — dice infatti Sagredo a Sim­ plicio peripatetico nella prima giornata del Dialogo dei massimi sistemi •— da principio mi separaste alquanto dal mondo sensi­ bile, per additarmi l’architettura [il modello matematico razio­ nale puro] con la quale egli doveva esser fabbricato [...]. [E] quanto al dichiararmi quali egli [Aristotele] intenda esser 246

i movimenti semplici e come ei gli determina da gli spazi, chia­ mando semplici quelli che si fanno per linee semplici, che tali sono la circolare e la retta solamente, lo ricevo quietamente [...]. Ma mi risento bene alquanto nel sentirlo restrignere (mentre par che con altre parole voglia replicar le medesime definizioni} a chiamare quello [il circolare] movimento intorno al mezo [al singolare! l’empirico centro terrestre!], e questo [il retto] sursum e deorsum, cioè in su e in giù-, li quali termini non si usano fuori del mondo fabbricato, ma lo suppongono non pur fabbricato, ma di già abitato da noi. Che se il moto retto è semplice per la sem­ plicità della linea retta, sia pur egli fatto per qualsiasi verso, dico in su, in giu, innanzi, in dietro, a destra ed a sinistra [...], purché sia retto, dovrà convenire a qualche corpo naturale semplice; o se no, la supposizione di Aristotile è manchevole. Vedesi in oltre che Aristotile accenna un solo esser al mondo il moto circolare, ed in conseguenza un solo centro [il terrestre!], al quale solo si riferiscono i movimenti retti in su e in giu; tutti indizi che egli ha mira di cambiarci le carte in mano, e di volere accomodar l’ar­ chitettura [il modello matematico-metafisico] alla fabbrica [o «mondo sensibile»], e non costruire [secondo l’ipostatizza­ zione!] la fabbrica conforme a i precetti dell’architettura » (’),

L’umanesimo socialista, .di cui abbiamo schematizzato, nella prima parte di questo discorso, l’originale contenuto etico, men­ tre si ricollega, per quanto concerne l’origine del suo metodo, alla critica mossa dal fondatore della moderna scienza fisica contro i procedimenti viziosi e infecondi della metafisica della natura, ci mostra poi l’originalità del proprio metodo nella ap­ plicazione coerente di quella critica alla metafisica della morale e alle cosiddette « scienze dello spirito » in genere, e nella con­ seguente fondazione di quella sociologia materialistica che, in quan­ to scienza sperimentale dell’uomo, segna veramente la fine della plurisecolare antropologia metafisica e dogmatica e in genere della « filosofia » come « speculazione » o mera « comprensione » del mondo, per sostituirvisi come sapere pratico o capace di « tra­ sformare » il mondo proprio per quella capacità di mordere sulla storia, che, ormai negata alle ipostasi e ai puri ideali della filo­ sofia speculativa, appartiene invece alle costruzioni scientifiche di essa sociologia materialistica. Donde la funzione progressista, ri­ voluzionaria, dell’ideologia socialista, ch’è l’ideologia di un uma­ nesimo positivo proprio in quanto umanesimo materialistico. 247

Primo abbozzo di una teoria dell’interesse-dovere

I. Critica della caritas

Si può affermare che la teoria generale di una morale socia­ lista non può costituirsi senza un previo esame critico rigoroso dei criteri etici tradizionali: àe\\’umanitarismo e del moralismo. Il primo concetto tradizionale in cui ci imbattiamo è, dun­ que, la caritas, laicizzata piu o meno e divenuta corrente come amore del prossimo o sentimento dell’umanità e via dicendo. Gli stretti limiti della caritas sono stati avvertiti anche di recente e da moralisti non socialisti. Sono di André Gide, non certo marxista, le seguenti considerazioni sulla carità (nel suo Journal)-. « La carità, — egli dice, — pur confortando temporaneamente la mi­ seria, non ne attacca affatto la radice, e si può persino dire che, per ciò stesso, la mantiene. L’esercizio della carità diventa, per certi cristiani, una sorta di allenamento indispensabile: vi per­ fezionano se stessi, vi si compiacciono [narcisismo etico!], a un punto che senza poveri da soccorrere si sentirebbero impoveriti. È ciò contro cui protesta a buon diritto l’idea giudaica e marxista della giustizia ». (’) Vediamo di approfondire questa critica gidiana (che, comun­ que, significa qualcosa di più di una satira della beneficenza, con­ trariamente a quel che taluno potrebbe credere), e approfondia­ mola cercando il perché dell’attuale incapacità come ideologia (e nei limiti sovrastrutturali dell’ideologia, s’intende) della caritas in, genere a incidere sulla radice della miseria, dell’ingiustizia. Il perché, che dobbiamo chiarire, è, diciamolo fin d’ora, nella concezione astratta, irreale, disumana (teologica) della persona umana o individuo-valore (cioè individuo investito dell’universa­ 248

le), che la caritas e l’umanitarismo e il moralismo da essa proce­ denti sottintendono. Il perché è, in altri termini, nell’individua­ lismo (astratto) ch’è l’alfa e l’omega di tutta la morale tradizionale. Se dalla critica gidiana della carità passiamo all’esaltazione, la più recente, dell’amor del prossimo, della caritas, fatta dal filo­ sofo Nicolai Hartmann (nella sua monumentale Ethik), vediamo che questi sorvola proprio la debolezza della persona astratta, di cui si è detto. E cioè, quando l’Hartmann, contrapponendo la caritas alla giustizia, dice che la seconda, oltre ad esser « nega­ tiva », col suo uso di divieti e limitazioni, ha il difetto principale di restar chiusa al « microcosmo della persona », in quanto con­ sidera tutti egualmente e concerne alla fine una « totalità livel­ lata », mentre invece la prima non solo è « positiva » nelle sue richieste, ma, nel rivolgersi alla « persona stessa » e « per se stessa », senza riguardo ai suoi diritti, meriti e onori, « trasferisce ogni peso dall’io al tu », egli non vede: 1. che questo tu, su cui gravita l’accento, è anch’esso, pur sempre, come l’io un singolo còlto nella sua immediatezza, cioè nella sua astrazione da un tutto concreto possibile (qualunque sin­ golo essendo realmente una parte) ed elevato come tale a valore o universo-, e che però, se, per la dignità (cristiana) di ogni sin­ golo, del tu come dell’io, il valore, l’universale, si concentra in quel cosmo ch’è microcosmo (la persona), c’è da chiedersi se sia possibile ancora un mondo o macrocosmo morale, una totalità etica reale; 2. che la contrapposizione della caritas alla giustizia, come ordine etico « più alto » di questa, è equivoca e inconcludente, se non si precisa e approfondisce il concetto di giustizia (antico o cristiano-moderno?) da cui si parte: perché, in quanto al primo concetto, cui si riferisce l’Hartmann citando Aristotele, è da dubi­ tare che lo si possa svalutare totalmente nel confronto con la caritas, come egli fa, mantenendo esso concetto, al di là della sua deficienza rispetto all’istanza cristiana della eguale dignità di ogni individuo umano, una vis problematica innegabile, proprio nel contrasto con l’etica astrattamente individualistica della ca­ ritas, e ciò mediante il suo senso originario della « comunità », di un mondo morale («l’uomo animale politico»!); e in quanto al secondo concetto della giustizia, il cristiano-moderno, è pur da dubitare che la svalutazione di esso a pro della caritas, come quella in senso contrario, possa oggi significare qualcosa di decisivo agli occhi di una critica spregiudicata, appartenendo sostanzialmente 249

la giustizia dello Stato « moderno », democratico-borghese e li­ bertario, e la caritas, ispiratrice, come umanitarismo, di tale giu­ stizia, allo stesso tipo di eticità, individualistico-astratta, ed es­ sendo dunque entrambi dei criteri oggi discutibili, come stiamo vedendo. Il perché, intanto, dell’attuale impotenza ideologica della caritas verso la miseria, l’ineguaglianza, l’ingiustizia, risiede pro­ prio nella sua natura formale di bontà esclusiva, cioè non com­ prensiva del mondo come tale, nel suo rivolgersi insomma sem­ pre e soltanto a degli individui astratti dalla società, dal mondo sociale, storico. Il vizio ideologico della « caritas » risiede quindi nel preconcetto teologico che (per dirla con Kierkegaard) « il genere umano ha la proprietà, precisamente perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che il singolo è più alto del genere ». Il che significa che l’individuo umano è persona cioè valore e ha dignità non per il suo rapporto reale e attivo al genere cui appartiene, al­ l’universale reale, storico, umano, ma bensì a un universale trascendente, con cui, si badi, non è possibile entrare in rap­ porto, e uniformare a ciò la propria condotta, che da parte del singolo come tale, cioè di un singolo che prescinda dal genere, posto che, per l’assunto, il singolo non si universalizza nel suo genere (umano), per la somiglianza con questo, ma per la somiglianza con Dio o universale trascendente il genere umano. La conseguenza grave di questa fondazione teologica della perso­ nalità o dignità, ossia universalità o valore dell’individuo (uma­ no!), non può esser che il carattere individualistico-astratto con cui si giustifica paradossalmente ogni sua azione e situazione in quel mondo reale, storico, umano e però sociale, in cui è pur co­ stretto a vivere. Si spiega anche, così, come la caritas, il suo eser­ cizio, proprio per il suo spirito intimo, che suona « ama il tuo prossimo come te stesso per amor di Dio », sia impotente contro l’ineguaglianza dei ricchi e poveri, in quanto questa, che presup­ pone una società divisa in classi e però una concezione di diritti individuali destinati a diventar privilegi perché diritti presunti connessi alla dignità originaria, « naturale », metastorica di un individuo astratto, è giustificata, come ogni altra ineguaglianza, in base a princìpi teologici, come la caritas stessa. L’esame, a cui ci accingiamo, della caritas laicizzata ch’è {'umanitarismo come coscienza riflessa della democrazia moderna, ci chiarirà questo e altro. 250

II. Critica dell’amore umanitario (Rousseau)

La « coscienza morale » consiste, per Rousseau, padre spi­ rituale della « democrazia moderna », nel « sentimento dell’uma­ nità » o amore umanitario. « L’amore degli uomini — egli dice — derivato dall’amore di sé è il principio della giustizia umana » : cioè « è dal sistema morale formato da questo doppio rapporto a se stesso e ai propri simili che nasce l’impulso della coscienza », che « rende l’uomo simile a Dio ». La spiegazione di questo doppio rapporto ch’è la coscienza sta in ciò: che, poiché «l’amore per YAutore del proprio essere [...] si confonde con questo medesimo amore di sé », l’amore di sé e l’amor dei propri simili si confondono o coincidono a loro volta; questo doppio rapporto derivando dal fondamentale rapporto di unione (amore) di ciascuno di noi stessi con Dio, con l’universale trascendente, onde si conferma e precisa il detto: ch’è per amor di Dio che si deve amare il prossimo, cioè il simile, come se stesso. Nulla di meno (ma anche nulla di più) che un egotismo, diremo, reli­ gioso, e in tal senso morale, ci si presenta dunque nella nota dichiarazione russoiana: che « quando la forza di un’anima espan­ siva mi identifica col mio simile, e io mi sento, per cosi dire, in lui, è per non soffrire ch’io non voglio ch’egli soffra, e io m’in­ teresso a lui per amore di me stesso ». Appunto in nome di questo egotismo sui generis, — in cui si articola praticamente la persona, o individuo-valore, in quanto persona originaria ossia apriori, nel senso di pre-sociale o pre-istorica, essendo essa persona unità (gratuita, dogmatica) dell’individuo o particolare con un univer­ sale assolutamente trascendente la storia, invece che unità con l’universale storico ch’è il genere umano, — appunto per ciò si comprende come Rousseau possa dire addirittura che « la più grande idea che mi posso fare della Provvidenza è che ogni es­ sere materiale sia disposto il meglio ch’è possibile in rapporto al tutto, e ogni essere intelligente e sensibile il meglio ch’è possibile in rapporto a se stesso »; e che « io vi apprendo da Dio che è la parte ch’è maggiore del tutto »; e possa cioè accettare pienamente il paradosso dell’individualismo cristiano o astratto: cioè che per l’individuo umano non vale la legge del rapporto del singolo al tutto, dell’individuo al genere (cfr., sopra, Kierkegaard!). Cosi si comprende il significato morale vero, integrale, delle formule famose dell’« uomo della natura » e del « ritorno alla natura »; perché si comprende il fondo aprioristico, platonico­ 251

cristiano, e romantico avanti-lettera, dell’individualismo del Rous­ seau che dice per bocca del vicario savoiardo: « Troppo spesso la ragione c’inganna [...], ma la coscienza [cioè il sentimento innato dell’'amor di sé ch’è amor del prossimo essendo amor di Dio] non ci inganna mai: chi la segue obbedisce alla natura [...]. Rien­ triamo in noi stessi »; del Rousseau che, all’affacciarsi del pro­ blema della società politica, cioè del problema tipico del genere storico ch’è il genere umano, avverte che « tutto consiste a non guastare l’uomo della natura nell’appropriarlo alla società ». Ma, a questo punto, si comprende anche la difficoltà immensa messa innanzi al Rousseau politico dalle sue stesse premesse generali, metafisiche e etiche; dall’assioma dogmatico dell’uomo della na­ tura, dell’individuo libero e indipendente nel senso che gli con­ ferisce la sua coscienza originaria, apriori-, nonché dal corollario immancabile: che nel diventare sociale-politico l’uomo della natura salvi la sua specifica integrità di persona originaria o individuo investito di valore apriori dalla sua somiglianza a Dio, cioè dalla sua unione con l’universale trascendente, metastorico, ch’è Dio. Una difficoltà ch’è già manifesta nella famosa formula del « problema fondamentale », di cui il « contratto sociale » dovreb­ be essere la soluzione: formula in cui si enuncia l’esigenza di « trovar una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato [cioè tuteli il diritto di proprietà e gli altri connessi diritti « naturali », razionali puri, ossia le pretese private della persona originaria, presociale, ch’è l’uomo della natura], e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca pertanto che a se stesso e resti libero come prima ». La difficoltà russoiana è, dunque, quella di voler fondare la società politica, ossia quell’unità storica tem­ porale eh’essa è, su degli elementi cosi refrattari come gli « im­ prescrittibili » diritti originari, presociali, dell’uomo della natura, cioè dell’individuo ch’è individuo-valore o persona, e però ha dei diritti, per l’unione con un universale o genere trascendente la storicità, per una sorta di investitura extratemporale, extrastorica; invece che per l’unione col proprio genere, storico: l’umano. Certo, la soluzione {1 ) di tanta difficoltà mediante la clausola del « contratto », clausola dell’« alienazione totale di ogni asso­ ciato con tutti i suoi diritti [naturali, originari] a tutta la comu­ nità », per cui « ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno », contribuì storicamente a realizzare (cosa non da poco) l’eguaglian­ za umanitaria — cioè di tipo cristiano — sul terreno del diritto 252

« civile » o politico, con la sostituzione della « legge », quale espressione della « volontà generale » scaturita dal « contratto », alle « ordinanze », « lettere patenti » e « editti » regi: l’eguaglianza politica instaurata dalla rivoluzione francese. Onde si ebbe la emancipazione — politica — dell’uomo « comune » (gloria bor­ ghese) (1 ). Ma è pur vero che, avendo la « volontà generale », costituente il nuovo « corpo politico », il suo fondamento ideologico nella « coscienza morale » come « sentimento dell’umanità » o amóre umanitario, ed essendo quest’ultimo nient’altro che l’egotismo religioso di cui sopra, in cui si risolve l’individualismo cri­ stiano tradizionale, bisogna concludere che l’eguaglianza istituita da e per un tale corpo politico non può esser giustificata che come quel tipo di eguaglianza che coll'egotismo permette. Cioè: l’eguaglianza-diseguaglianza che risulta dal concepire {’eguaglianza in funzione della libertà, ma non anche viceversa. Non anche viceversa, appunto perché la persona, con cui la libertà coin­ cide, è quell’individuo astratto, solitario, presociale, preistorico, ch’è la persona originaria, cristiana, principio e fine di queWegotismo ch’è V amore umanitario (in quanto laicizzazione tipica della caritas). Di conseguenza, un’eguaglianza come quella descritta può esser tutt’al più (certo, qualcosa) un’eguaglianza (2) estrinseca, formale, astratta, o giuridica nel senso eh’essa non è che la tra­ duzione « legale » o « artificiale » di pretese o diritti « naturali »: la legittimazione insomma di una libertà o indipendenza originaria, extrastorica, mitica; ma non può esser l’eguaglianza intrinseca, so­ stanziale, reale, che è l’eguaglianza sociale, cioè richiesta dall’atto storico, reale, della convivenza che caratterizza l’ente umano con­ creto, non disgiunto dal. suo genere; quella eguaglianza reale che sola comporta una libertà reale in quanto libertà sociale, che, es­ sendo cioè libertà nella e per la comunità, è libertà di tutti ve­ ramente. Si comprende cosi lo squilibrio di libertà e di giustizia o eguaglianza che infirma la società politica russoiana, e di riflesso la « democrazia moderna ». Onde, a Rousseau, che intese di eman­ cipare il « peuple » emancipando quel « roturier » o plebeo in cui egli vedeva particolarmente incarnato il suo tipo di « uomo » (comune), cioè l’artigiano, il piccolo coltivatore etc., il piccolo e medio borghese insomma, accadde con ciò di porre le premesse ideologiche per l’emancipazione non di tutto il popolo, ossia del popolo semplicemente, ma solo della borghesia, di tutta la bor­ ghesia, piccola e grande, di una classe soltanto; in base appunto 253

(dall’angolo visivo ideologico) alla sua fondamentale concezione dell’individuo umano come individuo-valore, o persona, in quanto è quell’uomo della natura di cui l'assolutezza o indipendenza ori­ ginaria (donde la « libera iniziativa » etc.) è carattere peculiare: in quanto, in concreto, uomo comune-borghese. S’intende già come dovesse restar fuori di questo quadro ideologico il proletariato, cioè l’uomo comune in quanto specifi­ camente operaio e come tale uomo di massa ossia uomo sociale per eccellenza, dato il manifestarsi con esso in guisa eminente della natura organica e organatrice del lavoro. All’operaio, e lavoratore in genere, è così concesso di far parte del « popolo » (sovrano) — cioè di quanti hanno un’effettiva piena capacità giuridica e una personalità — soltanto « salendo » alla condizione borghese, dive­ nendo, come si dice, « libero » e « indipendente »: divenendo, ad es., industriale piccolo o grande, e con ciò realmente soggetto di diritto, in quanto capace dell’uso effettivo di quei diritti « natu­ rali » (di proprietà, sicurezza etc.), o pretese private miticamente inerenti apriori all’individuo come tale, di cui soltanto può tener conto lo Stato democratico-borghese, perché principalmente nella legittimazione e garanzia di essi è la sua ragione d’essere come Stato. Cade a proposito l’ironia di Marx: che il borghese non crede che sia possibile avere personalità, essere persona, se non in quanto si sia borghesi. E cade a proposito ricordare quel che l’idealista Hegel (il maestro di Benedetto Croce) ha detto, che si stenta oggi a credere: cioè che nel cittadino « come bourgeois » è la « con­ cretezza » della rappresentazione che si chiama « uomo » ! Il plato­ nico-razionalista Hegel credeva che per superare l’individualismo astratto, l’« atomismo », del platonico-protoromantico Rousseau, bastasse rubricare dialetticamente il « contratto sociale » nello « spi­ rito oggettivo » (ma sulla sua dialettica « mistificata », com’ebbe a definirla Marx, non possiamo ora soffermarci). Concludendo su Rousseau, par chiaro che i limiti ideologici della democrazia russoiana, « moderna », o democrazia meramente formale perché libertaria, si riassumono nella carenza fondamentale del principio del « sentimento dell’umanità » o dell’umanitarismo, e dell’implicito concetto dell’uomo come « uomo della natura », o uomo-apriori, o persona originaria che si dica. Qui sta tutta la ragione ideologica russoiana di una società divisa in classi, e però ancor rotta da ineguaglianze (che egli non poteva vedere): perché, se una società classista comporta in genere una concezione di diritti che tendono a diventare privilegi ('), come negare che siano per 254

diventare dei privilegi quei diritti che vogliono esser tali in quanto deducibili dalla dignità originaria extrastorica, di un individuo astratto — perciò ■— dalla storica società col suo genere? Si pensi al carattere di assolutezza e astrattezza, e però di inumanità, che impronta ad es. il diritto tradizionale, borghese, di « proprietà », giustificato giusnaturali&ticamente, russoianamente, ad un concetto aprioristico o teologico del « sacro » della persona « umana »; e si dovrà ammettere che esso è ormai piu un (1 ) privilegio che un diritto, mancandogli di quest’ultimo la capacità di esser realmente generale. E s’intende: perché, per il presupposto aprioristico, non è la generalità o universalità storica propria del genere umano che giustifica quel diritto (di proprietà etc.), ma bensì la generalità o universalità di un genere trascen­ dente l'umano. Dal che non si può fare a meno di concludere all’insufficienza attuale di una fondazione aprioristica o teologica in genere dei valori morali e politici. La coscienza umana chiede dei diritti, ma la teologia non dà ormai che (2) dei privilegi. Per quanto sembri peggio che paradossale, l’apriorismo e spiritua­ lismo in genere rivela ormai una (3) singolare impotenza assiologica’. non riesce cioè a permeare veramente di valore o univer­ salità la natura, la materia, il particolare: già la sola presenza, incontestabile, del cosiddetto « egoismo borghese », la cui ideo­ logia o ragione intellettuale è appunto una filosofia aprioristica, sta a dimostrarlo. Ma veniamo all’elaborazione, ben più complessa e filosofi­ camente raffinata, dell’umanitarismo nel moralismo o teoria kan­ tiana della ragion pratica o morale in quanto ragion pura.III.

III. Critica del moralismo (Kant)

Dobbiamo vedere se {’impotenza assiologica, valutativa, suac­ cennata, caratterizzi ormai — cosa che a tutta prima sembra assurda — anche la morale di colui che passa per lo (4) scopritore dell’imperativo morale per eccellenza: l’imperativo morale come imperativo categorico, cioè incondizionato, assoluto, — in quan­ to dettato da una ragione che « comanda per sé e indipendente­ mente da tutti i fatti ciò che deve avvenire ». Che cosa in apparenza sembra più razionale e però più umano della richiesta kantiana di riconoscere che « nel mondo, 255

e anche fuori del mondo, non c’è niente che possa incondiziona­ tamente esser tenuto per buono se non la buona volontà »? Se non, cioè, « la volontà ch’è buona per se stessa, in quanto ha la forma della volontà buona, essendo volontà puramente razionale o universale ossia volontà della pura forma »? Se non, insom­ ma, la volontà volta « verso fini universali », invece che verso questo o quello scopo o oggetto particolare, accidentale, in cui starebbe allora la bontà, ma una bontà apparente perché acci­ dentale, mutevole? Eppure, quali che siano i meriti, certo note­ voli, acquisiti per il passato, di questa classica teoria morale, bisogna avere il coraggio’ di riconoscere che, anch’essa, ha fatto il suo tempo, proprio perché la razionalità che teorizza è troppo astratta e irreale per essere umana, per poter essere sinonimo di umanità. Non si equivochi: non vogliamo dire affatto ch’essa, come si può pensare e in fondo si pensa da tanti (analogamente a quanto si pensa ancora dai piò, anche filosofi, della « essenza » della morale della « caritas »), ch’essa è troppo « alta », troppo « sublime », perché l’uomo ne sia capace o degno. No: si vuol dire semplicemente che il moralismo kantiano, e moderno in ge­ nere, si rivela oggi un contributo inadeguato alla formulazione di quei valori umani che almeno come valori specificamente morali ci impegnano in primo luogo; e che, essendo inadeguato, è da rifiutare, senza indulgere a sogni di un purismo morale che, come pressoché tutti i purismi, è, nel caso migliore, una retorica che si crede innocente. Ma vediamo, innanzi tutto, i presupposti generali dell’« im­ perativo categorico ». Secondo Kant, l’uomo, « in quanto essere morale » o « per­ sona », è « homo noumenon », appartiene cioè al sovrasensibile, al mondo intelligibile o puramente razionale-, e in questo senso è « ente razionale » e « io vero » (nur als Intelligenz das eigentliche Selbst), ché l’uomo come semplice animal rationale non è invece che l’« homo phaenomenon », l’uomo fenomenico o in­ dividuo empirico, economico. Per ciò il bene morale non può esser costituito che dalla « rappresentazione della legge in se stessa », il che ha luogo, appunto, in un « ente razionale » (puro), in quanto in esso « solo tale legge [ o puro universale o intelli­ gibile] e non un effetto sperato dall’azione [o particolare o feno­ meno, che si dica] è la determinante del volere [morale] »: ossia 256

in quanto la volontà è determinata dalla « rappresentazione im­ mediata della legge », dall’universale puro. « Ma quale può dunque essere — si chiede Kant — questa legge, la cui rappre­ sentazione, senza riguardo all’effetto, deve determinare la volontà perché questa possa esser detta buona assolutamente e senza restrizione? Poiché ho eliminato dalla volontà tutti gli impulsi, che potrebbero essere esercitati in essa dai risultati dovuti alla osservanza d’una legge [determinata] qualsiasi, non resta che la conformità universale e generica delle azioni alla legge, che possa servire di principio alla volontà: in altri termini, io devo sempre condurmi in modo che io possa anche volere che la mas­ sima da me seguita diventi una legge universale. Qui è la semplice conformità generica alla legge (senza prendere per fondamento una legge determinatamente diretta a certe [particolari] azioni), che serve di principio alla volontà, e deve servirle di principio, — se il dovere non è un sogno vano e un concetto chimerico.» Si sono determinati cosi i concetti equivalenti di « inte­ resse disinteressato », di « intenzione », di « volontà buona » o doverosa. « Un interesse — dice Kant — è ciò per cui la ragione diventa pratica »: ossia ciò per cui essa « determina la volontà immediatamente », come si è detto. E « l’intenzione » è « fon­ data in modo sovrasensibile » nel puro intelligibile, si che la « virtu » per eccellenza è quella che, « come intenzione costante di compiere tali azioni per dovere, per la loro moralità [il « do­ vere per il dovere », l’universale per l’universale!], è detta virtus noumenon », virtù numenica, cioè intelligibile. Come potrebbe altrimenti, si chiede Kant, aver un senso filosofico l’« uomo nuovo » paolino, che « nella sua nuova intenzione [come essere intelligibile) è moralmente un altro agli occhi di un giudice divino per il quale l'intenzione sta al posto dell’azione »? Que­ sta, notiamo, l’« interiorità » kantiana e di tipo aprioristico o teo­ logico in genere: questa insidenza originaria, cioè immediata, indimostrata, del valore o universale nell’individuo, con la con­ seguenza di una svalutazione radicale dell'esteriorità, dell’azione, di quella presa del mondo, in genere, che costituisce l’ente umano in quanto ente mondano, storico. Questa l'astratta interiorità tradizionale, platonico-cristiana. Ma, continuando, quando la ragione prende un interesse im­ mediato all’azione? « La ragione — risponde Kant — non prende un interesse immediato all’azione se non quando la validità uni­ versale della massima di tale azione è un sufficiente principio di 257

determinazione della volontà. Solo un interesse di questo genere è puro, è un interesse disinteressato [« un prender interesse senza però agire per interesse » ]. Ma quando la ragione non può determinare la volontà che per mezzo d’un oggetto del desiderio, o supponendo un particolare sentimento del soggetto, allora essa prende all’azione soltanto un interesse mediato », e questo in­ teresse, ch’è « empirico e nient’affatto un puro interesse di ra­ gione », non è morale, non ha nulla a che vedere con la volontà « buona »: non può tradursi che in un « imperativo ipotetico », che esprime che l’azione è buona « soltanto condizionatamente », cioè « in vista di qualche scopo [particolare] », ma non già in quanto « oggettivamente necessaria in se stessa, senza riferimento a uno scopo qualsiasi [particolare] ». Di conseguenza, la formula più semplice dell’« imperativo categorico » o « comando assoluto » ch’è l’imperativo morale suona nelle parole famose cosi: « Agisci unicamente secondo la massima che tu puoi volere ad un tempo che divenga legge universale ». Esempio: della massima d’azione, che prescriva la non restituzione di un deposito affidatomi senza prova ch’altri possa esibire, non può esser fatta una « legge pra­ tica universale », perché un tale principio d’azione « come legge » distruggerebbe se stesso, in quanto « farebbe si che non vi sarebbe affatto alcun deposito », cioè alcuna proprietà. Parimen­ te si dica per una « falsa promessa » e cosi via. La debolezza di questo moralismo kantiano, di questo puri­ smo etico, non risiede veramente dove l’ha vista la tradizione etica postkantiana, romantica e sedicente storico-dialettica, da Schiller a Croce. Non risiede (per soffermarci sull’obiezione più corrente) in un rigorismo morale, in un astrattismo, che sacrifi­ cherebbe l’individuo, la passione, il « concreto » edonistico. In questo, se mai, sta il suo relativo merito storico, di correttivo polemico dell’edonismo e empirismo morale illuministico, e si intende di correttivo interno all’illuminismo, il cui principio del « sapere aude », o « abbi il coraggio di servirti del tuo intel­ letto », esso moralismo svolge coerentemente fino in fondo. Bensì la sua vera debolezza risiede in un diverso astrattismo, condiviso dagli stessi romantici e idealisti, dagli stessi suoi critici tradizionali: l’astrattismo d&Yì.’interiorità originaria del valore, del­ la persona originaria, metastorica. L’astrattismo di chi, conce­ pendo il costituirsi dell’individuo come persona per una inve­ stitura extrastorica del valore, intende separare la persona umana e la sua dignità e i correlativi diritti dal valore o universale che 258

solo la può realmente investire persona, dal valore o universale storico consistente nel genere o universale umano, cui appartiene l’individuo, e specificamente consistente nella comunità o società non metaforica o mistica degli interessi umani; onde, alla fine, la persona extrastorica, originaria, sarebbe un individuo privi­ legiato in quanto abnorme, cioè astratto, libero dalla norma del suo genere: e i suoi diritti originari, extrastorici, « naturali », nient’altro che giustificazioni ormai di privilegi reali, di fatto. Nonché sacrificare l’individuo, il moralismo kantiano (e idea­ listico in genere) lo esalta ed esaspera, dunque. Vediamolo atten­ tamente. Accade questo: che, se l’uomo è morale solo in quanto uomo numenico o puramente razionale, con l’esclusione perciò dell’uomo fenomenico o individuo empirico, interessato, econo­ mico; l’uomo, cioè l’individuo umano, non potendo contare, nella sua azione, per l’assunto del « dovere per il dovere », ossia universale per l'universale, ch’è l’assunto pratico di un ente puramente razionale quale vuol essere, non potendo contare dun­ que sui suggerimenti empirici, provenienti cioè dall’esperienza pratica del mondo pur umano, storico, che lo circonda coi parti­ colari, circostanziati, problemi di convivenza, è costretto ad agire secondo una norma di idealizzazione assoluta dogmatica dei pro­ pri moventi, che non può avere come proprio contenuto inelimi­ nabile (una norma senza contenuto, ossia che non dica nulla, è un nonsenso) nient’altro in verità che l’individuo fenomenico, empirico, economico, nella sua immediatezza-, cioè quell’uomo fe­ nomenico, particolare, che, proprio in quanto doveva essere sacri­ ficato all’uomo numenico, razionale-puro, per ottenerne l’uomo morale, non solo permane, per l’istanza ineliminabile che ci ha da essere un contenuto della forma o norma, ma permane come contenuto o particolare non mediato o unito con la forma o uni­ versale, non veramente investito o modificato dalla norma, perché questa, come norma di idealizzazione o universalizzazione asso­ luta, dogmatica, non criticamente controllata sul mondo umano, sociale perché storico, lo ha trasceso, ed esso contenuto o parti­ colare resta come contenuto immediato, come uomo fenomenico o economico astratto, abnorme, asociale. In altri termini si potrebbe dire che la purezza dell’univer­ sale aprioristico, intemporale, della « legge morale » puramente formale, nella fattispecie, manifesta la propria impotenza a supe­ rare la gratuità del particolare-temporale, o contenuto, da essa stessa provocata col trascenderlo-, e che però l’istanza genuina 259

dell’universale come criterio funzionale o unificante un molte­ plice, l’istanza unitaria genuina, nella simulazione che ne è essa purezza, si degrada con {'oscillare continuo dalla disumana purezza dell’universale-intemporale alla sorda grettezza (troppo o troppo poco umana!) del particolare-temporale inassorbito, non mediato (perché trasceso) e viceversa da questa a quella. Si spie­ gherebbe così il famoso « utilitarismo » kantiano: quell’inopinato, « surrettizio », utilitarismo in cui si rovescia il rigorismo: si spie­ gherebbe in quanto utilitarismo teologico, cioè utilitarismo provo­ cato da una fondazione trascendentistica, aprioristica, astratta, del valore morale. Si pensi, dunque, all’apprezzamento utilitario, economico, delle « conseguenze » della violazione della tanto rigida legge mo­ rale, nell’esempio del deposito affidatomi: che così non ci sarebbe più deposito al mondo, non ci sarebbe più proprietà sicura. Ma si pensi non solo all’astrattezza e falsità e immoralità della richiesta kantiana (se il titolare del deposito fosse impazzito, o fosse un nemico della comunità, sarebbe doveroso non restituire il deposito, e così via), bensì si pensi al motivo non casuale, alla ragione intrinseca di tale astrattezza e immoralità: al concetto kantiano stesso della legge morale, per cui l’assolutezza della legge provoca con la propria astrattezza (con la propria « immediatez­ za ») la astrattezza e rigidità del suo contenuto o particolare, che, in quanto trasceso da tale legge, resta appunto inassorbito o im­ modificato da essa, ma perciò surrettiziamente, nascostamente, vi­ ziosamente presente: in questo caso come istinto cieco asociale di proprietà. Così si dica per il caso della « falsa promessa » (quante volte una falsa promessa può essere di stretto dovere?), per il caso della « menzogna » in genere, al cui proposito Kant molto candidamente afferma che essa « non ha bisogno di esser dan­ nosa agli altri per esser condannata »; e così via. Così si comprende anche, si spiega, la coerenza interna del rigoroso giusnaturalismo di Kant: il principio dell’« entra (se non puoi evitare la società) in una società cogli altri tale che in essa ognuno possa conservare ciò che gli appartiene » (ecco i « dirit­ ti » come « diritti naturali », apriori, o privilegi peculiari della persona originaria, presociale, preistorica). Si spiega il concetto puramente negativo, formale, del diritto, per cui « ogni diritto consiste unicamente nella limitazione della libertà di ciascuno », ch’è il concetto appunto (secondo le parole del kantiano Marti­ netti) di un « regno della libertà esteriore in vista del regno della 260

libertà interiore », cioè, sappiamo, in vista della libertà astratta ch’è la libertà (originaria) della persona dotata di una « interio­ rità » (dei valori) originaria, apriori. Si spiega il postulato fon­ damentale dell’« eguaglianza innata, vale a dire Vindipendenza » (al cui proposito si ammetterà ch’è definizione ben artificiosa del­ l’eguaglianza quella che la riduce senz’altro alla sua antitesi, alla libertà!), nonché si spiega che la società ideale sia un « regno dei fini in sé » (che sono gli « esseri razionali », kantianamente intesi quali enti puramente razionali, e però morali): come dire un aggregato di monadi, non certo una società o comunità degna del nome. Superfluo aggiungere che questo narcisismo etico, ch’è tale in quanto narcisismo spirituale, o dell'interiorità astratta, svaluta radicalmente il lavoro, questa tipica mediazione dell’interiorità con la esteriorità, che ci immette nel mondo umano o della conviven­ za, e lo svaluta a favore delle virtu, di cui il valore consiste non negli « effetti », non nell’« utilità » che producono, ma nelle « in­ tenzioni »: « l’abilità — egli dice — e la diligenza nel lavoro hanno un prezzo di mercato [Marktpreis] [...]; per contro la fedeltà alle promesse, la benevolenza per principio [non la benevolenza istin­ tiva] hanno valore intrinseco [innern Wert] ». Con ciò si vede in che consista propriamente e finalmente la kantiana Wiirde des Menschen, la « dignità dell’uomo », se con­ siderata nel sistema kantiano (1 ) : essa non è (2 ) che la dignità delYuomo borghese-, in quanto l’obbligazione verso l’« umanità nella persona », che ha da essere il riconoscimento pratico, doveroso, di tale dignità, non è che obbligazione verso l’essere intelligibile o razionale-puro, nostro e altrui: non è cioè che obbligazione di « veracità », « rispetto » e « amore » verso l’umanità in una per­ sona astorica, asociale, e però disumana, la cui dignità, infatti, è la dignità dell’interiorità pura, astratta dall’esteriorità e monda­ nità ch’è la convivenza o socialità tipica del lavoro, ossia la storica comunità del genere o universale o valore umano. Onde la morale del dovere per il dovere, o deW universale per l'universale, il mo­ ralismo, è la morale non dell’uomo umano, totale, ma dell’uomo parziale ch’è l’uomo-di-classe come uomo comune-borghese. L’uti­ litarismo surrettizio in quanto teologico e il narcisismo etico in quanto spirituale ne segnano i limiti insuperabili, e il suo destino di morale classista, in cui culmina, infatti, l’« individualismo cri­ stiano », l’individualismo astratto tradizionale. 261

IV. Abbozzo di una teoria generale

Ora, se la situazione morale della nostra epoca consiste, come crediamo, in una crisi dell’uomo comune, cioè in una crisi di svi­ luppo (rivoluzionario) dall’uomo comune-borghese all’uomo co­ mune-lavoratore, sforziamoci, per quanto sta in noi, di vedere come possa concepirsi una morale che, per adeguarsi ai nostri bisogni ideologici, deve evitare le carenze delle dottrine umanitarie e moralistiche e idealistiche che hanno cooperato a condurci a questa crisi. Premettiamo che il Kant moralista ci lascia in eredità i se­ guenti problemi'. 1. quello della razionalità dell’azione morale e della sua massima (ed è la feconda suggestione problematica di Kant); 2. quello della necessità teorica e pratica di un contenuto (*) positivo, non sconfessato, della norma; ossia il problema di un dovere che sia interesse o bisogno e viceversa; 3. il problema, con­ nesso, dell’imperativo morale come imperativo ipotetico o tecnico, cioè imperativo che esprima che l’azione è buona soltanto in vista di qualche scopo determinato o interesse. (Problema implicita­ mente posto da Lenin quando osservò che le leggi morali sono « regole » simili a quelle seguite dal falegname che voglia costrui­ re una tavola.) Comprendiamo quanto possa riuscire ostica e suonare scan­ dalosa una impostazione cosiffatta dei problemi morali a quanti tengono ancor fermo, malgrado le lezioni dell’esperienza contem­ poranea, alla retorica del dovere-per-il-dovere etcetera; ma, per tornare sul punto principale, osserveremo intanto: che, se il non voler tener conto dei bisogni, degli interessi, della materia, nella nostra condotta morale, porta seco nondimeno, come si è visto, un sordo vizioso utilitarismo ineliminabile, tanto fa (ci conviene) che si guardi non dogmaticamente ma criticamente la realtà uma­ na e si tenga conto, regolandoci in conseguenza, della positività e ineliminabilità della materia, dell’interesse, del bisogno, quale coelemento fondativo anche dell’azione morale o doverosa. E passiamo a formulare molto rapidamente la nostra ipotesi generale-, dell’atto etico come atto di razionalizzazione o universalizzazione della massima (d’azione) in quanto atto di associazionesocializzazione della natura (interna e esterna). Notiamo subito che la volontà d’unione, che ha da costituire il momento associazione nell’atto etico ipotizzato, questa vo262

lontà non può esser intesa come pura volontà dell’universale, o volere razionale puro; se si vuole evitare quella sorta di miracoli­ smo della ragion pura pratica, con le sue gravi quanto insospettate conseguenze morali, in cui credeva Kant. Anzi, lo stesso fatto di aver assunto come momento dell’atto etico una volontà di unione fra uomini, cioè fra simili del proprio genere in quanto genere storico, mondano, naturale, significa che questa volontà, di cui parliamo, non può esser, per definizione, volontà razionale pura o volontà numenica, sovrasensibile, metastorica. Dunque, questa volontà di unione per esser volontà storica, per esser quello che è, non può essere, anzitutto, che volontà naturale, cioè fondata nella natura o materia o discretezza che si dica; non può esser insomma che volontà sentita dei singoli, volontà di singoli appunto: ossia passione, bisogno, interesse. Il filosofo empirista Locke aveva ragione contro la morale scolastica, e razionalistica in genere, quando diceva che senza personale disagio o bisogno o inquietudine, anche l’uomo più consapevole del valore della virtù, della giustizia ad es., non agirebbe mai giustamente: « finché egli — diceva Locke — non si senta inquieto della mancanza di essa, non potrà mai determinarsi ad alcuna azione [giusta] [...], ma qualche altra inquietudine, ch’egli sente in se stesso, venendo di traverso, trascinerà la sua volontà ad altro ». Ma Locke aveva poi torto nel credere che l’obietto dell’inquietudine come tale fosse « qual­ che bene assente », cioè qualcosa di pensato (come valore o bene), l’idea di un bene o valore, l’idea della giustizia nella fattispecie. Aveva torto, perché così veniva a perdere quella realtà o positività del bisogno (come tale) da cui aveva felicemente preso le mosse, e con essa veniva a perdere il vantaggio relativo: di poter render conto veramente dell’elaterio, della molla, del movente materiale, senza cui non c’è neanche azione giusta, e così vìa. L’elaterio, la molla, è infatti nell’individuo, è dell’individuo o particolare o di­ screto: è cioè non metaforico bisogno, interesse etc. Ma ammettere che l’idea, l’universale, condizioni (preceda) il bisogno, il parti­ colare, senza reciproca, è ammettere che il bisogno non sia che un mero simbolo, o pretesto o occasione, dell’idea, senza poterne es­ ser quindi l’individuazione, la realizzazione: onde l’idea, di giusti­ zia etc., non sarebbe mai attuata, sarebbe inefficiente proprio in quanto idea e norma. L’appetito di giustizia, che inclina ad am­ mettere Locke (anche l’empirista Locke!), è appunto un bisogno metaforico, inesistente come appetito o bisogno: non muove nulla, 263

non serve a far agire, perché non essendo un reale bisogno, come la fame etc., non concerne l’individuo che pure è esso solo in grado di agire. L’appetito di giustizia ci richiama quell’immaginario senti­ mento di rispetto della legge (morale), cui ricorse Kant nel tenta­ tivo di trovare un movente al compimento del dovere-per-il-dovere; sentimento che, non potendo essere « né piacevole né doloroso », per non ledere la razionalità pura dell’atto morale, non aveva nul­ la di ciò che costituisce propriamente un sentimento, una passione, un interesse, ed essendo esso metaforico rendeva altresi metaforico Vatto (morale) che esso era incaricato di fondare. Un filosofo em­ pirista più coerente di Locke, Davide Hume, tentò, col concetto delle « passioni dirette » o appetiti corporei, che non scaturiscono dal « piacere » o « dolore » (cioè dalle idee di questi, o idee di « bene » e di « male »), ma che li producono, tentò di correggere l’errore lockiano. Dunque, la nostra prima conclusione è che, se non si am­ mette l’indefettibilità o irriducibilità della istanza del bisogno, della materia, della natura, del particolare, resta inspiegabile qua­ lunque sorta di volontà (e di azione), anche la volontà « più ele­ vata »: nella fattispecie è inspiegabile la volontà di unione fra uo­ mini, che abbiamo assunto, all’inizio, come il solo tipo di volizione dell’universale, o volizione etica, criticamente accettabile per quan­ to si è detto. Allora è chiaro che la unione, l’associazione, umana non può, dalla volontà, esser cercata soltanto per se stessa, come idea o ideale, bensì è cercata innanzi tutto per soddisfare la volon­ tà come bisogno, per soddisfare dei bisogni, economico in genere: è cercata non direttamente (immediatamente), ma indirettamente (mediatamente), attraverso cioè il bisogno, i bisogni. Altrimenti dovremmo ammettere un appetito della società che equivarrebbe per astrattezza e irrealtà ^appetito di giustizia lockiano. Dobbia­ mo così ammettere che il bisogno o particolare, l’istanza ch’esso rappresenta, è fondativo dell’idea o universale, dell’istanza di que­ sto: ch’esso cioè fonda l’universale in se stesso bisogno, nel senso che lo individua e realizza, sia prima che dopo del manifestarsi (psicologicamente) dell’istanza dell’universale come « dovere ». Altrimenti non c’è mediazione del particolare con l’universale, non c’è passaggio reale dall’uno all’altro; non c’è passaggio altro che apparente e vizioso, come l’utilitarismo surrettizio, in cui si rovescia il moralismo o rigorismo kantiano (col suo concetto ne­ gativo del bisogno o particolare), ci ha rivelato. Il passaggio ha 264

da essere nel bisogno stesso, nella dinamica, diciamo, della sua positività. Vediamo, dunque, all’opera la virtu fondativa, che ha l’istan­ za del bisogno o particolare, rispetto all’istanza del dovere o ideale o universale. Quest’ultima istanza è, in concreto, cioè nella sua sintesi con quella del particolare, istanza del trascendimento del bisogno o particolare. Ora dobbiamo chiederci che cosa possa si­ gnificare criticamente il trascendimento del bisogno nel caso (-li­ mite) che ci occupa: nel caso della materiale o interessata volizione universale ch’è la volontà di unione o associazione. Ma questo equivale a chiedersi in che consista propriamente la naturalità del­ l’uomo, ossia la sua (per usare l’espressione marxiana) « deter­ minazione naturale ». Nella sua pregnante indagine circa la socialità come universa­ lità non dogmatica, Marx ci suggerisce che « il rapporto dell’ uomo all’altro uomo è immediatamente [cioè contemporaneamente] il suo rapporto alla natura, la sua determinazione naturale » e vice­ versa: ci suggerisce insomma che l’unione fra uomini, l’associazione umana, ch’è poi l’istituzione di un universale reale, non dogma­ tico, è mediata dalla natura-, come viceversa la nostra umana unione con la natura è mediata dall’associazione nostra (non dal­ lo spirito o autocoscienza!). Dunque, che significa veramente questa determinazione na­ turale dell’uomo? La risposta a questa domanda è la risposta ad un tempo al quesito del trascendimento del bisogno, cioè della natura, e la soluzione del nostro problema fondamentale: à&W’atto etico come atto associante-socializzante. Quella « determinazione » significa semplicemente che l’uomo (nel e per Punirsi all’altro uomo) deve « controllare » la natura, interna e esterna, e però regolare, limitare, il bisogno, l’interesse, gli strumenti etc.? Non significa solo questo; per significare que­ sto, bisogna che sottintenda dell’altro. Come potrebbe l’uomo con­ trollare la natura, se non fosse egli stesso natura? se la sua volontà non fosse interessata, materiale, naturale? Ora, la ineliminabilità o positività suaccennata dell’istanza del bisogno (umano!), cioè della natura, ci permette di affermare che il « controllo » della natura, sia interna che esterna, sia « soggettiva » (bisogni etc.) che « oggettiva » (strumenti etc.), si presenta, anzitutto, come esercitabile, eseguibile, col concorso della natura stessa, del biso­ gno, dell’interesse, della passione (nel senso piu lato). L’empiri­ smo classico ci soccorre ancora, col principio: che senza passione 265

non si vince passione. È la « passione calma », non la « ragione », che « domina » la « passione violenta », diceva Hume; e conclu­ deva che « nessuna azione può esserci richiesta come nostro do­ vere, se non è in noi qualche attivo affetto capace di produrla ». La dinamica della positività della natura, del particolare, si riassu­ me in questo inevitabile sostituirsi di passione a passione, di bisogno a bisogno, di interesse a interesse etc., in questo continuum della passionalità, insomma in questa passione limitata in quanto limitantesi. Ma ciò non basta. In quanto, essendo il bisogno etc., per de­ finizione, il particolare o discreto, ogni bisogno, cioè questo o quel bisogno, ne incontra altri o di altri, la cui presenza significa per esso la sua de-limitazione come suo co-limitarsi. Nel senso che, non potendo esser la presenza degli altri bisogni che quella com­ presenza- loro ch’è all’ingrosso la co-scienza o socialità (in quanto dialettica della convivenza), da un lato, senza co-limitazione cioè senza trascendimento sociale del bisogno, e relativo controllo, non c’è reale bisogno e manca la specifica condizione del suo co­ stituirsi come bisogno « umano »; e, dall’altro lato, per la dina­ mica della positività del bisogno stesso, la co-limitazione di questo, il suo controllo insomma, non può esser che un co-limitarsi, che un con-correre da parte propria, e per soddisfarsi, alla limitazione di sé, fondando, in se stesso bisogno, la co-scienza o socialità, cioè individuandola, realizzandola. (E vedi, al proposito, la Nota finale.) Questo co-limitarsi del bisogno, che si è appena accennato, è la determinazione naturale dell’uomo, che cerchiamo. Questo è appunto coimplicato nell’istanza del trascendimento del bisogno; trascendimento che, per tutto quel che precede, o è sociale, e però storico, o non è. Ma l’istanza del trascendimento in genere è l’istanza dell’universale, ch’è poi l’istanza del dovere. Dunque: il co-limitantesi bisogno, interesse etc. si svela come interesse-dovere: in quanto propriamente dovere associativo. E questo è, final­ mente, la volontà d’unione fra uomini, la volizione non mitica dell’universale, che si cercava: è atto assodante che, per esser tale, non può non essere atto socializzante la natura interna e esterna, — in quanto è precisamente trascendimento sociale della natura come quel co-limitantesi bisogno, interesse etc, ch’è insomma interessedovere. E s’intende. Uuniversalizzazione o razionalizzazione della massima d’azione, in cui consiste la volizione dell’universale o etica, il dovere, non può essere, per la critica precedente, 266

che universalizzazione di un particolare-contenuto positivo (per evitare un contenuto vizioso in quanto negativo e gratuito): perciò non può essere che socializzazione. È, infatti, proprio l’istanza della positività della natura, del particolare, espressa nel co-limitantesi bisogno, interesse etc., che fonda, per sod­ disfarvi se stessa, quell’afltó o universalità storica, temporale, ch’è una comunità o società (essa istanza veramente non può es­ sere fondamento che di una cosiffatta unità, la sola, del resto, non mitica): e però l’universalizzazione o unificazione della massima d’azione, la doverosità di questa, richiesta dall’istanza del trascen­ dimento del bisogno, in cui è coimplicato il fondante bisogno stesso come (co-) limitantesi, tale universalizzazione non può con­ sistere che nella funzionalità sociale della massima, che nel socia­ lizzarsi dell’azione particolare, cioè del bisogno o interesse: tra­ passo qualitativo da questo al dovere come dovere storico, sociale. E, d’altra parte, tale dovere o forma, avendo quel contenuto non surrettizio, non immediato e gratuito, ch’è il contenuto riconosciu­ to espressivo della positività del bisogno, del particolare, della natura, manifesta, proprio per ciò, la sua unitaria o formale effi­ cacia: la manifesta come atto di universalizzazione che è tale solo in quanto atto associativo-wcza&wwte e non già atto associativonumenico. Ma, si chiederà, il dovere associativo è veramente dovere, cioè formai Si risponde che non può non esserlo, in quanto consiste in quell’atto di universalizzazione o razionalizzazione del­ la massima d’azione per cui l’individuo si fa persona col farsi mem­ bro — cioè parte organica e istituzionale — di cpxeiVuniversale o unità vivente reale che è una comunità o società degna del nome: universale veramente « concreto », quello che precisamente non possono essere, in quanto pseudo-comunità, né lo Stato democra­ tico contrattualistico russoiano, né l’ideale « regno dei fini in sé » kantiano, e neanche lo Stato etico hegeliano, che suppongono una pseudo-persona in quanto persona pre-costituita (alla società), ossia originaria, astratta, abnorme (il paradosso cristiano della « parte maggiore del tutto »!). Così si vede (in questa verifica finale della nostra ipotesi generale) che la persona o è persona storica, sociale, e però si fa Vuomo (con la società) e non già è apriori-, oppure non è. Ma occorre insistere sulla sintesi di interesse e dovere, per comprendere quella complessità dell’atto etico, come d’ogni altro atto umano, che resta nascosta alla mentalità tradizionale, aprio­ 267

ristica e idealistica e però unificatrice e semplificatrice grossolana; per comprendere come, nella fattispecie, il farsi l’individuo per­ sona in quanto membro ossia parte organica dell’universale (con­ creto) ch’è una comunità in senso proprio dipenda sia dall’inte­ resse o bisogno del singolo, dalla sua dinamica, che dal suo « sen­ so del dovere» o dell’universale. E che, invece, quando si asse­ risca, col moralismo, con la morale del dovere-per-il-dovere, che il primo, l’interesse, ha da essere assente, accade — proprio per il ritorno della natura espulsa, ossia per la presenza viziosa, surret­ tizia, dell’interesse gratuito, non-mediato dall’apriori — che l’in­ dividuo diventa un fine in se stesso, una parte ch’è maggiore del tutto, e non si ha che comunità ossia valore apparente. Non, dun­ que, il dovere per il dovere, ossia l’universale per l’universale, bensì il dovere per l’interesse, o l’universale per il particolare, e viceversa. L’osservazione della vita quotidiana nei suoi aspetti più banali ci mostra già, saputa guardare senza dogmatismi, ciò che ci rivela, in modo esemplare, il caso-limite che ci occupa, dell’azione etica per eccellenza (possibile soltanto in una società socialista) (1 ). Giacché, se è vero (come sa chi abbia appena sentito il fastidio dell’astrattezza del moralismo) che il dovere senza interesse alcuno non può esser neanche dovere, è vero altresì che l’interesse che non si solleva a dovere non è positivamente interesse, è interesse inesistente. Sei incapace di sacrifici per la tal cosa, dunque non ti interessa veramente, sentiamo dire ogni giorno. E, tuttavia, il senso profondo di questa banalità solo apparente ci sfugge se non si tiene fermo che quando ci sacrifichiamo o « controlliamo » per un dato interesse, il sacrificio, il dovere, che così compiamo, trascende l’interesse A, lo annulla, fondandosi in un interesse B, sostituitosi al primo; e che, soprattutto, questo dovere è inscin­ dibile dal suo contenuto (l’interesse B) e pur non si confonde con esso, ma ne resta qualitativamente distinto. È la complessità in­ negabile della esistenza umana (che nessun monismo, materialistico o idealistico che sia, riuscirà mai a spiegare) (2): la complessità di questo com-posto di materia e coscienza, di particolare e universa­ le, entrambi parimente positivi e reciproci. « Le condizioni [l’eco­ nomico, la materia] — diceva il Marx filosofo — fanno tanto gli uomini [cioè la loro coscienza] quanto questi le condizioni. » È il « rovesciamento pratico » (Marx) ch’è l’uomo in quanto « ente generico-naturale » (Marx). Onde, nella fattispecie, è vero che {'interesse, il contenuto, 26R

non è lo stesso che il dovere, la forma, ma ciò è vero non solo negativamente, in quanto il dovere, in nome dfXt’unità sociale che rappresenta, può annullare la natura, l’interesse, ma altresì posi­ tivamente, in quanto questo sacrificio è concesso, sulla istanza del dovere, dall’istanza stessa dell’interesse, che da sola a sua volta non può soddisfarsi mai. Se ora riconsideriamo le pregnanti formule marxiane della universalità-socialità, troveremo che il dire che « il rapporto del­ l’uomo all’altro uomo è immediatamente [contemporaneamente] il suo rapporto alla natura, la sua determinazione naturale » si­ gnifica che la socialità dell’uomo esprime veramente l’umanitàuniversalità dell’uomo solo in quanto essa socialità sia al contem­ po determinazione naturale dell’uomo, della sua coscienza, cioè socializzazione di bisogni, interessi, strumenti, attività ch’è stori­ cità-temporalità; così come il dire viceversa che « il rapporto del­ l’uomo alla natura è immediatamente [contemporaneamente] il suo rapporto all’altro uomo », significa, infine, che non solo il « la­ voro » in genere (come tipico fondamentale rapporto umano-natu­ rale), ma altresì il bisogno, l’interesse etc., insomma ogni determina­ zione naturale dell’uomo, della sua coscienza, è contemporaneo rivelarsi della sua umanità-universalità come socialità e però atti­ vità storica, temporale, attività non metaforica.

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Nota finale (1948)

Fra la prima edizione e la seconda i primi due capitoli del volume attuale, stampati, nel 1947, assieme ai saggi di traduzione da Marx (dalla Critica del diritto statuale e dai Manoscritti economico-filospfici), sotto il titolo di Marx e lo Stato moderno rap­ presentativo, non hanno, crediamo, perso d’interesse, ma ne hanno guadagnato, forse, a giudicare dalle seguenti considerazioni. In quanto al primo, la sua utilità come « introduzione ad alcuni problemi (fondamentali) di filologia marxista » ci pare confer­ mata, se non altro, dall’essere una sorta di risposta avanti-lettera alle obiezioni dei critici « raffinati », schifiltosi, della dialettica materialistica: ieri di un Sartre (cfr. sopra, p. 137, nota 2), oggi di un Croce: vedi Quaderni della « Critica », novembre 1948, n. 12, pp. 68 sgg.: Come intendevano la dialettica il Marx e l’Engels nel 1877. Precisamente la forza di tale risposta sta nel richia­ marsi (il che, se non erriamo, non si è fatto finora) a quella critica marxiana della dialettica hegeliana in quanto « mobile mistificato » che ci sembra la migliore chiave ideologica per entrare direttamen­ te e sicuramente nella teoria della dialettica materialistica e nelle sue peculiari ragioni. Ora, il Croce, anche lui, pare che ignori qui tale critica, e, tuttavia, presuma di poter sbrigarsi della dialettica engelsiana Antidiihring in quattro e quattrotto e seppellirla con ironia finale. Cosi, mentre indugia ad arte sui noti « esem­ pi » (la parola è di Lenin) della « negazione della negazione » nel caso della semina del granello di orzo etc. etc., tace sugli avverti­ menti critici in proposito dell’Engels memore della scoperta mar­ xiana della « mistificazione » della dialettica hegeliana e però desideroso di non ricadere a sua volta nel « modo surrettizio con cui i metafisici alterano la dialettica »: e vedi sopra, pp. 137-8, 139270

40, i passi engelsiani, di spirito marxiano, omessi interamente dal Croce. (Per un altro saggio della spensierata critica crociana, si veda il libello: Come Marx fece passare il comuniSmo dall’utopia alla scienza, 1948, e ad es., a p. 27, la spiritosaggine della « pas­ sione papillonne » contro la critica marxiana della « divisione del lavoro » e per la difesa — non richiesta — della « specializzazio­ ne »: e però si pensi allo stachanovismo, al cui proposito vedi la nostra cit. Libertà comunista, pp. 113 sgg. (*).) La stessa risposta vale per altri critici, meno passionali del {2) Croce ma parimente ignari della scoperta marxiana della « mistificazione » dialettica hegeliana e però dei conseguenti criteri di una rigorosa teoria della dialettica materialistica: ad es., Emil J. Walter, Der Begriff der Dialektik im Marxismus, in Dialectica, Neuchatel, 1948, I, 1, pp. 69-70; Charles De Koninck, Notes sur le marxisme, in Lavai théologique et philosophique, Quebec, 1945, I, 1, pp. 196-7 spec. Circa poi la letteratura finora nota (Haldane, Prenant etc.) sul problema dei rapporti del materialismo dialettico con le scienze, con la biologia etc., il giudizio di insoddisfazione di chi scrive, in proposito, è già implicito in quanto si è ragionato sopra, a pp. 136 sgg. Una riprova della grande confusione in materia ce la fornisce l’ultimo scienziato, seguace del Prenant, Georges Teissier, della Sorbona, che si è occupato della « place que doit tenir dans la biolo­ gie la logique de la contradiction » (nel saggio: Matérialisme dialectique et biologie, Paris, 1946). « Bonds et crises, — egli dice, — passage du quantitatif au qualitatif, ces faits en quoi se résumé la conception dialectique du développement, sont ceux-là mémes, qui caractérisent les metamorphoses [sic]. Le tétard devient grenouille en perdant sa queue [...]. Cette crise est préparée chez le tétard par le développement graduel d’une glande, la thyroide [...]. C’est done bien dans ce cas l’accumulation de changements quantitatifs graduels — ici l’accroissement de la quanti té de thy­ roxine — qui produit un changement qualitatif rapide, la meta­ morphose » (p. 13, corsivo sempre nostro). Dove è chiaro (o almeno dovrebbe esserlo): 1. che lo «sviluppo», nel senso preciso di « cangiamento », ch’è la « metamorfosi », nella fatti­ specie, del girino in rana, è un fatto o, come non può non ricono­ scere il nostro biologo, un fenomeno « en effet lié à une certame concentration d’une substance spécifique secrétée par la thyroide, la thyroxine », tanto è vero che, « si par un artifice experimental on augmente ou Fon diminue cette concentration, la metamor­ phose est accélérée ou retardée »; 2. che, in conseguenza, come 271

fatto reale, scientifico, sperimentale, la metamorfosi, lo « svilup­ po » in questione, implica, per il suo accertamento e convalidamento, il principio antidialettico di non-contraddizione, cioè una affermazione-«é’g