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Italian Pages 219 Year 2010
Alberto Caracciolo
Nulla religioso
e imperativo dell’eterno Studi di etica e di poetica
il melangolo
A distanza di vent'anni dalla morte dell’autore il melangolo propone una nuovaedizione di Nulla religioso e imperativo dell'eterno, l’ultimo libro di Alberto Caracciolo, figura tra le più appartate e più nobili dellafilosofiaitaliafta del secondo Novecento. Si riferisca ai classici del pensiero filosofico o mediti la parolaportata dai poeti, Leopardi o Keàts, Caracciolo proponein quest’ultima raccolta di saggi l’unico tema che domina da semprela sua riflessione:il religioso, il suo spazio, il suo rapporto con l’etico e conil poetico, chiudendoad anello un camminodi pensiero lungo unavita. Ascoltando l’originaria parola sotericachefiltra, unae diversa, nei distinti modi dell’esistere, egli incontra qui, sotto il nomedi imperativo dell'eterno, l’a priori ontologico ed etico che dominalo spazioreligioso del Nulla, lo spazio di Dio o del divino. La coerenzache connotaletensioni dell’ultimo, compositolibro,
nonè quella del freddointelletto analitico; è la coerenza di un’esistenza che, vincolata al principio della libertà e all’imperativo dell’eterno, vissuta e pensata fino in fondo,si apre ognivolta alla “verità” del paradosso. ALBERTO CARACCIOLO (S.Pietro di Morubio, Verona, 22-1-1918 - Genova, 4-101990) è stato professore ordinario di Estetica, Filosofia della religione e Filosofia teoretica presso l'Università degli Studi di Genova.
Tra le sue opere ricordiamo: L'estetica e la religione di B. Croce (1989), Studi jaspersiani (1958, 20062), Karl Lòwith (1974), Teresio Olivelli (1975?), Pensiero contemporaneo e nichilismo (1976), Studi heideggeriani (1989), Leopardi e il
nichilismo (1994), Studi kantiani (1995). Nelle collane de il melangolo sono comparsi: Nichilismo ed etica (1983), Religione ed eticità (1999), La religione come struttura e come modo autonomodella coscienza (2000?).
Copyright © 2010,il nuovo melangolos.r.l. 16123 Genova, Via di Porta Soprana 3-1 www.ilmelangolo.com ISBN 978-88-7018-788-5
INTRODUZIONE
I.
L'ultima raccolta nell’opera complessiva.
A distanza di vent’anni dalla morte dell’autore, che fu il 4 ottobre 1990, e dalla pubblicazione, nel giugno di quell’anno, di Nulla religioso e imperativo dell'eterno, non mi sarei risolto a curare una nuova edizione del libro se non fossi convinto che le pagine di Alberto Caracciolo — figura tra le più nobili e schive della filosofia italiana del secondo Novecento — parlano, suggeriscono e ispirano, nel consenso e nel dissenso, anche a distanza di tempo: forse per essere nate lontano ma non fuori dai clamori del momento; forse per una sorta d’inattualità permanente che è il segno della vera filosofia; forse per essere Caracciolo, come amavadire di sé, «troppo religioso per i laici e troppo laico peri credenti»!. Anche quando medita la parola portata dai poeti, Leopardi o Keats, Caracciolo propone nel suoultimo libro l’unico tema che domina da sempre la suariflessione — il religioso, il suo spazio,il suo rapporto con l’etico e con il poietico — chiudendo ad anello un camminodi pensiero lungo unavita. Lo confermanogli scritti confluiti nella raccolta, che coprono un arco di tempo sorprendentemente lungo. Trent'anni corrono infatti tra le pagine del saggio Sul rapporto religione-morale, stese nel 1959 e pubblicate in rivista nel 1960, e quelle degli ultimi scritti — Ora religiosa e ora di religione, Leopardie il nichilismo, Esistenza e Trascendenza in Karl Jaspers, Nulla religioso e imperativo dell'eterno — pubblicati tutti tra il 1989 e il 1990.
1. Su di luisi veda, in primo luogo, la magistrale biografia intellettuale scritta dal migliore tra i suoiallievi: G. MORETTO, Filosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo, Morcelliana, Brescia, 1992.
In linea conle riflessioni di Schleiermacher e di Troeltsch sull’ausonomia del religioso, che non pregiudicano ma confermano l’intuizione kantiana di un nesso d’implicanza reciproca tra eticità e religione, il filosofare di Caracciolo s’inscrive in quella vasta corrente di pensiero moderno europeo che, per avere affermato l’indissolubile vincolo di religiosità e libertà, ha coerentemente sottratto il nucleo originario dell'esperienza religiosa alle chiusure confessionali e agli irrigidimenti dogmatici, non menoche agli usi politici, ideologici o comunque strumentali che sempre si sono fatti e si farannodelle religionipositive e della credulità degli uomini?. Ma proprio per avere a cuore la jaspersiana Liberalitàt, Caracciolo ripudiava fermamente ogni «ismo»,fosse ancheil Liberalismus?. Per l’insistenza sulla centralità del singolo, che non è maiunio irrelato e senza mondo, ma harealtà solo «nel radicamento, nella comunione,nell’aper-
tura cosmici»; per l’insistenza sull’irriducibile realtà e l’insopprimibile valore dell’individuo, che di fronte alla costitutiva insufficienza propria e del mondo, di fronte al malum mundi, non può soffocare un anelito al trascendimento e alla salvezza, egli era vicino alle filosofie dell’esistenza e al pensiero storico ‘ problematicoe critico. All’espressioneforse in lui più consueta, malum mundi, segno di una negatività strutturale mai davvero dissociabile dai mala in mundo, esperibile solo in essi ma ad essi logicamenteirriducibile e assimilabi2. Per questo fondamentale motivo rinvio al saggio Principio della libertà e principio della confessione nell'itinerario religioso (1968), in A. CARAccIOLO, Religione ed eticità, il melangolo, Genova, 1999?, pp. 91-107 e, in questo volume,alle pagine conclusive dello scritto // trascendentale religioso (1970) e a quelle di Ora religiosa e ora di religione (1988). 3. Lalibertà è un tale Abgrund che ad essa deve unirsi l’intera storia dell'umanità; la Liberalitéit un atteggiamento di generosa apertura alla pluralità e alle differenze che può sorgere in individui, cpoche e contesti storico-sociali i più diversi: non può dunqueridursi all'ideologia di un’epoca legata a determinate forme economichee determinati istituti politici. Ancheil pensiero religioso liberale del quale Roberto Celada Ballanti, ispirandosi ai punti qualificanti della filosofia della religione di Caracciolo e insieme esaudendo un auspicio di Giovanni Moretto, ha tratteggiato di recente, in equilibrio tra questioni teoretiche e storiografiche, i Lineamenti, indagato le Origini tra Umanesimo, mistica e Riforma,ripensato le prospettive nel e per il tempo presente, è perciò movimento di maggiore portata e di più vasto orizzonte di ciò che comunemente s’intende col nome di liberalismo. Cfr.: R. CELADA-BALLANTI, Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive, Morcelliana, Brescia, 2009. A. CARACCIOLO, Potesis e tensione etico-soterica nell'interrogare filosofico, in Ip., Nulla religioso e imperativo dell'eterno. Studi di etica e di poetica, Tilgher, Genova, 1990,p. 47(infra, p. 76).
le piuttosto al peccato d'origine ontologico, Caracciolo alternava perciò anche l’altra espressione, peccatum mundi, duaptia toò Kk6opov che, desunta dal contesto cristologico (Gv 1, 29), entra anche nel titolo di uno degli ultimi saggi: Peccatum mundi, peccato, Giudizio nella coscienza dell'‘uomo contemporaneo”(1986). Sotto un certo riguardo non doveva essergli estraneo il dubbio che aveva portato Adolfo Levi, il suo maestro pavese,a chiedere se non dovesse essere presoalla lettera il detto dell’apostolo: mundus totus in maligno positus est. Ma il dubbio assoluto è sempre sopraffatto e vinto,in lui, dalla più originaria fiducia che il malum mundie tutti i mala del mondo non bastino a spegnere il raggio di bontà chelofiltraî. Considerato nel complesso delle sue opere Nulla religioso e imperativo dell'eterno si collega forse più strettamente ai due volumi che,tra gli altri di Caracciolo, presentano quasi un profilo di classicità: La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza del 1965 e, poi, Religione ed
eticità, pubblicato nel 1971 nella Collana di Filosofia di Morano diretta da
Pietro Piovani, che già aveva sollecitato ed accolto di Caracciolo, nel 1968,
l’importante traduzione de L'assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni di Ernst Troeltsch. Il legame con quelle due opere precedenti è facilmente documentabile anche per l’inclusione, nell’ultima raccolta, di alcuni
scritti che direttamente o indirettamente riportano ad esse?. Penso al già citato
S. Il dubbioassoluto è dubbio religioso, prima che gnoseologico, cd è tale da estendere la legislazione del male non già a questo mondo soltanto, ma a ogni mondo possibile e immaginabile, come in questo passo di Levi: «Non è impossibile, è vero, che a questa dolorosa esistenza ne succeda un’altra più alta, più bella, più pura in cui trionfino il bene, l’amore, la giustizia; ma può darsi che essa sia seguita da altre esistenze incomparabilmente più tormentose, anzi che l’universo sia governato da forze malefiche che si compiacciono soltanto delle sofferenze e del male. In tal caso si dovrebbe prenderealla lettera il detto: mundus fotus in maligno positus est; A. LEVI, Sceptica (1921), edizione postuma con aggiunte inedite, nolizie bio-bibliografiche edil ritratto dell’autore, a cura di A. Ravà, La NuovaItalia, Firenze, 1959, p. 181. Per la citazione neo-testamentaria: I Epistola di Giovanni, 5, 19. Bisogna qui osservare che anche Levirisponde al dubbio supremoperle vie dell'Etica. 6. Entrambe sono state ripubblicate da “il nuovo melangolo” in anni più recenti: la prima, La religione come struttura e come modo autonomodella coscienza (2000?), a cura di G. Moretto;la seconda, Religione ed eticità (1999?), a cura di C. Angelino. Con questa nuova edizione di Nulla religioso e imperativo dell'eterno si chiude perciò un trittico ideale. Alla storicità e alla classicità della Religione come struttura e come modo autonomo ha accennato Marco M. OLIVETTI, Istanza trascendentale e problema del male, raccolto in D. Venturelli (a cura di), Ermeneutica e destinazione religiosa, il melangolo, Genova,2001, p. 265ss.
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saggio Sul rapporto religione-morale e allo scritto Poiesis e tensione eticosoterica nell’interrogare filosofico (1965), che, nel rispondereai quesiti posti dal «Giornale di Metafisica», si collega alle tesi formulate nel precedente
studio ‘La filosofia come metafisica, inserito — quasi come corpoa sé stante — nell’opera maggiore”. Penso al saggio // trascendentale religioso, per allora inedito, ma steso vent'anni prima, nell’estate 1970, del quale Caracciolo
diceva tra il serio e il faceto, risolvendosi a pubblicarlo solo a distanza di
tanto tempo, di considerarlo il suo testamento filosofico. Penso infine anche
alle pagine di Assenzialismo e imperativo dell'eterno, scritte nel 1982, dopo la morte prematura di Pietro Piovani?.
7. L'apparenza di una disarmoniainterna a La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, rilevata da un acuto giudizio di F. TESSITORE, Piccole note su Caracciolo e lo storicismo, in Ermeneutica e destinazione religiosa, cit., p. 277, deriva, probabilmente, proprio dall’avere Caracciolo collocato in essa ancheil lungo studio La filosofia conie metafisica. Furono peraltro le pagine di questo originalissimo saggio a meritare l’attenzionecritica di Piovani prima e di Tessitore poi. Piovani ne scrisse in Storicità e preoccupazione cosmologica, ora in Ib., Conoscenza storica e coscienza morale, Morano, Napoli, 1972, pp. 103-124.Il motivo più vitale del saggio non sicollega, a mio avviso,all’immotivato timore di Piovani che la «preoccupazione cosmologica» possa fare rifluire la prospettiva di Caracciolo nell’alveo della metafisica tradizionale, ma al lucido avvertimento dell’intendimentoreligioso del suo filosofare, rispettoso delle ragioni dell’«autentico storicismo problematico e critico». Ha ripreso liberamente il filo del discorso piovaniano la testimonianza ulteriore di Tessitore: «Debbo aggiungere che all’origine della mia particolare attenzione per il libro caraccioliano del *65 c'è la perspicua lettura di Meineckee l’intuizione di ciò cheio, dopo, ho chiamato la “religione dello storicismo”, ossia la rilevanza che, nella tradizione dello Historismus, ha l’esperienza del religioso [...]»; Piccole note, cit., p. 278. Storicità e preoccupazione cosmologica rappresenta, peraltro, solo un momento del colloquio PiovaniCaracciolo, ricostruibile ora ancheattraverso le lettere: G. MORETTO, Filosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo,cit., pp. 177-178 (note 16 e 17), pp. 224-225 (nota 112). Sulla religione dello storicismo - lo storicismo che, attinto alle fonti che ebbero più vivo il senso dell’individualità e dell'evoluzione, sa, con Meinecke, di non essere la filosofia del “niente altro che storia” -—, sulla sua correlazione con lo “storicismo giovanneo” e le sue possibili tangenze con il pensiero religioso liberale non resta ora che rinviare allo studio del più recente volume di F. TESSITORE, La “religione dello storicismo”, Morcelliana, Brescia, 2010. 8. Lariflessione sulla prospettiva piovaniana, incardinata sull’individuo, sulla sua costituzione deficitaria — il deesse — , la sua destinazioneetica e il suo destino, si fa qui serrato e quasi doloroso confronto, e sfocia in una all'apparenza diversa meditazione della morte: «Di là dall’ora nona del Venerdì Santo pare non delinearsi alcuna alba pasquale. Ha dunque Piovani interpretato quell’ora come sufficiente in se stessa? Il Christus patiens è già cometale resurgens?». Ma già il titolo Assenzialismo e imperativo dell'eterno non
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Manell’affermare l’unione del poetico e del religioso il libro del commiato — tale lo considerava Caracciolo, lasciando intendere con chiare allusio-
ni che altri non dovevamoattenderne — si collega altrettanto alle sue giovanili letture leopardiane e al libro L'estetica e la religione di B. Croce, che, grazie alle sue successive integrazioni, divenne davvero unasorta di Lebenswerk®.Il
sottotitolo della raccolta — Studi di etica e di poetica — non trae comunque nessuno in inganno: esso «non sta certo a indicare una dissoluzione del religioso nell’etico o nel poetico», ma, al contrario, vuole significare che solo «nello spazio del religioso ethos e poiesis originariamente respirano»!°. Lo mostrano in modo esemplarei due breviscritti del 1987 centrati su Leopardi, che fu per Caracciolo, come per molti spiriti pensosi del tempo, un «evento determinante»proprio sottoil profilo religioso: «L'incontro e il colloquio con Leopardi — scriveva — è stato per molti studiosiitaliani, oggi non più giovani, un evento determinante[...] Proprio nel e peril poetico, quel che — nell’ascolto e nel colloquio — ultimamente importavaera il religioso e l’etico»!!.
propone un’alternativa tra le due prospettive; intende avvicinarle di qualche necessità l’una all'altra. Non sarà nella e perla costituzione difertiva dell'esistente, nel e per il deesse, che l'imperativo dell'eterno trova la sua sanzione, la sua necessità, il suo suggello? Persignificativa coincidenza anche l’ultimo libro di P. PIOVANI, Oggettivazione etica e assenzialismo, pubblicato postumo nel 1981, è stato riedito quest’anno, ancora a curadi F. Tessitore, dalla Morcelliana. 9. Lo studio L'estetica di Benedetto Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti, scritto fra il 1944 e il 1945, fu dapprima pubblicato a puntate sul «Giornale di Metafisica», tra il 1946 e il 1948; poi stampato in volume, SEI, Torino, 1948. La seconda edizione,integrata dall’importante capitolo «Il concetto di filosofia e il problema del male negli ultimi scritti», comparve con titolo mutato: L'estetica e la religione di B. Croce, Paideia, Brescia, 1958. Immutato il titolo della terza edizione, riveduta e aumentata dello scritto «L'interrogazione jobica nel pensiero di B. Croce», Tilgher, Genova, 1988. Ora in A. CaRAcciOLO, Opere, I, Morcelliana, Brescia, 2004, pp. 19-212. 10. Cfr. la Premessa antepostaai saggi raccolti in Nulla religioso e imperativo dell’eterno. 11. Leopardie il nichilismo (1987),in Nulla religioso, cit., p. 65 (infra, p. 95). Tra gli studiosi per i quali Leopardi fu evento religiosamente determinante Caracciolo poneva certamente C. Luporini,il cui libro Situazione e libertà nell'esistenza umana (1945?)era dalui annoverato, accanto a Verità e interpretazione (1971) di Luigi Pareysone ai Principi di una filosofia della morale (1972) di Pietro Piovani, tra le opere più sicuramente esistenziali della filosofia italiana: A. CARACCIOLO, Esistenzialismo, ermeneutica, nichilismo (1980),in Ib., Nichilismo ed etica,il melangolo, Genova, 1983, p. 80.
Il
Circondato per lo più dall’imbarazzato silenzio dei sedicenti filosofi e dal muto rimprovero dei meno accorti tra i teologi cattolici, il filosofare di Caracciolo non è privo di interne tensioni che percorrono anche l’ultimo, composito libro. La sua coerenza non scaturisce né dal freddo intelletto analitico né dalla sola ragione: è coerenza di un’esistenza che, dominata dal principio della libertà e dall’imperativo dell’ererno, sofferta e pensata fino in fondo,si apre ognivolta alla “verità” del paradosso. 2.
Inientee il Nulla.
Il Libro di Giobbe e il Qohelet, le speranze e gli ardimenti dell’agape nei Vangeli, le profondità scandalose della Croce nelle Lettere di Paolo, l’escatologismo dell’Apocalisse di Giovanni: di tali testimonianze religiose viveil filosofare di Caracciolo. Ma testi o documenti religiosamente rivelativi sono per lui, restringendo l’orizzonte all’Occidente, anche Omeroe i tragici, 1’Amleto, il re Lear, il Macbeth di Shakespeare, la poesia di Hòlderlin o di Leopardi. I Canti “metafisici” di Leopardi e la prosa filosofico-poetica delle Opererte morali gli scoprono perprimiil carattere della religiosità moderna e ancor più contemporanea, consonante coltratto nichilistico della nostra epoca, che conosce più lo spazio di Dio, il Nulla, la Trascendenza che Dio stesso. Leopardi è anzi, sotto questo aspetto, l’evento poietico-rivelativo che precede, favorisce e sorveglia la scrittura del filosofo Caracciolo: il suo cammino nel pensiero inizia dall’ascolto della poetica religiosità leopardiana del Mistero, dell’Infinito, del Nulla, dell’Eterno e si conclude, come deve, tornando rasse-
renato a Leopardi!"?, Se abbracciamo in un colpo d’occhio i temi salienti del suo filosofare, vediamo Caracciolo denunciare il carattere strutturale e l’estensione cosmica della sofferenza e del male, introdurre la distinzione biblica, poi tacitamente ripresa da molti, tra malum mundi e mala in mundo, evidenziare la bipolarità
niente oggettivistico — Nulla religioso, che è la chiave di volta della sua interpretazione del nichilismo europeo e del pensiero post-metafisico di Heideg-
12. Si vedano le pagine su Leopardi e gli Appunti di bibliografia leopardiana stesi nel 1947e inseriti negli Scritti di estetica, pubblicati a Brescia nel 1949, ora in A. CARACcioLO, Opere,I, cit., pp. 355-422 la raccolta “artigianale” Leopardie il nichilismo (1987), pubblicata postuma, a cura di G. Moretto, Bompiani, Milano, 1994 .
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ger!?, tracciare insommale linee essenziali del suo filosofare, percorrendo la via del wascendentale religioso con Kant, con Schleiermacher e Troeltsch, e
insieme informando la sua religiosità alla poesia e alla religione dei Canti, delle Operette morali e dei Pensieri. Che il Termine dell’esperienza religiosa, che lo spazio di Dio porti in lui il nome di Nulla, può far pensare alle religioni dell’Oriente, a Plotino e al neo-platonismo, alle correnti della mistica
ebraica o cristiana, medioevale (Eckhart) o moderna (Giovanni della Croce). Può far pensare a Schopenhauer o a Heidegger. Ma la meditazione religiosa del Nulla è in primo luogo mediata, in Caracciolo, dalla giovanile lettura di Leopardi, nel quale riconoscerà in seguito «l'interprete forse più profondo e insieme più paradigmatico del nichilismo nella bipolarità che gli è strutturale» proprio perché pensiero e poesia oscillano, in Leopardi, tra i poli opposti del niente, che nella sua astrattezza e irrealtà definisceil pensiero oggettivante (il non-pensiero) e il Nulla religioso: l'“immensità” de L'infinito, dove in tutt'altro modo il pensiero s ‘annienta, dove è dolce per l’uomo naufragare!4. All’“immensità” dell’/nfinito rinvia il pensiero del Nulla religioso come di uno Spazio che nessuna figura di Dio può esaurire, uno Spazio di Quiete e di Silenzio, d’Eterno, nel quale non solo l’uomo e la storia, ma la totalità dei
mondi immaginabili e possibili trovano la loro ‘negazione’ e insieme la loro ‘redenzione’, uno Spazio che genera angoscia e pace: «In questo Nulla tutto si inscrive e questo Nulla è veramente l'orizzonte in cui si alza l’invocazione soterica, in cui germina la domanda metafisica, da cui scaturisce la catarsi
poetica. Questo Nulla è tanto poco il niente che non solo vi s‘inscrivono tutti i mondi possibili, ma vi trova luogo,oltre che la disperazione metafisica, rispetto a questa non inscritta mainscrivente, la speranza metafisica. Questo Nulla può essere, sì, come l’analoga Trascendenza jaspersiana, nientificazione di ogni concetto, ma non perché di qua dal concetto, ma perché oltre ogni formulabile concetto. Esso sì silenzio, mail silenzio che è la voceal fondoditutte le voci: quella che ascoltava il Leopardi sul Tabor di Recanati»! i
13. È ispirata al grande di Recanati ed è svolta alla luce del pensiero, della poesia € della religiosità del Leopardi — il poeta «che ha più immediatamente poctato quel che Heidegper avrebbe pensato» — la magistrale lettura “religiosa” del pensiero di Heidegger, affidata infine alla raccolta degli Studi heideggeriani, Tilgher, Genova, 1989: un capolavoro ermeneutico in fretta dimenticato, salvo lodevoli eccezioni, dalla ricezione italiana di Heidegger. 14. A. CaraccioLo, Heidegger e il nichilismo, in ID., Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli, 1976, pp. 77-78. 15. A. CARACCIOLO, La filosofia come metafisica, in Ib., La religione comestruttura e come modo autonomo della coscienza, cit., p. 164.
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Nonsolo il tratto poetico, mail carattere interrogativo e apofatico della religiosità di Caracciolo si legano anche e specialmente a Leopardi. Il poeta de L'infinito gli dischiude quello «spazio di negazione e di silenzio del mondo», lo spazio della Trascendenza, dal quale filtra l’ererno, senza che ciò si traduca
in teodicee filosofiche comprensive del male, giustificatrici di Dio. E comeil poeta dell’/nfinito, degli spazi e dei silenzi eferni, dove affondano il tempo,/e morte stagioni, e la presente e viva, e il suon dilei, sì ribella, nel momentodi concepire in abbozzo l’Inno ad Arimane, al «Dio del male», così Caracciolo,
proprio per affermare il malum mundi, scopre che intrinseco al Nulla religioso è l’a priori dell’eterno e che dal Nulla — non propriamente uno Spazio vuoto — promanal’imperativo etico-ontologico del Beneassoluto!9. 3.
L'eterno e la catarsi poetica. È convincimento nativo di Caracciolo che la struttura ultima, costitutiva
dell’esistenza, meriti il nome di religiosa, che l’ora religiosa sia quella «in cui l’uomo nasce alla sua grandezza e alla sua miseria, nasce all’eterno e — per questo essere nato all’eterno, per avere pertanto già sempre, in qualche modo e misura, esperito l'eterno — conosce propriamente la morte»!?. È suo i onvincimento che la domandareligiosa — sempre insieme individuale, ecclesiale e cosmica — filtri ogni altra domanda e atteggiamento dell’uomo e che pertanto una richiesta di redenzione, esplicita o implicita, sia all’origine non solo della preghiera o dell’anelito mistico, ma anche, in modo mutato, della
meditazione poetica, della domanda metafisica, della «volontà operativa volta comunqueall’instaurazione — per quantofinita — di assoluto»!8. Chenele peril poetico importino il religioso e l’etico è un assunto che può apparire problematico. Ma l’equivocoe il fraintendimentoiniziano a dissolversi se l'assunto è compreso, come vuol essere compreso, in base al
«pensare originario» che immane, in quanto attingimento di “verità” etico-
16. « [...] il Nulla non è il Sacro di Rudolf Otto: gli è infatti intrinseco un apriori ultimo, a indicare il quale l’espressione meno inadeguata è forse quella di imperativo dell'eterno. Per tale imperativo, degnodi essere è soltanto ciò che vive di vita eterna (eternità non è immortalità, anche se, verosimilmente, la implica: è concetto qualitativo, non quantitativo)»; A. CaraccioLo, Nichilismo e dialettica religiosa (1976), in Nichilismo edetica,cit., p. 24. 17. Ora religiosa e ora di religione (1988), in Nulla religioso, cit., p. 156(infra, p. 181) 18. /vi, p. 154 (infra, p. 179).
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soterica, in ogni mododell’esistere: come eccedenza che attraversa, per così dire, le distinzioni rigidamente fissate del poetico, del religioso, dell’etico,
poiché distinzioni e modi sussistono davvero solo nell’unità che li genera!?. Cogliere nel poetico il religioso e l’etico significa, per Caracciolo, affermare il carattere rivelativo e veritativo della poesia, dirne l’umanità e la cosmicità,
la potenza trasfiguratrice e catartica. In quale senso il religioso importi nel poetico lo comprenderà il lettore che s’inoltri, con genuina disposizioneall’ascolto, nei due testi che giustificano l’altrimenti problematico assunto. Il primo nell’ordine della raccolta (mail secondo ad essere composto) gravita attorno a Leopardie anticipail titolo del libro: Nulla religioso e imperativo dell'eterno (1987). Il secondo, La verità nel dominio del poetico (1985), medita il Grundwort dell’Ode on a Grecian Urn di John Keats: eternity. Il tema che li domina entrambi è, sotto nomi diversi, il medesimo.
In essi sempre e soltanto si parla della parola originaria (Ur-wort, Urgebet, Ur-frage) e del silenzio da cui la parola si leva. Sempre e soltanto essi dicono il canto (Ur-gesang), il ritmo (Ur-rythmus), la musica (Ur-Musik) nei quali il mondo è mondoe l’atrocità, il male,l’orrore, vinti, nontolti, trovano una
loro misteriosissima composizione. In essi sempre e solo si dice l’eterno come pienezza di vita giustificata, redenta. Il pensiero della poesia come catarsi ed esperienza d’eferno nella caducità del momento trova qui una sua alta, se non conclusiva formulazione. La poresis «è armonia non del temporale, ma dell’eterno, kadapor tiv ra@nudtwv, sì, ma in quantoriflesso di una xa9aporgoriginaria che è alla radice dell’intero possibile pati ed agere dell’uomo»?0. È perché l’eterno e l’integro precedono ogni pati e ogni agere, perché l’eterno e l’intatto generano e dominano la poesia che essa è, originariamente, catarsi: trionfo su qualcosa di ‘impuro’, sul negativo, la sofferenza,il male. Alla poesia gli uomini chiedono che si faccia «evidenza e parola» quel ritmo del cosmo,
19. «Il pensare, con cui l’uomo, consapevolmente o inconsapevolmente, attinge — per quel che attinge — la verità etico-soterica, non è solo il pensare comefilosofare, è piuttosto quel pensare originario che — idealmente anteriore alla differenziazione dei modi dell’esistere, idealmente oltre tale differenziazione — è comunquepresente, uno e diverso,in tuttii possibili modi dell’esistere»; A. CARACCIOLO, La verità nel dominio del poetico, in Nulla religioso, cit., p. 168 (infra, p. 191 s.). Cfr. anche: Pensare originario e modi del pensare, nel volume Leopardie il nichilismo,cit., pp. 83-84. 20. La verità nel dominio del poetico,cit., p. 185 (infra, p. 209).
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quell’armonia dell’eterno che essi hanno esperito «nelle gioie e negli strazi» della loro vita. È comedire che l’esistenza dell’uomo, col suo seguito di fatica e conquista, di sventura e gioia, di innocenza e colpa, di lutto, è circondata e
avvolta da un’origine che, poeticamente attinta, è fonte di pace, di quiete?!,
«[...) “Sc lo spirito del canto già non fosse stato presente nel profondo di quelsoffrire, nessun Omero ne avrebbe potuto far tema di canto”. “Ciò che il canto solleva nel proprio regno sacro appartiene all’eterno,il che significa all'atemporale e al divino”. La negatività, che la catarsi nega, non è un prius, ma un posterius. Quella negatività è già sempre e comunqueavvolta in un apriori ontologico ed etico, nel quale e per il quale solo essa acquista figura, si fa domanda,riceve (se riceve, quandoriceve) risposta»??,
Poesia è ogni volta esperienza d’etferno nel tempo. Appartenendo all’eterno non segue, ma in certo modoanticipa l’evento pre-disponendo l’orizzonte di Senso nel quale la vicenda del singolo, il corso incoerente del mondo
21. Si veda come,difronte all’incomprensione di Nietzsche di alcuni versi di Omero, Caracciolo invita a seguire l'indicazione di W. F. Otto, quando apprende da Omero che «il canto delle Muse è la voce divina chesi leva dall’essenza stessa del mondo»,il miracolo di un'origine e di una musica in cui quello che fu colpa, sofferenza, accecamento, destino, rinviene una sua misteriosa consolazione: La verità nel dominio del poetico, cit., pp. 182183 (infra, pp. 206-207). Il riferimento principale è ai versi dell’Odissea 8, 579-580: “Questo vollero i Numi e rovina filarono / agli uomini, perché ci fosse un canto per le generazioni future”. «Nietzsche — osserva l’Otto - chiama “orribile” questo pensiero,e tale è infatti, quandolo si intenda comeegli lo intende: nel senso cioè che la sofferenza doveva piombare con tutto il suo peso sugli uomini perché “non mancasse materia [di canto] al poeta”»; W. F. OTTO, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, il melangolo, Genova, 1975, p. 47. Peril brano di F. NIETZSCHE: Opinioni e sentenze diverse, n. 189, Wie paradox Homer sein kann. Caracciolo cita, in una qualche tensione col precedente brano, un più profondo pensiero nietzschiano: Dertragische Kiinstler ist kein Pessimist - er sagt gerade ja zu allem Fragwiirdigen und Fuchtbaren selbst, «L'artista tragico non è pessimista — è colui che dice sì proprio al problematico e al terribile», Crepuscolo degli idoli, «La “ragione” nella filosofia», & 6. Il contrasto Otto-Nietzsche non riguarderebbe,in ultimo,«il termine della poiesis come canto, ma piuttosto il modo di intendere “l’essenza stessa del mondo”e il significato escatologico della poesia». Per l’Otto «rapportarsi con l'essenza del mondo” è attingere il 0eTov, l'atàiov, l’Urryihmus, l'Urmusik: perciò attingere la fonte stessa della catarsi»; per Nietzsche un «infinito dolore» filtra la «quiete» della memoria essenziale del mondo:/vi, pp. 184-186 (infra, pp. 207-209). 22. Ivi, p. 186 (infra p. 209 s.). Ha raccolto finemente questo motivo S. GIVONE, Verità e poesia, in: Filosofia-Religione-Poesia, «Humanitas», 2 (1992), pp. 183-194. Il fascicolo della Rivista, dedicato al ricordo di Alberto Caracciolo, includesaggidi X. Tilliette, P. Prini, S. Givone, G. Moretto, D. Venturelli, R. Garaventa, FE Camera, R. Celada Ballanti.
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storico, il ciclo della natura terrestre e del cosmo, se ve n’è uno, s’inscrivono.
L'eterno, diciamo, è la vera parola del religioso, la prima parola del poetico, la luce e l'esigenza immanente nell’etico. L'eterno è l'àpyhe l'Éoyatov, l'éoyatov perché l'àpyn. Per l’apriorità dell'eterno religione, poesia, filosofia restano pur nella loro contesa — nel loro con-tendere — straordinariamente vicine e affini: dietro la parete delle immobili astrazioni categoriali s’intuisce la viva motilità dell'origine per la quale esistenza e pensiero in diversi modi si attuano. Di qui l’invito sommesso a pensare l’analogia che si dà tra ciòche nell’ambito della poesia chiamiamo catarsi tiòv ra@nportov, nell’ambito dell’esperienza religiosa chiamiamo fede che vince la malattia mortale e nel dominio delfilosofare risposta già intrinseca, pur sotto il velo che la copre, all’interrogazione metafisica. L’analogia è la conferma, proveniente dalle “cose stesse”, che in tutti i modi dell’esperire e del pensare umano filtra diversamente l’eterno. L'eterno, pensa Caracciolo, non è espe-
rienza negata all'uomo:
«È anzisolo quel chedi eterno,in figura diversa e in misura più o menointensa,filtra, può e devefiltrare, il tempo, anche nella più opaca delle suc ore, quel che solo fa abitabile la terra, consente e impone l’edificare sulla terra. Ma l'eterno, che in sé è valore e letizia, l’uomo è destinato e chiamato a esperirlo e a realizzarlo nelle concrezioni più varie, anzi, almeno apparentemente, opposte. L’eterno è quello cantato da Keats nell'Ode on a Grecian Urn, e l’eterno è quello presente anche nell’angoscia del Gelsemani c nell'ora nona del Venerdì santo»??.
4.
L'attimo, l'eterno nel tempoe l'esigenzadivita eterna.
Sostare sull’Augenblick, sulla gòttliche Fiille, sull'esperienza perturbante del meriggio, in Leopardi o in Nietzsche, sostare sull’eterno e sull’attimo non è solo occasione per dire, dell’aftimo, la iuce e l’opacità, la compiutezza e
l’insufficienza, la fugacità e l’eternità. Si tratta di mostrare che all'uomo è concesso esperire l’eterno nel tempo e c’è forse un’irrisolta tensione, in Caracciolo, tra l’attimo come «momento supremamente privilegiato», che si stacca dal corso quotidiano dell’esistere, e l'eterno come strato profondo,
«interno a ogni momento dell’esistere»; una tensione tra l’aftimo e l’eterno che per l’uomo è «esperienza presente (la concreta figura di tale presenza può
23. Peccatum mundi, peccato, Giudizio, in Nulla religioso, cit. p. 143 (infra, p. 168).
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essere tragica) in ogni ora della sua vita»?4. Esperire l'eterno non vuole dire, infatti, vivere solo l’attimo straordinario della compiuta Bellezza, o della
compiuta Bontà, ma esperirlo in ogni ora della vita, e non solo «negli occhi della Bellezza» ma anche «sul volto dell’idiota»?5. Quale rapporto, allora, tra l’eterno dell’attimo pregnante e l’eterno che «in qualche modo e misura» accompagnail corso intero della vita, già aprendola ad altro orizzonte? Sarebbe possibile esperire l’eterno in ogniora, lieta 0 triste, possibile incontrare una rivelazione d'eterno non solo dov'è la bellezza, ma dove sono la deformazione e l’ottusità, se mai fosse stato con-
cesso di vivere un momento rivel/ativo sotto il profilo della bellezza, o sotto quello della bontà, momento che è di perfezione, di pienezza, d’eternità? È un attimo, certo, ma proprio quandosi dice: “è passato”, a suo modo permane e riverbera sul corso ulteriore dell’esistere. L'attimo non è mai sotto ogni riguardo “passato” e per quanto lo si dica fugace non è solo fugace: «all’interno dise stesso, in e per se stesso, non può non verweilen»?9. L’ossimoro è proprio nel fatto che ciò che passa in altro modo permane. So ist schnell / Vergdnglich alles Himmlische; aber umsonst nicht — «Rapido passa / quanto è eterno sulla terra; ma non invano»??. È un attimo ed è tutta la vita. È un
attimo, ma insieme costituisce lo strato più profondo di noi stessi e consente quel «sì», quell’assenso amoroso all’esistere che ci sostiene ancora nell’ora più dolorosamente tragica e cupa?8. Davvero l’attimo che rapido passa non è fugace, ché senza tale piena e insufficiente e perciò ossimorica esperienza d’eternità nel momento non vedo se e come sarebbe possibile un imperativo dell'eterno, un comando di perfezione e di gioia, un desiderio d’erernità senza tempo, un anelito alla vita eterna.
24. La verità nel dominio del poetico,cit., p. 169(infra, p. 193). 25. Ivi, p. 174 (infra, p. 197). 26. Ivi, p. 173 (infra, p. 197). 27. Hoseguito la traduzione del verso di Hélderlin proposta da Caracciolo nelle Conclusioni del seminario di Studio Karl Jaspers. Esistenza e Trascendenza (Assisi, 23-27 novembre 1988). AI verso della poesia di Hélderlin Friedensfeier si può qui avvicinare l’altro, di significato complementare e analogo, al quale Caracciolo si richiama ne La verità nel dominio del poetico: Nur zur Zeiten ertrigi gòttliche Fiille der Mensch - “Solo a tratti l’uomo regge pienezza divina”, Bro! und Wein, str. 7. FE. HOLDERLIN, Werke und Briefe, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1969, I, p. 164 e p. 117. 28. Per il motivo dell’assenso all’esistere e il suo legame con l’attimo si vedano soprattutto le pagine dello scritto Esistenza e Trascendenza in Karl Jaspers, in Nulla religioso,cit. pp. 74-87 (infra, pp. 103-115).
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Complessissimo e ancora da approfondireè il rapporto tra l’attimo e l’apriori dell'eterno, tra l’attimo e l’imperativo dell'eterno. Ma certo Caracciolo ha motivo di ricordare che «il desiderio insieme fondamentale e nella sua assolutezza per l’uomo impossibile, anzi addirittura impensabile, è che la temporalità sia senza residuo assorbita nella eternità. Poiché questo è impossibile, ecco la richiesta di Faust: a//ora, per me,noncisia più il tempo»??. Ha motivo d’avvertire, con la compiutezza, tutta l’insufficienza e l’incompiutezza dell’attimo in quanto «esperienza finita di un essere finito», di segnalare quindi l’insuperabile divario tra l'attimo, in quanto esperienza d’eternità rranseunte, di compiutezza incompiuta, di perfezione imperfetta, e l’apriori dell’eterno che costituisce l’uomo e, come imperativo etico-ontologico,
comanda niente meno che la vita eterna. Di più, ha motivo di richiamare la terribile ambiguità inerente all’attimo: il momento che pare più intensamente rivelativo può essere quello del supremo inganno; la rivelazione, di cui l’attimoè latore, non chiede il nostro sonnolento abbandono maci costringe a vegliare, come Socrate, nell’ora afosa del meriggio (Fedro, 259 a-c): «L'Augenblick non è l’aprioridell'eterno: lontanissimo comunque e sempre dall’esaurirne l'imperativo ontologico ed etico, è esso stesso riconosciuto, giudicato, orientato in virtù di
quell’apriori [...] Una distanza astrale corre tra quello che esige, su piano etico e su piano ontologico, l’a priori dell’eterno e la più alta figura e misura di eterno che l'uomo possa maiesperire miften in der Endlichkeit, qui “sulla terra”»?9.
Alcuneriflessioni nate a margine dello scritto Esistenza e Trascendenza in Karl Jaspers (1988) riguardano certamente, come considerazioni conclusive, ancheil discorso avviato ne La verità nel dominio del poetico (1985). Alla Verklàrung poetica, «nota dai tempi dei tempi», Caracciolo avverte l’esigenza non direi di avvicinare, ma di sovra-ordinare «un’altra Verk/éirung, la Verewigung, la trasfigurazione etica, quella di Cottolengo, uno dei geni, una delle fantasie creative più potenti, paragonabile solo nel suo genere a Sofocle, a Shakespeare, ai più sublimi poeti e musici, ai pocti in tutti i sensi, che sonoesistiti sulla terra [...] il Cottolengo ha visto nel volto dell’idiota l’immagine di Dio. Nel volto della bellezza, nell’immagine amata - si legge nel Simposio platonico — Eros vede l’eterno,il
29. La verità nel dominio delpoetico, cit., p. 173 (infra, p. 197). 30. /vi, pp. 175-176 (infra, pp. 198-199). Il cenno è al tema dell’Augenblick in Schleiermacher, per il quale già Caracciolo rinvia alle fondamentali pagine di G. MORETTO, Etica e storia in Schleiermacher, Bibliopolis, Napoli, 1979, in particolare cap.II.
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sublime. È facile vedere questo![...] ma quale potenza per vedere nel volto dell’idiota la luce della Trascendenza,la luce del Divino! Per questo occorre una potenza etica e religiosa, un’apertura veramente non si sa a quale spazio — a uno spazio percui la terra si apre a unaltro orizzonte: questo è l’eterno»?".
Per tale visione occorrono un’ispirazione, una fantasia etica e religiosa che è anche sempretrasfigurazione creativa, visione poietica del volto dell’idiota nel profilo della bellezza e della santità. «Poieticità — termineterribile — vuol dire creatività, vuol dire far essere dal non essere qualche cosa»??. E tuttavia resta che l’attimo più sublime e più religiosamente rivelativo, che la fantasia eticamente più creativa e l’esistenza più santa sono ancora affette da non so quale limite e insufficienza. Resta che l’Augenblick, lungi dal potere esaudire l’immanente richiesta di Vita redenta, di Bene assoluto, sostiene col
modo del suo “passare”l'umana esigenza di compiutezza senza incompiutezza, valore senza disvalore, perfezione senza mancanza, eternità senza temporalità. Richiesta irragionevole, in quanto commisurata alla condizione e al
potere dell’uomo, e tuttavia invincibile. Irragionevole per l’essere finito, e tuttavia imposta dall’ingiunzione della ragion pura prafica, se l’esigenza e l’idea del sommo bene sono per Caracciolo, almeno per come si configurano in Kant, un cenno potente «sul mistero dell’eterno, sulla sua natura e sul
modo con cui immanentemente opera nell’anima dell’uorno»??.
Si comprendono forse più facilmente, a questo punto, le «riserve fortis-
31. Dalle già ricordate Conclusioni del Seminario di studio Karl Jaspers: esistenza e trascendenza (Assisi, novembre 1988). Su questo brano, in qualche misura ispirato alla filosofia levinassiana del volto, ha richiamato per primo l’attenzione G. MORETTO, La “sofferenza inutile” e il volto dell'altro tra Alberto Caracciolo ed Emmanuel Levinas, in Ermeneutica e destinazione religiosa, cit., pp. 294-296. Nella sua integralità il testo è stato poiinserito nella pregevole riedizione, corredata da scritti inediti e da altre pagine su Jaspers, degli Studi jaspersiani, a cura di R. Celada Ballanti, dell'Orso, Alessandria, 2006, pp. 189-190. 32. Ibidem. 33. Nichilismo e dialettica religiosa (1976), in Nichilismo edetica, cit., p. 25. Per l’interpretazione complessiva di Kant rinvio ad A. CaRaccioLO, Studi kantiani, a cura di D. Venturelli, ESI, Napoli, 1995. Il volume, pubblicato postumo, ha per base una raccolta di testi che l’autore, apprestandosi a lasciare l’insegnamento, donò ad amici e scolari presentandola come «opera artigianale». Per la stretta correlazione coi temi che stiamo trattando si veda soprattutto l’appunto del marzo 1987, per allora inedito, posto sotto il titolo «Summum bonum e imperativo dell’eterno in Kant», pp. 249-255.
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sime» avanzate da Caracciolo nel colloquio critico con Jaspers, in quelli con Croce e con Piovani, riguardo alla «riduzione della Ewigkeit a vergingliche Ewigkeit (eternità transeunte, che in sé dissolve la caducità e la morte, soggiacendovi)»?4. Si comprendeil suo invito a ripensare senza timidezzeil rapporto eternità-immortalità, pur avvedendosi Caracciolo chegli esiti del ripensamento potrebbero lasciare insoddisfatti, se, da un lato, «l’idea dell’immor-
talità acquista verità quando da idea di durata infinita oltre la morte si fa appunto idea (cifra, in linguaggio jaspersiano) di eternità presente», tanto che la speculazione sull’a/dilà è sostituita dallo sforzo teoretico ed etico «di invenire, esperire e realizzare le figure di eterno possibili nel tempo»? — e però, d'altro lato, «l'eterno consentito all’uomo nel tempo» non esaurisce l’esigenza di vita eterna implicata dall’idea dell’immortalità. «Può l’eferno consentito all'uomo nel tempo risolvere in sé quello cui, a suo modo, allude-
va e allude il termine immortalità? Può anzi l'eternità essere pienamente se stessa disgiunta dall’immortalità? O se ne disgiunge e si vuole disgiunta appunto perché è incompiuta e si riconosce tale?»3.
Incompiuta è l'eternità nel tempo. /ncompiuta è nell’attimo. Compiuta potrebbe essere solo per quel
34. Esistenza e Trascendenza in Karl Jaspers, cit., p. 86 (infra, p. 115). 35. Ibidem. 36. La verità nel dominio del poetico, cit., p. 176 (infra, p. 199). L'invito a ripensare il nesso efernità-immortalità aveva in Caracciolo motivi profondi, tutti da indagare. Già nel saggio Sul rapporto religione-morale (1958) scriveva: «Nei maggiori pensatori dell’esistensa c'è la tendenza a separare quanto più è possibile il concetto di eternità da quello di immortalità, 0, più esattamente, a togliere comecarattere dell’eternità la nota dell’immortalità, a far risultare non necessaria all’eternità la sopravvivenza. L’eternità è la temporalità Messa in quanto verk/dri, in quanto trasformata in Augenblick»; in: Nulla religioso, cit. p. 20 (infra, p. 50). Invero, se il pensiero dell’immortalità fosse solo espressione di egoistico amor sui non vi sarebbe da obiettare a quanti — da Schleiermacher a Feuerbach a Croce nprezzano l'immortalità e quasi provano un senso di terrore non all’idea di dover morire, madi dover vivere sempre. La cosa si presenta più complessa a chi pensa che l'immortalità «rientra nell’esigenza del trascendimento implicita nella struttura del valore, e ha pertanto «lu fare non con/'io vitale, ma proprio con la personalità morale»: L'estetica e la religione li B. Croce, cit., p. 141. Nonostante segni una distanza da Croce, Caracciolo ne riporta brani che meritano lunga e approfonditariflessione e che possono forse accostarsi a quelli sulla morte scritti da Piovani e da lui posti a conclusione del suo Oggettivazione etica e assenzialismo.
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«pensiero dell’impossibile e pensiero impossibile, “trascendente” come nessun altro pensiero può esserlo, eppure inscritto — in un modoe con indicazioni certo diversamente, anzi antiteticamente leggibili e interpretabili — in quell’apriori dell’eterno che è la forza più immanente che si possa pensare e della quale meno si riesce a dubitare, dal momento che ogni pensiero e motodelnostro esistere risulta senza di esso ciecoe inintelligibile»?”.
Sì — ma ciò implica per Caracciolo la chiarificazione della struttura aporetica del pensare e dell'esistere, non già l'affermazione dogmatica degli articoli di fede nell’immortalità dell’anima, nell’esistenza di Dio e nella vita eterna. Queste idee resterebbero piuttosto, come in Kant, i postulati di una
libera fede che può unirsi all’esperienza religiosa, le «articolazioni ultime del Grundfragen intrinseco a ogni autentico Fragen»?*. Al tempostesso è evidente che tale fede — anche se s’avvertisse legata, sul nascere, alla sola esigenza della ragion pura pratica — sfocierebbe nel paradosso. Per come qui se ne può parlare lafede — alla quale non è essenziale la ragione, ma la salvezza — è semprefede paradossale nella possibilità dell'impossibile, e nello spazioreligioso, dove naufragano il pensiero e la ragione umana, Dio è il nomeperla possibilità dell'impossibile.
/
5.
Apriorità del Bene e imperativo dell'eterno.
La pagina dell’ultimo Caracciolo, per quanto non nasconda «l’infinita tristezza» di fronte al pensiero della fine di questo mondo segnato dal male, madove l’uomo ha pure in qualche istante «vissuto l’eterno»?”, è nell’insieme sorprendentemente serena. Il raggio di bene che filtra dall’imperativo etico-religioso dell’eterno, per debole o fioco che sia, fende la tenebra del nichilismo. Il bene, sebbene non possa mai elidere completamente il dubbio religioso, sovrabbonda. Su tutto s'impone ciò che Caracciolo dice ripensando l’abbozzo leopardiano dell’/nno ad Arimane. La figura nella quale la fantasia mito-poietica del religioso ha personificato la potenza del Male non può essere evocata dal poeta degli «interminati spazi», dei «sovrumani silenzi», della «profondissima quiete», se non in quanto vive e dominain lui «l’impe-
37. Peccatum mundi, peccato, Giudizio, cit., p. 150 (infra, p. 174). 38. Studi kantiani, cit., p. 252. 39. Peccatum mundi, peccato, Giudizio, cit., p. 151 (infra, p. 175).
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rativo ontologico ed etico dell'eterno o - che è lo stesso — del divino». Arimane — «re delle cose», «autor del mondo», «Dio del male» — nel momento stesso di essere detto, di essere maledetto, è sovrastato e vinto da
un’altra, non nominata ma superiore Potenza divina.
«Un Dio, o quanto meno una Potenza divina, più potente di Arimane, non nominata, dominaqui. È infatti solo perla forza di quell’imperativo che trapassa il mondoe sifa nell’uomo inquietudo — anelito, comando morale, preghiera - che l’uomo può anche giungere alla maledizione [...] dell’/nno ad Arimane»!®.
Dall’inatteso accostamento dell’abbozzo leopardiano Ad Arimane alla invocatio Dei, alla laus Dei che apre le Confessioni di Agostino scaturisce una più profonda comprensione dei testi, non solo di Leopardi, ma anche di Agostino: «uno deglispiriti che, sul piano della ndesis, più conobbero e più ebbero a lottare con Arimane». Solo in apparenza il confronto dischiude la possibilità di un pensiero antitetico. Più in profondità l’imperativo dell'eterno — formula paradossale per tradurre in parola la verità religiosa che abita il comandamento etico, lo trafigge e l’oltrepassa con l’anteriorità e l’ulteriorità di una dpxn che è téiog mai attinto in pienezza nel corso intero della vita — rivela la profonda solidarietà, l’indivisa unità di ericità e religione, legge e preghiera, impegno e grazia che, in nube et aenigmate, apre il Senso deltutto. Con simili intenti Caracciolo aveva riletto e reinterpretato anche il suo Croce, pleno iure coinvolto nella problematica del nichilismo e reincontrato, alla fine, nel «luogo ontologico e storico» in cui, pensando, ancoraci troviamo. il «luogo», denotabile coi nomi di Auschwitz e di Hiroshima, dove s
40. Nulla religioso e imperativo dell'eterno, cit., p. 63 (infra, p. 92). In un luogodel saggio Un «discorso temerario»: il male in Dio, anche Pareysonsiè riferito all’abbozzo leopardiano — senza esplicitamente nominarlo — per negare l’ipotesi «che Dio possa scegliere il male, e che da questa sceltarisulti l’esistenza di un Dio malvagio, “re delle cose, uutor del mondo, arcana malvagità”», e ha ritenuto il problema «mal posto»; L. PAREYSON, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 281. Ma l’espressione leopardiana «Dio «el male» è forse più di natura retorica che speculativa e le si può opporre la diversa consapevolezza del poeta: «te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio. Ma tusei Arimane[...]»: se non «autor del mondo», certo, conformemente al messaggio di Cristo,il principe di guesto mondo. Che Leopardi non possa identificare Arimane con Dio è appunto l'implicazione che Caracciolo coglie già nell’esprimersi l’abbozzo del poeta nella forma di maledizione — «[...) ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec.» —, e non dli invocazione, se non della morte.
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l’uomo è posto di fronte «all’essenza stessa del negativo» e che pertanto è punto di confluenza e d’incontro di interrogazione jobica e imperativo dell'eterno. Metamorfosi e nuova figura di Arimane, della luciferina volontà del
niente, è Stavrogin, l’eroe negativo dei Demoni nel quale Caracciolo riconosce la riuscita incarnazione poietica del principio della «dis-creazione», la personificazione del «distruttore del mondo»di cui parla il Croce de La fine della civiltà e de L'Anticristo che è in noi. «Proprio quandotutto pare sotto il dominio del non-senso - scrive allora avvicinando l’ultimo Croce a Kant e paragonandolo ai grandi interpreti del nichilismo europeo,in particolare a Dostoevskij —, ci si accorge che il non-senso è, perché nel cuore dell’uomoè l’imperativo ontologico-etico che il bene, il senso, il valore, la vita in sé giustificata, la «vita
eterna» (sono termini sinonimici), sia».
E nelseguito del discorso torna a dire che l'eterno «non è solo memoria o attesa, ma è già esperienza presente» che non tanto vive nelle «opere in quanto opere», ma nella radice dell’esistere e dell’operare, e conclude: «Ma, perché sia dato all'uomoattingere “la coscienza dell’imperituro e dell'eterno, di ogni suo atto, singolo e fuggitivo che paia”, occorre che egli sia giunto — attraverso l’elevazione moralee l'approfondimento del pensiero — a vedere le possibilità di eterno che sono implicite neidistinti cd uni modidel suo essere. E proprio questo — un'etica generale volta a cercare e evidenziare tali possibilità di eterno — appare,sulla fine, l’intera meditazione crociana»*?.
Nella prospettiva che così si apre l'imperativo etico non può manifestarsi realmente che in una pluralità di imperativi, tanti quanto sono i modidistinti dell’esistere — ma sempre in ognunodi essi esprimendosi secondoil principio dell’ererno. Perciò l'imperativo intrinseco a ogni imperativo etico prendeil nomereligioso di imperativo dell'eterno — genitivo oggettivo e soggettivo in un’ambiguità che va a mio avviso conservata, a meno di smarrire la complessità, la profondità e l’altezza insondabili della coscienza etico-religiosa.
Simile a una «scala di Giacobbe, per la quale scende il comandoetico, per la quale sale l’invocazione religiosa», l’imperativo dell’eterno è una palese eredità e un ancor più palese ripensamentoe rettifica dell’imperativo catego-
41. L'interrogazione jobica nel pensiero di B. Croce, in L'estetica e la religione di Benedetto Croce,cit., p. 201. 42. Ivi, pp. 211-212.
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rico di Kant, in più profonda, più sinfonica e più libera adesione allo spirito religioso della filosofia kantiana. Per tale sinfonico ripensamento «il contenuto del Du sollst morale altro non potrà essere se non quella modificazione dell'unico, fondamentale contenuto dell’es sol! che risulta di volta in volta
possibile nella concreta trama della vita [...] Allora cercare un’etica non può significare se non cercare quali e comesiano le figure dell’eterno (di ciò che in sé è per sé ha senso, havalore) possibili nel tempo». 6.
Figure dell'etica.
Caracciolo ha proposto in forma appena un pocopiù estesa lo stesso pensiero nello scritto La verità nel dominio del poetico, dove il «capitolo primo» dell'etica è identificato nel compito di una «fenomenologia dell’eterno nella temporalità dell’esistere». Essa dovrebbe mostrare «la figura che assumel’eterno nei differenziati modi (poiesis, filosofia, preghiera, comunicazione...) e nelle diverse situazioni (dalle più luminose alle più opache) in cui si concreta l'esistere di un singolo», e mirare infine a cogliere la correlazionetra i rispettivi attingimenti dell’eterno nei diversi modi, affinché «sia possibile, al di là dei
dislivelli e dei contrasti e oltre la differenziazione, un unitario attingimento della “verità” che, se tale, non può essere chela stessa verità»*4.
qui il lascito che l’autore, sempre attento al tema dell’unità nella distinzione, ha positivamente raccolto dal Croce “platonico” più che “storicista”, così come ha mutuato liberamente da Heidegger il motivo del pensare originario, che è uno, ma diversamente s’esprime nei molteplici modi dell’esistere. In tutti e in ciascuno di essi il compito etico, considerato in e per se stesso, è impegnoper l'eterno nel tempo, «responsabilità nei confronti dell’esistenza e del mondo secondoil principio dell’eterno». L'etica religiosa, in quanto «fenomenologia dell’eterno nella temporalità dell’esistere», ingiungerebbe di «cercare il quantum e il quale di eterno esperibile e realizzabile nel lempo,e di farlo essere, qui, nel tempo,in sé e negli altri». Alla luce dell’eterno, «il trascendimento intrinseco al religioso» non può non reclamare una suprema fedeltà alla terra. Ma — ecco ancorail paradosso - lo stesso impera-
43. Nichilismo e dialettica religiosa (1976), in Nichilismo edetica, cit., p. 26. 44. La verità nel dominio del poetico, cit., p. 169 (infra p. 193). 45. Nulla religioso e imperativo dell'eterno, cit., p. 59 (infra, p. 89).
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tivo che comanda una figura d’eterno possibile nel tempo ingiunge simultaneamente l’ererno come assolutezza di senso, assolutezza di Bene, sinolo di
valore e letizia, risolvendosi perciò ogni volta in una radicale problematizzazione, una xpio1c, un giudizio finale su questo mondo. Deriva di qui l'immancabile tensione, nell’etica religiosa e nel pensiero di Caracciolo, tra la fedeltà alla terra, la diversamente attiva e diversamente
operosa adesione al mondo,e l’escatologia: «quella presenza e quel distacco dal mondodi cui l’espressione classica è rimasto l’©c pi) della Prima ai Corinti, 7, 29-32». È evidente, del resto, che il «primo capitolo» non può esaurire il libro dell’etica, a meno di concludersi con la tematizzazione del rapporto etica-religione. È quanto si evince — purché si vadadritti alla res, senza sofisticare troppo su una certa oscillazione tra 1 termini moralità ed eticità, etica e morale — anche dalle riflessioni che già sostanziano lo splendido scritto Su/ rapporto religione-morale (1959): «La moralità — scriveva Caracciolo — è sotto un certo aspetto il tentativo, che sentiamo come imprescindibile comando, di attuare la vita in sé giustificata, la vita assoluta; è lo
sforzo massimo per immaginare la figura meno inadeguata della vita assoluta e lo sforzo massimoperattuarla qui sulla terra. Ma qui dove l’cticità pare per struttura sua umanistica, si rivela religiosa. L'idea e l’azione l’uomole sente trascendentemente condizionate, La più perfetta realizzazione non l’appaga: e ciò non quantitativamente, bensì qualitativamente. Perciò l’azione resta avvolta nell’invocazione. Il limite ultimo della preghiera in quanto preghiera per l’immanente è: o Dio, rivelaci quanto più è possibile il nostro dovere, facci chiara davanti la più alta immagine della vita e della realtà che è possibile realizzare, aiutaci a realizzarla [...) Sennonché la vita morale non è vita in sé giustificata. Dalla vita morale sale ancoraterribile l’invocazione dell’uomo»*?.
Pensare che l’etica, il piano dell’interrogazione di Giobbe, sia il piano dell’armoniosa composizione delle antinomie e dei conflitti è mera illusione; essa è piuttosto, all’opposto, il piano sul quale l’uomo sperimenta in modo drammatico la lacerazione intrinseca all’esistere: e invero perché il carattere radicale dell'impegno, la richiesta di Senso intrinseca ad esso, l’orizzonte entro il quale i momenti dell’azione e della passione si inscrivono coinvolgono, fin dal primo istante, con l’uomo e nell’uomo, forze ctonie e celesti. Il
problema fondamentale dell’etica — s’intenda qui ‘semplicemente’ la volontà e la capacità umana di compiere il Bene — mostra così di confinare con 46. Sul rapporto religione-morale,cit., p. 19 (infra, p. 50). 47. Ivi, p. 18 (infra, p. 49).
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regioni doveil sacro e il religioso collidono e configgonoin ogniistante; d’identificarsi, in limine, con la lotta per conquistare o serbare la fede che muove l’azione e sorregge anche nell’ora della sconfitta e della passione. Sorvegliato dall’imperativo dell'eterno, il compito etico resta impegno per l'eterno anche quando, visto da altra angolatura, sia formulato diversamente. Considerato nell’ottica della lotta contro il malum mundi, rasentando
l'impossibile, il compito può essere definito, in linea con il pensiero cristiano e, da ultimo, con la prospettiva teologico-filosofica dello Zahrnt, come compito di collaborazione dell’uomo alla redenzione del cosmo: «Compito di cor-redenzione significa infatti impegno del singolo a con-realizzare, su piano cosmico (sincronicamente e diacronicamenteinteso), un essere in cui ci sia compiuta coincidenza di essere e bene (essere degno di essere), un tempo che sia, non solo Augenblick, ma compiuta eternità. Compito di cor-redenzione comporta pertanto l'impegno a vincere non solo i peccati, ma il peccato, non solo i mali, ma il male. Ora, poiché contro il
peccato e contro il male l'uomo nulla può, è evidente che nel compitoetico cui è chiamato, quel che perlui è possibile e doveroso s‘inscrive nell'impossibile e si apre all’impossibile {...] Proprio per la divinità del compito cui è con-chiamato, per la apertura cosmica di questo compito, per il suo inscriversi e confinare nell’umanamente impossibile, l’uomo è condannato - nella sua risposta a quell’appello - a esperire la sua creaturalità: grecamente il suo essere “mortale”, biblicamente il suo essere odpE»**.
Nonè allora evidente, sotto il principio dell’eterno, il carattere paradosvale dell’etica? niente di più paradossale, per l’uomo, che impegnarsi per qualcosa che, secondo ogni apparenza, non è in suo potere di fare: «vincere non solo i peccati, ma il peccato, non solo i mali, ma il male». Realizzare la
(tiustizia, compiere il Bene. Ma nemmenonulla di più grande, nell’uomo,di questo impegno che fa di lui — si Deus non daretur — una grandezza assurda. Sul piano dell’etica — che pare il piano dell’umano e non è mai solo il piano dell’umano — il Senso e 1’Assurdo collidono in ogni istante. La chiarificazione della strutturalità del male e della colpa, l'impossibilità, secondo le sole forze
dell’uomo, della Giustizia e del Bene assoluti, non confinano comunque la
lotta ai mala in mundo, ma la volgono sempre, in prima e in ultima istanza, contro la loro radice: il malum mundi. Ed è appunto per questo che l’Ética, all'altezza del suo problema,è il piano o della grandezza assurda — se la con«lusione (o la premessa) è quella affidata da Sartre alle parole di Goetz, l’eroe
48. Peccatum mundi, peccato, Giudizio, cit., pp. 123-124 (infra, pp. 149-150).
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del drammateatrale Le diable et le bon Dieu: «Adieu les monstres, adieu les saints. Adieu l'orgueil. Il n'y a que des hommes»*° — o della grandezza collegata allafede religiosa, che sempre, anche quando prende il nome di Vernunftglaube, ha del paradosso, come ha inteso magistralmente Kierkegaard. x
7.
L'escatologismo e il desiderio di morire per vivere.
Di fronte alla sfida dell’ateismo e del nichilismo contemporaneoi saggi dell’ultima raccolta mostrano una volta di più che tra l’impegno etico che invita, con parola nietzschiana, a «restare fedeli alla terra» e l’escatologismo
della fede cristiana, che esige la fine di questo mondo, esiste sì una tensione che insorge sempre di nuovo, ma non un’insuperabile contraddizione. Nonsi tratta di una radicale alternativa tra la terra e il cielo, ma, come in Kant e in
Troeltsch, di una necessaria complementarità tra il cielo e la terra. di
Caracciolo nota, è vero, che «costitutiva dell’atteggiamento religioso» è
«la negazione del mondo» e che le più alte religioni rivelano sempre «un carattere ascetico», ma la taccia di nichilismo con la quale Nietzsche ha inteso colpire, per questo, la morale e la religione “cristiana”, e più in genera49. Le diable et le bon Dieu, Atto III, quadro X,sc. IV, Gallimard, Paris, 1951, p. 222.Si può legittimamente pensare a una riproposizione drammatica del point de départ dell’esistenzialismo ateo, com'è presentato nella famosa conferenza parigina del 29 ottobre 1945, ricapitolabile nella formula: precisement nous sommes sur un plan où il y a seulement des hommes; J.-P. SARTRE, L'existentialisme est un humanisme, Paris, 1946, p. 36. Ad essa, com'è noto, fa da controcanto la replica del Brief tiber den “Humanismus" (1946) di Heidegger: «Invece,se si pensa a partire da S.u.Z., si dovrebbe dire: précisément nous sommes sur un plan où il y a principalementl'Étre»; M. HEIDEGGER, Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a. M., 19782, p. 331. 50. Caracciolo non ha mai nascosto nei confronti di Kierkegaard una diffidenza che deriva, soprattutto, dalla lettura delle pagine di Timore e tremore, «insostenibili in ogni loro concreta argomentazione»per il fatto di proporre non già la distinzione, ma la contrapposizione «tra piano etico e piano religioso»: Su/ rapporto religione-morale, cit., p. 8 (infra, p. 40). Ma non è escluso chesotto altri profili l’autore sia più vicino a Kierkegaard di quanto ammetta lui stesso: vuoiper la familiarità che egli ha col paradosso, vuoi per la centralità del singolo, vuoiper il pensiero dell’astimo come atomodi erernità. Proprio in questo punto Virgilio Melchiorre ha avvertito un’impressionante «assonanza con il pensiero del grande danese»: V. MELCHIORRE, /l trascendentale religioso e la poetica dell'eterno nel pensiero di A. Caracciolo, in Ermeneutica e destinazione religiosa, cit., p. 222. Se ne potrebbe trovare conferma nelle Lezioni caraccioliane. Cfr.: A. CARACCIOLO, La virtù e il corso del mondo. Lezioni dell’anno accademico 1975/76, Ed. dell'Orso, Alessandria, 1996, p. 72 e p. 102.
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le gli ideali ascetici, non lo turba mai veramente. E ciò perché la critica di Nietzsche perde parte della sua forza eversiva e mostra ancheil suo limite, se si è consapevoli che «l'altezza di una religione si commisura però dal fatto se questa negazione nasce al di qua o al di là dell’affermazione del mondo», e che «autentica è quella religione in cui l’avvertimento della non sufficienza e l’anelito al trascendimento cadonoal limite della realizzazione etica»”". Non è comunque propriamente l’ascetismo, ma l’escatologismo il centro attorno a cui gravita il pensiero religioso di Caracciolo ed è sotto questo aspetto che le considerazioni svolte nello scritto Su/ rapporto religione-morale (1959) ispirano ancora le riflessioni mediate, in Peccatum mundi, peccato, Giudizio nella coscienza dell’“uomo contemporaneo” (1986), dalla lettura del testo teolo-
gico-filosofico di H. Zahmt, Got kann nicht sterben (1970)e riferite alla teologia della morte di Dio. Pur denunciandone l’errore di fondo, bisognerà riconoscere ad essa almeno un aspetto diverità: la testimonianza cioè che proprio dall'essenza della fede cristiana «scaturisce l’imperativo e la sostanza dell’impegno a essere fedeli alla terra, a rendere più abitabile la terra» — benché questo aspetto di verità offuschi, nella sua uni/ateralità, quella visione teologica, rendendola «pressochécieca e ottusa di fronte al male, di fronte alla morte», intesa anch'essa SI. Sul rapporto religione-morale, cit., p. 19 (infra, p. 50). Per la critica nietzschiana dell'ideale ascetico cfr. in particolare la terza Dissertazione della Genealogia della morale: «Che significano gli ideali ascetici?». Senza toccare la complessa fenomenologia del nichilismo delincata da Nietzsche soprattutto nei Frammenti postu, giova ricordare che nella sua prospettiva è nichilismo, nonostante l’apparenza contraria, l'affermazione platonica del «mondo vero», l'ontologismo dei valori eterni, l’ipostasi del trascendente «Dio morale», sentito non come garante di giustizia, ma come Dioostile alla Vita. Ciò che domina l’ideale ascetico sarebbe,in definitiva, proprio la volontà del nulla. Quanto il termine nichilismo, esposto a repentini e para«lossali capovolgimenti di senso, denoti un fenomeno ambivalente lo mostra nel modo forse più pregnante la conclusione del Mondo come volontà e rappresentazione di A. Schopenhauer, dove è detto che «quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà (nach pcinzlicher Aufhebung des Willens) è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, nulla (r1ichfs). Ma viceversa per coloro nei quali la volontà si è volta da se stessa e negata, «uesto nostro universo tanto reale, con tutti i suoisoli e le sue vie lattee, è — nulla (nichis)»; A. SCHOPENHAUER, // mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari, 1979,II, p. 536. 52. Peccatum mundi, peccato, Giudizio, cit., p. 120 (infra, p. 146). Merita qui ricor«dure, di Caracciolo, anche l’importante recensione a un altro volume dello ZAHRNT, Die Sache mit Goti. Die protestantische Theologie im XX. Jahrhundert (tr. it.: Alle prese con Mio. La teologia protestante nel XX secolo, Queriniana, Brescia, 1969). Comparsa nel «(itornale critico della filosofia italiana», XLIX (1970), pp. 444-452, l’ampia recensione è «Inta a giusto titolo consideratail “manifesto” della Liberalitàt caraccioliana: G. MORETTO, l'ilosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo,cit., pp. 174 ss.
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soprattutto come emblema del male irredimibile per buona volontà dell’uomo”. Sospeso come un funambolo tra il testo teologico-filosofico di H. Zahmte il drammaartistico-teatrale di J. P. Sartre, Le diable et le bon Dieu (1951), Caracciolo ci porta di nuovo di fronte al paradosso, tipico dell’etica religiosa, peril quale la volontà umana - luciferina o santa - sconfina nell’impossibile, come il pensiero nell’impensabile. Nel suo fondo la volontà sarebbe dell'umanamente impossibile; sarebbe, appunto, vo/untas vitae aeternae.
Non è qui la 6Bpic? il voler essere Dio? perché nonsolo il possibile e non solo il pensabile? perché questa umanafollia? Il motivo è che Caracciolo avverte che la structura mundi — per la quale «la trama stessa della vita» è tale che la verità non può darsi qui senza l’insidia dell’errore, il bene senza il male, la luce senza la tenebra — è per l’uomoreligioso, per il pensatore,peril riformatore nel dominio della prassi, il problema, non già la soluzione del problema e che qualcosa in questo mondoe in noi chiede, di là da ogni rivoluzione storica, la vita redenta dalla sofferenza, dal male strutturale edallà
“morte”. Qualcosa in noi chiede una vita qualitativamente altra da questa: un’altra inconcepibile e inimmaginabile vita. Perciò l’immanentismo, la dialettica5?, l’eterno ritorno dell’uguale, che pure è volontà di rendere eterno ogni istante della vita presente”, il pensiero utopico*5, sono risposte che non
53. «A chi mi domandache cosa abbia fatto Hegel, io rispondo che ha redentoil mondo dal male perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemento vitale»; B. Croce, Hegel e l'origine della dialettica, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952), Laterza, Bari, 19672, pp. 36-37. «Hegel, purtroppo, ron ‘ha redento il mondo dal male’, ha piuttosto offerto un'immagine di redenzione che rende ancora più disperante la figura del male». Così la replica di Caracciolo di fronte al pensiero del Croce: A. CARACcIoLO, L'interrogazione jobica nel pensiero di B. Croce (1983),in L'estetica e la religione di B. Croce,cit., p. 200. Per un’ampia e approfondita discussione del tema del vitale e per l’inammissibilità dell’implicita identificazione di vitalità e male cfr. soprattutto il cap. X: // concetto di filosofia e il problema del male negli ultimi scritti (1958) del volume su Croce, in particolare: pp. 157-158 e pp. 165-168. 54. «Senti che devi congedarti, presto forse — e il crepuscolo di questo sentimento tinge segretamentedirossola tua felicità. Fai attenzione a questa testimonianza: essa significa che tu amilavita e te stesso, e anzi la vita così cometi ha colpito e plasmato finora - e che aspiri a eternarla. Non alia sed haec vita sempiterna!{...]; FE. NIETZSCHE, FY postumi Autunno 1881,13 [52]. «Imprimere al divenire il carattere dell'essere — è questa la suprema volontà di potenza [...)] Che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell'essere»; Fr. postumi 1885-1887, 7 [9], Opere, VIII, I, 297. SS. Tra l’escatologismo religioso e l’umanesimo prometeico, ma disincantato — Goetz, l’eroe del Bi/dungsdrama sartriano, è soltanto unatra le possibili, diverse figure di
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lo soddisfano. Per di più nella sua prospettiva è la fedeltà alla terra, non il tradimento della terra, è l’adesione al mondo, non la diserzione ascetica dal
mondo a implicare l’escatologia, a comportare la fine di questo mondo in quanto «sempre ultimamente fallimentare rispetto alla richiesta intrinseca all’imperativo dell’eterno chelo filtra»59 e sempre recantè in sé, col proprio giudizio, l’esigenza della propria redenzione, dell’avvento del «nuovo cielo» e della «nuovaterra» (Apoc. 21, 1-5), che sono insieme negazionee trasfigurazione del cielo e della terra. Se però si trattasse so/o di esigenza, nulla potrebbe mai realmente mutare nella structura mundi. Di qui le domande a mio avviso più sconcertanti di Caracciolo: «Il Logo è allora vero e vivente come semplice imperativo? La positività della vita e dell’essere l'uomo la realizza solo come imperativo ontologico-etico del Bene?»57.
Invero non vedo come, nel tempo, potrebbe essere altrimenti. Perciò è tanto paradossale e rivelativo quel solo che accompagnala sua domanda. Già la coscienza dell’imperativo dell’eterno comporterebbe, è vero, una preminenza del Bene tale che «nessuna brutalità empirica scuote la saldezza della priori degli a priori: che il senso deve essere». Non la scuoterebbe nemmeno la possibilità di una catastrofe atomica che, prima della definitiva scomparsa dell’uomo,lasciasse nella desolazione l’ultimo sopravvissuto: «In figura tragica e paradossale il principio dell'eterno, anche alla fine della storia, dovrebbe essere riconosciuto come principio della speranza, e perciò ancora, nella mancanza di avvenire, gli sarebbe implicita la dimensionedelfisturo»?*.
titanismo destinato allo scacco e al disincanto —, vorrebbe forse collocarsi l'utopia. Il suo limite non è certo nella generosa apertura al futuro e al novum, che unisce anzile sueattese n quelle dell’escatologismo religioso. È invece, per Caracciolo, nella cecità che sembra aMiggerla riguardo alla strutturalità della colpa e del male: è nell’oblio del malum mundi. Per essere caratterizzata da una mancanza di /ucidità riguardo all'uomoe alla sua situazione metafisica — e volta a volta storica solo in quanto metafisica —, ovvero per contare illusoriamente sulle sole forze umano-naturali per la realizzazione di contenuti utopicilatenti, l'utopia sarebbe ancor sempre destinata al disincanto. Anche per Caracciolo resta tuttavia nperto il problemase, in altro senso, non sia supremaillusione quella di cui vive l’escatolopiareligiosa e solo di riflesso, alimentandosi all’antica fiamma, anche il pensiero utopico. 56. Peccatum mundi, peccato, Giudizio,cit., p. 149 (infra, p. 173). 57. L'interrogazionejobica nel pensiero di B. Croce (1983), cit., p. 201. 58. Ivi, pp. 201-202.
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A dominare la pagina di Caracciolo non è, veramente, lo scenario della catastrofe atomica evocato, al seguito dello Jaspers di Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958), già nell’ultimo scritto su Croce. È invece, comenelle ultime pagine sullo Jaspers, l’attesa di una ben diversa catastrofe,
che segna, anch'essa, la fine di questo mondo”. È l’attesa del Giudizio finale (End-gericht, Welt-gericht), che è «giudizio sul mondo,sulla struttura e sulla storia del mondo»e, insieme, compimento assoluto del tèA0c «cui si intenziona l’imperativo ontoassiologico dell’eterno»%°, Ma tale compimento, dove potrebbe davvero cessare l’insoddisfazione del deve-essere che ci lega al tempo, non è più cosa che appartengaal tempo,alla storia, alla terra. Caracciolo, è evidente, non pensa più dal punto del tempo, e nemmeno più dal punto dell’Augenblick, dell’atomo di eternità esperibile e possibile nel tempo. Pensa, come solo può fare vivendo, dal punto della morte. Da questa sponda si sporge di là dalla vita, di là dal tempo, di là dalla terra, di là dall’«aivola che ci fa tanto feroci»®!. Si sporge diversamente da Dante e diversamente da Croce, perché né è pago come Croce e come Jaspers dell’attimo, né è già solo, sia pure in poetica finzione, «lassù nel cielo». Da questa sponda, dove ancora si trova con tutta la finitudine e tutto il desiderio dell’essere mortale, si sporge di là da essa. E poiché non può farlo nel modo della visione — che potrebbe anche essere il modo dell’accecamento — sono ancora legittimi i dubbi, le inquietudini, le perplessità, che non toccano l’imperativo dell'eterno, mala vita eterna: «Non potrebbe darsi che quel che l'imperativo ontoassiologico dell'eterno esige [...] risultasse, in prospettiva escatologica, null’altro che un imperativo, un conato, un postulato destinato al non compimento o a un compimento sempre ancora parziale, quali e quante che siano le palingenesi cosmiche? [...] Tutto quello che l’imperativo dell'eterno testimonia e assicura potrebbe insommarisolversi in questo: la eternità, la Go aiovioc, deve essere; Dio deve essere, senza che nulla sia dato trarre da esso circa la possibilità che al deve essere corrisponda un é»°2.
è
59. Cfr. Esistenza e Trascendenza in K. Jaspers, cit., pp. 79-80 (infra, pp. 108-109). 60. Peccatum mundi, peccato, Giudizio,cit., p. 150 (infra, p. 174). 61. Si veda il significativo brano crociano intitolato Di /a dalla vita, inserito da Caracciolo ne La verità nel dominio del poetico,cir., pp. 175-176 (infra, pp. 199-200). 62. Peccatum mundi, peccato, Giudizio, cit., p. 142 (infra, p. 166 s.).
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Dubbie perplessità valgono, in ogni caso, solo come segno di conferma dell’apriorità del bene e dell’eterno, perché l’imperativo resta saldo e si risolve precisamente in quel deve-essere che mostra all’uomo la propria condizionefinita, in quel deve essere che può essere sorretto solo da una fiducia esposta al dubbio e in ogniistante vittoriosa del dubbio — mentre desiderare di più sarebbe desiderare con Caracciolo, novello Socrate, d’essere morto8?. Come l’amico P. Piovani e in mododiverso da lui, anche Caracciolo era
portato non già «a ritrarsi di fronte alla domanda più nietzschiana di Jaspers:
“La verità è forse la morte?”»®%, ma a inoltrarsi in essa, ad ascoltarla come
una domanda aperta che, meglio formulata, consentiva la speranza nella possibilità dell’impossibile. La verità è custodita nel mistero della morte? E in modotale che essa può rilucere — non più solo în nube el aenigmate — a colui che ha compiuto il passo del commiato? Se così si finisce nell’impensabile e nell’impossibile, è però il pensiero a finirvi - mentre non è già più pensare precludere a se stessi il pensiero dell’impensabile. L'aldilà della vita, V'aldilà «della morte, è “oggetto” di pensiero anche quando mi obbligassi a tacerne. Piovani, l’amico che pare esaurire l’eternità «nel lume intrinseco agli abissi del consummatum est», aveva scritto: «Preparata dalle inesorabili sottrazioni di tutti i giorni (‘Cum crescimus,vita decrescit’), la morte ha la negatività emblematica che, sola, può fare intendere, nella conclusiva cono-
scenza privilegiata, la positività dell’esistere accettata nel recuperante desiderio dell’inesistere, chiudendo coerentemente il ciclo dall’incognito all’incognito, dentro il quale il raggiunto silenzio non ha motivo di rinnovare o di rinnegare la speranza perché, in ggite tacito, già la include»f5.
63. Ho ricordato altre volte che Kant ha mutato in /ode della Provvidenza il limite imposto all’umana capacità di visione, concependo l'impossibilità di rispondere in piena luce al dubbio metafisico come la salvaguardia della libertà, della dignità e del valore della persona. Si veda per questo motivo il nono paragrafo della «Dialettica della ragion pura pratica», intitolato «Della proporzione saggiamente distribuita della facoltà di conoscere «dell’uomoin vista della sua destinazione pratica». 64. P. PiovANI, Oggettivazione etica e assenzialismo, cit., p. 138. Troppo avvinghiato n Paolo nella lotta per non stravolgerne l’annunzio, Nietzsche ha opposto alla presunta ‘verità’ della morte, ovveroalla definitività della morte e del niente, la sua ‘resurrezione’: il mito del Ritorno. 5. Oggettivazione etica e assenzialismo,cit., p. 143.
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Alla medesima soglia Caracciolo si avvicinava non solo con infinita nostalgia di questo mondo segnato dal male e partecipe d’eferno, non solo con «lo smarrimento creaturale di fronte all’ignoto del mondo che si apre», ma con una trepida speranza. Visto da questo culmineil suo ultimo libro, in quanto dominato dal principio dell’eterno, appare davvero, alla fine, «come un alto canto o una profonda meditazione o forse un liturgico salmo (chi saprebbe dire, ma valgono qui ancora tali distinzioni?) di commiato dal mondo. Anche in esso ultimamente determinante è uno sguardo amplissimo, sovranamente pacato, rivolto alla luce dolorosa del mondo dalle soglie della morte»%9. Domenico Venturelli
66. Nel caratterizzare così Nulla religioso e imperativo dell'eterno G. Moretto riprendeva deliberatamente le espressioni con le quali lo stesso Caracciolo aveva parlato di Unterwegs zur Sprache, in chiusura del saggio Heidegger e il problema del nichilismo (1978). Cfr.: G. MORETTO, Filosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo, cit., p. 215 e A. CaraccioLo,Studi heideggeriani, cit., p. 239.
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NULLA RELIGIOSO E IMPERATIVO DELL’ETERNO STUDIDI ETICA E DI POETICA
AVVERTENZA
Raccolgo qui, con saggi di questi ultimi anni, altri, lontani nel tempo, maassai vicini per le domande che vi si pongonoe per i motivi chevisi delineano. In tutti la riflessione verte sul religioso: sul suo spazio, sull’imperativo che lo domina. Diquiil titolo del libro: Nulla religioso e imperativo dell'eterno. Il sottotitolo -- Studi di etica e di poetica — non sta certo a indicare una dissoluzione del religioso nell’etico o nel poetico; intende, al contrario, affer-
mare che proprio nello spazio del religioso ethos e poiesis originariamente respirano. Solo nella ferma coscienza di questo e nella conseguente fedeltà ai classici del religioso ha consistenza e offre speranza una Rehabilitierung dell’etica e della poetica.
Ringrazio i Colleghi che mi hanno gentilmente concesso di riprodurre qui i saggi originariamente apparsi in volumi da loro curati o nelle Riviste da loro dirette. Genova, gennaio 1990
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SUL RAPPORTO RELIGIONE-MORALE(1959)
Del rapporto religione-morale si trovano interpretazioni antitetiche tanto nelle concezioni più umili quanto in quelle più alte della religione. Così, ad esempio, nella concezione antichissima e più volte ritornante, che riporta l’origine e l’essenza dell’atteggiamento religioso al terrore di fronte alle forze soprannaturali aventi potere sulla natura e sull’uomo,il sentimento del terrore nppare ora come strumento di vita morale, ora invece come suggerimento di uzioni malvage. In un frammentodi Crizia si legge: “Sembra a me che un uomoaccorto c astuto abbia trovato per gli uomini la paura degli dei in modo chei tristi ivessero timore anche a commettere o a dire o a pensare cosa malvagia di nascosto. Egli introdusse così la Divinità. C'è un Demone - disse — che vive eterno, pieno di forza, che con lo spirito vede e ode e ha intelligenza oltre l'umano; egli ha natura divina e tutto osserva. Egli ode tutto quello che tra gli uomini vien detto ed è in grado di vedere tutto quello ch’essi fanno. E se tu nel tuo segreto vai escogitando qualcosa di tristo, ebbene questo non rimane occulto agli dei. Perché essi posseggono una conoscenza superiore all’umana. Con simili discorsi quell’uomo introduceva la più astuta delle dottrine, velando la verità con ingannevoliparole”. Così Crizia. Madicontro Lucrezio: “saepiusilla religio peperit scelerosa atque impiafacta””?,
1. Diels, B, 25. Si è tenuta fondamentalmente presente la traduzione di W. Capelle, Die Vorsokratiker, Stuttgart 1953*. 2. Derer nat., 1, 83-84.
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come testimonia il sacrificio di Ifianassa, in Aulide, per mano del suo stesso
padre Agamennoneal fine di propiziare gli dei “exitus ut classi felix faustusque daretur”. Così per Crizia come per Lucrezio la religione è frutto di inganno: inganno inconsapevolmente subito dalla suprema consapevolezza dell’accorto, per il primo; inganno naturalmente ingeneratosi nell’uomodi fronte ai fenomeni cosmici, non ancora disvelati dalla scienza, per il secondo. Pure, per
ambedue è terrore: moralmente provvido per il primo, moralmente obbrobrioso nelle sue possibili conseguenzeperil secondo. Manoningannonéterrore, bensì atteggiamento supremo dell’uomoè per. Kant e Kierkegaard (s’intendela religione nella sua idea autentica, non un qual-siasi atteggiamento che ci si proponga sotto tal nome). Dove però Kant (Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft) identifica la religione con la moralità e riconosce l’uomoreligioso nell’uomo che obbedisce in purezza morale alla legge morale, vista (in quanto uomoreligioso) come comando divino, escludendo tuttavia dai moventi del proprio agire ogni atteggiamento servile, ogni anche lontana preoccupazione di punizione o ricompensa, non pur nel mondo, manell’eternità; dove cioè Kant identifica la religione con la mora-
lità e costituisce la moralità come metro supremoperstabilire il grado di auten-
ticità di tutte le concrete religioni, storiche e possibili, crisitanesimo incluso;
Kierkegaard parla di una irrapportabilità tra piano etico e piano religioso, come piani che obbediscono a leggi assolutamente diverse. Quel che risulta necessario nella vita religiosa, può apparire enormità e delitto su piano etico. Le pagine in cui Kierkegaard (si veda soprattutto Timore e tremore) ragiona questa contrapposizione, analizzate pazientemente, si rivelano insostenibili in ogni loro concreta argomentazione, eppure l’intuizione profonda che le ha generate racchiude tanta potenzialità di nuova dAmMBera e di nuovo orizzonte di vita che a quei cattivi ragionamenti si è rifatta gran parte della speculazione contemporanea sulla religione, e, non cheil concetto, il termine stesso di morale nell’acce-
zione antica ne è rimasto irreparabilmente scossoe screditato. Per vedere chiaro nel rapporto è evidentemente necessario chiedersi: che cos'è religione? che cos'è moralità o eticità? Ma basterà condurre il discorso sul primo punto perchési evidenzi ancheil secondo. Per accostarsi all’intendimento del fatto religioso, è opportuno fissare l’attenzione sulla situazione metafisica dell’uomo. L'uomosi colloca nello spazio della Trascendenza. Ognirespiro del suo vivere, ogni atto del suo vario possibile operare è condizionato da una realtà o forza o volontà, come piaccia chiamarla, che nonè la sua, né di altro che gli sia dato pensare simile a sé. Tale 40
condizione investe l'emergere di ogni atto, così come la legge che si disvela internamente all’atto come normativa dello stesso. Ancora: ogni atto dell’uomo,sia esso filosofico, o comunicativo,o artistico, si apre alla Trascendenza,
in quanto lo spirito dell’uomo non può rimanere chiuso in nessun pensiero speculativo, per illuminante che esso sia, in nessuna realizzazione di umana comunicazione, in nessuna opera che venga creando o contemplando. Non parlo di realizzazione matematica o scientifica o tecnica, perché, anche
quandosirifiuti l’interpretazione pragmatistica e strumentalistica della prima c della seconda, la cosa appare, credo, immediatamente evidente.
Questo erompere dello spirito di là da ogni realizzazione via via attuata non ha il senso, che Hegelgli attribuisce, di una semplice tensione verso una serie infinita di consimili realizzazioni, non è un semplice oltrepassamento orizzontale; è, per dir la cosa con le parole di un pensatore contemporaneo, un Durchbruch verticale. Per esso non si sposta l'orizzonte visivo e progettuale sul piano della storia, ma si tende a spezzare verticalmente il temporale, erompendone. L'uomosi colloca dunque nello spazio della Trascendenza, emergendone e aprendosi ad esso. Ho usato la parola Trascendenza e non una parola impegnativa, come Dio o Divinità, perché con tale parola, resta determinato lo spazio in cui possono trovar luogo e intelligibilità le più varie concrete figure cheil termine del religioso ha assunto nel tempo, e che possiamo immaginare assuma, fino a quella più alta; e perché resta così impregiudicata una questione assai grave e dibattuta in filosofia della religione, se cioè per la determinazione di questa sia necessario che il termine intenzionale abbia carattere personale. Parlando dunque di Trascendenza abbiamo lasciato impregiudicato il problema di come concretamente si presenti nella coscienza religiosa quello spazio: se come forza impersonale, o come persona, o come pluralità di persone; se come realtà benefica o come realtà malefica. Ci preoccupiamo soltanto che quello spazio non si restringa, perché esso potrà essere un nulla, ma un nulla che è tutto. Lo scandalo della trasformazione del Nulla nell’Essere nella filosofia heideggeriana è uno scandalo perennemente presente nella religione. “Que Dieu soit une sorte de frontière des pensées humaines, un ‘tout’ qui se manifeste comme un ‘rien’, c’est ce que voyaient déjà les anciens Egyptiens, quand ils spéculaient sur le nom de dieu Atoum, nom quisignifie à la fois ‘tout’ et ‘rien’.
3.
G. VAN DER LEEUW, La religion dans son essence et ses manifestations, Paris
1948, p. 180.
4i
Abbiamodetto che percapireil fatto religioso occorre rendersi conto della situazione metafisica dell’uomo. Machesi vuol dire con questo? L'uomoè religioso in quanto è così metafisicamente situato e strutturato, peril fatto solo di esserlo? Condizionato dal trascendente, sotto l’aspetto creativo, normativo, tensivo, è ogni uomo,sia che ne abbia, sia che non ne abbia coscienza; e lo è in quanto
vive, e lo è in qualunque forma si determini il suo operare. Sarà opportuno allora distinguere l’essere nella struttura, che è già un vivere questa struttura, e l'essere consapevoli di questa struttura. Sarà anche opportuno precisare che quel vivere può essere più o meno intenso, perché, se l’uomo non può uscire dalla struttura metafisica, può viverla con intensità e profondità maggiore o minore; che all’intensità del vivente esperire può corrispondere, e può anche non corrispondere, una consapevolezza riflessa. Ci sono uomini che avvertono terribilmente quel che è loro nel loro fare, e paiono dimenticarsi che in realtà quel loro fare era anche non loro. Un piccolo embolo poteva arrestarli; l’acronicità o discronia di un’ispirazione poteva rovinarli in una situazione decisiva; l’ispirazione che ha permessoil loro riuscire (non importa si trattasse di una diagnosi o di una operazione chirurgica, o di un’intuizionescientifica o filosofica, o della conversione di un’anima) non era in loro potere evocarla a piacimento. Ci sono uomini che paiono essere paghi della costruzione quotidiana, sapienti della sapienza antichissima del qualche cosa. Osservato nella sua realtà — ontologicamente, strutturalmente — l’uomo è
dunquedi necessità religioso. Osservato nella consapevolezza della sua struttura, può esserlo più o meno.Il fatto poi che un uomo professi una filosofia immanentistica, positivistica, del finito o del temporale, del qua/che cosa, non
significa che egli non possa essere religioso su un piano più profondo dell’esperire o del “pensare”. Nel senso che siamo venuti dicendo la religione non è un particolare momento della coscienza dell’uomo, ma una struttura presente in tutti i possibili momenti. Essa è tuttavia anche un momento distinto, in cui l’uomo entra in
rapporto diretto con la Trascendenza: si pone immediatamentedi fronte ad essa, provandoneterrore o amore, venerandola o bestemmiandola, rispondendole con
l’invocazione e la dedizione o con la rivolta. Per capire il religioso anche sotto l’aspetto di struttura, conviene studiarlo sotto la figura di momento. A illustrare la natura di questo rapporto può giovare l’analogia del rapporto con l’altro comenostro simile. Ancheil porsi dell’uomo di fronte alla Trascendenza nel modo che si è detto è originario, costitutivo, non menodel suo essere conl’altro.
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Anche la Trascendenza come termine del rapporto non è qualche cosa cui si giunga alla conclusione di un processo argomentativo, quasi che con essaci si incontrasse avendo sia pur rapidamente ragionato su quella situazione metafisica che abbiamo esposto. Noi non argomentiamo il padre, la madre, il vicino: ci troviamo già in un rapporto di comunicazione con loro. Lo stesso deve dirsi per la Trascendenza. Certo ogni rapporto affettivo, collocutivo, invocativo, donativo con l’altro include una intuizione della realtà dell’altro, anzi un’idea dell’altro e di sé, anzi addirittura del mondo, perché
nessun essere può essere intuito fuori dell’unità inizialmente totale. Gli uomini hanno venerato e invocato gli Dei da sempre, prima di conoscerne la dimostrazione. Hanno incontrato il Nulla o il Tutto da sempre, prima che Parmenide o Plotino ragionassero dell’Uno. Certo ogni rapporto con l’altro, implicando un’idea dell’altro, ed esigendola, sollecita un ulteriore disvelamento della personalità dell’altro, e tale disvelamento può essere cercato per via razionale. Non è vero che anche un rapporto così radicale come l’amore escluda la critica, anzi può generare un interminabile e sempre nuovo approfondimentocritico. Lo stesso può dirsi dell’odio. Anche Dio, comel’altro, è un apriori*. Noici illudiamo di scoprire
l’altro nell’esperienza: mail rivelarsi dell’altro nella sua empiricità è il disve-
larsi insieme, in noi, dell’idea in virtù della quale lo giudichiamo, e siamo
indotti a trasformarlo o immaginarlo trasformato. Che Dio debba essere e come debba essere, seppure in nube et aenigmate, è implicito fin dall’inizio in ogni esperienza o atto dell’uomo: è implicito sin dall’inizio in ogni palpito del cosmo che l’uomo conosce in quanto neritrova la possibilità in sé. L'esperienza che l’uomo viene vivendo, partecipando, riflettendo, gli evidenzia che
Dio deve essere, come deve essere — sempre in nube el aenigmate —, non per quello che è, ma per quello che, essendo, in qualche infinitesimo modo attua c insieme sempre tradisce, per la legge che discopre al più profondo di se stessa, legge che è di quell’esperienza a un tempoil riscatto e la condanna. Il mondo — occorre rendersene conto — non è germinazione e complesso di cose, ma esiste e conta solo come mondodi coscienze, superiori o inferiori
che siano. Anche se fosse per noi pensabile la cosa fuori di un rapporto con una coscienza (come corpo o strumento od oggetto di questa), quella cosa sarebbe ciò che non genera problema, perché nulla sa né di sé, né dialtri,
4.
Il sensochequi intendiamo dare alla parola emergerà dal seguito del discorso.
43
perché non soffre e non gioisce: il suo esserci e il suo non esserci sono perfettamente identici nel significato. Le cose, seppure esistono ancora nella fisica di oggi le cose, hanno importanza per l’uomo che ne subisce l’offesa, per il tecnico che ne fa strumenti, per il poeta che ne fa dei simboli e così via. È questo cosmo, come compresenza di coscienze pensanti o comunquecapaci di volizione e sofferenza, che occorre avere presente quando si parla del problemareligioso. Forse, ove ciò non si dimenticasse, molte polemiche filosofi-
che e teologiche o sparirebbero o si attenuerebbero. Il contrasto tra filosofia della coscienza e metafisica perderebbe di senso, perché l’una si convertireb-
be nell’altra. Il contrasto tra via cosmologica e via assiologica non apparirebbe così radicale. Il fatto è che la mentalità naturalistica è tenacissima:è difficile accorgersi che la legge che può costringere un uomolibero a morire deve avere una oggettività per lo meno pari alla legge v=s/t la quale,tra l’altro, è legge di nuovo solo per uno spirito, non per l’oggetto fisico. Anche Dio, comel’altro, appare il termine di una povertà e di una ricchezza: assenza e presenza. Eppure se l’analogia col colloquio umano può valere, essa deve anche essere scartata. Quella Trascendenza — posto che si configuri personalisticamente - è un Tu assolutamente diverso da ogni altro tu. L'amore o il terrore che provo in suo cospetto è diverso da ogni amore o terrore che posso provare di fronte all'uomo. Quel che alla fine chiedo ad essa è ciò che nessun essere
umanopuò dare. Il Termine del religioso può essere estremamente vario: dall’oscura Divinità preantropomorfica, ad uno tra gli Dei di un Olimpoo di un Pantheon,al Tao di Laotse, al Dio di Abramo, al Dio cristiano, al Nulla o all’Essere di cui
parlano le religioni esistenzialistiche. Il contenuto del colloquio orante pure può essere varissimo: fa prosperare il mio campo, dammi salute, sterminail nemico, illumina la mia opera, aiuta il mio lavoro, fa che il bene mora/mente sia, fa che il bene merafisicamente si avveri. Che cosa modifica e innalza quel
Termine? Che cosa conduce l’uomo da un rapporto in cui la Trascendenza si configura nel modo più deforme a quello in cui questa assumegli aspetti più
alti, sia in positiva concretezza, sia in speranza,sia in disperazione? Che cosa
nobilita e amplia il contenuto del colloquio orante? Ancora una volta può servire l’analogia col rapporto comunicativo umano. Come in virtù di che si nobilita quest’ultimo? È evidente intanto
che, se la comunicazione con l’altro è un “momento”, essa, per l’unità dello
spirito, presuppone e include in sé tutti gli altri momenti; ma è anche un modoa sé, che ha pertanto una sua specifica natura, un suo specifico spazio 44
di possibilità, una sua specifica genialità. C'è una genialità della comunicazione. Ci sono i grandi e ci sono i mediocri dell’umana comunicazione. Sennonché che vuol dire grandezza in questo regno? La grandezza di una comunicazione implica supremo realismo e supremo idealismo nell’intuizione dell’altro: saper scorgere nella sua immagine reale la sua immagine vera, il suo io più profondo, quello in cui si occultano le sue possibilità più autentiche; significa potere, per una arcana intuizione, parlare con quell’io più profondo e, parlando, destarlo, rivelarlo, farlo essere.
Il che può accadere in raggio amplissimo nel grande educatore; mal’e-
ducazione non è, come ognunosa, la più alta immagine della comunicazione,
tanto è vero che i più profondi teorizzatori della stessa, per fondarne la nobiltà, l’hanno dissolta in altro, nel concetto di autoeducazione,in quello di
intereducazione, per cui insegnando s’impara e imparando si insegna, ccc. Cè qualcosa oltre l'educazione. Nelle forme più alte della comunicazione non ha nauralmente più senso il concetto di interesse, a meno che nons’intenda per interesse l’interesse stesso dell’esistere, non quello di carità intesa
come donazione (implicando la donazione un doloroso concetto dell’altro), non quello di educazione come intenzionale educazione. La comunicazione più alta è quella in cui l’altro cessa di essere il contingente (e ciò non solo come la presenza o l’incidenza in uno spazio temporale, nel qual caso la contingenza sarebbe solo apparentemente soppressa); la comunicazionepiù alta è quella in cui l’educazionesi attua fuori di ogni intenzionalità, in cui la donazione non è azione malinguaggio,e il contenuto è la stessa novitas mundi. Se questa è la figura più alta, quanto lunga e difformescala di possibilità fino ad essa: dalle primitive figure della suggestione ipnotica, del ricatto, del rapporto economico puro, spesso disonesto, del servilismo, dell’adulazione,
dell’accaparramento per fini egoistici, o talvolta anche non egoistici, ma traditi per il modo con cui vengono perseguiti, essendo fin troppo palese che il modo o il mezzo non è indifferente alla determinazione della natura delfine. Che dà ala al rapporto? Ma non basta dar ala: che dà vita al rapporto? Questo s’innalza, s’è visto, in virtù dell’innalzarsi del suo termine(l’altro) e
del contenuto: in virtù d’una capacità di capire e di immaginare (son termini terribilmente congiunti persino nella scienza) l’altro nella sua possibilità, di immaginare un contenuto di donazione-parola. Osserviamo questi verbi: capire, immaginare, parlare, creare. Son verbi che indicano azioni che siamo soliti ricondurre ad altri momenti della vita coscienziale: alla filosofia, alla
storiografia, all’arte per esempio. Ebbene peril saper altamente comunicare non basta aver molto capito e molto capire, aver molto immaginato e molto 45
immaginare e così via: il comunicare è una sintesi originale, in cui tutte
quelle azioni, che possono anche assumere autonomorilievo, si compiono in un atto unico in cui si fondono e trasvalutano. Certo quest’atto si nutre della ricchezza che in una persona sia stata di meditazione, di autodominio, di letture, ecc.; ma, perché la sintesi di ciò che fu o che poteva altrimenti essere
si compia, occorre un soffio creativo originalissimo. Questo è il genio della comunicazione. Alla domandaquale sia la forza che innalza il momento comunicativo,
pare dunque doversi rispondere: è tutta l’umanità dell’uomo,è la pienezza del suo essere comeverità, poeticità, vitalità, psiche subconscia persino, concentratasi e fattasi sintesi specifica per un atto che è compresenza di ispirazione e di slancio evocante. Se tutti ì contenuti, anche i più immorali, possono entrare nella comuni-
cazione, essa è autentica solo in quanto la sua radice ultimasia il bene. Anche il “genio” religioso si trova di fronte a quella stessa realtà di
fronte a cui si ritrova ogni altro uomo, di fronte a cui s’era ritrovato, forse
tornerà a ritrovarsi il lui stesso dei momenti non illuminati né illuminanti: la Realtà donde germinatutto ciò che è, ogni respiro ed atto: donde pare scaturire il bene e il male,l’ispirazione e la tentazione, la vocazione alla santità e
l’insidia. Anch’egli vede ogni atto del suo volere condizionato e sorretto da una donazione o imposizione condizionante. Anche per lui l’inappagamento che soffre in ogni atto che realizza può riuscire ambiguo: può essere persuasione a restringere la tensione e l’orizzonte del suo volere piuttosto che a nobiimente dilatario e impegnarlo; può essere suggestione all’annientamento anziché alla creazione; invito a porre dogmaticgmente la morte come niente
onninientificante, a priori escludendo ognialtra possibile interpretazione del suo mistero. Il volto della Trascendenza sembra a tutta prima ambiguo, perché ambiguo sembra il volto del reale che da essa è e ad essasi apre. Il “genio” religioso è posto dunquedi fronte alla stessa Realtà o a quella che potrebbe essere la stessa Realtà: ma di fronte ad essa entra in rapporto nuovo. La sua venerazione, la sua contemplazione, la sua invocazione inclu-
dono un’intuizione rivelatrice, dischiudono spazi di possibilità umane, evocano forze di creazione. Il mondo appare come non era mai apparso: passato e avvenire mutano volto. Il futuro si illumina e si dilata in un appello capace veramente di dar vita e slancio. La Trascendenza che poteva trovar figura in un basso animale (la Trascendenza era apparsa evidentemente in un frammento che, isolato, aveva carattere negativo), diventa il Dio che risana, che libera, che rasserena; diventa il Dio Padre; diventa il Dio che è al di là di
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ogni umana figura, concetto, parola, pur restando umanissimo. L’intuizione che sta alla base del rapporto con la Trascendenza si dilata fino, se posssibile, ad abbracciare tutti gli aspetti del suo presentarsi. Non coglie i vari aspetti isolati, ma fusi. S’approssima e forse anche raggiunge l’unità cosmica, appuntonella sua radice trascendente?. Nell’illimpidirsi e innalzarsi,il sentimento religioso vede il cosmo tutto — il cosmo inteso nel modo più sopra chiarito — come trapassato da una legge prima ed ultima, che, in quanto ne indica l’unica “pensabile” (anche se “non conoscibile’”) redenzione e giustifi-
S. Il termine “genio religioso” lascia chiaramente trasparire l’ Autore con cui chi scrive era — negli anni cui risale questo saggio — particolarmente impegnato nello studio e nell’insegnamento. Se è parso di doverlo lasciare, è perché il contesto non ne permetteil fraintendimento. Quale comunquefosse, già allora, la posizionecritica dello scrivente nei confronti dello Schleiermacher,risulta da una Nota a uno studio di poco posteriore (1962). “La presenza dello Schleiermacher non può oggi certamente affermarsi nel segno del tendenziale panteismo ottimistico delle sue prime Reden, né del reale o presunto soggettivismo o estetismo o anche umanesimo culturale, per cui - secondo l’espressione di Karl Barth (Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert, Zùrich 1946}, p. 388) il regno di Dio, sarebbe, ‘mit dem Fortschritt der Kultur schlechterdings und eindeutig identisch’. Ma forse proprio Barth, che, come è noto, segnò la più violenta rottura della tradizione riallacciantesi a Schleiermacher (pur dovendosia lui - nell’opera citata — uno degli studi più ispirati e illuminanti su tale autore) e che più di ogni altro ci rende consapevoli dell’impossibilità della ripresa sic ef simpliciter di quella tradizione cosi come se nulla fosse stato, è anche quello che, involontariamente, indica la ideale attualità del filosofo di Breslavia. La quale — per avvalerci di un termine jaspersiano (Die Frage der Entmythologisierung, PiperVerlag, Miinchen, 1954, p. 41) - consiste, innanzitutto, nella sua Liberalitàt (che è altra cosa dal Liberalismus), intesa come ‘grenzenlose Offenheit fiir Vernunfi und Kommunikation zum Gedeihenlassen aller echten Gehalte'. L'universalismo, non astrattamente illuministico, ma storico (e non necessariamente storicistico, né evoluzionistico) e potenzialmente esistenziale (il che non necessariamente significa ‘antropocentrico’, ‘antileocentrico’, come sazievolmente si è sentito ripetere) da un lato, e dall’altro la ‘aristotelica’ chiarezza distinzionistica nell’impostazione del problema — chiarezza che né l'esuberanza oratoria romantica né qualche eventuale accorlezza teologica valgono a oscurare — segnanola c/assicità di questo autore. Proprio lo spirito della Liberalità esige che non si consideri più la Glaubenslehre come un semplice ripiego o caduta rispetto alle Reden, ma - almeno problematicamente —- come il momento autentico di una dialettica profonda” [La filosofia del sacro, oggi, in “Giorn.crit. fil. it”, 1963, pp. 137-153, nota 2 di p. 143). Su Schleiermacher, comeinterprete delreligioso, si è svolto nel frattempo in Italia un lavoro di traduzione e di interpretazione rilevantissimo. Ci limitiamo qui a ricordare, emblematicamente, due fondamentali volumi di GiovaNNI MORETTO: Etica e storia in Schleiermacher, Bibliopolis, Napoli, 1979; Ispirazione e libertà. Saggi su Schleiermacher, orano, Napoli, 1986.
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cazione assoluta, è sempre giudizio — “crisi” — dell’uomo e del mondo. Questa legge è /a legge del bene. Tutto scaturisce dalla Trascendenza, tutte le forze di cui si alimenta e si tesse la vita coscienziale; ma — e nella sua vita e
in ogni vita che riesca anche pur con l’immaginazione a partecipare — questa l’uomo sente comela forza che soggioga a sé ogni altra forza, come la legge delle leggi: che il bene deve essere. Tutti i possibili trascendentali si unificano in questo supremo trascendentale. Ma che vuol dire che i/ bene deve essere, o che la realtà tutta deve essere
bene? È dunque vero chela religione si risolve nella morale, come Kant pensa o sembra pensare, fermi chesistia alle più esplicite definizioni di Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft?® Questa legge del bene che l’uomoreligioso sente come l’esigenza radicale scaturente dalla Trascendenza non significa che questo: che l’essere, in quanto coscienza (anche nella sua più povera forma), sia realtà non dilacerata, non in sé assurda, ma realtà internamente giustificata e conciliata, realtà in
cui sia soppresso lo scandalo del male. Coincide questo bene metafisico col bene morale? Che cos'è il bene morale? che cos'è morale? È la realizzazione della vita nostra e altrui (i due termini sono correlativi) conformemente a quello che la coscienza ci viene rivelando come dover essere. La moralità non è identificabile con nessuno dei modi della coscienza e della volontà perché investe tutti questi modi. I quali — tutti - debbono trovare consacrazione nella moralità, debbonoriconoscersi, e finiscono di fatto col riconoscersi, come forme del
dover essere: nessuno naturalmente è valore in quanto isolato, ma sempre nella sintesi. L'umanità nella sua storia ha conosciuto nel suo travaglio etico (e ogni singolo più o menoripercorre la stessa vicenda) il dubbio circa la moralità di questa o quella categoria. Il Medio Evo ha messoin crisi — di fronte al valore della preghiera e dell’invocazione del trascendimento — arte, pensiero, socialità; l’illuminismo, la preghiera e la poesia, ecc. Lumanesimo
(idealmente inteso) consiste nel riconoscimento che tutte le categorie della coscienza sono valori, e all’umanesimo prima o poi la vita sempre riconduce. Si ha un belrinnegareil valore della corporeità, poniamo, o della politica, ma
6. Per l’interpretazione della filosofia kantiana del religioso, cui qui si accenna, mi permetto di rimandare a due miei saggiulteriori: Religione ed eticità (1967), raccolto nel vol. dallo stesso titolo (Morano, Napoli, 1971); Kante il nichilismo contemporaneo (1975), nel vol. Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli, 1976.
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basta trovarsi di fronte al malato o di fronte alla rozzezza della forza nel suo bruto imperversare, per intuire il valore della corporeità e della politica come tecnica — eticamente funzionalizzata — della forza. La definizione dell’umanesimo può essere questa: l’umanesimoè il riconoscimento dell’identità delle categorie coni valori. Comenella concretezza della vita debba operarsi la sintesi, quale categoria debba essere di volta in volta evocata come dominante, e come evocata, è
cosa che non si puòstabilire a priori, ma che solo la situazione può suggerire. Che vuol dire dunqueattuare la moralità? Vuol dire realizzare in sé e negli altri la vita come valore: cercare e diffondere verità, cercare e diffondere umanità e altezza di rapporti, senso e culto di ciò che si dice arte o bellezza, vincere malattia e miseria, creare condizioni fisiche ed economichepiù alte,
concependole come strumento per un più degno vivere mentale e umano, creare istituti politici atti a garantire col diritto e con la forza questo migliore livello di vita civile, realizzare in sé e negli altri l’humanitas. E se per caso l’humanitas richiede, secondo il monito agostiniano, che si trascenda se
stessi, anche a questo comando obbedire e anche questo comando altuare in sé e negli altri. Poiché la moralità include in sé anchela religione. Eppure ne è inclusa. L'uomo nonsolo avverte che ogni realizzazione di valore è condizionata, che ogni azione è sua e non sua, ma avverte che
nessuna relizzazione possibile è valore pieno. La moralità è sotto un certo aspetto il tentativo, che sentiamo come imprescindibile comando,di attuare la vita in sé giustificata, la vita assoluta; è lo sforzo massimo per immaginare la figura meno inadeguata della vita assoluta e lo sforzo massimo per attuarla qui sulla terra. Ma qui dove l’eticità pare per struttura sua umanistica, si rivela religiosa. L'idea e l’azione l’uomole sente trascendentemente condizionate. La più perfetta realizzazione non l’appaga: e ciò non quantitativamente, bensì qualitativamente. Perciò l’azione resta avvolta nell’invocazione. Il limite ultimo della preghiera in quanto preghiera per l’immanente è: o Dio, rivelaci quanto più è possibile il nostro dovere, facci chiara davanti la più alta immagine della vita e della realtà che è possibile realizzare, aiutaci a realizzarla. La preghiera seria non rimette a Dio il compito dell’uomo, ma chiede rivelazione e aiuto per l’immaginazione e la volontà che l’uomo non risparmia. Sennonché la vita morale non è vita in sé giustificata. Dalla vita morale sale ancora terribile l’invocazione dell’uomo. L'insufficienza della vita non si avverte solo di fronte al moralmente fallito, si sente anche di
fronte all’uomo rnorale, e quell’insufficienza superstite non è riconducibile a edonismo o eudemonismo. È qui che nascelo slancio al trascendimentoe alla 49
Trascendenza: l’anelito ad altra vita in relazione all’A/tro. È qui chesi capisce comecostitutiva dell’atteggiamento religioso sia di necessità la negazione del mondo. Non è un caso che le più alte religioni abbiano rivelato sempre uncarattere ascetico. L'altezza di una religione si commisura però dal fatto se questa negazione nasce al di qua o al di là dell’affermazione del mondo. Autentica è quella religione in cui l’avvertimento della non sufficienza e l’anelito al trascendimento cadeal limite della realizzazioneetica. Perché ciò sia possibile occorre che il Dio cui va l’invocazione sia intuito insieme comesimile e diverso: che abbiano verità insieme l’analogia e l’alterità. Ma è, questa, discussione su cui non desideriamoquiinoltrarci.
Proprio dello spirito autenticamente religioso è dunque questo: di volere gli umanivalori e di sentirne insieme l’insufficienza. Di qui quella presenza e quel distacco dal mondo,di cui l’espressione classica è rimasto l’òg ui) della Prima ai Corinti, 7, 29-32.
Perciò la religione è nella sua figura più alta aspirazione a trascendereil temporale, aspirazione alla vita eterna (comevita in cui sia soppresso il male quale interna dilacerazione e assurdità dell’esistere) in relazione alla Trascendenza. È invocazione, nel suo raggio ultimo, cosmica: che tutto sia bene. Nella figura in cui tende a compiere se stessa la religione è sempre religione di salvazione. Aspirazione alla vita eterna. Implica questo concetto quello di immortalità della persona? È questo un punto su cui sarebbe importante fermarsi. Nei maggiori pensatori dell’esistenza c’è la tendenza a separare quanta più è possibile il concetto di efernità da quello di immortalità, o, più esattanente, a togliere come carattere dell’eternità la nota dell'immortalità, a far risultare
non necessaria all’eternità la sopravvivenza. L’eternità è la temporalità stessa in quanto verk/drt, in quanto trasformata in Augenblick. “Die Gegenwart des' Ewigen ist Unsterblichkeit”. “La presenza dell’eterno (qui nel mondo, che per essa cessa di essere mondo): questa è l’immortalità” — scrive lo Jaspers?. “Ich erringe die Unsterblichkeit, sofern ich liebe und gut werde”. La preghiera stessa cessa di essere invocazione perché è già realizzazione di eternità. L’esistenzialismo rifluisce così nell’idealismo, eternizzando il tempo,
non più sotto l’aspetto di necessità, ma di possibilità. Gli istanti divengono i
494.
7.
Die Atombombe und die Zukunft des Menschen, Piper Verlag, Miinchen, 1958,p.
8.
Unsterblichkeit, in Philosophie und Welt, Piper Verlag, Miinchen, 1958, p. 154.
50
punti di cui l’uomo vive e si alimenta nel tempo mediocre, in attesa di altre illuminazioni. La critica di questa posizione è forse implicita nel senso di quanto siamo venuti dicendo’. La nostra analisi del fatto religioso resterebbe sospesa, se non ritornassi-
mo a vedere in che rapporto sta la religione come momento con la religione come struttura. Ebbene diremo brevemente che è il rapporto che nella settimana del cristiano intercorre tra la domenica e gli altri giorni. Religiosa è quella e religiosi sono questi. Momentoreligioso specifico è quello in cuisi fa esplicita l’invocazione che investe e trapassa tutto l’umano operare. Caratteristica della religiosità del nostro tempo è un rarefarsi della religione come momento, cioè come invocazione esplicita, e un intensificarsi della stessa come invocazione implicita, spesso tragica. E ciò perchéil nostro tempo conoscepiuttosto lo spazio di Dio che Dio.
9. Non detto chetale critica coincida con la difesa dell’idea tradizionale della immortalità dell'anima, ancor meno conla ripresa dell’idea teologica tradizionale dell’inferno e del paradiso.
SI
II IL TRASCENDENTALERELIGIOSO*
Il principio che sta alla base del discorso sul religioso che veniamo conducendo è quello della costitutività e della fondamentalità della dimensione religiosa nella sua duplice figura: di struttura ultima presente in tutti i possibili modi dell’esistenza — di modo autonomo. Mail principio assumenaturalmente la sua identità solo nella concreta maniera in cui è pensato; solo in
quanto sottolineato negli aspetti essenziali di tale concretezza, rivela le sue reali capacità di chiarificazione e di orientamento. Quel principio è un principio trascendentale. Lo sforzo continuo è stato e continua ad essere — di allontanare da questa parola, fondamentalissima e irrinunciabile, le facili accuse cui si accompagna per le note (spesso ahimé quanto superficiali) obiezioni sorte in relazione a una delle sue figure storiche, la kantiana: accuse di soggettivismo, di antropocentrismo, di formalismo. Come può parlarsi di soggettivismo in relazione a ciò che si pone per noi col carattere insieme della necessità ontologica e della categoricità etica? (‘ome può parlarsi di antropocentrismo per le strutture e i modi di un essere «quale l’uomo, irreale e impensabile fuori dell’inserimento nel cosmo, fuori
* Queste pagine ancora inedite furono stese nell’estate 1970. Erano nate come una npecie di Nachwort agli studi sul religioso che ero venuto scrivendo lungoil decennio precedente. Il Nachwort, l'epilogo, era, naturalmente, insieme, un Vorworf, un progetto perla flessione ulteriore. Lo scritto, nonostante questo suo carattere di pausa e di passaggio, mi è parso serbare la sua autonomiadi senso,e, nel suo essere “datato”, una sua attualità. Penso che i problemi che tenta non di risolvere, ma di in qualche modo evocare e «delineare, siano proprio quelli al fondo dell’“inquieto”, insonne Denkweg umanoe scientitico di Ferruccio Masini. Alla figura di Ferruccio Masini, lo scritto, nel suo apparire, si uvverte legato; alla sua memoria intende essere dedicato.
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dello spazio della Trascendenza? Né è possibile convincersi che questo spazio sia o possa rappresentare una proiezione mitica “contingente”, eliminabile ed eliminanda, dell’uomo, dal momento che l’uomoè tale — sente, vede, pensa, agisce, muore così come fa in quanto uomo —, proprio perché in lui è presente e operante quello spazio. Non che una proiezione mitica, quello spazio è piuttosto la crisi e la distruzione di tutti gli idoli e di tutti i miti, a meno che il termine mito non sia preso per sinonimo di merafora. Maseil necessario carattere antropo-cosmo-teolegico del trascendentale, il suo emergere e gravitare da e sull’ultimo dei tre momentirisulta a un certo punto troppo evidente perché si possa ancora seriamente ripetere la vecchia accusa di antropocentrismo, più resistente pare l’accusa di formalismo. I termini “Trascendenza”, “spazio di Dio”, non sono,essi stessi, tali da
suggerire l’idea di uno spazio trascendentale in cui possono sì collocarsi le più diverse figure di Dio, ma per sé vuoto? Posto che del trascendentalereligioso, come di ogni trascendentale, siano costitutivi i tre momenti accennati — l’umano,il mondano, il metamondano - il formalismo e l’astrattezza paiono
qui minacciarlo non solo relativamente al primo e al secondo, ma anche, e più pericolosamente, al terzo. Sennonché è pensabile uno spazio trascendentale vuoto? La Trascendenza è un semplice trascendentale del Divino, anzi, genericamente, dell’ Altro dal mondano? Che la Trascendenza non sia formale astrattezza, ma concretamentesia,
lo testimonia il frutto della sua presenza nell’intimo dell’uomo. Se l’uomo non vive chiuso entro i “moenia mundi”, serrato — nell’immaginazione nel,
pensiero nella volontà — entro le strutture costitutive di questo, cieco e sordo a ogni alterità; se non opera nel mondo comeil semplice ‘addetto ai lavori” chiamato a eseguire un compito particolare nel contesto di un piano generale su cui gli sia vietato gettare lo sguardo ed esprimere un giudizio; se, anzi, perennemente evade da questa posizione mortificante e servile ed è pertanto in certo modo sempre “empio”, ciò accade perché Qualcosa di estremamente reale e concreto è in lui. Senza questo Qualcosa, né l’invocazione esistentiva, né la problematizzazione filosofica, né la solitudine comunicativa, né l’angoscia poetica sarebbero. Né Budda, né Platone, né Sofocle, né Shakespeare
restano intelligibili senza l’idea di quella Realtà, comunque debba o possa essere pensata. Eppure, a questo punto, il sospetto dell’astrattezza può assumere aspetti più sconcertanti. La Trascendenza, si è detto, rivela innanzitutto il mondo
come contingente, non tanto, primariamente, nel senso che il mondo non ha da 54
sé il suo essere, ma nel senso che nonha, nelle possibilità incluse nelle sue
strutture costitutive, una giustificazione sufficiente del suo essere. Ma, proprio in quanto svincola dall’idea che il mondo, nella misura e nel modoconcuici si rivela, sia l’unico dei mondi possibili, non fa sorgere l’incubo di mondi
strutturalmente anche più negativi? Anche storicamente, del resto, non sono nate, sullo spazio aperto della Trascendenza, prospettive di mondi più assurdi di quello che ci è noto? L'idea di un aldilà, che perristabilire la giustizia mancante nell’aldiqua presenta una spartizione irrevocabile assoluta tra giusti e reprobi, salvi e dannati, non è forse, se pensata a fondo, tale da indurre a un
pessimismo metafisico più terribile e irriscattabile di quello che può nascere di fronte ai Lager nazisti e non nazisti, a Hiroshima o a Nagasaki? La verità è però che, se la Trascendenza evidenzia il malum mundi, la
contingentia mundi, ciò fa in quanto si pone come imperativo ontologico del
bene: inteso naturalmente non in senso morale, ma metafisico, comel’esiste-
re internamente giustificato. La Trascendenza evidenzia il male in quanto lo esige negato. E tra il male negatò rientra, evidentemente, non solo l’assurdo inscritto nelle strutture del mondo che ci è noto, ma anche quello implicito nelle strutture dei mondipossibili. L'inferno, così come questo è stato pensato da certa teologia, è esso stesso quello che la Trascendenza, nell'atto che ne consente l'immaginazione, esige negato. La Trascendenza, evidenziando il male, non solo ne esige la negazione, ma neinizia la negazione,filtrando la temporalità di qualche luce di erernità. Certo questa affermazione urta contro obiezioni gravi. Non c’è la possibilità che nel suo spazio si delinei “il brutto poter che ascoso a comun danno impera”, un “di futuro del dì presente più noioso e tetro”? Comesi spiega, se quella proposizione è vera, la disperazione metafisica? Come può accadere che la Trascendenza permetta insieme la domanda assoluta nella sua assoluta nmbivalenza e sia anche sempre inizio di risposta, anzi di risposta positiva, che è quanto dire di sa/vezza? Come può, se quella proposizione è vera, parlarsi‘ancora di un malum mundi, e, correlativamente, di un mondostruttural-
mente altro rispetto al noto o all’immaginabile? Sono domandelegate a troppo tragiche realtà perché sia lecito permettersi del facile ottimismo; e sono, per altro verso, domande che rischiano sempre di farsi “trascendenti” nel senso kantiano del termine. Nell’osarne una timida risposta, occorre guardarsi da quell’ottimismo e non trascendere il limite di ciò che possiamo esperire nel modoin cui lo possiamo esperire. Le prime tre, se ben si guarda, non sono che diversi aspetti di uno stesso problema. Ora questo sembra possibile dire: la Trascendenza è presente nell’uomo comefonte di inquietudine. L'in55
quietudine che essa suscita è di natura esistentiva o, se piace, soterica, ma di
raggio cosmico: è l’ansia di una vita che sia giustificata in se stessa, per ciascunodegliesistenti e dei viventi nella totalità degli esistenti e dei viventi'. È richiesta di senso. Ci sono esperienze di fronte alle quali la presenza della Trascendenza pare agire solo come urto contro l'assoluto non-senso, come pura disperazione su piano esistentivé o soterico, come assoluta notte su piano filosofico. Ma, se la Trascendenza opera come generatrice del problema dei problemi, essa si pone anche come l’imperativo ontologico che'il mondo cometotalità degli esistenti e dei viventi abbia un senso. Il fatto che debba averlo non significa, per sé, che lo abbia, così come un imperativo
etico, il quale comanda che qualcosa sia fatto, non implica necessariamente che quel qualcosa venga realmente fatto. Ma la Trascendenza, suscitando. l’ansia soterica (su piano riflesso: l’interrogazione filosofica), sollecita la ricerca di una risposta salvifica (su piano riflesso: metafisica), comanda che
si guardi se mai ciò che appare come la negazione del senso, collocato in altra prospettiva, affrontato con altra fantasia, altro coraggio, altro respiro, non riveli presenze o possibilità di senso prima ignote; se l'evento, che pareva non consentire altro che, col no radicale al tutto, la negazione della propria esistenza, non risulti invece come discoprimento del mondosotto altra figura e comedischiudimentodi altro avvenire. Ora in ogni evento tragico lo “scandalo” ha sempre un duplice aspetto: per un lato è ribellione all’evento nella sua singolarità, per un altro è ribellione alla struttura in cui quell’evento nella sua irrepetibile singolarità s’inscrive. La contingenza investe l’eventa sotto l’uno e sotto l’altro aspetto. E la Trascendenza esige negato lo scandalo sotto l’uno e sottol’altro aspetto. Questa imperatività ontologica del bene è impensabile fuori dalla connessione con l’imperativo etico. Essa esige che il bene, inteso comel’esistere internamente giustificato degli esistenti e dei viventi, sia. Prescindiamo peril momento dal problema dei viventi (pur estremamente grave) e fermiamoci a quello degli esistenti. È possibile un’idea del bene inteso in questo senso metafisico indipendentemente dall’evocazione e dalla determinazione della
destinazione etica dell’uomo? Il volto del male metafisico non cambia a seconda che io concepisca la destinazione etica dell’uomo edonisticamente, moralisticamente o eticamente? E, d’altra parte, il configurarsi dell’imperati-
I. Si intenda “viventi” nel senso di “coscienzialmente viventi”, di dotati di una qualche forma di coscienza sia pure elementare.
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vo etico è pensabile indipendentemente da un determinarsi dell’imperativo ontologico del bene? L'imperativo etico non è in fondo l’aspetto stesso che assume l’imperativo ontologico in quanto, nell’atto che si fa presente nel singolo, lo investe della responsabilità di sé, gli comandadi volere il suo realizzamento, di operare per tale realizzamento entro i limiti concessi alla sua finita potestas? La Trascendenza, in quanto come imperatività ontologica di bene investe l’uomo nella sua eticità, appare dunque non comequella in cuisi smorza bensi come quella in cui si illumina e si sprigiona l'impegnooperativo dell’uomo. Maproprio dal fatto che l'imperativo etico si identifica nella sostanza di ciò che comandacon l’imperativo ontologico, emerge necessariamente l’abisso di impotenza che sottostà al e circoscrive il potere dell’uomo in quanto uomo, in quanto necessariamente sempre questo particolare uomo in una particolare situazione. Per quella coincidenza, l’imperativo etico appare, innanzitutto, indipendente dal potere dell’uomo nella sua scaturigine, nella sostanza del suo comando, e, in gran parte, nell’ora e nella misura del suo rivelarsi ed effettivo imporsi. La disposizione all’ascolto, al dialogo che media l’ascolto, l’impegno, non bastanoad assicuraretale rivelarsi e imporsi. La buona volontà non assicura per sé l’ispirazione; ed è sempre incerto in quale misura essa sia condizionante piuttosto che condizionata: ciò vale non solo nel dominio dell’arte, ma per l’intero cerchio dell’esistere. In secondo luogo, l’imperativo per sé abbracciala totalità degli esistenti e dei viventi non solo che sono, ma che furono, che saranno, che potrebbero essere: di tutti
esige redenta la negatività che appare destituita di senso. Ora palesemente l’arco, cui può con effettive possibilità di incidenza estendersi l’operatività di un uomo, è estremamente circoscritto nello spazio e nel tempo. Tale operatività è condizionata da un complesso di fattori — l’essere vivi, sani, liberi di agire, l’avere fantasia, genialità, slancio, tenacia, fortuna ecc. — che o per
nulla o solo parzialmente e mediatamente dipendono da noi, ed è soggetta alla ben nota legge per cui un’azione, per quanto ponderata nelle possibilità dei suoi esiti, una volta agita, sfugge al nostro dominio, opera, per così dire,
per sé, imprevedibilmente. Nessun filosofo ha mai potuto prevedere - se non in limiti visibilmente ristretti - quel che poteva nascere in ordine teoretico e pratico dal suo pensiero. La storia del mondonella seconda guerra mondiale ce oltre ha preso un corso terribilmente lontano dal progetto di ciascuno dei suoi protagonisti. In terzo luogo l’imperativo concerne l’eliminazione del male nella singolarità concreta delle sue manifestazioni, ma l’eliminazione reale di questo implica la possibilità di operare non su ciò solo che s’inserisce 57
nelle strutture ontologiche, ma sulle stesse strutture ontologiche. Ora c’è innanzitutto un’infinità di mali che, redimibili per sé in astratto dall’uomo in quanto uomo (fermo restando che anche sotto questo aspetto — in forza di ciò che siamo venuti rilevando — la possibilità dell’uomo in quanto uomo implica sempre elementi che esorbitano dal potere e dall’arbitrio dell’uomo), pur tuttavia risultano sottratti a ogni possibilità di redenzione da parte dell’uomo, quando questo sia considerato in concreto come questo o quell’uomo in una precisa situazione. La malattia di una persona rientrante nella sfera della mia responsabilità, curabilissima in condizioni normali, può diventare disperata se mitrovo in un luogo ove nonesistono né sono raggiungibili medici, medicine, ecc. Ma,a parte questo, l’imperativo di cui veniamo parlando, vuole, per sé,
negata la malattia non solo come questa malattia, ma anche sotto l’aspetto di possibilità trascendentale, e ciò nella misura in cui questa possibilità trascendentale risulta destituita di senso. Ora se la potestas humana appare ben circoscritta sotto il primo dei due momenti, quasi disperante appare peril secondo. Anchequile cose sono però più complicate di quel che a tutta prima può sembrare. È proprio così sicuro che l’uomo non possaincidere sulle strutture ontologiche? Comeè da intendersi una possibile modificazione delle strutture ontologiche? Restiamoalla struttura della morbilità nella dimensione della corporeità. Incidere su questa struttura non può evidentemente significare il semplice modificarne il concreto manifestarsi attraverso la scoperta e l’apprestamento di mezziatti a prevenire o a vincere queste o quelle malattie. Incidere sulla struttura in quanto tale significa, nel caso della morbilità corporea, sopprimere, nella dimensione della corporeità, la possibilità e il rischio della malattia intesa nel senso più vasto (dalle malformazioni del feto ai traumi per un incidente della più diversa natura). In realtà tra i progetti, per lo meno ipotetici, della scienza rientrano anche le prospettive di modificazioni radicali della corporeità. Si è parlato e si parla di evoluzionepianificata, di possibilità di modificare, attraverso mutamenti della corporeità, le strutture della vita
coscienziale. L'idea stessa della possibilità di scoprire e vincere i processi dell’invecchiamento e della morte è stata ed è presa in considerazione.Il pensiero “metafisico” della intrinseca contingenza di quelle che immediatamente appaiono comele categorie della necessità (anzi il simbolo stesso della necessità: per i latini mors era la suprema necessitas) opera qui traducendosi in possibile progetto pratico e dischiudendo così un preciso ordine di ricerche scientifiche. Che cosa si deve pensare in merito a tali progetti e a tali ipotesi? Offrono essi ragioni per infirmare o per confermare la natura strutturale della 58
morbilità? La vittoria sulle malattie elimina /a malattia? La vittoria definitiva sulle malattie è in linea di fatto pensata o è in idea pensabile congiunta con la soppressione di tutti i mezzi terapeutici (medicine — interventi — profilassi ecc.)? Eppure la eliminazione della morbilità come struttura che rende possibile i mali, proprio questo implicherebbe: la non necessità di alcuna medicina né di alcuna cura. La sua realizzazione significherebbe la scomparsa di laboratori, di ospedali, di medici, di farmacisti, di tutti gli infiniti operai o istituti
che stanno sotto il segno di Esculapio, operaio istituti il cui moltiplicarsi in ogni paese civile sta dunque non a infirmare, ma a tragicamente confermare l'indistruttibilità della morbilità. Anche l’idea della non immortalità della morte non è per sé assurda, ma, come già era stato intuito in un profondo mito greco (il mito di Titone, disperato per aver ottenuto dagli Dei l’immortalità che aveva chiesto in preghiera, ma non — congiunta — la giovinezza, che aveva omesso di chiedere), come è stato rilevato da Sartre in una capitale critica a Heidegger, la eliminazione della morte non sopprimerebbela finitudine umana, ma piuttosto la accrescerebbe: pertanto essa non toglierebbe minimamente l’aspetto di contingenza,il mistero dell’esistere?. Se dunque, in obbedienza ad una legge generalmente etica, e non solo specificamente filosofica, dobbiamo essere pronti a mettere in discussione la strutturalità di quelle che, non già per tradizione, ma proprio anche per precedenti riflessioni critiche, ci siamo convinti essere reali strutture, sta di fatto
che non si vede, per sforzi di immaginazione che si facciano, come sia dato all’uomo distruggere in sé e nella società non queste o quelle colpe, non queste o quelle sofferenze, ma la colpa e la sofferenza. La caduta e il dolore sono sempre in agguato — se non altro come possibilità — al di là di tutte le reali o presunte vittorie, di tutti i fondati o illusi autocompiacimenti, oltre
tutte le pause serene nella vicenda del singolo e dell’umanità nel suo insieme. L’estote parati et vigilantes non perde, ma accresce il suo senso nell’ora che più tende a farlo dimenticare. E c’è una verità profonda nel mito cantato da Schiller in Der Ring des Polykrates, anche se ci si deve guardare dal pericolo che essa si faccia sorgente, anziché di virile coraggio, di ossessione superstiziosa. La coscienza della strutturalità della colpa libera dalle illusioni utopi-
2. Larichiesta religiosa, radicale e ultima, dell’uomo non è l’immortalità, bensì |eternità, la quale implica non la semplice prosecuzione all’infinito dell’esistenza, mala trasfigurazione della stessa. Il problema è naturalmente se l'eternità possa essere veramente tale senza l'inclusione dell’immortalità.
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che, quali quelle che si possa costruire una società in cui siano eliminati — non queste o quelle manifestazioni, non questi o quegli strumenti, non queste o quelle storiche, o, come un temposi diceva, empiriche sorgenti dell’ingiustizia — bensì le radici stesse categoriali da cui germina, in possibilità e figure infinite, l’ingiustizia. Il ragionamento fatto per i morbi e la morbilità andrebbe qui ripetuto. E come là non è necessario agli scienziati credere nella utopia dell’eliminabilità della morbilità per lavorare alla ricerca degli strumenti atti a debellare i morbi, così qui non è necessario credere ad alcuna utopia malamente “metafisica” o “escatologica”. Anzi la libertà da queste è necessaria condizione del retto operare, perché liberarsi dall’utopia significa liberarsi da una visione del mondoe dell’uomo errata e perciò anche praticamente deviante. La capacità di guardare disillusamente in faccia la struttura ontologica del reale è non menonecessaria della capacità di guardare spregiudicatamente il volto storico della società per chiunque voglia responsabilmente operare per questa. Il coraggio dell’operare di fronte alla verità, di cui parla Pericle in Tucidide, non è un semplice ideale ateniese, è un appello perenne per l’uomo). Maquesta di cui siamo venuti parlando non è l’unica modificazione pensabile delle strutture. C'è un altro aspetto che dobbiamo considerare. Si è detto che, per l’essere nello spazio della Trascendenza, l’uomo e il mondo,
con cui l’uomoè solidale, risultano evidenziati nella negatività intrinseca alla loro struttura, ma pure abbiamo detto che sempre — anche neicasi più tragici — dalla Trascendenza viene, con la domanda, una qualche risposta: e tale
risposta è apparizione di un qualche senso là dove pareva essere il semplice assurdo. Consideriamo ancora la struttura della malattia. Di fronte a questa l’uomo ha reagito dunque da sempre, cercando non solo di vincere di volta in volte le concerete manifestazioni morbose, ma cercando di scoprire le cause dei vari tipi di malattie e cercando i mezzi per superarle (medicina come scienza o come tecnica terapeutica). Ora l’uomo, di fronte alla malattia, di
fronte soprattutto alle forme più dolorose, più paralizzanti, più cariche di umiliazione e di sconcerto (si pensi alle malattie mentali) che essa può assu-
3. Anchela droga appare talvolta come un tentativo di evasione radicale dalle strutture dell’esistenza. Ma anch'essasi rivela, sotto questo riguardo, fallimentare. Con la droga l’uomo non trascende, ma semplicemente altera o turba il normale operare delle normali strutture. Non che evadere da queste, resta prigioniero della loro “follia” e si sottrae alla possibilità della comunicazione.
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mere, di fronte all’evento estremo che minaccia, ha avvertito da sempre un
assurdo. Perché la malattia? Che senso può avere questo soffriretalora atroce? questo interrompimento spesso brutale della possibilità di pensare, fare, liberamente e creativamente comunicare, di quel vivere attivo insomma
in cui l’uomo normalmente pur trova un qualche sufficiente senso all’esistere? Perché l’incuboditutte quelle possibilità tragiche, che si chiamanoparalisi, istupidimento, pazzia? Perché quel corpo, che un giorno fu radice incarnazione manifestazione di una vita amplissima di pensieri, di fantasie, di propetti, di affetti, con la cui presenza un mondo immenso, un’apertura stermina-
ta di futuro, anzi di eterno, consorgeva, perché deve ridursi a quella miseria? Perché ciò che permise la vita e fu vita, permise l’intelligenza e fu intelligenza deve essere la condannae la realtà del morire e dell’istupidimento, pur tuttavia recando in sé il segno che ne fa ancora memoria e invocazione impotente di vita e intelligenza? Di fronte a questo assurdo è nata la rivolta, è nata una richiesta religiosa e teologica, esistentiva e speculativa, di senso. E in realtà l’intravedimento di una possibilità di senso e del congiunto appello alla realizzazione di un senso non è mancato. Non è qui necessario richiamare i momenti e i testi esemplari nella storia della ricerca di questo senso nelle varie religioni e nelle varie filosofie, anche perché sono noti; è piuttosto tempo di venire al problema. Questa apparizione di senso là dove sembrava sussistere il semplice assurdo, è ovviamente una, per lo meno parziale, disparizione di male strutturale: ora il fatto che il male intrinseco a una struttura ontologica cambi volto o grado di negatività pon rappresenta una modificazione di quella struttura proprio in quanto struttura? Il dramma del senso, la vicenda del suo occultarsi, del suo manifestarsi, del suo accrescersi e del suo
vbnubilarsi è qualche cosa che sopravviene dall’esterno della struttura, o è la struttura stessa nella sua vivente realtà, vista nel suo aspetto più radicale? La vicenda del senso non è la vicenda stessa della struttura? Ma se così è, non deve dirsi che le strutture, lungi dall’essere immodificabili, sono anzi perpe-
tuamente modificabili e sempre in attesa di immediata e non di semplicemente escatologica modificazione? Alcune considerazioni vanno fatte di fronte a queste domande, alle quali bisogna andare cauti a dare la risposta che viene più immediata. Innanzitutto non si era detto che le strutture in quanto strutture sono, nell’orizzonte della Trascendenza, quel che assolutamente non può
essere modificato: anzi si era detto all'opposto che esse risultano, in quanto l'iltrate di aspetti di negatività, tali da dover essere, appunto in quegli aspetti, negate, e si era anzi aggiunto che negate non solo devono essere, ma negate risultano in qualche modo e misura sempre. Solo — si era detto — la negazione 61
del male strutturale non può essere opera dell’uomo. Il problema si può allora formulare così: la diversa figura e intensità di senso di cui, nella vicenda di un’esistenza, può risultare filtrata una struttura, anzi, più veracemente,il
plesso delle strutture ontologiche, può dirsi una modificazione sostanziale di questo? Se a suggerirci il termine “modificazione” è il persistere di una gnoseologia idealistica, per cui il diverso nostro modo di apprendere una cosa non è interpretato come un maggiore e migliore disvelarsi della cosa stessa in sé e .
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nel contesto delle sue relazioni e aperture, ma comel’effetto di un’azione, se non creante, per lo menoalterante, che si sia col conoscere compiuta sulla
cosa stessa — in tal caso non è dubbio che il termine è quanto mai sospetto. Più ragionevole, sotto questo riguardo, sarebbe parlare non di strutture che
vengono modificate, bensì di strutture che, ulteriormente disvelandosi, emer-
gono nella loro identità (nella pregnanza etimologica del termine). Ma a suggerire il termine “modificazione” può essere non una assai dubbia gnoseologia, bensì una assai reale esperienza esistentiva: l’esperienza di rinascita e insieme di palingenesi cosmica che afferra l’uomo ogni qualvolta ha una rivelazione di senso o di valore. In realtà per tale rivelazione il mondorisulta trasfigurato, redento, altro. Quel che premeriaffermare è che tale rinascita, tale palingenesi, non sono del e nel dominio dell’uomo. Non che nel processo globale di simile evento l’uomo sia, possa o debba essere passivo, ma egli
certo non è il fondamentale soggetto agente. L'attività di cui può farsi soggetto, come sorge sollecitata, così è volta a lasciare che il mondo s’illumini o resti illuminato e si dischiuda, di conseguenza, l’orizzonte all’operare.
L'uomo, nel suo agire, appare, tanto nel fondamento quanto nel fine di tale agire, non comeil protagonista, ma tutt'al più come un deuteragonista. Chi o che cosainfatti fa emergere il malum mundi? chi o che cosa lo redime? Se l’apparire della Trascendenza è dunque sempre problematizzazione del mondo, evocazione necessaria, di fronte a questo mondo di cui siamo
parte, di altro mondo, bisogna anche dire che esso provoca anche sempre una iniziale discesa di tale a/tro mondoin questo mondo. L’alterità dischiusa dalla Trascendenza non va necessariamente spostata, nel suo inizio, oltre la morte del singolo, oltre il termine della storia. Se così è,il “mondo”,il “secolo”, il
“tempo”, nel significato in cui si fanno sinonimi di una realtà assolutamente deserta di ogni presenza della Trascendenza, di una vita assolutamente fuori dell’azione di questa, sono un concetto impensabile, un’opzione e una volontà impossibile. In realtà il mondo è già sempre filtrato di una parola della Trascendenza. Ma, se per questo suo essere l’anima stessa del mondo 62
tale parola è certo “immanente”, essa rimane pur sempre trascendente. Né nella sua sostanza, né nel suo avvento,essa infatti è sotto il dominio dell’uo-
mo. L'uomopuòtutt'al più favorirne il rivelarsi, ma anche questa suainiziativa già presupponela “grazia” e la “rivelazione”. Trascendente è ancora quella
parola, perché la sua sostanza donatrice di senso, filtrante di eternità la temporalità, non è afferrabile e rinserrabile in concetti de-finienti (nel senso di
circoscritti e circoscriventi). Da ultimo, il senso che essa partecipa non è mai esaustivo, è sempre accompagnato da mistero. La giustificazione della vita che ne scaturisce è sempre solo parziale: tale giustificazione include sempre necessariamente in sé il rimando a uno spazio non vuoto. L'esperienza soterica, come attingimento di senso, è sempre pertanto insieme un esperire e uno sperare.
L'impossibilità di sfuggire alla richiesta esistentiva e riflessa di un senso perla totalità degli esistenti e dei viventi, l’attingimento di un qualche senso non è l’unico modocon cui l’uomo esperisce la Trascendenza. Ci sono momenti in cui egli si trova immediatamente di fronte a quell’Abisso e a quell’Immensità. Le cose e gli eventi del mondo sonoallora presenti solo dialetticamente, come quelli che portano sulla soglia di quell’ Abisso, pur facendosi però quasi dimenticare perse stessi. “Abisso degli abissi”, “Nulla”, “notte luminosa”, “campi eterni”, “interminati spazi e sovrumani silenzi”, e simili, sono le metafore con cui l’uomo
ha cercato di esprimere questa esperienza. Intrinseca ad esse è una dialettica di sgomento e di attrazione (il tremendum e il fascinans, nella terminologia ormai classica di Rudolf Otto) a reggere la quale occorre coraggio e forza, ché la sua propria dimora — direbbe Heidegger— è all’uomo unheimlich®! Sono questi gli aspetti del Termine intenzionale ultimo e del Soggetto primo del religioso su cuisi è insistito. Sono tutti aspetti che tolgono a quel ‘Termine ogni carattere di astrattezza; ma bastano essi alla richiesta religiosa
4. Peril contesto “diacronico”in cui si colloca — meglio chiarendosi nel suo significato ontologico ed etico - il plesso problematico fin qui tematizzato, mi permetto dirichiamare alcune pagine di questi mieiscritti: Religione ed eticità, Morano, Napoli, 1971, cap.I; Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli, 1976, cap. I; Nichilismo ed etica,il melangolo, Genova, 1983, capp.I, II e IX; Nulla religioso e imperativo dell'eterno (v. oltre, IV, pp. 53-64).
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dell’uomo? Può l’uomorinunciare al tentativo di ritrovare nella Trascendenza il Dio Persona, il Dio Tu, il Dio Padre e Provvidenza? La Trascendenza,di cui
abbiamo tentato qualche “nome”, rappresenta la perdita o la caduta di tradizionali attributi divini oppure dischiude la via al loro ritrovamento sotto una figura forse più ardua, ma più credibile, in quanto più corrispondente non all'uomo contemporaneo dei rilevamenti sociologici, ma all’uomo contemporaneo che è nel più profondo di noi come imperativo ineludibile e come ideale? L’'invocazione che consorge con la Trascendenza è la fine della preghiera o la pura attesa della preghiera o non può essere già il delinearsi concreto di una diversa forma di preghiera? Sono interrogativi di fronte ai quali preferiamo qui arrestarci. Certo è che a chiunque sia consapevole della crisi religiosa del nostro tempo s’impone un ripensamento profondo dell’idea di Dio e dell’idea del Cristo, come già Lessing, Kant, Hegel avevano con estrema chiarezza intuito. La Trascendenza di Jaspers o il Cristo sulla Croce di Bonhoeffer possono forse essere assunti emblematicamente a indicare i due poli su cui necessariamente gravita la religiosità contemporaneae attraverso la cui meditazione deve pertanto necessariamente passare la riflessione filosofica interessata al religioso. Appena occorre avvertire che, accennando a Bonhoeffer, intendiamo richiamare il motivo più profondo di lui (“soloil Dio che soffre può aiutare”), liberato non solo dalle sconcertanti superficialità e confusioni dei teologi della morte di Dio che pretendonodirifarsia lui, maliberato dai suoi stessi autofraintendimenti. Il modo concuisi è tentato di prospettare il rapporto di Trascendenza-mondo, eternità-tempo, invocazioneazione, imperativo ontologico di bene-imperativo etico, è o intende essere, tra l’altro, una critica di quei fraintendimenti, tale, se possibile, da non uccider-
ne, ma da valorizzarne l’intenzionalità autentica. E, poichéil rispetto per quel “martire” è anchein chi scrive profondo, vorremmoil suo messaggio liberato anche dall’eco dei molti concetti mal pensati e dei molti luoghi comuni che corrono oggi la letteratura religiosa: mondo moderno; uomo contemporaneo; desacralizzazione; secolarizzazione; il mondo moderno come appunto il mondo secolarizzato, cui è ignoto il senso del sacro; l’uomo moderno come
l’uomo uscito di minorità, che interpreta il suo essere e imposta il suo fare come se Dio non fosse; l’uomo moderno come l’uomo della prassi, come centro del cosmo, signore della natura grazie alla scienza e alla tecnica. A questi confusi e superficiali luoghi comuni si cercano conferme bibliche come seall’astrazione e alla caricatura di uomo, che ne vien fuori, dovesse
adattarsi la parola della verità religiosa. Anche in tutto questo gioca non di rado l’equivoco confessionale, per cui il processo di laicizzazione quale pro64
cesso di sganciamento dalla dottrina e dall’autorità della chiesa o delle chiese vien fatto coincidere con un processo di desacralizzazione come oblio del fondamento e dell’apertura trascendente, oscuramento del ma/um mundi,
assolutizzazione della storia. Quasi che, a chi voglia capire qualcosa del profondo sentire dell’“uomo contemporaneo”, l’Amleto di Shakespeare, i canti “metafisici” di Leopardi, le sonate ugualmente “metafisiche” di Beethoven, il quinto libro dell’Erhica di Spinoza, le pagine teologiche di Kant e di Hegel, gli abissi di Dostoevskij, non fossero per lo menoaltrettanto decisivi che i teorizzamenti metodologici di Bacone o di Galileo, le invenzioni e le costruzioni tecniche, l’industrializzazione, e come se fosse possibile interpretare il senso umano e, pertanto,il riflesso sociale di tutte queste cose, fuori
del principio religioso ed etico di cui via via si sono trovatefiltrate?. Un trascendentale in generale non è dunqueastratta formain attesa di un contenuto: esso è solo come concreto esistere, come a un tempo sempre
5. L'idea forse più fantastica, certo più radicalmente remota dal sentire ‘“contemporaneo” è quella che celebra l’uomo comesignore dell'universo, dominatore della natura, artefice della sua sorte. Quandola notte del 21 luglio 1969 gli astronauti stavano per scendere sulla luna e tutti si seguiva, attimo per attimo, la trasmissione televisiva, ci fu un momento in cui i collegamenti si interruppero. Per riempire e alleviare la pausa, gli annunciatori pensarono di chiedere alle persone che erano state invitate al centro di trasmissione le impressioni. È difficile in questi casi, anche al più adatto all'impresa, trovare la parola non convenzionale o non occasionale. Eppure un poeta [A. Gatto], che era presente, pur nell’evidente stanchezza e tensione, trovò, quasi senza cercarla, la parola vera, quella che interpretava ciò che l’uomo contemporaneo” nel profondo avvertiva. “Che cosa prova in questo momento?” — gli fu chiesto. “Un senso di angoscia”. Il momento deltrionfo dell’intelligenza e della capacità costruttiva dell’uomo era anche quello che testimoniavala fragilità paurosa di questo essere. L'angoscia del Getsemani filtrava quel trionfo con un’intensità sottile e lacerante. L'apparente conquista dello spazio era in realtà un'ulteriore documentazione della piccolezza dell’uomo nell’infinità dei mondi. Il capire, da cui nasceil potere, ingigantiva il mistero, di fronte a cui formule di fisica e di matematica, perfezione di strumenti tecnici non valgono nulla. La Trascendenza anche lì perseguitava l’uomo: lungi dal lasciarsi “demitizzare”, “demistificare”, “emarginare”, dall'uomo “uscito di minorità” e diventato “adulto”, dall'uomo che hasostituitoil “fare” al “contemplare”o allo “speculare”, immaneva, evocata proprio dalla scienza, dalla tecnica, dall’industria: immaneva e debanalizzava, conferendo all'uomo la sua autentica “età maggiorenne”. Al poeta banalmente contemporaneodel settecento la salita a pochi metri da terra di un pallone aerostatico aveva suggerito l’Ode famosa o famigerata, ad un poeta autenticamente contemporaneo, non certo ostile alla scienza e alla tecnica (chi può veramente esserlo se non per subitaneo obnubilamento?) suggeriva la parola di Kierkegaard.
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realtà, possibilità, deonticità di concreta esistenza. Per ciò che concerne in
particolare il religioso, si è visto come la Trascendenza, che ne sta a fonda-
mento, non sia spazio puro, ma sempre parola e forza concreta. L'uomo, in
quanto costitutivamente religioso e come tale radicato e aperto nella e alla Trascendenza, vive sempre nel fondamento di una concreta rivelazione, di
una concreta grazia. Rivelazione c grazia sono la sostanza vivente della dimensione religiosa. Fuori di una qualche continuarivelatività e partecipazione di grazia, sia pure in figura privativa o aporetica, l’uomo è inconcepibile cometale. È quiil fondamentodell’autentico ecumenismo, il quale va cercato primariamente nella profondità dei singoli che sono sempre “direttamente di fronte a Dio”, e non lo possono essere se non come co-invocanti, con-ricercanti, in una invocazione e in una ricerca che hanno necessariamente — pur nella determinatezza e specificità — un’estensione cosmica. Per la presenza in sé, come momento costitutivo del loro essere, del tra-
scendentale religioso, gli uomini sono sempre aperti all'unità anche nella divergenza dissenziente, quali che siano la forma e il grado che questa degenerazione patologica della fisiologica varietà convergente possa assumere. L'ecclesia sancta, universalis, una è sempre entro di loro, tra loro, come pos-
sibilità, come imperativo: in quanto tale, sempre, in qualche modo e misura sia pure modestissimi, realizzata (anche quandotradita: nella forma per lo meno del rimorso), ma sempre anche — pur nei momenti più luminosi — non realizzata. Per definizione un trascendentale è la possibilità di infiniti realizzamenti; mai del realizzamento esaustivo; per definizione esso è sempre possibilità di positivo e negativo, di ascesa e di caduta:-è rischio®. Per la presenza di quel trascendentale gli uominiritrovanoin sé il fondamento della libertà religiosa intesa in quella complessità di implicanze che questa, pensata con consapevolezza storica in termini idealmente contemporanei, necessariamente comporta.
6. La concezione pluriprospettivistica della verità - concezionein cui in forme e per vie diverse ogni pensatore non dogmatico oggi conviene — ripropone con urgenza sempre più evidente la necessità di un ripensamento del problema dell’errore. Credere nella molteplicità delle prospettive, palesemente, non significa presumere o concedere che ogni posizione sia una prospettiva reale o che, anche sul piano di una prospettiva autentica, non sia possibile l’errore. [Sul problemacfr., ora (1989), in particolare, il vol. di Autori vari: // problema dell'errore nelle concezioni pluriprospettivistiche della verità, il melangolo, Genova, 1987]
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Per la presenza di quel trascendentale, la sacerdotalità diventa un carattere costitutivo dell’uomo. Se per sacerdote s’intende colui che, in qualche modo e misura partecipe di verità e di grazia, parla e opera per disporre l’altro all’autonomo ascolto e accoglimento della verità o della grazia, ogni uomoè, per la destinazione inscritta nella sua natura, sacerdote. Ma, poiché
né verità né grazia sono maiattingibili dall'uomo come individuo, ma solo dall’uomo come singolo co-esistente, poiché d’altra parte la partecipazione della verità e della grazia è in ciascuno sempre necessariamente parziale e individuata (configurata in modo diverso da singolo a singolo), non solo, ma sempre più o meno commista di errore (non si dimentichi che il religioso è sempre dominio divino-umano) - ogni uomoè, rispetto all’altro, sempre insiemeil sacerdote e il laico. L'ecclesia, in cui l’uomoin quantotale è sacerdote, è la negazione della chiesa che già sempre sa, possiede, dispone. Nel trascendentale religioso — in quanto costitutivo di un singolo che è, in ogni modo del suo esistere, essere comunitario, storico (necessariamente
inserentesi in una tradizione), necessitato a poggiare e mediare su e attraverso strutture istituzionali la germinatività del suo esistere — è implicita la necessità della chiesa comeistituzione. La chiesa “invisibile” deve mediarsi attraverso una chiesa “visibile”. A questo punto ci si può, ci si deve chiedere: se l’uomoin quanto tale è già sempre soprannaturalmente fondato e aperto, che significato e che valore può avere il soprannaturalismo nel significato che la teologia ecclesiale dà alla parola? È, sia pure entro certi limiti, agevole parlare di soprannatura,di rivelazione soprannaturale, di grazia e strumenti di grazia soprannaturali, quando si muove da una antropologia puramente naturalistica, convinta che termini come natura, uomo, lume naturale, ragione umana, buona volontà
indichino realtà reali e non astrazioni. Ma quandocisi sia liberati da questa antropologia intellettualistica, parlare di soprannatura (in senso “teologico”’) si può, per così dire, solo al secondo grado. Dalla rivelatività e dalla grazia onnipresenti si staccano,in tale ulteriore prospettiva, rivelazioni e carismi che si differenziano non già per semplice intensità di illuminazione redentrice, cioè quantitativamente, ma qualitativamente. Dalla sacramentalità onnipresente (la rivelatività e la carismaticità è sempre mediata da una realtà sensibile) si staccano particolari segni e mezzi — i sacramenti appunto — e anche qui lo stacco non è quantitativo, ma qualitativo. Non di intensificazionesi tratta, ma di salto. Queste rivelazioni, questi carismi, le loro incarnazioni e i loro
strumenti, trapassando dal piano del singolo al piano comunitario, diventano le basi della chiesa comeistituzione soprannaturale. 67
Prescindiamo qui da un’analisi fenomenologica dei diversi aspetti sotto cui può presentarsi l’esperienza di questo “soprannaturale” in senso teologico; lasciamo cioè di distinguere e di determinare la figura che tale esperienza può assumere (visione, rapimento estatico, illuminazione ecc.) e il criterio in base al quale, nei vari casi, si riconosce come di origine e di natura
divina; e lasciamodi distinguere e definire le formenelle quali il soprannaturalismo si configura e si consacra su piano ecclesiale. Prescindiamo dal problema storico su quale fondamento sia sorto, comesi sia atteggiato nelle origini e poi via via nel corso della storia il principio soprannaturalistico all’interno del cristianesimo e delle chiese cristiane, all’interno cioè di quell’evento religioso con il quale siamo più immediatamente messi a confronto. Naturalmente il fatto di lasciare da parte questa analisi fenomenologica e questo problema storico non significa che da questi si possa realmente prescindere, né che sia realmente possibile proseguire o che di fatto qui si prosegua senza una qualche critica posizione di fronte ad essi. Significa solo
che non s’intende qui tematizzarli, dato che quel che interessa è indicare la
linea della problematica c venire alle domande decisive. Ora il problema del soprannaturalismo di “secondo grado” o “teologico” non può essere certo discusso in astratto in linea puramente ipotetica. Il soprannaturalismo sta davanti a noi come unarealtà che esige di essere interpretata e di fronte a cui occorre prendere posizione. Dicendo questo, non s’intende alludere tanto al fenomeno dei vari “ispirati” o “illuminati” annunciatori di parole salvifiche che pullulano ancora oggi in tanta parte del mondo assai più di quel che si creda o generalmente si sappia”, ma si ha piuttosto presente il soprannaturalismo che pare costitutivo di istituzioni venerande. È questa presenza a far sì che il problema del principio soprannaturalistico si ponga per noi in forma necessariamente concreta. Di fronte alla ricchezza di profondità religiose, di altezze etiche, di forza e di consolazione, di memoria e di avvenire, presente nella liturgia (intesa nel senso più lato, inclusivo così dell’architettura dell’edificio sacro, come delle preghiere, dei canti, della musica, della gestualità del rito), nei testi sacri, nella dogmatica,
nella teologia, nella sapienza pastorale delle chiese, nessuno — consapevolmente o inconsapevolmente — non s’inchina. Il marxismo stesso non si sottrae a questo destino. A parte ogni considerazione sull’eredità biblico-cri-
7. Cfr. per es., in proposito: E. BENZ,// cristianesimo e le nuove religioni,in Il cristianesimo nella società di domani, a cura di P. Prini, Roma, 1968, pp. 389-398.
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stiana presente nel pensiero di Marx®, il marxismo, che non ha un'etica della sofferenza e della morte, può predicare, diffondere, realizzare la “rivoluzio-
ne”, che è per il singolo possibilità di morte e di sofferenza tragica, perché nei popoli le religioni, che esso combatte, hanno radicato attraverso una educazione secolare, anzi millenaria, un’etica la quale dischiude un senso anche al soffrire e la quale sa vedere, nella sofferenza fenomenicamente
deserta di ogni possibilità di attivo contributo sociale, una forma altissima di valore e di apporto comunitario. Ora è naturale che, per tale ricchezza presente nelle chiese, l’uomo, nel
suo itinerario religioso, si trovi a doversi confrontare con esse. Il suo sentimento e la sua idea della Trascendenza e dell’eterno, l’area di tradizione che
includono, la comunità religiosa che implicano, la chiesa che postulano non solo non sono sorti, ma neppure si possono sviluppare senza un tale confronto. Un approfondimento religioso del problema di Dio — per fare un esempio - se ha per passaggio obbligato i classici del problema nella storia del pensiero, non può non mediarsi anche attraverso una meditazione volta a cogliere come Dio vive e si configura nella preghiera e nel rito delle chiese, là dove preghiera e rito siano veri e veraci. Ed è anche naturale che chi prende sul serio il confronto avverta la religione e la comunità religiosa, che egli porta in sé al momento del confronto stesso, come povera cosa di fronte a quelle di cui intravede l’immagine nel patrimonio vivente di una chiesa. Il rapporto tra la sua religione e la religione della chiesa si può quindi configurare, almeno per un aspetto, come un rapporto tra un meno e unpiù,e il processo di assimilazione come un completamento. Tutto questo può accadere, ma ciò non implica ombra di “soprannaturalismo” nel senso “teologico” del termine. L'Ergànzung “soprannaturalistica” non è accrescimento, ma salto; quel che la permette non è la grazia presente in ogni realizzazione di verità, ma qualcosa d’altro: per essa s’instaura una vita per cui, chi ne è donato, è posto in un piano diverso, non solo rispetto ad ogni altro che non nesia stato fatto parte-
8. Parlandodi eredità biblico-cristiana nel pensiero di Marx, non s’intende qui solo alludere all’escatologismo della sua filosofia della storia, bensì ancheairiflessi cristologici - 0 dei precedenti ebraici della cristologia - presenti nella sua concezione del proletariato e della funzione espiatrice o redentrice di questo:il proletariato comeil privo di peccato, su cui gravano tutte le ingiustizie del mondo,e che è destinato a redimere il male instaurando il regno della libertà. Cfr., per es., Zur Kritik der Hegelschen Rechisphilosophie. Die Friihschriften, herausgegeben von S. Landshut, Kròner Verlag, Stuttgart, 1953, pp. 207-224.
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cipe, ma rispetto pure al suo io passato. La “verità e la vita” non sonorealtà che gli sonostate di fatto dischiuse in e da quella chiesa, ma che, comeverità
e vita, sono indipendenti da questa e anche sempreoltre ciò attraverso cui gli sono state mediate: sono realtà legate a una Persona, a un Libro, a una Catte-
dra, a una Predicazione, a determinati Sacramenti. Ora il problema è questo: quelche costituisce il possibile “di più” delle chiese, è necessariamente connesso al motivo “soprannaturalistico”? Quel che le chiese, in virtù del loro
vivente patrimonio, possono offrire all’“uomo contemporaneo”è vivificato 0 non piuttosto mortificato dalla persistenza di tale principio? Certamente il soprannaturalismo, ponendo come ‘“divinamente rivelati” alcuni principi d’immenso valore (il peccato d’origine; l’incarnazione di Dio; la Croce; la Resurrezione) e come “divinamente fondati” alcuni sacramenti connessi a
eventi, situazioni o aspetti fondamentali dell’esistenza (il nascere come nascere spirituale; l’unione uomo-donna;il morire; il peccato e la redenzione; la sacerdotalità), può, finché sussistono le condizioni della sua credibilità,
sempreché cada in spiriti superiori, rappresentare non una chiusura, bensì una concentrazione intensa sull’essenziale, atta a potenziare — proprio nel suo universale respiro — l’autentica vita religiosa. Male ragioni di quella credibilità sussistono ancora e di fronte al principio soprannaturalistico in sé e di fronte alle concrete figure in cui si propone? L’antropologia più comoda per quel principio è naturalmente quella feuerbachiana (particolarmente eloquente — al riguardo — la posizione di Barth nei confronti di Feuerbach), ma, se quella antropologia può per opposte ragioni far comodo così all’ideologo marxista come al teologo necortodosso, non è certo detto che i pur indiscussi molti
suoi meriti bastino a farla accettabile. Né si vede comerisultino ancora persuasive alcune delle tipiche giustificazioni dei due piani e del correlativo salto, anche quandosi sia abbandonato il pregiudizio che fa parlare del primo come della pura “natura”, della semplice “ragione naturale”. Il passaggio dal primo al secondo potrebbe,in una ripresa di motivi antichi, essere prospettato comeil passaggio dalla domanda alla risposta. L'uomofuori della rivelazione e della grazia “soprannaturali”, sarebbe nello stato della pura ricerca della verità, della pura richiesta della salvezza; la risposta illuminante e salvifica si
avrebbe solo in quella condizione di veracità-verità che è data dalla correlazione fede-Rivelazione. Ma contro questa interpretazione si levano obiezioni gravissime. Innanzitutto, posto anche che si desse una domandafuori del consorgere di una raggiera di ipotetiche risposte, o — dato che questo è difficile a immaginare — posto che l’uomopotesse stare in unostato di indecisione assoluta di fronte a tali ipotetiche risposte, resta comunque che lo stadio primo 70
non è necessariamente pura domanda. Ma il secondo è poi veramente risposta? Se per risposta s'intende — come purtroppo spesso si è inteso e non di rado ancora s’intende — l’acquisizione di verità che possono sì essere dette “misteri”, ma chein realtà sono certezze oggettive, ben definibili in proposizioni magari in sé nonintelligibili né donanti luce di intellezione o di elevazione, ma ben atte a costituire confessioni di fede e dottrine di fede precise,
rigide, in base alle quali è agevolissimo dire chi è nella verità e chi nell’errore, chi nella salvezza e chi nella dannazione —- il passaggio dal primo pianoal
secondo è, nel caso, palesemente, non un “salto” verso l’alto, ma solo una
penosa caduta. Il credente di queste certezze somiglia evidentemente troppo al fariseo della parabola del fariseo e del pubblicano,il quale fariseo esce dal tempio non “giustificato”, non — primariamente — per la sua presunzione di essere perfetto nell’ottemperanza della legge, ma per la sua interpretazione della legge. Ma se la fede è luce dal mistero nel mistero, è speranza fondata pur nella impossibilità del constatare e arguire oggettivi, è carità che germina da quella luce e da questa speranza nell'atto stesso che ne è condizione e mediazione - in tal caso la risposta è già per natura domanda. |l momento in cui l’umiltà della domanda venisse meno all’interno della fede,
questa sarebbe “simia sui”: cesserebbe di essere preghiera e diventerebbe
possesso; non il sentimento della fraternità nella con-creaturalità e della
necessità del colloquio soterico con gli altri ne germinerebbe, ma la presunzione di una superiorità separante e distanziante. La carità è provocazione, quando scompagnata dalla coscienza della comune assoluta con-creaturalità. Sennonché quandola fede resti così, è possibile parlare di salto qualitativo tra i due piani? Perché tutta la più avanzata “teologia” si sforza di estendere oltre l’area attinta dalla rivelazione redentrice della propria chiesa le possibilità di verità e di salvezza? Perché trova tutti gli accorgimenti possibili per limitare, anzi per praticamente distruggere l’extra ecclesiam nulla salus? perché quel suo insistere sul motivo della errabilità e non su quello della infallibilità, sul motivo della inesaustività infinitamente dischiudente e inglobante della verità e non su quello della definitività e della definibilità, cioè su quel motivo che
separa e differenzia? E questo, si badi, non certo ignorando le profondità autenticamente religiose che possono essere anche nei motivi apparentemente solo assurdi come quello della predestinazione. Perché quando la teologia
ecclesiale si fa persuasiva — persuasiva, s’intende, non all’astratta ragione,
bensi proprio al “cuore” di pascaliana memoria - il suo linguaggiosi fa così vicino a quello della filosofia da riuscirne indistinguibile? Perché l’intellectus fidei della fede ecclesialmente intesa tende a identificarsi con l’intellectus 71
della fede umanamente (ma sappiamo che l’umano è qui anche il metaumano) intesa? Perché il teologo Bonhoeffer, interpretando la fede che doveva reggerlo fino al martirio, e il filosofo Hegel, nel momento più alto della sua interpretazione della Menschwerdung, dicono cose così simili? Non si contesta dunque che il principio “soprannaturalistico”abbia potuto e possa essere positivo. Quel che ci si domanda è se esso sia necessario non solo per un’autentica vita religiosa dei singoli in quella comunità religiosa pre-istituzionale che pure si stabilisce tra loro, ma proprio anche per le chiese. Le speranze e gli ardimenti immensi dell’agape, proposti nell’annuncio conservato nei Vangeli, le profondità abissali della Croce, intraviste e indicate da Paolo, e dalle quali da due millenni gli uomini non hannocessato
di attingere forza e luce nella notte del dolore e della morte, perdono senso nel momento in cui si rivivano e si ripensino seriamente fuori dal principio “soprannaturalistico”? O il segreto di quel che le può fare di nuovo parlanti e operose non è per caso racchiuso tutto in quell’avverbio semplice e tremendo: seriamente?
Certo riesce abbastanza strano constatare come tanti teologi, i quali parlano con tranquilla disinvoltura della morte di Dio, di orizzonte intramondano del messaggio biblico o non trovano ardito cavare dal “Discorso della montagna” la rivoluzione armata, siano scossi come da un sussulto inquisitoriale di fronte alla sola proposta di una lettura non ‘“soprannaturalistica” della Bibbia. Pare che ai teologi risulti sempre molto più facile il dialogo conil marxismo che non con quella tradizione in cui si collocano Cusano, Spinoza, Lessing, Kant, Schleiermacher, Hegel, Jaspers. Il dialogo risulterebbe forse
puù proficuo per l’avvenire degli uomini, se ambeduei collocutori sentissero la necessità di condurlo interrogando a fondo quei Grandi.
9. Naturalmente, sottolineandosi qui le profondità religiose ed etiche viventi nelle chiese cristiane, non se ne dimenticano certo le spesso gravissime inconsequenzialità rispetto ai loro propri principi fondamentali, né si dimentica la anacronisticità presente in tanta parte delle loro dottrine e dei loro stessiriti tradizionali o rinnovati (talvolta forse più di questi ultimi). Tra gli scritti più penetranti e più stimolanti sotto questo riguardo, cfr., per ciò che concerne la chiesa romananell’ultimo secolo, P. PiovAnI, Da un femporalismo all'altro, in AA.VV., Un secolo da Porta Pia, Napoli, 1970.
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III POÎESIS E TENSIONE ETICO-SOTERICA NELL'INTERROGAREFILOSOFICO* (1965)
Penso che non si possa rispondere alla prima domandase nonsi è preliminarmente precisata la propria posizione nei confronti della seconda. Inizierò dunque da questa. La parola “metafisica”, come ognialtra parola filosofica, giunge dalla storia del pensiero carica di significazioni diverse, non facilmente accordabili (si pensi solo alle tre fondamentali immagini della filosofia prima riscontrabili nella Metafisica di Aristotele), portatrice di suggestioni moventi in direzioni disparate, ciascuna delle quali capacedi solidificarsi in figure molteplici. Negli scritti polemici intorno alla metafisicità del filosofare si dimentica non di rado questo dato di fatto e si discorre pro e contro la metafisica disinvoltamente, come se il riferimento evocato dal
termine fosse univoco e determinato quale quello di termini della geometria o della chimica, né certo molto meglio vanno le cose, quando il sostantivo “metafisica” risulti accompagnato da qualche aggettivo storicamente mal determinabile, come, per esempio, “classica”. Entrando in una discussione
sulla metafisicità o non metafisicità del pensiero filosofico è quindi, non già buona regola, ma semplicemente necessità e dovere chiarire quali precisi caratteri del filosofare si intendono difendere o respingere con l’accettazione o il rifiuto del termine e come concretamente si concepiscano questicaratteri.
* A metà degli anni Sessanta il “Giornale di metafisica” propose a un’ampia cerchia di studiosiitaliani e stranieri i seguenti quesiti: Quale è il posto che nel mondodi oggi occupa 0 dovrebbe occupare la filosofia? Il problema fondamentale resta quello metafisico e in che senso oggisi può parlare di metafisica? Le Risposte furono pubblicate dalla Rivista in un fascicolo triplo (4-6) del 1965. Il saggio che segue è nato come Risposta a quei quesiti.
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Dato che dell’argomento ho avuto opportunità di occuparmi piuttosto a lungo altrove', mi limiterò a fissare sommariamentei caratteri la cui perdita significherebbe la morte stessa (se mai questa fosse possibile) della filosofia, caratteri la cui indicazione e custodia può essere ancora benissimo affidata al termine “metafisica”. Innanzitutto il carattere di autonomia. L'intelligere filosofico è un momento a sé, è cioè un'attività rispondente a un’esigenza particolare, costitutiva, impreteribile dell’uomo, la quale, come distinta, ha una sua sfera, una
sua legge, una sua luce non sostituibile. Certo quel carattere di eccellenza divina, che Aristotele in un passo celebre della Metafisica (I, 2, 982b-983a)
riconosce a questa attività, non è esclusivo di essa e con pari fondamento è stato da altri, in altri momenti della storia, riconosciuto alla poesia, alla
comunicazione, alla preghiera, perfino al fare tecnico col quale l’uomosi pensò signore della terra. In realtà un che di divino è nella poesia, nella comunicazione, nella preghiera, ma nessuna di queste può surrogarela filosofia, come, per altro verso, la filosofia non può surrogare né la poesia, né la comunicazione, né la preghiera, né il signoreggiamento tecnico della natura. Quando dunquesi rivendica l'autonomia del filosofare — come quandosi rivendica l’autonomia della poesia (altro principio spesso e con penose conseguenze frainteso) - non si intende sostenere né che il filosofare sia un momento in sé e per sé onniappagante, né che esso si ponga comeincondizionato e non a sua volta condizionante rispetto agli altri momenti, né che esso possa avere senso fuori della tensione che lega in unità la vita del singolo nel tempoche gli è assegnato. In realtà, se la perdita della coscienza della irriducibilità formale della filosofia ad altro — sia questo altro la religione, la poesia, la prassi — rappresenta sempre ottenebramento e servitù, per altro verso l’assente o perduta coscienza del nascere della teoresi dalla realtà come vita che si vuole non solo capire ma si vuole vivere in forma più giusta e giustificata, conduce alla caduta della filosofia nel razionalismo arido e mortificante, nell’astrattismo aesistentivo e astorico, nell’accademismo.
Quando l’autonomia sia così intesa, non può riuscire strano se quel che s'intende affermare con la metafisicità della filosofia, è il carattere poieticoetico-soterico che sostanzia ogni possibile domanda filosofica e, poiché
I. La filosofia come metafisica (1964). Lo studio, benché autonomo,è stato pubblicato comecapitolo primo del vol. La religione come struttura e come modo autonomodella coscienza, Marzorati, Milano, 1965, pp. 41-187.
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questi termini hanno senso solo in quanto riferiti al singolo, di necessità il carattere esistenziale della filosofia. In realtà la filosofia è un modoin cui,
da un lato, prende figura, dall'altro si raccoglie per consapersi, assumersi in totale responsabilità, possibilizzarsi secondo la sua più profonda destinazione e la sua legge di ordine,la unitaria tensione poietico-etico-soterica, che, articolandosi in modidistinti, costituisce la vita del singolo. In realtà pofesis, ethos, trascendimento sono componenti di ogni flusso di vita che affiora in noi e si fa noi, qualche nesia il modoo la forma: vitale, comunicativo, esteticamente contemplativo, teoretico, operativo. La vita
affiora in noie si fa noi come un’alterità una e polimorfa, come un complesso di tensioni volitive contrastanti, confuse: è il momento che altrove? s’è detto
della passione (cioè della volontà considerata idealmente al di qua di ogni discriminazione e consaputa scelta etica) o del mito? (cioè di quell’Ur perenne che sta all’origine di ogni possibile configurarsi del vivere, comeil caos che attende di farsi k6smos), e che possiamo anche chiamare della poiesis, in quanto è in esso e per esso che il mondoaffiora all’essere, non già comestoria, ma come l’insiemedelle possibilità (delle possibili storie, anche di quelle appunto che non saranno mairealizzate), in quanto è con esso che ha da fare la poesia nel senso normale della parola. Ma questa alterità che si fa io, è penetrata da una forza in virtù della quale tende a discriminarsi, a volersi e a rifiutarsi, a comporsi secondo la legge del dovere. Per essa la vita del singolo e della società pare comporsi e potersi dispiegare e volere in un ordine che ha, almeno al limite, la possibilità di un autoappagamento,di un’interna giustificazione. In.realtà la vita non può realizzarsi in quest'ordine del dovere, non può costituirsi nell'immagine del bene morale, senza avvertire — proprio in questa che è purla'più alta ed eletta delle possibilità attuabili che le sono intrinseche — la propria insufficienza, la propria contingenza (il migliore dei mondirealizzabili non è che uno dei mondipossibili: una negatività strutturale lo determina, ed essa emerge più evidente al limite in cuisi pensino elise tutte le negatività non strutturali e perciò eliminabili per buona volontà di uomo). Al limite dell’ethos nasce il moto del trascendimento reli-
gioso e la coscienza si proietta in uno spazio, in cui il mondo, comela sfera
2. Peril concetto di passione come qui è inteso, mi permetto di rimandare al mio volumetto La persona e il tempo, Paideia, Arona, 1955. 3. Peril concetto di mito in quanto identificantesi con il concetto di passione rimandoai miei Studijaspersiani, Marzorati, Milano, 1958, pp. 9-80.
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del possibile a esperirsi o a concretamente immaginarsi e pensarsi, si nientifica e pone nonpiù problemientro se stesso, ma il problemadise stesso, il problemadella propria salvazione in una trasfigurazione. Queste componenti poietica, etica, soterica — che sarebbe assurdo
pensare cronologicamente o materialmente isolabili — filtrano ogni frammento di esistenza del singolo. Sennonchél’esistenza è — s’è detto -— sempre una e distinta, appare sempre articolantesi in modi o forme (vitalità, comunicazione, pensare filosofico, contemplare artistico ecc.), sì che quelle tre compo-
nenti sono presenti e operanti in ciascuno di questi modie in ciascuno si configurano in maniera diversa. A_noi preme qui vedere come si atteggino nel pensarefilosofico. Innanzitutto -- già si è detto — la filosofia è essa stessa una delle figure in cui prende forma l’esistenza e in cui tutta l’esistenza tende a obiettivare se stessa per consapersi e per possibilizzarsi secondo la sua più profonda legge etica ed esigenza religiosa. Ora quelle tre componenti non solo evidentemente sono presenti nel filosofare in quanto costitutive dell’oggetto tematizzato dal filosofare (l’esistenza), ma sono operose nell’atto del filosofare. Il quale, per essere veramente se stesso, deve essere innanzitutto poietico: filosofare non è
possibile senza evocare l’esistenza nell’angolo più aperto delle possibilità che le ineriscono. La familiarità col possibile, cioè la fantasia, è essenziale al filo-
sofo (come delresto allo storico e allo scienziato) non menodellacriticità, non potendo questa avere senso e fecondità se non sul presupposto della
prima. La riflessione filosofica, in quanto costitutivamente filtrata dalla ten-
sione etica, si fa necessariamente domanda del quid agendumsotto aspetto trascendentale (quali sono le forme dell’esistere, cioè del vivere e dell’operare, che posso riconoscere come valori? in quale ritmo e ordine devono comporsi, in quale forma questa o quella deve essere evocata nella concreta situazione perché la vita sia come bene?); in quanto penetrata dalla tensione religiosa (tensione al trascendimento per l'affermarsi dello spazio della Trascendenza), si pone l’ulteriore domanda: ad quid istud agere et agi che è l’esistere? perché l’essere piuttosto che il nulla? È la domandateleologica 0, che è lo stesso, il problema del senso, dell’interna giustificazione all’essere di ciò che è di fronte alla visione del male strutturale, alla negatività non redimibile per volontà di uomo. ‘ Quanto siamo venuti dicendo può forse sembrare un’accentuazione del carattere esistenziale del filosofare a scapito del suo carattere cosmico. In realtà esistenzialità e cosmicità non sono momenti disgiungibili. Il singolo nonha realtà se non nel radicamento, nella comunione, nell’apertura cosmici,
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e il cosmo, quando sia pensato fuori della più immediata e superficiale illusione ottica, è fondamentalmente complesso di singoli e di individui (esseri subumanidotati di coscienza), di coscienze incarnate, o possibile materia di tale incarnazione (strumento, simbolo ecc.): anche se tale per sé non fosse, solo come tale è problema, ché l’esistenza di ciò che non fosse coscienza o non si rapportasse a una coscienza, quando pur fosse pensabile, non porrebbe problema. In realtà e conla poiesis e con l’eticità e col trascendimento,l’immagine del singolo ci si configura sempre come cosmica: per la poiesis quel che viene all’essere è un io che, come non è causadi sé, così nonè solipsisticamente isolato in sé, bensì implicato nella trama della realtà; con l’eticità
quel che chiede di essere secondo la legge del bene non è di nuovo un io isolato, ma, insieme con un io e perunio, sia pure nei limiti in cui può essere accolto in Guesto, il cosmo; e il moto del trascendimento nasce dall’avverti-
mento della propria creaturalità non come di una negatività particolare egoisticamente sofferta, bensì come di un male compartecipato con ogni altra creatura, così che l’invocazione soterica, in quanto autentica, è sempre corale.
Tale coralità, se per i limiti dell’uomo non può concretamente presenzializzare tutti, non è tuttavia mai conchiusa nella cerchia dei concretamente presenzializzati, ma, nell’intenzionalità oggettiva ultima, non ha propriamente limiti. La cosmicità così pensata, configurando la struttura della totalità come esistenziale apertura e inizialità, mentre la sottrae alle critiche mossele da Kant, rispetta il monito alla coscienza dei limiti umani implicito in quella
critica stessa. . È il solidale nesso dei caratteri che siamo venuti sottolineando che intendiamo affermare, affermando la metafisicità dell’interrogare filosofico. A quel termine intendiamo affidare il riconoscimento del respiro cosmico e dell’orizzonte metacosmico (solo nello spazio che nega strutturalmente il mondo nella sua assolutezza e necessità e lo configura come contingente, come cioè non avente in sé la giustificazione — giustificazione, non causa — del suo esistere può sorgere la domanda “perché l’essere piuttosto che il nulla?”) della filosofia, sottolineando che la ragione di tali suoi caratteri va ultimamente
cercata nella sua radice esistenziale. La metafisica non è che l’invocazione soterica tradottasi in domanda speculativa. Così prospettata, la metafisica non può essere evidentemente intesa come una “parte” della filosofia (distinta, poniamo, dalla logica, dalla filosofia della religione, dell’arte ecc.), né comedivisibile in “parti” (psicologia cosmologia — teologia), ma è da considerare come la domandaultimache,filtrando ogni possibile domanda su questo o su quel punto del reale (che cos’è 77
il numero o il numerare? che cos'è una macchina pensante? — non diversamente da: che significato ha Dio nell’esperienza religiosa? o che cos'è la morte?), conferisce a questa il carattere di domanda filosofica. Non c’è questione che possa dirsi filosofica semplicemente per il suo oggetto (sia pure questo la persona, l'immortalità, persino Dio) se non la filtra la tensione, il respiro, l’orizzonte di quella domanda ultima etico-soterica (quid agendum? ad quid istud agere et agiin cui consiste il cosmo?: queste due interrogazioni sono da intendere piuttosto come la sistole e la diastole di una stessa domanda, che non come due distinte domande), come d’altra parte non c’è questione, per apparentemente afilosofico ne possa apparire l’oggetto, la quale non possa farsi filosofica, se l’investono la tensione,il respiro, l’oriz-
zonte di quella domanda unica. Questo torna a dire che in filosofia non esistono problemi se non nel problema, ma anche che l’unico problema è irreale e insolubile fuori dei problemi. Che cosa di più fallimentare che presumeredi cogliere il senso del cosmo in assoluto senza degnarsi di guardare dove e come questo cosmoè reale, dove e comenecircola e ne è in concreto coglibi-
le la vita e il significato? Riaffiora quil’aspetto di verità che c’è nell’idea dei temi o problemiprivilegiati della filosofia. La filosofia, per la sua natura metafisica, non può non essere tormentata dall’idea di rinvenire queicentri in cui il cosmo ha veramenterealtà, le strutture di questi centri in cui ne fluisce e ne è coglibile la vita e il senso. Emerge così, con la natura esistenziale, il
necessario carattere trascendentale del filosofare. Mostrare come la concezione della filosofia quale abbiamotentato di prospettarla permetta, per il suo fondamento esistenziale, la possibilità di accogliere le esigenze autentiche dello storicismo, e quelle stesse del prassismo e del metodologismo; come
essa, mentre tien fermoal carattere religioso del filosofare (ché della struttura religiosa del filosofare, e non d’altro, ne va alla fine con l’affermazione o
negazione della metafisicità di questo), ripudi — proprio per la fede a tale carattere — ogni rarefazione della filosofia in ontologismo astratto, ogni sua fossilizzazione in una immagine definitiva, ogni sua tentazione di estraneità al drammadella storia, ogni sua presunzione di poter prescindere dalla storiografia (nelle sue più varie forme) e dalla scienza — mostrare tutto questo implica un discorso qui troppo lungo e del resto in parte superfluo perché già fatto altrove. Chiarito che cosa s’intenda per filosofia e per metafisicità della filosofia, dovrebbe riuscire più agevole rispondere alla prima domanda: Qualè il posto che nel mondodi oggi occupa o dovrebbe occuparela filosofia? Se tale 78
«domanda offre però una precisazione cronologica, lascia indeterminata l’area geografica. Ma, anche quando questa sia intesa come l’area culturale con la quale lo studioso di filosofia europeo o di formazione europea ha pertradizione consuetudine di discorso nel e per l’approfondimento della propria riflessione, non poche difficoltà sopravvivono. Se la filosofia è momento costitutivo della coscienza umana, certo è un punto: si potrà parlare di una sua operosità e presenza più o meno intensa e luminosa e determinante, non mai comunque di una sua morte. Sennonché è poi possibile determinare il grado di quell’operosità e di quella presenza? La domanda ultima chefiltra ogni possibile domanda filosofica ci è apparsa di natura etico-soterica, religiosa insomma: certo anche la vita religiosa è sempre incarnazione, ma incarnazione è sempre necessariamente sinonimo di constatabilità, di verificabilità, specie da parte dell'altro? Possiamo noi presumere di poter accertare con quale intensità, con quale veracità e con quale risultato di verità il nostro prossimo affronta le domande, cui certamente come uomo non può sfuggire, del quid agendum, ad quid istud agere et agi? L'accertamento delrisultato di verità è innanzitutto problema da tener distinto dal giudizio etico sulla veracità: ma, anche per quelrisultato di verità, su quali documenti possiamo basarci? Il filosofare che si affida agli scritti attingibili e leggibili è una parte infinitesima del filosofare che si attua nell’intimo delle coscienze sotto l’urgere della vita che lo rende necessario. Ed è proprio sicuro che sia in ogni epocala parte più eletta o anche solo più determinante, quando è dubbio che lo sia sempre perlo stesso filosofo di professione? D’altro lato, la stessa letteratura filosofica è solo parte dei testi in cui è doveroso cercare la filosofia di un uomo e di un’età. Se la filosofia è momento autonomo, è anche
momento condizionante tutto il vario possibile specifico determinarsi dell’operare dell’uomo, dal modovitale all’artistico al politico, e l’atto o l’opera in cui si concreta tal mododiverso dal filosofico appare filtrato di unafilosofia, che sarebbe arbitrario identificare senz’altro con la filosofia esplicita della persona cui l’atto o l’opera appartiene, persino conla filosofia che ha condizionato direttamente quel particolare atto o quella particolare opera.I testi in cui dovremmoaccertare la filosofia del nostro temposi dilatano così fino a includere praticamente l’intera cerchia delle opere e degli atti dei nostri contemporanei. Stando così le cose, preferiamo limitarci a qualche considerazione sulla situazione della filosofia così come si documenta nella letteratura che può dirsi professionalmente sua. Certo anche la cerchia di questa letteratura è qualcosa che si viene delimitando solo sul fondamento dell’idea che noi ci 79
facciamo della filosofia. Dato quello che si è detto circa il vivere — nell’autentico filosofare — del problema nei problemi e dei problemi nel problema, circa il necessario configurarsi trascendentale dell’esigenza esistenzialecosmica, circa il necessario nutrimento di storia e di scienza per la possibilità della riflessione trascendentale, non parrà strano se quella cerchia cisi configura assai più lata che in alcune concezioni tradizionali. Ognunosa per esperienza come spesso le letture più stimolanti, proprio per le sueriflessioni più metafisicamente interessate siano offerte oggi da fenomenologie storici della religione, da psicologi e psichiatri, da etnologi, da storici della politica, da fisici. Quando si abbia dinanzi questa area, è difficile contestare che la filo-
sofia vi è da direzioni diverse disconosciuta o messa in pericolo in un qualche suo momento essenziale. I fraintendimenti più massicci o più insidiosi sono in questo momento rappresentati dal prassismo (negazione dell’autonomia speculativa del pensiero filosofico e riduzione dello stesso a espressione e strumento della prassi), dal merodologismo(in quanto intenda la filosofia non come methodologia generalis, illuminazione cioè dei modi e delle strutture e delle situazioni ultime dell’essere e dell’operare quale premessa a un vivere più consapevole e rettificato — illuminazione che, pur vertendo su questo o quel modo,su questa o quella struttura e, cometale, specifica, resta nondimeno aperta sulla totalità —, ma come merhodologia particularis, come semplice chiarimento dei concetti e dei processi che rendono possibile una scienza comescienza specifica, la fisica come pura fisica, la matematica come pura matematica ecc.), dal teologismo (concezione della filosofia come semplice esplicitazione ed enunciazione di una verità attinta in una rivelazione esistentiva antecedente al momento speculativo, e rispetto al quale la filosofia non ha altro compito se non appunto quello dell’enucleare, del portare a parola esplicita e comunicante: da Nietzsche a Heidegger a Jaspers la filosofia moderna offre esempi dell'immagine, affascinante ma pericolosa, di un tale filosofare e di un teorizzamentoditale filosofare). Ma, nell’atto che sottolineiamo la presenza di tali pericoli, ci preme mettere in rilievo le esigenze serissime, che, comunque espresse, sono in quegli ismi: il richiamo al necessario respiro storico e alla responsabilità sociale della filosofia (perché tale richiamo serbi valore occorre però altra e più penetrante idea del rapporto singolo-storia, singolo-società, e del tempoincui si attua tale rapporto,altra e più penetrante idea del rapporto /angue-parole, parole-langue); l’avvertimento che,se la filosofia è da sempre stata concepita come metodologia al vivere e al fare, il serio vivere e fare non è mai - oggi men che mai —- un generico vivere e fare, bensì sempre uno specifico “tecnicizzato” vivere e fare, e che 80
pertanto la stessa filosofia come methodologia generalis deve essere, proprio per essere tale, methodologia particularis; il monito della necessaria implicanza esistentiva per la filosofia (sennonché questa implicanza deve essere interna all’atto speculativo e non estrinseca ad esso). La necessità in cui la filosofia oggi si trova di approfondire la propria natura, non solo per un bisogno di autoconoscenza, ma per un bisogno di autodifesa, non è nulla di eccezionale nella sua storia; anzi appare questa la sua situazione costante: da Socrate a Hegel e oltre Hegel. Momenti di straordinaria creatività della filosofia furono del resto accompagnati, proprio nei loro massimi rappresentanti, da teorie del processo filosofico, le quali non possono non apparire fraintendimenti e pericoli del e per l’autentico filosofare (si pensi al matematicismo del Seicento o all’empirismo settecentesco). C’è da chiedersi se certo diffuso pessimismosulle sorti della filosofia abbia la sua radice nella preoccupazionedi fronte alle errate o inadeguate teorie del processo filosofico o non piuttosto nell’avvertimento di una diffusa povertà creatrice.
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IV NULLA RELIGIOSO E IMPERATIVO DELL'ETERNO(1987)
Parola si dice in molti sensi. Silenzio si dice in molti sensi. Parlare del rapporto silenzio-parola non si può, pertanto, se non precisando quale dei possibili significati dei due termini — innanzitutto del termine chesìsi assume come fondamentale — si intende considerare. In realtà, non cheperi poeti o i salmisti, ancheperil più “sobrio”dei filosofi, il “cielo stellato” parla. Ma con potenza o prepotenza non minore parlano le paludi e gli squallori della terra. Le “cose” parlano. L'animale parla. L'uomo parla. L’inconscio, la ragione, la coscienza, le “eterne idee”, i fantasmi del sognoe dell’allucinazione, ciò che è, ciò che non è,parlain lui e conlui. Il possibile soggetto del parlare è dunque diverso. Ovvio parrebbe dire che solo l’uomo propriamente parla e che il verbo “parlare” ha, negli altri casi, valore “metaforico”. Purtroppo, anche qui, quel che acquieta con'la sua ovvietà, risulta, appena un poco si riflette, paurosamente problematico. Se la “ginestra” così immortalmente parla nel canto di Leopardi, è perché non è “cosa”, bensì “creatura”. In verità? per metafora? Ma può oggi così tranquillamente porsi una contrapposizione del genere? Quale è la “realtà vera”, rispetto a cui la “ginestra” di leopardiana memoria sarebbe meta-fora, translato, cui si giungerebbe con l’operazione di un peragépew, di un transferre? Forse la ginestra del botanico del floricoltore? ° Cè, nella storia del pensiero, una tradizione — e non è certo la meno gloriosa — che vede nella ginestra del poeta qualcosa di originario, anzi di più originario della ginestra del botanico e del floricoltore, tradizione quanto mai ostile a interpretare la prima come “metafora” delle seconde, disposta piuttosto a vedere in queste una “catafora” della (o dalla) prima. Ma la barbarie di questo neologismo o arcaismo persuadea riflettere se tutto il problema non sia piuttosto rozzamente o inadeguatamente impostato. 83
La “ginestra” parla, perché in lei misteriosamente vive Silvia, vive Nerina, vive l’eterno, il quale pur illumina il tempo mortale, che — proprio in virtù dell’avaro e fuggitivo apparire dell’eterno — è dall’uomo conosciuto come mortale. Nell’umile fiore del deserto parla questa e quella creatura umana, anzi ogni creatura, anzi la legge del destino che segna l’esistere di ognicreatura. Diversi dunque i possibili soggefti del parlare. Ma, nell’individuare chi veramente parli in quello o in colui che di volta in volta pare essere soggetto del parlare, occorre andare cauti, perché anche qui parere ed essere sono lontanissimi dal coincidere, e l’essere che è in gioco (questa o quella cosa; questo o quell’animale; questo io che io sono,che l’altro è...) mai parla come realtà isolata, a-cosmica, a-metacosmica.
Comediversi i soggetti, diversi i modi del parlare, come già ci suggeriscono le distinzioni empirico-pratiche (ma davvero solo e sempre empiricopratiche?) delle grammatiche (i “modi” delle coniugazioni: indicativo, imperativo, ottativo...) e comeci ricordano le distinzioni dei filosofi (da quelle di Aristotele a quelle di Croce, di Morris, di Austin...) Certo, linguaggio è, a suo modo, l’espressione immediata, gestuale o fonica, dell’incubo, del terrore, della disperazione; linguaggio |’Amflero, il Re
Lear, il Macbeth; linguaggio una sinfonia o una sonata di Beethoven;linguaggio un canto o una cerimonialiturgica; linguaggio il Manifesto di Marx; linguaggio la Critica del giudizio — ma saper distinguere tra questi differenti linguaggi, saperli ascoltare e interpretare ciascuno secondo la sua specifica natura, è esigenza, non solo di chiarezza mentale, ma di elementare saggezza pratica. Anche “silenzio”si dice in molti sensi, pur non essendo forse impossibile individuare, nella molteplicità di questi, indicazioni verso un senso fonda-
mentale. “Silenzio”, innanzitutto, come negazione di suono nel senso più lato del termine. Silenzio, pertanto, come assenza — constatata o comandata — di
rumore, e rumore può essere così il suono in sé privo di ogni intenzionalità o consapevolezza significante (povr) senza X6Y0g) come anche il suonosignificante (pwvn come A0Y0c) in quanto discorso o intreccio di discorsi — dato il luogo o la situazione — appunto “fuori luogo e fuori tempo”: discorsi fatti, cioè, dove (chiesa, clausura, biblioteca...) o quando (durante uno spettacolo 0 un concerto...) altra parola deve essere ascoltata e altro deve essere il colloquio. Quest’ultimo richiamo fa chiaro che silenzio non è — su questa linea — antitesi di parola come A.6y0g, bensi di rumore. In realtà silenzio, non che 84
l’antitesi, è piuttosto lo spazio, la condizione, la segreta fonte della parola. Quandoil “rumore”, che ci sopraffaceva (logorandoci, o magari anche “riposandoci”, col suo potere di stordimento) vien meno e sottentra il “silenzio”,
non scompare, ma nasce il regno della “parola” (che è A6yog certo sempre incarnato in una pwvT) ma una pwvr) non necessariamente coglibile e misurabile con fonometri).
Ebbene è del Silenzio, come lo spazio in e da cui scaturisce e si leva la parola originaria — la parola che, luminosa od opaca, sempre comunque inside in ogni possibile parola — che intendiamo occuparci nelle brevi, non più cheiniziali, riflessioni che seguono. Affidiamo ad alcuni fondamentali pensieri di G. Leopardi il compito di introdurci nello spazio di quel silenzio originario. “Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente” — dice il primo di quei pensieri che preme qui meditare (Pensieri, XXXI). “[...] il male è cosa comunea tutti i pianeti dell’universo” — dice la Luna alla Terra nel Dialogo della Terra e della Luna. E prosegue: “E se tu potessi levare tanto alto la tua voce che fossi udita da Urano e da Saturno, e da qualunquealtro pianeta del nostro mondo; € gl’interrogassi se in loro abbia luogol’infelicità, e se i beni prevagliano o cedanoai mali; ciascuno risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te, come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto”.
Appare qui, pensato con ferma lucidità, un pensiero antichissimo dell’Oriente e dell'Occidente, pensiero fondamentale, che l’uomo puòa tratti dimenticare od occultare a se stesso, ma cui la realtà presto, bruscamente,talora tra-
gicamente, lo richiama:l’idea di un dolore, di un male, di una negatività originaria che segna costitutivamentedi sé la natura e, perciò,il destino dell’uomo, anzi di tutte le creature: di un m4a/um mundi diverso dai mala in mundo, anche
se concretamente rivelantesi all’interno di questi: altro rispetto a questi, perché, diversamente dalle figure storiche di questi, indistruttibilé per buona volontà umana. Per gli abissi di miseria, di malvagità, di sofferenze, aperti —
sul piano del reale e sul piano del possibile — da questo sigillum mali che segna la struttura del mondoe del tempo, l’uomoè portato da semprea parlare per sé e per il cosmo, di varnitas. Al Vanitas vanitatum et omnia vanitas di Qohelet fa eco — i millenni non contano — l’“infinita vanità del tutto” del Recanatese. È però proprio del pensiero religioso ritrovare, all’interno di 85
questa vanifas, l'apertura e il moto verso lo spazio che ne è — imperativamente — la negazione nell’atto stesso che ne è l’occulta sorgente. In realtà il niki! come niente è solo all’interno del circolo dialettico di reciproco rimando che lo lega, comea suo antipodo, al Nihil come Nulla, lo spazio del religioso. Duealtri pensieri leopardiani risultano ancora una volta paradigmatici. “Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni[...] le quali [masse] che cosa siano per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti di individui e di masse, che oggi illuminano il mondo”(Dialogo di Tristano e di un amico, 1832). “[...] rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici” (Lettera del 5 dicembre 1831 a Fanny Targioni Tozzetti).
Proprio in forza di quel che significa il peccatum mundi nel destino dell’uomo, Leopardi può capire la sostanzialità di quel niente che è il soggetto umano,la inconsistenza di una ipostasi come quella di massa; può, con profe-
tica veggenza e preveggenza, denunciare quanto di inganno e di pericolo si annida in pensieri così mal pensati. Ma,se nel passo di cui veniamo parlandoil niki! o la vanitas di biblica memoria appare realtà così salda da impedire il dissolversi del singolo nella moltitudine, in un altro, anche più fondamentale, quello stesso nientesi rivela
comela testimonianza più alta della dignità dell’uomo.
“La noia — si legge nel LXVIII dei Pensieri — è in qualche modoil più sublime dei sentimenti umani [...]. Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio,il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondiinfinito, e l'universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande chesì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali”.
Il senso decisivo di questa innica meditazione sulla noia (‘il più sublime dei sentimenti umani”’) si fa chiaro, quando non si dimentica che nell’intero
Denkweg poetico e filosofico di Leopardi, la noia, non il dolore, appare come l’infelicità estrema e specifica dell’uomo: l’“infelicità nativa” (Zib. 4498, 4 86
muggio 1829), che il dolore consente di non avvertire nella sua purezza — purezza mortale per ogni moto di passione e di azione. La noia è l’esperienza che l’uomo fa del niente di sé e del Tutto. I
{...] E pur men grava e morde il mal che n’addolora del tedio che n’affoga. Oh te beato, a cui fu vita il pianto! A noi le fasce cinse il fastidio; a noi presso la culla immotosiede, e su la tomba,il nulla. (Ad Angelo Mai, 70-75)
E nel Canto notturno (105-132) beata è, o sembra, la greggia, perché, a differenza dell’uomo, ignara della noia, anche se pur essa soggetta al dolore. Ora, nel pensiero che abbiamo riletto, la noia, l’esperienza estrema
dell’apatia e dell’inerzia, in realtà si identifica con la più originaria e la più potente delle passioni, con il più potente e inarrestabile dei moti. L'infinità spazio-temporale dei mondi esperibili immaginabili pensabili è sempre ancora trascesa dal respiro e dall’anelito umano. Maverso quale dove si protende quel mai compiuto trascendimento? In una parola, che cosa chiede l’uomo, nel cui niente si raccoglie il niente di
ogni creatura? Significa quel moto distacco dalla ferra, avvertita come la non-patria, verso la patria, per cui si è fatti e che è fatta per noi? In quel moto la terra è abbandonata e dimenticata, o — mentre pare esserlo, e sotto un evidente profilo lo è — non è essa, in modo aperto od occulto, con-assunta?
Nonpossono non soccorrere qui al pensiero gli interminati spazi, i sovrumanisilenzi, la profondissima quiete dell’Infinito. È lecito chiedersi se questi spazi e questi silenzi non siano una immagine — unatra le infinite — in cuiil Nulla trascendentale del religioso può concretarsi e si è di fatto — nel e peril canto leopardiano — poeticamente concretato'. Poiché — questo è certo — lo spazio trascendentale del religioso è e opera nell'uomo solo concretandosi in immagini o pensieri, in figure impersonali o personali, che intanto sono e restano religiosi in quanto la concretezza non si fa negazione di immensità, né arresto, bensì piuttosto più sicura realizzazione di inesausto trascendimento.
gioso.
1.
({...] poeticamente concretato: il che non significa: perdendo il suo carattere reli-
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L'attingimento e il naufragio in quella immensità è, nell’/nfinito, spaurimento e dolcezza. Nell”“infinito silenzio” la vicenda della terra, che sembrava, più ancora che remota, scomparsa, si rifà presente, evocata e significata da un soffio di vento. Riapparendo inquesto spazio nuovo — o forse, con più verità, non nuovo, ma solo emerso nella sua essenza pura, nella illimitatezza che di questa è la nota prima —, gli eventi della terra e della storia non cessano d’essere remoti, ché più non hanno potere di coinvolgere e travolgere nell’intrico delle loro passioni e dei loro drammi. Le parole, in cui tali passioni e drammisi sono incarnati e consumati, non risuonano — in quel “silenzio” — nella loro particolarità astratta e finita. Da tutte le infinite parole si leva /a parola, prima ed ultima: la parola che chiede il senso di e per ogni possibile parola che l’uomo, anzi ogni creatura — parlando, creando, operando, amando,soffrendo — possa comunque pronunciare. Questa parola originaria che risuona negli spazi ultimi del religioso è sì detta dall’uomo nella sua irripetibile singolarità, ma dall’uomo come interprete del cosmo, inteso comela totalità degli esseri dotati di coscienza, non già solo della coscienza “razionale”, ma di una forma, anche elementarissima, di coscienza, che comunque renda possibile e non evitabile un soffrire di cui sfugge il senso. La parola originaria, che si leva dal cosmo nelsilenzio degli spazi del religioso, è domanda. La domanda può restare inesplicita, raccolta nel senso del mistero, come fondamentalmente accade nell’/nfinito; può esplicitarsi in invocazione, in interrogazione filosofica, in meditazione poetica, in anelito mistico, in volontà operativa volta comunqueall’instaurazione dell’assoluto. Mache cosa chiede l’uomo, come interpres aut sacerdos mundi, con quella domanda, quale che sia la figura in cui, pur rimanendo unae totale,si viene modificando? Forse la parola che, vissuta e pensata in novitate(i. e.: in libertate) spiritus, più sublimemente dice quel che si chiede in e con quella domanda è quella suggerita dall’antico rito battesimale: quidpetis ab ecclesia Dei?Vit itam aeternam.Difficile trovare altra parola che, meglio di eternità, possa racco‘gliere, rispettandone l’inesausta ulteriorità, quanto di più profondo nella storia del pensiero si è pensato con e attraverso termini quali tò Svtwg dv, tò dyaov, tò dAindéc, tò A£iov, edbarnovia, ddavartiterv, Loù aidvioc, summum bonum, beatitudo, gòttliche Fiille, Mittag, Augenblick, erftillte Zeit. Eternità come l’essere (in senso verbale) che, nel e per il modo del suo essere, si testimonia l’assolutamente degno di essere. Nella parola originaria, cioè nella domanda originaria, quel che si chiede è la vita assolu88
tamente giustificata in e da se stessa, la vita come pienezza di va/ore, di senso: cioè, appunto,la vita eterna. Quella domanda non nasce fuori dalla coscienza etica e dall’impegno etico, ma dal più profondoditale coscienza: dall’imperativo etico-ontologico, ontologico-etico dell'eterno o dell’assolutezza del senso. questo-imperativo-quelloche domina lo spazio del religioso e lo spaziodell’etico: spazi solo astrattamente — per una operazione di Verstandsphilosophie — separabili. Per tale imperativo, il trascendimento intrinseco al religioso, non può essere diserzione dalla terra, ma è supremafedeltà alla terra. È quell’imperativo che costringe l’uomo a chiedere perché il tempo non sia l’eterno, dal momento che solo l’eterno è l’assolutamente degno di essere; è esso che gli ingiunge di cercare — in una ricerca sempre ancora incompiuta — il quantum e il quale di eterno esperibile e realizzabile nel tempo,e difarlo essere,qui, nel tempo, in sé e neglialtri. Maperquello stesso imperativo,il trascendimento,intrinseco al religioso, non può non essere anche problematizzazione e negazione di questo mondo, di questo tempo, nella sua struttura. AI di qua e oltre i peccata hominum c’è il peccatum mundî: quel peccato che a nessuna fantasia etica, per quanto ispirata e creativa, a nessun impegno operativo, per quanto alto e generoso, è dato distruggere entro l’orizzonte del tempo, per sterminato che lo si immagini. Perciò Rom. 8, 19-25, / Cor. 15, 28, Ap. 21, 1-5 restano luoghi classici per intravedere qualcosa del mistero del religioso. Si è detto che l’immaginein cuiil Nulla si concreta nell’/nfinifo è una tra le infinite possibili. In realtà, senza staccarci ancora da un poeta checisi conferma paradigmatico per la tematica intorno a cui veniamoriflettendo, basta pensare al Cantico del gallo silvestre. “Quiete”, “silenzio”, Ur-worf esistenziale-cosmico, coesistenza in questo di Ur-gebet, Ur-frage, Ur-gesang sono qui comein quel Canto: maaltra ne è la figura, altro il senso. Un’osservazione è, a questo punto, necessaria prima di passareoltre. Più volte a chi scrive è accaduto di sottolineare la opportunità di distinguere il momento del religioso da quello dellafede. Il primo, in e per sé considerato, è il momentodell’interrogare;il secondo, il momento della risposta. E risposta significa, per usare l’espressione nietzschiana: dire sì o dire no; anzi, poiché così il sì come il no possono assumere innumeri figure: dire un sì o dire un no. l testi cui ci siamo rifatti paradigmaticamente ci ricordano che, poiché la trascendentalità del Nulla necessariamente sempre vive in una 89
qualche immagine o in qualche pensiero, e, poiché tale immagine o pensiero sono figure, quanto menoipotetiche, di risposte di fede, muoversinella dimensione del“religioso” non si può senza già essére, positivamente o negativamente, con l’intera realtà e responsabilità del proprio esistere e coesistere, nella dimensionedella fede. i Nonè difficile capire comela quiete dell’Infinito e la quiete del Cantico del gallo silvestre, l’interrogare condensato nel senso del mistero del primq, l’interrogare dispiegato in domande e meditazioni del secondo, siano già sostanziati di unafede (non importa per il momento se positiva o negativa: ciò che interessa, in questo passaggio, non sono i poli della dimensione, bensì la dimensionenella sua bipolarità), che non è la stessafede;né è difficile capire cometalefede non possa restare indifferente per l’essere o non essere,e peril modo d'essere, delle opere. Dallo spazio del religioso, in cui ultimamente
abita e respira, — vi trovi o non vi trovi un Dio — l’uomo non può nonriportare sempre, comunque, qualche tavola di legge. Mailsignificato, la decisività e, insieme, la problematicità di quel principio o imperativo o apriori dell’eterno, intorno a cui sempre più si trova a ruotare la riflessione che veniamo conducendo, emergeranno più chiari se, nello spazio del religioso, verremo considerandoaltre figure: non più impersonali, ma personali. Ne sceglieremo due: diversamente estreme! Ascoltiamo, innanzitutto, ancora una volta, Leopardi; ascoltiamolo nella parola che ferma il momento più tragico della sua esperienza religiosa: l’abbozzo dell’Inno Ad Arimane (data probabile: 1833). Non potendo leggere
l’abbozzo perintero, ne richiameremole parti essenziali. Redelle cose, autor del mondo, arcana Malvagità, sommo potere e somma Intelligenza, eterno Dator de’ mali e reggitor del moto,
io nonso se questoti faccia felice, ma mira e godi [...] produzione e distruzione ec. per uccider partorisce ec. sistema del mondo,tutto patimen. Natura è come un bambinoche disfa subitoil fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: amore. I selvaggie le tribù primitive, sotto diverse forme, non riconoscono chete [...] te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio. Matu sei Arimane, tu quello che ec. E il mondocivile t’invoca. Taccio le tempeste,le pesti ec. tuoidoni,chealtro non sai donare. Tu daigli ardori e i ghiacci.
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E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l’opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell’uomo sempre regneranno l’ardimento e l’inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buonoa farsi largo,e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec. Vivi, Arimane,e trionfi e sempre trionferai. Perché, Dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L’amore?... per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato ec.? Io non so se tu amile lodi o le bestemmie ec. Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledettosarà ec. Maio non mirassegnerò ec.
E ascoltiamoora l’invocatio Dei che apre le Confessioni di Agostino. “Magnus es, Domine,et laudabilis valde: magna virtus tua et sapientiae tuae non est numerus. Et laudare te vult homo,aliqua portio creaturae tuae, et homo circumferens mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui et testimonium, quia superbis resistis : et tamen laudare te vult homo,aliqua portio creaturae tuae. Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donet requiescatin te”. ‘
Gli elementi di antitesi dei due testi sono di immediata evidenza. Nel primo, Arimane: il Dio che vuole il male, che gode del male, e contro cui l’uomo — non in quanto malvagio, ma proprio in quanto eticamente lucido e non vile — si ribella. Non preghiera di lode o di petizione, può in umanaveracità o in etica dignità levarsi nei confronti di un simile Dio, ma solo la parola della maledizione. Nel secondo,il Dio comeil Tu positivamente assoluto, verso cui si protende, come al suo terminee alla sua quiete, l’inquietudine radicale inscritta nell’essenza, nella destinazione, comunquenel destino, dell’uomo. Un fu non sorge, né è, senza il con-sorgere e il con-essere di un mondo, di un tempo,di un futuro: L'éssere del 7 positivamente assoluto comporta, in sé e per sé, il con-essere, non di un mondo, ma del mondo come assoluta
positività. La preghiera chesi leva dall’uomo verso questo Dio altro non può essere se non un canto di lode. L'invocatio Dei è per essenza, qui, laus Dei: quando si faccia pefitio; quel che singolarmente ed ecclesialmente (liturgicamente) 91
chiede è, nella sostanza ultima,la possibilità di attingere, comunque,la delectatio laudis. Maunaantiteticità così immediatamente afferrabile e così agevolmente formulabile non è già — proprio per la sua “eloquenza”, e per la sua mala persuasionealla “eloquenza” — sospetta? Noncisarà, alla radice e nell’orizzonte dei duetesti, qualcosa cheli unisce di un legame cosìforte, che difficilmente
je consente la meditazione separata? \ ». ‘rimane è veramente il solo Dio, o la sola figura di Dio o del Divino,
cometale, ed è maledetto? In nomedichi, e a difesa (sia pure disperata) di chi, Leopardi proclamala sua rivoltae pronuncia la sua maledizione? Arimane è Arimane; perché in colui che lo predica tale e lo maledice, perché ‘în ciascuna delle creature di cui questi si fa interprete, vive e opera l’imperativo ontologico ed etico dell’eterno o — che è lo stesso — deldivino. Arimane è la figurà in cui demoniacamente si raccoglie tutto ciò che quell'imperativo — eticamente, ontologicamente — esige non sia. Un Dio,o, quanto meno una -Potenza divina, più potente di Arimane, non nominata,
dominaqui. È infatti solo per la forza di quell’imperativo che trapassail mondo e si fa nell'uomo inquietudo — anelito, comando morale, preghiera che l’uomo può anche giungere alla maledizione (sarebbe improprio dire: “bestemmia”) dell’Inno ad Arimane. Anche nel caso di questo tragico approdo, Arimane nonè il suo unico Dio, anzi non è il suo Dio. Si vuol dire con questo che l’imperativo dell’eterno è già Dio o quel che resta di Dio? o che è la Parola del Dio vero, che sta sempre primae oltre ogni figura — anche la più alta — che l’uomo attinga di lui? la Parola che il Dio vero ci consente — attraverso la fatica di un ascolto, di un con-ascolto, sempre dubitoso di se stesso — di in qualche modo percepire e individuare, perché non ci manchi un “criterio” per discernere e riconoscere le figure autentiche di Dio o del Divinoneicieli, la sostanza e i modi autentici dell’ererno sulla terra? Ma nonè per caso anche possibile pensare (naturalmente in un Denken che non è erkennen: mai comein questi interrogativi è necessario non dimenticare Kant) a un Principio del divino come trascendentale ontologico, non posto né imposto da alcun Dio, ma piuttosto recante in sé l'esigenza che Dio sia, perché i/ senso, per l’uomo e per il cosmo cometotalità dei coscienzialmente viventi, abbia ultimamente compimento? Interrogativi terribili e impietosi (come non esperire, di fronte ad essi, tutta la nostra “miseria” creaturale?), ma ineludibili, come proprio il passo di Agostino, non menodi quello di Leopardi ammonisce. Proprio Agostino,cui, sul piano dell’orazione, era dato I
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attingere l’esperienza più luminosa: l’incontro con Dio come il Tu positivameente assoluto — proprio Agostino fu uno degli spiriti che, sul piano della néesis, più conobbero e più ebbero a lottare con Arimane: non per nulla egli resta, nella storia del pensiero, uno dei massimi classici del problema del male. Mapuò, nel “pensare originario”, in cui alla fine consiste l’“esistere” dell’uomo — quel pensare, nella cui unità i modi che si chiamano preghiera, polesis, néesis ecc. solo alla fine sussistano — può in tale pensare accadere che una creatura umana — si chiami pure Agostino - conosci l’esperienza di un colloquio col Tu positivamente assoluto così certo di quel che — legàto a questo Tu — splende come futuro in I Cor 15, 28,in Ap.21, 1-5, da avvertire tale futuro come presente, e da esperire nel suo mistezo la luce dell’eterno pura dal tormentodell’incompresoe dell’incomprensibile? . Basta rileggere la preghiera che apre le Confessiones, già in sé e per sé, nella sua sostanza di preghiera, dimentichi — se fosse lecito e possibile — che la preghiera intenzionalmente apre alla néesis, dimentichi di Ciò intornoa cui la néesis verterà, per capire come dalla realtà e dalla tentazione di Arimane mai l’uomopossa essere assolutamente libero. i
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V LEOPARDIE IL NICHILISMO* (1987)
L'incontro e il colloquio con Leopardi è stato per molti studiosiitaliani, oggi non più giovani, un evento determinante: ciò, indipendentemente dal fatto che nella loro bibliografia figurino opere o saggi dedicati a Leopardi, indipendentemente dall’ismo sotto il quale vengonoricondotti 0,in qualche caso, essi stessi si riconoscono. Per nessuno però di quegli studiosi Leopardi è stato un punto di riferimento “estetico”. Proprio nel e per il poetico, quel che — nell’ascolto e nel colloquio — ultimamente importava era il religioso e l’etico. Il titolo Leopardie il nichilismo — non pre-visto, suggerito da unarilettura autocritica di quanto sul Leopardiavevo scritto, a partire da alcuni Appunti di bibliografi.îa leopardiana del *47! - richiede qualche chiarimento. Leopardi ha pensato a fondo alcuni pensieri essenziali del nichilismo. Il nichilismo,
* La breve Nota che seguecostituisce l’/ntroduzione a una raccolta di “frammenti” sul tema. La raccolta è dedicata al prof. Febo Allevi, dell’Università di Macerata, il maggiore studioso della storia di quella regione che diede i natali a G. Leopardi, e alla quale la poesia di Leopardi — nella metaforicità dei suoi paesaggi e delle sue creature — ancora resta, in qualche modo segreto, legata. 1. Gli Appunti cui si accenna furono pubblicati in Scuola e vita (III — 1947,1, 2,3, 4, 5, 9, 10), una rivista bresciana dell’immediato dopoguerra, e furono raccolti, insieme a una breve Introduzione a Leopardi, in Appendice al volumetto Scritti di estetica, Brescia, 1949, pp. 161-248. In quegli Appunti la letteratura critica su Leopardi veniva considerata in alcune delle sue figure fondamentali: FE. De Sanctis; G. Carducci; B.Croce; K.Vossler; A. Zottoli; F Figurelli; G. Gentile; L. Russo; W. Binni (in relazione alla prima, già delineata figura che la sua interpretazione di Leopardi assumeva nel commento ai Canti compresi nell'antologia Scrittori d’Italia, \II, 1, Firenze, 1946). — Nel volumetto, di cui s’è detto all’inizio, figura come primo frammento la ricordata /ntroduzione,della quale si conservano, essenzializzati e in qualche punto rielaborati, i paragrafi relativi alla vita interiore (“storia di un’anima”) e alla poesia, ma si sopprimeil paragrafo sul pensiero, da chi scrive oggi rifiutato.
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pensato con rigore proprio sull’indicazione di quei Grundgedanken,si rivela come termine necessario per l’interpretazione di Leopardi. Il nichilismo concui il Leopardi si lega è in realtà il plesso dei problemi del religioso, del suo spazio, della sua dialettica, del suo apriori ultimo — del rapporto tra il religioso e l’etico, tra l’etico e il religioso, nella figura in cui l’uomo “contemporaneo” è destinato a esperirlo, a eticamente affrontarlo, a pensarlo. Nella storia “ideale” e “temporale” del pensiero o del pensamento, di questo plesso problematico Leopardi assume una centralità e una emblematicità eccezionale. , Ma, se Leopardi ha pensato alcuni motivi essenziali per il nichilismo, in quale modo o dominio del pensare, in quale linguaggio li ha pensati? Religioso? Poetico? Filosofico? Storiografico? Politico? Poiché, se c’è qualcosa che segna la coscienza “contemporanea” è che la “verità”. che ultimamente conta,
la verità nell’orizzonte e nel respiro della quale ogni altra cosiddetta verità (scientifica, storica....), in forma consapevole o inconsapevole, sempre comunque è — l’uomononl’attinge solo nel dominio e in virtù delfilosofico, bensì — in figura diversa, ma non nella sua autentica indicatività divergente — in ciascuno dei modiin cuisi articala il suo esistere. Il pluriprospettivismo si afferma, non solo nella comunitàdei singoli, ma nella unitaria — complessamente, spesso conflittualmente unitaria — pluridimensionalità del‘singolo. I frammenti raccolti sotto il titolo Pensare originario e modi del pensare?
2. Perché il discorso risulti più chiaro si riporta qui il secondo di tali frammenti. “È motivo presente in tutti i momenti più alti del pensiero (Eraclito, Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Kant, Hegel, Heidegger, Leopardi, Dostoevskij...) che l’uomo — mortale o immortale che sia — è uomoperché collocantesi nello spazio dell’eferno. Non contrasta con questa definizione, è anzi tutt*uno con essa, quella che indica come tratto essenziale e costitutivo dell’uomo il suo ‘conoscere la morte”. In realtà l’uomo conosce la morte, e tutto quello che del possibile umano i raccoglie, perchéin lui vive e opera l'imperativo dell’eterno. Nonperché impartecipe dell’eterno, ma perché partecipe, l’uomo conosce il male o la negatività o il non-senso. Questa coscienza della morte nel e per l’orizzonte dell’eterno, esta tensione all’eterno nella e per l’esperienza della morte, non si compie solo sul piano della filosofia, ma in ognuno dei modi in cui si articola l’esistere. Se pensare è, nella sua essenza ultima, rapportarsi al tesso morte-eternità, il pensare, che determina l'uomo come uomo,è presente, unoe diversificato, nell’invocazionereligiosa, nella meditazione poetica, in ogni forma di comunicazione, non meno di quanto lo sia nel voeîv di quella che, per tradizione(tradizione che esige d’essere non certo negata, ma decisamente ripensata), diciamo filosofia”. — Per i problemi connessi al tema del pensare originario, e per i motivi conduttori della presente Nota in generale,cfr. oltre, X, La verità nel dominio delpoetico, pp. 187-218.
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vorrebbero suggerire il punto dal quale è forse possibile affrontare in prospettiva migliore i problemi evocati dalle domande sopra richiamate. Essisi rifanno a un temacheè difficile, oggi, staccare dalla formulazione datane da Heidegger; e a Heideggerci si può sicuramente, per quel tema, riferire, sempre che si serbi chiara coscienza che Heidegger non è che un momento della sua storia, che tale momento è potente come indicazione di una strada e di un
compito, ma piuttosto deludente nella concreta elaborazione. Che cosa comporta il porsi nella prospettiva del pensiero originario'in relazione all’interpretazione dell’opera leopardiana? Innanzitutto una comprensione migliore della sostanza e dei termini di un problema classico dell’ermeneutica leopardiana: Leopardi vive nella Geistes-geschichte come poeta o comefilosofo? Quale rapporto intercorretra la sua poesiae la sua filosofia? Nella prospettiva del pensiero originario, ciò che è in:gioco in e per tale problema risulta subito come qualcosa di essenziale. Polesis e ndesis sono modi diversi del realizzarsi e del dirsi della verità intesa come la parola che instaura il senso e illumina sul senso. Il problema della distinzione poesiafilosofia, anzi il problema della distinzione poesia-non poesia (altro dalla poesia) in generale, in Leopardi come in qualunquealtro poeta, non è un pro: blema “accademico”, “estetico”, “crociano” (notoriamente, per un lungo periodo — non so con quanta gloria per questo lungo periodo — “crociano” rientrava nella lista delle aggettivazioni perentoriamente e inappellabilmente negative) — è un problemala cui intelligenza esige un impegnoesistenziale, etico, speculativo che protegge la “critica letteraria” dalla “letterarietà”e arresta, se appena avvertito, l’ironia.
Il problema della distinzione, dunque, permane, masi fa più complesso, soprattutto per le difficoltà offerte dal secondo dei due termini. Il soggetto della ndesis, non diversamente da quello della poiesis è il sirigolo, ma il singolo che filosoficamene interroga è quello stesso che religiosamente chiede la “vita eterna”, la vita avente in sé l’assoluta giustificazione del suo esser vissuta; è quello stesso che, poeticamente evocando e dicendo i r&0n, evoca e dice il rd00g ultimo che immane tutti i possibili ndr: il singolo, come l’essere cosmico nelcui interrogare, invocare,dire,il cosmo stesso interroga, invoca, parla. Anche la ndesis ha familiarità conil regno delle madri, con le regioni ctonie e non certo solo conle uranie e iperuranie, con i “mondi non nati”; anche la prosa, tradizionalmene indicata come il modo del suo dire, è, nella sua maniera, mitica e metaforica. Anche i concetti della néesis sono cenni. Anche l’opera filosofica, non diversamente da
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quella poetica, è sempre “opera aperta”. Anche la “genealogia” dell’opera filosofica, il suo “luogo” nella Welt-geschichte emerge solo nell’ascolto, attraverso quell’opera, di quel che è primae oltre quell’opera, e che è ciò che propriamente esige d’essere ascoltato. La coscienza della complessità del problema — che cos’è filosofia? quale ne il linguaggio? — in generale si fa anche più tormentosa, quandosi affronta, in concreto, l’opera leopardiana. Dov'è da rinvenire l’autenticafilosofia di G. Leopardi? Non certo, per esempio, in quelle tra le Operette morali o in quellitra i suoiscritti in prosa o in versi che corrispondonoallo spirito e allo stile di quella “ragione”arida e squallida, sotto la quale il Leopardi parve in alcuni momenti ricondurre e ridurre la filosofia (momenti e passi per fortuna contraddetti da altri ben altrimenti profondi) e contro la quale tantopolemizzò. Nonè certo il pessimismo ontologico ed etico, che sostanzia le pagine e i passi di Leopardi che stanno sotto il segno di questa “ragione”, a rendere perplessoil lettore “contemporaneo”, il quale — in quanto “contemporaneo” — ha fin troppa familiarità con Giobbe e Qohelet. Non è la paura del vero, in quanto risulti tragico, che genera lo stacco da quelle pagine o da queipassi; è piuttosto l'immediato, prima che riflesso, avvertimento che il tragico, a nessuno ignoto, non si rivela, sotto quel segno,nella sua verità. In realtà l’approfondimento del problema dell’area, della natura, ‘del valore della filosofia leopardiana non può eludere questi interrogativi: Entro quali limiti ha Leopardi collocato la filosofia sotto il segno di quella “ragione”? Quanto questa filosofia della filosofia resta determinante nel suo concreto filosofare? Che è questa “ragione” di cui Leopardi viene parlando e con il meglio del suo essere rifiutando? Essa pare avere analogie decise con quel Verstand sotto il cui segno Hegel ponevala filosofia illuministica e la stessa filosofia kantiana, con quella ratio cui Heidegger riconduce il pensiero “metafisico”e la sua lunga storia da Platone a Nietzsche (e oltre). Solo che il Verstand, l’intelletto astratto e anatomizzante, avente funzione e senso nel dominio delle scienze, non è per Hepel l’organo della verità, anzi, in quanto si presuma tale usurpandoil posto della Vernunfî, è fonte di non-verità. E certo la ratio — il pensiero calcolante e tecnicamente progettante e producente —, come puramente se stessa, nulla ha da fare, in Heidegger, con l’àAn0sua. Non così suonano, come è noto, celebri affermazioni leopardiane. Il vero è l’arido vero. Certo quello che vale, quello in virtù di cui esiste l’eterno (l’eterno nel tempo mortale) e il futuro, è l’opposto di questo vero: ma questo opposto è appunto non-vero, e non a caso porta il nome che ne dice la sublimità, ma anchel’intrinseca tragicità: “illusione”(‘“errore”, “inganno”. 98
Contro l’idea che correva per una linea non marginale dell’ermeneutica leopardiana— linea iniziatasi vivente ancora l’Autore e dall’Autore sdegnosamente respinta — secondola quale si riconduceva il pessimismo del Leopardi alla sua infelicità fisica, presumendosi così di coglierne e “spiegarne”il carattere passionale e la debolezza speculativa, si è — con veduta più penetrante e moderna — fatto valere il principio che la malattia è ambigua nei confronti della ‘“veggenza” speculativa e poetica e che, nel caso di Leopardi, agì positivamente, come occasione e stimolo a guardare più profondamente, più spregiudicatamente, più coraggiosamente in volto la condizione umana e la legge delle cose. La svolta segna sicuramente un acquisto, se accompagnata dalla consapevolezza che essa non rappresenta l’affermarsi della soluzione giusta e il cadere della soluzione sbagliata, bensì piuttosto l’aprirsi di una prospettiva superiore, che, appunto perché tale, dischiude nuovi, più complessi problemi, così sul piano filosofico come su quello concretamente ermeneutico. Il problema del condizionamento sanità-malattia si pone per tutti, e in relazione a ogni realizzazione di‘valore. Ma che è sanità? Che è malattia? È definibile la sanità o la malattia fuori dal contesto — genetico o dialettico — in cui, per dono del destino o per forza dilibertà, si è inserita? Visto in questo contesto, quel che pareva sanità fisica o psicologica non può risultare malattia e viceversa? Non era — e speriamo non continui ad essere — quasi un luogo comune vedere un limite speculativo e poetico in Croce e in Carducci proprio nella loro presunta “sanità”? Se il toro avesse fondamento, non sarebbe tale sanità — sempre che non si guardino le cose con mentalità astrattamente intellettualistica o grettamente positivistica — malattia? Non esiste differenza tra malattia e malattia? La malattia che fin dai giovani anni insidia un Nietzsche — concedendogli lampi intuitivi di sgomentanti profondità, ma avvilendolo anche con non avvertite o non contrastate cadute in penose banalità, per piombarlo alla fine nella notte assoluta — poco ha in comune con la malattia che fin dalla prima giovinezza tormentò la lunga vita di uno Jaspers. In realtà la domanda sul condizionamento sanità-malattia in relazione al pensiero di un Autore rientra tra quelle che la “scuola del sospetto” ha insegnato a non sospendere mai. Quel condizionamento è un elemento costitutivo in ogni realizzarsi di valore; è, come tale, un continuum capace sempre di assumere figura diversa e inattesa. Proprio per l’interpretazione dell’idea di “ragione” genitrice dell’“arido vero”, la domanda sul peso della malattia nel pensiero di Leopardi ci sembra tutt’altro che superata. Ci sembra ancora, anzi ancora più, ineludibile. 99
Sì, quella idea gelida, anatomizzante, quasi cadaverica, dell’intelligere razionale non è qualcosa di aberratico. Resta “storicamente spiegata”, quando si richiami la letteratura filosofica settecentesca, con la quale il Leopardi aveva più che documentata familiarità. Eppure quella figura continua a serbare qualcosa di enigmatico e di sinistro. Difronte ad essa è difficile sottrarsi alla domanda: Leopardi ha in quella figura conosciuto e fermato una struttura epistemica o ha delineato lo schema di un male dell’anima, non ignoto all’esperienza e alla scienza degli antichi, fin troppo noto all’esperienza e alla scienza contemporanea? . Certo il Leopardi pensò pensieri essenziali, non solo come poeta, ma proprio anche comefilosofo, e — è necessario aggiungere — comeinterprete di un momento della Welt-geschichte che è quello in cui ancora viviamo. Il pensiero di un peccato di origine ontologico, che inficia la struttura stessa hon solo dell’esistere dell’uomo, ma del vivere di quanto vive nell’immensità dei mondi, fu da lui pensato — proprio filosoficamente pensato — con unalucidità e una coscienza eccezionali di ciò che esso’ più non consentiva di illusione o di evasione o di anacronistica ripetizione su piano ontologico, di ciò che esso comporta di dissoluzione e di necessità di impostazione radicalmente diversa
su pianoetico e politico.
”
Intorno al plesso dei problemi connessi a questo pensiero del peccatum mundi (apapria toù KOcpov), per usare l’espressione giovannea (Jo. 1, 29), valgono, nella raccolta, alcuni frammenti, in particolare l’ottavo (Mala in mundo e malum mundi. Intercondizionamento della lotta contro i ma/a e della lotta contro il malum)? e il settimo (Nichilismo e nichilismo contemporaneo.
3. Di questo frammento è forse opportunoriportare qui, abbreviata, la parte conclusiva. “Contro l’idea dell’intercondizionamento tra lotta contro il malum e lotta contro i mala può sempre di nuovo insorgere il dubbio che esista la necessità di una scelta avente carattere di esclusività [...] Sartre scrive in polemica con Camus: ‘Vous[Camus] vous révoltiez contre la mort, mais dans les ceintures de fer qui entourentles villes, d’autres hommes se révoltaient contre les conditions sociales, qui augmentent le taux de la mortalité. Un enfant mourait, vous accusiez l’absurdité du monde et ce Dieu sourd et aveugle que vous aviez créé pour pouvoir lui crachéerà la face : mais le père de l’enfant, s’il était chémeur ou manoeuvre accusait les hommes il savait bien que l’absurdité de notre condition humaine n'est pas la méme à Passy et à Billancourt. Et finalement les hommes lui masquaient presque les microbes : dans les quartiers misérables les enfants meurent deux fois plus que dansles quartiers aisés et, puisqu’une autre répartition des revenus pourrait les sauver (in nota : Ce n’est pas entièrement exact. Certains sont condamnés de toute manière), la moitié
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Il “Nulla” di Leopardi e il “Nulla” di Heidegger). Anche qui, penso, difficilmente sfuggirà — pur nella mancanza di espliciti riferimenti — la presa di posizione nei confronti di problemi fattisi centrali, nella letteratura critica su Leopardi, nei decennisuccessivi alla seconda guerra mondiale*. In realtà torna difficile oggi — nel crollo delle utopie e delle ideologie legate all’oblio del peccatum mundî — non riconoscere la grandezza di chi pensò con “ragione” autenticamente filosofica un pensiero così fondamentale; di chi — nella coscienza chiarissima che solo nella luce, o nel barlume di
luce, che gli sia dato di speculativamente attingere e operativamente (etica+ mente — politicamente) realizzare in relazione all’enigma di quel peccatum, consiste quel che per l’uomo ultimamente e pregiudizialmente conta — capì la “chimericità” delle nuove scienze dell’uomo che già si venivano affermando con la presunzione, tanto superba quanto puerile, della possibilità d’essere scienze rigorose nello stacco e nell’ignoranza della e dalla “scienza dell’uomo”(Pensieri, LI). Proprio in forza di quel che significa quel peccatum nel destino dell’uomo, Leopardicapì la sostanzialità di quel nulla che è il soggetto umano,e rise di ipostasi come quella di massa (Dialogo di Tristano e di un amico). Memorabili, per penetrazionee attualità, la sua analisi e il suo ironizzamento del successo mondano,delle strategie per conseguirlo e per gestirlo, della incredibile capacità dei principi dei mass-media (così oggisi direbbe) di trasformare in potenza il vuoto (cfr., in particolare, Dialogo Galantuomo e mondo). Si può oggi certamente capire meglio la grandezza di Leopardi anche in sfere diverse da quella poetica, ma, quando ci chiediamo in quale dominio e in quale linguaggio più potenti, più denk-wirdig, si affermino e parlino i grandi pensieri di G. Leopardi, ci pare di dovere ancora sempre rispondere: nel dominioe nel linguaggio del poetico. I temi per cui l’ascolto e
des morts, chez les pauvres, paraissent des exécutions capitales dont le microbe n’est que le bourreau” (J. P. SARTRE, Réponse d Albert Camus,in Situations, IV, pp. 118-119, originariamente in Les temps modernes, n. 82, aodìt 1952). Serissimo richiamo, che sarebbe colpa non ascoltare. Sennonché il dilemma è un falso dilemma.In realtà, se la fede (fede s’intende qui in senso universalmente umano) è morta senza le opere, le opere sono vuote,anzi impossibili, senza la fede. Fede e opere sono termini reciprocamente condizionantisi”. Forse ci si dovrebbe chiedere se il binomio riotic-épya non debba — per Leopardi — essere sostituito dal binomio toinoic-Épya. 4. Perla problematica che l’opera di G. Leopardi ha storicamente sollevato e idealmente solleva, particolarmente consigliabile la voce Leopardi, di C. Galimberti, nel Dizionariocritico della letteratura italiana, UTET, Torino, 1986?.
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la meditazione del pensiero poetico leopardiano si pongono come ineludibili sono i temi stessiin cui si articola quel plesso problematico di cui si è parlato all’inizio: il tema del Nulla comelo spazio del religioso, 0, se si vuole, come lo spazio di Dio fattosi deserto di Dio ma non certo di quello che sotto il nome di Dio si raccoglieva;il tema dell’apriori ontologico-etico dell’eterno, 0, detto altrimenti, dell’imperativo dell’assolutezza del senso, non certo intaccato nel suo essere e operare, ma fatto solo più tragico dalla prospettiva d’essere richjesta tanto costitutiva e insopprimibile quanto fallimentare; il tema dell’eterno nel tempo mortale, o — per usare il termine ormai consueto — il tema dell’Augenblick; il tema della pofesis come insieme aurora mundi e germinazionedi slancio e impegno etico. Quello stesso nihil, quella vanitas, quel niente, quel peccatum mundicui il nichilismo sembra primariamente richiamare, ma che in verità non è idealmente un prius ma un posterius, è stato dal Leopardi pensato e detto con accenti di rara lucidità e intensità anche fuori del poetico, ma è certo che nel dominio di questo ha trovato le parole più inobliabili per dire alcuni momenti essenziali della sua fenomenologia. Forse è lecito anche chiedersi se quel che di più profondo Leopardi suggerisce sulla poesia e sul poetico non sia da cercare, pur esso, nell’ambito della sua poesia, apparendo questa - non di rado e non marginalmente — poesia della poesia 0,se il neologismo troppo non dispiace, come metapoesia.
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VI ESISTENZA E TRASCENDENZAIN K. JASPERS(1988)
Due motivi, fondamentali ed opposti, si trovano paradigmaticamente delineati già nel pensiero greco, ma non nel pensiero greco soltanto. Rappresentando le due posizioni antiteticamente estreme di fronte alla realtàdella vita e del mondo, erano, probabilmente già al momento della loro fissazione letteraria, dei t6rro1; tali comunque divennero.
Il primo il “detto di Sileno” — potremmoriascoltarlo nei versi di Teognide! o di Sofocle?, o nel frammento dell’Eudemo o dell’anima di Aristotele trasmessoci da Plutarco? ma basterà risentirlo nella parola dei poeti, nella quale tutti l’abbiamo appreso negli anni, lontanio vicini, della giovinezza.
Mavtwov pèv pù pivai èriydoviodpiotov
N
uni’ tordeiv adyàg degoc neMiov, gbvra 5° Bros driota mac "AÎsao nepijoai Kai xeto@ai 10XANv yîjv érapnodpevov. . (Teognide, vv. 425-428) . pù gbvar tòv &ravra vixà Abyov. T6 8’, éneì pavii, Bijvar kewo* òrdbev rep f-
Ke toÀò SebTEpOv dg TAKIOTA.
(Edipo a Colono, 1224-1227) Si è tenuta presente l’edizione oxoniense: Sophoclis, Fabulae. Recognovit A.C. Person, Oxford 1975"2, 3. Aristotelis, Fragmenta selecta. Recognovit W. D. Ross, Oxford .1955, pp. 18-19. Trad. italiana in: Aristotele, Opere, Laterza, Bari 1973 (UL), vol.II, pp. 119-120. Dal frammento aristotelico si apprende che una traduzione mitica faceva risalire la sentenza al demone Sileno (“si dice che Sileno, catturato da Mida, interrogandolo questi,...così, costretto, rispose: etc.”). Per questo essa va sotto il nome di “detto (o responso)di Sileno”.
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Teognide: La sorte fra tutte migliore è per i mortali non essere nati / e non vedere la luce dell’ardente sole, / ma, una volta nati, quanto prima passare le porte dell’Ade / e giacere nella tomba. E Sofocle:
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Non esser nato è [per l’uomo] la sorte migliore; ma, venuto che sia alla luce, al più presto andare là donde è venuto: questo di gran lunga il meglio perlui.
L'altro — opposto — motivo trova espressione lucidissima nei Memorabili di Senofonte (II,2): x Socrate, accortosi un giorno che il maggiore dei suoifigli, Lamprocle, aveva un atteggiamento irato e aspro nei confronti della madre, Dimmiragazzo — gli chiese — sai che di alcunisi dice che sono ingrati? Certo — rispose il giovane. Mati sei reso conto di perché son detti così? SI, certo. Se uno ha ricevuto un beneficio e, potendolo, non lo ricambia, quello appuntolo si dice ingrato. [. Manon pensi che, quanto maggiori sono i benefici che uno ha ricevuto, tanto mag: giore sia l’ingratitudine che commette, non dando segno di riconoscenza? Anchesu questoil giovane convenne. Ma- (proseguì Socrate) — è rinvenibile bene più grande di quello che i figli hanno avuto dai genitori? I genitori li han portati dal non essere all'essere, alla possibilità di vedere tante cose belle, d’aver parte a tanti beni, quanti gli Dei concedonoagli uomini — bellezze e beni che ci paiono così grandi, che nulla più ci spaventa cheil perderli. Non per nulla gli stati hannostabilito peri delitti più gravi la pena di morte‘.
La vita come male:il non essere meglio dell’essere. La vita come dono,anzi il massimodeidoni. Sono i due poli estremi tra cui oscilla l’esperienza e l’interrogazione radicale dell’uomo. Che essi non siano (non possano né debbano essere) tra
4. Peri Memorubili si è avuta presente l’edizione dei Classici Loeb: Xenophon, Memorabilia and Oeconomicus. With an English Translation by E. C. Marchant, LondonCambridge (Massachusetts), 1959 [The Loeb Classical Library].
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loro irrelati; che la condizione non solo della loro possibilità, ma della loro “veracità” sia che, al fondo, malgrado tutto, sussista e operi la speranza, non semplicemente psicologica, ma etico-metafisica, che la verità ultima sia quella del polo positivo — è punto su cui il colloquio critico con lo Jaspers risulta singolarmente illuminante. . Il sì appare, ancor prima che l’approdo,il principio della meditazione jaspersiana. Certo Jaspers non ignora — né sotto profilo filosofico né sotto profilo storico — il Gott ist tot (“Dio è morto”) di Nietzsche, e considera Nietzsche, insieme con Kierkegaard, uno dei massimi Erwecker (destatori) della e per la coscienza dell’uomo “contemporaneo”; sotto il segno del Gott ist tot pone ich’egli, a suo modo,l’analisi o la diagnosi dell’età contemporanea”, mail senso cheil Gott ist tot assume nella sua prospettiva è lontanissimo dal senso che il: detto ha in altri pensatori o nell’uso corrente; e i rilevamenti storici e sociologici da lui operati sotto quel segno hanno pure significato sostanzial-
‘mente diverso.
o
Dio è morto, nel singolo, nella comunità dei singoli, quando, in quel singolo e nei singoli di quella comunità, non riesca a destarsi — con il suo respiro, con il suo orizzonte, con la sua sostanza — la dimensione dell’Existenz5, o quando, destatasi, questa non riesca a riconoscersi e ad affermarsi nella sua autenticità: il che, per Jaspers, significa: come certezza che la Trascendenza è, come esperienza presente di eternità. Dio è morto si fa così, in Jaspers, sinonimo di mancanza o assenza di
fede (Glaubenslosigkeit). Dio è, ma è morto per l’uomo,in cuil’Existenz, pur
S. Basti ricordare Diegeistige Situation der Zeit (1931 — La situazione spirituale del nostro tempo). Per la bibliografia di e su Jaspers e per un orientamentosulle interpretazioni del suo pensiero, cfr. U. GALIMBERTI, Jaspers, in Questionidi storiografia filosofica. Il pensiero contemporaneo; a cura di A. Bausola, vol. 4. tomo I, La Scuola, Brescia,1978, pp. 181-215; Karl Jaspers e la critica. Con una bibliografia internazionale. A cura di Giorgio Penzo, Morcelliana, Brescia, 1985 [Quaderni di Humanitas]. Fondamentale sempre: Karl Jaspers in der Diskussion, Hrsg. von Hans Saner, Piper Verlag, Miinchen, 1973. 6. Quel che Existenz ed Existieren significhino nel pensiero dello Jaspers, quando non fosse già familiare al lettore, emergerà, spero, dall’insieme del discorso. Perché questi due termini che indicano, tentando di pensarli unitariamente, i momenti più abissali e più alti dell'esperienza e della vocazione dell’uomo — non possano essere fraintesi come indicanti l’esistere o il vivere in generale, si è preferito o non tradurli 0, traducendoli, contraddistinguerli con un segno (“esistenza” — ‘‘esistere”’).
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essa sempre e già da sempre in qualche modo è misura essendoin lui, ancora nonsi è affermata. Dio è, ma è morto per l’uomo fermoal piano del sapere scientifico, del realizzare tecnico, di un relazionarsiall’altro e agli altri, di un agire economico o politico, che — al pari della scienza e della tecnica considerate nella loro astratta purezza, indipendentemente dal loro inserirsi nel concreto esistere del singolo — non trascendonola realtà e l’orizzonte de} mondanoe del temporale. Un uomo che conosce la Realitàt (realtà) ma A la Wirklichkeit (la realtà vera), la Zeitlichkeit (temporalità) ma non la Ewigkeit in der Zeit (eternità nel tempo), ebbene quest'uomo .è glaubenslos (senza fede). Dio, che è, — questo è il pensiero dello Jaspers — è come non fosse per l’uomo che manca alla destinazione inscritta nel suo Menschsein (esser uomo). Maalcune precisazioni vanno subito energicamene fatte. L'arresto alle dimensioni di-qua dall’Existenz — Dasein (l’esistere vitale), Bewusstsein (il conoscere intellettivo), Geist (spirito: il momento della totalità formante) —, in quanto chiudersi dell’uomoall’appello nel cui ascolto soltanto sta la sua possibilità d’essere se stesso (Selbstsein), è colpa, anzi la colpa radicale: ma lo è, non perché ‘scienza, scienze, tecnica, costruzione di un mondo meno offeso da brutalità di eventi naturali, da fame, malattia, iniqua ripartizione di beni materiali o anche culturali, siano in sé negative. Sono anzi per lo Jaspers valori e impegni ineludibili proprio per il singolo e la comunità dei singoli perché si compia in loro quella Umkehr (quella “interna rivoluzione”, quella petovora 0 conversio sui et transfiguratio mundi) che sola consente il loro essere come Éxistenz (‘esistenza’) e come Vernunfi (ragione), come Geisterreich (regno degli spiriti). Jaspers, che ha lavorato così a lungo nel campo di una scienza sotto ogni riguardo fondamentale come la psicopatologia, lasciandovi opere e tracce rilevantissime?, è lontanissimo dal disprezzo della scienza, della tecnica, della politica, di cui mai si è stancato di raccomandare, a chifilosofa,la familiarità. Non dunque l’oggetto cui rimane legato l’arresto, ma l’arrestarsi — con le sue conseguenze nefaste sul piano stesso dell’oggetto, non astrattamente bensì concretamente considerato — è da collocare sotto segno negativo. Ma l’arrestarsi non è, né sul piano del singolo né su quello della Weltgeschichte, destino. Nello spirito e nella prospettiva più profonda dello Jaspers niente è
7. Allgemeine Psychopathologie (1913, 1975% — Psicopatologia generale); Gesammelte Schriften zur Psychopathologie (1963 — Scritti di psicopatologia).
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più assurdo che parlare di epocalità destinata, di Seinsgeschichte (storia dell’Essere), né è pensabile dcé fera (empietà, nel senso religioso del termine) più grave della presunzione di leggerne il segno comesegnodefinito, e, quel che è peggio, necessitante. Ma,primadi procedere oltre, giova ascoltàre come risuonain Jaspers il monito socratico richiamato all’inizio. Ai genitori sono riconoscente quandola vita mi allieta; ancora li amo, quando dispero della vita; perché per ogni uomo c’è stato pure un momento in cui fu contento di vivere, persino quandosia giuntoa togliersila vita.
AI monito di Socrate fa eco la saggezza di Goethe. Anche da lui, alla fine, malgradotutto il tragico che s’è fatto parola nel suocanto e nel suo pensiero, viene l’indicazione dell’assenso. “Un no ultimo è impossibile: comun-
que sia, la vita è bene”?. Alcune domande fondamentali, esegetico-teoretiche, o ermeneutiche nel senso severo della parola, sorgono a questo ‘punto. Nello Jaspers, il sì dell’assenso non solo hala vittoria-sul no del rifiuto, ma sembra avere una metafisica priorità. Tale no — quando si attinga una posizione esistenziale o filosofica verace e vera — parrebbe risultare ancora comprensibile alla volontà della comunicazioneillimitata, non però responsabilmente condivisibile. Illuminanti in proposito le pagine sul Selbstmord (suin
La 8. Philosophie, 2* ed., p. 480. 9. Unsere Zukunft und Goethe (1947 — Goethee il nostro avvenire) nel vol. Rechenschaft undAusblick. Reden und Aufsîitze (1951 — Bilancio e prospettive. Discorsi e saggi). Riguardo al problema di cui veniamo parlando, è fortementesignificativo il fatto che i classici del primo motivo siano anche, nondi rado,i “poeti” — innici ed elegiaci — delle “divine spiagge della luce”, della malinconia del lasciarle. Sotto il nome di Teognide si leggono, non soloi versi ascoltati all’inizio, ma questi altri: “Della giovinezza mi prendo diletto e m'allegro: a lungo / sotterra, privo di vita, giacerò comepietra / silente; lascerò l’amabile luce del sole. E, benchéio sia nobile, nulla più vedrò”. (Trad. di Francesco Della Corte). E — indipendentemente da ciò che sia precisamente da pensare circa la unità genetica e tematica del Qohelet (Ecclesiaste) — sta di fatto che, forse nona caso,quellibro, “poeticamente sapienziale”, non evoca solo la vanitas di quanto si consumasotto il sole, ma dice anche la “luce” del sole che pur illumina la terra: “Dulce lumen / et delectabile est oculis videre solem” (Dolce è la luce, / letizia per gli occhi vedere il sole). Quanto questa bipolarità, con la sua intrinseca dialettica, sia presente in Leopardi appena occorre ricordare.
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cidio) in Philosophie!°. Ci si chiede: che cosa autorizza,. giustificandolo, questo Ja-sagen (dire di sì)? ‘La risposta esplicita di Jaspers non par dubbia;Dio è, ciò basta!!. Il senso profondo e sconcertante di questo pensiero emerge, più forse che in ogni altro luogo dell’opera jaspersiana, nella chiusa di Die Schuldfrage (II problema della ‘colpa, 1946) e di Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (La bomba atomica e l'avvenire dell’uomo, 1958). / Quando pensiamo agli eventi del mondo, facciamo bene a ricordare il caso di Geremia. Quando egli, dopo la distruzione di Gerusalemme, dopo la perdita dello stato e della patria, dopo il trasferimento forzato in Egitto insieme con gli ultimi Ebrei che colà emigrarono, dovette, dopo tante sciagure, ancora vedere uomini del suo popolo sacrificare a Iside nella speranza che questa potesse aiutarli più._di Jehovah, allora Baruch, il suo discepolo, fu preso da disperazione, ma Geremiadisse: “Così parla Jehovah: invero quello che io ho costruito lo abbatto al suolo e quello che ho piantato lo sradico, e tu chiedi per te qualcosa di grandioso? Non lo chiedere!”. Chesignifica questo?Significa che Dio è, ciò basta. Se tutto svanisce, Dio è: questo è l’unico sostegno,l’unico punto fermopernoi.
Le parole di Geremia tornano, non so se più confortanti o terrificanti, nel paragrafo quinto del capitolo conclusivo (il settimo) di Die Atombombe, dopo che ancora una volta è stata evocata la possibilità di una catastrofe atomica, della distruzione dell’umanità intera e, pertanto, anche, con la scomparsa dell’uomo,della fine della ragione. Tornano, perché “il pensiero di Dio nella situazione limite del naufragio ha, per l'Occidente, il suo fondamento nella Bibbia. Di una fine totale parlavano gli antichi profeti. Verrà il ‘giorno di Jahve” e tutto sarà annientato. Della fine del mondo come evento imminente parlavanoi primicristiani”.
10. Philosophie, pp. 552-564 (cit. dalla 2° edizione in vol. unico). Trad. italiana: K. Jaspers, Filosofia 2. Chiarificazione dell'esistenza, a cura di U. Galimberti, Mursia, Milano, 1978, pp. 264-276. bene sottolineare che il problema dell’assenso e del rifiuto ontologico, o — per usare le parole nietzscheane — dello /a-sagen / Nein-sagen, non si identifica con il problema delsuicidio. Per questa distinzione,fondamentale su piano di responsabilità etica e di chiarezza mentale, mi permetto di rimandare al volume Nichilismo ed etica, il melangolo, Genova, 1983, cap.II (in particolare, pp. 46-48) e cap. IX (in particolare, pp. 212-213). 11. Nei molti passi in cui il motivo ritorna, ora si trova il termine, originariamente più jaspersiano, Trascendenza,ora il termine Dio.
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Sì, — pensa a questo punto il lettore — ma nella Bibbia, da /saia (65, 17;
66, 22) all’Apocalisse (21, 1-5), là dove si parla dell’ultimo dei-giorni,si parla anche di “nuovo cielo e nuova terra” e alla cifra di Dio, evocata da Jaspers con la citazione di Geremia (45, 4), si contrapponela cifra, che tutti ricordano,della “dimora di Dio con gli uomini”: Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che veniva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrimadai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco io faccio nuovetutte le cose”, e soggiunse: “[...] lo sono l'Alfa e l’Omega, il Principio e
la Fine”!?,
-
Certo il libro in cui si leggono queste parole — tra le più sublimidella letteratura religiosa universale — è pureil libro dei terrori della terra e dei terrori oltre la terra; è il libro in cui il giudizio finale appare giudizio sul mondo nella sua struttura prima che giudizio di salvazione o di condanna sugli uomini. Poiché non solo le creature appaiono di fronte al Giudice coni loro peccati, ma questo mondo, questo tempo è apparso, prima di loro o con loro, con il suo costitutivo peccato, ed è stato giudicato, e non è stato assolto.
Esiste infatti un peccatum mundi: perciò, perché il bene sia, perché l’eterno sia, “le cose di prima sono passate”!3, Eppure un punto è fermo, nonin quellibro soltanto, ma nel più profondo della tradizione biblica in generale: quel Dio che è “IAlfa e l’Omega, il Principio e la Fine” - quel Dio creatore del mondo segnato strutturalmente da un peccatum, quel Dio Giudice ché, come tale, assolve ma anche condanna, è l’Eterno, il Salvatore, Colui che dona/a vita eterna: la vita non più segnata di morte e di peccato, sottratta alla perenne inquietudine verso l’oltre, fatta alla fine capace di attingere insieme pace e pienezza nel moto immobile dell’eterno.
12. Apocalisse 21, 1-5. Si è seguitaTa traduzione della CEI (La Sacra Bibbia, edizione ufficiale della CEI, Edizioni Paoline, Roma). Si consiglia comunquedi avere anche presente l’originale greco il testo della Vulgara. 13. Per l’interpretazione dell’escatologismo qui presupposto, cfr., oltre, Peccatum mundi, peccato, Giudizio.
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Nonè legata all’enigma o al mistero di questa antinomia tutta la storia della teodicea? Se la ragione — la ragione non semplicemente “razionale”, ma quella che all’interno del suo pensare raccoglie, sub specie speculationis, tutte le forze dell’anima — si è mostrata impari all’assunto della teodicea; se gli stessi massimi, diversamente paradigmatici, tentativi di soluzione — quello di Agostino e quello di Hegel — risultano alla fine fallimentari, il problema ed termini del problemapermangono. Il problema del male resta; .il problema della redenzione dal male resta; il problema di Dio come principio-della redenzioneresta. È su questi problemi, sul nesso tra questi problemi, che il colloquio critico con lo Jaspers si pone comeineludibile. Non è strano che lo Jaspers, che ha sostato a lungo, come medico‘e
come psichiatra, di fronte a quegli eventi che si chiamano malattia, malattia mentale, morte, suicidio, che alla ricerca scientifica e alla prassi terapeuticasi è fin dall’inizio accostato con un’interrogazione radicale e con un interesse di integra umana comunicazione!‘, possa, anzi debba, considerarsi, nel panora-
mafilosofico del Novecento, uno dei classici del problema del male. Anche per Itla Grundfrage (domanda fondamentale) suona: perché l’essere piuttosto che il niente? Anche perlui la-risposta fondamentale è la Grundentscheidung (decisione fondamentale) del sì o del no nei confronti del destino, che è peril singolo la struttura ontologica dell’esistere suo e del cosmo.Articolazioni del destino e insieme della sua destinazione etica — della sua libertà — sono le Grenzsituationen(situazioni-limite): la “storicità”, la lotta, la colpa,il dolore, la morte,il naufragio. Chiamo situazioni-limite situazioni come queste: io sono sempre in una situazione, non posso vivere senza lotta e senza dolore; inevitabilmente debbo assumere su di me la colpa; non posso non morire. Esse non mutano, tranne che nel concreto modo del loro manifestarsi. Sono irrevocabili (definitive). Oltre ad esse non ci è dato spingere lo sguardo né scorgere qualcosa. Sono come un muro, contro cui urtiamo,di fronte al quale naufraghiamo. Nonci è possibile mutarle, né spiegarle in base a cause o deduzioni, ma solo chiarirle. Esse sono costitutivamente intrinseche al reale.
14. Cfr. Uber meine Philosophie (1941) e Mein Weg zur Philosophie (1951) nel vol. Rechenschaft und Ausblick. Sono,tra gli scritti autobiografici dello Jaspera, forse i più rivelativi su questo punto.
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La caratterizzazione che nel passo citato si dà delle situazioni-limite nel loro insieme(datità destinata e irrevocabile, impenetrabilità del perché questo e nonaltrosia il destino), i nomi che singolarmente le evocano(“‘storicità’’!5, colpa, dolore, morte, naufragio), richiamano il mistero: non però di certo un mistero gaudioso. “Grenzsituationenerfahren und Existieren ist dasselbe” (Esperire le situazioni-limite ed “esistere” è la stessa cosa), si legge in Philosophie!S. Portarsi al piano dell’Existenz significa, innanzitutto, prendere coscienza di queste articolazioni e stazioni del destino. Ora questo esperire è dallo stesso Jaspers identificato conla coscienza deltragico o coscienza tragica". “Esistere”, portarsi al piano della sua vera dignità (Wiirde des Menschseins), essere se stesso (Selbstsein), essere un singolo (ein Einzelner), affermarsi come libertà (Freiheit) significa dunque per l’uomo guardare con veracità (Wahrhaftigkeit) e coraggio (Tapferkeit) il misteroe il tragico del destino. Veracità e coraggio sono le virtù prime perché l’“esistere” sia possibile. L’assumere il destino, il fare del destino (Schicksal) il primo fondamentale oggetto del proprio volere (Wille), cercando se nella sua opacità e nella sua potenza disarmante non si occulti l’apertura alla luce, alla libertà, alla creatività — è, non propriamente il secondo momento, mal’altro aspetto dello stesso iniziale momento dell’“esistere”. Amor fati è, dunque, il primo atto della libertà dell’uomo: quello che condiziona, rendendolo possibile e di sé sostanziandolo, ogni possibile attodi quella libertà. È atto che chiede coraggio. L'etica esistenziale dello Jaspers si colloca, per unodeisuoi aspetti, nella tradizioneetica dell’àvSpeta (fortitudo) e della Wiirde (dignità); e certo richiama — per usare i terminischilleriani — assai più
15. L'affinità della Geschichtlichkeit (“storicità”) di Jaspers con la Geworfenheit (l’esser gettato) di Heidegger è evidente. Si è creduto opportuno virgolare storicità per distinguerlo da Historizitàt. Sul diverso significato di Geschtlichkeit e Historizitàt in Jaspers,. mi permetto di rimandare ai miei Studijaspersiani, Marzorati, Milano, 1958,p. 147. 16. Philosophie, 2° ed., p. 469. 17. Per il problema del tragico, cfr. Philosophische Logik. Von der Wahrheit (1947), pp. 915-960. La trattazione del tragico è apparsa poi anche in volumetto separato. Uber das Tragische, Piper Verlag, Miinchen, 1952 (K. Jaspers, Del tragico, trad. di A. Chiusano, SE, Milano, 1987. Per una interpretazione di questo scritto, cfr.il capitolo IV delvol.citato alla nota 15). Naturalmente, non solo questo capitolo, ma l’intero volume è il presupposto primo del discorso che si viene qui conducendo.
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l’anima sublime che l’anima bella. Ma il coraggio jaspersiano non è né assurdo né cieco: porta, interna a sé, una luce che lo desta nell’atto che ne è destata. Non è solo slancio (Aufschwung), ma dono (Gabe). L'etica dello Jaspers conosce solo il singolo e la comunità universale dei singoli, ma appunto per questo non è antropocentrica. Non l’uomoe la città dell’uomo nell’orizzonte della storia sono in essa fondamentali, bensì-la-7rascendenza e l’eterno.L’amorfati è possibile, perché il mistero e il tragico della struttura e della ventura dell’uomo e degli uomini hannorivelato altra figura è altro senso. L’amorfati è possibile perchè la dimensione del suo essere,in cui esperisce il destino,è, per l’uomo, anche quella in cui si rivela la Trascendenza.
”
Masotto quale forma si rivela la Trascendenza? E che dona all’uomo perché, grazie al suorivelarsi, questi, là dove conosceil tragico, attinga anche la liberazione dal tragico? Che può domandare l’uomo ad essa, e che promette essa all’uomo? La Trascendenza non si rivela direttamente'(nonostante qualche oscillazione, la valutazione della mistica rimane negativa nello Jaspers — ma il problema è però,a questo riguardo, ermeneuticamente complesso), ma nella concretezza della realtà mondana (Realitàf), si chiami questa natura o coscienza dell’uomo, quandopervirtù del trascendimento noi siamoriusciti a leggervi una presenza ulteriore, una cifra, un linguaggio. Con e per il compiersidi tale trascendimento la realtà diventa inesausto, sterminato, linguaggio della Trascendenza. La Trascendenza si rivela dunqueall’“esistenza”. Ma nella presentazione
che lo Jaspers fa di questo processo rivelativo si contrastano due figure diverse. Per la prima Dio appare come l’assoluta Alterità (das schlechthin Andere): quello di fronte a cui tutto è degno d’essere annientato perché peccato e finitudine e parodia di valore. Il mondo, comese stesso, non è parola rivelatrice di Dio, ma negatrice di Dio — parola rivelatrice diventa solo come negazione di sé. La logica ascendente in tale processo è quella dialettica nel senso antinomico kantiano:il pensiero approda al limite in cuisi rivela l’Essere, avvalendosi $ì di tutte le possibili categorie o supreme determinazioni immanenti, ma solo per riconoscerle tutte inadeguate e pertutte distruggerle vicendevolmente. Al limite è silenzio e sgomento. In una tale prospettiva tutte le obiezioni accumulatesi sul concetto di Dio,e in particolare di Dio come Trascendenza, possonoessere positivamente accolte. Si è voluto dimostrare che il concetto di Dio è un abisso di interne contraddizioni: or proprio le contraddizioni servono al pensiero per raggiungere in qualche modo Dio. Dio è ciò cui il pensiero porta solo negandosi, solo naufragando, solo coscientemente e volontariamente naufragando. Per ciò è 112
Dio: perché il pensiero naufraga pensandolo. Questo autodistruggersi del pensiero è la testimonianza, sul piano logico, della verità metafisica che di fronte a Dio ilmondo non.è degno se.nondi annientarsi. Main questa idea di Dio può anche essere positivamente accolto e trasformato il nullismo romantico: l’insoddisfazione profonda di fronte al mondano,al finito, alla legge del giorno (Gesetz des Tages); la segreta attrazione per la notte (Leidenschaft zur Nacht), per.i sovrumanisilenzi che sorgono al limite della distruzione. Il Nulla o l’Infinito dei romantici diventa il Dio della più severa teologia negativa. Collocando il mondo. in questa prospettiva, l’uomo tocca il colmo del tragico, in quanto raggiunge la coscienza della assoluta negatività dell’immanente; matale negatività in tanto emerge in quanto l’Essere sirivela. In e per questa rivelazione si riconsacra. {Accanto questa figura di rivelazione par affiorare nelle pagine jaspersiane un’altra che ad essa contrasta. La teoria delle cifre richiama forse piuttosto a questa seconda che nonalla prima, perché essa si accorda sì con l’idea di Dio comeinfinitudine, ma non con quella di Dio come Alterità assoluta. La “cifra” della concretezza mondananonè quirivelatrice della Trascendenza per processo dialettico: essa chiede il trascendimento di sé, rimandando a un inesausto e misterioso Oltre, ma non propriamente rinnegandosi. Il mondo comecifra, nel primo caso, dovrebbe indurre a parlare solo di Dio: meglio, dovrebbe indurre al silenzio di fronte all’Abisso che è Stille (Quiete — Silenzio) comePrincipio di ogni possibile “parola” avente e donante senso. Che cosa chiede l’uomoalla Trascendenza che si rivela occultandosi? E che altro può chiedere — risponde lo Jaspers — oltre il dono del suorivelarsi? Questa è la Er/òsung (liberazione) dalla tragedia del vivere, nella tragedia. Non scomparenéil dolore, né la morte, né la rovina, né la colpa, ma tutto è trasfigurato.Nell’angoscia entra ‘la pace: una pace ardua, a reggere la quale, ancora, più ancora, è necessario il coraggio. Nulla per lo Jaspers è da sperare oltre questa rivelazione, ma in e peressa già l’eterno è entrato nel tempo. Quale che sia la figura emergente, questo — comunque— resta fermo:la Trascendenza è; la Trascendenza è — nell’impensabilità e nella ineffabilità del suo mistero — Positività assoluta. È costitutivo di Dio in quanto Dio l’essere buono!?, né da Diotutto indi18. aya@òc è dedc tò Ovri, Rep. 397 b.
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stintamente proviene, bensì solo il bene!?: così insegnava Platone. Affermare il contrario non è, diceva, né santo ($cwov) né vero (dAnPEc). Difficile trovare altro pensatore che in modo più potente e sconcertante dello Jaspers abbia pensato questo pensiero platonico. Se della Trascendenza può dirsi — di fronte a una guerra che ha travolto cinquanta milioni di vite e si lega ad abissi di orrore come Auschwitz e Hiroshima, di fronte alla possibilità che l’umanità intera resti distrutta — che il suo essere, in e per sé solo, basta perché la disperazione non sia, anzi perché il senso già sia per l’uomo ultimo superstite nell’attimo ultimo del suo essere “esistenza” e “ragione” — difficile pensare identità più assoluta tra Dio e Bene, tra Dio e summum bonum. Né alcuno degli orrori del mondo, della natura e della storia, paiono — nello Jaspers — persuasivamente testimoniare contro tale Trascendenza. Di una sola cosa la Trascendenza risulta, nella Grundgewissheit, nella certezzafondamentale intrinseca all’Existenz, principio o scaturigine: dell’eterno, della vita eterna. La vita eterna non è — per lo Jaspers — l'immortalità (Unsterblichkeit) in un mondo,o in uno spazio di mondi, altro da questo che conosciamo, eppure {comelo stesso Kant pensava) da questo esigito e postulato perché l’imperativo assoluto dell’eterno o della pienezza del senso non resti tragicamente tradito — ma è l’eternità, che in qualche ora luminosa ci è donato esperire qui sulla terra, che qui sulla terra siamo eticamente chiamati a riconoscere, a volere, a realizzare, quale che sia il volto dell’ora che ci è destinata. Anche nell’ora nona del venerdì santo immane l'eterno: non — nella prospettiva dello Jaspers — come speranza di un’alba pasquale in un domani del tempo e oltre il ‘tempo, ma comesostanza stessa di quell’ora. L'idea dell’immortalità acquista verità, quando da idea di durata infinita oltre la morte si fa appunto idea (cifrà, in linguaggio jaspersiano) di eternità presente; quando lo speculare sulle possibili figure dell’aldilà cede il posto all’impegno esistenziale ed etico e riflessamente filosofico di rinvenire, esperire e realizzare le figure di eterno possibili nel tempo?0.
19. unrradviov attiog è ds6c, did riv dya0iv, Rep. 380 c.
20. Per l’“inveramento cifrato” (così si configura nello Jaspers la cosiddetta “demitizzazione’’) dell’idea di immortalità in quella di eternità nel tempo o eternità presente, si vedano soprattutto le pagine di Philosophie e di Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, Piper Verlag, Miinchen, 1962 (La fede filosofica di fronte alla Rivelazione, trad. e saggio critico di Filippo Costa, Longanesi, Milano, 1970). Philosophie, 2° ed., pp.
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Nonostante le riserve fortissime che s’impongono di fronte a questa riduzione della Ewigkeit a vergangliche Ewigkeit (eternità transeunte, che in sé dissolve la caducità e la morte, soggiacendovi)?!, è questo dell'eternità nel tempo, dell’attimo (Augenblick), — così a me sembra — il motivo più degno e più bisognoso di lunga meditazionenel colloquiocritico con lo Jaspers.
483-491; 753-755 (trad.it., vol. II, pp. 190-207; vol.III, pp. 198-200). Der philosophische Glaube angesichis der Offenbarung, pp. 293-297 (trad.it., pp. 390-395). Chiare, ma non così intense,le brevi pagine del discoso radiofonico Unsterblichkeit, 1957 (raccolto nel vol. Philosophie und Welt. Reden und Aufséitze, Piper Verlag, Miinchen, 1958). Per il tema dell’Augenblick (l’attimo) o dell’eternità nel tempo, di capitale importanza già le pagine che su diesso si leggono in Psychologie der Weltanschauungen (1919, 6° ed., presso Springer Verlag, Berlin-Heidelberg-New York, 1971, pp. 108-117; trad.it. Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma, 1950, pp. 128-138), e le pagine sulla Geschichilichkeit als Einheit von Zeit und Ewigkeit (“Storicità” come unità di tempo ed eternità) in Philosophie, 2° ed., pp. 404-407. i 21. Alcune domande s’impongono: la coscienza che l'immortalità ha vero senso solo come eternità non è stata sempre presente, non che nel pensiero teologico e filosofico, nello stesso pensiero mitico? Il processo di ‘inveramento cifrato” dell'immortalità nell’eternità comporta necessariamente l’immanentizzazione di questa? Basta quell’ultimo barlume di eterno, quella pesenza di Dio che ancora può essere nell’ora da cui si leva il grido per il suo abbandono, a giustificare quest'ora? L’a/ba pasquale, l’ascensione, per serbare e dare senso possono davvero dissolversi comese stesse e tutte risolversi nella sostanza di quest'ora? Ma per una “introduzione” nella problematica che consenta un orientamento critico di fronte ai motivi apparsici fondamentali nel pensiero religioso ed etico dello Jaspers (Dio è, ciò basta — eternità transeunte), penso più serio, a questo punto, rimandare ad alcuni scritti, nei quali i termini di quella problematica potranno riuscire più chiari e più chiarificanti che non nei sommari cenni consentiti qui in una nota o in un postscriptum. Eccone l’indicazione: Nichilismo ed etica, cit., capitoli I, II, III, IV; Peccatum mundi, peccato, Giudizio, cit.; La verità nel dominio delpoetico.
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